Una voce che risuona dal roveto ardente di Gianfranco Ravasi Il giorno precedente la sua morte, il 5 febbraio 1992, nella clinica milanese “San Pio X” dei Camilliani, pur in mezzo ai dolori atroci non più controllabili dalle terapie, aveva ancora continuato a dedicarsi a un’ulteriore ripresa del Salterio (era giunto al Salmo 13: “Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi…?”). Due giorni prima, il 4 febbraio, aveva concelebrato la Messa domenicale della Giornata della Vita, trasmessa in televisione proprio dalla clinica, e nel pomeriggio l’avevo sentito telefonicamente per l’ultima volta. Si chiudeva, così, a 76 anni la parabola dell’esistenza e della testimonianza del frate servita, poeta, pubblicista e predicatore p. David M. Turoldo. A distanza di anni, come è attestato dai suoi libri sempre riediti (penso in particolare ai bellissimi Canti ultimi e alla versione del Salterio Lungo i fiumi…), la sua figura incide ancora nella memoria ma anche nella coscienza di molti. Cultore sensibilissimo e passionale dell’amicizia, p. David può essere evocato da molti proprio sotto questo profilo. Ed è su questo percorso che anch’io mi vorrei innanzitutto avviare, perché permette di individuare aspetti rilevanti della sua storia personale e letteraria. La mia amicizia con lui era nata in seguito alla pubblicazione negli anni 19821984 di un mio sterminato commentario ai Salmi: tre volumi di oltre tremila pagine che Turoldo aveva studiato, riletto e approfondito. Per questo mi aveva cercato e aveva iniziato una consuetudine durata poi per anni. Nel pomeriggio di ogni domenica scendeva dalla sua abbazia di Sotto il Monte, il luogo di nascita di Giovanni XXIII, a casa dei miei familiari a Osnago (Lecco), ove io mi recavo dal Seminario in cui insegnavo per il mio impegno pastorale del fine settimana. Ed era in 6 p. Turoldo – Sullo sfondo l’Abbazia di S. Egidio di Fontanella (BG) (Archivio SDM di Fontanella) quelle ore che parlavamo a lungo, che egli mi leggeva i suoi testi, che accoglieva con un’umiltà assoluta anche le mie riserve, che ci si inoltrava sui sentieri di altri libri biblici che io allora stavo commentando come Qohelet e il Cantico, destinati a diventare materia di altre sue riflessioni o poesie. Di quei pomeriggi, che mi resero p. David amico e interlocutore intimo, c’è una testimonianza curiosa che è anche la “sorpresa” estrema che egli volle farmi. Infatti alla sua ardua opera postuma, edita da Rizzoli nel 1992, Il dramma è Dio (ma il titolo originale era Il dramma è di Dio), aveva apposto una lettera a me destinata ma che aveva voluto rimanesse segreta fino al momento della pubblicazione del libro. La lessi, perciò, quando ricevetti l’opera stampata ed egli era morto da un paio di mesi. Eccone il testo, datato “Festa dell’Ascensione 1991”. «Gianfranco, mi perdonerai di chiamarti sempre così: amico delle mie - delle nostre - domeniche. E’ per riconoscenza di questa amicizia e di quei nostri conversari, nell’atrio della tua casa, smentendo finnegans che quella sia l’ora del “demone meridiano” (tanta invece era la serenità e la gioia di quei nostri amati colloqui); è per sdebitarmi, dico, del dono di una così ricca amicizia che ora ti dedico questo lavoro… convinto che mi perdonerai di aver osato apparire come un invasore del tuo campo biblico. Ma tu sai che non è vero. Tu più di altri sai con quanto timore e tremore mi accosto a questi abissi; e quanto mi conforta il rispetto verso di voi, insostituibili interpreti. E’ poi noto che scrivo soprattutto per gli amici…; per gli amici antichi, quelli della resistenza per l’“Uomo”: presenze che sempre evoco nelle mie dediche, al fine di continuare appunto a “resistere”». Da queste righe emerge in modo nitido il nesso intimo tra amicizia e fede, tra dialogo e ricerca sulla Parola di Dio, tra poesia e confessione. Proprio come aveva detto in modo lapidario il suo amico Carlo Bo: «Padre David ha avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. Dandogli la fede, gli ha imposto di cantarla tutti i giorni». E si potrebbe aggiungere “in tutti i luoghi”, dalle zolle della sua nativa Coderno in Friuli fino nei sotterranei della lotta antifascista, tra gli echi delle volte del Duomo di Milano ma anche nella familiarità calda di Nomadelfia, dall’amatissimo ritiro per nulla eremitico di Sotto il Monte alle sale, alle aule, alle piazze vocianti, da un lontano e sterminato Canada fino ai piccoli centri, fino appunto al villaggio bergamasco o pugliese. La sua figura imponente e sanguigna, dalla quale fuoriusciva una voce da cattedrale o da deserto, vanamente temperata dall’invincibile sorriso degli occhi chiari, aveva proprio nella Parola biblica il suo alimento vitale. «Servo e ministro sono della Parola», si era autodefinito, consapevole che ormai tutto il suo essere si era trasformato in “una conchiglia ripiena” dell’eco di quella parola infinita come il mare. A lui era profondamente caro il verso di un altro suo amico, unito nella fede e nella poesia, Clemente Rebora: «La Parola zittì chiacchiere mie». Per questo un suo affettuoso ammiratore - interamente ricambiato - come il card. Carlo M. Martini, nella presentazione del volume Opere e giorni del Signore, aveva comparato p. Turoldo a Efrem Siro e a Romano il Melode, straordinari autori di omelie bibliche cantate. Forse bisognerebbe, finalmente, in modo sistematico rileggere l’immensa produzione poetica turoldiana proprio inseguendone la filigrana biblica. Per quel poco che ho potuto annotare nelle mie letture, il flusso letterario di questo «cantore delle dense ore di Dio» copre l’intera sequenza delle Sacre Scritture, dalla Genesi, con l’irrompere della creazione dal grembo del nulla, fino all’Apocalisse e al suo sospiro finale del Maranathà, «Vieni Signore», passando soprattutto attraverso l’amatissimo Salterio. La pagina turoldiana è come un intarsio di citazioni, allusioni, ammiccamenti, evocazioni bibliche: il suo è lo spartito della Parola suprema orchestrata in parole. Per usare liberamente un’immagine dello scrittore mistico ebreo Abraham J. Heschel, potremmo dire che ogni poesia di p. David è da esaminare come una foglia alla trasparenza della luce solare: se il tessuto connettivo è la storia e la vicenda personale, il reticolo che sostiene, alimenta e impedisce ogni raggrinzimento o dissolvimento Concelebrazione a S. Egidio - p. David - Mons. Ravasi - p. De Piaz ed altri sacerdoti (Archivio SDM di Fontanella) è la Parola divina. Questo intreccio tra Parola e parole, tra storia divina e storia umana, fu sempre anche alla radice del suo impegno nell’incarnazione del cristianesimo, che si attestava spesso sulle frontiere più roventi o nei territori più disabitati da presenze religiose. I rischi di queste incursioni erano evidenti e sono a tutti noti. Ma p. Turoldo ha sempre tenuto alta la fiaccola della speranza cristiana, convinto che Dio è con noi «vagabondo/ a camminare sulle strade,/ a cantare con noi/ i salmi del deserto». Convinto anche che la meta ultima della storia è trascendente, là dove «le lettere del divino Alfabeto/ saranno in fiore per il Cantico Nuovo». E nei nostri giorni così superficiali è ancor più necessaria la voce di Turoldo che inquieta la pigra pace delle coscienze col fuoco di quell’Alfabeto che risuona dal roveto ardente. Proprio per questo vorrei ora brevemente e quasi in modo “impressionistico” ripercorrere un filo ideale che si dipana nella testimonianza biografica, poetica e religiosa di p. David. «La vita che mi hai ridato/ ora te la rendo/ nel canto». Con questa sigla autobiografica, egli aveva firmato i citati Canti ultimi, la raccolta di liriche - in assoluto tra le più alte del suo lungo itinerario poetico - generata da un lungo inverno di sofferenza, culminato nella morte. Per decenni Turoldo ha cantato, attuando inconsciamente un motto della tradizione giudaica mistica che invitava il fedele a “un canto ogni giorno, a un canto per ogni giorno”. Dell’uomo e credente Turoldo tutto possiamo sapere attraverso la continua confessione delle sue liriche, disponibili nel filo d’oro dispiegato di O sensi miei…, una vasta raccolta antologica da lui stesso elaborata sulla sua Canti Ultimi – Lungo i fiumi – O sensi miei Turoldo 7 p. David al tavolo nel suo studio (Archivio SDM di Fontanella) immensa produzione poetica dal 1948 al 1988 (Rizzoli, in molteplici edizioni). E’ facile sentire nei suoi versi il sapore delle zolle friulane delle sue origini e sognare coi suoi occhi infantili e chiari davanti all’affresco del sacrificio di Isacco dipinto nella parrocchiale della sua piccola Coderno, il villaggio in cui era nato nel 1916. Oppure, percorrendo soprattutto le strofe della maturità, intuire il rigore magmatico (un ossimoro adatto a descrivere la sua poetica) della sua mente addestrata in giovinezza alla filosofia, alla scuola del filosofo Gustavo Bontadini. E’ difficile restare indifferenti al suo delicato amore per la Vergine Maria, tra i cui Serviti aveva scelto la sua strada religiosa. Oppure non fremere con lui nella lotta antifascista, allorché con gli amici stendeva le pagine di quel foglio clandestino (già evocato) dal titolo emblematico “L’Uomo”, o ancora non partecipare al suo sdegno per l’ingiustizia, rifiutando ogni genuflessione nei confronti del potere. Nelle sue righe poetiche disseminate in anni e anni di attività si riverberano i bagliori del suo costante schierarsi, magari sporcandosi le mani e la fama nel “grumo nero” della storia, alla ricerca non certo di un consenso né di un puro e semplice dissenso ma solo di un senso, come padre David amava ripetere a suggello di quegli anni. Il suo è stato sempre il desiderio di urlare e di pregare anche “da una casa 8 di fango”, come faceva il suo Giobbe del 1951. E’ forse abusato e inesatto parlare di “profezia” per definire il genere letterario e spirituale turoldiano. Non lo è, però, nel senso genuino del termine. Il profeta non è un preveggente né tanto meno un elaboratore di oroscopi per la storia, è invece un uomo di fiera contemporaneità. Ed è proprio in questa attenzione fremente ai segni del tempo che egli ha anticipato il futuro, i suoi segni, le sue epifanie celate già nell’opacità del presente. In questa luce si può iscrivere anche i testi di Turoldo al genere “profetico”. E nell’interno di questa passione spirituale e umana appare anche il silenzio di Dio, anzi, il misterioso intreccio-incontro tra Dio e il nulla. Esso scompagina l’enfasi della voce, spettina per l’ultima volta i pensieri e i versi di Turoldo, quelli appunto dei Canti ultimi: «Dio e il Nulla - se pure l’uno dall’altro si dissocia…/ Tu non puoi non essere/ Tu devi essere,/ pure se il Nulla è il tuo oceano». Questo groviglio di luce e di tenebra ha la sua raffigurazione emblematica nel Cristo crocifisso («Fede vera è il venerdì santo/ quando Tu non c’eri lassù») e padre David ne è stato attratto come da un gorgo avvinghiante. Già lo era stato nelle liriche precedenti. «E Tu, Tu, o Assente, mia lontanissima sponda… Mio Dio assente lontano… Ma Lui, Lui sempre lontano, invisibile… La tua assenza ci desola… All’incontro cer- finnegans cato nessuno giunge… Notte fonda, notte oscura ci fascia - nera sindone - se tu non accendi il tuo lume, Signore!… Ma tu, Signore, sei bianca statua di marmo nella notte… Un Dio che pena nel cuore dell’uomo…». Negli ultimi scritti, però, Turoldo si mette in viaggio verso questa Gerusalemme capovolta in modo deciso, pellegrino del Nulla e del Tutto. Passa in mezzo a silenzi astrali, scivola nel “cratere” del Dio incandescente, naviga «nei fiordi della speranza» e percorre «tunnel sottomarini» in cui baluginano luci giallastre, inseguito sempre dallo sguardo di Dio «come di un falco appollaiato sul nido». E alla frontiera tra essere e nulla Turoldo incontra Dio, come Giacobbe dopo la lotta al fiume Jabbok o come Giobbe dopo il lungo grido tenebroso. Su quella linea di demarcazione non c’è un Dio imperatore impassibile e onnipotente, bensì un Dio sofferente, perché «ogni creatura ti muore tra le braccia nel mentre che si forma e si fiorisce». Un Dio che, nel creare, ha sperimentato il Nulla, il suo antipodo, «Tua e nostra frontiera», e che in Cristo ne ha bevuto il calice di morte. Card. Gianfranco Ravasi