Filosofia e cultura ebraica 4. Il Novecento: Scholem, Benjamin, Levinas, Nussbaum Scholem e il misticismo ebraico Gershom Scholem (1897-1982, Sotto: foto tratta dal sito “Walter Benjamin Archives” http://walterbenjaminarchives.mahj.org) è unanimemente considerato il fondatore degli studi sul misticismo ebraico e sulla Cabala; in decenni di lavoro, prima in Germania e poi in Israele (emigra in Palestina nel 1923), ha recuperato le fonti originarie e ha ricostruito il percorso teorico e storico della tradizione ebraica legata agli studi cabalistici. In alternativa e in antitesi alla corrente ebraico-tedesca del suo tempo, Scholem pensa alla possibilità di un pensiero ebraico come espressione di una comunità e di una nazione; da qui la scelta dell’emigrazione in Palestina per contribuire alla nascita dello Stato di Israele. La sua prima opera, la tesi di dottorato, è una dissertazione dedicata al Sefer -ha bahir (il Libro della Luce), il testo fondamentale del misticismo ebraico. Scholem parte dalla convinzione che esista nel pensiero ebraico una vena più profonda, mascherata dal formalismo religioso, che si esprime attraverso il simbolismo del linguaggio cabalistico; egli ritiene che essa riveli sia il destino del popolo ebraico sia le leggi fondamentali dell’universo. In questo modo il fondamento religioso, indicibile, diviene anche fondamento della storia universale che egli affronta anche sul piano teorico della fenomenologia del linguaggio usato nei testi cabalistici – con le sue immagini, assonanze, figure – attraverso il quale viene espressa la comprensione e la spiegazione del mondo. Il termine Qabbalà in ebraico significa ‘tradizione’, e Scholem ritiene che essa possa essere conosciuta, ma non trasmessa, perché nel momento stesso nel quale essa viene trasmessa perde ciò che è tramandabile (Dieci tesi astoriche sulla Qabbalà, 1938). Il mistico fa esperienza del divino e questa esperienza marca la differenza sia tra il mondo del divino e quello dell’umano, sia tra i limiti del linguaggio e della sua comprensione. Da qui l’esigenza della centralità della lingua ebraica per i mistici, lingua considerata lo strumento della creazione attraverso la quale è possibile accedere alla conoscenza universale. La storia e l’intreccio tra misticismo e messianismo Punto cruciale della storia ebraica identificato da Scholem è l’espulsione degli Ebrei dalla Spagna e dal Portogallo nel 1492. A seguito di tale evento, egli ravvisa nella storia ebraica un legame e un intreccio tra misticismo e messianismo, tra i cabalisti di Safed e i messianisti del XVI e XVII secolo. 1 Nasce in quell’ambito la consapevolezza che la redenzione non sia opera solo divina, ma che l’azione dell’uomo possa contribuire a realizzarla: la conseguenza è lo scontro con l’ortodossia, nel tentativo di superare la religione istituzionalizzata e di tornare all’esperienza dei profeti. Scholem divide in tre periodi la storia del popolo ebraico: il periodo biblico, quello talmudico e il Medioevo. Nel primo la religione vede lo scontro con il mito, e l’incerta vittoria sul mito; nel secondo periodo si afferma l’idea della trascendenza divina, mentre il periodo medievale, con l’egemonia del pensiero di Maimonide, vede il tentativo dei mistici di tornare a quella che viene ritenuta l’essenza originale del giudaismo. Le tre fasi della ricerca di Benjamin Filosofia del linguaggio e problemi della traduzione Walter Benjamin (1892-1940, A destra: foto tratta da http://walterbenjaminportbou.cat) è uno dei più importanti pensatori ebreo-tedeschi del Novecento. Nella fase iniziale della sua ricerca le sue riflessioni hanno come oggetto principale la filosofia del linguaggio e i problemi della traduzione, sulla base di un’analisi che ha come oggetto sia i filosofi romantici tedeschi sia i mistici della tradizione ebraica. Per Benjamin il linguaggio non ha una funzione strumentale, ma un ruolo espressivo: in ciò si nota il richiamo non solo a Friedrich Nietzsche ma anche alla scuola neokantiana di Marburgo e a Hermann Cohen. Da qui Benjamin sviluppa un’originale teoria del linguaggio che muove dall’ipotesi di una lingua originaria perfetta che si contrappone alle molteplici lingue parlate dagli uomini e la traduzione diviene il momento e il modo per una riflessione metastorica sulla lingua; attraverso il linguaggio si comunica l’esperienza, e l’esperienza è ciò che è comunicabile attraverso il linguaggio. La riflessione sull’Arte L’elaborazione successiva del pensiero di Benjamin è dedicata all’arte, che diviene centrale nel suo pensiero. Anche qui due ‘mondi’ a confronto: da una parte il dramma barocco tedesco e dall’altra la tragedia greca. Vi è una differenza fondamentale, secondo il filosofo tedesco, tra queste due forme d’arte: il dramma tedesco ha come dimensione la scoperta della storia e la celebrazione delle opere dell’uomo, mentre la tragedia greca ha come oggetto e come fondamento il mito. Nell’epoca contemporanea, scrive Benjamin, vi è stata un’ulteriore mutazione del concetto di arte; in un mondo in cui l’arte può essere riprodotta tecnicamente essa ha perso il suo carattere “sacrale” ed elitario per diventare uno dei tanti aspetti del mercato ed è nata un’“industria culturale” che ha reso lo spettatore un mero fruitore passivo dell’arte, trasformatasi in un 2 oggetto del divertimento a uso del capitalismo che anche in questo modo esercita il suo potere sulle masse. Un nuovo concetto di storia L’ultima fase del suo pensiero possiamo ritrovarla nelle Tesi di filosofia della storia che Benjamin scrive di getto a Parigi, nel 1940, in fuga dalla persecuzione nazista (morirà suicida sulla frontiera franco-spagnola). Qui il suo bersaglio è lo storicismo: la teoria del tempo che gli contrappone è quella di una storia fatta di avvenimenti che non hanno relazione tra di loro; se lo storicismo pensava che alla storia fosse inerente un fine, il progresso umano, Benjamin, all’interno di una concezione materialistica della storia, elabora il concetto di “tempo-ora”, il momento del tempo nel quale è possibile fermarsi e fissare un’immagine del passato, nel tentativo di elaborare un concetto nuovo di storia sciolto sia dalla concezione lineare del progresso sia dal tempo circolare del mito. Il primato dell’etica in Levinas Emmanuel Levinas (1905-1995, Sotto: foto tratta dal sito “Levinas Studiekring - Dutch-Flemish Levinas Society”, http://levinas.nl), dopo l’infanzia e l’adolescenza in Lituania, dove si forma negli studi ebraici, che in quel paese avevano un’importante tradizione, si trasferisce a Parigi, dove studia filosofia; poi in Germania segue le lezioni di Husserl e di Heidegger, due filosofi che hanno un’importanza centrale nel suo orizzonte teorico, anche se dalla fine degli anni ’40 il suo campo principale di indagine sarà l’etica. Nel 1947, tiene a Parigi quattro conferenze dal titolo Il tempo e l’altro, in seguito pubblicate. La tesi principale di Levinas è pensare il tempo non come una “degradazione” dell’eternità, ma come una relazione con “l’altro” che non è assimilabile altrimenti. La riflessione teorica di Levinas viene profondamente influenzata dalla Shoà: lo sterminio degli Ebrei compiuto dal regime nazista cambia l’orizzonte del suo pensiero e la condizione degli Ebrei diviene per Levinas la condizione dell’essere umano in quanto tale. Lo stretto legame tra studi ebraici e riflessione filosofica si riflette nel testo del 1947 Dall’esistenza all’esistente, nel quale egli presenta una riflessione originale distaccandosi sia da Heidegger sia dai filosofi francesi a lui contemporanei, come Sartre. Elabora una nuova concezione dell’io, correlato con l’idea del Bene e si misura con Heidegger ed Husserl sul concetto di epochè. La fenomenologia di Husserl diviene lo strumento attraverso il quale elabora una nuova concezione dell’ontologia e dell’essere dove i concetti heideggeriani di “essere” e di “essente” vengono da Levinas tradotti con “esistere” e “esistente” in rapporto con la filosofia greca classica, in particolare con il pensiero di Eraclito. 3 Levinas vede l’“esistenza” come l’“essere in generale”, senza nessun riferimento al concreto mentre con “esistente” intende “soggettività”. L’impronta etica della sua riflessione si accentua con l’approfondirsi delle sue ricerche ed egli definisce l’etica come la “filosofia prima”. In Totalità e infinito (1961), opera divisa in quattro sezioni, egli parte dalla relazione tra “io” e l’“altro” in quella che chiama “relazione etica” e sviluppa il suo pensiero fino ad arrivare alla terza sezione, significativamente intitolata Il volto e l’esteriorità, nella quale afferma che l’altro si presenta in primo luogo come “rivelazione” che noi chiamiamo “volto”. Il volto dell’Altro è portatore di senso per sé, del senso primordiale dell’esistente, e richiama l’“io” all’infinito. Per questo Levinas parla di “relazione metafisica” pur evitando ogni riferimento mistico o spirituale; il volto dell’altro è nudo, scrive, e questa nudità ci lascia intravvedere la necessità; l’altro è nudo, è straniero, è perseguitato, è l’ebreo, e nella visione del volto prende corpo l’affermazione che egli ritiene originaria: “Non uccidere”. Qui si stabilisce il primato dell’etica sull’ontologia. S’incontrano in Levinas due grandi tradizioni, il pensiero ebraico e la filosofia occidentale, in una sintesi mirabile nella quale il primo sembra porre le strutture e gli ambiti della seconda; attraverso lo studio del pensiero ebraico, Levinas fa emergere quella traccia che gli permette di parlare di fondare l’etica della differenza; se la filosofia dell’Occidente si è caratterizzata come una violenza dell’identità, attraverso l’etica ebraica dell’agire, l’Halachà, è possibile trovare insieme all’Altro una via d’uscita. Come scrive in Altrimenti che l’essere (1974): “la giustizia rimane giustizia dove l’uguaglianza di tutti è portata dalla mia disuguaglianza, dal surplus dei miei doveri sui miei diritti. L’oblio di sé muove alla giustizia”. Nussbaum: l’etica legata all’individuo Martha Nussbaum (1947-vivente, Sotto: foto tratta dal sito http:/.lavanguardia.com) è il filosofo morale più interessante e importante del nostro tempo. Nel 1986 pubblica La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca nella quale, in un’originale sintesi tra etica aristotelica e stoica, contrappone il modello etico di Aristotele alla morale platonica, sostenendo che il concetto di Bene di Aristotele è più inclusivo rispetto al pensiero platonico, perché comprende sia quei beni di relazione (amicizia, amore) che nascono dal rapporto con gli altri e sui quali abbiamo possibilità di controllo, sia beni – come la salute, per esempio – sui quali abbiamo un controllo molto limitato o che, addirittura, sfuggono al nostro controllo. Secondo la Nussbaum, la filosofia etica di Platone o quella di Kant, pur nella saldezza dei loro valori fondanti, nondimeno non sono adeguate alle esigenze del mondo 4 contemporaneo, in qualche modo si autoescludono dal mondo dell’uomo e dei suoi sentimenti. In questa posizione non è difficile rilevare un richiamo all’ortoprassi ebraica, che pone l’accento sulle azioni degli uomini più che sulle loro affermazioni di principio. E, infatti, i temi della filosofa statunitense hanno come oggetto una teoria sociale complessiva, che va dall’educazione civile all’istruzione; una teoria che si occupa dell’ambito umano nella sua complessità e nelle sue sfaccettature e nasce dalla convinzione che il pensiero etico sia stato dominato, nella sua storia, dall’idea dell’essere umano come razionale e autonomo, mettendo in secondo piano o spesso non considerando affatto che l’esistenza umana non è data una volta per sempre, ma cambia e muta, con il cambiamento sociale, biologico, esistenziale e con essa mutano i bisogni, i problemi, le prospettive. È necessario, quindi, abbandonare – secondo Nussbaum – l’ideale illuministico classico e recuperare l’etica degli antichi, in primo luogo Aristotele: un’etica legata all’individuo, inteso come potenzialità, talenti e bisogni. La Nussbaum porta all’interno del pensiero filosofico temi contemporanei poco affrontati e dibattuti fino all’età contemporanea, come l’orizzonte femminile, ma anche il problema delle minoranze etniche e religiose, delle disabilità e della vecchiaia. In questa prospettiva si contrappone a John Rawls, che invece vede queste questioni come una “seconda istanza”. La Nussbaum mette in luce i limiti del pensiero liberale, mostrando come nella prassi politica la libertà di scelta dell’individuo sia tarpata da un sistema che non offre strumenti teorici tali da supportare le scelte legislative e sociali. Nel modello aristotelico, invece, da un lato essa ritrova la possibilità dell’approccio filosofico ai problemi contemporanei e dall’altro indicazioni concrete nei termini della prassi. L’esempio più eclatante è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo stilata pensando a un modello astratto di uomo, come se la realtà dell’esistenza dell’uomo fosse la salute, la razionalità e il genere. La vita concreta, invece, ci rende consapevoli che la dimensione del vivere passa attraverso diverse fasi che hanno diversi bisogni e diverse priorità, fasi nelle quali cambiano le possibilità e le necessità; bambini, adulti, donne, uomini, malati, ecc. hanno diversità delle quali il Welfare si deve fare carico, e non a posteriori. Il pensiero liberale, con il mito dell’autonomia della morale, è incapace di affrancarsi da questo limite e far propria la lezione della morale classica. L’individuo non è autonomo nel senso che non è solo; vivere nel mondo significa far parte di un complesso di relazioni, sia con gli altri sia con le cose: amicizie, amori, redditi, salute, malattia, età sono tutte fondamentali variabili trascurate dalla riflessione filosofica contemporanea, che considera questi aspetti come secondari e accidentali. La conseguenza è un’inevitabile incomprensione del reale. 5