la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 4 GENNAIO 2015 NUMERO 513 Cult La copertina. Noi, abituati a guardare l’orrore Straparlando. Enzo Bettiza, l’identità della parola Mondovisioni. L’Holiday Inn di Beirut ROA L D DA HL RESTANTI OTTO BAMBINI furono di nuovo accompagnati nel lungo corridoio bianco insieme ai loro genitori. «Mi chiedo come staranno adesso Augustus Pottle e Miranda Grope» disse Charlie Bucket a sua madre. «Suppongo si siano dati una calmata», rispose la signora Bucket. «Vieni, prendi la mia mano tesoro. Così: stringila forte e non lasciarla. E non fare sciocchezze in questa stanza, capito? Altrimenti anche tu potresti essere risucchiato in uno di quei tubi spaventosi, o fare una fine addirittura peggiore. Chissà?». Il piccolo Charlie strinse la mano della signora Bucket mentre insieme percorrevano il lungo corridoio. Presto giunsero a una porta sulla quale era scritto: STANZA DEL CARAMELLO ALLA VANIGLIA. «Hey, è qui che era andato Augustus Pottle, no?», disse Charlie Bucket. «No», rispose Willy Wonka. «Augustus Pottle è in Caramello al cioccolato. Questa è Vaniglia. Entrate tutti a dare un’occhiata». Si trovarono così in un’altra stanza cavernosa, e anche questa volta ai loro occhi apparve qualcosa di veramente magnifico. I SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE con una testimonianza di LUKE KELLY Cinquant’anni fa Roald Dahl apriva la “fabbrica di cioccolato” più famosa Oggi il nipote dello scrittore ha ritrovato un capitolo inedito che qui pubblichiamo Con un commento del regista che lo ha (ri)portato sullo schermo TI M BURTON A VANIGLIA È MOLTO DIVERSA dal cioccolato, co- ILLUSTRAZIONE © QUENTIN BLAKE L me ben sapeva Roald Dahl che ne era goloso. Ma il capitolo alla vaniglia rimasto fuori della Fabbrica di cioccolato sa anch’esso di cioccolato. Voglio dire che la sua costruzione non è molto diversa da quella degli altri episodi : improvviso paradiso del gusto, dove un paio di ragazzini viziati e saccenti trovano piacere e contrappasso. Avessi potuto leccare quel capitolo, ci avrei riflettuto. Ma credo che la Warner mi avrebbe tagliato lingua e fondi dopo aver fatto già colare centoventimila litri di vero cioccolato nella scena del fiume e della cascata “fondenti” : le riprese erano durate alcuni giorni, alla fine non ne potevamo più, l’odore del cioccolato era divenuto insopportabile. Non è stata che una goccia nelle riprese gigantesche che hanno occupato tutti e sette i set degli Studi di Pinewood, dove avevamo fatto “crescere” erba di zucchero, lasciandola sgranocchiare ai ragazzini tra un ciak e l’altro. Non conosco l’effetto-vaniglia. Ma deduco che, se troppo cioccolato ci asfissia, gli zuccheri siano dolci trappole. Come insegna Hansel e Gretel. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE La stanza segreta di Willy Wonka L’attualità. Che cos’è il grafene e come cambierà il mondo, secondo il suo scopritore, Andre Geim Spettacoli. La scuola per giovani direttori d’orchestra di Riccardo Muti Sapori. Zuppe bollenti per freddi inverni L’incontro. Margarethe von Trotta la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 4 GENNAIO 2015 26 La copertina. La stanza segreta di Willy Wonka Golosissimo di dolciumi, Roald Dahl anticipò i tempi con il suo romanzo per bambini (celebre grazie anche ai due film che ha ispirato) al quale però furono tagliate alcune pagine.Le abbiamo recuperate. Eccone un assaggio <SEGUE DALLA COPERTINA R O AL D D A H L LE IMMAGINI A ILLUSTRAZIONE © QUENTIN BLAKE LE ILLUSTRAZIONI IN QUESTE PAGINE E IN COPERTINA SONO STATE DISEGNATE DA QUENTIN BLAKE APPOSITAMENTE PER IL CAPITOLO INEDITO “THE VANILLA FUDGE ROOM”. PER ULTERIORI INFORMAZIONI SULLA STORIA DI QUESTO CAPITOLO: WWW.ROALDDAHL.COM. “LA FABBRICA DI CIOCCOLATO” È PUBBLICATO IN ITALIA DA SALANI (208 PAGINE, 12,90 EURO) CHE PER I CINQUANT’ANNI DEL ROMANZO HA REALIZZATO UN’EDIZIONE SPECIALE si trovava infatti una vera e propria montagna. Una colossale montagna dalla superficie frastagliata, alta quanto un edificio di cinque piani e interamente formata da caramello alla vaniglia, cremoso e di color marroncino. Lungo il pendio della montagna e sino alla sommità centinaia di uomini armati di picconi e trapani erano intenti a staccare grossi pezzi di caramello; alcuni, quelli che si trovavano più in alto, su picchi pericolosi, erano uniti tra loro da una fune di sicurezza. Una volta staccati, gli enormi pezzi di caramello precipitavano a terra rimbalzando sui fianchi della montagna; raggiunto il pavimento venivano raccolti da gru su cui erano montate delle ruspe che li depositavano dentro a dei carrelli. Questi (simili a carrelli ferroviari, ma più piccoli) formavano una fila infinita e in continuo movimento che trasportava il materiale sino all’estremità opposta della stanza e attraverso un buco nel muro. «È tutto caramello!» esclamò trionfalmente Willy Wonka. «Possiamo arrampicarci sino in cima?» urlarono i bambini saltando su e giù. «Sì, a patto che facciate attenzione», rispose Willy Wonka. «Salite lungo quel versante laggiù, dove non sta lavorando nessuno, per evitare che i pezzi di caramello vi cadano in testa». I bambini si divertirono un mondo ad arrampicarsi su e giù lungo il fianco della montagna, e nel salire e scendere raccoglievano pezzi di caramello, rimpinzandosene. L CENTRO DELLA STANZA «Adesso devo fare un giro su uno di quei carrelli», disse un bambino piuttosto arrogante di nome Wilbur Rice. «Anch’io!» gli fece eco un altro, chiamato Tommy Troutbeck. «No, per favore non lo fate», disse Willy Wonka. «Quegli aggeggi sono pericolosi. Vi potrebbero investire». «Wilbur, tesoro, guai a te!» disse la signora Rice (madre di Wilbur). «Non farlo nemmeno tu, Tommy» disse la signora Troutbeck (madre di Tommy). «Quest’uomo dice che è pericoloso». «Col cavolo!» esclamò Tommy Troutbeck. «Col cavolo!». «Wonka, vecchio pazzo!» urlò Wilbur Rice. I due ragazzi si diressero di corsa verso uno dei carrelli che sfrecciavano, e ci salirono sopra arrampicandosi per sedersi proprio in cima al carico di caramello. «Ciao a tutti!» urlò Wilbur Rice. «Prima fermata Chicago!» urlò Tommy Troutbeck agitando le braccia. «Su questo si sbaglia», disse Willy Wonka con un filo di voce. «Escludo che la prima fermata sia Chicago». «È un vero maschiaccio il nostro Wilbur», disse il signor Rice (padre di Wilbur) con orgoglio. «Ne combina sempre una delle sue». «Wilbur!» urlò la signora Rice quando il carrello attraversò la stanza come un fulmine. «Scendi immediatamente da lì! Mi senti?». «Anche tu Tommy!» urlò la signora Troutbeck. «Andiamo, scendi! Chissà dove ti porterà quel coso!». «Wilbur!» urlò la signora Rice. «Scendi da quel… quel… santo cielo! È sparito dentro un buco nel muro!». «Non ditemi che non li avevo avvisati», dichiarò Willy Wonka. «Sbaglio o i vostri figli non sono particolarmente obbedienti?». «Ma dove è finito?» gridarono contemporaneamente le due madri. «Cosa c’è dall’altra parte di quel buco?». «Quel buco», rispose Willy Wonka «conduce direttamente a quel- Ritorno alla fabbrica di cioccolato la Repubblica 27 DOMENICA 4 GENNAIO 2015 Come sono riuscito a salvare un classico la che noi chiamiamo “Sala pestaggio e taglio”. È lì che il caramello ancora fresco viene rovesciato direttamente dai carrelli nella bocca di un’enorme macchina che lo sbatte contro il pavimento sino a farlo diventare bello liscio e sottile. Dopo di che, grazie all’intervento di una quantità di coltelli — chop, chop, chop — se ne ricavano quadratini di forma regolare pronti per essere venduti nei negozi». «Come si permette!», urlò la signora Rice. «Mi rifiuto di consentire che il nostro Wilbur sia ridotto a piccoli quadratini di forma regolare». «Lo stesso vale per Tommy!», gridò la signora Troutbeck. «Nessuno dei miei ragazzi sarà mai esposto nella vetrina di un negozio sotto forma di caramello alla vaniglia! Abbiamo già speso troppo per la sua istruzione!». «Proprio così», disse il signor Troutbeck. «Non abbiamo portato qui Tommy perché finisse nella bocca della sua ripugnante macchina del caramello! Lo abbiamo portato qui perché fosse il suo caramello a finire nella bocca di Tommy! Lei ha capito tutto il contrario, non crede signor Wonka?». «Direi proprio di sì!», disse la signora Troutbeck. «Calma, calma», mormorò Willy Wonka con tono rassicurante. «Calma, calma, calma. Placatevi tutti per favore. Se i quattro genitori interessati volessero gentilmente seguire il mio assistente, verranno condotti direttamente nella stanza dove i loro ragazzi stanno aspettando. Sapete, lì dentro abbiamo un enorme setaccio di metallo che serve proprio ad afferrare i bambini prima che finiscano nella macchina. Li prende sempre. Almeno sino a oggi li ha sempre presi». «Speriamo», disse la signora Troutbeck. «Lo spero anch’io», disse la signora Rice. Dall’alto della montagna uno degli operai intonò a gran voce: «Otto bambini - dei pargoletti deliziosi. Ma due di loro hanno detto “col cavolo”, e ne sono rimasti solo sei». (Traduzione di Marzia Porta) The Vanilla Fudge Room è un capitolo inedito di Charlie and the Chocolate Factory di Roald Dahl © Roald Dahl Nominee Limited Mio nonno e il capitolo nel cassetto LU K E K E LLY ONO PASSATI CINQUANT’ANNI dalla prima pubblicazione di Charlie e la fabbrica di cioccolato, scritto da mio nonno. Un romanzo che per molti aspetti i lettori di tutto il mondo considerano l’opera più rappresentativa di Roald Dahl. Il libro è stato tradotto in cinquantacinque lingue e ha ispirato due film, un’opera classica e più recentemente un musical del West End. La storia di Charlie, di Willy Wonka e dei cinque biglietti d’oro sembra essere stata tramandata da una generazione all’altra di lettori con entusiasmo e trepidazione. Una simile, festosa occasione ispira inevitabilmente una domanda: a cosa è dovuto il fascino duraturo di questo libro? Forse all’emblematica attrattiva dei cinque biglietti d’oro – ormai entrati a far parte del linguaggio comune? Alle incisive personalità dei “fortunati” bambini che trovano i biglietti, descritte con l’intensità di un caffè corretto? Allo stesso Wonka, il cui nome è diventato sinonimo di creatività? O piuttosto al meraviglioso impiego che Roald fa della lingua? Al suo modo di attingere alle figure retoriche contenute nei tradizionali racconti per fanciulli, per riproporle con uno stile assolutamente moderno e diretto — in grado di parlare direttamente ai bambini, senza alcuna traccia di paternalismo e toni moraleggianti. O semplicemente al modo in cui Roald — che per tutta la vita amò la cioccolata, e da ragazzo fu addirittura degustatore di quella del marchio Cadbury — descrive le delizie dei dolciumi e della cioccolata (come dimenticare il Cioccocremolato delizia Wonka al triplosupergusto?). Se poi si pensa che Charlie fu pubblicato per la prima volta nel 1964, ci accorgiamo che è stato anche un romanzo che ha precorso i tempi — con i suoi moniti riguardo all’obesità infantile e agli effetti nocivi di un uso eccessivo della televisione; senza contare il suo messaggio, nel quale si afferma che una vita familiare intensa e piena di affetti è più importante delle ricchezze materiali. Eppure Charlie e la fabbrica di cioccolato rimane sopra ogni altra cosa un omaggio alla creatività — una dote che indubbiamente accomuna Willy Wonka a Roald. Il romanzo testimonia inoltre la grande passione per i dolciumi che animò mio nonno durante tutta la sua vita, e con questo capitolo inedito vogliamo offrire agli amanti del suo romanzo una prelibatezza, sotto forma di scene e personaggi mai incontrati prima. Mio nonno conservava le bozze dei suoi scritti in uno schedario di legno all’interno della semplice casetta piena di sogni nella quale scriveva. Quelle bozze, che oggi sono conservate nell’archivio del Roald Dahl Museum and Story Centre di Great Missenden, Bucks, in Inghilterra, ci permettono di ricostruire l’affascinante evoluzione di ognuno dei suoi racconti. Delle prime versioni di Charlie facevano parte anche diversi personaggi che non hanno trovato posto nella stesura definitiva del romanzo. Tra questi vi sono Tommy Troutbeck e Wilbur Rice, che incontrerete nella Stanza del Caramello alla vaniglia. Ritengo che scoprire una nuova scena e nuovi personaggi di una storia che tutti conosciamo e amiamo regali un’emozione da brivido. È dunque con grande piacere che vi invito a tornare nella sorprendente fabbrica di cioccolato di Willy Wonka. Spero che questo gustoso, inatteso bocconcino solletichi il vostro palato come ha fatto con il mio. S © RIPRODUZIONE RISERVATA IL FILM NELLA FOTO A DESTRA JOHNNY DEPP È WILLY WONKA NEL FILM DI TIM BURTON “LA FABBRICA DI CIOCCOLATO” (2005) (Traduzione di Marzia Porta) Luke Kelly è nipote di Roald Dahl e direttore generale del Roald Dahl Literary Estate © RIPRODUZIONE RISERVATA <SEGUE DALLA PRIMA PAGINA TI M BURTON LONDRA L E ACIDULE CATTIVERIE caramellate di Dahl mi incantavano già da bambino. La fabbrica di cioccolato è anzi il mio primo ricordo d’infanzia. Da quando, piccolissimo, ho letto il libro, ho cominciato a visualizzarlo come un film, senza neanche nutrire il sospetto o la speranza che un giorno l’avrei realizzato. Ai registi è riservato questo miracoloso potere di materializzare i sogni che abitano da sempre dentro di noi. Nel portare dieci anni fa sullo schermo le pagine di Dahl, sono rimasto fedele ai miei primi fantasmi, a tutto quel che aveva preso a animarsi in me dall’infanzia. Il fatto più fantastico è che quando abbiamo costruito la casetta del piccolo Charlie sono andato a visitare la reale dimora di Dahl, trovandola tale e quale la casa reinventata sul set. Con qualche affinità supplementare a dove abito io a Londra. Ogni autore, d’altra parte, fa assomigliare a se stesso quel che inventa. Dahl si rispecchia non solo nella casetta ma nell’intera fabbrica di cioccolato: è quella la sua casa, il suo mondo parallelo, la sua Disneyland. Si è detto spesso dei miei film che non sono che fantasmi, sradicati da qualsiasi realtà: ma la realtà, per me, è il fantasma. Non sono l’unico a esserne convinto: a darmi ragione esistono le fiabe, come Alice o La fabbrica di cioccolato, ma anche vite da fiaba - in cui sogno e realtà non si urtano ma si legano intimamente - come quelle di Ed Wood o dei protagonisti di Big Eyes, ora sugli schermi. A ciascuno la sua Disneyland, la sua fabbrica di cioccolato. “Willy Wonka, c'est moi?”. Probabilmente. Ma il fabbricante di cioccolato - e di sogni - è chiunque si applichi, in modo più o meno bizzarro e “irreale”, a trasformare i suoi sogni in realtà anziché aspettare tutta la vita chop chop chop - che la realtà cominci a assomigliare ai suoi sogni. L’Eden dei dolci di Dahl è una casa di correzione per gli impiegatini del conformismo, per gli scolaretti dell’esistenza. È una rosea, liberatoria discesa agli Inferi : Inferi gioiosi, come La sposa cadavere uscito lo stesso anno. Durante le riprese della Fabbrica di cioccolato, gli Studios volevano farmi cambiare dialoghi per loro troppo strambi. “Ma non sono io, è Roald Dalh che li ha scritti! Se volete cambiare tutto, perché farne un film?”. È questa la realtà di Hollywood, oggi. Vogliono tutti adattare i classici, da Carroll a Dahl, ma con sacro terrore : pronti a farli a fettine - chop chop chop -, eliminando diligentemente tutto quanto li ha fatti essere Carroll o Dahl. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 4 GENNAIO 2015 28 L’attualità. Fisico bestiale È il Nobel che ha scoperto (“rovistando per caso nella spazzatura”) questo rivoluzionario materiale L’abbiamo incontrato e la scoperta l’abbiamo fatta noi parlando di tutto tranne che di scienza. “L’umanità non è intelligente e non sopravviverà così com’è” ENRICO FRAN C ESC H I N I MANCHESTER E PARETI D’INGRESSO sono ricoperte da una di quelle lunghissime equazioni che si vedono talvolta sulle lavagne degli scienziati: numeri, lettere di vari alfabeti, parentesi tonde, quadre, graffe, radici quadrate. L’equazione è suddivisa in “forze”, “materia” e “Higgs”, immagino un riferimento al celebre bosone, sebbene non abbia la minima idea di cosa davvero sia. Entrare nella facoltà di Fisica della Manchester University, una delle migliori del mondo, dove hanno insegnato Alan Turing, decifratore del Codice Enigma, e l’astrofisico Brian Cox, metterebbe soggezione a chiunque. Se poi a entrare è uno che in fisica, al liceo, non ha mai capito nulla, la situazione assume toni tragicomici. Diventa un’impresa chiaramente disperata quando, salito al secondo piano del venerabile istituto, varcato il corridoio intitolato “gruppo della materia condensata”, bussato alla porta del professor Andre Geim, il malcapitato visitatore lo saluta in russo, sperando di guadagnare così benemerenze, visto che fino ai trentadue anni d’età il futuro premio Nobel e “padre” del grafene ha vissuto in quella che allora era chiamata Unione Sovietica, beccandosi invece una gelida, spazientita risposta: «Mi dica dunque lei in che lingua vogliamo condurre l’intervista, inglese, russo o italiano?». Fortunatamente, quello del Nobel venuto dal freddo non è gelo: è humour, un umorismo russo-ebraico-tedesco-inglese, frutto delle diverse radici ed esperienze di una vita straordinaria. Non sempre riconosciute come spiritosaggini, le sue battute gli hanno procurato qualche incomprensione, all’inizio della carriera accademica: ma stavolta lo scienziato prepara un cappuccino, ne offre uno al suo interlocutore (declino – ancora troppa soggezione) e si scioglie in un amabile sorriso. Paragonato a Newton (lo scopritore della gravità) e a Einstein (l’inventore della relatività), a cinquantasei anni Andre Geim ha tali e tanti estimatori che si predice di Nobel farà in tempo a vincerne un altro, per una seconda scoperta. La prima sarebbe sufficiente a garantirgli una fama imperitura: i suoi studi sul grafene, miracoloso materiale che ha lo spessore di un atomo ma la resistenza di un diamante e la flessibilità della plastica, promettono di rivoluzionare il mondo come l’acciaio e appunto la plastica hanno fatto in precedenza. L’eureka moment, il momento della scoperta, come ha ricordato lui stesso tante volte, venne quasi per caso, tirando fuori dal cestino della spazzatura i rimasugli di un esperimento che credeva finito male. Ma prima sono venuti tanti anni di studi e ricerche, che Geim continua a fare, insieme alla moglie, fisico pure lei, con l’ufficio di fianco al suo. Gli racconto di essere arrivato a Mosca come corrispondente di Repubblica, nel 1990, proprio quando lui stava lasciandola come emigrante. «Tutti i gusti son gusti», commenta, di nuovo un po’ acido, tra un sorso di cappuccino e l’altro. Ma lui perché se ne andò? Ricordo che se c’era una cosa che funzionava, in Urss, era la comunità scientifica, in particolare la fisica, il ramo legato alle conquiste spaziali e all’industria militare. Geim, per di più, viveva e lavorava in una delle “cittadelle della scienza”, luoghi riservati ai migliori studiosi, con più agi che nel resto del paese. «Se avessi saputo che cosa mi aspettava in Occidente, me ne sarei andato ancora prima», risponde. «Non mi riferisco a denaro o comfort personali, ma alla mia produttività come scienziato, che diventò di colpo molto più alta. È vero, la scienza aveva un posto di rilievo in Urss. Ma c’è sempre stato un problema di efficienza. Il programma spaziale costava agli Stati Uniti, all’epoca della guerra fredda, l’un per cento del Pil. All’Urss costava il cinquanta per cento. E nei primi anni Ottanta, quando ho cominciato il mio lavoro di fisico, a Mosca era già iniziato il declino che ha portato un decennio dopo al crollo dell’Unione Sovietica, quindi le cose funzionavano ancora peggio, anche per noi scienziati. Io volevo fare ricerca. Per la ricerca servivano fondi ed efficienza di costi. Il posto per farla, mi resi conto, non era la Russia». Gli domando come fu l’impatto con l’Inghilterra. «Facile e difficile al tempo stesso. Facile per le succitate ragioni: tutto funzionava bene e i fondi alla ricerca erano generosi. Difficile per problemi linguistici, il mio inglese era povero, e anche per qualche incomprensione culturale. Ricordo una cerimonia di benvenuto in cui lo speaker si disse felice di avere finalmente un russo in questa facoltà. Un russo, gli chiesi io, e chi è? Ma è lei, mi risposero ridendo. Solo che io non mi sono mai sentito russo. In Russia ero schedato fin dal passaporto come “tedesco”, un tedesco del Volga, come ci chiamava Stalin, una delle tante minoranze discriminate dell’Urss. E inoltre un ebreo, per parte di nonna materna. Sono cresciuto con due insulti nelle orecchie: nazista e giudeo, non male come accoppiata. Potevo sentirmi sovietico, ma l’Unione Sovietica ben presto non L ci fu più. E allora cos’ero?». Un europeo? «Sì, ma è un’identità culturale, non nazionale. Gli Stati Uniti d’America sono cementati da una lingua comune, l’inglese. L’Europa purtroppo no, e ci vorranno generazioni prima che diventi davvero unita». Non resisto a chiedergli il suo giudizio su Gorbaciov: ha fatto bene o male al proprio paese? «So che ha molti ammiratori all’estero, ma cercate di capire perché ne ha pochi in patria. È stato un pasticcione. Ha creduto di poter fare la democrazia rapidamente e poi di ottenere una specie di Piano Marshall dall’Occidente per fare anche il capitalismo. Doveva fare il contrario, invece, come la Cina, prima l’economia di mercato, poi la transizione alla democrazia, e oggi la Russia sarebbe più democratica di com’è. Ora c’è Putin, che non piace all’Occidente, ma piace al novanta per cento dei russi. Chiedetevi il perché anche di questo. E lasciate passare cinquant’anni. Poi vedrete che la Russia sarà più civile e democratica. Il guaio dell’Occidente è che pensa di poter imporre il proprio modello, costruito nell’arco di secoli, a qualsiasi paese in pochi mesi o anni. E passi imporlo alla Russia: vorrebbe imporlo anche all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria. Una follia». Gli dico che parla come Kissinger: forse dovrebbe scrivere anche di affari internazionali, non solo di fisica. Ma era la fisica l’oggetto del nostro appuntamento. Allora, pensa davvero che il grafene cambierà il mondo? Sospira. È una domanda stupida, lo sento, ma dovevo farla, è quel che l’uomo della strada (specie a cui appartengo) vorrebbe sapere. «Il grafene ha stabilito un nuovo paradigma». Cioè? «Ha aperto un portone, una strada. Oggi si lavora su molti materiali che possiamo chiamare fratelli e sorelle del grafene, materiali di cui fino a poco tempo fa, fino al 2007, nemmeno conoscevamo l’esistenza. In sette anni sono stati fatti passi da gigante. Allora c’erano cento aziende che facevano ricerche sul grafene, ora ve ne sono tante migliaia. Ha sicuramente il potenziale di cambiare il mondo come lo ha cambiato la plastica». Stephen Hawking, l’astrofisico che ha scoperto il Big Bang e i buchi neri, predice che vedremo fantastiche scoperte nei prossimi dieci anni. «Non sono un fan di Stephen Hawking. Lui ormai fa l’indovino e dice cose senza pezze d’appoggio. Io dico semplicemente questo: se lei prende una matita e tira una riga su un foglio, poi la ingrandisce un’infinità di volte con un microscopio, vedrà tracce di grafene. L’uomo ha avuto sotto il naso per cinquecento o mille anni questa scoperta che ora può cambiare il mondo, ma non se n’era mai accorto. Siamo circondati di potenziali scoperte simili. Dobbiamo solo imparare a vederle». A proposito di cambiamenti, lei si sente cambiato dal Nobel? Geim prepara un altro cappuccino. Riflette. «No e sì. Sono la stessa persona di prima, uno scienziato, non mi sento più arrogante. Ma grazie al Nobel ho conosciuto tanta gente famosa, ricca e potente e ho così potuto scoprire che non sono persone molto intelligenti. Ecco questo forse avrei preferito non scoprirlo. La razza umana non è fatta di creature molto intelligenti. Io amo gli individui, ma non ho un gran rispetto della razza umana nel suo complesso». Visto che non siamo animali tanto intelligenti e che abbiamo di fronte ogni tipo di problemi, il cambiamento climatico, il deficit di risorse energetiche, le guerre, le malattie, l’estremismo, lei pensa che sopravvivremo? «No». Altro sorso di cappuccino. Oddio, ma è una notizia spaventosa. «Non sopravvivremo nella nostra forma attuale», riprende. «Ci evolveremo in un’altra forma». Sospiro di sollievo (mio). «Ci stiamo già evolvendo. La nuova forma si chiama “società globale”. È una creatura infinitamente più complessa del vecchio Homo Sapiens. Gli esseri umani sono contenuti al suo interno come minuscoli atomi, come le molecole che compongono una materia. Grosso modo l’Homo Sapiens è durato cinquantamila anni. Vedremo cosa diventerà questa nuova creatura, la società globale, tra altri cinquantamila anni. Non lo vedremo io e lei, ma i figli dei figli dei nostri figli». Anche il professor Geim ha una figlia, quattordicenne. Che consigli dà alla sua bambina? E ai bambini, ai ragazzi, ai giovani di oggi? «Un consiglio banalissimo. Per avere successo, bisogna lavorare duramente, molto duramente. Mia figlia va a una scuola privata qui a Manchester ed è una delle prime della classe. Qui si calcola tutto in percentuali, per cui lei sa di essere nel cinque per cento al top della scuola come risultati accademici. Ma per avere successo non basta, bisogna essere nei piani alti di quell’uno per cento al top». Mi vengono in mente le tiger mom che costringono i figli a un’infanzia infelice di solo studio, ma il premio Nobel mi tranquillizza: «Mia figlia è una ragazzina normale, ha hobby, fa sport, gioca con le amiche. L’abbiamo portata con noi fin sul monte Etna e sullo Stromboli, l’estate scorsa, e si è divertita moltissimo. Avete vulcani e montagne meravigliose, in Italia». A questo punto siamo diventati amici: il premio Nobel insiste di nuovo per offrirmi un cappuccino, scherza sulla burocrazia italiana e confessa che l’Amarone è il suo vino preferito. Mi sento come se avessi superato l’esame (di fisica). Sarei quasi tentato di chiedergli di spiegarmi, prima di andarmene, cosa diavolo è esattamente il bosone di Higgs. © RIPRODUZIONE RISERVATA CHE COS’È? È UN MATERIALE COSTITUITO DA UN UNICO STRATO DI ATOMI DI CARBONIO. HA LA RESISTENZA DEL DIAMANTE E LA FLESSIBILITÀ DELLA PLASTICA LA SCOPERTA È STATO SCOPERTO NEL 2004 DAI DUE FISICI ANDRE GEIM E KONSTANTIN NOVOSELOV DELL’UNIVERSITÀ DI MANCHESTER CHE NEL 2010 HANNO PRESO IL NOBEL LE CARATTERISTICHE CONIUGA LA PECULIARITÀ DI ESSERE UN MATERIALE ESTREMAMENTE LEGGERO CON ECCEZIONALI PROPRIETÀ DI RESISTENZA MECCANICA la Repubblica DOMENICA 4 GENNAIO 2015 29 Andre Geim Mister Grafene LA STRUTTURA GLI ATOMI SI DISPONGONO IN CELLE BIDIMENSIONALI ESAGONALI FORMANDO UNA STRUTTURA A NIDO D’APE CHE LO RENDE UNO DEI MATERIALI PIÙ SOTTILI AL MONDO COME CONDUTTORE PER I TRANSISTOR È DUECENTO VOLTE PIÙ FORTE DELL’ACCIAIO E COME CONDUTTORE DI ELETTRICITÀ E DI CALORE FUNZIONA MEGLIO DEL RAME È TALMENTE SOTTILE CHE PUÒ ESSERE USATO PER TRANSISTOR A BASSISSIMO CONSUMO PER CELLULARI E PALMARI DA RICARICARE SOLO UNA VOLTA AL MESE NEI COMPUTER PUÒ ESSERE UTILIZZATO PER REALIZZARE MICROPROCESSORI AD ALTISSIMA VELOCITÀ CHE MANDERANNO IN PENSIONE QUELLI AL SILICIO CELLE SOLARI MI DEFINIVANO UN TEDESCO DEL VOLGA, NON MI SONO MAI SENTITO RUSSO. STO MOLTO MEGLIO IN INGHILTERRA, E NON SOLO PER I SOLDI. GORBACIOV? UN PASTICCIONE. I COLLEGHI? NON SONO UN FAN DI HAWKING: DICE COSE SENZA PROVE, ORMAI FA L’INDOVINO FOTO DI JAMES KING-HOLMES PER LA STRUTTURA MONOATOMICA CHE LO RENDE TRASPARENTE E LA GRANDE CONDUCIBILITÀ TERMICA PUÒ ESSERE IMPIEGATO NEI PANNELLI FOTOVOLTAICI la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 4 GENNAIO 2015 L’anniversario. 1915-2015 L a raccoltadi brevi poemetti in versi liberi dal titolo Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters, quarantacinquenne avvocato di Chicago, fu pubblicata nel 1915. Il pubblico americano ne fu profondamente colpito, tanto che il libro andò a ruba, divenendo il primo best-seller del “Rinascimento poetico” iniziato nel Middle West dallo stesso Masters. Il ricordo di quel sensazionale successo durò a lungo, tanto che tuttora il libro è considerato – se e quando lo è – con profonda diffidenza. D YL AN T HO M AS LA COLLINA IMMAGINATA DA EDGAR LEE MASTERS UN SECOLO FA DIVENTÒ NEGLI ANNI UN LUOGO LETTERARIO UNIVERSALE MA QUALCHE TEMPO DOPO VENNE DIMENTICATA. QUI DYLAN THOMAS SPIEGA PERCHÉ INVECE IL SUO VALORE È ETERNO Anche se oggi i motivi di sospetto sono assai diversi da allora, quando Spoon River sfondò, con manifesto orrore della potente stampa parrocchiale, dei pulpiti di prateria, ma anche dei frastornati, smilzi, arcigni arbitri del gusto delle riviste letterarie, oltre che di innumerevoli associazioni di perbenismo militante. Oggi, tra le migliaia di studenti universitari che assumono “poesia” in dosi massicce mi sembra assai difficile che qualcuno legga ancora l’Antologia di Spoon River. Non credo che i workshop di poesia aggregati alle università e ai college privati la inseriscano nei loro programmi, se non come fenomeno di interesse storico minore: un libro scritto da un vecchio avvocato bohemien, che in tempi bui divagava declamando sul conflitto tra materialismo e idealismo: un conflitto ritenuto ormai obsoleto, tanto che probabilmente molti, in quei laboratori di poesia, lo considerano da tempo risolto in maniera soddisfacente. È assai probabile che gli studenti, asettici energumeni esuberanti e ardenti, quarantadue denti e capelli a spazzola, ben decisi a inseguire l’arte della poesia con tanto di taccuino e reticella, flaconcino di veleno, etichette e spilloni, tendano ad accantonare Masters semplicemente perché in vita ha avuto tanto successo. Come ho già notato, negli Usa moltissimi studenti si ingozzano religiosamente di poesia moderna, pur sostenendo con insistenza che le opere poetiche così devotamente lette e divorate da tanta gente siano per ciò stesso prive di valore. Ezra Pound, per esempio, può essere apprezzato solo da pochi, ossia da eserciti di cultori della cultura che ogni giorno si fanno tanesimo nel quale aveva dovuto dibattersi e ribollire c’era – né più né meno – qualcosa di ingannevole. «Ci conosce troppo bene, quel bugiardo!» era un atteggiamento molto comune. Personalmente amo molto gli scrittori venuti dal Middle West negli anni dell’inizio della prima guerra mondiale. A prescindere dai luoghi comuni letterari sulla “vitalità da pionieri”, la “ruvida onestà”, l’”umorismo terragno”, le “imperiture tradizioni popolari” eccetera, è vero che personaggi come i radicali e gli iconoclasti delle piccole città di provincia, i giornalisti sportivi, i collaboratori del Reedy’s Mirror, i chiassosi e avvinazzati predicatori e atei di Chicago, i cantastorie e i professionisti scalcagnati hanno dato un apporto rude e benefico a una lingua che stava morendo in piedi – anzi, neppure sui propri, di piedi. C’era soprattutto Edgar Lee Masters, missionario bilioso, caparbio oratore da comizio, contorto e magniloquente, acuto nei particolari dei suoi ironici ritratti, prodigo di astrazioni enfatiche, verboso ma anche conciso fino al grottesco: un uomo con un carattere che non avrebbe messo in vendita neppure per un patrimonio. Nella sua raccolta di poesie, a parlare sono i morti della città di Spoon River, che dal cimitero sulla collina recitano i loro onesti epitaffi. O piuttosto, parlano con tutta la sincerità di cui sono capaci. Perché nella loro vita terrena sono stati sconfitti per essere stati onesti – e ciò li ha resi a volte acrimoniosi; o al contrario, disonesti – e di conseguenza ora sospettano delle motivazioni di chiunque altro. In vita non erano riusciti a far pace con il mondo. Ora, da morti, cercano di far pace con Dio, magari senza neppure crederci. Qui giace il corpo di… Segue il nome, inciso con indifferenza dal marmista. Masters interrompe l’iscrizione per subentrare, dopo il “qui giace”, con la sua versione aspra, dolente e compassionevole di una verità variegata. Non si era mai illuso che la verità fosse semplice e univoca, con valori chiaramente definiti. Sapeva che le vere motivazioni dell’affaccendarsi degli uomini sulla terra sono complesse e confuse, che l’uomo si muove misteriosamente quando si arrabatta per farsi valere, che il cuore non è solo un muscolo, una pompa da sangue, ma anche una vecchia palla umida e lanosa nel petto, dentro “l’orrendo fondaco di stracci e ossa”, per citare Yeats: ricettacolo di errori, tremenda costrizione che vive della sua ferita. E quel che più conta, sapeva che nelle persone la poesia esiste sempre – anche se non è sempre delle migliori. Ha scritto della guerra tra i sessi. Dell’abisso tra gli uomini, creato dalle leggi degli uomini. Dell’incompatibilità tra quelli che trascorrono insieme le loro brevi vite per convenienza economica o solitudine, l’abissale e sempre crescente distanza dal primo, grave, casuale desiderio fisico materno. Non che i motivi di convenienza economica o di una voluttà occasionale, ma non per questo meno urgente, non possano di per sé condurre a uno stato di tranquillità tra due persone sperdute. Ma chi la vuole, la tranquillità? Meglio bruciare che sposarsi, se il matrimonio spegne le fiamme. Ha scritto sullo spreco; su come l’uomo sperpera la sua vitalità nel perseguire ciniche futilità, sulle sue aspirazioni quando obbedisce alle cattive leggi, teologie, istituzioni sociali e discriminazioni; sulle ingiustizie, avidità e paure, costantemente e rancorosamente convalidate da tutti gli umani che in passato ne hanno sofferto, anche fino a morirne. Ha scritto sulla dilapidazione dell’uomo, ma ad alta voce, maldestramente, appassionatamente, ha reso omaggio alla possibile grandezza di ciò che era avviato allo spreco. Traduzione di Elisabetta Horvat © Estate Dylan Thomas Apologia di Spoon River L’AUTORE DYLAN THOMAS, POETA, SCRITTORE E DRAMMATURGO GALLESE (1914-1953), SCRISSE QUESTO TESTO PER LA BBC COME INTRODUZIONE ALLA LETTURA RADIOFONICA DI ALCUNI VERSI DALL’ANTOLOGIA DI SPOON RIVER, AVVENUTA POI NEL 1955. IL TESTO, CHE NON È MAI STATO STAMPATO, È CONSERVATO DALL’HARRY RANSOM CENTER DELL’UNIVERSITÀ DI AUSTIN (TEXAS) strada attraverso i suoi Cantos, ostentando estatica comprensione. Di Masters ho sentito dire che “ha avuto troppo successo per essere onesto”. Osservazione che ha del patetico, in bocca a un illuminato rappresentante di un Paese notoriamente non avverso al successo in qualsiasi campo della vita. Eppure, è grazie all’ironica onestà di Masters che il suo Spoon River è diventato così popolare tra i suoi detrattori. Sembra che gli americani amino molto essere presi a calci nei loro punti più sensibili. E quale luogo può essere più sensibile dell’arida, grande spina dorsale del Middle West? Appena uscita, l’Antologia di Spoon River fu acquistata e letta da molti per diverse ragioni, per lo più estranee al fatto indubitabile che quella era poesia. Molti lessero il libro per negargli questa qualità; altri, avendo scoperto che essenzialmente la possedeva, la contestarono a voce ancora più alta. Davanti a quei versi arrabbiati, sardonici, toccanti, una delle principali reazioni era del tipo: «Ma sì, può darsi che effettivamente ci sia gente meschina e corrotta, fanaticamente cupa, rispettabile fino alla follia, malevola e scontenta in qualche piccola città dell’Illinois – ma non dove viviamo noi!», «L’Est è l’Est, l’Ovest è l’Ovest, ma il Middle West è terribile!». Detto per inciso, non a caso negli Usa i luoghi più belli e più emozionanti sono invariabilmente designati come atipici, non veramente americani. Edgar Lee Masters, tipico uomo del Middle West, ne parlava con cognizione di causa; ma nel suo odio per l’arcigno, avvilente puri- © RIPRODUZIONE RISERVATA 30 la Repubblica DOMENICA 4 GENNAIO 2015 31 L’altra faccia del sogno americano VITTORIO ZUCCONI I PITTURA DI GRANT DEVOLSON WOOD/CORBIS L 1915, L’ANNO NEL QUALE un oscuro avvocato dell’Illinois riuscì a pubblicare una raccolta di versi liberi chiamata Spoon River Anthology, era per gli Stati Uniti il tempo dickensiano di tutto il meglio visibile e tutto il peggio invisibile. Mai come in quegli anni l’America aveva esercitato sul resto del mondo una forza magnetica tanto irresistibile. Dieci milioni di immigrati si erano riversati sulle sue coste, tre dei quali italiani, dall’inizio del secolo, raggiungendo in quell’anno il culmine. Due terzi degli abitanti di New York erano nati in altre nazioni. E mentre l’Europa già inceneriva la propria gioventù nella fornace della guerra, l’America lontana e ancora indifferente l’accoglieva e celebrava se stessa, nel primo film epicamente sciovinista della storia del cinema, La Nascita della Nazione. Nessuno lo poteva ancora prevedere, ma istintivamente, epidermicamente, si avvertiva che quello appena cominciato sarebbe stato il “Secolo Americano”. La voce dei morti che si alzò da un immaginario, eppure reale, cimitero del MidWest per raccontarsi nelle pagine di Edgar Lee Masters piombò come un secchio d’acqua gelata sulla compiaciuta retorica del luminoso destino dell’America. Le confessioni dall’oltretomba dei defunti ormai liberi dagli imperativi delle menzogne squarciarono non soltanto i sudari delle convenzioni e del perbenismo di quel mitico Midwest che si considerava lo scrigno delle virtù americane. In quei versi c’erano i tratti di quella che da allora in poi si sarebbe chiamata l’altra faccia del sogno americano. La sconfessione della sacralità equanime della Legge, ammessa dal giudice corrotto che si dichiara più colpevole di Hod Putt che ha mandato a morire, anticipa il fondato cinismo di chi vedrà legioni di miserabili, e mai nessun milionario, spediti sul patibolo. Il lamento di Serepta Mason, la donna che vide la propria esistenza gelata dal “vento amaro” della malevolenza e dai pettegolezzi per il solo suo essere donna, coincide con la sentenza della Corte Suprema che nega il voto alle americane e riprende il filo della “Lettera Scarlatta”. L’Antologia di Masters fu accolta malissimo, dall’America della “Progressiva Era”, come un insulto, poi venerata e canonizzata nella lettura obbligatoria per i liceali nell’America umiliata dalla Grande Depressione e oggi è tornata nella penombra, ignorata o evitata dalle scuole superiori, spesso con il pretesto di una lingua, di una metrica, di una poesia non abbastanza letteraria e alta. La venerazione, e la considerazione per le «storie», come andrebbero ridefinite, dei morti sulla collina di Spoon River si sarebbero protratte più a lungo fuori, che dentro gli Stati Uniti, anche per il merito della stupidità censoria del fascismo che ne aveva proibito la pubblicazione, rendendone la lettura, carissima fra i tanti a Cesare Pavese, e la traduzione pericolose. E costringendo la prima versione in italiano fatta da Fernanda Pivano a nascondersi sotto la grottesca dizione di S.River, quasi fosse un santo. Sarebbero stati il Giovane Holden, gli autori maledetti della Beat Generation, i Kerouac e i Ginsberg, a raccogliere la voce dei morti viventi di Spoon River e raccontare, senza più l’espediente dell’oltretomba, gli spettri di una nazione non più timorosa di evocarli. Ma nessuno che ascolti quelle voci, e percorra le strade del Midwest nel gelo cimiteriale degli inverni, le potrà più dimenticare. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 4 GENNAIO 2015 32 Spettacoli. Venerati maestri A scuola daMuti ANNA BANDET T INI RAVENNA N c’è questa mania di immaginare il direttore d’orchestra come un despota, «un matto che si sbraccia da un podio», brontola divertito Riccardo Muti. «“Dirigere”, diceva Toscanini, “può farlo anche un asino. Ma fare musica è un’altra cosa”». È qualcosa di astratto e concreto insieme, spiega con passione commovente il venerato maestro, è studiare, seguire le tracce intricate dello spartito, il modo in cui le note sono scritte, apparentate... Sta all’interprete poi trovare il percorso di queste tracce, non smarrirsi, seguirle con intelligenza, pensiero, piacere. «Dirigere non è una cosa naturale — dice — Io vorrei trasmettere come si fa». Per la prima volta, il numero uno dei direttori, insegnerà la sua arte. Settantatrè anni, sempre trascinante, lucido, non ortodosso, Muti condurrà un’accademia sulla direzione dell’opera italiana: prima masterclass in luglio al Ravenna Festival diretto da Cristina Muti Mazzavillani, sua moglie. È bastato l’annuncio su internet perché le domande per le selezioni fioccassero da Usa, Argentina, Turchia... e da mezzo mondo arrivassero offerte di ospitalità delle sessioni future. Come nel 2004 con l’orchestra Cherubini, anche la scuola sarà per i giovani a cui Muti guarda con attenzione, generosità, forse segreta inquietudine, come un passaggio di testimone. «La verità è che oggi la direzione si studia poco e male. Un diplomato di flauto o un cantante pensano di potersi improvvisare direttori. Io vorrei trasmettere quello che ho imparato dai miei maestri, Antonino Votto, Bruno Bettinelli, Vincenzo Vitale», dice nello studio della casa di Ravenna, luogo squisitamente privato, una sorgente di energia con quella vista sul bel giardino e i tanti ricordi, foto, libri, partiture originali, oggetti preziosi come il vestito di Casanova che Sutherland indossava nel film di Fellini, il luogo da cui parte per girare il mondo: da gennaio Chicago con la sua Symphony Orchestra, marzo la tournée internazionale con la Cherubini, aprile la Germania con i Berliner poi Vienna e Russia con i Wiener... Maestro, da cosa si comincia per dirigere? Dalla bacchetta? «Quando ero direttore dell’orchestra di Filadelfia ricevetti un voluminoso manuale per studenti sulla direzione d’orchestra. Alla seconda pagina lo chiusi perché mi stava confondendo. La gesticolazione ufficiale, che serve per battere il tempo, è l’abc ma non basta sbracciarsi per stare su un podio. E quanto alla bacchetta, per me non è mai stato un feticcio. So di direttori che arrivano in teatro con lussuosi astucci e bacchette diverse a seconda del repertorio. Io ho sempre la stessa che mi fanno a Filadelfia da quando dirigevo lì». Lei come ha imparato? «Io sono diventato direttore per caso. Una serie di porte aperte del destino. Studiavo musica parallelamente al liceo, ma mio padre voleva il famoso pezzo di carta, l’università, cosa che io ho fatto. Per ognuno dei cinque figli aveva deciso un indirizzo. A me toccava di fare l’avvocato». E invece? «Incontrai Nino Rota e decisi di studiare musica seriamente. Andai a Napoli, mi sono diplomato al Conservatorio in pianoforte col grande Vincenzo Vitale. Fu il direttore, Jacopo Napoli, a chiedermi a bruciapelo se volevo dirigere l’orchestra degli allievi. Feci due prove con successo. A quel punto mi disse: se vuoi diventare un direttore, da domani studi composizione. Ed è quello che ho fatto. Che hanno fatto Karajan, Toscanini, De Sabata... Ed è la prima cosa che chiedo ai giovani: conoscere la composizione, poi saper suonare il pianoforte e avere un buon baga- FOTO SILVIA LELLI MASOTTI ON SI SA PERCHÉ Il numero uno dei direttori d’orchestra spiega ai giovani i suoi segreti glio culturale sono le tre cose essenziali se non vuoi essere un vigile urbano ma trasmettere una idea musicale». L’idea musicale è quello che distingue una direzione da un’altra? «Sì. È lo studio di una partitura che richiede settimane, mesi, certe volte anni. Per me è come un processo di innamoramento. Metto lo spartito sul pianoforte, la tengo lì, lo provo al piano, poi senza, poi di nuovo al piano. È come costruire una casa. Ma poi devi saper trasmettere le sensazioni che scopri in quella casa e qui ci vuole tecnica, sensibilità culturale e quella cosa strana che è il carisma». Che cos’è il carisma? «Non lo so. So che quando un direttore attraversa la pedana per raggiungere il podio, l’orchestra capisce già se c’è l’ha o no. Carlos Kleiber, di cui sono stato amico, mi raccontò che a Tokyo dirigeva la Filarmonica di Vienna nel Cavaliere della rosa, e c’era un punto in cui non era contento dell’orchestra. Una sera, due, la terza decise in quel punto di non fare alcun gesto, di stare fermo. Finalmente ascoltò quello che chiedeva. “Perché”, chie- QUANDO MI CHIAMARONO A FILADELFIA RICEVETTI UN VOLUMINOSO LIBRO SU COME SI DEVE DIRIGERE. ALLA SECONDA PAGINA LO CHIUSI: MI CONFONDEVA. LA GESTICOLAZIONE È L’ABC: SERVE A BATTERE IL TEMPO. MA NON BASTA SBRACCIARSI PER STARE SU UN PODIO se all’orchestra, “quando non ho diretto avete eseguito quello che volevo? Dipende da chi è colui che in quel momento non dirige sul podio”, fu la riposta. Ecco il carisma: la presenza. Credo sia un misto di temperamento, sapienza, tecnica. Se non ce l’hai e ti sforzi di esibirlo, ti fai nemica l’orchestra». E a quel punto è finita. «Un’orchestra sono cento persone, duecento con il coro: un popolo. Ci sono dentro reazioni emotive diverse, l’abilità del direttore sta nel creare una sensibilità collettiva. Molto è anche una questione di chimica, altrimenti non si comprende come un direttore amatissimo in una orchestra è poi magari odiatissimo in un’altra». A lei è successo? «Immodestamente credo di no. Con la Filarmonica di Vienna abbiamo un rapporto che dura da quarantaquattro anni ed è l’orchestra più difficile del mondo. Con la Scala sono stati diciannove anni bellissimi, frantumati, credo, per altri motivi». Nella scuola lei lavorerà sull’opera italiana. Perché? la Repubblica DOMENICA 4 GENNAIO 2015 33 5 regole del podio 1. I movimenti gestuali Gesti codificati della mano destra che servono per “battere” il ritmo: 2/4, 3/4, 4/4... È l’“abc” 2. Il pianoforte Saper suonare il piano è utile per studiare una partitura ma anche per provare con i cantanti 3. La composizione Un buon direttore deve conoscere l’armonia, il contrappunto, la strumentazione 4. Gli studi umanisti Un buon bagaglio culturale è necessario per comprendere un autore contemporaneo o del passato 5. Il carisma È qualcosa di astratto, indefinito una somma di professionalità, rigore, talento La bacchetta La bacchetta è un bastoncino lungo da 25 a 60 centimetri, utile per indicare il tempo e gli attacchi all’orchestra con gesti codificati. È in legno leggero, oppure in fibra di vetro o di carbonio. L’impugnatura ha un pomello “a pera” tradizionalmente di sughero oppure di legno «Studieremo il Falstaff. Sono sempre colpito dall’approssimazione e dalla mancanza di serietà con cui l’opera italiana viene eseguita e ascoltata. Penso ai tanti abusi codificati dalla tradizione, libertà inammissibili con Mozart o Wagner, tagli, cambiamenti per i cantanti o i melomani, parola che odio perché la mania è sempre una patologia. Insegnerò che in Verdi c’è una verticalità tra suono e parola, sono una in funzione dell’altra. In Italia la musica deve voltare pagina fin dalla scuola primaria: basta col piffero, insegniamo ai bambini a camminare nella foresta dei suoni». I suoi direttori di riferimento? «Toscanini, avendo studiato con Votto suo allievo, per il rispetto dell’autore. Karajan per la scoperta delle possibilità del suono. Furtwängler per il coraggio di improvvisare, per i momenti di libertà». Dei giovani chi la convince? «Andris Nelsons mi pare uno bravo, a tutti auguro comunque di fare la famosa gavetta. Io iniziai, pensi, con l’orchestra militare cecoslovacca, nella Praga del ‘66. Quando mi CI SONO DUECENTO PERSONE, CON IL CORO, IN UN’ORCHESTRA: UN POPOLO. CON EMOTIVITÀ DIVERSE. L’ABILITÀ È CREARE UNA SENSIBILITÀ COLLETTIVA. QUESTIONE DI CHIMICA, ALTRIMENTI NON SI CAPISCE COME MAI UN DIRETTORE MOLTO AMATO DA UNA PARTE SIA ODIATO DA UN’ALTRA prendeva la nostalgia, facevo su e giù davanti all’ambasciata italiana. Tempo fa ci sono tornato con i Wiener, accolti in quella stessa ambasciata con un gran ricevimento che mi ha fatto ripensare con tenerezza a quegli anni in cui ero uno sconosciuto». Quando si capisce di essere diventati un vero direttore d’orchestra? «Posso solo dire che andando avanti, capisci che non c’è bisogno di fare tanta confusione sul podio. In teoria si potrebbe dirigere anche solo con gli occhi. A me talvolta è successo. Come i dicevano i romani “Rem tene, verba sequentur”, se c’è la sostanza le parole verranno. Una frase che farebbe bene a tanti nostri politici». A questo proposito: e la storia di lei alla Presidenza della Repubblica? Avrebbe davvero lasciato il podio per il Quirinale? «Ma perché mai? È una pura invenzione. Mi ha divertito però un signore che per strada qui a Ravenna mi dice: “Maestro sarebbe stato bello però: voleva dire che in questo paese cambiava musica”». © RIPRODUZIONE RISERVATA L’ACCADEMIA L’“ITALIAN OPERA ACADEMY” È LA PRIMA MASTERCLASS PER DIRETTORI D’ORCHESTRA REALIZZATA DA RICCARDO MUTI. LA SESSIONE D’AVVIO DEDICATA AL “FALSTAFF” DI VERDI SI SVOLGERÀ AL TEATRO ALIGHIERI DI RAVENNA DAL 9 AL 26 LUGLIO 2015 PER IL “RAVENNA FESTIVAL”. DUE LE CLASSI DI INSEGNAMENTO (GRATUITE PER GLI ALLIEVI SCELTI): DIRETTORE D’ORCHESTRA E MAESTRO COLLABORATORE. PREVISTI AUDITORI. LE DOMANDE DEVONO ESSERE PRESENTATE ENTRO IL 31 GENNAIO 2015. INFO WWW.RICCARDOMUTIMUSIC.COM L’ORCHESTRA NELLA FOTO GRANDE: MUTI CON L’ORCHESTRA CHERUBINI IN PROVA AL TEATRO ALIGHIERI DI RAVENNA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 4 GENNAIO 2015 34 Next. Animal factory SERGIO PEN N ACC H I N I GUARDARLO SEMBRA UNA DI QUELLE CUFFIE con microfono che si usano per comunicare al computer. Solo che questo strano apparecchio, creato da un team di inventori svedesi famoso per aver realizzato una sedia a dondolo che ricarica l’iPad, non è per uomini, ma per cani. Si chiama No More Woof e traduce, sostiene il team nordico, ogni verso del vostro cane in un pensiero preciso. “Ho fame”, “chi sei?”, “voglio giocare” e altri semplici concetti per farci capire, senza margine di errore, cosa vuole esattamente il nostro amico a quattro zampe. Sembra fantascienza, o uno scherzo molto ben congegnato, fatto sta che No More Woof ha già raccolto più di 20.000 dollari da appassionati che hanno prenotato questo gadget prima ancora che arrivi nei negozi. Quando (e se) ci arriverà, No More Woof costerà circa trecento dollari e sarà in grado di riconoscere almeno quattro tipi di versi del vostro cane. Ma l’idea svedese è solo l’ultima espressione, forse la più estrema, di come la tecnologia indossabile, quella degli smartwatch e dei bracciali per il fitness, abbia puntato gli occhi su un altro settore, un altro mercato da conquistare: gli animali domestici. Un’industria che vale oltre novanta miliardi di dollari l’anno e che, stando a uno studio del Financial Times, non conosce crisi: dal 1994 a oggi è cresciuta costantemente, senza sosta. Anche durante la crisi economica. «Solo in Nord America ci sono ottanta milioni di animali domestici che vengono, nel 90 per cento dei casi, considerati come veri membri di famiglia. Milioni di persone che non vogliono altro che il bene dei loro cuccioli». Davide Rossi, ingegnere, poco più di trent’anni, introduce così Fitbark, un piccolo dispositivo da montare sul collare dell’animale in grado, tramite sensori, di calcolare l’attività fisica che il cane A No More Woof SI CHIAMA “NIENTE PIÙ ABBAI”: È UN PICCOLO CASCO IN GRADO, SECONDO I CREATORI, DI LEGGERE IL PENSIERO E L’ABBAIARE DEI CANI E TRADURLO IN INDICAZIONI UTILI PER I PADRONI. PER ORA È SOLO UN PROTOTIPO Whistle UN COLLARE PER MISURARE L’ATTIVITÀ FISICA DEL VOSTRO CANE E RESTARE SEMPRE CONNESSI CON LUI. POTRETE CONTROLLARLO IN TEMPO REALE TRAMITE UN’APPLICAZIONE SU SMARTPHONE. GIÀ DISPONIBILE NEGLI STATI UNITI, COSTA 99 DOLLARI svolge durante il giorno. «La tecnologia può avere un ruolo davvero fondamentale nell’aiutarci a riconoscere i bisogni dei nostri amici a quattro zampe e a soddisfarli», spiega. Dopo un passato in Ferrari e su piattaforme petrolifere in Medio Oriente, Davide Rossi è volato a New York dove ha fondato la sua startup. Fitbark, che dovrebbe arrivare nei negozi nei primi mesi del 2015, comunica i dati raccolti a un’applicazione per smartphone. Potremo condividere i risultati con il nostro veterinario e confrontarli con i dati reali di altri cani come il nostro. «In questo modo si ottiene un riferimento reale, concreto, per sapere con più precisione se l’animale sta bene o ha bisogno di fare più attività». Già oggi sul mercato ci sono diverse soluzioni simili a FitBark. Tra le tante, citiamo Whistle e Voyce. Dei due, Voyce sembra quello più evoluto: oltre a misurare l’attività fisica e le calorie bruciate, analizza anche battito cardiaco e frequenza respiratoria. Entrambi, come FitBark, permettono con un tocco del dito di inviare i dati al veterinario di fiducia, che così potrà avere un’idea di come sta il vostro cucciolo anche da remoto. Presto sullo schermo dello smartphone po- tremo anche controllare cosa stanno facendo i nostri animali mentre non ci siamo, oppure dargli da bere o mangiare. Il merito è di prodotti come Romeow, frutto dell’inventiva di un gruppo di giovani imprenditori italiani. Presentato all’ultima Maker Faire di Roma, la fiera dei maker e degli inventori, somiglia a una macchinetta per il caffè. Solo che dai due beccucci non esce un gustoso espresso, ma acqua e cibo per cani e gatti. Il design è estremamente curato, come ci si aspetta da un prodotto made in Italy, con materiali di pregio. Romeow è dotato anche di una telecamera e di un microfono per comunicare con l’animale dall’applicazione dedicata. Un ulteriore modo per assicurarsi che abbia mangiato e stia bene. «Per lavoro devo partire molto spesso, con Romeow posso farlo senza pensieri e con la sicurezza che il mio gatto avrà tutto quello di cui ha bisogno», racconta Alessandro Affronto, fondatore di Purple Network, la società che l’ha creato. Dovrebbe arrivare in commercio nel corso del prossimo anno, ma sugli scaffali dei negozi troverà un’agguerrita concorrenza. PetNet Smart Feeder, in arrivo nei primi mesi del 2015, è un dispenser di cibo che si controlla via iPet Dall’apparecchio che ne traduce i versi alle app per misurare come stanno: così la tecnologia rivoluzionerà la vita dei nostri amici a quattro zampe Romeow È UN DISPENSER DI CIBO E ACQUA CHE SI CONTROLLA DA REMOTO TRAMITE UN’APP PER IPHONE. FRUTTO DI UN’IDEA TUTTA ITALIANA E, NON A CASO, IL DESIGN È PARTICOLARMENTE FUNZIONALE ED ELEGANTE. HA ANCHE TELECAMERA E MICROFONO PER INTERAGIRE CON L’ANIMALE PetNet UN DISPENSER DI CIBO PER GATTI E CANI, CHE SI PROGRAMMA VIA APP E PERMETTE DI TENERE SOTTO CONTROLLO L’ALIMENTAZIONE DEI NOSTRI ANIMALI. ALL’ORA E NELLE DOSI DA VOI SCELTE VERRÀ EROGATA LA QUANTITÀ OPPORTUNA E VERRETE AVVERTITI TRAMITE UN SMS 58 miliardi di dollari È IL VALORE RECORD DEL MERCATO DEL CIBO E DEGLI ACCESSORI PER ANIMALI DOMESTICI NEGLI STATI UNITI NEL 2014, TRE MILIARDI IN PIÙ RISPETTO ALL’ANNO PRECEDENTE la Repubblica DOMENICA 4 GENNAIO 2015 35 8,5 miliardi di euro smartphone e ha un’applicazione che consiglia la dieta migliore a seconda delle esigenze del vostro animale o in base alle indicazioni del veterinario. Petzila, presentato all’ultimo Consumer Electronic Show di Las Vegas, invece, è una scatola di plastica che consente di “premiare” a distanza cani e gatti con biscottini da elargire con un tocco sull’iPhone. Ha una videocamera per vedere in tempo reale cosa sta facendo il vostro cucciolo. La camera si può usare anche per scattare foto e fare piccoli video, da condividere poi sull’applicazione ufficiale che è strutturata come un social network dedicato agli amanti degli animali. Petcube, invece, è una telecamera che si con- È QUANTO ABBIAMO SPESO NEL 2014 IN ITALIA, FRANCIA, INGHILTERRA, GERMANIA E SPAGNA PER GLI ANIMALI DOMESTICI. LA CIFRA È IN CRESCITA DEL 2% RISPETTO ALL’ANNO PRECEDENTE Voyce UN SISTEMA CHE RACCOGLIE DIVERSI DATI SULL’ATTIVITÀ DEL VOSTRO CANE, LI CONDIVIDE DIRETTAMENTE CON IL VETERINARIO E VI PERMETTE DI RICEVERE ARTICOLI O INFORMAZIONI DA ALTRI APPASSIONATI COME IN UN SOCIAL NETWORK © RIPRODUZIONE RISERVATA Sony Action Cam 8,7 miliardi di dollari PER VEDERE IL MONDO DAL PUNTO DI VISTA DEL VOSTRO AMICO A QUATTRO ZAMPE, SONY HA CREATO UN ACCESSORIO CHE PERMETTE DI MONTARE SUL SUO DORSO UNA PICCOLA TELECAMERA. FACILISSIMO DA USARE ANCHE PER I PIÙ INESPERTI È QUELLO CHE BC PARTNERS, FONDO D’INVESTIMENTO PRIVATO EUROPEO, HA PAGATO PER ACQUISTARE PETSMART, LA CATENA DI NEGOZI AMERICANA DEDICATA AGLI ANIMALI. È LA VENDITA PIÙ IMPORTANTE DEL 2014 PER IL FINANCIAL TIMES FitBark CREATO DA UN GIOVANE ITALIANO, FITBARK È UNA PICCOLA SCATOLINA A FORMA DI OSSO CHE SI MONTA SUL COLLARE. TRAMITE SENSORI, REGISTRA L’ATTIVITÀ FISICA E ALTRI PARAMETRI CHE POTETE VEDERE SULLO SCHERMO DEL COMPUTER O DELLO SMARTPHONE PER AIUTARVI A PRENDERVI CURA DEL VOSTRO CUCCIOLO PetCube LA CIFRA SPESA DAGLI AMERICANI NEL 1994 PER ACCUDIRE I LORO ANIMALI. DA ALLORA È STATA UNA CRESCITA COSTANTE, SENZA MAI UN ANNO IN NEGATIVO ANNALISA VARLOTTA NOSTALGIA DEL VOSTRO PICCOLO AMICO O TIMORE CHE POSSA COMBINARE QUALCHE GUAIO IN CASA? PETCUBE È UNA TELECAMERA PER CONTROLLARE DA REMOTO COSA STANNO FACENDO I VOSTRI ANIMALI QUANDO SIETE VIA. HA ANCHE UN PUNTATORE LASER PER GIOCARE CON LORO DA LONTANO 28,5 miliardi di dollari nette alla rete wifi di casa e permette di tenere sotto controllo i propri cuccioli quando siete fuori: c’è anche un puntatore laser per giocare con loro a distanza. Per le gite al parco ci sono animali radiocomandati per far correre il vostro cane, e se avete paura di perderlo non c’è da preoccuparsi: ci sono tantissimi collari con sensore Gps integrato per sapere sempre dove si trova. Tra i tanti citiamo Dog Tracker: costa circa 250 euro, tanti per un collare, ma consente di verificare costantemente la posizione del vostro cane, indicando anche i confini di casa. Così, se per caso Fido dovesse uscire senza permesso, verrete subito avvertiti dalla app. Per le passeggiate, invece, c’è chi sta sperimentando l’uso di droni come dog-sitter. Si programma il percorso e il drone porta a spasso il cane. Un po’ eccessivo, ma sembra non esserci un limite a questa rivoluzione tecnologica. O forse sì, come conclude Davide Rossi: «La tecnologia fine a se stessa non serve a nulla. Un’idea funziona se aiuta a essere persone migliori. Non si tratta di aiutare gli animali, ma di insegnare ai padroni a essere più attenti». la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 4 GENNAIO 2015 36 Sapori. Al cucchiaio CON L’ARRIVO DEL FREDDO LA ZUPPA METTE D’ACCORDO TUTTI: UOMINI E DONNE, DALL’ITALIA AL GIAPPONE ED È PROPRIO L’ORIENTE A CREARE UN MILLENARIO, PERFETTO CONNUBIO TRA NUTRIZIONE E FARMACOPEA Il libro L’autrice inglese Jane Price ha scritto per l’editore Guido Tommasi “Pane e Zuppa”, goloso giro del mondo gastronomico in bilico tra minestre squisite e i buoni pani — ma anche crostini, crackers — con cui accompagnarle Le zuppe degli altri. Dal borscht alle sopas senza dimenticare il gumbo Il granchio Firma i menù dei locali del Fishermans Wharf – la storica marina di San Francisco – la zuppa di granchio (crab chowder), declinata al maschile (classica) e al femminile (she-crab chowder), con le uova aranciate a regalare colore e fragranza LICIA GRANELLO D All’orientale La tradizione Nella cucina tradizionale cinese, gran parte delle zuppe servite in piccole ciotole con appositi cucchiai di ceramica, arriva a fine menù, con la funzione specifica di pulire lo stomaco e rendere il pasto appena assunto più digeribile ICONO CHE GLI UOMINI italiani preferiscono la pasta. E se proprio bisogna usare il cucchiaio, almeno che sia per tortellini e zuppe di pesce. Le donne, invece, sono di natura “minestrone”, vuoi perché eternamente a dieta, vuoi per il piacere tutto femminile di coccolarsi la scodella, tenendola tra le mani. L’unica eccezione temporale coincide con le feste di fine anno, quando temperature gelide e sovraccarico calorico mettono in pari i desideri alimentari di maschi e femmine, dando spazio a brodi e vellutate. La questione non si limita all’identità di genere. Tendenzialmente l’uomo occidentale privilegia piatti forti, forse come una conferma di virilità, che si parli di carne (rossa) o tagliatelle, lasciando alle donne il primato di dolci, verdure e cereali. Ma il resto del mondo non la pensa così. Dalla Russia alla Polinesia, le zuppe campeggiano a pieno titolo nella top ten di gradimento, senza distinzione di sesso, età, status sociale, convinzioni etiche o religiose. Perché a differenze delle paste asciutte – tutte comunque connotate da un’indiscutibile concretezza nel piatto – Le variabili risultano infinite anche all’inpossono essere declinate secondo l’intero terno della stessa tradizione culinaria, dove pentagramma del gusto. l’elenco delle ricette misura la ricchezza delCosì, la distinzione verticale maschi-fem- la biodiversità alimentare. Se gli orti del Memine si frantuma in miriadi di piatti, figli di diterraneo mandano in passerella il trionfo culture enormemente lontane tra loro, ep- delle verdure, spese da sole o sposate con le pure devote al culto della minestra, dal soa- proteine animali - come nella gloriosa mineve nonnulla della zuppa di miso giapponese stra maritata napoletana – il continente – che introduce i pasti come una piccola pre- americano si divide tra le sopas del sud (il soghiera gastronomica - alla tenacia carnivo- lo Perù conta oltre duemila ricette di zuppe) ra del borscht (che perde la “t”, passando il e le chowder del nord, con crostacei e molluconfine tra Ucraina e Russia). schi in prima fila (ma insaporite col bacon). Sopra, versione tailandese della zuppa di pollo Nella foto grande zuppa di pollo con spaghetti cinesi e, a destra, zuppa di gamberetti A proposito di minestre maritate, guai a dimenticare il gumbo della Louisiana, splendido esempio di cucina cajun che mette insieme carne, riso, verdure e frutti di mare, il tutto abbondantemente speziato. Gli Stati Uniti sono anche la patria delle zuppe industriali, così annidate nel tessuto sociale del paese da diventare oggetto delle rielaborazione grafiche di Andy Wharol. L’inossidabile presenza delle lattine di Campbell’s in tutti i supermercati di ogni ordine e grado dall’Alaska alla Florida ben testimonia il rapporto strettissimo tra la necessità alimentare e la sua fruizione rapida, tipico della quotidianità alimentare americana. Ma è la cucina orientale a regalare alle zuppe una valenza straordinaria, connubio millenario di nutrizione e farmacopea. Assimilando il concetto di yin e yang - buio e luce, caldo e freddo, femminile e maschile – all’alimentazione quotidiana, minestre e affini vengono trasformati in simboli virtuosi di nutriceutica. Un brodo arricchito con zenzero, ginseng e datteri – alimenti yang – cura il troppo yin del raffreddore, mentre la minestra di spinaci – fortemente yin – raffredda i bollori della febbre. In caso di guarigione rapida, mettete la ricetta nell’armadietto delle medicine di fianco all’Aspirina. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 4 GENNAIO 2015 8 37 Quelle ciotole infuocate tanto amate anche da Mao piatti bollenti GI A MP A OL O V I SE TTI PECHINO N CINA, COME NEL RESTO dell’Asia, la La ricetta Zoni, il piatto tradizionale giapponese per purificarsi con l’anno nuovo INGREDIENTI PER 4 PERSONE 4 PEZZI DI MOCHI (POLPETTINE DI AMIDO DI RISO) 100 GR DI TARO (TUBERO) IN 4 PEZZI / 100 GR DI FUNGHI SHITAKE IN 4 PEZZI 35 GR DI TOFU FRITTO IN 4 PEZZI / 20 GR DI TACCOLE BABY IN 4 PEZZI 100 GR DI KONNYAKU (GELATINA) IN 4 FETTE / 200 GR DI POLLO IN 4 PEZZI CAROTE E DAIKON PER DECORAZIONE 1 PEZZO DI ALGA KOMBU ( 5 CM X 10 CM) 1 MANCIATA DI KATSUOBUSHI (TONNETTO ESSICCATO GRATTUGIATO) 800 ML DI ACQUA uesto piatto, nato intorno al XIV secolo, viene cucinato nel periodo di Capodanno, per purificare il corpo, preparandolo all’anno nuovo. Come primo passo della ricetta, occorre bollire l’acqua con il kombu, aggiungere il katsuobushi lasciandolo in infusione per un minuto e filtrare. Arricchire il brodo così ottenuto (dashi) con un cucchiaio di soia Usukuchi, uno di mirin e uno di sake, aggiustando di sale. Aggiungere in sequenza taro, funghi Shitake, tofu, konnyaku, carote, daikon, taccole, pollo senza pelle e i mochi, lasciando sobbollire per 15‘ circa, prima di versare la zuppa nelle ciotole. Q Clam Chowder Borscht NEW ENGLAND, USA Cipolla e sedano nel burro, poi farina, brodo vegetale, l’acqua delle vongole, panna, alloro e patate a rondelle. Infine, dentro le vongole UCRAINA Salsiccia rosolata e bollita con barbabietole grattugiate. Poi, carote, patate, cavolo e salsa di pomodoro. Si offre con panna acida a parte THE PERFECT BUN LARGO DEL TEATRO VALLE 4 ROMA TEL. 06-45476337 BAIKAL CAFÈ VIA AUSONIO 23 MILANO TEL. 333-2434799 Ärtsoppa Harira SVEZIA Piselli gialli secchi lessati. Poi, carne di maiale, cipolla, timo e zenzero. A fine cottura senape e porri. Carne servita con la zuppa o a parte MAROCCO Cuocere cipolle e agnello, poi ceci, lenticchie, curcuma, zenzero, prezzemolo, coriandolo. Infine, farina con acqua e salsa di pomodoro BJÖRK LOCALITÀ TORRENT DE MAILLOD 3 QUART (AO) TEL. 0165-774912 SEFNAJ CORSO GIULIO CESARE 25 TORINO TEL. 388-3532222 Canja Cullen Skink BRASILE Pollo bollito con cipolla, poi sfilettato. Brodo sgrassato e filtrato, prima di aggiungere carote e patate, infine il riso. In ultimo, prezzemolo tritato SCOZIA Haddock affumicato (simile al merluzzo), bollito con alloro, porro, cipolla rosolati, poi patate e latte. Si serve con cipollino tritato FLORIPA VIA VARIANTE CISA 65 SARZANA (SP) TEL. 0187-029578 SCHOLARS LOUNGE VIA DEL PLEBISCITO 101/B ROMA TEL. 06-69202208 Bouillabaisse Pho FRANCIA Fumetto con cipolla, porro, aglio, timo, olio e zafferano. Dentro, pesci e crostacei. Colato il brodo, si serve con crostini e salsa rouille VIETNAM Brodo a base di ossi di manzo o pollo, profumato grazie a zenzero, cannella e anice stellato, servito con spaghetti di riso (noodles) LA CABANE VIA DELLA ROCCA 10 TORINO TEL. 011-0378308 VIETNAM MON AMOUR VIA ALESSANDRO PESTALOZZA 7 MILANO TEL. 02-70634614 LO CHEF GIAPPONESE TRAPIANTATO A MILANO, IL MAESTRO HARUO ICHIKAWA GUIDA CON LORENZO LAVEZZARI LE CUCINE DEL RISTORANTE IYO, FRESCO DI STELLA MICHELIN. SUA LA ZUPPA IDEATA PER I LETTORI DI REPUBBLICA I zuppa resta il pasto quotidiano del popolo. È un piatto unico e la bollitura di acqua e ingredienti garantisce la distruzione di germi e veleni. Cinesi, indiani e giapponesi da millenni si nutrono di zuppe lungo tutto il giorno, dalla prima colazione all’ultimo pasto del tardo pomeriggio. La frequenza del consumo di queste pietanze semplici è tale che ogni villaggio e ogni regione hanno creato migliaia di ricette, inscindibilmente legate al territorio. A differenza della Russia, dove la Solyanka a base di carne e il Borsch a base di barbabietola rossa dominano sempre uguali tra San Pietroburgo e Vladivostok, le zuppe asiatiche rivelano le sostanziali diversità di ogni luogo e l’ossessione collettiva per il cibo, superiore al culto di italiani e francesi. Le minestre, più di ogni altro piatto, esprimono l’anima contadina o pescatora della gente, educata a buttare in pentola ciò che la campagna o il mare offrono nelle diverse stagioni. Cucina economica, tutta di sostanza, ma affatto estranea alla raffinatezza dei palati più esigenti. Il luogo comune associa erroneamente la Cina al riso, più diffuso nel Sudest asiatico. A Pechino e nelle regioni del Nord, il pasto-simbolo è la ciotola di zuppa, quasi sempre arricchita con i tagliolini tirati a mano. La pasta si mangia con i bastoncini, succhiandola assieme agli altri ingredienti solidi. Più il risucchio è rumoroso, più i commensali dimostrano di gradire la ricetta. Il liquido si consuma alla fine, bevuto dalla tazza come fosse un tè bollente, o dosato con cucchiai curvi in porcellana. Nella capitale le dinastie imperiali hanno imposto ricche zuppe con carne di maiale e brodo di pollo, verdure e tofu, cavolo, germogli di bambù e zenzero. Lungo le regioni costiere, a Shanghai e a Guangzhou, i chioschi di strada non cessano di fumare a causa di pentoloni in cui bollono gamberetti, pesci e granchi, sempre abbinati a cipolle e aglio. Nelle occasioni speciali un vero culto, oggi contestato dagli amanti degli animali, è riservato alla pinna di squalo, al cetriolo di mare e alla tartaruga, considerati rimedi prodigiosi dalla medicina tradizionale. Nelle terre più povere dell’interno e del Sud, a partire dal Sichuan, dominano invece le infuocate zuppe di pollo, con peperoncino, funghi secchi, legumi e mais, spesso agrodolci con l’aggiunta di salsa di soia e cren verde. In Asia la cucina è sempre, prima di tutto, una farmacia che punta a sfamare, ma pure a curare. Le zuppe sono il farmaco per antonomasia e il piccante è proporzionale alla necessità di proteggere circolazione e intestino. Poche minestre al mondo sono complete come quella preferita anche da Mao Zedong, con pomodoro, maiale, soia, peperoncino e vermicelli: brucia da piangere, ma una tazza basta fino al giorno dopo. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 4 GENNAIO 2015 38 L’incontro. Combattenti LA MIA PROSSIMA OPERA SI CHIAMERÀ SONO ORMAI PERDUTO AL MONDO, COME UN FAMOSO LIEDER DI MAHLER STAVOLTA PARLERÒ DI ME, DELLA MIA FAMIGLIA: PER UN PO’ DI TEMPO BASTA CON LE DONNE CHE HANNO FATTO LA STORIA Figlia di un pittore, nata a Berlino, ha vissuto in Francia e a lungo anche in Italia. Ha iniziato come attrice ma presto è diventata una regista dura e coraggiosa. “Ingmar Bergman mi disse che voleva smettere di girare, ma vedendo il mio Anni di piombo aveva ritrovato la spinta per continuare”. Conserva ancora un legame forte con il nostro paese, anche se i suoi ultimi lavori hanno avuto maggior fortuna altrove: “La lo ascoltavo e pensavo lo dicesse per lusingarmi. Considero Bergman il mio da sempre, immenso, inarrivabile. Due anni più tardi, gli chiesero per il festival di Göteborg quali fossero i suoi dieci film preferiti. Tra Fellini e forza economica della Germa- maestro, Kurosawa mise, di nuovo, Anni di piombo». Protagonista del film era Barbara Sukowa (scopro che si pronuncia Sùkowa) e non si può parlare del cinema von Trotta senza parlare di questa attrice, che è parte di lei. «Abbiamo nia non suscita simpatia, ma della appena finito di girare il nostro settimo film insieme. Del resto anche Bergman lavorava sempre con gli stessi attori, Fellini aveva Mastroianni. Sono dedelle proiezioni. Eppure tra me e Barbara non è stato facile all’iforse non sono i tedeschi a esse- glinizio.alterInego, Anni di piombo lei si comportava in modo scostante. Era violenta, rabbiosa. Soltanto dopo ho capito che faceva così per via del suo personaggio. diventata una specie di terrorista, era diventata Gudrun Ensslin. Infatti re meno incisivi in campo cultu- Era quando abbiamo girato Rosa L. si è trasformata nella Luxemburg. Barbara Sukowa è una delle attrice più intelligenti che conosca. Non avrei potuto faArendt con nessun’altra. Quando si prepara, legge tutto quello rale: sono gli altri che hanno recheHannah ho letto io, e anche di più. In Rosa L. c’è un discorso contro la guerra, che io avevo trovato negli scritti politici della Luxemburg e l’avevo messo nella sceneggiatura. Barbara è venuta e mi ha detto: “Ne ho trovato un altro, semeno voglia di ascoltarci” condo me è più bello”. Ed era vero, così abbiamo usato quello che aveva tro- Margarethe von Trotta EL ENA ST AN C ANE LLI FIRENZE M ARGARETHE VON TROTTA HA UN LEGAME forte col nostro paese, par- la italiano molto bene, ha vissuto qui a lungo. «Ero a Roma anche il giorno della caduta del Muro, tanto per dire». È una donna bella e minuta. L’ho incontrata a Firenze, al Festival internazionale di cinema delle donne. In quell’occasione si è visto il suo ultimo film, Hannah Arendt, quasi inedito in Italia. «Una strana scelta della distribuzione», mi spiega. «È uscito soltanto per un giorno, il Giorno della memoria, l’anno scorso. Meglio così», ride, «ci hanno creduto così poco che per fortuna neanche l’hanno doppiato... almeno quello!». Ha ragione, sarebbe stata una barbarie. Barbara Sukowa, che interpreta la filosofa con superba intelligenza, parla in un americano molto sporcato dal tedesco. Così come la cerchia degli intellettuali suoi amici passa dall’una all’altra lingua, a seconda dell’intensità della conversazione. Hannah Arendt ha avuto successo ovunque, dal Festival di Toronto, dove è stato presentato, a tutti i paesi in cui è stato distribuito. Tranne che da noi, appunto. Figlia di un pittore, Alfred Roloff, la von Trotta è nata a Berlino durante la guerra, settantadue anni fa, e dopo aver studiato arte, germanistica e lingue romanze, si è trasferita a Parigi negli anni Sessanta. Ha iniziato a lavorare nel cinema come attrice, per Fassbinder e per Volker Schlöndorff, che poi sposerà. E insieme al quale dirigerà il suo primo film, Il caso Katharina Blum, tratto da un romanzo di Heinrich Böll. Nel 1981, quando esce Anni di piombo — il suo film che racconta la storia delle due sorelle, Christiane e Gudrun Ensslin, la terrorista morta nel 1977 nel carcere di Stammheim insieme agli altri componenti della banda Baader-Meinhof — diventa una regista di culto. «Ero in giuria a un fe- OGNI AUTORE HA UN SUO ALTER EGO E LA MIA È BARBARA SUKOWA. LEI DIVENTA LA PERSONA CHE INTERPRETA: QUANDO FECE LA TERRORISTA ENSSLIN ERA VIOLENTA CON TUTTI. SI PREPARA A FONDO E ALLA FINE NE SA ANCHE PIÙ DI ME stival», racconta. «Il presidente era Ingmar Bergman. Lui mi aveva voluto, insieme a Jeanne Moreau e Suso Cecchi d’Amico. Mi prese da parte e mi disse che qualche tempo prima aveva pensato di lasciare il cinema. Era stanco, demotivato, non gli piaceva più niente. Poi aveva visto Anni di piombo. Non solo lo aveva amato moltissimo, ma gli aveva dato il coraggio di continuare, l’entusiasmo per riprendere a lavorare. Quasi non ci credevo, vato lei. Quando hanno proiettato il film in Israele, durante questo discorso sulla pace la gente in sala ha iniziato ad applaudire. È stato incredibile: parole scritte contro la Prima guerra mondiale sembrava parlassero della loro situazione, di questi anni». E infatti la Sukowa per quell’interpretazione ha vinto la Palma d’oro a Cannes nell’86. Sono gli anni in cui la von Trotta vive nel nostro paese, anni di grandi accadimenti storici che non possono non influenzare la sua opera. Nel 1988 esce un film fascinoso girato a Pavia, Paura e amore. Scritto con Dacia Maraini, interpretato da Fanny Ardant, Greta Scacchi e Valeria Golino, tre cechoviane, malinconiche sorelle. «Lo aveva prodotto Angelo Rizzoli il quale era reduce dalle sue faccende giudiziarie. È stato il primo film che ha prodotto quando è uscito dal carcere. Mi chiesi perché in quella situazione volesse fare un film con una tedesca. Forse per tenersi un po’ in disparte, laterale rispetto alla realtà italiana. Non a caso il suo secondo film l’avrebbe poi fatto con Michalkov. Adesso penso che Rizzoli, in quegli anni, avesse paura dell’Italia, degli italiani. Avremmo dovuto fare un altro film insieme, ma lui ha avuto di nuovo problemi con la giustizia. Era il 1992, e l’Italia era sotto assedio. Dopo gli attentati in cui morirono Falcone e Borsellino, io e il mio compagno di allora (il produttore Felice Laudadio) ci chiedemmo cosa fare, come esprimere la nostra rabbia. Eravamo cineasti, e dunque avremmo fatto un film. Facemmo Il lungo silenzio, lavorando tutti gratis. Il film non è mai uscito. Era la storia di un magistrato ucciso dalla mafia e facemmo un’anteprima a Palermo. In un cinema, il Lux, che era già stato bruciato due volte dai mafiosi. Tra il pubblico c’era la vedova del giudice Terranova che mi aveva dato il suo testamento, perché lo usassi nel film. E la moglie di Bonsignore, un funzionario della Regione anche lui ucciso dalla mafia. Lei si è alzata in piedi e ha detto “mio marito non era giudice, era solo un impiegato normale ma è stato assassinato anche lui”. Poi si è guardata intorno e ha aggiunto “e tutti voi sapete chi l’ha ammazza- DOPO GLI ATTENTATI A FALCONE E BORSELLINO ESPRESSI LA MIA RABBIA CON IL LUNGO SILENZIO LAVORANDO GRATIS ALL’ANTEPRIMA DI PALERMO LE REAZIONI SPAVENTARONO TUTTI E IL FILM SPARÌ to”. La gente si è spaventata, così i gestori, i distributori. E il film è sparito. Il lungo silenzio è stato il mio ultimo progetto italiano. Sono tornata in Germania, e ho fatto un film sul Muro: La promessa. L’ho scritto insieme a Felice Laudadio e al mio amico Peter Schneider». Anche la mattina in cui cadde il Muro, Margarethe von Trotta era in Italia, a Roma nella sua casa di via del Pellegrino. «Qualche settimana prima avevo parlato con la mia cara amica Christa Wolf, la scrittrice scomparsa alcuni anni fa. Ci vedevamo ogni tanto, e parlavamo del nostro paese, del futuro, delle nostre speranze. Cinquant’anni, mi disse lei, non ci vorranno meno di cinquant’anni prima che il Muro possa essere abbattuto. Quella notte tra l’8 e il 9 novembre del 1989, mi addormentai ignara di tutto. La mattina comprai il giornale e quasi svenni. Poi sono scoppiata piangere». Si commuove ancora mentre racconta, le trema la voce. «Singhiozzavo, e la gente mi guardava, chiedevano se avessi bisogno di aiuto, forse pensavano che avessi delle terribili pene d’amore». Le chiedo del suo ultimo film, appena finito di montare, protagonista sempre Barbara Sukowa. È una biografia? «No, per un po’ basta con donne che hanno fatto la storia. Stavolta parlo di me, della mia famiglia. Si intitolerà Ich bin der Welt abhanden gekommen (Sono ormai perduto al mondo), come un famoso lieder di Mahler. Musicalmente fratello dell’adagetto della quinta Sinfonia, quello usato da Visconti in Morte a Venezia». Ancora un riferimento, l’ennesimo, all’Italia. Non le sembra che, in corrispondenza dell’esplosione economica, la Germania abbia perso un po’ della sua potenza culturale? Come se lo spiega? «Mi sa che esser forti economicamente non susciti gran simpatia. Ma forse non siamo noi a essere meno incisivi, sono gli altri ad aver meno voglia di ascoltarci». © RIPRODUZIONE RISERVATA