"PETROLIERA TORREY CANYON (ISOLE SCILLY 1967)”
A cura di Stefania ASTROLOGO
A.A. 2009-2010
PETROLIO- Cenni Storici
Il petrolio (dal greco πέτρα, "roccia", e έλαιο, "olio"), anche detto oro
nero ha origini lontane per questo ha accompagnato l’uomo nel corso della
storia. La parola greca ‘naphtha’ fu utilizzata inizialmente per indicare il
fiammeggiare tipico delle emanazioni petrolifere.
Sin dall’antichità i popoli utilizzavano i giacimenti superficiali per
produrre medicinali e bitume, per alimentare le lampade e in ultimo non
mancarono anche gli usi bellici.
Il primo a menzionarlo fu Marco Polo che, ne Il Milione, parla del
petrolio con le seguenti parole:
«Ancor vi dico che in questa Grande Erminia (Armenia) è
l'arca di Noè in su una grande montagna, ne le confine di mezzodie
in verso il levante, presso al reame che si chiama Mosul, che sono
cristiani, che sono iacopini e nestarini (nestoriani), delli quali
diremo inanzi. Di verso tramontana confina con Giorgens (l'attuale
Georgia), e in queste confine è una fontana, ove surge tanto olio e
in tanta abondanza che 100 navi se ne caricherebboro a la volta.
Ma non è buono a mangiare, ma sí da ardere, e buono da rogna
ed'altre cose; e per tutta quella contrada non s'arde altr'olio.»
Nel Rinascimento si iniziò a distillare il greggio nei giacimenti
superficiali per ottenere prodotti medicinali, ma il vero e proprio sfruttamento
ebbe inizio solo nel XIX secolo. In particolare nel 1852 il fisico geologo
canadese Abraham Gessiner brevettò un procedimento per ricavare Kerosene
attraverso la distillazione frazionata. I primi pozzi petroliferi veri e propri
furono trivellati in Germania, ma l’avvenimento che riscosse più successo a
livello mondiale fu la trivellazione di un pozzo nei pressi di Oil Creeck in
Pennsylvania per opera del colonnello Drake il quale era intenzionato a
trovare una “sacca madre” da cui dovevano provenire tutte le infiltrazioni
dell’occidente del paese. Drake segnò l'inizio della moderna industria
petrolifera. Presto il greggio suscitò l'interesse della comunità scientifica e
furono sviluppate ipotesi plausibili riguardo alla sua formazione.
Con l'invenzione del motore a combustione interna e con il crescente
fabbisogno energetico causato dallo scoppio della prima guerra mondiale,
l'industria petrolifera divenne una delle basi della moderna società industriale.
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L’industria petrolifera ebbe un notevole sviluppo soprattutto negli anni a
meta del XX secolo. Sebbene negli anni cinquanta il carbone fosse ancora il
combustibile più usato nel mondo, il petrolio cominciò a soppiantarlo. Agli
inizi del ventunesimo secolo circa, il 90% del fabbisogno di combustibile è
coperto dal petrolio. In conseguenza della crisi energetica del 1973 e della
crisi energetica del 1979 si è sollevato l'interesse nella pubblica opinione sui
livelli delle scorte di petrolio.
Studi recenti hanno come oggetto d’indagine fonti alternative e
rinnovabili in grado di rimpiazzare il petrolio che, come è ben noto è una
risorsa limitata e destinata ad esaurirsi (almeno come risorsa economicamente
sfruttabile).
Chimica del petrolio
Il petrolio è il principale combustibile fossile liquido. E' costituito da una
miscela d’idrocarburi (molecole costituite da carbonio e idrogeno) che
derivano dalla decomposizione in ambiente marino, al di sotto delle coperture
sedimentarie, di organismi animali e vegetali. Poiché i tempi naturali di
formazione del petrolio sono di decine di milioni d’anni, e lo sfruttamento è
invece rapidissimo, questa fonte è da considerarsi praticamente non
rinnovabile.
Gli idrocarburi sono composti chimici formati esclusivamente da
carbonio e idrogeno e, in base alle proporzioni tra questi due elementi e alla
struttura molecolare che formano, gli idrocarburi si dividono in diverse serie:
 Paraffine (o alcani). Questi idrocarburi sono detti saturi in quanto le
loro molecole sono incapaci di incorporare altri atomi di idrogeno dal
momento che la natura dei loro legami è di tipo semplice. Questo tipo
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d’idrocarburo forma
catene
lineari,
ramificate o degli
anelli. La più semplice
delle paraffine è il
metano (CH4) che è il
principale gas naturale,
ma vi è anche l'etano
(C2H6), il propano
(C3H8) e il butano
(C4H10). Il propano e il
butano possono essere
liquefatti
a
basse
pressioni e vanno a formare quello che è chiamato GPL (Gas Pressure
Low). Le paraffine con molecole contenenti da 5 a 15 atomi di C sono
liquide a pressioni e temperature ambiente. Al di sopra di 15 atomi
sono estremamente viscose se non addirittura solide.
 idrocarburi non saturi: gli atomi di carbonio hanno almeno un
legame doppio. Tra queste possiamo avere l'isoprene (gruppo
caratteristico senza anelli) con un gruppo metilico (CH3), di cui
fa parte il fitolo che costituisce una catena laterale della molecola
della clorofilla.
 idrocarburi aromatici: sono caratterizzati dalla presenza di un
anello aromatico che permette solo reazioni di sostituzione di
uno o più atomi di idrogeno con atomi o gruppi atomici come gli
alogeni, - NO2, -SO3H, radicali alchilici e arilici.
Una caratteristica molto
importante del petrolio è la sua
densità che dipende dalla quantità
e qualità dei legami degli atomi di
carbonio. Normalmente gli olii
sono più leggeri dell'acqua (quindi
galleggiano), ma non è sempre
così: vi sono anche olii che
affondano.
La densità si misura in gradi
API (American Petroleum Institute) e si definiscono olii pesanti quelli con un
API minore di 25 (peso specifico superiore a 0,9) e olii leggeri con API
maggiore di 40 (peso specifico minore di 0,83) perfetti per fare la benzina.
Solitamente negli idrocarburi sono anche presenti i composti NSO così
chiamati poiché nella molecola sono presenti uno o più eteroatomi, ossia
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atomi diversi dal carbonio e dall'idrogeno, e solitamente sono Azoto (N),
Zolfo (S) e Ossigeno(O). Gli esempi più diffusi di questo tipo di idrocarburi
sono le resine e gli asfalteni.
La FORMAZIONE DEL PETROLIO è dovuta alla decomposizione di
sostanze organiche, provenienti da organismi acquatici del regno animale e
vegetale, a opera di speciali batteri. Dal fango formatosi in seguito alla
putrefazione di tali sostanze, dopo un lavoro di secoli, in condizioni di
temperatura e pressione elevate, ebbe origine il petrolio.
La maggiore o minore facilità d’estrazione dipende dal grado di fluidità
del greggio e dalla permeabilità della roccia porosa che lo racchiude. La
pressione che permette al petrolio di risalire in superficie è data dalla presenza
in soluzione d’idrocarburi gassosi: una volta effettuata la trivellazione della
roccia, l’azione si distribuisce in tutte le direzioni e non solo verso l'alto,
determinando la cosiddetta perdita di carico, che è inevitabile. Una volta
esaurito il giacimento, resta una roccia spugnosa vuota. Un tempo si
recuperava solo il petrolio che usciva dal sottosuolo spontaneamente, invece
oggi si procede al recupero secondario mediante i sistemi di gas injection
oppure di water injection che consistono nel pompaggio sotto terra di gas o
acqua, allo scopo di spingere verso l'alto il greggio rimasto nella roccia
spugnosa che ormai è privo di pressione.
Il petrolio greggio estratto non è immediatamente utilizzabile: deve
essere deacquificato mediante riscaldamento, purificato per centrifugazione,
separato nei suoi componenti principali (gas, benzina, gasolio, nafta, oli
pesanti) mediante distillazione frazionata (topping) e trattato chimicamente
per aumentarne il pregio (processi di cracking, di reforming e di
alchilazione).
Tutte queste pratiche costituiscono il processo di raffinazione del
petrolio.
I LUOGHI IN CUI SI ACCUMULA IL PETROLIO SONO MOLTI.
L’anticlinale è una piega delle rocce dove gli strati sono convessi verso
l’alto. In questa struttura geologica si trova l’acqua che satura tutti i pori
liberi, gli idrocarburi liquidi ed il gas accumulatosi all’apice della piega. La
piega ad angolo è uno strato permeabile che termina al di sotto di uno
impermeabile e permette l’accumulo di idrocarburi.
La faglia è una frattura nelle rocce che ha portato uno strato petrolifero
permeabile a contatto con uno impermeabile. Questo permette l’accumulo
d’idrocarburi. Il diapiro è un’intrusione di sale che permette l’accumulo di
petrolio in uno strato permeabile, in modo da bloccarne la risalita.
L’ESTRAZIONE DEL PETROLIO GREZZO (o semplicemente del
grezzo) si effettua mediante trivellazione. All’inizio, la pressione dei gas
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interni è sufficiente a portare in superficie il petrolio. Nei casi meno
favorevoli o alla fine dell’estrazione è invece utile l’utilizzo di pompe. Un
impianto di estrazione è costituito da un incastellatura meccanica chiamata
derrick che sostiene una serie di tubazioni di acciaio avvitate l’una sull’altra,
con uno scalpello all’estremità inferiore e una testa rotante a quella superiore.
Questo insieme di tubi, detto treno di perforazione, è internamente cavo e
viene fatto circolare con pompe e fango liquido. Esso torna in superficie
passando dall’intercapedine tra la parete del pozzo e il treno stesso. Il fango
serve per sostenere le pareti del pozzo, lubrificare la testa di perforazione ed
evitare la fuoriuscita del petrolio. Appena la trivella ha raggiunto una certa
profondità, si cementa alle pareti un tubo d’acciaio sul quale si applica un
sistema di saracinesche di tenuta e di prelevamento
Disastri petroliferi
Col termine “inquinamento da petrolio”, si intende la contaminazione
dell'ambiente (del suolo, dell'aria e soprattutto dell'acqua) causata da ogni
genere di idrocarburi liquidi, ovvero dal petrolio greggio o dai suoi derivati.
L'INQUINAMENTO DA IDROCARBURI PUÒ ESSERE SISTEMATICO O
ACCIDENTALE.
Quello accidentale è prodotto, nella maggior parte dei casi, dal riversamento
in mare di ingenti quantità
di petrolio da petroliere
coinvolte in incidenti di
navigazione
(collisioni,
incaglia-menti,
incendi,
esplosio-ni, naufragi) ed è
causa di considerevoli
danni
agli
ecosistemi
marini e litorali.
Tra gli incidenti più gravi verificatisi negli ultimi decenni si ricordano
quello della Torrey Canyon, che nel marzo del 1967 riversò nelle acque al
largo della Cornovaglia 860.000 barili (107.000 tonnellate) di petrolio, e
quello della Exxon Valdez, che nel marzo del 1989 contaminò l'intera baia di
Prince William, nel golfo dell'Alaska, con ben 240.000 barili (38.000
tonnellate) di greggio, causando la morte di almeno 25.000 uccelli, più di
tremila fra foche e lontre, e 22 balene.
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Altri naufragi tristemente memorabili furono quello della Erika, nel
dicembre 1999, che riversò sulle coste della Bretagna 13.000 tonnellate di
greggio; quello della Jessica, verificatosi nel gennaio 2002 davanti alle isole
Galápagos, che mise a rischio la preziosa oasi naturale e costrinse le autorità
ecuadoriane a evacuare gli animali e dichiarare lo stato d’emergenza; quello
della Prestige, che nel novembre del 2002 si spaccò in due tronconi,
invadendo le coste spagnole della Galizia con 60.000 tonnellate di petrolio.
Il più grave in assoluto fu, tuttavia, quello verificatosi nel 1979 al largo
di Trinidad e Tobago: la collisione di due superpetroliere, la Aegean Captain
e l'Atlantic Empress, provocò la fuoriuscita di circa 2.160.000 barili (270.000
tonnellate) di petrolio. Da ricordare anche l’incidente della Haven, che
nell’aprile 1991 scaricò al largo di Genova 50.000 tonnellate di greggio.
Solo il 10% degli idrocarburi che contaminano i mari proviene, tuttavia,
da riversamenti accidentali.
Il resto proviene da fonti croniche, quali la ricaduta di particelle
inquinanti dall'atmosfera, infiltrazioni naturali, dilavamento degli oli minerali
dispersi nell'ambiente, perdite di raffinerie o di impianti di trivellazione su
piattaforme in mare aperto e, soprattutto, lo scarico a mare di acque di zavorra
da parte di navi cisterna e petroliere.
A causa del sabotaggio degli impianti petroliferi, durante la guerra del
Golfo, nel 1991, furono riversate nel golfo Persico 460.000 tonnellate di
greggio; sempre nel golfo Persico, nel 1983, si andarono a riversare 540.000
tonnellate di greggio fuoriuscite dalla piattaforma petrolifera Nowruz (il più
grave incidente mai occorso a una piattaforma).
Il disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon
è stato uno sversamento massivo di petrolio nelle acque del Golfo del Messico
in seguito a un incidente riguardante il Pozzo Macondo, posto a 400 m di
profondità. Durato 86 giorni, Lo sversamento è iniziato il 20 aprile 2010 ed è
terminato 86 giorni più tardi, il 15 luglio 2010, con milioni di barili di petrolio
che ancora galleggiano sulle acque di fronte a Luisiana, Mississippi, Alabama
e Florida, oltre alla frazione più pesante del petrolio che ha formato ammassi
chilometrici sul fondale marino.
È IL DISASTRO AMBIENTALE PIÙ GRAVE DELLA STORIA
AMERICANA, AVENDO SUPERATO PER ENTITÀ QUELLO DELLA
PETROLIERA EXXON VALDEZ NEL 1989.
La fonte principale dell'inquinamento marino da idrocarburi (20%
dell'inquinamento totale) rimane, tuttavia, lo scarico in mare di acque
contaminate nel corso di OPERAZIONI DI LAVAGGIO DELLE CISTERNE.
Una volta consegnato il proprio carico alle raffinerie, le petroliere pompano
nelle cisterne acqua che serve da zavorra per il viaggio di ritorno e che viene
scaricata in mare prima di giungere ai terminali di carico, contribuendo, così,
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a produrre un tipo di inquinamento sistematico, o cronico, spesso molto più
grave di quello accidentale. I grumi di catrame che si depositano sulle spiagge
nelle località balneari derivano perlopiù dai residui contenuti nelle acque di
zavorra scaricate in mare. L'IMPIEGO DI QUESTA TECNICA DI
LAVAGGIO È STATO LIMITATO, A PARTIRE DAGLI ANNI SETTANTA,
DA UNA SERIE DI CONVENZIONI INTERNAZIONALI, CHE HANNO
IMPOSTO LA REALIZZAZIONE DI PETROLIERE PROGETTATE IN
MODO TALE DA RENDERE MINIMA LA FUORIUSCITA DI GREGGIO IN
CASO DI INCIDENTE, L'INSTALLAZIONE A BORDO DI SISTEMI PER LA
SEPARAZIONE DEI RESIDUI DI PETROLIO DALLE ACQUE DI
ZAVORRA E DI LAVAGGIO POMPATE IN MARE, L'ADOZIONE DI
DISPOSITIVI PER IL CONTROLLO DEL GRADO DI INQUINAMENTO
DELLE ACQUE DI ZAVORRA E L'INSTALLAZIONE DI IMPIANTI PER LA
RACCOLTA E IL TRATTAMENTO DELLE ACQUE CONTAMINATE
PRESSO I TERMINALI DI CARICO DEL GREGGIO E I PORTI DI SCALO.
IL CASO TORREY CANYON
La Torrey Canyon era una nave cisterna capace di contenere un carico
pari a 120 mila tonnellate di petrolio greggio, che si arenò nei pressi della
costa occidentale della Cornovaglia nel marzo 1967, causando il primo
rilevante disastro ambientale dovuto allo sversamento in mare di grandi
quantità di petrolio.
La nave, di proprietà della “Barracuda Corporation” (società
californiana istituita dal British Petroleum) era lunga 974.4 piedi (297 metri) e
larga 125.4 piedi (38.2 metri).
Lasciò la raffineria del “Kuwait National Petroleum” per l’ultima volta
il 19 febbraio con il massimo carico di petrolio e raggiunse le isole Canarie il
15 marzo e da qui si diresse verso Milford Haven
Il 18 marzo 1967 a causa di un errore di navigazione, la Torrey Canyon
urtò la nave Pollard’s Rock nella scogliera di Seven Stones tra l’isola
principale della Cornovaglia e le isole Scilly.
Un’inchiesta in Liberia (paese in cui la nave era registrata) ha
riconosciuto nel capitano Pastrengo Rugiadi il responsabile in quanto prese
una scorciatoia per guadagnare tempo durante il percorso per raggiungere la
meta. Fu il primo grande spargimento di petrolio. Vennero riversati in mare
860.000 barili di greggio che corrispondono a circa 107.000 tonnellate. Un
profilo adeguato di come fronteggiare un eventuale incidente era stato
rilasciato dalle autorità locali negli anni precedenti, ma fu apparentemente
ignorato ed emerse che non era stato stilato nessun piano di soccorso. Inoltre
la nave era dotata solo di una carta nautica in scala ridotta e non di un più
accurato navigatore.
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Tentativi infruttuosi furono effettuati per mantenere a galla la nave al
largo della scogliera, e un membro del team di salvataggio olandese perse la
vita. In seguito furono utilizzati detergenti specifici dai vascelli della Royal
Navy per arginare lo spargimento della macchia. Per quanto riguarda le
misure
adottate
dal
governo
britannico,
Harold Wilson convocò
un meeting nel ‘Royal
Naval
Air
Station
Culdrose’ con i suoi
ministri, nel quale venne
deliberata la decisione di
incendiare il restante
petrolio per evitare che il
danno peggiorasse.
Pertanto il 28
marzo venne approvato
il progetto “Blackburn
Buccaneers” per sganciare 42 mila bombe
sulla nave. Tuttavia, la
marea eccezionalmente
alta spense l'incendio e
ci vollero altri attacchi
via mare per bruciare l'olio. Relativamente ai danni provocati da questo
disastro è possibile affermare che circa 80 Km della costa francese e 190 Km
di quella della Cornovaglia vennero contaminati. Vennero uccisi 15.000
uccelli marini insieme a molte altre
specie marine; basti pensare che
persero la vita tutti i pesci presenti
nell’arco di 75 miglia.
Paradossalmente il disastro
ambientale fu aggravato ulteriormente
dall’uso massiccio dei cosiddetti
detergenti.
I suddetti erano stati utilizzati
fino ad allora per pulire le superfici
dei motori della sala macchine, con
nessuna preoccupazione per la
tossicità dei loro componenti, e molti
osservatori ritenevano che fossero
ufficialmente denominati “detersivi”
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piuttosto che “solventi/emulsionanti”. Circa 42 navi rilasciarono più di 10mila
tonnellate di questa sostanza sulla macchia di petrolio fluttuante e si
occuparono di quello arenato sulle spiagge limitrofe.
In Cornovaglia furono utilizzati male; a Seven Cove (spiaggia
pesantemente inquinata) i Bulldozer raccolsero le massive quantità di
detergente che si erano sparse nella spiaggia, sotterrando il petrolio che
permase nel litorale per molti anni successivi all’accaduto. Il governo inglese
è stato fortemente criticato per come ha affrontato l’intera vicenda.
Anche la RAF e la Royal Navy si dimostrarono goffe nei loro
interventi; su 42 bombe lanciate, il 25% mancò il bersaglio fermo.
Per giustificare il proprio comportamento, per giustificare il lancio di
bombe, le autorità inglesi fecero riferimento allo stato di necessità, che ne
esclude l'illecito in presenza di grave pericolo per lo Stato nel suo complesso,
sempre che l'atto sia l'unico in grado di scongiurare il pericolo, non arrechi
danni seri ad un altro stato e che il pericolo stesso non sia stato causato dalla
condotta colpevole dello Stato.
Se pur gli esiti sono stati catastrofici, il disastro ha portato cambiamenti
rilevanti nelle disposizioni internazionali. Ne sono testimoni il ‘Civil Liability
Convention’ nel 1969 che impose una precisa responsabilità ai proprietari
delle navi e il ‘Convegno Internazionale per la prevenzione dell’inquinamento
causato da navi’ del 1973.
Conseguenze e possibili soluzioni
Il petrolio scaricato in mare compromette gravemente l'ambiente
marino. Infatti il petrolio ha un peso specifico minore dell'acqua, per cui
inizialmente forma una pellicola impermeabile all'ossigeno sopra il pelo
libero dell'acqua, causando, oltre agli evidenti danni per fenomeni fisici e
tossici diretti alla macro-fauna, una condizione di anaerobiosi che uccide il
plancton. La successiva precipitazione sul fondale replica l'effetto sugli
organismi bentonici. La bonifica dell'ambiente danneggiato richiede mesi o
anni. Galleggiando sull'acqua, il greggio si allarga rapidamente in un'ampia
chiazza, disponendosi in strati di vario spessore, che le correnti e i venti
trasportano a grandi distanze e dividono in "banchi", disposti parallelamente
alla direzione dei venti prevalenti.
Le frazioni più volatili del petrolio evaporano nel giro di pochi giorni,
perdendo in poche ore una notevole porzione della propria massa. Alcune
componenti penetrano negli strati superiori dell'acqua, dove producono effetti
molto nocivi sugli organismi marini e lentamente vengono ossidate per via
biochimica a opera di batteri, funghi e alghe. Le frazioni più pesanti vagano,
invece, sulla superficie del mare, fino a formare grumi difficilmente
degradabili che affondano lentamente fino a raggiungere il fondo marino.
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I tempi richiesti da questo processo di degradazione variano a seconda
delle condizioni del mare, delle condizioni meteorologiche, della temperatura
e del tipo di inquinante.
Quando, nel gennaio del 1993, la petroliera Braer fece naufragio al
largo delle isole Shetland, le condizioni meteorologiche (forti venti spiravano
da terra verso il mare aperto), quelle del mare (burrascoso) e il particolare tipo
di petrolio trasportato (relativamente leggero) favorirono la dispersione di
680.000 barili di greggio, cosicché solo un'area molto localizzata delle coste
subì danni di una certa rilevanza (a essere danneggiati furono, perlopiù,
alcune acquacolture e le popolazioni locali di uccelli marini).
Il petrolio ha EFFETTI DANNOSI SUGLI ANIMALI che si immergono
in queste perdite delle navi petrolifere. Negli uccelli il petrolio penetra nel
piumaggio, riducendo la capacità di isolante termico (rendendo gli animali
vulnerabili alle escursioni termiche ambientali) e rendendo le piume inadatte
al nuoto e al volo, per cui gli uccelli non hanno la possibilità di procacciarsi il
cibo e di fuggire dai predatori. L'istinto degli uccelli li porta a pulirsi il
piumaggio con l'uso del becco, ma in questa maniera ingeriscono il petrolio,
con effetti nocivi per i reni, il fegato e l'apparato digerente; questi ultimi
effetti all'organismo, assieme all'incapacità di procurarsi il cibo, porta alla
disidratazione e a squilibri nel metabolismo. A questi disturbi possono
aggiungersi alterazioni ormonali (ad esempio rivolte all'azione dell'ormone
luteinizzante).
Allo stesso modo degli uccelli, i mammiferi marini che sono esposti al
petrolio presentano sintomi simili a quelli che si hanno negli uccelli: in
particolare la pelliccia delle lontre di mare e delle foche perdono il loro potere
di isolante termico, causando ipotermia.
Il petrolio che va a riversarsi sulle coste può distruggere interi
ecosistemi particolarmente sensibili (barriere coralline, paludi salmastre,
foreste di mangrovie)
Una delle soluzioni più utilizzate in passato per rimediare
all'inquinamento accidentale da petrolio consisteva nell'irrorare le pellicole
oleose con sostanze emulsionanti. Le emulsioni risultavano, tuttavia, in
qualche caso molto più dannose del petrolio stesso e tale tecnica è stata
pertanto progressivamente abbandonata.
Oggi si preferisce ricorrere a barriere galleggianti o a speciali
imbarcazioni che raccolgono il petrolio effettuando una sorta di raschiatura
sulla superficie del mare; le macchie di petrolio vengono ancora spruzzate con
agenti emulsionanti solo nel caso in cui minaccino di raggiungere la costa. Il
petrolio che si riversa sulle spiagge non viene sottoposto ad alcun trattamento:
in genere si preferisce aspettare che a degradarlo provvedano i normali
meccanismi di decomposizione. Nel caso in cui a essere colpite siano località
balneari, si preferisce rimuovere gli strati superficiali di sabbia, piuttosto che
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ricorrere a solventi ed emulsionanti, i quali farebbero penetrare il petrolio più
in profondità. I solventi vengono ancora utilizzati solo per ripulire impianti e
attrezzature. Le pellicole oleose sono state in qualche caso irrorate con batteri
capaci di degradare il petrolio. I risultati sono stati incoraggianti, anche se, per
attivare i batteri e stimolarne la crescita, è necessario aggiungere alle colture
nutrienti potenzialmente nocivi per gli ecosistemi litoranei e per la qualità
delle acque.
SI RIPORTA DI SEGUITO PER INTERO IL TESTO “ORIZZONTE NERO” DI
GREENPEACE [ROMA, 4 MAGGIO 2010] COME ESEMPIO DEL PIÙ RECENTE
RESOCONTO RIGUARDANTE I DISASTRI PETROLIFERI
“It turns out, by the way, that oil rigs today
generally don’t cause spills. They are
technologically very advanced.” (Risulta poi,
tra lʼaltro, che oggi le piattaforme petrolifere
generalmente non causano sversamenti. Sono
tecnologicamente molto avanzate.)
Barak Obama- 2 aprile 2010
Dopo tante promesse di “rivoluzione verde” e Green Economy, agli
inizi di aprile 2010, Barak Obama ha ridato il via alle esplorazioni petrolifere
offshore negli USA, dopo una lunga moratoria. Un pedaggio pagato alle
lobby petrolifere per far passare un “Climate Bill” (la legislazione per la
riduzione delle emissioni di gas serra) che riduce le emissioni degli USA solo
del 4% rispetto al 1990 (anno di riferimento del Protocollo di Kyoto). Obama
è stato subito ripagato da BP (che non vuol dire più British Petroleum ma
Beyond Petroleum, cioè “Oltre il Petrolio”!) con una marea nera che lascerà il
segno. Vediamo di capire come e perché.
2). Un incidente senza precedenti? Falso!
La moratoria alle estrazioni petrolifere offshore negli USA non è cominciata
per caso. Nel 1969 esplodeva infatti la piattaforma Santa Barbara (California):
in dieci giorni, furono rilasciate in mare 12-13.000 tonnellate di petrolio.
Almeno 10.000 uccelli furono uccisi. Dieci anni dopo era la volta della Ixtoc
1, della compagnia di Stato messicana PeMex: 450- 480.000 tonnellate di
petrolio furo- no rilasciate in mare nell’arco di oltre 9 mesi, nel Golfo del
Messico. Eʼ il maggior rilascio di petrolio in mare mai registrato, con danni
anche negli USA che la PeMex non volle mai pagare. Migliaia di tartarughe
marine furono sgomberate con gli aerei dalle spiagge messicane,
pesantemente contaminate. Altri pesanti rilasci di petrolio furono causati dalle
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30 piattaforme danneggiate o affondate dall’uragano Katrina, nel 2005:
proprio in Louisiana.
2. Una tecnologia all’avanguardia? Falso!
La piattaforma Depwater Horizon non appartiene alla BP, che lʼha presa in
affitto dalla Transocean, alla modica cifra di 500,000 US$ al giorno. Con
quella stessa cifra, la BP avrebbe potuto acquistare, e utilizzare, un sistema di
bloccaggio del pozzo “a distanza” (azionabile con un sistema acustico, dalla
superficie). Perché questo utile congegno, obbligatorio in Norvegia e in
Brasile, non è stato utilizzato in una piattaforma assolutamente
all’avanguardia (come sostiene la stessa BP)?
L’uso di questo congegno è stato a lungo dibattuto negli USA, almeno dal
2000. Ma, dopo forti pressioni della lobby petrolifera, nel 2003 lo US Mineral
Management Service concludeva che “questi sistemi non sono raccomandati
perché tendono a essere troppo costosi”. Certo, mezzo milione di dollari sono
una bella cifra: ma sono appena il costo dell’affitto giornaliero di una
piattaforma. E nel primo quadrimestre 2010 la stessa BP, che ha fatto profitti
per quasi 6 miliardi di dollari, per attività di lobby al Congresso USA ha
speso non meno di 3,5 milioni di dollari.
3. Mille barili al giorno di petrolio in mare? Falso! Non sappiamo ancora
quanto petrolio stia rilasciando in mare la Deepwater Horizon. Sappiamo che
BP ha mentito quando ha dichiarato una stima di circa 1.000 barili al giorno
(c.a. 135 tonnellate). Già dopo i primi sopralluoghi la NOAA (National
Oceanographic and Atmospheric Administration) ha portato la stima a 5.000
barili/giorno (c.a. 675 tonnellate) e i media riferiscono di stime assai
maggiori: il 2 maggio il Wall Street Journal parlava di 25.000 barili al giorno
(ovvero 3.375 tonnellate!) e la stessa BP ha dichiarato per la Deepwater
Horizon una produzione potenziale di 150.000 barili al giorno (20.250
tonnellate). Queste cifre devono essere moltiplicate per la durata dello
sversamento.
Dopo il fallito tentativo di chiudere le valvole della testa di pozzo con
un robot filoguidato (ROV, remote operated vehicle) adesso BP cerca di
intrappolare la perdita sotto una cupola di cemento. In ogni caso ci vorrà
tempo, bisognerà tagliare la condotta (che sta perdendo petrolio in almeno tre
punti) e le perdite di petrolio, che fuoriesce anche da fessurazioni nel fondo
marino, saranno bloccate solo scavando un altro pozzo (a mezzo miglio di
distanza) per “togliere pressione” al pozzo in perdita.
Ci vorranno mesi: Ixtoc 1 è esploso nel giugno 1979 ed è stato chiuso
solo nel marzo 1980.
4. BP pagherà tutti i danni? Falso! Sui media si legge che BP avrebbe già
dichiarato che si assume tutte le responsabilità e che pagherà tutti i danni. Non
è vero: BP ha dichiarato che pagherà tutte le perdite economiche accertate e
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quantificabili. Probabilmente non è poca cosa: già i pescatori (soprattutto
ostriche e gamberi) si stanno attrezzando per organizzare una “class action”
(azione legale collettiva) per chiedere a BP almeno 5 miliardi di dollari. Altri
danni economici potrebbero essere richiesti dal settore turistico: già solo la
pesca sportiva in mare, da quelle parti è un business da oltre 700.000 di
dollari lʼanno (oltre 7.700 posti di lavoro). Tuttavia, i precedenti ci dicono che
difficilmente BP pagherà i danni ambientali che sta causando. Dopo il disastro
della Exxon Valdes (Prince William Sound, Alaska 1989) la Exxon Mobil era
stata inizialmente condannata a pagare 287 milioni di dollari di danni e 5
miliardi di dollari come ammenda (anche per risarcire i danni ambientali).
Dopo anni di appelli e perizie in tribunale, il 25 giugno 2008, la Corte
d’Appello ha deciso che Exxon doveva pagare solo 507,5 milioni di dollari di
danni. In altre parole, le compagnie petrolifere (e le loro assicurazioni)
difficilmente pagano per tutti i danni ambientali collegati alle “maree nere”,
danni che, d’altra parte, sono spesso difficili da quantificare.
5. Gli ecosistemi torneranno presto alla normalità? Falso!
Gli effetti di disastri petroliferi come questo sono difficili sia da valutare che
da monitorare. In particolare, gli effetti sull’ecosistema pelagico sono
particolarmente complessi. Le sostanze tossiche rilasciate dalle migliaia di
tonnellate di petrolio potrebbero avere effetti notevoli sia sulle comunità del
plancton (organismi che vivono nella colonna di acqua) che su altre specie. A
ciò bisogna aggiungere gli effetti tossici dei disperdenti (ne sono stati usati
almeno 400.000 litri) tra cui è confermato l’uso del Corexit (2butossietanolo), vietato in California perché causa infertilità e malformazioni
(o morte) dei feti. L’uso di disperdenti può ridurre l’impatto sugli uccelli (che
vengono “soffocati” dal catrame) ma aumenta quello sulla fauna e flora
marina. Spesso è una decisione che si prende per motivi di “pubbliche
relazioni” (gli uccelli incatramati fanno sensazione) che è come nascondere
l’immondizia sotto il tappeto visto che l’effetto sui pesci è poco visibile. Ad
esempio, da metà aprile a metà giugno, nell’area interessata è in corso la
riproduzione del tonno rosso, una specie già decimata dalla pesca eccessiva di
cui è stato anche proposto (col sostegno degli USA...) il bando del commercio
internazionale. Nella stessa area sono presenti tartarughe marine e cetacei
(come le focene, varie specie di delfini, balenottere, capodoglio e capodoglio
pigmeo o cogia). Lungo la fascia costiera del Golfo del Messico, negli USA ci
sono oltre 2 milioni di ettari di zone umide, con oltre 400 specie a rischio.
Il Governatore della Louisiana ha dichiarato che la marea nera minaccia
almeno 14 Aree Protette.
Tra le specie in pericolo ci sono varie specie di rettili (tartarughe e alligatori),
lontre, pellicano bruno (il simbolo della Louisiana) e decine di specie di
uccelli migratori, canori e limicoli. E’ difficile stimare in quanto tempo gli
ecosistemi si riprenderanno: tra l’altro, l’evento è purtroppo in corso e non
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abbiamo una stima precisa né dell’area colpita né dei quantitativi di petrolio
sversato. Tuttavia, il caso della Exxon Valdez ci ricorda che dopo oltre
vent’anni gli effetti sono ancora evidenti e le sostanze tossiche rilasciate con
le 37.000 tonnellate di petrolio allora sversate sono ancora in circolazione. Se
la Deepwater Horizon sta davvero rilasciando oltre 3.000 tonnellate di
petrolio al giorno, già adesso (6 maggio) lo sversamento potrebbe essere di
circa 48.000 tonnellate. Particolare importanza ha anche il periodo della
stagione in cui avviene lo sversamento: quello della Exxon Valdez avvenne
durante la stagione di riproduzione delle aringhe del Pacifico e lo stock non si
è ancora ripreso.
6. Basta usare le migliori tecnologie per evitare questi disastri? Falso!
L’idea che incidenti come questo siano causati dall’incuria e dalla cupidigia
delle lobby petrolifere non è errata, ma affronta solo parte della realtà. Questi
incidenti, che sono più frequenti di quanto non riferiscono i media (lo scorso
gennaio, a Port Hartur (USA) c’è stato un “major oilspill” di cui non abbiamo
mai sentito parlare...) dipendono da “fattori” come uragani, errore umano,
malfunzionamento delle tecnologie e altri imprevisti. Ce ne saranno sempre.
Le statistiche poi ci dicono che, per quanto appariscenti, le maree nere sono
un contributo minoritario all’inquinamento da petrolio in mare: i lavaggi delle
cisterne e le fonti terrestri sono un problema ben maggiore anche se
“localmente” meno acuto. Per eliminare questi pericoli, e per combattere il
cambiamento climatico e l’acidificazione degli oceani (entrambi conseguenza
dell’aumento atmosferico della CO2 causato dai combustibili fossili), l’unica
soluzione è smettere di cercare, trasportare e usare questi prodotti.
Settori sempre più ampi dell’industria si sono ormai appropriati degli scenari
della “Rivoluzione Energetica”, descrivendo percorsi realistici che in un
futuro prossimo ci permetteranno di lasciar perdere lo sporco petrolio (e fonti
non meno pericolose come carbone e nucleare) passando alle energie
rinnovabili (solare ed eolico) e all’efficienza energetica. Yes, We can.
BIBLIOGRAFIA
http://it.wikipedia.org/wiki/Disastro_ambientale
http://it.wikipedia.org/wiki/Disastro_petrolifero
http://it.wikipedia.org/wiki/Inquinamento_idrico
http://it.wikipedia.org/wiki/Petrolio
http://en.wikipedia.org/wiki/Torrey_Canyon
http://lboro.ac.uk/departments/hu/prospect/er/ergsinhu/aboutergs/lasttrip.html
http://www.greenpeace.org/raw/content/italy/ufficiostampa/rapporti/orizzonte
--‐nero.pdf
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