Pop follie a Londra
Sabato 10 Ottobre 2009 00:01
di Mario Braconi
Il primo di ottobre si è aperta alla Tate Modern di Londra la mostra “Pop Life, Art in a Material
World”, dove vengono esposti lavori di Keith Haring, Takashi Murakami, Richard Prince, Jeff
Koons, oltre agli inevitabili Maurizio Cattelan e Damien Hirst. Tutti artisti il cui lavoro può essere
ricondotto alla corrente artistica nota come Arte Pop, movimento culturale sviluppatosi in Gran
Bretagna negli anni Sessanta. Non “arte popolare”, ma “arte di massa” - arte che cessa di
essere appannaggio di un esiguo numero di eletti estenuati da intellettualistiche elucubrazioni e
va per le strade, nei negozi e nei supermercati, entra dentro i cinema, guarda la televisione,
legge i quotidiani e perfino i fumetti, per poi vomitare sui suoi fruitori, a loro volta massa, la sua
esecrazione per la società dei consumi.
Già il titolo dell’esibizione di Londra è tutto un programma: cita il cantante Prince (Pop Life) ed
echeggia un pezzo dei Police (Spirits in a Material World, 1981). Secondo i canoni della Pop
Art, anche l’opera d’arte è merce, prodotto, ha un valore commerciale, può essere riprodotta in
serie. E qui sta il paradosso di un movimento culturale che, nel tentativo di stigmatizzare una
società malata, finisce per cadere nei suoi stessi perversi meccanismi. Da questo punto di vista,
la carriera di Takashi Murakami è paradigmatica: nel suo paese, il Giappone, è titolare di una
società multinazionale che produce in serie le sue “opere”, anzi si può ben dire che il suo studio
contiene una vera e propria catena di montaggio. Tra le tante realizzazioni di Murakami, forse la
più curiosa è l’opera di massa “Murakami SUPERFLATMUSEUM” (o Museo Ultrapiatto
Murakami): 300.000 riproduzioni in miniatura di dieci lavori di Murakami, incluse come
“sorpresa” nelle confezioni di gomme da masticare. Tanto per ribadire che Murakami è un buon
manager, ricordiamo che ha collaborato con il marchio francese LVMH reinterpretando il
celeberrimo logo LV. Andy Warhol ne sarebbe stato fiero.
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Gli organizzatori della mostra sembrano aver chiara l’imbarazzante situazione dei Pop-artisti
che potrebbe essere riassunta dal latino: “Grecia capta ferum victorem vicit” - ovvero la società
dei consumi e del denaro facile che nasconde il vuoto pneumatico ha conquistato anche i
paladini che dicevano di volerla sbeffeggiare. Uno degli artisti che espongono alla Tate Modern,
tanto per dire, (si dice Damien Hirst), indispettito dal fatto che per anni la mostra fosse stata
intitolata “Sold Out” (tutto venduto / tutti venduti), ha preteso che esso fosse cambiato in quello
attuale. Del resto, e non caso, uno degli striscioni all’interno dello spazio espositivo recita:
“Good Business is the best Art” (Un business fiorente è la miglior forma di arte) - frammento di
una frase di Andy Wahrol (“Fare soldi è arte, lavorare è arte, e un business fiorente è la miglior
forma d’arte”). Forse che le prime due frasi sono state censurate per decenza, visto quanto
guadagnano gli artisti rappresentati e il modesto sforzo che devono fare per fabbricare le loro
opere?
Tra le opere presenti a Pop Life c’è Hiropon (termine slang per “eroina”, la droga, non l’eroe di
sesso femminile) del 1997 del citato Murakami: una bambola alta oltre due metri che
rappresenta una ragazza sorridente con occhi enormi e capelli rosa raccolti di due codini, un
seno immenso, grottesco, a malapena tenuto sotto controllo dal top di un bikini ridicolmente
ridotto, che è poi il suo unico indumento. La ragazza è immortalata nell’atto di strizzarsi i grossi
capezzoli a forma di pene, dai quali esce un liquido lattescente che disegna una figura circolare
che l’abbraccia. Nel suo complesso l’impressione è quella figurina saltata fuori direttamente da
un anime (o meglio da un hentai) per venire nel mondo reale a saltare la corda. Un lavoro che,
attraverso un nutrito gruppo di clichet (la forma fisica estrema, la sessualizzazione paradossale,
l’ambivalenza di genere) è quasi un compendio delle perversioni sessuali maschili. Verrebbe da
dire: tutto qui?
E che dire di uno dei pezzi della serie “Made in Heaven” (1989) di Jeff Koons, cui è dedicata
un’intera sala della mostra? Al centro, un tableau a tre dimensioni che riproduce, a dimensioni
naturali, Koons e l’ex moglie Ilona Staller (in arte Cicciolina) impegnati in un rapporto sessuale.
Alle pareti figurano serigrafie del pene di Koons opportunamente masterizzato digitalmente, e
una originale stampa di stampo schiettamente pornografico che ritrae l’ano di Cicciolina. Anche
qui, quando si chiede all’artista che cosa esattamente desiderava rappresentare, si ottengono
salve di luoghi comuni: “Ho visto l’affresco di Masaccio che rappresenta la cacciata di Adamo
ed Eva dal Paradiso nella Cappella Brancacci a Firenze e sono rimasto molto colpito. Si vede la
colpa e la vergogna che quei due provano. Anche io volevo creare un’opera sulla Caduta, me
senza colpa né vergogna”. Forse di colpa e vergogna non ve ne sono, in “Made in Heaven”, ma
di furbizia c’é abbondanza...
Il gusto per la provocazione facile si ritrova anche nell’opera “Spiritual America” di Richard
Prince, che ha deciso di ristampare una vecchia foto di Brooke Shields ritratta in una
sconvolgente posa pedopornografica all’età di 10 anni: certo; riconosciamo che la sua
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pubblicazione può avere un valore storico e suscitare anche il giusto raccapriccio per quello che
è stato fatto all’infanzia della bellissima modella ed attrice americana. Benché la rimozione
dell’opera, avvenuta per iniziativa di Scotland Yard il giorno prima dell’apertura della mostra,
non sia condivisibile, resta il fatto che non è ancora chiaro se dobbiamo annoverare i Richard
Prince tra i testimoni o tra i complici della oscena sessualizzazione di una bambina.
La provocazione a basso costo ricorre anche nel lavoro di Cattelan, consistente in un cavallo
imbalsamato sdraiato al suolo con un palo conficcato in un fianco, dove si legge “INRI” (cioè,
Gesù Nazareno, Re dei Giudei), la scritta che, secondo la tradizione cristiana, sarebbe stata
apposta sulla croce del Redentore. Rimaniamo perplessi, non per la provocazione, che anzi in
genere approviamo perché salutare, ma per la pochezza della stessa e per l’immensa
arroganza che vi si nasconde dietro.
Questa veloce carrellata lascia un grande vuoto dentro, e anche un pizzico di rabbia (o forse di
invidia - non sarebbe riuscito ognuno di noi, con un po’ più di facciatosta fare altrettanto, se non
meglio di questi artisti tanto celebrati e soprattutto tanto pagati?). Del resto, come conclude il
critico d’arte Adrian Searle, firma del Guardian: “Essere un furbacchione, un genio nelle
pubbliche relazioni e aver naso per le opportunità del momento, sono tutte cose buone.
Possono certamente aiutare a divenire un artista di successo; ma contribuiscono a fare arte di
qualità? Questo è il tipo di domanda cui critici superciliosi rispondono con un’alzata di spalle:
esiste solo il successo, dicono; il resto è soggettivo.”
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