ANNUARIO XXXII
ANNO SCOLASTICO 2004-2005
Repubblica di San Marino
SCUOLA SECONDARIA SUPERIORE
ARTI GRAFICHE DELLA BALDA
REPUBBLICA DI SAN MARINO
PRESENTAZIONE
La pubblicazione dell’Annuario della Scuola Secondaria Superiore rappresenta ormai un appuntamento ricorrente, al quale molti sammarinesi guardano con interesse e curiosità. Soprattutto per gli elementi che lo
contraddistinguono, che sono la valenza dei contenuti,
l’approfondimento degli argomenti trattati e la molteplicità delle esperienze e delle conoscenze che si intrecciano in un lavoro organico e di
alta qualità.
La Dott. Maria Luisa Rondelli, Preside della nostra istituzione scolastica superiore dal settembre 2004, dimostrando di aver compreso pienamente l’importanza di questo strumento, gli ha assicurato la giusta e
meritata continuità, con l’apporto di tutti coloro che, ad ogni livello,
hanno collaborato alla felice conclusione di questa ulteriore fatica.
A tutti esprimo naturalmente gratitudine e apprezzamento, anche perché intravedo, in questa rinnovata disponibilità, l’indispensabile senso
di attaccamento al nostro antico “Liceo”, che vive, si alimenta e si qualifica anche attraverso questi suoi tratti distintivi.
D’altra parte, l’esigenza della nostra Scuola Secondaria Superiore di
conservare e definire in maniera più puntuale le proprie prerogative è
profondamente avvertita, in primo luogo dai docenti che al suo interno
lavorano con assiduità, competenza e passione.
Tuttavia, se è vero che il nostro Istituto Superiore ha il dovere di consolidare il contenuto e la specificità di ciascun indirizzo, rinvigorendone l’identità a fronte del mantenimento delle proprie caratteristiche,
nondimeno dobbiamo essere consapevoli che in una realtà come la nostra non siamo in grado di mettere in campo e di offrire, all’interno di
ciascun indirizzo, una molteplicità di opzioni, come da altre parti succede in maniera ormai sistematica.
In questo contesto credo che vadano anche incoraggiate quelle iniziative che tendono a ricostruire una rete di proficue relazioni con gli Istituti del circondario e, in particolare, con quelli delle zone limitrofe del
Montefeltro, che storicamente hanno intrattenuto un rapporto privile-
5
giato con il nostro Liceo Classico, il quale ciclicamente rischia la scomparsa se non trova spazi e aperture nuovi e vantaggiosi.
In questo senso non posso non evidenziare, sia per il metodo seguito sia
per l’interesse dimostrato, il lavoro di studio e di proposta condotto
dagli stessi docenti che, a seguito di una approfondita analisi di ciascun
indirizzo, hanno formulato una serie di ipotesi di intervento. Sono certa che, proprio a partire da questa elaborazione, sarà possibile lavorare
tutti perché la nostra Scuola Secondaria Superiore si affermi ancor più,
come merita, per qualità e autorevolezza.
Rosa Zafferani
Segretario di Stato per la Pubblica Istruzione
6
PREFAZIONE
L’Annuario della Scuola Secondaria Superiore è giunto alla sua 32° edizione: è l’appuntamento atteso che, anno dopo anno, si rinnova, per
offrire a quanti sono attenti osservatori della vivacità del contesto culturale della scuola sammarinese, occasioni di confronto e di approfondimento. Costituisce anche un’importante opportunità per quanti vogliono documentare i loro studi e le loro ricerche nell’ambito della
cultura e della storia sammarinese. Nell’Annuario è contenuta la sintesi
della vita di un intero anno scolastico: gli stessi nomi di studenti, insegnanti e collaboratori testimoniano la ricchezza di una realtà che con
gli anni è cresciuta e si è consolidata.
L’anno scolastico 2004/2005 è stato per me l’inizio di una nuova esperienza professionale essendo subentrata nell’incarico di Preside alla
Prof.ssa Lea Marina Fiorini: a lei rivolgo, anche a nome di tutto il personale, un doveroso ringraziamento per il lavoro svolto.
Ho trovato un ambiente ricco sul piano delle risorse umane e delle opportunità culturali, che vanno, a mio avviso, stimolate e sviluppate.
Un importante potenziale in termini di ricchezza per il nostro Paese
costituiscono i 532 studenti che ogni giorno hanno varcato la porta
dell’Istituto: le loro aspettative e le loro esigenze non vanno disattese.
L’offerta formativa della nostra Scuola è ampia, disponendo di cinque
indirizzi di studio che offrono una solida preparazione culturale e
permettono ai nostri alunni di conseguire ottimi risultati nel loro percorso di studi successivo.
Inoltre è giunto a compimento anche il primo ciclo del Liceo Economico Aziendale: il traguardo raggiunto è stato importante per tutta la
Scuola Secondaria Superiore, che con soddisfazione ha visto i “nuovi”
diplomati aggiungersi a quelli degli altri Licei.
Accanto agli studenti, mi piace ricordare il lavoro svolto dai loro insegnanti: innanzitutto perché la scuola non può non identificarsi se non
nel rapporto tra docente e allievo; in secondo luogo perché i docenti
della Scuola Secondaria Superiore, accanto al proprio quotidiano impegno d’insegnamento, hanno operato una profonda riflessione
sull’organizzazione didattica e curricolare dei rispettivi indirizzi e
7
dell’impianto complessivo della Scuola, affidando a un Documento la
sintesi dell’analisi e le proposte per un miglioramento della qualità
dell’offerta educativa e didattica. Il lavoro iniziato lo scorso anno continua tuttora con il coinvolgimento di tutti i docenti in diversi ambiti
di intervento, ma di questo si parlerà nei futuri Annuari.
A conclusione di questa nota vorrei rivolgere un grazie particolare al
Prof. Filiberto Bernardi, che per anni è stato il sapiente ed attento curatore delle precedenti edizioni dell’Annuario della Scuola Secondaria
Superiore.
Desidero infine ringraziare tutti i collaboratori dell’Annuario che con i
loro preziosi e puntuali contributi arricchiscono questa pubblicazione,
il gruppo di docenti che ne ha curato la redazione, il personale tecnico
e di segreteria per la collaborazione offerta.
Il Preside
Maria Luisa Rondelli
8
Parte Prima
Organizzazione scolastica
IL SISTEMA SCOLASTICO SAMMARINESE
Quadri riassuntivi
a cura di Franco Santi
Il sistema scolastico sammarinese comprende la Scuola dell’Infanzia, di
durata triennale; la Scuola Elementare, nella quale ha inizio l’obbligo
scolastico, di durata quinquennale; la Scuola Media, di durata triennale;
la Scuola Secondaria Superiore, articolata in biennio [la conclusione del
biennio coincide con la fine dell’obbligo scolastico di n. 10 anni complessivi di scolarizzazione] e triennio.
Di fatto i servizi educativi garantiti dallo Stato, nonché il diritto
all’educazione e allo studio, si estendono dalla nascita fino al diciottesimo anno. Tali servizi comprendono:
- il Nido
- Il Centro di Formazione Professionale, all’interno del quale è possibile completare l’assolvimento dell’obbligo scolastico.
Va sottolineato che la Secondaria Superiore è formata:
ƒnel biennio da n. 5 indirizzi:
- Istituto Tecnico Industriale
- Liceo Classico
- Liceo Linguistico
- Liceo Scientifico
- Liceo Economico Aziendale, di recente istituzione e giunto,
nell’anno scolastico 2004/2005, al V anno di corso
ƒnel triennio, nell’anno scolastico 2004/2005 da n. 4 indirizzi:
- Liceo Classico
- Liceo Linguistico
- Liceo Scientifico
- Liceo Economico Aziendale
In considerazione del fatto che l’Indirizzo Tecnico Industriale si ferma
al solo biennio e del fatto che studenti frequentano indirizzi di studio
non previsti nel sistema sammarinese, la popolazione scolastica presente in territorio, nella fascia di età corrispondente alla frequenza del
triennio conclusivo degli studi, raggiunge una consistenza percentuale
inferiore al 50% del totale.
11
Tabella dati del sistema scolastico
ORDINE DI SCUOLA
N. ALLIEVI
N. DOCENTI
Scuola Infanzia
1060
139
Scuola Elementare
1445
231
Scuola Media
782
145
Scuola Superiore
534
77
Sistema Scolastico Sammarinese
12
Scuola
Infanzia
Scuola
Elementare
Scuola Media
Scuola
Superiore
N. Allievi
1060
1445
782
534
N. Docenti
139
231
145
77
Rapporto Alunni / Docenti
7,6
8
7
6,90
6,20
6
5,4
5
4
3
2
1
0
Scuola
dell'Infanzia
Scuola
Elementare
Scuola Media
Scuola Superiore
SCUOLA DELL’INFANZIA
SEDI
Acquaviva
Borgo Maggiore
Ca’ Ragni
Cailungo
Chiesanuova
Dogana
Domagnano
Faetano
Falciano
Fiorentino
Montegardino
Murata
San Marino
Serravalle
TOTALE
ALUNNI
71
116
90
84
38
77
92
40
87
75
34
76
92
88
1060
INSEGNANTI
139
13
SCUOLA ELEMENTARE
SEDI
Acquaviva
Borgo Maggiore
Cailungo
Cà Ragni
Chiesanuova
Dogana
Domagnano
Faetano
Falciano
Fiorentino
Montegiardino
Murata
San Marino
Serravalle
TOTALE ALUNNI
ALUNNI PER ANNO DI CORSO
cl 1 cl 2 cl 3 cl 4 cl 5 totale
22
22
15
19
17
95
43
31
43
30
27
174
18
21
20
18
17
94
20
22
11
16
16
85
9
18
12
10
7
56
16
22
21
21
15
95
20
17
13
19
15
168
14
15
14
11
13
67
14
20
20
14
20
88
14
12
16
17
19
90
16
15
9
10
5
55
32
19
14
26
23
114
16
17
24
21
18
96
41
33
35
29
40
178
306 294 268 274 265
1445
DOCENTI
234
SCUOLA MEDIA STATALE
Circoscrizione
Sezioni
M
Alunni
F Totale
1° Anno
Sezioni Alunni
2° Anno
Sezioni Alunni
3° Anno
Sezioni Alunni
1° - Città
18
144 110
254
6
78
6
88
6
88
2° - Serravalle
18
140 135
275
6
95
6
92
6
88
3° - Fiorentino
18
122 131
253
6
90
6
78
6
85
Totale
54
406 376
782
18
263
18
258
18
261
14
SCUOLA SECONDARIA SUPERIORE
ALUNNI
CLASSI
1
2
3
4
5
Classico
Linguistico
Scientifico A
Scientifico B
Scientifico Tot
Economico A
Economico B
Economico Tot
I.T.I.
TOTALE
Classico
Linguistico
Scientifico A
Scientifico B
Scientifico Tot
Economico A
Economico B
Economico Tot
I.T.I. A
I.T.I. B
I.T.I.
TOTALE
Classico
Linguistico
Scientifico A
Scientifico B
Scientifico Tot
Economico A
Economico B
Economico Tot
TOTALE
Classico
Linguistico
Scientifico
Economico A
Economico B
Economico Tot
TOTALE
Linguistico
Scientifico A
Scientifico B
Scientifico Tot
Economico A
Economico B
Economico Tot
TOTALE
TOTALE
iscritti
n°
16
19
22
22
44
15
16
31
23
133
17
21
18
18
36
19
17
36
15
12
27
137
11
20
24
23
47
11
13
24
102
10
19
23
18
21
39
91
13
12
12
24
16
15
31
68
531
ritirati
n°
promossi
%
respinti
recupero
n°
15
14
21
21
42
14
10
24
21
116
15
19
18
18
36
18
14
32
12
12
24
126
11
18
21
23
44
9
13
22
95
10
19
22
12
20
32
83
13
12
12
24
16
15
31
68
%
93,75
73,68
95,45
95,45
95,45
93,33
62,50
77,42
91,30
87,22
88,24
90,48
100
100
100
94,74
82,35
88,89
80
100
88,89
91,97
100
90
87,5
100
93,62
81,82
100
91,67
93,14
100
100
95,65
66,67
95,24
82,05
91,21
100
100
100
100
100
100
100
100
n°
1
5
1
1
2
1
6
7
2
17
2
2
%
6,25
26,32
4,55
4,55
4,55
6,66
37,50
22,68
8,70
12,78
11,76
9,52
1
3
4
3
5,26
17,65
11,11
20
3
11
11,11
8,03
2
3
10
12,5
3
2
6,38
18,18
2
7
8,33
6,86
1
6
1
7
8
4,35
33,33
4,76
17,95
8,79
n°
6
6
1
1
2
4
4
8
9
31
4
5
3
2
5
9
6
15
6
6
12
41
3
7
8
2
10
5
4
9
29
5
6
2
3
11
14
27
488
91,90
43
8,10
128
%
40
42,86
4,76
4,76
4,76
28,57
40
33,33
42,86
26,72
26,67
26,32
16,67
11,11
13,89
50
42,86
46,87
50
50
50
32,54
27,27
38,89
22,73
40,91
30,53
50
31,58
9,09
25
55
43,75
32,53
26,23
15
ORGANIZZAZIONE ANNO SCOLASTICO 2004/2005
Zafferani Rosa
De Biagi Pier Roberto
Rondelli Maria Luisa
Bernardi Filiberto
Gottardi Luisa
Segretario di Stato per gli Affari Interni e la
Pubblica Istruzione
Coordinatore Dipartimento Affari Interni e la
Pubblica Istruzione
Preside
Coordinatore di area didattica (distaccato)
Vicepreside
COLLEGIO DEI DOCENTI
Agostini Donatella
Arzilli Maria Grazia
Balducci Carla Marina
Bartolomeoli Ivana
Benedettini Daniela
Benedettini Marinella
Bernardi Marinella
Bernardi Sabrina
Berti Marino
Berti Sonia
Bevitori Maria Grazia
Bindi Benedetta
Biordi Ludovico Mario
Bisacchi Liana
Bollini Giancarlo
Bollini Loredana
Brusa Paolo
Capicchioni Loredana
Carattoni Renato
Casadei Maria Pia
Casadei Orazio
Casali Ingrid
Ceccoli Giovanni
Ciacci Raffaella
Colombini Angela
Crescentini Giorgio
Fagioli Matteo
Italiano e Storia dell’Arte
Francese
Economia Aziendale
Storia e Filosofia
Matematica
Matematica
Italiano, Storia e Geografia
Italiano, Storia e Geografia
Educazione tecnologica
Italiano, Storia e Geografia
Fisica e laboratorio
Chimica e laboratorio
Italiano, Storia e Geografia
Fisica
Educazione Fisica
Inglese
Storia e Filosofia
Diritto e Economia
Educazione Fisica
Tedesco
Diritto ed Economia
Inglese
Latino e Greco
Italiano
Storia e Filosofia
Educazione Fisica
Chimica e Laboratorio
17
Frulli Milena
Gasperoni Ferdinando
Gasperoni Marina
Ghiotti Maria Grazia
Ghiotti Maurizio
Gobbi Maurizio
Grassi Enrico
Graziadei M.Antonia
Guerrieri Almerinda
Guidi Elena
Guidi Erika
Mancini Claudio
Mancini Egiziana
Marcucci Paolo
Mazza Anna Maria
Merlini M. Grazia
Micheloni Francesco
Monti Meris
Moroni Luciana
Muccioli Roberto
Mularoni Alessandra
Mularoni Jeannette
Pancotti Igina
Pelliccioni Ugo
Piva Maria Pia
Poggiali Martina
Reffi Francesca
Renzi Nicola
Ridolfi Rosanna
Rossi Laura
Rossi Valentina
Rossini Rossella
Rosti Corrado
Rosti Renzo
Salicioni Sandro
Sammarini Emilio
Sanguinetti Claudine
Scarpellini Alan
Scarpellini Arianna
Sciutti Rosanna
Sensoli Annita
Serra don Edoardo
Stefanelli Riccardo
Stolfi Emanuela
18
Matematica
Italiano e Latino
Inglese
Italiano e Latino
Tecnologia e Disegno
Storia e Filosofia
Matematica
Scienze
Tedesco
Francese
Religione
Matematica
Economia Aziendale
Ruolo sovrannumerario
Matematica
Inglese
Disegno e Storia dell’Arte
Italiano e Storia dell’Arte
Scienze
Fisica e Laboratorio
Diritto ed Economia
Inglese
Matematica
Italiano, Storia e Geografia
Tedesco
Diritto ed Economia
Italiano, Storia e Geografia
Latino
Italiano
Italiano e Latino
Italiano, Storia e Geografia
Italiano, Storia e Geografia
Educazione Fisica
Matematica
Latino e Greco
Tecnologia e Disegno
Francese
Italiano, Storia e Geografia
Inglese
Storia e Filosofia
Inglese
Religione
Matematica
Scienze
Swirszczewski Tiziana
Taddei Enzo
Taddei Patrizia
Tiberi Anna Laura
Tombari Paolo
Ugolini Valeria
Valentini M. Edoarda
Inglese
Storia Sammarinese
Disegno e Storia dell’Arte
Italiano, Storia e Geografia
Italiano e Latino
Matematica
Italiano, Storia e Geografia
CONSIGLIO DI PRESIDENZA
Bevitori Maria Grazia
Brusa Paolo
Casadei Orazio
Casali Ingrid
Ceccoli Giovanni
Ghiotti Maurizio
Mancini Claudio
Mazza Anna Maria
Pancotti Igina
Ridolfi Rosanna
Rossi Laura
Rosti Renzo
Sanguinetti Claudine
Swirszczewski Tiziana
Taddei Enzo
RAPPRESENTANTE COMMISSIONE UNESCO
Biordi Mario Ludovico
19
RAPPRESENTANTI CONSULTA PUBBLICA ISTRUZIONE
Mazza Anna Maria
Tiberi Anna Laura
COORDINATORI DEI CONSIGLI DI CLASSE
1C
1L
1Sa
1Sb
1Ea
1Eb
1T
2C
2L
2Sa
2Sb
2Ea
2Eb
2Ta
2Tb
3C
Ceccoli Giovanni
Bernardi Marinella
Stefanelli Riccardo
Mazza Anna Maria
Bernardi Sabrina
Mancini Claudio
Muccioli Roberto
Salicioni Sandro
Renzi Nicola
Tiberi Anna Laura
Taddei Patrizia
Reffi Francesca
Biordi Mario
Rossini Rossella
Ugolini Valeria
Monti Meris
3L
3Sa
3Sb
3Ea
3Eb
4C
4L
4S
4Ea
4Eb
5L
5Sa
5Sb
5Ea
5Eb
Swirszczewski Tiziana
Rossi Laura
Valentini M. Edoarda
Benedettini Marinella
Frulli Milena
Bevitori Maria Grazia
Brusa Paolo
Bartolomeoli Ivana
Sanguinetti Claudine
Ridolfi Rosanna
Casadei M.aria Pia
Tombari Paolo
Grassi Enrico
Balducci Carla Marina
Casadei Orazio
COLLABORATORI DI ESERCITAZIONI TECNICOPRATICHE
Laboratorio di Fisica
Laboratorio di Informatica
Protti Mimmo
Santi Franco
PERSONALE AMMINISTRATIVO
Collaboratore Amministrativo
Addetto di Segreteria
Addetto Specializzato
Addetto Specializzato
20
Muccioli Tiziana
Ceccoli Anna
Gennari Luciana
Saracco Vanda
PERSONALE AUSILIARIO
Calisti Fernanda
Casadei Gabriella
Ceccaroli Bruna
Cervellini Bruna
Cherigo Virginia
Costa Novella
De Angelis Settimio
Della Balda Rino
Lanci Maria Anna
Montanari Lucilla
Para Luigi
Piva Patrizia
Raschi Gian Claudio
Ricci Ornella
Simoncini Valentina
Zonzini Gianfranco
ORGANISMI COLLEGIALI
Consiglio di Istituto
Presidente
Rappresentanti Genitori Biennio
Casadei Olimpio
Faetanini Serse, Morganti Giuseppe
Maria
Rappresentanti Genitori Triennio Casadei Olimpio, Cozza Antonio
Simoncini Aldo
Rappresentanti Studenti Biennio
Giri Davide, Menghi Alberto
Rappresentanti Studenti Triennio Agatiello Mattia, Allasia Edoardo
Berardi Arianna
Rappresentanti Docenti Biennio
Rosti Renzo, Tiberi Anna Laura
Rappresentanti Docenti Triennio Monti Meris, Stefanelli Riccardo,
Taddei Patrizia
Rappresentante Non Docenti
Montanari Lucilla
Rappresentanti Sindacali
Ceccoli Antonio, Giovagnoli Giorgio
Rappresentante Giunta di Castello Rondelli Paolo
Rappresentante Associazioni di
Sorgi Claudio
Categoria
21
Consigli di Classe Componente GENITORI
1C
1Ea
1Eb
1Sa
1Sb
1L
1T
2C
2L
2Ea
2Eb
2Sa
2Sb
2Ta
2Tb
3C
3L
3Ea
3Eb
3Sa
3Sb
4CLa
4CLb
4Ea
4Eb
4S
5L
5Sa
5Sb
5Ea
5Eb
22
Capicchioni Gabriele
Arcangeloni Maria Olivia
Gasperi Nicola
Ranocchini Rosalba
Ceccaroni Lorella
Antonelli Carlo
Righi Franco
Damen Kristel Maria
Gasperoni Meris
Marinelli Monica
Morganti Maria
Casadei Gabriella
Cardelli Luciano
Gasperoni Miriam
Benedettini Raffaella
Biordi Giorgia
Felici Giorgio
Baldiserra Sonia
Rastelli Massimo
Gennari Claudio Marino
Casadei Olimpio
Marchetti Daniela
Troina Epifanio
Lividini Anna Maria
Parri Massimo
Gasperoni Augusto
Casali Ferruccio
Tura Marco
Fristad Mona
Contucci Remo
Cavalli Emilio
Bartolini Barbara
Pesaresi Tiziana
Della Valle Guido
Faetanini Serse
Parlanti Valter
Mularoni Morena
Gasperoni Stefano
Simoncini Maurizio
Stefanelli Maurizio
Cavuoto Domenico
Paoletti Marchina
Venturini Riccardo
Battistini Antonella
Giardi Gino
Fabbri Mirella
Tilio Velio
Gatti Augusto
Tomassini Roberto
Toccagni Bianca Maria
Speggiorin Mariarosa
Giacomini Giorgia
Santolini Roberta
Bettoni Liliana Giovanna
Rossini Angela
Cozza Antonio
Marzi Gigliola
Morri Danila
Gsperoni Claudio
Riccardi Fiorella
Morganti Giuseppe Maria
Mazza Palma
Consigli di Classe Componente STUDENTI
1C
1Ea
1Eb
1L
1Sa
1Sb
1T
2C
2L
2Ea
2Eb
2Sa
2Sb
2Ta
2Tb
3C
3L
3Ea
3Eb
3Sa
3Sb
4CLa
4CLb
4S
4Ea
4Eb
5L
5Sa
5Sb
5Ea
5Eb
Cervellini Carla
Forcellini Luca
Conti Daniele
Castellano Alessandra
Berardi Michele
Menghi Alberto
Mularoni Andrea
Ghiotti Michele
Pari Chiara
Curzi Mattia
Berardi Andrea
Tini Elena
Biordi Lucio
Casadei Tommaso
Gobbi Eros
Broccoli Marinella
Gatti Lorenzo
Andreoli Giacomo
Allasia Edoardo
Berardi Annalisa
Broccoli Vittorio
Righi Fabio
Troina Gaetano
Gasperoni Stefano
Giorgi Leonardo
Biordi Cristian
Conti Sabrina
Ferraresi Matteo
Broccoli Laura
Cevoli Laura
Gasperoni Patrizia
Zonzini Giordano Bruno
Tabarini Fabio
Della Valle Alex
Antonelli Carlotta
Micheloni Gianluca
Rosa Enrico
Righi Federico
Raggini Filippo
Protti Federica
Pelliccioni Samuele
Cardinali Arianna
Venturini Ilaria
Cardelli Letizia
Zonzini Matteo
Zanfino Nahuel
Mazza Carolina
Stefanelli Simona
Ronchi Mattia
De Luigi Luca
Cancellieri Paolo
Tura Federica
La Maida Elena
Zanotti Jessica
Moretti Veronica
Gobbi Laura
Rebosio Paolo
Gasperoni Valentina
Tura Valentina
Zafferani Michele
Campo Claudia Immacolata
Guardigli Leopoldo
23
ASSOCIAZIONE STUDENTESCA SAMMARINESE
Presidente
Vice-Presidente
Tesoriere
Segretari
“
Tecnici
“
Agatiello Mattia
Bombini Fabio
Ghinelli Valentina
Bollini Martina
Tura Valentina
Bombini Fabio
Zafferani Michele
GLI ALLIEVI DEL LICEO CLASSICO
Classe 1C
Bonfini Luca, Caniglia-Tenaglia Marta, Canuti Sheila, Capicchioni
Chantal, Casadei Ilaria, Cervellini Carla, Dall’Ara Luca, Giacosi Sara,
Giorgetti Francesca, Massari Marta, Muratori Giulia, Nicolini Cristina,
Renzini Jessica, Ruli Mei, Suzzi Valli Giulia, Zonzini Giordano Bruno.
Classe 2C
Albani Francesca, Casadei Teodoro, Chiaruzzi Serena, Di Bisceglie Luca, Francioni Elisa, Garavelli Chiara, Gattei Margherita, Ghiotti Michele, Giardi Giulia, Guidi Amy, Muraccini Arianna, Occhiali Alessio,
Palmieri Greta, Raggini Filippo, Rastelli Manuel, Simoncini Flavio.
Classe 3C
Broccoli Marinella, Casali Stephanie, Ercolani Alessandro, Gasperoni
Gea, Gruska Bojana, Mazza Carolina, Pelliccioni Luca, Ricci Martina,
Sarti Monica, Simoncini Daniele, Stefanelli Lucia.
Classe 4C
Casadei Fabrizia, Guerra Mattia, Lozica Ana Marina, Mazza Martina,
Righi Fabio, Righi Lucia, Severi Pietro, Stefanelli Umberto Maria,
Troina Gaetano, Zanotti Marta.
24
GLI ALLIEVI DELL’ISTITUTO TECNICO INDUSTRIALE
Classe 1T
Agostini Michele, Boschi Michele, Ciacci Matteo, Ciacci Stefano, Colonna Matteo, Felici Simone, Gasperoni Giacomo, Giardi Mattia, Massetti Achille, Menicucci Thomas, Moretti Alex, Mularoni Andrea, Neri
Matteo, Paganelli Paolo, Paoletti Andrea, Righi Federico, Rossini Mirko, Tognarini Erik, Valentini Luca, Vaselli Anthony, Venturini Luca,
Veronesi Thomas, Zonzini Mirko.
Classe 2Ta
Bartolini Andrea, Casadei Marco, Casadei Tommaso, Casalboni Marco,
Francesconi Daniel, Giardi Mattia, Grassi David, Lazzarini Elia, Michi
Andrea, Moretti Erik, Muratori Mattia, Pedini Luca, Rosti Elena, Zanotti Mirko, Zonzini Matteo.
Classe 2Tb
Burioni Nicolas ,Casadei Giulio, Fabbri Nicola, Giannini Gabriele, Giri Davide, Giuliani Fabio, Gobbi Eros, Martini Alex, Pandolfini Alex,
Santolini Matteo, Tasini Alberto, Zanfino Nahuel.
GLI ALLIEVI DEL LICEO LINGUISTICO
Classe 1L
Antonelli Carlotta, Bacciocchi Ilaria, Beccari Clara Greta, Berardi Simona, Bernardini Massimo, Castellano Alessandra, Cola Jessica, Crespo Marina Veronica, Gennari Giada, Marani Linda, Morri Giordano,
Paolini Alessia, Payman Monireh, Ricci Maria Sole, Robbiano Valeria,
Salvatori Amelia, Stefanelli Aurelia, Toni Lucia, Zonzini Alessandra.
Classe 2L
Baldini Carolina, Berardi Nina, Bonifazi Katia, Brandinelli Valeria, Casali Veronica, Corbelli Laura, Faetanini Andrea Livia, Fattori Federica,
Gasperoni Marta, Gorrieri Filippo, Guerra Silvia, La Maida Stefania,
Lanci Roberta, Leonardi Laura, Montironi Maria Camilla, Olei Ro-
25
mina, Pari Chiara, Protti Federica, Selva Sarah, Stefanelli Cristina,
Vannucci Giacomo.
Classe 3L
Bollini Elisa, Bottino Patrizia,Capicchioni Federica, Capicchioni Martina, Casadei Alice, Cecchetti Gessica, D’Ambrosio Vanessa, Felici Lucrezia, Franciosi Elena, Gatti Lorenzo, Lividini Guido, Morolli Nicola, Pirani Glenda, Pretelli Martina, Quadrelli Alessandra, Righetti
Alien Taiana, Rossi Alessandra, Scarponi Giacomo, Stefanelli Simona,
Tura Milena.
Classe 4L
Andreani Deborah, Bartolini Paolo, Berardi Arianna, Bossi Marta,
Broccoli Valentina, Busignani Mabel, Casadei Lorella, Casadei Stella,
Crescentini Silvia, Grandoni Cristina, Gualtieri Silvia, Guerra Marco,
La Maida Elena, Martini Laura, Mina Alice, Pace Ilaria Adriana, Zanotti Jessica, Zanotti Valentina, Zattini Silvia.
Classe 5L
Backaert Elisa, Bollini Martina, Capiacchioni Erica, Casali Maria Vittoria, Ceccolini Alessandra, Chiaruzzi Laila, Conti Fabiola, Conti Sabrina, Gasperoni Valentina, Gualtieri Martina, Renzini Mara, Sicchitiello Martina, Stacchini Samantha.
GLI ALLIEVI DEL LICEO SCIENTIFICO
Classe 1Sa
Andreini Michele, Bacciocchi Francesca Maria, Bacciocchi Michele, Berardi Michele, Casadei Pamela, Chiaruzzi Valentina, Faetanini Alessio,
Ghinelli Luca, Giri Francesca, Gracikova Eva, Guidi Enrico, Guidi
Giovanna, Lazzarini Elisa, Micheloni Gianluca, Morri Francesco, Muraccini Giacomo, Muscioni Luca, Raffaelli Enrico, Rocchi Serena,
Semprini Alice, Tomassini Lorenzo, Zanotti Enrico.
26
Classe 1Sb
Albertini Miriam, Bacciocchi Filippo, Benvenuti Andrea, Bernucci Nicola, Bombini Filippo, Casali Loris, Cesaretti Marco, Cherubini Federico, Gasperoni Lorenzo, Gasperoni Valentina, Guerra Federico, Lividini Althea, Menghi Alberto, Muccioli Stefania, Mularoni Fabio, Parlanti Daniele, Pavel Vlad Costantin, Rosa Enrico, Rossi Chiara, Santi
Erik, Valentini Filippo Maria, Villa Sabrina.
Classe 2Sa
Achilli Andrea, Brighi Alberto, Capicchioni Lorenzo, Donati Sabrina,
Faetanini Francesca Marina, Gasperoni Francesca, Ghinelli Chiara, Letov Vladimir, Marcucci Claudia, Marcucci Marianna, Marzi Giorgia
Benedicta, Mularoni Davide, Pedini Cecilia, Pierluigi Cecilia, Stefanelli
Francesca, Tini Elena, Valli Ilaria, Venturini Ilaria.
Classe 2Sb
Biordi Lucio, Carattoni Giacomo, Cardelli Letizia, Chiaruzzi Hilary,
Graziosi Marco, Guerra Elia, Guerra Valentina, Guidi Simone, Maccapani Eleonora, Magnani Giulia, Massetti Martina, Morganti Claudia,
Pazzini Silvia, Pesaresi Michela, Righi Alberto, Tonelli Silvia, Venturini Maria Caterina, Zonzini Mattia.
Classe 3Sa
Agostini Nicola, Benedettini Debora, Berardi Annalisa, Biordi Ilaria,
Bollini Sara, Cancellieri Paolo, Casadei Luigi, Colombini Alberto,
Conti Elia, De Rossi Francesco,
De Luigi Martina, Donnini Elisa,
Fiorini Enrico, Gennari Alessandro, Marchetti Riccardo Saul, Marcucci
Annalisa, Massaro Raffaele, Mularoni Valentina, Nicolini Andrea, Pace
Rossella Giulia, Raschi Elena, Rosti Marco, Zafferani Giorgia, Zanca
Valentina.
Classe 3Sb
Amati Eleonora, Andreani Alessia, Andreini Silvia, Belemmi Lucia,
Broccoli Vittorio, Casadei Roberta, Casali Marco, Corbelli Chiara, Costa Silvia, Fedele Alice, Fracioni Simona, Garavini Michele, Giannoni
Marcello, Mina Daniele, Mularoni Marco, Paccagnella Alessandro,
27
Pazzini Fabio, Podeschi Claudio, Tura Federica, Valentini Tommaso,
Zamagni Lorenzo, Zambianchi Enrico, Zavoli Luca.
Classe 4S
Balducci Simone, Benedettini Mattia, Benvenuti Stefano, Casadei Simone, Chiaruzzi Barbara, Cibelli Enrico, De Luigi Marco, Della Valle
Giada, Forcellini Reffi Lorenzo, Gasperoni Stefano, Langella Sara,
Maiani Filippo, Marchetti Michela, Moretti Veronica, Mularoni Sara,
Pagliarani Luca, Sammarini Matteo, Santi Gioele, Santolini Lorenzo,
Sciutti Raffaella, Serra Alberta, Tommassini Francesca, Venturini Marta.
Classe 5Sa
Agatiello Mattia, Cecchini Veronica, Ferraresi Matteo, Gasperoni Laura, Ghinelli Valentina, Giorgetti Elena, Marcucci Chiara, Raggini Lorenzo, Rossi Matteo, Rossi Nicola, Stacchini Fabio, Tura Valentina.
Classe 5Sb
Bombini Fabio, Broccoli Laura, Bucci Ivano, Canini Valeria, Faetanini
Laura, Garavelli Erika, Guidi Cristina, Lanzarini Andrea, Marinelli
Daniela, Mariotti Filippo, Ricci Elia, Zafferani Michele.
GLI ALLIEVI DEL LICEO ECONOMICO AZIENDALE
Classe 1Ea
Cibelli Alessandra, Comini Agnese, Cupi Martina, Fabbri Alessandro,
Forcellini Luca, Gasperoni Angela, Melchinova Cristina Alexeevna,
Poggiali Marika, Reggini Enrico, Rastelli Andrea, Ricci Giulia, Ronchi
Silvia, Sartini Melania, Savioli Sara, Scarponi Simone, Tabarini Fabio.
Classe 1Eb
Bugli Mattia, Conti Daniele, De Luca Fabio, Della Valle Alex, Gasperi
Valentina, Gatti Elisa, Giovagnoli Giulia, Lazzarini Andrea, Marchetti
Federica, Micheloni Greta, Pelliccioni Antony, Piva Marcella, Selva
Anna, Semprini Enea, Tonti Enea.
28
Classe 2Ea
Baravelli Federico, Barducci Raffaele, Bianchi Alessandro, Carlini Raffaele, Cavuoto Valentina, Curzi Mattia, Filippi Matteo, Gai Claudia,
Giordani Gianluca, Gregoroni Fabio, Pelliccioni Samuele, Polini Veronica, Pollini Andrea, Selva Matteo, Stefanelli Alex, Valentini Francesca, Vitaioli Matteo, Zani Johnny, Zanotti Silvia.
Classe 2Eb
Berardi Andrea, Berretti Maicol, Cardinali Arianna, Casadei Mattia,
Cenni Martina, Codicè Nicola, D’Antonio Daniel, Forcellini Matteo,
Francioni Sara, Gasperoni Davide, Giusti Erika, Morganti Manuel,
Rossi Luca, Tura Fabio, Valdiviezo Alicia Daniela, Valentini Mattia,
Zafferani Linda
Classe 3Ea
Andreoli Giacomo, Bernardi Andrea, De Luigi Mattia, Faetanini Erica,
Mini Marco, Montebelli Daniele, Ronchi Mattia, Sbraccia Marianna,
Tomassini Martina, Vitali Elisa, Zanotti Stefano.
Classe 3Eb
Allasia Edoardo, Baldiserra Martina, Billi Paolo, Casali Mattia, Ceccoli
Luciana Carolina, De Luigi Luca, Mazza Pier Filippo, Moroni Danilo,
Polidori Matteo, Pucci Luca, Rastelli Michele, Ripa Burgagni Nicola,
Zanotti Michele.
Classe 4Ea
Albani Simone, Bacciocchi Cristina, Bartolini Marco, Casali Andrea,
Cenni Danilo, Ciavatta Jenny, Di Julio Alice, Francioni Francesca,
Gabrielli Mirco, Gatti Cristian, Gatti Danilo, Giorgi Leonardo, Gobbi
Laura, Grandoni Luca, Mularoni Nicola, Sacanna Paolo, Zafferani Alice, Zanotti Stefania.
Classe 4Eb
Angelini Raffaele, Arzilli Giovanni, Bassis Andrea, Bezzicari Angelica,
Biordi Christian, Ceccoli Lucia, Chiaruzzi Nicola, Cozza Geremia,
Dall’Olmo Alex, Giovagnoli Davide, Guidi Mirco, Iwanejko Andrea,
29
Macina Filippo, Mancini Alessia, Merlini Elisa, Montironi Michele,
Parri Michela, Rebosio Paolo, Serra Simone, Tamagnini Cristiana,
Zonzini Sabrina.
Classe 5Ea
Benedettini Serena, Campo Claudia Immacolata, Cevoli Laura, Contucci Michele, Corradini Camilla, Francioni Stefania, Giardi Julieta,
Guidi Cristina, Macaluso Fabio, Marchetti Ilenia, Morganti Enrico,
Rosa Simone, Simoncini Davide, Stefanelli Silvia, Zonzini Claudia,
Zonzini Matteo.
Classe 5Eb
Bonini Giovanni, Carloni Angela, Cavalli Nicola, Fusini Federica, Gasperoni Patrizia, Giardi Michele, Guardagli Leopoldo, Mazza Marilisa,
Morri Veronica, Paoletti Silvia, Quadrelli Valentina, Rosa Valentina,
Valentini Valentina, Valli Matteo , Zanotti Giacomo.
30
31
Allievi dei Licei Linguistico, Scientifico, Economico, che si sono diplomati nell’Anno Scolastico 2004-2005
ELENCO DIPLOMATI
LICEO
LINGUISTICO
LICEO
SCIENTIFICO
LICEO
ECONOMICO AZIENDALE
Backaert Elisa
Bollini Martina
Capicchioni Erica
Casali Maria Vittoria
Ceccolini Alessandra
Chiaruzzi Laila
Conti Fabiola
Conti Sabrina
Gasperoni Valentina
Gualtieri Martina
Renzini Mara
Sicchitiello Martina
Stacchini Samantha
Agatiello Mattia
Bombini Fabio
Broccoli Laura
Bucci Ivano
Canini Valeria
Cecchini Veronica
Faetanini Laura
Ferraresi Matteo
Garavelli Erika
Gasperoni Laura
Ghinelli Valentina
Giorgetti Elena
Guidi Cristina
Lanzarini Andrea
Marcucci Chiara
Marinelli Daniela
Mariotti Filippo
Raggini Lorenzo
Ricci Elia
Rossi Matteo
Rossi Nicola
Stacchini Fabio
Tura Valentina
Benedettini Serena
Bonini Giovanni
Campo Claudia Immacolata
Carloni Angela
Cavalli Nicola
Cevoli Laura
Contucci Michele
Corradini Camilla
Francioni Stefania
Fusini Federica
Gasperoni Patrizia
Giardi Julieta
Giardi Michele
Guardigli Leopoldo
Guidi Cristina
Macaluso Fabio
Marchetti Ilenia
Mazza Marilisa
Morri Veronica
Morganti Enrico
Paoletti Silvia
Quadrelli Valentina
Rosa Simone
Rosa Valentina
Simoncini Davide
Stefanelli Silvia
Valentini Valentina
Valli Matteo
Zanotti Giacomo
Zonzini Claudia
Zonzini Matteo
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CALENDARIO SCOLASTICO
Apertura anno scolastico: 8 Settembre 2004
22 settembre
10 giugno
Inizio lezioni
Termine lezioni
FESTIVITÀ
Tutte le Domeniche
1 Ottobre
1 Novembre
2 Novembre
8 Dicembre
23 Dicembre/5 Gennaio
6 Gennaio
5 Febbraio
25 Marzo
24 Marzo/29 Marzo
1 Aprile
1 Maggio
26 Maggio
- Ingresso Capitani Reggenti
- Tutti i Santi
- Commemorazione dei Defunti
- Immacolata Concezione
- Vacanze Natalizie
- Epifania
- Sant’ Agata
- Anniversario dell’Arengo
- Vacanze Pasquali
- Ingresso Capitani Reggenti
- Festa del Lavoro
- Corpus Domini
33
ATTIVITA’ SVOLTE
INTERVENTI DIDATTICI ED EDUCATIVI
13/9-17/9/04
16/9-17/9/04
Corsi di recupero
Accoglienza classi prime Classico, Linguistico, Scientifico,
Economico, Istituto Tecnico Industiale.
Corsi di Potenziamento e recupero / Attività elettive
31/01-4/02/05
LETTORATO PER TRIENNIO LINGUISTICO
Classi
1° periodo
3°
4°
5°
Prof. Nadia Valentini
Prof. Francesca Rossi
Prof. Doris Berger
2°periodo
3° periodo
15.11.04-17.01.05
24.01.05-21.03.05
04.04.05-06.06.05
Tedesco
Inglese
Francese
Francese
Tedesco
Inglese
Inglese
Francese
Tedesco
Francese
Inglese
Tedesco
SOGGIORNI CULTURALI ALL’ESTERO
Francia - Nizza
Germania - Prien
Inghilterra - Cambridge
Francia - Parigi
Inghilterra - Brigthon
Inghilterra - Cambridge
Classi 2L e 3L
dal 17 al 23 Ottobre 2004
Classe 3L
dal 10 al 16 Aprile 2005
Classe 4S e 4Ea
dal 10 al 17 Aprile 2005
Classi 5L
dal 17 al 24 Aprile 2005
Classe 4CLa, 4CLb e 5Eb dal 17 al 24 Aprile 2005
Classe 1L
dal 8 al 15 Maggio 2005
USCITE DIDATTICHE
30 Ottobre
16 Novembre
19 Novembre
30 Novembre
34
Rimini: visita alla mostra “Einstein” delle classi 4S-5Sa-5Sb
San Marino: visita all’ufficio Diritto allo studio classe 2 Ea
San Marino: visita all’ufficio Diritto allo studio classe 2Eb
Rimini: visita all’Istituto Tecnico Industriale delle classi 2Ta e 2Tb
per Orientamento
4-11 Dicembre
3 Febbraio
17 Marzo
23 Marzo
6 Aprile
8 Aprile
27 Aprile
San Marino: Monastero Santa Chiara: visita alla mostra dedicata alla
“Commedia di Dante Alighieri” delle classi 3C–3Sa–3Ea–3Eb–5L
Visita all’Ufficio di Stato Civile delle classi 1° Ea-Eb
Rovereta: Visita delle classi 3Ea e 3Eb alla ditta Colombini
San Marino: Visita delle classi 1Ea e 1Eb al Tribunale Civile e Penale
San Marino: Visita delle classi 1Ea e 1Eb al Tribunale Civile e Penale
Gualdicciolo: Visita delle classi 3Eb e 3Sb alla ditta Ali Parquets
Gualdicciolo: Visita della classe 3Sa alla ditta Ali Parquets
USCITE DI STUDIO
23 Ottobre
27 Ottobre
30 Ottobre
5 Novembre
9 Novembre
25 Novembre
3 Dicembre
6 Dicembre
10 Dicembre
4 Febbraio
9 Aprile
7-9 Aprile
15-16 Aprile
21-23 Aprile
22-23 Aprile
29-30 Aprile
8-14 Maggio
11-14 Maggio
12-14 Maggio
12-14 Maggio
12-14 Maggio
13-14 Maggio
17 Maggio
21 Maggio
27 Maggio
6-10 Giugno
Riccione
Città di Castello
Rimini
Assisi
Firenze
Ravenna
Ferrara
Bologna
Venezia
Ravenna
Verucchio
Trieste/Postumia
Viterbo/Tarquinia
Mantova/Padova
Torino
Viterbo/Tarquinia/Bolsena
Vienna/Praga/Monaco
Campania
Roma
Roma
Roma
Milano
Verucchio
Sepino
San Leo/Rimini
Siracusa
Classi 1Sa, 1Sb
Classi 5Sa, 5Sb
Classi 4S, 5Sa, 5Sb
Classi 3C, 3Sa, 3Sb
Classi 4Cla, 4Clb
Classi 2Ea, 2Eb
Classi 4Ea, 4Eb
Classi 2Ta, 2Tb
Classi 3Sb, 4S
Classi 2Sa, 2Sb
Classi 1Sa, 1Sb
Classi 2Ea, 2Eb, 2Ta
Classi 1Eb, 1L
Classi 3C, 3L
Classi 1Ea, 1C, 1Sb
Classi 1Sa, 1T
Classi 5L, 5Sa, 5Sb, 5Ea, 5Eb
Classi 3C
Classi 3Sb, 3Eb
Classi 3Sa, 3Ea
Classi 2C, 2L, 2Tb
Classi 2Sa, 2Sb
Classi 1C, 1Ea
Classi 1C, 2C
Classi 2Sa, 2Sb
Classe 4C
35
CONCORSI, CONFERENZE, EVENTI
30 Settembre
26 ottobre
17 Novembre
25 e 27 Novembre
10 Dicembre
22 Dicembre
22 Dicembre
18 Gennaio
31Gennaio-4 Febbraio
3 Febbraio
8 Febbraio
9-10-11 Febbraio
12 Febbraio
17 febbraio
18 Febbraio
1 Marzo
2 Marzo
36
Alcune classi incontrano un gruppo di giovani palestinesi
accompagnati da padre Ibrahim Faltas, oratore ufficiale alla
cerimonia d’ingresso dei Capitani Reggenti
La classe Terza Sa accoglie il maratoneta della Pace,
l’indiano Debasis De
Olimpiadi della Matematica: Giochi di Archimede partecipano 55 alunni
OPEN DAY: iniziative di presentazione della scuola rivolte
ai ragazzi della Scuola Media e ai loro genitori
Incontro delle classi Quarte e Quinte Economico con la
Sig.ra Simona Michelotti, presidente ANIS
Torneo sportivo Mens sana in corpore sano presso la Palestra del Multieventi
Premiazione dei ragazzi 1°-2°-3° classificato al Concorso
indetto dalla Giunta di Castello di Città dal tema Pace e
Terrorismo: riflessioni di un giovane sammarinese
Inizio corso (25 ore) Introduzione al pacchetto applicativo Microsoft Access organizzato per i ragazzi di Quarta e
Quinta Economico
Corso elettivo per le classi Quinte del Liceo Economico
presso gli studi del Dott. Zafferani Enzo e del Rag. Casali
Enrico
Partecipazione
alle
“Giornate
di
orientamento”
dell’Università di Bologna
Presentazione dell’Annuario XXXI, premiazione del Concorso L’idea che ti premia, saluto ai colleghi collocati a riposo
Attività di Orientamento scolastico per le classi Quarte e
Quinte effettuata dalla Dott.ssa Fronticelli
Incontro delle classi Quinte con gli studenti
dell’Associazione Ateneo
Olimpiadi della Matematica fase provinciale (11 alunni)
Incontro con studenti, genitori, insegnanti e responsabili
delle associazioni ANIS, OSLA, UNAS, USOT, CAMERA
DI COMMERCIO sul tema Quale lavoro a San Marino?
Conferenza del sig. Riccardo Faetanini sul tema
Un’esperienza di attività imprenditoriale
Incontro con la Dott.ssa Stefania Stefanelli e gli alunni delle
classi Quinte sul tema Professioni sanitarie a San Marino
4 Marzo
11 Marzo
24 Marzo
4-5-6 Aprile
18 Aprile
28 Aprile
6 Maggio
6 Maggio
12-13-14 Maggio
17 Maggio
20 Maggio
23 Maggio-3 Giugno
31 Maggio
2 Giugno
6 Giugno
10 Giugno
Dacia Maraini, interprete con Piera degli Esposti dello spettacolo Besame Mucho, incontra gli studenti al Teatro Titano
Conferenza di materia giuridica economica per gli alunni
delle Classi Quinte Economico al Teatro Concordia
Presso la Sala del Castello di Domagnano incontro pubblico
sul tema Stupido! Correre veloce per frenare la propria
vita
Stage Aziendale delle classi Terze Economico presso vari
Uffici Pubblici Statali
Gli alunni delle classi Quarte e Quinte incontrano il Centro Informazione Educazione Europea
II fase del Torneo sportivo Mens Sana in Corpore Sano
Partecipazione degli alunni del triennio dell’Economico alla
conferenza Il lavoro futuro, esperienze, attese e opportunità dei giovani di San Marino presso il Palazzo dei
Congressi
Le classi Quarte e Quinte Economico incontrano il Dott.
Giuliano Battistini sul tema Il ruolo delle Banche Centrali
nel sistema Bancario Internazionale
Incontri preparativi per l’uscita a Roma – illustrazione e caratteristiche dell’Auditorium - Conferenza Arch. Leo Morganti.
Presentazione del corso di laurea in Design Industriale agli
alunni delle classi Quinte
Incontro delle classi Quarte e Quinte Economico con il
Dott. Giuliano Battistini sul tema Il ruolo della Tesoreria
e l’attività di Ispettorato e Antiriciclaggio svolte dalla
Banca Centrale di San Marino
Stage Aziendale delle classi Quarte Economico presso varie
Aziende o Istituti di Credito Sammarinesi
Proclamazione del vincitore del Concorso Didattico indetto
per i 50 anni dell’Istituto dalla Segreteria di Stato per la Sanità e Sicurezza Sociale sul tema Sicurezza sociale: diritto
o dovere?
Incontro delle classi Quinte Economico con il Dott. Paolo
Ugolini sul tema Il sistema fiscale della Rep. di San Marino
Incontro delle classi Terze Economico con l’Avv. Matteo
Mularoni sul tema Contratti tipici e atipici
Partita di Calcio di fine anno presso il campo sportivo di
Fonte dell’Ovo.
37
ESAMI DI STATO
Sessione: 16 Giugno – 4 Luglio 2005
16 Giugno
18 Giugno
21 Giugno
Prima prova scritta
Seconda prova scritta
Terza prova scritta
29 Giugno
30 Giugno
2 Luglio
Prima prova scritta suppletiva
Seconda prova scritta suppletiva
Terza prova scritta suppletiva
24 Giugno – 4 Luglio
Colloqui orali
4 Luglio
Commissione Plenaria
38
ATTIVITA’ COLLEGIALI
a cura di Laura Rossi
Nell’anno scolastico 2004-2005 le attività collegiali si sono espletate nei
Collegi dei Docenti, nei Consigli di Presidenza, nelle Riunioni di Indirizzo in cui si è intesa valutare la tipologia e la qualità dell’offerta formativa di ciascuno degli indirizzi.
Delle riunioni collegiali si riportano di seguito gli ordini del giorno.
Collegi dei Docenti
8 settembre 2004: comunicazioni; calendario degli impegni di lavoro
nel periodo che precede l’inizio delle lezioni; corsi di recupero dal 13 al
17 settembre; nomina del Consiglio di Presidenza; delega al Consiglio
di presidenza della stesura del calendario degli impegni pomeridiani
dell’anno scolastico 2004-2005 e del piano delle aule; nomina dei rappresentanti del Consiglio di Istituto; nomina di due rappresentanti della
Consulta Pubblica Istruzione; nomina di un rappresentante della
Commissione Unesco; varie ed eventuali
28 settembre 2004: comunicazioni; calendario impegni pomeridiani;
aggiornamento piano offerta formativa; orientamento; periodo di sospensione; aggiornamento; varie ed eventuali
18 novembre 2004: comunicazioni; sintesi delle riunioni di indirizzo;
Centro Documentazione; comunicazioni dei docenti distaccati; Orientamento; open day; periodo di sospensione ed attività elettive; varie ed
eventuali
7 dicembre 2004: comunicazioni; periodo di sospensione ed attività elettive; varie ed eventuali
8 marzo 2005: comunicazioni; riferimento lavori dei gruppi di indirizzo
15 marzo 2005: comunicazioni; valutazione della settimana di sospensione; sintesi dei lavori dei gruppi di indirizzo; attività di fine anno scolastico e preliminari all’Esame di Stato; varie ed eventuali
13 aprile 2005: comunicazioni; approvazione del documento di sintesi
dei lavori dei gruppi di indirizzo; incontro con il Segretario di Stato al-
39
la Pubblica Istruzione, dott.ssa Rosa Zafferani, e con i proff.ri Di Nubila e Guerra; varie ed eventuali
3 maggio 2005: incontro con il Segretario di Stato alla Pubblica Istruzione
31 maggio 2005: comunicazioni; formazione e aggiornamento degli insegnanti; relazione dei docenti distaccati al Centro Documentazione;
distacchi al Centro Documentazione per l’anno scolastico 2005-2006;
elezione vice-Preside; organizzazione delle attività di accoglienza per
l’anno scolastico 2005-2006; piano cattedre per l’anno scolastico 20052006; calendario degli scrutini e degli esami; varie ed eventuali
Riunioni di Indirizzo
7 ottobre 2004: Liceo Scientifico e Liceo Classico
14 ottobre 2004: Liceo Linguistico e Istituto Tecnico
28 ottobre 2004: Liceo Economico
Consigli di Presidenza
14 settembre 2004: comunicazioni; piano delle attività; regolamento interno; stesura del calendario dei rientri e sorteggio delle aule; varie ed
eventuali
12 ottobre 2004: valutazione atteggiamento conseguente alla pubblicazione dell’articolo dell’11 ottobre 2004 pubblicato da “San Marino Oggi”
20 gennaio 2005: calendario degli scrutini primo quadrimestre; settimana di sospensione; proposte varie; varie ed eventuali
3 maggio 2005: comunicazioni; primo bilancio anno scolastico 20042005; calendario degli scrutini ed esami; varie ed eventuali
40
GRUPPI DI LAVORO: DOCUMENTO DI SINTESI
Nel corso dell’anno scolastico 2004-2005 all’interno della Scuola Secondaria Superiore si sono attivati gruppi di lavoro per indirizzo con il
compito di effettuare un’analisi delle caratteristiche e delle problematiche degli stessi, nonché di avanzare eventuali proposte di modifica. Dalle relazioni presentate sono emerse esigenze di aggiustamenti curricolari, indicazioni per l’elaborazione dei singoli Piani dell’Offerta Formativa, progetti ed ipotesi di sviluppo della Scuola nel suo complesso.
Il documento che viene ora proposto ha lo scopo di tentare una sintesi
delle proposte avanzate, con l’accortezza di individuare gli elementi di
specificità legati ai singoli indirizzi, le ipotesi di modifica che riguardano la Scuola nel suo insieme, i progetti realizzabili a breve, medio o
lungo termine.
Interventi di carattere specifico per indirizzo
competenze: Segreteria di Stato Pubblica Istruzione, Presidenza, Insegnanti
Liceo Classico
1. Si chiede di mutuare dal seminario di Latino e Greco un’ora nel
quarto e quinto anno per potenziare Matematica (4 4 3 3 3 anziché 4 4 3 2 2)
2. Si propone di modificare l’insegnamento di Storia dell’Arte nel
seguente modo:
¾1 ora nel I e II anno come insegnamento di Archeologia
e Storia dell’Arte antica, mutuata da Storia dell’Arte e
impartita dal docente di Latino e Greco
¾1 ora nel III e IV anno, 2 ore nel V come insegnamento
di Storia dell’Arte. A fronte dell’attuale articolazione oraria (Storia dell’Arte 1 1 1 1 1, Seminario Latino e Greco 0 0 1 1 1) si prefigurerebbe la seguente articolazione
oraria: Storia dell’Arte 0 0 1 1 2, Seminario Latino e
41
Greco 0 0 1 0 0, Archeologia e Storia dell’Arte antica 1 1
000
3. Qualora si verificasse nel Linguistico, la riduzione dell’ora di
Geografia nel II anno potrebbe essere estesa anche al Classico
Istituto Tecnico Industriale
1. Con l’obiettivo di rilanciare la proposta culturale dell’indirizzo
ed offrire un’ulteriore opportunità formativa, il gruppo di lavoro propone di valutare l’istituzione del Liceo Scientifico Tecnologico. Questo nuovo indirizzo dovrebbe garantire ai ragazzi
che abbiano frequentato il biennio di poter proseguire gli studi
in qualsiasi triennio ITI e/o Istituto Tecnico per Geometri (così
come avviene ora) oppure di continuare gli studi a San Marino,
raggiungendo l’obiettivo di una cultura liceale di carattere scientifico-tecnologico
2. Nell’ambito di tale istituzione si potrebbe prevedere di ridurre
il monte orario settimanale di lezione nel biennio (da 36 a 35),
togliendo 1 ora in I a Tecnologia e Disegno, 1 ora in II a Scienze. Potrebbe in questo modo essere eliminata la sesta ora del sabato
3. Per la caratteristica laboratoriale dell’indirizzo si ritiene fondamentale l’utilizzo dei laboratori, da aggiornare
4. Per un corretto loro funzionamento si considera perciò necessaria la figura del Tecnico di Laboratorio
Liceo Linguistico
1. Si manifesta l’opportunità di riprendere occasioni di aggiornamento più aderenti alle esigenze di indirizzo
2. Si ritiene utile una diversa organizzazione del Lettorato (avvio
coincidente con l’inizio dell’a.s.; stretto collegamento fra il responsabile e l’insegnante di cattedra; collocazione diversa dalla
sesta ora)
3. Si propone una diversa distribuzione oraria delle seguenti discipline:
42
4.
5.
6.
7.
8.
9.
¾Francese: 3 3 4 3 3 anziché 2 2 4 4 4
¾Storia dell’Arte: 0 1 1 1 2 anziché 1 1 1 1 1
Si considera indispensabile potenziare l’insegnamento della Matematica nel seguente modo: 4 4 3 3 2 anziché 4 4 3 2 2
Le modifiche comportano la riduzione di un’ora di geografia
nel II anno
E’ utile continuare l’esperienza del corso (opzionale) di alfabetizzazione informatica nel II anno
E’ proposta l’attivazione di stage di lavoro presso agenzie di
viaggio e/o uffici di traduzione, della durata di una settimana,
da effettuarsi nella quarta classe
Costituirebbe un importante potenziamento dell’offerta formativa l’attivazione di corsi elettivi al quinto anno della durata di
1 ora settimanale. I corsi potrebbero offrire potenziamenti in
alcune discipline in modo tale da consentire agli studenti di orientare il proprio curricolo in maniera più specifica, in previsione della futura scelta universitaria. La scelta potrebbe essere
effettuata fra Lettorato tradizionale (inglese, francese, tedesco),
potenziamento della Matematica, introduzione allo Spagnolo
Viene accolta con interesse la proposta della creazione di un
Centro Vacanze-studio
Liceo Scientifico
1. Si evidenzia la necessità di individuare una soluzione alle ormai
annose e più volte esplicitate esigenze di una diversa impostazione curricolare fra Scienze e Chimica. Attualmente il quadro
orario è: Chimica 0 1 2 1 0; Scienze 2 1 1 2 2. Dal dibattito sono scaturite due diverse ipotesi di modifica elaborate dalle insegnanti titolari delle cattedre relative.
a) La proposta degli insegnanti di Scienze prevede una cattedra unica (2 2 3 3 2), che risolverebbe i seguenti problemi:
¾Riduzione dell’eccessiva frammentazione oraria nel
biennio
43
b)
c)
2.
3.
4.
5.
¾Organizzazione della sequenza dei contenuti di carattere
scientifico in modo da rispettare la valenza propedeutica
dei percorsi
¾Diversa distribuzione dei contenuti disciplinari (Scienze
della Terra anziché Biologia al 5° anno)
Secondo questa ipotesi verrebbe eliminata la cattedra di
Chimica.
La proposta dell’insegnante di Chimica favorisce la propedeuticità di questa disciplina nel biennio rispetto alla cattedra di
Scienze, ma comporta la sua eliminazione nel triennio, prevedendo un eventuale suo inserimento come attività elettiva. La
distribuzione oraria sarebbe la seguente: Chimica: 2 2 0 0 1
(quest’ultima elettiva), Scienze: 0 0 3 3 2.
A favore del quadro orario invariato è la considerazione che la
maggiore maturità degli alunni del triennio consente un approccio più consapevole ai contenuti disciplinari di Chimica, necessario anche in vista dei percorsi universitari.
Si evidenzia la necessità di caratterizzare Educazione Tecnologica come area di Informatica
Si propone di prevedere, anche per lo Scientifico,
l’attivazione di un’area didattico complementare, nell’ambito
della riforma complessiva
Si ritiene indispensabile provvedere ad un aggiornamento delle strutture laboratoriali
Per un corretto funzionamento dei laboratori si
considera necessaria la figura del Tecnico di Laboratorio
Liceo Economico
1. Benché siano emerse proposte di un diverso utilizzo delle ore
dell’area didattico complementare (con potenziamento di Geografia economica, introduzione di Storia dell’Arte e del Lettorato in Lingua), l’attuale distribuzione non viene messa in discussione in quanto le discipline che attualmente usufruiscono
di ore in a.d.c. considerano indispensabile tale opportunità per
lo svolgimento dei contenuti
44
2. Una rivisitazione dell’a.d.c. comporta una valutazione approfondita della sua organizzazione: perciò si ritiene utile il confronto con il Comitato Scientifico del Liceo economico
3. Sarebbe opportuna anche la creazione di un Comitato scientifico, interno all’indirizzo, che operi come punto di riferimento e
di confronto sulle problematiche
4. La validità delle esperienze degli stage in generale induce ad avanzare anche la proposta di organizzazione di stage lavorativi
all’estero ovvero di esperienze per l’approfondimento delle lingue straniere, durante il periodo estivo, utilizzando eventualmente il canale delle Comunità Sammarinesi all’estero.
5. Poiché a luglio si avranno i primi diplomati del Liceo Economico è considerato indispensabile prevedere un’attività di monitoraggio per verificare:
9Modalità e problemi dei diplomati che accedano immediatamente al lavoro
9Modalità e problemi dei diplomati che scelgano la prosecuzione degli studi
6. Per sostenere le opportunità lavorative dei futuri diplomati si
considera opportuno operare per:
9la creazione di un canale privilegiato per il lavoro estivo
9la creazione di sinergie tra Scuola, Segreterie di Stato
e Imprese per la predisposizione di borse di studio
per l’inserimento nel mondo del lavoro
Interventi d’interesse generale
competenze: Presidenza, Insegnanti
1. Più o meno esplicitamente tutti i gruppi di lavoro parlano di
una diversa promozione all’esterno della Scuola nel suo
complesso, dei singoli indirizzi e delle loro attività. Promozione che può essere attivata entro breve termine e deve innanzitutto passare attraverso:
45
9la correzione e sistemazione dell’attuale brochure illustrativa (con le denominazioni corrette)
9la creazione ex novo di un depliant più completo
9la diffusione del materiale informativo nelle scuole
sammarinesi e del circondario
9gli incontri con i colleghi delle scuole medie
9un’indagine conoscitiva sulle aspettative degli alunni
di Scuola Media rispetto alla Scuola Superiore
9l’organizzazione di momenti di apertura e incontro
con famiglie e studenti
9la cura del sito web
9il battage pubblicitario delle iniziative intraprese
tramite comunicati stampa e televisione
9…
2. E’ avvertita la necessità di:
9attivare sportelli didattici per disciplina
9organizzare attività elettive extracurricolari che in
parte sono stati proposti anche nel corrente a.s. Tali
iniziative dovrebbero perciò essere continuate in futuro
3. L’aggiornamento disciplinare è richiesto solo dal Liceo
Linguistico, ma negli ultimi anni tale esigenza è stata avvertita anche negli altri indirizzi; perciò si potrebbe prevedere
un piano di aggiornamento da tenersi già dagli inizi del prossimo anno scolastico
4. Durante i lavori dei rispettivi gruppi, il Liceo Classico e
l’Istituto Tecnico hanno anche elaborato un loro Piano
dell’offerta formativa; analoga necessità è avvertita pure da
altri indirizzi. Si ritiene che il Piano dell’Offerta Formativa
debba essere lo strumento di presentazione della Scuola nella
sua interezza e unitarietà, nonché nelle sue articolazioni, e
che quindi tale Piano debba riferirsi a tutta la Scuola Secon-
46
daria Superiore. E’ necessario perciò predisporre la sua stesura
5. Particolare rilievo è stato dato in alcuni casi
all’Orientamento (informativo, in entrata e in uscita, e
formativo): la Scuola deve perciò elaborare il progetto relativo
6. Legata all’Orientamento è l’attività di monitoraggio richiesta dall’Economico, ma che potrebbe essere riferita agli studenti in uscita da tutti gli indirizzi: si tratta in questo caso di
stabilire cosa fare e decidere a chi assegnare il compito
7.
Qualora non esistessero problemi di natura istituzionale,
potrebbero effettuarsi a breve termine tutte le modifiche agli impianti curricolari suggeriti dai gruppi dei singoli indirizzi
8. Per il Liceo Scientifico è urgente caratterizzare Educazione
Tecnologica come area di Informatica: è necessario perciò
chiarire collocazione, contenuti e docente della disciplina
In alcuni interventi proposti, elencati di seguito, le competenze delle Segreterie di Stato e/o della Presidenza sono preminenti
1. Adeguamento delle strutture dei Laboratori
2. Figura del Tecnico di Laboratorio
3. Riorganizzazione dell’area didattico complementare nell’Economico
4. Eventuale estensione dell’area didattico complementare ad altri
indirizzi
5. Stage di lavoro e/o di studio/lavoro (Linguistico, Scientifico)
6. Modifiche a livello curricolare
7. Diversa impostazione curricolare fra Scienze e Chimica nello
Scientifico
8. Sinergie fra Segreterie di Stato, Scuola, Imprese (Economico)
47
9. Stage di lavoro all’estero (Linguistico, Economico)
10. Attivazione di Laboratori aperti a studenti di scuole medie ed
elementari (Istituto Tecnico)
11. Creazione di un Centro Vacanze studio (Linguistico)
12. Attivazione del Liceo Scientifico Tecnologico
Oltre all’approvazione del documento nel Collegio dei Docenti, occorrerà stabilire la priorità degli interventi ipotizzati, data la loro varietà e
complessità, e tenere conto di alcuni importanti passaggi:
1. confronto con lo schema di decreto legislativo italiano 17 gennaio 2005
2. verifica relativa agli aspetti connessi al riconoscimento dei titoli
e ai rapporti con il sistema scolastico italiano
3. verifica delle conseguenze che verrebbero a determinarsi
sull’impostazione generale delle cattedre a seguito delle modifiche o degli aggiustamenti richiesti
4. valutazione dell’opportunità di contattare esperti di organizzazione scolastica
5. individuazione degli interventi prioritari da effettuare in vista
del prossimo a.s.
6. previsione di distacchi e/o funzioni-obiettivo in relazione alle
priorità individuate
A conclusione del documento è bene sottolineare l’esistenza di un problema la cui soluzione, per la maggioranza degli operatori scolastici,
non può continuare ad essere rinviata a lungo: benché non argomento
specifico dei gruppi di lavoro, più volte, negli organismi interni alla
scuola e nel Consiglio di Istituto, anche alla presenza dei Segretari di
Stato competenti, è stata affrontata la questione dell’inadeguatezza
della struttura che ospita attualmente la Scuola Secondaria Superiore, sia sul piano strutturale-architettonico che su quello della funzionalità didattico-pedagogica.
Il Collegio dei Docenti della Scuola Secondaria Superiore confida che il
lavoro svolto attraverso i gruppi di lavoro nel corrente a.s., di cui que-
48
sto documento è espressione, possa essere accolto con interesse e attenzione e valutato quale testimonianza della partecipazione consapevole
degli insegnanti alle problematiche dell’Istituto.
Per i gruppi di lavoro
Carla Marina Balducci (Liceo Economico)
Enrico Grassi (Istituto Tecnico)
Nicola Renzi (Liceo Classico)
Riccardo Stefanelli (Liceo Scientifico)
Tiziana Swirszczewski (Liceo Linguistico)
Laura Rossi (Verbalizzante)
49
CENTRO DOCUMENTAZIONE
Progetti e attività svolte
1. Corso di alfabetizzazione informatica per le classi prime dei Licei
Classico e Linguistico
di Marinella Benedettini
Al fine di uniformare le competenze informatiche di base nei diversi
indirizzi della Scuola Secondaria Superiore è stata proposta un’attività
elettiva di un’ora alla settimana (sesta ora) agli alunni delle classi prime
del Liceo Classico e Linguistico.
Il corso è iniziato a metà ottobre e si è concluso a metà maggio per un
totale di 25 ore. Si sono iscritti al corso 15 alunni del Liceo Classico
(l’intera classe) e 9 del Linguistico. Di questi hanno conseguito
l’attestato di frequenza (almeno 20 ore) 7 del Classico e 5 del Linguistico. Molti ragazzi si sono ritirati dopo le vacanze di Natale.
Nel progettare il corso ho cercato di mediare fra l’esigenza di fornire
agli alunni le tecniche per l’applicazione delle funzioni fondamentali di
alcuni software applicativi (elaboratore testi, foglio elettronico, ecc.) e
quella di trasmettere un metodo per risolvere problemi di diversa natura utilizzando l’elaboratore elettronico. Per tale motivo nel presentare i
diversi applicativi sono partita dalle questioni alle quali questi forniscono una risposta, per evidenziare successivamente la struttura dei diversi
programmi e le loro caratteristiche comuni.
Il corso ha così conseguito i seguenti obiettivi:
Š
Š
Š
dare ai ragazzi le competenze minime per l’utilizzo del computer
comunicare l’idea dell’elaboratore elettronico come di uno strumento atto a facilitare lo svolgimento di alcune funzioni
utilizzare in maniera consapevole e flessibile i programmi studiati
Ho notato che diversi alunni all’inizio avevano un timore ”reverenziale” nei confronti della macchina ed eseguivano le operazioni solo se erano sicuri di non sbagliare. Alla fine, di fronte ad un problema, prova-
51
vano da soli a scoprire la procedura per risolverlo, andando prima per
tentativi, poi ragionando e in maniera sempre più critica.
Elenco degli alunni che hanno conseguito l’attestato di frequenza al
corso di alfabetizzazione informatica
Classe 1a Liceo Classico
Caniglia Marta
Capicchioni Chantal
Casadei Ilaria
Cervellini Carla
Dall'Ara Luca
Giacosi Sara
Renzini Jessica
Classe 1a Liceo Linguistico
Castellano Alessandra
Marani Linda
Paolini Alessia
Payman Monireh
Stefanelli Aurelia
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
52
Programma svolto
Struttura dell’elaboratore
Cenni ai principali componenti dell’hardware e alle loro funzioni
Il software: il sistema operativo Windows 98 e Windows XP
Uso del computer e gestione dei file
Aprire chiudere e riavviare la sessione di lavoro
La barra delle applicazioni
La guida in linea
Il desktop: mettere ordine sul desktop, operare con le icone
Le finestre di Windows: elementi e operazioni
Il programma Esplora risorse
Le cartelle e i file: creare nuove cartelle, organizzazione dei file in
cartelle, copiare, spostare, rinominare file e cartelle
Elaborazione testi: il Word
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Avvio del programma, struttura della finestra, aprire, chiudere e
memorizzare un documento
La formattazione del documento: formattazione del paragrafo e del
carattere
L’impostazione della pagina
La tabulazione e le tabelle
La gestione di oggetti e immagini in un testo
Il collegamento ipertestuale
Strumenti di presentazione: prime nozioni di Power Point
La finestra di Power Point
La gestione delle diapositive: scegliere il layout, aggiungere e spostare una diapositiva, modificare lo sfondo
Creazione di una presentazione: transizione diapositiva
Internet e la posta elettronica
La navigazione in Internet: motori di ricerca, link
Attivazione di una casella di posta elettronica presso un portale
Il foglio elettronico: Excel
Le operazioni di base: aprire e salvare le cartelle; rinominare un foglio, inserire e selezionare dati, spostare, copiare, incollare e cancellare il contenuto di una cella; inserire, cancellare e modificare righe
e colonne
La formattazione delle celle
Le funzioni e le formule: applicazione di formule e funzioni, i riferimenti assoluti, relativi e misti
I grafici
2. La programmazione in VBA
di Enrico Grassi
Negli ultimi 20 anni l’informatica ha avuto uno sviluppo vertiginoso,
molta strada è stata fatta dai primi linguaggi di programmazione:
Assembler, Fortran, Cobol fino alle attuali applicazioni varie per
l’ufficio (Word, Excel, Access,…). Mentre con i primi linguaggi era indispensabile saper costruire algoritmi e quindi tradurre tali algoritmi in
programmi, oggi giorno l’attenzione si è focalizzata più sull’uso corret-
53
to di applicativi e la costruzione di algoritmi è passata in secondo piano
in quanto le funzioni standard più utilizzate sono già “programmate”
in essi.
Attualmente quando si parla di alfabetizzazione informatica si pensa
più alla patente di guida europea del computer (ECDL), piuttosto che
alla capacità di schematizzare e formalizzare problemi di varia natura e
quindi progettare algoritmi ad hoc che possano essere tradotti in un
linguaggio di programmazione per risolverli.
L’intento del progetto sviluppato dalla scuola secondaria nell’anno scolastico 2004-2005 è stato quello, nell’ambito dell’insegnamento della
matematica (in tutti gli ordinamenti l’informatica trova uno piccolo
spazio all’interno dei programmi di matematica nella voce: “elementi di
informatica”), di fornire le basi di un uso corretto del foglio di calcolo
Excel a livello immediato, poi introdurre i ragazzi ad un uso un po’ più
evoluto dell’applicativo tramite la costruzione di macro nella modalità
“registrazione macro” ed infine arrivare a scrivere il codice di macro
create ad hoc, per risolvere problemi di matematica classici, dopo avere
progettato algoritmi specifici utilizzando il linguaggio di programmazione VBA (Visual Basic for Applications) che è il linguaggio con cui
sono scritte le macro dei pacchetti applicativi di Office di Windows.
Progettare un programma per risolvere problemi significa partire
dall’essenza del problema, individuare le risorse e le variabili necessarie,
costruire un diagramma di flusso e quindi tradurre il diagramma in codice VBA.
Il linguaggio VBA è un linguaggio strutturato, così come lo è il Turbo
Pascal che è attualmente a livello scolastico forse il più diffuso, ma ahimè poco utilizzato nel mondo del lavoro.
Programmare i pacchetti di office, in particolare Excel permette di sviluppare progetti che presentano un interfaccia grafica ormai usuale,
quella di excel appunto, ma in grado di risolvere problemi particolari
con algoritmi specifici scritti in un linguaggio strutturato.
In sintesi: si è voluto integrare nell’ambito di una visione più attuale ed
applicativa dell’informatica (ECDL) la programmazione con un linguaggio strutturato che, anche se oggi apparentemente sembra svanito
nel nulla, in realtà è sempre presente, nascosto all’interno degli applica-
54
tivi e resta comunque a ragione un elemento formativo importante, un
capitolo significativo nel contesto più generale del problem solving.
Un esempio di programma scritto in linguaggio VBA che ordina 10
numeri interi generati a caso dalla funzione nativa Random.
Option Explicit
Dim a(10) As Integer
Dim i, j, t, x, y As Integer
‘-----------------------------------------------Public Sub scambio(x, y)
t=x
x=y
y=t
End Sub
‘-----------------------------------------------Private Sub cmdordina_Click()
Dim a(10), b(10) As Integer
' riempimento della matrice A
For i = 1 To 10
a(i) = Cells(i + 2, 3)
Next i
For i = 1 To 9
For j = i + 1 To 10
If a(i) >= a(j) Then
Call scambio(a(i), a(j))
End If
Next j
Next i
For i = 1 To 10
Cells(i + 2, 5) = a(i)
Next i
End Sub
‘-----------------------------------------------Private Sub cmdrandom_Click()
For i = 1 To 10
Cells(i + 2, 3) = Rnd * 100
Next i
End Sub
‘------------------------------------------------
55
A
B
5
41
86
79
37
96
87
6
95
36
5
6
36
37
41
79
86
87
95
96
random
ordina
Ecco come si presenta l’interfaccia utente del programma ordinamento:
Cliccando il pulsante “Random” vengono generati 10 numeri casuali
nella matrice A, cliccando poi il pulsante “Ordina” nella matrice B
vengono ordinati in senso crescente i numeri precedenti.
3. Orientamento
di Laura Rossi
Nel corso dell’anno scolastico 2004-2005 ho avuto l’incarico, come insegnante distaccata al Centro Documentazione, di coordinare le attività
di Orientamento della Scuola Secondaria Superiore. Il mio compito è
consistito innanzitutto nel formulare proposte relative allo svolgimento delle stesse; in secondo luogo nella loro organizzazione. Il lavoro è
culminato in una relazione, presentata in forma scritta alla Presidenza,
in forma orale al Collegio dei Docenti del 31 maggio 2005.
Delle attività svolte, suddivise in Orientamento in entrata/Orientamento in uscita, fornisco di seguito il resoconto.
Orientamento in entrata
Accoglienza classi prime
Nella settimana antecedente l’inizio delle lezioni, gli alunni iscritti alle
classi prime sono stati invitati a partecipare ad attività di accoglienza,
distribuite su due giorni, così organizzati:
56
Primo giorno
Š Incontro degli allievi delle classi prime con il Preside, il Vicepreside,
il Presidente del Consiglio d’Istituto, il Presidente dell’Associazione
Studentesca Sammarinese
Š Suddivisione degli alunni in classi e presentazione dei docenti
d’indirizzo
Š Illustrazione dell’organizzazione scolastica, dei metodi e della caratterizzazione d’indirizzo fatta da docenti e da alunni degli anni successivi dello stesso indirizzo
Š Illustrazione delle norme di sicurezza della Scuola
Secondo giorno
Š Visita guidata con docenti di indirizzo
Š Prova di evacuazione
Š Somministrazione di un test sul metodo di studio, sulle aspettative
degli alunni rispetto alla Scuola Superiore e al nuovo percorso scolastico.
Rispetto agli anni precedenti è stata introdotta la somministrazione di
un test, che tentava, fra l’altro, di indagare le motivazioni degli alunni
alla scelta della nostra Scuola Superiore. La somministrazione di altri
tipi di prove d’ingresso, da me inizialmente ipotizzata, è stata rinviata
mancando le condizioni per la sua realizzazione.
Rapporti Scuola Media
Nell’ottobre 2004 su richiesta degli insegnanti della I circoscrizione che
per la prima volta si dedicavano all’Orientamento, ho partecipato ad
un primo incontro informale per parlare della nostra Scuola e delle sue
iniziative di apertura. Successivamente, su invito delle singole circoscrizioni di Scuola Media, ho assistito ad incontri che le stesse hanno organizzato, per gli insegnanti e le famiglie, con rappresentanti delle categorie economiche sammarinesi e con esperti di Orientamento.
In data 11 novembre 2004 è avvenuto il tradizionale incontro fra insegnanti Orientatori della Scuola Media e insegnanti della Scuola Superiore, ai quali è stata demandata l’illustrazione delle caratteristiche di
indirizzo e la tipologia dell’offerta formativa dell’Istituto per l’a.s. in
corso.
57
La nostra delegazione era costituita da due insegnanti per indirizzo, che
avevano in precedenza dato la disponibilità, dalla Presidenza (Preside e
Vicepreside), dalla sottoscritta in quanto Delegata per l’Orientamento.
Accoglienza famiglie/alunni scuola media
Nell’ambito dell’organizzazione delle attività di accoglienza, che vengono rivolte ogni anno a famiglie e studenti delle classi terze medie, ho
ritenuto doveroso affermare che la Scuola Secondaria Superiore è sempre aperta al pubblico, che è possibile incontrare i suoi operatori negli
orari indicati e che in particolare, fra i mesi di novembre, dicembre e
gennaio è prevista la:
Š possibilità per alunni di terza media, accompagnati dai loro docenti,
di assistere, in una mattinata, a lezioni che caratterizzano gli indirizzi e/o a lezioni in laboratorio
Š possibilità per genitori e alunni di terza media di visitare, in un
pomeriggio, la scuola e contattare i docenti referenti dell’indirizzo
Š possibilità di incontri, su appuntamento, fra alunni e genitori con
Preside e/o Vicepreside
Š possibilità per alunni e genitori di visitare la scuola, assistere a
proiezioni e/o lezioni, seguire l’illustrazione dell’organizzazione
scolastica, delle sue problematiche, ecc., anche con l’intervento degli alunni delle classi terminali del triennio o dell’Associazione Studentesca
Le possibilità, per genitori ed alunni, di visitare la Scuola si sono concretizzate nelle due giornate che a fine novembre 2004 sono state dedicate all’Open day.
Open day
Senza la collaborazione di tutti i colleghi che si sono attivati con grande
disponibilità e desiderio di offrire un’immagine della Scuola consona al
lavoro che vi si svolge quotidianamente, l’organizzazione dell’iniziativa
non sarebbe stata possibile. Le attività si sono svolte secondo il seguente programma:
Giovedì 25 novembre ore 15.00-18.00
Š Sportelli informativi, aperti per alunni e genitori, con docenti
dei cinque indirizzi
58
Š
Š
Š
Š
Sportelli didattici
Visite guidate alla Scuola e presentazioni degli indirizzi
Proiezioni video, mostre, documentazioni varie
Illustrazione dei progetti della Scuola Superiore
Progetto informatica
Certificazione di inglese
Energia
Autocad
Sabato 27 novembre ore 9.00-13.00
Accoglienza
Š Sportelli informativi con docenti dei cinque indirizzi
Š Visite guidate da alunni e/o docenti, presentazioni degli indirizzi
Š Illustrazione dei progetti della Scuola Superiore
Š Proiezioni video, mostre, documentazioni varie
Š Possibilità di assistere alle seguenti lezioni in classe:
Il sistema delle fonti: confronto Italia San Marino
L’ideale del Kalos kai agazos: il glorioso Achille
Esperienze di scuola-lavoro
Giochi di ruolo
La formazione delle parole
Relatività
Origine della filosofia occidentale
Visita virtuale all’acropoli di Atene guidata dai ragazzi
Cartografia
Orientamento in uscita
Sportello informativo
Nel corso dell’anno scolastico ho cercato di costituire, presso il Centro
di Documentazione, un punto di raccolta del materiale informativo su:
Š prosecuzione degli studi nel Triennio degli Istituti Tecnici Industriali del circondario e/o della Scuola Superiore in genere;
Š studi universitari, sedi, relativi corsi di laurea e Giornate di apertura
degli Atenei, inviato alla Scuola direttamente dalle Università più
59
vicine o procurato attraverso contatti on line e/o telefonici. Su richiesta degli studenti che si sono rivolti direttamente al CD, ho preso i contatti del caso e trasmesso la documentazione direttamente
agli alunni e alle classi tramite comunicazioni orali e scritte.
Per la raccolta del materiale informativo sono state importanti le partecipazioni alla Presentazione delle attività di Orientamento
dell’Università di Ferrara il 16 dicembre 2004, alla Inaugurazione del
corso di laurea in Educatore Sociale dell’Università di Bologna, tenutosi
a Rimini, sede del corso stesso, il 31 gennaio 2005, nonché alla prima
delle Giornate dell’Orientamento dell’Università di Bologna, il 3 febbraio 2005. A questa manifestazione sono stati accompagnati, dalla collega prof.ssa Colombini e dalla sottoscritta, gli alunni delle classi quinte
dell’Istituto: poiché diversi di essi ne avevano fatta esplicita richiesta, si
è ritenuto di poterla soddisfare in relazione al fatto che l’Ateneo bolognese risulta essere il più scelto dai nostri alunni.
Incontri con esperto di Orientamento
L’attività di Orientamento scolastico e professionale, ormai da una decina d’anni, è condotta presso la nostra Scuola dalla dott.ssa Daniela
Fronticelli ed è articolata in due moduli (il primo informativo, il secondo di orientamento individuale), organizzati in due diversi periodi
dell’anno scolastico: gennaio/febbraio e aprile. In questo caso il mio intervento si è limitato a seguire le fasi previste dalle attività dei moduli e
ad effettuare, assieme alla dott.ssa Fronticelli, la verifica immediata
dell’andamento delle iniziative per valutare l’opportunità
dell’introduzione di eventuali futuri correttivi.
Iniziative varie
Altre iniziative che ho coordinato o promosso sono state:
Incontro con rappresentanti di Ateneo: come avviene già da alcuni anni,
le classi quinte hanno incontrato i giovani studenti universitari di Ateneo (per lo più ex allievi della Scuola) che hanno a loro volta offerto informazioni sulle scelte universitarie, sui corsi di laurea, sulle questioni
organizzative relative al primo approccio all’Università.
60
Incontro-dibattito con Associazioni Imprenditoriali: all’incontro-dibattito del 18 febbario 2005 sul tema Quale/i lavoro/i a San Marino? rivolto alle famiglie e agli studenti del II anno dell’Istituto Tecnico Industriale e delle classi quinte sono stati invitati a relazionare i Presidenti di
ANIS, UNAS, OSLA, USOT, USC, Camera di Commercio.
Incontro con le professioni: per focalizzare l’attenzione su professionalità attualmente molto richieste in territorio, come le professioni parasanitarie, è stata invitata la dott.ssa Stefania Stefanelli, responsabile della
Formazione dell’Istituto per la Sicurezza Sociale, a illustrare agli studenti delle classi quinte le caratteristiche e le tipologie di tali professioni, con particolare riferimento al corso di laurea in Scienze infermieristiche.
Presentazione corso di laurea in Design industriale: in data 17 maggio
2005 il Dipartimento di Tecnologia dell’Università di San Marino ha
presentato il corso di laurea in design industriale attivato dall’anno accademico 2005-2006 nella Repubblica di San Marino.
Stage Scuola-Lavoro
Infine ritengo debbano essere considerati nell’Orientamento in uscita
anche gli Stage Scuola- Lavoro rivolti agli studenti delle classi quarte
del Liceo Economico-Aziendale e gli Stage presso Uffici Pubblici per
gli studenti delle classi terze dello stesso indirizzo. Il merito dell’avvio
di tale importante esperienza non è mio, ma va alle colleghe Luisa Gottardi e Rosanna Ridolfi, che hanno impostato e organizzato l’attività
per due anni consecutivi.
61
Parte Seconda
Educazione e Didattica
CORSI DI POTENZIAMENTO E RECUPERO
a cura di Franco Santi
A inizio anno vengono organizzati, nel rispetto della Legge 8 settembre
1995 n.104, corsi di potenziamento e recupero rivolti a quegli allievi i
quali, ancorché promossi nello scrutinio finale dell’anno scolastico precedente, hanno evidenziato, in sede di valutazione del curricolo, debiti
formativi. La tabella illustra l’entità del fenomeno.
PROSPETTO GENERALE
ANNO
ALUNNI
MATERIE
DI CORSO
promossi
segnalati
segnalate
materie/ alunno
1°
116
69
119
1,80
2°
136
43
86
1,68
3°
95
32
66
1,77
4°
83
22
37
1,86
totale
430
166
308
1,66
Nella tabella qui sotto sono elencate tutte le discipline che sono state
oggetto di indicazioni di sostegno: é riportata l’entità numerica assoluta
del fenomeno e la sua incidenza percentuale. Le percentuali, per ogni
singola disciplina contenuta in tabella, sono calcolate sulla reale potenzialità di segnalazione e non sulla base del numero assoluto dei ragazzi
segnalati.
AN NO DI C OR S O
MATERIA
ITALIANO
INGLESE
MATEMATICA
1°
n
13
23
26
2°
%
3,02
5,35
6,04
STORIA
n
6
17
19
2
%
1,39
3,95
4,42
0,46
3°
4°
n
%
6
17
2
1,39
3,95
0,46
FILOSOFIA
LATINO
GRECO
12
4
16,90
26,67
15 21,43
1 6,67
1
1,81
n
2
6
6
%
0,47
1,39
1,39
3
1,68
n
21
52
68
4
3
28
5
Tutti
%
4,88
12,09
15,81
0,93
1,68
12,28
9,80
65
FISICA
CHIMICA
SCIENZE
TEDESCO
FRANCESE
13
3
4
4
8
28,89
14,29
4,59
11,11
30,77
23,81
19
7
6
17
31
2
5
8,19
4,76
1,98
13,60
24,80
1,39
11,11
5
4
16,67
4
5
16
308
29,63
DIS.-ST. ARTE
TECN.-DISEGNO
DIRITTOECONOMIA
3
1
3
7
2
5
1,08
8,57
20
5,56
ECON. AZIEND.
GENERALE
119
86
3
1
6,82
2,27
5
8
17,24
27,59
13
66
59,09
3
5,88
1
5
8
1,96
14,28
22,86
3
37
9,37
PERIODO DI SOSPENSIONE
31 gennaio – 4 febbraio 2005
A differenza degli anni scorsi, per l’anno scolastico 2004-2005, il Collegio Docenti ha deciso che gli alunni segnalati con debito formativo non
dovessero frequentare corsi di recupero specifici, ma che potessero
svolgere l’attività di recupero senza modificare orari e organizzazione
scolastica.
Questo ha comportato una modifica dell’attività didattica in classe mirata al recupero dei debiti formativi degli alunni segnalati.
In questo contributo si presenta:
ƒuna tabella nella quale, analiticamente, classe per classe, si registra il
n. di allievi, il numero di allievi segnalati nelle discipline oggetto di
recupero, il totale e la percentuale degli allievi segnalati, il totale e la
percentuale degli allievi segnalati rispettivamente in n. 1, n. 2, n. 3 e
più di 3 discipline;
ƒuna serie di grafici riassuntivi, che consentono di riflettere sulla
consistenza del fenomeno.
66
Riepilogo generale delle segnalazioni di recupero
16 3
6
5 5
1L
19 7
4
7
3 5 4
1Sa
22 3
2
3
1
1Sb
22
1
1
1
1T
23 2
6
5
2C
17
4
4 4 1
2Ea
19
2
5 2
2Eb
17 2
4
1
5
1
2
5
2
1
2
1
8 50% 4 25% 2 13% 2 13%
10 53% 6 32%
1
1
2
2
2
21 3
4
8
4 2 3
4
2Sa
18 7
1
1
4
2
2Sb
18
2
1
1
2
2Ta
15 4
7
5
8 5 1 2
6
2Tb
12 3
4
5
4 3 5 5
3C
11
2
3Ea
11 2
3
6
1 6
3Eb
13 1
3
1
3L
20 2
6
3Sa
24
5
8
1 5%
1 5%
5
9 1
2
3Sb
23
1
1
1
3 1 1
1
4C
10
4Ea
18
8
4Eb
21
8
4L
19
2
4S
23
6
5Ea
16 1
3
5Eb
15
4
3 7
5L
13
3
2
5Sa
12
3
5Sb
12
4
8 42%
1 5% 7 37%
9 53%
3 18% 2 12% 4 24%
9 50%
1 6% 5 28% 3 17%
3 17%
1 6% 1 6% 1 6%
4 3
11 73% 5 33% 5 33%
2
7 58% 4 33% 1 8% 1 8% 1 8%
6 55%
1
2
7
5 5 6
6 55% 3 27% 1 9%
3
2
7 54% 2 15% 1 8% 2 15% 2 15%
5 2
11
9 45% 6 30%
17 71%
2
3
1
3
2
3
1
4 12 67% 4 22% 3 17% 1 6% 4 22%
6 14 67% 7 33% 1 5% 2 10% 4 19%
5 26% 1 5%
1 5% 3 16%
11 48% 1 4% 2 9% 1 4% 7 30%
1
1
1
1
1
2 9%
3 30% 1 10%
8
2 1
1
4
1
1
2 10% 1 5%
1 6
3
4
2 18%
4 17% 5 21% 8 33%
4 17% 1 4% 1 4%
11
1 3
1 9% 2 18% 3 27%
3
4 40%
8
1 7%
2
3 4
3
3 14%
2 9%
9 43% 5 24% 1 5% 2 10% 1 5%
1
4 4
5
2 9%
4 24% 2 12% 2 12%
2L
2
3 16% 1 5%
5 23%
9 39% 2 9% 2 9% 4 17% 1 4%
1
7
%
6 40% 2 13% 1 7% 1 7% 2 13%
9
6 1
%
1 materia
1Eb
1 5
%
2 materie
7 44% 2 13% 2 13% 3 19%
1
%
3 materie
7 4 3
1
%
> 3 materie
Alunni Richiamati
6
15 4
Italiano
16
1Ea
n° Alunni
1C
Classe
Matematica
Latino
Greco
Inglese
Francese
Tedesco
Fisica
Chimica
Storia
Storia Sammarinese
Educazione Fisica
Disegno Storia dell'Arte
Storia dell'Arte
Scienze
Filosofia
Diritto Sammarinese
Economia Aziendale
Tecnologia e Disegno
Diritto ed Economia
Diritto
Materia
6 38%
5 31% 1 6%
9 60%
5 33% 4 27%
5 38%
1 8% 2 15% 2 15%
6 50%
1 8% 3 25% 2 17%
5 42%
1 8% 4 33%
Totale 531 44 113 57 16 77 44 48 46 11 13 22 4 6 15 17 11 6 20 8 7 17 23344% 57 11% 38 7% 60 11% 76 14%
67
Grafici riassuntivi
1. Allievi segnalati
Totale allievi 531
Allievi segnalati 233
Segnalati
30%
Allievi
70%
2. Segnalazioni. Dettaglio allievi per numero di segnalazioni.
250
233
200
150
100
76
57
60
38
50
0
Alunni
Richiamati
68
> 3 materie
3 materie
2 materie
1 materia
3. Segnalazioni. Elenco Alunni per Materia (valori numerici).
Diritto
17
Diritto ed Economia
7
Tecnologia e Disegno
8
Economia Aziendale
20
Diritto Sammarinese
6
Filosofia
11
Scienze
17
Storia dell'Arte
15
Disegno Storia dell'Arte
6
Educazione Fisica
4
Storia Sammarinese
22
Storia
13
Chimica
11
Fisica
46
Tedesco
48
Francese
44
Inglese
77
Greco
16
Latino
57
Matematica
113
Italiano
44
0
20
40
60
80
100
120
69
SPORTELLO DI FISICA: DESCRIZIONE DI UN’ESPERIENZA
DIDATTICA
di M.Grazia Bevitori e Liana Bisacchi
Premessa
Lo “Sportello” didattico è un servizio qualificato che la scuola può
mettere a disposizione degli allievi avvalendosi di insegnanti di una
specifica disciplina.
È uno strumento che contribuisce alla realizzazione degli obiettivi didattici di recupero e potenziamento disciplinare presenti nell’ offerta
formativa della Scuola Secondaria Superiore in cui si afferma che:
“…l’organizzazione didattica della Scuola Secondaria Superiore tiene
conto dell’esigenza di offrire agli alunni, la possibilità di rafforzare la
propria preparazione con attività formative complementari al piano di
studi, tese anche a personalizzare i percorsi scolastici…”
A seguito dell’abolizione degli esami di riparazione, il debito formativo dell’allievo che non raggiunge gli obiettivi minimi didattici in ogni
disciplina, non preclude l’ammissione alla classe successiva, qualora il
consiglio di classe ritenga che nel corso dell’anno successivo, gli stessi
possano essere raggiunti.
Per evitare il rischio che gli allievi possano incontrare difficoltà
nell’affrontare nuovi apprendimenti ed accumulare carenze di base, la
scuola deve rispondere alle diverse esigenze di recupero e deve prevedere momenti di approfondimento disciplinare, sia in itinere, sia in
tempi programmati di sospensione dell'attività didattica ordinaria.
Esiste quindi uno spazio di intervento nell’area didattico - disciplinare
che consente l’attivazione di una pluralità di strumenti formativi per il
recupero ed il potenziamento: tra questi anche lo “sportello didattico”.
71
La scelta dell’ “oggetto" di studio
L’anno 2005 è stato proclamato l’anno mondiale per la Fisica.
La comunità scientifica celebra infatti quest’anno il centenario dalla
pubblicazione sulla rivista “Annalen der Physik” dei lavori di
A.Einstein dai titoli:
-
-
-
-
-
Su un punto di vista euristico sulla generazione e trasformazione
della luce (17/3/1905)
Su una nuova determinazione
delle dimensioni molecolari
(30/4/1905)
Sul moto di particelle in sospensione in un fluido in quiete, come previsto dalla teoria cinetica
del calore (11/5/1905)
Sull’elettrodinamica dei corpi in
movimento (30/6/1905)
L’inerzia di un corpo dipende dal
suo contenuto di energia?
(27/9/1905)
Sulla teoria del moto browniano
(19/12/1905)
Questi articoli avranno un ruolo fondamentale nell’indirizzare la fisica
del Novecento e pertanto il 1905 entra nella storia della scienza come
annus mirabilis per la Fisica.
Il 1905 è il terzo anno nella storia della fisica, che si è meritato la denominazione di annus mirabilis.
Il primo è quell’anno scarso, fra il 1665 e il 1666, trascorso dal ventitreenne Newton nella quiete del suo villaggio natio, durante il quale egli pose le basi del calcolo infinitesimale, della teoria dei colori e della
gravitazione universale; il secondo è il 1932 che assistette alla scoperta
del neutrone, del deuterio e del positrone e all’annuncio del funzionamento del primo ciclotrone.
Tra le iniziative tese a promuovere l’interesse per la Fisica (uscite di
studio, visite a mostre, introduzione allo studio della relatività ristret-
72
ta), nel secondo quadrimestre abbiamo attivato lo “Sportello didattico”
rivolto a tutti gli studenti della Scuola Superiore, per sostenere gli allievi che incontrano difficoltà nello studio di questa disciplina e per rispondere a richieste specifiche di approfondimento.
Modalità di lavoro
Tempi: 4 ore settimanali
Spazi: locali della scuola
Organizzazione
Nel secondo quadrimestre lo “Sportello didattico di Fisica” è stato attivo nei giorni di martedì, mercoledì e venerdì, dalle ore 14.00 alle ore
15.00.
Gli allievi segnalavano in precedenza all’insegnante le loro esigenze,
scegliendo il giorno e l’argomento da trattare; se lo stesso tema interessava più persone si formavano piccoli gruppi, altrimenti si organizzavano lezioni individualizzate.
Attività Didattica
Lo “Sportello didattico” ha risposto a diverse richieste:
- esercitazioni di rinforzo, soprattutto in previsione di imminenti
verifiche;
- chiarimenti su concetti e procedimenti non ben assimilati;
- consolidamento delle competenze di base non possedute con sicurezza;
- approfondimenti di argomenti specifici;
- esercitazioni per test di ingresso all’Università;
- supporto in un percorso di ricerca (per gli studenti dell’ultimo
anno).
Frequenza
Gli allievi hanno frequentato gli incontri settimanali concordati, mostrando interesse, attenzione e partecipazione attiva.
I ragazzi che hanno frequentato sono stati circa 20. Anche classi complete hanno usufruito del servizio in previsione di imminenti verifiche.
Gli incontri sono stati complessivamente 40.
73
Valutazione
L’esperienza svolta è stata positiva per noi insegnanti, ma soprattutto
per i ragazzi che hanno interagito con docenti diversi dai propri, senza
timore di essere giudicati.
Dal punto di vista della motivazione scolastica ha giovato agli allievi, la
possibilità di scegliere liberamente questo servizio; sentirsi ascoltati e
sostenuti nello studio ha fatto acquisire loro una maggiore sicurezza.
Nei piccoli gruppi di lavoro si sono create dinamiche nuove fra studenti.
Questo ha favorito una maggiore motivazione all’apprendimento.
I genitori dei ragazzi, che hanno fruito del servizio, hanno manifestato
il loro apprezzamento in favore dell’iniziativa.
74
I SPEAK ENGLISH
a cura delle insegnanti di Inglese
Da quattro anni la Scuola Superiore prepara i propri alunni agli esami
Cambridge di secondo e terzo livello ed ora è tempo di tirare le prime
somme e, quindi, di parlare di cifre.
Su un totale di centoventinove alunni che hanno sostenuto l’esame di
secondo livello, ovvero il Preliminary English Test (PET), centodiciotto (91%) hanno ottenuto risultati positivi. Di questi circa la metà ha
conseguito ‘Pass with Merit’, che si commenta da solo.
Settantasei studenti si sono iscritti al First Certificate of English (FCE),
esame di terzo livello: 89% con successo mentre solo otto candidati non
lo hanno superato.(Per i dettagli delle valutazioni negli anni si rimanda
ai grafici allegati)
Due alunni hanno ripetuto gli esami ed hanno entrambi ottenuto risultati positivi.
Una studentessa ha addirittura superato il CAE, Certificate of Advanced English.
E’ stata una autentica sfida per gli insegnanti, consapevoli che il loro lavoro sarebbe stato giudicato dai risultati ottenuti dai loro alunni, ma
anche per gli studenti che tra sport, musica, scout e tanto altro, hanno
ritagliato una ulteriore porzione del loro tempo libero e si sono volontariamente cimentati in questo nuovo impegno.
Ma perché mai dovrebbero, alunni ed insegnanti, impegnarsi in un surplus di lavoro? Non c’è nemmeno il tempo di svolgere le attività curricolari, come si può pensare di aggiungerne altre? A che cosa serve sostenere esami di questo tipo? Il First Certificate non è forse destinato
agli adulti? Che figura ci facciamo come insegnanti se gli studenti non
superano la prova? Questi ed altri dubbi hanno popolato le menti degli
insegnanti di inglese quando il Segretario di Stato della Pubblica Istruzione Pasquale Valentini suggerì di prevedere offerte formative che caratterizzassero le discipline della Scuola Superiore.
I testi di lingua che si adottano nel biennio già affrontano i contenuti e
le abilità che saranno verificati dal PET, perciò è sembrato naturale far
sostenere l’esame alla fine dei primi due anni. Comunque, ciò non è al-
75
trettanto vero per quanto riguarda le tipologie delle attività previste
dall’esame, che occorre esercitare durante corsi pomeridiani o seste ore
disponibili.
I testi di lingua usati al triennio sono sì imperniati sui contenuti, abilità
e tipologie del First Certificate, ma la competenza richiesta è superiore
alla ‘sufficienza’ che in genere la maggior parte degli alunni ottiene alla
fine della Scuola Superiore. Perciò per i temerari che si impegnano nella sfida di superare il First Certificate, un ciclo di almeno venti ore di
lezioni pomeridiane è assolutamente indispensabile. In effetti, la preparazione è molto impegnativa e i risultati dell’esame per nulla prevedibili. Si tenga conto che di norma metà delle ore curricolari del triennio
vengono dedicati allo studio della letteratura di lingua inglese.
E’ vero: hanno avuto un certo coraggio ed un sovraccarico di lavoro
pomeridiano sia gli alunni che gli insegnanti. Ci stiamo abituando al lavoro flessibile!
Gli attestati rilasciati sono riconosciuti in Europa, spesso dai datori di
lavoro e dalle università: sebbene ogni facoltà di ciascun ateneo si regoli
in modo diverso, gli attestati garantiscono crediti, o esoneri dall’esame
di lingua o dal corso preparatorio. Infatti, il 2 Maggio 2001 è stato firmato un protocollo di intesa tra il Ministero della Pubblica Istruzione
Italiana e la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane per promuovere il riconoscimento della competenze linguistiche certificate secondo standard internazionali.
Dal nostro punto di vista, comunque, il superamento di una prova basata sull’uso della lingua reale e non filtrata (leggasi facilitata) dal proprio insegnante, una verifica esterna ai meccanismi valutativi della scuola ed alla logica didattica dei singoli insegnanti può gratificare gli studenti che si rendono conto della qualità delle loro competenze comunicative ed essere di conforto agli insegnanti che hanno la conferma di
aver tarato il loro insegnamento ed i loro giudizi in modo equo. Infatti,
gli esami verificano le quattro abilità (comprensione e produzione orale
e scritta), nonché la grammatica ed il lessico. Perciò non si può esercitare lo scritto a discapito dell’ascolto o la grammatica a svantaggio
dell’esposizione orale.
Nel corso degli anni sono stati apportati dei cambiamenti: generalmente non si preparano gli alunni per il First Certificate in quarta, come è
76
avvenuto il primo anno, ma in quinta. Se l’opzione quarta ha il vantaggio di non accavallarsi all’Esame di Stato, questa, però, comporta una
accelerazione del programma di lingua immotivata per quella parte della classe che non sosterrà l’esame. Inoltre, poiché per molte università
l’attestato è valido per due anni dalla data del rilascio, l’opzione quinta
permette una ottimizzazione della spendibilità della certificazione ai fini universitari.
Alcune scuole del circondario hanno optato per il PET al penultimo
anno di frequenza, quando un maggior numero di alunni può considerarsi adeguato al livello richiesto per passare con ‘merit’. Noi pensiamo
che il PET sia il livello di uscita dal biennio e che gli insegnanti si debbano adoperare perchè gli alunni acquisiscano competenze superiori.
Comunque, gli studenti sono ovviamente liberi di iscriversi a questo
esame in qualsiasi momento del loro percorso scolastico.
Non esistono solo gli esami Cambridge, ma anche il TOEFL, che è il
corrispondente americano del First Certificate of English necessario per
frequentare gli atenei all’estero, e tanti altri. La scuola ha deciso di dare
questa specifica offerta formativa perché gli esami Cambridge possono
essere sostenuti a Rimini presso il British Institute, talvolta le sessioni
d’esame si tengono addirittura nel nostro istituto, e soprattutto perché
per University of Cambridge Examinations Syndicate la validità
dell’attestato non decade. Il TOEFL ancor oggi ha solo due anni di validità. Perciò se si decide di partire in Erasmus o per il progetto Socrates o simili, il titolo non è comunque più valido.
Nonostante tutte le opportunità che questi esami offrono, alcuni degli
studenti che più facilmente potrebbero affrontarli e superarli non se la
sentono di impegnarsi in un ulteriore lavoro e questa è l’unica perplessità che ci rimane.
Malgrado i dubbi iniziali e le eventuali modifiche, non sembra ancora
esaurita la valenza di questa offerta formativa. Anche perché la gratificazione che arriva a premiare il nostro lavoro supera la fatica di cui ci
facciamo carico. E possiamo orgogliosamente contraddire il titolo di un
famoso film ‘I no speak English’.
Nota: University of Cambridge ESOL Examinations è un ente certificatore della lingua inglese su cinque livelli e membro dell’ALTE, ovvero l’Associazione di Esaminatori di Lingue in Europa.
77
Pass with merit (>=85%)
Pass (70% - 84%)
Narrow fail (65% - 69%)
Fail (<=64%)
2002
2003
14
6
1
14
12
1
PET
2004
17
21
3
2
2005
Totale
11
23
4
56
62
9
2
PET
2002
2003
2004
2005
25
20
15
10
5
0
Pass with merit (>=85%)
Pass (70% - 84%)
Narrow fail (65% - 69%)
Fail (<=64%)
Punteggio
PET 2002-2005
Pass with merit (>=85%)
7%
Pass (70% - 84%)
Narrow fail (65% - 69%)
Fail (<=64%)
2%
43%
48%
78
A (>=80%)
B (75% - 79%)
C (60% - 74%)
D (55% - 59%)
E (<=54%)
2002
2003
1
1
3
4
6
16
14
2
1
FCE
2004
1
5
2005
Totale
3
5
13
11
22
35
6
2
1
FCE
2002
2003
2004
2005
35
30
25
20
15
10
5
0
A (>=80%)
B (75% - 79%)
C (60% - 74%)
D (55% - 59%)
E (<=54%)
Punteggio
FCE 2002-2005
A (>=80%)
8%
B (75% - 79%)
C (60% - 74%)
3%
D (55% - 59%)
E (<=54%)
14%
29%
46%
79
OLIMPIADI DELLA MATEMATICA
di Claudio Mancini
Anche nell’anno scolastico 2004/2005 la Scuola Secondaria Superiore
ha partecipato al “Progetto Olimpiadi della Matematica”. Organizzate
dall’Unione Matematica Italiana e dalla Scuola Normale Superiore di
Pisa, esse costituiscono un’occasione particolare per presentare ai ragazzi gli aspetti più creativi delle attività matematiche: dalla geometria
all’algebra, alla probabilità fino a tutto ciò che in qualche modo richiama le abilità logico-razionali. La forma ludica ed accattivante con la
quale vengono proposti i problemi risulta l’arma vincente per stimolare
gli alunni alla riflessione su contenuti complessi che necessitano sia di
buone competenze che di capacità intuitive.
Suddivise in biennio e triennio, le prove sono uniche per tutte le scuole
che aderiscono e si svolgono nella medesima giornata, consentendo ai
partecipanti di confrontarsi con i coetanei di tutta Italia. Sono strutturate in:
ƒGiochi di Archimede: gara interna a ciascun istituto, si svolge in
novembre ed è volta a selezionare gli alunni per la successiva fase provinciale.
ƒGare provinciali: si tengono nel mese di febbraio; il nostro istituto partecipa alla gara tra le scuole della provincia di Rimini.
ƒGara nazionale: si svolge in maggio a Cesenatico tra i ragazzi
che hanno conseguito il miglior punteggio in ciascuna provincia.
ƒPreselezione per la fase internazionale.
ƒOlimpiadi internazionali della matematica: si svolgono a luglio.
Nel 2004 si sono svolte ad Atene, nel 2005 in Messico, nel 2006
saranno in Slovenia.
Nell’anno scolastico 2004/2005 i Giochi di Archimede si sono svolti il
17 novembre 2004 e nel nostro istituto hanno partecipato 44 alunni (26
del triennio e 18 del biennio). Undici di essi (6 del triennio e 5 del
biennio) sono stati selezionati per la successiva gara provinciale che si è
tenuta il 17 febbraio al Liceo Scientifico “Serpieri” di Rimini.
81
Alle Olimpiadi internazionali che si sono svolte in luglio in Messico le
prime dieci classificate sono risultate le seguenti nazioni:
1. Cina
235
2. USA
213
3. Russia
212
4. Iran
201
5. Corea
200
6. Romania
191
7. Taiwan
190
8. Giappone
188
9. Ungheria
181
10. Ucraina
181
Per quanto riguarda i principali paesi dell'Europa occidentale, la classifica è la seguente:
12. Germania
163
13. Regno Unito
159
24. Italia
120
32. Francia
83
58. Spagna
46
Di particolare rilievo è il miglioramento dell’Italia che ha preceduto
paesi quali l’Australia, la Francia, la Polonia.
Informazioni, notizie e testi delle gare sono consultabili sul sito italiano
delle Olimpiadi: http://olimpiadi.ing.unipi.it mentre per le Olimpiadi Internazionali si segnalano i siti http://imo.math.ca,
http://www.mathlinks.ro e http://www.kalva.demon.co.uk.
La scuola nel 2004/2005 ha organizzato un corso elettivo relativo ai
giochi matematici durante il periodo di sospensione dalle lezioni nel
mese di febbraio.
Lo spirito delle “Olimpiadi della Matematica” è ben sintetizzato dalle
seguenti parole di G. Szegö nell'introduzione a “Hungarian Problem
Books”, Mathematical Association of America.
"Non dobbiamo dimenticare che la soluzione di ogni problema degno d'interesse raramente ci si presenta in modo facile e senza del lavoro anche duro; essa è piuttosto il risultato degli sforzi intellettuali di giorni o di settimane e di mesi. Perché mai un giovane dovrebbe aver voglia di cimentarsi
in uno sforzo così supremo? La spiegazione sta probabilmente nella adesio-
82
ne istintiva a certi valori, in altri termini nell'atteggiamento che pone lo
sforzo intellettuale e la conquista spirituale al di sopra del vantaggio materiale. […] Il mezzo più efficiente può consistere nel trasmettere ai giovani la
bellezza del lavoro intellettuale e il sentimento di soddisfazione che segue
uno sforzo mentale coronato da successo."
83
CONCORSI PER LA SCUOLA E TESTI PREMIATI
a cura di Laura Rossi
L’anno scolastico 2004-2005 si è aperto e chiuso con l’adesione della
Scuola Secondaria Superiore a due Concorsi indetti rispettivamente dalla Giunta di Castello di Città e dalla Segreteria di Stato per la Sanità, la
Sicurezza Sociale, la Previdenza, gli Affari Sociali e le Pari opportunità.
Al primo, dal tema Pace e terrorismo: riflessioni di un giovane
sammarinese, hanno partecipato, per le rispettive classi, i seguenti alunni:
Ranocchini Carlotta di 1L; Gasperoni Marta di 2L; Ghiotti Michele e
Guidi Amy di 2C; Santolini Matteo di 2Tb; Biordi Ilaria, Bollini Sara,
Conti Elia, Marchetti Riccardo, Raschi Elena e Zafferani Giorgia di
3Sa; Angelica Bezzicari di 4Eb; Bombini Fabio di 5Sb.
Sono risultati vincitori: I Ghiotti Michele e Guidi Amy (classe 2C); II
Bezzicari Angelica (classe 4Eb); III Bombini Fabio (classe 5Sb)
Al secondo concorso, indetto dalla Segreteria di Stato per la Sanità e Sicurezza Sociale nell’ambito delle celebrazioni del 50° anniversario
dell’Istituto per la Sicurezza Sociale, dal titolo Sicurezza Sociale: un
diritto o un dovere? hanno partecipato gli alunni:
Fedele Alice e Mularoni Marco di 3Sb; Bezzicari Angelica di 4Eb; Lozica Ana Marina di 4Cla; Benedettini Serena e Contucci Michele di 5Ea;
Casali M. Vittoria di 5L.
Vincitore del concorso Mularoni Marco della classe 3Sb.
La Scuola Superiore, complimentandosi con i vincitori dei concorsi,
propone ai lettori dell’Annuario la ripubblicazione dei relativi elaborati.
85
Pace e terrorismo: riflessioni di un giovane sammarinese
I classificato
di Ghiotti Michele e Guidi Amy classe 2ª Classico
Il terrorismo è il frutto di un conflitto, in molti casi ideologico.
Qualunque conflitto è il fallimento della diplomazia.
La diplomazia è la politica del dialogo.
Il dialogo è la comunione tra gli uomini.
La comunione tra gli uomini è la pace.
Loro sono in ogni luogo.
Loro sono in ogni tempo.
Entrambi sono fra di noi.
Il primo si aggira per le città. Megalopoli. Paesi. Ovunque.
Semina morte. Amplia la devastazione.
Cerca di ottenere con la violenza, ma non conclude mai il suo scopo.
Si allontana sempre più dal motivo che lo spinge ad agire.
Si avvicina invece sempre più all’errore, allo spargimento di sangue
innocente.
Difende la giustizia con il torto. Protegge i suoi ideali uccidendo. E
perde ogni ragione, seppure sia giusta.
Non pensa. Non riflette.
Agisce.
Seguendo l’istinto.
Dimenticando le altre vie.
Dimenticando il suo scopo.
E così la sete di giustizia muore soffocata, uccisa da chi ne era assetato.
Rende impura l’innocenza, passando dalla parte del torto.
Le sue armi sono molteplici.
Violenza.
Odio.
Terrore.
Senso di smarrimento e impotenza.
I suoi alleati.
Caos.
Manipolazione delle menti, lobotomizzazione.
I suoi nemici sono Nazioni, Stati, Paesi.
Ma essi non hanno un volto.
Allora si scaglia contro coloro che appartengono alla Nazione, ma
non hanno colpa.
Bambini.
Donne.
86
Poveri.
Innocenti.
Così riesce a scatenare il Panico. Ma non risolve nulla. Perchè lo Stato non si piega.
Il Sistema non vede le vittime che cadono grazie alla sua indifferenza.
La seconda non si vede molto spesso.
Forse siamo noi che non riusciamo a vederla.
Oppure è il Sistema che con le sue innumerevoli mani la vuole mettere a tacere.
Il Sistema non ci vuole far vedere.
Ma noi intuiamo.
Il Sistema ci fa ascoltare solo notizie terribili.
Solo morte. Solo instabilità.
Ci fa sembrare che sia impossibile interrompere una futura e apocalittica guerra mondiale.
Ci impedisce di vederla nel futuro.
Ma lei non demorde.
Combatte, ma senza armi.
Questo suo modo di reagire non è conveniente al Sistema.
Perciò lei è in bilico.
Fatica ad agire. Sta per essere distrutta.
Esiste in ogni animo, ma è una parte di noi che è nascosta. E solo chi
ci crede veramente riesce a percepirla.
Esiste da sempre. Non c’è periodo storico in cui essa non sia esistita.
È stata solamente ignorata.
Guerre civili.
Guerre mondiali.
Guerra fredda.
Guerre che mai dimenticheremo.
Si è sempre parlato solo di lui.
Del Terrorismo.
E mai della Pace.
Spesso ci chiediamo come mai l’essere umano, in molte occasioni,
abbia bisogno di sentirsi più Caino che Abele e, altrettante volte,
perché questa necessità diventi essenziale: inutile, e allo stesso tempo, vitale.
Ci domandiamo per quale ragione l’uomo si trasformi da Dottor Jeckill a Mr. Hyde, preferendo la violenza alla razionalità, il terrorismo alla pace.
Siamo convinti che il Terrorismo sia radicato in un sentimento di
fanatismo ideologico, dove il proprio credo diventa più importante
della persona stessa.
87
I terroristi conoscono la nostra paura, che è quella di tutto il mondo
occidentale civilizzato: il caos.
Questo è ciò che ci terrorizza maggiormente. L’angoscia di vivere in
una società dove non ci si può fidare di nessuno. Dove dietro a ogni
angolo c’è una bomba pronta a scoppiare o un kamikaze pronto a
farsi esplodere. Un mondo in cui non è possibile creare rapporti
umani di fiducia. Perché un estraneo non diventa più un amico, ma
un potenziale pericolo. Un mondo instabile. Un mondo in cui tutti
gli ideali che da sempre hanno dato un senso alla vita dell’umanità
sembrano sbriciolarsi, come un muro che diventa polvere allo scoppio di un ordigno.
E su ciò che il terrorismo fa leva, inducendoci al panico.
E ci vuole costringere ad abbandonare la nostra cultura, la nostra
personalità, la nostra identità.
Che giustificazione può essere data all’allagante violenza quotidiana
e alla crudeltà di molti eventi? Cos’è in grado di giustificare le morti,
le violenze, i sequestri, gli attentati, fiumi di morte e di tristezza?
A volte i terroristi agiscono perché esasperati da un paese che li soggioga, oppure perché il loro governo non reagisce alle ingiustizie, ma
ciò non motiva il loro odio. Infatti non si possono colpire i civili, gli
innocenti. Loro non possono pagare il prezzo di errori commessi da
altri.
Nemmeno il credo, sia esso politico o religioso, legittima le loro
barbarie. Quale Dio chiederebbe al proprio popolo di sterminare coloro che non seguono i suoi insegnamenti e i suoi precetti? Quale
politica civile riterrebbe necessario lo spargimento di sangue innocente?
Il mondo non ci reputa in grado di comprendere i fatti che accadono
ogni giorno, e non ci ritiene nemmeno capaci di poter distinguere il
bene dal male.
Anche noi stiamo iniziando a renderci conto della realtà.
La verità è che abbiamo paura, paura di un mondo che leggevamo
solo sui libri di storia e che ora è diventato una realtà quotidiana,
con cui ci misuriamo ogni qual volta seguiamo un telegiornale o leggiamo un quotidiano.
Continuamente sentiamo le autorità politiche dire che il futuro è
nelle mani di noi giovani, ma che “domani” ci aspetta se proprio esse
lo stanno distruggendo?
Ma noi, pur se sviati da una miriade di notizie di morte e distruzione, riusciamo ancora a vedere un futuro migliore.
Questo futuro non verrà da sé. Dobbiamo predisporre le condizioni
per esso.
Proprio per questo siamo chiamati ad una scelta.
88
Ignorare il Terrorismo? Credere che sia lontano? Credere che non
sia reale? Possiamo farlo. Ma così faremmo il suo gioco.
Schierarci per la Pace? Credere che il Terrorismo sia presente e che,
se non proviamo a fermarlo ora, diventerà un futuro imminente?
Possiamo fare anche questo.
Possiamo far valere la nostra idea.
Possiamo fare a meno della violenza.
Possiamo gridare con tutta la rabbia che vogliamo.
Possiamo denunciare le ingiustizie, le guerre, il Terrorismo.
Possiamo ingannare il Sistema.
Lo possiamo ingannare, gridando il disagio di vivere nell’angoscia,
l’ira di vedere petrolio che ha un prezzo maggiore del sangue innocente.
La rabbia di vedere miliardi spesi in armi che in pochi secondi potrebbero distruggere mezzo mondo, mentre la gente muore di fame.
Gridiamo il nostro disprezzo per coloro il cui unico pensiero sono i
soldi, e sono disposti a mettere a repentaglio le vite di migliaia di innocenti, lasciando che il Terrorismo si scagli su coloro che non hanno colpa.
Gridiamo contro i governanti che sfruttano il loro potere per scopi
personali.
Dobbiamo gridare in milioni.
Perché milioni sono le vittime innocenti del terrorismo.
Perché milioni sono le guerre inutili che si combattono.
Perché milioni sono i bambini che muoiono a causa della violenza.
Militiamo per la Pace.
Questo è un grido.
Un grido di solo due ragazzi.
Ma se grideremo insieme il nostro disprezzo per la violenza allora il
grido giungerà alle orecchie di tutti, anche alle orecchie di chi non
vuole sentire.
PERCHÈ IL TERRORISMO È REALTA’.
MA LA REALTÀ È PACE.
Non ci sono mai state un buona guerra e una cattiva pace.
Benjamin Franklin
Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti.
M.L. King
La pace è più importante di ogni giustizia; e la pace non fu fatta per amore della giustizia, ma la giustizia per amor della pace.
Martin Lutero 1483-1546, fondatore del movimento protestante
89
La pace ha le sue vittorie non meno celebri di quelle della guerra.
John Milton 1608-1674, poeta inglese
"Dove fanno il deserto, quello chiamano pace".
Tacito 54-150, storico latino
Combattere e vincere cento battaglie non è prova di suprema eccellenza; la suprema bravura consiste nel piegare la resistenza del nemico senza combattere.
Sun Tzu, stratega cinese vissuto 2500 anni fa
"Quando parli di un nemico, non dimenticare mai che forse un giorno
diventerai suo amico."
Periandro"
Migliore e più sicura è una pace certa di una vittoria solo sperata".
Annibale
Pace non è solamente l’opposto di guerra, non è soltanto intermezzo
temporale tra le due guerre: pace è molto di più, pace è la legge degli esseri umani, pace è quando si agisce nel modo giusto, pace è quando regna la giustizia tra tutti gli uomini
Detto Irochese
Nobody gives a fuck.
4000 hungry children leave us per hour,
from starvation,
while billions spent on bombs,
create death showers.
BOOM, BOOM, BOOM, BOOM,
Every time you drop the bomb,
You kill the god your child has born.
Why...must we...kill our own kind...
Nessuno se ne frega
4000 bambini affamati muoiono ogni ora,
per la fame,
mentre miliardi vengono spesi sulle bombe,
creando docce di morte
Boom, boom, boom, boom
tutte le volte che lanci la bomba,
tu uccidi il dio da cui tuo figlio è nato
perchè noi dobbiamo uccidere
la nostra razza?
System of a Down
90
Tutti i popoli sono per la pace, nessun governo lo è
Paul Leautaud, scrittore francese
O l’umanità distruggerà gli armamenti o gli armamenti distruggeranno
l’umanità
Gandhi
II classificato
di Angelica Bezzicari classe 4ª Economico B
Il terrorismo è sicuramente una delle più pericolose minacce alla sicurezza di ognuno di noi; ormai viviamo in un clima di incertezza, e pensando alle stragi di New York, Madrid o Beslan si ha il presentimento
che in realtà nessun luogo di questo mondo sia davvero sicuro.
Purtroppo si sta diffondendo sempre più l’idea che il terrorismo sia solo
di matrice arabo-islamica, mai ci si interroga su quello di altre nazionalità. Perché?
La propaganda politica ha diviso il mondo in due parti: l’Islam terrorista e il civilizzato e moderno mondo occidentale. Analogamente al periodo della guerra fredda, si sono creati due poli opposti, di “buoni” e
“cattivi”. La minaccia sovietica era sfruttata solo per l’opinione pubblica, ora quella terroristica viene sfruttata per giustificare guerre in paesi
già martoriati da anni di scontri bellici per scopi meramente politicoeconomici.
A cosa è servito il progresso tecnologico e scientifico, se continuiamo a
voler risolvere le controversie fra stati come 1000, 2000 anni fa, ovvero
con le armi e la violenza?
Fortunatamente una parte dell’umanità rifiuta questa logica di morte,
ha capito che la guerra non è solo crudele, ma decisamente inutile.
Infatti, essa è stata giustificata e assolta dai suoi fautori in quanto considerata “preventiva”. Perché allora non ha prevenuto l’attentato di Beslan o quello di Madrid?
Per capirlo bisogna innanzitutto esaminare questo fenomeno denominato “terrorismo”.
Esso è una concezione di lotta politica che fa uso della violenza, per
sconvolgere gli equilibri esistenti e seminare la paura fra gli individui.
Non è nato quando sono state colpite le torri gemelle, anche se molti
sembrano pensarla così; non viene alla luce per pura casualità, ma solitamente è sempre appoggiato da uno stato per soddisfare le richieste di
una potente élite.
Per esempio, il terrorismo palestinese e islamico è ufficialmente riconosciuto da tutti, ma lo stesso non si può dire di quello israeliano, che la
91
maggior parte delle volte sembra passi sotto silenzio e venga giustificato
come mezzo di “autodifesa” del popolo israeliano.
Israele è senza dubbio uno stato terrorista, questo è sotto gli occhi della
collettività; perché Bush non lo ha ancora bombardato e non ha fatto
prigioniero Sharon? Forse il motivo sta nel fatto che egli è un suo alleato politico e farlo non gli sarebbe certo d’aiuto per raggiungere i fini
della sua politica imperialista.
Esistono anche altri tipi di terrorismo: come ritenete che si senta una
donna irachena nel vedersi distruggere la propria casa, la propria famiglia e la propria terra da un bombardamento?
Davanti a simili avvenimenti si potrebbe pensare che manifestare il
proprio dissenso non serva a nulla; ciò è però errato, infatti questo è il
primo passo da fare per evitare che un silenzio sia scambiato per tacita
approvazione o indifferenza.
Del resto, non ci si può limitare ad una semplice mobilitazione morale
contro la guerra, ma è necessario concretizzare l’ideale. Il Pacifismo non
è codardia, non significa chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie o
nascondersi dietro una bandiera colorata.
Pacifismo significa principalmente rifiuto della violenza, sia essa fisica o
psicologica, come mezzo per perseguire i propri scopi, in quanto essa,
quando sembra produrre il bene, è un bene temporaneo, mentre il male
che fa è permanente.
La violenza va contro la natura dell’uomo perché è immorale sotto ogni
punto di vista, e non produce altro che sofferenza.
Il movimento pacifista ha armi ben più eque: la solidarietà, il rispetto
del prossimo, delle diversità culturali; ma anche la non-collaborazione,
la diplomazia e il dialogo; non meno importante, lo smascheramento
delle falsità che ai politici piace raccontare, perché solo attraverso la verità si potrà raggiungere la pace.
Gandhi e M.L. King ci hanno dimostrato come si possano ottenere diritti senza usare le armi e che non si può raggiungere la verità attraverso la menzogna, l’amore attraverso l’odio.
La pace può apparire solo come un’utopia, ma il fondamento per farla
diventare realtà è smettere di ragionare da italiani, americani, occidentali, ma semplicemente come esseri umani.
È difficile, e proprio per questo è necessaria la collaborazione di tutti,
ogni singolo è necessario. Un soldato può disertare, un operaio può rifiutarsi di produrre proiettili o bombe.
Ma per giungere a ciò occorre acquisire la consapevolezza dell’atrocità
di una guerra; per quanto l’obbiettivo di essa sia nobile, non potrà mai
essere raggiunto con mezzi ingiusti.
La pace inoltre dobbiamo crearla intorno a noi, ma soprattutto dentro
noi stessi. Solo così potremo eliminare quel senso di impotenza che
penso sia comune a molti, soprattutto ai giovani.
92
Forse questi sembreranno solo sogni adolescenziali che hanno avuto
tutti, prima di cadere, da adulti, nel baratro del qualunquismo e
dell’indifferenza, o del proprio tornaconto personale.
Qualcosa però sta lentamente cambiando e molti si sono accorti che il
conflitto armato non risolverà il problema del terrorismo, così come
non lo farà un vacuo lassismo: occorre intervenire, ma non servendosi
di mezzi inumani e crudeli quali una guerra.
III classificato
di Fabio Bombini classe 5ª Scientifico B
Ultimamente faccio sempre più fatica nel decidere tra ridere o piangere
di fronte al mondo.
In questo periodo di scuola, iniziato come sempre con una brusca accelerazione di impegno rispetto all’estate, mi sono immerso particolarmente volentieri nello studio dei nostri cari filosofi ottocenteschi, considerati ormai non solo polverosi nelle opere, ma anche nelle menti.
Ebbene, nel caso non lo sappiate, alcune di queste teste ormai bicentenarie cercarono di allontanarsi da metafisiche opprimenti e dogmatiche,
accompagnati sempre da innumerevoli idee di libertà ed emancipazione,
per rompere le catene dell’uomo forgiate dalle sue stesse pericolose ed
inutili costrizioni.
Masso dopo masso, l’umanità ha eretto il suo saldo castello, assicurandosi sempre di mantenere lassù in alto quell’unica finestrina, quello
scorcio appena distinguibile che dava verso le nuvole.
Ma il cielo, non sempre sereno, offuscato a seconda delle occasioni,
convinceva poco alcuni e schifava addirittura altri. Così, spinti dalla curiosità, questi hanno iniziato a graffiare, fendere ed infine ad abbattere
la scura parete spessa e ammuffita.
Finalmente fuori.
Cosa trovarono? Altro cielo, prima di tutto; simile, ma forse ancora più
inconcepibile del precedente. Altre vite. Sembravano esseri somiglianti
a loro in qualche aspetto, ma in modo incontestabilmente inferiore. Animali.
Voltandosi di scatto non potevano non sfogarsi in una grassa risata. La
loro fortezza, così sicura e vera, ora non era che una scura forma priva
di significato che, anzi, oscurava parte dell’orizzonte.
Questi morirono inesorabilmente, sperando che qualcun altro portasse
avanti la loro impresa.
Che dire? 2004. Non siamo certo al livello di “2001, Odissea nello spazio” di quel buon regista. Penso proprio che debba essere triste per un
astronauta il quale, dopo anni e anni di sacrifici e addestramenti, si stac-
93
ca dal suo pianeta e, voltandosi nella sua navicella, osserverà gli oceani
brillare, le nubi vagare e gli uomini combattere.
2004 e l’uomo cerca di raggiungere Marte, perlomeno con sonde e robottini miliardari.
2004 e l’uomo si uccide. Per cosa? Denaro, potere, imperialismo, teocrazie, oligarchie.
Discorso scontato direte, è sempre stato così! Bene, allora è inutile parlare di pace, è inutile condannare il terrorismo, basterebbe continuare a
vivere difendendosi quando serve, fino a che morte non ci separi. Per
quanto mi riguarda, quest’idea è stata portata avanti parecchio, soprattutto nell’ultimo secolo. Se qualcosa è migliorato o cambiato è proprio
grazie a tutti quelli che la pensavano diversamente, sia nel bene che purtroppo anche nel male.
Non scrivo ora per affiancarmi a quel pacifismo o a quel buonismo che
spesso incontro o sento, ma voglio disincantarmi e disincantare, per
quanto mi sarà possibile, chiunque stia leggendo.
Non si può parlare di pace rivolgendosi sempre a terzi, se vogliamo
cambiare qualcosa dobbiamo essere pronti a farlo e ad affrontarlo.
Spero che tutti, bene o male, si siano accorti di vivere in un paradiso
terrestre rispetto al resto del mondo (il quale, non rassicuratevi, è molto più della metà), paradiso che, prima che umano, è senz’altro economico. La cara borghesia ottocentesca si è ben preoccupata di proteggersi
con un piano che sembrerebbe durare a lungo termine. Il neocapitalismo odierno sviscera ben bene i suoi tentacoli ogni singolo giorno per
preservarsi, ma ultimamente c’è qualcosa che punzecchia in modo fastidioso i nostri grattacieli.
Il terrorismo mondiale, e ancor più la famigerata Guerra Santa dei Musulmani, sono tutt’ora uno dei maggiori attentati alla salvaguardia del
benessere. Questo è quello che preoccupa, in modo ben maggiore rispetto alle vittime di qualsiasi attentato. Prima di giudicare qualsiasi cosa però dovremmo essere realisti nell’attingere le informazioni, base essenziale per ogni critica (costruttiva). Si erge comunque un grosso problema. Cosa sappiamo veramente del mondo e, in particolare, del terrorismo. Da chi lo sappiamo?
Mass media, termine ormai comunissimo che non necessita di spiegazione alcuna.
Qualsiasi discorso riuscissi a fare, si potrebbe basare solamente su quello
che vedo e sento attorno a me quotidianamente, e non mi pare un gran
che. La televisione e i telegiornali sono qualcosa di veramente utile, ma
allo stesso tempo, incredibilmente patetico. I titoli letti con voce emozionata e altisonante spaziano ogni giorno dalla guerra (rigorosamente
quella irachena) ai problemi di politica italiana e cronaca, per finire con
pochissima informazione culturale o scientifica, spazio ormai trascurato
da riservarsi ai nostri amiconi del Grande Fratello o ai beneamati per-
94
sonaggi di qualche altra ”vita in diretta”. Non oso poi proferire troppi
giudizi sul fine settimana, completamente dedicato allo svago, che riesce
sempre e comunque a cadere sul demenziale o inutile (la benaugurata
Domenica del signor M.C. Show).
Scusate se mi dilungo su queste affermazioni apparentemente svianti; al
contrario, le riflessioni di questo giovane sammarinese vertono su tutto
ciò esattamente perché è proprio questo il problema. Se si vuol meglio
dire, io sto cercando il male alla radice.
Noi tutti “occidentali” (termine assolutamente improprio ma ormai
consolidato) ci prodighiamo sempre più spesso nel discutere di attualità.
C’è chi condanna Al Qaeda per gli attentati barbari, c’è chi scortica a
parole Bush, e c’è chi, fumando e bevendo il suo bicchiere di rosso dice
calmo: “Vedremo”.
Con dolore mi accorgo che in quel vino potrebbe esserci molto più sangue di quel che crediamo, di ogni nazionalità.
Oggi milioni di persone muoiono per l’ignoranza e l’ignavia dell’uomo
nei confronti dell’umanità. Ecco che cos’è la guerra. Le nostre menti
plasmate dalle false informazioni, le povere vite dei mediorientali guidate unicamente dalla cieca fede religiosa. Già, la cara religione che citavo
in apertura. Non tanto come una speranza, una risposta alle domande
più profonde dell’uomo, ma strumento infallibile di soggezione e controllo. Gli intoccabili sovrani del petrolio subdesertico rientrano senza
troppe difficoltà tra i più grandi magnati di questo pianeta, e se avete in
mente come si comporta Zio Paperone, costoro ne sono degni emulatori. Attorno ai loro castelli di vetro e cemento (che riescono a sostentarsi
anche nel bel mezzo dei deserti, e non chiediamoci come, lo sappiamo)
bambini disgraziati, vecchi cadenti e mariti imbronciati fanno da contorno alle povere donne imburkate, simbolo del dolore in questo nuovo
millennio che bene non comincia (sottolineo povere nella comune accezione e non per il burka). Chiunque venga intervistato dai reporter in
prima linea si dispera e si affida ad Allah affinché li liberi dagli invasori
assassini. Gli stessi assassini che trafficano senza dircelo con gli sceicchi
la cui opulenza più che eccessiva provoca quantomeno disgusto. Disgusto poiché appare chiaramente che i loro soldi sono sottratti alla società
di cui sono a capo, quindi alle persone descritte poco fa.
Ecco, di fronte a questo, quando tutto l’occidente parla di terrorismo,
libertà e democrazia, in quei paesi la gente non ha neanche la possibilità
di concepire queste cose e si affida a Dio, mentre i loro sovrani, ben felici di ciò, incitano ancor più la fede.
Se vogliamo quindi parlare di pace è di vitale importanza capire che sotto le guerre e il terrorismo ci sono sempre fattori enormi da considerare. Non è possibile eliminare questa nuova minaccia con maggiori controlli polizieschi, né tanto meno con ridicole guerre preventive o, ancor
più esilarante, di liberazione. Agendo in questo modo, così prettamente
95
materiale, non si fa altro che rimandare il tutto; è come se un anziano
signore, nella sua dignitosa capanna, è costretto, ad ogni pioggia, a sistemare dei secchi in corrispondenza con le perdite del tetto. Se resta
ancorato alle sue posizioni, se non si mette in discussione e incomincia
ad agire sul serio, per esempio riparando il tetto, continuerà a sfacchinare invano, e magari un giorno la situazione potrà peggiorare, allora non
ci sarà più rimedio se non bagnarsi.
Lungi dall’affermare che l’islamismo sia una calamità da sopprimere,
sebbene io non lo comprenda, soprattutto per mia ignoranza, volevo
stuzzicare la fiacchezza della nostra società, così sicura di possedere il
meglio da volerlo senza meno donare generosamente a tutti. Perché è
questo che è stato fatto in Iraq, ed è “moderno” autonomo e laico,
quando la vecchia Europa ha impiegato secoli? Non voglio avanzare analisi socio politiche, ma mi sembro abbastanza sveglio da non poter
accettare questo ragionamento.
Se quindi questa impossibilità è più che ovvia, non credo possa essere
stata presa in considerazione per un piano di liberazione. Allora (prendetelo come un piccolo sfogo) le motivazioni sono ben diverse. Qui non
c’è alcuna volontà di porre fine alla situazione. Se queste imprese fossero stimolate da tensioni umanitarie allora si sarebbe potuto intervenire
durante questo secolo, il precedente e ancora oggi, anche in qualche altro stato dell’Africa più propriamente detta, ma a nessuno interessano i
lebbrosi e gli autoimmunodeficenti. In Afghanistan ora fa la sua bella figura il nuovo presidente democraticamente eletto, che si è saputo essere
in strette relazioni con capitali e compagnie petrolifere guarda caso statunitensi. Dell’Iraq non si fa altro che parlare degli enormi giacimenti di
greggio. Non è che siano proprio questi i richiami per i pii Cespugli
all’altro capo del mondo, proprio questo che faccia lacrimare i loro cuori?
Eccola qui la motivazione profonda: l’interesse economico, il nostro caro dio denaro.
Cerchiamo di chiudere il cerchio.
Ho sparlato violentemente della situazione mondiale nel modo in cui
potrebbe averlo fatto qualsiasi altro studente diciottenne in un momento di frustrazione di fronte alla cattiveria umana. Non ritengo necessario andare a ritoccare le mie impressioni, le lascio crudamente al giudizio di tutti. Spero anzi di essere criticato per creare un dialogo, perché
altrimenti significherebbe che siamo veramente adagiati su valori vani.
Anche i romani, gli stoici si lamentavano (più che altro con le parole) di
fronte alla decadenza dei loro concittadini. Anch’io allora alzo la mia
daga e declamo a squarciagola la mia impressione, sperando di non ferire invano.
96
Ritengo che tutte le guerre siano guerre civili, perché gli uomini sono
tutti fratelli (non ricordo di chi sia questa frase, ma ne rendo il giusto
merito).
La pace non si attua nel momento di assenza dalle guerre, ma si costruisce tra le persone. Non è un equilibrare le forze contrastanti. Il mondo
è in guerra perché persistono ingiustizie e disuguaglianze, e nemmeno
queste sono superabili con le armi. Come si fa dunque a creare un dialogo costruttivo se gli interessi non riguardano la pace né tanto meno
l’uomo?
Fino a che saremo spinti dal richiamo del denaro, del successo e del potere, non potremo intromettere come fine la convivenza pacifica. Questa sarà sempre d’intralcio ai nostri scopi. Non si potranno nemmeno
pensare soluzioni “giuste” a queste guerre se scatenate per interessi effimeri e portate avanti verso questi.
Non voglio ora imporre, ma neanche pronunciare una qualsiasi soluzione, poiché se esiste è dentro ognuno di noi. La pace non funzionerà
mai come un comandamento da imporre, ma da desiderare, innanzitutto dal pensiero, prima di qualsiasi parola o azione. Un atteggiamento
verso il mondo che non porta altro che aspetti positivi; mi raccomando,
non parliamo di bene o di male perché sono altre cose. Allora è qui che
voglio arrivare, lanciare una sfida. Provare a levarci gli elmetti e le pistole anche nella vita quotidiana, così tanto più saremo pronti a fare quando veramente sarà opportuno farne a meno. Tanto più è dannosa
l’ipocrisia di affermare che siamo già giunti a questo traguardo. Purtroppo non penso che ci sarà un arrivo, ma sicuramente un continuo
cammino. Non nascondiamoci quindi dietro bandiere arcobaleno per
dimostrare tutto ciò. Se davvero lo desideriamo non v’è motivo di osannarle.
La mia riflessione è ormai agli sgoccioli, penso di essermi strizzato per
bene e di aver rinfrescato quanti più animi possibile. Mi duole pormi in
questo modo, come fossi un santone o un salvatore, ma per chi è in cerca di prediche melense il mio indirizzo è sbagliato. Spero di aver raggiunto il mio intento sensibilizzatore, quello solamente.
Sorrido ora rileggendo il tutto. Pronto a chissà quali dichiarazioni mi
rendo conto ora di non aver espresso che una piccola percentuale di ciò
che sento, ma non voglio sicuramente tediarvi oltre. La mia non è altro
che una riflessione scaturita da tutto ciò che mi circonda e con cui sono
venuto in contatto. Spero che riesca a completarsi con i pensieri di ognuno per andare sempre più avanti, verso quello che noi tutti ormai
comprendiamo quando diciamo “meglio”. Grazie
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Sicurezza Sociale: un diritto o un dovere?
I Classificato
di Marco Mularoni classe 3ª Scientifico B
Come in altri paesi, anche nella Repubblica di San Marino fin dal medioevo nacquero istituzioni benefiche a favore di miseri e bisognosi.
Nell’Archivio di Stato si conservano testimonianze di “Pie Confraternite” risalenti al XIV Secolo, che operavano da ricovero per mendicanti e
forestieri. Al 1300 risalgono anche le notizie dei primi “Spedali”, strutture capaci di soccorrere e prestare aiuti primari ai più bisognosi.
Diversa genesi ebbe l’Ospedale della Misericordia: dalla fusione fra la
Confraternita di Carità e la Compagnia del Gonfalone, i cui soci dovevano essere costumati cittadini esenti dai vizi della bestemmia e del gioco, nacque un primo nucleo ospedaliero situato nelle case fra la porta
San Francesco e il Teatro Titano.
In seguito a una permuta l’ospedale si trasferì vicino le mura della Fratta, nelle case Giangi, e fu ampliato fino a raggiungere nel 1941 gli attuali
forma ed estensione. Successivamente si trasferì a Cailungo e lo stabile
fu occupato dalla Scuola Secondaria Superiore.
Antenata dell’Istituto di Sicurezza Sociale fu senza dubbio la Società
Unione, nata dalle menti di un gruppo di ragazzi cittadini e borghigiani,
autotassati di 10 centesimi di Lira ogni settimana a scopo puramente ludico e ricreativo.
Ben presto, però, si evolse in Società Unione e Muto Soccorso, arricchendosi di contenuti sociali: fra le emanazioni di questa società sono
infatti la Cassa di Risparmio, il Fondo Pensionistico e tante altre delle
quali sarebbe troppo dispersivo parlare ora.
L’Istituto di Sicurezza Sociale fu proposto a San Marino per la prima
volta con una legge del 9 marzo 1950. Approvato fu poi perfezionato
nel 1955, esattamente 50 anni fa.
L’I.S.S. si occupa dei farmaci e delle prestazioni ospedaliere e specialistiche, ma anche delle pensioni e della Cassa Integrazione; insomma di tutto quello che concerne la qualità della vita dei cittadini, rendendo la Sicurezza Sociale Sammarinese una delle migliori al mondo, grazie
all’interezza del suo operato.
Infatti, se andiamo a paragonare il nostro sistema sanitario con quello di
altri paesi il risultato è sbalorditivo: per esempio negli Stati Uniti
d’America, dove pur la medicina è avanzatissima, lo Stato non contribuisce che in minima parte nemmeno alle cure più necessarie.
Oppure, un altro esempio, ci sono Stati che garantiscono gli aiuti di base gratuitamente a tutti, ma anche qui il livello non si avvicina minimamente a quello della realtà sammarinese.
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Purtroppo però ci sono paesi che la Sicurezza Sociale non sanno neanche che cosa sia, popoli costretti a vivere alla giornata, timorosi di ciò
che li aspetta in un futuro anche molto prossimo.
Eppure un uomo che nasce, lavora e vive in un paese, quindi contribuisce in maniera più o meno significativa alla prosperità dello stesso, ha il
diritto di essere seguito ed aiutato quando ormai è troppo vecchio o malato per continuare ad offrire i propri servigi.
Vista dall’altra parte dello specchio, lo Stato ha il dovere di garantire assistenza a chi ne necessita, chiaramente in proporzione anche alla propria condizione economica.
Se, come sembra, mantenere un sistema di sicurezza sociale come quello
sammarinese è così oneroso, in futuro bisognerà adottare qualche cambiamento, senz’altro a livello gestionale, ma cercando di mantenere intatti i servizi che oggi ci tutelano.
In qualità di giovane sammarinese, mi auguro infatti che, come io ho
goduto e sto godendo delle opere di un ottimo Istituto di Sicurezza Sociale, anche i miei figli e nipoti possano vivere nella tranquillità di non
essere abbandonati nel momento del bisogno.
Mi piacerebbe inoltre estendere questo desiderio anche alle persone e alle popolazioni che ancora oggi non hanno questa fortuna; cosa che ai
nostri occhi sembra quasi impossibile, ma che purtroppo è più grave di
quello che si possa immaginare.
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DIARIO DI VIAGGIO
a cura di Meris Monti
Sorrento, mercoledì 11 maggio 2005
Giornata faticosa ed emozionante! Qualche breve nota prima di dormire devo però appuntarla, altrimenti temo di perdere la freschezza delle
impressioni di questa prima tappa del viaggio.
La partenza, forse anche a causa del risveglio alquanto mattiniero, non
prometteva niente di buono: pioggia e nebbia come in una tipica mattinata di marzo, ma inaspettate a metà maggio!
La tensione si è allentata appena siamo saliti tutti sul pullman, scherzando sulla nostra solita sfortuna durante le gite scolastiche.
Nel corso del viaggio abbiamo avuto "solo" un piccolo imprevisto,
una sosta forzata nei pressi di Grottammare per riparare una gomma
forata. Il piccolo ritardo non ha comunque alterato in maniera significativa la nostra rigorosa tabella di marcia che prevede quattro giorni di
escursioni archeologiche tra le rovine delle città di Ercolano, Pompei,
Paestum e Velia-Elea.
Premetto che queste visite sono per me un’esperienza totalmente nuova: per la prima volta sto scoprendo quei tesori dell’archeologia grecoromana studiati per anni con l’ausilio delle immagini stampate nei libri.
Finalmente dopo la logorante odissea di svariate ore di pullman, siamo
arrivati alla sospirata meta.
Il viaggio di istruzione in Campania rientra nel percorso di uscite di indirizzo che la
nostra scuola propone agli allievi del terzo anno del Liceo Classico.
Nell’anno scolastico 2004-05 il programma e l’organizzazione di questa attività didattica sono stati curati dalle Insegnanti Meris Monti e Rosanna Sciutti con il supporto e
la collaborazione della Presidenza e della Segreteria della Scuola Secondaria Superiore.
Il testo, per rispettare la struttura narrativa tipica del diario, è scritto in prima persona ma è in realtà frutto del lavoro collettivo degli allievi della classe 3C: Marinella
Broccoli, Stephanie Casali, Alessandro Ercolani, Gea Gasperoni, Bojana Gruska, Carolina Mazza, Luca Pelliccioni, Martina Ricci, Monica Sarti, Daniele Simoncini, Lucia
Stefanelli.
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“Benvenuti ad Ercolano, antichissima città di origine pre-romana, al pari
di Pompei andata distrutta nel 79 d.C. a causa della famosa eruzione vulcanica del Vesuvio.” Così recitava un cartello posto all’entrata degli
scavi archeologici. Eravamo tutti abbastanza provati e ben consapevoli
che il mare e la spiaggia erano a due passi, ma la nostra sete di sapere
(unita, diciamolo, al desiderio di fare sfoggio delle sconfinate conoscenze acquisite per svolgere a turno il ruolo di guide dei diversi siti) ci
imponeva l’entrata nell’antica città.
Ero veramente emozionata: dopo aver sentito parlare così tanto di quel
luogo, avevo la possibilità di vederlo!
Oltrepassato il cancello della recinzione mi sono trovata affacciata sulla storia: davanti a me un passaggio sopraelevato permetteva ai visitatori di accedere alle rovine della città dissepolta: case smembrate, paesaggio grigio, assenza di vegetazione. Alle narici arrivava odore di cenere mista a polvere, ma forse questa era solo immaginazione…
Il passo rallentava e la contemplazione spegneva le parole. Mi sono
immersa tra decadenza e morte: si intuiva come il filo della vita si fosse
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spezzato inaspettatamente, come un abituale e vivace giorno di vita
cittadina fosse stato soffocato in un lasso di tempo tanto breve.
Dall'entrata si scorgevano in basso file di case rimaste senza i loro
tetti, strade quasi perfettamente conservate, fondamenta di templi.
E' stato impressionante vedere il dislivello tra la città riemersa dagli
scavi e la montagna di detriti che duemila anni fa l'aveva completamente coperta, pensare a che cosa aveva provato la popolazione in
quegli istanti di totale impotenza contro la forza della natura. Un arco
incorniciava la strada e la città: da lì 26 metri di fango e tufo misti a
cenere e acqua bollente si riversarono sulle costruzioni di Ercolano.
Una parete, oggi di terra durissima, ci ricorda ciò che un tempo immobilizzò la città.
Il grado della cura degli scavi è molto basso: non ci sono teche per le
suppellettili, non hanno applicato vetri protettivi per mosaici e pitture. L’Italia, nel mondo, è uno scrigno ricco di tesori, forse ce ne sono
troppi e non si è più spinti dall’interesse necessario per valorizzarli
tutti…
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La città deve il suo nome all’eroe della mitologia greca Ercole, anche se
da un punto di vista storico Ercolano è di fondazione etrusca e successivamente sannitica; solo nell’ultima fase è passata sotto il dominio
dell’Impero Romano, del quale ancora conserva alcune caratteristiche
peculiari. Quella che per prima ci è saltata all’occhio è l’organizzazione
urbanistica della pianta a scacchiera, formata dall’incrocio ad angolo
retto di cinque cardi in direzione nord-sud e tre decumani in direzione
est-ovest.
Nel periodo in cui Herculaneum era sotto il dominio di Roma, la città
era località privilegiata di villeggiatura per famiglie gentilizie, che sceglievano questo sito per la salubrità dell’aria, per la tranquillità del
luogo e per la fertilità del suolo, in quanto terra vulcanica adatta
all’agricoltura.
Nonostante fosse solamente un terzo della vicina città di Pompei, Ercolano dispone di grandissime risorse storico-culturali divise fra abitazioni
gentilizie e insulari.
All’interno di queste possiamo ancora oggi trovare pregevoli segni artistici quali affreschi e mosaici, testimonianza del gusto di un popolo che
ha fatto storia.
Ciascuna domus presentava qualche peculiarità interessante ma noi ci
siamo soffermati in particolare nella Casa dei Cervi e nella Casa
dell’atrio a mosaico. Queste abitazioni presentano caratteristiche comuni come la scelta del II° stile nelle decorazioni parietali , caratterizzato da colori intensi e finte strutture architettoniche, che dovevano
dare un’idea di profondità.
Visitando le case ci è sembrato di rivivere una giornata tipicamente
romana, abbiamo passeggiato sotto portici, colonnati adiacenti a giardini e immaginato litri d’acqua dentro gli impluvia di marmo (dove ci
saremmo probabilmente tuffati, vista la temperatura! Peccato fossero
vuoti!) Abbiamo cercato riparo nei cubicula, le stanze da letto di tutte
le dimensioni, rigorosamente senza finestre. Sorprendenti le ridotte
dimensioni di porte e passaggi, forse alcune di noi sarebbero apparse
persino alte all’epoca…
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Percorrendo le strade abbiamo sostato presso gli antichi thermopolia
che dissetarono molti cittadini con bevande conservate in contenitori
di terracotta immersi in strutture che diminuivano la dispersione del
calore.
Particolarmente interessanti le terme, perfettamente conservate.
La giornata è proseguita zigzagando tra i cardi e i decumani, sotto un
sole cocente, e devo ammettere che il nostro smodato amore per
l’archeologia ha dovuto misurarsi con il bisogno impellente di trovare
un po’ d’acqua e un fazzoletto d’ombra dove poterci ristorare.
All’uscita dagli scavi la nostra sete di sapere era stata soddisfatta… purtroppo solo quella.
L’aria condizionata del nostro confortevole, piccolo pullman ci aveva
appena risollevato quando abbiamo appreso che la nostra odissea non
era finita e non potevamo ancora approdare al nostro albergo-Itaca poiché dovevamo percorrere un cospicuo tratto della costiera sorrentina,
la Scilla e Cariddi del traffico campano. L’ora di cena era passata da un
pezzo quando abbiamo finalmente preso possesso delle nostre stanze
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nel grazioso Hotel Gardenia. Una doccia veloce e poi via, ad esplorare
Sorrento per trovare una cena che concludesse degnamente questa prima tappa del nostro viaggio. La pizza a metro è stata veramente ‘epica’!
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Sorrento, giovedì 12 maggio 2005
Stamani, dopo una sostanziosa colazione (i dolci del buffet facevano
onore alla tradizione della pasticceria campana!), siamo di nuovo rientrati nel pullman, ormai nostro indispensabile compagno di viaggio.
Oggi abbiamo visitato Pompei. A mio parere è l’antitesi di Ercolano:
più conosciuta, più visitata, meglio conservata, meno poetica. Se Ercolano mi ha suscitato imprevisti ed inconsueti sentimenti, Pompei mi ha
interessato per l’aspetto archeologico: sembra scampata per miracolo
alla forza logoratrice del tempo.
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Questa città rappresenta perfettamente lo spirito romano perché fonde
raffinatezza e praticità: le ampie strade ancora incise dalle ruote dei carri, i tanti thermopolia, le molte botteghe di commercianti che costeggiano i marciapiedi e anche le iscrizioni di tipo politico o satirico sui
muri riescono a testimoniare ancora oggi la vivacità ed il movimento
che animavano questo importante centro commerciale, adatto ad accogliere marinai e viaggiatori di passaggio. Pompei ha un aspetto più
borghese e più aperto dell'angusta Ercolano, dove le piccole case sono
tutte ammassate l'una all'altra..
Sembra impossibile poter definire queste due città “morte", perché attraverso il loro aspetto si può ancora percepire la vita che si svolgeva
per le vie e si possono quasi scorgere gli abitanti affaccendati nelle loro
attività. Una vera e propria folla di visitatori di tutte le età animava le
antiche strade, che si incrociano e creano un reticolato quasi perfetto,
e anche noi, pazientemente, ci siamo sottoposti alle necessarie attese
per poter entrare nei diversi edifici. Uno strano vento caldo sollevava
la polvere e provocava un certo disagio ma contribuiva a ricreare una
atmosfera irreale, da viaggio nel tempo.
Siamo entrati in città dal lato delle palestre, quella sannitica, costituita
da un piccolo cortile rettangolare circondato da un peristilio e quella
grande. Quest’ultima, costruita in età augustea, è formata da un piazzale quadrato, scoperto, circondato da portici, dove erano piantati dei filari di platani (dei quali restano i calchi). La sua collocazione fa pensare
che sia stata edificata per ospitare sia le esercitazioni dei gladiatori, sia le
riunioni delle associazioni giovanili. Vi si compivano parate a piedi e a
cavallo, simulazioni di battaglie, duelli, il lancio del disco, il salto con i
pesi ed esercitazioni a nuoto, visto che la struttura comprendeva una
piscina.
Abbiamo poi costeggiato la parete esterna del grande anfiteatro, il più
antico del mondo romano, e abbiamo imboccato la via dell'Abbondanza, uno dei decumani che attraversava la città da est ad ovest e che collegava nel suo lungo tracciato i maggiori nuclei dell’abitato compresi
fra il Foro e la Porta Sarno, su cui si affacciano anche edifici comuni. In
questa, come nelle altre strade compaiono spesso prototipi di strisce
pedonali: pietre di grosse dimensioni che evitavano l’immersione nella
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melma, che si raccoglieva lungo i lastricati, quando c’era la necessità di
attraversare
Oltre ai thermopolia, simili a quelli di Ercolano, abbiamo individuato il
macello, che era un ampio mercato alimentare, le fullonicae, laboratori
adibiti al lavaggio, alla tintura ed alla stiratura dei panni, le officine, le
osterie, le trattorie e infine i panifici, che si occupavano non solo della
vendita al banco di pane, ma anche di ciambelle e del vino pompeiano,
il Vesuvinum, destinato all’esportazione assieme al garum, una salsa orientale ottenuta dalla fermentazione al sole dell’intestino di alcuni pesci. Devo ammettere che a nessuno di noi è venuto il desiderio di assaggiare quest’ultima specialità!
Continuando il nostro percorso, abbiamo visitato una delle abitazioni
signorili, la Casa del Fauno, celebre perché sulle sue pareti ci sono esempi del primo stile di pittura, detto a incrostazione, che riproduceva
finti blocchi o lastre di marmo colorati. Anche in altri edifici abbiamo
ammirato le splendide pitture parietali: le case sono ornate da figure di
paesaggi, animali e personaggi, cui si aggiunge il largo uso di decorazioni floreali su grandi sfondi rossi e gialli, a volte cangianti (forse per
l’immenso calore prodotto dall’esplosione vulcanica). Migliaia di tesserine, applicate nella maggior parte degli ambienti, creavano splendidi
mosaici.
La presenza dei larari, per la custodia delle statuette degli dei protettori,
fanno presupporre un culto religioso molto radicato e sentito. Molto
suggestivi i calchi delle persone, ormai bloccate da secoli nella stessa posa, alcune stese, altre accucciate, ma tutte ombre immortali degli abitanti di Pompei.
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Con grande disappunto delle insegnanti non siamo riusciti ad entrare
nella casa dei Vettii perché era chiusa per restauro e ci siamo subito diretti verso la Via dei Sepolcri, per raggiungere la Villa dei Misteri,
l’edificio più suggestivo di Pompei. Allontanandoci dal cuore della città
la folla dei visitatori di diradava e abbiamo quindi potuto godere tranquillamente del panorama del golfo di Napoli che si ammira dalla terrazza di questa grande abitazione.
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Veramente suggestivo il fregio con figure in grandezza quasi naturale
con le scene di iniziazione di una fanciulla ai misteri del matrimonio secondo i precetti del culto di Dioniso.
Era ormai ora di pranzo e abbiamo deciso di fare una breve pausa per
acquistare panini e bibite nel self-service interno agli scavi. L’esperienza
non è stata esaltante: qualcuno ha commentato che anche il pane aveva
un aspetto fossile…
Dopo pranzo abbiamo visitato la parte meglio conservata della città
dove si trovano il foro, i templi, le terme e il teatro.
Dall’idea di vita e di vivacità che trasmettono le rovine del foro, si passa a un silenzio sacrale nell’area dei templi, tutti in un discreto stato di
conservazione.
Entrando nelle terme, divise in sezioni maschili e femminili, si comprende chiaramente che erano qualcosa di più e di diverso rispetto ai
nostri bagni: erano un punto di incontro, un luogo per socializzare,
passare il tempo, discutere di affari e l’ingresso era permesso a tutti. La
loro struttura poteva variare, ma le parti fondamentali erano
l’apodyterium, cioè lo spogliatoio, e le sale che prendevano nome dalla
temperatura dell’acqua: il calidarium, il frigidarium, il tepidarium. La
città disponeva di due impianti termali, uno presso il foro e uno, il più
antico, in corrispondenza dell’incrocio tra la Via dell’Abbondanza e la
Via Stabia.
Usciti dalle terme siamo entrati nel grande teatro, che poteva accogliere
circa 5.000 spettatori; lì si svolgevano i ludi scenici, ovvero tragedie,
commedie, farse e pantomimi. migliaia di rappresentazioni. La sua cavea, ancora in buono stato, era uno scenario perfetto per una splendida ed
immancabile foto ricordo e ci siamo messi volentieri in posa prima di
scendere accanto alla scena, dove sono ancora erette quelle che dovevano essere le quinte.
A quel punto eravamo stanchissimi e il clima caldo e umido non ci stava aiutando, abbiamo perciò salutato con una punta di rammarico
Pompei e siamo rientrati a Sorrento per applicare un fondamentale exemplum vitae romanae: la cura del corpo da praticare nella piscina del
nostro albergo, un eccellente surrogato delle antiche terme
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Sorrento, Venerdì 13 Maggio 2005
Oggi abbiamo visto Paestum e Velia.
A Paestum si respira la Grecia, i magnifici templi sembrano quelli di
un'acropoli. Il più bello, il tempio di Nettuno si erge imponente,
sprezzante del tempo e della sua considerevole età. Il travertino di cui è
costruito ha preso una sfumatura rosata, luminosa al sole e invece molto più calda al tramonto. Altri al contrario, come il tempio di Cerere,
hanno mantenuto la tonalità originale, bianca della pietra. Sicuramente
dovevano essere molto affascinanti quando nel quarto secolo a.C. erano
ancora tutti dipinti, decorati dai bassorilievi delle metope e dalle statue
votive all'interno.
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È proprio questo che stupisce nei resti della città greca: il modo in cui i
templi hanno mantenuto intatta la loro imponenza e hanno resistito
agli agenti esterni grazie ai loro materiali e alla grande capacità di chi vi
lavorò.
Anche qui come ad Ercolano e Pompei alcuni di noi hanno parlato della città, descrivendo i monumenti e gli edifici che la caratterizzano.
Ho così imparato che le origini di Paestum risalgono al periodo della
grande colonizzazione dei Greci nell’Italia meridionale, quella che sarebbe diventata la famosa Magna Grecia. Secondo alcune testimonianze
del geografo Strabone, sappiamo che alcuni abitanti di Sibari, avevano
creato un insediamento fortificato nei pressi della foce del fiume Sele.
Altre testimonianze tramandano che i Dori di Sibari, dopo essere stati
scacciati dagli Achei, avevano fondato Poseidonia, che più tardi i Romani chiameranno Paestum. La colonia subì un forte sviluppo favorito
dalla felice ubicazione geografica: si trovava infatti al centro di tutte le
vie commerciali tra le regioni del bacino ionico e quello italico, elemento che contribuì all’ accrescimento della sua ricchezza. Inoltre, quando
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nel 510 a.C. Sibari fu rasa al suolo, la città raggiunse un alto livello di
potenza economica e politica grazie all’arrivo di numerosi Sibariti, fuggiti dalla loro città, che portarono oltre alle loro ricchezze, anche la loro esperienza ed il loro spirito d’intraprendenza. Risalgono infatti a
questo florido periodo le edificazioni della Basilica e dei templi di Poseidone e Cerere e la produzione delle numerose opere d’arte come la
Tomba del tuffatore, unico esempio di affresco di mano greca oggi conservato nel museo di Paestum, che siamo andati a visitare al termine
della mattinata.
Siamo entrati dalla Porta Nord ed il primo edificio che abbiamo incontrato era il Tempio di Cerere, costruito verso la fine del VI secolo, con
una struttura formata da sei colonne frontali e tredici laterali. Una particolarità che lo distingue dagli altri due templi della città è il frontone
che risulta più alto di quelli consuetudinari. Altro elemento che lo caratterizza è il fregio dorico composto da larghi blocchi di calcare ciascuno con due metope ed un incavo per i triglifi. La pianta interna era
composta dal pronao, che aveva otto colonne con capitelli ionici, e dalla cella circondata da semicolonne. Due di questi capitelli sono custoditi nel museo locale e rappresentano l’esempio più antico di stile ionico
rinvenuto in Italia. Il ritrovamento di numerose statuette in terracotta
raffiguranti Atena provano che questo tempio non era dedicato a Cerere, come si ritenne erroneamente, ma ad Atena, come dimostra il fatto
che esso si trova nel punto più alto della città: per questo motivo viene
infatti chiamato anche Athenaion. Di fronte al tempio si ergeva l’altare
sacro di cui oggi è visibile soltanto il basamento.
Proseguendo l’itinerario, abbiamo attraversato la via principale della
città chiamata Via Sacra su cui si affacciano gli edifici più celebri come
l’anfiteatro, la stoà, il ginnasio, la piazza del foro e i templi minori.
Verso la parte terminale della via si trova l’area sacra dedicata alla dea
Era in cui si ergono la Basilica, o tempio di Era, e il tempio di Nettuno.
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La Basilica è il più antico dei templi di Paestum e la sua costruzione risale alla metà del VI secolo a.C. Il nome “basilica” è tutt’ora utilizzato
per nominare questo edificio nonostante sia del tutto inappropriato: infatti gli studiosi che per primi analizzarono il monumento furono tratti
in inganno da alcune caratteristiche strutturali come il numero dispari
delle colonne frontali e la divisione del naos in due navate che fecero
pensare ad una basilica, edificio che, nei tempi antichi, era considerata
la sede di alte magistrature o serviva alla trattazione degli affari e
all’amministrazione della giustizia. In realtà questo monumento era un
tempio dedicato alla Dea Era come dimostrano i ritrovamenti di numerose statuette votive. Il tempio è orientato da ovest verso est ed è formato da nove colonne frontali e diciotto laterali. Il tempio segue lo stile
dorico ma presenta alcune caratteristiche che lo differenziano dagli
schemi classici come il rigonfiamento (entasi) molto pronunciato a metà della colonna, l’echino del capitello dall’altezza ridotta, un numero
dispari di colonne sui fronti e la disposizione degli elementi interni. La
struttura interna era composta dal pronao, diviso dal peristilio da tre
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colonne, e dalla cella con naos diviso in due navate da una fila di sette
colonne e posteriormente concluso da un muro che lo separa dalla camera del tesoro.
L’altro edificio principale dell’area sacra era il tempio di Poseidone, facilmente riconoscibile per la sua austera imponenza, per lo slancio che
le colonne gli danno e per lo stato di conservazione in cui si trova. Anche in questo caso il nome attribuitogli non è del tutto corretto poiché,
in seguito al ritrovamento di numerose statuette di terracotta e altri indizi, pare che esso fosse dedicato ad Era, come tutta l’area che lo circonda. La leggenda vuole infatti che Giasone con gli Argonauti avesse
fondato il santuario presso le foci del Sele, non lontano da qui, dedicandolo alla dea. L’edificio fu costruito verso la metà del V secolo su
una lieve altura ad indicare uno slancio di offerta alla dea. Anche questo
tempio è di stile dorico e orientato da ovest a est. È periptero, poiché
le colonne, rese slanciate ed eleganti da un numero maggiore di scanalature, circondano il peristilio. All’interno, la cella era di forma quadrangolare, divisa in tre navate e chiusa da due muri di cui restano soltanto i
pilastri terminali. Il tempio ha due are: quella più grande è greca ma i
romani la tagliarono e ne costruirono una seconda più piccola per aprire una via fino al foro. La costruzione è dotata di una grande armonia
che dona al tempio unità e solennità.
È praticamente impossibile non rimanere stupefatti di fronte
all’imponenza, alla sontuosità e all’eleganza di certe strutture e credo
che ogni persona che abbia la possibilità di osservare dal vivo le meraviglie di questa città non possa fare a meno di chiedersi come fosse possibile, tanti secoli fa, creare qualcosa di così straordinario.
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Siamo usciti quasi a malincuore dal recinto dell’area archeologica, ma
un inizio di temporale ci ha fatto accelerare il passo, così ci siamo diretti all’interno del museo.
Prima di ripartire ci siamo fermati a pranzare in un bar proprio di
fronte al tempio di Cerere.
Come d’abitudine, il nostro pasto è stato veloce, a base di panini, ma lo
scenario che avevamo davanti agli occhi riusciva (quasi) a compensare
la nostalgia per la pastasciutta.
Nel primo pomeriggio siamo partiti per Velia-Elea. Il viaggio doveva
essere breve, ma l’errata interpretazione di un cartello stradale ci ha
fatto fare una deviazione, peraltro suggestiva, sulle colline prospicienti
il mare.
La meta aveva un interesse filosofico, oltre che archeologico, ma sinceramente non ci aspettavamo tanto da quella visita perché questo sito
non ha certamente la fama di quelli già visitati. Invece la bellezza del
luogo ci ha colpito a tal punto da farci intrattenere un lungo colloquio
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con un esperto locale che abbiamo fortunatamente incontrato
all’ingresso e che si è dimostrato molto disponibile, a nostro parere
perché ha immediatamente scoperto un’incredibile affinità di interessi
con la nostra prof. di filosofia. Egli ci ha spiegato che la città di Velia
(nome latino della città greca di Elea) fu fondata da un gruppo di esuli
di Focea, in Asia Minore: essi, attratti dalla bellezza del luogo, nel 540
a.C. si stabilirono presso una sorgente che consacrarono alla dea Yele,
da cui il nome Elea.
La colonia sorgeva su di un promontorio e la possibilità di avere collina e pianura fu sfruttata al tempo; infatti Velia era organizzata in tre
nuclei: il quartiere meridionale (centro politico), il quartiere settentrionale nelle insenature (in funzione del porto fluviale), infine sul
promontorio l'acropoli (il più antico abitato di Elea).
La vita culturale della città è stata molto intensa; infatti, è stata la sede
della scuola filosofica Eleatica, fondata da Parmenide e Zenone. In epoca romana era famosa per la mitezza del clima ed ospitò personalità
come Orazio e Cicerone.
Le nostre povere gambe già provate dalla dura giornata dovettero salire la ripida collina, per arrivare all’imponente struttura della porta
Rosa, che collegava i quartieri settentrionale e meridionale della colonia; la Porta risale al IV sec a.C. ed è stata la più rilevante scoperta archeologica avvenuta a Velia. Essa, infatti, è l'unico esempio di arco a
tutto sesto della Magna Grecia pervenuto in perfetto stato di conservazione.
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Dopo qualche metro di cammino ci siamo trovati in un ambiente diverso, che sembrava quasi magico; sulla cima dell’acropoli il piccolo
teatro originale è sovrastato da una torre normanna del tredicesimo
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secolo. Qui abbiamo fatto una sosta molto prolungata, poiché il luogo
ispirava pura contemplazione! Il panorama dalla cima dell'acropoli è
bellissimo, sicuramente lo era ancora di più quando una volta al posto
della roccaforte medievale si ergeva un piccolo tempietto di ordine ionico Eravamo tutti estasiati, per un attimo abbiamo creduto di essere
tornati nella Velia di un tempo. Non è difficile immaginare come questo luogo così calmo ed isolato, secoli fa abbia ispirato Parmenide nei
suoi ragionamenti e nelle sue teorie sull'infinità degli atomi.
In questo ambiente si trovava anche il pozzo sacro, che in realtà era un
vero e proprio bothros in cui venivamo gettate le offerte per gli Dei.
Il posto non era molto frequentato, perché la zona non è ancora nota
al turismo di massa, ma noi siamo stati veramente contenti di aver seguito l’indicazione della prof. Sciutti perché Velia si è rivelato una delle mete più appassionanti. E’ proprio vero: lo stupore cresce se non ci
si aspetta niente di emozionante da un luogo.
Anche dopo questa giornata eravamo stremati, ma abbiamo "trovato le
forze" per arrivare nel centro storico di Sorrento dove, dopo aver cenato in una caratteristica trattoria, abbiamo fatto un po' di shopping nei
negozietti, intervallato dalla degustazione di qualche goccia del famoso
limoncello locale.
San Marino, Sabato 14 Maggio 2005
Oggi è stato l’ultimo giorno di viaggio: le cose belle finiscono sempre
troppo in fretta!
La giornata è stata dedicata allo svago, infatti abbiamo preso un traghetto a Sorrento per Capri. Arrivati sull'isola, siamo saliti con la funicolare nel centro.
Capri sembra un'oasi greca, piena di basse case bianche, e ampi attici al
posto dei tetti.
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Dopo aver visto i faraglioni ci siamo dedicati allo shopping e a guardare
le vetrine dei negozi di lusso per i quali l'isola è famosa.
Ma ormai era ora di ripartire, così abbiamo preso l'aliscafo e arrivati a
Napoli siamo saliti sul nostro pullman.
Era già finito tutto e dopo sette ore di viaggio siamo arrivati in una San
Marino nebbiosa, ricordando con nostalgia il sole e il mare di Capri.
Sicuramente questa sarà un'esperienza che non dimenticheremo mai,
bellissima per le città che abbiamo visto, ma soprattutto per l'atmosfera
di unità che durante il viaggio si è creata fra tutti noi.
121
L’ARCHEOLOGIA PER LA SCUOLA: ESPERIENZE DIDATTICHE DELLA SEZIONE ARCHEOLOGICA AL MUSEO DI
STATO DELLA REPUBBLICA DI SAN MARINO (ANNI 20012004)
di Paola Bigi
“Un museo può aiutare la gente
solo se viene usato; la gente lo
userà solo se lo conosce”
J. C. Dane
Il contesto di riferimento
Il 18 marzo 2001, dopo circa vent’anni di chiusura, è stato riaperto al
pubblico il Museo di Stato della Repubblica di San Marino, nella nuova
sede dello storico Palazzo Pergami – Belluzzi.
Il museo, formatosi nella seconda metà dell’Ottocento grazie ad una serie di donazioni di opere d’arte e reperti archeologici, si è progressivamente arricchito di opere provenienti dal territorio sammarinese e di
nuove testimonianze sulla storia più antica del territorio, frutto degli
scavi archeologici degli ultimi anni. Il museo ospita al piano terra le sale
di archeologia sammarinese e al primo piano le sale dell’“Arte per la
Repubblica”; le sale dell’arte e dell’archeologia di donazione sono invece rispettivamente ospitate al secondo piano ed al primo piano sottostante; al secondo piano sottostante si trova infine una sala per le conferenze, utilizzata anche per esposizioni temporanee. Nel museo sono
inoltre presenti un’aula didattica e due depositi per le collezioni.
Il Museo di Stato fa parte dei “Musei di Stato”, che comprendono, oltre
ad esso, la Prima Torre, la Seconda Torre – Museo delle Armi Antiche,
il Palazzo Pubblico, il Museo San Francesco e la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, che non dispone di una sede espositiva permanente ma solo di spazi per mostre temporanee. All’interno dei Musei di Stato sono attivi anche un Centro del Restauro (Sezioni del Restauro Ceramico, Pittorico, del Legno e delle Armi) ed una Sezione di
Filatelia e Numismatica Sammarinese, attualmente priva di una sede
espositiva. I Musei di Stato fanno parte del Dipartimento Pubblica Istruzione e Cultura e comprendono la quasi totalità dei musei statali
123
sammarinesi, eccezion fatta per il Centro Naturalistico Sammarinese ed
il Museo dell’Emigrante-Centro Studi Permanenti sull’Emigrazione,
che sono autonomi e fanno capo rispettivamente al Dipartimento Pubblica Istruzione e Cultura ed al Dipartimento Affari Esteri.
Tutti i musei statali sono gratuiti per i cittadini sammarinesi e per i residenti in Repubblica. Il Museo dell’Emigrante ed il Centro Naturalistico (fino ad ora aperto su prenotazione) sono ad ingresso libero per
tutti i visitatori, come le mostre temporanee organizzate dalla Galleria
d’Arte Moderna e Contemporanea.
San Marino è caratterizzato da un intenso flusso turistico, specialmente
nei mesi primaverili ed estivi.
Il museo “simbolo” della Repubblica di San Marino, la Prima Torre,
nonostante risenta anch’esso della crisi del comparto turistico, registra
un numero estremamente elevato di visitatori all’anno. Pur se in netto
subordine anche la Seconda Torre – Museo delle Armi Antiche ed il
Palazzo Pubblico registrano un buon numero di visitatori. Rispetto a
tali musei il Museo di Stato (ed ancor più il Museo San Francesco, chiuso dal dicembre 2003 per restauro) risulta toccato solo marginalmente
dal flusso turistico (Tabella 1), nonostante gli ingressi siano stati incrementati grazie alla possibilità di acquistare un biglietto cumulativo per
il Palazzo Pubblico ed il Museo di Stato e all’attivazione di altre promozioni.
124
TABELLA 1
NUMERO DEGLI INGRESSI AI MUSEI DI STATO (ANNI 2001-2004)
(dati forniti dai Musei di Stato e dal Centro Elaborazione Dati e Statistica della Repubblica di San Marino)
Musei di Stato: ingressi anno 2001
180.000
160.000
140.000
120.000
100.000
80.000
60.000
40.000
20.000
0
Prima Torre
Seconda
Torre
Palazzo
Pubblico
Museo di
Stato
Museo San
Francesco
Musei di Stato: ingressi anno 2002
180000
160000
140000
120000
100000
80000
60000
40000
20000
0
Prima
Torre
Seconda
Torre
Palazzo
Pubblico
Museo di Museo San
Stato
Francesco
125
Musei di Stato: ingressi anno 2003
140000
120000
100000
80000
60000
40000
20000
0
Prima Torre
Seconda
Torre
Palazzo
Pubblico
Museo di
Stato
Museo San
Francesco
M usei di Stato: ingressi anno 2004
140.000
120.000
100.000
80.000
60.000
40.000
20.000
0
Prima torre Seconda Torre
Palazzo
Pubblico
Museo di Stato
Nel 2001, anno dell’inaugurazione del Museo di Stato, l’afflusso del
pubblico locale è risultato piuttosto considerevole, ma purtroppo non
quantificabile con precisione. Solo a partire dal 2002 sono stati infatti
rilevati gli ingressi gratuiti. Nel 2001 risultano quindi solo gli ingressi a
pagamento al museo, che sono stati 1.892 nel periodo aprile-dicembre.
Negli anni 2002, 2003 e 2004 il museo è stato caratterizzato da un’alta
percentuale di ingressi gratuiti, rispetto al numero complessivo dei visitatori. Nel 2002 su 5.486 ingressi, quelli gratuiti sono stati 1.891, pari al
34% dei visitatori; nel 2003 su 5.333 ingressi, quelli gratuiti sono stati
126
2.369, pari al 44% dei visitatori; nel 2004 su 4.934 ingressi, quelli gratuiti sono stati 1.900 pari al 38,5% dei visitatori.
Comunicare il museo: gli obiettivi e la metodologia
La riapertura del Museo ha coinvolto la Sezione Archeologica dei Musei di Stato, nata fra la fine del 1996 ed il 1997 con lo scopo di avviare
una ricerca archeologica sistematica nella Repubblica di San Marino. La
Sezione Archeologica, che comprende un funzionario (la scrivente) ed
un operatore (il geom. Daniel Pedini), ha curato infatti l’esposizione
dei materiali rinvenuti nei recenti scavi archeologici (anni 1997-2000) e
nove pannelli didattici delle sale del piano terra.
L’apertura della sede espositiva permanente ha inoltre segnato l’inizio
di una nuova fase operativa dei Musei di Stato. Con essa non solo è stata finalmente restituita al pubblico la possibilità di fruire di materiali
per anni ed anni immagazzinati nei depositi, ma anche il personale tecnico scientifico del museo, fra cui anche quello della Sezione Archeologica, ha avuto l’opportunità di intraprendere un progetto sulla comunicazione, con particolare attenzione al pubblico locale e, in special modo, scolastico.
Due sono stati i principali obiettivi che ci si è posti:
Š sviluppare il senso di appartenenza in relazione alla fruizione museale, intesa come mezzo di interazione sociale e di crescita individuale e collettiva, favorendo la percezione del museo come “museo del
territorio”, luogo di condivisione e riflessione della comunità sulle
sue radici storiche;
Š porre il museo come strumento per l’educazione permanente, con
una particolare attenzione per il pubblico scolastico sammarinese.
Nella definizione delle linee progettuali e dell’organizzazione delle attività didattiche sono state seguite due direttrici:
Š la ricerca di informazioni sulle metodologie didattiche e gli aspetti
organizzativi mediante la realizzazione di una bibliografia specifica
sull’argomento e la partecipazione a conferenze e incontri relativi
alla didattica museale con particolare riguardo all’aspetto metodologico;
Š il confronto con altri musei che hanno condotto con successo attività didattiche di archeologia. Sono stati presi e si mantengono con-
127
tatti, acquisendo quando possibile la documentazione prodotta, sia
con istituti limitrofi o con caratteristiche abbastanza affini al Museo
di Stato, sia con musei di maggiori dimensioni, con un più ampio
bacino d’utenza, anche lontani geograficamente o che presentano
collezioni particolarmente ricche e caratterizzanti.
Si è quindi proceduto alla stesura dei singoli progetti didattici (oggetto,
destinatari, durata dell’attività, definizione/analisi degli obiettivi cognitivi, organizzazione dei contenuti, procedure e strumenti da utilizzare,
strumenti di valutazione dei prerequisiti, di valutazione formativa e di
valutazione sommativa).
Ogni attività didattica, della durata complessiva di circa due ore e mezzo, è stata articolata in tre parti. Una breve illustrazione dell’argomento tramite l’utilizzo di diapositive è stata utilizzata per fornire ai
bambini/ragazzi le informazioni di tipo storico e archeologico di inquadramento. Una attività laboratoriale ha consentito ai partecipanti di
sperimentare in prima persona tecniche e metodologie. L’attività al
museo è stata organizzata come “caccia al reperto”, con schede di supporto differenziate per fasce d’età, al fine di favorire il riconoscimento e
l’analisi dei reperti in maniera più divertente e interattiva.
Per valutare il gradimento delle attività e l’acquisizione ed elaborazione delle informazioni da parte dei bambini/ragazzi sono stati tenuti
contatti diretti con gli insegnanti delle scuole sammarinesi e somministrati test di gradimento ai docenti che hanno aderito alle iniziative didattiche di archeologia.
Sono state inoltre quantificate le classi che hanno partecipato alle attività didattiche, anche rispetto al numero complessivo delle classi degli
ordini di scuola cui i progetti erano stati indirizzati (Tabella 2).
128
TABELLA 2
SCUOLE E ALUNNI IN TERRITORIO SAMMARINESE
(dati desunti dal Centro Elaborazione Dati e Statistica della Repubblica di San Marino)
Anno
scolastico
2001/2002
Scuola dell’Infanzia n. sedi 14
n. sezioni 42
n. studenti 1.004
Scuola Elementare
n. scuole 14
n. sezioni 89
n. studenti 1.296
Scuola Media
n. circoscrizioni 3
n. sezioni 54
n. studenti 769
Scuola
Secondaria n. studenti 555
Superiore e Centro
di Formazione Professionale
Anno
scolastico
2002/2003
n. sedi 14
n. sezioni 42
n. studenti 1.070
n. scuole 14
n. sezioni 90
n. studenti 1.343
n. circoscrizioni 3
n. sezioni 54
n. studenti 788
n. studenti 479
Anno
scolastico
2003/2004
n. sedi 14
n. sezioni 42
n. studenti 1.069
n. scuole 14
n. sezioni 89
n. studenti 1.412
n. circoscrizioni 3
n. sezioni 54
n. studenti 794
n. studenti 555
I dati degli ingressi mensili al Museo, forniti dai Musei di Stato, sono
stati preziosi per quantificare l’incidenza del segmento dei visitatori costituito dalle scuole sammarinesi.
Le esperienze didattiche della Sezione Archeologica al Museo di
Stato (anni 2001-2004)
Progettazione delle attività didattiche di una mostra archeologica. Le attività elettive della I Circoscrizione della Scuola Media come “classe pilota” (
aprile 2001)
Nella primavera del 2001, nella fase di realizzazione della mostra archeologica “Domagnano. Dal tesoro alla storia di una comunità in età
romana e gota” (dicembre 2001- ottobre 2002) e di progettazione delle
attività didattiche ad essa collegate, la prof. Aurora Cherubini della I
Circoscrizione della Scuola Media ha richiesto la collaborazione della
Sezione Archeologica per realizzare una serie di incontri
sull’archeologia (l’esperienza è stata descritta dalla prof. Cherubini
nell’Annuario XXVIII della Scuola Secondaria Superiore). Negli incon-
129
tri, svolti durante le ore pomeridiane nell’ambito delle attività elettive,
sono state di fatto sperimentate due delle tre attività di laboratorio previste per la mostra (la simulazione di uno scavo stratigrafico ed il restauro dei materiali ceramici). Ciò ha permesso di valutare tempi, efficacia del materiale didattico approntato, grado di interesse e coinvolgimento dei ragazzi, in modo da apportare le modifiche necessarie.
Una mostra archeologica. Le attività didattiche in occasione della mostra
temporanea “Domagnano. Dal tesoro alla storia di una comunità in età
romana e gota” (anno scolastico 2001/2002)
Negli anni 1998-2000, in tre campagne bimensili, è stato condotto un
intervento di scavo a Domagnano , che ha portato alla luce i resti di
una villa urbano-rustica romana, parte della quale fu ristrutturata ed utilizzata in età gota. In attesa di una decisione sulla destinazione ultima
dell’area archeologica e dell’edizione dello scavo, si è ritenuto opportuno assolvere al primario dovere di una comunicazione dei risultati in
tempi brevissimi, organizzando una mostra didattica rivolta principalmente alle scuole ed ai Sammarinesi. La mostra è stata ospitata al secondo piano sottostante del Museo di Stato.
In occasione dell’apertura della mostra sono stati spediti a tutti gli insegnanti delle scuole sammarinesi l’invito per l’inaugurazione e le proposte didattiche collegate alla mostra.
Le attività didattiche, condotte dalla Sezione Archeologica (Paola Bigi e
Daniel Pedini) insieme alla Sezione Didattica (Daniela Tonelli) e alla
Sezione del Restauro Ceramico (Melissa Muscioni), sono state rivolte
alle classi dell’ultimo anno della Scuola dell’Infanzia, alla Scuola Elementare e alla Scuola Media. Dopo la visita guidata alla mostra, comprensiva dell’utilizzo di schede didattiche differenziate per fasce d’età,
ogni classe ha effettuato uno dei tre laboratori didattici previsti: realizzazione di un manufatto ceramico con la tecnica del lucignolo (bambini
dell’ultimo anno della Scuola dell’Infanzia e del primo ciclo delle Scuole Elementari); simulazione di uno scavo stratigrafico con datazione degli strati mediante l’analisi dei materiali rinvenuti (ragazzi del secondo
ciclo delle Scuole Elementari e delle Scuole Medie Inferiori); restauro di
manufatti ceramici (ragazzi delle Scuole Medie Inferiori). Le attività,
realizzate dal 4 febbraio all’8 giugno 2002, hanno riscosso un notevole
130
successo. Le classi partecipanti sono state 87, di cui 7 della Scuola
dell’Infanzia, 66 della Scuola Elementare (22 classi del primo ciclo e 44
del secondo ciclo), 12 della Scuola Media e 2 delle Scuole Medie Superiori. Al Museo sono stati rilevati 1.243 ingressi relativi al pubblico scolastico (un dato in difetto, in quanto dieci classi non sono state rilevate).
Le attività didattiche nelle sale espositive del museo (anni scolastici
2002/2003 e 2003/2004)
Negli anni scolastici 2002/2003 e 2003/2004 la programmazione didattica del Museo di Stato ha compreso non solo progetti pertinenti alle
sale di Archeologia Sammarinese e Archeologia di Donazione ma anche
progetti relativi ad opere contenute nelle sale dell’Arte per la Repubblica e dell’Arte di Donazione, assenti nell’anno scolastico 2001/2002.
L’offerta didattica per le scuole è risultata quindi più ricca e articolata.
Nell’anno scolastico 2002/2003 sono state proposte complessivamente
otto attività didattiche, di cui due archeologiche: “Chi ha spento la luce?”
(ultimo anno della Scuola dell’Infanzia, Scuola Elementare e Scuola
Media), incentrata sulle lucerne e sui sistemi di illuminazione nel mondo antico, e “Firma d’autore” (secondo ciclo della Scuola Elementare,
Scuola Media e Scuola Secondaria Superiore), che ha affrontato la tematica dei bolli (una sorta di marchi) su laterizi e ceramica. Le attività di
laboratorio sono consistite rispettivamente nella realizzazione di lucerne per mezzo di matrici e nella progettazione e realizzazione di un bollo personalizzato. L’attività al museo è stata invece organizzata come
una caccia al tesoro all’interno delle sale espositive, con schede differenziate a seconda delle fasce di età.
Le attività sono state progettate e condotte dalla Sezione Archeologica
(Paola Bigi e Daniel Pedini) insieme alla Sezione del Restauro Ceramico
(Melissa Muscioni), talvolta col supporto di un quarto operatore (o
l’operatore della Sezione Didattica o un operatore della Galleria d’Arte
Moderna e Contemporanea).
Le attività, condotte dal 10 febbraio al 14 aprile 2003, hanno riscosso
un buon successo, in particolar modo quella sulle lucerne. Le classi partecipanti sono state complessivamente 41, di cui 2 della Scuola
dell’Infanzia, 31 della Scuola Elementare (16 classi del primo ciclo e 15
131
del secondo ciclo), 7 della Scuola Media e 1 delle Scuole Medie Superiori, per un totale di 663 fra bambini e ragazzi.
Una volta conclusa l’attività didattica archeologica, è stato somministrato ai docenti che avevano aderito all’iniziativa un test di gradimento
(Tabella 3, in allegato), nel quale si è richiesto un parere su alcuni aspetti della didattica: incentivazione affettiva e comunicazione didattica
durante lo svolgimento del laboratorio (1) e dell’attività al museo (2);
una valutazione sull’acquisizione ed elaborazione delle informazioni da
parte dei bambini/ragazzi, nel caso l’attività fosse stata approfondita in
classe (3). E’ stato inoltre richiesto se l’attività aveva risposto alle aspettative del docente (4) ed un parere su alcuni aspetti organizzativi dei
corsi (5-6).
Dei 41 test somministrati, ne sono stati compilati e restituiti per posta
22. Dai test è emerso un parere positivo sull’incentivazione affettiva e
la comunicazione didattica durante lo svolgimento dei laboratori e delle
attività al museo. L’attività è stata approfondita in classe in 17 casi su
22, e l’acquisizione ed elaborazione delle informazioni da parte dei
bambini/ragazzi è risultata buona. In tutti i casi l’attività ha risposto
alle aspettative del docente.
Nell’anno scolastico 2003/2004 sono state proposte complessivamente
sette attività didattiche, fra le quali tre di archeologia, sempre progettate e condotte dalla Sezione Archeologica insieme alla Sezione del Restauro Ceramico. Accanto all’attività sulle lucerne (Scuola dell’Infanzia
e primo ciclo della Scuola Elementare), sono stati presentati due nuovi
percorsi didattici, sempre con esperienze di laboratorio. “A tavola con
gli antichi Romani” (secondo ciclo della Scuola Elementare e Scuola
Media), incentrata sull’alimentazione e il banchetto in età romana, e
“Non C’ERA MICA la plastica!” (IV e V Elementari e Scuola Media),
sulla ceramica in archeologia. Le attività di laboratorio sono consistite
rispettivamente in una “gara di cucina” con esecuzione di ricette
dell’antica Roma e nel restauro di copie di reperti ceramici conservati al
museo. L’attività al museo è stata invece organizzata come una caccia al
reperto, con schede differenziate a seconda delle fasce di età.
Nell’ambito dell’attività sulle lucerne è stata inoltre realizzata una dispensa per i docenti.
132
Pur considerando il servizio erogato alle scuole parte integrante della
missione del museo, nel 2004 si è giunti alla decisione di accogliere solo
un numero predeterminato di classi per ogni attività didattica. Tale decisione si è resa necessaria per garantire la normale operatività della Sezione Archeologica e del Centro del Restauro Ceramico.
Le richieste pervenute per le attività sono state 56, il numero di classi
ammesse 30 (5 in più di quelle programmate), di cui 1 della Scuola
dell’Infanzia, 24 della Scuola Elementare (6 primo ciclo e 18 secondo
ciclo), 5 della Scuola Media. Le classi non ammesse sono state 26, di cui
11 della Scuola dell’Infanzia, 11 della Scuola Elementare (7 primo ciclo
e 4 secondo ciclo) e 4 della Scuola Media. Le attività, effettuate dal 9
febbraio al 19 marzo 2004, hanno coinvolto un totale di 433 fra bambini e ragazzi.
I risultati
Le attività didattiche svolte al Museo di Stato negli anni 2002-2004
hanno consentito di sperimentare le potenzialità del nuovo museo, per
quanto concerne il pubblico scolastico sammarinese e, in minima parte,
il pubblico locale, contribuendo ad eliminare alcuni luoghi comuni sul
presunto disinteresse che i Sammarinesi dimostrerebbero per le iniziative culturali legate al territorio.
I progetti didattici di archeologia hanno infatti riscosso un notevole
successo di pubblico e, unitamente alle altre attività didattiche, concorrono ad attuare gli obiettivi educativi del museo.
I maggiori risultati si sono raggiunti nella Scuola Elementare. La mostra archeologica “Domagnano. Dal tesoro alla storia di una comunità
in età romana e gota”, ospitata al Museo di Stato, è stata visitata
nell’anno scolastico 2001/2002 da 66 sezioni su 87, mentre nell’anno
scolastico 2002/2003 hanno partecipato alle attività di archeologia 31
sezioni su 90 e, nell’anno scolastico 2003/2004, 24 sezioni su 89, con 11
sezioni non ammesse a causa dell’esaurimento dei posti disponibili.
Abbastanza buoni anche i risultati nella Scuola Media (2001/2002: 12
sezioni su 54; 2002/2003: 7 sezioni su 54; 2003/2004, 5 sezioni su 54,
con 4 sezioni non ammesse a causa dell’esaurimento dei posti a disposizione) e nelle classi dell’ultimo anno della scuola dell’Infanzia
(2001/2002: 7 sezioni su 14; 2002/2003: 2 sezioni su 14; 2003/2004, 1
133
classe su 14, con 11 sezioni non ammesse, per le quali è stata realizzata
dalla Sezione Didattica una diversa attività). Il gradimento delle iniziative è testimoniato sia dai risultati del test di gradimento somministrato
ai docenti sia dalla adesione dei medesimi insegnanti a più iniziative didattiche di archeologia negli anni 2002-2004.
Al tempo stesso i bambini/ragazzi nel corso di questi tre anni di attività didattiche si sono abituati ad entrare nel museo e a viverlo in maniera positiva, poiché in esso si svolgono attività formative ma “divertenti”. In questo modo, gradatamente, i bambini/ragazzi cominciano a
percepire il museo come il “loro” museo, tanto che alcuni vi hanno
condotto addirittura i propri genitori.
Dall’analisi degli ingressi mensili si è inoltre evidenziato che il pubblico
scolastico costituisce un importate segmento dei visitatori del Museo di
Stato, specialmente nei mesi invernali, come si può evidenziare nella
Tabella 4.
134
TABELLA 4
NUMERO DEGLI INGRESSI MENSILI AI MUSEI DI STATO (ANNI 20022003-2004)
(dati forniti dai Musei di Stato della Repubblica di San Marino)
Museo di Stato: ingressi mensili anno 2002
ingressi a pagamento
ingressi scuole sammarinesi
altri ingressi gratuiti
700
600
500
400
300
200
100
0
G
F
M
A
M
G
L
A
S
O
N
D
Museo di Stato: ingressi mensili anno 2003
ingressi a pagamento
ingressi scuole sammarinesi
altri ingressi gratuiti
700
600
500
400
300
200
100
0
G
F
M
A
M
G
L
A
S
O
N
D
135
Museo di Stato: ingressi mensili anno 2004
450
400
350
300
250
ingressi a pagamento
200
150
ingressi scuole sammarinesi
altri ingressi gratuiti
100
50
0
G
F
M
A
M
G
L
A
S
O
N
D
In relazione alle sole attività didattiche di archeologia, nel 2002, in occasione della mostra archeologica sugli scavi di Domagnano, sono stati
rilevati 1.243 visitatori, pari al 22,65% degli ingressi totali. In occasione
delle attività didattiche di archeologia dell’anno 2003 (periodo 10 febbraio – 14 aprile) sono stati rilevati 663 partecipanti, pari al 12,4 % degli ingressi totali; nel 2004 (periodo 9 febbraio – 19 marzo) sono invece
stati rilevati 433 partecipanti, pari al 8,8% degli ingressi totali.
I risultati ottenuti sono stati quindi sicuramente molto positivi, anche
se si sono manifestate alcune criticità. La scelta di coniugare i percorsi
didattici all’interno del Museo alle esperienze laboratoriali ha infatti da
una parte favorito maggiori coinvolgimento e interazione dei bambini/ragazzi e facilitato l’acquisizione ed elaborazione delle informazioni,
ma dall’altra ha comportato una articolazione più complessa ed una
maggiore durata dell’attività, che ha reso inevitabile la decisione di accogliere solo un numero predeterminato di classi in modo da garantire
la normale operatività del personale tecnico scientifico. Per analogo
motivo nell’anno scolastico 2004/2005, in occasione della preparazione
di una mostra e catalogo su recenti scavi (1997-2004) in siti databili
dall’età del Bronzo Finale alla seconda età del Ferro, la Sezione Archeologica ha privilegiato gli aspetti di studio e ricerca e non ha condotto
attività didattiche, eccezion fatta per alcune visite guidate a classi delle
Scuole Elementari e alle prime classi della Scuola Secondaria Superiore,
nell’ambito di una collaborazione con il prof. Enzo Taddei, docente di
Storia Sammarinese.
136
Conservazione/tutela, ricerca e comunicazione sono del resto le tre
funzioni di ogni museo, indissolubilmente legate fra loro. Solo la ricerca e lo studio possono infatti consentire l’acquisizione di nuove conoscenze e contenuti da comunicare.
137
Repubblica di San Marino
Musei di Stato – Sezione Archeologica
TABELLA 3
Test di gradimento docenti
anno scolastico 2002/2003
Attività scelta:
Chi ha spento la luce?
Firma d’autore.
Fascia scolastica di appartenenza della classe partecipante:
Ultimo anno della Scuola dell’Infanzia
Primo ciclo delle Scuole Elementari
Secondo ciclo delle Scuole Elementari
Scuole Medie Inferiori
Scuole Medie Superiori
1. Livello di coinvolgimento ed interesse dei bambini/ragazzi durante l’attività di laboratorio:
Molto buono
Buono
Sufficiente
Insufficiente
Discreto
Altro/osservazioni
_________________
__________________________________________________________
138
2. Livello di coinvolgimento ed interesse dei bambini/ragazzi durante l’attività didattica all’interno del museo:
Molto buono
Buono
Sufficiente
Insufficiente
Discreto
Altro/osservazioni
__________________
___________________________________________________________
3. L’attività didattica svolta è stata motivo di un ulteriore approfondimento in classe?
Si
No
Se si, quale livello di acquisizione ed elaborazione delle informazioni
ricevute durante l’attività didattica è stato riscontrato nei bambini/ragazzi?:
Molto buono
Buono
Sufficiente
Insufficiente
Discreto
Altro/osservazioni
___________________
___________________________________________________________
Sarebbe per noi estremamente utile, al fine di possedere ulteriori
elementi di valutazione sull’attività didattica proposta quest’anno,
disporre di alcuni documenti prodotti a scuola sull’attività didattica
stessa.
4. L’attività didattica ha risposto alle Sue/Vostre aspettative?
Molto buono
Buono
Sufficiente
Insufficiente
Discreto
Altro/osservazioni
_________________
__________________________________________________________
139
5. A Suo/Vostro parere potrebbe essere opportuno un incontro
introduttivo fra i docenti coinvolti nelle attività ed operatori museali, al fine di disporre di maggiori informazioni sull’attività?
Si
No
Osservazioni:
___________________________________________________________
___________________________________________________________
6. Qualora l’attività didattica lo rendesse necessario, sarebbe per
Lei/Voi attuabile una diversa articolazione d’orario?
Un incontro della durata di due ore e
mezzo/ tre ore?
Si
No
Due incontri della durata di un ora e
mezzo/ due ore?
Si
No
Firma/e (facoltativo)
_________________________________
140
Parte Terza
Saggistica
SCRIVERE STORIA: LA RICERCA DELLA VERITA’
di Luciano Canfora
Nel Don Chisciotte Cervantes definisce la storia – lo scrivere storia –
«madre della verità». Commenta Borges: «L’idea è meravigliosa. La verità storica non è per lui (Cervantes) ciò che avvenne, ma ciò che noi
giudichiamo che sia avvenuto». La voce ironica, e autocritica, di Cervantes non era isolata: era per così dire l’iniziatrice di una agguerrita
Il primo ottobre 2005 il Professor Luciano Canfora ha tenuto l’orazione ufficiale in
occasione dell’investitura dei Capitani Reggenti.
Il Docente, ordinario di Filologia classica presso l’Università di Bari ricopre il ruolo,
dal 1998, di Direttore Scientifico della Scuola Superiore di Studi Storici
dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino.
In questi anni ha collaborato con la Scuola Superiore di San Marino, incontrando, in
più occasioni, gli studenti del Liceo Classico e i loro insegnanti.
Nell’anno scolastico 2002/2003. ha pubblicato un saggio, sul 30° Annuario della
Scuola, dal titolo “Cos’è l’Occidente? Storia e mito di un concetto itinerante” Un percorso affascinante con interpretazioni originali su avvenimenti di controversa lettura.
La prestigiosa “irruzione” del Prof. Canfora nel mondo della nostra Scuola Superiore,
oltre ad essere stata salutata come un prezioso arricchimento, ha offerto una duplice
opportunità. La prima, per i ragazzi, stimolandoli alla conoscenza e curiosità per figure simbolo del mondo antico, caratterizzati e inquadrati in un contesto storico che ne
ha reso più comprensibile e coinvolgente lo studio e la traduzione dei testi.
La seconda, per gli insegnanti con cui si è sviluppato un utile e fecondo confronto a
proposito delle problematiche della didattica sulle materie classiche, sullo studio degli
autori latini e greci e sulle metodologie più appropriate d’apprendimento. Apprendimento che, a differenza delle precedenti generazioni di studenti di liceo, sorretti da un
più completo bagaglio formativo sulle cosiddette “lingue morte”, si presenta sicuramente più ostico per i liceali di oggi.
In questo panorama, di collaborazione e di collocazione culturale, si inserisce l’idea di
ospitare sull’Annuario 2005, il testo integrale del discorso pronunciato il 1° Ottobre
dal Prof.Canfora.
Il tema, da lui magistralmente trattato, può certamente sollecitare un dibattito ampio
ed articolato sulle motivazioni che, nei secoli, hanno spinto gli studiosi a scrivere di
storia.
E’ quindi con grato apprezzamento che accogliamo questo contributo, un valore aggiunto di cultura e di indagine storica sulla verità, che si pone anche come messaggio e
monito, quanto mai attuale, tra i dubbi e le mistificazioni che da sempre attraversano
le società.
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corrente di pensiero, il ben presto rigoglioso «pirronismo storico», che,
fino a che non fu insidiato da una più costruttiva mentalità illuministica, dominò la coscienza critica del nostro continente. Gli strali di Melchiorre Delfico «sull’incertezza e l’inutilità della storia» si spingono fino all’inizio del secolo decimonono. E si potrebbe risalire fino a Seneca
che considerava la storia un catalogo di nefandezze.
Eppure che la verità, o meglio la ricerca della verità, sia il compito
principale e forse unico del racconto storico parrebbe un’ovvietà. Invece essa ci appare ormai come uno degli obiettivi più audaci e insieme
più contestati: oggetto di scetticismo e financo di discredito.
È merito dei Greci aver posto la questione, averne prospettato e offerto
differenti risoluzioni. Già al suo sorgere, tra parlanti greco, la storiografia fu un atto eversivo. Un atto che spezzava l’autoritario soliloquio del
sovrano, cioè del potere: «Così parla Dario» nella celebre iscrizione di
Bisutijn, e un millennio prima «Così parla Hattusili». Quello che Hattusili, o Dario, dicono è la storia. A Mileto invece «Così parla Ecateo»;
e tosto prosegue con un immediato e fondamentale scatto verso la prima persona («io»), che viene, al tempo stesso, posta in primo piano e
relativizzata: «Questo scrivo come a me sembra essere vero, giacché i
racconti dei Greci sono molti e risibili secondo me» (F 1). L’accumulo
di «io»/«a me» nella celebre frase esordiale di un’opera che non era ancora storiografia ma ne creava le premesse è di per sé eloquente.
Questa infrazione dell’autorità – in nome di un maggior avvicinamento
al VERO – ha fatto sì che, da subito, l’attività storiografica fosse, per
così dire, alle prese col potere, e perciò malvista. Né solo nel mondo
greco o parlante greco ma anche – ad esempio – in un mondo lontano
e, proprio perché tale, creduto immobile e impenetrabile: l’antica Cina.
Si sa che l’imperatore che fece la Grande Muraglia a tutela di una separatezza gelosamente difesa per millenni fu anche il promotore di una
sistematica distruzione dei libri di storia perché «pericolosi per il governo», come recita l’antica Cronaca di Sseu-Ma-Ts’ien. Solo i trattati
tecnici (di agricoltura soprattutto) si salvarono perché reputati innocui
e comunque indispensabili sul piano pratico.
Ma torniamo ai Greci. Una volta avanzata la pretesa di maggior verità,
o di verità tout court, era inevitabile che sorgesse il conflitto intorno alle diverse possibili verità che il racconto storico, o meglio i racconti
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storici, possono fornire. Questo era implicito nel farsi avanti dell’io, di
quel «come sembra a me» che costituisce il tratto peculiare della premessa di Ecateo. Ed è proprio questo che ha suscitato in momenti diversi e per ragioni diverse sfiducia e scetticismo.
Nella tradizione filosofica greca, e poi romana, affiora da subito
un’esplicita svalutazione del sapere “accumulativo” (e quello storico lo
è al più alto grado): a partire dal disprezzo eracliteo per la polimatia (VS
22 B 40 e 41), e fino alla dura requisitoria della praefatio senecana al libro terzo delle Quaestiones Naturales, passando attraverso la valutazione riduttiva aristotelica secondo cui la storiografia costituirebbe una
forma di conoscenza meno «filosofica» (e dunque minore) rispetto alla
poesia, a tacere di tutta la tradizione platonica che svalutando ogni genere di manifestazione fenomenica travolge alla radice anche il «sapere
storico» e lo relega tra i saperi apparenti.
***
Vi è poi l’occhio esterno. Quello delle tradizioni culturali ebraica e cristiana, che potremmo rispettivamente indicare con i nomi emblematici
di Giuseppe Flavio e di Eusebio di Cesarea (l’uno alla fine del I, l’altro
all’inizio del IV secolo). Due tradizioni che dalla grande lezione della
storiografia greca non hanno potuto prescindere (cosa sarebbe la Guerra Giudaica di Giuseppe senza il modello della guerra peloponnesiaca di
Tucidide? Cosa sarebbe la Storia eusebiana e anche il De civitate Dei
senza il modello delle Storie ‘profane’ inizianti dalle «origini» com’è il
caso di Eforo o di Livio o dello stesso Cassio Dione?).
E nondimeno la critica è in entrambi i casi aspra. Si pensi alle pagine
esordiali del Contro Apione incentrate sulla non attendibilità (cap. 2)
della tradizione greca sull’età arcaica nonché sull’inaffidabilità (cap. 3)
di tutta indistintamente la tradizione storiografica greca, anche di quella relativa ad epoche storiche ben documentate e addirittura coeve dei
narratori. La ragione dell’attacco è di immediata evidenza: tutta quella
‘individualistica’ storiografia può apparire – ad occhi dommatici – inficiata dalla reciproca taccia di non verità che gli storici greci nella loro
ricerca sempre aperta si scambiano. Acusilao smentisce Erodoto; Eforo
Ellanico; Timeo Eforo e così via. Neanche Tucidide viene risparmiato:
persino lui – nota Giuseppe (III.18) – «sebbene dia l’impressione di rac-
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contare i fatti del suo tempo nel modo più preciso nondimeno da qualcuno – e piacerebbe sapere da chi – è accusato come mentitore».
La divergenza tra le varie tradizioni è l’argomento critico che sembra
più forte a Giuseppe: il quale dunque, più o meno consapevolmente e
certo trascinato dalla polemica, sembra qui rivalutare il modello della
verità unica come sola via d’uscita da una situazione strutturalmente
aporetica qual è quella del conoscere storico: fatto di molteplicità, di
verità, o parziali verità, in lotta tra loro: che è invece la ricchezza
dell’impianto intrinsecamente laico della storiografia greca, e forse della
pratica storiografica in generale.
Sorride Giuseppe della pretesa «di alcuni» (Adv. Ap. II.6-7) che proprio
dai Greci si debba apprendere «la verità» «sulla storia più antica», nonostante – obietta – i Greci siano arrivati per ultimi sulla scena della storia
(qui vi è una eco del Timeo platonico e del Crizia). Ragion per cui «recentissima, nata ieri, è anche la loro storiografia».
Ma tralascia di osservare che – per gli storici greci – sin dal primo momento era stata per l’appunto la cautela intorno alla «storia più remota»
la direttiva preminente. Una linea di comportamento ben chiara: senza
distinzioni, nonostante le apparenze e le reciproche indifferenze. Da
Erodoto che, pur scegliendo di dar conto amplissimo del «frutto delle
sue ricerche», elabora criteri fondamentali per la critica quale la capitale
distinzione tra l’occhio e l’orecchio (e che comunque chiarisce, se del
caso, che non è necessario credere a quanto gli è stato riferito); a Tucidide, che mette in essere un austero e iperselettivo strumentario – gli
«indizi» li chiama – al fine di sceverare quel tanto che si può RICAVARE di credibile dalle tradizioni sul passato remoto e anche prossimo; ad Eforo (70 F 9) che elabora, sull’onda del suo maestro Isocrate,
una specie di «prontuario di critica storica» e perviene al criterio secondo cui «chi racconta molti dettagli sul passato non è credibile»; da cui
ricava alquanto azzardatamente la deduzione speculare: «chi racconta
precisi dettagli sui fatti contemporanei è sommamente credibile».
***
Ma il motivo fondante della verità, che si articola in due diversi aspetti
«la ricerca della verità» (Tucidide) e «la pretesa di verità» (ambito dove
si produce appunto il conflitto che tanto sconcertante appariva a Giuseppe Flavio), ha un suo limite esterno in un problema decisivo: un
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problema che finisce necessariamente per condizionare la ricerca della
verità e per incrinarne la pretesa. E cioè il chiarimento intorno al fine
per cui si scrive la storia, intorno all’obiettivo per cui lo si fa.
L’obiettivo della conquista del vero (ovvero dell’impedire che i fatti
«muoiano» per dirla con Pindaro, fr. 121 Snell, e con le righe proemiali
di Erodoto) dovrebbe essere a rigore autosufficiente e autotelico. E invece viene presto affiancato – il che è forse inevitabile – da altri due
motivi che, a ben vedere, lo negano: quello del diletto e quello
dell’utile. Inconfessato ma ben evidente nella pratica delle pubbliche
recitazioni il primo, conclamato, ostentato e alla fine banalizzato il secondo. (Né va dimenticato che il motivo della voluptas, del “diletto”,
potrebbe persino essere classificato come variante legittima dell’utile:
specie se si considera l’efficacia pedagogica – nel quadro delle pubbliche
letture – di episodi attraenti e gratificanti. Per esempio delle rievocazioni storiografiche dell’epopea «nazionale» delle guerre persiane, o della cacciata dei tiranni, o della nefasta follia degli autocrati «barbari» [il
Cambise erodoteo] visti come l’emblema stesso dell’anti-Grecia e perciò gradito fomento per il senso civico della città greca, da rinsaldare
appunto attraverso il fascino della lettura in pubblico).
Ma già con Tucidide utile e diletto divergono. A lui, creatore di una
storiografia tutta politica, si deve la celebre formulazione che privilegia
polemicamente il motivo dell’UTILE (I.22); lì l’opposizione rispetto al
«diletto» non potrebbe essere più radicale. Per lui utilità e verità si saldano. Anche se Tucidide non lo dice esplicitamente, sembra addirittura
di capire che in tanto il suo racconto è utile, e per nulla proteso al “diletto” proprio perché tutto vero (come egli non si stanca di ripeterci):
di una verità all’occorrenza sgradevole come quando Tucidide smentisce senza remore ciò che, a torto, i suoi concittadini credono intorno
ad alcune tappe capitali della loro storia.
Le parole programmatiche che Tucidide adopera, tante volte ripetute (e
imitate dagli storici successivi), meritano tuttavia un chiarimento, che
le sottragga all’interpretazione banalizzante che ebbe corso già in epoca
ellenistica e poi romana e che forse dura ancora. Rileggiamo il celebre
passo (I.22.4):
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“sarà per me sufficiente che [la mia Storia] sia giudicata utile da quanti
vorranno indagare la chiara e sicura realtà di ciò che in passato è avvenuto e che un giorno potrà pure avvenire, secondo l’umana vicenda, in
maniera uguale o molto simile. Appunto come un acquisto per
l’eternità è stata essa composta, non già da udirsi per il trionfo nella gara di un giorno.”
Tucidide non sta certo dicendo che ha scritto un’opera che pretende di
squadernare preventivamente davanti ai posteri il gran libro del futuro,
ogni altro evento futuro. L’impressione che tale sia la sua pretesa nasce
certo anche dall’impegnativo «perenne» nonché dal richiamo incidentale alla «natura umana» che è il riflesso dell’influsso su di lui fortissimo
della conquista intellettuale della prima sofistica: la nozione di unità e
fissità, di ciò che i sofisti chiamavano appunto «natura umana».
Ma tutto questo, e la stessa adozione di “acquisizione eterna” che forse
tien d’occhio soprattutto la forma durevole del libro cui l’opera è affidata, tutto questo, dicevo, non deve offuscare il fatto che Tucidide non
pensa a remoti posteri ma pensa piuttosto al tesoro di sapienza politica
che la sua opera racchiude: si rivolge cioè alle generazioni immediatamente a venire; all’élite politica delle città greche, che sono forse il suo
vero e unico pubblico. Giacché a ben vedere la sua storia è essa stessa
storia dell’élite politica, non storia di masse, le quali in genere restano
nello sfondo: è la storia di come le élites governano, sbagliano, cadono e
si alternano.
Ha scritto una volta Tocqueville1 volutamente sovrainterpretando un
luogo dei Mémoires del marchese di Lafayette che la troppo facile indicazione di «cause generali» come procura «meravigliose consolazioni ai
politici mediocri» così «ne procura di ammirevoli agli storici mediocri».
I quali così – prosegue – si risparmiano la fatica dell’indagine specifica e
condotta in profondità e anzi assai agevolmente si traggono
d’imbarazzo («se tirent d’affaire») proprio nel momento più delicato:
quello in cui debbono CAPIRE. Invece la storia tucididea delle élites,
tutta calata com’è nell’accertamento delle azioni, degli intenti e delle
responsabilità dei singoli – nel suo porsi agli antipodi rispetto a
quell’euforica superficialità che Tocqueville stigmatizza – trae proprio
1
Dem. en Am. II parte.
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dalla certezza del ruolo preponderante e decisivo di quegli uomini, di
quei singoli protagonisti o attori la persuasione di aver attinto il vero.
Lo storico stesso fa parte di quella élite e questo gli fornisce una qualificazione indiscutibile, oltre che un punto di osservazione privilegiato, e
purtroppo anche una sovrastima del carattere determinante di quel
gruppo sociale al quale egli stesso appartiene.
Questo non significa che Tucidide non si ponga la questione del peso
esercitato da quel grande e anonimo soggetto collettivo che chiama «il
demo». Ma lo fa intravedere a tratti: su questo piano l’autore della Costituzione degli Ateniesi (chiunque egli sia, è un contemporaneo dei fatti
che evoca) tramandata con le opere di Senofonte è molto più esplicito,
oltre che allarmato: all’opposto di Tucidide, egli attribuisce quasi tutto
ciò che accade nella detestata Atene a codesto soggetto collettivo, che
governa perché «spinge le navi». Mentre l’élite (secondo lui degenerata)
è nello sfondo.
Tucidide ha trovato una via d’uscita di fronte all’aporia capitale per chi
tenti di scrivere storia: quella inerente al nesso tra le volontà dei singoli,
di quell’insieme di singoli che sono le masse, e la volontà ed efficacia direttiva dei capi. È il problema che si pone a lungo Tolstoj di quanto pesino i piani dei capi nello svolgimento di una battaglia. E non a caso il
suo «eroe» è il generale Kutuzov, colui che sconfisse il Bonaparte: Kutuzov, il quale si addormenta mentre i generali prussiani e austriaci disquisiscono a tavolino intorno ai piani di una battaglia che nella realtà
sarà il frutto non dei loro teoremi ma di miriadi di comportamenti individuali e del loro intreccio. Tucidide si è trovato, raccontando la
guerra e la politica, di fronte alla medesima questione: quanto pesano le
volontà collettive nella determinazione delle decisioni. O meglio: come
avviene che tante volontà individuali si fondono in una decisione collettiva? Nella sua diagnosi è la volontà dei capi che conta, in ultima analisi, più di ogni altra. Tucidide non manca di segnalare il manifestarsi di
volontà plurime (collettive), le varie volte che analizza sedute
dell’assemblea: non solo nel dibattito su Mitilene, ma anche nel dibattito Nicia/Alcibiade intorno all’opportunità della spedizione in Sicilia,
nonché nel resoconto della crisi istituzionale conseguente alla disfatta
in Sicilia. L’idea di base però su cui poggia la sua ricostruzione è che la
forza argomentativa degli oratori sposta la volontà collettiva. Ed è per
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questo che risolve narrativamente la questione di raccontare tutto ciò
ponendo al centro la parola dei politici riscritta o parafrasata.
Ma forse non era una arbitraria prospettiva tucididea, una sua sopravvalutazione dell’efficacia dell’arte del discorso. Forse la prassi gli dimostrava che per lo più le cose andavano effettivamente così. E forse la polarità, senza mediazioni, tra capi e popolo era effettiva, non un ritrovato letterario per dare la parola solo ad alcuni.
Resta la componente retorica. Essa investe un altro aspetto, indissolubile dalla «verità», e cioè il pathos. Un verso terribile di Lucrezio dice che
«a causa del tempo intercorso» noi – cioè i Romani del tempo suo –
«non abbiamo provato alcun dolore» per le carneficine del tempo della
guerra annibalica (III, 832: nil sensimus aegri): non soffriamo perché
non c’eravamo. Per Lucrezio quello è un semplice tassello
nell’incalzante ragionamento demolitore della credenza nell’immortalità dell’anima, ma tocca, sia pure di sfuggita, l’aporia capitale della
comprensione storica: essere scevro dalle emozioni, e indenne dalle sofferenze è un vantaggio o non piuttosto un limite per capire «cosa veramente accade» (per usare una trita espressione di Ranke)? La distanza
temporale, di solito esaltata come matrice di equanimità, è forse in ultima analisi un danno?
Se considerati nel loro inarrestabile sviluppo, gli effetti dell’accrescersi
progressivo della lontananza temporale (al di là della distruttività che il
tempo comporta per la conservazione dei documenti) – specie se coniugati con le trasformazioni di civiltà – sono potenzialmente distruttivi non solo della cognizione nostra di antichi e da noi remoti «dolori
degli uomini» ma più in generale per quel che riguarda la cognizione
del passato. «Supponiamo – annotò nel primo dopoguerra Paul Valéry
– che l’immensa trasformazione che noi stiamo vivendo, e che ci sta
cambiando, si sviluppi ancora, alteri alla fine ciò che rimane dei costumi, disponga in un altro modo i bisogni e i mezzi di vita; presto la
nuova era produrrà uomini che non saranno più legati al passato da
nessuna abitudine mentale. La storia non offrirà loro che racconti strani, quasi incomprensibili: niente, nel loro tempo, avrà avuto un qualche esempio nel passato».
Di questa lotta contro il tempo è fatto lo scrivere la storia. L’atarassia
senza passioni non è la migliore, ma forse la peggiore condizione per
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scrivere storia. Il pathos narrativo, la partecipazione emotiva non il volgare patetismo, non è un cascame del lavoro storiografico ma al contrario l’indizio di quanto sia ancora presente quel passato col quale lo storico si misura. Il greco d’Asia di nome Erodoto divenuto partigiano di
Atene e storico delle guerre persiane parlava di un passato «sentito ancora come presente», né solo da lui ma innanzi tutto dal suo pubblico.
Un tale passato è di estensione varia, e in linea di principio il suo punto
d’inizio dovrebb’essere mobile: spostarsi via via che il tempo storico
cioè il presente si allunga. Certe volte però si blocca su eventi che hanno
la forza di continuare ad essere punto d’inizio nonostante il naturale
allungarsi del tempo. Per il nostro mondo questo è accaduto con la Rivoluzione francese, che resta tuttora l’inizio del nostro presente. Forse
perché i problemi che essa pose sono ancora aperti, e non riguardano
più soltanto l’Europa o l’Occidente ma tutto il pianeta. E inoltre perché essa racchiude in breve, come in un incandescente microcosmo anticipativo, nel venticinquennio tra la Bastiglia e il Congresso di Vienna,
tutta la irrisolta storia successiva. E la partita è ancora aperta.
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OSSERVATORIO SUL PROFILO CULTURALE DELLA POPOLAZIONE
di Filiberto Bernardi e Franco Santi
Premessa
Il Novecento è stato, almeno nei paesi industrializzati, il secolo della
grande scolarizzazione. Per la prima volta, in tali paesi la quasi totalità
dei bambini e dei ragazzi è giunta a fruire di un periodo consistente di
istruzione scolastica. E non c’è dubbio che, al fondo di un fenomeno
che ha profondamente modificato il quadro sociale della distribuzione
della cultura, ci sia stata una idea di progresso, per la quale
l’acquisizione delle competenze alfabetiche rappresentava una condizione d’uscita dalla marginalità nella quale erano stati relegati ampi
strati di popolazione tradizionalmente privi di istruzione formale. Proprio il grande sviluppo dei sistemi scolastici poteva far pensare che
l’analfabetismo, visto come vera e propria patologia sociale, fosse stato
definitivamente superato.
Si comprende perciò il disagio prodotto dalle prime denunce, formulate
nella seconda metà degli anni ottanta, dell’affiorare di una tendenza recessiva nel possesso delle competenze alfabetiche: si incominciava a
constatare che un numero consistente di adulti, che pure negli anni
dell’infanzia e dell’adolescenza aveva fruito di un periodo, anche lungo,
di istruzione scolastica, si mostrava incapace di comprendere o formulare un messaggio scritto. Quell’allarme ha indotto alcuni governi (tra i
quali quelli degli Stati Uniti e del Canada) a promuovere prime indagini sulla consistenza del fenomeno.
Le dimensioni quantitative della regressione osservata nella competenza
alfabetica sono state tali da far pensare che qualcosa di nuovo e di imprevisto fosse intervenuto per modificare un assetto della cultura della
popolazione che si riteneva ormai consolidato. Occorreva approfondire
l’analisi della regressione delle competenze alfabetiche della popolazione adulta, anche in vista di una interpretazione delle esigenze educative
più coerente con le condizioni della vita contemporanea.
Della necessità di avviare un programma sistematico di ricerca si fece
interprete l’Ocse, con l’avvio del progetto IALS (International Adult
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Literacy Survey) al quale, nella prima metà degli anni novanta, partecipò un primo gruppo di una decina di paesi. Una seconda indagine, decisa nel 1996, doveva interessare un altro gruppo di paesi. L’Italia non
aveva partecipato alla prima indagine e aderì alla seconda (SIALS – Second International Adult Literacy Survey).
Il quadro che emerge dall’indagine rivela che anche in Italia sono in atto trasformazioni importanti nella cultura della popolazione. In parte
tali trasformazioni sono analoghe a quelle osservate in altri paesi industrializzati, in parte risentono delle specifiche condizioni che hanno caratterizzato lo sviluppo del sistema socio-culturale italiano e per analogia sammarinese.
Quello che qui si vuole rilevare subito è l’importanza che ricerche centrate sulla popolazione adulta possono assumere per un migliore orientamento delle decisioni che riguardano sia l’educazione nell’infanzia e
nell’adolescenza, sia quella rivolta a soggetti nelle successive età della
vita. Appare indubbio, infatti, che anche le competenze di base, come
quelle alfabetiche, sono esposte ad un deterioramento quando le esperienze successive alla frequenza della scuola non contribuiscano a rinforzarle.
Di significativa rilevanza sono le indicazioni che la ricerca SIALS fornisce per gli interventi che interessano gli adulti. Troppo spesso tali interventi, specialmente quando sono rivolti alla formazione o
all’aggiornamento professionale, sono viziati dal presupposto inconsistente che la certificazione formale di un livello scolastico corrisponda
al possesso effettivo di determinate competenze, prime fra tutte quelle
alfabetiche. Ci si deve ormai convincere che non basta assicurare alla
popolazione l’acquisizione di competenze alfabetiche nella prima parte
della vita, ma occorre provvedere, nelle età successive, a veri e propri
interventi di manutenzione. Le competenze alfabetiche devono essere
considerate la condizione che consente di fornire opportunità successive di istruzione. Lasciar decadere le competenze alfabetiche equivale ad
accettare che strati sempre più ampi della popolazione siano privati della possibilità di comprendere la complessità del mondo contemporaneo, siano inermi nei confronti di una comunicazione aggressiva tesa a
destare emozioni senza intelligenza, siano limitati nell’esercizio dei loro
diritti di cittadinanza. È indispensabile avviare una nuova ricerca, che si
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proponga di definire il quadro delle competenze culturali della popolazione capaci di incidere sul quadro delle condizioni di vita.
Va sottilineato che le ricerche IALS e SIALS promosse
dall’OCSE/OCDE (Organization for Economic Cooperation and Developement) nel 1992 e nel 1996 hanno lo scopo di sostenere, con iniziative adeguate, lo sviluppo economico e la coesione sociale soprattutto nei paesi in cui la debolezza delle competenze alfabetiche delle popolazioni sembra metterle a rischio. In questo contesto emerge con grande chiarezza la necessità di ricerche e di esplorazioni complessive sulle
caratteristiche della cultura di base della popolazione adulta e sulle
competenze alfabetiche in particolare.
Non si dispone di dati per ciò che riguarda la popolazione della Repubblica di San Marino, il cui sistema di educazione della popolazione
scolarizzata e della popolazione adulta è rimasto finora estraneo al contesto internazionale, nonostante precedenti scelte politiche avessero attivato accordi internazionali per l’ingresso della Repubblica nel confronto fra gli Stati sulle competenze della popolazione scolarizzata. In
ogni caso, si può ragionevolmente affermare che il sistema San Marino,
per prossimità culturale, può affidarsi ai dati della partecipazione italiana alla ricerca SIALS, riferendosi particolarmente ai dati del Centro
Nord Italia.
Tali dati, diffusi nel 2000, hanno destato e destano una forte preoccupazione nell’opinione pubblica. Molti si sono chiesti se non si sia avviati verso un nuovo analfabetismo di massa, e se di tale tendenza si possano individuare responsabilità. Non si debbono confondere i dati
sull’analfabetismo con quelli che riguardano i livelli di competenza alfabetica, anche se è evidente che il limite inferiore della competenza alfabetica è difficilmente distinguibile dall’analfabetismo. Occorre infatti
tener presente che in un caso, quello dell’analfabetismo, ci si trova di
fronte ad una deprivazione originaria della capacità di leggere e scrivere, mentre un basso livello di capacità alfabetica della competenza alfabetica si riscontra anche in persone che abbiano fruito di un numero
considerevole di anni di istruzione scolastica. Sia socialmente, sia culturalmente i due insiemi, quello degli analfabeti e quello costituito da
persone con basso livello di competenza alfabetica, sono differenti.
L’analfabetismo originario è generalmente collegato a condizioni eco-
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nomiche fortemente svantaggiate, subite negli anni dell’infanzia e
dell’adolescenza, mentre ad un basso livello di competenza alfabetica
può corrispondere anche un livello di reddito relativamente alto, tale in
ogni caso da non costituire ostacolo alla frequenza della scuola.
Nella maggior parte dei paesi industrializzati sono state rilevate tendenze regressive nella competenza alfabetica, che seguono al sostanziale
superamento dell’analfabetismo originario: i due fenomeni si presentano perciò ben distinti, come espressione di fasi successive d’evoluzione
del quadro socioculturale. In Europa la tendenza alla generalizzazione
della frequenza scolastica, per un tempo sufficiente ad acquisire la capacità di leggere e scrivere, si è affermata nel corso dell’Ottocento, in particolare nelle aree in cui era più forte l’incidenza della riforma protestante. In quelle aree, una certa competenza alfabetica era venuta costituendo parte del profilo del cristiano, perché condizione per l’esercizio
del libero esame dei testi biblici. Si deve tuttavia alle profonde trasformazioni che hanno investito l’Europa a partire dalla rivoluzione industriale il manifestarsi di un’esigenza di istruzione tale da modificare sostanzialmente il quadro culturale dei diversi paesi. Disporre di competenze alfabetiche diventava una condizione necessaria per l’esistenza a
misura del passaggio da economie prevalentemente agricole ad economie industriali, da assetti prevalentemente frazionati e rurali della popolazione alla sua concentrazione in spazi urbani, dalla famiglia patriarcale a quella nucleare. Il diffondersi dell’istruzione ha costituito
parte importante del processo di modernizzazione delle società europee, fino a diventare un simbolo del riscatto dalla marginalità sociale.
All’istruzione si è collegata un’idea di progresso, che trovava concreta
espressione nel miglioramento delle condizioni di vita. La scuola ha diffuso l’alfabeto, ma contemporaneamente è stata promotrice della medicina sociale, dell’igiene, della razionalità dei comportamenti in opposizione a pratiche ripetitive e fondamentalmente superstiziose.
In Italia, l’analfabetismo rappresentava la condizione dominante nel
1861, l’anno della costituzione dello stato unitario. La trasformazione
culturale del paese è stata imponente, anche se non uniforme, nel mezzo secolo successivo. In alcune aree del paese, specialmente nel Nord, la
rete delle scuole elementari era già abbastanza estesa agli inizi del Novecento. La scolarizzazione ha investito prima le città, ma immediata-
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mente dopo anche le campagne, grazie all’impegno di una moltitudine
di maestri, e soprattutto di maestre, che hanno assicurato una prima istruzione anche alla popolazione rurale e a quella dei territori montani.
Quelle maestre, il cui ruolo nella modernizzazione del paese è stato determinante e mai abbastanza considerato, non diffondevano solo la cultura alfabetica, ma anche modelli di comportamento propri della cultura urbana in un paese prevalentemente rurale. La crescita della scuola e
l’affermazione dell’alfabetismo si collocavano quindi in un quadro fortemente influenzato dal pensiero del positivismo e caratterizzato
dall’attesa ottimistica di migliori condizioni d’esistenza come effetto
dello sviluppo scientifico. La cultura educativa italiana, così come i criteri cui si ispirava la politica scolastica, sono apparsi, sino agli inizi del
Novecento, sostanzialmente allineati con le posizioni che venivano
emergendo dal resto d’Europa. Tale allineamento è venuto meno nel
corso del Novecento, con l’affermarsi della cultura dell’idealismo e per
effetto di scelte di politica scolastica che hanno rallentato la crescita della scolarizzazione.
Le conseguenze dell’idealismo e della politica scolastica del fascismo si
possono ora rilevare attraverso la comparazione delle differenze che si
sono verificate nella quantità e nella qualità dell’offerta d’istruzione in
Italia e in altri paesi industrializzati. Solo dopo la riforma della scuola
media, approvata nel 1962, si è cominciato a dare effettivo seguito al diritto all’istruzione per otto anni, e solo nel decennio successivo si è avuto un ampliamento della quota di popolazione che ha potuto fruire
dell’istruzione secondaria. Non dovrebbe quindi costituire una sorpresa
rilevare che oggi in Italia sono ancor più di due milioni gli adulti, fra i
sedici e i sessantacinque anni d’età, che debbono essere compresi fra gli
analfabeti. In realtà l’analfabetismo è quasi assente nella popolazione
con meno di 45 anni dislocata nel Nord e nel Centro; però
l’analfabetismo appare distribuito per fasce di età: se il fenomeno è
molto esiguo nella popolazione che ha meno di quarantacinque anni,
esso è ancora piuttosto pesante nella popolazione più anziana, in quella
parte che era in età scolastica prima della riforma della scuola media.
Nell’area linguistica italiana il fenomeno descritto si sovrappone ad una
nuova e per molti versi inattesa mancanza di capacità alfabetica, quella
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che si presenta nel corso della vita in persone che pure hanno fruito di
un numero anche consistente di anni d’istruzione nella scuola.
Da questa constatazione derivano alcune conclusioni.
La prima è che la riforma della scuola media ha prodotto l’effetto che
da essa si attendeva, e cioè ha attivato un processo di trasformazione
radicale della cultura della popolazione.
La seconda conclusione è che tuttavia tale processo è molto lento, se a
quarant’anni di distanza si conta un numero di adulti che sopporta le
conseguenze della deprivazione originaria.
La terza è che oggi gli effetti dell’istruzione debbono essere considerati,
in conseguenza del rapido incremento della durata della vita, in una
prospettiva temporale molto più lunga di quanto non fosse necessario
fare fino a pochi decenni fa.
La quarta considerazione, infine, riguarda l’efficacia limitata delle riforme scolastiche, in assenza di interventi paralleli volti a modificare la
cultura della popolazione adulta.
Quest’ultima considerazione è particolarmente attuale, se si considera
la distribuzione percentuale della popolazione italiana per fasce di età,
2000 e 2050 [vedi tabella n.1]. Un dato demografico che influenza le risorse disponibili, gli orientamenti politici di programma per gli interventi sulla popolazione, in particolare quella “anziana”, è costituito dalla popolazione ultrasessantenne, che, sommata alla popolazione in età
scolare, dà un’indicazione approssimativa della popolazione non attiva.
I dati comparativi a livello internazionale, calcolati nel 2000 da United
Population Division, indicano che oggi gli ultrasessantenni rappresentano circa il 24% della popolazione, mentre nel 2050 si prevede che essi
supereranno il 42% e che la percentuale di coloro che hanno 80 o più
anni sarà più che raddoppiata, passando dal 16% al 34% della popolazione totale. I dati indicano che in futuro gli investimenti
nell’istruzione e negli affari sociali costeranno maggiori sforzi, visto
l’eccezionale aumento della popolazione non attiva.
158
Tabella 1
Distribuzione percentuale della popolazione italiana per fasce d’età, 2000 e 2050
(medium fertilità variant)
2000
2050
0-14
Fasce d’età
15-59
+60
14,3
11,5
61,7
46,2
24,1
42,3
Fonte: United Nations Population Division, 2000
Nelle ricerche comparative (IALS e SIALS) il fenomeno viene rilevato
utilizzando una scala di competenza articolata in cinque livelli, dei quali il quinto corrisponde al possesso compiuto della capacità di comprendere e formulare un messaggio scritto e il primo alla condizione
contraria. Chi si colloca al primo livello pertanto può anche avere
qualche rudimento di competenza alfabetica (per esempio può essere in
grado di tracciare la sua firma o di riconoscere l’insegna di un negozio),
ma non è capace di utilizzare il linguaggio scritto per produrre o ricevere messaggi che richiedono una sia pur modesta organizzazione del
discorso.
Un’impostazione solo parzialmente diversa è quella che si riconosce
nella scala di competenza messa a punto in Francia dall’Observatoire
National de la Lecture: in essa si distingue un primo livello di analfabetismo vero e proprio, cui segue un secondo livello, nel quale si collocano quanti non sono in grado di andar oltre la lettura di qualche parola
isolata. La terza posizione riguarda quanti riescono a leggere qualche
frase isolata, purché semplice. Infine, il quinto livello corrisponde alla
capacità di leggere e capire un testo scritto. Quel che impressiona, sia
dai dati ottenuti attraverso le ricerche IALS e SIALS, sia da quelli diffusi dall’Observatoire francese, è l’alto numero di persone, anche di giovane età, che si colloca nelle posizioni inferiori della scala.
Secondo l’Observatoire, da una ricerca condotta su più di 350.000 giovani (solo maschi) d’età compresa fra i 18 e 23 anni è risultato che gli
analfabeti sono l’1%, il secondo livello comprende il 3% dei giovani sui
quali la rilevazione è stata effettuata, il 4% si colloca al terzo livello e il
12% al quarto. In altre parole, circa un quinto dei giovani francesi ap-
159
pare ad alto rischio alfabetico, pur avendo lasciato la scuola da pochi
anni. Questo fenomeno in francese è indicato come illettrisme; la parola
corrisponde all’inglese illeteracy, cioè all’assenza della literacy, che è la
capacità di usare il linguaggio scritto. Anche in italiano converrebbe,
per chiarezza, distinguere l’analfabetismo (che corrisponde all’assenza di
un sia pur minimo repertorio tecnico di lettura e scrittura)
dall’illetteratismo, che non esclude qualche rudimento tecnico, ma designa soprattutto la condizione di chi non è in grado di servirsi del linguaggio scritto per ricevere o per formulare messaggi, Non si tratta di
introdurre un neologismo per calco, ma di riprendere una parola (letterato o letterato) che in un significato arcaico designa appunto chi sa leggere e scrivere.
I dati delle ricerche IALS SIALS non sono più confortanti di quelli
francesi. Se consideriamo la situazione nella maggior parte dei paesi industrializzati (fra i quali gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito,
l’Irlanda, l’Australia, la Nuova Zelanda), troviamo che la popolazione
ad alto rischio alfabetico, quella che si colloca al primo livello della scala di letteratismo, è compresa fra un ottavo e un quarto del totale; se
aggiungiamo anche un medio rischio alfabetico (secondo livello) in più
casi si raggiunge e si supera il 50% della popolazione. Dai dati SIALS
relativi all’Italia si ricava che gli adulti che si collocano al livello 1 sono
circa un terzo, e che un altro terzo si colloca al livello 2; in altre parole,
circa due terzi della popolazione tra i 16 e i 65 anni può essere considerata a rischio alfabetico, alto e medio.
Quella che viene configurandosi è una tendenza forte nell’evoluzione
delle caratteristiche della popolazione, che non può che espandersi ulteriormente perché collegata a cambiamenti profondi nelle condizioni di
vita, a meno che non sia esplicitamente contrastata da una politica capace di affermare modelli alternativi. C’è da chiedersi quali siano le ragioni che stanno inducendo il fenomeno dell’illetteratismo.
Una prima spiegazione può essere rappresentata dal venir meno, o comunque dall’attenuarsi per una frazione crescente della popolazione,
della funzione di rinforzo che fino a non molti anni fa le condizioni di
vita sociale esercitavano nei confronti delle competenze alfabetiche
(come anche quelle di calcolo). Leggere e scrivere erano competenze
necessarie per comunicare, per prendere appunti, per informare e per
160
essere informati. Oggi il telefono, i registratori audio e video, le icone,
la radio e la televisione, le macchine per il calcolo automatico hanno
fornito soluzioni alternative a molte delle esigenze che in precedenza
richiedevano di leggere, scrivere e far di conto. Ne deriva che tali capacità decadono rapidamente in quella parte della popolazione che non ha
occasioni, nella vita professionale, di utilizzarle.
Ovviamente, ciò non significa che le competenze alfabetiche (come
quelle che comportano operazioni con simboli) debbano essere utilizzate solo nella vita professionale: leggere un romanzo, un saggio o un
articolo di giornale di per sé non sono attività professionali.
La questione diventa allora quella di sostituire alla spinta, in larga parte
utilitaristica, che ha animato la prima alfabetizzazione una nuova finalizzazione, per la quale le competenze non siano solo funzionali all’uso
che si prevede di farne nella vita professionale, ma siano considerate
necessarie per fruire di un patrimonio immateriale, com’è quello della
letteratura, dell’arte, del pensiero, della scienza.
Nei paesi industrializzati, all’attenuarsi della spinta utilitaristica, ha fatto riscontro una divisione della popolazione in strati: quelli favoriti si
distinguono per un livello elevato di cultura alfabetica, mentre per gli
altri ha prevalso una deriva consumistica, genericamente socializzante e
moralizzante, ma sicuramente incapace di assicurare l’interiorizzazione
profonda della strumentazione necessaria per fruire del patrimonio della cultura.
Quella che sta emergendo in molti paesi è una dicotomia, che vede da
un lato una casta di nuovi mandarini, il cui riferimento culturale è solidamente alfabetico, e dall’altro una maggioranza della popolazione sospinta ai margini della fruizione culturale. La novità consiste nel fatto
che tale maggioranza non è più composta solo da emarginati, ma in larga misura da persone che partecipano ampiamente ai benefici dello sviluppo economico, anche se questi ultimi sono limitati all’esercizio di
un’elevata capacità di consumo.
Se l’alfabetizzazione e il prolungarsi del tempo della istruzione scolastica si sono per lo più connotati in senso democratico, assume il significato contrario l’attuale tendenza al manifestarsi dell’illetteratismo.
Da qualsiasi punto di vista sia descritta la situazione attuale si evidenzia
un rischio, un elemento preoccupante di crisi: la società
161
dell’informazione determina processi forti di unificazione e inclusione
ed altrettanto forti processi di esclusione e marginalizzazione. Questo è
il motivo che oggi rende più difficile riconoscere ed affermare, in modo
adeguato alle nuove richieste, diritti alla cittadinanza per tutte e per
tutti.
Nel 1996 l’OCSE, nella conferenza dei Ministri del Comitato
dell’educazione, ha affrontato questi problemi ed ha sviluppato il progetto di apprendimento per tutti e per tutte le età della vita, come impegno di governi partecipanti. Nel 1996 si delineavano, in questo modo, i
tratti di politiche adatte a portare tutta la popolazione a superare i livelli di istruzione secondaria e verso l’istruzione di terzo livello, come
condizione necessaria per lo sviluppo delle comunità nazionali e come
diritto per i cittadini, e si designavano le strategie di intervento su quelle fasce adulte della popolazione che non sono più in età scolastica, ma
che comunque ancora chiedono/esprimono/denunciano il bisogno di
apprendere. Le ricerche IALS SIALS hanno quindi esplorato i fattori
che nei vari paesi influenzano lo sviluppo di competenze e abilità della
popolazione adulta nei diversi contesti di vita: lavoro, casa, socialità.
Per molto tempo i livelli di competenza alfabetica sono stati definiti in
rapporto ai titoli di studio [totale mancanza di scolarizzazione = analfabetismo; frequenza compiuta della scuola elementare = competenza
alfabetica di base; frequenza compiuta della scuola secondaria = competenza alfabetica funzionale]. Queste definizioni sono utili per studi
demografici che forniscono indicazioni sui titoli di studio della popolazione nei vari paesi, ma hanno scarso valore scientifico. Il limite di questo punto di vista è quello di considerare soltanto la scuola come luogo
di acquisizione di competenze alfabetiche e non considerare l’efficacia
delle politiche che possono essere prodotte in senso sociale, di trascurare il fatto che saper leggere è una competenza che può nascere ed arricchirsi in contesti più adeguati alla esperienza dei soggetti adulti.
L’esplicita preoccupazione dell’OCSE, fin dal 1992, è che la debolezza
dei livelli di literacy possa compromettere, per interi paesi e per larghissimi settori della popolazione, lo sviluppo economico e la coesione
sociale. Il cambiamento dei modelli di vita e di lavoro, la globalizzazione economica e lo sviluppo della società dell’informazione e della comunicazione richiedono ai singoli cittadini e all’insieme delle popola-
162
zioni competenze sempre più elevate; questo processo, se non viene indirizzato e governato, promuove nuove e più drammatiche inadeguatezze.
Alcune considerazioni aggiuntive possono apparire ovvie, ma è bene
richiamarle:
1. l’esposizione dei bambini nella prima età della vita a materiali di
comunicazione scritta o presentati in formati stampati, li porterà ad
avere vocabolari più ricchi ed una maggiore disinvoltura nella comunicazione delle idee;
2. il letteratismo è una competenza che condiziona le opportunità di
lavoro;
3. la qualità della vita delle persone anziane dipende significativamente
dalla capacità di comunicazione anche attraverso la lettura e la scrittura;
4. il letteratismo (competenza alfabetica funzionale) è correlato ai livelli economici e alle condizioni di welfare;
5. esiste un rapporto tra livello di letteratismo e partecipazione ad attività di educazione permanente.
Di qui scaturiscono tre grandi questioni politiche e culturali:
1. I livelli di scolarità non permettono di rappresentare in modo adeguato le reali competenze di una popolazione;
2. I politici devono imporre ai responsabili di attività economicoproduttive il problema dell’investimento in capitale umano;
3. L’ineguaglianza economica tende a crescere, nonostante
l’investimento in educazione.
Misurarsi con tali questioni è esenziale per progettare politiche che vogliano avere effetti non solo compensativi rispetto ai bisogni formativi
della popolazione, ma ne vogliano arricchire il patrimonio socioculturale.
La relazione tra il livello di sviluppo economico di un paese e il suo investimento nell’educazione è a doppio senso. Se il livello di sviluppo è
il primo fattore che determina la quantità di risorse che un paese può
investire nell’istruzione, l’investimento nell’istruzione a sua volta risulta avere ricadute positive sulla crescita economica nazionale. Recenti
163
studi sui benefici degli investimenti in capitale umano dimostrano che
gli investimenti sull’istruzione/formazione hanno chiari benefici sociali
oltre che individuali. Il livello di istruzione della forza lavoro si riflette
infatti non solo sulle prospettive di occupazione e di reddito dei singoli
individui, così come sulla loro salute e sul benessere che proviene sia
dall’apprendimento in se stesso che dall’esercizio delle abilità apprese,
ma in modo ancora più evidente sulla crescita economica nazionale.
L’Italia è uno dei Paesi dell’OCSE dove l’investimento nel capitale umano in termini di istruzione risulta essere più fortemente associato
con la crescita del PIL pro capite, spiegando oltre mezzo punto percentuale di tale crescita nel corso degli anni ’90 (OECD 2001). Come si è
precedentemente accennato, si sta verificando l’eccezionale aumento
della popolazione non attiva.
Prima che l’invecchiare della popolazione e il crescente numero di pensionati in rapporto alla popolazione attiva limiti le risorse come si può
sfruttare la situazione demografica favorevole ad in investimento
nell’istruzione mirato a portare il livello di istruzione della popolazione nelle medie europee?
Uno dei fattori che contrasta l’atrofizzazione delle competenze alfabetiche successiva alla loro acquisizione è l’opportunità di esercitarle,
mantenerle e aggiornarle. Se una delle principali opportunità per esercitare tali competenze è costituita dal tipo di occupazione svolta nella vita adulta, importante è anche la partecipazione degli adulti ad attività di
istruzione e di formazione permanente. In Italia poco più di un quinto
della popolazione adulta di 25-64 anni (22%) partecipa ad attività di istruzione e formazione permanente e la percentuale scende al 16% se si
considerano esclusivamente i corsi legati al lavoro (OCSE, 2001). È
coinvolto in attività di formazione il 29% degli adulti che hanno
un’occupazione e il 17% dei disoccupati. Il tempo individuale investito
nella formazione è in media 173 ore all’anno se si considerano tutti i
corsi e di 97 ore all’anno se si considerano solo i corsi connessi al lavoro. Il confronto internazionale mostra forti disparità nelle opportunità
formative degli adulti: l’Italia, insieme all’Irlanda e al Belgio, ha un tasso di partecipazione ad attività di formazione per adulti che è meno della metà di quello di altri paesi come la Germania e il Regno Unito ed è
superiore solo a quello del Portogallo. I tassi di partecipazione
164
all’istruzione e alla formazione permanente aumentano con il livello di
istruzione: mentre la metà dei laureati è coinvolto in attività di formazione nella vita adulta, solo un diplomato di scuola secondaria inferiore
su dieci gode di questa opportunità.
Tabella n. 2
Tasso di partecipazione all’istruzione e alla formazione permanente e livelli di
istruzione
Portogallo
Italia
MEDIA UE
Regno Unito
Germania
Svezia
Secondaria inferiore
Secondaria superiore
Università
Tutti i livelli di istruzione
8
9
22
33
22
36
39
37
44
58
45
58
55
52
61
75
64
70
13
22
37
45
48
54
Fonte: International Adult Literacy Survey, in OECD, 2001
Per quanto tale tendenza sia comune a livello internazionale, in Italia
essa è estremizzata, con il risultato di sprecare un’ulteriore occasione
per accrescere il livello culturale e le potenzialità dei singoli individui
così come della società nel suo complesso.
Qual è la situazione a San Marino? Le tendenze complessive, e in particolare lo svantaggio culturale di una parte della popolazione adulta giovane, rischiano di creare i presupposti per una subalternità culturale ed
economica nei confronti di Paesi con un livello di istruzione complessivo più elevato – data l’apertura dei confini nazionali ad una immigrazione di alto profilo – e per il manifestarsi di intolleranze nei confronti
dei movimenti migratori dai Paesi in via di sviluppo, che saranno necessari per far fronte all’invecchiamento della popolazione.
Si può continuare a mantenere un livello alto di sviluppo con il persistere di un livello comparativamente basso di istruzione/formazione
della popolazione?
Nel quadro della competizione globale, si può continuare ad essere ricchi ed ignoranti per più generazioni?
165
È sostenibile oggi, nell’epoca della globalizzazione, una politica
dell’istruzione/formazione che lascia indietro una parte tanto cospicua
della formazione?
Come far crescere nell’opinione pubblica e nei giovani la consapevolezza che l’ignoranza è una malattia che esclude dai diritti di cittadinanza e dal lavoro?
Quali effetti può avere l’insufficiente livello di istruzione/formazione
della popolazione adulta rispetto ad un esercizio responsabile dei diritti
e doveri di cittadinanza, ad una partecipazione attiva e consapevole alle
istituzioni democratiche e alla capacità di stare sul mercato del lavoro?
Quali interventi e politiche possono favorire lo sviluppo della capacità
e del desiderio di apprendere lungo il corso di tutta la vita nella prospettiva di una lifelong society?
Quali iniziative nell’ambito della educazione per gli adulti sono più efficaci nel contrastare il fenomeno di un analfabetismo di ritorno che,
nei Paesi industrializzati, riguarda dal 25% al 50% della popolazione?
In altre parole, occorrono immediate iniziative capaci di innestare una
dinamica di accelerazione e di intensificazione degli interventi sulla popolazione adulta che contrastino l’illetteratismo. Quello che occorre
delineare è un profilo della popolazione, a realizzare il quale concorrano interventi che si distribuiscono lungo l’arco della vita. Intervenire
sugli anziani, sui genitori non può che avere un effetto di accelerazione
nel raggiungimento di nuovi livelli culturali. Stabilire una relazione positiva tra l’esperienza che bambini e ragazzi effettuano nella scuola e
quella che si propone alle generazioni adulte va considerata una condizione perché si conservi e si accresca la competenza alfabetica.
Agli adulti devono essere rivolte proposte che si qualifichino specificamente per il loro carattere di istruzione: imparare a tutte le età è una
reale condizione per la vita democratica.
Oltre a sviluppare l’analisi dei dati raccolti nell’ambito della ricerca
SIALS, occorre avviare un impegnativo programma di attività, il cui
scopo è fornire elementi utili per l’elaborazione di una strategia di intervento capace, da un lato, di contrastare le tendenze regressive in corso, dall’altro di avviare un progetto d’ampia portata che si proponga di
elevare il livello culturale della popolazione.
166
Occorre pensare di istituire un Osservatorio Nazionale, le cui prime
iniziative siano la messa a punto di una metodologia e di uno strumentario per la stima dei repertori di competenza nei diversi strati di popolazione e la rilevazione con continuità, anche al fine di costituire serie
diacroniche, del livello di competenza alfabetica. Vale la pena di osservare che se si dovesse riscontrare anche da noi, in particolare nella popolazione giovanile, una consistenza del fenomeno dell’illetteratismo di
dimensioni paragonabili a quelle della Francia, sarebbe necessario un
ripensamento accurato delle politiche che riguardano la formazione
professionale. Non poter contare su una competenza alfabetica preesistente fa venir meno, infatti, una condizione per gli interventi formativi che è stata finora considerata disponibile.
Non minore rilevanza ha la disponibilità di dati descrittivi sulla consistenza dei repertori verbali. Molti segni lasciano intendere che il lessico
disponibile per una larga parte della popolazione è piuttosto limitato, e
forse in contrazione ulteriore. Anche senza evocare lo scenario della
neolingua di Orwell, si può facilmente convenire sull’importanza della
disponibilità di lessico per la definizione di profili culturali che si caratterizzino per un libero esercizio del pensiero, per la capacità di comprendere la complessità del mondo contemporaneo e di essere soggetti
attivi nel confronto politico: in breve, per un’effettiva partecipazione
alla vita democratica. Quel che dalle ricerche IALS e SIALS emerge con
evidenza è che la scolarizzazione, almeno per il modo in cui si è storicamente sviluppata, non costituisce più una condizione sufficiente per
assicurare ai cittadini delle società democratiche il corredo di competenze fondamentali di cui hanno bisogno. Anche assumendo una qualità dell’istruzione scolastica migliore di quella effettivamente disponibile, si avrebbe, in assenza di una politica di manutenzione delle competenze acquisite, una possibilità solo parziale di contrastare la regressione del letteratismo. Dalle indagini IALS e SIALS viene confermata, infatti, una interpretazione complessa del sistema educativo, per la quale
il profilo culturale della popolazione (nel complesso, nelle singole fasce
d’età e nei singoli soggetti) non può essere spiegato come effetto di una
causalità lineare riferibile principalmente alla scuola, ma piuttosto come una condizione instabile, i cui caratteri appaiono correlati al modificarsi di una quantità di condizioni di contorno. In altre parole, gli in-
167
terventi sulla scuola modificano solo parzialmente e in modo transitorio il profilo della popolazione, perché sia sulla loro efficacia nella prima parte della vita, sia sulla persistenza dei messaggi trasmessi incidono
numerosi altri fattori, culturali e affettivi, di origine sociale.
Constatare che ciò che si apprende a scuola permane solo per un certo
tempo, e che si perde la memoria di quanto non sia confermato da esigenze o esperienze successive, non costituisce una novità. La novità
semmai consiste nell’estendersi della decadenza degli apprendimenti da
campi specifici della conoscenza (ad es. la storia o la chimica) a componenti fondamentali della competenza culturale, come sono quelle alfabetiche. È una novità che pone seriamente in crisi un criterio generalmente accettato, e cioè che da una quantità sovrabbondante di acquisizioni volatili derivi comunque un effetto di trasferimento capace di stabilizzare le competenze di base.
Ebbene le ricerche IALS e SIALS dimostrano che ciò non è più vero e
che anche l’effetto di trasferimento è soggetto a decadenza, in tempi
sempre più brevi. Di conseguenza, se occorre rivedere i criteri sui quali
si fonda l’istruzione nella scuola, occorre anche un’azione sistematica
che si sviluppi dopo la scuola, al fine di conservare integro e, se possibile, di accrescere il repertorio delle competenze di base, anche aggiornandolo in funzione di nuove esigenze.
Le riflessioni e le indicazioni sinora proposte denotano in modo inequivocabile che, a livello mondiale, siamo di fronte ad un malessere della democrazia. In tutti i paesi industrializzati, compresa la Repubblica
di San Marino (e per questo aspetto non occorrono dati statistici comparativi per supportare annotazioni) sono prevalenti efficientissimi sistemi di condizionamento, non di sviluppo della consapevolezza.
Si affermano modelli consumistici, che coinvolgono tutta la popolazione, comprese le giovani generazioni. Anche i cosiddetti bisogni giovanili sono bisogni indotti. Una politica democratica richiede di mettere in
moto i meccanismi che accrescano le capacità degli adulti di riflettere
sull’esperienza, che estendano la capacità dialettica (specie nella situazione attuale, in cui generalmente si è portati, piuttosto che a dialogare,
ad ascoltare soltanto), che coltivino la conoscenza legata alla conservazione del linguaggio.
168
Non occorre ulteriormente sottolineare che fra i giovani e nella età di
mezzo, si verifica una pericolosa regressione nel possesso delle competenze della lingua italiana: predominano lessico povero, sintassi sgangherata, capacità argomentativa ridotta al minimo. È perciò urgente intervenire in modo nuovo, con l’attivazione di una politica in cui la ragione riprenda la sua parte e diventi criterio di riferimento comune.
Occorre capire che nella dinamica della popolazione esiste una fase evolutiva più rapida e una fase evolutiva con tempi più distesi.
La fase evolutiva più rapida è da 0 a 18 anni di età; la fase successiva riguarda tutta la popolazione e richiede una logica di intervento che non
può che essere diversa dalla politica degli interventi sulla fascia in età
scolarizzabile. Tale logica innovativa deve toccare l’organizzazione sociale, nel senso che è la società che dovrebbe diventare cultura. In realtà
la società è sempre cultura; però nella fase attuale la cultura è finita con
l’essere subalterna a processi di accumulazione. Nelle politiche sociali la
Repubblica di San Marino, approfittando del proprio ruolo all’interno
del Consiglio d’Europa, ruolo che non desta alcun sospetto di mire espansionistiche, può usufruire di una situazione non negativa per proporre progetti coordinati da San Marino. Un piccolo paese può proporre grandi idee; un progetto presentato da San Marino, se interessante, può diventare coinvolgente. San Marino deve distinguersi per originalità e fertilità dei progetti: in questo caso la “debolezza rappresentativa” - in senso quantitativo - può diventare un elemento di forza. Un
grande paese, grande dal punto di vista quantitativo, conta per altre ragioni, ma dal punto di vista delle proposte ha maggiori difficoltà, in
quanto tutto ciò che proviene da un grande paese suscita diffidenza. Un
progetto per la popolazione può diventare l’aspetto caratterizzante, a
condizione che si segnali per originalità, e non sia subalterno a scelte
fatte. Il problema è come e dove intervenire: occorrono dati sulle competenze alfabetiche della popolazione adulta, per stabilire quanto un
certo numero di fenomeni tocca San Marino, spingendo in parallelo
analisi e progetto.
169
La nascita dell’Osservatorio
Nell’ottobre del 2004 nasce, da una collaborazione tra la Segreteria di
Stato per la Sanità, la Sicurezza Sociale, la Previdenza, gli Affari Sociali
e le Pari Opportunità e la Fondazione San Marino della Cassa di Risparmio, l’Osservatorio sul Profilo della Popolazione con lo scopo di
rilevare, in chiave sincronica e diacronica, i tratti che caratterizzano il
profilo culturale della popolazione della Repubblica di San Marino con
particolare attenzione sia ai tratti che sono oggetto di riflessione in
campo internazionale, perché rivelatori di cambiamenti di rilievo nelle
caratteristiche delle popolazioni dei paesi industrializzati, sia a quelli
che meglio identificano l’eredità storica della cultura sammarinese.
Tutti i dati raccolti dall’Osservatorio saranno posti a disposizione del
pubblico, sia in forma di data base ad accesso libero, sia tramite le elaborazioni che l’Osservatorio riterrà di effettuare, tenendo anche conto
delle esigenze e delle proposte emergenti.
A differenza dei dati offerti dai repertori consueti, il cui orientamento è
prevalentemente di stock (volto cioè alla rilevazione dei valori quantitativi che una variabile assume in un momento determinato), i dati statistici proposti dall’Osservatorio risponderanno all’esigenza di individuare i flussi che si collegano a determinate variabili. Ciò per consentire l’individuazione tempestiva di variabili in grado di modificare il profilo culturale della popolazione.
L’attività dell’Osservatorio avrà essenzialmente carattere conoscitivo.
La valutazione dei dati e delle tendenze sarà effettuata nell’ambito del
confronto politico-culturale derivante dagli elementi di consapevolezza
che l’Osservatorio offrirà alla società sammarinese. In altre parole,
l’Osservatorio delineerà un certo numero di scenari, più o meno distanti nel tempo: in relazione ad essi, a seconda del giudizio che se ne
dà, sarà possibile avviare azioni di accelerazione o di contrasto.
Occorre disporre di modelli dinamici circa il modificarsi, con la cultura, degli atteggiamenti sociali, della disponibilità all’adattamento, della
sensibilità nei confronti degli altri, nell’accettazione della diversità. Le
analisi debbono investire, in particolare, le componenti critiche della
vita sociale (nei diversi aspetti economici, occupazionali, di relazione).
Sono state individuate alcune principali aree di interesse, da interpretare complessivamente, in una visione di insieme:
170
ƒsanità
ƒlavoro
ƒcultura
ƒfenomeni microsociali
ƒnuzialità
ƒnascite
ƒrelazioni parentali
ƒcrescita dei bambini
ƒriti di passaggio (infanzia, adolescenza, età adulta…)
ƒriti irrisolti (trascinamento dell’adolescenza, non insorgenza della
responsabilità ecc.)
ƒrapporti fra le fasce d’età
ƒutilizzazione delle risorse, individuali e collettive.
Finora questi fenomeni hanno avuto una lievitazione spontanea. Rendersi conto di che cosa stia succedendo significa iniziare quel percorso
attraverso cui non si smette di ragionare e di intervenire sulla popolazione con la fine della scuola.
È indispensabile avviare ricerche sistematiche, coordinate e sequenziali,
che si propongano di definire il quadro delle competenze culturali della
popolazione capaci di incidere sulle condizioni di vita.
Fino ad ora il benessere ed il mantenimento dello stato sociale è stato
tale da far supporre che fosse impossibile tornare indietro; nella attuale
contingenza, appaiono segni, invece, della possibilità che si possa tornare indietro.
Occorre uscire dalle suggestioni oniriche sostenute dai condizionamenti operati dai mezzi di comunicazione: i cittadini devono fare affidamento sulla ragione ed operare scelte conseguenti alla conoscenza della
realtà in cui sono inseriti. In altre parole, debbono essere ben svegli: il
sogno induce a chiudersi nel privato, mentre per operare nel pubblico
occorre una riflessione alimentata dalla conoscenza.
L’Osservatorio dovrà svolgere un’opera di informazione comparativa,
e richiamare il paese a riflettere sulla sua condizione, contrastando atteggiamenti di critica qualunquista.
171
Il progetto che si è inteso realizzare con l’istituzione dell’Osservatorio
sul Profilo della Popolazione richiede una costante attenzione nei confronti dell’emergere di tratti nei comportamenti e nei profili collettivi,
oltre ad una altrettanto grande attenzione nei confronti del progredire
dei modelli e procedure per l’analisi dei fenomeni culturali a livello sociale.
Prima Indagine sul profilo culturale della popolazione adulta della Repubblica di San Marino
Scopo dell’indagine è rilevare il livello delle competenze alfabetiche disponibili nella popolazione adulta della Repubblica di San Marino.
Il contesto è costituito dalle analisi effettuate dall’OCSE nella maggior
parte dei paesi industrializzati, dalle quali emerge la tendenza alla regressione nel livello delle competenze alfabetiche, che si traduce in una
diffusa difficoltà nella comprensione dei messaggi scritti.
La metodologia dell’indagine sarà analoga a quella adottata per una ricerca consimile in atto nella regione Campania (cfr. V.Gallina –
B.Vertecchi, Prevenzione e diagnosi dell’illetteratismo, Milano, Angeli,
2004).
Congiuntamente il Comitato Scientifico ed il Comitato Esecutivo si
occuperanno di organizzare l’Indagine sul profilo culturale della popolazione adulta della Repubblica di San Marino, ed in particolare di:
- Predisporre il rilevamento del livello delle competenze alfabetiche disponibili nella popolazione adulta della Repubblica di San Marino.
- Proporre una situazione di contesto analogo a quello costituito dalle
analisi effettuate dall’OCSE nella maggior parte dei paesi industrializzati;
- Adottare una metodologia di indagine analoga a quella attuata per una
ricerca consimile nella regione Campania (cfr. V.Gallina – B.Vertecchi,
Prevenzione e diagnosi dell’illetteratismo, Milano, Angeli, 2004).
Studio Preliminare: la costruzione del campione
Le dinamiche socio-demografiche ed economiche della popolazione
forniscono lo scenario di riferimento per la giusta lettura dei risultati
dell’indagine campionaria. Il quadro generale, a livello nazionale, è stato tracciato attraverso l’analisi dell’evoluzione dei fenomeni socio-
172
demografici nell’ultimo ventennio. Lo spaccato dell’attuale distribuzione territoriale, delle caratteristiche della popolazione, è stato effettuato attraverso un’analisi micro-territoriale dei singoli Castelli, con il
supporto delle mappe tematiche. Lo studio preliminare è uno strumento importante per poter meglio calibrare il campione sul quale vengono
osservati aspetti specifici della popolazione, permette di contestualizzare i risultati dell’indagine campionaria, e facilita l’interpretazione
dell’esito della ricerca.
L’evoluzione della popolazione: quadro nazionale
La Repubblica di San Marino nell’ultimo ventennio ha assistito ad un
mutamento dello scenario demografico, si è verificata una elevata crescita demografica (di circa il 36%), gli abitanti sono aumentati da 21.537
del 1980, a 29.241 dell’anno attuale (grafico 1), le famiglie sono aumentate del 77%, nel 1980 erano 6.835 attualmente sono 12.115, ed i nuclei
famigliari si sono ristretti, il numero medio di componenti è sceso da
3,15 a 2,58 (grafico 2).
Incremento della Popolazione
30000
28000
26000
24000
22000
20000
18000
16000
14000
12000
01
00
99
98
97
96
95
94
93
92
91
02
20
20
20
19
19
19
19
19
19
19
19
89
88
90
19
19
19
86
87
19
19
85
femmine
19
83
84
19
19
81
82
19
19
80
maschi
19
19
19
80
10000
popolazione
Grafico 1
173
Nr medio di componenti per famiglia
3,20
3,00
2,80
2,60
2,40
2,20
1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Grafico 2
La struttura per età della popolazione ha subito un invecchiamento, fenomeno visibile anche dall’analisi degli ultimi 10 anni. L’età media della popolazione è cresciuta da 38,1 del 1992 a 40,8 anni del 2003 e
l’indice di ricambio generazionale è aumentato da 77,44 a 115,92 (numero di residenti tra i 60 ed i 64 anni ogni 100 giovani tra i 15 ed i 19
anni).
Dal confronto delle piramidi dell’età (grafico 3) si percepisce
l’evoluzione della popolazione, il lieve allargamento della base indica
l’aumento delle nascite, infatti l’indice del carico dei figli per donna è
passato da 0,22 a 0,25, e le nascite sono cresciute del 23%1.
L’ampliamento del vertice segnala l’allungamento della vita nelle fasce
di età più anziane, tanto che l’indice di vecchiaia è passato da 90,80 a
107,10 (numero di abitanti con più di 65 anni ogni 100 giovani con
meno di 15 anni).
1
Il dato tiene conto anche delle nascite avvenute fuori territorio
174
Piramide dell'età 1992
80 -84
70 -74
60 -64
50 -54
40 -44
30 -34
20 -24
m
f
10-14
1- 4
-5,0%
-3,0%
-1,0%
1,0%
3,0%
5,0%
Piramide dell'età 2003
80 -84
70 -74
60 -64
50 -54
40 -44
30 -34
20 -24
10-14
m
1- 4
f
-5,0%
-3,0%
-1,0%
1,0%
3,0%
5,0%
Grafico 3
Si osserva anche uno sbilanciamento della popolazione femminile, infatti l’andamento del rapporto di mascolinità nel tempo è tendenzialmente aumentato passando da 100,1 uomini per 100 donne del 1980, a
103,9 donne per 100 uomini nel 2003, con un di incremento massimo
nel 1997 (grafico 4).
175
Andamento del tasso di mascolinità
106
105
104
103
102
101
02
20
00
20
98
19
96
19
94
19
92
19
90
19
88
19
86
19
84
19
82
19
19
80
100
Grafico 4
L’evoluzione demografica ha avuto impatto anche sugli aspetti sociali,
il numero di matrimoni celebrati nella Repubblica è aumentato di circa
il 9,5%, una crescita maggiore si è verificata per i matrimoni con almeno un coniuge di cittadinanza della Repubblica di San Marino (19,6%).
L’incidenza dei matrimoni con coniugi di cittadinanza mista è passata
da 65,7% all’80,8%, ciò indica che vengono favoriti scambi con altre
popolazioni per motivi di studio, lavoro o ricreativi (Grafico 5).
L’età media al matrimonio dal 1980 è cresciuta sia per gli uomini che
per le donne, passando da 27,2 a 32,5 per i primi e da 24,1 a 28,6 per le
seconde.
176
Trend dei matrimoni
240
220
200
180
160
140
120
100
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
nr matrimoni celebrati
nr matrimoni con almeno uno dei coniugi sammarinesi
nr di matrimoni con un solo coniuge sammarinese
Grafico 5
Il cambiamento sociale registra anche l’innalzamento del livello
d’istruzione (grafico 6), con una conseguente riduzione degli analfabeti
ed un aumento delle persone con un diploma di scuola media secondario o con titoli universitari .
Incidenza del Grado di istruzione
1980
5,9%
2,1%
Diploma universitario
2003
1,1%
0,2%
17,8%
7,1%
Diploma di qualifica
9,1%
4,5%
25,3%
17,0%
15,2%
Licenza elementare
6,8%
Analfabeta
0,3%
0,0%
23,4%
19,5%
2,5%
5,0%
10,0%
15,0%
20,0%
25,0%
Grafico 6
Il quadro economico è mutato in funzione dei mutamenti demografici,
l’indice di dipendenza è aumentato passando da 42,62 a 45,64, ciò significa che per ogni persona in età lavorativa è aumentato il numero di
177
persone a carico in età non attiva, tale incremento è causato soprattutto
dall’aumento della popolazione anziana, infatti l’indice di dipendenza
giovanile è rimasto pressocchè uguale (da 22,34 a 22,04), mentre è aumentato notevolmente quello dell’età anziane (da 20,28 a 23,60).
L’economia interna assorbe gran parte degli occupati il 65,11%, su un
totale di 95,85% occupati. I settori che offrono maggior impiego sono i
servizi, commercio e turismo (tabella 1).
Settore di attività
(anno 2003)
% di addetti
39,6%
29,8%
14,3%
9,4%
3,7%
1,8%
1,4%
100,0%
Servizi
Commercio e Alberghi
Industrie Manifatturiere
Costruzioni e Impianti
Trasporti e Comunicazioni
Agricoltura
Credito e Assicurazioni
Totale
Tabella 1
Il livello di disoccupazione è basso, e rispetto al titolo di studio, i disoccupati si concentrano tra i gradi di istruzione più elevati, diploma di
scuola media secondario o titoli universitari (Tabella 2).
Titolo di studio
(anno 2003)
Diploma elementare o media inferiore
Diploma o laurea
Titolo estero
Totale
Tabella 2
178
F
M
Totale
123
310
21
454
57
114
3
174
180
424
24
628
La distribuzione territoriale dei fenomeni socio-demografici: analisi microterritoriale
La Repubblica di San Marino è caratterizzata da una dimensione demografica estremamente piccola (il numero di abitanti non supera 30.000),
i nove Castelli di conseguenza hanno un esiguo numero di abitanti,
tanto che il più piccolo ha 793 residenti ed il più grande non supera i
10.000 abitanti. La distribuzione della popolazione sul territorio non è
omogenea, al centro ed al nord si trovano i Castelli densamente più
popolati, con un numero elevato di famiglie, e con maggior numero di
abitanti, mentre i Castelli posizionati più a sud sono a bassa densità,
con pochi nuclei familiari, e con poca popolazione (mappa 1, mappa
2, e mappa 3).
179
180
La composizione familiare è simile per tutti i Castelli (mappa 4), eccetto per San Marino che ha famiglie ristrette (2,28 componenti per famiglia) e per Montegiardino caratterizzato da nuclei abbastanza grandi
(2,64 componenti per famiglia). La distribuzione dell’età media nei singoli Castelli (mappa 5) mostra come la popolazione più anziana si concentra nei Castelli centrali, mentre quella più giovane nei Castelli più
esterni, a sud-est e nord-ovest. Confrontando queste due caratteristiche
con gli indici di dipendenza strutturale giovanile e della popolazione
anziana, si desume che Montegiardino ha famiglie allargate composte
sia da giovani che da anziani, San Marino insieme a Chiesanuova e Borgo Maggiore sono i Castelli con nuclei famigliari medio-piccoli e con
popolazione più anziana, mentre Faetano e Acquaviva hanno una minore composizione di popolazione anziana e una forte componente di
giovani (mappa 6 e mappa 7) .
181
182
I Castelli in cui il grado di istruzione è più basso sono quelli più a sud
(mappa 8 e mappa 9), mentre i Castelli al centro ed al nord hanno
un’alta concentrazione di popolazione con un titolo di scuola media
superiore o universitario (mappa 10 e mappa 11). San Marino è il Castello in cui la popolazione ha il più alto grado di istruzione .
183
184
185
La costruzione del Campione
Il campione è composto da 300 unità, le quali si distribuiscono per sesso su 5 classi di età, la numerosità di ciascuna classe è proporzionale alla
distribuzione della popolazione.
Popolazione
classi di età
Campione
M
F
Tot
M
F
Tot
26-35
2316
2471
4787
35
38
73
36-45
2622
2654
5276
40
41
81
46-55
1940
1940
3880
30
30
59
56-65
1571
1638
3209
24
25
49
66-75
1147
1294
2441
18
20
37
Totale
9596
9997
19593
147
153
300
Le distribuzioni territoriali della popolazione per classe di età e per sesso sono le seguenti:
Castelli
26-35
36-45
46-55
56-65
66-75
Totale
Acquaviva
1,8%
1,5%
1,0%
0,9%
0,7%
5,9%
BorgoMaggiore
4,8%
5,6%
4,4%
3,2%
2,6%
20,6%
Chiesanuova
0,8%
0,8%
0,7%
0,6%
0,4%
3,3%
Domagnano
2,3%
2,6%
1,8%
1,5%
1,2%
9,3%
Faetano
1,0%
1,0%
0,7%
0,5%
0,4%
3,5%
Fiorentino
1,8%
2,0%
1,4%
1,1%
0,9%
7,2%
Montegiardino
0,7%
0,7%
0,6%
0,3%
0,3%
2,5%
SanMarino
3,2%
3,7%
3,1%
3,1%
2,3%
15,4%
Serravalle
8,1%
8,9%
6,2%
5,2%
3,8%
32,2%
Totale
24,4% 26,9% 19,8% 16,4% 12,5% 100,0%
Castelli
Acquaviva
186
M
F
2,85%
Totale
3,02%
5,87%
BorgoMaggiore 10,14% 10,49%
20,63%
Chiesanuova
1,62%
1,67%
3,29%
Domagnano
4,56%
4,78%
9,35%
Faetano
1,75%
1,79%
3,54%
Fiorentino
3,57%
3,68%
7,25%
Montegiardino
1,18%
1,31%
2,49%
SanMarino
7,53%
7,89%
15,41%
Serravalle
15,78% 16,39%
32,17%
Totale
48,98% 51,02% 100,00%
La combinazione dei due caratteri fornisce la seguente struttura:
Classi di età
Sesso
26-35
36-45
46-55
M
56-65
F
M
66-75
M
F
M
F
Acquaviva
0,82%
0,95%
0,78%
0,73%
0,49% 0,51% 0,42% 0,51% 0,34% 0,31%
F
M
F
BorgoMaggiore
2,33%
2,51%
2,74%
2,90%
2,20% 2,16% 1,70% 1,54% 1,17% 1,38%
Chiesanuova
0,40%
0,40%
0,41%
0,43%
0,32% 0,34% 0,27% 0,30% 0,22% 0,20%
Domagnano
1,08%
1,19%
1,27%
1,33%
0,90% 0,88% 0,70% 0,75% 0,62% 0,63%
Faetano
0,50%
0,47%
0,50%
0,54%
0,38% 0,33% 0,22% 0,26% 0,15% 0,20%
Fiorentino
0,88%
0,94%
0,96%
1,08%
0,68% 0,68% 0,61% 0,52% 0,42% 0,46%
Montegiardino
0,29%
0,37%
0,33%
0,36%
0,34% 0,26% 0,15% 0,16% 0,08% 0,17%
SanMarino
1,59%
1,64%
1,90%
1,78%
1,49% 1,60% 1,44% 1,67% 1,11% 1,19%
Serravalle
3,93%
4,15%
4,51%
4,40%
3,10% 3,13% 2,51% 2,65% 1,74% 2,06%
Totale
11,82% 12,61% 13,38% 13,55% 9,90% 9,90% 8,02% 8,36% 5,85% 6,60%
187
I primi risultati
Come era composto il campione?
La rilevazione è stata realizzata nel periodo aprile /maggio 2005 su un
campione per quote costruito sulla base della variabile età. L’analisi dei
dati demografici evidenzia che il criterio adeguato per interpretare processi socio-culturali relativi ad un territorio abbastanza “ compatto”,
omogeneo per quanto riguarda le tipologie degli aggregati abitativi e le
condizioni di lavoro/non lavoro della popolazione residente, risulta essere quello che distingue la popolazione residente per fasce di età.
Fasce di età
Popolazione
26-35
24,8%
Tabella dati
36-45
46-55
26,4%
23,8%
56-65
13,2%
66-75
11,9%
scheda
Quali strumenti sono stati utilizzati?
La rilevazione delle competenze funzionali è stata fatta attraverso la
somministrazione di un questionario relativo alla condizione socioeconomica del rispondente e test cognitivi relativi a:
• Letteratismo (competenza alfabetica e matematica funzionale, literacy
e numeracy)
• Problem solving (capacità di analizzare e risolvere problemi)
Che cosa è la competenza funzionale?
188
Letteratismo: competenze e abilità necessarie per reperire e utilizzare informazione contenuta in testi scritti o in formati particolari (tabelle,
grafici), applicando formule matematiche e linguaggi formalizzati.
La misura della competenza posseduta è indicata su una scala articolata
in 4 livelli che evidenziano:
• Livello 1 - competenze estremamente fragili: rischio di analfabetismo
di ritorno;
• Livello 2 - competenze limitate, che permettono di svolgere solo
compiti molto semplici relativi alla lettura e scrittura nella vita quotidiana;
• Livello 3 - competenza relativamente solida, sulla quale è possibile
fondare nuovi apprendimenti;
• Livello 4 - sufficiente padronanza degli strumenti che nella società
della conoscenza consentono l’accesso all’informazione.
In che cosa si esprime il problem solving?
Problem solving – modalità di pensiero in situazione, che richiede di
operare scelte, sviluppando ragionamenti finalizzati ad uno scopo, per
raggiungere il quale non sono disponibili soluzioni precostituite.
La misura della competenza posseduta è indicata in riferimento ad una
scala articolata in 4 livelli che evidenziano:
• Livello 1 - capacità di reperire l’informazione necessaria per operare
una scelta [l’informazione è presentata in modo molto evidente];
• Livello 2 - capacità di reperire l’informazione necessaria per operare
una scelta [l’informazione è presentata in testi lunghi e formati diversi],
anche attraverso il confronto di diverse soluzioni;
• Livello 3 - capacità di operare scelte tra diverse alternative possibili ,
valutando costi e benefici;
• Livello 4 - capacità di pianificare diverse azioni per raggiungere uno
scopo, sapendo scegliere e valutando quali compromessi risultano necessari.
Ai quattro livelli indicati è stata aggiunta una posizione 0, per tener
conto delle persone intervistate che non sono riuscite a comprendere il
senso della prova. Quindi non hanno espresso alcuna risposta pertinente, o hanno preferito non affrontare la prova.
I titoli di studio e la popolazione
189
Il 44% circa della popolazione ha un titolo di studio superiore alla licenza di scuola secondaria inferiore [formazione professionale biennale,
qualifica di istruzione professionale triennale, diploma di secondaria di
secondo grado).
L’11% circa della popolazione ha un titolo post secondario (laurea, specializzazione, ecc.).
La media degli anni di frequenza della scuola è di 11,09 anni.
Tabella dati
Titolo di studio
NR
nessun titolo
licenza elementare
licenza media
corso di formazione professionale (2 anni)
istituti professionali (3 anni)
diploma di istruzione secondaria
titolo post-secondario
laurea
titolo post-laurea
Totale
L’istruzione per sesso e fasce d’età
190
Popolazione
0,3 %
2,6 %
14,9 %
27,7 %
2,3 %
6,6 %
34,7 %
0,3 %
9,6 %
1,0 %
100,0 %
L’effetto delle politiche di istruzione sull’insieme della popolazione è
evidenziato dallo studio della distribuzione dei titoli di studio per sesso,
nelle cinque fasce di età della popolazione intervistata.
Titolo di studio, sesso , fasce di età
26-35
36-45
m
f
m
f
Fino alla licenza elementare
6,5
2,3
Licenza Media
32,1 8,7 33,3 36,4
Corso formazione professio- 7,1 2,2 2,8
nale (2 anni)
Istruzione professionale (3
3,6 5,6 18,2
anni)
Diploma
46,4 54,3 44,4 36,4
Post secondaria
Laurea
10,7 17,4 13,9 4,5
Post lauream
2,2
2,3
46-55
56-65
66-75
m
f
m
f
m f
5,7 13,9 26,1 47,1 75,5 85
42,9 30,6 39,1 35,3
5
2,9 2,8 4,3
14,3
25,7 30,6 30,4 17,6 18,8 10
2,8
5,7 19,4
6,3
2,9
(In tabella sono indicati valori percentuali).
Si evidenzia il processo di progressivo rafforzamento delle politiche per
l’istruzione e la formazione rivolte all’insieme della popolazione.
Le giovani donne sembrano saper profittare di tutte le opportunità di
studio, in particolare di quelle che prevedono percorsi mediamente più
lunghi (qualifiche triennali, laurea, post diploma).
Gli interventi di pari opportunità dovranno comunque affrontare il
problema che si è evidenziato nel corso dell’indagine in relazione a giovani donne che non superano il livello della scuola elementare. Il dato
non ha valore dal punto di vista quantitativo, ma evidenzia la presenza
del fenomeno.
191
Due semicampioni a confronto
La popolazione maschile intervistata di meno di 50 anni di età ha almeno un titolo di studio di scuola media inferiore, i diplomati superano il 40% e i laureati il 10%.
La popolazione femminile intervistata di meno di 50 anni di età ha ridotto di oltre il 35% la quota di quante hanno solo la licenza elementare, ha triplicato la quota di quante hanno il diploma e portato a più del
10% la quota di quante hanno una laurea e oltre.
192
Le attività di Educazione degli Adulti. In che cosa consistono, chi vi partecipa
Il 15% circa della popolazione intervistata frequenta / ha frequentato
attività di Educazione degli Adulti. Le donne fruiscono di questa opportunità in misura maggiore degli uomini: il 17,2% delle donne contro
il 13% degli uomini.
I corsi più frequentati sono:
• Informatica 10%
• Spettacolo 4,3
• Lingue 8,7%
• Attività sportive 17%
• Corsi di cultura 4,3%
(N. B le percentuali sono relative agli intervistati che hanno risposto di
aver frequentato corsi; si indicano solo le attività che hanno avuto una
percentuale di adesioni che supera il 4%).
Quanto sono diffuse le nuove tecnologie
Il computer è usato / è stato usato da circa il 60% degli intervistati.
Alla domanda diretta circa l’uso di internet il 40% degli intervistati non
risponde.
Comunque il 40% degli intervistati ha familiarità con questa tecnologia.
193
Che cosa fanno i sammarinesi?
Più del 70% degli intervistati risultano occupati. La percentuale di studenti è modesta, ma questo dipende dal fatto che la rilevazione è stata
mirata sulla popolazione attiva, quella che, dopo i 25 anni, in genere ha
completato il ciclo di studi e si è inserita nel mondo del lavoro.
Il lavoro dipendente riguarda soprattutto le donne (74,3% delle occupate contro 49,1% degli occupati). La condizione di lavoro è stabile: il
92% degli uomini e l’86% delle donne dichiarano di avere un rapporto
di lavoro a tempo indeterminato.
194
Quali sono i livelli di letteratismo per età?
Condizione di occupazione e livello di istruzione sono le due variabili
che, insieme all’età, si correlano con la competenza alfabetica funzionale.
195
Quali sono i livelli del problem-solving?
Condizione di occupazione e livello di istruzione si correlano con la
competenza di problem-solving. La fascia più giovane appare per un verso poco impegnata (40% circa non affronta la prova), ma anche quella
che ha la percentuale più alta nel livello 4.
196
La comparazione internazionale
197
Tabella dati
(In tabella sono indicati valori percentuali)
198
Conclusioni
Dai primi risultati elaborati si evidenzia come la popolazione sammarinese presenti, in misura crescente procedendo dagli strati più anziani
verso quelli più giovani, livelli consistenti di scolarizzazione, paragonabili a quelli che si osservano nei maggiori paesi industrializzati. La distribuzione delle capacità alfabetiche (literacy, con elementi di numeracy) non segue tuttavia l’andamento della scolarizzazione. Nella popolazione sammarinese si osserva il presentarsi di tendenze regressive, che
interessano anche lo strato più giovane.
Si tratta di un fenomeno sul quale è in atto un vivace dibattito a livello
internazionale: ci si chiede perché le competenze alfabetiche decadano
più rapidamente ed in misura maggiore proprio negli strati di popolazione che hanno fruito di un periodo più esteso di istruzione scolastica.
C’è una evidente contraddizione, che può essere superata solo attraverso una riflessione che investa nel complesso gli atteggiamenti e le pratiche culturali della popolazione.
Una seconda indicazione riguarda l’uso di strumenti elettronici per
l’elaborazione e la comunicazione delle informazioni. I calcolatori appaiono ormai una presenza consueta nell’esperienza dei sammarinesi.
All’uso dei calcolatori non si associa tuttavia una crescita, o quantomeno un rinforzo, delle competenze simboliche: sembra trattarsi più di un
fenomeno di modernizzazione che di una nuova, effettiva opportunità
per incrementare con competenze di lungo periodo il profilo culturale.
Va nella medesima direzione la scarsa diffusione delle esperienze educative in età adulta. Se si esclude la fruizione di proposte che hanno una
immediata valenza utilitaria, la popolazione adulta non appare impegnata in attività dalle quali si possa attendere un effetto di manutenzione delle competenze di base o una riorganizzazione del profilo culturale. Quello che emerge è un problema di definizione di politiche culturali tese ad ottenere effetti di medio e lungo periodo.
Di estremo interesse sono i dati che riguardano lo strato più anziano
del campione rilevato (66-75 anni). È facile immaginare che si tratta dello strato che ha avuto meno opportunità di educazione formale. Tuttavia, si osserva in tale strato una considerevole propensione al pensiero
produttivo (problem solving). Anche questa è un’indicazione che merita di essere approfondita: ci si potrebbe chiedere in quale misura la
199
propensione ad un pensiero riproduttivo, frequente negli strati più giovani, sia da collegarsi a criteri e a scelte educative.
Entro la fine del 2005 l’Osservatorio metterà a disposizione della Repubblica di San Marino i risultati definitivi della prima indagine sul
profilo culturale della popolazione adulta attraverso una pubblicazione
edita dalla Casa Editrice Angeli di Milano.
Nel frattempo sta provvedendo ad elaborare le linee progettuali che
dovranno definire i contorni della prossima indagine conoscitiva che
andrà ad approfondire ulteriormente le criticità e le dinamiche scaturite
ed evidenziate da quella precedente.
Tutte le informazioni relative all’Osservatorio sia per quanto riguarda
le attività svolte fino ad oggi sia quelle future possono essere reperite
sul sito Web della Segreteria di Stato per la Sanità, la Sicurezza Sociale,
la Previdenza, gli Affari Sociali e le Pari Opportunità all’indirizzo
www.salute.sm.
200
CENSIMENTI DI CAPRIOLO (CAPREOLUS CAPREOLUS)
NELLA REPUBBLICA DI SAN MARINO APRILE 2005
METODI E RISULTATI
a cura del Centro Naturalistico Sammarinese
Introduzione
Questa relazione tecnica ha lo scopo di presentare i dati del censimento
della popolazione di Capriolo (Capreolus capreolus) realizzato sul territorio della Repubblica di San Marino nella primavera del 2005, su iniziativa dell’Ufficio Gestione Risorse Ambientali ed Agricole in collaborazione con il Centro Naturalistico Sammarinese. Lo scopo era quello di ottenere un dato relativo alla densità di questa specie sul territorio. Dai dati relativi ai sinistri automobilistici provocati da questa specie e dalle notizie riportate dalle Guardie del Servizio di Vigilanza Ecologica, la popolazione di Capriolo presente sul territorio della Repubblica sembra aver subito negli ultimi anni una notevole espansione. Eventuali interventi di gestione (prelievo) che si dovessero rendere necessari non possono prescindere da uno studio preventivo sullo status di
questa specie sul nostro territorio.
1. LA SPECIE
Morfologia
Figura 1 Dimensioni medie di un Capriolo rispetto a quelle di un uomo.
Il Capriolo (Capreolus capreolus) è il più piccolo fra i Cervidi presenti
sulla penisola italiana (Fig. 1)
201
È di dimensioni piuttosto variabili anche in funzione di fattori locali
come la disponibilità alimentare e la densità di popolazione, fattori che
influiscono anche sulla morfologia generale dell’animale. Nella Tabella
1 sono riportate le principali misure biometriche medie del Capriolo.
Tabella 1
MASCHIO
FEMMINA
115
105
Altezza al garrese cm
70-77
60-70
Peso pieno kg
21-25
20-23
Lunghezza cm
La sua struttura è tipica di un saltatore: esile e leggera, gli angoli degli
arti posteriori ridotti e raccolti, groppa più alta del garrese.
Queste caratteristiche fanno del Capriolo un animale agilissimo e velocissimo nella macchia ed in zone aperte, ma non adatto a terreni scoscesi e innevati; anche il suo palco è piccolo e rivolto all’indietro per facilitare il passaggio nella macchia.
Figure 2 e 3: Dimorfismo sessuale nel Capriolo.
La femmina (a destra), presenta macchia anale a
forma di cuore con presenza del tipico ciuffo di
peli vulvari, o falsa coda. Nel maschio, dotato di
palco, la macchia anale è reniforme (foto Archivio Parco Boschi di Carrega, M.Gianaroli modificata).
202
FALSA
CODA
Il Capriolo presenta un certo dimorfismo sessuale. Le femmine non
presentano il tipico palco. Entrambi i sessi possiedono un mantello
bruno, tendente al rossastro in estate, più scuro in inverno, con una
macchia di pelo bianco più o meno candido, nella regione perineale
(specchio anale). Questa, più evidente in inverno, si presenta a forma di
cuore nella femmina e di rene nel maschio. Altri caratteri distintivi fra i
due sessi sono il “pennello” del maschio, un ciuffo di peli presenti sul
prepuzio e la “falsa coda” (la coda è assente nel Capriolo) nella femmina, ciuffo di peli biancastri della vulva che conferisce allo specchio anale la caratteristica forma a cuore. Presenti in entrambe i sessi sono un
anello nasale di pelo bianco sopra al musello, ed una macchia golare
biancastra nel periodo invernale.
La distinzione fra i sessi si può quindi effettuare a distanza a partire da
tre mesi di età e si basa sui seguenti elementi:
1. Il palco è presente esclusivamente nel maschio e già a tre mesi
dalla nascita possono comparire i primi abbozzi frontali che cadono generalmente attorno ai nove mesi di età. La ricrescita è
pressoché immediata e ad un anno i maschi possiedono generalmente due piccole stanghe senza diramazioni (raramente forcute).
2. Lo specchio anale permette di distinguere molto efficacemente i
maschi dalle femmine. Nei maschi di profilo è possibile notare
anche il pennello.
Per quanto riguarda invece la suddivisione in classi di età si possono distinguere: piccoli dell’anno (JJ), subadulti di età compresa fra uno e due
anni (J o SAD) ed adulti di età superiore ai due anni (AD).
Per la valutazione dell’età nelle femmine sono considerati le dimensioni
del collo e l’atteggiamento (le dimensioni dell’animale spesso possono
portare ad errori, anche se possono essere considerate per distinguere i
piccoli dalle altre classi d’età). Nelle femmine piccole il collo risulta essere molto sottile, la stazza è inferiore ed il comportamento è giocoso.
Le subadulte possono essere distinte dalle adulte per la forma più leggera ed esile, il collo più sottile e la pancia incavata (sebbene spesso possano essere gravide; per questo tipico aspetto vengono chiamate anche
“sottili”).
203
Nei maschi viene valutato oltre a questi elementi, anche il trofeo. Il
maschio piccolo è riconoscibile per la bassa statura, la forma del corpo
esile e per la comparsa degli abbozzi frontali. I maschi da 1 a 2 anni
hanno invece, come già accennato, stanghe solitamente senza diramazioni che stanno sotto o di poco sopra al margine delle orecchie, ben
diversi dai palchi a tre cime degli adulti; questi ultimi hanno anche
un’aspetto più massiccio con collo molto robusto, corto e largo (queste
informazioni sono riportate anche su di un promemoria consegnato ad
ogni censitore e allegato a questa relazione).
Note sulla biologia
L’utilizzo dell’habitat, il comportamento sociale, le scelte alimentari ed
altri aspetti dell’ecologia del Capriolo seguono un ciclo annuale ben
preciso.
Per i maschi si possono riconoscere 5 fasi diverse durante il corso
dell’anno. Per le femmine queste si riducono a 4. Queste fasi di attività
sono schematizzate nelle tabelle che seguono.
Fase
Gerarchica
Periodo
Metà
febbraio-fine
aprile
Territoriale
Maggio – metà luglio
Amori
Metà luglio – metà
agosto
Metà agosto – metà
febbraio
Indifferente e Gregaria
Attività
Confronto tra i maschi e definizione
di gerarchie per l’occupazione dei territori
Delimitazione dei territori con marcamenti olfattivi, visivi e difesa attiva
Corteggiamenti e accoppiamenti
Raggruppamento di individui per la
confluenza di famiglie o gruppi famigliari
Tabella 2 Fasi di attività annuale del Capriolo maschio.
204
Fase
Scioglimento
gruppi
dei
Parentale
Periodo
Metà marzo – aprile
Maggio – metà luglio
Metà luglio – metà
agosto
Metà agosto – marzo
Amori
Gregaria
Attività
Graduale scioglimento dei gruppi familiari matriarcali in corrispondenza
dei parti
Paro, allattamento e cura dei piccoli
Corteggiamenti ed accoppiamenti
Raggruppamento di individui per la
confluenza di famiglie o gruppi familiari
Tabella 3 Fasi di attività annuali del Capriolo femmina.
Già da queste tabelle si può capire come il periodo migliore per una
stima complessiva della consistenza della popolazione sia il periodo che
va da metà agosto – settembre a febbraio – marzo, in quanto durante il
periodo invernale il Capriolo tende a costituire gruppi sociali molto
numerosi e compatti, fatto che rende molto più semplice
l’individuazione di un maggior numero di animali.
Riproduzione
La conoscenza delle abitudini riproduttive di una specie è fondamentale
per la pianificazione di qualsiasi intervento di gestione di una specie
selvatica.
Il ciclo riproduttivo del Capriolo è riassunto nello schema sottostante.
Da notare è la particolarità del Capriolo, unico fra i Cervidi, di possedere una gestazione per così dire “interrotta”. All’accoppiamento infatti (luglio – agosto) segue la cosiddetta “diapausa embrionale”, durante la
quale l’embrione resta libero nell’utero e si sviluppa assai lentamente.
La vera e propria gestazione riprende con l’annidamento dell’embrione
in dicembre – gennaio e dura fino maggio – giugno.
FEMMINA
Annidamento------Dic
Gen
gestazione-----Feb
Mar
parto/allattamento--accoppiamento--diapausa embrionale
Apr
Mag
Giu
Lug
Ago
Set
Ott
Nov
Ricrescita dei palchi---perdita velluto-------palchi puliti---- ---- accoppiamento-------- caduta dei palchi
MASCHIO
Tabella 4 Ciclo riproduttivo del Capriolo
205
Dinamica di popolazione e produttività
In una popolazione normalmente
strutturata di Capriolo, il rapporto fra i sessi si aggira attorno alla
parità, ma può spostarsi notevolmente a favore di uno o dell’altro
sesso in funzione di diversi fattori
in modo particolare in relazione
alle condizioni ambientali. Una
popolazione che si trova in ottime
condizioni, con una buonissima
disponibilità di risorse alimentari
produce un numero maggiore di
femmine, mentre in condizioni
sfavorevoli il rapporto si inverte.
La femmina rappresenta infatti la
Figura 4 Distribuzione del Capriolo in Italia
produttività di una popolazione e
fino a quando le caratteristiche ambientali (disponibilità alimentare, disponibilità di territori sufficientemente grandi per i maschi) lo consentono la popolazione tenderà ad aumentare.
In una popolazione anche stabile di Capriolo, il rapporto fra i sessi
tende comunque ad essere leggermente spostato verso le femmine. I
maschi infatti, per la forte territorialità della specie, sono soggetti a spostamenti maggiori e quindi sono esposti ad un maggior numero di pericoli (in modo particolare la classe dei maschi subadulti).
Per quanto riguarda la struttura di popolazione della specie, si è visto
che in una popolazione naturale solo pochi individui vivono fino all’età
di 7 – 10 anni o oltre (la vita massima di un Capriolo può essere di 15 –
17 anni in libertà e di 19 – 25 in cattività). L’età media si aggira sui 2,5 –
4 anni. Subito dopo le nascite i giovani dell’anno possono rappresentare anche il 50% dell’intera popolazione ma poi questo dato scende subito drasticamente ed in relazione alla presenza di diversi fattori di selezione (attività agricole, cani vaganti, presenza di rete stradale e inverni
particolarmente rigidi sono i fattori che maggiormente influiscono sulla
206
mortalità dei piccoli di Capriolo in un ambiente fortemente "antropizzato" come il nostro territorio).
Dai diversi studi sulle popolazioni di Capriolo condotti in tutta Italia
ed in Europa, si è notato che la classe portante di popolazioni di questa
specie è rappresentata dagli adulti nella quale la mortalità è minima (5 –
10%); è questa classe che permette la permanenza della popolazione.
La disponibilità di risorse su di un determinato territorio è uno degli
elementi fondamentali nella “regolazione” della densità di una popolazione. In particolare per il Capriolo il fattore limitante è la disponibilità di cibo. All’aumentare della disponibilità di cibo aumenta il successo
riproduttivo. Oltre un certo limite di densità però la produttività delle
femmine diminuisce (ritardo della pubertà, aumento del tasso di riassorbimento embrionale, alta mortalità neonatale) in quanto diminuiscono le risorse alimentari e quindi anche il peso delle femmine adulte
stesse.
Habitat ed alimentazione
Il Capriolo predilige i boschi misti con fitto sottobosco, alternato ad
ampie zone aperte (prati,
calanchi, seminati). Predilige quindi le zone ecotonali (zone di passaggio tra
ecosistemi differenti). È
capace di adattarsi ai più
svariati ambienti dalla
media montagna, alla collina, alla pianura. Non
sopporta l’innevamento
abbondante (a causa delle
ridotte dimensioni). Può
soddisfare le sue esigenze
Figura 5 Home range del Capriolo nel periodo riproduttivo: anche in territori relati1, maschi adulti; 2, femmine riproduttive (il pallino è il sito vamente piccoli (20 – 50
del parto); 3, femmine di un anno; 4, migrazione dei subaha) purché nella zona vi
dulti; 5, maschi di uno e due anni. (da Simonetta – Fulgheri
sia disponibilità di cibo ad
op. cit. )
alto valore nutritivo ed
207
una buona copertura vegetale. Originariamente il Capriolo occupava
boschi di latifoglie, con fitto sottobosco e ricco strato cespugliare come
ad esempio querceti o querco – castagneti, aperti da radure e prati. Attualmente sulla penisola italiana si può ritrovare ovunque, anche in
ambienti di pianura coltivate, interrotte da siepi, filari o margini di fossi (fig. 4)
È un brucatore altamente selettivo. Per le ridotte dimensioni del suo
rumine (6 – 8% del peso corporeo totale) ha bisogno d’alimenti molto
energetici (germogli, parti fresche di alberi ed arbusti, frutti) che devono essere assunti in numerosi pasti giornalieri. In tutti i ruminanti infatti la quantità di cibo ed il ritmo di assunzione sono regolate dalle
dimensioni del rumine stesso. L’attività di pascolamento presenta due
picchi, uno all’alba ed uno al tramonto e la durata massima del periodo
di pascolo è di 2 – 4 ore. Il quantitativo di cibo consumato è massimo
in primavera (80 g/kg di peso corporeo = 0,75%) e leggermente minore
in estate.
Utilizzo del territorio
L’utilizzo del territorio così come l’organizzazione sociale, nel Capriolo cambia nettamente nel corso dell’ anno. Si possono individuare due
periodi: la primavera inoltrata e l’estate (periodo riproduttivo), durante
le quali gli animali sono solitari e schivi, sparpagliati su tutto il territorio della popolazione e mostrano una spiccata territorialità mentre in
autunno ed inverno essi si concentrano in gruppi famigliari costituiti da
un elevato numero di individui, nei luoghi di alimentazione più favorevoli.
Il territorio in cui un Capriolo vive per un certo periodo di tempo
prende il nome di “home range”; questo può essere di dimensione variabile secondo il periodo dell’anno considerato, delle disponibilità alimentari presenti e del grado di copertura.
Nella figura 5 è rappresentata schematicamente la distribuzione degli
animali sul territorio nel periodo riproduttivo. I maschi di età superiore ai due anni, a partire dalla tarda primavera (dopo la pulitura del velluto), stabiliscono il territorio e lo difendono attivamente dopo averlo
delimitato con segnali visivi ed odorosi (figura 6). Spesso il territorio di
un maschio si sovrappone a quello di una femmina che si accoppia con
208
esso e che generalmente porta al seguito i piccoli dell’anno. Sempre
nell’home range del maschio dominante possono vivere giovani maschi
subadulti e sottomessi; quelli che invece esibiscono comportamenti territoriali sono allontanati e si diffondono sul territorio circostante.
Figura 6 Tipica marcatura territoriale del Capriolo; si notino le raspate realizzate con gli unghielli
sul terreno ed i fregoni sul fusto dell'albero. Questi segni rappresentano un doppio segnale: visivo ed
olfattivo. Il Capriolo maschio è infatti dotato di particolari ghiandole in zone strategiche del corpo,
che vengono utilizzate per marcare il territorio con il proprio “odore”.
La territorialità come già detto scompare nel periodo invernale e da ottobre fino a marzo è possibile osservare numerosi gruppi famigliari
convivere su di un ristretto territorio. Questo è il periodo più favorevole per compiere censimenti della specie.
Per quanto riguarda la dimensione degli home range, non esiste un dato
fisso. Questa dipende fortemente dalla quantità di risorse presenti sul
territorio. In presenza di un habitat ricco infatti è più probabile che la
densità di animali sia maggiore e quindi che gli home range siano di
209
conseguenza di dimensioni minori; viceversa in ambienti meno ospitali
la densità della specie sarà probabilmente minore e più vasti gli home
range.
Alcuni studi hanno dimostrato che su di un territorio rappresentato in
maggior parte da ambienti a mosaico di bosco e coltivi la densità può
raggiungere anche valori superiori a 30 individui/100 ha.
2. BREVI CENNI SUL TERRITORIO DELLA REPUBBLICA DI SAN MARINO
La Repubblica di San Marino è situata all’estremità più meridionale
dell’Appennino romagnolo di fronte al mare Adriatico, fra le province
di Rimini (confini Nord ed Est) e Pesaro – Urbino (confini Sud e Ovest) ad una ventina di chilometri dalla città di Rimini; ha
un’estensione totale di 6.119 ha.
Il territorio, che si sviluppa ad un’altezza compresa fra 53 e 739 m
s.l.m., è caratterizzato,in una sua metà, dalla presenza di una serie di
rupi calcaree (Nord-Ovest, Sud-Est), la più importante delle quali è
rappresentata dal Monte Titano. La restante porzione è invece caratterizzata per lo più da formazioni collinari degradanti verso la costa
(Nord-Est, Sud-Ovest). Questa zona è caratterizzata dall’abbondante
presenza di aree calanchive (18% del territorio totale).
I tre corsi d’acqua principali, per lo più a regime torrentizio (torrente
Marano, torrente Ausa e torrente S.Marino), coprono l’1% del territorio.
La popolazione residente ammonta a circa 26600 abitanti ma sale a ben
32200 se si prende in considerazione anche la popolazione avente rapporti di lavoro.
Per quanto riguarda l’utilizzo del suolo il 14% risulta edificato, le strade
ne coprono il 5%, la superficie agricola utilizzata costituisce ben il 47%
del territorio totale mentre il 18% è rappresentato, come già accennato,
da calanchi, il 15% da boschi e arbusteti e l’1% da corsi d’acqua (dati
forniti dall’ U.G.R.A.A., 2005).
Il clima risulta dall’insieme di più componenti climatiche: quella subcontinentale della confinante pianura padana, quella mediterranea della costa adriatica centro meridionale e quella dei rilievi appenninici; è
temperato con estati calde e inverni moderatamente freddi. Vista la par-
210
ticolare conformazione del territorio, costituito da un mosaico di ambienti notevolmente diversificati, si possono riscontrare numerose situazioni climatiche locali (microclimi). Le temperature medie vanno da
8,1 C° (minima) a 13,9 C° (massima). La media annua delle precipitazioni è di 898 mm distribuiti su 93 giornate (Suzzi Valli 1993). Le precipitazioni nevose risultano essere piuttosto variabili negli anni (molto
importanti durante l’ultimo inverno) con un leggero aumento medio
negli ultimi anni dopo un periodo di notevole diminuzione; raramente
possono verificarsi anche nel mese di marzo.
Per quanto riguarda la vegetazione, è necessario fare alcune considerazioni. Come molte altre zone d’Italia anche la Repubblica di San Marino in passato è stata caratterizzata da un intenso sfruttamento agricolo
del territorio, che ha portato ad un indiscriminato ed abbondante disboscamento del suolo. Tuttavia negli ultimi anni si è assistito ad un
graduale abbandono dell’attività agricola come risposta ad un sempre
maggiore sviluppo dell’industria. Questi processi hanno pesantemente
segnato l’evoluzione del territorio dal punto di vista paesaggistico e della vegetazione. L’intenso sfruttamento agricolo ed il conseguente abbattimento delle foreste (abbondanti nel passato) ha favorito la comparsa
di ambienti aridi, caratterizzati da un’abbondante erosione, quale quello dei calanchi. Tuttavia il graduale abbandono della campagna negli ultimi 50 anni ha consentito la lenta ricomparsa sul territorio di macchie
a carattere arboreo ed arbustivo al margine delle radure tuttora adibite
a colture.
Questa tipologia di ambiente, altamente diversificato e caratterizzato
dall’abbondanza di zone ecotonali (cioè di transizione da un tipo di vegetazione ad un altro), risulta particolarmente favorevole allo sviluppo
di popolazioni di Capriolo. Tuttavia dobbiamo considerare anche
l’elevata antropizzazione del territorio della nostra Repubblica.
L’elevata e diffusa urbanizzazione e tutti i rischi ad essa connessi, rappresentano infatti fattori di notevole disturbo per la fauna selvatica in
genere.
211
Figure. 7 e 8 Panorama della zona est (a
lato) nord (sotto) del territorio della Repubblica di San Marino. Si possono notare l’abbondante presenza di macchie ai
margini di aree agricole e la notevole disseminazione dell’abitato su buona parte
del suolo.
3. 1° CENSIMENTO DEL CAPRIOLO (Capreolus capreolus) SUL TERRITORIO DELLA REPUBBLICA DI SAN MARINO: METODI E RISULTATI
Obiettivi
Preliminare alla valutazione numerica di qualsiasi specie selvatica è
l’individuazione degli obbiettivi del censimento stesso. Definire lo scopo infatti è necessario per individuare le metodologie secondo cui si
vuole procedere ed effettuare una verifica al termine dei lavori.
Per quanto riguarda gli scopi, i censimenti di ungulati oltre ad avere finalità produttive, economiche, scientifiche e gestionali possono essere
arricchiti da contenuti educativi, divulgativi e di sensibilizzazione verso
un ben determinato problema, sia di un pubblico generale sia degli addetti ai lavori stessi.
L’obbiettivo primario di questo primo censimento della popolazione di
Capriolo sul territorio della Repubblica di San Marino, era quello di
ottenere il dato relativo alla densità e alla distribuzione di questo ungulato. Già da anni infatti gli avvistamenti da parte delle Guardie Ecologiche e di privati cittadini ed i sinistri, sempre più frequenti, lasciavano
presupporre non solo uno stabile insediamento ma anche un cospicuo
aumento della densità della specie. Ciò nonostante fino ad ora non erano mai state organizzate operazioni di censimento del Capriolo.
212
Sono stati coinvolti anche operatori esterni, interessati in qualche modo alla gestione della fauna selvatica sul territorio. In questo modo si è
cercato di diffondere e divulgare l’interesse e le conoscenze acquisite
anche all’esterno del gruppo degli “addetti al lavoro” in senso stretto.
Metodi
I censimenti possono essere suddivisi, in base al tipo di metodologia utilizzata, in diretti, indiretti e matematico-probabilistici. Alla luce degli
scopi prefissati si è deciso di compiere un censimento diretto, utilizzando il metodo della “conta a vista con mappaggio”. Questo tipo di
censimenti è più coinvolgente per gli operatori che lo effettuano (quindi anche per “volontari” esterni eventualmente coinvolti) e risulta molto più “credibile” da parte di spettatori estranei in quanto non basato su
modelli probabilistici ma su osservazione diretta degli animali sul territorio (censimento diretto). Questo metodo, che è stato ed è tuttora
normale prassi nei censimenti di Ungulati in tutta l’Europa centrale e
non solo, presuppone una certa stanzialità della specie da censire sulla
superficie considerata, requisito pienamente soddisfatto dal Capriolo,
animale dal comportamento marcatamente territoriale. Consiste nella
suddivisione del territorio oggetto dell’indagine in settori e nella successiva osservazione degli animali all’interno di questi da punti o percorsi di osservazione predeterminati; le osservazioni vengono poi riportate sulla mappa del settore precedentemente preparata e per fornire
un dato statisticamente accettabile, devono essere ripetute un certo
numero di volte, possibilmente simultaneamente in tutti i settori considerati. Questo presuppone la disponibilità di parecchio personale; è
necessario infatti almeno un “censitore” per ogni settore. Per questo
sono stati contattati, allo scopo di collaborare all’operazione, i sammarinesi abilitati alla caccia di selezione del Capriolo nelle province limitrofe, che molto gentilmente si sono resi disponibili (i nomi di tutti coloro che hanno partecipato al censimento sono riportati nella tabella
sottostante). Questa scelta è stata effettuata in quanto era necessario,
per il riconoscimento delle classi d’età degli animali, che il personale
fosse preparato da appositi corsi.
213
Si è scelto inoltre di compiere un censimento esaustivo cioè sull’intera
superficie della Repubblica; questo per avere un’idea più precisa sulla
distribuzione e sul comportamento degli animali su tutto il territorio.
Il dato da cui si è partiti sono state le osservazioni effettuate negli anni
dalle Guardie del Servizio Vigilanza Ecologica. Con il loro aiuto il territorio di San Marino è stato suddiviso in 18 settori, più due aggiunti
solo in un secondo momento (dato che alcuni soggetti sono stati avvistati all’interno di aree non comprese nei 18 settori considerati inizialmente). Dalla suddivisione è stata esclusa una larga fascia di territorio
intensamente urbanizzata che partendo da Gualdicciolo e passando per
San Marino Città arriva, senza interruzioni di continuità, fino a Dogana. Sono inoltre stati esclusi i centri abitati di Chiesanuova, Montegiardino e Faetano (vedere carta del territorio censito: allegato 1). I settori
hanno una superficie compresa fra 25 e 486 ha. Nella tabella sottostante
sono riportati alcuni dati relativi ai settori considerati; per ognuno di
essi è riferita l’estensione (in ha), il personale impegnato sulla parcella
con la relativa qualifica e la tipologia di censimento adottata, se da punto fisso di osservazione (PF), da percorso a piedi (PP) o da percorso in
auto (PA).
SETTORE
LOCALITÁ
1
Laghi
SUP.
(ha)
235
2
Gaviano
114
3
4°
Fosso del Re
Baldasserona
113
84
4b
5
Gessi
Montecucco/Ara vecchia
25
281
6
185
7
8
9
Poggio Casalino/la Venezia
Castellaro
Pennarossa
Bruciate/La Bosca
10
Fosso della Riva
156
214
153
203
471
OPERATORE
QUALIFICA
TIPO
Bernardini Fabrizio
Venturini Edoardo
Beccari Mario
Marani Gerardo
Suzzi Valli Andrea
Casali Sandro
Selecontrollore
PF+PP
Selecontrollore
PP
Selecontrollore
Guardia Ecologica
Dir.Centro Naturalistico
Centro Naturalistico
Ex. Guardia
Guardia Ecologica
Selecontrollore
PP
PF+PF
Selecontrollore
PF+PA
Selecontrollore
Selecontrollore
Selecontrollore
Selecontrollore
PF
PF
PP
PP
Selecontrollore
PA
Casali Romano
Lazzari Pietro
Riccardi Riccardo
Cucchiaini Walter
Carlini Maurizio
De Biagi Mauro
Dall’ Olmo William
Gasperoni Iader
Bedetti Massimo
PP
PA
PF
11
Cà Chiavello/Fosso dei
Faggi
Macchie di Montegiardino/Cerbaiola
Broccoli
151
Biordi Pier Paolo
Selecontrollore
PA
305
Ugolini Luigi
Selecontrollore
PA
255
Selecontrollore
PA
330
177
Selecontrollore
Guardia Ecologica
PF
PF
16
Piandavello/La Lacca
Fosso Fiumicello/Corianino
Valgiurata
Colombini Stefano
Bianchi Secondo
Albani Ivan
17
San Michele
131
Sartini Vincenzo
Lanci Danilo
Zanotti Marco
Poggiali Antonio
Guardia Ecologica
Tecnico Incaricato
Selecontrollore
Cacciatore
PA
PA
PA
18
Falciano
202
19
Casole
71
Sartini Vincenzo
Lanci Danilo
Sartini Vincenzo
Albani Ivan
Lanci Danilo
Guardia Ecologica
Tecnico Incaricato
Guardia Ecologica
Guardia Ecologica
Tecnico Incaricato
PA
PA
PP
20
Montecchio
61
12
13
14
15
486
Tabella 5 Informazioni relative ai vari settori considerati: zona, superficie in ha, operatore con relativa qualifica, metodo utilizzato per l’osservazione (PF = Punto Fisso; PP = Percorso a Piedi; PA =
Percorso in Auto).
Qualche giorno prima del censimento, presso la sede del Centro Naturalistico Sammarinese, è stato organizzato un incontro al quale è stato
invitato tutto il personale impegnato nelle operazioni, durante il quale
sono stati esposti gli intenti di questo censimento, i metodi, le tecniche
utilizzate ed i tempi di realizzazione. Sono state descritte agli interessati
tutte le parcelle con i relativi percorsi o punti fissi di osservazione e
nell’occasione è stata distribuita ad ognuno una busta contenente la
mappa di riferimento del territorio della Repubblica, la carta del settore
da censire, le schede di registrazione dei dati ed un promemoria per il
riconoscimento del sesso e dell’età degli animali. Nelle prossime pagine
di questa relazione è riportato, a scopo esemplificativo, il materiale
contenuto nelle buste consegnate ai censitori.
215
Figura 6 Carta di riferimento del territorio della Repubblica di San Marino consegnata ad ogni censitore (stampa in formato A3). Su di essa sono indicati i settori numerati progressivamente da 1 a 18
(sono esclusi da questa carta i settori 19 e 20 aggiunti solo in fase di elaborazione dati). La carta è
stata ottenuta tramite programma Sicad, comunemente utilizzato dall’Ufficio Gestione Risorse
Ambientali ed Agricole per la cartografia del territorio. Questa stessa mappa è stata utilizzata in fase
di suddivisione del territorio in scala 1:10.000. In rosso sono riportati i confini dei vari settori. Si
noti che una vasta fascia di territorio (di circa 2000 ha) non è stata considerata in quanto fortemente
urbanizzata.
216
Figura 7 Esempio di carta relativa a settore di censimento specifico consegnata ad ogni censitore. La
mappa, stampata su foglio formato A3, riporta i confini dell’area da censire (
) ed il percorso
(
) od il punto fisso di osservazione. Durante l’incontro con i censitori, ad ognuno di loro è
stato descritta la propria parcella ed il percorso da effettuare specificando anche le modalità (percorso
a piedi o in auto).
217
Figura 8 Esempio di scheda utilizzata per la registrazione dei dati. Come spiegato ai censitori durante l’incontro ad ogni osservazione doveva essere riportato sulla mappa un numero progressivo; questo viene trascritto poi anche nella prima colonna (“numero progressivo”) di questa scheda. Nella
riga corrispondente sono poi riportate tutte le informazioni relative all’osservazione (numero, sesso
ed età degli animali, ora di avvistamento, note ritenute importanti come ad esempio comportamenti
strani o la direzione di fuga in caso di movimento degli animali). In questo modo ad ogni osservazione, rappresentata da un numero riportato anche sulla carta, corrispondono un certo numero e
tipo di animali. In questo modo è possibile effettuare una valutazione critica dei dati diminuendo
notevolmente le possibilità di doppi conteggi (sempre che il censimento sia eseguito in maniera corretta). Le schede sono state consegnate alla fine di ogni giornata.
Il promemoria consegnato agli operatori è riportato in allegato alla presente relazione.
Risultati e discussione
Il primo incontro per la preparazione del censimento si è tenuto in data
19 Marzo 2005. Vista la stagione già avanzata (il periodo ottimale per il
censimento del Capriolo è la primissima primavera) si è deciso di studiare una tecnica di censimento ripetibile anche negli anni futuri (standardizzata) e di concentrare quindi l’attenzione sul lavoro precedente la
fase vera e propria di osservazione degli animali.
218
La scelta del metodo di censimento, i sopralluoghi sul territorio e la
suddivisione dello stesso in settori hanno richiesto quindi uno sforzo
notevole (in termini di tempo) da parte del tecnico incaricato e delle
Guardie del Servizio di Vigilanza Ecologica.
In un primo momento era stato deciso di effettuare una stima della popolazione tramite un censimento per zone campione, ma volendo valutare in maniera uniforme la distribuzione del Capriolo su tutto il territorio si è poi pensato di coinvolgere del personale esterno in modo da
poter effettuare un censimento esaustivo. A tale scopo sono stati contattati i cacciatori di selezione di alcuni ATC delle vicine province di
Pesaro e Arezzo residenti a San Marino.
Il territorio, dopo l’esclusione di una porzione di 1930 ha, costituiti per
lo più da centri intensamente urbanizzati, da piccole zone di confine e
dal Parco del Monte Cerreto, è stato suddiviso in 18 parcelle (riportate
in tabella 5 ed in allegato alla presente relazione) dopo numerosi sopralluoghi volti a determinare l’effettiva presenza della specie,
l’osservabilità e la conformazione del territorio. A queste, durante la
fase di elaborazione dati, sono state aggiunte altre 2 aree rimaste escluse
e nelle quali sono stati osservati degli animali al momento della realizzazione del censimento (zone di Casole e Montecchio).
Durante questa fase si è lavorato su delle mappe del territorio in scala
1:10.000 fornite dall’U.G.R.A.A., sulle quali sono stati individuati e
marcati i confini dei vari settori. Le stesse sono state utilizzate nella fase
successiva di osservazione degli animali, opportunamente ridimensionate tramite programma informatico (tutte le mappe sono riportate
con legenda in allegato alla forma cartacea della presente relazione).
Alla fase di suddivisione del territorio, terminata in data 6 Aprile 2005,
è seguita la fase di realizzazione del censimento. Lo stesso 6 Aprile 2005
è stato organizzato, presso la sede del Centro Naturalistico Sammarinese, un incontro con tutti i partecipanti per definire gli aspetti pratici
dell’operazione. Considerati anche gli impegni di tutti i presenti e tenendo conto della stagione ormai avanzata si è deciso di effettuare le
uscite per le osservazioni nel primo fine settimana disponibile (sabato 9
e domenica 10 Aprile 2005) e di eseguire almeno quattro ripetizioni per
rendere il dato ottenuto statisticamente attendibile (sabato mattina –
sabato sera; domenica mattina – domenica sera).
219
Tutti gli operatori impegnati erano dotati di binocoli con ottica di qualità (Swarovski, Zeiss, Leica ecc) per la prima osservazione degli animali
e la maggior parte di loro (tutti tranne tre) possedevano anche un cannocchiale per il riconoscimento a distanza del sesso e della classe d’età
dell’animale. Questa attrezzatura è stata messa a disposizione degli operatori che non la possedevano anche dal Centro Naturalistico Sammarinese e dall’U.G.R.A.A..
Purtroppo le osservazioni non sono state effettuate con regolarità come
previsto a causa di condizioni climatiche particolarmente avverse proprio nelle giornate del 9 e 10 Aprile (forti ed improvvisi rovesci accompagnati da nebbia). Non è stato inoltre possibile accordare il personale
coinvolto per successive uscite organizzate. Tuttavia i vari operatori,
particolarmente interessati, hanno effettuato uscite non programmate
durante tutta la settimana seguente. In questo modo è stato possibile
raccogliere comunque informazioni importanti ma poco significative
dal punto di vista statistico. Tramite una valutazione critica delle schede pervenute si è cercato di estrapolare un dato interessante e quanto
più possibile attendibile. Nelle pagine che seguono sono riportati i dati
emersi dall’esame delle schede di censimento. Si può notare che solo
l’osservazione di sabato mattina (9 Aprile) è stata eseguita in maniera
statisticamente accettabile. A questa seguono altre osservazioni effettuate in modo disordinato a causa del maltempo e degli impegni personali
degli operatori. Come già detto, nonostante questo la mole di dati raccolti è notevole.
Figura 9 Condizioni meteorologiche nella giornata di sabato mattina: pioggia e nebbia di
intensità sempre maggiore hanno caratterizzato le due giornate stabilite per le osservazioni.
220
REPUBBLICA DI SAN MARINO
CENSIMENTO CAPRIOLI PRIMAVERA 2005
RIEPILOGO SETTORI
Maschi
Settore - Operatore
JJ
Femmine
Ad
J
Ind
Ad
J
1)Bernardini
1
1
2)Venturini
1
3)Beccari
2
4)Casali R.-Casali S.-SuzziValli
3
5)Lazzari-Riccardi
11
6)Cucchiarini
2
7)Carlini
5
8)De Biagi
2
2
9)Dall'Olmo
3
2
1
10)Bedetti
3
4
1
11)Biordi
2
3
12)Ugolini
1
2
13)Colombini
1
14)Bianchi
3
15)Albani
1
16)Sartini-Marani-Lanci
5
17)Zanotti-Poggiali
2
1
JJ
IND Parziali
Ind
1
4
2
3
1
1
4
3
3
1
15
1
7
2
12
1
4
2
2
1
4
1
15
1
11
4
6
2
11
5
1
4
1
1
1
1
3
2
1
2
4
1
2
1
12
2
6
18)
19)Sartini-Marani-Lanci
0
2
1
3
1
2
9
20)
Totali
6
3
50
10
8
0
40
12
Totale
6
1
3
8
135
221
Il valore totale non è stato ottenuto semplicemente sommando i massimi osservati per ogni zona ma effettuando una valutazione critica dei
dati riportati dagli operatori. In sintesi si può dire che alcuni animali
sono stati ritenuti dei “doppi conteggi” ed in quanto tali eliminati,
mentre altri sono stati sommati al massimo osservato in quanto mai
compresi in conteggi precedenti.
Alla luce dei dati riportati sopra possono essere fatte alcune valutazioni
sulla densità e sulla struttura della popolazione di Capriolo presente sul
territorio della Repubblica di San Marino.
I parametri che solitamente vengono considerati in questa specie sono
la densità (individui ogni 100/ha), il rapporto fra i sessi o sex ratio, e la
struttura della popolazione.
Prima cosa da fare prima di effettuare queste valutazioni, è
l’attribuzione degli indeterminati alle classi di età considerate.
N° individui per classe d’età e sesso
Mad
Mj
Mjj
Fad
Fj
Fjj
53
11
9
43
13
6
Tabella 6 Struttura di popolazione in seguito all'attribuzione degli indeterminati.
% individui per classe d’età e sesso
Mad
Mj
Mjj
Fad
Fj
Fjj
39,3%
8,1%
6,7%
31,9%
9,6%
4,4%
Tabella 7 Struttura di popolazione: percentuale per classe d'età.
Dai dati riportati nelle tabelle si evince che il rapporto fra i sessi o sex
ratio è pari a
PS = M/F = 73/62 => 1,17
La proporzione fra i sessi (maschi:femmine) è quindi pari a
1:0,84
Il rapporto risulta quindi leggermente a favore del sesso maschile.
222
Inoltre la popolazione risulta essere costituita da un ridotto numero di
piccoli dell’anno precedente (11,1% totale), qua ancora indicati con la
sigla jj. Questo fatto può essere attribuito ad una prima analisi, ad una
ridotta produttività della popolazione. Tuttavia, è necessario valutare
anche altri fattori che possono aver portato ad una sottostima degli individui di questa classe, come l’inesperienza di alcuni censitori in questo settore specifico e l’obiettiva difficoltà di riconoscimento di questi
individui da quelli appartenenti alla classe dei subadulti (j) in questa stagione dell’anno. Oltre a questo l’inverno trascorso, particolarmente rigido e caratterizzato da un’ abbondante e duratura copertura nevosa,
può avere inciso significativamente sulla mortalità dei piccoli.
La classe dei subadulti (j) rappresenta in totale il 17,7% della popolazione che per il 71,2% è costituita da individui adulti, considerati la
classe portante della popolazione.
Per quanto riguarda la densità (capi/100 ha) , nella tabella riportata a
pagina 35 sono riferiti i valori parziali riscontrati in ogni singolo settore e la densità totale (ottenuta considerando tutto il territorio censito).
Vista la precedente eliminazione della superficie edificata e adibita a
servizi dall’area da censire, tale dato non sarà corretto ma rappresenta
già il valore definitivo. Tuttavia in seguito saranno fatte alcune considerazioni su tale cifra.
223
Figura 10 Capriolo maschio fotografato nella zona di Fosso fiumicello.
N° Settore
Superficie
Capi osservati
Capi/100 ha
1
235
4
1,7
2
114
3
2,6
3
113
4
3,5
4
109
15
13,8
5
281
15
5,3
6
185
12
6,5
7
153
11
7,2
8
203
4
2
9
471
6
1,3
10
156
11
7
11
151
5
3,3
12
305
4
1,3
13
255
1
0,4
14
330
6
1,8
15
177
4
2,3
16
486
12
2,5
17
131
6
4,6
18
202
0
0
19
71
9
12,7
20
61
3
4,9
TOTALE
4189
135
3,2
Tabella 8 Densità (capi/100 ha) nei singoli settori e densità totale, calcolata in base agli individui
osservati. Solo in alcuni settori la densità ha raggiunto valori ragionevoli ma comunque mai fuori
dalla norma, considerato anche il tipo di ambiente.
224
60
50
40
Caprioli osservati
20
10
0
Mad
Mj
Mjj
Fad
Fj
Fjj
Classe d'età
Grafico 1 N° di animali osservati per sesso e classe d'età.
I dati precedentemente esposti, come già ricordato, non necessitano di
correzione in quanto sono state censite solamente aree non edificate e
non adibite a servizi. Tuttavia viste le condizioni meteorologiche particolarmente avverse, che in alcuni casi hanno impedito completamente
l’osservazione, si può supporre che i dati sopra riportati rappresentino
una sottostima della reale dimensione della popolazione di Capriolo
presente sul nostro territorio. Inoltre, come riportato su diverse pubblicazioni scientifiche, è noto che in un ambiente caratterizzato da un
complesso mosaico vegetazionale come quello tipico della Repubblica
di San Marino, questo metodo di censimento (conta a vista con mappaggio) garantisce al massimo un’osservabilità pari a circa il 70% degli
individui realmente presenti sul territorio. Detto questo per ottenere
una stima della consistenza della popolazione di Capriolo realmente
presente nell’area censita, è necessario correggere i valori riportati incrementandoli di circa il 30%. Come detto il dato così ottenuto rappresenterà una stima e cioè un valore ottenuto tramite calcolo matematico.
Nelle tabelle e grafici delle prossime pagine sono riportati i valori corretti.
225
N° individui per classe d’età e sesso
TOT
Mad
Mj
Mjj
Fad
Fj
Fjj
176
69
14
12
56
17
8
Tabella 9 Numero di individui per sesso e classi d'età; valori corretti (+ 30%; approssimazione
decimale per eccesso se >0,5 o per difetto se < 0,5).
Grafico 2 N° animali osservati rapportati ai valori stimati.
70
60
50
N° capi
40
Valori osservati
Valori corretti (+30%)
30
20
10
0
Mad
Mj
Mjj
Fad
Fj
Fjj
Classe
Naturalmente rimangono invariate la PS e la PC (percentuali delle diverse classi d’età). La struttura di popolazione rimane invariata. Cambia invece in maniera ragionevole la densità.
x N° individui totali: 176
x Superficie censita totale: 4189
x N° individui/100 ha: 4,2
La densità così ottenuta risulta leggermente più alta rispetto alla precedente ma tuttavia non elevata. Il territorio di San Marino è infatti costituito da un mosaico di ambienti altamente diversificati e da numerose
fasce ecotonali, habitat ideale per questa specie. Ciò nonostante bisogna
sottolineare come gli ambiti naturali siano quasi ovunque frammentati
226
poiché interrotti da aree urbanizzate e strade, elementi che costituiscono un notevole ostacolo all’espansione delle popolazioni selvatiche. Inoltre durante i sopralluoghi sul territorio e secondo testimonianze delle stesse Guardie Ecologiche, è stato possibile notare, in diverse aree, un
cospicuo numero di cani vaganti non custoditi; si ricorda che
l’inseguimento e la predazione da parte di cani rappresentano purtroppo una delle principali cause di mortalità del Capriolo in tutti gli ambienti dove la specie risulta diffusa (vedi anche opere citate). A questo
bisogna sommare il buon numero di animali che ogni anno vengono
investiti ed uccisi sulle strade. Alla luce dei dati ottenuti l’elevato numero di incidenti stradali provocati dai Caprioli, può essere attribuito
alla capillarità di diffusione della rete stradale nella Repubblica di San
Marino o a cause già citate (l’inseguimento da parte di cani spesso disorienta l’animale) piuttosto che alla eccessiva dimensione della popolazione di Capriolo presente sul territorio (176 capi stimati). Per poter
meglio comprendere le reali cause del fenomeno sarebbe auspicabile la
realizzazione di uno studio specifico, partendo dalla notevole mole di
dati già in possesso dell’U.G.R.A.A., registrati negli anni dalle Guardie
del Servizio di Vigilanza Ecologica.
La struttura di popolazione risulta notevolmente a favore degli animali
adulti (71%) rispetto alle classi dei subadulti (18%) e dei piccoli (solamente 10%). Ad una prima analisi si potrebbe affermare che si tratta
quindi di una popolazione anziana, in declino (PS a favore del sesso
maschile) caratterizzata da un ridotto successo riproduttivo. Tuttavia
vanno considerati alcuni fattori già precedentemente ricordati che possono avere inciso notevolmente su questo dato. Prima di tutto
l’inverno rigido e caratterizzato da abbondanti nevicate può aver determinato un alto tasso di mortalità fra i piccoli dell’anno. Inoltre in
questo periodo dell’anno ad osservatori non esperti può risultare difficile distinguere individui piccoli da subadulti e subadulti da adulti (in
modo particolare per individui di sesso femminile). Si consiglia di considerare il dato emergente da questo primo censimento come indicativo
di un possibile stato della popolazione e non come valore assoluto. Si
suggerisce la realizzazione di altri censimenti negli anni a venire in
quanto il miglior metro di giudizio per la valutazione dello status di
227
popolazioni di specie selvatiche è rappresentato dall’evoluzione nel
tempo della struttura delle popolazioni stesse.
Conclusioni
L’obbiettivo di questo censimento era quello di ottenere delle conoscenze sulla diffusione, localizzazione e dimensione della popolazione
di Capriolo presente sul territorio della Repubblica di San Marino. Il
periodo ottimale per il censimento di questa specie nella nostra zona è
sicuramente la primissima primavera o anche il tardo autunno. In questa stagione infatti è possibile osservare gruppi famigliari compatti e
numerosi; l’osservabilità è massima in quanto il sottobosco e la vegetazione arbustiva non sono ancora germogliate. Purtroppo
l’organizzazione del censimento ha avuto inizio verso la metà del mese
di marzo, periodo in cui la vegetazione si trovava già in una fase avanzata di ricaccio. La prima settimana di Aprile, data in cui è stato effettuato il censimento, la maggior parte delle specie arboree ed arbustizie
avevano germogliato. Questo fatto ha sicuramente reso più difficile
l’osservazione degli animali per una serie di evidenti motivi. Durante la
fase di organizzazione, consapevoli di essere già in ritardo per poter osservare al meglio i Caprioli, si è deciso di dedicare una quota di tempo
maggiore alla identificazione della porzione di territorio da censire ed
alla successiva suddivisione in settori in modo da ottenere una metodica
di censimento sfruttabile anche negli anni a venire. Si consiglia quindi,
come già detto, di considerare solo indicativo il dato ottenuto da questo
primo censimento in quanto la realizzazione è avvenuta in una stagione
non ottimale. Del resto in nessun caso il dato ottenuto da un singolo
censimento può essere considerato come assoluto; si rammenta infatti
che per una corretta conoscenza e gestione di specie selvatiche è di primaria importanza considerare l’evoluzione nel tempo dello status delle
popolazioni delle specie stesse.
Durante l’organizzazione ed esecuzione dell’operazione sono stati evidenziati alcuni problemi. Prima di tutto si sottolinea la necessità di poter disporre, negli anni a venire, di un maggior numero di operatori
qualificati in modo da poter suddividere il territorio in parcelle di dimensioni inferiori, più facilmente censibili; la dimensione massima
consigliata in letteratura (vedere opere citate) per censimenti di questo
228
tipo è di circa 200 ha, con almeno due operatori per ogni settore. A tale
scopo sarebbe opportuno organizzare dei corsi teorico-pratici per la
formazione di censitori destinato a tutte le persone interessate. Si consiglia di realizzare questi corsi durante il tardo autunno di modo che gli
operatori risultino preparati verso il mese di gennaio o al massimo febbraio. In questo modo sarebbe possibile realizzare il censimento nella
stagione più opportuna (fine febbraio – metà marzo).
Per una migliore comprensione della reale dinamica di popolazione, oltre alla realizzazione di censimenti annuali, si consiglia di avviare studi
collaterali ad esempio sulle cause di mortalità, e sullo stato sanitario degli animali di questa specie. A tale proposito si sottolinea che tutti gli
animali osservati sembravano essere in buono stato di salute e nutrizione, a parte un soggetto segnalato in zona Pennarossa che, secondo
quanto riportato sembrava comportarsi in maniera anomala; purtroppo
non è stato possibile osservare nuovamente l’animale nonostante numerosi sopralluoghi compiuti nei giorni successivi. Il buono stato degli
animali e della popolazione nel suo complesso è confermato anche dai
dati biometrici rilevati dalle Guardie Ecologiche sugli animali deceduti
in incidenti stradali. Queste sono comunque osservazioni personali, basate su esperienze passate e su informazioni riportate in letteratura.
Al termine di questa relazione si rimarca nuovamente la necessità di ripetere l’esperienza anche negli anni a venire per poter ottenere un dato
certamente più attendibile ed indicativo, anche in vista di future esigenze di gestione della specie.
229
L'AUDITORIUM-PARCO DELLA MUSICA A ROMA
di Luca Morganti
Che al cospetto della figura di Renzo Piano ci si trovi di fronte ad un'eminente personalità del panorama dell'architettura contemporanea,
non vi sono dubbi, ma ad intendere veramente questa grandezza, aldilà
di un semplice recupero autobiografico, o del fascino immediato che
suscitano le sue architetture, occorre subito far riferimento alla potenza
del pater che insieme "accorda legittimità" e sospende il diritto1. Piano
nel senso più compiuto è auctor, realmente capace di esercitare auctoritas. Non soltanto perché è l'unico fra gli architetti italiani a godere di
una fama mondiale senza precedenti in tutto il novecento, quanto perché in lui, l'atto tecnico che si riassume nella formula auctor fio, tende a
schiacciare l'opera stessa. L'Auctoritas di Piano, la sua forza, è sì data
Dall’idea di far conoscere ai ragazzi una delle più importanti opere dell’architettura civile dei nostri tempi, l’Auditorium Parco della Musica di Renzo Piano, ha preso avvio
l’organizzazione dell’uscita di studio a Roma, effettuata dal 12 al 14 maggio 2005 con le
classi Terze Scientifico a e b, Terze Economico a e b, accompagnate dagli insegnanti Casali
M., Mularoni J, Rossi L., Colombini A., Micheloni F., Poggiali M.. L’itinerario è stato
strutturato con l’intento di unire la visita ad alcuni dei monumenti simbolo della capitale
italiana e dei suoi dintorni (Castel S. Angelo e Basilica di San Pietro, Palatino, Colosseo,
Ostia antica), a quella di evidenze architettoniche del Novecento e contemporanee
(Auditorium, Foro Italico, Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR, chiesa Dives in misericordia o del Millennium di R. Meyer a Tor Tre Teste, quartiere periferico di Roma). Vi è
stata inoltre inserita la visita alla sede del Senato della Repubblica, a Palazzo Madama.
Pensata ad inizio di anno scolastico e condivisa con i colleghi dei Consigli di Classe interessati, l’uscita è stata preceduta da una serie di importanti attività didattiche:
1. la trattazione degli argomenti legati allo studio delle onde sonore e della propagazione del suono in Matematica e Fisica
2. l’incontro con gli architetti Leo Marino e Luca Morganti che hanno parlato di
architettura in genere e dell’architettura di Renzo Piano e Richard Meyer
3. la visita aziendale alla ditta ALI di Gualdicciolo, che ha realizzato i lavori di rivestimento dell’Auditorium.
Sugli aspetti legati all’architettura in genere e a quella di Renzo Piano in particolare, riportiamo di seguito il contributo dell’architetto Luca Morganti.
1
I termini qui e più avanti utilizzati, fanno libero riferimento ad “Auctoritas e potestas”, ultimo capitolo di: G. Agamben, Stato di Eccezione, Bollati Boringhieri, Torino,
2003, pag. 95-113.
231
dall'auctor in quanto is qui auget, ossia dal potere di augere, di aumentare, non soltanto ciò che già esiste, ma anche di "produrre - ci ricorda
Benveniste - dal proprio seno, far esistere", ex nihilo, ma questo darsi è
un modo particolare tale per cui, la relazione fra i due elementi, l'autore e l'opera, si risolve a favore del primo. Un'intera categoria di artisti
ha teso interpretare così la propria produzione. L'architetto sembra oggi l'ultimo baluardo contro la sparizione dell'autore di cui si è fatto carico tutto il secolo scorso. Anzi, l'architetto pare voler colmare lo spazio lasciato vuoto dall'autore. Come è possibile una simile retroguardia? Ma non aveva partecipato anche l'architettura a quella scrittura
con la morte dove il sacrificio della vita era l'eclissarsi stesso dell'esistenza dell'autore? Per tutto il novecento "la traccia dello scrittore (autore) sta solo nella singolarità della sua assenza; a lui spetta il ruolo del
morto nel gioco della scrittura"1. Non a caso molta storiografia ha inserito una componente poliziesca all'interno del proprio racconto, interessata com'era ad una ricerca prioritaria del colpevole, al fine di legittimarne l'appartenenza alla storia. "Chi?" e mai "che cosa?" o "come?",
mai lo statuto dell'opera, i suoi modi di definire i luoghi dell'abitare, la
sua estetica. Nel cono d'ombra che è proiezione dell'auctor, l'opus non
riesce ad emanciparsi dal bisogno di legittimarsi ad una presunta origine. Se dovesse sradicarsi dal suo artifex, modificherebbe il fine: "appartenere ad un'unica dimora". L'autore nega, così, la potenza delle forme,
l'ordine del mutamento, l'evento. Quest'arte non potrà mai essere
scandalosa. Mai potrà invadere il presente. Per farlo, le occorre individuare linee di fuga che attraversano la sua stessa scrittura.
Dovrò, quindi, necessariamente, parlare dell'autore, ancor prima che
della sua opera. Il padre, si sa, nell'esercizio del potere, chiama sempre a
raccolta, quasi invita a scuotere il dogmatismo del proprio logos, quasi
chiede ai figli, che venga contestata la sua autorità. Vorrei quindi compiere questo parricidio, senza però alcuno spargimento di sangue.
Kenneth Frampton, nell'introduzione al volume dedicato agli scritti e
alle opere dell'architetto genovese2, riassume in cinque punti fondamentali l'atteggiamento progettuale di Renzo Piano. Per Frampton, alla soluzione tensionale fra forma del luogo e forma del prodotto, segue
1
2
M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 2004, pag. 4.
R. Piano, Giornale di bordo, Passigli Editori, Firenze, 1997, pag. 7.
232
la ricerca di "un'architettura senza miti, eccetto quello, primordiale del
fare: la forza innata dell'homo faber che crea il suo mondo"1, dal rifiuto
di qualsiasi accademismo, che ha nell'empirismo di Bacone e nell'artigianalità del mestiere i suoi presupposti, si approda al carattere sperimentale del lavoro, che permette all'architetto di fuggire da ogni traguardo meramente stilistico2, coinvolgendo tutti i soggetti all'interno
del fare progettuale, per giungere, in fine, ad un'idea di progresso tecnologico che, soprattutto negli ultimi lavori, sa coniugare tradizionalismo con sperimentalismo. Non è mia intenzione commentare questo
tipo di lettura, per quanto la trovi perfettamente aderente al significato
dell'opera di Renzo Piano, ma cercherei di adottarla nella convinzione
che sia una buona base di partenza per la comprensione di ciò che, con
queste poche righe, vorrei dimostrare. In particolare, mi piacerebbe che
l'accento ricadesse sull'idea di homo faber, come del resto lo stesso
Frampton sembra suggerire. La parola latina faber, nel suo rapporto
con facere, "produrre", "fare qualcosa", designa originariamente l'artigiano che lavora materiali resistenti come la pietra o il ferro. In particolare la parola fabri tignarii indicava i costruttori edili e i carpentieri.
Tuttavia, lasciando da parte questioni tipicamente etimologiche, che
peraltro, se non esauriscono il senso delle parole, ne chiariscono la storia, fare accenno all'idea di homo faber ha un dichiarato intento programmatico da parte dello studioso, verso il quale lo stesso Piano, avrebbe più di un motivo di accordo. Ciò che emerge chiaramente, è la
volontà di avvicinare l'auctoritas dell'architetto ad una tradizione che
ha nell'umanesimo italiano il suo referente ideologico. Homo faber è la
parola chiave per sancire sinteticamente l'appartenenza a tradizione e
sperimentalismo, artigianalità e alta tecnologia, forma del luogo, intesa
anche come luogo della storia, e forma del prodotto. Negli scritti di
Piano, l'idea sottesa ad un radicamento ideale con l'immaginario - mitico - di un umanesimo rigoglioso è sempre presente, fino a permettergli
1
Ibidem.
Non vi è contraddizione, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, fra il porre il
proprio fare come superiore a ciò che si fa, e l’adattarsi, di volta in volta, al tema ed al
luogo del progetto, senza cercare, per questo, di giungere ad una riconoscibilità suo
piano stilistico, utilizzando un linguaggio ricercato che sia espressione unicamente
della propria persona.
2
233
una sorta di riconciliazione patriottica con quel paese che, un tempo,
sembrava soltanto avergli prestato i natali1. Non è un caso che Piano
torni frequentemente a parlare di Filippo Brunelleschi, pater spirituale
ed esempio, che riassume condizioni e speranze connesse all'atto della
creazione architettonica. La stessa organizzazione del lavoro all'interno
del Building Workshop pare riecheggiare, in termini moderni, la gerarchia cantieristica messa a punto all'inizio del quattrocento dal Brunelleschi nell'invenzione tecnico-formale della cupola del duomo fiorentino.
Provocare una frattura nell'esperienza di cantiere delle maestranze tradizionali, per traghettare la pratica costruttiva verso una dimensione
assolutamente moderna, dove "l'architetto è il solo responsabile del
progetto", è il significato dell'impresa più "ardua ed audace"2 del quattrocento italiano, che fa della figura di Brunelleschi l'intellettuale di riferimento. Ma fin qui, è nota letteratura, se è innegabile, infatti, questa
evidente paternità, chi formula teoricamente l'idea di "un uomo che
fa", rinnovando l'intera antropologia cristiana di tradizione scolastica,
è, tra gli altri, l'umanista Leon Battista Alberti. Anch'esso architetto,
1
E’ un luogo comune che la “fortuna” di Renzo Piano sia completamente esterna rispetto al territorio italiano. In realtà Piano, contrariamente ad altri architetti, ha costruito molto in Italia, cosa per altro verificabile sfogliando una delle numerose monografie a lui dedicate. I pochi riconoscimenti ricevuti in patria sono da ascriversi, invece, al diffuso analfabetismo architettonico che dopo decenni si è trasformato in un
vero e proprio male che impedisce una reale crescita culturale in questo settore. Tuttavia è anche vero ciò che sostiene Alessandro Rocca quando afferma: “Il lavoro di
Renzo Piano costituisce un capitolo separato nella cronaca dell’architettura contemporanea italiana. Non solo le opere, ma la formazione, i successi, le dichiarazioni tratteggiano un itinerario del tutto esterno, e in silenzioso antagonismo, rispetto alle élite
accademiche che controllano l’insegnamento universitario, l’editoria specializzata, i
concorsi e gli incarichi professionali più prestigiosi (…). Disinteressato alla ricerca teorica, Piano ha sempre cercato affinità al di fuori della cultura nazionale”, ritrovando
motivi nella cultura francese e in quella inglese. Non solo, ma “all’estero Piano, totalmente concentrato sulla tecnologia e sullo studio dei materiali, trova interlocutori
più attenti, mentre in Italia il dibattito si va rapidamente spostando verso la città, il
territorio, i contenuti politici e sociali, e si avvia un processo di completa revisione
dell’identità stessa dell’architettura”. Alessandro Rocca, Renzo Piano. Nomea, Paris, in
Lotus International, 84, Electa, Milano, 1994, pag. 42.
2
G.C.Argan, Storia dell’arte italiana, (II), Firenze, Sansoni, 1968, pagg. 75-98. Ed anche, dello stesso autore, G.C.Argan, Storia dell’arte come storia della città, Editori Riuniti, Roma, 1983, pagg. 103-111.
234
completa nel 1452, in concomitanza con la realizzazione della facciata
di palazzo Rucellai in via della Vigna a Firenze, i dieci libri del De re
aedificatoria. Personaggio raffinato, l'Alberti non compare nelle semplificazioni teoriche di Renzo Piano. Facendo seguito ad un'ampia e fortunosa storiografia che, banalizzando, contrappone frontalmente figure
archetipiche di atteggiamenti differenti, ma leggibili storicamente come
appartenenti ad un'unica matrice culturale, Piano, pur accettando nella
sua interezza la compagine umanista, preferisce il lavoro pratico del
cantiere che si concreta nella creazione di uno spazio, a quello teorico
ravvisabile nelle speculazioni intorno ad una facciata. Ma, appunto, di
semplificazioni si tratta, che discettando intorno al lavoro di Renzo
Piano stesso, si rendono visibilmente poco probanti. Ed è proprio intorno al concetto di homo faber, che tutto questo dovrebbe prepotentemente emergere. Concetto che nell'idea del sopraffino Alberti non si
lascia catturare all'interno del De re aedificatoria, come ora si potrebbe
facilmente credere. Non è scontato che quell'idea compaia molto prima
nell'elaborazione che l'Alberti fa della nuova collocazione dell'umano
all'interno del cosmo. E' con i Libri della famiglia che balena l'ideale
dell'artifex capace di creare una vita armoniosa ispirata ai criteri di misura, virtù e azione regolata in seno alla natura. Ed è nel terzo libro
dell'opera che si dà la più alta definizione di quell'uomo umanista tutto
impegnato alla propria realizzazione mondana. Non stupirà più, se il
terzo libro Della famiglia s'intitolerà Economicus. Ciò che principalmente quest'uomo fa è: fortunae suae. Fare è, principalmente, costruire
autonomamente il proprio destino. Il pro-getto è tale solo se getta avanti, solo se pro-ietta verso il poi, verso ciò che ancora deve accadere ma
che già io mi prospetto. Io faccio nella misura in cui sono convinto che
un "poi" mi attende come quella determinazione la cui forma dipenderà dalla lucentezza del mio "proposito". Di questo uomo libero e dinamico, capace di progettare il proprio futuro e amministrarlo, anche nel
senso economicus di saperlo gestire, Alberti elenca le tre caratteristiche
nel dialogo che i personaggi storici della sua famiglia inscenano a Padova in occasione, si fa per dire, della morte di Lorenzo, padre dell'autore. "L'una di queste sappi - spiega Giannozzo - ch'ell'è quello mutamento d'animo col quale noi appetiamo e ci crucciamo tra noi (…).
235
L'altro vedi ch'egli è il corpo"1. La terza cosa che l'uomo può chiamare
propria oltre all'anima ed il corpo, viene tenuta in sospeso per qualche
battuta, al curioso Lionardo, con un comune procedimento letterario
che nell'aumentare l'ansia dell'attesa, vuole affermare la superiorità, o
meglio la maggiore intimità, inalienabile, dell'essere uomo. Alle insistenze di Lionardo, Alberti fa rispondere a Giannozzo: "El tempo,
Lionardo mio, el tempo, figliuoli miei". Nell'attualità della morte del
padre, la saggezza dell'esperienza storica, incarnata dall'economicus
Giannozzo, introduce l'elemento tempo come inalienabile, ossia non
cedibile, inseparabile dall'individuo e quindi maggiormente intimo, alla
neonata cultura umanistica che si cela sotto le sembianze di Lionardo.
Non è senza sconforto allora che è possibile meditare sul tempo, sulla
trasformazione creativa della natura: intelligenza e possibilità umane
sono limitate. Nella prospettiva di un nuovo tempo progressivo, lineare e scomponibile, l'etica albertiana sembra aggiungere un'immagine di
tempo distruttore-rivelatore che suggerisce un tagliente carattere materialistico2. Noi siamo il tempo, ed anche liberamente lo diventiamo, garantendoci la possibilità di appropriarcene o di smarrirlo definitivamente. Occorre non gettarlo: non perder tempo. Faber significa propriamente questa possibilità. La modernità di Alberti sta appunto nell'aggiungere una dimensione materiale e per ciò mondana, al tempo
dell'Agostino Platonico, coniugandolo liberamente con la phronesis e
non più con la teoresi. Nella vita activa3, alla contemplazione che si estrinseca nell'angoscia religiosa, si sostituisce la preoccupazione di disperdere il tempo, sciuparlo per mancanza di programmazione, per incapacità di usarlo imponendogli un ordine. L'accettazione di una sorte
dolorosa, naturalmente, procede identificandosi con la pragmatica razionalità dell'uomo del nuovo tempo, pronto a sacrificare le antiche e
1
L.B.Alberti, I libri della famiglia, libro III, Einaudi, Torino, 1969.
E’ questa la tesi contenuta nella bella introduzione Materialismo Albertiano di Marcello Ciccuto, in L.B.Alberti, Apologhi, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1989.
3
Per un’ampia disamina di questi temi valga per tutti, anche come testo base di riferimento: H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1994. E’
proprio chiedendosi “chi è l’uomo?”, in senso letterariamente fenomenologico e non
tanto come prospettiva filosofica, che la Arendt perviene ad una rivalutazione
dell’agire, declinandola, sulla scorta di Heidegger, come essere-nel-mondo, evento che
ha luogo tra gli altri.
2
236
rassicuranti astrazioni sull'altare dell'azione. Attraverso il concreto "essercizio" si arriva ad oggettivare se stessi nelle cose del mondo, e non
più, come moralità esterne. L'uomo, agente responsabile, è Dio terreno
per unica via intellettuale, dove l'assunzione delle proprie responsabilità rispetto al destino del singolo, è interpretato entro i limiti della natura.
Come non scorgere una perfetta aderenza al discorso di Piano: "l'architetto è una specie di piccolo padreterno che ri-crea l'ambiente"1. L'evidenza di queste affermazioni mi permette ora di procedere verso ciò
che qui maggiormente interessa. Introducendo l'idea di tempo si perviene al tema che sta a fondamento del mio discorso ed anche di una tipologia, relativamente recente, come quella delle sale per la musica, e
forse, meglio si capirà il rapporto con il luogo della città, quando soprattutto, la città di cui si parla, è Roma. Non si tratta soltanto di un'assonanza semantica, il tempo, riconquistato dall'uomo alle soglie del
quattrocento, è ciò che lega musica, architettura e città. Come si sa, lo
spazio, intrinseca profondità ontologica del fare architettonico, difficilmente e scindibile dall'esperienza della temporalità. Ne spetta a me ricordare la loro tensione irresolubile. Che "nessuna esperienza temporale può fare a meno di una semiotica dello spazio", è il paradosso intorno a cui è possibile decostruire l'intero impianto filosofico novecentesco nella sua ricerca di un'"autenticità" temporale2. La città è produttrice di temporalità diversificate che si susseguono e coabitano all'interno
delle sue forme. Questa produzione determina un'unicità riconoscibile
e spendibile con altre città. Il tratto caratteristico della produzione del
tempo all'interno della città, è quello di fornire al potere, che soprassiede alla città stessa, un milieu capace di inserire il conflitto urbano in
una forma comunicabile. Scrive Franco Purini: "senza tale forma il potere sarebbe solo pura forza, mentre esso ha bisogno di esistere come
espressione istituzionale, e per sembrare democraticamente persuasivo,
di iscriversi in una dimensione culturale, assumendo via via aspetti diversi a seconda di come si articoli il contesto delle conoscenze e degli
1
R.Piano, Giornale di bordo, cit., pag.248.
G.Marramao, Minima Temporalia. Tempo spazio esperienza, Il Saggiatore, Milano,
1990, passim, mentre per la citazione si veda l’introduzione a pag. 9.
2
237
eventi più generali"1. Che tipo di tempo è ascrivibile alla Città dei papi,
simbolo stesso della classicità a cui l'umanesimo italiano ha sempre
guardato? "A Roma l'idea del tempo parla dell'assenza del tempo stesso.
E' questo il compito di Roma nel contesto delle città del mondo"2. Un
tema formalizzato da Piranesi nel Campo Marzio, e cristallizzato, nel
secolo scorso, sia dal "vuoto semantico" dell'intervento urbanistico di
Antonio Munoz che ha sospeso in una "poetica indeterminazione" passato e presente, sia dal progetto metafisico di Piacentini per l'Eur e per
l'Università la Sapienza. Architettura di "ombre assolute, scolpita in
spazi sonori", la definisce ancora Purini, l'opera di Piacentini. La fissità
architettonica è solo apparente, la lunga durata dei manufatti edilizi è
un congelamento del tempo nello statuto del monumento e nella rovina archeologica. Nel farsi opera d'arte, testo autoreferenziale che incorpora in sé i significati del proprio esistere, l'architettura prende congedo dall'immanenza degli stili, che sono le forme dell'abitare, distaccandosi da ogni referente sociale. Solo come categoria estetica, è possibile leggere, come fa Purini, la sospensione del tempo che si contrappone oggi, alla mobilità, alla fluttuazione e al divenire della nostra esistenza. Era inevitabile che l'ipermodernità del nostro tempo, sottraesse
a Roma il suo carattere distintivo di città senza tempo. Oggi il nostro
orizzonte guarda a figure imitative che possano sospingerci verso un
pensiero omologante. Qui, il progetto è puro atto tecnico ed il suo linguaggio solo comunicazione.
Non si sottrae a questa dittatura neppure il progetto dell'Auditorium.
Nel 1994 Renzo Piano, presentando un progetto composto da tre sale
staccate, riunite intorno ad un anfiteatro all'aperto, vince la consultazione ad inviti che selezionava otto studi di architettura per il concorso
di progettazione del nuovo auditorium. Un'esperienza che ha inizio nel
1991 e terminata nel 2002 con l'inaugurazione della terza sala. Nel realizzare l'Auditorium, Piano non prende in considerazione l'ordine dei
problemi che ho confusamente abbozzato. Non vi è neppure nessun
ribaltamento di prospettiva, rispetto a quanto ho cercato di descrivere
fino qui. Ciò che interessa nelle tre sale romane è la soluzione di pro1
F.Purini, Tempo e potere, in Gomorra, R.O.M.A. il rudere e il condominio, n° 5, Giugno 2003, pag. 10.
2
Idem, pag. 11.
238
blemi tecnici e funzionali, sorretti da un'unica idea forte che ruota intorno ad un legame metaforico: concepire grandi strumenti musicali.
La musica non è tempo, non è cadenza ritmica, corporeità ciclica che
attende la fine, ma suono. Non il suono che è Aiòn, vibrazione originaria da cui germoglia ogni manifesta armonia, da cui tutti i canti sono da
sempre parlati1. Non cioè il fare del canto dove fine e principio coincidono, canto che pro-duce e quindi a Dioniso si rivolge. Il canto, per
cui, se Dioniso vuole esprimersi, dovrà necessariamente invocare forma
e ritmo, rivolgendosi ad Apollo, secondo quel paradosso che sta "nel
dar forma al movimento che libera-dissolve", prestando "voce a ciò che
mira al silenzio"2. Per Piano la musica è suono che genera riverberazioni acustiche, da controllare attentamente sui modelli a grande scala dell'Auditorium da duemila e settecento posti. Il suono diventa un'entità
visibile da catturare nei grafici computerizzati dei flussi acustici della sala3. Con il tempo, afferma l'architetto, "(…) scopri tutto quello che l'architettura rappresenta: e naturalmente a questo punto e, a una certa età,
non puoi fare la sciocchezza di metterti a fantasticare nei panni del
suono. Segui piuttosto il suono in modo scientifico e solo quello, au1
Come invece accade nel Centro Culturale Jean Marie Tjibaou in Noumea nella
Nuova Caledonia. Nel Centro, il miglior progetto della maturità di Piano, la musica
costituisce un elemento fondante dell’architettura. La struttura d’iroko delle capanne,
la loro doppia pelle formata da infinite lamelle di legno, costituisce già di per sé uno
strumento musicale, che gli alisei, i venti dominanti del luogo, fanno vibrare, producendo dei suoni simili ad un canto lontano”. Renzo Piano Building Workshop, Musica per Roma MpR S.p.A., Architettura & Musica. Sette cantieri per la musica dall’Ircam di
Parigi all’Auditorium di Roma, Edizioni Lybra Immagine, Milano, 2002, pagg. 66-77.
Il Centro Culturale è oggetto di molte pubblicazioni, si rimanda per tanto ad una bibliografia aggiornata di Renzo Piano.
2
Per questi temi cfr. l’intero testo di M.Cacciari, Il fare del canto, in M.Cacciari,
M.Donà, R.Gasparotti, Le forme del fare, Liguori Editore, Napoli, 1987. La citazione
è a pag. 68.
3
“Per simulare le prestazioni delle varie sale, il consulente di acustica (Helmut Muller,
lo stesso di Lingotto) costruì dapprima modelli con superfici riflettenti. Emettendo
segnali laser, e tracciando il percorso della riflessione, fu possibile costruire i primi
grafici della risposta acustica. Dopo questi modelli si passò al lavoro sul computer,
simulando le riflessioni delle onde sonore. Infine si passò a prove analogiche, cioè di
suono vero e proprio, sempre su modelli, ma di grande scala (alcuni grandi come una
stanza). A questo punto sapevamo quali sarebbero state le prestazioni degli ambienti
in dimensione reale”, R.Piano, Giornale di Bordo, cit., pagg. 230-232.
239
tomaticamente"1. Nella totale assenza di qualsiasi retorica narrativa
l'architettura torna ad essere, finalmente, al servizio di. Al servizio dell'ascolto del pubblico o della stessa orchestra che sta suonando. Al servizio del suono che può riprodursi nella sua forma migliore. Ma tutto
questo si dà unicamente nella magnificenza spettacolare della tecnica2.
Non si può pensare, come spesso accade, che l'estetizzazione della tecnica sia cosa di poco conto, o magari, un fatto secondario. Ciò che all'inizio ho tentato di analizzare, ha esattamente questo tipo di corollario. La tecnica come fattore determinante, prima ancora di risolvere
problemi di funzionamento, è l'immagine stessa del proprio produrre.
L'agire che prende vigore da una prospettiva neo-umanistica, e che per
fare ciò secolarizza il tempo lineare in una prospettiva futurocentrica
imprigionata nel soggetto, attende ad un produrre valutabile soltanto in
base alla sua utilità. Utilitas è appunto, per Vitruvio, la funzionalità.
Utilità è anche riconoscere il tempo come impiegabile, sfruttabile, non
perdibile: annoverarlo nella categoria economica. La tecnica è un particolare produrre che non si inscrive nel disvelamento nel senso della
poiesis, ma la hybris della sua interrogazione manipola, calcola, impiega
direttamente la natura, assicurandosela come sfondo3. La vocazione
prometeica dell'uomo, la cui immagine mortale è la definizione stessa
dell'homo faber, ha senso in virtù di questo ragionare. Vocazione che fa
credere, che l'uomo-autore sia più grande della sua opera. Gran parte
della produzione di Renzo Piano muove le mosse da una impensata ga1
Terzetto per Piano, intervista a Renzo Piano in Domus, 858, Aprile 2003, pag. 119.
In altri progetti la tecnologia viene esaltata come dimensione muscolare
dell’involucro architettonico: studio maniacale del giunto strutturale; utilizzo di sistemi dinamici delle tensostrutture, progressivo snellimento delle travi reticolari plasmate sull’andamento organico delle coperture. Nel caso dell’Auditorium romano, la
compattezza delle tre sale lascia intravedere le ossa strutturali negli interstizi di passaggio fra esterno ed interno (il “ricciolo”). Il riferimento è ancora al mondo naturale,
come nella migliore tradizione ingegneristica del novecento, e non già alle più attuali
soluzioni derivate dalla tecnica, proliferante, del diagram (diagramma), rivolta con
l’ausilio del digitale, alla elaborazione dell’inclusività di forme differenti. Qui, la
compattezza delle coperture rivela tagli, sovrapposizioni di materiale, la parentela, se
esiste, è con la corazza del coleottero, con i gusci degli animali, senza per questo eccedere in formalismi mimetici, piuttosto che gli organismi magmatici del morphing.
3
M.Heidegger, La questione della tecnica (1954), in Saggi e discorsi, Mursia, Milano,
1976, passim.
2
240
ranzia nelle capacità della tecnica moderna. L'impostazione urbanistica
dei suoi progetti procede senza alterazioni alla realizzazione del massimo di semplicità. Nonostante risieda, sovente, in questa caratteristica,
la forza di alcune proposte, la garanzia di un buon risultato è affidata al
ruolo specifico che nella sua architettura avrà la risoluzione dei problemi tecnico-formali. Lo stesso avviene nel concepire le tre aule del
parco della musica. L'idea di dividere in tre le sale, forse la cosa più interessante dell'intero progetto, è quasi ordinata da un'esigenza funzionale: "per garantire il massimo di flessibilità, e non sacrificare nulla in
termini di resa acustica, decidemmo di non incorporare le tre sale previste in un unico edificio, ma di farne tre costruzioni indipendenti. In
questo modo introducemmo anche un elemento di novità rispetto alla
richiesta formulata dal bando di gara. Nel nostro progetto le tre sale,
ciascuna rinchiusa in un contenitore simile a una grossa cassa armonica,
sono state disposte simmetricamente intorno a uno spazio vuoto, che è
diventato il quarto auditorium, inizialmente non previsto: un anfiteatro all'aperto"1. Le tre sale, di fatto, si articolano intorno all'anfiteatro
che costituisce una sorta di foyer dell'intero complesso. Perpendicolarmente ad un porticato di passaggio, che si appoggia a via De Coubertin, un percorso interno al lotto ci conduce nel centro dell'anfiteatro su
cui sovrastano le tre testuggini in piombo. Non vi è nulla di più semplice. Il parallelo con la città di Roma, avviene per unica via analogica:
l'anfiteatro, la classicità, un vago sapore archeologico dei tre elementi
lasciati galleggiare su un letto di alberi2. Emerge in questo progetto la
dimensione antiurbana dell'architettura di Renzo Piano. L'Auditorium
è collocato in un area residuale un tempo adibita a parcheggio posta vicino ai grandi impianti sportivi del Villaggio Olimpico, a margine di
Villa Glori. La scelta di quest'area, da parte dell'amministrazione pubblica, come luogo per realizzare il centro musicale della città, dopo che
lo storico auditorium costruito sui ruderi del mausoleo di Augusto
1
R.Piano, Giornale di bordo, cit., pagg. 228-230.
Occorre aggiungere, tuttavia, e non è poco, che la pragmatica dell’agire salva il
discorso dell’architetto genovese da un dialogo con i valori tradizionali dell’abitare, i
quali, davvero, non trovano mai spazio. Caratteristica di questa architettura è
l’assenza di nostalgia e citazioni.
2
241
venne smantellato in favore del reperto archeologico1, costituiva una
chance per innescare un processo di riqualificazione urbana di questo
"vuoto" posto come incerta linea di demarcazione, nella interpretazione di Alessandro Anselmi, fra la trama rigorosa del quartiere Flaminio
disegnata dai blocchi edilizi di matrice ottocentesca e la logica razionalista della città che dirada lo spazio con libertà concependo l'insediamento discontinuo del Villaggio Olimpico. Due città, due logiche contrapposte, due tempi differenti, discontinui, antagonisti. Il valore di
massa del tessuto ottocentesco si contrappone al valore dei volumi plastici sotto la luce dei frammenti novecenteschi di Nervi, di Libera, di
Moretti. Alla visione panoptica dello spazio urbano fa eco la zonizzazione in classi e funzioni. Al tempo della durata già contratta delle
prime forme di locomozione meccanica, a quello dell'automobile. Piano liquida questo contesto costruendo un paesaggio naturale. Un atteggiamento che rivela una concezione fortemente antagonista nei confronti della metropoli contemporanea che con le sue contraddizioni ed
i suoi conflitti si espande ormai infinitamente. La visione ecologista,
con le sue parentele ad un umanismo di maniera, satura i "buchi neri
del tessuto cittadino" con la piantumazione di 600 alberi, preferisce il
confronto con la storia archeologica del sito - con i ritrovamenti di una
villa romana di epoca repubblicana - e con la rassicurante natura di Villa Glori, la cui flora "scende sul pendio e va a invadere tutta questa zona fino a completare il parco archeologico/architettonico"2. Per Piano,
il "vuoto" lasciato dalla dismissione del parcheggio al Flaminio è un sistema "pericoloso urbanamente e fisicamente". Anzi, con estrema radicalità si spinge ad affermare, che "un parcheggio, come tu sai, è una delle cose meno urbane che si possa immaginare"3. Un'affermazione sorprendente se si pensa al nuovo grado di complessità delle realtà urbane.
Complessità che si è orientata sempre più, in tempi recenti, verso un
urbanesimo dei flussi, che ha messo fortemente in crisi la tradizione di1
Per l’intricata ricostruzione delle varie fasi per la realizzazione di un nuovo
auditorium per la musica nella città di Roma, si veda F.Irace, Architettura musicale, in
Renzo Piano Building Workshop, Musica per Roma MpR S.p.A., Architettura & Musica…, cit.. Ed anche, G.Mastrigli, I gladiatori dell’architettura, in Gomorra, R.O.M.A.
il rudere e il condominio, n° 5, Giugno 2003.
2
Terzetto per Piano, cit., pag. 120.
3
Ibidem.
242
sciplinare dell'architettura, per cui il tipo-parcheggio, in quanto tale,
costituisce, semmai, la possibilità ultima di un nuovo orientamento. Il
"modernismo felice" di Piano, come sapientemente lo ha definito Alessandro Rocca, il suo naturalismo tecnologico, la sua concezione deterministica, riemergono ad interpretare il luogo della città di Roma. "Un
piccolo mondo perfettamente organizzato in un immenso parco nel
cuore di Roma"1. Un mondo, appunto, proprio perché staccato, lasciato galleggiare nel verde del parco, autosufficiente, che intrattiene relazioni, come si evince nei prospetti di progetto, quanto mai esplicativi,
con l'orizzonte delle chiome degli alberi, sulle quale, in ultimo, si profila lo skyline degli edifici periferici. E' un gioco di composizione, per così dire, a lavori finiti, che addolcisce il macchinismo rigorista delle fabbriche. Un apparato decorativo che indirizza verso un conciliatorio ideale naturalistico, fatto di alberi, prati, specchi d'acqua, percorsi nella
natura, ricerca di soluzioni bioclimatiche e biocompatibili. Atteggiamento, questo, che è stato definito come un passaggio alla maturità artistica, non presente, per esempio, nello scenografico ibridismo del Beaubourg di Parigi. Nonostante sia impossibile, sul piano storico critico,
periodizzare in più momenti la lunga carriera di Piano, il lavoro dello
studio è andato definendosi, nel tempo, affinando la sperimentazione
tecnica e perfezionando i propri strumenti progettuali verso obiettivi
sempre più selezionati, in un dialogo con la committenza e l'opinione
pubblica fondato principalmente su premesse largamente condivisibili e
coagulate da unità d'intenti intorno all'occasione progettuale. Il discorso di Piano perde così quella carica innovativa, che possedevano le sue
prime realizzazioni, e si stempera nell'acquiescenza prodotta da un abile battage promozionale, dovuto più, a dire il vero, alla spettacolarità
dell'invenzione tecnologica ed al rilievo del grande progetto, che alla
natura, comunque sempre schiva, della personalità dell'architetto. "Nel
discorso di Piano, sempre calmo e rassicurante, ogni contraddizione si
appiana, ogni problema trova la propria soluzione, ogni ambizione la
propria espressione. L'obiettivo è una progettazione che si risolva in un
gesto naturale; le contraddizioni, tra forma e materiali, tra luogo e pro-
1
Renzo Piano Building Workshop, Musica per Roma MpR S.p.A., Architettura & Musica…, cit., pag. 28.
243
getto, tra forma e funzione, sono superate"1.
Al limite dell'incomprensibiltà viaggia oggi il nostro giudizio estetico,
nell'impossibilità di astrarre l'arte dal flusso di "artisticità" nel quale
siamo caduti. La dimensione estetica esercita una supplenza nei confronti di ciò che un tempo si indicava nel termine generico di "politico". E' diventato difficile valutare il significato di un'intervento urbano
o l'architettura di un singolo edificio. Del progetto dell'Auditorium
parco della musica di Roma di Renzo Piano, possiamo solo dire se è
bello o è brutto: le sole categorie estetiche che ci vengono in soccorso
anche quando non condividiamo - o anche quando, invece, condividiamo - la poetica, lo stile, le facoltà mimetiche o dirompenti dell'oggetto, il ricorso ad una tecnologia innovativa o tradizionale. Mi pare
che l'architettura possa ben riflettersi nelle immagini del sistema: le
strategie comunicative che esaltano il valore della merce fanno dello
spazio uno strumento e dell'architetto, anche quando l'architetto è
l'umanista Renzo Piano, un moltiplicatore di valore, un grande imbonitore di pubblico e committenze. Afferma Catucci, "La supplenza politica dell'estetica, ha come sfera di influenza precisamente la definizione di uno spazio pubblico, ed è perciò tanto più insidiosa, quanto più la
percezione di quest'ultimo appare difficile da circoscrivere ricorrendo a
categorie di altro genere: politiche, appunto, ma anche sociologiche e
persino economiche. (…) Un progetto si offre alla percezione pubblica
essenzialmente in base a valori estetici che, per quanto possano essere
discutibili, fondano in ogni caso il suo significato politico. Un caso esemplare è, in questo senso, l'Auditorium costruito a Roma da Renzo
Piano: un'enorme struttura il cui impatto politico sulla città non dipende dalla sua funzionalità, scarsa, ma è direttamente proporzionale al
suo grado di discutibilità estetica, al fatto, cioè, che il suo essere bello o
brutto sia la posta in gioco del giudizio pubblico sull'opera"2.
1
Alessandro Rocca, Renzo Piano Noumea, Paris, in cit., pag. 44.
Stefano Cantucci, Criticare l’estetica per criticare il presente, in Gomorra, Enclave.
Homeland Security, n° 6, Marzo 2004, pag. 10.
2
244
DUE ESPERIENZE DISTINTE
di Gilberto Rossini
Stavo lavorando ad un progetto e dovevo definire quote e dimensioni
degli alzati. Le avevo previste solo in linea di massima, prima di disegnare la pianta della quale erano state decise dimensioni, rapporti fra le
dimensioni, fonti di luce, orientamento solare, raccordi con il terreno e
i paesaggi lontani. Infine dovevo completarlo disegnando sezioni e
prospetti. Pensavo a tutto ciò quando mi sono fermato sulla piazzetta
di sopra, nell’attesa che la porta di Virgilio e della Piera si aprisse. Le
colonne laterali, sopraelevate di qualche gradino rispetto al selciato della piazza, ne schermavano del tutto la vista. Solo nell’angolo in alto il
vecchio sarto annaffiava i gerani, rossi, e nel riquadro di fronte del portico si apriva una prospettiva, molto composta, simile a quella di alcuni
dipinti rinascimentali. Vedevo ad una quota un po’ più alta di quella
dei miei piedi l’ingresso della vecchia edicola dell’Agatina, la quota superiore della ripida e stretta contrada di pietra che saliva dai Murelli
dove c’era, gremita nei giorni di mercato, la trattoria del vecchio Tosi,
e a lato del vuoto della contrada, l’ingresso della casa di Renato e della
vedova Cesaretti. Più lontano di quella vista di cose completamente costruite, fra esse, il soffitto del portico e il fianco di pietra dell’ultima colonna, appariva molto più illuminata la costa verde e inclinata del monte e sopra, nel minimo triangolo rimasto, l’azzurro chiaro del cielo. Un
colore distinto e omogeneo diverso da tutti gli altri, ancora più astratto
nonostante fosse quello della natura. La contemporanea presenza nella
mente del mio progetto, ormai disegnato sul piano del tecnigrafo, assieme a quella vista di soggetti immoti che la mia lunga dimora nel
Borgo aveva conservato nella memoria mi parvero della stessa natura.
Mi spiego meglio: rimasi convinto che gli spazi reali, a tre dimensioni,
che tentavo di costruire e quelli che vedevo, delimitati dalle costruzioni, dal profilo del monte e dal cielo, seguivano, apparendomi, lo stesso
procedimento.
Molto tempo prima sulla riva del mare mi ero più volte affezionato alle
stampe che vendevano nigeriani e senegalesi. In quelle non riuscivo a
vedere, nonostante mi avvicinassi alla distanza suggerita, la terza di-
245
mensione dello spazio rappresentato né gli oggetti che i titoli delle
stampe indicavano: la statua della Libertà, il Tahai-Mahal o qualche altra veduta famosa, oggetti che apparivano chiari agli altri bagnanti che
le acquistavano o riprendevano soddisfatti il loro cammino. In seguito
avevo comprato un libretto fatto con la stessa tecnica delle stampe e sui
riquadri variopinti, a prima vista costituiti di soli punti variamente colorati, distribuiti omogeneamente o quasi, senza alcuna distinguibile
forma, avrei dovuto vedere un cavallo, una stella marina o qualche altro semplice oggetto. Seguendo invece dell’italiano stentato dei primi
venditori i consigli scritti del libro, dopo parecchi tentativi avevo imparato a vedere. Dovevo avvicinare la punta del naso alle superfici colorate fino a toccarle e, tenendo gli occhi bene aperti, senza sottoporli ad
alcuno sforzo cosciente per accentuarne la convergenza, distaccarmi dal
piano della stampa lentissimamente senza pensare a cosa avrei visto ma
solo guardando tranquillamente a quella informe e colorata superficie
che occupava completamente il mio campo visivo. Non c’era più il
piano ma uno spazio tridimensionale vero e proprio, fisicamente percepibile. Ai miei occhi, che erano ovviamente gli stessi di sempre, e in
quello spazio irreale ma visto, appariva chiara la figura del cavallo o
della stella marina. Più tardi mi resi conto che la lettura in diretta di
Kant non aveva niente di troppo impervio da capire e, dal momento
che il mio pane professionale era proprio lo spazio, se non anche il
tempo, ritrovai e capii quello che credevo di aver capito e credevo bastasse al Liceo, cioè che i concetti sintetici a priori dello spazio e del
tempo non si sarebbero formati nella nostra mente come sintesi dei
concetti nati dall’esperienza sensibile ma li possederemmo prima di ogni esperienza, in quanto uomini, e attraverso questi filtreremmo ogni
nostra coscienza e conoscenza delle cose, qualunque cosa esse siano, del
mondo a noi esterno. Avevo sempre pensato ai concetti, alle parole, alle strutture del linguaggio ma avevo sempre creduto alla realtà oggettiva, affatto indipendente dalla nostra esperienza e percezione, non solo
delle cose ma anche dello spazio e del tempo entro i quali le cose stavano, si muovevano o si trasformavano. Non starò a raccontare come
questa, non “innata”, convinzione si è profondamente trasformata con
lo studio e l’osservazione, fatto sta che ho constatato che non solo il
concetto, ma proprio la nostra visione fisica, naturale, onnipresente in
246
ogni essere umano (e probabilmente in ogni essere animato), è una visione soggettiva che attribuisce alle cose tre dimensioni e le sistema vicine o lontane in luoghi distinti di un contenitore anch’esso a tre dimensioni, lo spazio che vediamo ovunque, nella nostra esperienza quotidiana e quando distendiamo lo sguardo nell’azzurro fra nuvole bianche o nella notte tempestata di stelle. Quello spazio e quelle cose, tutte
le cose che percepiamo e che formiamo attraverso le nostre senzazioni,
come diceva Kant, non esistono come noi le percepiamo. Esse sono il
risultato di quanto i nostri sensi hanno filtrato e sottoposto alla nostra
attenzione, alla nostra entità vitale, alla nostra volontà e capacità originaria di vita, prima che ad ogni coscienza e ad ogni pensiero. Lo spazio
è una creazione dell’entità vitale dell’uomo e degli animali che si muovono, una sintesi fisicamente percepibile nella quale sistemiamo le cose.
Il concetto di spazio è a sua volta l’elaborato mentale che noi uomini,
attraverso quell’organo centrale che chiamiamo cervello e il suo prodotto spirituale che chiamiamo mente, nel corso di milioni di anni, abbiamo prima elaborato e del quale nelle ultime migliaia di anni abbiamo preso coscienza. Lo spazio è un’entità che crea il nostro corpo e il
nostro cervello o, se si vuole, si crea attraverso il nostro corpo e il nostro cervello. Il procedimento è dunque molto silmile, se non lo stesso,
a quello che adottiamo quando progettiamo e a volte costruiamo uno
spazio, uno spazio prima inesistente, uno spazio che costruiamo similmente a quanto abbiamo sempre fatto per milioni di anni quando abbiamo reso visibile e percepibile lo spazio fisico nel quale viviamo. I
due spazi hanno la stessa natura, anche se lo spazio che gli architetti inventano arbitrariamente, come dice Rafael Moneo, può essere manipolato a loro piacimento.
Probabilmente quel giorno era adatto per un’altra esperienza, molto
simile alla prima, relativa alla realtà fisica del tempo. Il tempo come lo
spazio sono le basi sulle quali si fonda la scienza, soprattutto la fisica,
sia la fisica classica di Galileo e di Newton che moderna di Plank e Einstein. Avevo salutato un mio amico e la sua ragazza che passavano sul
marciapiede di fronte al mio studio per la loro veloce camminata quotidiana mentre vi entravo per fotocopiare le piante appena completate
del progetto. Dopo la decina di minuti necessari, invece di ritornare
immediatamente a casa decisi di seguire con l’auto la stessa strada dei
247
miei amici. Così li raggiunsi che camminavano ancora con lo stesso
passo di prima. Mi ricordai allora di un bel passo di Pasternak letto con
passione tanti anni prima. Zivago, non più giovane ma ancora nel pieno delle forze che però non avrebbero più retto a lungo viaggiava su un
tram lungo una prospettiva di San Pietroburgo, o di Mosca. Sull’ampio
marciapiede a lato della via camminava a fatica, quasi arrancava, una
vecchissima signora che egli aveva frequentato già anziana molti anni
prima: nel raggiungerla aveva pensato che l’avrebbe superata anche morendo. Non era quella, fortunatamente, la mia prospettiva ma questo
pensiero che il breve tempo trascorso nello studio, rispetto a quello dei
miei amici lungo la strada, si era svolto nella sua unica dimensione, la
dimensione del tempo, indipendentemente dallo spazio e da me stesso
che non mi ero mosso. Non sapevo nemmeno come avrei potuto valutare la durata di quel tempo se alcuna cosa non avesse cambiato il suo
posto, si fosse nel frattempo trasformata o non ne avessi avuto coscienza. Era stato solo il nuovo incontro con i miei amici che me ne aveva
rivelato lo scorrere. Poiché eccetto le fotocopie non era avvenuto altro,
posso dire di aver vissuto nello studio un’esperienza del tempo distinta
da quella dello spazio.
Raramente però, mi sembra, che le due esperienze rimangano distinte,
credo anzi che la loro separazione sia piuttosto un’eredità del linguaggio, nemmeno troppo antica, da quando, forse, sono nate nella Grecia
classica sia le perfette forme geometriche senza tempo che stanno alla
base dei nostri studi sia le precise parole della filosofia.
Un’altra considerazione posso trarre a distanza dalle due esperienze di
quel giorno: quel tempo trascorso nello studio, lo stesso che i due avevano percorso lungo la strada, era parente prossimo della relativa dimensione spaziale percorsa. Per mettere a confronto le due esperienze
fatte separatamente, relativa allo spostamento fatto nello spazio quella
del mio amico camminatore e la mia relativa al tempo speso per fare le
fotocopie, dovrei considerarne una terza: la mia in auto quando l’ho
raggiunto lungo la stessa strada ad una velocità maggiore della sua. Il
tempo scarso da me scorso nello studio sarebbe risultato nullo se lo avessi raggiunto immediatamente e identico al suo se non lo avessi mai
raggiunto. Semplicemente potrei dire che il tempo del quale ho avuto
esperienza io è stato la somma di quello trascorso nello studio e di quel-
248
lo sulla strada. Su quella, uno spazio nel quale scorre il tempo, il tempo
che mi è occorso per raggiungere il mio amico è stato proporzionale alla distanza che nel frattempo ha percorso e al rapporto fra la sua velocità e la mia. Che il tempo ha la stessa natura delle tre dimensioni dello
spazio nel quale viviamo si capisce bene da un semplice diagramma con
lo spazio percorso dal mio amico sulle ascisse e il tempo impiegato a
percorrerlo sulle ordinate. L’inclinazione della retta che unisce i due
punti nei quali l’ho incontrato, prima delle fotocopie e dopo averlo
nuovamente raggiunto, rappresenta la velocità costante con la quale egli
ha camminato. Nello stesso diagramma possono altrettanto facilmente
essere descritti i miei percorsi, sull’asse del tempo la permanenza nello
studio e nel piano fra i due assi il veloce percorso in auto fino al punto
dove l’ho nuovamente incontrato. Se avessi percorso questa seconda
parte con la stessa sua velocità non l’avrei mai raggiunto e, con una velocità maggiore l’avrei invece raggiunto nel punto d’incontro delle due
rette che descrivono le due velocità, la mia e la sua. Con una velocità
infinita l’avrei raggiunto nello stesso punto immediatamente anche se
fossi partito un po’ dopo. Con la sua velocità avrei percorso il mio spazio-tempo nello stesso modo del mio amico, con una velocità infinita lo
avrei percorso in uno spazio senza tempo, lo spazio della geometria
classica di Pitagora e di Euclide.
t
2
1
A
A
1
B
velocità infinita
fra A e B
s
249
Poiché nell’unificazione concreta delle due esperienze distinte ho potuto tranquillamente descrivere lo scorrere del tempo, sia fuori che dentro lo spazio, nello stesso diagramma e con le stesse regole della geometria classica, e in particolare con lo stesso teorema di Pitagora, mi sono
convinto che la dimensione del tempo ha la stessa natura delle dimensioni dello spazio e pertanto che lo spazio nel quale viviamo può essere
descritto più compiutamente con quattro piuttosto che con tre dimensioni1. Lo spazio classico nel quale è nata tutta la nostra cultura, lo spazio della filosofia e della scienza moderna classica ha sempre avuto e
conservato solo tre dimensioni ed è basato sul presupposto che la distanza fra due punti non ha una dimensione temporale. La conseguente
certezza che il tempo scorresse per proprio conto, indipendentemente
dallo spazio, è equivalsa alla convinzione di poter eseguire qualunque
misura della distanza fra punti contemporaneamente presenti a velocità
infinita, misura impossibile da quando è stato sperimentato, alla fine
del XIX secolo, che nessuna informazione può percorrere lo spazio del
nostro universo ad una velocità superiore a quella della luce. Ad ogni
misura, anche la più elementare misura della distanza fra due punti dello spazio euclideo dovremmo sostituire quella eseguita in uno spazio a
quattro dimensioni nel quale la massima velocità di qualunque informazione è quella della velocità della luce. Nell’intervallo di tempo che
intercorre affinché l’informazione dell’esistenza del secondo punto
giunga al primo, con la stessa velocità nella direzione del tempo, il secondo è fuggito dal primo. Ugualmente dovremmo correggere non solo le misure ma lo stesso concetto delle entità fisiche entro le quali abbiamo sistemato i concetti delle cose dell’esperienza (almeno quanti di
noi sono stati educati a considerare lo spazio di Pitagora e di Euclide
1
Le misure perfettissime sulle quali si fondava la fisica moderna nata nel XVII secolo,
quelle che segnano il passaggio “dal mondo dell’approssimazione a quello della precisione” (A. Koirè 1961), pretendevano di conoscere esattamente la distanza assoluta fra
due punti. Questa distanza invece non potrebbe che essere dedotta dalla semplice e
accettabile applicazione del Teorema di Pitagora alle misure delle distanze nello spazio e nel tempo dei due punti. Anche questa però non può essere una misura assoluta.
La rivoluzione relativistica infatti, un decennio dopo la sua prima comparsa nel 1905,
ha coinvolto nella creazione dello spazio pensabile, ancora identificabile con lo spazio
fisico nel quale viviamo, anche l’azione della gravità che ne ha sconvolto
l’omogeneità, l’isotropia e l’infinità.
250
altrettanto reale delle cose reali e come la stragrande maggioranza delle
persone di questo mondo indubbiamente non ha mai fatto).
Questa conclusione potrebbe avere naturalmente conseguenze molto
incisive su moltissime convinzioni che informano la nostra concezione
della realtà sia fisica che spirituale, perché le nostre idee che hanno avuto l’impronta della filosofia greca e sono nate dallo stesso genio della
geometria, dell’architettura e della poesia, sono le stesse delle quali anche adesso ci nutriamo.E’ per questo motivo che è necessario confrontarle con quelle più vicine alla realtà che ci propone la scienza.
P.S. Quando mi è giunto da parte della Preside della Scuola Superiore di San Marino
l’invito di pubblicare un lavoro sul XXXII Annuario del Liceo stavo sistemando in
uno scritto le precedenti riflessioni destinate solo a me stesso. Sono pochissime infatti
le occasioni per parlarne con altri. Poi nell’impossibilità di preparare in tempo un
altro lavoro più pertinente al mio ambito professionale, nel quale dovrei avere maggiore competenza, ho pensato che lo fosse anche questo e forse potesse essere anche
più adatto. L’Annuario è infatti una pubblicazione di quel Liceo Classico nel quale
hanno incominciato a formarsi le basi sia della mia professione sia della concezione
complessiva del mondo nel quale tutti, assieme ai giovanissimi di oggi, ci troviamo e
proprio da questi mi piacerebbe pensare che quanto ho scritto fosse letto. Anche perché, almeno credo, nemmeno oggi i temi umanistici e scientifici che vi convergono
hanno dato i loro frutti, non tanto riguardo l’aggiornamento della concezione fisica
dell’universo ma piuttosto quello delle convinzioni filosofiche, etiche e religiose che,
più o meno, condizionano la nostra vita.
251
DAL GORILLA AMMAESTRATO ALL’UOMO FLESSIBILE:
IMMAGINI E RAPPRESENTAZIONI DEL LAVORO NEL CINEMA.UN LABORATORIO DIDATTICO
di Alessandro Simoncini
“Vorrei mostrare che il lavoro non è assolutamente
l’essenza dell’uomo …Perché gli uomini siano
effettivamente posti al lavoro, legati al lavoro,
è necessaria una serie di operazioni complesse”
Michel Foucault
Introduzione
Come molti hanno già ben osservato (tra gli altri R. Rossanda, P. Manera, C. Natoli, B. Cartosio) del lavoro il cinema, almeno in raffronto
ad altri temi assai più frequentati, si è occupato relativamente poco.
Una prima serie di motivazioni va indubbiamente ricercata nel fatto
che fin dalle origini l’ “economia politica” del cinema - ossia il finanziamento, la produzione e la circolazione-distribuzione del discorso cinematografico - soggiace alle stesse parziali regole di funzionamento
dell’intera macchina sociale capitalistica. Infatti come ha sostenuto
Bruno Cartosio a proposito del cinema americano degli anni d’esordio,
in un saggio intitolato “L’ingranaggio operaio nella macchina cinema”,
si può parlare di una quasi innata ostilità delle case produttrici a narrare
le vicende di un mondo e di una soggettività – quella operaia- che al dispiegarsi del dispositivo capitalista opponeva, potenzialmente e spesso
molto materialmente, conflittualità, differenti immagini del mondo e
stili di vita alternativi. Come lui stesso afferma a proposito dei simboli
venduti dalla produzione cinematografica del tempo:
“La sala è “de luxe”, l’uomo è “re”, la donna “regina”: i termini della
democrazia sono quelli dell’aristocrazia. Il cinema deve portare le masse in luoghi e a consumare simboli che sono estranei all’esperienza quotidiana di quasi tutti , che discendono da modelli culturali e sociali delle
élites metropolitane […] il modello sociale che l’operaio consuma nel
cinema lo presuppone in quanto funzione produttiva, ma lo cancella in
quanto figura sociale protagonista” (Cartosio, 1980)”.
253
E anche quando, a partire dal dopoguerra e soprattutto dagli anni ’60’70, il lavoro entra con una certa prepotenza a far parte degli oggetti del
cinema in un contesto politico profondamente influenzato dalle lotte e
dalle rivendicazioni di presenza dei lavoratori subordinati, è probabilmente vero che – come ha affermato Rossana Rossanda “la fatica intessuta di «durata nel tempo» e «alienazione» [è] inesprimibile
dall’immagine che è […] mossa in un tempo assolutamente virtuale”
(Rossanda, 1995). In altri termini per il cinema è forse davvero impossibile “dire il lavoro”, la sua verità, la sua essenza. Tuttavia, ma forse
proprio per questo, non lo è altrettanto mostrarne se non proprio sempre la fibra fine, almeno - ed è già molto - la realtà di subalternità quotidianamente ripetuta. E ciò proprio grazie all’assunzione dell’idea che
sta alla base del moderno cinema critico-espressivo: che cioè fonte della
capacità emancipatoria dell’immagine in movimento sia la potenza di
evidenziare agli spettatori l’artificio che il cinema sempre rappresenta
(Pezzella, 2001).
Il cinema, insomma, non deve “dire il lavoro”, ma può costruire un discorso sul lavoro deliberatamente artificiale e proprio per questo efficace nel dire allo spettatore “ecco, guarda il lavoro: ciò che ti si mostra
non è la «verità del lavoro», ma è ciò che del lavoro spesso non si vede e
più spesso non si dice”. Con le immagini in movimento il cinema può
cioè articolare un “discorso vero” capace di contrastare il senso comune
e la vulgata corrente che occultano il momento di assoggettamento
consustanziale al lavoro; mettendo in circolo “effetti di verità” alternativi, può mostrare la cattura dell’attività umana in un processo di sua
lavorizzazione integrale finalizzato ad oliare costantemente gli ingranaggi della macchina del profitto; la macchina-cinema può insomma
contribuire a disarticolare gradualmente l’egemonia di un determinato
regime di produzione della “verità” sul lavoro e ad avviarne la costruzione di un altro, affrontando così – magari inconsapevolmente - quello
che secondo Michel Foucault era “il problema politico essenziale per
l’intellettuale”: sapere se sia o meno possibile “costruire una nuova politica della verità” (Foucault, 1976, 2001)
Di un simile cinema vi è ancor più bisogno oggi, in una fase storica che
ha gradualmente escluso il lavoro dalla sfera pubblica, decretandone la
irrilevanza politica, precarizzandone sempre più la realtà materiale e
254
contrastandone con forza ogni ritorno in scena, occasionale o meno
che sia.
Nella storia del cinema la capacità di dire in questo modo il lavoro non è
stata assente. Tra i modesti scopi di questo articolo c’è anche quello di
mostrare il senso di alcune incursioni della “Settima Arte” nel campo
dei discorsi sul lavoro e di analizzare determinati tentativi, riusciti o falliti, di indagare con le immagini la dinamica della sua subalternità, il
ruolo sociale che esso ha ricoperto e ricopre, gli immaginari di passività
e riscatto, le delusioni e le speranze a cui le sue lotte hanno dato vita.
Il metodo scelto, però, è quello di selezionare solo pochi film tra i più
significativi di una ampia produzione, in relazione a fasi storiche durante le quali sono stati radicalmente ridisegnati sia il volto sia le forme
del lavoro dipendente. Punto di partenza sarà quella formidabile fucina
dell’assoggettamento, e dialetticamente della resistenza, che è stata la
fabbrica fordista con il suo corollario di taylorismo. Il cinema ha spesso
tentato di indagarla senza disprezzare qualche incursione su ciò che l’ha
preceduta, ossia il mondo del crepuscolo dell’artigianato, della manifattura industriale e dell’operaio di mestiere. Successivamente si presterà
attenzione alla critica che del cosiddetto “fordismo” il cinema è stato
capace di produrre, intuendone, ed in alcuni casi anticipandone,
l’orizzonte di crisi. Crisi che attraverso vicende alterne, ed in seguito ad
un sistema complesso di cause sui cui è qui impossibile soffermarsi per
ragioni di spazio, ha condotto – ed è l’oggetto della terza parte di questo articolo – ad una trasformazione del modo di produrre che con
termine assai vago e di incerta utilità è stata definita “post-fordista”.
Anche a questa recente metamorfosi del lavoro contemporaneo, tuttora
in corso, il cinema ha dedicato un certo spazio e qualche attenzione; e,
come si tenterà di mostrare, talora anche con una potenza demistificatrice - assente a tanta sociologia accademica - capace di evidenziare come sedicenti processi di modernizzazione o euforiche retoriche della
post-modernizzazione non abbiano spesso prodotto altro che il semplice ritorno ad una precarietà del lavoro e dell’esistenza che si credeva
oramai alle spalle.
255
1) Dall’operaio di mestiere al fordismo
Alla fine dell’Ottocento, cioè al momento della nascita del cinema, il
mondo del lavoro è in piena trasformazione. L’ordinamento tradizionale, codificato nel sistema corporativo, prevedeva che i processi lavorativi e produttivi fossero regolati da norme precise e stabili. Queste regole venivano acquisite con un lunghissimo apprendistato e poi si mantenevano costanti per il resto della vita lavorativa. L’avvento
dell’industria getterà in crisi profonda questi assetti ed equilibri consolidati. Al posto della figura dell’artigiano specializzato e qualificato, che
ha un mestiere riconosciuto ed è spesso proprietario degli attrezzi - che
porta con sé sul posto di lavoro come espressione della propria potenza
produttiva - emerge la figura sociale dell’operaio di fabbrica, che utilizza macchinari complessi, sempre più imponenti e perfezionati, finendo
col diventare una “appendice atomizzata della macchina a cui è legato”
(Fiocco, 1998). A differenza della prima, che si era basata soprattutto
sul settore tessile, la cosiddetta seconda industrializzazione, ovvero
quella che va dagli anni ‘70 dell’Ottocento fino alla prima guerra mondiale, poggia ora sul settore delle industrie siderurgiche, metallurgiche,
meccaniche, elettriche e chimiche: tutte industrie ad alto contenuto
tecnologico in via di continuo rinnovamento e di dimensioni continuamente crescenti.
Si tratta quindi di un paesaggio industriale già contraddistinto da una
serie di elementi che ritroveremo nel cinema: dalla imponenza dei
grandi macchinari, ai fumi delle ciminiere, alla complessità dei meccanismi produttivi. In questa fase l’operaio era già soggetto ad un rigido
disciplinamento, doveva osservare orari di lavoro molto estesi dell’ordine comunemente delle 10- 12 ore al giorno - e non aveva che
scarsissime possibilità di farsi valere come forza sociale organizzata, essendo quasi dovunque in varia misura ostacolata l’attività rivendicativa
e sindacale. In questo tipo di industria, tuttavia, gli operai mantenevano
ancora un relativo grado di autonomia per quello che riguardava la vita
interna alla fabbrica, i processi e i ritmi produttivi. Anche se la fabbrica
superava e negava l’esistenza stessa della vecchia bottega artigianale,
molte delle grandi manifatture del tempo erano ancora organizzate con
processi produttivi che facevano riferimento a precise qualificazioni,
abilità, mestieri. Ad esempio, il processo produttivo di una delle indu-
256
strie pesanti più importanti e più tecnologicamente avanzate dell’epoca,
i cantieri navali, era in realtà costituito come un insieme di operazioni
che assemblavano diverse mansioni. Si andava dalla laminatura alla calafatura degli scafi ed ognuna di queste mansioni corrispondeva ad altrettanti mestieri individuali ben determinati.
Gli operai quindi mantenevano un certo margine di libertà per quanto
riguardava le singole operazioni di cui erano responsabili, tanto è vero
che per definire queste figure si è parlato in alcuni casi di factory artisan.
Come hanno chiarito per il caso inglese gli studi di Erich Hobsbawm,
in realtà gli operai specializzati di questo tipo avevano messo in atto un
complesso sistema di auto-limitazione dei ritmi di lavoro, non palese
ma efficientissimo, che gli imprenditori trovavano assai difficile da modificare (Hobsbawm, 1972). Tuttavia lo stesso continuo cambiamento
tecnologico metteva in crisi il cardine su cui si strutturava questa politica operaia di autoregolazione dell’erogazione del lavoro. Infatti, il punto di fondo su cui si basava la resistenza operaia derivava da una specie
di moral economy secondo la quale non poteva essere ritenuto giusto lavorare con ritmi più intensi di quelli stabiliti dalla tradizione.
Gli operai facevano riferimento ad una tradizione artigiana, ma anche
contadina, in cui il ritmo del lavoro non era regolamentato. Nella bottega artigiana le pause dal lavoro erano molto frequenti, molto spesso ci
si fermava per fumare un sigaro o per interloquire col cliente. Come
hanno chiarito per il caso degli Stati Uniti anche gli studi di Herbert
Gutman sulle grandi trasformazioni economiche degli anni 1843-1893,
il comportamento degli operai e degli artigiani in questi decenni si spiega in termini di continuità piuttosto che di consenso e, di questa, la
persistenza di alcune abitudini sul posto di lavoro è un esempio evidente. Si hanno perciò casi in cui gli operai si fermano per leggere il giornale coi loro compagni, casi di sigarai che lavorano solo due o tre al giorno, di tornitori che trovano le nuove macchine “difficili e senza senso”,
e ancora di sigarai che scioperano per mantenere alcuni vecchi privilegi,
come quello di tenere per sé i sigari difettosi o di abbandonare il posto
di lavoro senza l’autorizzazione del capo. L’introduzione di nuovi
macchinari stava però portando la fabbrica ad una organizzazione della
produzione caratterizzata da ritmi e fasi di lavoro e sempre più intense
e concatenate. Ma questi operai erano ancora molto lontani dal sotto-
257
stare ai tempi imposti dall’orologio. L’etica del lavoro era ancora ben
lungi dall’affermarsi e si praticava ancora il San Lunedì.
Tuttavia il riferimento alla tradizione non poteva durare a lungo,
l’industria si andava ammodernando, la meccanizzazione trasformava i
vecchi mestieri in qualificazioni più specifiche relative alle nuove macchine e, nel momento in cui anche le lavorazioni stesse cambiavano, il
richiamo alla tradizione veniva a mancare o poteva risultare in certi casi
anacronistico. Alla fine dell’Ottocento, allo scopo di aumentare la produttività operaia, gli industriali introdussero il cottimo come parametro per misurare l’intensità dell’erogazione della forza lavoro. La forma
più elementare di cottimo consisteva nello stabilire un rapporto diretto
fra il salario corrisposto e i prodotti effettivamente portati a termine
dall’operaio. In questo modo il salario a giornata, che era stato tipico
dell’industria fino a quel momento, veniva sostituito dal salario a cottimo: il lavoratore era così indotto a intensificare i ritmi produttivi per
ricevere un maggiore salario.
Non bisogna però pensare che la fabbrica fosse solo un organismo tecnico-produttivo; essa restava un organismo sociale complesso in cui i
comportamenti individuali venivano sottoposti all’approvazione collettiva. Ciò spiega anche la possibilità per molti operai di mantenere alcuni residui della tradizione e auto-regolare perfino i ritmi del cottimo.
Di fronte al cottimo, per non dare adito alla pratica del taglio dei tempi
di cottimo da parte delle direzioni d’officina, gli operai di mestiere e i
lavoratori qualificati estesero il codice di comportamenti solidaristici
alla limitazione concordata dei rendimenti.
Nel 1911 un ingegnere americano, Frederick Winslow Taylor, introdusse un principio nuovo che avrebbe poi rivoluzionato profondamente l’organizzazione della grande industria su scala mondiale. Taylor sostenne che l’organizzazione della fabbrica basata sulle specializzazioni e
sui mestieri tradizionali creava una serie di incongruenze, duplicazioni
e rischi. Ad esempio richiedeva delle interdipendenze obbligate fra sottosistemi relativamente autonomi (un verniciatore non poteva procedere col suo lavoro se il reparto verniciatura aveva una capacità lavorativa
superiore o inferiore a quella del reparto montaggio) che comportavano
delle diseconomie. Inoltre la stessa organizzazione della fabbrica dipendente dalle specializzazioni individuali non era economica perché mol-
258
to spesso tali specializzazioni richiedevano una notevole abilità personale solo in quanto corrispondevano a processi lavorativi troppo complessi, che si sarebbero potuti semplificare con la tecnologia. In parte la
rivoluzione di Taylor consisteva nella diluition of labour, cioè nella
scomposizione di una operazione complessa svolta da un singolo operaio molto abile in una serie di operazioni più semplici assegnate a più
operai meno abili, ma che, proprio per la minore complessità del compito affidato, potevano essere più veloci.
Un altro punto fondamentale della dottrina di Taylor era
l’organizzazione interna dei processi lavorativi su base scientifica.
L’ingegnere americano si era formato in una industria siderurgica. In
una industria del genere la capacità dell’altoforno è l’unica variabile veramente determinante. L’alto forno deve girare al massimo, deve essere
sempre rifornito della massima quantità di materiale e produrre il massimo di laminato: tutto il resto della fabbrica si deve muovere secondo
il ritmo determinato da questo elemento tecnologico. L’organizzazione
scientifica della fabbrica consisteva quindi nel determinare razionalmente non solo i tempi di esecuzione dei lavori, come si faceva col cottimo, ma anche il modo in cui venivano organizzati questi lavori. La
fabbrica doveva perciò essere organizzata nella maniera più razionale
possibile: doveva apparire come un organismo unico composto da
componenti capaci di muoversi all’unisono e non come un insieme disaggregato di tante singole unità e di reparti relativamente autonomi.
Per realizzare questo obbiettivo occorreva un vero e proprio studio
scientifico del processo lavorativo, che fu affidato ad un apposito ufficio denominato “tempi e movimenti” diretto da ingegneri specializzati.
La più famosa applicazione su larga scala di questo principio fu sperimentata dall’industria automobilistica di Henry Ford, il magnate americano da cui prende il nome il cosiddetto “fordismo”, termine che come sostiene Bruno Cartosio - ha assunto il significato generico di “insieme di criteri, tecniche e strutture che caratterizzano la fabbrica manifatturiera moderna e in particolare la fabbrica automobilistica, che
dagli anni venti in poi è diventata luogo e simbolo della modernità e
dell’innovazione tecnologica”. In realtà, nel linguaggio comune il termine ha acquisito un “valore più evocativo che denotativo, più allusivo
che referenziale” (Cartosio, 1995).
259
2) Sul fordismo
L’elaborazione della teoria e della prassi che vanno sotto il nome di
“fordismo” si possono far risalire al periodo della produzione del “Modello T”. La piccola automobile, lanciata da Ford nel 1908, fu la prima
utilitaria ad essere prodotta su scala di massa in base ai principi e
all’applicazione della catena di montaggio (assembly line). La fabbrica
era organizzata secondo una catena che collegava tutte le operazioni. Le
poche semplici lavorazioni richieste all’operaio si facevano scorrere davanti alla postazione dell’operaio stesso. Ciascun operaio doveva compiere una operazione semplificata che era però immediatamente successiva e precedente a quella degli altri operai che gli stavano accanto e
quindi doveva essere compiuta entro un termine rigidamente prefissato.
Questo rendeva naturalmente impossibile ogni tentativo di autoregolazione dei ritmi del lavoro. La nuova organizzazione della fabbrica ebbe
come conseguenza un profondo mutamento, non solo tecnico ma anche sociale e culturale. Come prima l’artigiano, l’operaio qualificato del
periodo precedente era orgoglioso del proprio mestiere. Spesso potevano verificarsi dei casi in cui i fonditori o una singola categoria molto
specializzata scioperava, mentre il resto della fabbrica continuava a lavorare o viceversa. Nella nuova fabbrica fordista la potenza antagonistica del lavoratore, ossia la sua capacità di opporsi ai ritmi e alle logiche della proprietà, non è individuale ma collettiva. Ogni individuo è
parte integrante di un meccanismo che si blocca collettivamente e non
individualmente (Fiocco, 1998).
Il processo produttivo funziona solo se tutte le sue parti funzionano.
Basta una semplice distrazione, un momento di stanchezza o di malore,
o che semplicemente una mosca ronzi intorno all’operaio (come accade
a Charlot in “Tempi moderni”), per bloccare il processo produttivo e
sconvolgere il ritmo automatico del corpo.
Siamo quindi di fronte all’emergere di una figura che alcuni hanno voluto definire “operaio massa”, uno specifico tipo di lavoratore che condivide strettamente il proprio destino, al di là delle specializzazioni e
delle abilità individuali, con tutti gli altri compagni dello stesso settore
nella medesima fabbrica. Nella grande fabbrica, in concomitanza ai
processi di disciplinamento messi in atto dalla grande industria, tutto
ciò produceva una sorta di uniformazione della figura sociale
260
dell’operaio, fino ad allora ancora abbastanza variegata e diversificata:
una omologazione che troverà una descrizione piuttosto accurata, e
come vedremo spesso enfatizzata, anche nelle rappresentazioni del cinema contemporaneo.
Del fordismo merita poi di essere sottolineato un altro aspetto: la politica di alti salari e l’incentivazione padronale di un forte legame tra lavoratori e fabbrica. La grande fabbrica si preoccupava di esercitare delle
politiche incentivanti, in parte considerevole neopaternalistiche, proprio perché aveva bisogno di un consenso sociale collettivo medioelevato. In altre parole essa puntava ad estendere la propria sfera di influenza non solo sul lavoro effettivo dell’operaio, ma anche al di fuori
di essa con una serie di misure in alcuni casi simili a quelle di un welfare
aziendale. Il pericolo dell’organizzazione del lavoro fordista, ideata per
trasformare i corpi in macchine, era quello di ritrovarsi con “macchine”
sconnesse dalla realtà e dalla soggettività, distaccate da ogni impulso
personale. Ford si rendeva ben conto di questo problema, tanto è vero
che nella sua autobiografia scrisse: “L’uomo che si reca alla sua giornata
di lavoro con la sensazione che, per quanto riesca a rendere, il suo lavoro non gli frutterà mai tanto da sottrarlo all’indigenza, non ha
l’atteggiamento giusto per fare il suo lavoro quotidiano. È ansioso e
preoccupato, e tutto ciò contribuisce a danneggiare il suo lavoro”
(Ford, 1982, cit in Fiocco, 1998). Andavano perciò evitati tutti quei fattori che potevano minare la concentrazione o ridurre la forza psicofisica dell’operaio. Nel 1914 Ford introdusse la paga giornaliera di 5
dollari per 8 ore di lavoro; ciò significava un salto qualitativo notevole
per le condizioni di vita dei suoi operai. Non tutti potevano usufruire
di questo provvedimento. Avevano diritto al five dollars day soltanto
quegli operai che, dopo aver lavorato per sei mesi alla Ford, fossero
sposati e quindi avessero sulle spalle il peso di una famiglia oppure gli
uomini non sposati di età superiore ai 22 anni con doti provate di moralità, di buon comportamento, sia in fabbrica che fuori, ed infine di
parsimonia. Nei discorsi dei suoi apologeti, il dominio della fabbrica si
estendeva dunque anche alla vita privata: l’operaio veniva controllato
sia sul luogo di lavoro sia fuori. La sua abitazione doveva essere decorosa, la sua socializzazione disciplinata, la frequentazione delle osterie –
ritenute dai benpensanti luoghi di perdizione - era vietata e natural-
261
mente la partecipazione a movimenti sindacali e politici, rigorosamente
proibita (Cartosio, 1995; Fiocco, 1998).
Sia all’interno che all’esterno della fabbrica, la socialità operaia era stata
minata dalla logica delle macchine e in nome della razionalizzazione
produttiva. Ne scaturiva una deriva “totalitaria”, raffigurata con molta
evidenza nelle rappresentazioni del cinema contemporaneo, che portava la macchina-fabbrica a fagocitare tendenzialmente l’intero “mondo
vitale” dei suoi lavoratori. L’isolamento sociale, la reiterazione spasmodica di gesti e movimenti, la frustrazione e l’alienazione, in definitiva il
dramma dei mali prodotti dalla fabbrica fordista, sia a livello collettivo
che individuale, sono ben colti, seppur in modi diversi e per certi versi
contrapposti, in due capolavori dell’epoca: “Tempi moderni” di Charlie
Chaplin e “Metropolis” di Fritz Lang.
2a) Cinema e fordismo
1) Tempi Moderni (Charlie Chaplin, Usa, 1936)
Il film narra la storia di Charlot, vagabondo-operaio che avvita bulloni
in una grande fabbrica, iper-controllato dai suoi superiori e dal sistema
disciplinare dell’organizzazione fordista del lavoro. La catena di montaggio lo riduce ad un automa e, costretto dalla direzione ad aumentare
i ritmi di lavoro, Charlot impazzisce. Inizia a vedere dappertutto bulloni che tenta di stringere, in una sorta di danza esaltata, all’interno del
grande dispositivo che lo sovrasta. Internato in manicomio, ne esce dopo un po’, guarito ma disoccupato. L’incontro con una ragazza povera
e scaltra cambierà il suo modo di porsi nei confronti del mondo e della
vita. Charlot non è più solo. Da questo momento la sua sorte sarà intimamente legata a quella della fanciulla. Iniziano una serie di avventure alla ricerca di un lavoro, ma anche di una casa. Il lavoro, anche
quando arriva, dura poco: la mancanza di disciplina sottopone Charlot
a continui licenziamenti. E anche quando insieme alla sua compagna
trova una casa – in realtà una vecchia baracca abbandonata - è costretto
presto ad abbandonarla sotto l’occhio vigile della polizia, che nel film è
sempre presente come braccio armato di una società ingiusta. Nel finale
i due s’incamminano pieni di speranza e felici verso un avvenire migliore, lungo una strada dritta e sconfinata, della quale però non si sa né
dove, né se in qualche luogo davvero conduca.
262
Chi meglio della figura di questo Charlot-vagabondo poteva riassumere
e simboleggiare la resistenza fisica e psichica al lavoro fordista di quegli
anni? La figura di Charlot è volutamente caricaturale. Charlot è un vagabondo, non ha lavoro fisso, è un precario sempre alla ricerca disperata di una occupazione, nello stesso tempo è costituzionalmente inadatto
a tutto ciò che l’organizzazione disciplinare del lavoro comporta. La
sua resistenza alla catena di montaggio, ai ritmi di lavoro imposti dal
nuovo ordine, esprimono senza dubbio la condizione degli operai
“quasi-vagabondi” del periodo precedente, che non erano affatto abituati alla catena di montaggio e che, soprattutto, avevano costruito una socialità ed un’esistenza propria, “altra”, fatta di mobilità, di precariato,
di diversi lavori in buona parte stagionali. Il dramma del fordismo consisteva in definitiva nel voler a tutti i costi trasformare questi operai
“quasi-vagabondi” in individui fissi, imbrigliati: per il nuovo sistema
produttivo si trattava insomma di produrre qualcosa di simile ad automi umani, uomini appendici delle macchine, o forse - per dirla col
Gramsci che dalle carceri fasciste interpretava magistralmente il pensiero di Taylor - dei “gorilla ammaestrati” (Gramsci, 1950). La prima sequenza del film è emblematica da questo punto di vista e ci propone
un’altra figura da bestiario fordista: un branco di pecore è immediatamente associato ad un gruppo di operai che entrano in fabbrica. Il
branco esprime l’uniformazione dell’operaio fordista. La sola pecora
nera al centro del branco potrebbe essere associata a Charlot, ovvero
all’operaio-vagabondo e in fondo un po’ anarchico che non accetta la
meccanica dell’assoggettamento e che si ribella al dispositivo di potere e
di disciplinamento imposto dal nuovo ordine socio-economico. Un secondo elemento molto importante nel film, che ritroveremo anche in
Metropolis, è l’orologio. Esso simboleggia la questione dei tempi e dei
ritmi di lavoro. L’introduzione dell’orologio in fabbrica era una novità
rispetto alla vecchia tradizione, in cui l’orario di lavoro era determinato
dalla luce del sole. L’utilizzo di questo strumento per tutte le più minute operazioni ne fa un simbolo chiave della nuova organizzazione di
fabbrica. Si pensi che anche in Italia uno dei maggiori scioperi del biennio rosso a Torino fu denominato proprio “sciopero delle lancette”,
perché era stato promosso per la questione dell’orario legale. La se-
263
quenza successiva ci propone l’elemento chiave della nuova organizzazione fordista: la catena di montaggio.
Nel ruolo di operaio massa, Charlot fornisce immediatamente una serie
di esemplificazioni parossistiche ed ironiche di come la catena segua
ritmi praticamente intollerabili per un essere umano e di come, nella
sua astratta perfezione ingenieristica, sia sottoposta ad una serie di piccoli inconvenienti, che possono provocare grandi disastri proprio in
virtù della esigua tolleranza consentita. La mosca che distrae il lavoratore facendogli perdere il ritmo e provocando il rallentamento della
produttività è l’esempio spinto all’estremo di come anche una semplice
distrazione possa essere dannosa alla produzione della grande fabbrica.
La catena appare come un meccanismo inesorabile, opprimente. In realtà tutta la fabbrica, dove il controllo del padrone si esercita sui più
minuti dettagli, risulta asfissiante e soffocante. L’occhio disciplinatore
del capo si estende fino alla sfera più privata e intima. Anche all’interno
del gabinetto, dove l’operaio si rifugia in un momento di relax a fumare
una sigaretta, il lungo occhio del proprietario riesce a coglierlo in fallo.
Questo aspetto del controllo padronale è uno dei luoghi più insistiti
anche in Metropolis di Fritz Lang. Il padrone si serve di spie, ma anche
di schermi-video, una tecnologia in realtà non disponibile all’epoca ma
proposta ed interpretata come metafora e sintomo della “grande trasformazione” in atto. In precedenza era il compagno crumiro a determinare l’ingerenza del padrone, ora è la stessa tecnologia della fabbrica
che, se il lavoratore non rispetta le sue logiche, inesorabilmente fa la
spia. Questa sottolineatura quasi esasperata di una tecnologia che ormai
assume dimensioni quasi disumane è rappresentata in maniera emblematica nella sequenza della macchina per il pranzo. E’ un piccolo capolavoro autonomo all’interno del film. Naturalmente non offre di per sé
un forte richiamo al reale, ma esprime in maniera esasperata e quindi
estremamente chiara il contrasto fra l’invenzione umana di Charlot e la
sostanziale crudele inefficienza di una tecnologia teoricamente efficacissima, di un eterno uso capitalistico delle macchine.
In sintesi, nel discorso cinematografico di Tempi Moderni possiamo rinvenire un antagonismo esplicito rispetto ad un concetto e ad una etica
del lavoro che egemonizzavano i saperi ed in buona misura anche le coscienze dei singoli individui negli Stati Uniti degli anni ’20 e ’30, dove
264
pure non mancarono importanti ed oggi troppo ignorate lotte operaie
(Brecher, 1997), alle quali però nemmeno lo stesso Chaplin – forse più
vicino alle suggestioni del pensiero anarchico – parve prestare molta attenzione. Tuttavia, se è vero che – come ha affermato André Bazin “Charlot non possiede alcuna coscienza di classe e se egli è con il proletariato, ciò è dovuto al fatto che anche lui è una vittima della società
come è, e della polizia”, è probabilmente altrettanto vero che – con Roland Barthes – “la sua anarchia, discutibile politicamente, in arte rappresenta forse la forma più efficace della rivoluzione” (cit. in Cremonini, 1995).
2) Metropolis (Fritz Lang, Germania, 1927)
Ambientato in una “futuristica” città del 2026, il film ci introduce subito in una atmosfera cupa. Un sottosuolo dove una massa di operai in
procinto di cambiare il turno di lavoro si muove ad un ritmo uniformato e robotizzato. Lavorano come bestie azionando macchine complesse che regolano l’esistenza della vita nella città sovrastante. In superficie la vita scorre invece gioiosa e tranquilla. Il mondo dei privilegiati vive nello sfarzo, nel lusso, in un mondo tecnologico fatto di taxi
aerei, grattacieli, macchine e gioca in giardini paradisiaci. In uno di questi giardini un giorno Freder, figlio del grande monopolista Joh Fredersen detentore del controllo su Metropolis, incontra una ragazza venuta
dal sottosuolo attorniata da un gruppo di bambini poveri. Folgorato
dalla fanciulla, Freder la segue nella città sottostante e inizia a interessarsi alla vita dei lavoratori. Dopo aver verificato le terribili condizioni
in cui vivono gli operai, si reca dal padre per denunciare lo stato della
vita nel lugubre sottosuolo. La replica del grande imprenditore è chiara:
le società funzionano solo se ognuno sta nel posto che gli compete, il
posto degli operai è il sottosuolo. Freder si sostituisce ad un operaio
della sala macchine mentre il padre, che teme una congiura nei suoi
confronti, intensifica il controllo sulla massa. Intanto nel sottosuolo
Maria, la ragazza che ha folgorato Freder, predica la pace e la concordia
facendo riferimento alla storia della torre di Babele e rassicura gli operai
che finalmente arriverà un mediatore capace di unire le mani e la mente con la forza del cuore. Intanto Joh si rivolge ad un grande scienziato,
Rotwang, che ha costruito una creatura artificiale, un robot dalle bellis-
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sime sembianze di donna, e chiede allo scienziato di identificarlo con
Maria per ordinarle poi di incitare gli operai alla rivolta. Intanto la vera
Maria verrà rapita. Il robot scende nelle catacombe e inizia a propagandare il seme dell’odio tra i lavoratori, mentre Freder si ammala nel
vedere la creatura di cui era innamorato esibirsi in comportamenti lascivi e spregiudicati. Le maestranze iniziano a distruggere le macchine.
La rivolta è grande: esplode la macchina centrale e i quartieri operai
vengono inondati. Intanto la vera Maria, che è riuscita a scappare dalla
prigionia di Rotwang, cerca di mettere in salvo i bambini del sottosuolo. Accusata pubblicamente, la falsa Maria viene bruciata in piazza come una strega, mentre la vera viene salvata da Freder mentre tenta di
sfuggire al pazzo inseguimento dello scienziato. Il film si conclude con
una emblematica riconciliazione. Alla presenza degli operai, Freder fa
da mediatore fra il padre e l’operaio Ghoth, guardiano della macchina
centrale, suggellando la stretta di mano fra le due classi.
Girato all’indomani di un viaggio di Lang negli Stati Uniti, il film risente molto delle sovrastanti e torreggianti architetture americane. Lo
stesso regista ha sostenuto di aver concepito l’idea del film a bordo di
una nave, quando vide New York per la prima volta. Una New York
notturna, scintillante tra miriadi di luci. Come sostiene Siegfried Kracauer la città costruita nel suo film è una specie di super New York, realizzata grazie ad un ingegnoso processo di specchi che permetteva di
sostituire a dei modelli su scala ridotta delle strutture giganti (Kracauer,
1973). A differenza di Tempi Moderni, dove il piccolo Charlot tentava
comunque – seppur involontariamente - di dominare con la sua follia
l’imponenza della grande fabbrica, qui l’atmosfera è più totalizzante.
L’aspetto della gerarchizzazione sociale è più evidente. La città sovrastante è la dimora dei grandi proprietari, dei quadri superiori, della gioventù in cerca di piaceri; la città sottostante, dove non entra mai la luce
del giorno, è invece il luogo della fatica, dello sfinimento degli operai. I
lavoratori sono rappresentati come schiavi e la loro ribellione verso il
padrone è il sintomo emblematico della loro condizione. Anche qui il
messaggio della disumanizzazione cui è sottoposta la “sottoclasse” è fortissimo. Ed è rintracciabile anche in un altro elemento del film: la figura del robot, che prelude - ed in questo il film è modernissimo - alla
progressiva robotizzazione di tutte le lavorazioni.
266
Tutto il film è pervaso da una forte visione cristiana che, giocando un
ruolo centrale nel contrastare l’idea e la prassi del conflitto, contribuisce a renderlo molto conservatore. La storia di Babele esprime chiaramente la visione, presente in tutto il pensiero sociale dell’epoca, di una
necessaria rivalutazione del lavoro rispetto alla classe dirigente e alla
cultura alta, attraverso la figura di un mediatore che deve risolvere il
contrasto. In realtà, come ha giustamente sostenuto Kracauer, a differenza del messaggio che Lang voleva trasmettere, “l’alleanza simbolica
tra capitale e lavoro” non avviene: la pacificazione delle parti è una
semplice illusione, ottica e mentale. Il vero vincitore è il padre “che ha
giocato il figlio”: la carica conflittuale del proletariato è domata. Il suo
compromesso corrisponde ad una abile “mossa politica” che ha lo scopo non solo di placare la rivolta degli operai, ma soprattutto di poter
rafforzare il suo dominio su di loro: assecondando il figlio “l'industriale
raggiunge un intimo contatto con gli operai ed è così in grado di influenzare la loro mentalità. Egli permette al cuore di parlare… ma a un
cuore accessibile alle sue insinuazioni” (Kracauer 1973). La sconfitta è
evidente.
Tuttavia, anche se la narrazione filmica propone un discorso anticonflittuale e conciliatorio per il quale l’ordine sociale, pur ingiusto e difettoso, può essere migliorato da donne e uomini dallo spirito gentile, il
corso delle sequenze è costantemente turbato da un sapiente vortice di
“immagini che eccedono per intensità e violenza l’«azione» della storia
narrata” (Pezzella, 2001). Le immagini del film sono in definitiva più
potenti della vicenda. Se Lang è un maestro del cinema criticoespressivo, è forse proprio perché la visione di quel turbinio di immagini in movimento – una visione che si oppone davvero alla dialettica
del racconto - ci mostra un mondo irreversibilmente incrinato, scisso
tra gli inferi e l’olimpo: tra le viscere della terra, abitate da lavoratori
capaci di divenire algide macchine dal fare demoniaco, e il mondo idillico dei padroni, che in ogni momento può essere devastato da una inquietante potenza sismica. Insomma, la soluzione etica proposta
nell’happy end collide con “la vertigine mostrata dal «visibile» di Metropolis”, al punto che - come suggerisce Mario Pezzella - diventa quasi
retorico chiedersi se la riconciliazione del finale possa veramente “occultare quest’intimo sfacelo di un mondo” (Pezzella, 2001).
267
3) Ascesa e crisi del modo di produzione fordista. Cenni.
Il fordismo è dunque insieme una forma di organizzazione della produzione, un fattore di disciplinamento della forza-lavoro, uno strumento
di ordine sociale. Nel mezzo secolo in cui è la forma dominante della
produzione giunge non solo a regolare la fabbrica, ma anche a costituire un parametro per tutta la società. L’operaio fordista entra in fabbrica
giovane, ma non giovanissimo, avendo già ricevuto un certo grado di
istruzione generale e ad essa si lega poi per un periodo molto lungo che
dura spesso per tutta la vita. Riceve salari relativamente alti, preferibilmente è sposato con figli e porta quindi la responsabilità della famiglia. Casa, fabbrica e scuola sono gli ambiti in cui il fordismo giunge ad
esercitare la sua influenza in modo determinante, stabilendo una serie
di valori di riferimento che sono la lealtà fra gli operai, l’etica del lavoro, l’onestà, la probità e la temperanza nella vita familiare e sociale
(Fiocco 1998). Dal punto di vista produttivo, però, il sistema fordista
contiene in sé gli elementi della propria crisi. La produzione della
grande fabbrica capitalistica, infatti, congegnata per realizzare economie di scala sempre crescenti, giunse a determinare una disponibilità di
beni e quindi di consumi sempre crescenti. La standardizzazione della
produzione e le economie di scala determinarono un aumento delle
proporzioni della singola impresa. La produzione si trasformò in “produzione di massa”. Questo tipo di produzione esigeva un “consumo di
massa”.
La drammatica crisi nel 1929, il tracollo finanziario di Wall Street, ebbe
trai suoi effetti quello di mostrare chiaramente che la produzione di
massa era superiore alla capacità che il mercato aveva di assorbirla; era
cioè squilibrata rispetto alla domanda effettiva. Contrariamente alla crisi da penuria dei secoli precedenti, si verificò una sovrapproduzione che
risultò altrettanto dannosa. La fabbrica fordista reagì a questa situazione diminuendo la produzione e licenziando di conseguenza un alto
numero di operai. Nel giro di pochi anni gli Stati Uniti si trovarono di
fronte a più di tredici milioni di disoccupati. Ciò non solo determinò
una maggiore povertà dei consumatori, e conseguentemente una ulteriore diminuzione dei consumi, ma innescò anche un conflitto sociale
assai aspro.
268
La crisi economica del 1929 fu senza dubbio la più disastrosa nella storia del capitalismo. Dagli Stati Uniti si diffuse ben presto in Europa, la
cui economia dipendeva per buona parte dai prestiti, dagli investimenti
e dalle esportazioni delle tecnologie americane. Gran Bretagna e Germania furono i paesi più colpiti, ma la crisi si estese anche all’Italia, al
Belgio all’Olanda, alla Danimarca, alla Polonia ed ai paesi dell’Europa
orientale. Al principio la Francia non subì gravi contraccolpi, le sue riserve auree le permisero di resistere fino al 1934, anno in cui anch’essa
iniziò a subirne le conseguenze, proprio nel momento in cui gli altri
paesi si stavano riprendendo.
Per far fronte alla crisi, Franklin Delano Roosevelt lanciò negli Stati
Uniti la politica del New Deal, fondata su due principi fondamentali: il
rilancio della domanda interna attraverso un ampio piano di interventi
sociali per far fronte alla miseria e alla disoccupazione e il controllo del
sistema bancario e delle grandi corporation per impedire il ripetersi di
quelle speculazioni che avevano contribuito in modo decisivo a produrre il crollo finanziario. Lo Stato, promotore della domanda, entrava
in prima linea nella regolamentazione delle attività divenendo il centro
del sistema economico. La spesa pubblica - quella militare, ma anche
quella che finanziava imprese volte alla realizzazione di progetti socialmente utili - fece da volano alla ripresa, generando nuovi investimenti che si tradussero in una crescita dell’occupazione. L’aumento
dell’occupazione produceva a sua volta un aumento degli investimenti
avviando in questo modo quel circolo virtuoso del “meccanismo del
moltiplicatore” tanto caro alla teoria keynesiana. Ma la politica del New
Deal non si limitò solo a questo: segnò anche l’istituzionalizzazione del
sindacato. Attraverso un nuovo patto tra capitale e lavoro, sorretto dalla mediazione dello Stato, i lavoratori ebbero il riconoscimento dei loro
diritti sindacali. Il livello dei salari venne tenuto relativamente alto. Furono poste inoltre le basi dello Stato sociale americano con una serie di
provvedimenti (Social Security Act) che per la prima volta proteggevano
i lavoratori con un sistema di assicurazione per la vecchiaia con sussidi
in parte statali in parte prelevati sui salari (che erano comunque significativi). Furono poste le basi per una più giusta redistribuzione del reddito e a ciò si aggiunse una riforma tributaria fondata su criteri di tassazione progressiva. Il cosiddetto “compromesso socialdemocratico”, che
269
garantiva l’accumulazione e la pace sociale, ebbe i suoi effetti tangibili:
nel 1937 il Pil superò quello del 1929; il progetto rooseveltiano aveva
avuto successo.
L’espansione crescente della produzione che si verificò negli Stati Uniti
a partire dalla seconda metà degli anni ’30 venne intensificata durante
la seconda guerra mondiale con il keynesismo militare. Gli Stati Uniti
diventarono i massimi produttori anche per i mercati europei, sia per
quanto riguardava i materiali bellici sia per ciò che concerneva i semplici beni di consumo.
Nell’immediato dopoguerra la fabbrica fordista diventò uno strumento
essenziale per rispondere all’impoverimento causato dalle distruzioni di
beni operate dal conflitto. Sia in Europa che in Giappone, con il sostegno finanziario degli Stati Uniti, la ricostruzione riprese ai livelli più
alti, come la produzione fordista, determinando una espansione accelerata della produttività. Le potenzialità produttive del sistema fordista
richiedevano consumi sempre crescenti. Le produzioni di nuovi beni:
sia a livello quantitativo che qualitativo, frigoriferi, televisori, elettrodomestici, automobili, diffondevano un nuovo benessere e quindi nuovi stili di vita. Per sostenere il suo sviluppo, la fabbrica fordista doveva
favorire consumi sempre crescenti che comportavano comportamenti
edonistici e consumistici. Per la prima volta massicciamente, in Europa
occidentale la società del benessere apriva le sue porte agli stessi lavoratori, ponendoli in contraddizione con le tipologie di condotta esistenziale praticate nel periodo precedente, sotto quello che potremmo definire “fordismo classico”.
Il cambiamento coinvolse tutta la società. Investì il pubblico e il privato, gli operai, gli studenti e le donne. E saranno proprio queste soggettività a criticare sia il modello produttivo sia le forme di vita ad esso
collegate, provocando una situazione ingovernabile all’interno delle
fabbriche e nella società tutta. La fabbrica diventava uno dei punti di
riferimento più importanti del movimento degli anni ’60. Uno dei
momenti culminanti di questo processo si ebbe quando, nel biennio
’68-’69, gli studenti e gli intellettuali si rivolsero agli operai (ritenendoli
in alcuni casi ancora non del tutto coscienti della propria condizione) e
li incitarono ad unirsi nella lotta. Molti definirono questo momento
storico in cui il tempo politico sembrava cristallizzarsi come una sorta
270
di “assalto al cielo”, scagliato nell’intento di realizzare una diversa quotidianità dell’esistenza, insieme ad un’autogestione dei processi produttivi e a un’autoregolazione dei tempi di lavoro, a una miglior retribuzione salariale e a una riduzione dell’orario di lavoro (a mero titolo di
esempio, “Più soldi meno lavoro” era il motto di “Potere operaio” davanti ai cancelli delle fabbriche, dove – come si vede ne “la Classe operaia va in paradiso” di Elio Petri - gli agitatori si recavano la mattina al
primo turno di lavoro e la sera alla fine della giornata lavorativa).
Anche nel periodo precedente la fabbrica aveva rivestito un ruolo di riferimento simbolico importante, ma in un senso diverso. La fabbrica
del “fordismo maturo” era un “gigante metallico”, un territorio dotato
di proprie leggi che puntava a produrre un deserto dal punto di vista
della soggettività. Gli uomini venivano incorporati a forza dentro il sistema delle macchine. La sua natura era dura, meccanica: razionalizzava
e massificava. Era affollata, animata da contatti ravvicinati fra gli addetti alla linea che spesso si toccavano e si urtavano. Vi si poteva osservare
un perenne via vai, il cui ritmo vitale era caratterizzato dal movimento.
La massa era l’altro elemento dominante ed esprimeva forza, violenza e
potenza. Sono queste le immagini del “fordismo compiuto” che i pochi
documentari dell’epoca ci restituiscono (Revelli, 1995).
Come ha osservato Marco Revelli, al suo interno prendeva forma una
logica di tipo “idraulico” in cui il “corretto funzionamento del piano
produttivo dipende da un abile gioco di pressioni: dalla capacità
dell’apparato di comando della possente macchina gerarchica di comprimere il lavoro vivo all’interno del sistema di macchine senza provocare dispersioni o esplosioni. Di piegare la multiforme varietà della vita
entro la geometria lineare della catena di montaggio, costringendola alla
cadenza regolare dei suoi ritmi” (Revelli 1995). Quando questo funzionamento entra in crisi, da luogo di lavoro la fabbrica si trasforma in
luogo di conflitto. I cortei interni di protesta alla Fiat ripercorrono a
ritroso la catena della produzione. La linea, che è il cuore
dell’organizzazione e lo strumento più efficace del disciplinamento della forza lavoro, diventa “il più efficace strumento di comunicazione operaia”. Nella rivolta operaia non c’è solo spontaneismo, ma anche, e
soprattutto, organizzazione. Un’organizzazione che non viene
dall’esterno ma nasce all’interno della fabbrica, ripercorrendo specu-
271
larmente e alla rovescia – ripetiamolo - l’organizzazione produttiva interna. La fabbrica diventa dunque il luogo in cui si realizza una figura
operaia nuova, con una sua cultura che non è più tendenzialmente
quella vecchia ed impregnata di etica del lavoro, ma una controcultura
produttiva. E in ciò risiede probabilmente la maggior forza, ma anche il
limite più grande di quella “potenza operaia”. In realtà gli operai del ’68
’69 assolutizzano la fabbrica fordista, come se fosse il modello più perfezionato e duraturo di organizzazione produttiva: sono epigoni e non
profeti; sono gli ultimi eredi di una concezione che vede la fabbrica al
centro del processo produttivo, il processo produttivo al centro
dell’organizzazione sociale e, quindi, la fabbrica come punto archimedico da cui rovesciare il mondo (Revelli 1995). Invece, in occidente (ed
è bene sottolinearlo, dal momento che nei paesi in via di industrializzazione il fordismo ha ancora un’importante futuro), proprio a partire da
quegli anni in virtù delle nuove esigenze dei mercati, la grande fabbrica
si rivelava strumento sempre meno efficace a livello produttivo e tendeva ad essere affiancata da forme aziendali ritenute più efficienti. Inoltre, per contrastare l’iperbolica concentrazione di forza sociale accumulata a contrasto della rigidità della struttura organizzativa, al suo interno sarebbero sorte, per iniziativa padronale, importanti modifiche del
sistema di macchine - pur nella forte continuità del loro uso capitalistico – che avrebbero portato all’automazione prima e all’informatizzazione poi.
Contemporaneamente alla spinta dei movimenti sociali, anche nel cinema si affermò una penetrante critica della divisione taylorista del lavoro e del fordismo, ben riassunta in due film documento del periodo:
La classe operaia va in paradiso per il caso italiano di Elio Petri e, per
quello dell’Europa orientale, L’uomo di marmo di Andrzej Wajda, opera non comune appartenente alla corrente del cosiddetto “realismo socialista”, in cui si cerca di rapportare il mito dello stachanovismo alla
divisione taylorista del lavoro.
3a) Discorso filmico e critica del ford-taylorismo
1) La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, Italia, 1971)
Il film narra la storia di Ludovico Massa e la scelta del nome non sembra affatto casuale (anche se, come vedremo, forse non proprio centra-
272
ta): il protagonista, incarnato da Gian Maria Volonté, è infatti proprio
un “operaio-massa”. Campione del cottimo in una fabbrica metalmeccanica, Lulù lavora instancabilmente per portare a casa a fine mese un
adeguato stipendio: non deve soddisfare solo le sue esigenze, ma anche
quelle della compagna, un singolare o fin troppo ordinario personaggio
fortemente attratto dalla logica della società dei consumi e dal modello
di vita della società borghese. Massa supera di gran lunga i ritmi dei
suoi compagni di lavoro, da cui tra l’altro è malvisto, sottostando ed
aderendo alla logica dei capi reparto e dei cronometristi. Di tanto in
tanto si reca in manicomio a trovare un suo vecchio compagno di lavoro, Militina, che la lunga vita nella fabbrica fordista ha reso pazzo. Solo
la perdita di un dito tra gli ingranaggi di un tornio fa rinsavire Lulù.
Tornato al lavoro, dopo la convalescenza, prende in qualche modo coscienza della sua condizione. Entra così furiosamente in lotta contro il
cottimo, sostenuto da un gruppo extraparlamentare che proclama lo
sciopero ad oltranza. Dopo una serie di scontri con la polizia viene licenziato. Riassunto per intercessione dei sindacati viene riposizionato
davanti ad una catena di montaggio. Nell’ultima sequenza del film, rimesso in “linea” accanto ai suoi compagni, Lulù racconta un sogno tra i
rumori degli ingranaggi che coprono le sue parole. Nel sogno tutti insieme demoliscono un muro oltre il quale però non c’è il paradiso, o se
si vuole il socialismo, ma solo una densa nebbia. Alla domanda dei
compagni, “che cosa c’era dietro ‘sto muro ?”, Lulù risponde:
“c’eravamo noialtri nella nebbia”. Ma nessuno riesce a sentirlo e chiosa
tra sé: “come non detto”. Dietro il muro, ancora e sempre la medesima
condanna: la catena di montaggio.
Il film è tra i pochi ad avere il grande merito, riconosciutogli anche dai
detrattori, di entrare in fabbrica. Con difficoltà, a dire il vero: il permesso di girare fu negato ovunque, tranne in una fabbrica fallita ormai
vuota, i cui veri operai licenziati fecero da comparse più per denaro che
per passione, come osserva lo stesso Petri: “non pensavano che a fare le
comparse per guadagnare un po’ di soldi […] avevano ragione perché la
fabbrica stava per chiudere” (cit. in A. Rossi, 1979). Come in “tempi
moderni” il nesso tra alienazione e follia è fortissimo. Il film rappresenta l’ennesima denuncia dei mali fisici e psichici cui può condurre la società industriale con il suo lavoro ripetitivo, meccanico, alienante. In
273
avvio Lulù non ha una coscienza operaia e aderisce alle logiche di un
sistema, dei cui limiti lo rende però cosciente un piccolo incidente sul
lavoro. Ma è una presa di coscienza effimera. Dopo il licenziamento, la
paura della disoccupazione e della miseria lo riconducono ad aderire,
certo in modo più turbato, quanto obbligato ed inevitabile, al dispositivo di fabbrica e a tutto ciò che rappresenta. E a Petri, come allo sceneggiatore Ugo Pirro, sarà rimproverato dai critici operaisti dell’epoca
proprio di aver troppo frettolosamente intrecciato i piani della critica
politica e di quella psicoanalitica, scivolando in un’ordinaria critica della condizione dell’uomo-massa nella modernità matura – con le sue nevrosi e la sua impotenza causata dall’assenza di personalità – senza davvero incontrare il piano della condizione operaia in sé. Come ha giustamente osservato Goffredo Fofi, Lulù - figura idealtipica dell’operaio
un po’ stupido, privo della coscienza politica quanto di quella generale
– non è indagato tanto come proletario, quanto piuttosto come uno
“pseudoindividuo … frastornato dalla realtà, dal lavoro e dai suoi miti,
dalle proposte politiche, dalla famiglia, dai tarli interiori, dagli oggetti
del consumo, dalle oppiacee evasioni”, in una parola da un generico “sistema” (Fofi, 1971; 1977). E in quel sistema ci sono anche gli studenti
dei gruppi extraparlamentari, la cui prassi politica è rappresentata spesso come estremismo un po’ ridicolo e anarcoide, pasticcione e cinico,
ed è considerata, in buona sostanza, incapace di comprendere ed incontrare il mondo operaio (Fofi, 1971; 1977). Non stupisce allora che, nel
film, la critica al dispositivo di fabbrica e allo sfruttamento del lavoro
vivo - che regista e sceneggiatore colgono qui in uno dei momenti italiani più alti (l’incontro sovversivo studenti/operai) - non produca decisive trasformazioni sistemiche, né tanto meno esistenziali. L’episodio
del sogno è sotto questo punto di vista emblematico: oltre il muro non
c’è il paradiso, non ci sono i giardini con le fontane e le grandi feste,
come nelle rappresentazioni narrative della città sovrastante di Metropolis, ma l’inesorabile logica della catena di montaggio, alla quale
l’operaio fordista, ma soprattutto gli operai come Lulù non possono
sfuggire. Tuttavia, occorre riconoscere alla coppia Petri-Pirro che la loro rappresentazione dell’operaio-massa e della classe come qualcosa che
non può corrispondere al modello ideale dei nostri desideri, ma deve
aderire al ritmo delle contraddizioni del reale – un reale che la riprodu-
274
ce come “oggetto dell’effetto del consumo … classe operaia reale non
sublime” (Rossi, 1979) - appare ancora oggi capace di inquietare, gettando sull’universo del lavoro, anche di quello contemporaneo, uno
sguardo tanto spaesante quanto carico di “effetti di verità”.
2) L’Uomo di Marmo (Andrzej Wajda, Polonia, 1977)
Il fordismo ed ancor prima il taylorismo avevano conquistato da subito
anche i dirigenti del partito bolscevico. Lenin per primo ne aveva lodato le potenzialità tecnologiche e produttive rinvenendovi un mezzo di
grande sviluppo per rafforzare la costruzione rivoluzionaria (Harvey
2002). Nell’Unione Sovietica staliniana l’applicazione di un sistema
produttivo fondato su principi tayloristi e fordisti fu governato dai
funzionari del PCUS, che egemonizzarono la direzione dei processi.
Una traduzione esasperata, tutta sovietica, del fordismo fu il cosiddetto
stachanovismo, il cui nome proviene dal minatore Aleksej Grigorevic
Stachanov che nel 1935 all’età di 29 anni riuscì ad estrarre 102 tonnellate di carbone in 345 minuti; nel settembre successivo, un mese dopo,
superò il suo stesso record con 277 tonnellate. L’esempio di Stachanov
fu subito propagandato in tutto il paese e scatenò un vero e proprio
movimento per l’aumento del rendimento sul lavoro. Gli operai furono coinvolti nel grande sforzo di industrializzazione del paese con una
propaganda volta all’etica del sacrificio rafforzata da elementi patriottici. Lo stachanovismo divenne, con la mitizzazione degli eroi del lavoro,
un fenomeno di massa che attraverso lo spirito di emulazione portò ad
un grande incremento della produttività. I media del regime furono lo
strumento di propaganda: cercavano il personaggio giusto, lo preparavano e poi lo facevano “esibire” secondo i parametri simili dello starssystem americano hollywoodiano, applicato però all’universo del lavoro
stalinista (Curi, 1980).
Ambientato all’indomani della rivolta operaia di Danzica del 1970,
L’uomo di Marmo è centrato sulla ricostruzione della vita di uno di questi eroi del lavoro da parte della studentessa polacca Agnieszka, che per
conseguire il diploma di regia decide di girare un film sugli anni ’50.In
particolare si sofferma sulla figura dell’operaio stachanovista Andrea
Birkut, del quale per caso ha rinvenuto una statua di marmo in un deposito del museo d’arte moderna. Spinta da una grande passione, A-
275
gnieszka riesce a visionare alcuni documentari della cineteca di Stato
che le offrono informazioni indirette di alcuni episodi della vita di Birkut. In seguito ad una serie di interviste alle persone che lo hanno conosciuto, compreso il regista che ha girato i documentari, apprende una
serie di informazioni fondamentali. Birkut era diventato famoso dopo
essere riuscito in un solo turno di lavoro, con l’aiuto di altri due lavoratori, a piazzare trentacinquemila mattoni. Fu così che egli era divenuto
celebre; successivamente era stato eletto delegato al Congresso dei costruttori e al Convegno Nazionale dei campioni del lavoro.
Dall’intervista con il regista Burski la studentessa apprende in realtà ciò
che si nascondeva dietro ai filmati. L’impresa dei trentamila mattoni
era stata un’idea del regista, avallata dai dirigenti politici del cantiere di
Nowa Huta. Avevano convinto Birkut a prestarsi al gioco facendogli
credere che il documentario potesse servire alla causa del socialismo.
Accusato successivamente per attività sovversive di sabotaggio contro il
regime, in seguito ad un incidente sul lavoro di cui lui stesso è vittima
(e che lui inverosimilmente rivendica di aver causato tramando con i
suoi compagni), cade in disgrazia; viene arrestato e la sua foto viene rimossa dalla piazza degli eroi del lavoro. Che fine ha fatto Birkut? È
questa la ricerca frenetica e disperata di Agnieszka per tutto il film. Alla
fine riuscirà del film a rintracciare il figlio davanti ai cantieri navali di
Danzica: Birkut è oramai morto. Ma spira nello stesso tempo anche il
progetto di Agnieszka, quello di realizzare un film sull’eroe del lavoro.
La commissione di valutazione del suo esame la spinge caldamente, evidentemente per ragioni politiche, ad abbandonare il progetto, sottraendole pellicola e macchina da presa. La vicenda di Agnieszka segue autobiograficamente quella di Wajda, che aveva cercato di realizzare questo
film fin dal 1963, in una nazione socialista all’interno della quale la classe operaia era, di fatto, “paradossalmente irrapresentabile” (Piccardi,
1979). Riuscì a realizzarlo solo molti anni dopo, nel 1976, grazie
all’intervento del presidente Gierek, uomo aperto ai cambiamenti. Il
film si presenta come un bilancio lucido, molto coraggioso, degli anni
dello stalinismo e delle loro conseguenze. In tutta la pellicola l’ombra
di Stalin è sempre presente, proiettata sulle vicende politiche di un regime che si identificava con un preciso modello di sviluppo: quello sovietico legato al potenziamento dell’industria pesante, in concorrenza
276
con le potenze capitaliste dell’occidente. Quando Stalin era al potere,
gli esempi degli eroi del lavoro erano propagati in tutto il paese attraverso i media del regime (stampa, radio, cinema). Nel film, il personaggio del regista Burski rende perfettamente l’idea del processo che veniva
messo in atto per creare nuovi “eroi del lavoro”. I media cercavano il
personaggio giusto, lo costruivano, lo preparavano, lo rappresentavano
e lo facevano circolare. Il film di Burski – un film nel film – è proprio
un esempio di ciò: il cantiere edile diventa un set cinematografico e tutto si fa spettacolo, finzione. L’unico personaggio reale “vero” resta Birkut. La sua fatica, la sua sofferenza sono vere. Come ha sostenuto
Giandomenico Curi, “c’è un’ideologia proletaria da inventare e da accettare, un nuovo rapporto tra lavoratori e tecnici, c’è la parola
d’ordine del grande balzo in avanti […] ci sono le necessità e i compiti
dello stato socialista satellite. C’è soprattutto il tentativo di recuperare
alcuni settori della produzione, ad ogni costo, anche attraverso dei metodi presi direttamente dal taylorismo. Una nuova organizzazione e divisione del lavoro, ovvero l’altra faccia del taylorismo” (Curi, 1980). In
questo senso Wajda viene avvicinato a Petri, il quale ne La classe operaia
va in paradiso aveva avvertito questa vicinanza terribile e perversa con
ciò che al tempo appariva come estremamente distante: l’operaiomacchina spersonalizzato e violentato abita in occidente come in Unione Sovietica. La critica dei due registi parte, allo stesso modo, dalla
passione e dall’umanità dell’operaio, mortificate ed asservite. Tuttavia,
agli intenti maggiormente etici, ed a tratti un po’ edificanti, del film di
Wajda, si contrappongono gli accenti neri del cinema di Petri.
In conclusione, quello di Wajda - che risente ovviamente del clima culturale del ’68 polacco - è un film sul cinema critico impedito (perché
censurato) e su quello di Stato: il cinema di regime. Ma è anche un discorso cinematografico, connotato in senso fortemente etico,
all’interno del quale trova spazio la rappresentazione dello scontro fra i
due film sulla figura di Birkut: quello del regista Burski, chiaro esempio
di cinema spettacolare in cui è messo in scena in funzione disciplinatrice lo spettacolo dell’eroe del lavoro - mito incarnato dello stato operaio
e della produttività che genera il cosiddetto Progresso - e quello di Agnieszka, che disocculta questa finzione scenico-spettacolare mostrando
in modo critico-espressivo come la “verità” del culto del lavoro profes-
277
sato nei paesi del socialismo realizzato sia da ricondurre al materiale assoggettamento dell’esistenza (sempre subalterna e routinizzata, ed in
ciò assai simile a quella dei produttori del mondo capitalistico) al mito
della nazione sovietica, sorta paradossalmente proprio per emancipare
il lavoro dalla subordinazione e dal dominio.
4) Note su “postfordismo” e flessibilità
All’incirca dalla metà degli anni ’70 ha preso avvio un importante processo di trasformazione del sistema produttivo che ha spinto molti osservatori ad utilizzare l’impreciso termine di “post-fordismo”. Sono
molte le tappe di tale metamorfosi, ma non è questo il luogo per analizzarle. Si tratta qui, invece, di isolare due aspetti di un processo che ha
radicalmente ridefinito il modo di produrre e le forme di vita dei lavoratori subordinati. La prima di queste modificazioni non si vede
dall’esterno: la fabbrica resta uguale, ma all’interno subisce una metamorfosi progressiva. Si comincia con l’automazione, che è cosa diversa
dalla meccanizzazione. Questo processo passa attraverso l’introduzione
dell’elettronica, dei robot, delle macchine automatiche controllate da
sistemi informatici - all’inizio rudimentali poi sempre più perfezionati che assorbono sempre maggiori compiti degli operai. Interi reparti
vengono così sostituiti da processi automatici. Al posto della linea si ha
ora spesso un’organizzazione per isole produttive. La struttura lineare e
progressiva che porta il prodotto dalla materia prima alla rifinitura finale non è più visibile; si vedono invece delle isole collegate da carrelli
automatici. Gli operai sono più rarefatti e lontani gli uni dagli altri;
non ci sono più i cronometristi e i capi: il controllo è affidato al sistema
informatico.
Nelle fabbriche giapponesi si afferma per la prima volta il sistema del
Kanban (cartellino): la produzione non viene più concepita a monte e
programmata dall’ufficio tempi e movimenti, ma deriva dalle richieste
del segmento finale della produzione. Si rovescia nella pratica la logica
della fabbrica fordista, risalendo dalla fine del processo produttivo
all’inizio. Ad esempio, nella fabbrica automobilistica è il reparto finale
incaricato del montaggio definitivo che richiede i pezzi a tutti i reparti
precedenti e li richiede sulla base delle domande dei concessionari, cioè
del mercato. Queste domande scritte su un cartellino arrivano alle isole
278
produttive immediatamente precedenti. Si richiede di fornire il prodotto in un dato tempo, si inoltrano le richieste per i pezzi necessari con
altrettanti cartellini alle isole produttive incaricate di produrre gli elementi semilavorati necessari e via dicendo. In questo modo tutta la fabbrica si muove in base alle richieste dell’ultimo reparto, quello a diretto
contatto con il mercato e con i tempi da esso richiesti e determinati.
Così il controllo dei cronometristi e dei capi, che prima era evidente e
quasi oppressivo, ora è insito nell’organizzazione stessa della fabbrica
(Fiocco, 1998). L’operaio non deve produrre venti pezzi al minuto uniformemente per otto ore, ma sa che la sua isola deve produrre il prodotto richiesto entro un tempo determinato: ha qualche maggiore flessibilità nell’organizzazione dei suoi ritmi, ma il risultato deve comunque venire. Cruciale diventa quindi, in un clima ideologico e forzoso di
“democrazia aziendale”, l’autoattivazione dell’operaio “cellularizzato”
nel piccolo gruppo. Un’autoattivazione verificata continuamente da un
sistema di controllo che non è più attivato all’interno di una struttura
gerarchica “semi-militarizzata”, come quella della grande fabbrica fordista, ma che si cela dietro le logiche della sovranità del consumatore,
dell’oggettiva neutralità dei dispositivi informatici, della partecipazione
armoniosa alla comunità d’impresa (Fiocco, 1999). Altra conseguenza
delle trasformazioni a cui si è fin qui fatto cenno è che in queste condizioni diventa abbastanza indifferente che a fornire un certo tipo di
prodotto, ad esempio i cerchi in lega per le ruote, sia un’isola della fabbrica o un fornitore esterno vincolato da un contratto just in time. Molte operazioni finiscono per essere decentrate verso l’indotto, la fabbrica
si svuota progressivamente, si ha una dissoluzione della fisicità del lavoro industriale così come era rappresentato dalla fabbrica fordista. Nel
paesaggio post-industriale i nuovi centri produttivi sono più decentrati.
La nuova fabbrica è in gran parte reticolare; più che da un meccanismo
potrebbe forse essere meglio descritta da un organismo cibernetico: una
rete che collega nuclei produttivi, piccoli, specializzati, decentrati.
Questo la rende molto più flessibile e quindi capace di operare in un
mercato saturo, cioè bizzarro, mutevole improgrammabile, discontinuo (Revelli 1995). La nuova fabbrica è pronta a fronteggiare, così, gli
improvvisi cali di domanda, ad eliminare i tempi morti, a reagire istantaneamente agli stimoli esterni. E’ una fabbrica integrata e snella, ridot-
279
ta all’essenziale. E questo, ovviamente, si riflette anche sulle figure dei
lavoratori. La nuova fabbrica, che si vuole “snella” e just in time, non si
limita a plasmare i comportamenti, ma mobilita gli operai esercitando
un’egemonia culturale: richiede adesione e partecipazione implicita ai
principi organizzativi della flessibilità, del neoliberalismo, del mercato.
Il secondo importante mutamento nel mondo produttivo contemporaneo discende direttamente dal nuovo clima sopra descritto. Il dogma
della flessibilità, che si fa sempre più precarietà, deriva dagli adeguamenti del capitalismo ai nuovi “tempi moderni”, tempi che non decretano
affatto la “fine del lavoro” (Rifkin, 1997), ma sembrano condurre ad un
“lavoro senza fine” (Bellofiore, 2003; Cohen, 2001).
La flessibilità pervade oramai tutta la società: il modo di imbrigliare chi
lavora al proprio lavoro sta profondamente mutando. Ford prometteva
di legare a sé l’operaio per tutta la vita, oggi un giovane statunitense si
aspetta di cambiare undici lavori in media nell’arco della sua vita (Sennett, 2001). Tutto ciò si riflette anche sulla società. E’ ormai una banalità osservare che i matrimoni non durano più tutta la vita, che le convivenze durano il tempo ritenuto utile o che la coabitazione sostituisce la
famiglia tradizionale. Il posto di lavoro è visto come un camping, in cui
si soggiorna per qualche tempo, pronti a ripartire con il proprio zaino
(Bauman, 2002).
Per dirla con Zygmunt Bauman, la nostra è un’epoca di legami deboli.
Questo non riguarda solo gli operai, ma anche il capitale. Il capitale,
che d’altra parte non potrà mai completamente riuscirvi, tende a sbarazzarsi della propria dipendenza dal lavoro, a emanciparsi dal macchinario e dalla ciurma di fabbrica, nonché dal legame territoriale che risultava a volte eccessivamente costretto. Nel mondo della “modernità
liquida” (Bauman, 2002b) sono i governi che cercano di attrarre il capitale garantendogli una grandissima libertà di azione, destrutturando le
regole protettive e assistenziali, i vincoli sindacali e i provvedimenti di
welfare per favorire l’afflusso di nuovi investimenti e insediamenti produttivi. I Lavoratori di questa nuova società sono flessibili ma anche facilmente intercambiabili: sono poco legati alla propria specializzazione,
gli è richiesta una formazione continua, non sviluppano un solido attaccamento al posto di lavoro e nemmeno ai sindacati. Sovente proprio
perché impossibilitati a farlo, tendono a investire meno su un futuro
280
lontano o su una carriera interna, ma - all’opposto ed eventualmente –
mirano a un cambiamento di lavoro. Sono soggetti ad essere espulsi dal
ciclo produttivo nei momenti di riflusso e devono attrezzarsi per spostarsi di conseguenza. Di fronte a questa figura di salariato precario, che
sostiene tutto il peso dell’instabilità del sistema produttivo e del mercato, stanno coloro che si sono adattati al labirinto e ne conoscono le regole e i percorsi. Essi incarnano i nodi delle reti in cui si articola questo
sistema flessibile: si tratta di coloro che occupano i punti cruciali di
questo mondo molteplice in rapido movimento, caratterizzato dalla
fluidità. In una società in cui la conoscenza invecchia rapidamente,
l’essere fluidi consente di non essere ancorati a posizioni rigide.
Due film riassumono in modo emblematico il mondo della “modernità
liquida”. Si tratta di due piccoli capolavori che non a caso appartengono al cinema francese degli ultimi anni. Quel cinema, cioè, che recentemente è tornato a porre il tema del lavoro e della flessibilitàprecarietà al centro del proprio interesse (Cadé, 2000), a partire da Risorse umane di Laurent Cantet e La vita sognata degli angeli di Erick
Zonca.
4a) Trucchi del “postfordismo”: fabbrica e precarietà in due film degli anni
‘90
1) Risorse umane (Laurent Cantet, Francia, 1999)
Al centro della vicenda narrata sta la storia di Frank, giovane laureato
in economia aziendale a Parigi, che torna nella sua piccola città natale
di provincia per uno stage estivo nella ditta dove lavora anche il padre.
Assegnato al reparto “Risorse Umane”, ben presto gli verrà affidato il
difficile compito di ridefinire l’organigramma dell’azienda, che prevede
il licenziamento di un elevato numero di operai tra cui suo padre.
Risorse umane è anche un film sulle 35 ore, la legge dello stato francese
sulla riduzione dell’orario settimanale di lavoro adottata per contrastare la disoccupazione in seguito a decise rivendicazioni sindacali. Una
legge che teoricamente dovrebbe favorire l’occupazione e i lavoratori,
ma che poi viene utilizzata dai datori di lavoro per ben altri scopi, come il film più volte ci dice. Ma è soprattutto un film capace di mostrarci con grande evidenza che la mediazione tra datori di lavoro e operai,
che avevamo incontrato nel finale narrativo di “Metropolis” – smentito
281
però da un visibile alquanto polemogeno –, nella realtà non esiste. Il
mediatore, in questo caso Frank, non riesce nel suo scopo di pacificatore delle parti, anzi è lui stesso travolto dalla logica del sistema. In questo senso il film risente di un paradigma classico, che tra l’altro il regista
sembra voler rilanciare con forza, per il quale l’unico modo per gli operai di ottenere dei riconoscimenti è quello di ricorrere all’arma del conflitto sindacale e dell’astensione dal lavoro.
La classe operaia non è defunta; il lavoro non è finito: ecco due “effetti
di verità” messi in circolo da un film duro - eppure capace di conservare
la tenerezza - che ci reintroduce in un paesaggio rappresentativo familiare al cinema operaista, fatto di scioperi, proteste, sindacalismo di
classe. Accanto alle rappresentazioni tipiche della lotta di classe, fatta di
picchettamento delle macchine, boicottaggio della fabbrica, sciopero, il
film ci presenta una fabbrica un po’ diversa da quella fordista, ma tout
ça change pour rien changer. Non c’è più la catena di montaggio nella
nuova fabbrica in cui trionfa la vuota retorica postfordista delle “risorse
umane”; al suo posto stanno piccole isole produttive dove l’operaio – e,
nella fattispecie privilegiata dal film, il padre - svolge da solo il proprio
lavoro. Ha un compito preciso, magari ripetitivo, ma lo svolge in modo del tutto autonomo, eppure così fortemente connesso a quello degli
altri colleghi e come quello sempre subordinato. Intanto la direzione
escogita metodi per massimizzare la valorizzazione del profitto attraverso l’uso più sapiente possibile delle “risorse umane”.
Grande attenzione nel film è dedicata all’approfondimento del rapporto padre-figlio, allo scontro generazionale che prelude alla necessità, per
i più giovani lavoratori, di rivoltarsi per i diritti delle nuove “classi operaie”. Padre e figlio giungono a scontrarsi in modo molto conflittuale.
Il padre svolge il suo lavoro in modo servile e sottomesso: ha interiorizzato l’etica del lavoro, il suo Valore, e non crede più a strategie di
lotta né alla possibilità di conciliazione fra il mondo dei padroni e quello degli operai. Da parte sua il figlio pensa in modo presuntuoso di poter unire i due mondi; la presa di coscienza della realtà sarà traumatica
per ambedue i personaggi. Il tentativo “dirigenziale” del figlio, volto ad
umanizzare la fabbrica attraverso le strategie dell’organizzazione aziendale, decreta la fine dell’illusione di poter superare il conflitto di interesse tra capitale e lavoro: il futuro manager Frank capisce che per gua-
282
dagnare denaro e prestigio sociale occorrerà necessariamente licenziare
donne e uomini salariati, perfino suo padre. Da questa “verità” il giovane trae la forza per lasciarsi trasformare e tutto ad un tratto riveste
una nuova identità, che è poi quella operaia da cui era fuoriuscito negli
anni degli studi per avviarsi a diventare capitano di impresa con l’aiuto
della famiglia. Una delle sequenze più forti e realistiche del film, successiva alla metamorfosi di Frank, è quella in cui esortando il padre ad
abbandonare la macchina ed a unirsi allo sciopero (era infatti ormai rimasto quasi il solo a lavorare dentro la fabbrica) lo rimprovera bruscamente di avergli “fatta ingoiare la vergogna per la sua classe”. Un’altra
emblematica sequenza è quella in cui il padre, all’inizio del film, mostra
con orgoglio (di mestiere ?) a Frank la sua mansione lavorativa. Una
mansione semplice e ripetitiva che gli conferisce nonostante tutto una
forte identità e un grande orgoglio per il lavoro. Ma, alla fine, sia
l’orgoglio “lavorista” del padre, sia il ritorno all’identità operaia del figlio – che abbandona le vesti inconsciamente introiettate
dell’avversario – non possono modificare in modo decisivo l’ordine delle cose vigente: gli operai riescono a proclamare lo sciopero unitario,
ma, anche se riusciranno a evitare i licenziamenti previsti, presto o tardi dovranno riprendere il lavoro e saranno forzati ad acconciarsi alla
volontà dei padroni, che, da parte loro, torneranno alacremente a ricercare sempre nuovi dispositivi di assoggettamento delle “risorse umane”.
E tuttavia, pare dirci Cantet fuori da facili umanismi (anche se a tratti
appare un po’ didascalico nel seguire una sceneggiatura in cui non mancano enunciazioni generiche, forse inclini al rischio di produrre “non
consapevolezza ma consenso” – Escobar, 2000), l’unico utensile che i
lavoratori hanno per trasformare la società era e resta il conflitto di
classe, certo oggi più disincantato e ormai sciolto dal compito idealista
e sovraccarico di realizzare l’ “uomo nuovo”.
2) La vita sognata degli angeli (Erick Zonca, Francia, 1998 )
Isa e Marie: due ragazze, due modi di vedere il mondo, concepire la vita
e ad essa rapportarsi. È quanto si staglia in primo piano nella vicenda di
questo film emozionante. Isa è aperta, libera, positiva; zaino sulle spalle, sempre alla ricerca di un lavoro e, tra una occupazione e un’altra,
cerca di sbarcare il lunario attraverso la vendita di biglietti d’auguri.
283
Marie è una ragazza dal carattere chiuso, debole, problematico, attratta
da sogni irrealizzabili quanto dolorosi e da prospettive di vita più frivole. Le due ragazze si incontrano in un laboratorio tessile di Lille, nel
Nord della Francia, e nonostante le diversità di carattere e di vedute diventano amiche. Isa è consapevole della sua condizione sociale, non se
ne vergogna e l’accetta senza sogni di gloria: non agogna alcun cambiamento repentino del proprio status. Marie invece cerca di uscire dalla sua condizione inseguendo l’ideale di una vita più comoda e facile
che crede di poter raggiungere attraverso l’amore di Chriss, benestante
ed autoritario proprietario di un locale assai in voga. Il finale è raggelante: Marie, lasciata dal ragazzo, si suicida. Isa, che invece è rimasta per
tutto il tempo coi piedi a terra, resta sola e continua il suo peregrinare
nella ricerca (senza fine) di un (sempre) nuovo lavoro.
Nel film il lavoro resta sullo sfondo – come possibilità evanescente,
semplice assenza o presenza di un’assenza -, eppure non si può certo dire che questo non sia un film sul lavoro. La dimensione intima delle
due protagoniste è molto importante, ma lo è altrettanto il senso di desolazione, di miseria e di mancanza di identità offerto come realtà e
prospettiva alle due protagoniste da una società dove tutto è diventato
“liquido”. Metaforicamente, in definitiva, la loro condizione antropologica somiglia a quella di chi, sia pure inconsapevolmente, pattina in
modo troppo veloce sul ghiaccio sottile, rischiando di finire nell’acqua
gelida (e nel film le due ragazze pattinano davvero, per lavoro, in modo
assai malfermo); o a quella del funambolo che cammina in alto sul filo
senza valide reti di protezione che gli garantiscano un sicuro riparo da
devastanti cadute.
Il posto di lavoro non è più di un parcheggio ad ore: nel film Isa cerca,
trova e accetta emblematicamente, con la massima flessibilità e adattabilità, qualsiasi tipo di lavoro per poi abbandonarlo e ripartire col proprio zaino alla ricerca di un altro impiego. Ma in ciò Isa è virtualmente
tutti i giovani contemporanei e incarna paradigmaticamente le condizioni in cui assai spesso essi vivono nella società odierna, in cui
l’orizzonte di aspettativa e la dimensione temporale del futuro si fanno
nebbiosi, costringendo il precario di turno a vivere perennemente alla
giornata. Il film sembra non lasciare dubbi. In modo parzialmente comune agli altri che abbiamo analizzato, il finale sembra metterci ancora
284
una volta di fronte ad una sconfitta: l’esito della vicenda è una sorta di
drammatica accettazione dell’ordine esistente. L’ultima sequenza del
film ci reintroduce in un ambiente di fabbrica, dove Isa sta iniziando un
nuovo lavoro. La musica sembra lasciar filtrare un tenue spiraglio di
speranza per immaginare che il futuro sia migliore; eppure, ciò che aleggia nel volto della protagonista è in fondo un senso di rassegnazione
già visto: quello che nasce dalla necessità di assoggettarsi alle esigenze
sempre più spinte della cosiddetta “società dell’incertezza” per prevenire la caduta agli inferi della gerarchia sociale (Bauman, 1999).
E la paura di cadere costituisce, infatti, la tonalità emotiva che fa da
basso continuo non solo all’intera vicenda narrata, ma anche a quella
singolare combinazione di immagini in movimento, suoni e silenzi che,
al di là della narrazione stessa, costruiscono nel film una costellazione
di “immagini mentali”. Immagini che non prendono ad oggetto tanto i
personaggi con la loro storia – i soggetti -, quanto piuttosto le “figure di
pensieri” materializzate dall’ispessirsi delle relazioni che possono nascere all’interno di un’inquadratura (Deleuze, 1986). E si tratta di figure
che fanno riferimento ad una costellazione simbolica e di potere che
sovrasta i personaggi, afferrandoli e spostandoli più o meno a piacimento, gettandoli in una dimensione esistenziale di precarietà generalizzata
che, per dirla ancora con Bauman, si configura come “un gioco infinito
che a un long life project sostituisce una long life anxiety” (Rahola, 2001).
E non c’è dubbio che lo spettatore viene direttamente colpito da un
“visibile” che questa volta – diversamente da Metropolis – non più in
mero contrasto con il momento narrativo. Chi guarda è spinto a rigettare la propria “naturale” posizione di osservatore passivo: come nel
miglior cinema espressivo capace di produrre un discorso critico sul reale, qui davvero la potenza latente di immagini che ci offrono un condensato esemplare del gioco di forze intercorrente tra soggettività che
vogliono vivere e dispositivi di precarizzazione che le imbrigliano a un
che di mortifero “entra [immediatamente] a confronto con la coscienza
desta” (Pezzella, 2001).
285
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287
Parte Quarta
Studi Sammarinesi
SCIALOJA, MAGISTRATO A SAN MARINO
di Renzo Bonelli
Chi ha pensato di inserire negli argomenti da affrontare nel Convegno
odierno il lungo impegno del prof. Vittorio Scialoja quale Giudice
d’Appello nella Repubblica di San Marino ha probabilmente indagato
con grande sagacia non solo nelle vastissime conoscenze dottrinarie e
nelle capacità professionali dell’uomo, ma si è servito di una notevole
perspicacia nell’individuare la passione assolutamente primaria che lo
studioso conservava per il “diritto comune”, ormai in via di estinzione,
dopo aver ispirato i vari codici nazionali europei, e che in San Marino
poteva ancora mostrarsi vitale ed efficace.
Ma vediamo con ordine.
Assunto all’inizio del XX secolo quale Giudice delle Appellazioni, sia
civili, che penali, vi permase fino alla morte e cioè per trenta anni, pronunciandosi in entrambe le materie con indiscussa competenza e raro
equilibrio.
Molto difficilmente si troverà cenno di tale attività nelle biografie dedicate al personaggio, e raramente lo ricordano enciclopedie o dizionari
specializzati, che pur diffusamente illustrano vita e opere nel nostro.
Certo è che le sue capacità lo hanno portato ad assumere incarichi di
ampiezza e prestigio ben più estesi, ma ciò denuncia anche la discrezione e la misura che l’uomo usava nei suoi rapporti di vita a qualsiasi livello.
La dedizione di Scialoja all’incarico presso la Repubblica di San Marino
fu assoluta e si potrebbe pensare assorbente per il gran numero di sentenze, di pareri, di commenti e suggerimenti lasciati nel corso degli anni, se non risultasse che nello stesso periodo ebbe la capacità di condurre e seguire altre impegnative imprese in Italia ed in Europa.
Quando iniziai l’attività forense nel mio piccolo paese e presi a frequentare i pochi legali di quel foro, percepii nei più anziani il ricordo
vivace e preciso del personaggio al punto che solo dopo qualche tempo
mi resi conto che era scomparso da trenta anni.
Intervento effettuato in occasione del Convegno “Vittorio Scialoja – un magistrato
del ‘900”, tenutosi a Tor Vergata, Roma il 4 novembre 2005
291
Erano forse tempi diversi nei quali il ricordo dei fatti e delle persone
svaniva nel tempo molto più lentamente di quanto avviene oggi, sopraffatti come siamo dal gran numero di notizie che sopraggiungono da
vicino e da lontano, nonché dallo stress di una vita quotidiana che vede
scorrere in fretta anche i funerali.
Sta di fatto che i miei colleghi anziani frequentemente si richiamavano
a quanto aveva detto o scritto il prof. Scialoja. Le citazioni e i richiami
erano frequenti e si riferivano sia a pronunzie giudiziali, sia ad aforismi
o semplici commenti espressi nelle frequentissime visite che faceva in
Repubblica, durante le quali non erano rare le conversazioni in gruppo,
con le autorità, gli avvocati, il solito farmacista e qualche altro in rispettosa cordialità.
Rispetto che egli ricambiava con estrema naturalezza con i suoi interlocutori .
Dopo aver ricevuto l’incarico che mi vede oggi impegnato, e che mi ha
preoccupato per la qualificazione dell’uditorio, ho cercato di trovare
qualche documento, magari inedito, che potesse arricchire questa relazione che non ero in grado di rendere ricca di dottrina e cultura giuridica, come il tema richiede. Ho avuto la fortuna di rintracciare in un
archivio privato, non ancora raggiunto da collezionisti e curiosi, una
lettera del 13 agosto 1932 da Maresca Pistoiese, indirizzata all’eccellente
e caro reggente e amico, con la quale, dopo i ringraziamenti per le cortesie ricevute, l’estensore prega il destinatario di “rendersi gentile interprete della (sua) riconoscenza presso i valorosi giuristi ed amici del foro
del Titano”, la benevolenza dei quali giudicava preziosa.
Che i legali sammarinesi fossero particolarmente benevoli verso il loro
giudice era sicuramente vero, come vero era che a distanza di decenni
ancora ne ricordassero le doti culturali e di equilibrio, ma anche
l’indulgenza verso i giudicati, unita al rigoroso rispetto delle norme e
delle teorie applicate, ma anche l’arguzia e l’ironia espresse ogni volta
che l’ambiente e l’occasione lo consentivano.
Ancora si ricorda quando, anch’egli preoccupato da un tentativo di
colpo di stato ordito da alcuni cittadini e da alcuni esteri e scoperto per
il movimento di sconosciuti che era stato con facilità notato nel circoscritto ambiente, veniva interpellato dai soliti interlocutori per cono-
292
scere il suo pensiero al riguardo ed in particolare se non ritenesse che i
cospiratori fossero dei “pazzi”.
Il Senatore, che non era investito sul caso delle funzioni giudiziarie,
poiché era stato costituito un tribunale speciale, annuì e di fronte al
consenso degli astanti spiegò che il suo giudizio derivava piuttosto dal
fatto che il colpo di stato non fosse riuscito.
Per trenta anni giudice nella materia civile e penale ha contribuito allo
sviluppo della giurisprudenza; ha contemporaneamente arricchita la
dottrina con studi specifici ogni volta che ritenesse vi fossero aspetti da
mettere in chiaro; ha esteso pareri sugli argomenti più delicati di diritto
pubblico, costituzionale ed amministrativo, che gli venivano di volta in
volta richiesti.
Non si deve credere che il suo impegno fosse svolto senza timore di
giudizio o di confronto, in un ambiente poco aggiornato; nel periodo
fra i giudici di primo grado, dei quali confermava o aggiustava le sentenze si ricordano Arturo Rocco, Gaetano Azzariti, Alessandro Stoppato ed altri meno noti , ma altrettanto validi.
Tutto questo lavoro, di notevole mole e assolutamente qualificato, ancora oggi valido riferimento per chi deve affrontare le questioni giuridiche prese in esame, fu svolto in maniera onorifica, cioè senza compenso, ma ricevendo esclusivamente l’assoluta considerazione e il più
completo rispetto, che sono culminati con la concessione della cittadinanza onoraria, conferita pochi mesi prima della scomparsa e pochi
mesi dopo che in Campidoglio gli venisse conferita quella italiana, come massimo riconoscimento di tutta una nazione che si onorava di averlo fra i suoi figli.
A questo punto è da chiedersi quale motivo ha spinto questo maestro
ad occuparsi dell’orticello angusto della giustizia di un piccolo paese nel
quale la società ed i suoi problemi, i conflitti, le violazioni erano quelli
di un comune rurale o poco più, seppure con la configurazione di entità statale. La mia risposta fra poco.
Scialoja assistette alla conclusione del ciclo plurisecolare della vigenza e
dello sviluppo del diritto comune, messo da parte dal fiorire delle codificazioni, che in Europa furono avviate dalle riforme napoleoniche e
completate giusto nel 1900 in Germania, nazione che fino all’ultimo
aveva coltivato, applicato e profondamente studiato il diritto romano,
293
che aveva costituito l’humus sul quale il diritto comune si era sviluppato.
I relatori di oggi ricorderanno e riconosceranno che il Nostro fu sicuramente il cultore più accreditato e valoroso del diritto romano e che,
con i giuristi tedeschi appunto, detenne il primato di tale conoscenza.
Roma da tempo aveva esaurita la sua supremazia, ma i popoli già dominati per secoli avevano assorbito con l’uso i principi e le regole che
Giustiniano pensò di raccogliere e diffondere e continuavano a rispettarli ed applicarli come patrimonio ormai acquisito, inserito nella loro
tradizione e, si può dire, nelle loro coscienze.
Quando venne il momento delle codificazioni, rese necessarie da un
troppo confuso sovrapporsi di usi locali, di principi legati ad influenze
ideologiche e religiose, dal sopraggiungere di popolazioni esterne con le
proprie regole, Scialoja rimase fedele alla sua convinzione di studioso
profondo e completo della materia, che gli consentiva di credere che il
sistema maturato sulla esperienza, le indagini accademiche, le procedure giudiziarie, di tutta Europa, si manteneva completo ed in grado di
regolare in maniera esaustiva i rapporti giuridici di vaste popolazioni.
San Marino tentò di mettersi sulla strada degli altri Stati e, sul finire del
XIX secolo, chiese a Scialoja e Brini di predisporre un codice civile.
Scialoja, coerente, rifiutò; Brini concluse l’opera con un testo, che è rimasto una proposta, benché ritenuto da molti studiosi all’altezza dello
scopo.
La piccola Repubblica dunque era rimasta l’unica entità statuale ad essere regolata dal diritto comune per i rapporti civili e, settorialmente,
anche per quelli pubblici, esclusi gli aspetti penali, in ciò trovando sicuramente il consenso dello Scialoja e forse, dati i rapporti costanti intrattenuti, anche il suo incoraggiamento.
Savigny, di cui lo Scialoja tradusse l’intera opera, definiva il Diritto
Comune “attuale”, ritenendo inserita nel concetto stesso l’aderenza delle soluzioni ai tempi per via di una continua evoluzione, iniziata con i
glossatori e proseguita nelle scuole e nei tribunali.
Ha scritto il Redenti, altro Magistrato della piccola Repubblica, riferendosi al Diritto Comune all’epoca: “in ciascun momento storico esso
è diverso da quello che era nei momenti storici anteriori; da quello che
sarà nel momento storico successivo; e come Diritto Comune vigente si
294
può applicare soltanto in quel grado di svolgimento che ha raggiunto
all’atto della applicazione”.
Teoria non diversa da quella sostenuta dallo Scialoja quando affermava
che in vigenza di Diritto Comune non è sempre vero che una sentenza
di oggi debba essere identica a quanto indicava Bartolo od altri maestri
dei secoli trascorsi.
Ecco, dunque, che possiamo rappresentarci ragionevolmente che il Nostro avesse individuato nella funzione di Magistrato dell’ultima comunità che si rifaceva al Diritto Comune la fucina per l’applicazione e
l’elaborazione del suo profondo sapere, per la conferma dell’attualità,
adattabilità e pertinenza delle regole maturate con l’esperienza e il ragionamento di una classe qualificata di studiosi sulla spinta dei comportamenti più diffusi.
Scrisse e ribadì sovente in quegli anni, formulando la definizione che ha
improntato tutta la sua opera e quindi tutta la giurisprudenza sammarinese di quegli anni, l’indicazione più seguita da chi oggi si occupa della giustizia in quell’ambito: “il Diritto Comune qui vigente non è il Diritto Romano Giustinianeo, ma quel diritto che si venne formando e
svolgendo sulla base del Diritto Romano, del Diritto Canonico e della
consuetudine, negli stati più civili del continente Europeo e in particolar modo dell’Italia; esso deve ricercarsi negli scritti dei più autorevoli
giureconsulti e nelle decisioni dei più rinomati tribunali”.
Queste poche parole già da sole sono il manifesto della sua concezione
dottrinaria e del suo modo di procedere.
Nella definizione citata si identifica chiaramente come egli fosse convinto della composita origine e ispirazione delle radici della civiltà giuridica europea, sulla base di una concreta e realistica ricostruzione storica della nascita, dello sviluppo e della trasformazione degli istituti. E’
anche comprensibile quindi, come da tale concezione e dal radicale
contemporaneo mutamento imposto dalle codificazioni generalizzate, a
seguito delle quali ogni entità statuale si accingeva a prendere una propria strada nell’impostazione e nello sviluppo di istituti che avevano
una storia millenaria, e nella creazione di nuovi, maturasse l’idea e
l’iniziativa dell’Unidroit.
Nei trent’anni della sua attività giudiziaria la Giurisprudenza Sammarinese è stata arricchita da una serie infinita di citazioni di autori e di
295
pronunce giudiziali, sicché gli scritti dei “più autorevoli giureconsulti”,
che aveva ricordato nella sua definizione, furono di fatto ricondotti ad
una bibliografia vastissima, che andava dai primi glossatori fino ad alcuni suoi contemporanei, specialmente tedeschi, per la ragione che è
stata già ricordata.
Naturalmente si riscontravano un gran numero di pareri, non sempre
uniformi, anzi in parte addirittura contrastanti. E si può ben capire, se
si mettono a confronto le varie scuole, ma anche le diversità di concezioni giuridiche e di ideologie ispiratrici, che si possono trovare in giro
per l’Europa, se è vero che lo sviluppo del Diritto Comune è avvenuto
in quasi tutta l’area del continente.
Va da sé che il Cardinale De Luca, autore della Enciclopedica “Theatrum Universae Jurisprudentiae”, non poteva allinearsi all’olandese
protestante Voet, il cui “commento alle Pandette” ha finito per essere
una specie di codice civile nel lontano sud-Africa.
Per uscire dal dubbio la scelta fra i pareri e le decisioni più diverse finiva per essere affidata alla cosiddetta “opinio comunis”, che era costituita dalla indicazione seguita dalla maggior parte degli autori, che corrispondeva all’indirizzo prevalente dei commentatori e dei giudici.
Si può capire che tale modo di procedere, basato soprattutto su di una
larghissima conoscenza della produzione giuridica del tempo, sia dottrinaria, sia giurisprudenziale, necessitava quale giudice di Diritto Comune di un personaggio di estesa e profonda cultura, elaboratore primario della decisione che si accinge a proporre, a pronunciare o a suggerire.
Chi voglia avvicinarsi a comprendere tale metodo, ricavandone il piacere intellettuale che offre il percorso dottrinario e scientifico che compie l’autore, fatto di citazioni, richiami, accostamenti analogici ed interpretazioni, potrà rileggersi il parere che Vittorio Scialoja fornì in ordine ad una vicenda giudiziaria di battuta avanti alla Suprema Corte Italiana negli anni 1907-1908, e nella quale l’esame del Diritto Comune vigente in San Marino ebbe una parte preponderante, essendo protagonista del contrasto considerato una donna che rivendicava il possesso della cittadinanza sammarinese per matrimonio (relazione pubblicata in
“Rivista di Diritto Internazionale” 1907-pag.155).
296
Questa donna, che chiameremo Marina con facile accostamento di parole, cittadina italiana, andò a nozze con un legale sammarinese; dopo
sposata contrasse un mutuo con un terzo e concesse ipoteca a garanzia
della restituzione della somma ricevuta su beni di sua proprietà, posti
in Romagna, dove ancora risiedeva.
Per motivi che non è necessario indagare, né lo fu all’epoca della controversia, l’operazione non andò a regolare conclusione e alla fine Marina, per difendere la proprietà che rischiava di perdere per
l’aggressione del suo creditore, rivendicò la nullità della obbligazione
contratta, adducendo quale motivo la mancanza delle autorizzazioni
maritali che in quel periodo storico erano previste ed imposte dallo statuto sammarinese.
I problemi che la Suprema Corte si trovò a dover risolvere furono vari,
ma principalmente due.
Se nella vicenda si dovesse applicare il diritto italiano vigente, in riferimento al luogo ove i beni ipotecati erano posti, ovvero il diritto nazionale della persona proprietaria previa, naturalmente, l’indagine preliminare su quale fosse il diritto personale di Marina.
Tralasciamo il primo punto che alla fine fu superato dalla considerazione che, ove fossero necessarie autorizzazioni preventive e queste
non fossero intervenute, l’operato della persona interessata sarebbe stato “nullo”, in quanto la medesima capacità di agire non si era perfezionata.
Comunque, anche se il dibattito intorno al caso non poté ridursi ad un
unico quesito il contrasto principale si circoscrisse a definire se Marina,
nata italiana e sposata a cittadino sammarinese, dovesse seguire, per
quanto riguarda la propria capacità di agire, le regole del paese d’origine
o di quelle del paese di attuale appartenenza, dopo aver risolto il dubbio se a quest’ultimo effettivamente appartenesse.
Pur ridotto all’essenziale il caso prospettava svariati aspetti, collegati e
subalterni, che hanno condotto ad una indagine minuziosa, nella quale
è stato necessario ricostruire lo sviluppo della dottrina e della legislazione intorno ai temi coinvolti dall’argomento.
Si cominciò col richiamare Baldo degli Ubaldi, Giurista e commentatore celebre del XIV secolo, il quale si occupò di un caso del tutto simile
al nostro (consiglio 139 del libro V) quando indagò sulla vicenda di una
297
donna perugina che andò sposa ad un cittadino di Assisi, ove lo statuto
locale vietava alle donne di fare testamento senza l’autorizzazione maritale.
Questo autore concluse che la perugina conservava la sua origine naturale, che, in quanto acquisita secondo natura, non poteva essere estinta
per cause successive.
La tesi esposta era prevalente nel diritto in vigore nell’evo di mezzo e
rimase prevalente a lungo, fino alle codificazioni o poco prima, benché
l’influenza del diritto canonico, secondo la dottrina che lo ispirava
puntasse ad una modifica sul punto invocando il principio dell’unione
nel matrimonio come “unum corpus et una caro”.
Lo Scialoja, nella vicenda legale di Marina si trovò nella difficile situazione di dover sostenere che la propria assistita, in quanto sposa di un
sammarinese trovava nella legge di questo paese lo statuto che regolava
la sua capacità; ma proprio tale legge, rappresentata dal diritto comune,
sembrava toglierle ogni possibilità di rinunciare alle proprie origini,
almeno secondo le indicazioni di Baldo e di moltissimi suoi epigoni e
colleghi dei secoli successivi.
La soluzione del caso, seguita dalla Suprema Corte, confermerà, come
vedremo, che la fedeltà al diritto comune, inteso ed accettato nel suo
sviluppo generale, conduce a produrre decisioni coerenti con il sistema
attuale anche se diverse dall’opinione dei maestri più antichi.
La concezione del Savigny di cui lo Scialoja fu il più fedele sostenitore,
e secondo la quale il diritto comune è corpo uniforme e completo in
continua trasformazione, rispettoso delle tradizioni, influenzate, guidate adattate ai tempi dalle consuetudini generali e dalle interpretazioni
dei maestri, ha trovato nel caso esposto la concreta dimostrazione della
sua coerenza.
All’epoca della vicenda di Marina il quadro dell’ordinamento giuridico
sammarinese veniva così rappresentato dal Nostro: “la Repubblica di
San Marino è nelle condizioni delle repubbliche italiane dell’evo medio
e del principio dell’età moderna, nelle quali vigevano gli statuti municipali e il diritto comune, fonte sussidiaria, ma amplissima, di diritto, in
tutto ciò che dalle leggi speciali o dagli statuti non fosse espressamente
preveduto.
298
Gli statuti avevano carattere di deroga al diritto comune, che, ricevuto
“in complexu” (come si diceva allora) poteva essere invocato ogni volta
che non ne risultasse la modificazione o la parziale abrogazione.
Questi principi sono così sicuri e noti prosegue il Nostro “che sembrerebbe del tutto superfluo darne dimostrazione”.
Per illustrare la situazione anche nei particolari aggiunge che l’adesione
complessiva al Diritto Comune, così come determinata dagli statuti,
doveva intendersi senza esclusione alcuna di materie e quindi per il diritto pubblico, per il diritto privato, per il civile e per il penale, tenuto
presente che gli interventi successivi del legislatore costituivano ogni
volta deroghe espresse, pienamente efficaci ed operative.
Dal 1600, epoca dell’ultimo aggiornamento dello Statuto seguirono
numerose norme di carattere statutario, che vennero a restringere ampiamente l’ambito di vigore del diritto romano comune, mentre
nell’ultimo scorcio del 1800 furono introdotte leggi speciali ed emanato
un codice penale che abrogarono e sostituirono le norme esistenti in tale materia, così come era accaduto presso ogni nazione europea.
Lo Scialoja non è il solo portatore della tesi della “adesione completa” e
fra i suoi contemporanei egli stesso ricorda il concetto espresso dallo
Windscheid, riconosciuto come il più illustre dei cultori del diritto comune, secondo il quale “il diritto romano venne ricevuto come un tutto”, per cui non occorreva giustificare la sua applicabilità per ogni singola norma e si doveva ritenere vigente ed applicabile finché non risultassero argomenti in contrario.
Da altro canto gli statuti sammarinesi non hanno posto alcuna limitazione al rinvio al diritto comune, inteso come estensione e sviluppo del
diritto romano secondo la definizione già ricordata, richiamandolo
come regola unica testualmente per le cause civili e criminali, per le
mere e per le miste, dalle quali, come si è visto più tardi fu esclusa la
materia penale.
Per quanto riguarda la materia della cittadinanza, che direttamente è
coinvolta nel caso della nostra Marina, non v’è dubbio per lo Scialoja,
ma non solo per lui, che appartenga al diritto pubblico e al privato insieme. Ed a questo punto il ragionamento e le argomentazioni del Nostro si dipanano in un serie lunghissima di richiami e citazioni di aggiornamenti che lentamente ma costantemente nel corso dei secoli ave-
299
vano portato ad accettare, da ultimo nelle codificazioni europee, quasi
per consenso generale il principio che la moglie estera dovesse assumere
la cittadinanza del consorte, rendendo così diffusa e condivisa in tutto il
continente quanto il Regno d’Italia nel 1865 aveva introdotto nel proprio ordinamento codificato, innovando rispetto alle regole seguite dal
Diritto Comune.
Ecco dunque raggiunta e determinata secondo il diritto comune attuale
e quindi vigente nella Repubblica di San Marino la posizione di Marina.
A questo punto la storia è conclusa, ma si è anche avuto modo di verificare nel concreto di un caso realmente accaduto la corrispondenza
della teoria alle esigenze di una giustizia aderente alle convinzioni più
diffuse e riconosciute.
L’opera trentennale dello Scialoja ebbe indubbiamente il pregio di consentire la conservazione e lo sviluppo delle radici di una civiltà forse
unica, sicuramente superiore, con il difetto di guidare un ambito troppo angusto per avere la possibilità di trovare eco e diffusione altrove.
Ma forse proprio ciò permise al grande studioso di riservarsi la sfera autonoma per agire secondo la concezione scientifica di cui era divenuto
convinto, competente e appassionato custode.
300
LA LEGISLAZIONE SAMMARINESE SUI BENI CULTURALI: I
BENI ARCHIVISTICI
di Cristoforo Buscarini
Le fonti.
Una ricognizione, sotto il profilo diacronico, della normativa che ha
disciplinato a San Marino la materia archivistica si esaurisce fatalmente
in poche battute, poiché lo stato in sede legislativa ha prodotto una legislazione esigua, se paragonata a quella delle grandi realtà statuali come
l’Italia che servirà qui come elemento comparativo per alcune questioni
di primaria importanza. Poiché gli archivi si rintracciano già in età comunale per soddisfare un’esigenza pratica, cioè la conservazione dei documenti su cui si fondano le autonomie locali nonché la produzione
documentale delle magistrature cittadine, in assenza di norme di ius
proprium a San Marino, è lecito supporre che tale finalità di conservazione fosse perseguita secondo norme generalmente vigenti e secondo
criteri di natura empirica. E’ noto che la più remota disposizione concernente l’archivio risale appena al 4 marzo 1572 e consiste in una Riforma statutaria recante per titolo “De libris consignandis per Capitaneos Perfecto Archivii et eis non extrahendis ab Archivio”. Il dettato
della rubrica statutaria, nel fissare in materia gli obblighi dei Capitani e
quelli conseguenti del Prefetto dell’Archivio, mira evidentemente ad
ovviare ad inconvenienti verificatisi nella conservazione degli atti della
comunità con l’individuare e sanzionare severamente le inadempienze
di coloro che hanno responsabilità in materia, cioè Capitani pro tempore e Prefetto dell’Archivio1. Come si vede la disposizione intende
porre rimedio ad inconvenienti contingenti, senza con questo delineare
un’organica disciplina delle funzioni e delle finalità dell’ufficio, concezione del resto estranea alla produzione normativa dell’epoca. Un po’
più organica appare la disposizione contenuta nella rubr. XXX del lib.I
dello Statuto promulgato l’anno 1600, dal titolo “De electione Praefectorum Archivii et eorum officio”, che può considerarsi una embrionale
regolamentazione dell’ufficio. Va rilevato preliminarmente che la re1
C. Malagola, L’Archivio governativo della Repubblica di San Marino riordinato e
descritto, Introduzione di C.Buscarini, San Marino 1981.
301
sponsabilità della tenuta dell’Archivio è attribuita ad una vera e propria
magistratura, quella dei Prefetti dell’Archivio, ufficio duumvirale come
tutte le magistrature più significative della Comunità (Capitani, Sindaci, Giudici delle appellazioni, Massari del Santo, ecc.), stante una diffusa e prudente diffidenza verso gli organi a composizione individuale. La
rubrica dispone innanzi tutto la elezione dei due Prefetti da parte del
Consiglio Principe, per poi passare a delineare in modo conciso i compiti degli stessi disponendo che essi “pro diligenti eorumofficii administrazione a Dominis Capitaneis praedictis et a praecessoribusin dicto
officio, recidere debeant omnes et singulas scripturas cuiuscumque qualitatis, instrumenta, privilegia, indulta, litteras, libros, catasta, et generaliter omnia alia ad dictum Archivium spectantia, et qae in eo conservari
custodirive solent per inventarium manu Cancellarii Communis, quod
in manibus praefatorum Dominorum Capitaneorum rimanere debit”.
La rubrica statutaria prosegue poi nell’elencare le incombenze dei Prefetti , i divieti espliciti, le pene severe per le violazioni delle norme. Le
disposizioni della rubrica citata sono in armonia con la normativa generalmente vigente all’epoca; la singolarità risiede semmai nel fatto che
essa sia rimasta formalmente in vigore fin quasi alla metà del novecento. Si deve attendere infatti la scarna legge 16 settembre 1946 n. 49 per
rintracciare un tentativo di normazione moderna in materia archivistica nella realtà sammarinese. Ci si chiederà per quali ragioni lo stato abbia lasciato trascorrere tanto tempo prima di adeguare la propria legislazione in un ambito tanto rilevante sul piano culturale come su quello
amministrativo. In vero già nel 1909 era stato messo allo studio un progetto di legge archivistica che però non approdò a nulla. Tale situazione
fu il prodotto di un esagerato attaccamento alla tradizione o piuttosto
di una carenza culturale che impediva di percepire gli inconvenienti che
la carenza normativa produceva in termini di mancata conservazione e
carenza di ordinamento del prodotto documentale della vita politica e
amministrativa del microstato. In effetti con la proclamazione del Regno nel 1861, a San Marino era maturata in generale la consapevolezza
di dover colmare lacune giuridiche ed organizzative non più ammissibili nei rapporti quasi quotidiani con il nuovo stato unitario. Per tale via,
sia pure con estenuante lentezza, si pose mano ad un piano di riforme
finalizzato a colmare ritardi secolari, grazie anche all’impulso di consu-
302
lenti illuminati. Tale impegno produsse qualche risultato; basti pensare
all’adozione del Codice penale (1865), del Codice di procedura penale
(1878), dell’avvio della compilazione del Codice civile (Schema Brini,
18 ), ecc.. Una legislazione in materia archivistica evidentemente non
parve materia così urgente ad una classe politica affaccendata in questioni apparentemente più pressanti, nonostante che il degrado
dell’istituzione archivistica a San Marino fosse sotto gli occhi di tutti.
Eppure nel periodo che va dall’unificazione italiana alla fine del novecento lo stato italiano ha prodotto una fitta serie d’ interventi legislativi di estrema rilevanza1. Basti ricordare sommariamente alcuni testi
normativi fondamentali, come il RD 5 marzo 1874 n.1852 con il quale
tutti gli Archivi di Stato sono posti nella dipendenza del Ministero
dell’Interno; il RD 27 maggio 1875 n.2552 che stabilisce le regole per
l’ordinamento generale degli Archivi di Stato; il RD 9 settembre 1902
n.445 che approva il regolamento generale degli Archivi di Stato; il RD
2 ottobre 1911 n.1163 che approva il regolamento per gli Archivi di
Stato; la legge 16 febbraio 1913 n.89 sull’ordinamento del notariato e
degli Archivi Notarili; la legge 22 dicembre 1939 n.2006 contenente il
nuovo regolamento degli Archivi del Regno; la legge 17 maggio 1952
n.629 sul riordino degli Archivi Notarili; la legge 13 aprile 1953 n.340
istitutiva dell’Archivio Centrale dello Stato; il DPR 30 settembre 1963
n.1409 che dispone il nuovo ordinamento degli Archivi di Stato; la legge 3 febbraio 1971 n.147 sugli archivi storici parlamentari; la legge 29
gennaio 1975 n.5 istitutiva del Ministero per i Beni culturali e ambientali; e da ultimo il DL 29 ottobre 1999 n.490 Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali ed il DL 22
gennaio 2004 n.42 Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Si tratta quindi di una produzione normativa intensa che ha determinato una rapida evoluzione del sistema archivistico italiano e la sua articolazione territoriale su base provinciale. La realtà è diversa per San Marino, anche in ragione della esigua dimensione dello stato e del suo apparato gestionale. La struttura archivistica di San Marino naturalmente
ha attraversato le fasi tipiche dell’evoluzione di tale istituzione in Italia:
E.Lodolini, Legislazione sugli Archivi. Storia, normativa, prassi, organizzazione
dell’Amministrazione archivistica, vol.I, Dall’Unità d’Italia al 1997, Bologna 2004,
pp.34-72.
1
303
dall’archivio del comune medioevale all’archivio segreto dell’epoca signorile, chiuso alla libera consultazione ed accessibile solo a qualche
erudito gradito al gruppo dominante o alla famiglia signorile detentrice
del potere locale. Tale situazione si protrasse a lungo nel tempo. Infatti
Annibale degli Abati Olivieri che nel 1749 potè accedere all’archivio
segreto di San Marino conseguì tale possibilità più per i legami parentali con una delle famiglie locali dominanti nel governo cittadino che per
la propria fama di erudito1. Solo dopo la metà del sec. XIX si pose negli
stati europei, l’esigenza della libera consultabilità degli archivi e fu un
processo che trovò esiti differenziati nei vari stati2. A San Marino ancora nel 1885 Carlo Malagola per accedere all’Archivio dovette chiedere
un’esplicita autorizzazione del Consiglio Principe: l’Archivio era ancora “Archivio Segreto” nell’accezione sopra indicata. Solo all’inizio del
novecento (benché il progetto di legge archivistica del 1909 non approdasse ad approvazione) in via di fatto l’Archivio di San Marino divenne
accessibile ai ricercatori locali, come dimostrano le numerose pubblicazioni di erudizione storiografica date alle stampe nel primo quarto del
secolo passato. La nuova situazione, cioè una limitata apertura
dell’Archivio a ricercatori e studenti universitari, in assenza di una
normativa adeguata e senza una dotazione di personale adeguata alle esigenze createsi, comportò per l’istituzione archivistica rischi ed inconvenienti molto gravi. Nel periodo fra le due guerre l’accesso agli angusti
locali dell’Archivio a Palazzo Pubblico avvenne in modo incontrollato
senza sistemi di controllo e di razionalizzazione. I danni al patrimonio
archivistico attribuibili a tale fase furono incalcolabili, così come fu disastrosa l’assenza di una normativa in materia di versamenti all’archivio
dei fondi documentali e di scarto. Tale situazione non degna di un paese civile si protrasse, sul piano formale fino all’approvazione della legge
16 settembre 1946 n.49 che in teoria avrebbe dovuto porre rimedio ad
una situazione di precarietà e di vuoto normativo. La legge infatti introduceva la figura dell’Archivista quale responsabile amministrativo
dell’istituto (artt. 1-5); risolveva la questione del versamento in ArchiA. Degli Abati Olivieri, Indice di tutte le pergamene esistenti nell’Archivio Segreto della Repubblica di San Marino, “Liceo Ginnasio Governativo e Scuola Media Unificata.
Rep. di San Marino”, Annuario XIII (1979), XIV (1980), XV (1981).
2
E. Lodolini, Archivistica. Principi e problemi, Milano 1984, pp. 195-204.
1
304
vio (“Tutte le autorità governative debbono depositare nell’Archivio, al
compiersi di ogni trentennio, i propri atti, tanto di protocollo generale,
quanto di protocollo riservato”, art.6; “Gli originali dei rogiti notarili si
dovranno depositare nell’Archivio non più tardi di dieci giorni dalla
cessazione dall’ufficio di notaio”, art.7); veniva disciplinato sommariamente l’ordinamento dei fondi (“Nell’Archivio di Stato le carte debbono essere classificate per ufficio e divise per serie, e le serie ordinate
cronologicamente”, art.13); era altresì disciplinata la consultabilità degli
atti con una affermazione di principio (“Nessuno degli atti conservati
in Archivio è in via assoluta segreto”, art.16, comma 1”), seguita da alcune deroghe di segno restrittivo, fra le quali la più macroscopica era
enunciata all’art. 17 (“Degli atti relativi alla politica estera dopo il 1860
e dei trattati segreti della Repubblica non potrà essere data comunicazione se non alla Reggenza ed ai Segretari di Stato”). La legge con evidenza conteneva non poche lacune, sia sul piano normativo che su
quello organizzativo. Essa appare infatti un organismo senza arti poiché prevede la figura amministrativa dell’archivista senza un minimo di
dotazione organica congrua rispetto alle finalità della legge stessa. In sede di applicazione la legge fu ulteriormente vanificata con
l’attribuzione di funzioni di archivista al dirigente della biblioteca, in
base a considerazioni logistiche: nel 1949 l’Archivio fu collocato in tre
vani di Palazzo Valloni, residuali rispetto alla Biblioteca e Museo.
L’istituto, al di là delle migliori intenzioni del legislatore, veniva a trovarsi imprigionato in una camicia di forza che ne precludeva la fisiologica espansione e ridotto ad una sorta di “museo delle carte”, del tutto
innaturale e contraria alla finalità precipua di tale istituzione, dato che
si aggiungeva alla accennata assenza di dotazione organica con
l’impiego surrettizio di personale di altro ufficio, privo di competenza
specifica e non responsabilizzato. Si apriva per l’Archivio sammarinese
una nuova stagione caratterizzata da un quadro normativo tendenzialmente corrispondente all’evoluzione della dottrina archivistica e da una
situazione di fatto ancora ancorata alla disastrosa situazione anteriore.
Basti pensare alle conseguenze derivanti dall’impossibilità di procedere
ai versamenti di fondi archivistici allo scadere del termine di legge a
causa dell’assoluta mancanza di locali e di personale ed al conseguente
scarto incontrollato operato dallo singole unità amministrative.
305
Già si è accennato alla riforma impostata in Italia con il DPR 30 settembre 1963 n.1409. Non è possibile elencare qui le molte disposizioni
innovative contenute nel testo normativo. Ci si limiterà a richiamare
due soli punti: la organizzazione territoriale del sistema archivistico italiano ed i termini temporali per i versamenti dei fondi negli Archivi di
Stato. Quanto al primo punto, la legge prevede un sistema strutturato
su di un Archivio Centrale dello Stato ed una rete di Archivi di Stato
“con sede nei capoluoghi di provincia. In non più di quaranta Comuni,
nei quali esistano archivi statali rilevanti per qualità e quantità, possono
essere istituite sezioni di archivio di stato con decreto del Ministro per
l’interno su conforme parere del Consiglio Superiore degli Archivi”
(art.3). L’altro aspetto di grande rilevanza è quello che concerne i versamenti negli Archivi (art.23). La legge dispone infatti che i soggetti indicati dalla legge “versano ai competenti archivi di stato i documenti relativi agli affari esauriti da oltre 40 anni. Le liste di leva e di estrazione
sono versate 70 anni dopo l’anno di nascita della classe cui si riferiscono. Gli archivi notarili versano gli atti notarili ricevuti dai notari che
cessarono dall’esercizio professionale anteriormente all’ultimo centennio”. Lo stesso articolo dispone ancora:”Nessun versamento può essere
ricevuto se non siano state effettuate le operazioni di scarto”, collocando quindi lo scarto di documenti in una fase anteriore al versamento
nell’Archivio di Stato. Sono queste disposizioni di fondamentale importanza, rispetto alle quali le norme della legge 28 novembre 1978
n.52 hanno effettuato a San Marino scelte di contenuto antitetico, come
si vedrà più oltre. Del resto la legge n.1409 del 1963 si pone in un’ottica
innovativa rispetto alla precedente legislazione archivistica. Mentre infatti il RD 31 agosto 1933 n.1313 aveva individuato in cinque anni il
termine per il versamento degli atti amministrativi e giudiziari (in tal
senso si era orientata la commissione Cibrario del 1870), termine al
quale si era tentato di porre un argine con la circolare 28 luglio 1955
n.244 dell’Ufficio Centrale degli Archivi di Stato con cui si poneva un
termine al versamento di un trentennio, la legge n.1409 del 1963 elevando da cinque a quaranta il termine per i versamenti “ ha drasticamente ridotto l’utilizzazione del materiale documentario conservato
negli Archivi di Stato per fini non di studio”1. In questo modo i sogget1
Lodolini, Legislazione sugli Archivi, cit., p.362.
306
ti tenuti al versamento negli Archivi di Stato, previo espletamento delle
operazioni di scarto, venivano posti nella condizione di dover gestire i
propri fondi per un periodo abbastanza lungo cioè almeno un quarantennio, senza gravare gli Archivi di compiti e finalità di natura eminentemente amministrativi derivanti dall’eccessiva brevità del termine intercorrente fra esaurimento di una pratica e versamento, e quindi posti
nella condizione di strutturare adeguatamente i propri “archivi di deposito”.
Tali considerazioni sommarie servono ad inquadrare meglio limiti e lacune della legge sammarinese 28 novembre 1978 n.52, nella redazione
della quale evidentemente non si è tenuto adeguato conto delle problematiche che hanno orientato le scelte del legislatore italiano nel
formulare la legge n.1409 del 1963, privilegiando scelte di contenuto
antitetico, come si vedrà più oltre.
Si esamina intanto un solo aspetto della legge n.52 del 1978, quello indubbiamente centrale, che concerne il versamento delle pratiche esaurite all’Archivio di Stato da parte dei soggetti pubblici a ciò tenuti. Si è
notato come la legge precedente n.49 del 1946 all’art.6 imponesse a
“tutte le autorità governative” di versare i propri atti “al compiersi di
ogni trentennio”. Tralasciando per ora ogni considerazione sulla terminologia impropria adottata dal legislatore sia nell’individuare i soggetti tenuti al versamento, sia nel porre il termine tassativo di quello,
individuato appunto in un trentennio, si suppone un trentennio dalla
chiusura della pratica da versare. Ciò significa che allo spirare del periodo di trenta anni dall’esaurimento della pratica, qualunque ufficio
doveva procedere al versamento della stessa all’Archivio di Stato. Per
quanto riguarda l’altro problema, centrale in tale ambito, quello dello
scarto, l’art.39 attribuiva alla Reggenza la facoltà di autorizzare lo scarto di “documenti o duplicati o ritenuti inutili purchè l’una o l’altra di
queste qualità sia dichiarata con parere in iscritto dall’Archivista e dai
Segretari di Stato dai quali dipende o dipenderà l’ufficio cui le carte appartengono o dal Commissario della legge se si tratta di carte giudiziarie”.
La legge n.52 del 1978 all’art.2 dispone che organi, enti ed uffici pubblici “devono rimettere all’Archivio di Stato i documenti dei propri archivi non oltre il compimento del trentesimo anno dalla data di produ-
307
zione dei documenti stessi”. Tralasciando ancora una volta ogni considerazione circa la terminologia adottata, peraltro non priva di rilevanza
anche pratica (si noti per inciso la singolarità dell’espressione “data di
produzione dei documenti” per indicare presumibilmente la data di
chiusura della pratica), si deve constatare la rilevanza della modificazione introdotta dalla nuova norma rispetto alla precedente (e rispetto al
disposto dell’art.23 della legge italiana n. 1409 del 1963). La prima constatazione che sorge immediata consiste nel rilevare che il termine di un
trentennio per il versamento delle pratiche all’Archivio, che nella legge
n.49 del 1946 era tassativo, nella legge n.52 del 1978 diviene termine
massimo entro il quale i soggetti pubblici sono tenuti al versamento. La
differenza fra le due norme è di grande portata. La nuova legge dispone
infatti nel senso che ogni singola unità della pubblica amministrazione
è facoltizzata a procedere al versamento anche in termini temporali inferiori al trentennio dalla chiusura della singola pratica, a discrezione
quindi dei singoli uffici. La norma poi comporta implicazioni pratiche
che evidentemente il legislatore ha sottovalutato, per quanto concerne
l’attribuzione all’Archivio di Stato della gestione di una massa potenzialmente enorme, di carte relative a pratiche chiuse sì, ma ancora non
prive di una qualche attualità amministrativa e al limite, non assoggettate a procedura di scarto, benché questa (art.5) sia stata correttamente
collocata dal legislatore nella fase antecedente al versamento
all’Archivio. Tuttavia la facoltà di effettuare versamenti di pratiche al
compimento di periodi temporali inferiori al trentennio nei fatti pone
l’Archivio di Stato di fronte all’onere di affrontare una successiva procedura di scarto di fronte alla oggettiva impossibilità di assicurare
l’ordinamento e la conservazione di una massa di carte la cui rilevanza
nel decorrere del tempo andasse affievolendosi sul terreno amministrativo senza mantenere un interesse storico-culturale, dato che la conservazione integrale dei fondi archivistici non è obiettivo perseguibile.
Manca cioè nella legge n.52 del 1978 la nozione e la considerazione della necessità di organizzare in ciascun ufficio un “archivio di deposito”
quale fase intermedia fra l’ ”archivio corrente” e la fase del versamento
delle pratiche, previo espletamento delle procedure di scarto,
all’archivio di stato. Non a caso la legislazione italiana all’art.23 del
DPR n.1409 del 30 settembre 1963 (successivamente art.30 del DL 29
308
ottobre 1999 n. 490, quindi art. 41 del DL 22 gennaio 2004 n.42) disciplina la materia secondo un principio antitetico rispetto a quello contenuto nella legge sammarinese. Recita infatti l’articolo citato: “Gli organi indicati nel n.2 della lettera a) del primo comma dell’art.1 versano
ai competenti Archivi di Stato i documenti relativi agli affari esauriti da
oltre 40 anni”. Il termine quarantennale a cui sono sottoposti i versamenti agli Archivi di Stato assume perciò la valenza di termine minimo
per l’effettuazione di tali procedure ( previo espletamento della procedura di scarto, di cui all’art.27, nell’ambito delle singole unità amministrative). E’ di tutta evidenza che la scelta effettuata dal legislatore italiano, antitetica rispetto a quella adottata da quello sammarinese, appare come l’unica concretamente praticabile poiché stabilisce un termine
tassativo, un quarantennio appunto, prima che le carte possano essere
versate agli archivi di stato, un termine quindi entro il quale dovrebbero ragionevolmente cessare le esigenze meramente amministrative di
conservazione e consultazione delle pratiche, con il subentrare, quando
ciò si verifichi, di interessi di natura eminentemente culturale come
giustificazione della loro conservazione. Del resto il dettato
dell’articolo citato pone il termine di quaranta anni per il versamento
semplicemente come termine minimo, lasciando quindi aperta la possibilità di adottare termini temporali ben più lunghi, come nella ipotesi,
prevista dallo stesso art. 23 concernente le liste di leva per le quali il
termine di versamento sale a 70 anni, oppure per il trasferimento degli
atti notarili dagli archivi notarili agli Archivi di Stato da compiersi al
compimento di cento anni dalla cessazione dall’esercizio professionale
dei notai cui gli atti si riferiscono. Tale impostazione a cui ha aderito il
legislatore in Italia presuppone e richiama un concetto ormai generalmente acquisito nella scienza archivistica che concerne la scansione in
tre fasi del percorso diacronico dei complessi documentari: l’archivio
corrente, l’archivio di deposito, l’archivio storico1. L’argomento, sul
quale si è ampiamente soffermata la dottrina, richiede qualche cenno
riassuntivo anche in questa occasione poiché ha implicazioni di ordine
Lodolini, Archivistica, cit., pp.19-30. Vd. anche S.Muller, J.A.Feith, R.Fruin, Ordinamento e inventario degli archivi, Torino 1908; A. Brenneke, Archivistica, a c. di R.
Perrella, Milano 1968.
1
309
pratico da cui non si può prescindere nella gestione di un sistema archivistico.
Dall’archivio corrente all’archivio storico.
Nello svolgimento della propria attività istituzionale qualunque soggetto pubblico o privato viene a trovarsi nella condizione di porre in essere complessi di documenti. Questi vengono perciò ordinati e conservati
secondo le esigenze del soggetto produttore. “Chi considera che
l’archivio nasca sin da questo momento designa il complesso di documenti, in questa fase, con la locuzione - archivio corrente - ; chi al contrario, ritiene che non si possa ancora parlare di archivio, chiama il
complesso di documenti - registratura corrente - o - protocollo corrente“1. In tale fase il dato rilevante è costituito dal fatto che la pratica è in
corso di trattazione presso l’ufficio di competenza. La fase dell’archivio
corrente può essere di pochi giorni o di diversi decenni: dipende dalla
durata di svolgimento della procedura amministrativa che in essa si riflette. Il criterio accennato non è però di portata universale poiché trova impostazione diversa a seconda degli ordinamenti. In ogni caso “le
carte costituiscono archivio corrente o registratura corrente sino a
quando sono in corso di trattazione, nel primo significato, o si riferiscono ad affari da poco conclusi e possono perciò essere ancora frequentemente utilizzate dall’ufficio. Questo periodo, che di solito varia
da uno a pochi anni, può talvolta prolungarsi sensibilmente“2.
Conclusa tale prima fase, i documenti passano dall’archivio corrente (o
registratura corrente) ad un archivio di deposito (o registratura di deposito) in quanto essi siano di uso meno frequente da parte del soggetto
amministrativo che li ha prodotti o ricevuti, ma sono suscettibili di ulteriore consultazione per l’attività ordinaria d’ufficio. Va evidenziato
che l’archivio di deposito si trova sempre presso l’ufficio o ente che ha
prodotto le carte, ovvero presso ripartizioni comuni a più uffici o enti.
La durata di permanenza delle carte presso l’archivio di deposito costituisce un dato assai variabile a seconda delle legislazioni. Ad esempio,
in Italia la normativa introdotta con il DPR n. 1409 del 1963 ha individuato il termine quasi generale di almeno quaranta anni dalla chiusura
1
2
Ibidem.
Ibidem.
310
di una pratica come periodo ordinario di permanenza delle carte
nell’archivio di deposito delle singole unità della pubblica amministrazione.
Infine quando i documenti hanno esaurito di massima la funzione eminentemente amministrativa nell’ambito degli archivi di deposito, viene
operata una scelta, non essendo ipotizzabile una conservazione integrale di tali fondi, la quale porta o allo scarto e distruzione degli stessi o al
versamento ad un archivio storico (in Italia, gli Archivi di Stato a dislocazione provinciale). In tale fase si ritiene infatti che l’interesse amministrativo alla conservazione di determinati fondi documentari sia talmente ridotto per il decorso del tempo da non giustificarsi l’onere della
loro conservazione, quando non sussistano però motivazioni di ordine
culturale e scientifico che giustifichino la loro preservazione per fini di
studio e di ricerca, nella quale ipotesi l’ordinamento e la conservazione
dei fondi ricadono nella competenza degli Archivi di Stato (o
dell’Archivio Centrale dello Stato per i fondi degli organi di governo o
dei vertici giurisdizionali, o degli archivi storici istituiti presso alcuni
soggetti pubblici centrali, come il Ministero degli Affari Esteri).
L’art.23 del DPR 1409 del 1963 (ora art. 41 del DL 42 del 2004) dispone che il versamento agli Archivi di Stato si effettui per i “documenti
relativi agli affari esauriti da oltre 40 anni”. Il termine di un quarantennio riferito al versamento non è perciò tassativo costituendo esso il
termine minimo, il che lascia ipotizzare un termine anche più ampio
ove permangano esigenze di ordine squisitamente amministrativo che
giustifichino la permanenza delle carte negli archivi di deposito oltre il
quarantennio dall’esaurimento della pratica relativa.
Ci si è soffermati su alcuni dati fondamentali della legislazione archivistica italiana in quanto comparativamente ciò consente di mettere in
luce alcune lacune presenti nella legge sammarinese n.52 del 1978 per
quanto attiene al problema specifico a cui si è sopra accennato. Che anche nel sistema amministrativo sammarinese si possano individuare le
tre fasi diacroniche di gestione delle carte dei soggetti pubblici appare
pacifico. Non v’è dubbio che ogni ufficio o organo dello stato non possa prescindere dalla corretta organizzazione del proprio archivio corrente, inteso, come si è accennato, come insieme delle pratiche in corso
di trattazione. E’ altresì pacifico, anche senza una specifica disposizione
311
di legge, che ogni unità amministrativa o per singolo ufficio o per dipartimento, debba dar vita ad un archivio di deposito, nella accezione
amministrativa usuale. Quello concernente gli archivi di deposito costituisce però il problema più complesso nella gestione del sistema archivistico a San Marino. Il disposto, per vero singolare, dell’art. 23 che individua in un trentennio il termine massimo (anziché il termine minimo, come sarebbe stato coerente ) entro cui i singoli uffici o enti debbono versare le carte relative ad affari esauriti, all’Archivio di Stato
(denominato Archivio Pubblico), può comportare il rischio che singoli
uffici effettuino versamenti di pratiche non aventi carattere di “archivio
storico”, ma piuttosto di “archivio di deposito”, cioè aventi ancora un
preminente carattere di attualità amministrativa, addossando
all’Archivio di Stato competenze non pertinenti all’istituto. Vi è cioè il
rischio (nella esperienza concreta, ciò costituisce qualcosa di più di un
rischio), stante il quadro normativo imperfetto, che il passaggio di fondi documentari dai singoli uffici all’Archivio possa avvenire senza una
puntuale applicazione dei criteri razionali impliciti nella scansione in
tre fasi che si sono richiamate sopra. A tale imperfezione normativa in
passato l’Archivio ha cercato di porre un rimedio mediante la emanazione di circolari dirette ai singoli uffici, finalizzate a sollecitare la realizzazione di archivi di deposito all’interno delle singole unità amministrative. Ciò costituisce infatti il presupposto necessario per il corretto
funzionamento di un sistema che deve evitare da un lato la irragionevole permanenza negli uffici di documentazioni aventi interesse essenzialmente storico (fattispecie in concreto verificata), dall’altro
l’intempestivo versamento di pratiche che non hanno ancora esaurito la
loro rilevanza amministrativa.
312
FERME RESTANDO TUTTE LE ALTRE NORME STATUTARIE, OVVERO L’ARENGO DEL 1906 E CONGELAMENTO
ISTITUZIONALE
di Verter Casali
E’ ormai trascorso un secolo da quel 25 marzo 1906 in cui i capifamiglia sammarinesi tornarono a riunirsi in assemblea, dopo secoli di assoluta e silente sottomissione al Consiglio Principe e Sovrano, per decidere se attuare o no parziali riforme al loro sistema parlamentare, nominato dal XVI secolo in poi per cooptazione.
Tale evento portò, come è ben risaputo, al rinnovo periodico del Consiglio tramite regolari elezioni.
Quel momento è stato da lì in poi, salvo rarissime voci discordi, esaltato e magnificato con tutti gli aggettivi più glorificanti del vocabolario,
tanto che oggi, a distanza di cento anni, a molti, a troppi sammarinesi
ronzano in testa solo l’enfasi e l’apologia dell’arengo, cioè il suo mito,
gli elementi insomma più superficiali e patinati, più semplici da sapere e
ricordare, mentre si è perso di vista la sua sostanza, la sua realtà più intima e complessa.
L’arengo del 1906, infatti, rappresenta sì un fenomeno politico straordinario che ha condizionato tutta la politica sammarinese successiva; fu
davvero una bella vittoria degna di enfasi e di fiumi di retorica, ma fu
soprattutto una vittoria mutilata, per usare una definizione di altri, un
successo assai parziale rispetto alle velleità per cui tutto il movimento
che lo aveva inventato e determinato si era dato da fare.
Ma veniamo a spiegare un’affermazione così forte e controcorrente.
Prima però un rapido accenno ai suoi antefatti e alle cause che lo hanno determinato.1
L’arengo era l’antica assemblea dei capifamiglia della comunità sammarinese, e in epoca basso medievale assumeva le decisioni politiche più
importanti, probabilmente sotto la supervisione del vescovo del Montefeltro che gestiva, in nome di Roma, la zona geografica in cui era collocato anche il territorio sammarinese.
1
Per ulteriori approfondimenti storici, si veda soprattutto G. Dordoni, L’Arringo
conquistato, San Marino 1993.
313
Crescendo nel tempo il comune e la sua popolazione, si sentì l’esigenza
di utilizzare organi politici meno numerosi, quindi più facili da convocare e consultare (Consiglio dei LX, Consiglio dei XII), per cui gradualmente l’arengo venne accantonato, pur senza mai essere soppresso
ufficialmente.
Le ultime sue convocazioni, non come governo effettivo del paese, ma
con mere funzioni di corpo elettorale preposto al rinnovo di una parte
del Consiglio, si verificarono nel corso della seconda metà del XVI secolo, poi venne semplicemente lasciato in disparte (un po’ come sarebbe successo da lì a poco agli Stati Generali in Francia), fatto che permise
al Consiglio di diventare sempre più chiuso ed oligarchico in quanto
non più giudicato e rinnovato dal popolo.
In certi momenti di agitazione sociale, o comunque politicamente e socialmente critici, vi furono istanze più o meno ufficiali da parte di qualcuno per ripristinarlo, come nel 1738, nel 1797, nel 1848, nel 1853, segno certo che i sammarinesi più colti e conoscitori degli statuti secenteschi, con cui erano stati decurtati i poteri dell’assemblea dei capifamiglia, avevano ancora la consapevolezza della sua latente potenzialità. La
convocazione dell’arengo, tuttavia, non spettava al popolo, ma doveva
passare per legge attraverso Consiglio e Reggenza, che si guardarono
bene, ovviamente, di adunarlo.
Nella seconda metà dell’Ottocento si svilupparono in Italia e conseguentemente anche a San Marino nuove istanze culturali e politiche
impazienti di abbandonare le logiche più elitarie ed aristocratiche di gestione del potere. Le masse operaie e popolari, grazie soprattutto a giovani intellettuali “illuminati” e riformisti che le sobillavano, presero
sempre più coscienza della loro possibile forza e dei diritti che potevano rivendicare. Nacquero organizzazioni e partiti desiderosi di dar vita
a nuove ere sociali dove la gente semplice, gli operai e le masse in genere potessero essere protagoniste del proprio destino, e non più schiave
di aristocratici, ottimati o caste privilegiate.
Anche nella repubblica sammarinese successe qualcosa di simile, e le
prime timide rivendicazioni tese a chiedere il suffragio universale,
l’abolizione dei ceti in cui ancora era divisa la popolazione sammarinese (nobili, terrieri, villici), alcune riforme economiche e fiscali per appianare il deficit dello Stato, che negli ultimi anni del Novecento stava
314
aumentando per le eccessive spese fatte (in primis il palazzo del governo, inaugurato nel 1894 e costato più di 300.000 lire, cifra immensa per
le modeste casse pubbliche dell’epoca), si allacciarono piano piano alla
richiesta di riconvocare un arengo, organismo statutario, come si è detto, mai abolito, ma in letargo dal 1571.
Sebbene da più parti sorgessero richieste di innovazioni all’interno della società sammarinese, fino ai primi anni del XX secolo il variegato
movimento riformista locale, composto da minuscoli nuclei di socialisti, repubblicani, liberali, non riuscì a trovare unità d’intenti nella battaglia riformista che tutti costoro sognavano, anche se con sfumature
molto diverse tra loro.
La frammentazione dei riformisti ovviamente giovò ai loro avversari,
ovvero i cosiddetti conservatori, membri dell’oligarchia dominante,
passatisti e in genere eredi di quell’oligarchia terriera che da secoli deteneva il potere effettivo sulla piccola repubblica. Costoro, perennemente
succubi del motto Aut sit uti est, aut non sit, (o rimanete come siete o
non sarete), temevano di perdere col loro dominio sulla comunità, che
naturalmente portava prestigio e potere, anche la mitica libertà della
Repubblica, legata secondo la loro logica, ma come vedremo non solo
loro, totalmente al sistema istituzionale oligarchico in vigore, sistema
addirittura considerato sacro e consacrato dal santo fondatore in persona.
Questi, in estrema sintesi, gli antefatti dell’arengo e gli schieramenti che
si fronteggiavano pro o contro le riforme. La situazione rimase in stallo
fino al 6 aprile 1902 quando accadde un fatto nuovo: tre consiglieri riformisti (Telemaco Martelli, Remo Giacomini, Ignazio Grazia) presentarono un’istanza al Consiglio con cui richiedevano l’istituzione del referendum per poter consultare la popolazione su problemi specifici o
leggi particolari. Tale domanda nasceva dal fatto che anche in Italia si
stava parlando di istituire il referendum, ma soprattutto da una nuova
legge tributaria a cui da tempo si stava pensando (e si stava lavorando)
per pareggiare il deficitario bilancio dello Stato sammarinese. Nella seduta consigliare del 24 settembre 1901, infatti, Remo Giacomini dichiarò che, prima di applicare nuove tasse, sarebbe stato opportuno fare un
referendum con cui chiedere l’opinione del popolo, visto che alla fine
315
sarebbe stato proprio questo a subire le conseguenze maggiori e materiali dalla riforma tributaria.
I tre riformisti erano inoltre dell’avviso che “solo con la partecipazione
del popolo alla vita pubblica si potrà avere un governo veramente forte,
libero e civile, che abolisca i privilegi, gli abusi e le immoralità”. Questa
partecipazione era permessa anche dagli statuti in vigore, i quali dicevano che il popolo come arengo semestrale poteva interloquire con il
Consiglio: ora avrebbe potuto farlo tramite l’istituto del referendum,
inteso come assemblea obbligatoria dei capifamiglia a cui sottoporre
tutti i decreti e le nuove leggi. Esso sarebbe stato “scuola di moralità”
per il popolo che, coinvolto in maniera diretta nella gestione del paese,
sarebbe gradualmente cresciuto nella sua cultura politica e sociale.1
La proposta Ellero
La richiesta di referendum dei tre riformisti creò un certo scompiglio
tra i consiglieri, che decisero di richiedere un parere autorevole sul
problema ad alcuni giuristi italiani amici e consulenti della Repubblica,
in particolare a Pietro Ellero, grande estimatore di San Marino e personaggio all’epoca considerato un luminare delle scienze giuridiche.
Questo atto, insieme ovviamente alla situazione sociale ed economica
in cui versava il paese, fu in pratica l’inizio di tutta la faccenda che determinò l’arengo del 1906.
Il 10 giugno 1902 Ellero inviò il suo parere sulla questione che gli era
stata formulata. Disse che il sistema istituzionale sammarinese era da
reputarsi in effetti aristocratico in quanto il Consiglio era nominato per
cooptazione; per tale motivo consigliava di concedere qualche cauta riforma, perché temeva che la costituzione potesse essere giudicata “vieta
e retriva e offrire il fianco agli attacchi interni ed esterni, se non la si
riaccostasse con tutta la maggior prudenza, lentezza e circospezione alla
fonte democratica, dond’era sorta, e non la si richiamasse così alle sue
origini”.
La Repubblica doveva stare però assai attenta nel riformare, perché la
sua esistenza dipendeva solo dal fatto che fosse “una singolarità storica
prodigiosamente sopravvissuta”, che poteva continuare la sua esistenza
1
Per una proposta di referendum nella Repubblica di San Marino, Rimini 1903.
316
solo grazie alla “probità e la saviezza del suo governo, la concordia e
l’attaccamento de’ suoi abitanti e le simpatie stesse degli estranei verso
una sì veneranda reliquia vivente del passato”.
Nonostante la grande avvedutezza con cui veniva consigliato di procedere, bisognava comunque frenare l’impeto della protesta popolare per
evitare che diventasse puramente demagogica, quindi pericolosa e sovversiva.
Il giurista suggeriva di mantenere i tre ordini in cui era diviso il sistema
parlamentare locale senza renderlo elettivo, e di restituire al popolo radunato in arengo la potestà legislativa, facendogli avallare o respingere,
tramite un semplice sì o no, le leggi elaborate e proposte dal Consiglio.
“Di tal guisa la costituzione di San Marino riprodurrebbe in futuro (sublime auspicio) presso che negli analoghi termini la romana costituzione ne’ tempi suoi più gloriosi: ai due Consoli o Capitani Reggenti la
potestà direttiva ed esecutiva, al Senato o Consiglio Principe la potestà
statuale in istretto senso, ed ai Comizi od arringo la potestà essenzialmente deliberativa o statuiva”.
Ellero produsse anche una bozza di legge a sostegno delle sue teorie in
cui era previsto che:
Š le leggi e i trattati per entrare in vigore dovevano avere il consenso
dell’arengo (sì o no senza emendamenti),
Š l’assemblea doveva essere costituita da tutti i maggiorenni,
Š sarebbe stata convocata ordinariamente ogni sei mesi o straordinariamente quando si voleva, con un preavviso di almeno nove giorni
e dopo la pubblicazione delle leggi da esaminare,
Š poteva stare in riunione per un massimo di sei ore diurne consecutive, e in seguito essere aggiornata ad altra data,
Š era presieduta dai Reggenti,
Š potevano parlare a favore o contro le proposte in discussione non
più di tre oratori pro e tre contro, massimo per un quarto d’ora ciascuno,
Š i membri votavano per palle bianche o nere,
Š alla fine il commissario della legge valutava e rendeva pubblico il risultato, che così diventava ufficialmente legge.
In sintesi Ellero consigliava di fare come riforma, che lui paradossalmente reputava cauta, il ripristino dell’arengo come assemblea a cui far
317
gestire praticamente tutto il potere su San Marino. Che tale assemblea
fosse gigantesca e probabilmente ingestibile, perché costituita non solo
dai capifamiglia, che comunque già da soli erano centinaia e centinaia,
ma addirittura anche dai maggiorenni, per lui non era evidentemente
un problema.
I governanti sammarinesi, senza dubbio allarmati da una ipotesi tanto
sconvolgente, proprio per essere prudenti al massimo, com’erano per
natura, ma anche per il timore di dar vita a chissà quali sconquassi, sottoposero il parere Ellero ad altri insigni giuristi:
Š Giuseppe Brini aderì acriticamente a quanto detto da Ellero e allo
schema di legge. Disse in più che i sammarinesi dovevano stare molto attenti “sopra tutto dall’affrontare più che una provvisione e riforma ad una volta”, e a non toccare assolutamente il Consiglio nei
suoi poteri e nella sua conformazione.
Š Cesare Baudana Vaccolini affermò che “Alla repubblica, benché aristocratica ed anzi oligarchica, può tranquillamente concedersi il referendum in tutte le materie legislative, escluse quelle riguardanti
l’attuale Costituzione politica dello Stato, senza la quale esclusione,
necessaria per ragione di ordine pubblico, il popolo potrebbe assumere i caratteri di Costituente sì da condurre alla rivoluzione” e
perdere la sua leggendaria libertà. Si dovevano anche escludere secondo lui anche altri tipi di decreti e provvedimenti amministrativi.
Poi occorreva una commissione di 10 cittadini scelti per competenze e cultura per ammettere il referendum “con particolare raccomandazione di provocare il plebiscito con parsimonia”. La domanda di referendum doveva essere presentata da un minimo di 12 cittadini e le sue deliberazioni avrebbero avuto valore solo con i 2/3
dei votanti.
Š Diego Tafani non osteggiò il parere, ma volle sottolineare che: “Tre
sono, a parer mio, le ragioni di vita della Repubblica di S. Marino: il
suo minuscolo territorio; la sua venerabilità per una esistenza millenaria; la forma oligarchica e patriarcale del suo Governo, non atta
a generare o fomentare divisioni interne, passioni e ire di parte”.
Concluse il suo pensiero col motto che si è già riportato: Aut sit uti
est, aut non sit.
318
Giacomo Reggiani fu l’unica voce veramente contraria al parere Ellero. Disse: “La costituzione sammarinese è del tutto democratica,
in quanto che niuna classe di cittadini resta esclusa dalla eleggibilità ». Il Consiglio era numeroso, dunque altamente rappresentativo,
inoltre non era prudente restituire al popolo radunato in arengo
troppi poteri. Bastava mantenere in vita l’arengo semestrale con le
sue funzioni di sempre. Concluse: “Faccio voti che lo Stato non si
metta per una via già sperimentata scabrosa e piena di pericoli, e che
continui per il sentiero tanto saggiamente tracciato dai maggiori, in
cui sta forse la ragione della sua meravigliosa esistenza ultramillenaria”.
Š Nino Tamassia accettò senza appunti, anzi con grandi complimenti,
il parere e lo schema di legge Ellero; si raccomandò solo di rendere
obbligatoria la partecipazione all’arengo prevedendo una multa per
gli assenti.
Š Gaspare Finali si dichiarò d’accordo con Ellero sottolineando che
era saggio fare qualche riforma. Aggiunse che “conservare, innovando a proposito, e non servire principii, senza tener conto della
tradizione e del fatto esistente, parmi sia buon concetto politico”.
Š Torquato Giannini, commissario della legge sammarinese, si limitò
a dire che l’arengo era la naturale assemblea referendaria del paese,
anche se il referendum a suo parere era un istituto molto discusso e
controverso che presupponeva inoltre una maggioranza di cittadini
letterati, condizione che a San Marino non c’era (in effetti all’epoca
circa il 70% della popolazione era analfabeta).
Questi pareri ovviamente entusiasmarono i tre consiglieri che avevano
avanzato la petizione, perché ottenevano dalle parole dei consulenti
molto più di quanto potevano sperare; spaventarono però moltissimo i
conservatori, ben rappresentati da Federico Gozi, ostile a qualsiasi mutamento costituzionale, e da Domenico Fattori, che il 5 ottobre 1902
disse, durante una seduta del Consiglio, che un ritorno all’arengo avrebbe provocato gli stessi problemi per cui era stato accantonato secoli
prima:
“In un governo popolare è molto facile il sorgere ed il cozzare dei partiti aspiranti alla prevalenza, e quindi molto facile la discordia, che è maŠ
319
dre di danni e di mali incalcolabili in ogni Stato, e che nel nostro condurrebbe a certa ruina” e alla perdita della perpetua libertà.
“Procuriamo di non meritare le maledizioni dei nostri figliuoli, per non
aver saputo custodire e conservare il prezioso deposito di libertà, che ci
venne affidato dai nostri maggiori”.1
Nonostante i timori dei conservatori, ci sono giunte anche alcune lettere private inviate ad Onofrio Fattori, uno degli ottimati dell’epoca, da
alcuni dei consulenti interpellati, lettere in cui la raccomandazione di
concedere comunque qualche riforma era pressante:
“Grande avvedutezza (a certi segni del tempo) saper prendere
un’animosa risoluzione, quando sarebbe un atto meditato e spontaneo,
piuttosto che subire l’imposizione delle circostanze, quando diverrebbe
un atto precipitoso e forzato”, scrisse Ellero a Fattori il 26 giugno 1902.
In un’altra sua corrispondenza del 30 luglio, in cui si dimostrava particolarmente risentito per le critiche mosse al suo parere da Pietro Franciosi e altri riformisti sammarinesi, disse:
“Dal suddetto opuscolo e da altre pubblicazioni congeneri apprendo
che lo screzio costì è forte ed avvelenato (sia pure che acceso e ostentato da pochi scontenti) e che si discute oggi non soltanto il governo, ma
la stessa forma politica nella maniera più irriverente e scortese (…). Se
ciò avesse a continuare o ad aggravarsi, la discordia entro e la disistima
fuori non tarderebbero a spuntare e sovrasterebbe senz’altro il pericolo
(badino bene, io veggo le cose da lungi) di un intervento provocato o
meno. Devono adunque gli uni ritirarsi subito dai mali passi, ma anche
gli altri emendare pur subito quanto vi fosse di poco corretto
nell’amministrazione pubblica; e se anche cessasse l’attuale fermento,
fare a tempo buon viso ad una democrazia temperata, per non essere
poi travolti (come il resto d’Italia) da una demagogia torbida e grossolana, quale l’odierno socialismo”.
Lo stesso concetto venne ulteriormente ribadito in un’altra lettera del
15 settembre:
“Una cosa, di cui io temo e su cui richiamo la Sua maggiore attenzione
ora e poi, si è, che la classe dirigente della Repubblica, sedandosi
1
Tutti questi pareri sono in: Per una proposta di referendum nella Repubblica di San
Marino, Rimini 1903.
320
l’odierno movimento, si cullasse nella funesta illusione di non doverne
più far nulla. No: attui pure la democratica riforma, secondo che le par
meglio; ma in qualche modo l’attui, perché la questione ora impegnata
è di quelle, che, se non si risolvono a tempo e per bene, sopraffanno e
travolgono (…). E non tema essa la vita fervida e rifluente nel popolo,
giacché le stesse plebi sono (contro il generale errore) di natura loro fin
troppo conservativa (…). Basta saper fare, e anzi tutto aver fiducia in
quelle e non discostarsene e non ripudiarle e non lasciarle inviperire e
dementare da’ soliti verbivendoli: mentre del resto, s’essa non è più in
grado di assumere il patronato, molto meno sarà in grado di sostenere il
suo monopolio”.
Anche Nino Tamassia tenne una corrispondenza privata con Fattori.
La prima lettera che può essere interessante per il discorso che si sta
svolgendo è del 12 settembre, sempre del 1902, con cui Tamassia precisava che i poteri dell’arengo dovessero essere ben regolamentati affinché non superassero “quel giusto limite, al di là del quale la baraonda
democratica incomincia”. “Io sono liberale sì, ma anche conservatore in
regno ed in repubblica. Nel caso di maggiori aggravi fiscali, di riforme
civili (per es. matrimonio civile, divorzio, ricerca della paternità),
l’Arringo può dare il suo voto. E così dicasi nel caso di riforme amministrative; ma mi guarderei bene di proporre che le riforme costituzionali siano affidate alla piazza! San Marino resiste e resisterà così com’è,
se no avrà la sorte di tanti altri Stati rosi dalla mania oclocratica. Su ciò
è bene essere espliciti (…). La Reggenza nella sua saviezza deve pensare
all’avvenire della Repubblica. Pensare, dico, che certe forme reggono
come sono, alterate si dissolvono! Che se il partito conservatore per ora
credesse (e sarebbe il meglio) di studiare più pacatamente la cosa, prima
di fare un passo o un salto nel buio, io ne sarei lieto”.
In un’altra lettera del 18 settembre Tamassia disse che comunque
l’arengo sarebbe stato utile a San Marino, pur con poteri limitati, come
“sfiatatore a certe velleità che salgono anche sulle vostre rupi”.
“La cosa principale è ora questa, rendere intangibile la costituzione, anche aggiungendo l’arringo limitato (…). Che se davvero tutto il nostro
buon popolo lascia sgolare a loro posta quei tre o quattro vociferatori
di pseudo-libertà, il Governo ha la miglior prova che la riforma è così
urgente (…) e S. Marino tirerà avanti da sé senza intoppi. Grande diffi-
321
coltà è questa, caro amico, di difendere la libertà dai…liberali, a S. Marino e nel resto della patria”.1
Non solo tra i conservatori vi erano voci contrarie al referendum, ma
anche tra i riformisti. Pietro Franciosi, una delle principali menti del
movimento riformatore, disse che, per quanto apprezzasse l’intento
nobile che sottostava alla riforma, la vedeva impossibile “in un regime
chiuso, che non disponeva di mandanti e di mandatari”; “prima di mettere in atto sì potente Istituto esser d’uopo ricostituire fra noi una forma di Governo rappresentativo con definito mandato pei governanti da
parte dei governati, perché il Referendum esige una via d’uscita in caso
di ripetute rejezioni, e non può affatto applicarsi ad un Governo che
non conosce la sovranità popolare”.2
Prima si doveva ottenere il suffragio universale, poi si poteva pensare
ad istituire il referendum: questa in sintesi l’opinione di parecchi riformisti, soprattutto di indole socialista, che già da anni stavano spingendo
per rendere elettivo il Consiglio tramite periodiche votazioni, prima
riforma che si agognava e pretendeva.
Dopo aver raccolto tutti i pareri, la questione tornò in Consiglio per
una decisione ufficiale: nella seduta dell’otto novembre 1902 il parlamento sammarinese per 29 voti contrari e solo 5 favorevoli respinse la
petizione a favore del referendum, e con essa qualunque velleità riformista espressa dai sammarinesi e dai giuristi consultati. Il motivo fu che
San Marino non aveva bisogno di istituire il referendum perché disponeva già dell’arengo che poteva essere utilizzato con tale veste.
Il responso del Consiglio provocò grande delusione tra i riformisti, ma
nello stesso tempo inculcò nei loro animi una rabbia nuova e più convinta contro i governanti, visti come uomini congelati in logiche obsolete, più interessati al mantenimento dei loro privilegi che non
all’evoluzione politica e sociale del paese. Nei primi mesi del 1903 questa nuova rabbia indusse i riformisti delle diverse tendenze ad incontrarsi per trovare una strategia comune con cui muoversi. Nacque così
l’Associazione Democratica Sammarinese che il 15 marzo divulgò un
1
O. Fattori, Le memorie di un pover’uomo, manoscritto inedito in possesso dei discendenti.
2
P. Franciosi, A proposito di referendum nella R.S.M., 1903
322
suo fin troppo corposo programma in cui erano previste numerose riforme, ovvero:
1. Sovranità popolare. Restaurazione dell’arengo. Applicazione del referendum. Elezioni periodiche dei consiglieri.
2. Democratizzazione dello Stato. Soppressione dei ceti. Separazione
dello Stato dalla Chiesa.
3. Abolizione della vendita delle onorificenze.
4. Riordinamento dell’amministrazione dello Stato e amministrazioni
affini. Istituzione di pubblici controlli. Ufficio tecnico. Organico e
cassa pensioni per gli impiegati.
5. Consolidamento del bilancio dello Stato. Economie. Imposta unica
e progressiva. Conversione in favore dello Stato dei beni degli Enti
morali ecclesiastici. Istruzione obbligatoria fino alla 3a elementare.
Istituzione di scuole popolari, di patronati e refezioni scolastiche.
6. Concessione dei lavori pubblici ad associazioni cooperative operaie.
7. Riforma della legislazione civile e penale in quelle parti che più non
si adattano alle necessità giuridiche del paese e riordinamento
dell’amministrazione della giustizia.
8. Trasformazione della pubblica beneficenza, rendendola più rispondente alla solidarietà e dignità umana. Istituzione di asili per orfani
e per fanciulli abbandonati.
9. Sviluppo della pubblica igiene.
Pur nell’ottica di una conservazione del passato, dunque, per non sconvolgere tutto il sistema istituzionale sammarinese e impaurire troppo la
gente, l’Associazione Democratica al punto 1 del suo programma aveva
collocato le riforme che per lei erano minime ed indispensabili per fornire al paese una fisionomia istituzionale più consona ai tempi.
Il 1° aprile per divulgare le sue idee l’Associazione pubblicò il primo
numero de “Il Titano”, un periodico che sarà molto importante come
veicolo di comunicazione con i sammarinesi. Il 5 dello stesso mese
l’Associazione inoltrò una petizione al Consiglio affinché si convocasse
un arengo per mettere mano alla questione finanziaria del paese, ovvero
al problema dei nuovi tributi che si volevano imporre con la riforma
fiscale in cantiere, e alla questione politica.
L’arengo che veniva richiesto era un’assemblea deliberante dove esaminare le questioni all’ordine del giorno non attraverso un semplice sì o
323
no, cioè come un referendum, ma con la sua logica antica di assemblea
somma del paese in cui discutere i problemi in maniera dialettica. “Si
restituisca dunque al popolo la sua antica podestà sovrana e sia dai Signori Capitani Reggenti convocato l’Arringo Generale, perché ivi i capi di famiglia provvedano, come stimeranno più conveniente alle difficoltà presenti e ad un assetto migliore della cosa pubblica”.
La proposta Franciosi
L’istanza fu discussa e respinta con la motivazione che solo all’arengo
spettasse la facoltà di accantonare il Consiglio e di sostituirsi ad esso.
Ovviamente se l’arengo non veniva convocato, era un pericolo che non
si sarebbe mai corso.
Negli anni successivi accaddero altri fatti, scandali e polemiche che fecero aumentare il malcontento verso il governo in carica, e l’adesione
popolare alla causa riformista. Agli inizi del 1905 Pietro Franciosi puntualizzò la posizione riformista all’interno di un suo saggio in cui sottolineava la necessità da parte riformista di impegnarsi “con la speranza di
ridar vita, in un giorno non lontano, ad un popolo che si formò con la
libertà e che poscia rimase indietro nel volgere dei secoli. Oltre la nostra costituzione comunale ci stimola a ripristinare e definitivamente
conseguire una forma di governo elettivo il trionfo dei diritti
dell’uomo, quale conquista dei tempi moderni, ed il presente moto proletario che può effettuare ogni nuova organizzazione solo a mezzo della
sovranità vera imprescrivibile e inalienabile di tutti i cittadini, e non
d’una data classe né d’un limitato numero di essi”.1
L’Europa stava evolvendosi, ma a San Marino le cose erano immobilizzate perché i più erano legati ancora a schemi mentali vecchi. I riformisti d’altra parte non avevano idee chiare né unità di intenti. “Rimarrà
forza a sì minuscolo Stato di progredire malgrado l’uno ostacolo o di
non correre a precipizio per desiderio del nuovo?” Da qui il bisogno di
un arengo. “E’ dovere dello storico, di qualunque valore esso sia, rilevare i difetti d’un vecchio organismo politico, e se può, proporre il modo
per mitigarli e correggerli”. C’era stata fin lì troppa apologia storica: “Il
concetto esagerato della nostra avita libertà ci ha resi timidi e cauti
1
P. Franciosi, La restaurazione dell’Arengo nella Repubblica di San Marino, estratto da
La Romagna, anno II, fascicoli 2 e 3, Jesi 1905.
324
all’eccesso, togliendoci fuori da molti luoghi d’azione, nei quali il governo chiuso ha accampato i suoi diritti”.
Il programma da perseguire era:
1. rispetto geloso alle libertà costituzionali esistenti;
2. allargamento della vita politica nel popolo perché finisca d’essere
l’inconscio pupillo;
3. rimaneggiamento ed aumento prudente delle nostre imposte fondato sulla progressione moderna e sulla limitazione delle spese;
4. sviluppo d’educazione popolare nel più largo senso della parola.
“Buona politica è quella soltanto che s’inspira alle leggi d’un giusto equilibrio fra gl’interessi delle varie classi opportunamente interpretati,
quella che sinceramente cerca e può raggiungere il bene pubblico”.
I problemi sammarinesi potevano risolversi attraverso “l’arengo rimesso nella totale sua funzione” che avrebbe fornito “stabilità e moto, conservazione e progresso, unità e varietà, autorità e libertà, centralità e
diffusione”, ed avrebbe implicato “capitale e lavoro, plebe e popolo colto, città e campagna, azione concentrica ed eccentrica, giure comune e
giure privato e via dicendo”.
L’arengo che Franciosi ipotizzava poteva essere un’ “Assemblea nazionale” da adunarsi con le formalità del passato. “Con l’intervento del
popolo sovrano si legalizza tutto e si effettua tutto senza paura e senza
ambage. Non solo il problema della libertà, ma quelli della finanza,
dell’istruzione, dei rapporti fra Stato e lavoro, fra Stato e chiesa, fra Stato e famiglia richiedono l’ingresso al governo attivo di una classe nuova, a base di eleggibilità e di responsabilità”. Bisognava rinnovare uomini e idee: “la potenza creatrice risiede nei popoli e non nei governi
stazionarii, e perché fu sempre dal popolo che nacquero tutti i progressi
e tutte le iniziative”. Era vero che tramite elezioni era possibile che non
tutti i migliori venissero votati, ma questo era un problema di educazione del popolo, che poteva diventare edotto solo facendosi protagonista della sua dimensione politica.
Non bisognava poi stupirsi di ritornare al passato per modernizzarsi
perché “il ritorno al passato, dopo un periodo d’involuzione, non è che
un fenomeno progressivo e perfettamente fisiologico dell’evoluzione
stessa; purché detto ritorno abbia per carattere alcune modificazioni
conformi alle conquiste dell’umanità nella sua vita secolare”.
325
Con l’arengo poteva essere instaurato un governo a democrazia diretta
e vi si poteva applicare il referendum, il diritto d’iniziativa (promuovere leggi) e il diritto di revisione (riforma della costituzione) ogni volta
che sarebbe stato necessario o voluto. Il potere esecutivo sarebbe stato
affidato a persone di fiducia scelte in parte dall’arengo e in parte dal
Consiglio per un periodo determinato scindendo i due poteri fondamentali dello Stato che erano invece uniti. “Il governo non dev’essere
se non l’amministratore secondo i voleri del popolo, ed agire quindi
conformemente a quanto il popolo stesso o i suoi rappresentanti gli indicano”. Il Consiglio doveva rinnovarsi ogni anno o due di un terzo dei
suoi componenti. Col governo a democrazia diretta si evitava il pericolo di creare una classe politica chiusa e specialistica: “La maggioranza
deciderebbe di tutto: dal mutamento della costituzione alla votazione
d’un lavoro pubblico, dall’apertura di una scuola alla introduzione
d’una nuova imposta, da un provvedimento amministrativo ad una legge di polizia”.
L’arengo avrebbe dovuto adunarsi “nel modo più semplice una volta
l’anno per delegare un terzo di Consiglieri eletti in proporzione
all’aggregato civile degli Otto Centri, perché ciascuno di essi ha diritto
(non escluso il contado che dovrà sobbarcarsi ai maggiori pesi) d’un dato numero di Consiglieri, in misura dell’aumentata popolazione, con
piena responsabilità nei medesimi del proprio operato; e seguiti ad adunarsi una volta ogni sei mesi per attivare gli altri diritti suesposti. Si
ritorni così alla costituzione classica in modo che il nostro regime, senza copiar troppo dal moderno, ridiventi un ente vasto ed eccelso, continuo e perenne, superiore agli individui e ai partiti, e si collochi in sì
cospicua e serena altezza da sembrar più divino che umano, come ai
tempi del glorioso periodo comunale. Da esso emani il Consiglio dei
LX coi poteri: legislativo ed amministrativo, ed il Congresso di stato
col potere esecutivo; e dal Consiglio dei LX venga affidato il potere
giudiziario ai tre giudici forestieri ed al Consiglio dei XII composto da
persone a modo e per bene; e siano eletti col solito costume ogni sei
mesi i due Capitani Reggenti per l’ufficio di presidenza e per prender
parte al potere esecutivo. Non si faccia più confusione di funzioni, né
unione di poteri”.
326
“Ho troppa fiducia nel vero e nel nuovo popolo sammarinese perché io
debba dubitare che il nostro piccolo Stato non sia capace di perfezione
in base all’antico e in armonia col moderno”.
“Così ho sciolto ancora una volta il debito di figlio; e se dai contemporanei non meriterò ascolto, mi sentirò abbastanza premiato di vivere
unito col pensiero alle prossime generazioni, della cui repubblica mi
son già fatto cittadino, esultando fin da questo momento della futura
felicità”.
Franciosi si curò anche di elaborare un insieme di norme per rendere
operativo l’arengo:
“Norme per la formazione di articoli aggiuntivi ai patrii Statuti”
L'Arengo, convocato secondo le antiche costumanze, dovrebbe innanzi
tutto adunarsi in seduta preparatoria per la verifica dei poteri. Prenderanno parte alla prima seduta solo quei cittadini, muniti di documento
dell' ufficio di Stato Civile, che potranno chiaramente dimostrare di essere capi di famiglia. Essi poi decideranno in maggioranza se intendessero di allargare il diritto elettorale anche agli altri cittadini maggiorenni e non interdetti.
Saranno valide le sedute d' Arengo in 1a Convocazione con la presenza
della metà più uno degli aventi diritto, e in 2a con la presenza di un
terzo dei medesimi. - L' Arengo eserciterà la prima sovranità della Repubblica con la semplice facoltà elettorale a mezzo del voto e continuerà ad esercitare i suoi diritti statutari - di petizione, d'accusa e
d’interloquire nei pubblici negozi; diritti facilmente trasformabili nel diritto d’iniziativa, nel referendum e nel diritto di revisione. - La maggioranza relativa dei voti sarà quella che regolerà le elezioni fatte con
schede contrassegnate da un sigillo dello Stato e verificate da apposita
Commissione di scrutinio. In tal modo dall' Arengo emanerà tutto intero per la prima volta il potere legislativo e l'esecutivo, e in seguito
ogni anno un terzo tanto dell'uno quanto dell'altra. Il potere giudiziario sarà pure affidato temporaneamente, ma per elezione a mezzo
membri costituenti il potere legislativo. - I tre poteri dovranno essere
separati rigorosamente nelle persone e nelle funzioni. - Il Consiglio dei
LX formerà il potere legislativo ed amministrativo ad un tempo. Esso
sarà il Parlamento e il supremo organo finanziario della Repubblica. -
327
Rinnovato per un terzo all' anno dall’Arengo, i suoi membri dovranno
avere 25 anni compiuti e, potranno essere rieletti quando decadono dalla carica. - Le sedute Consigliari saranno valide con la metà più uno dei
presenti e saranno pubbliche. - Per l' elezione dei LX Consiglieri la Repubblica sarà divisa in otto circoscrizioni territoriali (quante sono le attuali Parrocchie), ciascuna delle quali ne eleggerà un dato numero in
proporzione alla propria popolazione. Saranno esclusi a far parte del
Consiglio dei LX
a) Gli ecclesiastici e i ministri dei culti che hanno giurisdizione o cura
d' anime;
b) Coloro che coprono i primi uffici amministrativi della Repubblica;
c) Coloro che hanno liti o vertenze coll’ente governo;
d) Gli assuntori dei servizi pubblici.
Al Consiglio dei LX spetterà la nomina semestrale dei due Reggenti col
divieto triennale per una successiva elezione; il diritto di grazia; il dovere di discutere, approvando o respingendo, le varie petizioni d' interesse pubblico e privato che gli venissero presentate da qualsiasi cittadino;
la formazione dei Bilanci; l'elezione, fuori del proprio seno, d' una
Commissione detta del Bilancio per l'esecuzione dei conti preventivi;
l'esecuzione dei rapporti ufficiali e dei trattati cogli Stati esteri; l'obbligo di far rispettare la costituzione e di far mantenere l'ordine pubblico;
l'alta sorveglianza sulle opere idrauliche, sull' arginatura delle acque,
sulla manutenzione delle strade e dei boschi, sull' esercizio delle poste,
dei telegrafi e telefoni, della caccia, delle scuole, della sanità pubblica e
igiene, delle professioni liberali, del commercio, dell' industria e degli
Istituti di credito; la legislazione del lavoro; il diritto di batter moneta e
di emettere valori di banca, di adottare pesi e misure, di far fabbricare
polveri piriche, di espellere dal territorio i forastieri pericolosi per la
pace pubblica.
- Esso Consiglio poi è in obbligo, in omaggio ai diritti singolari e collettivi di ciascuno o di vari dei suoi membri, di dare sfogo o di far svolgere
interrogazioni, interpellanze ed inchieste per sorvegliare sempre più le
pubbliche amministrazioni e le funzioni dello Stato, e per vigilare sopratutto sul potere esecutivo. Col diritto d' interrogazione tenderà ad
ottenere da uno dei Reggenti notizie che chiariscano qualche dubbio o
giustifichi qualche azione del potere esecutivo; col diritto d'interpellan-
328
za sottoporrà a discussione l'operato della Reggenza e dell'intero Congresso di Stato o potere esecutivo, e provocherà un ordine del giorno
che approvi o disapprovi, il medesimo operato ; col diritto d' inchiesta
si metterà in condizioni d' assumere direttamente, a mezzo di speciale
Commissione di sua piena fiducia, quelle informazioni che riterrà opportune di ricevere per determinato obbietto; col variare del quale varieranno le maniere d' inchieste che potranno trasformarsi anche in
giudiziarie. - La Reggenza e l'intero potere esecutivo non potranno mai
opporsi o non accettare tali funzioni ispettive, e neppure dimettersi in
caso di risultati a loro sfavorevoli. Solo il Consiglio dei LX potrà dichiarare dimesso chiunque dei rappresentanti del potere esecutivo, che
per ragioni di pubblica, e privata moralità lo meritasse, e si riserberà
sempre il diritto del Sindacato a potere scaduto secondo le norme dello
Statuto.
Il potere esecutivo sarà esercitato dal Congresso di Stato, composto di
Cinque Membri di nomina dell’Arengo. Essi non potranno far parte
del Consiglio dei LX, ma godranno delle medesime prerogative dei
componenti detto Consiglio. Faranno parte del Congresso di Stato i
due Reggenti con quelle qualifiche con cui fanno parte del Consiglio
dei LX. I membri del Congresso non possono occupare nessun ufficio
od impiego di ordine amministrativo tanto nel Governo quanto negli
Istituti direttamente subalterni, né essere assuntori di appalti di lavori e
di servizi pubblici.
Il potere giudiziario sarà affidato per un tempo determinato dal Consiglio dei LX (senza che dal medesimo n’abbia a subire influenza) ad un
Giudice di Pace o Conciliatore paesano, ad un Commissario della Legge o Giudice istruttore forastiero dimorante, in Repubblica, ad un
Giudice di 1a istanza e ad un Giudice d'appello forestieri e dimoranti
anche in Italia, e infine al Consiglio dei XII, per la 3a istanza, o Cassazione, composto di cittadini probi e non facenti parte del Consiglio dei
LX né del Congresso di Stato. Detti Giudici o singoli o collettivi dovranno essere totalmente indipendenti da qualsiasi altra sovranità.
Altri principii Informatori per le nuove riforme Costituzionali saranno: libertà di stampa, di commercio e d'industria; inviolabilità della libertà di credenza e di coscienza; libertà di riunione e d’associazione; divieto d'arresto arbitrario per debiti o per altro, e di sottrazione ai giu-
329
dici naturali; istituzione dei giurì per le controversie politiche; acquisto
della cittadinanza attiva a 20 anni per tutti i non interdetti per condanne di reato comune; conferimento di cittadinanza ai forastieri di buona
condotta aventi possessi in Repubblica o quivi dimoranti da un decennio; diritto d' iniziativa con istanza firmata da tre cittadini; diritto di
revisione della Costituzione su dimanda di 200 cittadini attivi; referendum popolare su qualunque legge di natura non urgente quando sia
domandato da 100 cittadini attivi: elezione periodica per parte del Consiglio dei LX dei pubblici ufficiali ed impiegati, in modo da evitare ogni
casta burocratica, pericolo immanente in uno Stato repubblicano”.
Come si può constatare, le idee sull’arengo avevano assunto una dimensione ben precisa: esso era prevalentemente considerato come corpo elettorale della Repubblica, preposto a rinnovare per intero il Consiglio
la prima volta che si sarebbe radunato, poi per un terzo ogni anno successivo. Una sua funzione importante, secondo questa ipotesi, era quella della nomina dei cinque membri del Congresso di Stato, che doveva
assumere la funzione di organo detentore del potere esecutivo. Altre
facoltà dell’arengo erano il diritto d’iniziativa, che poteva essere promosso da istanza di tre soli cittadini, di referendum su qualunque legge,
che doveva essere richiesto da un minimo di 100 cittadini, e di revisione
della costituzione, che doveva essere domandata da un minimo di 200
cittadini.
Anche “Il Titano” volle dire la sua sull’arengo, in quanto non riteneva
che esso dovesse essere ripristinato secondo le idee dell’Ellero, ma secondo quelle di Franciosi: “Certo è che se si dovesse richiamare in vita
l’Arringo per imporgli una funzione legislativa, vale a dire radunare per
tutte le bisogne dello Stato i capi famiglia all’aperto (…) noi cadremmo
in un errore, e rinnoveremmo su larga scala gli inconvenienti che furono cagione della caduta dell’Arringo. La vita patriarcale dei nostri antichi, la semplicità delle funzioni governative, amministrative e statali
potevano anche permettere il retto e regolare funzionamento
dell’Arringo. Ma oggi che la popolazione è cresciuta e le funzioni pubbliche si sono variamente accresciute, un’assemblea di parecchie centinaia di cittadini non farebbe buona prova se si radunerebbe a stento sol
quando fosse mossa da una necessità collettiva d’interesse eccezionale”.
330
Invece l’arengo, composto da tutti i maggiorenni non interdetti e non
solo dai capifamiglia, doveva essere restaurato solo temporaneamente,
con “la funzione elettorale e i diritti di revisione, d’iniziativa, di voto
da esercitarsi a mezzo del referendum; e che dopo stabilite le basi costituzionali del governo rappresentativo, rimetta a questo le funzioni legislative”.1
Il dibattito sull’arengo divenne più fitto alla fine del 1905, perché nel
mese di settembre sette consiglieri di indole riformista si dimisero dal
Consiglio motivando il loro eclatante gesto col dire che all’interno di
un parlamento simile nessuna riforma in senso democratico avrebbe
potuto avere successo. Il 1° ottobre i consiglieri dimissionari
s’incontrarono con altri rappresentanti del riformismo sammarinese e
fondarono il “Comitato provvisorio pro – Arringo”, poi convocarono
un’assemblea pubblica per il 29 dello stesso mese in cui esaminare insieme ai cittadini il da farsi. L’assemblea ebbe notevole successo e grande partecipazione di pubblico. Terminò con un ordine del giorno in cui
si creavano due commissioni (una per studiare le modalità di convocazione dell’arengo ed una di propaganda a suo favore) e con cui
s’invitava il Consiglio a “cedere il proprio mandato convocando
l’Arringo”. L’idea emersa durante il dibattito al suo interno fu quella di
utilizzare l’arengo come corpo elettorale, ma anche con “la facoltà di
controllare gli atti di generale interesse”.2
Il 15 novembre il Comitato promotore dell’arengo si riunì “per tracciare una via netta, chiara, precisa per essere seguita sia dagli adetti (sic) alla propaganda, sia da quelli adetti allo studio, per evitare così possibili
confusioni e contradizioni (sic) dannosissime, uno essendo lo scopo una
dovendo essere l’azione”. L’ordine del giorno che ne emerse diceva: “Il
comitato pro-Arringo, ritenuto necessario di restituire al popolo
l’esercizio diretto della propria sovranità e opportuno di riaccostare la
costituzione vigente alla fonte democratica donde è sorta, ritenuto altresì che il vero sovrano della Repubblica è l’Arringo dei padri-famiglia,
e considerato la necessità di estendere i diritti a questi spettanti, anche
1
Il Titano, 29 ottobre 1905.
Oltre ai vari Titano del periodo, si veda nell’ Archivio di Stato della RSM
l’importante raccolta di documenti, Atti del Comitato pro-Arringo, Libro dei verbali
del Comitato pro-Arringo, serie Documenti privati dell’Archivio, busta 26.
2
331
ai Sammarinesi maggiorenni, giudica urgente la convocazione
dell’Arringo per statuire:
1. La nomina dei membri del Consiglio Generale;
2. La temporaneità del mandato di questi;
3. La partecipazione all’Arringo di tutti i Sammarinesi maggiorenni e
non interdetti.
Il Comitato inoltre ritiene che costituito il nuovo Consiglio Generale
pro-tempore debbono presentemente rimanere al Consiglio ed
all’Arringo le attribuzioni consuetudinarie e statutarie, le quali a suo
tempo, dopo più maturo esame, con prudenza e circospezione saranno
ravvicinate e conformate al movimento incessante della civiltà ed ai bisogni del paese.
Per la propaganda, il comitato invita quanti ne sono incaricati, di adoprarsi anche per ottenere l’assenso dei padri-famiglia ad aggregarsi in
arringo tutti i Sammarinesi maggiorenni: per lo studio opina, doversi i
commissari nominati, attenere alle linee generali approvate in questo
ordine del giorno”.
Il 16 novembre il Consiglio decise di concedere l’arengo convocandolo
in tempi brevi, ma non specificati, “secondo le norme statutarie”. La
convocazione era vaga e frutto delle forti pressioni a cui era sottoposto
il parlamento sammarinese in quei mesi, ma lasciava aperte tutte le ipotesi sul modo di tenere l’assemblea dei capifamiglia. Prevaleva tra i consiglieri conservatori la logica di dover mutare il minimo indispensabile,
sempre per non far perire la Repubblica, e di creare un’assemblea non
allargata ai maggiorenni, perché lo statuto non lo prevedeva, e non lasciata nella piena libertà di esprimere tutto ciò che avrebbe potuto e voluto.
Il consigliere Michetti, per fare un esempio, disse che San Marino doveva mantenersi fedele alla sua tradizione politica, altrimenti avrebbe
perso “col suo carattere storico, anche il diritto di essere”. “L’esercizio
della sovranità popolare abbia un ambito limitato; che in altre parole, il
consiglierato funzioni a vita e che il popolo possa solo nominare i consiglieri quando qualche posto o per morte o per altro venga a rendersi
vacante”.
Domenico Gozi sostenne che l’arengo doveva essere convocato solo
dopo averlo ben regolamentato, ovviamente per evitare che le cose po-
332
tessero sfuggire di mano a chi lo gestiva, e dopo aver espresso un voto
di fiducia sul Consiglio, “mancando il quale lo stesso Arringo provvederà secondo il proprio desiderio all’elezione dei consiglieri”.
I naturali timori dei politici sammarinesi continuavano poi ad essere
fortemente alimentati anche dai consulenti di cui San Marino si avvaleva. Il 19 novembre Onofrio Fattori, in compagnia del presidente della
locale commissione di bilancio Marino Borbiconi, andò a Roma per reperire un prestito di 200.000 lire con cui chiudere il buco di bilancio e
tentar di sedare le velenose proteste che facevano leva proprio sul disavanzo che lo Stato sammarinese in quel momento aveva, e sulle nuove
tasse che si volevano applicare per pareggiare i conti pubblici. Nella capitale i due ambasciatori sammarinesi incontrarono vari politici italiani, tra cui il ministro di grazia e giustizia Finocchiaro, il ministro degli
esteri Fittoni, il ministro del tesoro Carcano ed altri ancora, che si raccomandarono di usare estrema e timorosa prudenza nella convocazione
dell’arengo, e di “andare ben cauti nel mandarlo ad effetto, a non scherzar con fuoco”, anche se la sua convocazione era stata un atto necessario ed intelligente.
A Roma incontrarono anche Gustavo Babboni, giovane avvocato
sammarinese, riformista moderato eletto presidente del Comitato proarengo, che concordò sulla improrogabile necessità dell’arengo, da utilizzare però con circospezione e grande cautela. Il timore di questi signori era legato al fatto che i riformisti più radicali, soprattutto i socialisti, volevano riforme molto profonde dello Stato sammarinese, mentre gli altri, conservatori e riformisti moderati, o non le volevano affatto, o desideravano riforme molto blande ed in linea con la tradizione
costituzionale di sempre. Babboni, insieme al suo amico Moro Morri,
segretario del Comitato pro-arengo, apparteneva a quest’ultima tendenza.
Lavorando egli a Roma in questo periodo, l’11 novembre inviò a San
Marino il progetto di legge elettorale da lui elaborato, con le sue osservazioni da cui traspare netto il desiderio di non sconvolgere più di tanto l’esistente: “Ogni rinnovamento politico ed amministrativo deve avere la sua ragion d’essere nei costumi e nelle consuetudini del Paese
ove viene introdotto: e così è specialmente per la Repubblica dove nulla
333
devesi tentare che non sia voluta dalla maggioranza dei cittadini”, scrisse.
Babboni in definitiva era per rinnovare la costituzione, ma lungo il solco della tradizione, riavvicinandola “alla sua fonte democratica, purgandola dalle forme aristocratiche, natural prodotto dei tempi passati”,
ma niente più. “Alcuni istituti del nostro regime politico ed amministrativo sono così addentrati nelle abitudini dei Sammarinesi, che volerli oggi d’un tratto sopprimere, o radicalmente trasformare, sarebbe arduo compito, non solo, ma forse anche improvvido consiglio, perché
radicali mutamenti non sono voluti dai nostri concittadini diffidenti di
ogni cosa nuova, perché in quest’ora di dissolvimento e di ricostruzione, è migliore partito attenersi alle forme piane e comprese dai più, abbandonando ogni esagerazione di istituti democratici”. “Noi dobbiamo
attendere sopra tutto a ricostruire gli istituti nostri fondamentali, non
dimenticando mai, anche nell’accettare l’esempio delle nuove legislazioni, la nostra storia ed i nostri costumi”.
Il riferimento era legato probabilmente al fatto che i riformisti più radicali avevano ipotizzato anche di abolire l’istituto della Reggenza per
sostituirlo con un Presidente della Repubblica.
Babboni era dell’avviso che occorresse ripristinare l’arengo soprattutto
come corpo elettorale ed eventualmente utilizzarlo all’occorrenza anche come referendum facoltativo a cui sottoporre le leggi contestate o
comunque bisognose di un avallo del popolo.
Sempre nello stesso mese fu divulgato un volantino del Comitato proarengo in cui si esponevano i punti di vista sull’arengo da parte dei riformisti:
“Egregio Cittadino, Vi si avverte che la propaganda a favore
dell’Arringo, secondo le disposizioni del Comitato, deve avere solamente per iscopo di convincere i capi-famiglia:
1. di accorrere numerosi all’Arringo quando verranno chiamati;
2. di dichiarare, nell’Arringo, decaduto l’attuale Consiglio dei LX;
3. di nominare i Membri del nuovo Consiglio non a vita ma a tempo
determinato;
4. di permettere che all’elezione dei Consiglieri prendano parte anche
tutti i Sammarinesi maggiorenni non interdetti;
5. di volere pubbliche le sedute consigliari.
334
6. Si prega inoltre di assicurare i dubbiosi che al nuovo Consiglio rimarranno quelle attribuzioni consuetudinarie e statutarie tuttora
vigenti”.
Come si può constatare direttamente, i riformisti al momento della stesura di questo documento stavano pensando ad un arengo ben preciso,
quello cioè del passato in cui la gente si riuniva e prendeva all’istante
certe decisioni. In realtà l’arengo che si svolgerà sarà un’altra cosa,
un’assemblea con facoltà molto più limitate e circoscritte rispetto a
quelle sognate dal Comitato pro-arengo.
La Commissione organizzativa dell’Arengo
Nel mese di dicembre del 1905 il Consiglio nominò una commissione
di cinque membri (Gustavo Babboni, Luigi Tonnini, Menetto Bonelli,
Giovanni Belluzzi, Marino Borbiconi), di cui i primi tre appartenenti
all’ala riformista moderata del Comitato pro-arengo, e già impegnati
nella commissione di studio del Comitato stesso che doveva redigere il
regolamento dell’arengo.
Proprio questa commissione presentò al pubblico il suo progetto il 31
dicembre, dopo averci lavorato per circa un paio di mesi. In tale bozza,
che era più una legge elettorale che un regolamento per l’assemblea dei
capifamiglia, l’arengo veniva considerato il corpo elettorale della Repubblica, composto da tutti i cittadini maggiorenni non interdetti, preposto al rinnovo quinquennale del Consiglio. S’ipotizzava inoltre che
potesse essere utilizzato come referendum facoltativo. Seguivano altri
articoli sulla formazione delle liste elettorali, le condizioni per essere
elettori, le circoscrizioni elettorali, i procedimenti e la verifica delle elezioni, le condizioni di eleggibilità.
Il fatto che la commissione voluta dal governo fosse composta in maggioranza da membri del Comitato pro-arengo entusiasmò Franciosi
che, all’interno di un suo articolo del 30 dicembre pubblicato sul Titano, disse: “La democrazia può essere sicura del trionfo e il suo programma (…) potrà essere accettato in tutta la sua interezza. Noi ne godiamo di questa specie di conciliazione perché appagherà in fine i giusti
desideri della maggioranza e perché arrecherà al paese quella pace che
tanto vagheggiamo (…). Il progetto, che verrà quanto prima alla luce,
335
sarà basato per certo sui costumi e sulle consuetudini del Paese in modo
che sia inteso ed approvato da più dei Cittadini (…). Poiché se la Repubblica nostra trovò nei passati tempi di libertà e di servitù italiana
forme di adattamento, mantenne sempre carattere suo proprio. Oggi,
più che cambiare la sua costituzione, vuole riavvicinarla alla fonte democratica, purgandola d’ogni forma aristocratica, naturale prodotto dei
tempi funesti. Ond’è che alle nuove istituzioni deve precedere la ricerca
di addentellati nei fatti e nei costumi, in modo che nulla si operi che
non sia in armonica continuazione col nostro libero vivere. Adunque le
riforme non debbono essere introdotte per desiderio di novità, ma per
necessità morale ed economica, in modo che il regime pubblico tragga
forza dalla fiducia dei cittadini per amministrare e per ricondurre a miglior vita la Repubblica”.
In realtà l’allegria e l’entusiasmo di Franciosi si tramuteranno presto in
rabbia e delusione quando sarà reso noto il progetto della commissione
governativa, molto più limitativo dei poteri dell’arengo di quanto sperato dai riformisti.
La commissione governativa nominata per la redazione del regolamento aveva “ampia facoltà d’interpellare in proposito ad istruzione del
proprio animo i nostri Consultori, e cioè il Senatore Gaspare Finali, il
Senatore Pietro Ellero, il Senatore Vittorio Scialoja, l’On. Luigi Luzzatti ed il nostro Giudice di 1° grado Comm.re Enrico Kambo”. La
Reggenza era preposta alla convocazione e direzione della stessa; la
commissione doveva presentare le sue risultanze entro il mese di febbraio.
Essa si riunì per la prima volta il 7 gennaio 1906; in tale occasione, dopo che la Reggenza ebbe richiamato l’attenzione “sull’altezza e gravità
del mandato a Lei affidato, dalla savia e prudente risoluzione del quale
dovrà forse dipendere l’incolumità della patria nostra da sedici secoli
indipendente e libera”, provvide a nominare un suo segretario nella figura del giovane avvocato Gustavo Babboni e a sbrigare qualche altra
faccenda di natura organizzativa, poi tornò a riunirsi il 10 dello stesso
mese.1
1
Tutte queste informazioni sono desunte da : Archivio di Stato della RSM, Atti del
Consiglio Principe, volume n. 49, 14/10/1905 – 12/10/1907, in cui sono stati dettagliatamente trascritti verbali e documenti relativi all’organizzazione dell’arengo.
336
In questa seconda seduta la discussione divenne più tecnica: prese infatti
subito la parola Babboni per dire che la Repubblica era giunta ad un
bivio e che era necessario attuare precise riforme di natura istituzionale
per mettere il paese al passo coi tempi, pur nella salvaguardia dei costumi e delle consuetudini sammarinesi. Per questo il Consiglio doveva
essere “il prodotto della volontà del popolo, effetto ed espressione suprema di diritto”. Proseguendo, egli venne a sottolineare che l’Arengo
aveva “la suprema potestà ed imperio” su San Marino, anche se era ancora tutto da definire il modo in cui in futuro avrebbe esplicato il suo
potere; e che il Consiglio doveva emanare dall’Arengo dopo che si erano stabilite le modalità e i tempi dell’elezione, e dopo che erano state
fatte la legge elettorale ed un regolamento per lo svolgimento
dell’Arengo stesso. Infine Babboni sollecitava che l’Arengo non venisse
più accantonato come era successo per tanti secoli, ma che rimanesse
l’organo supremo della Repubblica con le funzioni di referendum facoltativo “forma intermedia fra il Governo rappresentativo ed il Governo popolare diretto”; “e questo istituto propongo convinto che nella
Repubblica siano due poteri ineguali, di cui l’uno non possa compiere
ogni atto valido senza l’autorizzazione tacita ed espressa dell’altro, perché penso che alle deliberazioni Statutive del Consiglio debba in qualche modo seguire la ratifica dell’Arengo Generale”.
Dopo queste precisazioni del giovane giurista, la commissione intraprese una lunga ed articolata discussione in merito ad altri aspetti. In particolare si perse molto tempo (tutta la seduta dell’11 gennaio e parte di
quella convocata tre giorni dopo) sul problema del rinnovo del Consiglio da parte dell’arengo. Infatti la questione era spinosa: alcuni commissari, ovviamente quelli di indole più riformista, erano dell’avviso
che, una volta convocato l’arengo, il Consiglio fosse automaticamente
dimissionario e sciolto, quindi da rinnovarsi per forza di cose
dall’arengo stesso; “di fronte all’Arringo cessa il Consiglio Generale,
non potendosi avere contemporaneamente due sovrani; spetta
all’Arringo rinnovare il Consiglio, e dire come vuole rinnovarlo”, affermò l’avvocato Tonnini.
Invece quelli meno bramosi di modificare le secolari consuetudini istituzionali non erano dello stesso parere: “Il Consiglio – dichiarò
l’avvocato Belluzzi – ha preso una decisione savia col deliberare la con-
337
vocazione dell’Arringo, ma non ha con ciò dichiarato la propria incapacità. Il criterio che ha guidato il Consiglio nel convocare l’Arringo si
è quello di togliere ogni dubbio che gli attuali Consiglieri volessero
mantenersi – contrariamente alle correnti che si sono manifestate – in
corpo amministrativo e legislativo della Repubblica, e quindi per non
apparire tale nella sua saviezza e nella sua maggioranza assoluta ha voluto far conoscere che dai legittimi mandanti aspetta il giudizio
sull’operato suo. Il Consiglio Sovrano nel fare questo atto solenne non
ha mai implicitamente fatto conoscere che non si trova in grado di continuare nell’esercizio delle sue funzioni, anzi ha mostrato di avere
l’intima coscienza e persuasione di avere sempre bene e con coscienza
agito nell’interesse della Repubblica”.
Tutti presero parte alla discussione schierandosi per l’un parere o per
l’altro, ma alla fine si decise di soprassedere e di rimandare l’eventuale
soluzione ad altro momento per non perdere troppo tempo, visto che
ancora c’era tanto di cui discutere. La seconda parte della seduta del 14
gennaio fu quindi dedicata ad altre decisioni soprattutto di natura tecnica, tra cui la richiesta di abolizione dei ceti (nobile, della Terra e del
contado), che venne respinta perché si optò di rimanere fedeli allo statuto, sui quesiti da votare (si stabilì che potessero essere solo quelli proposti dal Consiglio), su chi potesse prendere la parola durante l’arengo
(si dispose che potessero essere solo tre a favore e tre contro). La decisione più importante fu senz’altro quella riservata al referendum facoltativo, su cui venne stabilito che potesse essere richiesto “dalla terza
parte almeno degli aventi diritto distribuiti proporzionalmente per tutte le parrocchie. Ciò verificandosi, e non adunandosi l’Arringo, la deliberazione presa o il disegno di legge fatto, diventerà senz’altro legge esecutiva. Se invece la deliberazione, o disegno di legge viene respinto,
allora si avrà la revoca; ma non per questo il Consiglio avrà la facoltà di
dimettersi”.
La commissione si ritrovò un’altra volta il giorno 18 per discutere la
bozza di legge elettorale scaturita dal Comitato pro-arengo, che fu presentata da Babboni, ed apportarvi alcune modifiche, poi si riunì di
nuovo il giorno successivo per esaminare il regolamento per la convocazione dell’arengo presentato dal Reggente Fattori: anche questo subì
qualche lieve modifica. La seduta si chiuse con la deliberazione di invia-
338
re a Roma Babboni, Belluzzi e Tonnini per interpellare i senatori Finali
ed Ellero su tutta la faccenda e su quanto la commissione aveva ipotizzato e prodotto.
L’Arengo mutilato
L’8 febbraio i tre avvocati sammarinesi s’incontrarono a Roma con i
due senatori. Prese subito la parola Ellero che si dimostrò apertamente
contrario al Consiglio nominato tramite suffragio: “E’ veramente necessario l’apportare queste riforme? Si deve fare il Consiglio Elettivo?
Dico che non posso ripromettermi alcun bene dal Consiglio Elettivo.
Premetto che un Consiglio elettivo è un naturale corollario della Sovranità popolare, ma qualunque principio astratto se non ha le condizioni per essere tradotto in vita, è inutile accarezzare. Vediamo: il Consiglio Elettivo di S. Marino non sarebbe che un Consiglio Comunale
d’Italia. Ora di questi Consigli Comunali Italiani nessuno va bene, perché questo è subordinato ad una famiglia, quello ad un partito, l’altro
ad una consorteria. Questi Consigli Comunali Italiani alle volte si
sciolgono e subentrano allora i Commissari Regi. In tali congiunture
che avverrebbe a S. Marino? (…) A S. Marino non vi sono superiori al
Consiglio, non vi può essere ricorso ad altre autorità, manca insomma
a S. Marino l’assieme della tutela dei Comuni d’Italia”.
In sintesi Ellero venne a sostenere che il sistema monocamerale che caratterizzava la Repubblica era un pericolo per la stabilità politica della
stessa, soprattutto se il Consiglio fosse divenuto elettivo. Inoltre egli
aggiunse che non era del tutto convinto che la democrazia pura a base
di elezioni periodiche fosse ancora il miglior sistema politico, così come
sottolineò che, a suo giudizio, la nobiltà non avesse terminata la sua
funzione storica, e che potesse trovare punti d’incontro e conciliazione
con la democrazia. Infatti molti Stati ancora, come Inghilterra, Austria,
Giappone, avevano ai loro vertici organi politici composti da aristocratici ed istituzionalmente funzionavano bene. Ellero, quindi, consigliava
di lasciare il Consiglio nominato per cooptazione, e di conservargli il
potere legislativo, ma di ripristinare l’arengo con funzioni esecutive,
così come già aveva suggerito col suo parere del 1902. In altre parole il
Consiglio doveva preparare le leggi, che in seguito dovevano essere approvate dall’arengo con un semplice sì o no.
339
A questo punto intervenne brevemente Gaspare Finali per sostenere
che “l’Arringo non dev’essere un potere costituente, ma un potere organico permanente”.
Dopo simili discussioni, si giunse a parlare dell’abolizione dei ceti. Ellero si dimostrò contrario a simile novità sostenendo che i cittadini più
meritevoli della Repubblica dovessero continuare a far parte di un ceto
elitario, anche se gli statuti secenteschi non prevedevano alcuna distinzione tra cittadini, ma la consuetudine avesse gradualmente introdotto
simile novità. “Del resto i Sammarinesi devono essere convinti che la
ragione principale che sostiene S. Marino non è solo la pochezza del
territorio ecc. ma l’esser ella una reliquia storica”, e che la particolare
forma costituzionale che la caratterizzava era la vera “causa di vita” dello Stato sammarinese.
Anche Finali parlò in seguito per sentenziare che “Sammarino col suffragio universale che ha veduto richiesto con iscrizioni sui muri, sarebbe morto”.
Ellero poi aggiunse: “Bisogna persuadere i Conservatori che contro la
corrente democratica non si resiste, non bisogna attraversarla, ma dirigerla e saperla dirigere. Che felicità sarebbe a S. Marino se codesto paese potesse dare all’Italia l’esempio di un governo diretto di popolo che
solo però dovrebbe stare ad approvare le leggi”.
Entrambi i giuristi conclusero la loro chiacchierata col dire che “il
Consiglio elettivo sarebbe letale alla Repubblica perché porterebbe con
sé le minoranze, le maggioranze, i voti di fiducia, le fazioni interne che
succedono al potere ecc. Sono tutte cose gravissime anzi fatalissime”.
Ellero poi disse che il Consiglio ormai si era fatto sfuggire la situazione
di mano provocando gravi pericoli per la sopravvivenza della Repubblica. Se l’arengo fosse stato convocato prima sarebbe stato molto meglio: “Chiamato l’Arringo coi soli padri di famiglia e che con due terzi
votanti e che con la metà più uno si potesse dir valido difficilmente
queste proporzioni si potranno ottenere, e i conservatori hanno fondamento su questo non intervento. Non è possibile che si possa continuare la vita della Repubblica con quel vilipendio; pare ai liberali che si
sia in uno stato grande, ma non si accorgono che si scherza da loro col
foco. Questi che vanno avanti con queste andate demagogiche sono riluttanti ai sacrifici per mantenere la Repubblica. Dai contrari si dice
340
che sono pochi, ma i pochi lavorano e i molti lasciano operare e quindi
sono sopraffatti”.
Con simili gravi sentenze si chiuse l’incontro dell’8 febbraio, ma due
giorni dopo gli avvocati sammarinesi si ritrovarono ancora con i due
consulenti. Finali affermò subito che la legge elettorale faceva venire
meno il governo sammarinese: “Si fa tabula rasa del passato. S. Marino
diventa come un Comune d’Italia. Pensateci”. Ellero sostenne lo stesso
concetto dicendo che la Reggenza ormai si era impegnata a convocare
l’arengo, ma non capiva “come non si debbano lassù persuadere che il
Consiglio elettivo sarebbe micidiale”; “la formazione dei Reggenti è
frutto dell’esperienza, frutto di secoli. Il Consiglio elettivo non seguirebbe più quella procedura: farebbe una costituzione tutto nuova. Perché abbandonare quella costituzione?”
Dopo tali parole, i consulenti sammarinesi diedero alcuni consigli di
natura tecnica sul regolamento del convocando arengo e sulla legge elettorale. Gli argomenti principali furono il diritto o meno di partecipare all’arengo come spettatori di chi non era capo famiglia,
l’incompletezza della convocazione in base alle forme statutarie, perché
non era specificato lo scopo preciso per cui l’assemblea dei capifamiglia
doveva tornare a riunirsi, la mancata indicazione di chi dovesse tradurre in legge i deliberati dell’arengo (Consiglio o Reggenza), il dubbio su
chi avesse il diritto di votare in eventuali elezioni politiche. Riguardo a
quest’ultimo punto Ellero era convinto che San Marino non dovesse
rischiare “una discontinuità nel Governo”, ovvero che il Consiglio dovesse rinnovarsi solo in parte periodicamente (suggeriva un terzo ogni
due anni), e non in toto ogni quinquennio come previsto dalla bozza di
legge elettorale che gli avevano sottoposto. Finali disse “Ispiratevi al
principio di conservazione di quello Stato, che ha il suo fondamento
nella storia e nella costituzione. Siate persuasi di fare dei sacrifici per
mettervi in condizioni per vivere, altrimenti non camminerete. Tanto
più tarderete a provvedere ai bisogni vostri finanziari e morali, tanto
più sarà difficile la soluzione. Dieci anni fa tutto sarebbe stato più facile”.
L’Ellero in seguito affrontò il problema dei quesiti da sottoporre
all’arengo fornendo alcuni suggerimenti, e sostenendo che occorreva
giungere all’assemblea con domande chiare. Era comunque convinto
341
che Reggenza e Consiglio si sarebbero potuti salvare solo se l’arengo
fosse andato deserto. Dopo, però, qualche concessione ai riformisti sarebbe stata indispensabile. “L’errore dei riformatori è ideale. Sono stati
sedotti dal Consiglio elettivo. Quello dei conservatori è morale, perché
ci tengono al potere. Questi dovrebbero accettare la restaurazione
dell’Arringo; quelli il Consiglio come è. Il Consiglio non sarà più sovrano, ma principe. Sovrano l’arringo”. “S. Marino ha vissuto e vive
per la sua stabilità e tradizione”.
Il 12 febbraio Ellero inviò per iscritto il suo parere al Reggente Onofrio
Fattori, ribadendo le sue opinioni, ovvero che
1. il Consiglio dovesse essere mantenuto “nel suo presente modo di
formazione e con tutte le sue attuali attribuzioni, fra cui quella di
compilar le leggi, ma esclusa soltanto quella di approvarle”;
2. l’ arengo dovesse essere ripristinato “con atto spontaneo del Consiglio Principe, e quale organo ordinario e perenne della costituzione” con funzione esecutiva, ovvero per “la pura e semplice approvazione delle leggi e degli altri atti equiparabili, in compendio e
senza emendamenti”.
Tuttavia aveva visto dai progetti presentatigli che le cose avevano preso
un’altra piega in quanto la volontà del momento da parte dei sammarinesi era quello di convocare un arengo “straordinario ed estemporaneo”
per passare dal Consiglio nominato per cooptazione a quello elettivo.
Egli si dichiarava in disaccordo con questa impostazione per i motivi
espressi a voce ai delegati sammarinesi con cui aveva parlato, comunque
forniva ugualmente le indicazioni di natura tecnica sui due progetti di
cui si è detto, come gli era stato richiesto.
“Tolgano subito i conservatori con austera coscienza gli abusi o gli errori, che fossero penetrati nella pubblica amministrazione; accettino
volenterosi e senza altri indugi i nuovi oneri, che occorrono per porre
in assetto l’erario, persuadendosi, che in qualsiasi altra specie di Stato o
di Reggimento soggiacerebbero a ben maggiori gravezze; si propongano
ognora di non governare altrimenti, che in nome o pel bene e col consenso del popolo, e non perdano più tempo a provvederne, temendo il
severo giudizio de’ posteri, se mai lasciassero costì estinguersi un ultimo raggio di antica italica virtù.
342
I novatori d’altro canto, nel loro giusto e sacrosanto anelito di più larghe libertà, si convincano esser d’uopo di una somma prudenza e di
movere un passo alla volta, per non porre in pericolo la incolumità dello Stato; che la ragione precipua della sopravvivenza di San Marino a
tanta rovina è l’esser esso (piaccia o non piaccia a loro) una reliquia storica, cui tutti gl’italiani rispettano e onorano; che la concordia è imprescindibile condizione di salvezza; e che è un comune interesse il custodire la fama, il decoro e il prestigio alle proprie magistrature, poiché
contro un assiduo vilipendio niuna autorità può reggersi”.
Anche Finali inviò uno scritto alla Reggenza, datato 11 febbraio, in cui
si rimetteva a quanto detto verbalmente nei due incontri avuti con i delegati sammarinesi.
Altro parere fu quello spedito da Nino Tamassia, molto articolato perché non aveva avuto colloqui diretti con i tre avvocati di San Marino,
ma anche molto catastrofico e allarmante. Dapprima egli consigliò di
consultare un valido costituzionalista su un argomento tanto delicato,
suggerendo il nome di Gaetano Mosca, professore di diritto costituzionale a Torino. Poi disse di “approvare incondizionatamente il progetto
di convocazione dell’Arringo”: “Davanti alla storia è necessario che i
Reggenti, dichiarate le condizioni anormali dello spirito pubblico, con
un atto solenne in cui (…) mettono bene in chiaro che essi si rivolgono
al popolo della Repubblica perché la responsabilità dei mutamenti della
costituzione, e le conseguenze di questi, cada tutta sulla volontà popolare”, dopo aver evidenziato che il Consiglio nominato per cooptazione
aveva saputo conservare lo Stato fin lì. Se la maggioranza dei capifamiglia fosse rimasta fedele al sistema statutario il governo ne avrebbe tratto rafforzamento. Se invece avesse votato per riformare il sistema costituzionale, occorreva andarci coi piedi di piombo e presentare un progetto elettorale molto restrittivo, con funzioni molto ridotte per
l’arengo. “Il sistema elettivo, ammesso in tutto l’organismo dello Stato,
è pur esso gravido di pericoli. La piccolezza dello Stato, la confusione
fra l’autorità amministrativa e quella costituzionalmente “sovrana”, i
conflitti fra i partiti, non affievoliti da un ambiente largo, sono punti
neri, nerissimi, che mi fanno una grande paura. Pensate ai disordini
possibili, all’impossibilità di repressioni, e giudicate!”. “Rude sembrerò,
ma davanti al pericolo di uno sfacelo, la Reggenza deve far tutto perché
343
nulla rimanga d’intentato per salvare lo Stato. Vero è che nessuno si
sogna di turbare dal di fuori il Titano. Ma se gravi disordini scoppiassero, come si farebbe ad impedire un intervento che sarebbe pur santo,
diretto a far cessare lotte interne?”. “Il punto fondamentale è disciplinare l’Arringo, ridurlo ad organo di conservazione della Repubblica, con
una modica partecipazione al Governo, lasciando sussistere nella sua
integrità il modo di costituzione e di funzionamento del Consiglio dei
LX”, perché la Repubblica “dalle convulsioni elettorali sarebbe ben
presto finita”.
Il Consiglio doveva quindi continuare a ritenersi “l’unico e legittimo
depositario della sovranità nazionale”, con diritto di interpellare
l’arengo su questioni che lo interessavano, ma mantenendo sempre la
sua autorità e la sua fisionomia statutaria, anche perché per molti la necessità di radunarsi nell’arengo non era un’esigenza sentita. “Ergo, il
bando della convocazione dell’Arringo deve essere come un dilemma
che lascerà o intatta o rinforzata l’autorità del Consiglio”. “Il Consiglio
non può darsi legato mani e piedi in balia dell’Arringo; il passaggio della Sovranità deve essere lento e regolare; se no è come precipitare dal
Titano!”.
Tamassia aveva un grande timore che l’arengo, come gli stati generali
francesi, potesse proclamarsi assemblea costituente ed esautorare lì per
lì il Consiglio. Aveva parlato di questi suoi timori con un suo amico
specialista di diritto costituzionale ed amministrativo, il professor Canimeo, che gli aveva detto che sarebbe stato molto meglio convocare
l’arengo su un “tema limitato”, ovvero come referendum su questioni
specifiche predefinite. “Ridotto al Referendum l’Arringo è innocuo, se
esorbita si sa dove si va!”. “Se non si è sicuri delle decisioni
dell’Arringo, non si può essere tranquilli”. Perciò Tamassia suggeriva di
sottoporre un unico quesito all’arengo (“Vuole l’Arringo giusta le
norme statutarie e le vetuste consuetudini osservate nello Stato procedere alla designazione dei membri del Consiglio dei LX con tutti i diritti che l’attuale costituzione loro concede?”); in seguito occorreva “pacatamente e onestamente coordinare le tendenze democratiche alle pratiche esigenze della costituzione di S. Marino. L’Arringo compiuta la sua
ammissione di restaurare il Consiglio rientra nella storia ma indubbiamente toccherà poi ai conservatori illuminati di conservare lo stato con
344
savi provvedimenti liberali, che preparino il paese a modificazioni pensate e studiate e tali però di non mettere a rischio l’esistenza dello stato
stesso”.
Dopo la lettura di questi pareri, il Consiglio discusse nelle settimane
successive l’organizzazione dell’arengo. Ovviamente le accentuate trepidazioni espresse dai consulenti diedero un solido basamento ai conservatori, che erano disposti, anzi costretti ormai all’arengo e a qualche
lieve innovazione, ma non a mutamenti profondi della costituzione, o
all’alterazione della logica oligarco-paternalistica in voga da secoli, probabilmente da sempre, a San Marino.
Questa posizione la espresse molto bene il nobile Domenico Gozi, che
in un intervento fatto nella seduta consigliare del 26 febbraio evidenziò
come tutta la questione fosse nata da pochi individui imbevuti di dottrine fin troppo all’avanguardia, e che invece la Repubblica doveva
procedere con estrema cautela lungo la strada delle riforme costituzionali, perché non si era fatto uno studio serio sulla costituzione in vigore
“per vedere a quali modificazioni democratiche può prestarsi: e delle
modificazioni parziali, cervellotiche, non coordinate a tutto
l’organismo statutario, potrebbero essere pericolose e compromettere
quelle maggiori riforme che in seguito possano venire proposte da persone competenti in materia”.
Gozi era convinto che il Consiglio, dimenticando le offese patite e non
dimostrando risentimenti verso chi da tempo lo martellava con accuse
feroci, avesse già fatto anche troppo per andare incontro alle pretese dei
riformisti. Tuttavia, visto che la convocazione dell’arengo era avvenuta
senza specificare lo scopo per cui lo si voleva riunire, proponeva il seguente ordine del giorno da sottoporre ai capifamiglia:
“Il Consiglio Principe e Sovrano volendo rendersi esattamente conto di
certe aspirazioni a riformare la vigente costituzione, manifestatasi fra la
cittadinanza, mentre non può né intende di farsene egli iniziatore e tanto meno fautore, perché ha giurato fede alla costituzione stessa, come
ora per bocca dei singoli Consiglieri quel giuramento rinnova, e nel
dubbio tuttavia di essere ostacolo alla pacificazione degli animi, per
amore di concordia e per il bene del paese decreta:
1. La rinnovazione dell’intero Consiglio secondo le norme statutarie
345
2. La convocazione dell’Arringo da farsi antecedentemente, pure secondo le norme statutarie, per interrogare i Capifamiglia se intendono conservare o no la costituzione con questo ordine del giorno:
Dovendosi rinnovare l’intero Consiglio, vuole l’Arringo secondo le
norme statutarie e le antiche consuetudini dello Stato, fare la nomina
dei membri del Consiglio dei Sessanta, conservando a questo tutte le
prerogative e diritti concessigli dall’attuale Costituzione? L’Arringo sarà valido colla partecipazione della metà più 1 dei padri famiglia aventi diritto e la deliberazione col voto di 2/3.
Da ultimo il Consiglio Principe e Sovrano nella speranza che l’Arringo
con la sua prudenza, nel momento presente, a scanso di maggiori difficoltà voglia confermata l’attuale Costituzione, dopo che in conformità
di essa sarà stato rinnovato il Consiglio, fa voti perché questo ormai
forte della fiducia del paese, oltre che al felice riordinamento della finanza, e alla savia amministrazione della pubblica cosa, rivolga le sue
cure, e riesca a condurre a termine, dopo ponderati studi, quelle liberali
e democratiche riforme della Costituzione che contribuendo a ricondurre il pieno accordo fra i cittadini assicurino da un lato i diritti e le
vere libertà del popolo (specialmente per mezzo dell’Arringo) e
dall’altro non possano in alcun modo mettere a rischio l’esistenza della
Repubblica.”
L’intervento di Gozi si chiuse in maniera piuttosto colorita: “Con questo augurio il Consiglio Principe e Sovrano si scioglie, gridando: - Viva
la vigente Costituzione. Viva la Repubblica – Per Dio! Che cosa si vuole di più? Il Consiglio si dimette; il Consiglio delibera la convocazione
dell’Arringo per consultare i Padri di famiglia sulle loro volontà. Il
Consiglio prima di dimettersi fa voti perché i nuovi Rappresentanti eletti dal popolo si occupino delle riforme necessarie alla Costituzione, e
le conducano a compimento per la concordia ed il bene della Repubblica. Che dovrebbe fare di più? Secondo me chi non si contenti di questo
per ora non può che desiderare, per sfogo delle proprie passioni, la rovina della Repubblica: e il Consiglio a ciò non si deve prestare”.
Anche l’avvocato Giovanni Belluzzi, che era stato con Tonnini e Babboni a Roma dai consulenti, era rimasto particolarmente impressionato
dai loro ragionamenti, tanto da dire in Consiglio che “solo la costitu-
346
zione sammarinese è sempre stata e sempre sarà l’ancora della nostra
salute ed incolumità pubblica”. “Ora che i sapientissimi uomini coi
quali abbiamo conferito ci hanno addimostrato che il sistema elettivo
sarebbe in qualsiasi modo letale alla nostra Repubblica, e che noi se vogliamo vivere dobbiamo unicamente badare a mantenere la nostra costituzione, non dimenticando che viviamo unicamente come reliquia
storica non disgiunta dalla moralità, io con alta e sonora voce invito il
Consiglio a mantenersi fermo e stabile a questa Costituzione che abbiamo tutti giurato, e con le basi di questa Costituzione, a convocare
l’Arringo perché costituzionalmente voglia rifare il Consiglio principe
e sovrano”.
Non pienamente favorevole alle opinioni dei consulenti si dimostrò
Menetto Bonelli. Era comunque d’accordo sul fatto che la convocazione dell’arengo fosse monca in quanto priva delle ragioni per cui lo si
riuniva. Secondo Bonelli doveva essere convocato per rinnovare il
Consiglio, non più gestibile nello stato in cui versava. Ciò non voleva
dire che il Consiglio avesse abdicato, come sostenevano alcuni, tuttavia
bisognava definire il perché dell’arengo, altrimenti tutte le ipotesi erano
aperte. Egli ribadiva che l’assemblea dei capifamiglia dovesse servire per
rinnovare il Consiglio suggerendo il sistema con cui nominare nuovi
consiglieri, e si trovava in sintonia con l’Ellero nell’utilizzare l’arengo
come assemblea da riunire periodicamente per rinnovare quella parte
del Consiglio decaduta per sorteggio. Inoltre era d’accordo di usare
l’arengo come referendum facoltativo per l’approvazione delle leggi.
“In tal modo il pericolo della Costituente paventato è finito, il Consiglio ha le stesse prerogative che ha avuto fin qui, e senza delle quali
mancherebbe di quella autorità sovrana mercé la quale la Repubblica
nostra negli ultimi tempi specialmente fu da tutti i governi riconosciuta
indipendente e libera. Alla Reggenza il formulare i quesiti per
l’Arringo; al nuovo consiglio lo stabilire come vuole devenire alla elezione dei nuovi Reggenti, ammessa l’abolizione dei ceti”.
Anche Luigi Tonnini mostrò qualche perplessità verso i pareri ed i timori apocalittici dei consulenti: “Io dico che quegli uomini illustri,
molto pratici dei loro comuni e delle loro grandi città non conoscono
l’indole vera del popolo di S. Marino, naturalmente pacifico, avverso ai
347
partiti, unicamente curante del bene della Repubblica. Mi pare perciò
che potrebbe accogliersi la massima del Consiglio elettivo”.
Infatti proporre all’arengo il semplice rinnovo di un Consiglio vitalizio
era troppo poco, secondo lui, e non avrebbe calmato il clima rovente
che si era instaurato nel paese più per motivi politici ed ideologici, che
per gli altri problemi di natura finanziaria, i quali stavano gradualmente
stemperandosi. Poteva andare bene, dunque, il rinnovo periodico di
una parte del Consiglio come suggerito da Ellero.
Altro intervento fu quello di Gaetano Belloni: egli sostenne che il Consiglio non doveva preparare i quesiti da sottoporre all’arengo, ma “deliberare un invito ai Capi di famiglia di presentare all’Eccellentissima
Reggenza dato un tempo determinato quei progetti, che contengono le
loro aspirazioni e desideri, i quali progetti verrebbero a formare naturalmente l’ordine del giorno per l’Arringo istesso. Con questo provvedimento il Governo allontanerebbe da sé ogni addebito d’inceppare la
volontà dell’Arringo e lascerebbe all’Arringo istesso la piena responsabilità dei suoi atti”.
Nel frattempo, venendosi a conoscere da parte dei riformisti più risoluti che l’arengo sarebbe stato verosimilmente un semplice referendum e
nulla più, riscoppiarono violenti polemiche contro i governanti: “Il
Consiglio, il vecchio e malefico servo che se ne va, obbliga il padrone a
seguire le sue norme nella scelta del sostituto. L’arringo sovrano è convocato con mani e piedi legati; non può parlare, non può discutere, non
può scegliere. No, no, deve obbedire ai suoi vecchi tiranni che hanno
tutto preordinato a loro posta”, scrisse Franciosi in un articolo apparso
sul Titano del 18 febbraio.
Egli ce l’aveva poi in particolare con la norma che prevedeva che le deliberazioni dell’arengo dovessero riscuotere almeno il favore dei due
terzi dei partecipanti per avere valore. Parlò dunque senza mezzi termini di “progetto capestro”, di “regolamento carcerario”, di “popolo
imbavagliato”, di “forche caudine” sotto cui si costringeva a transitare il
massimo organo politico dello Stato. L'articolo si concludeva con precise critiche ai tre membri riformisti della commissione preposta
all’elaborazione del regolamento. Gustavo Babboni si risentirà notevolmente per queste polemiche, e prenderà sempre più le distanze
348
dall’altra anima che componeva il Comitato pro-arengo, ovvero i riformisti più radicali.
Sul Titano successivo del 25 febbraio fu Gino Giacomini ad urlare al
“tradimento” e a sferzare le forze democratiche, che si erano accontentate della convocazione dell'assemblea dei capifamiglia, dimostrandosi
altresì “troppo pronte ai placidi riposi”. Egli era dell’avviso che l'arengo dovesse essere concepito non come modesto referendum, ma come
“assemblea costituente” di fronte a cui “avrebbe dovuto cessare ogni
potere”. In altre parole, Giacomini ribadiva l’opinione dell’ala più irrequieta del Comitato pro-arengo, cioè che, una volta convocato l'arengo, spettasse solo a questa assemblea qualunque decisione di natura politica, quindi anche la sua stessa autoregolamentazione. Il Consiglio, insomma, avrebbe dovuto limitarsi a riunirlo e in seguito starsene in disparte.
Questa posizione era in realtà ben lontana dai desideri dei governanti
che, memori degli ammonimenti dell’Ellero e degli altri consulenti,
cioè che sarebbe stato meglio per tutti se l’arengo non fosse riuscito ad
adunarsi, stabilirono che, per avere valore legale, dovesse essere composto come minimo dalla metà più uno dei capifamiglia aventi diritto,
computando però tra tutti coloro che avevano il diritto/dovere di parteciparvi anche “396 sammarinesi aventi domicilio da anni e anni
all’estero e persino nelle lontane Americhe, senza averne accertato
prima la loro reale esistenza e senza aver loro inviato a tempo il menomo avviso. Basta l’avviso ad valvas… vi sentenzia la losca furberia dei
nostri governanti”.1
Babboni il 4 marzo convocò una riunione del Comitato pro-arengo per
spiegare la posizione moderata a cui si era giunti, dopo avere ascoltato
le opinioni dei giuristi consultati, e per controbattere le velenose critiche piovutegli addosso attraverso il Titano. L’assemblea, composta da
circa 150 intervenuti, non ebbe nulla da ridire.2
Con la ridda di idee che avevano caratterizzato il dibattito istituzionale
alla base dell’arengo, la situazione era divenuta quanto mai complessa.
In sintesi vi erano quattro posizioni:
1
2
Le ultime bravate dei nostri governanti, Il Titano, 18 marzo 1906.
ASRSM, Libro verbali del Comitato pro-arengo, cit.
349
1. i conservatori assoluti che non avrebbero voluto alcun cambiamento al sistema costituzionale esistente, derivato dagli statuti del ‘600,
per timore che la Repubblica andasse in totale rovina e venisse assorbita dall’Italia;
2. i conservatori opportunisti, tra cui i giuristi consultati, che auspicavano qualche riforma non tanto perché a loro giudizio la struttura
istituzionale sammarinese ne avesse bisogno, ma per tacitare la
piazza e i democratici, e per non creare i presupposti di riforme
maggiori e più sconvolgenti, se non addirittura catastrofiche;
3. i riformisti moderati, come Gustavo Babboni e Moro Morri, sensibili alle istanze progressiste dei tempi ed al discorso del suffragio periodico, ma non disposti a stravolgere più di tanto l’apparato istituzionale esistente;
4. i riformisti radicali, soprattutto i socialisti e pochi altri, convinti
che l’assemblea dei capifamiglia, che comunque avrebbero desiderato allargata a tutti i maggiorenni, fosse solo un primo passo verso
una trasformazione profonda della costituzione del paese, e bramosi
di un arengo che assumesse il ruolo di assemblea costituente, quindi
non solo referendaria, per iniziare fin da subito una profonda metamorfosi istituzionale e sociale.
Questa posizione è ben chiara negli articoli scritti da Giacomini e
Franciosi, le due menti del socialismo locale, sui vari “Titano” di questi
anni, ma lo è ancor di più nell’opuscolo già citato e analizzato di Franciosi “La restaurazione dell’Arengo nella Repubblica di San Marino”.
Alla fine prevalse comunque la logica di fare l’arengo secondo la volontà moderata/conservatrice, senza cioè attribuirgli grandi poteri. Il 25
marzo l’assemblea dei capifamiglia si riunì nella Pieve riuscendo a raggiungere il cospicuo numero di 807 presenti (804 voti regolari, 3 schede
bianche) su 1493 aventi diritto, di cui 355 residenti all’estero (22 di questi cittadini presenziarono all’arengo). I quesiti a cui si dovette rispondere furono i seguenti:
1. Nel rinnovare per intero il Consiglio dei LX, vuole l’Arengo nominarlo con le norme e con tutti i diritti e con tutte le prerogative
che il patrio Statuto attribuisce al Consiglio stesso?
2. Vuole l’Arengo che i Consiglieri siano nominati proporzionalmente al numero degli abitanti di ciascuna Parrocchia della Repubblica,
350
lasciando però piena libertà di sceglierli ovunque li troveranno
maggiormente adatti? In caso di negativa, s’intenderà che l’Arengo
li vorrà nominare secondo le norme dello Statuto.
Nel corso della riunione dei capifamiglia fu concordato di integrare il
primo quesito con la presente specifica:
“Qualora la maggioranza dell’Arringo risponda no al 1° dei proposti
quesiti, s’intenderà che, eletto il nuovo Consiglio, in seguito debba rinnovarsi per una terza parte ogni tre anni, mediante sorteggio, e con diritto di rieleggibilità, ferme restando tutte le altre norme statutarie”.1
727 capifamiglia risposero no al primo quesito, 761 sì al secondo quesito, determinando a stragrande maggioranza la fine del Consiglio che si
nominava per cooptazione.
I riformisti moderati avevano vinto la loro battaglia, riuscendo ad ottenere una qualche evoluzione istituzionale, senza però grossi stravolgimenti.
Anche i socialisti ne uscivano abbastanza soddisfatti perché la battaglia
che avevano intrapreso già da anni per rendere elettivo il locale parlamento era andata a buon frutto. Tuttavia per loro era solo un primo
passo: il più, sulla strada delle innovazioni istituzionali e sociali, doveva
essere ancora fatto, nonostante quel minaccioso e al momento sottovalutato “ferme restando tutte le altre norme statutarie” che l’arengo aveva votato.
Il dopo Arengo
In effetti le prime elezioni politiche svolte durante l’estate, gestite sempre secondo logiche conservatrici e con la paura dei grandi cataclismi
preconizzati dai consulenti italiani, non stravolsero più di tanto il Consiglio: gli oligarchi e gli uomini forti del Consiglio precedente vennero
tutti confermati al suo interno, con in più cinque socialisti e svariati
membri appartenenti al riformismo moderato.
L'otto luglio il gruppo democratico diffuse tra la gente un suo programma politico in quattordici punti con cui esplicitava i suoi proponimenti, ovvero:
1
Cfr. Verbale dell’Arengo dei Capifamiglia, San Marino 1906.
351
1. Soluzione del problema finanziario economico del Paese sulla base
delle maggiori possibili economie e, occorrendo, di una più equa ripartizione di tributi da sottoporsi a referendum ai Capi famiglia e ai
Maggiorenni.
2. Miglioramento d’ordine finanziario e politico da recarsi nella prossima rinnovazione del Trattato col Regno d’Italia.
3. Istituzione di un Ispettorato generale ad honorem o retribuito, per
il controllo del regolare funzionamento di tutti gli uffici amministrativi, civili e scolastici e di tutti i pubblici servizi.
4. Organico per gl’Impiegati.
5. Impianto dell’Ufficio Tecnico. Sistemazione del Cimitero della Pieve. Costruzione dei Camposanti Rurali. Miglioramenti delle strade
consolari e rurali. Costruzione di edifici scolastici e di case operaie.
6. Studio per migliorare il servizio postale, di comunicazione e di trasporto.
7. Riordinamenti scolastici. Istruzione obbligatoria fino alla 3a Elementare. Esperimenti di patronati e refezioni scolastiche nei centri
più popolosi. Miglioramento del Collegio Convitto Governativo.
8. Riforma delle Leggi sulla igiene, sulla sanità e sulla sicurezza pubblica. Progetto per la conduttura dell’acqua potabile.
9. Studio per eliminare o correggere il problema dell’emigrazione.
10. Istituzione di una Cattedra ambulante e di premi per incoraggiare
l’agricoltura e l’impianto e lo sviluppo delle industrie.
11. Legge elettorale. Estensione del diritto di voto.
12. Riforma della legislazione civile, penale e giudiziale.
13. Legge sulla cittadinanza e sulla immigrazione dei forensi.
14. Abrogazione della Legge 22 Marzo 1860 sul conferimento dei titoli
equestri e nobiliari.
Questo programma era sottoscritto da 29 consiglieri, numero che rappresentava in quel momento l'effettiva consistenza del gruppo democratico riformista.
In dicembre la Federazione Socialista Sammarinese divulgò il suo "Programma minimo" che avanzava altre rivendicazioni:
352
In ordine ai pubblici poteri
1. Estensione del diritto di voto ai maggiorenni ed ai cittadini della
Repubblica residenti all’estero.
2. Nuovo sistema di votazione alla sede del seggio. Costituzione di un
segretariato elettorale formato da tre alunni delle scuole elementari
per redigere le schede degli analfabeti. Metodo di scrutinio a sezioni
divise.
3. Unificazione delle due circoscrizioni elettorali di Fiorentino e S.
Giovanni.
4. Elezione dei Capitani Reggenti a voto consigliare diretto.
5. Trasformazione del Congresso di Stato in Corpo esecutivo diviso in
dicasteri.
6. Applicazione del Referendum.
7. Riforma civile del cerimoniale e abolizione delle onorificenze.
8. Avviamento alla legislazione sociale. Riconoscimento giuridico della Società di Mutuo Soccorso e delle Cooperative di lavoro. Contribuzione annuale governativa al fondo pensioni istituito dalla Società Operaia Unione e Mutuo Soccorso.
9. Ufficio governativo d’emigrazione.
10. Codice commerciale.
11. Codice civile. Personalità giuridica dello Stato di fronte alla chiesa.
Funzioni dello Stato civile distinte dalle pratiche del culto. Denunzia diretta delle nascite e decessi. Matrimonio civile. Trasformazione a beneficio di Istituti di assistenza dei beni delle confraternite religiose.
12. Obbligatorietà scolastica fino alla terza elementare. Miglioramento
e riforma didattica generale delle scuole elementari, specie di campagna, refezione gratuita, facilitata dalle cucine economiche, agli alunni poveri delle scuole dei centri maggiori. Ricreatori festivi, Edifici scolastici. Istituzione nel capoluogo di una scuola serale di disegno applicato all’industria.
13. Sistemazione delle finanze dello Stato senza ricorso a nuovi oneri
pubblici; e in caso di assoluta necessità applicazione della tassa unica
progressiva sul reddito con esenzione dei redditi minimi, in con-
353
fronto di qualunque soluzione finanziaria a base di nuovi tributi o
rimaneggiamento dei già esistenti.
14. Appoggio al progetto di Stazione Climatica che non impegni il governo se non per ciò che possa riguardare disposizioni di esclusiva
indole amministrativa.
15. Case operaie.
16. Organico degli impiegati.
17. Istituzione della Cattedra ambulante d’Agricoltura.
18. Miglioramento dei pubblici servizi. Uffici governativi disciplinati
secondo un criterio di unità direttiva e soggetti al controllo di un
Ispettorato extra consigliare.
19. Soluzione del problema dell’acqua potabile.
20. Nuovo ordinamento della pubblica armonia.
21. Applicazione del sistema metrico decimale da iniziarsi negli esercizii pertinenti all’azienda pubblica.
22. Nuovo orientamento delle opere pie. Trasformazione della beneficenza a domicilio. Servizi di assistenza.
In ordine all’organizzazione proletaria
Š
Š
Š
Š
Miglioramento del patto colonico.
Modernizzazione del Mutuo Soccorso e nuovo impulso alle Cooperative di lavoro.
Istituzione di Cooperative di resistenza e di consumo.
Casa del Popolo e Casa del Lavoro.
Le velleità, in sintesi, erano tante, ma il Consiglio eletto nel 1906, succube di tremende paure congenite o inculcate dai suoi presunti luminari in ambito costituzionale, non era certo il migliore possibile per attuarle con convinzione e celerità.
In effetti subito si manifestarono discrepanze e dissidi all’interno del
gruppo riformista/democratico sulle celebrazioni del primo anniversario dell’arengo, ma la rottura totale tra riformisti moderati e radicali si
consumò nei mesi di novembre e dicembre del 1907, quando vennero
esaminate e bocciate nell’aula consigliare diverse istanze presentate dal
gruppo socialista per ottenere alcune di quelle riforme da tempo ago-
354
gnate. Le richieste avanzate miravano a far revisionare il vecchio e logoro statuto, ad istituire ufficialmente il referendum, a trasformare
l’istituto della Reggenza da sorteggiato in elettivo, a riordinare il sistema scolastico, a rendere obbligatoria la scuola elementare nei suoi primi anni, a creare un contributo governativo per il fondo pensioni e un
organico per gli impiegati, ad adottare un codice civile, a riformare, laicizzandoli completamente, i cerimoniali statali ed altro ancora.
Le istanze erano in parte una conseguenza del discorso pronunciato da
Pietro Franciosi il 1° ottobre per l’insediamento della nuova Reggenza,
discorso in cui tornava a chiedere, riferendosi anche ai pareri espressi
da Ellero nel 1902 e nel 1905, l’istituzione del referendum, obbligatorio
e semestrale per la parte legislativa, facoltativo per la parte amministrativa, con cui accettare o respingere le leggi, o modificare la costituzione.1
“I conservatori, siedano a destra o a sinistra o nel centro, tentano sempre di contrastare ogni riforma e di voler far credere ad occhio e croce
che le nostre istituzioni e le nostre consuetudini, siano pur vecchie come il brodetto, debbonsi sempre mantenere, anche se inutili e nocive, e
dichiararle invulnerabili”.2
Le istanze miravano a “ricostruire, dopo la rivoluzione dell’Arringo, il
nostro piccolo Stato su basi nuove ed omogenee ai moderni tempi.
Non v’è più Stato in cui non spiri un’aura di primavera per la quale il
mondo ogni giorno si fa più bello. E noi non possiamo far parte di questo mondo che ha il moto come attributo o la perfezione come meta.
Perché i più dei nostri governanti o non concepiscono per ignoranza
questo potente bisogno di muoversi, o per opportunismo vi si oppongono. Nel primo caso bisogna in parte perdonare a quei tali che non arrivano di primo impeto a conoscere il vero, per quanto l’intelligenza
umana sia destinata ad apprenderlo. Essi sono vittime di mancato ammaestramento o di qualche vizio ingenito; per cui sono quasi irresponsabili. Essi sono sempre inconsciamente invasi dal terrore di un perico1
Il discorso venne stampato un paio di anni dopo: P. Franciosi, Dei poteri del Gran
Consiglio della Repubblica di San Marino e dell’introduzione del “referendum” a mezzo
dello statutario Arringo, estratto da Riforma Sociale, fascicolo 12, anno XIII, vol. XVI,
seconda serie, Torino 1908
2
P. Franciosi, L’esito delle nostre istanze, Il Titano, 19-1-1908.
355
lo ignoto; per la loro inettezza non sanno pensare astrattamente, non
hanno concezioni concrete, non sentono il bisogno di migliorare sé e il
paese. Nonostante l’incessante progresso che li circonda, la pusillanimità naturale li assale ad ogni piè sospinto. Non assurgono a nuove concezioni di vita e s’aggrappano alla cieca fede religiosa come unico conforto. Normalmente misoneisti si trovano profondamente in contrasto
con le nuove idee; e mummificati sentono soverchia fatica di rinunciare
alle tradizioni e alle abitudini; hanno il sistema nervoso assolutamente
inetto a produrre forti impulsi per lottare e per aprirsi l’adito a nuove
vie e a nuovi orizzonti. Ma più di loro pericolosi sono i secondi, gli
opportunisti, che non estranei alle nozioni e alla cultura del tempo,
tradiscono ogni giorno le più elementari regole di ogni verità e molte
delle loro convinzioni. Ogni loro atto è una commedia od una farsa
sconveniente. Essi rifuggono per particolari interessi di mettere in armonia le azioni coi sentimenti e si rendono servi ciechi dell’ignoranza.
(…) Questa profonda ignoranza e questo vile opportunismo possono
formare il quieto vivere per qualche po’ di tempo a chi governa. Ma
badiamo che l’arma è a doppio taglio e può recare serie conseguenze…
Si poteva ammettere sotto il vecchio regime che la nostra Repubblica,
quando tutta l’Europa si muoveva, rimanesse quasi una curiosità da
museo, un vecchio fossile ridotto tale dalla comodità in partita doppia
della sacrestia e del nobilume. Ma oggi no e poi no. Col diritto di voto
conquistato e col nostro partito all’avanguardia, la repubblica deve essere un progresso e una realtà; e materiata, di serie riforme sociali politiche e civili deve modificarsi senza sforzi per il miglioramento di un
intero popolo”.1
“Il mosaico democratico consiliare sta disgregandosi dopo un anno di
simulata fusione”, proclamò il Titano del 1° dicembre 1907, perché gli
“elementi di destra” erano riusciti a trovare un’unità d’intenti nella salvaguardia della sacra tradizione, mentre dopo l’arengo, che aveva dato
origine a strane e non sempre comprensibili alleanze, tra i democratici
non vi era stato più un grande accordo. L’articolo prosegue dicendo
che i socialisti si erano attenuti al programma elaborato di comune accordo, pur rinunciando a pretese più ampie e più consone ai loro ideali,
mentre “una parte della democrazia ha dimenticato di assolvere a molti
1
Ibidem
356
suoi obblighi. (...) All’alba della nuova repubblica un ordine nuovo doveva stabilirsi sulle macerie. Bisognava rompere i ponti col vecchio sistema, estirpare il vecchio tronco dalle radici, (...) rifare ab ovo la compagine dello Stato, disciplinare gli uffici, rinvigorire ed allargare le pubbliche funzioni amministrative e politiche, ossigenare e disinfettare
l’ambiente viziato”.
Insomma, dopo l’arengo ci si aspettava “un’opera radicale di riordinamento”, invece il Consiglio aveva smarrito in fretta le sue mete ripiombando nei vecchi vizi del passato: “Il consueto e vieto sistema guadagnò gli uomini che erano partiti in guerra contro di esso”. Durante
l’anno appena trascorso vi erano state alcune buone iniziative e qualche
conquista, ma l’opera riformatrice era stata assai parziale, frammentaria
e casuale, interrotta tra l’altro da lunghe pause e tentennamenti. Inoltre
molti democratici non si erano dimostrati tali: alcuni avevano cercato
di collocare la loro persona al di sopra del gruppo, non lavorando in
comunione con gli altri per una corretta gestione politica dello stato.
Quel “groviglio caotico di uomini e di cose” non aveva quindi più ragione di sopravvivere: “L’ibridismo, le alleanze innaturali, gli accoppiamenti bastardi abbiano fine e ciascuno assuma il posto,
l’atteggiamento, il nome che i propri istinti, i propri interessi, le proprie idealità gli impongono e gli consentono”.
“E’ pur vero che nel partito dell’Arringo, molti, che furono trascinati
con noi per la conquista di quel primo diritto, ora si sono distolti perché abbiamo spiegato totalmente il nostro vivo orifiamma che sventola
in tutti i punti più elevati del mondo, quale nota di continuità di progresso e speranza in cose migliori. I più o per disinteresse o per paura si
fermarono; avvertirono un inizio di stanchezza; ci dissero quasi mancatori di parola perché non ci fermammo con la conquista del primo diritto; e ritornarono ad accarezzare le tradizioni del passato. Fu chi ci
disse anche che se si sapeva che noi socialisti non ci saremmo fermati
all’arringo, non ci avrebbero prestato il loro valido aiuto e ci avrebbero
lasciati con a ridosso un governo medioevale”.1
Invece la volontà di Franciosi e dei socialisti era proprio quella di andare oltre l’arengo del 25 marzo e la conquista del voto: “No, non basta la
conquista dell’Arringo, diamo opera ad una più grande trasformazio1
P. Franciosi, Dopo due anni, Il Titano, 25-3-1908.
357
ne”. L’aspirazione era di creare sempre più un governo a democrazia
diretta, “eliminando così la classe politica ed organizzando finalmente il
novus ordo dei Governi futuri”.1 Bisognava quindi avere il coraggio di
avviare un processo di riforme costituzionali nonostante il raggelante
concetto “ferme restando tutte le altre norme statutarie” sancito proprio dall’arengo. Secondo Franciosi e Babboni tali riforme potevano essere fatte semplicemente dal Consiglio, senza adunare l’assemblea dei
capifamiglia, perché già in passato varie innovazioni di carattere costituzionale le aveva fatte il parlamento sammarinese senza chiedere il parere di nessuno. Per altri, invece, il Consiglio non aveva tale potere, e
solo l’arengo poteva dar vita a norme costituzionali diverse da quelle
esistenti.
E’ ovvio che questa ultima opinione, su cui si discuterà anche negli anni successivi, era un comodo pretesto per chi voleva rendere difficile
ogni altra riforma dopo l’arengo del 1906. E’ indubbio che dopo
l’ultimo arengo radunato nel 1571 fu il Consiglio a modificare o integrare lo statuto senza più riunire l’assemblea dei capifamiglia per un avallo formale del suo operato legislativo o delle riforme allo statuto
stesso, come nel 1652, quando ridusse il numero dei consiglieri da 60 a
45, o nel 1756, quando stabilì che un Reggente dovesse essere nobile ed
uno plebeo, o nel 1830, quando istituì la Congregazione Economica, o
in tante altre occasioni ancora. Adesso però si aveva timore delle riforme che potevano essere portate avanti in Consiglio, ed in più c’era
quella famosa frase “ferme restando tutte le altre norme statutarie” che
bloccava ogni velleità riformista che non avesse avuto il placet
dell’arengo.
La grande innovazione che i riformisti più convinti desideravano era
soprattutto l’istituzione dell’arengo/referendum, allargato a tutti i
maggiorenni, secondo la logica espressa qualche anno prima da Ellero,
istituto che avrebbe eliminato anche i problemi legati a chi spettasse varare riforme istituzionali, perché con un arengo periodicamente ed obbligatoriamente convocato, ogni legge o riforma avrebbe avuto necessità dell’avallo di tale assemblea.
1
P. Franciosi, Dei poteri del Gran Consiglio della Repubblica di San Marino e
dell’introduzione del “referendum” a mezzo dello statutario Arringo, cit., p. 7.
358
Non solo: “A mezzo del referendum (…) si stimola l’interesse dei cittadini ai problemi dello Stato, si diffonde fra loro la conoscenza della legislazione, si sviluppa in essi il sentimento della responsabilità per
l’andamento della cosa pubblica. Il referendum va considerato come la
più schietta emanazione della sovranità popolare, perché offre ai cittadini il mezzo di prender parte, ad ora ad ora, alla vita pubblica”. Simile
istituzione avrebbe avuto “un effetto educativo straordinario: rende più
guardinga l’Assemblea legislativa nelle sue deliberazioni con lo spauracchio del possibile e necessario appello al popolo; conduce questo ad occuparsi delle questioni più vitali e a pronunziarsi su di esse in forma
puramente obbiettiva, fuori di quelle considerazioni personali che spesso riescono ad intralciare e dissimulare il vero proposito; e, mentre sviluppa il sentimento di responsabilità diretto in tutto il popolo, dà stabilità a larga base alle leggi, accettate per consenso non indiretto e supposto, ma diretto ed esplicito”.1
Nonostante i vagheggiamenti di Franciosi, la maggioranza del Consiglio non sentiva affatto l’esigenza di introdurre innovazioni tanto radicali, che vennero liquidate semplicemente come “esotiche” e contrarie
alla sacra tradizione, per attuare riforme di natura istituzionale. Conservatori e Democratici, “affetti da miopia congenita”, come dicevano i
riformisti radicali, non volevano assolutamente mutamenti di questo
tipo, trincerandosi dietro il “ferme restando tutte le altre norme statutarie” espresso dall’arengo del 25 marzo. “Dobbiamo dunque cristallizzarci e fossilizzarci in una costituzione del ‘600?”; “governare e amministrare ai tempi che corrono vuol dir operare, riformare, ricostruire”,
per cui non bisognava avere paura di andare oltre lo statuto, sempre utilizzando lo strumento dell’arengo/referendum.2
Nei mesi successivi la polemica sulle riforme che alcuni volevano e i
più no, proseguì tra tensioni più o meno marcate. Un momento di forte conflittualità avvenne tra il 1908 e il 1909, quando il Consiglio abolì
l’insegnamento del catechismo nelle scuole. I cattolici presero tale innovazione come un attentato alla costituzione, perché la rubrica 33 del
libro I degli statuti secenteschi, ancora in vigore, che trattava delle funzioni e del salario del pubblico precettore, prevedeva l’insegnamento
1
2
Ibidem.
P. Franciosi, Il rispetto allo statuto, Il Titano, 15/11/1908.
359
della dottrina cristiana a tutti gli scolari, insieme ovviamente ad altre
discipline. Con l’abolizione del catechismo, insomma, il Consiglio aveva alterato una disposizione statutaria senza averne alcun diritto.1
Tra l’altro il clima era reso ancor più incandescente dal fatto che socialisti e repubblicani volevano precise modifiche nella nomina, nel cerimoniale e nello stesso vestiario della Reggenza, cosa reputata del tutto
assurda da parte della maggioranza dei consiglieri.
“Le nazioni adesso riguardano la nostra Repubblica come un prezioso
cimelio di tempi antichissimi – denunciò il “San Marino, organo
dell’Unione Cattolica Sammarinese” – Guai pertanto a quei cittadini
che osassero manomettere le patrie istituzioni: in esse soltanto ha la sua
ragione d’essere la nostra piccola terra!”2.
Di nuovo il concetto espresso dai consulenti nel 1905, di nuovo
l’assioma che la stessa esistenza della Repubblica era indissolubilmente
legata al suo sistema costituzionale mummificato.
“Ciò che noi vogliamo ad ogni costo e a qualunque sacrificio, come cittadini dell’ordine e difensori della fede ereditata dagli avi nostri è
l’osservanza dello statuto. Avremo sempre parole spiranti fuoco contro
i profanatori delle sue leggi; grideremo con tutto lo sdegno di un animo
repubblicano, di un cuore ferito nei suoi ideali e nei suoi sacrosanti diritti contro quei vili denigratori che attentano scemare la bellezza, avvilirne l’importanza dichiarandolo non più rispondente ai bisogni dei
tempi e lo spogliano della sua aureola immortale riducendolo un arlecchino. Bello, sovranamente bello il nostro statuto! Nobile l’ingegno
che lo ha ispirato! Sante, Divine le leggi che vi s’inculcano, sanzionate
dall’approvazione dei secoli!”3
Questa logica mistico/istituzionale che impedirà qualunque innovazione costituzionale, basandosi ovviamente anche su quanto sancito
dall’arengo del 1906, sarà quella che caratterizzerà a lungo la mentalità
cattolica sammarinese, così come la cultura laica sarà invece contrassegnata a lungo dal desiderio di laicizzare lo Stato, riformare diverse
1
Sull’argomento si veda: V. Casali, Il casus belli – L’abolizione del catechismo a San Marino nel 1909, in “Annuario della Scuola secondaria superiore”, n° XXVII, San Marino 2001.
2
San Marino - Organo dell’Unione Cattolica Sammarinese, anno 1, n° 1, 3/9/1909.
3
Ibidem
360
norme statutarie, fare una legge tributaria basata sull’equità fiscale (istanza sostenuta anche dai cattolici), istituire l’arengo/referendum (richiesta prevalentemente socialista) e altro ancora.
Il problema relativo a chi toccasse attuare riforme costituzionali riemerse nel 1914, quando Onofrio Fattori presentò un’istanza in Consiglio per chiedere che anche i cittadini naturalizzati potessero divenire
Reggenti. Iniziò una lunga discussione e si consolidarono tre opinioni:
la prima diceva che l’arengo del 1906 non aveva concesso facoltà al
Consiglio di modificare nulla al di là del sistema di nomina dei consiglieri, quindi competente era solo l’assemblea dei capifamiglia in materia costituzionale; la seconda sosteneva che il Consiglio avesse il potere
per porre mano anche alle questioni istituzionali; la terza, quella socialista, puntava sull’istituzione dell’arengo/referendum a cui sottoporre i
problemi costituzionali, ma anche di altro genere. Alla fine si giunse ad
un ballottaggio con cui, per 21 voti contro 10, si stabilì che solo
l’arengo potesse modificare le norme costituzionali, per cui il Consiglio
si dichiarò incompetente a trattare istanze di tale natura.1
Con questo decreto in pratica si complicò qualunque possibilità di rinnovo della costituzione sammarinese, perché organizzare un arengo in
cui discutere problemi simili non era certo facile, come avevano dimostrato quanto successo e le battaglie che si erano dovute sostenere per
giungere a quello del 1906.
In effetti negli anni che precedettero l’ascesa al potere del locale fascismo varie volte circolò tra la gente l’ipotesi di convocare un arengo per
analizzare e discutere problemi specifici, ipotesi che però per un motivo o per un altro non riuscì mai a concretizzarsi.2
La manifesta volontà della maggioranza del Consiglio di non attuare
altre riforme al di là dell’unica innovazione sancita dall’arengo del 1906
denotava che, nonostante fossero passati diversi anni, gli spauracchi agitati dai consulenti nel 1905 ancora incutevano terrore, e non vi era alcuna volontà di mutare nulla rispetto alle consuetudini secolari della
Repubblica. Questo non impedì tuttavia a socialisti e repubblicani di
continuare a chiedere la riforma di varie norme dello statuto secente1
ASRSM, vol. G, n° 55, seduta del 16/5/1914. Decreto n. 11 del 18/5/1914.
Su questo periodo si veda: V. Casali, Storia del socialismo sammarinese dalle origini al
1922, San Marino 2002.
2
361
sco. I repubblicani desideravano soprattutto laicizzare l’istituto della
Reggenza, ma i socialisti volevano invece una concreta democratizzazione del sistema istituzionale sammarinese tramite ciò che essi consideravano la prosecuzione dell’opera iniziata dai capifamiglia nel 1906.
Nell’aprile del 1917 proprio i socialisti presentarono al Consiglio come
istanza d’arengo un articolato progetto per riformare i poteri pubblici
in cui delineavano con precisione il loro punto di vista sulle istituzioni
sammarinesi.1
“L' Arengo del 1906 – vi si legge - che pareva felicemente destinato a
rendersi stromento di tutto un nuovo ordine di cose, si è fermato alla
scheda, e colla scheda la democrazia ha coperto una piaga profonda e ha
ingannato momentaneamente il male stesso che travagliava tutto il paese.
Le riforme politiche amministrative e tecniche, che si presentavano
come conseguente corollario di quel primo atto di rinnovamento civile,
furono bandite dai programmi con sacro orrore, come pericolose follie
di utopisti sventati; e rimase intatto e invulnerato il vecchio abusato sistema, colle sue direttive e colle sue forme arcaiche, coi suoi peccati originali e coi suoi vizi organici, coi suoi costumi e con tutto il suo armamentario deteriorato di poteri e di offici, di congressi e di commissioni, che si intersecano, si accavallano, si aggrovigliano in un tutto informe, senza coordinazione e senza nesso, senza limitazioni di competenze e delineazioni di responsabilità. (…) Il sistema che ci regge, nella
sua struttura organica non meno che nello spirito morale e politico che
lo informa e nel criterio amministrativo che lo guida, è la negazione di
una bene ordinata democrazia”.
Quali le innovazioni principali che proponeva il gruppo socialista?
Non più l’arengo/referendum, probabilmente perché riforma considerata ormai troppo democratica, quindi anche troppo utopistica. Prima
di tutto, dunque, la nomina della Reggenza per voto diretto e non più
tramite sorteggio: “La Reggenza, suprema magistratura della Repubblica, abbia mansioni di presidenza più dignitose e meno defatiganti, non
sia la carica d'utilità, buona a tutti i servigi, ma diriga lo Stato, il Governo, il Consiglio, i Congressi, e si riserbi di attendere in modo parti1
La riforma dei poteri pubblici, proposta del Gruppo Consiliare Socialista presentata
all’Arengo dell’8 Aprile 1917, San Marino 1917.
362
colare agli alti e delicati affari politici e diplomatici, alla giustizia, alla
sicurezza pubblica, alle milizie”.
Poi la trasformazione del Congresso o Consiglio di Stato in vero e proprio governo della Repubblica, con una maggiore definizione delle sue
competenze: “Il Consiglio di Stato venga investito di vere e proprie attribuzioni di governo, quali sono implicite a un ministero, a una giunta, a una deputazione, a quegli organi, insomma, che ricorrono negli
ordinamenti statali e municipali di tutti i paesi. Sia diviso in Dicasterii
o deputazioni, per modo che ciascun membro venga posto a capo di
una speciale branca pubblica”. I dicasteri dovevano essere nove (Affari
politici e diplomatici – Giustizia – Sicurezza pubblica – Milizie; Finanze ed Economato; Lavori pubblici; Istruzione; Annona, Agricoltura,
Industria e Commercio; Sanità e Igiene; Stato civile; Poste, Telegrafi,
Telefoni e Comunicazioni; Beneficenza e Assistenza).
In seguito una nuova e più meticolosa regolamentazione del Consiglio
Grande e Generale affinché assumesse “una regola, una disciplina, una
condotta normale e uniforme, quale si addicono al prestigio delle sue
alte funzioni, oggi sminuite dalla casuale e spesso contraddittoria pratica della quale è in balia”.
Infine nuove e più rigorose funzioni per la Commissione di Bilancio,
che doveva essere “investito di ampi poteri di verifica e revisione degli
uffici contabili, di cassa, di posta dei magazzini; sia chiamato a compilare col Consiglio di Stato il Bilancio pubblico del quale è depositario; sia
considerato come corpo giuridico indipendente, e formato di persone
estranee al potere esecutivo e agli uffici”.
Gli avvenimenti che accaddero nei tempi successivi impedirono che le
velleità riformiste giungessero in porto. Troppo delicato era giudicato
dalla maggioranza dei consiglieri, e probabilmente dai pochi cittadini
sammarinesi che potevano essere sensibili a problemi tanto astratti e
complessi, porre mano a riforme di un apparato istituzionale che, secondo la mentalità semplicistica in auge, andava ancora bene perché si
era sempre dimostrato capace di preservare la mitica libertà e la gloriosa
indipendenza della Repubblica di San Marino dai fortunali della storia.
Il vasto partito dei passatisti e conservatori, che si rinvigorirà grazie al
fascismo, che a San Marino sarà soprattutto un ritorno al passato, ovvero alla logica politica paternalistica ed oligarchica precedente il 25 mar-
363
zo 1906, si dimostrerà sempre ostile alle innovazioni costituzionali, e
imputerà proprio alla svolta attuata dall’arengo del 1906 tutti i mali di
precarietà politica ed economica in cui la Repubblica venne spesso a
trovarsi negli anni successivi.
Dopo la prima guerra mondiale i socialisti uscirono dal Consiglio di
propria iniziativa, rimanendo in uno stato di isolamento politico che
consentì agli altri raggruppamenti di imprimere una svolta conservatrice al dibattito politico e di sancire la fine di qualunque ambizione di natura istituzionale.1
Nel 1922 il fascismo iniziò a prendere il potere che detenne per più di
vent’anni. Durante questo periodo non vi furono ovviamente importanti evoluzioni costituzionali a San Marino, vista la mentalità assolutamente ostile all’arengo del 1906 e alle velleità riformistiche di quegli
anni che avevano i suoi capi, conservatori convinti, legatissimi alla dimensione patriarcale/elitaria dei secoli precedenti sancita dagli statuti
secenteschi. Proprio per sottolineare questo ritorno al passato, con decreto del 1931 il Consiglio si ridefinì “Principe e Sovrano”, qualifica
cassata dopo l’arengo del 1906.2
Curioso, ma coerente con la mentalità dei nuovi (ma nello stesso tempo
antichi) padroni di San Marino, che, appena scomparsi i riformisti più
radicali del 1906 dalla scena politica e anche dal paese (in tanti dovettero scegliere la via dell’esilio per salvarsi dalle persecuzioni del fascismo),
il governo sammarinese non ebbe alcuna remora a modificare norme
statutarie, non curandosi minimamente del “ferme restando tutte le altre norme statutarie” scaturito dall’arengo del 1906.
Nel 1925, per fare un esempio, venne regolamentato l’ufficio di Capitano di Castello, fatto che eliminò figure secolari e statutarie, come i
sovrastanti alle vie ed alle acque, e modificò altre norme dello statuto
del Seicento.3
Il fascismo non ebbe il coraggio (probabilmente per non dare
l’impressione di essere troppo anacronistico) di rimuovere la logica elettorale introdotta dall’arengo del 1906, tuttavia modificò la legge elettorale restringendo il numero degli aventi diritto e allungando la legi1
V. Casali, Storia del socialismo sammarinese, cit.
Decreto sulla qualifica spettante al Consiglio Grande e Generale, n. 14, 29/9/1931.
3
Regolamento per l’elezione e l’ufficio dei Capitani di Castello, n. 7, 26/2/1925.
2
364
slatura a sei anni.1 Non a caso una delle prime azioni legislative fatte
dopo la caduta del fascismo fu il ripristino della legge elettorale precedente.2
Solo nel 1945, col nuovo governo composto da socialisti e comunisti
andato al potere l’11 marzo, si riparlò di riforme istituzionali, riprendendo in parte le velleità socialiste del periodo prefascista. Così subito
si provvide, non senza polemiche da parte dei conservatori, a determinare che la Reggenza dovesse scaturire da un’elezione in Consiglio, e
non tramite sorteggio come succedeva in precedenza.3
Due mesi dopo venne varata un’altra legge di natura costituzionale,
sempre ripresa dalle idee già messe a punto più di 25 anni prima, che
dava ufficialmente al Congresso di Stato i poteri di governo della Repubblica, dividendolo in dieci dicasteri, cioè ministeri.4
Tuttavia queste riforme, giudicate dai conservatori del tutto arbitrarie
perché non sottoposte al giudizio finale dell’arengo, lasciarono l’amaro
in bocca ai tanti che ancora vedevano la difesa della tradizione e delle
istituzioni storiche come la migliore cosa per il paese.
Il 4 dicembre 1947 venne divulgato un giornale, intitolato “L’Arengo numero unico in difesa del tradizionalismo sammarinese”, nato per “ribattere le pseudo-argomentazioni degli antitradizionalisti” che stavano
definendo le istituzioni “croste da museo”, e che le avevano condannate
ad “igienica epurazione”.
Secondo gli autori del numero unico, invece, occorreva la “rivendicazione in pieno dei valori tradizionali della nostra storia plurisecolare,
acconsentendo ad una ponderata potatura di rami e ramoscelli secchi
del nostro meraviglioso albero costituzionale ma difendendo ad oltranza il tronco ed i rami principali, che formarono e formano la ragione
d’essere della nostra libertà e della nostra indipendenza”.
Le polemiche ed i tempi di forte conflittualità tra Sinistra e Destra impedirono che venissero prodotte ulteriori importanti riforme del sistema istituzionale sammarinese. L’ambiguità poi era sempre quella su chi
dovesse varare riforme simili, Consiglio o Arengo.
1
Legge elettorale, n. 31, 11/11/1926.
Decreto che ripristina la legge elettorale del 15 ottobre 1920, n. 27, 31/7/1943.
3
Legge per la riforma del sistema di elezioni dei Capitani Reggenti, n. 15, 24/3/1945.
4
Legge sulla riforma dei poteri pubblici, n. 26, 9/5/1945.
2
365
Negli anni sessanta Guidobaldo Gozi riaffrontò il problema all’interno
di due suoi opuscoli,1 anche se da un’ottica molto personale legata direttamente alle interpretazioni conservatrici e passatiste dell’arengo del
1906 che la sua famiglia aveva dato nel corso del cinquantennio precedente.
Alla fine, comunque, egli giunse alla conclusione che l’arengo fosse
“l’unico competente in materia costituzionale, in argomenti che riguardano la nostra costituzione politica o forme di governo; per la rimanente ed estesa materia è competente il Consiglio”.2
In realtà l’arengo dei capifamiglia non fu più convocato, rimanendo in
vita solo nella sua veste semestrale, e le poche riforme costituzionali
che vennero varate negli anni successivi furono frutto di compromessi
tra i partiti politici, e della legittimazione da parte del solo Consiglio
Grande e Generale, che oggi per varare riforme di tale natura necessita
per legge dei voti dei due/terzi dei suoi componenti.
Delle immense, utopistiche aspirazioni democratiche e popolari emerse
agli inizi del secolo, dei grandi, esagerati, probabilmente ingenui sogni
di Ellero, Franciosi, Giacomini e altri legati alla brama di dare grande
potere politico al popolo alla fine non rimase nemmeno il ricordo.
Nel celebrare il centenario dell’arengo del 1906, che porterà con sé tanta enfasi e glorificazione, direi invece che è proprio il caso di ricordarsene.
1
Guidobaldo Gozi, Per un nuovo Stato, Rimini 1960 e L’Arengo dei Capi – Famiglia,
San Marino 1964.
2
Guidobaldo Gozi, L’Arengo dei Capi – Famiglia, cit., p. 37.
366
1957: I FATTI DI ROVERETA
di Marino Cecchetti
Sul sagrato della Pieve
Il 19 settembre, alle ore 16,30 circa, sul sagrato della Pieve, il prof. Federico Bigi annuncia al paese che si è costituita una nuova maggioranza
politica.
La nuova maggioranza è formata da 31 consiglieri: 23 del PDCS (Partito Democratico Cristiano Sammarinese); 2 del PSDS (Partito Socialista
Democratico Sammarinese); 5 del PSIS (Partito Socialista Indipendente
Sammarinese); 1 indipendente di sinistra.1 Ciò a seguito di una spaccatura del PSS (Partito Socialista Sammarinese) e della fuoruscita di un
consigliere dal gruppo consiliare del PCS (Partito Comunista Sammarinese).
PCS e PSS avevano, fino ad allora, governato la Repubblica a partire
dal dopoguerra con maggioranze a volte risicate a volte ampie, tuttavia
sempre stabili. Nelle ultime elezioni politiche (1955) i due partiti avevano raggiunto 35 seggi, sia pure in un clima infiammato dalla denuncia, da parte del PDCS e del PSDS, di una scorrettezza nel fissare la data
delle elezioni e di brogli nel loro svolgimento.
A metà legislatura si verificarono degli spostamenti nei gruppi consiliari che, nel giro di un anno circa, diedero luogo alla nuova maggioranza.
I cambiamenti di governo che avvengono in questo modo, cioè non a
seguito di nuove elezioni o di nuove alleanze fra partiti, generano sempre polemiche e tensioni. In questo caso la tensione è altissima.
1
PDCS: Belluzzi Marino Benedetto, Bigi Federico, Bollini Domenico, Cardelli Remo, Della Balda Nelson, Francini Corrado, Gasperoni Giuseppe, Giardi Domenico, Graziani Mario, Moroncelli Giuseppe, Morri Fortunato, Mularoni Marino, Piva Ferruccio, Reffi Pietro, Righi Michele, Savoretti Zaccaria Giovanni, Selva Vincenzo, Stacchini Giuseppe, Suzzi Valli Leonida, Tomassini Italo, Valli Francesco,
Vannucci Gino, Zafferani Antonio. PSDS: Franciosi Marino Valdes, Giancecchi
Pietro. PSIS: Casali Alvaro, Forcellini Domenico, Forcellini Giuseppe, Galassi Pio,
Micheloni Federico. Indipendente di sinistra eletto nella lista del PCS: Giannini Attilio.
367
Lì, sul sagrato della Pieve, le orecchie di tutti prestano ascolto a Bigi,
ma gli occhi - pure quelli di Bigi - corrono laggiù in fondo alla piazza
dove forse c’è un tafferuglio o qualcuno sta urlando qualcosa.
Quello stesso 19 settembre avrebbe dovuto aver luogo, alle ore 15, una
seduta del Consiglio.
I 31 consiglieri, secondo gli ultimi accordi presi nella notte,1 avevano raggiunto alla spicciolata la casa dell’avv. Forcellini, uno dei loro, già alle
13,30 per concordare gli interventi e recarsi poi assieme a Palazzo.2
Nelle stesse ore il Pianello, la piazza antistante il Palazzo Pubblico, era
andato riempiendosi di sostenitori del governo in carica.
I 31 erano ancora in Casa Forcellini quando arrivò loro la notizia che la
seduta del Consiglio era stata annullata.
Poco prima delle 15 sulle porte del Palazzo era comparso un manifesto
con cui la Reggenza annunciava di aver ricevuto n. 34 lettere di dimissioni di consiglieri del PCS e del PSS, per cui il Consiglio doveva ritenersi sciolto.3 A breve sarebbe stata fissata la data delle elezioni politiche.
I 31, nonostante il comunicato della Reggenza, decisero di presentarsi
regolarmente a Palazzo. Fendendo la folla minacciosa degli avversari4 –
scrive Casali nel suo diario – guadagnarono la loggetta, decisi a raggiungere comunque la Sala del Consiglio. Ma si trovarono i portoni sbarrati. Solo la piccola porticina5 era aperta. Aperta, ma con l’accesso impedito da gendarmi, vigili, uomini della milizia.
Al comando di questi uomini c’era il Capitano dei Carabinieri Ettore
Sozzi,6 Comandante della Gendarmeria ed Ispettore della Polizia Urba1
A. CASALI, Diario 1956-1957, San Marino, 1999, p. 95.
La casa dell’avv. Giuseppe Forcellini è in Contrada Omagnano. Vi si accede,
all’occorrenza, anche da Contrada del Pianello. La casa è sufficientemente ampia e sita
fra Palazzo e Pieve, i due luoghi deputati ai riti della democrazia nella comunità
sammarinese.
3
Decreto 19 settembre 1957, n. 14.
4
A. CASALI, Diario…, cit., p. 118.
5
Ibidem, p. 97.
6
Ettore Sozzi, da informazioni raccolte presso il Comando della Gendarmeria, risulta aver preso servizio a San Marino il 12 giugno 1951. Aveva sostituito il sig. Sesto
Liverani. La Repubblica, in quel periodo, era in difficoltà per il blocco dei confini da
parte dell’Italia in conseguenza della vertenza sulla casa da gioco. Dal 1° aprile era
Capitano Reggente, con Romolo Giacomini, il dr. Alvaro Casali, il quale si stava adoperando per dar vita a un governo di emergenza in modo da fornire alla Repubbli2
368
na. Dopo una ventina di minuti, i 31 avevano dovuto desistere per evitare il peggio. Qua e là, sul Pianello, stavano scoppiando dei tafferugli
fra i sostenitori dei diversi schieramenti.1
I 31, una volta ritornati in Casa Forcellini, si erano dati una prima
struttura organizzativa nominando un Comitato Esecutivo nelle persone di Federico Bigi, Alvaro Casali, Pietro Giancecchi e Zaccaria Giovanni Savoretti, e avevano stilato il proclama letto poi da Bigi davanti
alla Pieve.
La mancata riunione del Consiglio
I 31 consiglieri costituenti la nuova maggioranza, col proclama letto da
Bigi dal sagrato della Pieve, rivendicano il diritto-dovere di assumere la
guida del paese. Diritto-dovere che non possono esercitare perché la
vecchia maggioranza impedisce loro l’ingresso nel Palazzo Pubblico.
Essi denunciano al paese e al mondo civile che tale atto è illegittimo e che
rappresenta un autentico colpo di Stato.2 Tuttavia non procedono alla
creazione di un nuovo governo: un governo della Pieve contro quello
del Palazzo. Nemmeno eleggono i nuovi Capitani Reggenti. Si limitano
a stigmatizzare, questo sì, l’abuso compiuto dai Reggenti in carica che,
annullando la seduta del Consiglio, hanno impedito, fra l’altro,
l’elezione dei loro successori.
Il Consiglio di quel 19 settembre 1957, infatti, avrebbe dovuto eleggere
i nuovi Reggenti per il semestre 1° ottobre 1957-1° aprile 1958. La
convocazione del Consiglio per l’elezione dei nuovi Reggenti è un atto
obbligatorio dei Reggenti in carica. Lo stabiliscono gli Statuti. Lo ribaca più forza nella trattativa con Roma. Anche la Democrazia Cristiana, alla fine di
giugno, finì per accettare responsabilità di governo. Si arrivò ad un accordo con
l’Italia. La collaborazione fra i partiti, però, finì subito. A metà settembre ebbero
luogo nuove elezioni ed i partiti, contrariamente a quanto convenuto a giugno, si presentarono con proprie liste. Sozzi restò al Comando della Gendarmeria anche dopo
quel periodo particolare. Nel 1954 assunse anche l’incarico di Ispettore di Polizia Urbana, in sostituzione del tenente Pietro Animali.
1
Il momento è gravissimo, intorno sul piazzale si accendono scontri e zuffe fra i fautori
delle due parti, vola qualche cazzotto e gli urli e le ingiurie assordano l’aria; si teme da un
momento all’altro che echeggi uno sparo, che darebbe inizio ad una guerra civile; ma per
miracolo di San Marino questo non avviene (A. CASALI, Diario…, cit., p. 97).
2
D. ZANELLI, Colpo di Stato a San Marino, in “Il Resto del Carlino”, 20 settembre
1957, p. 2.
369
disce a chiare lettere l’art. 1 della legge 24 marzo 1945, che, riprendendo gli Statuti, recita: In un giorno della seconda decade di marzo e settembre, convocato all'uopo il Consiglio Grande e Generale nelle ore pomeridiane, dopo aver invocato il Santo in Pieve, da parte della Reggenza …
debbasi aprire la seduta, e dichiarata valida qualunque sia il numero dei
Consiglieri intervenuti.
Non procedendosi all’elezione dei nuovi Reggenti, va da sé che è prolungato automaticamente il mandato di quelli in carica. Il prolungamento è proibito dagli Statuti: In nessuna maniera possono essere confermati nel loro ufficio oltre il semestre, ché anzi, scaduto che sia, la loro giurisdizione sia e s’intenda essere finita.1 I Reggenti cambiano ogni sei mesi
da sempre: fin dai primi Statuti che si conoscono, quelli degli inizi del
Trecento.2
In realtà il prolungamento del mandato dei Capitani Reggenti oltre i sei
mesi talvolta c’è stato. Ma eccezionalmente. Per fronteggiare situazioni
particolari esterne o interne. E solo, sempre e comunque, per decisione
del Consiglio.
Un caso di prolungamento del mandato reggenziale per ragioni esterne
si è verificato, ad esempio, nel 1787. Il paese era appena uscito da un
blocco militare messo in atto dallo Stato della Chiesa. Stentava a riprendersi e la situazione non era ancora del tutto risolta. Il 18 marzo il
Consiglio, anziché procedere alla elezione dei nuovi Capitani Reggenti,
riconfermò all’unanimità per altri sei mesi quelli in carica nonostante la
ripugnanza degli interessati.3
Un caso di prolungamento del mandato reggenziale per ragioni interne
si è verificato nel 1920. Il paese era squassato da tensioni sociali. Incombeva la minaccia di pericoli esterni. Si introdusse una nuova legge
elettorale e si avvertì il bisogno di applicarla subito. Il 18 settembre il
Consiglio decise all’unanimità di convocare nuove elezioni per il 14
novembre. Poi con una votazione specifica - e piuttosto tirata - deliberò
1
Statuti, rubrica XIII, libro I.
La norma è presente, ad esempio, negli Statuti del 1491 ed anche in quelli del 12951302, i più antichi giunti fino a noi.
3
Archivio di Stato RSM, Verbali del Consiglio del 18 marzo 1787.
2
370
di prolungare il mandato dei Capitani Reggenti in carica fino alla prima
convocazione del nuovo Consiglio.1
In entrambi i casi - questo è il punto - è stato il Consiglio a decidere. Ed
il Consiglio, in entrambi i casi, ha deciso con una votazione specifica.
Invece il 19 settembre 1957, praticamente, sono i Reggenti stessi a prolungarsi il mandato.2 È un fatto che è al di fuori dell’ordinamento, della
storia, della tradizione ed anche del comune modo di pensare della gente sammarinese. Deve aver avuto un’origine necessariamente esterna
all’ambito sammarinese.
Il contesto internazionale
All’esterno, in quel periodo della storia, il mondo è diviso in due blocchi: comunismo e anticomunismo. L’Europa stessa è tagliata (e nella
parte centrale) da un confine artificiale, la cosiddetta ‘cortina di ferro’.
Da una parte sono schierati gli Stati che internamente si sono organizzati sui principi del comunismo e fanno capo alla Russia, dall’altra, con
varie sfumature, gli Stati che si oppongono all’avanzata del comunismo
e fanno capo agli Stati Uniti d’America.
San Marino è una anomalia geo-politica: sta nell’area degli Stati anticomunisti, ma è retto da un governo a maggioranza comunista.
Per il mondo comunista quel che sta succedendo a San Marino è un
tentativo degli anticomunisti di eliminare l’anomalia sammarinese. Per
gli anticomunisti è la dimostrazione che i comunisti, una volta giunti al
potere, non lo mollano più, anche se perdono la maggioranza in parlamento.
Il comunismo si radica in Russia durante la prima guerra mondiale. Si
diffonde nei paesi circostanti con la seconda guerra mondiale. Poi continua ad espandersi in ogni direzione sotto la guida di un leader carismatico, Giuseppe Stalin, proponendo all’umanità un sogno, un’utopia:
riorganizzare la società, ogni società, in modo che un uomo non possa
1
Il nuovo Consiglio si riunì il 5 dicembre e procedette alla elezione dei nuovi Capitani Reggenti.
2
In violazione delle norme stabilite dalla legge e dagli antichi Statuti, la Reggenza prorogò il suo mandato e rimase in carica per un periodo più lungo di sei mesi
(L.BACCIOCCHI, Dall’Arengo alla democrazia dei partiti, Legislazione elettorale e sistema dei partiti a San Marino, San Marino 1998, p. 116).
371
sfruttare mai un altro uomo. È una sfida ideologica, politica ed economica, cioè a tutto campo, quella in atto fra comunismo ed anticomunismo. La divisione passa dentro gli Stati, dentro la società, perfino, talvolta, dentro le famiglie.
La scelta del comunismo a livello individuale per alcune persone è totalizzante. Come l’adesione a una nuova religione. Una religione laica
che comporta non meno impegni e sacrifici di quelle tradizionali. Per il
neofita del comunismo, le divisioni fra Stati, i nazionalismi, le tradizioni legate a un luogo non hanno più senso di fronte a quel progetto planetario che parla all’uomo in quanto uomo. Il comunismo avanza come un blocco monolitico, senza dubbi, senza incertezze. Come una
nuova verità scientifica. Si parla di ‘metodo scientifico’, fra i comunisti,
anche quando si devono affrontare problemi sociali o addirittura questioni relative alla persona.
Il neofita di questa nuova religione laica non ha incertezze. Vista la nobiltà del fine, si giustifica l’uso di ogni mezzo, sia a livello di Stato che
di singolo, per raggiungerlo. Si accetta anche di vivere sotto un regime
dittatoriale. I difetti, come ad esempio la mancanza di democrazia, si
correggeranno dopo il trionfo totale, quando non ci saranno più nemici
da combattere e il comunismo si sarà affermato universalmente.
All’improvviso, nel febbraio del 1956, le prime crepe nel comunismo
ed i primi dubbi nelle menti di diversi aderenti. Nikita Krusciov, succeduto a Stalin alla guida della Russia e del comunismo mondiale, il 14
febbraio, nel corso di un congresso del partito comunista sovietico,
manda in frantumi il mito di Stalin. Desacralizza Stalin. Anzi lo demonizza. Sconcerto nel mondo comunista. Fra i neofiti c’è chi comincia
ad essere tormentato dal dubbio. Poco dopo, su quelle ferite ancora aperte, piovono manciate di sale. Il 28 giugno a Poznan, in Polonia, contro gli operai scesi in piazza per rivendicare migliori condizioni di vita,
le forze dell’ordine sparano: 48 i morti. Il 20 ottobre comincia la rivolta
d’Ungheria. Durerà un mese. Sarà repressa dalla Russia manu militari:
centinaia e centinaia i morti.
Alcuni aderenti al comunismo, di fronte a tali fatti, delusi ed amareggiati, si ritirano nel privato. Altri si mettono in posizione critica. Ma a
rilanciarlo, il comunismo, ecco, l’anno successivo ed all’improvviso, un
bip bip che viene dallo spazio. La Russia ha messo in orbita un satellite
372
artificiale, lo Sputnik. Una nuova luna. Sconcerto fra gli anticomunisti,
esaltazione fra i comunisti.1
Il contesto italiano
Quel bip bip dà la sveglia al mondo. Significa che la Russia è
all’avanguardia rispetto a tutti gli altri Stati in campo tecnicoscientifico. Perché non dovrebbe esserlo anche in campo socio-politico?
Il bip bip dello Sputnik è fascinoso. Il poeta italiano Salvatore Quasimodo, di getto, quella stessa notte del lancio, celebra in versi la grande
conquista dell’uomo che, diversamente da Dio, ha continuato a lavorare anche il settimo giorno e così avanti fino a riuscire a uguagliare, dopo miliardi di anni, Dio stesso, aggiungendo stelle nel firmamento a
quelle da Lui messe al momento della creazione. La poesia è subito
pubblicata in tutta evidenza sull’“Unità”, il giornale del PCI.2
Lo scontro, planetario, fra comunismo e anticomunismo coinvolge
l’Italia. Anzi l’Italia è un paese di frontiera. Un paese considerato talvolta in bilico da parte degli Stati Uniti d’America per il grande numero di italiani che aderiscono al comunismo: il PCI è il più grande partito comunista dell’Occidente.
Il governo, in Italia, da subito dopo la guerra è in mano alla Democrazia Cristiana che lo gestisce assieme ad alcuni piccoli partiti, fra cui il
Partito Socialdemocratico di Giuseppe Saragat. Saragat è un socialista
che vuol essere socialista senza essere né comunista né fiancheggiatore
del comunismo. Egli rimprovera agli Stati comunisti la mancanza di
democrazia. Si caratterizza proprio per il rifiuto assoluto della dittatu1
È un bip bip mentalmente fragoroso. Rimbomba in tutte le sedute dei governi di
tutto il mondo. Ma anche nelle teste delle persone comuni. C’era addirittura chi sosteneva che dall'alto veniva spiata ogni mossa degli avversari. C’era chi affermava che
a bordo c'erano delle bombe atomiche pronte ad essere sganciate quando si voleva e
dove si voleva. Diversi intellettuali, che dopo i fatti d'Ungheria avevano preso le distanze dal comunismo, ritornarono a fare i panegirici del "piu' forte", per assicurarsi
un posto sul carro del vincitore, l’URSS.
2
In principio Dio creò il cielo / e la terra, poi nel suo giorno / esatto mise i luminari in
cielo / e al settimo giorno riposò. / Dopo miliardi di anni l'uomo, / fatto a sua immagine
e somiglianza, / senza mai riposare, con la sua / intelligenza laica, / senza timore, nel
cielo sereno / d'una notte d'ottobre / mise altri luminari uguali / a quelli che giravano /
dalla creazione del mondo. Amen (S. QUASIMODO. Alla nuova luna).
373
ra. Anche la dittatura del proletariato quale si è instaurata nei paesi al di
là della ‘cortina di ferro’, è considerata da Saragat un dittatura tout
court.
All’opposizione, in Italia, c’è il PCI guidato da Palmiro Togliatti. Il
PCI è affiancato dal PSI di Pietro Nenni che, dopo i fatti d’Ungheria,
cerca, però, un avvicinamento a Saragat. L’incontro Nenni-Saragat a
Pralognan (località alpina in Francia) fa parlare a lungo i giornali.1 Ma
non avrà seguito. Il congresso del PSS tenutosi poco dopo a Venezia
costringerà Nenni a non rompere col PCI.
I governi italiani, nonostante che siano sempre retti da coalizioni incentrate sulla DC e quindi mantengano una certa continuità nella linea politica sia all’interno che verso l’esterno, sono deboli e con durata inferiore all’anno. Dal giugno del 1957 è Presidente del Consiglio il democristiano Adone Zoli. Il suo governo è tutto di democristiani. Un governo monocolore con l’appoggio - non dichiarato ufficialmente - del
Movimento Sociale Italiano e dei Monarchici.
La situazione sammarinese
A San Marino si ha una situazione politica del tutto opposta a quella
italiana: PCS e PSS al governo e PDCS (ossia la DC) all’opposizione.
Tuttavia la comunità sammarinese mantiene al suo interno le strutture
fondamentali di sempre, cioè quelle tradizionali, o, se si vuole, quelle
proprie dei paesi occidentali o capitalisti. Non c’è una modifica sostanziale dell’ordinamento; non si assiste alla soppressione tout court delle
libertà politiche e civili; non si procede nella collettivizzazione della
economia. Il legame con la Russia ed il comunismo internazionale rimane a livello di attestazioni di comunanza di idealità. A San Marino
tengono banco le difficoltà economiche, più che quelle politiche. Le entrate pubbliche faticano a raggiungere i 700 milioni di lire, mentre ce ne
vorrebbero almeno altri 100 ogni anno per fare pari. Il debito pubblico
cresce anno dopo anno, anche perché l’Italia - tutt’altro che contenta
del colore politico del governo del Titano - rallenta l’adeguamento del
‘canone doganale’, cioè del rimborso forfetario dei dazi doganali per le
1
L’incontro fra Nenni e Saragat è seguito a San Marino con molta attenzione e
partecipazione (cfr. A. CASALI, Diario…, cit.).
374
merci provenienti da fuori dell’Italia e destinate al fabbisogno sammarinese.
Nel 1956, proprio mentre il comunismo è in difficoltà sulla scena internazionale ed il PSS per esigenze interne comincia a rivendicare un
ruolo più autonomo nella coalizione di governo, il PCS reagisce - almeno sulla carta - con molta durezza. Richiama l’alleato alla comune
matrice marxista e propone la risoluzione dei problemi strutturali di fondo1 del paese, cioè, in pratica, l’avvio della trasformazione radicale della
società secondo gli schemi degli Stati del cosiddetto ‘socialismo reale’,
cioè quelli siti al di là della cortina di ferro. Ecco i punti del programma: una Costituzione moderna e democratica; un rinnovamento degli organi esecutivi e giuridici; uno sviluppo dell’economia in senso collettivistico
e statale. Quello che appare a prima vista un semplice sfoggio di massimalismo, è accompagnato da un fatto concreto: l’instaurazione dei rapporti ufficiali con l’URSS a livello di consolato generale.2 Viene aperto a
San Marino un consolato russo addirittura con rango superiore a quello
italiano, attivato sul Titano già alla fine dell’Ottocento. Ovviamente
l’iniziativa attira le attenzioni del governo italiano.3 E non solo quelle
del governo italiano. Il 12 luglio c’è la prima visita in Repubblica di
detto console russo, con l’accompagnamento di voci di un consistente
apporto finanziario sotto forma di prestiti a vario titolo al governo sammarinese.
Poi, in autunno, accadono i fatti d’Ungheria.
Verso la fine dello stesso 1956 esplode nel PSS lo scontro fra la maggioranza guidata da Gino Giacomini, assertrice del mantenimento
dell’accordo di governo PSS-PCS, e la minoranza capeggiata dal segretario
del partito Casali favorevole al superamento di tale formula per uscire dalla condizione di isolamento del paese.4 Il dr. Alvaro Casali si dimette da
segretario del partito e da direttore del giornale del partito, “Il Nuovo
Titano”.
1
Lettera del PCS al PSS, 5 luglio 1956, in A. CASALI, Diario…, cit., p. 172.
C. BUSCARINI, La lotta politica a San Marino nel decennio 1950-1960, in “Studi
Romagnoli”, a. XLVII, 1996, p. 805.
3
Ibidem, p. 806.
4
Ibidem.
2
375
Il 4 febbraio 1957 lo stesso Casali e due suoi compagni di partito e consiglieri, il geom. Domenico Forcellini e l’avv. Giuseppe Forcellini, si
dimettono dal Congresso di Stato. E prima della fine dello stesso mese i
tre, unitamente ad altri due consiglieri socialisti dissidenti, Federico
Micheloni e Pio Galassi, costituiscono un nuovo gruppo - un gruppo di
cinque consiglieri - che, nella Sala del Consiglio, va ad occupare anche
fisicamente un proprio distinto spazio, al centro dello schieramento
parlamentare.
Il 24 marzo la frattura all’interno del PSS è annunciata pubblicamente
dai dissidenti in un comizio, frequentatissimo, nel Teatro Titano. Il
giorno successivo scatta l’espulsione di Casali dal PSS.
Il 14 aprile viene fondato il PSDIS.
Il governo, benché fin da febbraio ormai potesse contare soltanto su 30
consiglieri, di fatto, per mesi, in Consiglio non si è trovato in grosse
difficoltà nel far approvare le leggi o le deliberazioni sottoposte
all’esame dell’aula. Nemmeno, però, contro i dissidenti sono state organizzate manifestazioni miranti a impedirne, come più volte minacciato, l’ingresso nella Sala del Consiglio. In sostanza la dissidenza rimane a
lungo in mezzo al guado. Ad esempio nel Consiglio del 18 marzo, al
momento dell’elezione dei nuovi Capitani Reggenti, i dissidenti non
propongono dei loro candidati magari in accordo con l’opposizione.
Né votano all’unisono con la maggioranza. Si distinguono scrivendo
sulla scheda solo uno dei due nomi proposti dalla maggioranza: quello
del candidato socialista, Giordano Giacomini, e non quello del comunista, Primo Marani.
Con la fondazione ufficiale del nuovo partito, il PSDIS, le cose cambiano.
Le lettere di dimissioni con la data in bianco
Era consuetudine del PCS e del PSS far firmare ai loro candidati nelle
elezioni politiche una lettera di dimissioni dal Consiglio con la data in
bianco. La lettera era lasciata in mano al segretario del partito come garanzia che, in caso di elezione, il soggetto avrebbe continuato a tenere
un comportamento in linea con le direttive impartitegli. Anche nel
1955 ciò era avvenuto. Fra gli altri, avevano firmato dette lettere anche
376
quattro dei cinque dissidenti: Casali, i due Forcellini e Micheloni. Non
Galassi.
Il PCS preme sul PSS perché si avvalga di quelle lettere nei confronti
dei dissidenti, in modo da sostituirli in Consiglio coi primi dei non eletti nella lista presentata nelle elezioni del 1955. Ma Gino Giacomini,
leader indiscusso del PSS, sostiene - anche pubblicamente ed anche per
iscritto - che una lettera di dimissioni in bianco non è un documento
operante automaticamente in sede parlamentare.1 Insomma non basta, a
suo dire, produrre alla Reggenza un pezzo di carta per far dimettere un
consigliere contro la sua volontà.2
Il PSS tenta un’altra strada. Il 19 maggio viene convocato il Congresso
del partito. Vi si discute a lungo dei dissidenti. Al termine i delegati approvano alla unanimità un invito-ordine agli ex compagni che avevano
abbandonato il Partito a dimettersi anche dal Consiglio.3
I dissidenti socialisti resistono anche a questo ulteriore sollecito, fatto
pervenire loro dalla base del partito. Non recedono. Anzi, vista
l’insistenza con cui le loro dimissioni vengono chieste, temendo un
colpo di mano, corrono ai ripari. Il 25 giugno si presentano davanti alla
Reggenza per dichiarare formalmente di considerare nullo il valore delle lettere di dimissioni firmate con la data in bianco nel 1955 e per far
presente, una volta per tutte, che non è loro intenzione lasciare il Consiglio. Lo stesso giorno confermano questa loro precisa volontà di rimanere in Consiglio mediante un documento, consegnato alla stessa
Reggenza, con le loro quattro firme.
Il colloquio con la Reggenza e la consegna alla stessa del documento
firmato contenente le ritrattazioni delle lettere di dimissioni, accresco1
In previsione di eventuali incompatibilità la Direzione si è fatta rilasciare da ciascun
consigliere una lettera di dimissioni firmata in bianco. Sono d’avviso che un simile documento, moralmente valido, non sia operante automaticamente in sede parlamentare (G.
GIACOMINI, Il P.S.S. nella presente situazione, San Marino 1957).
2
Non sappiamo se, per uscire dall’impasse, PSS e PCS abbiano preso in considerazione la possibilità della convocazione anticipata dei comizi elettorali, provocando lo
scioglimento del Consiglio con la presentazione d’un sol colpo alla Reggenza di tutte
le 34 lettere di dimissioni in loro possesso.
3
Il Congresso Socialista del 19 maggio 1957 aveva inoltrato ai dissidenti una formale ingiunzione a dimettersi (Archivio di Stato RSM, Verbali del Consiglio del 28 giugno
1957, intervento di Primo Bugli).
377
no enormemente l’irritazione nei confronti dei dissidenti da parte del
PSS e dell’intera coalizione governativa. Il 28 giugno il segretario del
PSS, Primo Bugli, è costretto a parlarne in Consiglio. Egli invita ancora
una volta i dissidenti a rassegnare le dimissioni dal Consiglio stesso, a
nome del partito e della maggioranza.
L’invito, seduta stante, è respinto - a nome di tutti i dissidenti - da Casali, il quale annuncia che i membri consiglieri del Partito Socialista Indipendente non daranno le dimissioni e che resteranno invece, al proprio posto per compiere fino in fondo il proprio dovere.1
Dunque nel documento consegnato alla Reggenza e nel verbale di una
seduta del Consiglio risulta scritto nero su bianco che i dissidenti, nel
giugno 1957, hanno dichiarato essere nullo il valore delle lettere di dimissioni con la data in bianco sottoscritte nel 1955 ed hanno espresso
chiaramente ed inequivocabilmente la volontà di rimanere in Consiglio
fino alla fine del mandato.
L’oscuro precedente del 1955
I dissidenti, nonostante che abbiano espresso formalmente con un apposito documento consegnato alla Reggenza e con una dichiarazione in
Consiglio la loro volontà di non dimettersi, rimangono sul chi vive.
Temono un colpo di mano della maggioranza. Già nel 1955 la Reggenza, per favorire la maggioranza, si era assunta la responsabilità di un atto stigmatizzato come gravemente antidemocratico dalle forze di opposizione.
Il 1955 era anno di elezioni. Le precedenti si erano effettuate nel settembre del 1951; la durata della legislatura, per legge, era di quattro anni.
La data di svolgimento delle elezioni era stata posta all’ordine del giorno del Consiglio dell’11 luglio 1955. Si trattava di scegliere una domenica attorno alla metà di settembre. Ebbene, arrivato il momento di esaminare lo specifico comma della data delle elezioni, il 17°, l’ultimo, la
Reggenza non aprì la discussione, ma comunicò di aver avocato a sé la
decisione. Informò che le elezioni avrebbero avuto luogo il 14 agosto. Il
comma non venne trattato. Non fu data a nessuno la possibilità di in1
Archivio di Stato RSM, Verbali del Consiglio del 28 giugno 1957, intervento di Alvaro Casali.
378
tervenire. Nemmeno ci fu una votazione per presa d’atto della decisione della Reggenza. La Reggenza comunicò questa sua decisione punto e
basta. Aggiunse solo di aver scelto tale data per dar modo ai cittadini che
si trovano all’estero, nell’occasione del ferragosto, di partecipare al voto.1 E
precisò che avrebbe mandato immediatamente a pubblicare il relativo
manifesto.2
Secondo Bigi, il leader dell’opposizione, la Reggenza con questo atto
era andata a sostituire una semplice mansione amministrativa riconosciutale dalla legge, quale quella di rendere pubblica la convocazione dei Comizi Elettorali mediante manifesto, con una attribuzione deliberativa3 che
non le spettava e che non era nei suoi poteri.
Si legge nel verbale della seduta: all’annuncio della Reggenza la minoranza protesta e tutta in piedi inveisce contro la Reggenza ed i consiglieri
della maggioranza. Nasce una serrata confusione con scambi di parole e di
invettive per cui la Reggenza scende dal trono e dichiara sciolta la seduta
alle ore 19.4
L’opposizione rimase a lungo indecisa se partecipare o no alle elezioni.
Infine vi partecipò. Ma le elezioni di quell’anno furono un’altra occasione di accesa polemica. Fra i motivi principali del contrasto,
l’identificazione degli elettori ed il loro numero.5
1
Archivio di Stato RSM, Verbali del Consiglio dell’11 luglio 1955.
Ibidem. Il manifesto contiene il testo del seguente decreto: Visto l'articolo 11 della
legge elettorale 15 ottobre 1920, n.18; convochiamo i comizi elettorali per le elezioni generali del Consiglio Grande e Generale, nel giorno di domenica 14 agosto 1955. Firmato, i
Capitani Reggenti Domenico Forcellini - Vittorio Meloni (decreto 12 luglio 1955, n. 22).
3
Intervento del consigliere Federico Bigi, documento allegato al verbale del Consiglio
del 16 settembre 1955. Continua Bigi: questo dell’11 Luglio costituisce uno dei precedenti
più pericolosi per l’equilibrio della nostra società sammarinese nella quale oramai il bene e
il male, anziché essere identificabili secondo ordini di valori eterni e morali, vengono subordinati al tornacontismo politico e, di necessario riflesso, agli interessi individuali.
4
Si legge ancora nell’intervento di Bigi: Qui la sera dell’11 Luglio, presenti i sessanta
componenti il Consiglio Grande e Generale, fu impedita la discussione del 17° comma
dell’Ordine del Giorno che contemplava il fondamentale argomento della convocazione
dei Comizi Elettorali: non fu rispettato il diritto di parola di ciascun Consigliere e il diritto pertinente al Consiglio stesso di decidere con il proprio voto di ogni problema sottoposto
al suo giudizio.
5
Non era stato ancora introdotto il certificato elettorale. Bastava essere riconosciuti
dai componenti il seggio (scelti dal governo) per avere diritto al voto. Furono segnala2
379
L’opposizione, nella prima riunione del Consiglio successiva alle elezioni, il 16 settembre, denunciò come un atto di abuso da parte della
Reggenza quell’anticipazione delle elezioni senza una deliberazione del
Consiglio.1
Gli Stati Uniti nella vicenda
Dal 18 luglio al 18 agosto 1957 Bigi è in visita negli Stati Uniti su invito
del governo di quel paese. Un fatto eclatante, ma non sorprendente. Ai
primi di marzo era stato in visita a San Marino - ignorando del tutto le
autorità di governo - un autorevole funzionario dell’ambasciata degli
Stati Uniti a Roma, il quale aveva incontrato gli esponenti dei partiti di
opposizione e una rappresentanza dei dissidenti socialisti. Casali scrive
nel suo Diario di essere andato al colloquio con l’intento di approfondire con il Diplomatico, la disponibilità politica e finanziaria del suo Governo al nostro Paese, nella auspicata evenienza politica di costituire un Governo a San Marino, con l’esclusione dei Comunisti. Gli viene risposto:
l’America sicuramente darà quell’appoggio, mai negato ad alcun Paese democratico del mondo.2
Il 18 giugno fu il Segretario di Stato per gli Affari Esteri Gino Giacomini a compiere una visita informale al consolato americano di Firenze
per sondare la disponibilità del governo degli Stati Uniti ad assumere
una posizione meno intransigente verso San Marino.3 Egli cercò di recuperare la situazione nei confronti del governo americano, sminuendo
il ruolo nel governo della Repubblica svolto dal PCS e manifestando un
certo ottimismo circa la possibilità di comporre la frattura coi dissidenti.
Verso lo scontro
te, dalla opposizione, presenze di forestieri e perfino delle discordanze sui numeri dei
votanti e degli aventi diritto al voto.
1
Archivio di Stato RSM, Verbali del Consiglio del 16 settembre 1957.
2
A. CASALI, Diario…, cit., p. 52. Scrive inoltre Casali: detto incontro è la continuazione della presa di contatto che ho realizzato a Firenze, con il Console Americano.
L’incontro a Firenze era avvenuto il 12 gennaio di quello stesso anno, presente anche
Bigi.
3
C. BUSCARINI, La lotta politica… , cit., p. 809.
380
L’estate del 1957 non porta novità. Il Consiglio continua ad essere diviso a metà: 30 consiglieri contro 30. Il governo, nell’incertezza, ne rimanda la convocazione. Di rimando in rimando si arriva all’elezione
dei Capitani Reggenti per il semestre 1° ottobre 1957 – 1° aprile 1958. I
Capitani Reggenti pro tempore non possono non convocare il Consiglio per l’elezione dei loro successori. Lo devono convocare - dicono le
norme - fra il 10 ed il 20 di settembre. I Capitani Reggenti Giordano
Giacomini e Primo Marani convocano il Consiglio per giovedì 19 settembre 1957 alle ore 15.
Questa volta i dissidenti non voteranno per il candidato socialista proposto dal governo come era avvenuto a marzo. Ora non sono più un
gruppo isolato. Assieme a democristiani e socialdemocratici hanno dato
vita ad una alleanza chiamata compagine democratica.1 Mercoledì 18 settembre, proprio alla vigilia del Consiglio, Bigi, Giancecchi e Galassi
portano alla Reggenza un documento, sottoscritto da 30 consiglieri. Invitano la Reggenza a prendere atto della perdita della maggioranza da parte dell’attuale coalizione governativa. Chiedono che la seduta consiliare,
già indetta, si svolga nel rispetto più rigoroso delle norme legislative. In fine, a mo’ di avvertimento, aggiungono che di ogni atto incostituzionale,
di ogni sopruso, di ogni menomazione della libertà, cadrebbe sull’Ecc.ma
Reggenza la grave responsabilità di fronte al Paese, al mondo civile e alla
storia.2
I 30 diventano 31
Lo stesso mercoledì 18 settembre in cui la delegazione della compagine
democratica va dalla Reggenza per presentare il documento attestante
fra l’altro la perdita della maggioranza consiliare da parte della coalizione governativa, comincia a circolare nel paese la notizia che il consigliere Attilio Giannini, eletto nel 1955 come indipendente nella lista del
PCS, ha abbandonato la coalizione governativa per unirsi ai 30 consiglieri dell’opposizione.
La voce su Giannini è fondata. Se ne ha conferma il giorno dopo, cioè
giovedì 19 settembre: lo stesso giorno in cui è convocato il Consiglio.
1
La denominazione compare, fra l’altro, nella Dichiarazione di Attilio Giannini, Archivio di Stato RSM, Segreteria Interni, Busta 324.
2
F. BIGI, Pagine sammarinesi, Rimini, p. 184, documento in nota.
381
Il Consiglio è convocato per le ore 15.
Alle ore 11 Bigi, Giancecchi e Galassi chiedono di nuovo udienza alla
Reggenza. Esibiscono un documento firmato dai consueti 30 consiglieri
della compagine democratica ed un ulteriore documento firmato da Attilio Giannini, con cui egli dichiara di aderire alla formazione della maggioranza consiliare composta dai gruppi democristiano, socialista indipendente e socialista democratico.1
Dunque, Bigi, Galassi e Giancecchi alle ore 11 del 19 settembre comunicano formalmente alla Reggenza che si è costituita una nuova maggioranza consiliare. Con ogni inerente conseguenza - precisano - a partire da
quello stesso giorno: nel pomeriggio la nuova maggioranza non avrebbe
votato per i Reggenti proposti dal Governo, ma due propri candidati.
Fanno sapere, inoltre, di essere preoccupati per la voce … che il Consiglio
non si sarebbe più riunito. Nel caso i tre rappresentanti della compagine
democratica non esitano ad indicare come responsabile la Reggenza stessa.
La Reggenza assicura Bigi, Giancecchi e Galassi che il Consiglio avrebbe avuto luogo regolarmente.2
Appena i tre rappresentanti della compagine democratica lasciano il Palazzo, la Reggenza convoca urgentemente il Congresso di Stato. Il Congresso prende in esame il parere del giurista cesenate avv. Comandini,3
riportato da Gino Giacomini e Domenico Morganti appena tornati,
appunto, da Cesena dove si erano recati di buon’ora, quello stesso giorno.
Poco dopo Gildo Gasperoni per il Partito Comunista ed Enrico Andreoli
per il Partito Socialista presentano alla Reggenza le lettere di dimissioni
da consiglieri della precedente maggioranza con firme autentiche datate 19
settembre 1957.
Le lettere sono complessivamente 34.
1
F. BIGI, Pagine… , cit., p. 33, documento in nota.
I rappresentanti della nuova maggioranza ebbero però assicurazione in merito (G.P.
SOZZI, Appunti su «Rovereta» e la crisi sammarinese del 1957, in “Studi Romagnoli”, a.
XXXV, 1984 p. 458).
3
Ibidem, p. 459. Secondo Casali alle 7,30 è partita da San Marino un’auto con a bordo
l’avv. Domenico Morganti (PCS) e Gino Giacomini (PSS) per conferire con l’avv.
Giacomo Comandini a Cesena, rientrata poi a San Marino dopo le 11 (cfr. A. CASALI, Diario…, cit., p. 96).
2
382
Fra di esse ci sono quelle degli stessi due Reggenti in carica, Giordano
Giacomini e Primo Marani. Ci sono quelle di quattro consiglieri eletti
nel 1955 nella lista del PSS ed ora appartenenti al PSIS cioè Alvaro Casali, Domenico Forcellini, Giuseppe Forcellini e Federico Micheloni.
C’è quella del consigliere Attilio Giannini eletto nel 1955 come indipendente nella lista del PCS, che aveva comunicato per iscritto alla
Reggenza poche ore prima di aver lasciato la maggioranza per aderire
alla nuova compagine democratica, senza di certo aver espresso la volontà di dimettersi dal Consiglio.
La Reggenza annuncia quindi con un manifesto affisso sulla porta del
Palazzo che le sono pervenute appunto le lettere di dimissioni di 34
consiglieri e stabilisce che il Consiglio deve considerarsi sciolto.1 E con
un ordine scritto al Capitano Sozzi dispone che il pubblico Palazzo, dalle
ore 14 del 19 corrente e fino a nuovo ordine, rimanga chiuso e presidiato
dalle forze di Polizia. È consentito l'accesso ai Segretari di Stato e alle persone da Loro stessi autorizzate.2
Nello stesso pomeriggio del 19 settembre la Reggenza emette il decreto
che fissa le elezioni per il 3 novembre.3
Dopo il 19 settembre: la voce dei governanti
I 31 consiglieri della nuova maggioranza con i loro sostenitori, dopo
aver tentato invano di entrare nel Palazzo, annunciano dal sagrato della
1
G. P. SOZZI, Appunti su «Rovereta» …, cit. p. 459. Ecco il testo del decreto reggenziale: La Ecc. Reggenza, essendole ora pervenute le dimissioni scritte di n. 34 Consiglieri
già facenti parte dei Gruppi Consigliari Socialista e Comunista, dichiara che per il preciso
disposto dell'art. 8 della legge elettorale 15 ottobre 1920, n. 18, il Consiglio Grande e Generale deve considerarsi sciolto e si riserva di disporre ai sensi dell'art. 11 di detta legge la
convocazione dei comizi elettorali (Decreto 19 settembre 1957, n. 14). L’art. 8 della legge elettorale recita: Il Consiglio Grande e Generale della Repubblica è formato di sessanta
membri. Si rinnova totalmente ogni quattro anni, o quando, per dimissioni od altra causa straordinaria, venisse a perdere la metà piu' uno dei suoi membri. L’art. 11 della legge
elettorale recita: I Comizi per le elezioni generali e parziali del Consiglio sono convocati
dalla Reggenza con manifesto reso pubblico almeno un mese prima della data della
convocazione.
2
G. P. SOZZI, Appunti su «Rovereta»…, cit., p. 459.
3
Visto l'articolo 11 della legge elettorale 15 ottobre 1920, n.18, convochiamo i comizi elettorali per le elezioni del Consiglio Grande e Generale pel giorno di domenica 3 novembre 1957 (Decreto 19 settembre 1957, n. 15).
383
Pieve che avrebbero proseguito il movimento di riscossa fino alla irrevocabile vittoria.1 Però, poco dopo aver rilasciato tale dichiarazione, i
31, indisturbati, rientrano nelle loro case.
I governanti ed i loro sostenitori, invece, con l’appoggio della forza
pubblica, si schierano a difesa del Palazzo paventando forse qualche
colpo di mano degli avversari.2
Il Governo del Palazzo esprime il suo compiacimento per il fatto che la
giornata del 19 sia trascorsa in quel clima di tolleranza e di rispetto che
è proprio dei popoli civili e democratici; si dice sicuro di aver adottato
legali e statutarie disposizioni per normalizzare una situazione grave e
pericolosa; invita a mantenere la calma e la serenità; diffida tutti coloro
che hanno responsabilità politiche ad astenersi da qualsiasi iniziativa in
contrasto colle leggi e con le disposizioni emanate; avverte che contro
chiunque … tenterà di turbare l’ordine pubblico, verranno adottate risolutamente le più severe sanzioni di legge.3
Il paese però non rientra nella normalità.4 La tensione rimane alta.
L’attività dei partiti è frenetica.
PCS e PSS ostentano sicurezza e, soprattutto, cercano di giustificare
l’operato del governo e della Reggenza, preoccupandosi di respingere le
accuse di aver perpetrato un colpo di stato, ledendo il principio della
libertà. Sostengono che allorché l’Ecc.ma Reggenza si è trovata di fronte a regolari dimissioni di oltre la metà dei membri del Consiglio
Grande e Generale, non poteva fare altro che applicare gli articoli 8 e
11 della legge 15 Ottobre 1920, e cioè ritenere sciolto il Consiglio stesso
e convocare i Comizi Elettorali.5 In sostanza affermano che il Consiglio, avendo perso la metà dei consiglieri, non avrebbe potuto più svolgere la sua funzione. Perciò doveva intendersi sciolto. Il Consiglio, una
volta sciolto, non era più nella possibilità di compiere un qualsiasi atto.
1
A. CASALI, Diario…, cit., p. 119.
Ibidem, p. 120.
3
Ciclostilato del Governo letto in G. P. SOZZI, Appunti su «Rovereta» …, cit, p. 460.
4
La gravità di una situazione insolita, si percepiva nell’aspetto notturno della città: non
un passante per le silenziose strade, mute le case sbarrate…. Sul paese pesava una sinistra
cappa di piombo, atmosfera ed ore così tristi e minacciose, mai viste nella storia recente
(A. CASALI, Diario…, cit., p. 120).
5
Comunicato dell’Ufficio Stampa della Segreteria di Stato in G. P. SOZZI, Appunti
su «Rovereta» …, cit, p. 460.
2
384
Compreso quello della nomina dei nuovi Reggenti. È vero, infatti, che
la legge 24 marzo 1945 n. 15 autorizza la nomina dei Capitani Reggenti,
qualunque sia il numero dei Consiglieri, ma presuppone un Consiglio
ancora in piena e legittima funzione. Alle ore 15 di quel 19 settembre
1957 il Consiglio, di fatto, non esisteva più.
PCS e PSS ritengono che si possa uscire dalla situazione solo riconoscendo da parte di tutti la regolarità dello scioglimento del Consiglio
effettuato dalla Reggenza ed impegnandosi tutti per dare la possibilità
alla gente di esprimersi in serenità attraverso le nuove elezioni già convocate per il 3 novembre. Non c’è motivo per diffidare delle elezioni.
Per sfatare ogni sospetto circa la regolarità del loro svolgimento il Governo ha rivolto all’O.N.U. l’invito a inviare qui alcuni suoi fiduciari.
Dopo il 19 settembre: la voce dei 31
La compagine democratica difende il suo diritto-dovere di assumere la
guida del paese, denunciando al paese e al mondo il colpo di Stato socialcomunista del 19 settembre 1957.1 Ritiene di essersi mossa sempre nella
piena legalità pur sapendo che i rossi non avrebbero rispettato il gioco democratico e che con ogni mezzo e con qualunque espediente sarebbero rimasti abbarbicati al potere.2 Ricorda che la Reggenza, nelle due occasioni in
cui i rappresentanti della nuova maggioranza ebbero a consegnare i documenti, assicurò che la seduta del Consiglio si sarebbe svolta regolarmente.
Così non è stato. Inaspettatamente la Reggenza ha considerato valide
tutte le lettere di dimissioni presentate da Andreoli e Gasperoni.
Le lettere di dimissioni firmate nel 1955 in bianco da Alvaro Casali,
Domenico Forcellini, Giuseppe Forcellini e Federico Micheloni erano
state annullate, oltre che con espresse dichiarazioni nel Consiglio del 28
giugno, anche nel corso di una udienza chiesta appositamente ai Capitani Reggenti il 25 giugno.
Perciò i Capitani Reggenti, i medesimi che presiedevano il Consiglio
del 28 giugno e avevano ricevuto personalmente dette ritrattazioni il 25
giugno, avevano il dovere di scorporare dalle 34 lettere consegnate da
Andreoli e Gasperoni, per lo meno, le quattro di quei nominativi, an1
Opuscolo con questo titolo pubblicato dall’Ufficio Stampa del P.D.C.S. il 28 settembre 1957, in F. BIGI, Pagine …, cit., p. 181.
2
Ibidem, p. 185.
385
che se datate, come tutte le altre, 19 settembre. O, comunque, avrebbero dovuto sentire il dovere di accertarsi di persona della reale volontà di
questi quattro consiglieri di lasciare il Consiglio.
La Reggenza, inoltre, ha abusato dei suoi poteri e si è posta fuori dalla
legge anche per un altro motivo: sciogliendo il Consiglio dopo la regolare convocazione della seduta consiliare per la nomina dei nuovi Reggenti, ha autoproclamato, di fatto la sua permanenza al potere oltre il
termine del 30 settembre 1957,1 cioè oltre i sei mesi previsti dagli Statuti. Si tratta di una violazione degli Statuti che non ha precedenti.
Quanto alle elezioni del 3 novembre, non c’è da avere nessuna fiducia:
dati la legge ed i metodi comunisti, i rossi hanno la possibilità di attribuirsi qualunque numero di seggi e qualunque percentuale di voti in loro favore,2 visto quanto avvenuto nel 1955. L’invito all’ONU a mandare osservatori è ritenuto nulla più di un escamotage propagandistico.
Dopo il 19 settembre: tutti si rivolgono all’esterno
Scrive Alvaro Casali nel suo Diario che nella compagine democratica
dopo il 19 settembre viene decisa questa linea: ogni partito si appoggerà
su quelle personalità italiane affini ai propri schieramenti, per avere appoggi e consigli.3
Ed è proprio così.
L’interlocutore primo dello stesso Casali è il parlamentare socialdemocratico italiano Luigi Preti.
Bigi ha certamente dei colloqui con Adone Zoli, capo del governo italiano, e con Amintore Fanfani, segretario della Democrazia Cristiana
italiana. Poi il 25 settembre anche con l’ambasciatore americano a Roma.
La preoccupazione principale dei referenti esterni della compagine democratica sembra essere quella di impedire che dalle limitrofe zone italiane accorrano a San Marino uomini della sinistra e, in particolare, ex
1
Ibidem.p. 188.
Ibidem, p. 192.
3
A. CASALI, Diario…, cit., p. 99.
2
386
partigiani, e San Marino diventi il luogo di uno scontro per obiettivi ed
interessi inerenti alla politica italiana ed internazionale.1
Anche i partiti della ex maggioranza consiliare non stanno con le mani
in mano. È certo un aiuto del PCI e del PSI attraverso due uomini di
punta, quali Giancarlo Pajetta e Francesco Lami. I due deputati italiani
prendono stanza nella città di San Marino, presenti sempre con la parola ed il consiglio per incitare la resistenza, promettendo sempre ulteriori aiuti dai compagni italiani mobilitati in ogni luogo a fiancheggiare
l’azione, scrive Casali.2
Insomma, i giorni che seguirono la data del 19 settembre furono
d’intensa attività per tutti i partiti. Vi era in ogni cittadino la certezza
che qualche cosa maturasse e si manifestasse all’improvviso.3 E così è.
La nuova maggioranza non potendo esercitare i suoi diritti elabora un
piano d’azione da sviluppare tempestivamente, in assoluta segretezza.
Un piano che ha il profilo di una vera rivoluzione ed è messo in atto
all’improvviso disorientando completamente gli avversari,4 appunto,
con l’effetto sorpresa.
La mezzanotte del 30 settembre
Nella prima serata del 30 settembre i consiglieri della nuova maggioranza raggiungono alla spicciolata un locale di Rimini da dove, verso le
23 circa, partono assieme alla volta della Repubblica di San Marino
fermandosi a Rovereta, cioè la prima località sammarinese subito a ridosso del confine. Lì prendono possesso di uno stabilimento industriale
in disuso sito su un promontorio di territorio sammarinese in territorio
italiano ed allo scoccare della mezzanotte, cioè quando finisce il mandato dei Capitani Reggenti in carica, danno vita ad un Governo Provviso-
1
È doveroso dire che disegni e interessi estranei alla vita sammarinese volevano servirsi
del sacrificio di San Marino. E gli esecutori locali puntavano obbedienti verso questo sacrificio, chiamando il popolo a una resistenza priva di mezzi e di prospettive (E. BELISARDI, Anni rossi. Quaderno intimo di quattro legislature, San Marino 1945-1957, Rimini
1957, letto in A. CASALI, Diario…, cit., p. 201).
2
Ibidem, p. 123. Fra l’altro, Casali cita in proposito scritti di G. Reffi (p. 214) e E.
Belisardi (p. 201).
3
Ibidem, p. 120.
4
Ibidem, p. 121.
387
rio nelle persone dei componenti il Comitato Esecutivo: Bigi, Casali,
Giancecchi e Savoretti.
Roma provvede subito a dispiegare, in territorio italiano, delle forze a
difesa dell’area dello stabilimento, controllandone in sostanza tre lati su
quattro.
La notizia della costituzione del Governo Provvisorio viene subito diffusa durante la notte col passaparola all’interno della Repubblica ed
all’esterno attraverso le agenzie di stampa e la radio. Immediatamente il
Governo Provvisorio riceve il riconoscimento dell’Italia. Poi seguirà
quello di altri paesi.
Alla notizia della costituzione del Governo Provvisorio, la piazza del
Pianello si riempie di sostenitori del Governo.1 Il Governo del Palazzo.
Allora la Reggenza, anche per calmare gli spiriti più bollenti, decide
l’istituzione di un Corpo di Milizia Volontaria che entra immediatamente in funzione.
Probabilmente la vecchia maggioranza teme una sortita sul Palazzo da
parte del Governo Provvisorio, col sostegno dei suoi fedelissimi e - come pure andava ventilandosi - di militari italiani ‘gendarmizzati’.
In effetti il Governo Provvisorio col suo primo decreto si limita a ordinare a tutti i Corpi Militari e la Gendarmeria di mettersi al servizio
del nuovo Governo.2 Il decreto è fatto pervenire direttamente al Capitano Sozzi con una lettera d’accompagno: È suo dovere categorico in
questo particolare momento di prendere tutte le misure indispensabili
per il mantenimento dell’ordine pubblico in tutto il territorio della
Repubblica.
La radio italiana la sera del 1° ottobre diffonde la notizia che il Comandante della Gendarmeria si è incontrato con gli esponenti del Governo Provvisorio ai quali ha dichiarato di essere deciso a mantenere
l’ordine pubblico.3
Sozzi non si trasferisce a Rovereta, ma non manca all’impegno di vigilare perché i contrasti politici non pregiudichino la sicurezza delle persone.
1
G. P. SOZZI, Appunti su «Rovereta» …, cit., p. 464.
Ibidem, p. 465.
3
Ibidem, p. 466.
2
388
Ciascuno dei due governi inonda la stampa di messaggi, proclami, bollettini; convoca, ogni giorno, conferenze stampa; ottiene riconoscimenti e sostegni; promuove manifestazioni dentro il territorio e fuori; dà
ordini e chiede attestazioni di fedeltà.
Ciascuno dei due governi non manca di collaborazioni e di aiuti esterni.
Ciascuno dei due governi chiama a raccolta i suoi sostenitori e li dota di
armi. Una fascia per distinguersi sul Pianello, una fascia a Rovereta.
Fucili sul Pianello, fucili a Rovereta.
Si ricrea una situazione di stallo.
Ci sono diversi tentativi di risolvere la situazione con un compromesso. Il Comm. Oliviero Cappelli, un italiano al servizio
dell’Amministrazione Pubblica sammarinese, si propone come mediatore: è accettato da entrambe le parti, ma non riesce ad andare oltre ad
una prima bozza di accordo. Fallisce pure una trattativa diretta fra delegazioni delle due parti, svoltasi a Rimini. Tuttavia il Governo Provvisorio, nonostante questi fallimenti, non si spinge a procedere con la
forza1 magari con l’arruolamento volontario di nuovi gendarmi. Insomma non prende la decisione di marciare verso la piccola capitale per
imporre la legalità repubblicana, come i più andavano prevedendo.
Sozzi assume un ruolo super partes
La situazione si sblocca il 7 ottobre, quando ha luogo, a Rovereta, una
riunione dei 31 consiglieri della nuova maggioranza. Si procederà senza
l’uso della forza.
Il giorno 8 il Governo Provvisorio conferisce al Comandante della
Gendarmeria, Capitano Ettore Sozzi, i pieni poteri per il mantenimento dell’ordine pubblico.2
Il giorno 10 il Governo Provvisorio ordina allo stesso Sozzi di predisporre la sistemazione per un nuovo Corpo di Gendarmeria in Città.
Sistemazione che avverrà al Kursaal, previa requisizione.
Lo stesso giorno 10 ottobre appare un manifesto indirizzato al popolo
di S. Marino emesso di comune accordo delle parti: Il Governo della
Repubblica ha affidato al Comando della Gendarmeria i pieni poteri
1
2
A. CASALI, Diario…, cit., p. 126
G. P. SOZZI, Appunti su «Rovereta» …, cit., p. 474.
389
per il mantenimento dell’ordine pubblico e per il ripristino della normalità.
Ogni cittadino ha il preciso dovere di contribuire con alto senso di responsabilità e consapevole civismo perché vengano evitati disordini e
non siano compiuti atti inconsulti lesivi dell’Autorità costituita e
dell’incolumità personale.
Confida che la Repubblica in questa storica data ora saprà dare al mondo una dimostrazione di ordine e di civile convivenza tale da superare
definitivamente i dolorosi contrasti che hanno turbato in questi ultimi
anni la vita del paese.1
Il 14 ottobre
Il giorno 11 ottobre il Governo del Palazzo dichiara di cedere alla sopraffazione e di cessare da ogni resistenza, facendo offerta di questo sacrificio al bene supremo della Patria.2
In contemporanea la Reggenza emana un decreto per lo scioglimento
della Milizia Volontaria istituita il 1° ottobre.
Il 14 ottobre, con un grandissimo concorso di gente, il Governo Provvisorio lascia Rovereta e - per buona parte del percorso, fra due ali
di folla plaudente - sale sul Titano e si insedia nel Palazzo Pubblico.
Apre il corteo una grande bandiera della Repubblica a riprova della volontà della nuova maggioranza politica di far ritornare da subito il paese alla normalità.
È stato scritto da un osservatore diretto: In cento braccia inesperte è
stata cucita una fascia. Cento dita potevano premere il grilletto.3 I primi
fucili rudimentali sono stati sostituiti talvolta da armi moderne ed au1
Manifesto letto in G.P. SOZZI, San Marino e le sue forze armate: in particolare la
gendarmeria, in “Studi Romagnoli”, a. XXXVII, 1986 p. 282. Il Capitano Ettore Sozzi, in un primo tempo, resterà in servizio anche col nuovo governo; poi improvvisamente il rapporto si interromperà. Scrive a questo proposito suo figlio Giorgio: Nonostante le promesse di non mettere in opera vendette di alcun genere con una delibera del
Congresso di Stato del 31 gennaio 1958, avente per oggetto “Provvedimenti inerenti il
Comando di Polizia” si stabilisce quanto segue: con le ore 24 del 31 gennaio 1958 cessino
le funzioni del Capitano Ettore Sozzi da Comandante della gendarmeria ed Ispettore della
Polizia Urbana (G. P. SOZZI, Appunti su «Rovereta»…, cit., p. 478).
2
G. P. SOZZI, Appunti su «Rovereta»…, cit., p. 475.
3
E. BELISARDI, Anni rossi…, letto in A. CASALI, Diario…, cit, p. 202.
390
tomatiche spuntate come funghi sotto la pioggia e non tutti i funghi erano nostrani. Eppure mai la situazione è degenerata nell’irreparabile.
La grande bandiera, dopo la tappa nel Palazzo Pubblico, è portata ancora in corteo in Pieve come segno di ringraziamento al Santo e come
impegno di tutti i sammarinesi davanti al Santo a non far più correre al
paese simili rischi.
391
ESPRESSIONE LETTERARIA ED IMPEGNO POLITICO IN
IGNAZIO BELZOPPI E GINO GIACOMINI
ANTOLOGIA D' INEDITI
di Giuseppe Macina
Ignazio Belzoppi
Ignazio Belzoppi nacque nel 1767 a Borgo Maggiore di San Marino dove morì nel 1828.
Fu sacerdote ed insegnante di umane lettere in diversi centri dello Stato
Pontificio, nelle Marche in ispecie.
Nel 1814 veniva invitato dai Capitani Reggenti ad insegnare in Repubblica.
Ritornato in patria, non sarà più solo il letterato che rievocava i modi
dell'Arcadia o della musa montiana, ma avvertirà soprattutto le problematiche politiche e sociali del suo paese in quel tempo, non disdegnando i toni della satira nell' intento di correggere, sorridendo, costumi.
Fu convinto estimatore di Antonio Onofri, a cui dedicherà alcuni sonetti ed il testo più noto, la Canzone "In morte di A. Onofri", che per
lo stile venne definita "petrarchesca".
L'espressione si caricherà allora dei toni dell'ironia e del sarcasmo, preludio all'opera sua più importante, il Bertuccino, nella Satira “Terzine
contro due uomini infami autori e promulgatori di libello a danno del
medesimo A. Onofri e del governo della Repubblica".
Riassumiamo in breve i fatti che costituiscono i motivi di spinta all'elaborazione della satira.
In occasione dell'elezione al pontificato di Leone XII, i Sammarinesi
furono solleciti a chiedere al segretario di Stato della Santa Sede un'udienza per esprimere le felicitazioni del governo sammarinese al nuovo
pontefice.
Grande fu lo sgomento quando risultò che tale udienza era stata rifiutata.
Si venne poi a sapere il motivo del rifiuto: una memoria spedita da Rimini a Roma a diversi porporati e a diplomatici stranieri.
Il libello presentava la Repubblica come “una ciurma sacrilega ed em-
393
pia”, “nido di perversi fuggiaschi e ribelli”, “salvezza di rei, che pagano
la locale autorità”. E non si risparmiava nemmeno lo stesso Onofri al
quale veniva attribuita la responsabilità della situazione.
Gli autori del libello giungevano alla conclusione, che, in mancanza di
altre soluzioni, la Santa Sede, non potendosi sopportare più un simile
scempio, non aveva altra via che quella di incorporare San Marino nello Stato Pontificio.
Chi erano gli autori dell'infame libello? Due preti: Annibale Righi,
parroco di San Salvatore in Coppelle a Roma, e Gioacchino Righi, sacerdote in Repubblica, che avevano trovato un fiancheggiatore nel frate
Luigi Paolini, vicario del Sant' Uffizio in San Marino.
In risposta alle infamanti dicerie il Consiglio incaricava l'Onofri di difendere l'onorabilità della Repubblica e lo designava come ambasciatore al papa.
Per meglio preparare tale missione vennero raccolti atti e documenti, si
ricercò l'appoggio dei vescovi di Pesaro, Rimini, Pennabilli. Venne altresì diffusa in numerose copie nei paesi limitrofi e presso la stessa curia
pontificia una memoria difensiva che rivendicava il retto operare del
governo e del popolo sammarinese, intitolata "Un vecchio repubblicano ai suoi concittadini" di cui era autore Ignazio Belzoppi.
In questa il Belzoppi sosteneva che “il popolo sammarinese è buono
senza impostura e religioso senza ipocrisia”. Non poteva essere attaccato “se non da coloro che sotto il manto di una severa virtù celano le più
consumate malvagità”.
E' insomma lo stesso Belzoppi che nel Bertuccino solleverà parole di
scherno e di sdegno contro tutti gli impostori:
“Ma i più pericolosi e i più furfanti
fra lor son quei che voglion fare i Santi” (Canto II, 2)
Questi i moti d'animo di questo nostro prete e poeta, a cui non doveva
essere estranea la lezione pariniana.
La protesta del Belzoppi, congiuntamente alle attestazioni documentarie ed alle aderenze che Bartolomeo Borghesi aveva presso legazioni
straniere, facilitarono il compito dell'Onofri, il quale venne amichevolmente accolto dal pontefice, che reintegrò pienamente la Repubblica
394
nella sua benevolenza.
SATIRA
A due uomini infami, l'uno autore e l'altro promulgatore d'un Zibaldone satirico contro uno dei più rispettabili Cittadini della Repubblica
di San Marino recentemente dal G. le Consiglio destinato ad una missione importante.
TERZINE
Flebis, et invisus tota cantaberis urbe
Chi la sferza del satiro d'Aquino,
Chi la bile mi dà del Volterrano,
Chi il pugnale sottil del Venusino?
Il popolo finor, che il guardo inteso
Tenne soltanto agli atti, al portamento
T'ebbe qual uom nell'intelletto offeso.
Che irato io vo' con l'una, e l'altro in mano Chè follia giudicò quel tosco accento,
Onde le tue scempiaggini rivesti,
Flagellar, punzecchiar a più non posso
Quel tuo caricato abbigliamento,
Il dorso e il fianco ad un brutal marrano.
E le ossa solcare fino all'osso
Io voglio a tal, che di quel sangue impuro
Ne resti il suol contaminato, e rosso.
Follia le occhiate, i passi, i moti, i gesti,
Le militari imprese, la bravura,
Le minacce e i ridicoli pretesti,
Surse da ceppo inonorato, e oscuro
Costui d'ignavia, e di viltade erede
A grandi colpe in verde età maturo.
Follia quel sempre violentar natura,
Volendo che il magnanimo Destriero
Presti al giumento vil la tua figura,
O tu, che rappresenti il Ganimede,
Il Cupido in braghette, il lindo Adone
Ridicolo dal capo in sino al piede,
Follia il tuon di prepotente impero
Congiunto al nulla di meschino insetto,
Che alla vista non men sfugge al pensiero,
Tu che sei talpa, e fai da saccentone
Ed hai sì lunghe orecchie che non basta
A coprirle di Mida il parruccone,
Follia sperar conquistarsi affetto
Delle fanciulle con l'andar in ronda,
E tutta notte passeggiar sul tetto.1
Ascolta, io grido a te: piega la guasta
Tal suole il gatto, allor che in esso abbonda
Schiena, o vil bestia, tuo malgrado al peso
L'umor lascivo, richiamar l'amante
Che a te si debbe, or che mia man t'imbasta. E cercar miagolando ove si asconda.
1
Il soggetto che qui viene indicato, per amoreggiar con una melensa pettegola passava
le intere notti sopra un tetto.
395
Fin qui tutto è follia; ma il penetrante
Occhio addentro si spinga, e troverassi
L'inesto ancor del celebre furfante.
Alla gogna, è fuggito, e alla galera
Son pochi dì, perché forse al capestro
Dal giusto Cielo riservato egli era.
Tu il sei: già quella via per dove vassi
Della scelleratezza al grado estremo
Di Clodio Emulator calchi i gran passi.1
Più che di Febo, di Priapo ha l'estro
Questo Mevio novello, eppur presume
D'esser più ch'altri al poetar maestro.
Ma se d'ogni virtù l'animo hai scemo,
Perché in altri aborirla? e sì veloce
Correr innanzi tempo al laccio, al remo?
Sozzo augel senz'artigli, e senza piume,
Vorria levarsi a contemplar il sole.
Come l'augel di Giove ha per costume,
Perché contro i migliori alzar la voce,
Mentecatto furente, e al buono e al giusto
Qual perfido Giudeo gridar la Croce?
Nè rammenta ‘l meschin qual esser suole
De' temerarj il fato, e qual Fetente
N' ebber pena, e di Dedalo la prole.
E libero ti vanti? Il nome augusto
Poiché all'infamia s'indurò la fronte,
Di libertà non profanar...Tu sei
Chiuse ai rimorsi il cor, fatto strumento
Schiavo a tue voglie prave, iniquo, ingiusto. Di tue vendette, o pazzo Rodomonte,
Alle risse educato e di plebej
Odi nutrito follemente insulti
Qual nuovo Salmoneo uomini, e dei
La bocca di squarciar s'ebbe ardimento
Contro quel prode, che la patria onora
Qual suo primo sostegno, ed ornamento.
Ma le aperte violenze e quei, che occulti
Già più non son delitti, e tradimenti,
Credilo a me, non resteronsi inulti.
Chi più degno di lui siede alla prora3
Il corso a governar del picciol legno?
qual non è in lui virtù? Chi mai l'ignora?
Che già scosse e di giusta ira frementi
Sul Mevio esecutor de' cenni tuoi2
Alta vendetta invocano le genti.
Anima generosa, e colto ingegno,
Saggezza, patrio amor, modi soavi,
E core inaccessabile allo sdegno;
Mevio di Bacco ad eternar gli eroi
Fabbrica, imbratta, inzeppa all'Equinozio
Di emistichj Danteschi i versi suoi.
Genio amico de' buoni, e avverso ai pravi,
Retto giudizio, favellar che puote
A sua posta de' cor volger le chiavi,
Costui (chi 'l crederia) di vizj, ed ozio
Sol pasciuto, e d'orgoglio, in veste nera
Pur di salir s'attenta al Sacerdozio.
Mente tranquilla che mai si scuote,
De' casi al variar, nobil fermezza
Che ad alti spirti ed a grandi opre è cote.
Leggasi Cicerone e vedrassi a qual grado di dissolutezza fino dai suoi primi anni fosse Clodio pervenuto.
2
Mevio insulso poetastro deriso da Virgilio. Sotto questo nome è adombrato l'autore
della satira.
3
L'egregio cittadino del quale qui si parla è maggiore di ogni lode, e si è a lui dato meritatamente il nome di Padre della Patria.
1
396
Sermo che sol de' dotti il plauso apprezza,
Nè cura, o sorridendo i ragli ascolta
Delle bestie da soma e da cavezza.
Chi può ridir come il tuo cuor presago
Allor d'alte conquiste al tuo pensiero
Di mille ninfe presentò l'immago?
Bontà, che al bene universal rivolta
Il fa padre a ciascuno, e a tutti caro.
Non caro a te, coppia nefanda, e stolta.
Uscisti in campo baldanzoso, e altero,
Ma conobber ben pesto in te le donne
Di Venere un vilissimo guerriero.
Né sia stupor, da che ben so che amaro
Troppo è ai malvagi di virtù l'aspetto,
Né l'infamia, e probità star ponno a paro.
Certo le astute non ti alzar le gonne,
Le oneste ti onorar del lor disprezzo,
Fuggir le belle, e ti restar le nonne.
Senti, o figlio d'Albin: colui che oggetto1
Fai del tuo maledir, sciocco importuno,
Se da noi Padre della Patria è detto,
Onde a nulla giovando il riso, il vezzo
Quasi fallito a ricercar ti desti
Le merci più neglette, e il più vil prezzo.
Che mporta a te? Spende denar? Fors'uno
N'esce di tasca al padre tuo? Se fosse
Ciò, per dieci anni ei vestirebbe a bruno,
E in questo nuovo Aringo esser potesti
Più fortunato, almen una Ciutazza,
Una Maltona, a tuo comando avesti.
Forse di un tal onor desio ti mosse?
E mostrarci così folle tu vuoi,
Che anco le pulci hanno talor la tosse?
In qualunque pantan ormai gavazza
Il tuo rozzo ronzin, perché non manchi
O dei muli, o degli asini la razza.
Orsù dunque quà vien; i merti tuoi
Tutti n'esposi. Orsù parla: quai sono?
Se non vuoi dirli tu, li direm noi.
Né di puttaneggiar mai non ti stanchi,
E qual si sia più fetente arcicarogna
E' a te buon pasto, e subito l'abbranchi.
Nell'ospital de' pazzerelli un trono
Infin dal nascer tuo fu preparato
Per farne a te, come a più degno, un dono.
Quindi in ogni cloaca, in ogni fogna
Qual porco in brago ti rivolgi e godi,
Senza averne ribrezzo né vergogna.
E se non ti piacea quel Principato
D'eleggerti a suo Capo designava
Degli Asini l'altissimo Senato.
Né ancor sei sazio: a più lascivi modi
Scuotendo il deretan fai turpe invito,
E di sfogarli in te sfidi i più prodi.
Ma tu cui forse troppo il dorso grava
Cura di regno, ad altri oggetti volto
Non vuoi sudditi pazzi, e non vuoi fava.
Quando più ferve il tuo brutal prurito
Di vincere tenti Tigellino e Sporo2
Or da moglie facendo, or da marito.
De' seguaci di Venere nel folto
Stuolo di primeggiar tu fosti vago;
La Dea supplicasti, e fosti accolto.
Pur vanti d'esser puro al par dell'oro,
Mentre hai coscienza sì macchiata e brutta,
Che messo al paragon più bianco è un Moro.
Albino, insigne usuraio rammentato da Orazio nella sua Poetica.
Tigellino e Sporo, celebri favoriti di Nerone, i quali si prestavano a tutte le sue dissolutezze.
1
2
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Goffo, vile impostor... Ma non è tutta,
Questa de' merti tuoi l'infame storia,
Di cui pur deve esser la patria instrutta.
Frodi, cabale, intrighi ed iterate
Calunnie, occulti scritti, insidie e quanto
a Giustizia si oppone, e ad onestate;
Sappia che aspiri alla medesma gloria
Di colui che incendiò di Diana il tempio1
Onde al mondo lasciar di sé memoria.
Queste son l'armi tue, questo il tuo vanto:
E il tuo Mevio grattando il colascione
Fa di queste materia a nuovo canto.
Ognor tu parli di vendette e scempio,
Bramoso di seguir di Catilina,
Senza averne l'ingegno, il truce esempio.
Oh! Valorosi Eroi! degne corone
Le vostre zucche cingeran fra poco,
Tra poco ascolterete altra canzone.
Misero! Della patria la rovina
Vai predicando e pubbliche sciagure
Qual Pizia dalla delfica Cortina!
In ben altro Parnaso avrete loco,
Ben d'altro Apollo voi sarete in cura,
E d'altre muse avvamperete al foco.
Ti veggo intento a seminar paure
Vestendo aria di sgherro e di scherano,
Formar progetti, architettar congiure.
Io affretto col desio l'alta ventura,
E frattanto a te volto, o mia diletta
Patria, con prece intemerata, e pura
Nulla però col senno, e con la mano
Potendo oprar ricorri all'armi usate
Solo dal vil, ma vi ricorri in vano.
Queste vittime sacro alla vendetta.
Gino Giacomini
Gino Giacomini nacque a Borgo Maggiore il 27 Dicembre 1878.
Povero e ribelle, fin dall'adolescenza ebbe l'animo acceso agli ideali
della giustizia sociale.
Nel 1901 conseguì la licenza magistrale e cominciò ad insegnare prima
a Montelabbate e poi a San Marino.
Si dedicò fin da giovane all'attività politica: rappresentò i socialisti
sammarinesi al settimo congresso del partito socialista italiano ad Imola; fu tra i fondatori de "Il Titano"(1903), e poi de "Il Nuovo Titano"(1918).
Fu acceso polemista e dinamico animatore della battaglia politica per la
restaurazione dell'Arengo.
Ottenuto il diploma di direttore didattico, fu costretto ad allontanarsi
Intendasi di Eratostrato, famoso pazzo di Efeso, il quale incendiò il tempio di Diana
a solo intendimento di acquistare celebrità.
1
398
dal paese perché il governo bocciò la sua nomina.
Ritornato nel suo paese nel 1913, continuò la lotta in favore dell'emancipazione del proletariato.
Dal 1918 al 1921 fece parte della direzione del partito socialista italiano
e collaborò all'Avanti.
Nell'Ottobre del 1922 sotto la spinta delle intimidazioni fasciste lasciò
San Marino per trasferirsi a Roma.
Il sindacalista mazziniano Giuseppe Giulietti lo chiamò poi a lavorare a
Genova presso la Cooperativa "Giuseppe Garibaldi".
L'esilio durò una ventina d'anni e solo dopo la caduta del partito fascista poté far ritorno a San Marino. Qui riprese in mano la direzione del
partito socialista e per ben dodici anni resse la Segreteria degli Esteri fino al 1957.
Morì il 9 Febbraio 1962.
Lettere a Pietro Franciosi
Le lettere scelte, di cui presentiamo ampi squarci, fanno parte del carteggio intercorso fra Gino Giacomini, quasi in forzato esilio a Roma a
causa delle intimidazioni fasciste, e Pietro Franciosi, uomo di cultura e
figura di grande prestigio e dignità del socialismo sammarinese.
Dette lettere s'inseriscono in un arco di tempo che va dall'Ottobre del
1922 al Settembre 1927.
Sono gli anni in cui in Italia nasce e si consolida il fascismo.
A San Marino il partito fascista venne fondato il 10 agosto 1922.
In precedenza aveva trovato chiarificazione il contrasto fra socialisti e
popolari con una netta affermazione di quest'ultimi, tanto che i socialisti avevano deciso di ritirare i propri rappresentanti dal Consiglio.
Come in Italia, anche a San Marino abbiamo il periodo del fascismo
"parlamentare" durante il quale, nonostante intemperanze e ricorrenti
atti di violenza, il partito fascista convive con partiti d'ispirazione democratica, convinti ancora che fosse possibile ricondurre tale forza sul
terreno della legalità.
Assenti dal Consiglio ormai i socialisti, nel 1923, in vista di nuove elezioni venne presentata la lista del cosiddetto "patto patriottico", una lista concordata, formata da 30 fascisti, 20 popolari e 10 democratici.
Ma ben presto cominciarono ad evidenziarsi le tendenze egemoniche
399
dei fascisti, per cui gli stessi popolari nel 1926 nell' impossibilità di poter portare avanti una linea politica autonoma decideranno per lo scioglimento del loro partito.
Nel 1926 vennero indette nuove elezioni e venne presentata una lista
concordata formata da 45 fascisti, 3 fiancheggiatori e 12 democratici.
In assenza di socialisti e popolari, era a poco a poco venuta a meno ogni
possibile opposizione, per cui nelle elezioni successive verrà presenta
una lista unica, formata soltanto da fascisti.
Le lettere di Giacomini s'inseriscono dunque in questo quadro politico.
Da esse, oltre a squarci di vita politica italiana (la marcia su Roma, il delitto Matteotti, la morte di Amendola, l'assalto fascista alla Cooperativa
Garibaldi a Genova), intorno ai quali Giacomini ci dà informazione
come persona testimone dei fatti, ricaviamo altresì testimonianza di
momenti di vita politica sammarinese (le violenze ai danni dello stesso
Franciosi, di Valdes De Carli e ed i soprusi contro altri esponenti socialisti), sui quali il Giacomini, che non trascurava di tenersi costantemente aggiornato, si sofferma a meditare e a discutere con l'amico lontano.
Per il Giacomini il fascismo si configura come un movimento estraneo
alle tradizioni sammarinesi, come un fenomeno d'importazione, che,
oltre all'aiuto esterno, poteva in loco contare sull'appoggio della vecchia oligarchia, la quale, dopo aver perso il prestigio politico, temeva di
perdere, congiuntamente al padronato agrario, anche l'agio della condizione economica.
Insomma, come il medesimo Giacomini sottolinea nella lettera da Genova del 15 Nov. 1923: “I rampolli della vecchia oligarchia e i sordidi
signorotti delle nostre campagne si son fatti avanti a seminar rancori a
piene mani”.
Proponiamo tali lettere come lettura politica, ma anche nel contempo
per l'interesse dell'umana avventura del Giacomini, nonché per la varietà espressiva che tocca i temi della fede politica, della speranza, ma
anche quelli dello sgomento e dell'avvilimento.
Il difficile periodo che il Giacomini condusse lontano dal suo paese si
concluse solo dopo la caduta del fascismo, quando si trattò di far rinascere il paese a nuova vita democratica. A San Marino non troverà più
l'amico ed il compagno di fede politica Pietro Franciosi, deceduto alcuni anni prima.
400
1) Roma, 4 Novembre 1922
L'invasione armata, il colpo di stato, l'apoteosi è finita1. Sono passate le legioni sul
suolo sacro di Roma e hanno dato inutilmente al loro spasmodico fermento distruttore, la pretesa di una bellezza garibaldina! Quale abisso fra il sacrificio di Mentana,
compiuto per il pallido dovere e questo movimento che erompe da molteplici forze
negative, da interessi antisociali che tendono al sopravvento, che sperano distruggere
uno sforzo trentennale faticoso, aiutato, voluto, atteso dalle alte sfere che hanno aperto tutte le vie della facile vittoria.
Non mi attardo a dirti i particolari della presa di Roma. L'atto di questa mobilitazione fu davvero imponente e dimostra quanta assecondazione ci fu nelle varie caste che
dominano lo Stato. I giornali non ti hanno potuto dare che una pallida idea di ciò che
la cronaca, che non si può scrivere, ha dovuto registrare. L'anima della popolazione di
Roma che ha dovuto piegarsi all'evento preponderante, vibra però nell'intimo di esacerbazione. Ora l'imperatore domina e comanda. Avrai visto dai primi ordini quali
siano le sue intenzioni e i suoi istinti napoleonici.
E' bene che sia così. Non è solo il nostro partito che deve sopportare questo, così
chiamato, cambiamento di regime, ma tutte le fazioni, gli ordini, le istituzioni stesse
della democrazia, e tutto questo vasto contingente politico che ha fino a ieri esercitato il potere e ha messo radici profonde, per quanto sia infrollito non può lasciarsi liquidare facilmente. Ora naturalmente, tutto porta a subire questo nuovo ordine, il
quale, data la volontà dominatrice di un uomo, può anche nascondere delle favorevoli
sorprese. A questo proposito ti mando il manifesto dei Socialisti Unitari che mi pare
eloquente e vibrante di verità nella tema che ti sia sfuggito.
In questi giorni non ho potuto accostare alcun uomo politico nostro, perché come
saprai, anch' io ho dovuto adottare nuove misure di circospezione. Ma tu immagini
intuitivamente qual è lo stato di sospensione e di attesa, date le dichiarazioni di Mussolini e dei suoi collaboratori sull'esercizio della libertà intesa a loro modo.
Quando avrò notizie attinte a fonte autorevole te le comunicherò.
Dai diversi riferimenti che mi mettono a parte delle gesta compiute costì, non traggo
ragione sufficiente per condividere il tuo ottimismo che è un fiore perpetuo del tuo
nobile animo. Anch'io però non mi scoraggio se pure vado cadendo di meraviglia in
meraviglia.
Ancora non mi so persuadere della piega che prendono le cose costì e della possibilità
di certi atti che sono assolutamente fuori di carattere e d'ordine. Ancora non mi so
persuadere che l'ambiente sammarinese per così dire patriottico, di fronte a certi eccessi, non dia segno di risveglio, e non sappia intervenire in un certo modo, facendo
reagire le proprie responsabilità moderatrici. A San Marino il movimento fascista è
un trapianto illogico, assurdo e artificioso e dovrebbe aver termine più presto che al1
Il riferimento è alla marcia fascista su Roma del 28 Ott. 1922, che per la connivenza
della monarchia si trasformò in vero e proprio colpo di stato. In seguito Mussolini
formerà un governo di coalizione, composto da fascisti, liberali, popolari; all'opposizione resteranno comunisti e socialisti.
401
trove. Se i popolari non fossero pregiudicati politicamente e ora rimorchiati, se i democratici e gli altri elementi cittadini neutrali, fossero stimolati ad un proposito appena sensibile di salvezza pubblica, potrebbero, a mio credere, ricondurre le cose a
una certa normalità o per lo meno attutire le esagitazioni e le esaltazioni a freddo. Io
sono il primo a consigliare la massima prudenza, il raccoglimento, l'attitudine passiva
anche.
Ma, ad esempio, l'assalto alla camera del lavoro1 e la sua presa di possesso, esigevano
qualche atto silenzioso, legalissimo di denuncia alla reggenza fatto dagli operai.
L'aver accettato questa grave violazione senza far motto è come una sanzione che ha
un peso enorme.
Da una lettera giuntami ora da mia moglie apprendo, forse per tua notizia, che i ricostruttori intendono sciogliere il Consiglio, impadronirsi del potere in modo assoluto,
invadere e assorbire le istituzioni nelle quali abbiamo ancora parte e compiere chissà
quali altri atti di coercizione. Vogliono occupare la Casa del popolo?2 Ma dove si vuol
giungere con queste imprese? E quello che hanno compiuto senza alcuna ragione, in
un paese che era già in loro balìa, non costituisce per il loro avvenire storico un peso e
una colpa schiacciante?
Fra le diverse gesta quella che mi pare più saliente è l'intervento per la richiesta delle
armi. Anche questo non era mai accaduto. Raccomando vivamente a te che dovrai
essere lo storico rivendicatore di questo periodo di estremo abbassamento politico, di
riunire diligentemente e di annotare gli episodi piccoli e notevoli che siano che devono fornire materia documentaria. E' un diario prezioso che non devi trascurare. 3
2) Roma, senza data
Apprendo ora la notizia che mi abbatte e mi stordisce, che fa sanguinare il mio animo4.
1
C. Franciosi Brani di storia sammarinese, Urbania 1970 ricorda: “Il 26 Ottobre 1922 i
fascisti sammarinesi invasero i locali della Camera e ne asportarono carte e registri che
bruciarono sulla piazza del Titano”.
La Penna Fascista, giornale fascista di Rimini, nella cronaca "Da San Marino" del 30
Ottobre 1922: “Oggi il fascio ha preso possesso della Camera del lavoro dopo aver
bruciato i mobili e le carte. Ieri il segretario dei comunisti è stato sonoramente legnato”.
2
C. Franciosi Brani cit., p. 33 afferma: “Con gli stessi sistemi di brutalità, il 14 Novembre successivo occuparono la Casa del popolo di Serravalle per farne la loro sede”.
3
Esisteva effettivamente tale Diario, non ancora pubblicato, negli archivi della famiglia Franciosi.Ora rintracciabile presso la Biblioteca di Stato.
4
Franciosi subisce la prima aggressione. Il 13 Novembre 1922 Edmondo Mascellani, un
esperto nell'organizzazione delle squadre fasciste, guidato da un giovane fascista sammarinese, malmenò il Franciosi.
Nei giorni seguenti, assieme ad una quarantina di fascisti circondò la casa del Franciosi, mischiando contumelie e minacce di morte. Simili intemperanze ebbero a ripetersi
402
Una violenza, una brutalità, un affronto a te, cuore dei cuori, animo insuperabile che
hai gettato il bene a piene mani, che hai raccolto tutte le voci del dolore e le implorazioni del bisogno, per fartene una religione, che hai tanto amato la Repubblica e tutti
e mai hai odiato, e ogni più triste male hai combattuto con un'arma: la dolcezza, la
persuasione, la bontà! E' incredibile! E' assurdo!
Che cosa ci riserba di più fantastico questa catastrofe che deve dissolvere e inghiottire
infine le forze stesse che la promuovono?
E non stillano lacrime roventi le pietre stesse del monte di fronte allo spettacolo di
cotesta povera repubblica presa, violata, maciullata così, in mezzo alla passività e al
tacito assenso degli uomini che si dicono patrioti?
Perché non sei tu personalmente offeso dalla bestiale insolenza, ma la repubblica stessa, la sua incolumità e dignità politica, la sua libertà, e tutto quanto l'animo, la virtù,
la tradizione del nostro paese esprime di più generoso, di più elevato, di più nobile.
Amico, maestro, compagno impareggiabile, soffri anche questo affronto, per la causa
della redenzione e dell'elevamento economico, morale, educativo del popolo che ami
e ti serberà un culto perpetuo nel cuore. Non so dirti altro. Ti abbraccio col cuore
che mi batte commosso e ti saluto a nome di molti amici e compagni che vorrebbero
essere ricordati e che ti amano e ti venerano1.
3) 30 Novembre 1922
Ricevo ora il tuo lapidario biglietto e non frappongo indugi alla risposta. Il cuore mi
tumultua, la mente mi si accende dei più cozzanti pensieri: Ma uno domina sugli altri:
l'onta della Repubblica arriva fino al punto di lasciar compiere un tale abominio?
E i nostri avversari sono impazziti a tal segno da perpetrare un tentativo simile per il
quale essi si mettono al bando della storia, della civiltà della vita sammarinese?
Banditi tu e Forcellini2 dalla nostra terra a cui deste il fiore di ogni civica e umana virtù? Lasciatemelo dire, si ripete il fato di Dante e di Mazzini!
Siamone degni; accettiamo con orgoglio questo destino e interamente, senza patteggiare, senza piatire.
Una enormità simile è tutto tuo onore. Quanto debito per l'avvenire!
Ho trasmesso la notizia agli amici, a diversi uomini politici e tutti stupiscono e non
anche in seguito C. Franciosi, San Marino "ospite suolo", San Marino 1968, pp. 116117.
1
Nella lettera da Roma del giorno 8 Maggio 1923 G. Giacomini gli trasmetteva i sentimenti di affetto e di ammirazione di socialisti come Baldini e Bentini: “Ma un saluto
basta ad esprimerli tutti,quello di Turati”.
2
La Penna Fascista del giorno 11 Novembre esulta per il fatto che i tre maggiori rappresentanti del socialismo sammarinese (Giacobini, Franciosi, Forcellini) sono stati
costretti a varcare i confini della Repubblica.
Franciosi si rifugerà a Montegrimano presso la figlia Clio. Soltanto per interessamento di Italo Balbo, in anni precedenti suo scolaro presso il Liceo sammarinese, potrà far
ritorno a San Marino C. Franciosi, San Marino cit.,pp.117-118.
403
possono rendersi ragione di una forma così folle di rappresaglia.
Io credo che il provvedimento sarà senza meno revocato. Vedrai che qualcuno vorrà
farsi un merito in questo giuoco. O altrimenti sarà un ricatto per strappare qualche
atto di sommissione, di rinuncia o simile.
Attenti alle insidie. Oggi stesso si parlerà di questi casi in modo e in luogo opportuno.
So ad esempio che qualche iniziativa era già stata presa dopo la violenza che tu patisti
il 13 corr. Sono certo che se ne occuperà anche Enrico Ferri. 1
Ad ogni modo se fosse necessario un tuo temporaneo allontanamento (il che non credo) Roma è il miglior approdo.
Oggi vedo Galli e Zanardi. Gli amici con i quali ho parlato t'inviano i loro pensieri di
solidarietà e il loro plauso per la esemplare tua condotta.
Frangar non flectar!
Bravo! Ti abbraccio con orgoglio, o Maestro di bontà, di fierezza, saggezza e di fede, e
saluto commosso la tua famiglia.
4) Roma, 11 Marzo 1923
Io penso, con una certezza da veggente, all'ora della nostra rivendicazione. A San Marino non può ritardare. L'artificioso e forzato ciclo rivoluzionario dei patrioti, che del
più ripugnante egoismo fanno bandiera e programma, è destinato ad essere breve.
Nulla di nuovo, se non il peggio, essi hanno da aggiungere a quello che compirono
nel governo che fu ieri come oggi in mano loro. I loro atti mimetici sono anche ridicoli. La conquista del governo è una porta sfondata da lungo tempo.2
A quel che sento da te i segni forieri del malcontento non sono dubbi.
Gli operai continuano ad emigrare e qualcuno fa ammenda del suo folle rinnegamento. Meno male!
Le elezioni recenti hanno serbato per me una dolorosissima sorpresa. L'argomento mi
è tanto increscioso che mi sbrigherò con poche parole. Tanto tu intuisci il mio animo. Non appena ricevuta da mio padre stesso la notizia inattesa e davvero non supponibile, di un intervento alle urne dei nostri amici del Borgo, io ne ho pianto: sono
1
E. Ferri, professore di diritto penale in varie università italiane, militò nel partito
socialista e diresse per vari anni il giornale l'”Avanti”.
2
Nelle elezioni del 4 marzo 1923 nessun partito d'opposizione poté scendere il lizza,
quindi la lista del "blocco patriottico" trionfò senza ostacoli.
Gli elettori erano 4263 di cui 2906 in Repubblica e 1357 fuori stato.
Il "blocco" ebbe 1434 voti. Gli eletti furono: 24 agrari -proprietari terrieri, 24 impiegati, 7 operai, 5 coloni, così raggruppati: 40 fascisti, 20 popolari-. Così C. Franciosi
San Marino "ospite suolo", San Marino 1968, p.120.
Come si può notare non pochi furono anche fra gli elettori residenti in Repubblica
quelli che non andarono a votare.
404
rimasto inebetito e mortificato. E ho detto fra me: tutto è perduto, anche l'onore! 1
Due lettere ho preso a scriverti per versare nel tuo animo la mia grande amarezza: poi
le ho stracciate perché non potevo proseguire. Se anche l'atto è da intendersi come
una prova, come un sacrificio fatto per noi, per il paese, quale errore!
Ah! caro Franciosi, se il nostro paese, se i nostri concittadini amici avessero serbato
un contegno non dico di resistenza ma di passività, quante cose si sarebbero salvate
per il domani! Non foss'altro l'integrità del principio. Bastava dare la sensazione col
silenzio, col ritiro, con l'assenza che non si era rinunciato volontariamente alla libertà
del pensiero, al diritto politico, alla legittima cittadinanza, dell'idea che può essere
messa in ceppi ma non si prosterna.
Tutto ciò è ben lontano dal voler significare opposizione al governo fascista sammarinese, che fa, che deve fare per nostro vantaggio, il suo corso, fino a consumare tutta
la flora mostruosa delle sue odierne illusioni. Quando seppi che tu ti eri allontanato
nel giorno della facile vittoria nemica, ho provato la più grande soddisfazione....
Pochi sono stati i votanti, ma che significazione fossero stati meno!
So che la lista è un campo di Agramante. Ciò affretterà il processo di dissoluzione.
5) Genova, 8 Gennaio 1924
Il mio pensiero è stato tutto pieno di te in questi giorni di sventura, mio ottimo amico; ed ho sentito così tanto tanto vicino a me il tuo spirito assistente che ne ho tratto
il più grande conforto. Mi esimo dal narrarti gli avvenimenti che dal repentino e incredibile assalto a questo ultimo baluardo proletario2, vanno fino ai raggiri di questi
ultimissimi giorni, poiché dai giornali e dalle lettere scritte a mio padre, tu ne sei informato. Una congiura, una macchinazione simile sorpassa ogni fantasia. Tutto era
abilmente preordinato. Tutto era preparato fra le scene poiché non sarebbe stato possibile ad un gruppo di assalitori non superiore ad una quarantina di persone, compiere
il misfatto. C'era lì in attesa dietro la porta polizia, governo, armatori, tutto il complotto.
D'Annunzio, capo spirituale della gente di mare, ha protestato nobilmente; ma con
promesse ed inganni l'hanno assopito. Ed ora l'opera di distruzione si compie con
una voluttà satanica.
Lo spirito degli organizzati rimane inflessibilmente aderente al loro Segretario, il quale finora si illude in una prossima rivendicazione; ma non c'è più nulla da fare. Troppe forze potenti dalla banca al partito politico lavorano con ebbrezza alla distruzione
e l'ora non potrebbe essere più propizia alla loro vittoria.
In questo crollo viene trascinata anche quella modesta e tranquilla posizione che io mi
lusingavo assicurata almeno per qualche tempo. Non che in aria non sentissi anch'io
odor di polvere, ma mi persuadevo pensando che la Federazione aveva sempre dovuto
1
Scrive C. Franciosi San Marino cit., p. 120 “alcuni socialisti, e più ancora comunisti
che talora avevano causato in passato incidenti e rappresaglie, passarono al fascio per
opportunismo, per interesse e per viltà”.
2
Si parla dell'assalto delle squadre fasciste alla cooperativa Garibaldi a Genova.
405
affrontare delle crisi e che comunque anche ora l'avrebbe superata. I miei casi momentanei sono trascurabili. Essendomi trovato al momento della sparatoria e dell'assalto impreveduto, in una posizione dirò così topografica assai difficile ho dovuto
prendermi un mucchio di legnate, ma mentre i miei compagni di sventura, chi più chi
meno, sono stati feriti a sangue, io miracolosamente me la son scampata con qualche
bernoccolo e qualche indolenzitura.
A cento passi dalla sede, mentre speravo di raggiungere la mia famiglia, sono stato arrestato e sono rimasto in gattabuia dalle nove del giorno 2 alla mezzanotte del 3. Come vedi il martirio è piccino piccino. I miei però, che erano venuti verso la Federazione e che sono stati fermati e allontanati da racconti esageratissimi hanno subito un
discreto spavento.
Per fortuna che appena fatto il mio nome alle guardie, queste hanno assicurato Anita
che io ero in caserma, dove essa ha pouto vedermi, tuttto lordo per una caduta fatta
sulla porta di strada della Federazione, ma sano e salvo.
Ora la Commissione lavora ed ha riammesso alcuni inpiegati. Ma noi saremo certamente eliminati. Infatti a tutt'oggi io non ho avuto alcun avviso e d'altronde nella
Federazione non è più aria respirabile. I traditori che hanno compiuto il colpo di scena sono stati elogiati solennemente ed ora lavorano ed agiscono in libertà, intimidendo i nostri e paralizzando totalmente il collegamento. La massa marinara è fedelissima
e gli equipaggi di alcuni piroscafi sono partiti in questi giorni acclamando a Giulietti1,
ma in questo stato di coercizione non c'è da illudersi. Ogni resistenza è destinata ad
infrangersi. Il governo per acquetare D'Annunzio ha promesso una convocazione di
assemblea fra breve tempo, ma questa avverrà, se mai, in tali circostanze e con tale
preparazione da far supporre che sarà un nuovo e più repugnante tranello.Con qualche centinaio di marittimi scelti a modo, lavorati ed addomesticati, si sanzionerà ogni
misfatto contro l'organizzazione.
6) Roma, 27 Giugno 1924
Là sul muraglione del Tevere dove iniziò il martirio, ho inclinato anche per te, Amico e Compagno Maggiore, la fronte e l'animo riverenti, e ti partecipo il senso di
commozione, il palpito di fede che ne ho tratto. In questo consapevole olocausto,
quanta luce di insegnamento, quanta speranza di redenzione, quanto dovere per noi! 2
1
Giulietti Giuseppe (Rimini 1879-Roma 1953). Sindacalista italiano.
Ufficiale della marina Mercantile costituì nel 1909 la Federazione italiana dei lavoratori del mare di cui fu segretario fino ai primi anni del fascismo.
Nel dopoguerra creò a Genova la "Cooperativa Garibaldi".
Anch'egli - come racconta C. Franciosi San Marino cit., 114-115, fu profugo a San
Marino. Il 3 Settembre 1922 sfuggì a stento ad un gruppo fascista che devastò la casa
in cui era ospitato.
2
Si fa riferimento al delitto di Giacomo Matteotti.
Durante il primo periodo della scissione socialista del 1922, Matteotti è il giovane segretario del partito socialista unitario. Attivissimo sul piano dell'organizzazione e del-
406
7) Roma, 7 Luglio 1924
Sono l'ultimo a scriverti e sono stato il primo a dolorare con tutti i tormenti dell'ansia, per l'inconcepibile, folle violenza che tu buono, tu generoso, tu grande cittadino
venerato hai dovuto subire1. Dopo tutta una serie di affronti, di persecuzioni, di brutalità morali e materiali che tu hai affrontato con animo invitto, anche questo nuovo
martirio dovevi sopportare, anche questa novella prova, questo ulteriore sacrificio
dovevi offrire alla Repubblica, alla tua causa che è più che mai un poema umano che
ora si colora di eroismo il più augusto. E di quanto i nostri avversari e i loro inconsci
strumenti -quos deus vult perdere dementia- si inabissano nell'orrore.
Di fronte a te, di fronte alle tue impavide sofferenze, di fronte alla tua tormentata esistenza, che è uno degli esempi più luminosi di fede, io mi sento piccolo, io provo un
senso di ammirazione invidiosa. Oh, quanto ti dobbiamo tutti noi che siamo della tua
stessa milizia per ciò che hai saputo offrire ad essa, quanto ti debbono tutti i cittadini
della repubblica di cui tu da solo riscatti per il domani l'avvilimento, l'estenuazione
morale a cui li ha ridotti l'oppressione che calpesta pazzamente ogni santità della vita
civile della nostra vecchia ed onorata terra!
Lo credi ? Non ho potuto scriverti prima. Il mettermi al tavolo per parlare, per scrivere di questo episodio che sorpassa i limiti del credibile, mi tormentava. Ho lasciato
placare l'animo ed ora ti invio la parola fraterna, devota, incitandoti a trasformare il
tuo legittimo sdegno, la tua pena in forza serena, superiore e sempre valida al fine civile di quella rivincita senza fermento d'odio, di rappresaglia, di risentimento, che il
tuo stesso sacrificio affretta.
la direzione politica, Matteotti è altrettanto efficace dalla tribuna parlamentare.
Il 30 Maggio del 1924 alla Camera pronuncerà un discorso di denuncia dei brogli elettorali e delle intimidazioni fasciste. Sarà il suo ultimo discorso: il 6 Giugno 1924 verrà
assassinato.
Il delitto Matteotti susciterà scalpore anche a San Marino, tanto che i carabinieri per
ordine delle autorità fasciste imposero che non si parlasse del delitto nei locali pubblici e che non si riunissero insieme più di tre persone, C. franciosi, Brani cit., p 43.
1
La seconda aggressione al prof. Franciosi avvenne il 29 Giugno 1924 ad opera di una
squadra fascista, guidata da Luigi Catalano, fra Casole e Castellaro. Racconta la figlia
Clio, San Marino cit., p123: “Egli era colpevole di aver distribuito alcune immagini di
Giacomo Matteotti per incarico di un concittadino residente a Roma. L'implacabile
Catalano iniziò l'opera percuotendolo a lungo con lo scudiscio al capo mentre alcuni
giovinastri(ancora viventi) lo fustigavano al torace. Seguirono tre manganellatori campagnoli forzuti e bestiali- che ridussero il Franciosi un misero cencio umano” (V.
ancora C. Franciosi, Brani cit., p. 43.
407
8) Roma, 19 luglio 1924
Ho goduto nell'intimo del cuore sapendo le infinite attestazioni di simpatia e di solidarietà che ti sono state offerte da cittadini e da estranei.
Qualunque cosa abbiano fatto in questa circostanza non esce per certo dai limiti della
considerazione che ti si deve e dagli irrecusabili doveri che certi tristissimi avvenimenti impongono.
Seguo le vicende che ora subiscono i popolari; ho ricevuto le stampe che sono venute
alla luce e proprio in questo momento so del sequestro della bandiera popolare avvenuto a Chiesanuova1. Per riflesso gli avvenimenti che vanno profilandosi in Italia si
proiettono, benché in ritardo, anche nella nostra Repubblica2.
Questo processo di scissione e di disintegrazione è fatale quanto propizio, e obbiettivamente non possiamo che rallegrarcene. Ma i popolari sammarinesi devono fare
molti atti di ravvedimento se vogliono purgarsi delle gran colpe che hanno...
Prendiamo atto che ora si accostano, ma fino al momento della loro stampa hanno
volutamente dimenticato tutta la serie infinita degli strazi e degli illegalismi commessi, ed hanno persino taciuto gli eccessi del 29 giugno.
Quando si sono visti arrivare sulla schiena hanno compreso a che si sia arrivata la libertà sammarinese, e tuttavia non hanno pensato che al loro partito o meglio alle loro
1
Anche in precedenza i popolari avevano subito qualche sopruso. C. Franciosi Brani
cit. pp. 34-36, ci racconta che i popolari riuniti in riunione in San Francesco, accerchiati da una squadra fascista proveniente da Serravalle, in accordo con altra proveniente da Faetano, dovettero fuggire per gli orti. I fascisti avrebbero preteso che i popolari restassero in Consiglio in minoranza e che rinunciassero a stampare il loro
giornale “La libertà”
2
Dopo il delitto Matteotti il partito popolare italiano partecipa allla secessione aventiniana e svolge, pur con alcune riserve, un'azione comune con gli altri partiti di
opposizione. Anche a San Marino si avvierà un processo di distacco del partito popolare rispetto al partito fascista. Premerà, come ci informa C. Franciosi San Marino cit.,
p. 123; Brani cit., p.44, affinché il Catalano venisse allontanato, come ospite sgradito e
nocivo. La stessa C. Franciosi ci dice che i popolari l' 8 Luglio, presa in esame la situazione politica della Repubblica e il ripetersi di deprecate aggressioni, di minacce e
di intimidazioni contro inermi cittadini, denunciarono con una pubblica stampa il
concordato di collaborazione col partito fascista, invitando i propri aderenti che ricoprivano cariche pubbliche a rassegnare le dimissioni, pur conservando il consiglierato
per un'azione di controllo e di opposizione. Parallelamente a quanto avveniva in Italia si andava delineando un atteggiamento di rottura che diventerà definitivo nel 1926,
allorché i popolari, nell'impossibilità di poter portare avanti una linea politica autonoma, decideranno per lo scioglimento del loro partito. Il che sul piano ideologico
costituisce un netto distinguo fra popolari e fascisti, ma di fatto non impedì poi ad
alcuni di aderire al partito fascista (cfr. “Il Popolo Sammarinese” 5 dicembre 1926).
Sui rapporti fra cattolici e fascisti vedi anche A L. Carlotti, Storia del partito fascista
sammarinese, Milano 1973, p.63.
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persone. Inoltre apprendo che i fascisti si manganellano fra loro. Logica conseguenza!
e che ora si dividono in ordine di campanile 1. Benissimo!
Tienimi informato con solerzia degli avvenimenti, magari con poche righe ben controllate, indirizzandole a Secondo, qualora si tratti di informazioni urgenti.
Qui la situazione presenta dei segni che potrebbero essere minacciosi.
Non ti sto a dire tutto ciò che circola negli ambienti politici. Il fascismo è colpito irrimediabilmente, ma appunto perché intuisce la catastrofe farà forse cose da disperato.
Quel che accadrà non è facile prevedere:occorre pertanto stare guardinghi e vigili.
Mi sono posto a scrivere in fretta questa lettera perché Pierino Vincenti il quale parte
questa sera, è venuto in casa momenti fa, quando io non c'ero ed ha detto che ripasserà. Approfitto dell'occasione perché una lettera a mano è più sicura.
9) Roma, 25 luglio 1924
Ho ricevuto prima la tua del 21 corr. da Castrocaro, e ieri la cartolina da Meldola che
mi ha ripiombato in una cupa angoscia. Ho trascorso un periodo di trepidazioni penose, dovuto a notizie indirette, vaghe, imprecise e ciò nulla meno allarmanti. Ho
scritto in Francia e altrove senza avere risposta. La famiglia De Carli nella disperazione, non mi ha mandato un cenno.
Finalmente da casa si scriveva che le notizie sulla sorte di Valdes erano esagerate, e
che un professore aveva assicurato la guarigione. Ti lascio immaginare la rinascita del
mio animo. Ora le parole che mi scrivi, con una attenuazione di forma che tuttavia
lascia adito ai più oscuri pronostici, riaprono la dolorante ferita.
Quale crudele destino sarebbe mai serbato a questo nostro giovane amico, dopo tanti
sacrifici e tante pene sofferte, dopo tante speranze e promesse! Il pensiero si ribella
all'idea di una catastrofe che debba sottrarci questo nostro figliuolo spirituale, destinato a continuare, nella sua pugnace, pura e vittoriosa giovinezza, la nostra opera!
No, speriamo che la natura che ha tante provvide risorse, abbia il sopravvento. Io
confido ancora bene, e porgo in questa speranza tutta la forza del desiderio e del pensiero.
10) 29 Setttembre 1924
Per fortuna resti tu, che rappresenti e assommi tutto un popolo e una tradizione, e
che vegli per domani, e che quando vedrai le prime luci saprai far sorgere in piedi tutta la nostra gente frustrata. Ma altrimenti chi rimane? Pochi amici che senza una guida si sentirebbero dispersi. Qualcuno ci viene rapito dalla morte ingiusta e crudele.
Povero De Carli, povero nostro giovane commilitone, che colpo è stato anche per me
la sua fine! Altri se ne vanno in più spirabil aere: il tuo Valdes2, Alvaro Casali. Ci di1
Sui contrasti fra fascisti di città e fascisti di campagna, vedi A.L. Carlotti, Storia del
partito , pp.30-31.
2
Valdes De Carli, legato da salda amicizia con G. Giacomini, patì giovanissimo la violenza fascista: a Bologna dove stava per concludere gli studi in farmacia, fu accerchiato
da una squadra di fascisti che lo picchiarono brutalmente. Dopo un breve periodo di
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radiamo, ci disperdiamo come le foglie. Si rinsalderà la tirannide, mieterà sorrisi, adesioni, aiuti, anche nel campo proletario disorientato, e passerà in trionfo calpestando
la nostra memoria, come ha calpestato il nostro corpo e il nostro umano diritto. Ciò
che mi turba è il pensiero che mentre dappertutto finirà per ripristinarsi l'ordine nel
quale socialismo e democrazia avranno il loro posto cospicuo, a San Marino la combutta radicata nelle cose, nel governo e negli animi, avrà sempre il sopravvento. Ti
vedo insorgere contro questo mio pessimismo e vedo il tuo gesto fiducioso, sento la
tua parola rassicuratrice! Speriamo che meglio veda nel futuro chi meglio spera.
11) Roma, 21 Aprile 1926
Faccio vacanza anch'io in questo millantesimo ab urbe condita.La città è tutta impennacchiata e frenetica di celebrazioni per il rinnovato secolo d'Augusto, ed io profitto della giornata per dare sesto alle mie cose, in un totale assorbimento casalingo e
per scrivere agli amici: il primo a cui mi dedico sei certamente tu; ma ti chiedo scusa
fin d'ora se son breve. Notizie di conio non ho da darti. Tutto come ieri. Sto bene, ho
aumentato il peso e tengo come a un elemento di normalità e di salute. A casa mi sono ritemprato in un bagno morale. Ho portato nel mio spirito, con un segno sempre
profondo, il ricordo delle belle ore trascorse con te. Ho goduto nel profondo dell'amicizia nell'averti ritrovato sempre forte, ardente, pieno di serena e lieta fiducia,
provvisto di una giovinezza fisica e morale invidiabile che si spande intorno, riscalda,
conforta e sprona. E' una cosa mirabile questo tuo pregio di energia e di vita che
trionfa di ogni avverso destino. Così sia per lunghissimo ordine d'anni, affinché la nostra Repubblica possa far tesoro di ciò che sarai per darle quando questa caligine di
cenere e di tosco sarà dispersa. T'avevo promesso informazioni sulle cause che hanno
prodotto la morte di Amendola1.
E' saputo da tutti che questo nostro nobilissimo amico ha dovuto soccombere in seguito alla violenza subita nell'estate scorsa. La sua fine ha destato la più grande commozione. Il giorno stesso in cui moriva, una squadra tentava di penetrare in casa qui a
Roma dove un gran fermento si era prodotto a causa dell'attentato al Duce. Gli assalitori desistettero dal loro proposito quando il portinaio li avvertì che l'on. Amendola
era morto nella mattinata a Cannes. Nello stesso giorno molte altre case furono invase e messe sotto sopra e furono distribuite bastonate in quantità. Anche lo studio di
Modigliani è stato ridotto male.
lavoro, come farmacista in Borgo, preferì la via dell'esilio in Francia piuttosto che
piegarsi al fascismo. Le dure condizioni di lavoro finirono per debilitare una fibra già
logorata dalle conseguenze dell'aggressione. Morì a soli venticinque anni.
1
Giovanni Amendola, giornalista e uomo politico italiano (Salerno 1882-Cannes
1926). Aderì prima della guerra a posizioni liberali conservatrici, si schierò poi contro
il nazionalismo di destra. Con l'avvento del fascismo fu la guida dell' ala liberale democratica, sarà poi un animatore della secessione aventiniana. Aggredito dai fascisti a
Roma e poi a Montecatini (1925), cercò scampo in Francia, dove morì a causa delle
lesioni provocategli dalle aggressioni subite.
410
UN DIPINTO DIMENTICATO
di Gilberto Rossini
Come spesso accade a San Marino le cose e i fatti di valore vengono sistematicamente svalutati, poi messi in disparte e infine dimenticati.
Questo in ogni campo, dalla politica all’arte, dalle cose (poche) dello
spirito a quelle della natura e del paesaggio che stanno scomparendo. E’
il caso del dipinto di Elisabetta Sirani nella Pieve. Elisabetta è una delle
pochissime pittrici della storia dell’arte, vissuta nel XVII secolo come
Artemisia Gentileschi e Rosalba Carriera. Si ricordano solo i nomi dei
grandi pittori e non si riconosce il vero valore dell’arte, di quella più
rinomata e di quella più umile e nascosta, che propone ad una comunità di persone comuni la visione spirituale e la visione di un mondo più
umano, più libero e profondo di quanto superficialmente ci appare dalle rappresentazioni interessate della politica e dell’economia. Questo
dipinto è “ordine o supplica, formula con cui il Cristo ferma la Maddalena e parla della verità, del dolore e del desiderio”. Così lo presenta in
un bel saggio Jean Luc Nancy (Boringhieri, 2005), fra i dipinti che cercano di rappresentare il significato della Resurrezione secondo la testimonianza di Maria Maddalena, alla quale il Risorto chiede di non toccarlo, di non abbracciarlo come lei forse avrebbe voluto, come probabilmente aveva fatto col fratello Lazzaro: “noli me tangere “ le dice. Fra
questi dipinti che si titolano appunto “Noli me tangere” di pittori famosi, Rembrandt, Durer, Pontormo, Poussin, ci sono anche pittori
poco noti e fra questi la nostra Elisabetta Sirani. Secondo il Vangelo di
Giovanni (20, 11-18), Maria vede l’ortolano, l’uomo comune che succede all’altro uomo comune e morto, di cui il sepolcro vuoto espone
l’insondabile assenza. “La fede di Maria poggia su questa fiducia: che
chi la chiama non chiami altri se non lei. … Maria, risuona qui come un
tempo ha risuonato Abramo”. Jean Luc Nancy intende la resurrezione
in questo modo: “Intendi che io ti chiamo, e che ti chiamo perché tu
parta e vada a dire agli altri che io parto. Non intendere altro: tu, tu sola, e la mia partenza. Non ti do niente, non ti rivelo niente, tu non vedi
che l’ortolano. Va a ripetere questo, che io sono partito. E come Abramo, Maria non manifesta la sua fede per mezzo di constatazioni, i-
411
potesi o calcoli. La risposta alla verità che parte è di partire con lei”
(pag. 48). Quando Gesù dice: “io sono la via, la verità, la vita”, credo,
non dice che la via, la verità e la vita sono i mezzi per giungere alla
immutabile felicità del Paradiso ma che la via, la verità e la vita sono
Lui stesso e che in esse lo ritroveremo (o lo potremmo trovare).
L’immortalità e il giudizio sull’anima individuale sono creazioni e speranze della cultura greca, dei misteri orfici, non della cultura
dell’ebraismo e del primo cristianesimo. Di questa fanno parte il mito
del Fedro e della Repubblica di Platone e attraverso questa cultura è
stato filtrato l’annuncio del Regno dei figli di Dio. Poiché in Giovanni
è indubbio un confronto con il pensiero greco, si potrebbe pensare a
una specie di riverbero fra il “noli me tangere” e il mito di Orfeo il quale, per avere violato un divieto simile, il non toccare con lo sguardo
Euridice sottratta al sepolcro, l’avrebbe definitivamente perduta.
412
INDICE
Introduzione
Presentazione dott.ssa Rosa Zafferani
Segretario di Stato per la Pubblica Istruzione
pag.
5
Prefazione dott.ssa Maria Luisa Rondelli
Preside della Scuola Secondaria Superiore
pag.
7
pag.
11
pag.
17
pag.
39
Gruppi di lavoro. Documento di sintesi
pag.
41
Centro Documentazione. Progetti e attività svolte:
pag.
51
Parte Prima
Organizzazione scolastica
Il Sistema Scolastico Sammarinese. Quadri riassuntivi
a cura di Franco Santi
Organizzazione, calendario, attività svolte
nell’anno scolastico 2004-2005
a cura dell’Ufficio di Segreteria
Attività collegiali
a cura di Laura Rossi
1. Corso di alfabetizzazione informatica per le
classi prime dei Licei Classico e Linguistico
di Marinella Benedettini
2. La programmazione in VBA
di Enrico Grassi
3. Orientamento
di Laura Rossi
413
Parte Seconda
Educazione e Didattica
Corsi di potenziamento e recupero
pag.
65
pag.
71
pag.
75
pag.
81
pag.
85
pag.
101
pag.
123
pag.
143
a cura di Franco Santi
Sportello di Fisica: descrizione di
un’esperienza didattica
di M.Grazia Bevitori e Liana Bisacchi
I Speak English
a cura delle insegnanti di Inglese
Olimpiadi della Matematica
di Claudio Mancini
Concorsi per la Scuola e Testi premiati
a cura di Laura Rossi
Diario di viaggio
a cura di Meris Monti
L’archeologia per la scuola: esperienze didattiche
della sezione archeologica al Museo di Stato della
Repubblica di San Marino (anni 2001-2004)
di Paola Bigi
Parte terza
Saggistica
Scrivere storia: la ricerca della verità
di Luciano Canfora
414
Osservatorio sul profilo culturale della popolazione
pag.
153
pag.
201
pag.
231
pag.
245
pag.
253
pag.
291
pag.
301
pag.
313
pag.
369
di Filiberto Bernardi e Franco Santi
Censimenti di Capriolo (Capreolus capreolus)
nella Repubblica di San Marino – Aprile 2005
Metodi e risultati
a cura del Centro Naturalistico Sammarinese
L’Auditorium Parco della Musica a Roma
di Luca Morganti
Due esperienze distinte
di Gilberto Rossini
Dal gorilla ammaestrato all’uomo flessibile:
immagini e rappresentazioni del lavoro nel
cinema. Un laboratorio didattico
di Alessandro Simoncini
Parte quarta
Studi sammarinesi
Scialoja, magistrato a San Marino
di Renzo Bonelli
La legislazione sammarinese sui beni culturali:
i beni archivistici
di Cristoforo Buscarini
Ferme restando tutte le altre norme statutarie,
ovvero Arengo del 1906 e congelamento istituzionale
di Verter Casali
1957: i fatti di Rovereta
di Marino Cecchetti
415
Espressione letteraria ed impegno politico
Antologia d’inediti in Ignazio Belzoppi e
Gino Giacomini
pag.
395
pag.
413
di Giuseppe Macina
Un dipinto dimenticato
di Gilberto Rossini
416
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