La Basilica Di San Vittore al Corpo Milano, S. Vittore al Corpo Pianta della Chiesa e della Sacrestia Profilo storico - artistico Testo di Licia Parvis Marino Disegni di Dott. Ing. Antonio Fontana pag. 1 1. Resti archeologici. La reliquia di S. Vittore Fig. 1: Stoccarda, Landesmuseum. Il complesso sanvittoriano (seconda metà XVI sec.) Le vicende più antiche della Basilica sono legate alle ultime persecuzioni contro i cristiani, alla presuntuosa magnificenza di un imperatore romano, alla rinascita della chiesa milanese nell’alto medioevo. Di questo luogo passato ci parlano immediatamente i resti archeologici rinvenuti nel giardino dell’Istituto del Buon Pastore e nei due chiostri dell’attuale Museo della Scienza e della Tecnica: si tratta delle fondazioni della cinta fortificata tardo-romana (sec. IV) fatte costruire con ogni probabilità dall’imperatore romano Massimiano a tutela del proprio mausoleo (Mirabella Roberti, 1967). Anche in questo edificio funerario esiste tuttora un terzo circa dell’opera muraria di base e tracce della struttura in alzato, affiorate nei sotterranei della basilica, sotto la gradinata che fronteggia la chiesa. La struttura in alzato, visibile ancora in un disegno cinquecentesco (1570 circa) di un anonimo pittore olandese (fig. 1) era molto simile a quella del mausoleo edificato nel palazzo di Spalato da Diocleziano, il collega dalmata di Massimiano: a pianta ottagonale era scandito internamente da nicchie alternativamente rettangolari e semicircolari, con pareti riccamente decorate di marmi e di mosaici. Lo stesso schema planimetrico si trova tra l’altro nel sacello di S. Aquilino in S. Lorenzo e nel battistero ambrosiano di S. Giovanni alle Fonti (Mirabella Roberti 1985). Il mausoleo sanvittoriano quando fu ceduto ai cristiani, dopo l’editto di Costantino (313) che concedeva a tutti la libertà di culto, venne adattato a cappella e fu successivamente intitolato a papa San Gregorio Magno. Nel contempo pare che gli sia stata eretta di fronte una pag. 2 piccola basilica, identificata da più di un critico con la famosa ”porziana”, Fig. 2: Milano, San Vittore al Corpo. dal nome di un certo Porzio che la edificò, ampliando forse un tempietto Pompeo Girolamo Batoni (Lucca, 1708 – Roma, 1787): imperiale già esistente, intitolato ad Ercole, la divinità protettrice di Il beato Tolomei assiste gli appestati Massimiano. Queste vicende spesso prive di un’adeguata documentazione (Lusardi Siena, 1991) s’intrecciano con il martirio di S. Vittore, un soldato mauro appartenente alla guardia del corpo dello stesso imperatore, che piuttosto di abiurare preferì affrontare vari supplizi; le spoglie del santo, decapitato in una località imprecisata, per alcuni a Lodi per altri a Milano, furono restituite ai cristiani e al vescovo di allora, Mirocle, che le sistemò provvisoriamente nella piccola basilica già ricordata – donde la dedicazione di San Vittore al Corpus – per essere poi spostate più a lungo (sec. IVVIII) in un sacello appositamente costruito: il San Vittore in Ciel d’Oro attiguo all’attuale S. Ambrogio. Qui il corpo del Santo fu unito per anni a quello di S. Satiro, fratello di S. Ambrogio che lo collocò (378) alla sinistra del martire in segno di rispetto e di devozione (Pasini, p. 3234). Nel IX secolo la reliquia ritornò in S. Vittore per merito dei Benedettini che si erano qui stabiliti e da allora non fu più spostata se non per essere trasferita nella nuova basilica olivetana (1576); la sua autenticità venne anche ufficialmente ribadita nel 1941 dal card. Schuster che fece eseguire su di essa approfondite ricerche storiche, anatomiche e archeologiche (Palestra-Perogalli, pp. 103104). pag. 3 2. La Chiesetta Romanica in un disegno del ‘500 Fig. 3: Milano, San Vittore al Corpo. Daniele Crespi (Busto Arsizio, 1598 – Milano, 1630): Sant’Antonio assiste alla glorificazione dell’anima di San Paolo eremita L’intitolazione “ad Corpus” rimase quindi legata alla chiesa che ospitò per prima la preziosa reliquia e fu trasmessa anche alla nuova chiesa sostituita alla prima, ormai fatiscente, nell’ottavo secolo. Di questo edificio, affidato ai Benedettini e nell’anno 1000 ricostruito “ex novo “ o forse solo restaurato in stile romanico per iniziativa congiunta dell’imperatore Enrico II di Sassonia e dell’arcivescovo Arnolfo II (Reggiori, p. 34), resta come unica testimonianza grafica il disegno già ricordato di un pittore olandese (fig. 1) che ce la rappresenta orientata da sud-ovest a nord-est, in senso inverso rispetto a quella attuale (Arrigoni). In esso si notano a sinistra il complesso monastico affacciante sulla piazzetta a destra la cappella di San Gregorio, forse comunicante con l’abbazia all’altezza di una lunga abside (Picca Portaluppi, pp. 43-45) e, leggermente spostata sulla destra, la chiesetta parrocchiale di San Martino. Nella parte centrale svetta già la cupola della nascente basilica olivetana, eretta in corrispondenza della facciata dell’abbazia: una curiosa testimonianza di quella coesistenza fra le due strutture durata non molto a lungo ma abbastanza da consentire al visitatore olandese di trasmettercela in questo schizzo. Attualmente degli edifici qui descritti, eccettuata la cupola, non ne esiste più nessuno; quelli che non sono stati abbattuti nel Cinquecento dagli Olivetani (la chiesa e l’ex-mausoleo) sono stati eliminati dalle soppressioni giuseppine – il San Martino (1788) – o infine dai bombardamenti dell’agosto 1943 (il chiostro benedettino). pag. 4 Fig. 4: Milano, San Vittore al Corpo. 3. L’arrivo degli Olivetani Ambrogio Figino (Milano, 1553 – Milano, 1608) e aiuti: San Benedetto riceve gli oblati Mauro e Placido L’arrivo degli Olivetani, qui chiamati nel 1507, per iniziativa del commendatario Giovanni Andrea Gallarati dalla vicina abbazia di S. Maria di Baggio (Bernareggi, 1927, pp. 12-13) rinverdì la vita spirituale ruotante intorno alla basilica, dopo l’esaurimento della famiglia Benedettina ridottasi nel 1466 a due soli monaci, ma provocò anche una rottura col passato dell’area sanvittoriana. Gli Olivetani, infatti, in linea con il carattere spiccatamente rinascimentale della loro produzione artistica, tra cui ricordo gli affreschi del Sodoma e di Luca Signorelli nel chiostro grande della loro casa madre a Monteoliveto Maggiore (Siena), vollero edificarsi un nuovo monastero indi una chiesa più adeguata alle loro esigenze e al loro gusto. Perfino la piccola parrocchia di San Martino, che era ritenuta di ostacolo nella piazza destinata alla nuova chiesa, fu abbattuta nel 1545 ma subito ricostruita, in forme più semplici (come la vediamo nel disegno cinquecentesco) in seguito ai reclami della confraternita dei disciplini cui apparteneva (Parvis Marino, 1989). pag. 5 Monastero di San Vittore al Corpo 4. I due chiostri (ora Museo della Scienza e dellaTecnica) – pianta dei chiostri - Eccoci quindi all’esame diretto dell’esistente: i due chiostri dell’exmonastero olivetano [1] – dal 1947 Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica – furono restaurati dopo i danni subiti nell’ultima guerra (1947-1953). Il primo chiostro, realizzato dal 1508 al 1525 (Reggiori, p. 52) a sud-est della chiesa benedettina e attribuito da taluni critici a fra Giuliano detto il fra del Castellazzo, risulta sopraelevato rispetto al piano del giardino sottostante e arricchito da un elegante loggiato pensile sul lato adiacente la chiesa; l’impronta bramantesca delle arcate e dei tondi sopra i piedritti delle colonne di granito è evidente, nonostante le aggiunte settecentesche di affreschi – perduti – e delle incorniciature – tuttora visibili – delle finestre. Il secondo chiostro [2], in asse con il primo (1553-1578) (Reggiori, p.54), separato da questo tramite un corpo di fabbrica più alto ospitante al piano superiore l’antica biblioteca cinquecentesca – ora – “sala delle colonne” [3] – ripete la forma quadrangolare del precedente; ad esso fu aggiunto nel primo decennio del Settecento l’edificio [4] del noviziato e un lungo refettorio, le cui pareti e le volte furono affrescate dal quadraturista Giuseppe Antonio Castelli da Monza detto il Castellino e la parete di fondo con la Cena di Cana da Pietro Gilardi (1711-1712). pag. 6 Fig. 5: Milano, San Vittore al Corpo. 5. La facciata Giulio Cesare Procaccini (Bologna, 1574 – Milano, 1625) San Gregorio Magno prega durante una processione nel corso La facciata della chiesa risulta impenetrabile, come un emblematico della peste del 590. sipario che fa da sfondo alla vicenda, tuttora misteriosa per i critici, che ne ha determinato le forme incompiute. Doveva essere completata infatti a fine Cinquecento secondo il progetto ancora conservato alla raccolta Bianconi del Castello Sforzesco dall’architetto Martino Bassi con un “grandissimo porticato con dodici grandi colonne” (Villa, p.23), delle quali rimane oggi solo il profilo tracciato, a leggero rilievo, lungo la facciata. Sotto la cornice del frontone, profilata in ceppo, quattro protomi angeliche in pietra d’Angera con sottostanti lesene lisce scandiscono il piano superiore e sembrano riflettere con la loro espressione pensosa e quasi rassegnata sul curioso destino della facciata di una chiesa internamente così ricca. Solo la lapide dedicatoria sopra il portale, che ricorda la solenne apertura al culto per opera di San Carlo nel 1576, e i dodici capitelli corinzi reggenti la cornice, bruscamente interrotta alle estremità, variano con le rispettive lesene la nudità della fronte; la precede una bella gradinata settecentesca che prepara l’accesso alla basilica, sopraelevata rispetto alla piazza antistante pag. 7 6. L’interno. Navata sinistra Proseguendo all’interno,la chiesa risulta divisa, secondo una consueta struttura a pianta basilicale, in tre navate, separate da pilastri, con sei cappelle per lato nelle navatelle; al termine della navata centrale, coperta da una volta a botte, si erge la cupola, al centro di un breve transetto chiuso alle estremità da due absidi ricurve. Segue un profondo presbiterio, dove all’altare marmoreo fa da sfondo l’ampio coro ligneo disposto a semicerchio lungo l’abside terminale. Costruita nell’arco di un cinquantennio a partire, secondo le varie interpretazioni dei documenti (Vismara, p. 32) dal 1550 o dal 1560 è generalmente attribuita all’architetto Vincenzo Seregni che ne ideò la pianta dopo una lunga gestazione, con ogni probabilità coadiuvato dal più geniale collega perugino Galeazzo Alessi (Carboneri, p. 197). Il Seregni capovolse l’orientamento dell’edificio rispetto alla precedente abbazia benedettina e distrusse l’ex mausoleo intitolato a San Gregorio, che inizialmente aveva pensato di conglobare nella nuova pianta. E’ una chiesa dalla veste ricca ma non pesante anche se la trama decorativa, estesa anche nelle zone meno visibili delle pareti e delle volte, induce l’osservatore a soffermarsi piuttosto sugli elementi ornamentali che sull’ossatura dell’edificio. Affreschi, stucchi, legni intagliati, ferri battuti, per non dire delle molte tele, spesso d’ottimo livello, propongono le chiavi di lettura più disparate. Ne scegliamo una fra le tante possibili suggerita dal soggetto degli stessi quadroni – purtroppo poco visibili – a lato del portale d’ingresso: qui Francesco Cairo (Milano, 1607-1665), resosi famoso per aver tradotto nei soggetti sacri la sensualità e gli abbandoni mistici propri del barocco, vi dipinse tra le sue ultime opere (Bona Castellotti, 1983, pp. 73-74), i fondatori dei principali ordini monastici: San Francesco e San Damiano (in basso), San Benedetto e Sant Agostino (in alto). Ebbene, il rimando alle tradizioni più sacre della chiesa occidentale, con particolare riferimento agli iniziatori dei maggiori ordini monastici,olivetano compreso, e ai santi venerati nell’antica basilica sanvittoriana, costituisce il filo conduttore della decorazione realizzata all’interno della chiesa. Facciamo quindi riferimento a tale coerenza iconografica senza soffermarci in un esame dettagliato delle singole opere per la cui individuazione rimandiamo anche alle didascalie già realizzate dalla scrivente e poste sui cancelli delle singole cappelle della basilica. Nella navata sinistra si snodano quindi accanto a cappelle che definiremmo d’uso, come l’ex battistero [6] (I sinistra), ben quattro legate ai temi già indicati. Eccole nell’ordine: la cappella della traslazione dei corpi dei SS. Vittore e Satiro [7] (II sinistra) con la quale gli Olivetani intesero reclamare l’appartenenza alla basilica delle sacre reliquie dei due santi, qui raffigurati mentre vengono esumati dalla comune sepoltura ad opera di San Carlo e disposti solennemente sotto l’altare della nuova basilica (Reggiori, pp. 63-66); quella del Beato Bernardo Tolomei [8] (III sinistra) illustrante alcuni episodi della vita del fondatore dell’ordine olivetano (fig. 2), da lui costituito tra il 1313 e il 1319 assieme ai suoi seguaci e propagatosi nel 1400 dalla casa madre di Monteoliveto Maggiore anche in Lombardia (Santa Maria di Baggio). La pala del pittore lucchese Pompeo pag. 8 Batoni e l’ovale di sinistra del rodigino Mattia Bortoloni, (II Settecento Fig. 6: Milano, San Vittore al Corpo. Lombardo, pp. 179-180, 219-220) sono due pregevoli testimonianze Enea Salmeggia (detto il Talpino) (Nembro, 1558 – Bergamo, 1626) Santa pittoriche del pieno Settecento. Francesca Romana e l’angelo La cappella di Sant’Antonio Abate [9] (IV sinistra) dipinta in giovane età da uno dei più intensi pittori del primo Seicento lombardo – Daniele Crespi – raffigura nella pala centrale, in un classico abbinamento, i due santi anacoreti: Paolo eremita e Antonio abate (fig. 3). La vita dei padri del deserto, alle origini della regola benedettina, è particolarmente cara alla tradizione iconografica olivetana, che a essi dedicò gli affreschi del primitivo oratorio di Monteoliveto Maggiore (Cattana, pag. 715). Infine la cappella di San Francesco d’Assisi [10] (V sinistra) dove il santo delle stimmate, reso dalla sensibilità un po’ edulcorata del pittore secentesco G.B. Discepoli di Lugano, è qui raffigurato anche mentre riceve tra le braccia il Bambino Gesù e mentre viene consolato da un angelo violinista (Bona Castellotti, 1984). Da vedere anche l’ultima cappella, dedicata al SS. Crocifisso [11] (VI sinistra), sia per la qualità del Cristo, realizzato in forme secentesche fortemente realistiche, sia per la finezza degli stucchi che ornano le pareti, così vicini a quelli della cripta ripristinata nel 1974. pag. 9 Le rimanenti cappelle di San Giuseppe [22] (II a destra), 7. Transetto. Navata destra di San Cristoforo [20] (IV a destra) e di San Pietro [19] (V a destra) (fig. 8) sono state realizzate per volontà di singoli donatori, che le intitolarono Eccoci al transetto [12] che ospita le tele di due tra i maggiori pittori spesso ai santi di cui recavano il nome. del tardo manierismo lombardo, Ambrogio Figino e Camillo Procaccini, che dipinsero rispettivamente tre episodi della vita di San Benedetto (a Quella di San Cristoforo [18] in particolare (che era una dei sinistra) (fig. 4) e di San Gregorio Magno [17] (a destra) (fig. 5). La quattordici santi ausiliatori invocato in occasione di gravi calamità collocazione privilegiata riservata a questi due santi trova una sua naturali, ma anche contro la peste e il mal d’occhi) fu voluta dall’ex motivazione nell’estremo valore che ebbero per gli Olivetani le figure di governatore di Modica in Sicilia: il nobile Cristoforo Riva (Dell’Acqua, pp. Benedetto, di cui il Tolomei adottò la regola e di Gregorio Magno, 14-16), e quella dell’Assunta dal senatore conte Marc’Antonio Arese. Essi biografo del santo norcino. Per giunta l’intitolazione del transetto di ne affidarono l’attuazione rispettivamente della prima al pittore tardo destra al grande papa medioevale sembra essere un estremo omaggio dei manierista Gerolamo Ciocca (Milano, Archivio Stato, Registri) e della monaci alla memoria del sacello tardo-romano da loro distrutto. seconda, compiuta a metà Seicento dal nipote Bartolomeo Arese, ad alcuni tra i più quotati artisti secenteschi: l’architetto Gerolamo Anche nella navata destra si riprende la dedicazione a santi, legati alla spiritualità dei monaci: a Santa Quadrio, il pittore Antonio Brusca e lo scultore Giuseppe Vismara. Francesca Romana, la fondatrice del ramo femminile dell’ordine olivetano, la cui sede era nel monastero La cappella dell’Assunta, dall’abside ricurva e dalle molte soluzioni di inattese, è un po’ lo specchio del gusto barocco sia come alternanza destra. La pala (1610) è dello stesso Enea Salmeggia (fig. 6), autore cromatica sia come successione di spazi. Basti considerare il candido anche dei due quadroni a lato dell’altar maggiore (San Vittore a cavallo e bassorilievo con la Vergine Assunta, le due colonne nere monolitiche, la La Vergine offre lo stemma olivetano al beato Tolomei) [15] (Ruggeri, balaustra marmorea concava, i coretti pensili, uno dei quali contenente pp. 314-315), resi pressoché illeggibili dallo sporco e dall’ossidazione dei ancora l’organo antico, le lapidi, gli stemmi, gli stucchi dorati e la piccola colori. cupola con il lanternino terminale, per non dire degli affreschi di volte e capitolino di Tor de’ Specchi, è intitolata la terza cappella [21] pennacchi (con i quattro profeti: Zaccaria, Daniele, Geremia e Isaia) La cappella di San Martino [23] (I a destra) è stata così denominata invece dopo la distruzione della parrocchia omonima (1788) e il trasferimento in basilica della pala ivi contenuta, opera del pittore valorizzati dal restauro del 1989. Un insieme gradevole, intimo e quasi gioioso, nonostante la destinazione funeraria della cappella Parvis Marino, 1990) secentesco Giuseppe Vermiglio (fig. 7). pag. 10 Fig. 7: Milano, San Vittore al Corpo Fig. 8: Milano, San Vittore al Corpo. (già nella parrocchia di San Martino al Corpo). Pietro Gnocchi (Milano, intorno al 1550 – n.d.) Giuseppe Vermiglio (Alessandria, 1585 – Alessandria, 1635) Cristo Consegna le chiavi a San Pietro San Martino riceve il mantello da Cristo in gloria. pag. 11 taluni casi integralmente i begli sfondi dall’intensa tonalità azzurra e gli 8. Volta a botte. Cupola Un ultimo sguardo alla volta a botte stucchi delle cornici già rovinate dall’umidità di risalita e dalle [24] sopra la navata centrale: completata a metà Seicento, è opera del pittore Ercole Procaccini il infiltrazioni d’acqua. ________________________________ Giovane, nipote e allievo del più famoso Giulio Cesare e Camillo (Boselli). Oltre agli affreschi raffiguranti dodici fra santi, vescovi e martiri le cui reliquie risultavano, conservate nella chiesa (Lattuada, IV, p. 349), sono da considerare, nelle cornici ovali al colmo della volta, le figure di tre santi di cui gli Olivetani si onoravano di possedere le reliquie: Vittore, Fig. 9: Milano, San Vittore al Corpo. Giulio Cesare Procaccini (Bologna, 1574 – Milano, 1625) Decapitazione di San Vittore Satiro e Francesca Romana (Bernareggi, 1929, pp. 16-19). Quest’inno al passato della basilica sanvittoriana raggiunge il suo acme proprio nella volta a botte affrescata, intervallata da rosoni e testine angeliche a stucco, dove si vedono accumunati a tre grandi vescovi milanesi già sepolti nella cripta e dal 1938 nella cappella di San Benedetto – Mirocle, Protaso e Dazio – (Schster) altri nove santi custoditi in San Vittore sin dai tempi più remoti: i martiri Saturnino, Valeriano, Cecilia, Valentiniano, le vergini Diateria e Daria, il confessore Anatore, l’abate Mauro e il vescovo Fortunato. Proseguendo, all’incrocio del transetto con la navata [13], si trova la cupola (1619) (fig. 10) (Archivio Parrocchiale) da poco restaurata, dove le figurazioni nei pennacchi (I quattro evangelisti, opera giovanile di Daniele Crespi), nel tamburo (le Otto Sibille di Guglielmo Caccia detto il Moncalvo) e nella calotta terminale (ottanta lacunari con altrettanti Angeli Musicanti dello stesso Caccia) attingono ad un repertorio in parte consueto. Inedita invece è la sistemazione della calotta, dove gli angeli “isolati l’uno dall’altro ognuno intento d una sua esclusiva melodia” (Gatti Perer, p. 5) sono stati valorizzati dal restauro da poco compiuto da Massimo Maria Peron, che ne ha resi più brillanti i colori, recuperati in pag. 12 Fig. 10: Milano, San Vittore al Corpo. Daniele Crespi (Busto Arsizio, 1598 – Milano, 1630): Guglielmo Caccia detto il Moncalvo (Montabone, 1568 – Moncalvo, 1625) La cupola pag. 13 l’ascesa della sua anima in cielo, è illustrata nella voltina superiore. Ne 9. Coro. Sacrestia è autore Camillo Procaccini (Ward Neilson, p.48) che ha compiuto in questa cappella il suo ciclo pittorico più riuscito, pure nelle ridotte Eccoci quindi, a conclusione di questo percorso, di necessità dimensioni dell’insieme. La qualità dei dipinti e degli affreschi, messa che, assieme in luce dl restauro del 1990 (arch. Giovanni Rossi), rivela la capacità in marmo e minerali preziosi compositiva e la sapienza coloristica del suo autore, resosi famoso nel delimitato da incorniciature di bronzo dorato, costituisce l’arredo più primo Seicento per la sua “ facilità meravigliosa d’ingegno e di prezioso del presbiterio. Nel coro, integralmente restaurato nel 1991 pennello” (Lanzi, 1816, IV, p.224). ridotto ai tratti essenziali, al bel coro ligneo [16] all’altare settecentesco [14] dall’ingegnere Renato Girardi, è possibile rivisitare da destra verso sinistra (strano il senso antiorario del racconto …..) alcuni degli All’inaugurazione della cappella appena restaurata, è stato presente episodi più noti della vita di San Benedetto, ideati sulla falsariga della l’arcivescovo C. M. Martini (30 settembre 1990) che nella sua omelia biografia scritta da Gregorio Magno nel II libro dei Dialoghi. Nei ha unito al riconoscimento del valore e dell’antichità di questo trentasette pannelli istoriati emerge ancora una volta il filo monumento, crogiuolo di arte, cultura e spiritualità, l’esplicito invito ai conduttore già individuato per gran parte delle raffigurazioni della parrocchiani, eredi di tanta tradizione, a farsi carico di essa. Ciò è basilica; il prezioso manufatto ligneo (1583 circa), opera di un’équipe possibile guardando all’esempio anche di uno solo dei tanti santi di cui d’intagliatori guidati da Ambrogio Santagostino (Lise, pp. 21-24), fu nella basilica si conserva la memoria e in taluni casi la reliquia. Ecco realizzato, infatti, in ossequio ai dettami della regola benedettina perché riproporre oggi la storia della nostra chiesa edificio suona (73, 2-5) che indicava come via più diretta verso la santità, anche come invito a riappropriarsi dei significati più profondi di cui l’osservanza degli insegnamenti dei Santi Padri. queste pietre sono portatrici e a riflettere, attraverso gli affreschi, i dipinti e le sculture sulla preziosa eredità che gli Olivetani intesero Passando per un atrio a forma allungata, adibito un tempo a sala del capitolo, si accede alla sacrestia [25] così trasmettere ai fedeli di allora e di sempre. (I ventennio del sec. XVII) dove si trova l’immagine del santo titolare della basilica, quasi a sancire un’ultima volta la compattezza iconografica già riconosciuta, per altre parti del complesso olivetano. A San Vittore, infatti, è Licia Parvis Marino dedicato l’altare dell’abate, collocato in un’apposita nicchia sulla parete di fondo della sala. Le tre tele con La Decapitazione (fig. 9), al centro, Il santo alla presenza dell’imperatore Massimiano, a destra, e Il supplizio del piombo bollente, a sinistra (1601-2) illustrano i momenti cruciali della “passio” del santo, la cui conclusione, con pag. 14