la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 4 GENNAIO 2015 NUMERO 513
Cult
La copertina. Noi, abituati a guardare l’orrore
Straparlando. Enzo Bettiza, l’identità della parola
Mondovisioni. L’Holiday Inn di Beirut
ROA L D DA HL
RESTANTI OTTO BAMBINI furono di nuovo accompagnati nel lungo corridoio bianco insieme ai loro genitori. «Mi chiedo come staranno adesso
Augustus Pottle e Miranda Grope» disse Charlie Bucket a sua madre.
«Suppongo si siano dati una calmata», rispose la signora Bucket. «Vieni, prendi la mia mano tesoro.
Così: stringila forte e non lasciarla. E non fare sciocchezze in questa stanza, capito? Altrimenti anche
tu potresti essere risucchiato in uno di quei tubi
spaventosi, o fare una fine addirittura peggiore.
Chissà?».
Il piccolo Charlie strinse la mano della signora
Bucket mentre insieme percorrevano il lungo corridoio. Presto giunsero a una porta sulla quale era scritto: STANZA DEL CARAMELLO ALLA VANIGLIA.
«Hey, è qui che era andato Augustus Pottle, no?»,
disse Charlie Bucket.
«No», rispose Willy Wonka. «Augustus Pottle è in
Caramello al cioccolato. Questa è Vaniglia. Entrate
tutti a dare un’occhiata». Si trovarono così in un’altra stanza cavernosa, e anche questa volta ai loro occhi apparve qualcosa di veramente magnifico.
I
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
con una testimonianza di LUKE KELLY
Cinquant’anni fa Roald Dahl apriva
la “fabbrica di cioccolato” più famosa
Oggi il nipote dello scrittore
ha ritrovato un capitolo inedito
che qui pubblichiamo
Con un commento del regista
che lo ha (ri)portato sullo schermo
TI M BURTON
A VANIGLIA È MOLTO DIVERSA dal cioccolato, co-
ILLUSTRAZIONE © QUENTIN BLAKE
L
me ben sapeva Roald Dahl che ne era goloso. Ma il capitolo alla vaniglia rimasto fuori della Fabbrica di cioccolato sa anch’esso
di cioccolato. Voglio dire che la sua costruzione non è molto diversa da quella degli altri episodi : improvviso paradiso del gusto, dove un paio di ragazzini viziati e saccenti trovano piacere e contrappasso. Avessi potuto leccare quel capitolo, ci avrei riflettuto. Ma credo che la Warner mi avrebbe tagliato lingua e fondi dopo aver fatto già colare centoventimila litri di vero cioccolato nella scena del fiume e
della cascata “fondenti” : le riprese erano durate alcuni giorni, alla fine non ne potevamo più, l’odore del
cioccolato era divenuto insopportabile. Non è stata
che una goccia nelle riprese gigantesche che hanno
occupato tutti e sette i set degli Studi di Pinewood,
dove avevamo fatto “crescere” erba di zucchero, lasciandola sgranocchiare ai ragazzini tra un ciak e l’altro. Non conosco l’effetto-vaniglia. Ma deduco che, se
troppo cioccolato ci asfissia, gli zuccheri siano dolci
trappole. Come insegna Hansel e Gretel.
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
La stanza segreta
di Willy Wonka
L’attualità. Che cos’è il grafene e come cambierà il mondo, secondo il suo scopritore, Andre Geim Spettacoli. La scuola per
giovani direttori d’orchestra di Riccardo Muti Sapori. Zuppe bollenti per freddi inverni L’incontro. Margarethe von Trotta
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 4 GENNAIO 2015
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La copertina. La stanza segreta di Willy Wonka
Golosissimo di dolciumi, Roald Dahl anticipò i tempi
con il suo romanzo per bambini (celebre grazie anche
ai due film che ha ispirato) al quale però furono tagliate
alcune pagine.Le abbiamo recuperate. Eccone un assaggio
<SEGUE DALLA COPERTINA
R O AL D D A H L
LE IMMAGINI
A
ILLUSTRAZIONE © QUENTIN BLAKE
LE ILLUSTRAZIONI IN QUESTE PAGINE
E IN COPERTINA SONO STATE DISEGNATE
DA QUENTIN BLAKE APPOSITAMENTE
PER IL CAPITOLO INEDITO “THE VANILLA
FUDGE ROOM”. PER ULTERIORI
INFORMAZIONI SULLA STORIA DI QUESTO
CAPITOLO: WWW.ROALDDAHL.COM.
“LA FABBRICA DI CIOCCOLATO”
È PUBBLICATO IN ITALIA DA SALANI
(208 PAGINE, 12,90 EURO)
CHE PER I CINQUANT’ANNI DEL ROMANZO
HA REALIZZATO UN’EDIZIONE SPECIALE
si trovava infatti una vera e propria montagna.
Una colossale montagna dalla superficie frastagliata, alta quanto un edificio di cinque piani e interamente
formata da caramello alla vaniglia,
cremoso e di color marroncino. Lungo il pendio della montagna e sino alla sommità centinaia di uomini armati di picconi e trapani erano intenti a staccare grossi pezzi di caramello; alcuni, quelli che si trovavano più
in alto, su picchi pericolosi, erano uniti tra loro da una fune di sicurezza. Una volta staccati, gli enormi pezzi di caramello precipitavano a terra rimbalzando sui fianchi della montagna; raggiunto il
pavimento venivano raccolti da gru su cui erano montate delle ruspe che li depositavano dentro a dei carrelli. Questi (simili a carrelli ferroviari, ma più piccoli) formavano una fila infinita e in continuo movimento che trasportava il materiale sino all’estremità opposta della stanza e attraverso un buco nel muro. «È tutto caramello!» esclamò trionfalmente Willy Wonka.
«Possiamo arrampicarci sino in cima?» urlarono i bambini saltando su e giù.
«Sì, a patto che facciate attenzione», rispose Willy Wonka. «Salite lungo quel versante laggiù, dove non sta lavorando nessuno, per
evitare che i pezzi di caramello vi cadano in testa».
I bambini si divertirono un mondo ad arrampicarsi su e giù lungo
il fianco della montagna, e nel salire e scendere raccoglievano pezzi
di caramello, rimpinzandosene.
L CENTRO DELLA STANZA
«Adesso devo fare un giro su uno di quei carrelli», disse un bambino piuttosto arrogante di nome Wilbur Rice.
«Anch’io!» gli fece eco un altro, chiamato Tommy Troutbeck.
«No, per favore non lo fate», disse Willy Wonka. «Quegli aggeggi
sono pericolosi. Vi potrebbero investire».
«Wilbur, tesoro, guai a te!» disse la signora Rice (madre di Wilbur).
«Non farlo nemmeno tu, Tommy» disse la signora Troutbeck (madre di Tommy). «Quest’uomo dice che è pericoloso».
«Col cavolo!» esclamò Tommy Troutbeck. «Col cavolo!».
«Wonka, vecchio pazzo!» urlò Wilbur Rice. I due ragazzi si diressero di corsa verso uno dei carrelli che sfrecciavano, e ci salirono sopra arrampicandosi per sedersi proprio in cima al carico
di caramello.
«Ciao a tutti!» urlò Wilbur Rice.
«Prima fermata Chicago!» urlò Tommy Troutbeck agitando le
braccia.
«Su questo si sbaglia», disse Willy Wonka con un filo di voce.
«Escludo che la prima fermata sia Chicago».
«È un vero maschiaccio il nostro Wilbur», disse il signor Rice (padre di Wilbur) con orgoglio. «Ne combina sempre una delle sue».
«Wilbur!» urlò la signora Rice quando il carrello attraversò la stanza come un fulmine. «Scendi immediatamente da lì! Mi senti?».
«Anche tu Tommy!» urlò la signora Troutbeck. «Andiamo, scendi! Chissà dove ti porterà quel coso!».
«Wilbur!» urlò la signora Rice. «Scendi da quel… quel… santo cielo! È sparito dentro un buco nel muro!».
«Non ditemi che non li avevo avvisati», dichiarò Willy Wonka.
«Sbaglio o i vostri figli non sono particolarmente obbedienti?».
«Ma dove è finito?» gridarono contemporaneamente le due madri. «Cosa c’è dall’altra parte di quel buco?».
«Quel buco», rispose Willy Wonka «conduce direttamente a quel-
Ritorno
alla fabbrica
di cioccolato
la Repubblica
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DOMENICA 4 GENNAIO 2015
Come sono
riuscito
a salvare
un classico
la che noi chiamiamo “Sala pestaggio e taglio”. È lì che il caramello
ancora fresco viene rovesciato direttamente dai carrelli nella bocca
di un’enorme macchina che lo sbatte contro il pavimento sino a farlo diventare bello liscio e sottile. Dopo di che, grazie all’intervento di
una quantità di coltelli — chop, chop, chop — se ne ricavano quadratini di forma regolare pronti per essere venduti nei negozi».
«Come si permette!», urlò la signora Rice. «Mi rifiuto di consentire che il nostro Wilbur sia ridotto a piccoli quadratini di forma regolare».
«Lo stesso vale per Tommy!», gridò la signora Troutbeck. «Nessuno dei miei ragazzi sarà mai esposto nella vetrina di un negozio
sotto forma di caramello alla vaniglia! Abbiamo già speso troppo per
la sua istruzione!».
«Proprio così», disse il signor Troutbeck. «Non abbiamo portato
qui Tommy perché finisse nella bocca della sua ripugnante macchina del caramello! Lo abbiamo portato qui perché fosse il suo caramello a finire nella bocca di Tommy! Lei ha capito tutto il contrario,
non crede signor Wonka?».
«Direi proprio di sì!», disse la signora Troutbeck.
«Calma, calma», mormorò Willy Wonka con tono rassicurante.
«Calma, calma, calma. Placatevi tutti per favore. Se i quattro genitori interessati volessero gentilmente seguire il mio assistente, verranno condotti direttamente nella stanza dove i loro ragazzi stanno aspettando. Sapete, lì dentro abbiamo un enorme
setaccio di metallo che serve proprio ad afferrare i bambini prima che finiscano nella macchina. Li prende sempre. Almeno sino
a oggi li ha sempre presi».
«Speriamo», disse la signora Troutbeck.
«Lo spero anch’io», disse la signora Rice.
Dall’alto della montagna uno degli operai intonò a gran voce:
«Otto bambini - dei pargoletti deliziosi. Ma due di loro hanno detto “col cavolo”, e ne sono rimasti solo sei».
(Traduzione di Marzia Porta)
The Vanilla Fudge Room è un capitolo inedito
di Charlie and the Chocolate Factory di Roald Dahl
© Roald Dahl Nominee Limited
Mio nonno
e il capitolo
nel cassetto
LU K E K E LLY
ONO PASSATI CINQUANT’ANNI dalla prima
pubblicazione di Charlie e la fabbrica di
cioccolato, scritto da mio nonno. Un romanzo che per molti aspetti i lettori di
tutto il mondo considerano l’opera più
rappresentativa di Roald Dahl. Il libro è
stato tradotto in cinquantacinque lingue e ha ispirato due film, un’opera classica e più recentemente un musical del
West End. La storia di Charlie, di Willy
Wonka e dei cinque biglietti d’oro sembra essere stata tramandata da una generazione all’altra di lettori con entusiasmo e trepidazione.
Una simile, festosa occasione ispira inevitabilmente una domanda: a cosa è dovuto il fascino duraturo di questo libro? Forse all’emblematica attrattiva dei cinque biglietti d’oro – ormai entrati a far
parte del linguaggio comune? Alle incisive personalità dei “fortunati” bambini che trovano i biglietti, descritte con l’intensità di un
caffè corretto? Allo stesso Wonka, il cui nome è diventato sinonimo
di creatività? O piuttosto al meraviglioso impiego che Roald fa della
lingua? Al suo modo di attingere alle figure retoriche contenute
nei tradizionali racconti per fanciulli, per riproporle con uno
stile assolutamente moderno e diretto — in grado di parlare direttamente ai bambini, senza alcuna traccia di paternalismo e toni moraleggianti. O semplicemente al
modo in cui Roald — che per tutta la vita amò la cioccolata, e da ragazzo fu addirittura degustatore di
quella del marchio Cadbury — descrive le delizie dei
dolciumi e della cioccolata (come dimenticare il
Cioccocremolato delizia Wonka al triplosupergusto?). Se poi si pensa che Charlie fu pubblicato per
la prima volta nel 1964, ci accorgiamo che è stato
anche un romanzo che ha precorso i tempi — con i
suoi moniti riguardo all’obesità infantile e agli effetti nocivi di un uso eccessivo della televisione;
senza contare il suo messaggio, nel quale si afferma che una vita familiare intensa e piena di affetti
è più importante delle ricchezze materiali. Eppure
Charlie e la fabbrica di cioccolato rimane sopra ogni
altra cosa un omaggio alla creatività — una dote che
indubbiamente accomuna Willy Wonka a Roald.
Il romanzo testimonia inoltre la grande passione
per i dolciumi che animò mio nonno durante tutta
la sua vita, e con questo capitolo inedito vogliamo
offrire agli amanti del suo romanzo una prelibatezza, sotto forma di scene e personaggi mai incontrati prima. Mio nonno conservava le bozze dei
suoi scritti in uno schedario di legno all’interno
della semplice casetta piena di sogni nella quale
scriveva. Quelle bozze, che oggi sono conservate
nell’archivio del Roald Dahl Museum and Story
Centre di Great Missenden, Bucks, in Inghilterra,
ci permettono di ricostruire l’affascinante evoluzione di ognuno dei suoi racconti. Delle
prime versioni di Charlie facevano parte
anche diversi personaggi che non hanno
trovato posto nella stesura definitiva del
romanzo. Tra questi vi sono Tommy
Troutbeck e Wilbur Rice, che incontrerete nella Stanza del Caramello alla vaniglia. Ritengo che scoprire una nuova scena e nuovi personaggi di una storia che
tutti conosciamo e amiamo regali un’emozione da brivido. È dunque con grande
piacere che vi invito a tornare nella sorprendente fabbrica di cioccolato di Willy
Wonka. Spero che questo gustoso, inatteso
bocconcino solletichi il vostro palato come ha
fatto con il mio.
S
© RIPRODUZIONE RISERVATA
IL FILM
NELLA FOTO A DESTRA JOHNNY DEPP
È WILLY WONKA NEL FILM DI TIM BURTON
“LA FABBRICA DI CIOCCOLATO” (2005)
(Traduzione di Marzia Porta)
Luke Kelly è nipote di Roald Dahl
e direttore generale
del Roald Dahl Literary Estate
© RIPRODUZIONE RISERVATA
<SEGUE DALLA PRIMA PAGINA
TI M BURTON
LONDRA
L
E ACIDULE CATTIVERIE
caramellate di Dahl mi
incantavano già da bambino.
La fabbrica di cioccolato è anzi
il mio primo ricordo
d’infanzia. Da quando, piccolissimo, ho
letto il libro, ho cominciato a visualizzarlo
come un film, senza neanche nutrire il
sospetto o la speranza che un giorno
l’avrei realizzato. Ai registi è riservato
questo miracoloso potere di
materializzare i sogni che abitano da
sempre dentro di noi. Nel portare dieci
anni fa sullo schermo le pagine di Dahl,
sono rimasto fedele ai miei primi
fantasmi, a tutto quel che aveva preso a
animarsi in me dall’infanzia. Il fatto più
fantastico è che quando abbiamo
costruito la casetta del piccolo Charlie
sono andato a visitare la reale dimora di
Dahl, trovandola tale e quale la casa
reinventata sul set. Con qualche affinità
supplementare a dove abito io a Londra.
Ogni autore, d’altra parte, fa
assomigliare a se stesso quel che
inventa. Dahl si rispecchia non solo
nella casetta ma nell’intera fabbrica di
cioccolato: è quella la sua casa, il suo
mondo parallelo, la sua Disneyland. Si è
detto spesso dei miei film che non sono
che fantasmi, sradicati da qualsiasi
realtà: ma la realtà, per me, è il
fantasma. Non sono l’unico a esserne
convinto: a darmi ragione esistono le
fiabe, come Alice o La fabbrica di
cioccolato, ma anche vite da fiaba - in cui
sogno e realtà non si urtano ma si
legano intimamente - come quelle di Ed
Wood o dei protagonisti di Big Eyes, ora
sugli schermi. A ciascuno la sua
Disneyland, la sua fabbrica di
cioccolato. “Willy Wonka, c'est moi?”.
Probabilmente. Ma il fabbricante di
cioccolato - e di sogni - è chiunque si
applichi, in modo più o meno bizzarro e
“irreale”, a trasformare i suoi sogni in
realtà anziché aspettare tutta la vita chop chop chop - che la realtà cominci a
assomigliare ai suoi sogni. L’Eden dei
dolci di Dahl è una casa di correzione per
gli impiegatini del conformismo,
per gli scolaretti dell’esistenza. È
una rosea, liberatoria discesa
agli Inferi : Inferi gioiosi, come
La sposa cadavere uscito lo
stesso anno. Durante le
riprese della Fabbrica di
cioccolato, gli
Studios volevano
farmi cambiare
dialoghi per loro
troppo strambi. “Ma
non sono io, è Roald Dalh che li
ha scritti! Se volete cambiare
tutto, perché farne un film?”. È
questa la realtà di Hollywood,
oggi. Vogliono tutti adattare i
classici, da Carroll a Dahl, ma
con sacro terrore : pronti a farli a
fettine - chop chop chop -,
eliminando diligentemente tutto
quanto li ha fatti essere
Carroll o Dahl.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 4 GENNAIO 2015
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L’attualità. Fisico bestiale
È il Nobel che ha scoperto (“rovistando per caso
nella spazzatura”) questo rivoluzionario materiale
L’abbiamo incontrato e la scoperta l’abbiamo fatta noi
parlando di tutto tranne che di scienza. “L’umanità
non è intelligente e non sopravviverà così com’è”
ENRICO FRAN C ESC H I N I
MANCHESTER
E PARETI D’INGRESSO
sono ricoperte da
una di quelle lunghissime equazioni
che si vedono talvolta sulle lavagne
degli scienziati: numeri, lettere di vari alfabeti, parentesi tonde, quadre,
graffe, radici quadrate. L’equazione è
suddivisa in “forze”, “materia” e
“Higgs”, immagino un riferimento al
celebre bosone, sebbene non abbia la
minima idea di cosa davvero sia. Entrare nella facoltà di Fisica della Manchester University, una delle migliori
del mondo, dove hanno insegnato Alan Turing, decifratore
del Codice Enigma, e l’astrofisico Brian Cox, metterebbe soggezione a chiunque. Se poi a entrare è uno che in fisica, al liceo,
non ha mai capito nulla, la situazione assume toni tragicomici. Diventa un’impresa chiaramente disperata quando, salito
al secondo piano del venerabile istituto, varcato il corridoio intitolato “gruppo della materia condensata”, bussato alla porta del professor Andre Geim, il malcapitato visitatore lo saluta in russo, sperando di guadagnare così benemerenze, visto
che fino ai trentadue anni d’età il futuro premio Nobel e “padre” del grafene ha vissuto in quella che allora era chiamata
Unione Sovietica, beccandosi invece una gelida, spazientita
risposta: «Mi dica dunque lei in che lingua vogliamo condurre
l’intervista, inglese, russo o italiano?». Fortunatamente, quello del Nobel venuto dal freddo non è gelo: è humour, un umorismo russo-ebraico-tedesco-inglese, frutto delle diverse radici ed esperienze di una vita straordinaria. Non sempre riconosciute come spiritosaggini, le sue battute gli hanno procurato
qualche incomprensione, all’inizio della carriera accademica:
ma stavolta lo scienziato prepara un cappuccino, ne offre uno
al suo interlocutore (declino – ancora troppa soggezione) e si
scioglie in un amabile sorriso. Paragonato a Newton (lo scopritore della gravità) e a Einstein (l’inventore della relatività), a cinquantasei anni Andre Geim ha tali e tanti estimatori che si predice di Nobel farà in tempo a vincerne un altro,
per una seconda scoperta. La prima sarebbe sufficiente a garantirgli una fama imperitura: i suoi studi sul grafene, miracoloso materiale che ha lo spessore di un atomo ma la resistenza di un diamante e la flessibilità della plastica, promettono di rivoluzionare il mondo come l’acciaio e appunto la plastica hanno fatto in precedenza. L’eureka moment, il momento della scoperta, come ha ricordato lui stesso tante volte, venne quasi per caso, tirando fuori dal cestino della
spazzatura i rimasugli di un esperimento che credeva finito
male. Ma prima sono venuti tanti anni di studi e ricerche, che
Geim continua a fare, insieme alla moglie, fisico pure lei, con
l’ufficio di fianco al suo.
Gli racconto di essere arrivato a Mosca come corrispondente di Repubblica, nel 1990, proprio quando lui stava lasciandola come emigrante. «Tutti i gusti son gusti», commenta, di
nuovo un po’ acido, tra un sorso di cappuccino e l’altro. Ma lui
perché se ne andò? Ricordo che se c’era una cosa che funzionava, in Urss, era la comunità scientifica, in particolare la fisica, il ramo legato alle conquiste spaziali e all’industria militare. Geim, per di più, viveva e lavorava in una delle “cittadelle
della scienza”, luoghi riservati ai migliori studiosi, con più agi
che nel resto del paese. «Se avessi saputo che cosa mi aspettava in Occidente, me ne sarei andato ancora prima», risponde.
«Non mi riferisco a denaro o comfort personali, ma alla mia
produttività come scienziato, che diventò di colpo molto più
alta. È vero, la scienza aveva un posto di rilievo in Urss. Ma c’è
sempre stato un problema di efficienza. Il programma spaziale costava agli Stati Uniti, all’epoca della guerra fredda, l’un
per cento del Pil. All’Urss costava il cinquanta per cento. E nei
primi anni Ottanta, quando ho cominciato il mio lavoro di fisico, a Mosca era già iniziato il declino che ha portato un decennio dopo al crollo dell’Unione Sovietica, quindi le cose funzionavano ancora peggio, anche per noi scienziati. Io volevo fare
ricerca. Per la ricerca servivano fondi ed efficienza di costi. Il
posto per farla, mi resi conto, non era la Russia».
Gli domando come fu l’impatto con l’Inghilterra. «Facile e
difficile al tempo stesso. Facile per le succitate ragioni: tutto
funzionava bene e i fondi alla ricerca erano generosi. Difficile
per problemi linguistici, il mio inglese era povero, e anche per
qualche incomprensione culturale. Ricordo una cerimonia di
benvenuto in cui lo speaker si disse felice di avere finalmente
un russo in questa facoltà. Un russo, gli chiesi io, e chi è? Ma è
lei, mi risposero ridendo. Solo che io non mi sono mai sentito
russo. In Russia ero schedato fin dal passaporto come “tedesco”, un tedesco del Volga, come ci chiamava Stalin, una delle
tante minoranze discriminate dell’Urss. E inoltre un ebreo,
per parte di nonna materna. Sono cresciuto con due insulti nelle orecchie: nazista e giudeo, non male come accoppiata. Potevo sentirmi sovietico, ma l’Unione Sovietica ben presto non
L
ci fu più. E allora cos’ero?». Un europeo? «Sì, ma è un’identità
culturale, non nazionale. Gli Stati Uniti d’America sono cementati da una lingua comune, l’inglese. L’Europa purtroppo
no, e ci vorranno generazioni prima che diventi davvero unita». Non resisto a chiedergli il suo giudizio su Gorbaciov: ha fatto bene o male al proprio paese? «So che ha molti ammiratori
all’estero, ma cercate di capire perché ne ha pochi in patria. È
stato un pasticcione. Ha creduto di poter fare la democrazia
rapidamente e poi di ottenere una specie di Piano Marshall
dall’Occidente per fare anche il capitalismo. Doveva fare il contrario, invece, come la Cina, prima l’economia di mercato, poi
la transizione alla democrazia, e oggi la Russia sarebbe più democratica di com’è. Ora c’è Putin, che non piace all’Occidente, ma piace al novanta per cento dei russi. Chiedetevi il perché anche di questo. E lasciate passare cinquant’anni. Poi vedrete che la Russia sarà più civile e democratica. Il guaio dell’Occidente è che pensa di poter imporre il proprio modello, costruito nell’arco di secoli, a qualsiasi paese in pochi mesi o anni. E passi imporlo alla Russia: vorrebbe imporlo anche
all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria. Una follia».
Gli dico che parla come Kissinger: forse dovrebbe scrivere
anche di affari internazionali, non solo di fisica. Ma era la fisica l’oggetto del nostro appuntamento. Allora, pensa davvero
che il grafene cambierà il mondo? Sospira. È una domanda stupida, lo sento, ma dovevo farla, è quel che l’uomo della strada
(specie a cui appartengo) vorrebbe sapere. «Il grafene ha stabilito un nuovo paradigma». Cioè? «Ha aperto un portone, una
strada. Oggi si lavora su molti materiali che possiamo chiamare fratelli e sorelle del grafene, materiali di cui fino a poco
tempo fa, fino al 2007, nemmeno conoscevamo l’esistenza. In
sette anni sono stati fatti passi da gigante. Allora c’erano cento aziende che facevano ricerche sul grafene, ora ve ne sono
tante migliaia. Ha sicuramente il potenziale di cambiare il
mondo come lo ha cambiato la plastica». Stephen Hawking,
l’astrofisico che ha scoperto il Big Bang e i buchi neri, predice
che vedremo fantastiche scoperte nei prossimi dieci anni.
«Non sono un fan di Stephen Hawking. Lui ormai fa l’indovino
e dice cose senza pezze d’appoggio. Io dico semplicemente
questo: se lei prende una matita e tira una riga su un foglio, poi
la ingrandisce un’infinità di volte con un microscopio, vedrà
tracce di grafene. L’uomo ha avuto sotto il naso per cinquecento o mille anni questa scoperta che ora può cambiare il
mondo, ma non se n’era mai accorto. Siamo circondati di potenziali scoperte simili. Dobbiamo solo imparare a vederle». A
proposito di cambiamenti, lei si sente cambiato dal Nobel?
Geim prepara un altro cappuccino. Riflette. «No e sì. Sono la
stessa persona di prima, uno scienziato, non mi sento più arrogante. Ma grazie al Nobel ho conosciuto tanta gente famosa, ricca e potente e ho così potuto scoprire che non sono persone molto intelligenti. Ecco questo forse avrei preferito non
scoprirlo. La razza umana non è fatta di creature molto intelligenti. Io amo gli individui, ma non ho un gran rispetto della
razza umana nel suo complesso».
Visto che non siamo animali tanto intelligenti e che abbiamo di fronte ogni tipo di problemi, il cambiamento climatico,
il deficit di risorse energetiche, le guerre, le malattie, l’estremismo, lei pensa che sopravvivremo? «No». Altro sorso di cappuccino. Oddio, ma è una notizia spaventosa. «Non sopravvivremo nella nostra forma attuale», riprende. «Ci evolveremo
in un’altra forma». Sospiro di sollievo (mio). «Ci stiamo già
evolvendo. La nuova forma si chiama “società globale”. È una
creatura infinitamente più complessa del vecchio Homo Sapiens. Gli esseri umani sono contenuti al suo interno come minuscoli atomi, come le molecole che compongono una materia. Grosso modo l’Homo Sapiens è durato cinquantamila anni. Vedremo cosa diventerà questa nuova creatura, la società
globale, tra altri cinquantamila anni. Non lo vedremo io e lei,
ma i figli dei figli dei nostri figli». Anche il professor Geim ha
una figlia, quattordicenne. Che consigli dà alla sua bambina?
E ai bambini, ai ragazzi, ai giovani di oggi? «Un consiglio banalissimo. Per avere successo, bisogna lavorare duramente,
molto duramente. Mia figlia va a una scuola privata qui a Manchester ed è una delle prime della classe. Qui si calcola tutto in
percentuali, per cui lei sa di essere nel cinque per cento al top
della scuola come risultati accademici. Ma per avere successo
non basta, bisogna essere nei piani alti di quell’uno per cento
al top». Mi vengono in mente le tiger mom che costringono i figli a un’infanzia infelice di solo studio, ma il premio Nobel mi
tranquillizza: «Mia figlia è una ragazzina normale, ha hobby,
fa sport, gioca con le amiche. L’abbiamo portata con noi fin sul
monte Etna e sullo Stromboli, l’estate scorsa, e si è divertita
moltissimo. Avete vulcani e montagne meravigliose, in Italia». A questo punto siamo diventati amici: il premio Nobel insiste di nuovo per offrirmi un cappuccino, scherza sulla burocrazia italiana e confessa che l’Amarone è il suo vino preferito. Mi sento come se avessi superato l’esame (di fisica). Sarei
quasi tentato di chiedergli di spiegarmi, prima di andarmene,
cosa diavolo è esattamente il bosone di Higgs.
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CHE COS’È?
È UN MATERIALE COSTITUITO
DA UN UNICO STRATO
DI ATOMI DI CARBONIO.
HA LA RESISTENZA
DEL DIAMANTE
E LA FLESSIBILITÀ
DELLA PLASTICA
LA SCOPERTA
È STATO SCOPERTO
NEL 2004 DAI DUE FISICI
ANDRE GEIM E KONSTANTIN
NOVOSELOV DELL’UNIVERSITÀ
DI MANCHESTER
CHE NEL 2010
HANNO PRESO IL NOBEL
LE CARATTERISTICHE
CONIUGA LA PECULIARITÀ
DI ESSERE UN MATERIALE
ESTREMAMENTE LEGGERO
CON ECCEZIONALI
PROPRIETÀ
DI RESISTENZA
MECCANICA
la Repubblica
DOMENICA 4 GENNAIO 2015
29
Andre Geim
Mister
Grafene
LA STRUTTURA
GLI ATOMI SI DISPONGONO
IN CELLE BIDIMENSIONALI
ESAGONALI FORMANDO
UNA STRUTTURA A NIDO
D’APE CHE LO RENDE
UNO DEI MATERIALI
PIÙ SOTTILI AL MONDO
COME CONDUTTORE
PER I TRANSISTOR
È DUECENTO VOLTE
PIÙ FORTE DELL’ACCIAIO
E COME CONDUTTORE
DI ELETTRICITÀ
E DI CALORE
FUNZIONA MEGLIO
DEL RAME
È TALMENTE SOTTILE
CHE PUÒ ESSERE USATO
PER TRANSISTOR
A BASSISSIMO CONSUMO
PER CELLULARI E PALMARI
DA RICARICARE SOLO
UNA VOLTA AL MESE
NEI COMPUTER
PUÒ ESSERE UTILIZZATO
PER REALIZZARE
MICROPROCESSORI
AD ALTISSIMA VELOCITÀ
CHE MANDERANNO
IN PENSIONE
QUELLI AL SILICIO
CELLE SOLARI
MI DEFINIVANO UN TEDESCO DEL VOLGA,
NON MI SONO MAI SENTITO RUSSO.
STO MOLTO MEGLIO IN INGHILTERRA,
E NON SOLO PER I SOLDI. GORBACIOV? UN PASTICCIONE.
I COLLEGHI? NON SONO UN FAN DI HAWKING:
DICE COSE SENZA PROVE, ORMAI FA L’INDOVINO
FOTO DI JAMES KING-HOLMES
PER LA STRUTTURA
MONOATOMICA
CHE LO RENDE TRASPARENTE
E LA GRANDE CONDUCIBILITÀ
TERMICA PUÒ ESSERE
IMPIEGATO NEI PANNELLI
FOTOVOLTAICI
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 4 GENNAIO 2015
L’anniversario. 1915-2015
L
a raccoltadi brevi poemetti in versi liberi dal
titolo Spoon River Anthology di Edgar Lee
Masters, quarantacinquenne avvocato di
Chicago, fu pubblicata nel 1915. Il pubblico
americano ne fu profondamente colpito, tanto che il libro andò a ruba, divenendo il primo best-seller del “Rinascimento poetico” iniziato nel Middle West dallo
stesso Masters. Il ricordo di quel sensazionale successo durò a lungo, tanto che tuttora il libro è considerato
– se e quando lo è – con profonda diffidenza.
D YL AN T HO M AS
LA COLLINA
IMMAGINATA
DA EDGAR
LEE MASTERS
UN SECOLO
FA DIVENTÒ
NEGLI ANNI
UN LUOGO
LETTERARIO
UNIVERSALE
MA QUALCHE
TEMPO DOPO
VENNE
DIMENTICATA.
QUI DYLAN
THOMAS
SPIEGA
PERCHÉ
INVECE
IL SUO
VALORE
È ETERNO
Anche se oggi i motivi di sospetto sono assai diversi da allora,
quando Spoon River sfondò, con manifesto orrore della potente stampa parrocchiale, dei pulpiti di prateria, ma anche dei frastornati, smilzi, arcigni arbitri del gusto delle riviste letterarie,
oltre che di innumerevoli associazioni di perbenismo militante.
Oggi, tra le migliaia di studenti universitari che assumono
“poesia” in dosi massicce mi sembra assai difficile che qualcuno
legga ancora l’Antologia di Spoon River. Non credo che i workshop di poesia aggregati alle università e ai college privati la inseriscano nei loro programmi, se non come fenomeno di interesse storico minore: un libro scritto da un vecchio avvocato
bohemien, che in tempi bui divagava declamando sul conflitto
tra materialismo e idealismo: un conflitto ritenuto ormai obsoleto, tanto che probabilmente molti, in quei laboratori di poesia, lo considerano da tempo risolto in maniera soddisfacente.
È assai probabile che gli studenti, asettici energumeni esuberanti e ardenti, quarantadue denti e capelli a spazzola, ben
decisi a inseguire l’arte della poesia con tanto di taccuino e reticella, flaconcino di veleno, etichette e spilloni, tendano ad accantonare Masters semplicemente perché in vita ha avuto tanto successo. Come ho già notato, negli Usa moltissimi studenti
si ingozzano religiosamente di poesia moderna, pur sostenendo con insistenza che le opere poetiche così devotamente lette
e divorate da tanta gente siano per ciò stesso prive di valore. Ezra Pound, per esempio, può essere apprezzato solo da pochi, ossia da eserciti di cultori della cultura che ogni giorno si fanno
tanesimo nel quale aveva dovuto dibattersi e ribollire c’era – né
più né meno – qualcosa di ingannevole. «Ci conosce troppo bene, quel bugiardo!» era un atteggiamento molto comune.
Personalmente amo molto gli scrittori venuti dal Middle West negli anni dell’inizio della prima guerra mondiale. A prescindere dai luoghi comuni letterari sulla “vitalità da pionieri”, la
“ruvida onestà”, l’”umorismo terragno”, le “imperiture tradizioni popolari” eccetera, è vero che personaggi come i radicali e
gli iconoclasti delle piccole città di provincia, i giornalisti sportivi, i collaboratori del Reedy’s Mirror, i chiassosi e avvinazzati
predicatori e atei di Chicago, i cantastorie e i professionisti scalcagnati hanno dato un apporto rude e benefico a una lingua che
stava morendo in piedi – anzi, neppure sui propri, di piedi.
C’era soprattutto Edgar Lee Masters, missionario bilioso,
caparbio oratore da comizio, contorto e magniloquente, acuto nei particolari dei suoi ironici ritratti, prodigo di astrazioni
enfatiche, verboso ma anche conciso fino al grottesco: un uomo con un carattere che non avrebbe messo in vendita neppure per un patrimonio.
Nella sua raccolta di poesie, a parlare sono i morti della città
di Spoon River, che dal cimitero sulla collina recitano i loro onesti epitaffi. O piuttosto, parlano con tutta la sincerità di cui sono capaci. Perché nella loro vita terrena sono stati sconfitti per
essere stati onesti – e ciò li ha resi a volte acrimoniosi; o al contrario, disonesti – e di conseguenza ora sospettano delle motivazioni di chiunque altro. In vita non erano riusciti a far pace
con il mondo. Ora, da morti, cercano
di far pace con Dio, magari senza
neppure crederci.
Qui giace il corpo di… Segue il nome, inciso con indifferenza dal marmista. Masters interrompe l’iscrizione per subentrare, dopo il “qui giace”, con la sua versione aspra, dolente e compassionevole di una verità
variegata. Non si era mai illuso che la
verità fosse semplice e univoca, con
valori chiaramente definiti. Sapeva
che le vere motivazioni dell’affaccendarsi degli uomini sulla terra sono complesse e confuse, che l’uomo si
muove misteriosamente quando si
arrabatta per farsi valere, che il cuore non è solo un muscolo, una pompa
da sangue, ma anche una vecchia palla umida e lanosa nel petto, dentro
“l’orrendo fondaco di stracci e ossa”,
per citare Yeats: ricettacolo di errori,
tremenda costrizione che vive della sua ferita. E quel che più conta, sapeva che nelle persone la poesia esiste sempre – anche se
non è sempre delle migliori.
Ha scritto della guerra tra i sessi. Dell’abisso tra gli uomini,
creato dalle leggi degli uomini. Dell’incompatibilità tra quelli
che trascorrono insieme le loro brevi vite per convenienza economica o solitudine, l’abissale e sempre crescente distanza dal
primo, grave, casuale desiderio fisico materno. Non che i motivi di convenienza economica o di una voluttà occasionale, ma
non per questo meno urgente, non possano di per sé condurre
a uno stato di tranquillità tra due persone sperdute. Ma chi la
vuole, la tranquillità? Meglio bruciare che sposarsi, se il matrimonio spegne le fiamme.
Ha scritto sullo spreco; su come l’uomo sperpera la sua vitalità nel perseguire ciniche futilità, sulle sue aspirazioni quando
obbedisce alle cattive leggi, teologie, istituzioni sociali e discriminazioni; sulle ingiustizie, avidità e paure, costantemente e
rancorosamente convalidate da tutti gli umani che in passato
ne hanno sofferto, anche fino a morirne.
Ha scritto sulla dilapidazione dell’uomo, ma ad alta voce, maldestramente, appassionatamente, ha reso omaggio alla possibile grandezza di ciò che era avviato allo spreco.
Traduzione di Elisabetta Horvat
© Estate Dylan Thomas
Apologia
di Spoon
River
L’AUTORE
DYLAN THOMAS,
POETA, SCRITTORE
E DRAMMATURGO
GALLESE
(1914-1953),
SCRISSE
QUESTO TESTO
PER LA BBC COME
INTRODUZIONE
ALLA LETTURA
RADIOFONICA
DI ALCUNI VERSI
DALL’ANTOLOGIA
DI SPOON RIVER,
AVVENUTA
POI NEL 1955.
IL TESTO,
CHE NON È MAI
STATO STAMPATO,
È CONSERVATO
DALL’HARRY
RANSOM CENTER
DELL’UNIVERSITÀ
DI AUSTIN (TEXAS)
strada attraverso i suoi Cantos, ostentando estatica comprensione. Di Masters ho sentito dire che “ha avuto troppo successo
per essere onesto”. Osservazione che ha del patetico, in bocca a
un illuminato rappresentante di un Paese notoriamente non avverso al successo in qualsiasi campo della vita. Eppure, è grazie
all’ironica onestà di Masters che il suo Spoon River è diventato
così popolare tra i suoi detrattori. Sembra che gli americani amino molto essere presi a calci nei loro punti più sensibili. E quale
luogo può essere più sensibile dell’arida, grande spina dorsale
del Middle West?
Appena uscita, l’Antologia di Spoon River fu acquistata e letta da molti per diverse ragioni, per lo più estranee al fatto indubitabile che quella era poesia. Molti lessero il libro per negargli
questa qualità; altri, avendo scoperto che essenzialmente la
possedeva, la contestarono a voce ancora più alta. Davanti a
quei versi arrabbiati, sardonici, toccanti, una delle principali
reazioni era del tipo: «Ma sì, può darsi che effettivamente ci sia
gente meschina e corrotta, fanaticamente cupa, rispettabile fino alla follia, malevola e scontenta in qualche piccola città dell’Illinois – ma non dove viviamo noi!», «L’Est è l’Est, l’Ovest è l’Ovest, ma il Middle West è terribile!». Detto per inciso, non a caso negli Usa i luoghi più belli e più emozionanti sono invariabilmente designati come atipici, non veramente americani. Edgar
Lee Masters, tipico uomo del Middle West, ne parlava con cognizione di causa; ma nel suo odio per l’arcigno, avvilente puri-
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L’altra faccia
del sogno
americano
VITTORIO ZUCCONI
I
PITTURA DI GRANT DEVOLSON WOOD/CORBIS
L 1915, L’ANNO NEL QUALE un oscuro
avvocato dell’Illinois riuscì a pubblicare
una raccolta di versi liberi chiamata Spoon
River Anthology, era per gli Stati Uniti il
tempo dickensiano di tutto il meglio
visibile e tutto il peggio invisibile. Mai come in
quegli anni l’America aveva esercitato sul resto
del mondo una forza magnetica tanto
irresistibile. Dieci milioni di immigrati si erano
riversati sulle sue coste, tre dei quali italiani,
dall’inizio del secolo, raggiungendo in
quell’anno il culmine. Due terzi degli abitanti
di New York erano nati in altre nazioni. E
mentre l’Europa già inceneriva la propria
gioventù nella fornace della guerra, l’America
lontana e ancora indifferente l’accoglieva e
celebrava se stessa, nel primo film epicamente
sciovinista della storia del cinema, La Nascita
della Nazione. Nessuno lo poteva ancora
prevedere, ma istintivamente,
epidermicamente, si avvertiva che quello
appena cominciato sarebbe stato il “Secolo
Americano”.
La voce dei morti che si alzò da un
immaginario, eppure reale, cimitero del
MidWest per raccontarsi nelle pagine di Edgar
Lee Masters piombò come un secchio d’acqua
gelata sulla compiaciuta retorica del luminoso
destino dell’America. Le confessioni
dall’oltretomba dei defunti ormai liberi dagli
imperativi delle menzogne squarciarono non
soltanto i sudari delle convenzioni e del
perbenismo di quel mitico Midwest che si
considerava lo scrigno delle virtù americane. In
quei versi c’erano i tratti di quella che da allora
in poi si sarebbe chiamata l’altra faccia del
sogno americano. La sconfessione della
sacralità equanime della Legge, ammessa dal
giudice corrotto che si dichiara più colpevole di
Hod Putt che ha mandato a morire, anticipa il
fondato cinismo di chi vedrà legioni di
miserabili, e mai nessun milionario, spediti sul
patibolo. Il lamento di Serepta Mason, la donna
che vide la propria esistenza gelata dal “vento
amaro” della malevolenza e dai pettegolezzi
per il solo suo essere donna, coincide con la
sentenza della Corte Suprema che nega il voto
alle americane e riprende il filo della “Lettera
Scarlatta”. L’Antologia di Masters fu accolta
malissimo, dall’America della “Progressiva
Era”, come un insulto, poi venerata e
canonizzata nella lettura obbligatoria per i
liceali nell’America umiliata dalla Grande
Depressione e oggi è tornata nella penombra,
ignorata o evitata dalle scuole superiori, spesso
con il pretesto di una lingua, di una metrica, di
una poesia non abbastanza letteraria e alta.
La venerazione, e la considerazione per le
«storie», come andrebbero ridefinite, dei morti
sulla collina di Spoon River si sarebbero
protratte più a lungo fuori, che dentro gli Stati
Uniti, anche per il merito della stupidità
censoria del fascismo che ne aveva proibito la
pubblicazione, rendendone la lettura,
carissima fra i tanti a Cesare Pavese, e la
traduzione pericolose. E costringendo la prima
versione in italiano fatta da Fernanda Pivano a
nascondersi sotto la grottesca dizione di
S.River, quasi fosse un santo.
Sarebbero stati il Giovane Holden, gli autori
maledetti della Beat Generation, i Kerouac e i
Ginsberg, a raccogliere la voce dei morti
viventi di Spoon River e raccontare, senza più
l’espediente dell’oltretomba, gli spettri di una
nazione non più timorosa di evocarli. Ma
nessuno che ascolti quelle voci, e percorra le
strade del Midwest nel gelo cimiteriale degli
inverni, le potrà più dimenticare.
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LA DOMENICA
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Spettacoli. Venerati maestri
A scuola
daMuti
ANNA BANDET T INI
RAVENNA
N
c’è questa mania di immaginare il direttore d’orchestra come un
despota, «un
matto che si
sbraccia da
un podio»,
brontola divertito Riccardo Muti. «“Dirigere”, diceva Toscanini,
“può farlo anche un asino. Ma fare musica è
un’altra cosa”». È qualcosa di astratto e concreto insieme, spiega con passione commovente il venerato maestro, è studiare, seguire le tracce intricate dello spartito, il modo in cui le note sono scritte, apparentate...
Sta all’interprete poi trovare il percorso di
queste tracce, non smarrirsi, seguirle con
intelligenza, pensiero, piacere. «Dirigere
non è una cosa naturale — dice — Io vorrei
trasmettere come si fa».
Per la prima volta, il numero uno dei direttori, insegnerà la sua arte. Settantatrè
anni, sempre trascinante, lucido, non ortodosso, Muti condurrà un’accademia sulla direzione dell’opera italiana: prima masterclass in luglio al Ravenna Festival diretto da
Cristina Muti Mazzavillani, sua moglie. È bastato l’annuncio su internet perché le domande per le selezioni fioccassero da Usa,
Argentina, Turchia... e da mezzo mondo arrivassero offerte di ospitalità delle sessioni
future. Come nel 2004 con l’orchestra Cherubini, anche la scuola sarà per i giovani a cui
Muti guarda con attenzione, generosità, forse segreta inquietudine, come un passaggio
di testimone. «La verità è che oggi la direzione si studia poco e male. Un diplomato di
flauto o un cantante pensano di potersi improvvisare direttori. Io vorrei trasmettere
quello che ho imparato dai miei maestri, Antonino Votto, Bruno Bettinelli, Vincenzo Vitale», dice nello studio della casa di Ravenna,
luogo squisitamente privato, una sorgente
di energia con quella vista sul bel giardino e
i tanti ricordi, foto, libri, partiture originali,
oggetti preziosi come il vestito di Casanova
che Sutherland indossava nel film di Fellini,
il luogo da cui parte per girare il mondo: da
gennaio Chicago con la sua Symphony Orchestra, marzo la tournée internazionale
con la Cherubini, aprile la Germania con i
Berliner poi Vienna e Russia con i Wiener...
Maestro, da cosa si comincia per dirigere?
Dalla bacchetta?
«Quando ero direttore dell’orchestra di
Filadelfia ricevetti un voluminoso manuale
per studenti sulla direzione d’orchestra. Alla seconda pagina lo chiusi perché mi stava
confondendo. La gesticolazione ufficiale,
che serve per battere il tempo, è l’abc ma non
basta sbracciarsi per stare su un podio. E
quanto alla bacchetta, per me non è mai stato un feticcio. So di direttori che arrivano in
teatro con lussuosi astucci e bacchette diverse a seconda del repertorio. Io ho sempre
la stessa che mi fanno a Filadelfia da quando
dirigevo lì».
Lei come ha imparato?
«Io sono diventato direttore per caso. Una
serie di porte aperte del destino. Studiavo
musica parallelamente al liceo, ma mio padre voleva il famoso pezzo di carta, l’università, cosa che io ho fatto. Per ognuno dei cinque figli aveva deciso un indirizzo. A me toccava di fare l’avvocato».
E invece?
«Incontrai Nino Rota e decisi di studiare
musica seriamente. Andai a Napoli, mi sono
diplomato al Conservatorio in pianoforte col
grande Vincenzo Vitale. Fu il direttore, Jacopo Napoli, a chiedermi a bruciapelo se volevo dirigere l’orchestra degli allievi. Feci
due prove con successo. A quel punto mi disse: se vuoi diventare un direttore, da domani studi composizione. Ed è quello che ho fatto. Che hanno fatto Karajan, Toscanini, De
Sabata... Ed è la prima cosa che chiedo ai giovani: conoscere la composizione, poi saper
suonare il pianoforte e avere un buon baga-
FOTO SILVIA LELLI MASOTTI
ON SI SA PERCHÉ
Il numero uno
dei direttori
d’orchestra
spiega ai giovani
i suoi segreti
glio culturale sono le tre cose essenziali se
non vuoi essere un vigile urbano ma trasmettere una idea musicale».
L’idea musicale è quello che distingue
una direzione da un’altra?
«Sì. È lo studio di una partitura che richiede settimane, mesi, certe volte anni. Per me
è come un processo di innamoramento. Metto lo spartito sul pianoforte, la tengo lì, lo provo al piano, poi senza, poi di nuovo al piano.
È come costruire una casa. Ma poi devi saper
trasmettere le sensazioni che scopri in quella casa e qui ci vuole tecnica, sensibilità culturale e quella cosa strana che è il carisma».
Che cos’è il carisma?
«Non lo so. So che quando un direttore attraversa la pedana per raggiungere il podio,
l’orchestra capisce già se c’è l’ha o no. Carlos
Kleiber, di cui sono stato amico, mi raccontò
che a Tokyo dirigeva la Filarmonica di Vienna nel Cavaliere della rosa, e c’era un punto
in cui non era contento dell’orchestra. Una
sera, due, la terza decise in quel punto di non
fare alcun gesto, di stare fermo. Finalmente
ascoltò quello che chiedeva. “Perché”, chie-
QUANDO MI CHIAMARONO
A FILADELFIA RICEVETTI
UN VOLUMINOSO LIBRO SU COME
SI DEVE DIRIGERE. ALLA SECONDA
PAGINA LO CHIUSI: MI CONFONDEVA.
LA GESTICOLAZIONE È L’ABC: SERVE
A BATTERE IL TEMPO. MA NON BASTA
SBRACCIARSI PER STARE SU UN PODIO
se all’orchestra, “quando non ho diretto avete eseguito quello che volevo? Dipende da
chi è colui che in quel momento non dirige
sul podio”, fu la riposta. Ecco il carisma: la
presenza. Credo sia un misto di temperamento, sapienza, tecnica. Se non ce l’hai e ti
sforzi di esibirlo, ti fai nemica l’orchestra».
E a quel punto è finita.
«Un’orchestra sono cento persone, duecento con il coro: un popolo. Ci sono dentro
reazioni emotive diverse, l’abilità del direttore sta nel creare una sensibilità collettiva.
Molto è anche una questione di chimica, altrimenti non si comprende come un direttore amatissimo in una orchestra è poi magari
odiatissimo in un’altra».
A lei è successo?
«Immodestamente credo di no. Con la Filarmonica di Vienna abbiamo un rapporto
che dura da quarantaquattro anni ed è l’orchestra più difficile del mondo. Con la Scala
sono stati diciannove anni bellissimi, frantumati, credo, per altri motivi».
Nella scuola lei lavorerà sull’opera italiana. Perché?
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5
regole
del podio
1. I movimenti gestuali
Gesti codificati della mano destra
che servono per “battere” il ritmo:
2/4, 3/4, 4/4... È l’“abc”
2. Il pianoforte
Saper suonare il piano è utile
per studiare una partitura
ma anche per provare con i cantanti
3. La composizione
Un buon direttore deve
conoscere l’armonia,
il contrappunto,
la strumentazione
4. Gli studi umanisti
Un buon bagaglio culturale
è necessario per comprendere
un autore contemporaneo
o del passato
5. Il carisma
È qualcosa di astratto,
indefinito una somma
di professionalità, rigore, talento
La bacchetta
La bacchetta è un bastoncino
lungo da 25 a 60 centimetri,
utile per indicare il tempo
e gli attacchi all’orchestra
con gesti codificati. È in legno
leggero, oppure in fibra di vetro
o di carbonio. L’impugnatura
ha un pomello “a pera”
tradizionalmente
di sughero oppure di legno
«Studieremo il Falstaff. Sono sempre colpito dall’approssimazione e dalla mancanza
di serietà con cui l’opera italiana viene eseguita e ascoltata. Penso ai tanti abusi codificati dalla tradizione, libertà inammissibili
con Mozart o Wagner, tagli, cambiamenti
per i cantanti o i melomani, parola che odio
perché la mania è sempre una patologia. Insegnerò che in Verdi c’è una verticalità tra
suono e parola, sono una in funzione dell’altra. In Italia la musica deve voltare pagina fin
dalla scuola primaria: basta col piffero, insegniamo ai bambini a camminare nella foresta dei suoni».
I suoi direttori di riferimento?
«Toscanini, avendo studiato con Votto
suo allievo, per il rispetto dell’autore. Karajan per la scoperta delle possibilità del suono. Furtwängler per il coraggio di improvvisare, per i momenti di libertà».
Dei giovani chi la convince?
«Andris Nelsons mi pare uno bravo, a tutti auguro comunque di fare la famosa gavetta. Io iniziai, pensi, con l’orchestra militare
cecoslovacca, nella Praga del ‘66. Quando mi
CI SONO DUECENTO PERSONE,
CON IL CORO, IN UN’ORCHESTRA:
UN POPOLO. CON EMOTIVITÀ
DIVERSE. L’ABILITÀ È CREARE
UNA SENSIBILITÀ COLLETTIVA. QUESTIONE
DI CHIMICA, ALTRIMENTI NON SI CAPISCE
COME MAI UN DIRETTORE MOLTO AMATO
DA UNA PARTE SIA ODIATO DA UN’ALTRA
prendeva la nostalgia, facevo su e giù davanti all’ambasciata italiana. Tempo fa ci sono tornato con i Wiener, accolti in quella stessa ambasciata con un gran ricevimento che
mi ha fatto ripensare con tenerezza a quegli
anni in cui ero uno sconosciuto».
Quando si capisce di essere diventati un
vero direttore d’orchestra?
«Posso solo dire che andando avanti, capisci che non c’è bisogno di fare tanta confusione sul podio. In teoria si potrebbe dirigere anche solo con gli occhi. A me talvolta è
successo. Come i dicevano i romani “Rem tene, verba sequentur”, se c’è la sostanza le parole verranno. Una frase che farebbe bene a
tanti nostri politici».
A questo proposito: e la storia di lei alla
Presidenza della Repubblica? Avrebbe
davvero lasciato il podio per il Quirinale?
«Ma perché mai? È una pura invenzione.
Mi ha divertito però un signore che per strada qui a Ravenna mi dice: “Maestro sarebbe
stato bello però: voleva dire che in questo
paese cambiava musica”».
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L’ACCADEMIA
L’“ITALIAN OPERA ACADEMY”
È LA PRIMA MASTERCLASS
PER DIRETTORI D’ORCHESTRA
REALIZZATA DA RICCARDO MUTI.
LA SESSIONE D’AVVIO DEDICATA
AL “FALSTAFF” DI VERDI SI SVOLGERÀ
AL TEATRO ALIGHIERI DI RAVENNA
DAL 9 AL 26 LUGLIO 2015
PER IL “RAVENNA FESTIVAL”.
DUE LE CLASSI DI INSEGNAMENTO
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COLLABORATORE. PREVISTI AUDITORI.
LE DOMANDE DEVONO ESSERE
PRESENTATE ENTRO IL 31 GENNAIO 2015.
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L’ORCHESTRA
NELLA FOTO GRANDE:
MUTI CON L’ORCHESTRA CHERUBINI
IN PROVA AL TEATRO ALIGHIERI
DI RAVENNA
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LA DOMENICA
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Next. Animal factory
SERGIO PEN N ACC H I N I
GUARDARLO SEMBRA UNA DI QUELLE CUFFIE con microfono che si usano
per comunicare al computer. Solo che questo strano apparecchio,
creato da un team di inventori svedesi famoso per aver realizzato
una sedia a dondolo che ricarica l’iPad, non è per uomini, ma per cani. Si chiama No More Woof e traduce, sostiene il team nordico, ogni
verso del vostro cane in un pensiero preciso. “Ho fame”, “chi sei?”,
“voglio giocare” e altri semplici concetti per farci capire, senza margine di errore, cosa vuole esattamente il nostro amico a quattro
zampe. Sembra fantascienza, o uno scherzo molto ben congegnato, fatto sta che No More Woof ha già raccolto più di 20.000 dollari
da appassionati che hanno prenotato questo gadget prima ancora
che arrivi nei negozi. Quando (e se) ci arriverà, No More Woof costerà circa trecento dollari e sarà in grado di riconoscere almeno quattro tipi di versi del vostro cane. Ma l’idea svedese è solo l’ultima espressione, forse la più estrema, di come la tecnologia indossabile, quella degli smartwatch e dei bracciali per il fitness, abbia puntato gli occhi su un altro settore, un altro mercato da conquistare: gli animali domestici. Un’industria che vale oltre novanta
miliardi di dollari l’anno e che, stando a uno studio del Financial Times, non conosce crisi: dal
1994 a oggi è cresciuta costantemente, senza sosta. Anche durante la crisi economica.
«Solo in Nord America ci sono ottanta milioni di animali domestici che vengono, nel 90
per cento dei casi, considerati come veri membri di famiglia. Milioni di persone che non
vogliono altro che il bene dei loro cuccioli». Davide Rossi, ingegnere, poco più di
trent’anni, introduce così Fitbark, un piccolo dispositivo da montare sul collare
dell’animale in grado, tramite sensori, di calcolare l’attività fisica che il cane
A
No More Woof
SI CHIAMA “NIENTE
PIÙ ABBAI”: È UN PICCOLO
CASCO IN GRADO,
SECONDO I CREATORI,
DI LEGGERE IL PENSIERO
E L’ABBAIARE DEI CANI
E TRADURLO IN INDICAZIONI UTILI
PER I PADRONI. PER ORA
È SOLO UN PROTOTIPO
Whistle
UN COLLARE
PER MISURARE
L’ATTIVITÀ FISICA
DEL VOSTRO CANE
E RESTARE SEMPRE
CONNESSI CON LUI.
POTRETE CONTROLLARLO
IN TEMPO REALE
TRAMITE UN’APPLICAZIONE
SU SMARTPHONE. GIÀ DISPONIBILE
NEGLI STATI UNITI, COSTA 99 DOLLARI
svolge durante il giorno. «La tecnologia può avere un ruolo davvero fondamentale nell’aiutarci
a riconoscere i bisogni dei nostri amici a quattro
zampe e a soddisfarli», spiega. Dopo un passato
in Ferrari e su piattaforme petrolifere in Medio
Oriente, Davide Rossi è volato a New York dove
ha fondato la sua startup. Fitbark, che dovrebbe arrivare nei negozi nei primi mesi del 2015,
comunica i dati raccolti a un’applicazione per
smartphone. Potremo condividere i risultati
con il nostro veterinario e confrontarli con i dati
reali di altri cani come il nostro. «In questo modo si ottiene un riferimento reale, concreto, per
sapere con più precisione se l’animale sta bene
o ha bisogno di fare più attività». Già oggi sul
mercato ci sono diverse soluzioni simili a FitBark. Tra le tante, citiamo Whistle e Voyce. Dei
due, Voyce sembra quello più evoluto: oltre a
misurare l’attività fisica e le calorie bruciate,
analizza anche battito cardiaco e frequenza respiratoria. Entrambi, come FitBark, permettono con un tocco del dito di inviare i dati al veterinario di fiducia, che così potrà avere un’idea
di come sta il vostro cucciolo anche da remoto.
Presto sullo schermo dello smartphone po-
tremo anche controllare cosa stanno facendo i
nostri animali mentre non ci siamo, oppure dargli da bere o mangiare. Il merito è di prodotti come Romeow, frutto dell’inventiva di un gruppo
di giovani imprenditori italiani. Presentato all’ultima Maker Faire di Roma, la fiera dei maker
e degli inventori, somiglia a una macchinetta
per il caffè. Solo che dai due beccucci non esce un
gustoso espresso, ma acqua e cibo per cani e gatti. Il design è estremamente curato, come ci si
aspetta da un prodotto made in Italy, con materiali di pregio. Romeow è dotato anche di una telecamera e di un microfono per comunicare con
l’animale dall’applicazione dedicata. Un ulteriore modo per assicurarsi che abbia mangiato
e stia bene. «Per lavoro devo partire molto spesso, con Romeow posso farlo senza pensieri e con
la sicurezza che il mio gatto avrà tutto quello di
cui ha bisogno», racconta Alessandro Affronto,
fondatore di Purple Network, la società che l’ha
creato. Dovrebbe arrivare in commercio nel corso del prossimo anno, ma sugli scaffali dei negozi troverà un’agguerrita concorrenza. PetNet Smart Feeder, in arrivo nei primi mesi del
2015, è un dispenser di cibo che si controlla via
iPet
Dall’apparecchio che ne traduce i versi
alle app per misurare come stanno:
così la tecnologia rivoluzionerà
la vita dei nostri amici a quattro zampe
Romeow
È UN DISPENSER
DI CIBO E ACQUA CHE
SI CONTROLLA
DA REMOTO
TRAMITE UN’APP
PER IPHONE. FRUTTO
DI UN’IDEA TUTTA ITALIANA
E, NON A CASO, IL DESIGN
È PARTICOLARMENTE FUNZIONALE
ED ELEGANTE. HA ANCHE
TELECAMERA E MICROFONO
PER INTERAGIRE CON L’ANIMALE
PetNet
UN DISPENSER DI CIBO PER GATTI
E CANI, CHE SI PROGRAMMA
VIA APP E PERMETTE DI TENERE
SOTTO CONTROLLO
L’ALIMENTAZIONE DEI NOSTRI
ANIMALI. ALL’ORA
E NELLE DOSI DA VOI SCELTE
VERRÀ EROGATA
LA QUANTITÀ OPPORTUNA
E VERRETE AVVERTITI
TRAMITE UN SMS
58 miliardi di dollari
È IL VALORE RECORD DEL MERCATO DEL CIBO E DEGLI ACCESSORI
PER ANIMALI DOMESTICI NEGLI STATI UNITI NEL 2014,
TRE MILIARDI IN PIÙ RISPETTO ALL’ANNO PRECEDENTE
la Repubblica
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8,5 miliardi di euro
smartphone e ha un’applicazione che consiglia
la dieta migliore a seconda delle esigenze del vostro animale o in base alle indicazioni del veterinario. Petzila, presentato all’ultimo Consumer Electronic Show di Las Vegas, invece, è una
scatola di plastica che consente di “premiare” a
distanza cani e gatti con biscottini da elargire
con un tocco sull’iPhone. Ha una videocamera per vedere in tempo reale cosa sta facendo il vostro cucciolo. La camera si
può usare anche per scattare foto e
fare piccoli video, da condividere
poi sull’applicazione ufficiale
che è strutturata come un
social network dedicato
agli amanti degli animali. Petcube, invece, è una telecamera
che si
con-
È QUANTO ABBIAMO SPESO NEL 2014
IN ITALIA, FRANCIA, INGHILTERRA,
GERMANIA E SPAGNA PER GLI ANIMALI
DOMESTICI. LA CIFRA È IN CRESCITA
DEL 2% RISPETTO ALL’ANNO PRECEDENTE
Voyce
UN SISTEMA CHE RACCOGLIE
DIVERSI DATI SULL’ATTIVITÀ
DEL VOSTRO CANE, LI CONDIVIDE
DIRETTAMENTE
CON IL VETERINARIO
E VI PERMETTE DI RICEVERE
ARTICOLI O INFORMAZIONI
DA ALTRI APPASSIONATI
COME IN UN SOCIAL NETWORK
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Sony Action Cam
8,7 miliardi di dollari
PER VEDERE IL MONDO
DAL PUNTO DI VISTA
DEL VOSTRO AMICO
A QUATTRO ZAMPE,
SONY HA CREATO
UN ACCESSORIO CHE PERMETTE
DI MONTARE SUL SUO DORSO
UNA PICCOLA TELECAMERA.
FACILISSIMO DA USARE
ANCHE PER I PIÙ INESPERTI
È QUELLO CHE BC PARTNERS,
FONDO D’INVESTIMENTO PRIVATO EUROPEO,
HA PAGATO PER ACQUISTARE PETSMART,
LA CATENA DI NEGOZI AMERICANA
DEDICATA AGLI ANIMALI.
È LA VENDITA PIÙ IMPORTANTE DEL 2014
PER IL FINANCIAL TIMES
FitBark
CREATO
DA UN GIOVANE
ITALIANO, FITBARK È UNA PICCOLA
SCATOLINA A FORMA DI OSSO
CHE SI MONTA SUL COLLARE.
TRAMITE SENSORI, REGISTRA
L’ATTIVITÀ FISICA E ALTRI
PARAMETRI CHE POTETE VEDERE
SULLO SCHERMO DEL COMPUTER
O DELLO SMARTPHONE
PER AIUTARVI A PRENDERVI CURA
DEL VOSTRO CUCCIOLO
PetCube
LA CIFRA SPESA DAGLI AMERICANI NEL 1994
PER ACCUDIRE I LORO ANIMALI. DA ALLORA È STATA UNA CRESCITA
COSTANTE, SENZA MAI UN ANNO IN NEGATIVO
ANNALISA VARLOTTA
NOSTALGIA
DEL VOSTRO
PICCOLO AMICO
O TIMORE CHE POSSA
COMBINARE QUALCHE GUAIO IN CASA?
PETCUBE È UNA TELECAMERA
PER CONTROLLARE DA REMOTO COSA
STANNO FACENDO I VOSTRI ANIMALI
QUANDO SIETE VIA. HA ANCHE
UN PUNTATORE
LASER PER GIOCARE
CON LORO DA LONTANO
28,5 miliardi di dollari
nette alla rete wifi di casa e permette di tenere
sotto controllo i propri cuccioli quando siete fuori: c’è anche un puntatore laser per giocare con
loro a distanza. Per le gite al parco ci sono animali radiocomandati per far correre il vostro cane, e se avete paura di perderlo non c’è da preoccuparsi: ci sono tantissimi collari con sensore
Gps integrato per sapere sempre dove si trova.
Tra i tanti citiamo Dog Tracker: costa circa 250
euro, tanti per un collare, ma consente di verificare costantemente la posizione del vostro cane, indicando anche i confini di casa. Così, se per
caso Fido dovesse uscire senza permesso, verrete subito avvertiti dalla app.
Per le passeggiate, invece, c’è chi sta sperimentando l’uso di droni come dog-sitter. Si programma il percorso e il drone porta a spasso il
cane. Un po’ eccessivo, ma sembra non esserci
un limite a questa rivoluzione tecnologica. O
forse sì, come conclude Davide Rossi: «La tecnologia fine a se stessa non serve a nulla. Un’idea funziona se aiuta a essere persone migliori.
Non si tratta di aiutare gli animali, ma di insegnare ai padroni a essere più attenti».
la Repubblica
LA DOMENICA
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Sapori. Al cucchiaio
CON L’ARRIVO
DEL FREDDO
LA ZUPPA METTE
D’ACCORDO TUTTI:
UOMINI E DONNE,
DALL’ITALIA
AL GIAPPONE
ED È PROPRIO
L’ORIENTE
A CREARE
UN MILLENARIO,
PERFETTO
CONNUBIO
TRA NUTRIZIONE
E FARMACOPEA
Il libro
L’autrice inglese Jane Price
ha scritto per l’editore
Guido Tommasi
“Pane e Zuppa”,
goloso giro del mondo
gastronomico in bilico
tra minestre squisite
e i buoni pani — ma anche
crostini, crackers —
con cui accompagnarle
Le zuppe degli altri.
Dal borscht alle sopas
senza dimenticare il gumbo
Il granchio
Firma i menù dei locali
del Fishermans Wharf
– la storica marina
di San Francisco – la zuppa
di granchio (crab chowder),
declinata al maschile (classica)
e al femminile
(she-crab chowder),
con le uova aranciate
a regalare colore e fragranza
LICIA GRANELLO
D
All’orientale
La tradizione
Nella cucina
tradizionale cinese,
gran parte delle zuppe
servite in piccole ciotole
con appositi cucchiai
di ceramica, arriva a fine menù,
con la funzione specifica
di pulire lo stomaco
e rendere il pasto appena
assunto più digeribile
ICONO CHE GLI UOMINI italiani preferiscono la pasta. E se proprio
bisogna usare il cucchiaio, almeno che sia per tortellini e zuppe di pesce. Le donne, invece, sono di natura “minestrone”,
vuoi perché eternamente a dieta, vuoi per il piacere tutto
femminile di coccolarsi la scodella, tenendola tra le mani. L’unica eccezione temporale coincide con le feste di fine anno,
quando temperature gelide e sovraccarico calorico mettono
in pari i desideri alimentari di maschi e femmine, dando spazio a brodi e vellutate. La questione non si limita all’identità
di genere. Tendenzialmente l’uomo occidentale privilegia
piatti forti, forse come una conferma di virilità, che si parli di
carne (rossa) o tagliatelle, lasciando alle donne il primato di
dolci, verdure e cereali. Ma il resto del mondo non la pensa così. Dalla Russia alla Polinesia, le zuppe campeggiano a pieno titolo nella top ten di gradimento, senza distinzione di
sesso, età, status sociale, convinzioni etiche o religiose. Perché a differenze delle paste
asciutte – tutte comunque connotate da
un’indiscutibile concretezza nel piatto –
Le variabili risultano infinite anche all’inpossono essere declinate secondo l’intero terno della stessa tradizione culinaria, dove
pentagramma del gusto.
l’elenco delle ricette misura la ricchezza delCosì, la distinzione verticale maschi-fem- la biodiversità alimentare. Se gli orti del Memine si frantuma in miriadi di piatti, figli di diterraneo mandano in passerella il trionfo
culture enormemente lontane tra loro, ep- delle verdure, spese da sole o sposate con le
pure devote al culto della minestra, dal soa- proteine animali - come nella gloriosa mineve nonnulla della zuppa di miso giapponese stra maritata napoletana – il continente
– che introduce i pasti come una piccola pre- americano si divide tra le sopas del sud (il soghiera gastronomica - alla tenacia carnivo- lo Perù conta oltre duemila ricette di zuppe)
ra del borscht (che perde la “t”, passando il e le chowder del nord, con crostacei e molluconfine tra Ucraina e Russia).
schi in prima fila (ma insaporite col bacon).
Sopra, versione
tailandese
della zuppa di pollo
Nella foto grande
zuppa di pollo
con spaghetti cinesi
e, a destra, zuppa
di gamberetti
A proposito di minestre maritate, guai a dimenticare il gumbo della Louisiana, splendido esempio di cucina cajun che mette insieme carne, riso, verdure e frutti di mare, il
tutto abbondantemente speziato.
Gli Stati Uniti sono anche la patria delle
zuppe industriali, così annidate nel tessuto
sociale del paese da diventare oggetto delle
rielaborazione grafiche di Andy Wharol. L’inossidabile presenza delle lattine di Campbell’s in tutti i supermercati di ogni ordine e
grado dall’Alaska alla Florida ben testimonia il rapporto strettissimo tra la necessità
alimentare e la sua fruizione rapida, tipico
della quotidianità alimentare americana.
Ma è la cucina orientale a regalare alle
zuppe una valenza straordinaria, connubio
millenario di nutrizione e farmacopea. Assimilando il concetto di yin e yang - buio e luce,
caldo e freddo, femminile e maschile – all’alimentazione quotidiana, minestre e affini
vengono trasformati in simboli virtuosi di
nutriceutica. Un brodo arricchito con zenzero, ginseng e datteri – alimenti yang – cura
il troppo yin del raffreddore, mentre la minestra di spinaci – fortemente yin – raffredda i bollori della febbre. In caso di guarigione rapida, mettete la ricetta nell’armadietto delle medicine di fianco all’Aspirina.
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la Repubblica
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Quelle ciotole
infuocate
tanto amate
anche da Mao
piatti bollenti
GI A MP A OL O V I SE TTI
PECHINO
N CINA, COME NEL RESTO dell’Asia, la
La ricetta
Zoni, il piatto tradizionale giapponese
per purificarsi con l’anno nuovo
INGREDIENTI PER 4 PERSONE
4 PEZZI DI MOCHI (POLPETTINE DI AMIDO DI RISO)
100 GR DI TARO (TUBERO) IN 4 PEZZI / 100 GR DI FUNGHI SHITAKE IN 4 PEZZI
35 GR DI TOFU FRITTO IN 4 PEZZI / 20 GR DI TACCOLE BABY IN 4 PEZZI
100 GR DI KONNYAKU (GELATINA) IN 4 FETTE / 200 GR DI POLLO IN 4 PEZZI
CAROTE E DAIKON PER DECORAZIONE
1 PEZZO DI ALGA KOMBU ( 5 CM X 10 CM)
1 MANCIATA DI KATSUOBUSHI (TONNETTO ESSICCATO GRATTUGIATO)
800 ML DI ACQUA
uesto piatto, nato intorno al XIV secolo, viene cucinato nel periodo di Capodanno, per
purificare il corpo, preparandolo all’anno
nuovo. Come primo passo della ricetta, occorre bollire l’acqua con il kombu, aggiungere il katsuobushi lasciandolo in infusione per un minuto e
filtrare. Arricchire il brodo così ottenuto (dashi)
con un cucchiaio di soia Usukuchi, uno di mirin
e uno di sake, aggiustando di sale. Aggiungere in sequenza taro, funghi Shitake, tofu,
konnyaku, carote, daikon, taccole, pollo senza pelle e i mochi, lasciando sobbollire per
15‘ circa, prima di versare la zuppa nelle ciotole.
Q
Clam Chowder
Borscht
NEW ENGLAND, USA
Cipolla e sedano nel burro,
poi farina, brodo vegetale,
l’acqua delle vongole, panna,
alloro e patate a rondelle.
Infine, dentro le vongole
UCRAINA
Salsiccia rosolata e bollita
con barbabietole grattugiate.
Poi, carote, patate, cavolo
e salsa di pomodoro. Si offre
con panna acida a parte
THE PERFECT BUN
LARGO DEL TEATRO VALLE 4
ROMA
TEL. 06-45476337
BAIKAL CAFÈ
VIA AUSONIO 23
MILANO
TEL. 333-2434799
Ärtsoppa
Harira
SVEZIA
Piselli gialli secchi lessati.
Poi, carne di maiale, cipolla,
timo e zenzero. A fine cottura
senape e porri. Carne servita
con la zuppa o a parte
MAROCCO
Cuocere cipolle e agnello,
poi ceci, lenticchie, curcuma,
zenzero, prezzemolo,
coriandolo. Infine, farina
con acqua e salsa di pomodoro
BJÖRK
LOCALITÀ TORRENT DE MAILLOD 3
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SEFNAJ
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TORINO
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Canja
Cullen Skink
BRASILE
Pollo bollito con cipolla, poi
sfilettato. Brodo sgrassato
e filtrato, prima di aggiungere
carote e patate, infine il riso.
In ultimo, prezzemolo tritato
SCOZIA
Haddock affumicato (simile
al merluzzo), bollito
con alloro, porro, cipolla
rosolati, poi patate e latte.
Si serve con cipollino tritato
FLORIPA
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SARZANA (SP)
TEL. 0187-029578
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VIA DEL PLEBISCITO 101/B
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TEL. 06-69202208
Bouillabaisse
Pho
FRANCIA
Fumetto con cipolla, porro,
aglio, timo, olio e zafferano.
Dentro, pesci e crostacei.
Colato il brodo, si serve
con crostini e salsa rouille
VIETNAM
Brodo a base di ossi
di manzo o pollo, profumato
grazie a zenzero, cannella
e anice stellato, servito con
spaghetti di riso (noodles)
LA CABANE
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TORINO
TEL. 011-0378308
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TRAPIANTATO
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IL MAESTRO HARUO
ICHIKAWA GUIDA
CON LORENZO
LAVEZZARI
LE CUCINE
DEL RISTORANTE
IYO, FRESCO
DI STELLA MICHELIN.
SUA LA ZUPPA
IDEATA
PER I LETTORI
DI REPUBBLICA
I
zuppa resta il pasto quotidiano del
popolo. È un piatto unico e la
bollitura di acqua e ingredienti
garantisce la distruzione di germi e
veleni. Cinesi, indiani e giapponesi da
millenni si nutrono di zuppe lungo tutto
il giorno, dalla prima colazione all’ultimo
pasto del tardo pomeriggio. La
frequenza del consumo di queste
pietanze semplici è tale che ogni
villaggio e ogni regione hanno creato
migliaia di ricette, inscindibilmente
legate al territorio. A differenza della
Russia, dove la Solyanka a base di carne e
il Borsch a base di barbabietola rossa
dominano sempre uguali tra San
Pietroburgo e Vladivostok, le zuppe
asiatiche rivelano le sostanziali diversità
di ogni luogo e l’ossessione collettiva per
il cibo, superiore al culto di italiani e
francesi. Le minestre, più di ogni altro
piatto, esprimono l’anima contadina o
pescatora della gente, educata a buttare
in pentola ciò che la campagna o il mare
offrono nelle diverse stagioni. Cucina
economica, tutta di sostanza, ma affatto
estranea alla raffinatezza dei palati più
esigenti. Il luogo comune associa
erroneamente la Cina al riso, più diffuso
nel Sudest asiatico. A Pechino e nelle
regioni del Nord, il pasto-simbolo è la
ciotola di zuppa, quasi sempre arricchita
con i tagliolini tirati a mano. La pasta si
mangia con i bastoncini, succhiandola
assieme agli altri ingredienti solidi. Più il
risucchio è rumoroso, più i commensali
dimostrano di gradire la ricetta. Il liquido
si consuma alla fine, bevuto dalla tazza
come fosse un tè bollente, o dosato con
cucchiai curvi in porcellana. Nella
capitale le dinastie imperiali hanno
imposto ricche zuppe con carne di
maiale e brodo di pollo, verdure e tofu,
cavolo, germogli di bambù e zenzero.
Lungo le regioni costiere, a Shanghai e a
Guangzhou, i chioschi di strada non
cessano di fumare a causa di pentoloni in
cui bollono gamberetti, pesci e granchi,
sempre abbinati a cipolle e aglio. Nelle
occasioni speciali un vero culto, oggi
contestato dagli amanti degli animali, è
riservato alla pinna di squalo, al cetriolo
di mare e alla tartaruga, considerati
rimedi prodigiosi dalla medicina
tradizionale. Nelle terre più povere
dell’interno e del Sud, a partire dal
Sichuan, dominano invece le infuocate
zuppe di pollo, con peperoncino, funghi
secchi, legumi e mais, spesso agrodolci
con l’aggiunta di salsa di soia e cren
verde. In Asia la cucina è sempre, prima
di tutto, una farmacia che punta a
sfamare, ma pure a curare.
Le zuppe sono il farmaco per
antonomasia e il piccante è
proporzionale alla necessità di
proteggere circolazione e intestino.
Poche minestre al mondo sono complete
come quella preferita anche da Mao
Zedong, con pomodoro, maiale, soia,
peperoncino e vermicelli: brucia da
piangere, ma una tazza basta fino al
giorno dopo.
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 4 GENNAIO 2015
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L’incontro. Combattenti
LA MIA PROSSIMA
OPERA SI CHIAMERÀ
SONO ORMAI
PERDUTO
AL MONDO,
COME UN FAMOSO
LIEDER DI MAHLER
STAVOLTA
PARLERÒ DI ME,
DELLA MIA FAMIGLIA:
PER UN PO’ DI TEMPO
BASTA
CON LE DONNE
CHE HANNO FATTO
LA STORIA
Figlia di un pittore, nata a Berlino, ha vissuto in Francia e a lungo
anche in Italia. Ha iniziato come attrice ma presto è diventata
una regista dura e coraggiosa. “Ingmar Bergman mi disse che voleva smettere di girare, ma vedendo il mio Anni di piombo aveva
ritrovato la spinta per continuare”. Conserva ancora un legame
forte con il nostro paese, anche se i suoi ultimi lavori hanno avuto
maggior fortuna altrove: “La
lo ascoltavo e pensavo lo dicesse per lusingarmi. Considero Bergman il mio
da sempre, immenso, inarrivabile. Due anni più tardi, gli chiesero
per il festival di Göteborg quali fossero i suoi dieci film preferiti. Tra Fellini e
forza economica della Germa- maestro,
Kurosawa mise, di nuovo, Anni di piombo». Protagonista del film era Barbara Sukowa (scopro che si pronuncia Sùkowa) e non si può parlare del cinema
von Trotta senza parlare di questa attrice, che è parte di lei. «Abbiamo
nia non suscita simpatia, ma della
appena finito di girare il nostro settimo film insieme. Del resto anche Bergman lavorava sempre con gli stessi attori, Fellini aveva Mastroianni. Sono dedelle proiezioni. Eppure tra me e Barbara non è stato facile all’iforse non sono i tedeschi a esse- glinizio.alterInego,
Anni di piombo lei si comportava in modo scostante. Era violenta,
rabbiosa. Soltanto dopo ho capito che faceva così per via del suo personaggio.
diventata una specie di terrorista, era diventata Gudrun Ensslin. Infatti
re meno incisivi in campo cultu- Era
quando abbiamo girato Rosa L. si è trasformata nella Luxemburg. Barbara
Sukowa è una delle attrice più intelligenti che conosca. Non avrei potuto faArendt con nessun’altra. Quando si prepara, legge tutto quello
rale: sono gli altri che hanno recheHannah
ho letto io, e anche di più. In Rosa L. c’è un discorso contro la guerra, che
io avevo trovato negli scritti politici della Luxemburg e l’avevo messo nella
sceneggiatura. Barbara è venuta e mi ha detto: “Ne ho trovato un altro, semeno voglia di ascoltarci”
condo me è più bello”. Ed era vero, così abbiamo usato quello che aveva tro-
Margarethe
von Trotta
EL ENA ST AN C ANE LLI
FIRENZE
M
ARGARETHE VON TROTTA HA UN LEGAME forte col nostro paese, par-
la italiano molto bene, ha vissuto qui a lungo. «Ero a Roma anche il giorno della caduta del Muro, tanto per dire». È una donna bella e minuta. L’ho incontrata a Firenze, al Festival internazionale di cinema delle donne. In quell’occasione si è visto il
suo ultimo film, Hannah Arendt, quasi inedito in Italia. «Una strana scelta della distribuzione», mi spiega. «È uscito soltanto per un giorno, il Giorno della
memoria, l’anno scorso. Meglio così», ride, «ci hanno creduto così poco che
per fortuna neanche l’hanno doppiato... almeno quello!». Ha ragione, sarebbe stata una barbarie. Barbara Sukowa, che interpreta la filosofa con superba intelligenza, parla in un americano molto sporcato dal tedesco. Così come
la cerchia degli intellettuali suoi amici passa dall’una all’altra lingua, a seconda dell’intensità della conversazione. Hannah Arendt ha avuto successo
ovunque, dal Festival di Toronto, dove è stato presentato, a tutti i paesi in cui
è stato distribuito. Tranne che da noi, appunto.
Figlia di un pittore, Alfred Roloff, la von Trotta è nata a Berlino durante la
guerra, settantadue anni fa, e dopo aver studiato arte, germanistica e lingue
romanze, si è trasferita a Parigi negli anni Sessanta. Ha iniziato a lavorare
nel cinema come attrice, per Fassbinder e per Volker Schlöndorff, che poi
sposerà. E insieme al quale dirigerà il suo primo film, Il caso Katharina Blum,
tratto da un romanzo di Heinrich Böll. Nel 1981, quando esce Anni di piombo — il suo film che racconta la storia delle due sorelle, Christiane e
Gudrun Ensslin, la terrorista morta nel 1977 nel
carcere di Stammheim insieme agli altri componenti della banda Baader-Meinhof — diventa una regista di culto. «Ero in giuria a un fe-
OGNI AUTORE HA UN SUO ALTER EGO E LA MIA
È BARBARA SUKOWA. LEI DIVENTA LA PERSONA
CHE INTERPRETA: QUANDO FECE LA TERRORISTA
ENSSLIN ERA VIOLENTA CON TUTTI. SI PREPARA
A FONDO E ALLA FINE NE SA ANCHE PIÙ DI ME
stival», racconta. «Il presidente era Ingmar
Bergman. Lui mi aveva voluto, insieme a
Jeanne Moreau e Suso Cecchi d’Amico. Mi prese
da parte e mi disse che qualche tempo prima aveva
pensato di lasciare il cinema. Era stanco, demotivato, non gli piaceva più niente. Poi aveva visto Anni di piombo. Non solo lo aveva amato moltissimo, ma gli aveva dato il coraggio di continuare, l’entusiasmo per riprendere a lavorare. Quasi non ci credevo,
vato lei. Quando hanno proiettato il film in Israele, durante questo discorso
sulla pace la gente in sala ha iniziato ad applaudire. È stato incredibile: parole scritte contro la Prima guerra mondiale sembrava parlassero della loro situazione, di questi anni». E infatti la Sukowa per quell’interpretazione ha vinto la Palma d’oro a Cannes nell’86.
Sono gli anni in cui la von Trotta vive nel nostro paese, anni di grandi accadimenti storici che non possono non influenzare la sua opera. Nel 1988 esce
un film fascinoso girato a Pavia, Paura e amore. Scritto con Dacia Maraini, interpretato da Fanny Ardant, Greta Scacchi e Valeria Golino, tre cechoviane,
malinconiche sorelle. «Lo aveva prodotto Angelo Rizzoli il quale era reduce
dalle sue faccende giudiziarie. È stato il primo film che ha prodotto quando è
uscito dal carcere. Mi chiesi perché in quella situazione volesse fare un film
con una tedesca. Forse per tenersi un po’ in disparte, laterale rispetto alla
realtà italiana. Non a caso il suo secondo film l’avrebbe poi fatto con Michalkov. Adesso penso che Rizzoli, in quegli anni, avesse paura dell’Italia, degli italiani. Avremmo dovuto fare un altro film insieme, ma lui ha avuto di nuovo problemi con la giustizia. Era il 1992, e l’Italia era sotto assedio. Dopo gli attentati in cui morirono Falcone e Borsellino, io e il mio compagno di allora (il
produttore Felice Laudadio) ci chiedemmo cosa fare, come esprimere la nostra rabbia. Eravamo cineasti, e dunque avremmo fatto un film. Facemmo Il
lungo silenzio, lavorando tutti gratis. Il film non è mai uscito. Era la storia di
un magistrato ucciso dalla mafia e facemmo un’anteprima a Palermo. In un
cinema, il Lux, che era già stato bruciato due volte dai mafiosi. Tra il pubblico
c’era la vedova del giudice Terranova che mi aveva dato il suo testamento, perché lo usassi nel film. E la moglie di Bonsignore, un funzionario della Regione
anche lui ucciso dalla mafia. Lei si è alzata in piedi e ha detto “mio marito non
era giudice, era solo un impiegato normale ma è stato assassinato anche lui”.
Poi si è guardata intorno e ha aggiunto “e tutti voi sapete chi l’ha ammazza-
DOPO GLI ATTENTATI A FALCONE
E BORSELLINO ESPRESSI LA MIA RABBIA
CON IL LUNGO SILENZIO LAVORANDO GRATIS
ALL’ANTEPRIMA DI PALERMO LE REAZIONI
SPAVENTARONO TUTTI E IL FILM SPARÌ
to”. La gente si è spaventata, così i gestori, i distributori. E il film è sparito. Il
lungo silenzio è stato il mio ultimo progetto italiano. Sono tornata in Germania, e ho fatto un film sul Muro: La promessa. L’ho scritto insieme a Felice Laudadio e al mio amico Peter Schneider». Anche la mattina in cui cadde il Muro,
Margarethe von Trotta era in Italia, a Roma nella sua casa di via del Pellegrino. «Qualche settimana prima avevo parlato con la mia cara amica Christa
Wolf, la scrittrice scomparsa alcuni anni fa. Ci vedevamo ogni tanto, e parlavamo del nostro paese, del futuro, delle nostre speranze. Cinquant’anni, mi disse lei, non ci vorranno meno di cinquant’anni prima che il Muro possa essere abbattuto. Quella notte tra l’8 e il 9 novembre del 1989, mi addormentai ignara di tutto. La mattina comprai il giornale e quasi svenni. Poi sono scoppiata piangere». Si commuove ancora mentre racconta, le trema la voce. «Singhiozzavo,
e la gente mi guardava, chiedevano se avessi bisogno di aiuto, forse pensavano che avessi delle terribili pene d’amore».
Le chiedo del suo ultimo film, appena finito di montare, protagonista sempre Barbara Sukowa. È una biografia? «No,
per un po’ basta con donne che hanno fatto la storia. Stavolta parlo di me, della mia famiglia. Si intitolerà Ich bin
der Welt abhanden gekommen (Sono ormai perduto al mondo), come un famoso lieder di Mahler.
Musicalmente fratello dell’adagetto della
quinta Sinfonia, quello usato da Visconti in
Morte a Venezia». Ancora un riferimento, l’ennesimo, all’Italia. Non le sembra che, in corrispondenza dell’esplosione economica, la Germania abbia perso un po’ della sua potenza culturale? Come se lo spiega? «Mi sa che esser forti economicamente non susciti gran simpatia.
Ma forse non siamo noi a essere meno incisivi,
sono gli altri ad aver meno voglia di ascoltarci».
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Cinquant`anni fa Roald Dahl apriva la “fabbrica di