AVV. EUGENIO VASSALLO
Buongiorno a tutti e buon pomeriggio. Il tema di oggi è un tema che il
Consiglio Direttivo ha voluto con intensità, e qui non è per piaggeria che lo
dico, perché la Camera Penale sta monitorando i risultati degli esami del
Tribunale del riesame di Venezia. Perché? Perché molti di noi lamentano – io
ho ricevuto queste forme di lamentela – lamentano che, mentre il Tribunale del
riesame gestito dalla Prima Sezione, ha una percentuale normale di reiezioni o
di accoglimenti, un’altra sezione del Tribunale del riesame - dottor Risi, e lei
non ne è responsabile, perché lei risponde della Prima -, gestita diversamente,
ha invece un’alta percentuale di reiezione e una bassissima percentuale di
accoglimenti. Il che ovviamente rende una situazione un po’ delicata per quanto
riguarda l’Avvocatura, perché determina solo dal colpo di fortuna se si va ad
una sezione o all’altra. Ovviamente questo non significa che tutte le reiezioni
abbiano torto, ma di accoglimenti nella Seconda Sezione io non so quanti ne
abbiano avuti qui, guardando la gente; mentre nella prima, si dice, tutti i
colleghi mi dicono, che quando ci sono degli spazi utili trovano la risposta
coerente e corretta, e anche coraggiosa, mi è stato detto. Questo è, non perché il
dottor Risi, che presiede la Prima Sezione, sia oggi presente, ma perché
effettivamente noi abbiamo cominciato a monitorare e a controllare questa
situazione, che non ci siano delle situazioni che richiedono un nostro intervento
anche presso il Presidente del Tribunale, perché sennò non riusciamo a capire
com’è possibile che sulla Seconda Sezione ci si trovi sempre con reiezioni
continue, ripetute e piuttosto ampie.
Detto questo, da queste considerazioni è nata l’esigenza, sentita e raccolta dal
Consiglio, di cominciare a studiare un attimo anche le problematiche delle
normative del Tribunale del riesame. Il Dottor Risi, che ringrazio, con la
Dottoressa Galasso hanno dimostrato di accogliere questo nostro invito e credo
che sia importante anche per altri motivi: perché il Dottor Risi e la Dottoressa
Galasso potranno esprimere quali sono, avendo a loro volta visto molte volte
situazioni che richiedono un’istruzione tecnica e delle motivazioni o dei
comportamenti che possono non essere giusti o coerenti con la norma, quindi è
bene che la prassi venga esaminata e che quindi tutti noi si possa apprendere e
cogliere, viste anche dal punto di vista del giudicante, le problematiche che si
possono porre sul tema delicato del Tribunale del riesame, che è un organo fra i
più delicati, voluti a lungo tempo, perché tratta della libertà individuale di
ciascuno degli indagati.
Quindi grazie ai relatori. Ovviamente c’è anche una bella relazione della
Camera Penale, che sarà letta dal collega De Franceschi, che presiede la sezione
della Commissione Studi per la Procedura Penale.
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Io vi devo chiedere scusa se mi dovrò allontanare fra circa mezz’oretta perché
devo andare a Roma, perché il Consiglio dei Presidenti delle Camere Penali è
stato convocato in urgenza, non so bene perché, non riesco a capire cosa ci sia
di urgente, ma dovendo presiederlo io evidentemente non posso mancare e vi
chiedo quindi scusa.
Grazie a voi di essere intervenuti. Qui rimarrà il Presidente della Commissione,
l’Avvocato Alberini, e quindi credo che si possa cominciare a dare la parola al
collega De Franceschi.
AVV. MARINO DE FRANCESCHI
Lo scopo di questo incontro, nelle intenzioni della Commissione della Camera
Penale, è quello di fare un po’ il punto della situazione sul Tribunale del
riesame, che è un istituto rispetto al quale abbiamo linee interpretative
abbastanza consolidate in forza di una giurisprudenza di legittimità e di merito,
che è in grado, pensiamo, di dare sufficiente risposta ad ogni quesito che può
essere sollevato rispetto alle problematiche inerenti al Tribunale del riesame.
C’era poi l'esigenza di individuare qual è lo spettro delle questioni che possono
essere sollevate innanzi al Tribunale del riesame, poiché non sempre ve ne è
piena consapevolezza, e ciò porta talvolta ad investire il Tribunale con delle
questioni che poi non vengono trattate o vengono liquidate con provvedimenti
di inammissibilità, e quindi c’era l’esigenza di limitare l’attenzione alle
questioni effettivamente sollevabili ed evitare che ci sia un carico del Tribunale
del riesame che poi non porta al Difensore alcun ritorno sul piano dell’utilità a
favore del proprio assistito.
Il titolo dell’incontro costituisce un contenitore che non può essere riempito,
poiché non possiamo oggi, con i tempi consueti dedicati al seminario, affrontare
tutte le problematiche inerenti al tema proposto. Ci si è concentrati, quindi, su
alcune questioni, alcune delle quali sono state analizzate e approfondite dalla
Commissione, altre verranno approfondite dal Dottor Risi e dalla Dottoressa
Galasso. Sicuramente, comunque, prima di affrontare queste questioni risulta
opportuno dare alcuni cenni di inquadramento sistematico per individuare in
primo luogo la natura di questo mezzo di impugnazione.
Voi sapete che i mezzi di impugnazione in dottrina e in giurisprudenza si
distinguono in azioni di annullamento e gravami in senso stretto; azioni di
annullamento che sono dirette a rescindere il provvedimento e vengono ad
essere vincolate dai motivi di impugnazione e quindi il Giudice deve limitare la
sua cognizione e i suoi poteri decisori a quelli che sono i motivi rappresentati
dalle parti. Il gravame invece comporta la devoluzione al Giudice di più alto
grado, di seconda istanza, al Giudice ad quem, di tutte le questioni che sono
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state già esaminate dal Giudice di prima istanza, nella fattispecie il Giudice per
le Indagini Preliminari. I risultati cui è pervenuta sia la dottrina che la
giurisprudenza sono abbastanza pacifici. Il ricorso innanzi al Tribunale del
riesame è un mezzo di gravame pienamente devolutivo e questo è confermato
dal fatto che ai sensi dell’Art. 309 la richiesta di riesame non necessariamente
dev’essere supportata dai motivi: il Difensore ha facoltà di enunciare i motivi o
può anche non farlo, ha facoltà di enunciare nuovi motivi all’apertura
dell’udienza in Camera di Consiglio innanzi al Tribunale; da ciò si evince che
comunque il Tribunale può conoscere della vicenda de libertate anche se non vi
è il supporto dei motivi con la richiesta di riesame. Altresì il Tribunale del
riesame in sede di decisione non è limitato dal devolutum, nel senso che non
vale il principio tantum devolutum quantum appellatum; il Tribunale del
riesame può infatti riformare o annullare il provvedimento di cautela per ragioni
diverse rispetto a quelle che sono evidenziate nei motivi da parte del Difensore.
Non solo; il Tribunale del riesame non è nemmeno limitato nel suo decidere da
quelle che sono le ragioni poste a base del provvedimento impugnato, poiché lo
stesso Art. 309 ci dice che il Tribunale può confermare, anche per ragioni
diverse, argomentazioni diverse da quelle che sono state poste dal Giudice per
le Indagini Preliminari a conforto della sua decisione. Quindi abbiamo un ampio
potere di decisione, una devoluzione totale a cui corrisponde una pienezza di
poteri. Addirittura il Tribunale del riesame ha un potere di cognizione più ampio
del Giudice a quo, poiché egli può decidere anche in base scorta di elementi che
il Pubblico Ministero ai sensi del quinto comma dell’Art. 309, elementi
favorevoli all’imputato, trasmette al Tribunale e può decidere altresì sulla scorta
degli elementi che le parti deducono nel corso dell’udienza. Questi sono
tendenzialmente i tratti caratterizzanti del ricorso innanzi al Tribunale e dei
poteri di cognizione e di decisione del Tribunale del riesame, alla luce del dato
normativo, ma senz’altro possiamo dire che questi poteri vengono ad essere
meglio puntualizzati da una serie di correttivi di carattere giurisdizionale che
riguardano sia le questioni che possono essere devolute, sia alcune questioni
rispetto alle quali non sempre vi è un’aderenza tra quello che si chiede e il
rimedio effettivamente praticabile dall’organo di seconda istanza.
Per quanto riguarda le questioni devolvibili va ricordato, ed è interessante
ricordarlo, poiché molto spesso viene adito il Tribunale del riesame sollevando
una questione che non è devolvibile, non sono sollevabili avanti al Tribunale
del riesame le questioni di inefficacia della misura cautelare che riguardino un
momento extra-procedimentale, cioè non riguardino direttamente il
procedimento di riesame, come invece accade per esempio in relazione alle
cause di inefficacia cositituite da mancato rispetto dei termini della decisione o
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di trasmissione da parte del Pubblico Ministero degli atti al Tribunale del
riesame ai sensi dell’Art. 309 commi quinto e nono; ove infatti si tratti di
inefficacia che si è perfezionata fuori dal procedimento del riesame, la relativa
eccezione non può essere conosciuta dal Tribunale, tipico esempio: mancata
assunzione dell’interrogatorio nei cinque giorni dall’adozione della misura
cautelare o mancato rispetto del termine di fase in materia di durata massima
della custodia cautelare.
Per quanto riguarda invece le questioni devolvibili, esse riguardano sia il merito
che la legittimità e si ricavano dalle disposizioni che fissano i presupposti
applicativi, sostanziali e processuali, che debbono sussistere affinché sia
legittimamente adottata una misura cautelare. Si ricavano dagli Artt. 273 e
seguenti, quindi abbiamo sul piano sostanziale gravi indizi di colpevolezza,
esigenze cautelari, criteri di scelte delle misure, condizioni che riguardano
specificamente alcune misure cautelari; sotto il profilo formale abbiamo poi
competenza, incompatibilità, requisiti formali richiesti dalla norma a pena di
nullità. Tra le varie questioni hanno suscitato in particolare l’interesse della
Commissione alcune questioni che sono state oggetto di dibattito
giurisprudenziale e altresì possono comportare dei rischi per il Difensore in
quanto molto spesso esse vengono sollevate e non portano ad un esito positivo
proprio perché non sono prospettabili o sono prospettabili solo entro certi
limiti . Sono le questioni relative alla qualificazione giuridica del fatto, al vizio
di motivazione e al giudicato cautelare, tema che verrà affrontato anche dalla
Dottoressa Galasso.
Per quanto riguarda la qualificazione giuridica del fatto da parte del Tribunale
del riesame, è una tematica interessante, poiché riconoscere al Tribunale del
riesame la possibilità di dare una diversa configurazione giuridica consente al
Difensore, per esempio, di rappresentare davanti al Tribunale una qualificazione
che potrebbe far venir meno i presupposti della misura; perché voi sapete per
esempio che per l’adozione delle misure è necessario sussistano determinati
massimi edittali comminati dalla legge e quindi, laddove dalla qualificazione
risulti un diverso massimo edittale, può venir meno il presupposto sostanziale
della misura. Basti pensare, per fare un esempio, ad una fattispecie qualificata
come truffa dal G.I.P., che invece il Tribunale del riesame venga a qualificare
come insolvenza fraudolenta con conseguente carenza di presupposti
legittimanti.
La possibilità di qualificazione giuridica del fatto può anche essere sfavorevole
per il Difensore nel momento in cui il Tribunale del riesame può porre rimedio
in negativo ad una errata qualificazione del G.I.P., pur su una corretta
prospettazione accusatoria del Pubblico Ministero, che porterebbe invece a
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qualificare quel fatto con un reato per il quale è prevista la cautela personale.
Quindi, sul punto, inizialmente la giurisprudenza non riconosceva la possibilità
per il Tribunale di qualificare il fatto; si sosteneva infatti che nella fase delle
indagini preliminari siamo ancora in un momento in cui il procedimento è in
divenire, in cui l’imputazione è in divenire, e quindi non sono compatibili
interferenze da parte del Tribunale del riesame rispetto a quelle che sono le
qualificazioni giuridiche. Successivamente, la giurisprudenza della suprema
Corte di Cassazione si è allontanata da questo orientamento, ha riconosciuto una
possibilità di qualificare il fatto con la giustificazione che ogni qualvolta un
Giudice viene a decidere su un fatto deve avere il potere di qualificarlo, poiché
questo è un potere che inerisce allo stesso esercizio della giurisdizione.
Finalmente le Sezioni Unite hanno risolto il problema, riconoscono senz’altro al
G.I.P.e al Tribunale del riesame, intervenga esso ai sensi dell’Art. 309 o
all’Art. 310, la possibilità di riqualificare il fatto con la giustificazione che è
proprio la provvisorietà e il divenire del procedimento che consente di
intervenire, poiché, dal momento in cui versiamo in una situazione di
provvisorietà in punto di ricostruzione in fatto e di instabilità delle
configurazioni giuridiche che possono mutare a seconda dell’esito del
procedimento, e corretto attribuire anche in sede di indagini preliminari al
G.I.P. e Tribunale della libertà un simile potere . Addirittura il Tribunale del
riesame può intervenire con una diversa qualificazione giuridica anche se vi sia
stato il rinvio a giudizio, anche qualora vi siano dei provvedimenti che sono
stati adottati dall’organo chiamato a decidere sul merito, anche se in tali casi la
qualificazione del Tribunale ha un’efficacia soltanto endoprocedimentale ed è
limitata al procedimento incidentale relativo alla cautela e non può estendersi al
procedimento principale, che riguarda la responsabilità. Qualificazione giuridica
peraltro significa che il Tribunale può proporre sì la sussunzione della
fattispecie concreta in diversa fattispecie astratta, ma non significa che il
Tribunale possa intervenire sulla prospettazione in fatto, che spetta
esclusivamente al Pubblico Ministero, poiché, ove si consentisse al G.I.P. e al
Tribunale di intervenire sulla prospettazione in fatto, si avrebbe una
sovrapposizione dei poteri del Giudice sui poteri che la legge riserva al
Pubblico Ministero.
L’altra questione cui facevo cenno è il vizio di motivazione, che è di particolare
interesse perché viene spesso sollevato, viene accompagnato da una richiesta di
annullamento che viene poi molto spesso, questa richiesta di annullamento,
disattesa. Il problema nasce dal fatto che come abbiamo visto il riesame è uno
strumento di impugnazione totalmente devolutivo cui corrispondono pieni
poteri del Tribunale del riesame di cognizione e di decisione, ma abbiamo una
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disposizione, che è quella di cui all’Art. 292, che eleva il vizio di motivazione a
causa di nullità. E altresì abbiamo un art. 309 che riconosce un potere di
annullamento, poiché voi sapete l’Art. 309 al comma nono riconosce al
Tribunale del riesame la possibilità di confermare, riformare o annullare il
provvedimento anche per motivi diversi rispetto ai quali già ho accennato
prima. Quindi ci si chiede se il Tribunale, nel momento in cui interviene con
pienezza dei poteri, possa sanare qualsiasi vizio di motivazione, oppure possa
integrare in qualche modo la motivazione. Ebbene, la Suprema Corte è ferma
nel ritenere che il Tribunale possa intervenire completando la motivazione
carente, in quanto l’Art. 309 consente di confermare il provvedimento anche per
ragioni diverse da quelle che si evincono dalla motivazione del provvedimento
cautelare. In realtà secondo la Suprema Corte di Cassazione il provvedimento
cautelare si articola nel provvedimento del G.I.P. e in quello del Tribunale del
riesame, sono due provvedimenti intimamente connessi e complementari e
quindi il Tribunale del riesame può completare e integrare la motivazione del
G.I.P. laddove essa sia carente. Abbiamo un’ipotesi che in dottrina viene
qualificata come fattispecie a formazione progressiva. Questa soluzione
suggerita dal Supremo Collegio è coerente col tipo di mezzo di gravame che,
abbiamo visto, è pienamente devolutivo, però suscita alcune perplessità poiché
comunque c’è un vizio di motivazione dalla legge sanzionato con la nullità e c’è
un potere di annullamento del Tribunale di riesame espressamente riconosciuto.
Secondo la commissione una soluzione possibile al problema è quella di
distinguere tra difetto assoluto di motivazione e difetto non assoluto. Nel caso
di difetto assoluto di motivazione il Tribunale del riesame può intervenire con la
sanzione di nullità e quindi può pronunciare l’annullamento; difetto assoluto di
motivazione che abbiamo quando manchi la motivazione graficamente, cioè
non siano nemmeno esaminati i presupposti condizionanti l’adozione della
misura di cautela, per esempio manca la motivazione sui gravi indizi di
colpevolezza o sulle esigenze cautelari, oppure qualora, ancorché non vi sia
assenza grafica, vi sia una motivazione del tutto apparente o perché il G.I.P. ha
utilizzato delle clausole di stile o perché ha utilizzato formule che non
consentono di verificare quali sono le argomentazioni effettive che sono state
poste a base del provvedimento. Ove invece la motivazione sia soltanto
insufficiente, contraddittoria o incompleta vi è la possibilità per il Tribunale del
riesame di intervenire in via integrativa.
Nel caso di difetto assoluto di motivazione la carenza deve essere sanzionata
con nullità e deve portare, dal nostro punto di vista, ad un annullamento
soprattutto con riferimento alle misure coercitive, poiché vi sono due principi
costituzionali che entrano in gioco, non soltanto quello di cui all’Art. 111, che
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vuole tutti i provvedimenti giurisdizionali corredati da motivazione, ma
soprattutto all’Art. 13, che condiziona ogni restrizione della libertà personale a
un provvedimento motivato dell’Autorità Giudiziaria.
L’ultima delle questioni è quella afferente il giudicato cautelare, che è un punto
alquanto dolente in quanto è un istituto che non trova disciplina positiva: non
troverete nessuna norma che parla di giudicato cautelare, non mi risulta. E’ un
istituto che è di creazione giurisprudenziale e si sostanzia nell’impossibilità di
rivalutare una vicenda cautelare ove sulla stessa sia stata pronunciata una
decisione poi non impugnata ovvero sia intervenuta una decisione da parte
dell’organo di seconda istanza. In questo caso può essere ottenuta una modifica
del provvedimento sulla sola scorta di elementi aventi il carattere di novità. E’
un istituto dal punto di vista della Commissione, che, proprio perché non ha
nessun aggancio con il dato normativo, intende rispondere ad esigenze
eminentemente pratiche, soprattutto all’esigenza di impedire un eccessivo
carico di lavoro al Tribunale del riesame derivante da ricorsi aventi finalità
dilatorie e defatiganti. Però questo istituto sicuramente non appaga ed è
suscettibile di essere contestato laddove vi sono delle norme che portano a
contrastare questo tipo di impostazione. Innanzitutto non è ammissibile, dal
punto di vista della Commissione, il più rigido degli orientamenti, che per un
certo periodo è stato sposato dalla Cassazione, per la quale il giudicato cautelare
bloccava qualsiasi tipo di intervento successivo; in particolare originariamente
la Cassazione diceva che il giudicato copriva tutte le questioni formali,
procedimentali e sostanziali, copriva tutto il dedotto e il deducibile, veniva a
formarsi laddove l’ordinanza non fosse stata impugnata nei termini utili previsti
dal Codice. Successivamente c’è stata un’attenuazione, di fatto oggi sono
coperte da giudicato le questioni dedotte, ma non più le questioni deducibili.
Tipico esempio di questione deducibile in ogni momento è la questione
afferente il mancato rispetto del termine imposto al Pubblico Ministero per la
trasmissione atti al Tribunale del riesame. Non sono coperte da giudicato
cautelare le questioni di carattere meramente formale. Sono invece coperte da
giudicato, secondo quello che è l’orientamento della Suprema Corte, le
questioni di merito dedotte. Questo, ripeto, si espone ad una critica, dal nostro
punto di vista, sulla scorta di dati normativi di una certa consistenza, poiché
l’Art. 299, commi primo e secondo, e soprattutto al comma terzo ter, sembra
consentire al Difensore di adire al Tribunale del riesame chiedendo una
rivalutazione di questioni che già sono state dedotte. Infatti l’Art. 299 prevede
che possa essere chiesta la revoca della misura cautelare anche per fatti
sopravvenuti, e già questo sembra sottendere la possibilità di ottenere una
rivalutazione anche sui fatti che già sono stati oggetto di valutazione e di
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decisione precedentemente, ma è soprattutto l’Art. 299 comma terzo ter che
assume rilievo, dato che la norma nel prevedere che il Giudice per le Indagini
Preliminari deve procedere all’interrogatorio dell’indagato nell’ipotesi in cui
questi venga a rappresentare degli elementi nuovi per ottenere la revoca della
misura, viene a significare che qualora vengano suggeriti, introdotti gli stessi
elementi già valutati dal Giudice, il Giudice non dovrà assumere l’interrogatorio
dell’indagato, ma dovrà comunque decidere e non troverà nessun tipo di
ostacolo nel fatto che si è formato il giudicato cautelare.
Il problema del giudicato cautelare si pone, ovviamente, non tanto in relazione
ai gravi indizi di colpevolezza, perché rispetto ai gravi indizi di colpevolezza è
abbastanza ragionevole che in mancanza di un mutamento del quadro indiziario
non vi siano ragioni per una rivisitazione della vicenda de libertate, anche se
questo non sempre è vero, perché vi sono delle ipotesi in cui la rivalutazione si
impone; esempio tipico: brogliacci di intercettazioni telefoniche che non
corrispondono al reale contenuto delle intercettazioni telefoniche, che emerge
soltanto all’esito delle trascrizione, in questo caso avremmo delle intercettazioni
già oggetto di valutazione, ma che devono essere senz’altro rivalutate in quanto
il loro contenuto non risponde perfettamente a quello che è stato apprezzato dal
Giudice per le Indagini Preliminari prima e dal Tribunale del riesame poi, in
sede di adozione dei provvedimenti di loro competenza.
Il punto dolente in realtà sono le esigenze cautelari, cioè il giudicato cautelare
sulle esigenze cautelari. Il Dottor Risi vi mostrerà poi un atto molto interessante
che è stato predisposto per i detenuti di un carcere della Repubblica, in cui
proprio ci si lamenta del fatto che il giudicante non rivaluta i motivi, ma, mi
sembra di capire, invoca il fatto che non ci sono motivi nuovi e quindi si è
formato sul punto il giudicato cautelare. Sulle esigenze cautelari il problema
sussiste soprattutto con riferimento alle esigenze di cui all’Art. 274 lettera c),
pericolo di reiterazione, poiché si assiste alla curiosa situazione per la quale in
tema di cautele abbiamo una pericolosità sociale rispetto alla quale si forma un
giudicato, mentre nel sistema complessivo la cosa viene smentita nella
disciplina delle misure di sicurezza, le quali invece richiedono una periodica
verifica della pericolosità sociale; quindi già sotto il profilo dogmatico ci sono
delle difficoltà di tenuta dell' istituto rispetto alle esigenze di cui all’Art. 274
lettera c). E poi vi è una difficoltà oggettiva, poiché non si capisce esattamente
come si possa superare una certa condizione, difficoltà particolarmente avvertita
con riguardo all’ipotesi in cui la misura in atto sia la custodia cautelare in
carcere, poiché il detenuto in carcere non ha la possibilità di addurre alcun
motivo nuovo che venga ad attenuare la pericolosità sociale ritenuta dal G.I.P. o
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dal Tribunale del riesame successivamente, perché si trova in carcere e quindi
può soltanto rappresentare come momento di novità il decorso del tempo.
Voi sapete che molto spesso le istanze di revoca rappresentano come motivo il
decorso del tempo e rispetto al decorso del tempo assistiamo a decisioni che
sono al limite dell’arbitrarietà, poiché in fattispecie completamente uguali un
Giudice ci dice che il decorso del tempo è di per sé sufficiente ad aver stimolato
un processo di rivisitazione critica, mentre in altre occasioni il decorso del
tempo viene considerato assolutamente ininfluente e quindi la misura viene
conservata. È un problema in questo momento, direi, sulla scorta della
giurisprudenza di legittimità di merito, insuperabile, però è un problema che
deve far riflettere, poiché di fatto, se la persona si trova in custodia cautelare,
non vi è mai la possibilità astratta di ottenere la revoca, poiché il detenuto non
può dar prova che si comporta bene, che lavora, che ha una struttura famigliare
adeguata ed è rispettoso della legge; non lo può fare perché si trova in carcere;
l’unica possibilità sarebbe quella di valutare la sua condotta in carcere, ma
abbiamo l’assoluta assenza di canali di collegamento tra il Tribunale del
riesame e il carcere; poiché se la Magistratura di sorveglianza ha in materia di
esecuzione delle pene detentive e per l’eventuale concessione di misure
alternative, la possibilità di seguire passo passo il detenuto con delle relazioni
comportamentali che vengono stilate dagli operatori che agiscono all’interno del
carcere, questo non è possibile al Tribunale del riesame, il quale non ha questo
tipo di collegamenti e, tra l’altro, dovrebbe agire con tempistiche che
sicuramente sono differenti da quelle che sono praticabili in sede di esecuzione.
Quindi l’auspicio è quello che sempre meno il G.I.P. e il Tribunale ricorra a
questa formula: non ci pronunciamo poiché la questione è già coperta da
giudicato, anche se allo stato è un problema che non trova soluzioni appaganti
per la Difesa, proprio perché il giudicato viene considerato un ostacolo
insuperabile.
Adesso passo la parola agli altri relatori, mi permetterete di ringraziare soltanto
i colleghi che hanno partecipato alla relazione, l’Avvocato Alessandra Collenea,
l’Avvocato Barbara Tomarchio, l’Avvocato Graziano Stocco e l’Avvocato
Alessandro Lison. Grazie.
AVV. RENATO ALBERINI
Ringrazio il collega De Franceschi e tutti i colleghi che hanno partecipato come
me alla Commissione di Studio di Diritto Processuale Penale, alla relazione di
questo intervento. Passo quindi la parola alla Dottoressa Giuliana Galasso,
Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Padova.
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DOTT. SSA GIULIANA GALASSO
Io ringrazio la Commissione per l’invito. Prometto che sarò breve. Intendo
trattare molto brevemente solo la parte che riguarda la motivazione delle
ordinanze che applicano la misura, e fare un accenno alla giurisprudenza della
Corte Costituzionale per il riferimento che può avere agli argomenti che
trattiamo, principalmente al giudicato cautelare.
Vi è già stato detto, l’Art. 13 comma secondo della Costituzione stabilisce che
non è ammessa forma alcuna di detenzione, né qualsiasi altra restrizione della
libertà personale, se non per atto motivato dall’Autorità giudiziaria e nei soli
casi e modi previsti dalla legge. Gli Artt. 272 e seguenti del Codice di
Procedura Penale pongono appunto i casi e i modi in cui il Giudice può limitare
e incidere alle libertà personali dell’indagato. Non parlerò ovviamente delle
condizioni generali di applicabilità della misura (la richiesta del Pubblico
Ministero, la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza o delle esigenze
cautelari, il limite edittale di pena previsto specificamente per la misura che il
Pubblico Ministero richiede e l’adeguatezza della misura), per soffermarmi
sull’Art. 292 del Codice di Procedura Penale che stabilisce quali requisiti deve
avere a pena di nullità l’ordinanza del Giudice che applica la misura. In
particolare sul comma terzo lettera c), che esplicita l’obbligo di motivazione
(costituzionalmente imposto, come abbiamo visto) con le parole:
“L’esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano
in concreto la misura disposta con l’indicazione degli elementi di fatto da cui
sono desunti e dei motivi della loro rilevanza”. Nel sistema originario del
Codice la norma si fermava qui. C’è stata poi una prima modifica nel ’91, (D. L.
13. 5. 1991 n. 152 convertito in L. 12. 7. 1991 n. 203) che ha chiarito che la
nullità è rilevabile d’ufficio anche dal Giudice ed ha aggiunto, al comma 3 lett.
c) che le esigenze cautelari e i gravi indizi di responsabilità devono essere
valutati “tenuto conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato”.
Ha aggiunto inoltre il comma c) bis che dice: “L’esposizione dei motivi per i
quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla Difesa”. Poi la
legge 8 agosto ‘95 ha aggiunto anche il comma 2 ter: “L’ordinanza è nulla se
non contiene la valutazione degli elementi a carico e a favore dell’imputato di
cui all’Art. 358 e 327 bis del Codice Penale”, cioè il 358, vi ricordo, è l’articolo
che impone al Pubblico Ministero di ricercare anche gli elementi a favore
dell’indagato; il 327 bis fa invece riferimento alle indagini difensive in senso
proprio. Quindi il legislatore vuole che l’ordinanza del Giudice sia motivata a
pena di nullità rilevabile anche d’ufficio in relazione anche agli elementi a
favore della Difesa.
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Qui s’impone una prima considerazione, perché l’Art. 291 c.p.p. non impone al
Pubblico Ministero di trasmettere tutti gli atti del fascicolo processuale. La
norma è abbastanza chiara: il Pubblico Ministero sceglie gli atti da trasmettere
al G.I.P., ha l’obbligo però di trasmettere tutti gli atti che possono essere
rilevanti per la Difesa. In teoria è una norma che garantisce la Difesa, in pratica
ha i suoi limiti, perché il fascicolo del Pubblico Ministero in questa fase è un
fascicolo ancora coperto dal segreto delle indagini; il G.I.P. può vedere solo gli
atti trasmessi dal Pubblico Ministero, al Difensore andranno depositati solo gli
atti trasmessi dal Pubblico Ministero. Quindi nessuno può dire se negli atti che
il P.M. non ha trasmesso c’erano elementi che potevano essere valutati anche a
favore della Difesa. Quindi questa nullità rimane un po’ una nullità sulla quale
poi bisognerà discutere e vedere come potrebbe essere valorizzata. Vi ricordo
poi che il fascicolo difensivo anche nella fase delle indagini è depositato presso
l’ufficio del Giudice delle Indagini Preliminari e non in Procura, per cui questo
è un fascicolo che, se le Cancellerie funzionano, il Giudice potrebbe avere a
disposizione anche nel momento in cui deve decidere sulla richiesta di misure
cautelari.
Vi volevo leggere due parole di una massima in proposito: è la sentenza 24/9/94
n. 37938, RV 231001, impugnante Grillo, in cui la Corte ha ritenuto
insussistente la violazione dell’obbligo gravante sul Pubblico Ministero ex Art.
291 nella mancata trasmissione al Giudice del riesame delle dichiarazioni rese
da altri indagati in altri procedimenti, non trasmesse neppure al G.I.P. e
riportate nella richiesta di applicazione della misura cautelare, le quali, pur non
risultando nel fascicolo del Pubblico Ministero, erano contenute tuttavia in una
nota informativa relativa ad altro procedimento trasmesso sia al G.I.P. che al
Giudice del riesame. Perché ho richiamato questa massima? Perché mi sembra
particolarmente importante, dal momento che non si può escludere che dalla
lettura integrale delle dichiarazioni rese dagli altri indagati si potessero evincere
anche elementi a favore degli indagati per i quali veniva richiesta la misura.
Devo dire che a me capita di chiedere delle integrazioni al Pubblico Ministero,
quando viene richiesta una misura cautelare, se mi accorgo che dei punti sono
incompleti o comunque non mi sono sufficientemente chiari, con un
provvedimento interlocutorio chiedo al Pubblico Ministero di integrare quel
punto delle indagini. Capita abbastanza di frequente, per esempio, nelle
richieste di misura che si basano essenzialmente sulle intercettazioni
telefoniche: per gli operanti diventa un po’ scontato dire che “quel telefono è in
uso a quell’indagato e l’altro telefono è in uso all’altro indagato”, però a volte,
dopo avere esaminato gli atti, non mi sembra che poi siano chiarissime queste
circostanze e quindi chiedo un’integrazione. Non è un vero e proprio
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provvedimento di rigetto, è un provvedimento interlocutorio, non previsto
dall’ordinamento, ma nemmeno vietato, il Pubblico Ministero può rispondere
integrando quel punto oppure può dire: “No, io non sono in condizioni o non
voglio integrare, decidi”; allora ovviamente si tratterà di valutare caso per caso,
perché può darsi che la motivazione possa reggere anche a prescindere dai punti
che mi sembravano incompleti, può darsi invece che senza
quell’approfondimento non resti molto per applicare la misura, e in questo caso
rigetto.
Se per motivazione si intende l’esposizione delle ragioni per le quali il Giudice
è arrivato ad un certo convincimento, una ordinanza che “ricicli” la richiesta del
P.M. va sanzionata, perché mi sembra un caso di motivazione apparente, così
come mi sembrano un caso di motivazione apparente tutte quelle ordinanze
anche molto voluminose in cui praticamente però non c’è una sola valutazione
del materiale probatorio operata dal Giudice: in realtà l’ordinanza non fa che
mettere insieme i vari atti di indagine (intercettazioni telefoniche, interrogatori,
etc. ) e per questi motivi applica la misura. Tanto varrebbe allora applicare la
misura e dire: “Gli atti sono questi, ognuno tiri le proprie conclusioni”.
A volte mi sento anche a disagio, perché noi, come Giudici delle Indagini
Preliminari, assumiamo anche gli interrogatori delegati, quindi vediamo
ordinanze applicate dai Giudici di tutta Italia. Ho letto di recente un’ordinanza
di custodia cautelare, non dirò ovviamente da quale Tribunale veniva, però era
la richiesta del Pubblico Ministero e io giravo, giravo, non trovavo un’ordinanza
applicativa, e poi in calce alla richiesta c’era scritto: “Il Giudice, condivise le
argomentazioni, applica la misura”. Questo mi sembra che sia effettivamente un
caso che non può essere lasciato passare. Ricordo che la Corte di Cassazione a
Sezioni Unite, con sentenza 21/9/2000 n. 17, ha ritenuto appunto legittima la
motivazione per relationem quando faccia riferimento ad un legittimo atto del
procedimento, ma soprattutto fornisca la dimostrazione che il Giudice ha preso
cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di
riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione. Quindi
io ritengo che sicuramente è lecito un uso intelligente del taglia/incolla della
richiesta del Pubblico Ministero, perché non avrebbe senso riscrivere dei passi o
delle dichiarazioni o delle intercettazioni telefoniche, etc., però è importante che
dall’ordinanza risulti evidente che il Giudice ha esaminato gli atti innanzitutto e
abbia raggiunto le stesse conclusioni alle quali è giunto il Pubblico Ministero
con la richiesta di misura.
Mi pare pacifico che il Tribunale del riesame abbia il potere di integrare la
motivazione del Giudice, lo dice chiaramente l’Art. 309 c.p.p. e discende anche
dal carattere del Tribunale del riesame che è Giudice di merito. Direi che il
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potere del Tribunale del riesame di integrare la motivazione del Giudice nasce
anche da un’esigenza pratica. Le misure sono sempre applicate inaudita altera
parte, perché, è vero che il Giudice deve tener conto degli elementi a Difesa, ma
è anche vero che spesso non c’è nessun elemento a Difesa nel momento in cui si
applica la misura, perché magari l’indagato non sa nemmeno di essere indagato
e quindi non si è difeso in alcun modo. Quando poi si procede all’interrogatorio
capita qualche volta, adesso non saprei dire se più o meno frequentemente, che
l’indagato espone una tesi difensiva che effettivamente può avere una sua
validità, che però non è valutata nell’ordinanza di custodia cautelare, per il
semplice fatto che l’ordinanza di custodia cautelare o comunque l’ordinanza
applicativa della misura è stata emessa prima che venisse formulata. Non è
ovviamente una ragione che abbia un suo valore giuridico, però risponde ad
esigenza pratica, riconoscere al Tribunale del riesame investito della questione,
di poter integrare la motivazione del Giudice sui vari punti in cui può essere
carente. Per il resto, lasciando poi al dottor Risi tutte le varie questioni, devo
dire che io mi sento di condividere l’interpretazione suggerita dalla
Commissione, che cioè il Tribunale del riesame ha il potere di integrare una
motivazione che sia carente, manchevole, insufficiente e debba, però, giungere
all’annullamento dell’ordinanza quando la motivazione sia del tutto assente,
mancante non solo fisicamente e graficamente, ma anche quando si tratti di una
motivazione apparente. E’ vero che questa conclusione si scontra col principio
che il vizio di motivazione produce nullità solo nell’ambito dei giudizi di
legittimità, ma è anche vero che il procedimento incidentale sulla libertà è un
procedimento peculiare - pensiamo per esempio ai termini previsti a pena di
inefficacia della misura - e soprattutto è un procedimento che si riferisce a un
bene costituzionalmente protetto in cui la motivazione del provvedimento ha
specifica rilevanza costituzionale. Quindi io non mi scandalizzerei di un
annullamento del Tribunale del riesame per omessa motivazione dell’ordinanza
del Giudice.
Dirò che ho trovato anche delle sentenze, soprattutto una interessante in materia
di sequestro, proprio perché il sequestro invece non richiede nessuna
valutazione dei gravi indizi di responsabilità e quindi si potrebbe ritenere che
l’obbligo di motivazione del Giudice è affievolito; invece la Cassazione penale,
sentenza 8/1/2003 n. 27, ha stabilito che in tema di provvedimenti di sequestro
dal combinato disposto degli Artt. 324 settimo comma e 309 nono comma
Codice di Procedura Penale, deriva la possibilità del Tribunale del riesame di
integrare la motivazione del provvedimento oggetto del gravame ancorché
quest’ultima sia succinta e ricavabile nella sua estensione dalle adesioni
all’indicazione e alla descrizione del fatto effettuata dalla Polizia Giudiziaria.
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Per contro, il Tribunale del riesame deve rilevare la nullità del decreto quando
esso sia del tutto carente del requisito della motivazione. Quindi a maggior
ragione direi che questo principio è applicabile alle ordinanze che applicano le
misure cautelari. Ci sono delle sentenze in proposito, anche una abbastanza
recente: Corte di Cassazione Sezione Quarta, sentenza 26/11/2003, impugnante
Chisari. Certo, in pratica può essere difficile distinguere i casi in cui la
motivazione insufficiente può essere integrata e i casi in cui la motivazione
invece manca del tutto e ne può derivare la nullità, perché naturalmente tra il
bianco e il nero c’è sempre un grigio, che è difficile dire se sia più vicino al
bianco o più vicino al nero, però in fondo il compito del giudicante è anche
quello di distinguere e di applicare poi la norma nel caso concreto.
Chiuse queste brevi note sulla motivazione, vorrei fare qualche riflessione sulla
giurisprudenza della Corte Costituzionale, perché mi sembra particolarmente
interessante, non solo per le pronunce di legittimità costituzionale che tutti noi
conosciamo, ma proprio per i ragionamenti che la Corte svolge, soprattutto con
le sentenze in cui dichiara non fondate le questioni. Per esempio a proposito
della qualificazione giuridica del fatto, la Corte Costituzionale fin dal 1991
aveva detto che il Giudice dell’udienza preliminare poteva dare al fatto una
qualificazione giuridica diversa, sia pure ai soli fini di dichiarare
l’incompetenza. Allora io mi chiedo: c’era ragione di costringere il G.I.P.,
investito sulla richiesta di una misura, ad inventarsi una motivazione per poi
aspettare l’udienza preliminare per dire che quella non era estorsione, ma per
esempio esercizio arbitrario delle proprie ragioni? Oppure adesso, di recente,
proprio le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con la sentenza del
28/6/2005, hanno stabilito che l’omesso deposito dell’ordinanza applicativa di
una misura cautelare personale e degli atti prescritti dall’Art. 293 terzo comma
Codice di Procedura Penale è causa di nullità dell’interrogatorio di garanzia per
violazione del diritto di difesa nonché della perdita di efficacia della medesima
ordinanza. Però, in fondo, già la Corte Costituzionale con la sentenza del 24
giugno ‘97 n. 192, con la quale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’Art. 293 nella parte in cui non avrebbe consentito ai Difensori di estrarre
copia degli atti, aveva detto che dopo l’esecuzione della misura cautelare non
sussistono ragioni di riservatezza tali da giustificare limitazione al diritto di
difesa; al contrario, dopo l’esecuzione della misura, deve essere consentito il
pieno esercizio del diritto di difesa assicurando al Difensore la più ampia ed
agevole conoscenza degli elementi su cui è fondata la richiesta del Pubblico
Ministero, al fine di rendere attuabile un’adeguata e informata assistenza
dell’interrogatorio della persona sottoposta alla misura ex Art. 294, nonché di
valutare con piena cognizione di causa quali siano gli strumenti più idonei per
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tutelare la libertà personale del proprio assistito. Leggendo la motivazione di
questa sentenza già si capiva che secondo la Corte il deposito degli atti e la
possibilità per il Difensore di estrarne copia doveva avvenire prima
dell’interrogatorio.
Vediamo che cosa ci può dire la Corte Costituzionale in tema di giudicato
cautelare. La Corte Costituzionale, badate, non fa il benché minimo accenno in
nessuna delle varie sentenze al giudicato cautelare. Non so se lo fa per
prenderne le distanze o se lo fa perché la Corte ci tiene a rimanere sempre negli
stretti limiti della questione che sta esaminando, però a me pare significativo il
fatto che in realtà non ne parla mai, nemmeno quando sarebbe il caso di farvi
qualche accenno.
Ve ne hanno già parlato, ma voglio rammentare, sul concetto di giudicato
cautelare, la sentenza Buffa, sezioni unite 28. 7. 1994 n. 11, che dopo aver
premesso che “il giudice competente a pronunciarsi sulla revoca della misura
cautelare non incontra alcuna preclusione - quanto all'accertamento della
carenza originaria (oltre che persistente) di indizi o di esigenze cautelari –
nella mancata impugnazione dell'ordinanza cautelare nei termini previsti”,
conclude, però, che una preclusione processuale è suscettibile di formarsi a
seguito delle pronunzie emesse, all'esito del procedimento incidentale di
impugnazione, dalla Corte Suprema ovvero dal Tribunale in sede di riesame o
di appello, avverso le ordinanze in tema di misure cautelari, preclusione
limitata allo stato degli atti e relativa alle sole questioni dedotte, implicitamente
o esplicitamente. “Ne consegue che le pronunzie in esame - se non impugnabili
o, a loro volta, non impugnate - spiegano un'efficacia preclusiva sulle
suindicate questioni e che, pertanto, come non è consentita l'adozione di una
nuova ordinanza cautelare sulla base degli stessi elementi ritenuti insussistenti
o irrilevanti in sede di gravame, allo stesso modo le questioni in discorso
restano precluse in sede di adozione di ogni successivo provvedimento relativo
alla stessa misura e allo stesso soggetto”.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano stabilito, con la sentenza 25
ottobre ‘95 n. 38, Liotta, che il rinvio a giudizio dell’imputato precludeva la
rivalutazione dei gravi indizi di colpevolezza, così anche il decreto di giudizio
immediato, perché la Corte aveva ritenuto che il rinvio a giudizio, implicando
un accertamento positivo nella sussistenza di elementi tali da integrare quella
qualificata probabilità di affermazione della penale responsabilità, che è
richiesta perché si possa configurare il requisito dei gravi indizi di colpevolezza
di cui all’Art. 273, preclude in assenza di fatti nuovi sopravvenuti la possibilità
di rimettere in discussione il requisito medesimo.
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Bene, nemmeno un anno dopo, con sentenza del 15 marzo ‘96 n. 71, la Corte
Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità degli Art. 309 e 310 nella parte in
cui, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, precludevano la
valutazione dei nuovi indizi di responsabilità dopo il rinvio a giudizio. A me
questa sentenza pare di un certo rilievo, perché la Corte Costituzionale non si
limita a dichiarare l’incostituzionalità di questa interpretazione del solo Art.
309, ma dichiara l’incostituzionalità anche dell’Art. 310, senza appunto
affrontare il problema del giudicato cautelare. Nella sentenza della Corte, non
mi pare ci sia nessun riferimento al giudicato cautelare, che pure le Sezioni
Unite con la sentenza Buffa del ‘94, avevano già affermato.
Anzi afferma, in riferimento ad entrambe, (alle ordinanze che applicano e a
quelle che mantengono le misure) che “precludere l’esame dei gravi indizi di
colpevolezza nelle impugnazioni de libertate equivale ad introdurre nel sistema
un limite che si appalesa irragionevolmente discriminatorio e al tempo stesso
gravemente lesivo del diritto di difesa, per di più proiettato nella specie verso la
salvaguardia di un bene di primario risalto quale è quello della libertà
personale.”
Soprattutto mi sembrano importanti tutte le varie sentenze con le quali la Corte
Costituzionale ha dichiarato l’incompatibilità del Giudice che ha applicato la
misura o che ha provveduto sulla misura a partecipare al giudizio, sia esso nella
forma dell’applicazione pena, nella forma del giudizio abbreviato o nel
dibattimento. Per esempio la sentenza della Corte Costituzionale del 17 e 24
aprile ‘96 n. 131 oppure la sentenza del 13 e 20 maggio ‘96 n. 155: anche in
queste sentenze la Corte Costituzionale non distingue tra il Giudice che applica
la misura, e quindi è il Giudice che valuta i gravi indizi e la sussistenza delle
esigenze cautelari e diventa, di conseguenza, incompatibile al giudizio, ma
estende le pronunce di incostituzionalità anche al Giudice che è chiamato a
modificare o a revocare un’ordinanza di custodia cautelare o, comunque,
un’ordinanza in materia di libertà.
In queste sentenze la Corte non fa alcun riferimento, anzi, espressamente,
afferma, nella sentenza n. 155/96, che anche l’ordinanza di modifica,
sostituzione e revoca della misura o di rigetto della relativa istanza comporta
una decisione sull’esistenza delle condizioni che legittimano la cautela
personale, relative all’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza e alle esigenze
cautelari. Se considerate che invece la Corte Costituzionale ha ritenuto
infondata la questione di costituzionalità relativa al Giudice del riesame che ha
deciso sul sequestro ed ha ritenuto che quel Giudice può partecipare al giudizio
perché la decisione sul sequestro non involge nessuna valutazione dei gravi
indizi di responsabilità, se ne deduce, a mio parere che la Corte, prima di
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dichiarare l’incompatibilità del Giudice che ha deciso sulla misura, dovrebbe
porsi il problema di verificare se è un Giudice che ha davvero deciso nel merito
o si limitato a recepire “un giudicato cautelare”. Sappiamo tutti che in diritto
tutto è opinabile e su tutto possiamo discutere, però a me pare che dalla
giurisprudenza della Corte Costituzionale in questa materia si possano ricavare
degli utili elementi.
C’è ancora un’altra sentenza che mi sembra significativa ed è la sentenza n.
89/1998. Con questa sentenza la Corte Costituzionale ha dichiarato che il
Giudice – parliamo adesso non più del G.I.P., ma del Giudice investito del
procedimento quindi del Giudice dell’Udienza Preliminare o del Giudice del
giudizio – poiché ha la disponibilità del processo, quando è investito di una
domanda relativa alla cautela, può anche superare la domanda in bonam partem;
quindi, per esempio, se la domanda è solo quella di rendere meno gravose le
misure applicate, il Giudice può anche revocare la misura, perché sono venute
meno le esigenze cautelari.
Per concludere, io ritengo che, se si è formato un giudicato cautelare, nel senso
che se c’è stata l’ordinanza del Giudice che ha applicato la misura e c’è stata
l’impugnazione e il Tribunale ha confermato, o se non c’è stata impugnazione,
quella misura rimane validamente nel processo, quindi è un’ordinanza che
risulta legittimamente emessa e spiega i suoi effetti nel processo. Però, secondo
me, bisogna scollegare l’art. 309 c.p.p. dall’ art. 299 c.p.p. cioè non bisogna
spingere gli effetti dell’ordinanza che applica la misura e dell’ordinanza del
riesame che eventualmente la confermi, fino a limitare la possibilità di mettere
sempre in discussione l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle
esigenze cautelari; sia perché dalla lettera dell’art. 299 c.p.p. come diceva già il
relatore che mi ha preceduto, l’Avvocato De Franceschi, si ricava chiaramente
che presuppone la possibilità di rimettere in discussione, in ogni momento, la
sussistenza delle esigenze cautelari, ma anche dei gravi indizi di colpevolezza
(le misure sono immediatamente revocate quando risultano mancanti, anche per
fatti sopravvenuti le condizioni di applicabilità), sia perché, vorrei dire, anche il
principio di non colpevolezza affermato dalla Costituzione verrebbe in un certo
modo ad essere limitato e compresso se si giunge a dire che vi è una fase in cui,
pur essendo stata pronunciata una sentenza di condanna definitiva, non è più in
discussione la responsabilità dell’indagato.
Per ritornare alla Corte Costituzionale, proprio in una di queste sentenze che ho
citato, sentenza 7 e 15 marzo ‘96 n. 71, la Corte riconosce che nel nostro
ordinamento non trova spazio “una concezione rigorosa ed astratta
dell’autonomia del provvedimento incidentale di libertà rispetto a quello di
merito, giacché ciò condurrebbe alla paradossale conseguenza di ritenere
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possibile la rivalutazione del presupposto dei gravi indizi di colpevolezza in
qualsiasi momento del processo e dunque anche dopo l’eventuale intervento di
una sentenza di condanna in aperta autonomia con la coerenza stessa del
sistema, che certo non tollera il concorso di due pronunce giurisdizionali sul
tema della colpevolezza, l’una di tipo prognostico e l’altra fondata sul pieno
merito, e come tale suscettibile di passaggio in giudicato.” Quindi, se vogliamo
attenerci alla giurisprudenza costituzionale, secondo me di giudicato cautelare si
può parlare con fondamento di causa solo dopo la condanna di primo grado,
perché solo con la condanna di primo grado un Giudice che ha piena cognizione
del merito e che ha potuto esaminare tutti gli atti - adesso sì tutti gli atti del
processo, perché voi sapete che se il Pubblico Ministero può scegliere in fase di
richiesta di misura cautelare deve però trasmettere Giudice, con la richiesta di
rinvio a giudizio, tutti gli atti - è solo qui che, a mio parere, si può dire che si è
effettivamente formato un “giudicato cautelare”. Allora quale potrebbe essere la
soluzione? Perché, diciamo la verità, forse il principio del giudicato cautelare
nasce da un’esigenza che è eminentemente pratica: quella di trovarsi a motivare
sempre e di nuovo le stesse cose. Io credo che un Difensore ha tutto l’interesse
di reiterare anche più volte un’istanza già rigettata, se non altro quando la
persona fisica del Giudice chiamato a decidere è diversa da quella che ha
emesso la misura: pensiamo ai periodi feriali in cui negli uffici G.I.P. si
alternano un po’ tutti, pensiamo anche alle assenze o alle malattie dei Giudici,
pensiamo quando la competenza passa dal G.I.P. al G.U.P.. Quindi
probabilmente a spingere per la formulazione del giudicato cautelare è anche
un’esigenza tutto sommato pratica. Allora, se questa è l’esigenza, si potrebbe
forse trovare una soluzione che la soddisfi senza però comprimere diritti
costituzionalmente garantiti. Quale potrebbe essere questa soluzione? La dico lì,
senza ovviamente nessuna pretesa di convincere nessuno: potrebbe essere quella
di semplificare l’obbligo di motivazione, quasi come una legittimazione della
motivazione per relationem. Cioè, quando c’è un’ordinanza del G.I.P. non
impugnata, un’ordinanza del Tribunale del riesame, il Giudice che è chiamato di
nuovo a rivalutare gli stessi elementi, sia in punto esigenze cautelari, sia in
punto gravi indizi di responsabilità, non dirà “rigetta perché si è formato il
giudicato cautelare”, ma dirà “rigetta perché condivido pienamente le
argomentazioni delle precedenti ordinanze”. Se le condivide. Altrimenti è libero
di decidere in senso difforme. Non è una soluzione meramente linguistica, come
potrebbe sembrare, perché, e lo dico come G.I.P, se, nell’ “ereditare” il
fascicolo di altri miei colleghi dovessi verificare che sono venuti meno o non
ritengo sussistenti i gravi indizi di responsabilità o le esigenze cautelari, non
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avrei difficoltà ad accogliere, magari tenuto conto della giurisprudenza con una
formula più soft rispetto a quella che potrei usare.
Penso di fermarmi qui per lasciare spazio agli altri relatori. Chiudo con una
considerazione: la Corte Costituzionale in fondo ha ritenuto che quello che pregiudica l’indagato poi imputato è il fatto che a giudicare sia lo stesso Giudice
persona fisica che ha deciso in materia cautelare. In realtà, secondo me, quello
che pre-giudica, se vogliamo parlare di un pre-giudizio, è il fatto che ci siano
degli imputati in stato di custodia cautelare, che questi imputati siano in stato di
custodia cautelare magari da molto tempo; perché a me a volte capita, quando si
tratta di decidere soprattutto gli abbreviati e mi sembra che poi gli elementi non
siano proprio tantissimi e pienamente convincenti, di leggere le ordinanze del
Tribunale del riesame con le quali è stata confermata la misura, e magari mi
farebbe anche piacere trovare qualche conforto ulteriore nei Giudici che si sono
succeduti, perché il decorrere del tempo non incide solo sulle esigenze cautelari,
ma secondo me anche un po’ sulla valutazione dei gravi indizi di responsabilità,
perché quando la misura viene applicata all’inizio delle indagini, ognuno di noi
è portato a pensare che poi quelle indagini si completeranno in un certo modo,
si troveranno altri elementi a coprire non vuoti rilevanti, ma incertezze piccole e
meno piccole. Succede invece che la Polizia e il Pubblico Ministero, una volta
ottenuta la misura, si acquietino e l’indagine finisce lì; cioè vi trovate dopo un
anno esattamente con le stesse prove raccolte all’inizio e vi chiedete che
cos’hanno fatto nel frattempo, perché questo processo è rimasto fermo un anno
anziché venire prima a giudizio dove magari nella fase dell’abbreviato si può
procedere ad una integrazione. E mi farebbe piacere vedere che qualcuno prima
di me, anche dopo l’applicazione della misura, si sia chiesto se quegli elementi
erano davvero sufficienti.
Non mi piace il principio del giudicato cautelare e mi fermo qui.
AVV. RENATO ALBERINI
Ringrazio la Dottoressa Galasso. Passo ora la parola al nostro Presidente della
Sezione Distrettuale del Riesame, Dottor Angelo Risi, che potrà illustrarci su
quello che è il diritto e la giurisprudenza viva del nostro Tribunale del riesame.
DOTT. ANGELO RISI
Innanzitutto voglio darvi qualche dato. Il Tribunale Distrettuale del Riesame di
Venezia, come certamente saprete, riesamina ex Art. 309 o valuta in sede di
appello ex Art. 310 tutte le ordinanze, rispettivamente quelle cautelari e quelle
in materia di libertà, dell’intero distretto. Attualmente vengono celebrate quattro
udienze alla settimana e le due Sezioni hanno ripartito, come diceva l’Avvocato
Vassallo, la loro competenza per una ragione ovvia: perché a seguito della
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trattazione di queste questioni si verifica ai sensi dell’Art. 34 un’incompatibilità
e di conseguenza c’è un meccanismo, che adesso qui non rileva ma comunque è
evidente, che serve ad evitare che chi ha fatto il riesame o l’appello componga
poi il Tribunale in sede dibattimentale e quindi si trovi poi in condizione a
doversi astenere. Tuttavia è stata ieri presentata una richiesta di modifica di
questo sistema, nel senso che il Tribunale di Venezia si trasformerà, se il
Consiglio Superiore accoglie questa proposta, in unica sezione collegiale di
talché ci sarà una circolazione interna dei Giudici e questo assicurerà, secondo
me, una circolarità delle diverse esperienze professionali e questo, fra le ragioni
che io all’epoca avevo suggerito, che sono state recepite nella richiesta dal
Presidente del Tribunale, è quella di una maggiore uniformità di giurisprudenza,
nel senso che tutti lavoreranno con tutti e quindi, ferma rimanendo la necessità
di dover ovviamente mettere in campo meccanismi predeterminati per evitare
questioni di incompatibilità, ci sarà la possibilità di formare collegi più
eterogenei e quindi di confrontarsi con diverse esperienze. Questo dovrebbe
consentire, non dico delle decisioni favorevoli alla Difesa in maggior numero,
ma certamente una minore disuguaglianza nei parametri di valutazione. In
effetti quando il legislatore previde il Tribunale Distrettuale del Riesame,
voleva evidentemente che un unico organo coordinasse e decidesse secondo
criteri il più possibile razionali e coordinati, quelli che dovevano essere i
parametri sulla base dei quali una persona deve attendere il processo in carcere
o agli arresti domiciliari o sottoposto a una misura cautelare piuttosto che libero.
Vi do un numero approssimativo: l’anno scorso il Tribunale della libertà di
Venezia ha trattato circa 2250 procedimenti e di questi, grosso modo, un
pochino più del 70% in sede di riesame ed il resto come appelli. Questo non
deve stupire, anche se numericamente le ordinanze in materia di libertà che
riguardano la manutenzione, diciamo con un’espressione riassuntiva, della
misura cautelare adottati ex art. 299 cpp sono numericamente di più delle
ordinanze cautelari. Questa è la dimostrazione provata che i G.I.P. fanno un
buon governo dei criteri di scelta delle misure e quindi gli interventi del
Tribunale dell’appello sono inferiori a quanto numericamente ci si potrebbe
aspettare, perché effettivamente la possibilità, una volta vagliata la prima
situazione, di modulare lo strumento cautelare man mano che il tempo passa,
attraverso tutta una gamma di passaggi, dalla misura più severa a quella meno
severa, valutando naturalmente il tempo passato. In massima il trend è in
aumento perché alla fine del primo semestre di quest’anno erano stati registrati
50 procedimenti in più il che ci porterà alla fine dell’anno a superare i 2500. Si
tratta di un numero solo di poco inferiore alla Corte d’Appello di Bologna, dove
la Sezione del Riesame è formata da nove Giudici più un Presidente che si
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occupano solo ed esclusivamente del riesame e non delle udienze collegiali.
Questo per dare un attimo il metro della valutazione di quello che è anche
l’impegno che viene profuso in questa attività, che sta diventando molto più
impegnativa dello stesso impegno collegiale, anche a seguito della circostanza
che da un lato moltissimi procedimenti, grazie al giudizio abbreviato davanti al
G.I.P., non pervengono più al giudizio collegiale e dall’altro anche al fatto che
l’aumento della competenza del monocratico ha spogliato il Collegio di
parecchi procedimenti di ordinaria facilità, basti pensare al 73 legge
stupefacenti, che prima invece intasavano il rito collegiale.
Dopo questa breve anticipazione, siccome non vorrei fratturare questa nostra
conversazione all’improvviso, inverto l’ordine di trattazione degli argomenti,
nel senso che parlerò per primo del giudicato cautelare, che è il principio che
normalmente noi utilizziamo più frequentemente decidendo gli appelli. Adesso,
se mi si dovesse chiedere qui oggi quali sono i principi che normalmente noi più
spesso utilizziamo direi che in sede di riesame vero e proprio il nostro criterio di
valutazione si basa per lo più sulla valutazione della corretta qualificazione
giuridica della fattispecie e naturalmente sul problema dell’integrazione
sì/integrazione no, annullamento sì/annullamento no, di cui parlerò dopo.
Invece in materia di appello normalmente il criterio che noi per lo più veniamo
chiamati ad applicare, e adesso vi dirò quella che è la giurisprudenza della
sezione a cui appartengo, è quello del giudicato cautelare.
Innanzitutto io penso che sia necessario fare un attimo di chiarezza, perché su
questo problema del giudicato cautelare si è detto di tutto e di più. Il problema
qual è? Ogni volta che il Giudice investito della questione ai sensi dell’Art. 299,
e a cascata, il Giudice dell’appello ex Art. 310 cpp nei casi in cui il Difensore
non abbia avuto soddisfazione, deve evidentemente confrontarsi con le
precedenti decisioni che sono già intervenute in materia di libertà, e quanto
meno quella dell’ordinanza cautelare genetica del Tribunale del riesame che
integra la prima decisione e/o delle ulteriori decisioni intervenute che hanno
detto qualcosa sempre e sicuramente sulla permanenza dei due parametri:
attualità di un quadro indiziario fortemente connotato in senso accusatorio,
esigenze cautelari e relativi problemi della loro permanenza e intensità.
Innanzitutto, secondo me, bisogna fare un attimo chiarezza su quella che è la
natura giuridica di questa preclusione processuale, questo è il suo esatto nome,
non giudicato cautelare; perché anche la Corte di Cassazione in questa materia
ha avuto per un lungo periodo le idee abbastanza confuse. L’espressione
“giudicato cautelare” è giuridicamente errata, per l’ovvia ragione che
innanzitutto l’espressione “giudicato cautelare” fa evidentemente riferimento
alle sentenze, mentre invece i provvedimenti che vengono emessi dal Tribunale
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del riesame sono delle ordinanze. Il problema immediatamente conseguente a
questo è che le ordinanze per definizione sono emesse allo stato degli atti e
quindi hanno una loro definitività, però hanno una loro portata più modesta
rispetto la res giudicata. Perché? Perché la sentenza copre il dedotto e il
deducibile, mentre invece la preclusione processuale, essendo una decisione
emessa allo stato degli atti, riguarda solo il dedotto, cioè soltanto le questioni
che sono state espressamente oggetto di decisione e non quelle che
astrattamente avrebbero dovuto essere poste alla sua attenzione e non sono state
poste. Il problema è quello che, a seguito di questa situazione, può essere
rimessa in discussione l’ordinanza e il suo contenuto soltanto se sono
sopravvenute delle nuove situazioni. Quindi, se ripeto, si tratta di ordinanze, il
contraddittorio può essere limitato alle sole sopravvenienze. Se vogliamo, a
questo punto, credo si possa definire il giudicato cautelare come una
preclusione di natura endoprocessuale suscettibile di formarsi a seguito di
pronunce emesse all’esito del procedimento incidentale di impugnazione, non
solo da parte del G.I.P. che ha emesso la misura, allorché la stessa non sia stata
impugnata, ma anche in sede di riesame, quando la decisione del riesame non
viene impugnata; in sede di giudizio di appello ex 310 quando la decisione non
viene impugnata e anche a seguito del giudizio di Cassazione che
eventualmente annulli per determinate motivazioni, con o senza rinvio,
rimettendo gli atti al Tribunale del riesame. In sostanza, quindi, l’ordinanza
cautelare che non viene impugnata o non è più impugnabile, e a maggior
ragione quando viene confermata, impedisce rivalutare le questioni che sono già
state esaminate e che sono già state decise, salvo che non sopravvengano i
famosi fatti nuovi, che possono consistere in elementi di fatto nuovi oppure
anche in semplici questioni di diritto. Quindi le ordinanze cautelari non sono
suscettibili di passare in giudicato, però dal sistema complessivo delle
impugnazioni si ricava agevolmente che quando esse non possono essere
impugnate o su di esse si siano esaurite le procedure di impugnazione, esse
divengono definitive e irrevocabili allo stato degli atti e pertanto possono essere
modificate, lo ribadisco, soltanto nel caso di sopravvenienza di fatti nuovi.
Qual è la ragione per cui accade questo? Innanzitutto si tratta di un istituto di
carattere generale; la preclusione processuale intesa come possibilità che una
ordinanza definitiva possa essere revocata e modificata per sopravvenienza è un
istituto di carattere generale. Citerò un esempio per tutti: quando viene emessa
una misura di prevenzione ai sensi della legge del 1956, per esempio la misura
della sorveglianza speciale, contro questo provvedimento possono essere
proposti determinati tipi di impugnazione, appello e ricorso per Cassazione.
Una volta che questo non accada, perché spira il termine per l’impugnazione
22
oppure una volta che la Corte d’Appello o di Cassazione abbia confermato il
provvedimento, non è che il sorvegliato non possa chiedere la revoca, potrà
chiederne la revoca affermando che nel corso del periodo di tempo in cui soffre
della sanzione della prevenzione speciale la situazione sia mutata, però avrà
- evidentemente - l’onere di provare che sulla base di fatti sopravvenuti la sua
pericolosità è venuta meno. Questo fenomeno si verifica anche davanti al
Giudice di sorveglianza: alla fine della procedura davanti al Tribunale di
sorveglianza viene emessa un’ordinanza allo stato degli atti che anch’essa, una
volta che divenga definitiva, potrà essere rimessa in discussione se, quando e
nella misura in cui sopravvengano dei nuovi elementi. Naturalmente il problema
è che l’applicazione di questo principio in tema di libertà personale assume un
suo significato particolarmente pregnante, però, come adesso andrò a dire, se
questo principio viene correttamente applicato non è e non diventa un
commodus discessus per il Giudice pelandrone che non è tenuto a riesaminare
la situazione di un detenuto ma diventa uno strumento che deve essere utilizzato
in presenza di effettive sopravvenienze. Lo scopo quindi è evidente: si vuole
evitare la reiterazione di provvedimenti che possono porsi in contrasto fra loro,
con altri provvedimenti che hanno il medesimo oggetto e sono caduti sulle
stesse questioni, e si vuole evitare che questo accada quando la situazione di
fatto sottostante non è minimamente mutata. E’ chiaro che in una situazione del
genere si scontrano due principi di rango costituzionale, perché da un lato c’è
una persona che è in una situazione di privazione della libertà personale, più o
meno pregnante, che con l’esigenza di un controllo costante sulla effettiva
attuale presenza di tutti i presupposti previsti perché la misura cautelare esplichi
la sua efficacia. Dall’altro però vi è anche l’esigenza, per ragioni di economia
processuale, ma io direi soprattutto per ragioni di coerenza del sistema, che non
possa essere la questione riesaminata in modo tale che si crei un conflitto fra
decisioni.
Spesso si dice che il riferimento normativo del cosiddetto giudicato cautelare
altro non è che un’interpretazione estensiva dell’applicazione del principio
dell’Art. 649 Codice di Procedura Penale. Sono d’accordo su questo, solo a
condizione che si possa affermare che la ratio è la medesima. Perché qual è la
ratio del ne bis in idem? Evitare da un lato che l’imputato soffra due
procedimenti diversi per lo stesso fatto, che evidentemente è un principio di
civiltà giuridica, ma soprattutto che si eviti la possibilità che il medesimo fatto
venga giudicato da due organi diversi con la possibilità di un contrasto fra
decisioni, il che in termini di certezza del diritto non è evidentemente
ammissibile. Se questo è il presupposto di partenza di questo istituto io sono
d’accordo nel ritenere che il riferimento normativo sia corretto; diversamente
23
non è così, perché si tratta di un principio generale ordinamentale. Se questo è il
giudicato cautelare, se questi sono i suoi limiti e la sua ratio, vediamo quali
sono i suoi effetti. Innanzitutto l’effetto del giudicato cautelare non è la
inammissibilità della richiesta presentata dal Difensore ai sensi dell’Art. 299,
ma è più semplicemente la circostanza e la conseguenza che il Giudice che
viene investito di questa questione è esonerato dall’obbligo di reiterare
un’identica motivazione potendo respingere le richieste operando
semplicemente una motivazione per relationem. Quindi non è vero che la
proposizione della richiesta, quando è identica a quella precedentemente già
decisa ovvero analoga, venga dichiarata inammissibile; noi, in tutti i casi in cui
ciò si verifichi, non facciamo dichiarazione di inammissibilità, né in sede di
dispositivo, né in sede di deposito del provvedimento, come si potrebbe fare se
ciò fosse, cioè de plano, senza fissare l’udienza, ma motiviamo dicendo:
“Questa è la situazione, richiamato il provvedimento originario, richiamati i
provvedimenti non impugnati, motiviamo semplicemente confermando per
relationem una decisione già adottata, lì dove non vengano palesati però fatti
nuovi”. Ribadisco che il concetto è questo: per carità, l’indagato ai sensi
dell’Art. 299 e 310 ha tutto il diritto di riproporre anche all’infinito il tema della
sua libertà personale e il Giudice non può dichiarare inammissibile la richiesta,
però evidentemente deve porsi il problema del confronto e della verifica della
decisione che va ad adottare con le analoghe decisioni, io direi identiche, se il
tema proposto è lo stesso, che sono già state decise da altri Giudici.
Si tratta, come dicevo, di un istituto di carattere generale e vi ho già anticipato
le ragioni. A questo punto si potrebbe porre il problema della circostanza che,
nel caso in cui non vengano proposti fatti nuovi, anche in casi macroscopici,
l’indagato rimanga in stato di detenzione. In realtà ciò non è corretto, perché
anche se l’appello è uno strumento devolutivo per cui il Collegio ex Art. 310
cpp vede il perimetro della sua decisione sempre e comunque limitato la Corte
di Cassazione con due decisioni, che adesso non andrò a leggere per non
annoiarvi, ha affermato che comunque il Collegio è sempre tenuto ad accertare
d’ufficio l’esistenza di ragioni, pur diverse da quelle prospettate dall’interessato,
che indichino l’insussistenza dei presupposti della misura. Questo vuol dire che,
a prescindere dal fatto che il Difensore, cui compete l’onere di indicare i fatti
nuovi, non li abbia indicati perché non ce ne sono, in tutti i casi in cui il
Collegio accerti attraverso un’operazione, che deve necessariamente fare
d’ufficio, la caduta di una qualsiasi situazione che comporta la rimessione in
libertà dell’interessato, lo deve fare d’ufficio, a prescindere dal fatto che il
Difensore abbia più o meno correttamente prospettato la situazione del fatto
nuovo e sopravvenuto.
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Leggo velocemente e spero di non annoiarvi, ma ritengo che sia giusto dirlo,
perché noi lo facciamo concretamente, nei limiti del nostro giudizio tenuto
conto che la trasmissione degli atti dell’appello è sempre estremamente
contenuta, perché, diversamente da quanto accade in sede di riesame ove ci
vengono trasmessi non solo gli atti che naturalmente ha visionato il G.I.P., ma
in linea di massima tutti gli atti dell’indagine, in sede d’appello la nostra
verifica è limitata soltanto a un numero limitato di atti. Ripeto, in tema di
misure cautelari il Giudice ha sempre il dovere in ogni stato e grado del
procedimento, anche indipendentemente dalle sollecitazioni di parte, di adottare
i provvedimenti necessari ad evitare che si determinino in concreto situazioni
patologiche e in particolare che una persona subisca limitazioni della propria
libertà personale. Farò un esempio: potrebbe capitare, ed è capitato, che il
Difensore ponesse determinate questioni e non si fosse invece accorto che il
termine di carcerazione di fase era scaduto. E’ chiaro che in questi casi il
Tribunale dell’appello ex Art. 310, prescindendo dalla tematica della correttezza
delle questioni poste, opera un controllo e, se verifica che - come in casi
eclatanti come questo - non vi fossero i presupposti per la prosecuzione del
trattamento cautelare, opera automaticamente l’annullamento dell’ordinanza e
la rimessione in libertà. Questo a dimostrazione che ancora una volta il
giudicato cautelare, sempre nel senso appena inteso, non preclude
assolutamente al Giudice dell’appello una verifica ex ufficio di quella che è la
permanenza dei suoi presupposti. E’ ovvio che il Difensore ha sempre
l’interesse e certamente l’onere di individuare lui ed evidenziare i fatti nuovi
che pongono in rilievo eventuali mutamenti della situazione, che evidentemente
potrebbero essere un deperimento del quadro di indagine, e adesso andrò a fare
alcuni esempi, oppure una diminuzione o un affievolimento delle esigenze
cautelari o comunque semplicemente invocare a distanza di tempo una misura
meno affittiva in virtù del famoso problema del trascorrere del tempo.
Quindi qui il problema non è tanto se essere d’accordo o no sul principio della
preclusione processuale, forse il problema vero è quello di individuare, fermo
rimanendo che il Giudice dell’appello ha l’onere di fare una verifica d’ufficio
delle condizioni eclatanti di restrizione, cosa debba intendersi per fatto nuovo;
perché mi sembra di capire, dall’esperienza degli ultimi cinque anni al
Tribunale del riesame, che è proprio sul problema di cosa debba intendersi per
fatto nuovo che si verifica la maggiore confusione. Naturalmente è impossibile
fare un’elencazione esaustiva; posso dire in generale quello che ho appena
detto: si deve trattare di qualunque elemento sopravvenuto che incida
effettivamente sui due presupposti: 273 cpp., il quadro indiziario, e 274 cpp., le
esigenze cautelari. Che cos’è fatto nuovo? Innanzitutto direi che fatto nuovo per
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esempio può essere un atteggiamento collaborativo assunto dall’indagato nel
corso delle indagini, però a condizione che si tratti di un comportamento
oggettivamente e comprovatamente collaborativo e non deve trattarsi di una
mera, a distanza di tempo, ammissione dei comportamenti che ormai sono
assodati al procedimento, perché il presentarsi davanti al Pubblico Ministero per
essere interrogati a distanza di molti mesi dai fatti ammettendo fatti ormai
assodati non è valorizzabile come fatto nuovo che deve invece evidenziare un
distacco dell’indagato dall’ambiente criminogeno e quindi essere apprezzabile
come effettiva resipiscenza, non come un espediente di carattere difensivo, che
serve soltanto a rimettere in gioco il quadro indiziario. È fatto nuovo, per
esempio, che altro indagato o altro imputato abbia ottenuto una decisione
favorevole. Anche qui però bisogna vedere se la posizione fra i due era identica,
se erano coimputati nello stesso fatto e se la caduta del quadro indiziario fa
riferimento evidentemente ad entrambi. È fatto nuovo, per esempio, la
sopravvenienza di un programma di recupero che venga concordato nel caso in
cui si tratti, per esempio, di un soggetto in carcerazione e caratterizzato da
alcoldipendenza o tossicodipendenza. Sto facendo degli esempi a braccio. È
fatto nuovo il ridimensionamento dei fatti che avvenga ad opera del Giudice
dell’appello, che abbia per esempio riformato la sentenza di primo grado e abbia
individuato la gravità dei fatti come inferiori a quelli originariamente valutati in
sede di riesame. Durante il processo, perché il problema si pone anche durante il
processo, è fatto nuovo la modifica del quadro indiziario, per esempio, con la
ritrattazione di uno o più testi, oppure semplicemente con la circostanza che il
quadro indiziario si sia polverizzato per effetto del processo perché magari le
originarie accuse non hanno trovato conferma e quindi nel corso del processo e
all’esito dell’istruttoria dibattimentale o di parte di essa ben può trovare
ingresso una richiesta di rimessione il libertà dell’indagato, a questo punto, lì
dove si sono verificati, appunto, questi fatti nuovi.
Viceversa non è fatto nuovo che l’indagato abbia reperito un’attività lavorativa,
o meglio, che venga prospettata l’esistenza di una possibile attività lavorativa,
almeno di per sé; non è fatto nuovo la circostanza, che viene vantata spesso, che
l’imputato si sia correttamente comportato durante il trattamento carcerario o
agli arresti domiciliari: non è un fatto nuovo perché è un obbligo giuridico
quello di restare agli arresti domiciliari o prestare puntualmente adempimento
agli obblighi di Polizia Giudiziaria o di firma del registro e quant’altro. Sono
obblighi giuridici che gravano sull’indagato e che sono puniti evidentemente
con l’eventuale aggravamento della misura. Fatto nuovo è una sentenza anche
non definitiva, come ho già detto, che abbia ampiamente ridimensionato i fatti.
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Poi ci sono, secondo me, al di là del fatto nuovo e del non fatto nuovo,
determinate circostanze che possono essere considerate fatti nuovi o meno a
seconda della motivazione che era stata adottata o dal Tribunale del riesame o
dal Giudice dell’appello. Per esempio, la prospettazione di un luogo idoneo per
gli arresti domiciliari: se il Tribunale del riesame o il G.I.P. ex 299 cpv. aveva
affermato nella decisione con carattere di definitività che il luogo che veniva in
allora prospettato era un luogo che non era idoneo perché, per esempio, era il
luogo dov’era avvenuto il reato, (spaccio in abitazione), oppure era un luogo
collocato all’interno dell’ambiente in cui si era sviluppato il reato, insomma, in
tutti i casi nei quali effettivamente era quel domicilio che veniva ritenuto
inidoneo la prospettazione di un nuovo e diverso domicilio, per esempio
distante molti chilometri dal luogo di commissione del reato, è effettivamente
un fatto nuovo e quindi impone al Giudice dell’appello dopo e al Giudice ex
299 cpv. prima una valutazione nuova sull’idoneità. Se invece la decisione di
non ammettere agli arresti domiciliari, per esempio, era legata ad una prognosi
di inaffidabilità dell’indagato, perché si affermava che la sua pericolosità, come
evidenziata da molte cose che adesso non dirò, modalità, personalità, non
permetteva una prognosi favorevole di spontaneo adempimento a questi
obblighi, la circostanza che venisse prospettato un nuovo luogo domiciliare,
magari vicino al precedente, evidentemente non può costituire fatto nuovo. E
vorrei dire che è proprio questa categoria di fatti - che in concreto va valutato
caso per caso e che non posso naturalmente qui in anticipo esemplificare - che
pone in concreto e non in astratto il problema della valutazione e dello scontro
fra il nuovo elemento che viene prodotto e quelle che erano le decisioni
pregresse che vanno valutate non nella loro parte dispositiva, ma nelle ragioni
per le quali si era assunta quella decisione.
Vengo quindi al problema del tempo, perché credo statisticamente di non dire
una sciocchezza se dico che il 95% delle prospettazioni in cui si chiede la
revoca o l’affievolimento della misura cautelare è legato al trascorrere del
tempo. La giurisprudenza della Corte di Cassazione è granitica su questo punto
come non mai e non starò qui a leggerla, ma in sostanza il principio è che il
mero ed inerte trascorrere del tempo, se non è accompagnato da altri elementi,
non comporta di per sé una variazione delle esigenze cautelari. Quindi il tempo
e le esigenze cautelari, questo è il tema della riflessione. Perché questo? Perché
naturalmente proprio il principio della preclusione processuale vuole che si
determinino dei punti fermi. Allora, siccome il tempo è un elemento che
evidentemente è dinamico per definizione, se dovessimo affermare tout court il
principio che il trascorrere del tempo è un criterio che impone una rivisitazione
pressoché continua e una verifica - a questo punto faccio un paradosso -
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quotidiana della persistenza delle esigenze cautelari, non se ne verrebbe fuori,
perché ogni giorno bisognerebbe dire: “Guardate, dovete fare un controllo,
perché è passato un periodo che, sulla base di tutta una serie di elementi – che
adesso non dirò – potrebbe essere idoneo ad affievolire se non nullificare le
esigenze cautelari”. Quali siano poi questi ulteriori elementi che dovrebbero
accompagnarsi al passaggio del tempo la Corte non dice, perché non sa quali
possono essere, perché diversamente, se così fosse, ce li avrebbe indicati.
In realtà la Corte è solo ed esclusivamente preoccupata dalla circostanza che
l’affermazione del tempo come principio, diciamo così, destabilizzatore del
giudicato cautelare è terrorizzante, per cui, si dice, il tempo da solo non basta, ci
vuole qualche altro elemento; solo che il problema è che questo altro elemento
sopravvenuto già di per sé avrebbe una sua efficacia nel rimettere in discussione
il giudicato cautelare. Quindi, veramente siamo su un campo che potrei definire
di ipocrisia giuridica un po’ da parte di tutti.
Dirò subito che questo orientamento della Corte di Cassazione soffre, secondo
me, anche di una situazione di lapsus freudiano, perché qualche volta, in
qualche decisione, anziché parlare di tempo che decorre dall’inizio della misura,
si parla di tempo dalla commissione del reato. Per esempio mi sono segnato
questa sentenza che dice testualmente così: “In materia di richiesta di revoca
della custodia cautelare in carcere l’attuale sussistenza delle condizioni di
applicabilità della misura in quanto correlata a fatti sopravvenuti, va tenuta in
considerazione tenuto conto del tempo trascorso dal commesso reato. Detto
tempo – e conferma il principio generale – può acquistare rilevanza solo se
accompagnato da altri elementi”. Perché la Corte dice questa cosa? Perché il
tempo del commesso reato è cosa diversa dal tempo di inizio di espiazione della
misura cautelare, e quando dice questa cosa, secondo me, dice l’unica cosa che
ha un vero riferimento normativo, perché l’Art. 292 comma secondo lettera c)
cpp, nell’indicare quali sono gli elementi essenziali dell’ordinanza cautelare non
parla di tempo in generale, parla per l’appunto di tempo di commissione del
reato. E che tempo di consumazione del reato e tempo di inizio di sofferenza
della misura cautelare non coincidano è dimostrato dal fatto che spesso la
misura cautelare viene applicata anche a distanza notevole dalla consumazione
del reato, a volte un anno, a volte anche di più. Perché? Perché l’attualità
dell’esigenza cautelare non necessariamente presuppone che il reato sia in
corso. Cioè, siccome il pericolo di reiterazione è la probabilità che una persona
commetta lo stesso tipo di reato, allora l’esigenza cautelare può sussistere anche
se il reato non era in corso al momento della sua applicazione. In realtà
attraverso questa indecisione della Corte secondo me si rivela la vera trama
logica del ragionamento, ha in realtà è che abbiamo tutti paura di dire una
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grande verità cioè che il tempo che si passa in carcere influisce necessariamente
sulle esigenze cautelari, perché non c’è trattamento carcerario che non induca la
persona, neanche il delinquente più incallito, a una forma di riflessione e di
presa di distanza dal reato; perché altrimenti se così non fosse dovremmo tutti
quanti a questo punto fare una riflessione sul fatto che il carcere non serve a
nulla e che quindi l’intero sistema è fallito.. se è vero che neppure nella
immediatezza della sofferenza carceraria una persona non ha un atteggiamento
di resipiscenza vorrebbe dire che l’intero sistema si basa su un presupposto, che
è fallito di fatto, cioè che il carcere non serve assolutamente a niente, neppure a
indurre una persona per un periodo limitato di tempo a cercare di non ricadere
nel reato non fosse altro che per il fatto puramente egoistico di non dover
ritrovarsi nella situazione di restrizione della libertà personale.
A questo punto devo dire che l’orientamento che il Tribunale del riesame di
Venezia e soprattutto il Giudice dell’appello ha assunto è quello il quale va
apprezzato il passaggio del tempo ai fini dell’affievolimento delle esigenze
cautelari, in forza della indubbia dissuasività che porta con sé la perdita della
libertà personale. Però devo anche dire che questa valutazione viene fatta
soltanto in termini che definirei di una certa macroscopicità: noi assumiamo la
necessità di una rivisitazione delle esigenze cautelari sotto il profilo della
graduazione della scelta di una misura meno affittiva, quando il tempo trascorso
si ponga in una fascia media intorno alla metà del termine di carcerazione
preventiva di fase. Cosa voglio dire? Che se la prospettazione del passaggio del
tempo è effettivamente accompagnata da elementi nuovi, allora si può pervenire
ad una decisione anche evidentemente immediata, se invece il problema del
tempo viene prospettato solo così com’è, noi cominciamo a considerare che il
tempo abbia avuto un’efficacia talmente dissuasiva da imporre, non dico la
rimessione in libertà, però una variazione in senso favorevole quando ci
troviamo a circa metà del temine di fase. Salvo eccezioni diciamo che in linea di
massima lì dov’è possibile viene sempre privilegiata la situazione degli arresti
domiciliari quando esista un minimo di possibilità di fare una valutazione
positiva e quindi esista la possibilità di un minimo di affidamento su questa
situazione. Si tratta di un giudizio molto delicato nel quale entrano in gioco
evidentemente tutta una serie di altri fattori: la maggiore o minore vicinanza nel
tempo dalla commissione del fatto, quindi consideriamo quanto tempo è
trascorso dalla commissione del fatto oltre che dall’inizio della sofferenza
cautelare, e se questi fatti sono della stessa indole o di indole diversa, se il fatto
naturalmente è più o meno grave, consideriamo anche che l’impatto della
carcerazione può essere maggiore o inferiore a seconda dell’età anagrafica del
soggetto e a seconda del fatto che si tratti della prima esperienza carceraria
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oppure meno. E’ ovvio che il primiparo, come lo chiamiamo noi, dopo qualche
mese ha fatto una serie di riflessioni che chi invece ha sofferto lunghi periodi di
carcerazione anche in espiazione pena non può evidentemente aver fatto o se le
ha fatte le ha largamente superate; quindi consideriamo il problema del
passaggio del tempo soltanto in questo tipo di situazioni, valutando tutta una
serie di elementi che sono quelli che vi ho appena indicato. In presenza di
queste situazioni rivisitiamo le esigenze cautelari e, lì dove troviamo che esse si
siano affievolite, cerchiamo di individuare una misura che eventualmente sia
compatibile con altre eventuali esigenze di vita che vengano prospettate, prima
fra tutte quella dell’attività lavorativa, cercando favorire, in questo devo dire
che il legislatore ci ha dato vari strumenti che ci consentono di mantenere una
qualche forma di controllo, un inizio di reinserimento sociale che
necessariamente deve passare attraverso l’individuazione di un’attività
lavorativa e anche l’indicazione di un inserimento sul territorio con carattere di
stabilità.
E’ chiaro che chi è destinatario di questo beneficio sa bene che, nel caso in cui
questo non venga rispettato, esistono delle sanzioni, che portano
all’aggravamento, della natura. In questo caso il Tribunale della libertà quando
giudica chi ha ottenuto un beneficio e, non lo ha rispettato, rinnoverà la sua
valutazione a distanza di un tempo pari, se non superiore, a quello che aveva
comportato una valutazione a sé favorevole.
Alleggerirò un attimo il tema. Le impugnazioni del Tribunale del riesame sono
ad alto tasso di iniziativa da parte dell’indagato. Direi, fermo rimanendo che poi
il Difensore è libero di venire in udienza e indicare i motivi che ritiene a
sostegno dell’impugnazione, l’80/90 per cento delle richieste di riesame
provengono direttamente dal carcere, vengono fatte a modello 12
dall’interessato. Però qualche volta, anzi, frequentemente ci troviamo di fronte a
delle richieste che, proprio perché provenienti direttamente dall’interessato, ci
inducono ad una serie di problematiche non indifferenti, perché noi abbiamo il
problema anche di dover qualificare giuridicamente l’impugnazione. Allora, se
l’impugnazione proviene da un Difensore è ovvio che il problema è facilmente
risolvibile, salvo particolari casi; laddove invece l’impugnazione provenga
direttamente dall’interessato il problema si complica. Il problema è che,
effettivamente, abbiamo un grosso problema che è quello che quando una
richiesta di riesame viene depositata presso un istituto carcerario, il termine
entro il quale vengono richiesti gli atti da cui decorrono a cascata tutti i termini
a pena di sanzione di inefficacia della misura e quant’altro indicati nell’Art. 309
cpp, diversamente da quello che accade con la richiesta di riesame depositata
nelle Cancellerie, decorre dal momento di presentazione di questa richiesta
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all’istituto carcerario, laddove quindi il tempo che ci mette questa richiesta per
pervenire alla Cancelleria del Tribunale del riesame è un tempo che consuma
una parte del termine entro il quale vanno immediatamente richiesti gli atti.
Quindi, obiettivamente questo ci mette in enorme difficoltà perché dobbiamo
svolgere un’attività istruttoria per cercare di capire se questo soggetto è
detenuto in forza di un’ordinanza cautelare, se sì, quando è stata emessa,
verosimilmente dobbiamo valutare se è ammissibile, perché è passato un
congruo periodo di tempo, oppure se si tratta di una impropria proposizione dei
motivi di appello contro una sentenza ovvero se si tratta di un’impugnazione
contro un’ordinanza verosimilmente emessa in sede di sentenza dal Giudice con
la quale, per esempio, gli viene negata la modifica della misura cautelare in
corso. Tutto questo noi non lo possiamo sapere e dobbiamo evidentemente
accertarlo con strumenti che fanno capo direttamente al carcere.
Veniamo invece al principio che più frequentemente viene invocato in sede di
riesame e che è il problema dell’annullamento della misura per vizio di
motivazione. Innanzitutto dirò questo: il primo problema che volevo affrontare
è quello della qualificazione giuridica del fatto. Io mi sono sempre molto stupito
del fatto che abbia faticato ad affermarsi all’interno della Corte di Cassazione il
principio che il Giudice del riesame debba - non possa - debba qualificare
innanzitutto correttamente e giuridicamente il fatto. Dico questo perché,
siccome il Giudice del riesame, con una decisione che come è stato ben detto si
integra sicuramente con quella originaria dell’ordinanza cautelare genetica,
deve evidentemente fare un controllo di quello che è il quadro indiziario per
stabilire se quel quadro indiziario è connotato da gravità; per gravità si intende
che vi sia un’elevata probabilità di condanna in sede di giudizio di merito. Non
vedo come questo giudizio di congruità su elementi indiziari possa farsi senza
prima operare un controllo sulla correttezza della fattispecie giuridica e della
ricostruzione che il Pubblico Ministero ha fatto dei fatti. Si tenga presente che il
Difensore e l’imputato, perché l’Art. 309 stranamente parla di imputato, ma
dovrebbe anche parlare semplicemente di indagato, non è solo interessato ad
ottenere l’eventuale annullamento della misura o al limite una sua sostituzione,
ma è anche interessato a una corretta qualificazione giuridica del fatto, perché i
termini di carcerazione decorrono a seconda di quella che è la qualificazione
giuridica che viene data dal G.I.P. prima e dal Tribunale del riesame dopo.
Quindi, facendo un esempio banale, non è indifferente per l’imputato avere il
riconoscimento della fattispecie, per es. un 73 quinto comma L.S., il cui termine
di fase è mesi 6 piuttosto che il 73 quinto comma L.S., dove il termine di fase è
un anno. Questo suo interesse si esplica non solo nei confronti della
qualificazione giuridica del fatto vero e proprio, ma anche sulla sussistenza
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delle circostanze aggravanti, laddove possano incidere sul termine di fase.
Ancora non capisco, se è vero, come è vero, che il Tribunale del riesame si
sostituisce o ha gli stessi poteri del G.I.P. e si pone nelle stesse condizioni del
G.I.P., per quale ragione il G.I.P., seppur faticosamente, è riuscito ad affermare
il suo diritto di qualificare i fatti e noi non si possa evidentemente, proprio per
verificare la correttezza dell’operato del G.I.P., a nostra volta fare questo. Io
credo che, sia stata una preoccupazione alla base di questo, che adesso vi andrò
ad esplicitare: che questa situazione è potenzialmente produttrice di
complicanze non indifferenti nel processo, e mi spiego. Se il Tribunale del
riesame qualifica un fatto - stiamo all’esempio di prima, un 73 quinto comma e la decisione non viene impugnata, questa situazione farà stato - e quindi il
giudicato cautelare opererebbe anche a suo favore come in questo caso all’interno della fase cautelare; quindi, se nessuno lo impugna diventa
definitivo, quella persona rimane detenuta per un 73 quinto comma L.S.. Ma
cosa succede se il Pubblico Ministero, che è libero di esercitare l’azione penale
come meglio crede, ritiene invece di andare avanti sulla sua originaria ipotesi?
D’altra parte nell’esercizio dell’azione penale è libero, nessuno lo può
evidentemente condizionare. Secondo me, ancora più impegnativamente nel
caso in cui il Pubblico Ministero porti davanti al Giudice dell’udienza
preliminare questa persona con una formulazione diversa, e il Giudice
dell’udienza preliminare anche lui aderisca alla tesi del Pubblico Ministero e
dica: “No, questa persona va rinviata a giudizio per un 73 L.S.”. A questo punto
siamo veramente in una situazione che definirei un nervo scoperto del sistema,
perché al Giudice nessuno può contestare, dapprima al G.U.P., ma poi neanche
al Giudice del dibattimento - poi la decisione del merito evidentemente
troncherà questa discussione - si può contestare il diritto di qualificare
giuridicamente il fatto in sede di udienza preliminare; nè si può contestare al
Pubblico Ministero di dover aderire alla prospettazione del Tribunale del
riesame. Evidentemente si crea una situazione così fatta: a fini cautelari si dovrà
far riferimento alla decisione del Tribunale del riesame, stato nella fase
cautelare. Questa persona venga tratta a giudizio; questa incertezza durerà fino
alla fine del giudizio di primo grado allorquando il Giudice di merito dovrà
pronunciarsi, e a questo punto la vicenda cautelare - in questo caso verrà emessa
una sentenza ancorché non definitiva, e questa sentenza evidentemente dirà una
parola chiara sul problema del tipo di qualificazione giuridica – che seppur
provvisoriamente, dovrà essere operata.
Anche il problema della possibilità di dichiarare l’incompetenza per territorio
del Giudice per le Indagini Preliminari che ha emesso la misura ha vissuto un
problema analogo. Anche lì all’inizio la giurisprudenza era nel senso che non
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era rilevante porre questa questione al Tribunale del riesame. Poi in realtà si è
riconosciuto che fra le tante cose che deve verificare il Tribunale del riesame
c’è anche il problema della competenza per territorio. Detto questo e quindi
chiarito, lo riconfermo: il problema del giudicato cautelare non è un istituto che
operi sempre e necessariamente in danno dell’imputato, anzi, credo che una
delle sue prime applicazioni avvenne proprio in un caso in cui il G.I.P. aveva
respinto la richiesta di misura cautelare, il Pubblico Ministero l’aveva
ripresentata esattamente negli stessi termini senza impugnare la prima
decisione, e il G.I.P. gli rispose dicendo: “Non c’è nessun fatto nuovo, gli
elementi indiziari e cautelari che mi sottoponi nuovamente sono gli stessi di
prima, per cui non ho motivo di pronunciarmi nuovamente”, e la prima
applicazione fu proprio in favore dell’imputato.
Veniamo un attimo invece al problema della possibilità di integrare o non
integrare la motivazione. Perché effettivamente l’Art. 292 cpp, indicando tutta
una serie di presupposti della misura cautelare, dice: “Sono presupposti a pena
di nullità rilevabile anche d’ufficio”. Allora qui c’è stata tutta una questione se
effettivamente il Tribunale del riesame - io direi che questa questione ha ancora
carattere di attualità – debba, in presenza di una situazione come quella prevista,
tout court dichiarare la nullità dell’ordinanza cautelare oppure poter procedere
ad integrazione dei relativi motivi. L’Avvocato De Franceschi ricordava una
sentenza delle Sezioni Unite che avrebbe dovuto troncare questa discussione e
invece, come adesso vi dirò, non è assolutamente così, nel senso che
l’orientamento della Corte di Cassazione tuttora segue due diverse opinioni fra
loro non conciliabili, nel senso che una parte, che definirei più prudente, segue
l’orientamento secondo il quale bisogna operare un distinguo fra motivazione
insufficiente, suscettibile di venir integrata, e motivazione totalmente assente,
che invece legittima il Giudice al suo annullamento. Una parte, invece, della
Corte di Cassazione sostiene che questo potere di annullamento per vizio della
motivazione è esercitabile soltanto da sé stessa, Giudice di legittimità, e che
quindi l’annullamento da parte del Tribunale del riesame non sia possibile,
perché deve sempre e comunque intervenire sanando la nullità e sostituendosi al
G.I.P., che questa motivazione non aveva reso. Questa questione venne portata
quasi subito all’attenzione della Corte Costituzionale, che con ordinanza del ’96
la dichiarò manifestamente inammissibile. Cos’era successo? Il Tribunale del
riesame di Catanzaro aveva sollevato la questione della legittimità
costituzionale dell’Art. 309 cpp nella parte in cui consentiva di confermare il
provvedimento o modificarlo anche per motivazioni diverse, dicendo che
secondo loro era incostituzionale per violazione dell’Art. 324 cpp nella parte in
cui consentiva di far ciò anche quando l’ordinanza era nulla. La Corte
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Costituzionale dichiarò manifestamente inammissibile la questione dicendo che
l’interpretazione del Tribunale di Catanzaro era errata, perché, a suo dire, in
tutti i casi in cui l’ordinanza era nulla il potere di integrazione non era
esercitabile. Leggo testualmente la massima: “In quella sede la Corte
Costituzionale decise per la manifesta inammissibilità della questione sotto il
profilo della erroneità della prospettazione fornita dal Giudice remittente. Nel
contempo affermò che i poteri di riforma o di conferma da parte del Tribunale
del riesame, anche per motivi diversi, era esercitabile legittimamente solo se il
provvedimento stesso non risultava radicalmente nullo, perché in questi casi il
Tribunale avrebbe dovuto provvedere solo ed esclusivamente all’annullamento
dell’atto, non potendosi configurare in capo a sé il potere costitutivo quanto
all’emissione di un valido provvedimento”. Quindi la Corte Costituzionale
disse: “No, guarda che hai sbagliato, l’interpretazione corretta non è questa:
quando il provvedimento non è nullo tu devi annullarlo”, e la Corte
Costituzionale nel far ciò richiamò un orientamento della Corte di Cassazione,
che in parte si era espressa in questo senso. Questo avveniva negli anni ’94, ’95
e ’96.
Voglio anticiparvi una cosa. Qual è la vera ragione per la quale bisogna essere
estremamente cauti nel configurare un potere integrativo del Tribunale del
riesame? Per una ragione molto semplice: se fosse lecito al Tribunale del
riesame non limitarsi a degli interventi di integrazione di una motivazione, che
però comunque deve esistere, anche se insufficiente, avverrebbe praticamente
che soltanto in sede di giudizio di riesame si spiegherebbe all’imputato la
ragione per la quale deve essere detenuto. Quindi in sostanza l’ordinanza
cautelare originaria e genetica perderebbe il suo significato di provvedimento
che deve comunicare alla persona perché deve stare in carcere. E glielo
dovremmo dire ora per allora privandolo di un grado di giurisdizione, perché se
io dico a una persona perché deve andare in carcere, e glielo dico per la prima
volta in sede di riesame, il provvedimento del riesame integra l’ordinanza
cautelare genetica, però contro il provvedimento del Tribunale del riesame è
ammissibile soltanto il ricorso per Cassazione, che è Giudice di legittimità.
Quindi io privo l’imputato di un grado di giurisdizione nel merito.
Io credo che se questa è la ratio, allora noi dobbiamo ritenere – e questa è la tesi
che noi seguiamo – che tutti i casi in cui l’intervento integrativo che s’impone è
un intervento che porta a delle argomentazioni assolutamente nuove, che
spiazzano completamente la Difesa perché introducono nuovi argomenti contro
i quali non ha potuto e non potrà assumere nessun atteggiamento critico; quella
motivazione è nuova, e questo a noi non è consentito. Mentre, viceversa,
quando questa motivazione, ancorché insufficiente, porta con sè comunque, sia
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pur a livello embrionale, quelle che sono le motivazioni che devono essere usate
e che possono essere usate ampliandole, senza uscire da quello che è il
contraddittorio già stabilito con il provvedimento di primo grado, in questi casi
invece questo intervento è possibile e anzi doveroso, nel rispetto però, ripeto, di
questo principio del contraddittorio processuale. Se così non fosse, veramente a
questo punto il provvedimento originario non avrebbe ragione di esistere e
soltanto il Tribunale del riesame potrebbe a questo punto lui emettere
direttamente l’ordinanza cautelare, magari con delle garanzie, perché no, di tipo
superiore, come quelle offerte da un Collegio. Anche se su questo ci sarebbe
molto da dire perché, mentre il Giudice per le Indagini Preliminari non ha un
termine per l’emissione della misura cautelare, quindi può riflettere tutto il
tempo che desidera, viceversa il Tribunale del riesame ha dei termini
ghigliottina, che impongono spesso decisioni molti impegnative nel raggio di
poche ore, quindi francamente, pretendere questo sarebbe eccessivo. Ecco che
la Corte di Cassazione non è assolutamente univoca in questo atteggiamento,
quindi a fianco dell’orientamento che vi ho appena riferito e che conserva la sua
significanza, l’atteggiamento più recente, quello per esempio del 2004 è nel
senso di negare al Tribunale del riesame il potere di annullamento, tant’è che si
è testualmente affermato che: “Il Tribunale del riesame non può annullare il
provvedimento impugnato per difetto di motivazione, in quanto solo al Giudice
di legittimità è riconosciuto il potere di pronunciare l’annullamento a fronte
della nullità comminata e per omessa motivazione”. E non è una sentenza
isolata, questa del settembre del 2004, ve ne sono di più recenti che suonano
tutte nello stesso modo: il Giudice di legittimità siamo noi, soltanto noi
possiamo annullare per vizio di motivazione, voi dovete sempre e comunque
integrare, perché l’annullamento è l’ultima ratio del provvedimento cautelare,
quindi in tutti i modi bisogna assumere un atteggiamento di carattere
conservativo.
C’è, nel ragionare della Corte di Cassazione, a mio avviso, un errore di diritto
profondo, perché l’Art. 309 primo comma dice che il Tribunale contro
l’ordinanza cautelare, vado a memoria, si può proporre richiesta di riesame
anche nel merito. Allora quel “anche nel merito” secondo me vuol dire che il
Giudice del riesame valuta anche la legittimità dell’atto e quindi non è vero che
il giudizio di legittimità spetta esclusivamente alla Corte di Cassazione. Dico
anche che non bisogna enfatizzare l’eventuale tesi secondo la quale
l’annullamento dell’ordinanza per vizio di motivazione è un danno irreparabile,
perché in questo caso l’eventuale annullamento dell’ordinanza cautelare per
mancanza di motivazione non preclude al Pubblico Ministero di chiedere la
stessa identica misura e naturalmente non preclude al G.I.P. di emettere una
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nuova identica ordinanza come quella già emessa, naturalmente a questo punto
però motivando che non aveva motivato, quindi in questo caso non opera alcuna
preclusione processuale. Perché? Perché in questo caso il Tribunale del riesame
non giudica nel merito dicendo: “Sì, ci sono sufficienti indizi, sì, ci sono
sufficienti esigenze cautelari”; si limita a dire: “Qui c’è una motivazione
inesistente, noi non possiamo verificarla e quindi assumiamo una decisione che
dichiari la nullità di questo provvedimento, però se tu lo motivi adeguatamente
noi poi lo riesaminiamo nel merito”. Il danno che ne deriva, fermo rimanendo il
problema della reperibilità dell’indagato, dal punto di vista giuridico è
assolutamente accettabile. Vi segnalo che l’orientamento, quindi, che noi
seguiamo è quello espresso dalla Corte nel ’98, e questa sentenza merita di
essere letta: “La mancanza di motivazione dell’ordinanza de libertate configura
una nullità, che riguardando un bene di assoluta rilevanza costituzionale come
la libertà delle persone riveste carattere assoluto, e non è perciò sanabile dal
Giudice dell’appello. Laddove infatti la motivazione manchi del tutto non si
tratta di completarla o di integrarla o sostituirla, il che rientra nei poteri del
Giudice dell’appello, ma sebbene di sostituirsi al primo Giudice redigendo la
motivazione al suo posto e privando oltretutto l’imputato di un grado di
giurisdizione de libertate”. Quindi questa sentenza secondo me dice quello che è
il principio che dobbiamo ragionevolmente applicare e cioè che dobbiamo
limitarci a poteri integrativi laddove esiste una motivazione che ci consenta di
poter in qualche modo riempire degli spazi che sono però, come perimetro del
contraddittorio, delimitati e in tutti i casi in cui le argomentazioni sono ex novo,
e quindi la motivazione è inesistente o, come si dice, apparente, in questi casi
dobbiamo limitarci a una mera declatoria di nullità dell’ordinanza.
Il problema è naturalmente quello di stabilire, come ho già detto, quando in
concreto questa motivazione c’è o non c’è. Le ragioni che vi ho appena indicato
e il criterio interpretativo e teleologico è quello che vi ho appena detto: cioè noi
operiamo questo intervento quando la motivazione che possiamo adottare in
qualche modo si ricollega a quella già esistente nel provvedimento; nei casi in
cui la motivazione dev’essere del tutto nuova non mettiamo mano all’ordinanza.
Voglio ricordare un’altra sentenza della Corte di Cassazione che nel ‘92 disse
che la congruità o meno della motivazione di un provvedimento giurisdizionale
non può dipendere dal fatto che il Giudice abbia usato le parole del legislatore,
dovendosi invece avere riguardo solo al fatto che egli abbia o meno indicato i
concreti elementi di prova. Perché tutt’oggi ci sono G.I.P. che quando emettono
la misura cautelare riportano pedissequamente la previsione dell’Art. 274 lettera
c) o b) o quel che è.
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Vengo all’ultima questione venendo qui a un’indicazione di carattere pratico.
La stragrande maggioranza delle ordinanze in cui viene invocato questo
principio sono le ordinanze di tipo cumulativo, perché purtroppo, quando viene
emessa un’ordinanza nei confronti di 10, 15, 20, 30 persone, viene da sé che
non si può misurare la motivazione soggetto per soggetto e quindi la tentazione
da parte del Pubblico Ministero prima e del G.I.P. poi di fare una motivazione
che in qualche modo vada ad indicare nella gravità del fatto in sé e per sé il
criterio di necessità della presenza delle esigenze cautelari è forte, l’Art. 275
cpp impone un criterio di scelta delle misure che tenga conto anche della
complessiva personalità dell’individuo, quindi, se anche il fatto è uguale, è
chiaro che la misura cautelare nei confronti dell’incensurato non potrà essere
così severa come quella nei confronti del recidivo specifico che ha già una
personalità fortemente compromessa. In particolare questo tipo di situazioni si
verifica nei procedimenti per spaccio di droga e per violazione degli Art. 73 e
74 L.S., poiché è un dato di fatto ormai conosciuto da tutti che questi
procedimenti si basino quasi esclusivamente sulle intercettazioni telefoniche; è
quella che noi chiamiamo la cosiddetta “droga parlata”, cioè: sequestri non ce
ne sono o sono modestissimi, l’impianto accusatorio è basato tutto sul contenuto
di intercettazioni telefoniche, molto spesso anche in chiaro: “è buona, non è
buona, me ne hai data un etto di meno, troviamoci e quant’altro”. Solo che c’è
un piccolo particolare, che naturalmente la Corte di Cassazione in materia di
intercettazioni telefoniche è molto severa e afferma che la prova – questo vale
per il dibattimento, ma vale evidentemente anche per la misura cautelare – può
anche consistere solo ed esclusivamente nelle intercettazioni, però il contenuto
deve essere in equivoco, deve essere chiaramente riferibile al reato, ma
soprattutto deve essere certa l’identificazione dei soggetti fra cui intervengono
le conversazioni. Il problema è che quando si va a motivare questo tipo di
ordinanza, secondo quella che è la giurisprudenza della Corte di Cassazione
bisognerebbe indicare capo d’imputazione per capo d’imputazione, e quindi
soggetto per soggetto, quali sono le intercettazioni telefoniche che provano il
reato e qual è il contenuto, sia pur riassuntivo, della telefonata. La Corte di
Cassazione riassuntivamente dice: “Quando i gravi indizi di colpevolezza
necessari per l’adozione di un provvedimento restrittivo sono fondati sulla
registrazione di colloqui telefonici intercettati, il Giudice, per soddisfare
l’obbligo della motivazione, deve indicare specificatamente con riferimenti
testuali o riassuntivi il tenore dei colloqui registrati, la loro riferibilità diretta o
indiretta all’indagato, dimostrando la sussistenza degli elementi di prova idonei
a far ritenere altamente probabile la commissione del fatto”. Il problema è che
quasi nessun G.I.P. rispetta questo principio, nel senso che la maggior parte
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degli impianti delle ordinanze cautelari è fatta così: c’è un capo d’imputazione e
poi si dice “Ritenuto che sussiste un sufficiente e adeguato quadro indiziario
ricavabile dalle telefonate numero: 2024, 2025, 2026, punto a capo”. Allora va
bene il riferimento alle conversazioni, ma evidentemente va operata una non
rimandabile attività di motivazione che ricolleghi la telefonata, il suo contenuto
e poi una valutazione che spieghi perché quella telefonata ha un significato
indiziario e che colleghi quel significato indiziario a quel ben determinato
indagato e a quella ben determinata imputazione. Se questo non viene fatto
viene precluso al Tribunale del riesame di fare un’opera di verifica dei singoli
elementi indiziari uno per uno, specialmente quando il capo d’imputazione è
articolato in 30, 40, 50 cessioni e gli imputati sono 20, 30, 40. In tutti questi casi
il Tribunale del riesame di Venezia è pervenuto alla decisione di annullare
l’ordinanza sostenendo che gli era preclusa in via assoluta la verifica del quadro
indiziario e anche, e conseguentemente laddove c’era, anche quella sulla
valutazione sulla concreta esistenza degli elementi cautelari; ma questo veniva
dopo evidentemente, perché se cade il quadro indiziario non si va neanche a
fare questo tipo di verifica.
Quindi, e ribadisco quello che dice la Corte: “In tema di misure cautelari,
l’obbligo di motivare il convincimento colla sussistenza dei gravi indizi non
può ritenersi adempiuto dal Giudice per le Indagini Preliminari che si limita a
un generico rinvio alle fonti di prova - vedi il numero delle telefonate - senza la
precisazione del loro contenuto, quanto meno degli elementi idonei a consentire
l’individuazione di quegli specifici elementi la cui forza probante abbia reputato
tale da indurlo ad adottare la misura cautelare. Diversamente si precluderebbe di
fatto agli interessati di esercitare appieno il loro diritto di difesa per
l’impossibilità di individuare gli elementi di accusa presi in considerazione per
ciascuno di loro in riferimento a ciascuna delle imputazioni”.
Con questo io avrei concluso. Volevo segnalarvi due brevissime osservazioni, la
prima: il potere di integrazione del Giudice del riesame è tuttora oggetto di
dibattito da parte della Corte di Cassazione. Non so se voi ricordate di un
recente intervento delle Sezioni Unite in materia di decreto di convalida di
sequestro probatorio in cui si è detto che il Pubblico Ministero deve motivare le
specifiche esigenze probatorie per le quali ritiene di convalidare il sequestro
operato dalla Polizia Giudiziaria. Questa sentenza riguarda una materia
completamente diversa, però in questa sentenza è contenuto un inciso e la Corte
di Cassazione quando parla di questa cosa dice: state attenti, Giudici del
riesame, che se manca la motivazione sulle esigenze probatorie del sequestro
non potete intervenire e integrarlo. Ma non perché prende posizione sul
problema della possibilità o meno di integrare la motivazione, anzi, adesso vi
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leggerò l’inciso, si guarda bene dal prendere posizione su questo e dice: voi non
potete farlo perché è il Pubblico Ministero che ha emesso un provvedimento
difettoso e tu, Giudice, non puoi integrare un provvedimento del Pubblico
Ministero dove è l’Accusa che deve individuare il perimetro di esigenze
probatorie. Quando parla del problema dell’integrazione della motivazione dice,
la Corte di Cassazione a Sezioni Unite: “Il quesito della possibilità di integrare
la motivazione si intreccia con il più generale e fortemente dibattuto problema
dell’ampiezza dei poteri meramente demolitorio oppure integrativo e sanante
riservato al Giudice del riesame ai sensi dell’Art. 309 comma nono”, e questo lo
dice l’8 marzo del 2004. Quindi la Corte si sta continuando a porre il problema
del potere integrativo e ancora sussiste un forte dibattito sulla possibilità di
integrare o non integrare la motivazione. Con questi due orientamenti, quello
più garantista, secondo il quale questo atteggiamento non potrebbe avvenire in
determinati casi, cioè soltanto in caso di insufficienza, è quello che invece è più
sfavorevole all’imputato in cui si dice in sostanza: il Tribunale del riesame ha il
dovere e il compito doveroso di fare lui la motivazione anche quando non era
mai stata presa in considerazione.
L’ultima cosa che volevo dire è questa: uno dei principi, quello credo più
complicato in assoluto, che ci troviamo spesso ad applicare è il principio in sede
di appello del cosiddetto problema delle ordinanze cautelari a catena.
Vi segnalo che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite a proposito ha emesso il
10 giugno una decisione abbastanza sconcertante, nella quale, rimangiandosi
completamente quanto affermato nel 1997, anche lì a Sezioni Unite, ha
affermato che una volta.. voi sapete cosa sono le ordinanze a catena, succede
questo: quando viene emessa un’ordinanza cautelare e subito dopo un’altra
ordinanza cautelare e le stesse ordinanze hanno ad oggetto fatti diversi, ma fra
loro uniti da un determinato vincolo, continuazione e nesso teleologico, a
determinate condizioni opererebbe la cosiddetta retrodatazione, cioè si va a
guardare il termine di carcerazione partendo dall’applicazione dell’ordinanza
prima. L’effetto di questa situazione fino adesso era fortemente frenato dal fatto
che la retrodatazione operava solo se i fatti della seconda ordinanza erano
desumibili fin dall’inizio, cioè in sostanza l’istituto serviva a evitare che il
Pubblico Ministero, frazionando l’accusa, tenesse una persona dentro emettendo
misure cautelari dilazionate in modo da prorogare ingiustamente i termini di
carcerazione. Questo rimedio in realtà era stato studiato ancora sotto il vecchio
codice, però la desumibilità era in qualche modo un correttivo, cioè si diceva:
siccome il Pubblico Ministero è stato inerte e non ha chiesto subito la misura
cautelare fin dall’inizio, se poi la chiede dopo 5 o 6 mesi la può anche ottenere,
però quella misura è come se avesse avuto efficacia restrittiva fin dall’origine.
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Sennonché la Corte di Cassazione a Sezioni Unite detta questo principio
dicendo: ci siamo sbagliati, nel momento in cui adesso viene riconosciuto il
vincolo di continuazione fra i fatti della prima ordinanza e i fatti della seconda
ordinanza il termine retroagisce automaticamente e non si va a verificare la
desumibilità allo stato degli atti. Se a questa pronuncia si mette in
contrapposizione l’altra pronuncia della scarcerazione ora per allora, e cioè che
nel caso in cui sia intervenuto uno sforamento del termine di fase, anche nel
caso in cui poi abbia fatto seguito una sentenza, è una questione un po’
complicata, in sostanza, attraverso questo meccanismo si fanno retrodatare tutte
le ordinanze cautelari a partire dalla prima in modo pressoché automatico e,
anche se è intervenuta una sentenza, la scarcerazione viene comunque emessa
ora per allora anche se l’imputato avrebbe avuto diritto alla scarcerazione in
allora, ma adesso non più perché magari è intervenuta la sentenza e quindi è
scattato il termine di fase successivo e magari non si è superato il termine
complessivo. Ciò nonostante le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno
stabilito che, siccome la libertà personale è un bene insopprimibile, quando una
persona ha fatto anche un giorno semplicemente in più a quel punto ha diritto
alla scarcerazione, anche se la proroga è tempestivamente intervenuta attraverso
una sentenza. Quindi a questo punto il Tribunale del riesame, come Giudici
dell’appello ex Art. 310, ha cominciato a ricevere questo tipo di lamentele, nella
forma dell’appello, perché la sentenza è del 10 giugno e quindi stanno
cominciando a pervenire le prime questioni su questa specifica cosa.
Io ho smesso di tediarvi.
AVV. RENATO ALBERINI
Ringrazio il Presidente Risi per l’interessante intervento e anche perché è diritto
vivo attuale e quindi è di riferimento per tutti noi operatori del diritto proprio
come metodologia dei nostri futuri ricorsi per riesame e appello.
Avendo finito con gli interventi abbastanza presto rispetto ad altri analoghi
convegni volevo chiedere ai presenti se c’erano delle domande specifiche da
rivolgere ai nostri due illustri interlocutori, approfondimenti o chiarimenti o
precisazioni, o allargamenti anche sul tema che non è stato trattato
specificamente, altrimenti possiamo chiudere qui e ringraziare nuovamente i
nostri illustri ospiti.
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Gli atti dell`incontro di formazione del 8 luglio 2005