LA MEDIAZIONE A SCUOLA: UNA POSSIBILE RISPOSTA AL BULLISMO? di Patrizia D’Arcangelo (avvocato Foro di Bergamo) Premessa Da qualche anno mi occupo di bullismo e cyber bullismo, svolgendo opera di sensibilizzazione contro tali fenomeni nelle scuole secondarie della Bergamasca. Nel corso degli incontri con ragazzi e ragazze tra i 13 e 17 anni d’età mi preme spiegare, in qualità di avvocato, quali siano le responsabilità penali e civili derivanti dagli atti di bullismo. Molto spesso gli studenti da me incontrati sono del tutto ignari della gravità dei loro comportamenti aggressivi ed ignorano soprattutto il fatto che la legge preveda delle sanzioni pesanti a carico dei loro autori. Tale impegno mi ha portato, ovviamente, a documentarmi sull’estensione di tale problema sia in Italia che nel resto del mondo. Sono così venuta a conoscenza di diverse storie drammatiche e di fenomeni aggressivi che hanno addirittura portato alla morte ragazze e ragazzi giovanissimi, anche nel nostro Paese. Purtroppo, nonostante il bullismo ed il cyber bullismo siano oggetto di attenzione mediatica da qualche anno, l’opinione pubblica pare ancora sottovalutare il problema che invece ha assunto una portata mai vista e che si consuma quotidianamente tra i banchi di scuola, per poi continuare sui Social Network in un’escalation di violenza fisica e verbale infinita. Inizio pertanto sempre i miei incontri nei vari Istituti Scolastici mostrando a studenti ed insegnanti casi reali di bullismo e di cyber bullismo dall’epilogo tragico e ciò affinché sviluppino una maggiore consapevolezza del problema. Tuttavia, nonostante la drammaticità e la complessità di tale fenomeno, sono sempre stata convinta che sia possibile fare qualcosa per arginarlo: soprattutto in termini di prevenzione. Nell’anno accademico 2013-2014 ho frequentato il Corso di Perfezionamento in Mediazione Sociale e Familiare tenutosi presso l’Università degli Studi di Bergamo e, alla luce della mia esperienza contro il bullismo ed il cyber bullismo, ho quindi deciso di approfondire i miei studi in materia di Mediazione Scolastica, e ciò al fine di comprendere se la mediazione – attuata in ambito scolastico – possa essere una valida strategia di prevenzione e contrasto ai fenomeni aggressivi tra adolescenti. Parte dell’esito delle mie ricerche verrà quindi trattato nelle pagine che seguono. La rieticizzazione del conflitto: comprendere l’inevitabilità dei conflitti per affrontarli costruttivamente Sin da bambini, genitori e docenti di ogni ordine e grado ci hanno insegnato che i conflitti sono negativi e vanno evitati. Ogni qualvolta ci scontravamo con un compagno di scuola o con un fratello, subito venivamo rimproverati ed il conflitto veniva sedato dagli adulti incaricati di accudirci in quel momento che ci redarguivano con un “non litigate, state buoni”. E non era ammesso alcun “ma” ed alcun “però”. Semplicemente era vietato litigare. Era vietato confliggere. Siamo pertanto cresciuti tutti (o quasi) con l’idea che il litigio ed il conflitto siano proibiti in quanto inopportuni ed anomali. Il risultato di questo antico retaggio è che non sappiamo discutere. Sia gli adulti, sia gli adolescenti non sono in grado di gestire un conflitto. Ed infatti a volte si ribatte subito con arroganza (se non, addirittura, con la violenza) rigettando l’idea che si possa anche avere un semplice confronto critico. Altre volte, invece, si evita a prescindere lo scontro con altre persone, reprimendo pensieri ed emozioni e contribuendo così ad accrescere risentimenti e frustrazioni che, prima o poi, potranno esplodere con effetti devastanti. In realtà gli psicologi sono unanimi nell’affermare che il conflitto sia del tutto fisiologico ed inevitabile: il conflitto non va pertanto soffocato o represso, bensì rielaborato in maniera costruttiva. E sono proprio i conflitti soffocati, non gestiti, o gestiti male, che diventeranno con ogni probabilità problemi gravi, tali da condurre a conseguenze nocive sia sul piano personale (soprattutto eccesso di stress, con conseguenti riflessi fisici e psicologici) sia su quello sociale. Per trasformare il conflitto in qualcosa di utile, è piuttosto necessario gestirlo in maniera opportuna, “prendersene cura”, senza volerlo “curare” […]. E’ importante sottolineare che l’inevitabilità del conflitto non è dovuta a qualche misteriosa “tendenza innata” degli esseri umani, ma è una banale conseguenza del fatto che gli esseri umani sono entità strutturali e funzionali in evoluzione che agiscono all’interno di strutture sociali” (Stefano Castelli, LA MEDIAZIONE, 1996, pagg. 19-24). In buona sostanza, è utopistico pensare di poter vivere in un contesto sociale privo di conflitti: gli esseri umani si trovano infatti quotidianamente a negoziare interessi, bisogni e scelte con le persone con cui interagiscono. E la scuola, in quanto uno dei maggiori centri di aggregazione sociale, non è certamente immune dal conflitto. La scuola è infatti un sistema sociale dotato di una propria organizzazione e certamente finalizzato alla formazione degli alunni ma è anche un luogo delle relazioni sociali che, in quanto tali, possono anche essere confliggenti. All’interno delle mura scolastiche si verificano, infatti, ogni giorno conflitti tra alunni, conflitti tra insegnanti oppure conflitti tra insegnanti ed alunni ed ancora conflitti tra la scuola e le famiglie degli alunni. Queste controversie a volte sono dovute semplicemente a incompatibilità temperamentali, altre sono l’espressione di conflitti di interesse squisitamente personali – come gli scontri che vertono sulla suddivisione dei compiti in un consiglio di classe o la distribuzione dei turni fra le educatrici di un asilo nido, o su chi deve accompagnare gli alunni in gita scolastica - ; più spesso, però, queste dinamiche apparentemente interpersonali chiamano in causa profonde scelte culturali e pedagogiche - si pensi alla questione del chador nelle scuole francesi o a quello più vasto ma non meno complesso della valutazione scolastica. Altre volte, possono rivelare infine disfunzioni del sistema scolastico: ne sono un esempio i conflitti tra famiglia, scuola e Provveditorato per l’alternarsi di supplenti all’inizio dell’anno (Elisabetta Nigris, I CONFLITTI A SCUOLA, 2002, pag. 3). Appurato pertanto che il conflitto non denota alcuna tendenza all’aggressività dell’essere umano e che è inevitabile ed assolutamente fisiologico nei vari contesti sociali (ivi compreso quello scolastico), occorre procedere con quella che lo psicologo tedesco Alexander Mitscherlich chiamava “ri-eticizzazione del conflitto” ovvero ricollocarlo nel gioco umano come componente da non obliterare, da non nascondere o evitare, ma da considerare appartenente alle possibili relazioni umane (Gemma- Pagano, IN PRINCIPIO…LA RICERCA, 2011, pag. 129). Il conflitto non è altro che uno strumento di riaffermazione del legame sociale e dei suoi meccanismi comunicativi. Per quanto concerne, più in particolare, i conflitti a scuola, agli insegnanti spetta pertanto il compito di rafforzare la propria capacità di “stare dentro il conflitto”. Come infatti sostiene il pedagogista Daniele Novara “quando l’educatore sa < so-stare nel conflitto >, quando il conflitto viene accettato per quello che è, esplicitato, analizzato e affrontato – ossia gestito costruttivamente – può rappresentare un’occasione di verifica sia delle capacità individuali sia della stabilità della coesione dei gruppi, contribuendo alla delineazione delle identità di individui e gruppi” (D. Novara, L’alfabetizzazione al conflitto come educazione alla Pace, in F. Scaparro, IL CORAGGIO DI MEDIARE, pagg. 182 -183). Daniele Novara parla quindi di una vera e propria “alfabetizzazione” al conflitto, di un addestramento cioè, lento e continuo, che può divenire obiettivo ultimo del sistema scolastico, che possa produrre nuove capacità relazionali “sostando” dentro al conflitto in una incessante e attenta area dialogica con la diversità e l’alterità. Il conflitto può pertanto essere inteso come un’area di apprendimento e di cambiamento, piuttosto che come una minaccia alla pace. Quello che conta realmente è imparare a gestirlo prevenendone una degenerazione patologica. Ad una corretta gestione del conflitto conseguirà una trasformazione costruttiva dello stesso; un’errata gestione del conflitto porterà, invece, a risvolti distruttivi. Gli adolescenti oggi ed il problema della cosiddetta “adolescenza seduta” Il termine “adolescenza” deriva da latino alere, nutrire: l’adolescente è pertanto colui che va nutrito. L’adolescenza è una fase di profondi e continui cambiamenti in cui si attua il pieno sviluppo fisico, sessuale e cognitivo. E’ un’età di transizione, l’età in cui i modelli educativi trasmessi dei genitori vengono in parte accantonati per lasciare spazio ad altri punti di riferimento, spesso cercati all’interno del “gruppo dei pari”. Tale gruppo rappresenta un terreno di incontro di nuove amicizie ma, al tempo stesso, anche un laboratorio in cui il giovane adolescente sperimenta la propria identità e si confronta con gli altri, conoscendo relazioni diverse da quella instaurata con la propria famiglia. Il giovane adolescente “vive uno stato di agitazione, in cui la fonte del proprio conflitto è la marginalità sociale, ovvero il vedere il mondo degli adulti come ambiguo e vede nel gruppo di coetanei una nuova forma di protezione, gli amici del gruppo sono gli unici con cui si sente capito poiché egli rifiuta i propri genitori” (A. Micoli - C. Puzzo, BULLISMO E RESPONSABILITA’, 2012, pag. 53). Nell’ultimo trentennio abbiamo assistito ad un profondo mutamento adolescenziale e ciò perché è comunque cambiato il contesto demografico e sociale. Più precisamente possiamo dire che l’adolescente di oggi si pone le stesse domande sulla propria identità e sulla propria autonomia come si poneva l’adolescente del passato ma quello che è realmente mutato è il contesto familiare e sociale. Come osserva il Professor Alessandro Meluzzi Per circa duecento anni le generazioni si sono incastrate l’una nell’altra con meccanismi antropologici consolidati. C’era la tensione a garantire ai figli un futuro migliore in termini sociali rispetto a ciò che la vita aveva offerto precedentemente. I genitori tentavano di mandare i figli a scuola e, infatti, uno degli elementi che consentiva un distacco dialettico tra le generazioni cinquant’anni fa era che i figli erano più colti dei genitori. Oggi invece accade il contrario e ciò determina una sfasatura tecnologica, rendendo permeabili le generazioni. I giovani parlano a monosillabi perché sono abituati a comunicare nelle chat e non leggono libri. Oggi i ragazzi pensano per icone, cioè in modo esclusivamente visivo. Questo li rende incapaci a comunicare con i loro genitori. Ma l’aspetto più grave è un altro: questa generazione di adolescenti tende a diventare depressa perché i giovani pensano che la loro vita sarà peggiore di quella dei loro genitori. Ciò non è mai avvenuto finora: ogni generazione ha sempre pensato che la propria esistenza sarebbe stata migliore (A. MELUZZI, “Il cambiamento del rapporto umano. Ieri e oggi: il rapporto scuola – insegnanti – genitori”, in G. Pini, GENITORI NELLA RETE DEL BULLISMO, 2012, pag. 12). Dall’indagine nazionale “Abitudini e stili di vita degli adolescenti italiani” svolta dalla Società Italiana di Pediatria è emerso che l’adolescenza di oggi potrebbe essere definita come un’adolescenza “seduta”, ovvero caratterizzata da giovani che trascorrono gran parte della loro giornata seduti sulla sedia, su un letto o su una poltrona. Il dottor Maurizio Tucci, Presidente dell’Associazione Laboratorio Adolescenza e curatore della suddetta indagine, riferisce infatti nel proprio rapporto che l’utilizzo di internet dal 2008 ha avuto un notevole incremento sia in termini di diffusione, sia di frequenza. Mentre nel 2005 utilizzava internet con relativa consuetudine meno del 10% degli adolescenti, oggi il 70% di loro si collega quotidianamente (o quasi) e il 17% lo fa per più di 3 ore al giorno. […] Incrociando i dati relativi alle ore trascorse mediamente al giorno davanti alla TV e quelle trascorse navigando in Internet, dall’indagine 2011-2012 risulta che oltre il 30% degli adolescenti italiani trascorre ogni giorno almeno 4 ore tra visione televisiva e utilizzo di internet. Indipendentemente da tutte le altre considerazioni che possono farsi su questa “overdose” da media e limitandoci a considerare il solo aspetto quantitativo che ci collega alla sedentarietà, ciò significa che un tredicenne su 3 passa – in periodo scolastico – oltre 11 ore della sua giornata “seduto”. A superare le 11 ore al giorno (dato medio) si fa presto , sommando alle 4 dedicate a TV e/o PC, le 4 passate nel banco a scuola (stima riduttiva), l’ora e mezza destinata a colazione, pranzo e cena, e l’ora e mezza dedicata ai compiti. (M. TUCCI - Rapporto sull’edizione 2011 – 2012 indagine Società Italiana di Pediatria). Il Bullismo ed il Cyberbullimo come conseguenza ad un’errata gestione dei conflitti tra adolescenti Il bullismo è una delle piaghe della nostra società, sempre più diffuso tra i giovani ed in larga espansione. Con il termine bullismo si indicano generalmente tutti gli atti aggressivi perpetrati da bambini e ragazzi nei confronti dei loro coetanei, soprattutto in ambito scolastico. Le principali tipologie di bullismo sono le seguenti: - Atti aggressivi fisici: spintonate, percosse, danneggiamento di oggetti; - Atti aggressivi verbali: minacce, insulti, denigrazione, diffamazione, prese in giro; - Atti aggressivi di tipo psicologico: pettegolezzi, calunnie, silenzi che hanno lo scopo di escludere socialmente la vittima. Il bullismo consta in particolare di tre caratteristiche fondamentali che si ritrovano in ogni singolo caso: 1. l’intenzionalità dell’azione aggressiva da parte del bullo/persecutore; 2. la persistenza delle condotte persecutorie ed aggressive; 3. la vulnerabilità della vittima, la quale non è in grado di difendersi. Si tratta di un fenomeno in netta espansione, soprattutto dal punto di vista qualitativo. Come si legge infatti nella “Lettera ai docenti e studenti sulla peer education” a cura dell’Osservatorio Regionale della Lombardia sul fenomeno del bullismo (reperibile on line: www.istruzione.bergamo.it) Si sta verificando un abbassamento della soglia d’età, con un crescente numero di bambini dell’ultimo biennio della scuola primaria coinvolti in episodi di bullismo; viene riconosciuto in maniera sempre più evidente il bullismo al femminile; compaiono spesso forme di bullismo dirette contro compagni disabili. Non solo. Da qualche anno il bullismo ha sposato le nuove tecnologie, dando vita a fenomeni di bullismo elettronico che prende il nome di cyberbullismo: si tratta di molestie e persecuzioni che vengono infatti perpetrate mediante l’utilizzo di internet e dei telefoni cellulari. Nancy Willard, direttrice del Center for Safe and Responsable Internet Use definisce il cyberbullismo come un fenomeno “diffamatorio che contiene bullismo, molestia o discriminazione, rivela informazioni personali, o include commenti offensivi, volgari o critici” (M. A. Gallina (a cura di), DENTRO IL BULLISMO, Franco Angeli, Milano, 2009, pag. 71). I luoghi preferiti dal cyberbullo per la messa in atto delle proprie condotte denigratorie e minacciose sono i social network: Facebook, Ask, Twitter e YouTube in modo particolare. Le caratteristiche fondamentali del cyberbullismo sono pertanto due: 1. l’assenza del contatto diretto: il cyberbullo opera infatti a distanza; 2. l’assenza di limiti spazio-temporali: la vittima è perseguitata ovunque, anche all’interno delle proprie mura domestiche. L’indagine svolta dalla Società Italiana di Pediatria menzionata nel paragrafo precedente mostra come il fenomeno del cyberbullismo sia ampiamente diffuso e conosciuto: il 43% degli adolescenti dichiara infatti di aver assistito ad episodi di cyberbullismo e la percentuale sale al 62% tra i più assidui frequentatori della rete. Il problema sta assumendo una portata preoccupante e merita di essere affrontato con assoluta urgenza: la cronaca ci mostra come il cyberbullismo possa avere sulla vittima conseguenze psicologiche ancor peggiori rispetto al bullismo scolastico tradizionale. Numerosi sono infatti i ragazzi che si sono tolti la vita negli ultimi anni in quanto vittime di cyberbullismo. E’ bene a questo punto precisare che il bullismo ed il cyberbullismo non riguardano esclusivamente ragazze e ragazzi appartenenti al ceto basso o che abbiano subito traumi di vario genere. Invero, molto spesso i bulli ed i cyberbulli sono figli di genitori istruiti che godono di una buona posizione lavorativa e sociale. Ultimamente si sta facendo larga strada tra psicologi ed insegnanti l’ipotesi che il bullismo ed il cyberbullismo siano un’incompetenza conflittuale e non solo un’ingiustizia: il bullo, invece di litigare, userebbe la violenza per controllare i suoi coetanei (si veda, in tal senso, D. Novara – L. Regoliosi, I BULLI NON SANNO LITIGARE, 2007). Sostiene invero il noto pedagogista Daniele Novara che il problema del bullismo sia da riconnettere a un deficit socio-relazionale, collegato all’incapacità di accettare, vivere e gestire i conflitti. I bulli giocano sulla paura del conflitto che ancora domina la nostra struttura educativa, ma in realtà i bulli non sanno litigare: agiscono nell’ombra e utilizzano la violenza come modalità sistematica del controllo altrui perché sono incapaci di confrontarsi con gli altri e di stare nelle relazioni conflittuali. Occorre piuttosto riconsiderare il gruppo classe come luogo per imparare a stare nelle relazioni, affrontandone gli aspetti problematici e offrendo strumenti e modalità per sviluppare un’alfabetizzazione emotiva e socio-relazionale (http://www.psicoanalisibookshop.it). L’errata gestione dei conflitti a scuola Nelle pagine che precedono abbiamo visto come i conflitti siano ampiamente diffusi anche nell’ambiente scolastico e come un’errata gestione degli stessi possa portare ad effetti distruttivi sfociando in fenomeni devianti più o meno gravi. Le conseguenze di un clima conflittuale e violento si ripercuotono certamente su tutti i soggetti che vivono nel contesto scolastico. Come osserva la psicologa Baldry Un clima scolastico caratterizzato da conflitti, prepotenze e isolamento accresce la sfiducia e lo scarso rendimento e riduce l’impegno scolastico. I ragazzi vivono la loro presenza a scuola come costrizione in un luogo in cui spesso conviene pensare solo a se stessi e al proprio benessere che raramente coincide con quello degli altri. Il proprio vantaggio è a scapito di quello altrui. Qualcuno è sempre pronto ad abusare di te ed è quindi opportuno difendersi […]; gli altri compagni pensano ai propri interessi e vantaggi soprattutto se non fai parte del loro gruppo di amici (A.C. BALDRY, Conflitti e bullismo a scuola. La mediazione scolastica come possibilità di risposta, in F. Scaparro (a cura di), IL CORAGGIO DI MEDIARE, pagg. 201 -236). Purtroppo, nelle scuole italiane, prevale ancora la punizione come strategia utilizzata per frenare i fenomeni di aggressività adolescenziale. In questo modo insegnanti ed educatrici Cadono nella demonizzazione formale e sistematica del “bullo” di turno, che finisce per inflazionare le sanzioni tanto da renderle sempre più vane, rinforzando la sua sensazione di essere in realtà al sicuro: appena possibile si rifarà sulla vittima in modo non manifesto o in luoghi appartati, confermando appunto la sua immunità di fatto. Il pericolo diventa quello di stigmatizzare i personaggi (il prepotente e la vittima) negandoli come soggetti e definendoli sono nei termini di categorie […]. Il prepotente diventerà così sempre più prepotente e la vittima sempre più passiva e alienata (E. NIGRIS, I CONFLITTI A SCUOLA, 2002, pagg. 97-98). Limitandosi ad infliggere le punizioni, l’insegnante dimentica che la scuola non è solo un luogo di accesso al sapere ma è anche un luogo sociale dove vengono vissuti diversi aspetti dello sviluppo psicologico del giovane, quale lo sviluppo della personalità e quello della socialità. Già nel 1996 Dozio Edo scriveva sulla Rivista del Servizio di sostegno pedagogico della Scuola Media (numero 14): Qualche volta si sente ancora citare un principio ben diffuso tempo addietro, secondo il quale un castigo che costringa a un lavoro supplementare avrebbe un doppio effetto: da una parte scoraggia il ragazzo a ripetere l'infrazione e dall'altra migliora l'efficienza scolastica con l'esercizio e la ripetizione. Ciò provoca però nell'allievo un'associazione fra lavoro scolastico e punizione che produce un effetto in contraddizione con gli sforzi dei docenti di valorizzare il lavoro scolastico come mezzo di accesso a un valore, il sapere. Anche negli allievi che avrebbero energie sufficienti per trarre un insegnamento dal castigo scolastico, la punizione provoca un peggioramento dell'immagine di ciò che è scolastico, quindi indirettamente del valore "sapere". Si parla spesso della violenza degli allievi a scuola ma raramente della violenza della scuola sugli allievi, sulla loro diversità. Le pratiche "educative" dei docenti non sono sempre funzionali alla promozione di comportamenti responsabili da parte degli allievi, a volte rafforzano anzi i comportamenti devianti: se un allievo è preso quale capro espiatorio da un docente, porrà sempre maggiori problemi. Se si crede che un allievo porrà dei problemi, è raro che poi non ne ponga. L'effetto Pigmalione agisce anche in queste situazioni! In realtà i docenti sanno che le punizioni sono scarsamente efficaci ma si trovano nella difficoltà di trovare soluzioni alternative idonee a costruire un clima positivo in classe e che possano contenere i comportamenti violenti degli alunni. E si trovano quindi, loro malgrado, a riutilizzare le solite sanzioni che da decenni accompagnano la vita scolastica degli allievi: castighi individuali o collettivi, espulsione del disturbatore, convocazione di un consiglio di classe, convocazione delle famiglie e note sul registro. Il rischio che si corre con la punizione è quello della “scalata simmetrica”: l’allievo punito tende, nella maggior parte dei casi, a non darsi per vinto. Forse reagirà, forse cercherà di coalizzarsi con altri compagni, forse sarà ancora meno disponibile all'apprendimento. Altro errore che viene spesso commesso è quello di colpevolizzare la vittima: genitori ed insegnanti la invitano a reagire, a ribellarsi alle prepotenze del bullo e a risolvere un problema che loro per primi non sono in grado di affrontare. E’ quindi evidente che le punizioni non possono bastare, così come nemmeno si può sottovalutare il problema ed abbandonare le vittime a se stesse. Come vedremo più compiutamente nel prosieguo la soluzione che si è fatta strada con successo in alcune scuole è quella della mediazione. La mediazione, infatti, valorizza da un lato la vittima (che recupera un ruolo ‘attivo’ e non più marginale) e, dall’altro lato, coinvolge, senza stigmatizzarlo, il bullo (il quale, viene finalmente posto nella condizione di “mettersi nei panni dell’altro”). Origine ed obiettivi della mediazione scolastica La mediazione scolastica nasce negli Stati Uniti verso la fine degli anni sessanta, all’interno del progetto “Children’s Projects for Friends” incentrato sulla promozione della non violenza. Nel 1972 negli Stati Uniti nasce il “Children’s Creative Response to Conflict”, il primo programma per la scuola elementare, teso soprattutto ad implementare l’attitudine alla cooperazione e alla comunicazione. Nel 1984 inizia invece ad operare l’Associazione “NAME” (“National Association for Mediation in Education”), ovvero la prima associazione nazionale per la diffusione e la promozione della mediazione scolastica. Seguirono immediatamente dopo i progetti inglesi, grazie all’associazione Mediation U.K., quelli tedeschi e australiani. La mediazione scolastica trae quindi origine negli Stati Uniti come un modello alternativo a quello delle sanzioni e punizioni applicate sino ad allora. Inizialmente il motivo che aveva indotto a introdurre pratiche di mediazione all’interno dell’istituzione scolastica riguardava le modalità di composizione dei litigi fa gli studenti, e particolare attenzione veniva data al mantenimento della disciplina (Graham, Cline, 1989). Ben presto furono però notati anche altri benefici effetti collaterali; Maxwell (1989) segnala che i programmi di mediazione all’interno delle scuole alimentano negli studenti l’autostima e la capacità di regolarsi da soli, mantenendosi disciplinati, sebbene Roush e Hall (1993), confrontando fra loro gruppi di studenti di diverse età, abbiano riscontrato che, in generale, dopo un corso di dodici ore sulle tecniche della mediazione, solo il gruppo dei ragazzi delle scuole medie mostrava miglioramenti nell’autostima, mentre i bambini delle elementari non sembravano essere stati modificati dall’intervento riguardo a questo tratto. Con ogni verosimiglianza, queste differenze sono dovute alle specificità dei singoli programmi, oltre che alle modalità di misurazione. In realtà, è stato ampiamente dimostrato che le tecniche di gestione dei conflitti possono venire insegnate sin dai primi anni delle scuole elementari […]. Per questo motivo, e in relazione ai noti fenomeni di violenza minorile, vi è oggi un interesse diffuso per quei programmi che insegnano ai ragazzi a gestire fra loro i propri litigi, nelle scuole di ogni livello (Araki, 1990; Benson, 1993; Burrell, Cahn, 1994); la mediazione esercitata dal gruppo dei pari può ridurre la conflittualità fra bande rivali (Burrel, Vogl, 1990) e i conflitti su base razziale (Lieberfeld, 1994) (S. CASTELLI, LA MEDIAZIONE, 1996, pagg. 106-107). Purtroppo in Italia la mediazione scolastica, così come quella comunitaria, pare ancora poco praticata anche perché deve continuamente scontrarsi con la costante mancanza di fondi, nonché con la difficoltà di individuare e collocare con la dovuta precisione la figura del mediatore scolastico. La mancanza di una chiara definizione condivisione della figura del mediatore scolastico, così come il range più o meno ampio e vario dei suoi interventi, talvolta può disorientare anche i destinatari finali. Alcuni interrogativi possono essere d’aiuto per cercare di collocarsi nella giusta prospettiva di riflessione: Visto il suo ruolo di terzo, sarebbe forse opportuno che il mediatore scolastico fosse una figura più esterna al sistema scolastico, al fine di non ritrovarsi parte attiva nelle dinamiche relazionali e conflittuali interne? Quali sono le differenze tra il mediatore scolastico e lo psicologo scolastico? Ciò che conta è che il professionista abbia prima di tutto chiari finalità e confini del proprio ruolo e del proprio intervento, sapendo discernere con onestà intellettuale ciò che attiene alla composizione dei conflitti da ciò che è altro, oltre a riconoscere che in entrambi i casi è imprescindibile avere una formazione specifica (E.GALLI, MEDIAZIONE E CONFLITTI, 2013, pag. 83). Lo scopo della mediazione scolastica è quello della creazione di un nuovo spazio in cui possa essere gestito il conflitto, uno spazio intermedio in cui le parti confliggenti possano comprendere i loro reciproci bisogni ed interessi. Al mediatore scolastico va quindi attribuito lo stesso ruolo del mediatore in senso generale: è pertanto un terzo neutrale che deve ridurre gli effetti indesiderabili di un conflitto facilitando il dialogo tra le parti, senza imporre alcuna soluzione. E’ importante sottolineare come la mediazione scolastica consenta agli alunni di acquisire delle competenze che permettono la diffusione di una cultura della tolleranza anche al di fuori dell’ambiente scolastico, tanto che alcuni autori hanno parlato di “virus della pace” (Crary, 1992). Normalmente la mediazione scolastica è tesa alla prevenzione di fenomeni di violenza a scuola, all’insegnamento di strategie per mediare un conflitti ed alla promozione di un clima socio-affettivo scolastico in cui la frequentazione di persone diverse tra loro possa considerarsi come un arricchimento. I programmi di mediazione scolastica hanno un intento in primo luogo educativo, poiché si fondano sull’educazione al conflitto di bambini e ragazzi; insegnano a gestire le controversie compiendo scelte razionali, a considerare le conseguenze delle proprie azioni, e a trovare soluzioni alternative che escludono la violenza. L’educazione al conflitto è essenziale per lo sviluppo individuale, comunicativo e civico degli studenti, perché l’infanzia è il periodo migliore per apprendere capacità “socio-emozionali” che diventino poi risposte abituali ai problemi interpersonali (L. COMINELLI, La mediazione scolastica, in LA MEDIAZIONE FAMILIARE, A. CAGNAZZO (a cura di), 2012, pag. 56). Più precisamente, come sostengono alcuni autori (cfr Orazzo, Bottiglieri, Sarnacchiaro, Cuocolo, L’intervento di mediazione scolastica: teoria e pratica, in Riv. COGNITIVISMO CLINICO, pagg. 97-107), i progetti di mediazione scolastica devono porsi i seguenti scopi: favorire il riconoscimento degli stati emotivi; consentire una gestione degli stessi attraverso attività relazionalmente funzionali; permettere una gestione dei conflitti quanto più possibile costruttiva all’interno di una matrice esperienzale; promuovere valutazioni serene e ragionate dei contesti evitando reazioni immediate ed impulsive; migliorare l’autostima dei soggetti e le capacità relazionali. Gli Ombudsman universitari Tralasciando, per un attimo, la mediazione attuata nelle scuole primarie e secondarie, non ci si può esimere dall’evidenziare che uno dei campi in cui la mediazione ha trovato terreno fertile è certamente quello universitario, attraverso l’introduzione dell’Istituto dell’Ombudsman che letteralmente significa “uomo che funge da tramite”. Si tratta di un Istituto che è nato negli Stati Uniti alla fine degli anni sessanta e che poi ha preso lentamente piede anche in qualche Ateneo italiano, come Bologna, Firenze, Genova, Trieste e Macerata, sotto la denominazione di Garante d’Ateneo o di Garante degli Studenti. L’Ombudsman interviene ed emette pareri assicurando il rispetto della libertà di insegnamento e ricerca e dei diritti degli studenti, del personale docente e del personale tecnico-amministrativo dell'Università. L’Ufficio del Garante, in buona sostanza, ha la funzione di intervenire quando un soggetto ritenga che una determinata condotta dell’Ateneo abbia violato nei suoi confronti la normativa universitaria esistente. L’Ombudsman, a seguito delle istanze e delle segnalazioni che gli pervengono, dovrà quindi compiere delle indagini e formulare il proprio parere che potrà poi essere ufficialmente comunicato al Rettore, ai ricorrenti e alle persone interessate. Non solo: il Garante ha il compito di redigere una relazione annuale che verrà poi resa pubblica. A questo proposito, leggendo le relazioni dei Garanti universitari reperibili on line, si nota come le tematiche affrontate siano le più svariate: - rilascio di diplomi; riattivazioni di carriera; chiarimenti di itinerari amministrativi; consegna di copia di compiti; ammissione a tirocinio; - riconoscimento di esami sostenuti; problemi riguardanti la didattica; riconoscimento dei Crediti Formativi Universitari nell’ipotesi di passaggio tra diversi Atenei; problemi concernenti la mancanza di collaborazione e comunicazione tra relatore e laureandi; interventi per far sì che venisse ripristinato il dialogo tra studenti e docenti; problemi riguardanti l’abnorme numero di bocciature; difficoltà nel rapportarsi con il personale amministrativo. Il Garante affronta altresì tematiche di ordine economico che, a causa della crisi degli ultimi anni, si sono fatte più pregnanti. Significativa è, a questo proposito, la relazione dell’anno 2013 del Garante degli Studenti dell’Università di Bologna, ove si legge: Il problema che, nell’attuale situazione di crisi economica e sociale, viene posto con frequenza sempre più assillante, attiene alla difficoltà (che in molti casi si traduce in concreta impossibilità) degli studenti o dei loro nuclei familiari, di provvedere al pagamento dei contributi universitari e, a maggior ragione, nell’ipotesi di decadenza, per perdita dei requisiti di merito, dei benefici precedentemente ottenuti, di provvedere al rimborso delle somme anticipate da Er-go. La questione riveste particolare importanza in quanto la morosità nel pagamento dei contributi determina il blocco della carriera universitaria dello studente (con conseguente impossibilità, per lo stesso, di sostenere esami ed ottenere certificazioni) e per gli studenti extracomunitari (che, in genere, non sono in grado di mantenersi presso la sede universitaria se non usufruendo delle borse di studio Er-go) risulta altresì ostativa all’ottenimento del rinnovo del permesso di soggiorno. Nei casi predetti questo Ufficio, attesa l’inderogabilità della normativa in materia, non ha potuto che limitarsi a segnalare le ipotesi più meritevoli di attenzione (per la particolare criticità della situazione personale dello studente o della sua famiglia) agli Uffici di Er-go per l’eventuale concessione di sussidi straordinari e all’Ufficio del Rettore per l’eventuale riconoscimento dell’esonero totale o parziale dal pagamento delle contribuzioni universitarie. Come scrive Cominelli (op. cit., pag. 71): L’Ombudsman universitario è molto cauto con i suoi strumenti d’intervento, tanto che si impegna solo raramente in una mediazione formale, preferendo agire come “sentinella” o “smoke watcher” anche nei confronti delle c.d. “micro-ingiustizie”, cioè di “eventi apparentemente insignificanti che sono spesso limitati nel tempo e difficili da provare, eventi nascosti, spesso non intenzionali, di frequente irriconoscibili, anche per il perpetratore, e che avvengono dovunque vi siano persone percepite come differenti”. Oltre a risolvere il problema individuale che emerge con il singolo reclamo, l’ombudsman universitario dispone di un punto di osservazione privilegiato per segnalare criticità e suggerire rimedi in merito a problemi strutturali dell’organizzazione universitaria […]. Laddove sono stati studiati, si è rilevato che gli ombudsman universitari hanno consentito di modificare le prassi interne in materia di assegnazione e supervisione delle tesi di laurea, procedure disciplinari a carico di studenti, garanzie per i docenti a contratto, paternità intellettuale delle ricerche, misure in merito alle relazioni sentimentali fra docenti e studenti, nonché di reclami interni; hanno anche contribuito alla formazione e alla sensibilizzazione del personale universitario nei rapporti con l’utenza. Tecniche e strumenti del mediatore scolastico: la mediazione indiretta e la mediazione diretta Ritornando quindi all’argomento centrale del presente lavoro e, pertanto, ai conflitti che si verificano in età adolescenziale, per comprendere come avvenga il lavoro del mediatore a scuola, occorre innanzitutto distinguere il lavoro svolto in prevenzione, rispetto al lavoro svolto a seguito di conflitti già posti in essere. Nel primo caso (c.d. mediazione indiretta) il mediatore consente a studenti ed insegnanti di familiarizzare con il conflitto, sviluppando le loro capacità empatiche. Si tratta di percorsi che mirano a far sì che studenti ed insegnanti imparino a so-stare nel conflitto, gestendolo positivamente e facendo così in modo che lo stesso sia costruttivo e non distruttivo. La mediazione scolastica preventiva o indiretta diventa pertanto uno “strumento metodologicodidattico di dialogo e di scambio interpersonale capace di portare a ripensare le relazioni all’interno del contesto scolastico tra tutti i soggetti che lo animano” (D. GALLI, Mediazione e Conflitti, Carocci Faber, 2013). Come scrive Bonafè-Schimitt “L’obiettivo perseguito dal progetto di mediazione non è semplicemente quello di rispondere a problemi immediati con i quali gli istituti scolastici si confrontano, come il vandalismo, l’assenteismo […] ma è di favorire un cammino pedagogico attraverso la diffusione di un nuovo modo di regolazione dei conflitti: la mediazione. […] Si può comprendere, allora, che la mediazione scolastica sia non solo una semplice tecnica di gestione del conflitto e un modo di pacificazione delle relazioni sociali nell’ambito scolastico, ma debba essere considerata un effettivo processo educativo in grado di favorire la diffusione di un nuovo modello di regolazione dei conflitti, più consensuale, che fa appello alle nozioni di contratto, di fiducia, di equità. La mediazione rappresenta anche una nuova forma di azione comune, che rinvia a una composizione dei rapporti tra lo Stati e la società civile, alla costituzione di nuovi spazi intermedi di regolazione delle relazioni sociali. La mediazione scolastica s’inscrive in questa ricomposizione” (BONAFE’-SCHIMT, La mediazione scolastica: un processo educativo?, in G.PISAPIA – D. ANTONUCCI, La sfida della mediazione, CEDAM, 1997). Come accennavo in precedenza, il mediatore scolastico può essere anche chiamato ad intervenire a seguito di un conflitto già sorto (c.d. mediazione diretta). In questo caso, si pone il problema di preparare con accuratezza il processo mediativo: fondamentale è, a questo proposito, l’individuazione delle parti che devono presentarsi in mediazione. Si tratta di una circostanza che, in presenza di conflitti in cui siano coinvolte più parti, non è così semplice come possa sembrare prima facie. E’ inoltre importante che il mediatore sappia preparare se stesso analizzando il proprio vissuto professionale e personale nella misura in cui questo possa incidere in qualche modo nel processo di mediazione. Inoltre, come scrive Daniela Galli (D. GALLI, Mediazione e conflitti. Dalla formazione alla supervisione dei casi in ambito familiare, scolastico e civile, Carocci Faber, 2013, pag. 88): “è indispensabile che, nel caso di mediazioni multi-parti (come quelle che avvengono in ambito scolastico, n.d.r.), il mediatore sappia far fronte anche a due sfide aggiuntive rispetto alle mediazioni più tradizionali: la prima di queste sfide sta nel riuscire a costruire una relazione di fiducia con ciascun soggetto; la seconda nel gestire opportunamente la fase di attesa dei gruppi, poiché il tempo che il mediatore dedica a una parte è vissuto come momento di potenziale noia e insoddisfazione dall’altra, e potrebbe andare a condizionare in negativo la motivazione della mediazione”. Il mediatore, a questo punto, dovrà capire se procedere subito ad un incontro diretto tra le parti o se, piuttosto, utilizzare temporaneamente la c.d. strategia della navetta, vale a dire muoversi per via indiretta al fine di preparare le parti confliggenti alla ripresa del dialogo. Nel corso degli incontri il mediatore ha il compito e si prefigge l’obiettivo di responsabilizzare le parti attraverso un percorso di dialogo e di comunicazione “protetto”, le invita all’ascolto e al rispetto dei reciproci punti di vista e le incoraggia a ricercare delle soluzioni che, comunque, dovranno pervenire dalle parti stesse. Si apre così l’ultima fase, quella dell’accordo negoziale: se necessario ed opportuno viene stilata la bozza d’accordo che viene condivisa con le parti interessate affinché possano poi sottoscriverlo. E’ importante sottolineare che già alla fine degli ottanta, alcuni studi sulla mediazione scolastica hanno dimostrato un miglioramento dell’autostima negli alunni (Maxwell, 1989) e sono stati ottenuti dei risultati anche nei dissidi tra bande rivali e nei conflitti razziali (Vogl, 1990; Libeberfeld 1994)1. La mediazione tra pari (peer mediation) Una valido strumento che può portare a ripensare le relazioni all’interno del contesto scolastico tra tutti i soggetti presenti è certamente la peer mediation, ovvero lo strumento attraverso il quale gli alunni stessi svolgono il ruolo di mediatori di conflitti tra i propri coetanei, riconoscendo la capacità di riconciliarsi e scommettendo sulla possibilità che sia possibile affrontare facilmente la risoluzione di un conflitto qualora questo sia mediato da un compagno (D. GALLI, Mediazione e conflitti, Carocci Faber, 2013). Ovviamente i ragazzi vanno formati da mediatori professionisti, affinché sappiano essere mediatori tra pari. Si tratta di una strategia che, facendo leva sul bisogno di relazioni orizzontali, complementarietà, mutuo controllo dei giovani, si propone come metodo educativo in base al quale alcuni membri di un gruppo vengono responsabilizzati, formati e reinseriti nel proprio gruppo di appartenenza per realizzare precise attività con i propri coetanei. I giovani acquisiscono competenze utili alla mediazione e, possibilmente, alla gestione dei conflitti tra coetanei. La peer mediation può, dunque, contribuire a migliorare il benessere dei singoli studenti e della comunità e diventare uno strumento efficace nel contrasto del disagio e dei fenomeni di bullismo registrati nelle scuole di tutti i paesi. Come affermato da Dovigo2, i motivi per affidare la mediazione di un conflitto tra studenti ad un loro compagno sono molteplici: - Gli studenti sanno relazionarsi con i loro compagni in modo diverso dagli adulti; - Come mediatori gli studenti sanno affrontare il conflitto attraverso prospettive, linguaggi e atteggiamenti che risultano particolarmente appropriati all’età; - La mediazione tra pari dà agli studenti l’opportunità di parlare dei loro problemi senza timori che l’autorità di un adulto intervenga a giudicare i loro comportamenti, pensieri o sentimenti; - chi fa il mediatore è rispettato perché a sua volta nel mediare mostra attenzione al processo di problem solving e ai compagni coinvolti nella disputa; 1 Fonte: Frisco Caterina, in www.esameavvocato.diritto.it 2 F. DOVIGO, in “Agorà. Paesaggi dell’intercultura”, magazine online (www.vanninieditrice.it) - la componente di self-empowerment che è racchiusa nella mediazione risulta particolarmente attraente per gli studenti, aiutandoli a rafforzare la loro autostima e autodisciplina; - nel momento in cui riescono a trovare una soluzione, gli studenti sentono di riuscire a padroneggiare la realtà e che vale la pena di impegnarsi per mantenere le decisioni che sono state raggiunte nel corso della mediazione. La mediazione tra pari consente di Disinnescare dinamiche conflittuali legate ai processi relazionali distorti nei confronti dell’insegnante (forme di trasgressione nei confronti dell’adulto, oppure di simbiosi, di connivenza…); inoltre permette di percorrere strade comunicative relazionali spesso precluse agli adulti e conosciute invece dai bambini/ragazzi. Se questo ruolo di mediazione viene assegnato a diversi bambini e ragazzi, e si inserisce nell’ambito di un approccio didattico attivo che prevede attività allargate a tutto il gruppo classe, può rappresentare una forma di deresponsabilizzazione dei ragazzi nei confronti delle loro scelte, delle relazioni che li coinvolgono: può permettere agli alunni di sperimentare diverse strategie relazionali e di mediazione, per verificare e valutare quali si rivelino più efficaci. (E. NIGRIS, I conflitti a scuola. La mediazione pedagogico-didattica, Bruno Mondadori, 2002, pagg. 109-110). La mediazione tra pari permette pertanto ai ragazzi di diventare responsabili delle proprie azioni in un periodo critico del loro sviluppo incrementando altresì le strategie di affermazione verbale che spesso risultano scarse o addirittura assenti nei ragazzi aggressivi. Può pertanto affermarsi che la mediazione tra pari sia uno strumento idoneo ad evitare che i conflitti tra i ragazzi seguano un’escalation distruttiva e sfocino pertanto nei fenomeni aggressivi tipici del bullismo. Nel 2007, un’ampia meta-analisi su 36 ricerche condotte negli Stati Uniti ha mostrato come siano significativi i risultati positivi raggiunti nelle scuole in cui si pratica la mediazione tra pari. I comportamenti aggressivi e antisociali sono diminuiti. Si stima che, senza alcun intervento, il 14 per cento degli adolescenti è coinvolto in risse a scuola, mentre la quota scende al 9,5 per cento negli istituti impegnati nella mediazione, dove si registrano anche meno provvedimenti di espulsione nei confronti degli allievi. La mediazione risulta più efficace tra gli adolescenti di età compresa tra i 14 e i 17 anni, mentre produce effetti molto più modesti tra i bambini dai 5 ai 9 anni. Infine, va rilevato che i programmi pianificati e attuati in modo accurato hanno maggior successo di quelli con un’applicazione piuttosto improvvisata3. Conclusioni Alla luce delle considerazioni svolte nelle pagine che precedono, credo di poter affermare che la mediazione a scuola sia una valida risposta al bullismo ed ai fenomeni aggressivi che si consumano all’interno delle mura scolastiche. 3 Fonte: www.giovanieviolenza.ch/it/temi/prevenzione-a-scuola/mediazione-tra-pari.html Il mediatore può intervenire efficacemente sia a seguito di conflitti tra alunni già iniziati, sia in un’ottica di prevenzione. La mediazione può essere quindi una valida alternativa alle normale sanzioni a cui siamo abituati ad assistere ogni qualvolta si verifichino atti illeciti a scuola. La mediazione, a differenza delle sanzioni disciplinari, pone maggiore attenzione sia al bullo, sia alla vittima: attraverso il processo mediativo bullo e vittima sono finalmente posti nella situazione di poter comunicare tra loro con l’aiuto del mediatore, il facilitatore della comunicazione. Finalmente bullo e vittima sono in grado di confrontarsi, di mettersi nei panni dell’altro, di comprenderne il comportamento e le emozioni senza giudicarlo. Parimenti efficace è la cosiddetta mediazione indiretta in quanto consente ai ragazzi di imparare a gestire i conflitti senza l’utilizzo della violenza: in questo senso la diffusione di una cultura della mediazione scolastica può essere interpretata come un percorso educativo in grado di rafforzare l’identità di ciascuno dei ragazzi e di responsabilizzarli dal punto di vista civico. Meritevole di pregio è inoltre la peer mediation: si tratta, infatti, di uno strumento in grado di sensibilizzare i ragazzi all’ascolto di altri individui e di comprenderne gli stati emotivi. Da avvocato, non posso che concordare con una recente sentenza del Tribunale di Milano (la n.8081/2013), con la quale è stato affermato che l’obbligo di vigilare sugli alunni da parte della Scuola viene violato non solo quando il docente non sia in grado di spiegare un intervento correttivo e repressivo. Tale obbligo, secondo il Giudice di merito milanese, viene altresì violato anche quando la Scuola non abbia adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di situazioni pericolose. Trovo pertanto imprescindibile che la Scuola si attivi compiendo interventi mirati sugli alunni, creando percorsi di educazione alla legalità e di mediazione scolastica volti a responsabilizzare gli stessi e che consentano loro di immedesimarsi negli altri, pur mantenendo la propria identità come identità separata.