AVV. EUGENIO VASSALLO Buongiorno a tutti e buon pomeriggio. Il tema di oggi è un tema che il Consiglio Direttivo ha voluto con intensità, e qui non è per piaggeria che lo dico, perché la Camera Penale sta monitorando i risultati degli esami del Tribunale del riesame di Venezia. Perché? Perché molti di noi lamentano – io ho ricevuto queste forme di lamentela – lamentano che, mentre il Tribunale del riesame gestito dalla Prima Sezione, ha una percentuale normale di reiezioni o di accoglimenti, un’altra sezione del Tribunale del riesame - dottor Risi, e lei non ne è responsabile, perché lei risponde della Prima -, gestita diversamente, ha invece un’alta percentuale di reiezione e una bassissima percentuale di accoglimenti. Il che ovviamente rende una situazione un po’ delicata per quanto riguarda l’Avvocatura, perché determina solo dal colpo di fortuna se si va ad una sezione o all’altra. Ovviamente questo non significa che tutte le reiezioni abbiano torto, ma di accoglimenti nella Seconda Sezione io non so quanti ne abbiano avuti qui, guardando la gente; mentre nella prima, si dice, tutti i colleghi mi dicono, che quando ci sono degli spazi utili trovano la risposta coerente e corretta, e anche coraggiosa, mi è stato detto. Questo è, non perché il dottor Risi, che presiede la Prima Sezione, sia oggi presente, ma perché effettivamente noi abbiamo cominciato a monitorare e a controllare questa situazione, che non ci siano delle situazioni che richiedono un nostro intervento anche presso il Presidente del Tribunale, perché sennò non riusciamo a capire com’è possibile che sulla Seconda Sezione ci si trovi sempre con reiezioni continue, ripetute e piuttosto ampie. Detto questo, da queste considerazioni è nata l’esigenza, sentita e raccolta dal Consiglio, di cominciare a studiare un attimo anche le problematiche delle normative del Tribunale del riesame. Il Dottor Risi, che ringrazio, con la Dottoressa Galasso hanno dimostrato di accogliere questo nostro invito e credo che sia importante anche per altri motivi: perché il Dottor Risi e la Dottoressa Galasso potranno esprimere quali sono, avendo a loro volta visto molte volte situazioni che richiedono un’istruzione tecnica e delle motivazioni o dei comportamenti che possono non essere giusti o coerenti con la norma, quindi è bene che la prassi venga esaminata e che quindi tutti noi si possa apprendere e cogliere, viste anche dal punto di vista del giudicante, le problematiche che si possono porre sul tema delicato del Tribunale del riesame, che è un organo fra i più delicati, voluti a lungo tempo, perché tratta della libertà individuale di ciascuno degli indagati. Quindi grazie ai relatori. Ovviamente c’è anche una bella relazione della Camera Penale, che sarà letta dal collega De Franceschi, che presiede la sezione della Commissione Studi per la Procedura Penale. 1 Io vi devo chiedere scusa se mi dovrò allontanare fra circa mezz’oretta perché devo andare a Roma, perché il Consiglio dei Presidenti delle Camere Penali è stato convocato in urgenza, non so bene perché, non riesco a capire cosa ci sia di urgente, ma dovendo presiederlo io evidentemente non posso mancare e vi chiedo quindi scusa. Grazie a voi di essere intervenuti. Qui rimarrà il Presidente della Commissione, l’Avvocato Alberini, e quindi credo che si possa cominciare a dare la parola al collega De Franceschi. AVV. MARINO DE FRANCESCHI Lo scopo di questo incontro, nelle intenzioni della Commissione della Camera Penale, è quello di fare un po’ il punto della situazione sul Tribunale del riesame, che è un istituto rispetto al quale abbiamo linee interpretative abbastanza consolidate in forza di una giurisprudenza di legittimità e di merito, che è in grado, pensiamo, di dare sufficiente risposta ad ogni quesito che può essere sollevato rispetto alle problematiche inerenti al Tribunale del riesame. C’era poi l'esigenza di individuare qual è lo spettro delle questioni che possono essere sollevate innanzi al Tribunale del riesame, poiché non sempre ve ne è piena consapevolezza, e ciò porta talvolta ad investire il Tribunale con delle questioni che poi non vengono trattate o vengono liquidate con provvedimenti di inammissibilità, e quindi c’era l’esigenza di limitare l’attenzione alle questioni effettivamente sollevabili ed evitare che ci sia un carico del Tribunale del riesame che poi non porta al Difensore alcun ritorno sul piano dell’utilità a favore del proprio assistito. Il titolo dell’incontro costituisce un contenitore che non può essere riempito, poiché non possiamo oggi, con i tempi consueti dedicati al seminario, affrontare tutte le problematiche inerenti al tema proposto. Ci si è concentrati, quindi, su alcune questioni, alcune delle quali sono state analizzate e approfondite dalla Commissione, altre verranno approfondite dal Dottor Risi e dalla Dottoressa Galasso. Sicuramente, comunque, prima di affrontare queste questioni risulta opportuno dare alcuni cenni di inquadramento sistematico per individuare in primo luogo la natura di questo mezzo di impugnazione. Voi sapete che i mezzi di impugnazione in dottrina e in giurisprudenza si distinguono in azioni di annullamento e gravami in senso stretto; azioni di annullamento che sono dirette a rescindere il provvedimento e vengono ad essere vincolate dai motivi di impugnazione e quindi il Giudice deve limitare la sua cognizione e i suoi poteri decisori a quelli che sono i motivi rappresentati dalle parti. Il gravame invece comporta la devoluzione al Giudice di più alto grado, di seconda istanza, al Giudice ad quem, di tutte le questioni che sono 2 state già esaminate dal Giudice di prima istanza, nella fattispecie il Giudice per le Indagini Preliminari. I risultati cui è pervenuta sia la dottrina che la giurisprudenza sono abbastanza pacifici. Il ricorso innanzi al Tribunale del riesame è un mezzo di gravame pienamente devolutivo e questo è confermato dal fatto che ai sensi dell’Art. 309 la richiesta di riesame non necessariamente dev’essere supportata dai motivi: il Difensore ha facoltà di enunciare i motivi o può anche non farlo, ha facoltà di enunciare nuovi motivi all’apertura dell’udienza in Camera di Consiglio innanzi al Tribunale; da ciò si evince che comunque il Tribunale può conoscere della vicenda de libertate anche se non vi è il supporto dei motivi con la richiesta di riesame. Altresì il Tribunale del riesame in sede di decisione non è limitato dal devolutum, nel senso che non vale il principio tantum devolutum quantum appellatum; il Tribunale del riesame può infatti riformare o annullare il provvedimento di cautela per ragioni diverse rispetto a quelle che sono evidenziate nei motivi da parte del Difensore. Non solo; il Tribunale del riesame non è nemmeno limitato nel suo decidere da quelle che sono le ragioni poste a base del provvedimento impugnato, poiché lo stesso Art. 309 ci dice che il Tribunale può confermare, anche per ragioni diverse, argomentazioni diverse da quelle che sono state poste dal Giudice per le Indagini Preliminari a conforto della sua decisione. Quindi abbiamo un ampio potere di decisione, una devoluzione totale a cui corrisponde una pienezza di poteri. Addirittura il Tribunale del riesame ha un potere di cognizione più ampio del Giudice a quo, poiché egli può decidere anche in base scorta di elementi che il Pubblico Ministero ai sensi del quinto comma dell’Art. 309, elementi favorevoli all’imputato, trasmette al Tribunale e può decidere altresì sulla scorta degli elementi che le parti deducono nel corso dell’udienza. Questi sono tendenzialmente i tratti caratterizzanti del ricorso innanzi al Tribunale e dei poteri di cognizione e di decisione del Tribunale del riesame, alla luce del dato normativo, ma senz’altro possiamo dire che questi poteri vengono ad essere meglio puntualizzati da una serie di correttivi di carattere giurisdizionale che riguardano sia le questioni che possono essere devolute, sia alcune questioni rispetto alle quali non sempre vi è un’aderenza tra quello che si chiede e il rimedio effettivamente praticabile dall’organo di seconda istanza. Per quanto riguarda le questioni devolvibili va ricordato, ed è interessante ricordarlo, poiché molto spesso viene adito il Tribunale del riesame sollevando una questione che non è devolvibile, non sono sollevabili avanti al Tribunale del riesame le questioni di inefficacia della misura cautelare che riguardino un momento extra-procedimentale, cioè non riguardino direttamente il procedimento di riesame, come invece accade per esempio in relazione alle cause di inefficacia cositituite da mancato rispetto dei termini della decisione o 3 di trasmissione da parte del Pubblico Ministero degli atti al Tribunale del riesame ai sensi dell’Art. 309 commi quinto e nono; ove infatti si tratti di inefficacia che si è perfezionata fuori dal procedimento del riesame, la relativa eccezione non può essere conosciuta dal Tribunale, tipico esempio: mancata assunzione dell’interrogatorio nei cinque giorni dall’adozione della misura cautelare o mancato rispetto del termine di fase in materia di durata massima della custodia cautelare. Per quanto riguarda invece le questioni devolvibili, esse riguardano sia il merito che la legittimità e si ricavano dalle disposizioni che fissano i presupposti applicativi, sostanziali e processuali, che debbono sussistere affinché sia legittimamente adottata una misura cautelare. Si ricavano dagli Artt. 273 e seguenti, quindi abbiamo sul piano sostanziale gravi indizi di colpevolezza, esigenze cautelari, criteri di scelte delle misure, condizioni che riguardano specificamente alcune misure cautelari; sotto il profilo formale abbiamo poi competenza, incompatibilità, requisiti formali richiesti dalla norma a pena di nullità. Tra le varie questioni hanno suscitato in particolare l’interesse della Commissione alcune questioni che sono state oggetto di dibattito giurisprudenziale e altresì possono comportare dei rischi per il Difensore in quanto molto spesso esse vengono sollevate e non portano ad un esito positivo proprio perché non sono prospettabili o sono prospettabili solo entro certi limiti . Sono le questioni relative alla qualificazione giuridica del fatto, al vizio di motivazione e al giudicato cautelare, tema che verrà affrontato anche dalla Dottoressa Galasso. Per quanto riguarda la qualificazione giuridica del fatto da parte del Tribunale del riesame, è una tematica interessante, poiché riconoscere al Tribunale del riesame la possibilità di dare una diversa configurazione giuridica consente al Difensore, per esempio, di rappresentare davanti al Tribunale una qualificazione che potrebbe far venir meno i presupposti della misura; perché voi sapete per esempio che per l’adozione delle misure è necessario sussistano determinati massimi edittali comminati dalla legge e quindi, laddove dalla qualificazione risulti un diverso massimo edittale, può venir meno il presupposto sostanziale della misura. Basti pensare, per fare un esempio, ad una fattispecie qualificata come truffa dal G.I.P., che invece il Tribunale del riesame venga a qualificare come insolvenza fraudolenta con conseguente carenza di presupposti legittimanti. La possibilità di qualificazione giuridica del fatto può anche essere sfavorevole per il Difensore nel momento in cui il Tribunale del riesame può porre rimedio in negativo ad una errata qualificazione del G.I.P., pur su una corretta prospettazione accusatoria del Pubblico Ministero, che porterebbe invece a 4 qualificare quel fatto con un reato per il quale è prevista la cautela personale. Quindi, sul punto, inizialmente la giurisprudenza non riconosceva la possibilità per il Tribunale di qualificare il fatto; si sosteneva infatti che nella fase delle indagini preliminari siamo ancora in un momento in cui il procedimento è in divenire, in cui l’imputazione è in divenire, e quindi non sono compatibili interferenze da parte del Tribunale del riesame rispetto a quelle che sono le qualificazioni giuridiche. Successivamente, la giurisprudenza della suprema Corte di Cassazione si è allontanata da questo orientamento, ha riconosciuto una possibilità di qualificare il fatto con la giustificazione che ogni qualvolta un Giudice viene a decidere su un fatto deve avere il potere di qualificarlo, poiché questo è un potere che inerisce allo stesso esercizio della giurisdizione. Finalmente le Sezioni Unite hanno risolto il problema, riconoscono senz’altro al G.I.P.e al Tribunale del riesame, intervenga esso ai sensi dell’Art. 309 o all’Art. 310, la possibilità di riqualificare il fatto con la giustificazione che è proprio la provvisorietà e il divenire del procedimento che consente di intervenire, poiché, dal momento in cui versiamo in una situazione di provvisorietà in punto di ricostruzione in fatto e di instabilità delle configurazioni giuridiche che possono mutare a seconda dell’esito del procedimento, e corretto attribuire anche in sede di indagini preliminari al G.I.P. e Tribunale della libertà un simile potere . Addirittura il Tribunale del riesame può intervenire con una diversa qualificazione giuridica anche se vi sia stato il rinvio a giudizio, anche qualora vi siano dei provvedimenti che sono stati adottati dall’organo chiamato a decidere sul merito, anche se in tali casi la qualificazione del Tribunale ha un’efficacia soltanto endoprocedimentale ed è limitata al procedimento incidentale relativo alla cautela e non può estendersi al procedimento principale, che riguarda la responsabilità. Qualificazione giuridica peraltro significa che il Tribunale può proporre sì la sussunzione della fattispecie concreta in diversa fattispecie astratta, ma non significa che il Tribunale possa intervenire sulla prospettazione in fatto, che spetta esclusivamente al Pubblico Ministero, poiché, ove si consentisse al G.I.P. e al Tribunale di intervenire sulla prospettazione in fatto, si avrebbe una sovrapposizione dei poteri del Giudice sui poteri che la legge riserva al Pubblico Ministero. L’altra questione cui facevo cenno è il vizio di motivazione, che è di particolare interesse perché viene spesso sollevato, viene accompagnato da una richiesta di annullamento che viene poi molto spesso, questa richiesta di annullamento, disattesa. Il problema nasce dal fatto che come abbiamo visto il riesame è uno strumento di impugnazione totalmente devolutivo cui corrispondono pieni poteri del Tribunale del riesame di cognizione e di decisione, ma abbiamo una 5 disposizione, che è quella di cui all’Art. 292, che eleva il vizio di motivazione a causa di nullità. E altresì abbiamo un art. 309 che riconosce un potere di annullamento, poiché voi sapete l’Art. 309 al comma nono riconosce al Tribunale del riesame la possibilità di confermare, riformare o annullare il provvedimento anche per motivi diversi rispetto ai quali già ho accennato prima. Quindi ci si chiede se il Tribunale, nel momento in cui interviene con pienezza dei poteri, possa sanare qualsiasi vizio di motivazione, oppure possa integrare in qualche modo la motivazione. Ebbene, la Suprema Corte è ferma nel ritenere che il Tribunale possa intervenire completando la motivazione carente, in quanto l’Art. 309 consente di confermare il provvedimento anche per ragioni diverse da quelle che si evincono dalla motivazione del provvedimento cautelare. In realtà secondo la Suprema Corte di Cassazione il provvedimento cautelare si articola nel provvedimento del G.I.P. e in quello del Tribunale del riesame, sono due provvedimenti intimamente connessi e complementari e quindi il Tribunale del riesame può completare e integrare la motivazione del G.I.P. laddove essa sia carente. Abbiamo un’ipotesi che in dottrina viene qualificata come fattispecie a formazione progressiva. Questa soluzione suggerita dal Supremo Collegio è coerente col tipo di mezzo di gravame che, abbiamo visto, è pienamente devolutivo, però suscita alcune perplessità poiché comunque c’è un vizio di motivazione dalla legge sanzionato con la nullità e c’è un potere di annullamento del Tribunale di riesame espressamente riconosciuto. Secondo la commissione una soluzione possibile al problema è quella di distinguere tra difetto assoluto di motivazione e difetto non assoluto. Nel caso di difetto assoluto di motivazione il Tribunale del riesame può intervenire con la sanzione di nullità e quindi può pronunciare l’annullamento; difetto assoluto di motivazione che abbiamo quando manchi la motivazione graficamente, cioè non siano nemmeno esaminati i presupposti condizionanti l’adozione della misura di cautela, per esempio manca la motivazione sui gravi indizi di colpevolezza o sulle esigenze cautelari, oppure qualora, ancorché non vi sia assenza grafica, vi sia una motivazione del tutto apparente o perché il G.I.P. ha utilizzato delle clausole di stile o perché ha utilizzato formule che non consentono di verificare quali sono le argomentazioni effettive che sono state poste a base del provvedimento. Ove invece la motivazione sia soltanto insufficiente, contraddittoria o incompleta vi è la possibilità per il Tribunale del riesame di intervenire in via integrativa. Nel caso di difetto assoluto di motivazione la carenza deve essere sanzionata con nullità e deve portare, dal nostro punto di vista, ad un annullamento soprattutto con riferimento alle misure coercitive, poiché vi sono due principi costituzionali che entrano in gioco, non soltanto quello di cui all’Art. 111, che 6 vuole tutti i provvedimenti giurisdizionali corredati da motivazione, ma soprattutto all’Art. 13, che condiziona ogni restrizione della libertà personale a un provvedimento motivato dell’Autorità Giudiziaria. L’ultima delle questioni è quella afferente il giudicato cautelare, che è un punto alquanto dolente in quanto è un istituto che non trova disciplina positiva: non troverete nessuna norma che parla di giudicato cautelare, non mi risulta. E’ un istituto che è di creazione giurisprudenziale e si sostanzia nell’impossibilità di rivalutare una vicenda cautelare ove sulla stessa sia stata pronunciata una decisione poi non impugnata ovvero sia intervenuta una decisione da parte dell’organo di seconda istanza. In questo caso può essere ottenuta una modifica del provvedimento sulla sola scorta di elementi aventi il carattere di novità. E’ un istituto dal punto di vista della Commissione, che, proprio perché non ha nessun aggancio con il dato normativo, intende rispondere ad esigenze eminentemente pratiche, soprattutto all’esigenza di impedire un eccessivo carico di lavoro al Tribunale del riesame derivante da ricorsi aventi finalità dilatorie e defatiganti. Però questo istituto sicuramente non appaga ed è suscettibile di essere contestato laddove vi sono delle norme che portano a contrastare questo tipo di impostazione. Innanzitutto non è ammissibile, dal punto di vista della Commissione, il più rigido degli orientamenti, che per un certo periodo è stato sposato dalla Cassazione, per la quale il giudicato cautelare bloccava qualsiasi tipo di intervento successivo; in particolare originariamente la Cassazione diceva che il giudicato copriva tutte le questioni formali, procedimentali e sostanziali, copriva tutto il dedotto e il deducibile, veniva a formarsi laddove l’ordinanza non fosse stata impugnata nei termini utili previsti dal Codice. Successivamente c’è stata un’attenuazione, di fatto oggi sono coperte da giudicato le questioni dedotte, ma non più le questioni deducibili. Tipico esempio di questione deducibile in ogni momento è la questione afferente il mancato rispetto del termine imposto al Pubblico Ministero per la trasmissione atti al Tribunale del riesame. Non sono coperte da giudicato cautelare le questioni di carattere meramente formale. Sono invece coperte da giudicato, secondo quello che è l’orientamento della Suprema Corte, le questioni di merito dedotte. Questo, ripeto, si espone ad una critica, dal nostro punto di vista, sulla scorta di dati normativi di una certa consistenza, poiché l’Art. 299, commi primo e secondo, e soprattutto al comma terzo ter, sembra consentire al Difensore di adire al Tribunale del riesame chiedendo una rivalutazione di questioni che già sono state dedotte. Infatti l’Art. 299 prevede che possa essere chiesta la revoca della misura cautelare anche per fatti sopravvenuti, e già questo sembra sottendere la possibilità di ottenere una rivalutazione anche sui fatti che già sono stati oggetto di valutazione e di 7 decisione precedentemente, ma è soprattutto l’Art. 299 comma terzo ter che assume rilievo, dato che la norma nel prevedere che il Giudice per le Indagini Preliminari deve procedere all’interrogatorio dell’indagato nell’ipotesi in cui questi venga a rappresentare degli elementi nuovi per ottenere la revoca della misura, viene a significare che qualora vengano suggeriti, introdotti gli stessi elementi già valutati dal Giudice, il Giudice non dovrà assumere l’interrogatorio dell’indagato, ma dovrà comunque decidere e non troverà nessun tipo di ostacolo nel fatto che si è formato il giudicato cautelare. Il problema del giudicato cautelare si pone, ovviamente, non tanto in relazione ai gravi indizi di colpevolezza, perché rispetto ai gravi indizi di colpevolezza è abbastanza ragionevole che in mancanza di un mutamento del quadro indiziario non vi siano ragioni per una rivisitazione della vicenda de libertate, anche se questo non sempre è vero, perché vi sono delle ipotesi in cui la rivalutazione si impone; esempio tipico: brogliacci di intercettazioni telefoniche che non corrispondono al reale contenuto delle intercettazioni telefoniche, che emerge soltanto all’esito delle trascrizione, in questo caso avremmo delle intercettazioni già oggetto di valutazione, ma che devono essere senz’altro rivalutate in quanto il loro contenuto non risponde perfettamente a quello che è stato apprezzato dal Giudice per le Indagini Preliminari prima e dal Tribunale del riesame poi, in sede di adozione dei provvedimenti di loro competenza. Il punto dolente in realtà sono le esigenze cautelari, cioè il giudicato cautelare sulle esigenze cautelari. Il Dottor Risi vi mostrerà poi un atto molto interessante che è stato predisposto per i detenuti di un carcere della Repubblica, in cui proprio ci si lamenta del fatto che il giudicante non rivaluta i motivi, ma, mi sembra di capire, invoca il fatto che non ci sono motivi nuovi e quindi si è formato sul punto il giudicato cautelare. Sulle esigenze cautelari il problema sussiste soprattutto con riferimento alle esigenze di cui all’Art. 274 lettera c), pericolo di reiterazione, poiché si assiste alla curiosa situazione per la quale in tema di cautele abbiamo una pericolosità sociale rispetto alla quale si forma un giudicato, mentre nel sistema complessivo la cosa viene smentita nella disciplina delle misure di sicurezza, le quali invece richiedono una periodica verifica della pericolosità sociale; quindi già sotto il profilo dogmatico ci sono delle difficoltà di tenuta dell' istituto rispetto alle esigenze di cui all’Art. 274 lettera c). E poi vi è una difficoltà oggettiva, poiché non si capisce esattamente come si possa superare una certa condizione, difficoltà particolarmente avvertita con riguardo all’ipotesi in cui la misura in atto sia la custodia cautelare in carcere, poiché il detenuto in carcere non ha la possibilità di addurre alcun motivo nuovo che venga ad attenuare la pericolosità sociale ritenuta dal G.I.P. o 8 dal Tribunale del riesame successivamente, perché si trova in carcere e quindi può soltanto rappresentare come momento di novità il decorso del tempo. Voi sapete che molto spesso le istanze di revoca rappresentano come motivo il decorso del tempo e rispetto al decorso del tempo assistiamo a decisioni che sono al limite dell’arbitrarietà, poiché in fattispecie completamente uguali un Giudice ci dice che il decorso del tempo è di per sé sufficiente ad aver stimolato un processo di rivisitazione critica, mentre in altre occasioni il decorso del tempo viene considerato assolutamente ininfluente e quindi la misura viene conservata. È un problema in questo momento, direi, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità di merito, insuperabile, però è un problema che deve far riflettere, poiché di fatto, se la persona si trova in custodia cautelare, non vi è mai la possibilità astratta di ottenere la revoca, poiché il detenuto non può dar prova che si comporta bene, che lavora, che ha una struttura famigliare adeguata ed è rispettoso della legge; non lo può fare perché si trova in carcere; l’unica possibilità sarebbe quella di valutare la sua condotta in carcere, ma abbiamo l’assoluta assenza di canali di collegamento tra il Tribunale del riesame e il carcere; poiché se la Magistratura di sorveglianza ha in materia di esecuzione delle pene detentive e per l’eventuale concessione di misure alternative, la possibilità di seguire passo passo il detenuto con delle relazioni comportamentali che vengono stilate dagli operatori che agiscono all’interno del carcere, questo non è possibile al Tribunale del riesame, il quale non ha questo tipo di collegamenti e, tra l’altro, dovrebbe agire con tempistiche che sicuramente sono differenti da quelle che sono praticabili in sede di esecuzione. Quindi l’auspicio è quello che sempre meno il G.I.P. e il Tribunale ricorra a questa formula: non ci pronunciamo poiché la questione è già coperta da giudicato, anche se allo stato è un problema che non trova soluzioni appaganti per la Difesa, proprio perché il giudicato viene considerato un ostacolo insuperabile. Adesso passo la parola agli altri relatori, mi permetterete di ringraziare soltanto i colleghi che hanno partecipato alla relazione, l’Avvocato Alessandra Collenea, l’Avvocato Barbara Tomarchio, l’Avvocato Graziano Stocco e l’Avvocato Alessandro Lison. Grazie. AVV. RENATO ALBERINI Ringrazio il collega De Franceschi e tutti i colleghi che hanno partecipato come me alla Commissione di Studio di Diritto Processuale Penale, alla relazione di questo intervento. Passo quindi la parola alla Dottoressa Giuliana Galasso, Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Padova. 9 DOTT. SSA GIULIANA GALASSO Io ringrazio la Commissione per l’invito. Prometto che sarò breve. Intendo trattare molto brevemente solo la parte che riguarda la motivazione delle ordinanze che applicano la misura, e fare un accenno alla giurisprudenza della Corte Costituzionale per il riferimento che può avere agli argomenti che trattiamo, principalmente al giudicato cautelare. Vi è già stato detto, l’Art. 13 comma secondo della Costituzione stabilisce che non è ammessa forma alcuna di detenzione, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Gli Artt. 272 e seguenti del Codice di Procedura Penale pongono appunto i casi e i modi in cui il Giudice può limitare e incidere alle libertà personali dell’indagato. Non parlerò ovviamente delle condizioni generali di applicabilità della misura (la richiesta del Pubblico Ministero, la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza o delle esigenze cautelari, il limite edittale di pena previsto specificamente per la misura che il Pubblico Ministero richiede e l’adeguatezza della misura), per soffermarmi sull’Art. 292 del Codice di Procedura Penale che stabilisce quali requisiti deve avere a pena di nullità l’ordinanza del Giudice che applica la misura. In particolare sul comma terzo lettera c), che esplicita l’obbligo di motivazione (costituzionalmente imposto, come abbiamo visto) con le parole: “L’esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi della loro rilevanza”. Nel sistema originario del Codice la norma si fermava qui. C’è stata poi una prima modifica nel ’91, (D. L. 13. 5. 1991 n. 152 convertito in L. 12. 7. 1991 n. 203) che ha chiarito che la nullità è rilevabile d’ufficio anche dal Giudice ed ha aggiunto, al comma 3 lett. c) che le esigenze cautelari e i gravi indizi di responsabilità devono essere valutati “tenuto conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato”. Ha aggiunto inoltre il comma c) bis che dice: “L’esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla Difesa”. Poi la legge 8 agosto ‘95 ha aggiunto anche il comma 2 ter: “L’ordinanza è nulla se non contiene la valutazione degli elementi a carico e a favore dell’imputato di cui all’Art. 358 e 327 bis del Codice Penale”, cioè il 358, vi ricordo, è l’articolo che impone al Pubblico Ministero di ricercare anche gli elementi a favore dell’indagato; il 327 bis fa invece riferimento alle indagini difensive in senso proprio. Quindi il legislatore vuole che l’ordinanza del Giudice sia motivata a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio in relazione anche agli elementi a favore della Difesa. 10 Qui s’impone una prima considerazione, perché l’Art. 291 c.p.p. non impone al Pubblico Ministero di trasmettere tutti gli atti del fascicolo processuale. La norma è abbastanza chiara: il Pubblico Ministero sceglie gli atti da trasmettere al G.I.P., ha l’obbligo però di trasmettere tutti gli atti che possono essere rilevanti per la Difesa. In teoria è una norma che garantisce la Difesa, in pratica ha i suoi limiti, perché il fascicolo del Pubblico Ministero in questa fase è un fascicolo ancora coperto dal segreto delle indagini; il G.I.P. può vedere solo gli atti trasmessi dal Pubblico Ministero, al Difensore andranno depositati solo gli atti trasmessi dal Pubblico Ministero. Quindi nessuno può dire se negli atti che il P.M. non ha trasmesso c’erano elementi che potevano essere valutati anche a favore della Difesa. Quindi questa nullità rimane un po’ una nullità sulla quale poi bisognerà discutere e vedere come potrebbe essere valorizzata. Vi ricordo poi che il fascicolo difensivo anche nella fase delle indagini è depositato presso l’ufficio del Giudice delle Indagini Preliminari e non in Procura, per cui questo è un fascicolo che, se le Cancellerie funzionano, il Giudice potrebbe avere a disposizione anche nel momento in cui deve decidere sulla richiesta di misure cautelari. Vi volevo leggere due parole di una massima in proposito: è la sentenza 24/9/94 n. 37938, RV 231001, impugnante Grillo, in cui la Corte ha ritenuto insussistente la violazione dell’obbligo gravante sul Pubblico Ministero ex Art. 291 nella mancata trasmissione al Giudice del riesame delle dichiarazioni rese da altri indagati in altri procedimenti, non trasmesse neppure al G.I.P. e riportate nella richiesta di applicazione della misura cautelare, le quali, pur non risultando nel fascicolo del Pubblico Ministero, erano contenute tuttavia in una nota informativa relativa ad altro procedimento trasmesso sia al G.I.P. che al Giudice del riesame. Perché ho richiamato questa massima? Perché mi sembra particolarmente importante, dal momento che non si può escludere che dalla lettura integrale delle dichiarazioni rese dagli altri indagati si potessero evincere anche elementi a favore degli indagati per i quali veniva richiesta la misura. Devo dire che a me capita di chiedere delle integrazioni al Pubblico Ministero, quando viene richiesta una misura cautelare, se mi accorgo che dei punti sono incompleti o comunque non mi sono sufficientemente chiari, con un provvedimento interlocutorio chiedo al Pubblico Ministero di integrare quel punto delle indagini. Capita abbastanza di frequente, per esempio, nelle richieste di misura che si basano essenzialmente sulle intercettazioni telefoniche: per gli operanti diventa un po’ scontato dire che “quel telefono è in uso a quell’indagato e l’altro telefono è in uso all’altro indagato”, però a volte, dopo avere esaminato gli atti, non mi sembra che poi siano chiarissime queste circostanze e quindi chiedo un’integrazione. Non è un vero e proprio 11 provvedimento di rigetto, è un provvedimento interlocutorio, non previsto dall’ordinamento, ma nemmeno vietato, il Pubblico Ministero può rispondere integrando quel punto oppure può dire: “No, io non sono in condizioni o non voglio integrare, decidi”; allora ovviamente si tratterà di valutare caso per caso, perché può darsi che la motivazione possa reggere anche a prescindere dai punti che mi sembravano incompleti, può darsi invece che senza quell’approfondimento non resti molto per applicare la misura, e in questo caso rigetto. Se per motivazione si intende l’esposizione delle ragioni per le quali il Giudice è arrivato ad un certo convincimento, una ordinanza che “ricicli” la richiesta del P.M. va sanzionata, perché mi sembra un caso di motivazione apparente, così come mi sembrano un caso di motivazione apparente tutte quelle ordinanze anche molto voluminose in cui praticamente però non c’è una sola valutazione del materiale probatorio operata dal Giudice: in realtà l’ordinanza non fa che mettere insieme i vari atti di indagine (intercettazioni telefoniche, interrogatori, etc. ) e per questi motivi applica la misura. Tanto varrebbe allora applicare la misura e dire: “Gli atti sono questi, ognuno tiri le proprie conclusioni”. A volte mi sento anche a disagio, perché noi, come Giudici delle Indagini Preliminari, assumiamo anche gli interrogatori delegati, quindi vediamo ordinanze applicate dai Giudici di tutta Italia. Ho letto di recente un’ordinanza di custodia cautelare, non dirò ovviamente da quale Tribunale veniva, però era la richiesta del Pubblico Ministero e io giravo, giravo, non trovavo un’ordinanza applicativa, e poi in calce alla richiesta c’era scritto: “Il Giudice, condivise le argomentazioni, applica la misura”. Questo mi sembra che sia effettivamente un caso che non può essere lasciato passare. Ricordo che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza 21/9/2000 n. 17, ha ritenuto appunto legittima la motivazione per relationem quando faccia riferimento ad un legittimo atto del procedimento, ma soprattutto fornisca la dimostrazione che il Giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione. Quindi io ritengo che sicuramente è lecito un uso intelligente del taglia/incolla della richiesta del Pubblico Ministero, perché non avrebbe senso riscrivere dei passi o delle dichiarazioni o delle intercettazioni telefoniche, etc., però è importante che dall’ordinanza risulti evidente che il Giudice ha esaminato gli atti innanzitutto e abbia raggiunto le stesse conclusioni alle quali è giunto il Pubblico Ministero con la richiesta di misura. Mi pare pacifico che il Tribunale del riesame abbia il potere di integrare la motivazione del Giudice, lo dice chiaramente l’Art. 309 c.p.p. e discende anche dal carattere del Tribunale del riesame che è Giudice di merito. Direi che il 12 potere del Tribunale del riesame di integrare la motivazione del Giudice nasce anche da un’esigenza pratica. Le misure sono sempre applicate inaudita altera parte, perché, è vero che il Giudice deve tener conto degli elementi a Difesa, ma è anche vero che spesso non c’è nessun elemento a Difesa nel momento in cui si applica la misura, perché magari l’indagato non sa nemmeno di essere indagato e quindi non si è difeso in alcun modo. Quando poi si procede all’interrogatorio capita qualche volta, adesso non saprei dire se più o meno frequentemente, che l’indagato espone una tesi difensiva che effettivamente può avere una sua validità, che però non è valutata nell’ordinanza di custodia cautelare, per il semplice fatto che l’ordinanza di custodia cautelare o comunque l’ordinanza applicativa della misura è stata emessa prima che venisse formulata. Non è ovviamente una ragione che abbia un suo valore giuridico, però risponde ad esigenza pratica, riconoscere al Tribunale del riesame investito della questione, di poter integrare la motivazione del Giudice sui vari punti in cui può essere carente. Per il resto, lasciando poi al dottor Risi tutte le varie questioni, devo dire che io mi sento di condividere l’interpretazione suggerita dalla Commissione, che cioè il Tribunale del riesame ha il potere di integrare una motivazione che sia carente, manchevole, insufficiente e debba, però, giungere all’annullamento dell’ordinanza quando la motivazione sia del tutto assente, mancante non solo fisicamente e graficamente, ma anche quando si tratti di una motivazione apparente. E’ vero che questa conclusione si scontra col principio che il vizio di motivazione produce nullità solo nell’ambito dei giudizi di legittimità, ma è anche vero che il procedimento incidentale sulla libertà è un procedimento peculiare - pensiamo per esempio ai termini previsti a pena di inefficacia della misura - e soprattutto è un procedimento che si riferisce a un bene costituzionalmente protetto in cui la motivazione del provvedimento ha specifica rilevanza costituzionale. Quindi io non mi scandalizzerei di un annullamento del Tribunale del riesame per omessa motivazione dell’ordinanza del Giudice. Dirò che ho trovato anche delle sentenze, soprattutto una interessante in materia di sequestro, proprio perché il sequestro invece non richiede nessuna valutazione dei gravi indizi di responsabilità e quindi si potrebbe ritenere che l’obbligo di motivazione del Giudice è affievolito; invece la Cassazione penale, sentenza 8/1/2003 n. 27, ha stabilito che in tema di provvedimenti di sequestro dal combinato disposto degli Artt. 324 settimo comma e 309 nono comma Codice di Procedura Penale, deriva la possibilità del Tribunale del riesame di integrare la motivazione del provvedimento oggetto del gravame ancorché quest’ultima sia succinta e ricavabile nella sua estensione dalle adesioni all’indicazione e alla descrizione del fatto effettuata dalla Polizia Giudiziaria. 13 Per contro, il Tribunale del riesame deve rilevare la nullità del decreto quando esso sia del tutto carente del requisito della motivazione. Quindi a maggior ragione direi che questo principio è applicabile alle ordinanze che applicano le misure cautelari. Ci sono delle sentenze in proposito, anche una abbastanza recente: Corte di Cassazione Sezione Quarta, sentenza 26/11/2003, impugnante Chisari. Certo, in pratica può essere difficile distinguere i casi in cui la motivazione insufficiente può essere integrata e i casi in cui la motivazione invece manca del tutto e ne può derivare la nullità, perché naturalmente tra il bianco e il nero c’è sempre un grigio, che è difficile dire se sia più vicino al bianco o più vicino al nero, però in fondo il compito del giudicante è anche quello di distinguere e di applicare poi la norma nel caso concreto. Chiuse queste brevi note sulla motivazione, vorrei fare qualche riflessione sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale, perché mi sembra particolarmente interessante, non solo per le pronunce di legittimità costituzionale che tutti noi conosciamo, ma proprio per i ragionamenti che la Corte svolge, soprattutto con le sentenze in cui dichiara non fondate le questioni. Per esempio a proposito della qualificazione giuridica del fatto, la Corte Costituzionale fin dal 1991 aveva detto che il Giudice dell’udienza preliminare poteva dare al fatto una qualificazione giuridica diversa, sia pure ai soli fini di dichiarare l’incompetenza. Allora io mi chiedo: c’era ragione di costringere il G.I.P., investito sulla richiesta di una misura, ad inventarsi una motivazione per poi aspettare l’udienza preliminare per dire che quella non era estorsione, ma per esempio esercizio arbitrario delle proprie ragioni? Oppure adesso, di recente, proprio le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con la sentenza del 28/6/2005, hanno stabilito che l’omesso deposito dell’ordinanza applicativa di una misura cautelare personale e degli atti prescritti dall’Art. 293 terzo comma Codice di Procedura Penale è causa di nullità dell’interrogatorio di garanzia per violazione del diritto di difesa nonché della perdita di efficacia della medesima ordinanza. Però, in fondo, già la Corte Costituzionale con la sentenza del 24 giugno ‘97 n. 192, con la quale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’Art. 293 nella parte in cui non avrebbe consentito ai Difensori di estrarre copia degli atti, aveva detto che dopo l’esecuzione della misura cautelare non sussistono ragioni di riservatezza tali da giustificare limitazione al diritto di difesa; al contrario, dopo l’esecuzione della misura, deve essere consentito il pieno esercizio del diritto di difesa assicurando al Difensore la più ampia ed agevole conoscenza degli elementi su cui è fondata la richiesta del Pubblico Ministero, al fine di rendere attuabile un’adeguata e informata assistenza dell’interrogatorio della persona sottoposta alla misura ex Art. 294, nonché di valutare con piena cognizione di causa quali siano gli strumenti più idonei per 14 tutelare la libertà personale del proprio assistito. Leggendo la motivazione di questa sentenza già si capiva che secondo la Corte il deposito degli atti e la possibilità per il Difensore di estrarne copia doveva avvenire prima dell’interrogatorio. Vediamo che cosa ci può dire la Corte Costituzionale in tema di giudicato cautelare. La Corte Costituzionale, badate, non fa il benché minimo accenno in nessuna delle varie sentenze al giudicato cautelare. Non so se lo fa per prenderne le distanze o se lo fa perché la Corte ci tiene a rimanere sempre negli stretti limiti della questione che sta esaminando, però a me pare significativo il fatto che in realtà non ne parla mai, nemmeno quando sarebbe il caso di farvi qualche accenno. Ve ne hanno già parlato, ma voglio rammentare, sul concetto di giudicato cautelare, la sentenza Buffa, sezioni unite 28. 7. 1994 n. 11, che dopo aver premesso che “il giudice competente a pronunciarsi sulla revoca della misura cautelare non incontra alcuna preclusione - quanto all'accertamento della carenza originaria (oltre che persistente) di indizi o di esigenze cautelari – nella mancata impugnazione dell'ordinanza cautelare nei termini previsti”, conclude, però, che una preclusione processuale è suscettibile di formarsi a seguito delle pronunzie emesse, all'esito del procedimento incidentale di impugnazione, dalla Corte Suprema ovvero dal Tribunale in sede di riesame o di appello, avverso le ordinanze in tema di misure cautelari, preclusione limitata allo stato degli atti e relativa alle sole questioni dedotte, implicitamente o esplicitamente. “Ne consegue che le pronunzie in esame - se non impugnabili o, a loro volta, non impugnate - spiegano un'efficacia preclusiva sulle suindicate questioni e che, pertanto, come non è consentita l'adozione di una nuova ordinanza cautelare sulla base degli stessi elementi ritenuti insussistenti o irrilevanti in sede di gravame, allo stesso modo le questioni in discorso restano precluse in sede di adozione di ogni successivo provvedimento relativo alla stessa misura e allo stesso soggetto”. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano stabilito, con la sentenza 25 ottobre ‘95 n. 38, Liotta, che il rinvio a giudizio dell’imputato precludeva la rivalutazione dei gravi indizi di colpevolezza, così anche il decreto di giudizio immediato, perché la Corte aveva ritenuto che il rinvio a giudizio, implicando un accertamento positivo nella sussistenza di elementi tali da integrare quella qualificata probabilità di affermazione della penale responsabilità, che è richiesta perché si possa configurare il requisito dei gravi indizi di colpevolezza di cui all’Art. 273, preclude in assenza di fatti nuovi sopravvenuti la possibilità di rimettere in discussione il requisito medesimo. 15 Bene, nemmeno un anno dopo, con sentenza del 15 marzo ‘96 n. 71, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità degli Art. 309 e 310 nella parte in cui, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, precludevano la valutazione dei nuovi indizi di responsabilità dopo il rinvio a giudizio. A me questa sentenza pare di un certo rilievo, perché la Corte Costituzionale non si limita a dichiarare l’incostituzionalità di questa interpretazione del solo Art. 309, ma dichiara l’incostituzionalità anche dell’Art. 310, senza appunto affrontare il problema del giudicato cautelare. Nella sentenza della Corte, non mi pare ci sia nessun riferimento al giudicato cautelare, che pure le Sezioni Unite con la sentenza Buffa del ‘94, avevano già affermato. Anzi afferma, in riferimento ad entrambe, (alle ordinanze che applicano e a quelle che mantengono le misure) che “precludere l’esame dei gravi indizi di colpevolezza nelle impugnazioni de libertate equivale ad introdurre nel sistema un limite che si appalesa irragionevolmente discriminatorio e al tempo stesso gravemente lesivo del diritto di difesa, per di più proiettato nella specie verso la salvaguardia di un bene di primario risalto quale è quello della libertà personale.” Soprattutto mi sembrano importanti tutte le varie sentenze con le quali la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incompatibilità del Giudice che ha applicato la misura o che ha provveduto sulla misura a partecipare al giudizio, sia esso nella forma dell’applicazione pena, nella forma del giudizio abbreviato o nel dibattimento. Per esempio la sentenza della Corte Costituzionale del 17 e 24 aprile ‘96 n. 131 oppure la sentenza del 13 e 20 maggio ‘96 n. 155: anche in queste sentenze la Corte Costituzionale non distingue tra il Giudice che applica la misura, e quindi è il Giudice che valuta i gravi indizi e la sussistenza delle esigenze cautelari e diventa, di conseguenza, incompatibile al giudizio, ma estende le pronunce di incostituzionalità anche al Giudice che è chiamato a modificare o a revocare un’ordinanza di custodia cautelare o, comunque, un’ordinanza in materia di libertà. In queste sentenze la Corte non fa alcun riferimento, anzi, espressamente, afferma, nella sentenza n. 155/96, che anche l’ordinanza di modifica, sostituzione e revoca della misura o di rigetto della relativa istanza comporta una decisione sull’esistenza delle condizioni che legittimano la cautela personale, relative all’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza e alle esigenze cautelari. Se considerate che invece la Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità relativa al Giudice del riesame che ha deciso sul sequestro ed ha ritenuto che quel Giudice può partecipare al giudizio perché la decisione sul sequestro non involge nessuna valutazione dei gravi indizi di responsabilità, se ne deduce, a mio parere che la Corte, prima di 16 dichiarare l’incompatibilità del Giudice che ha deciso sulla misura, dovrebbe porsi il problema di verificare se è un Giudice che ha davvero deciso nel merito o si limitato a recepire “un giudicato cautelare”. Sappiamo tutti che in diritto tutto è opinabile e su tutto possiamo discutere, però a me pare che dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale in questa materia si possano ricavare degli utili elementi. C’è ancora un’altra sentenza che mi sembra significativa ed è la sentenza n. 89/1998. Con questa sentenza la Corte Costituzionale ha dichiarato che il Giudice – parliamo adesso non più del G.I.P., ma del Giudice investito del procedimento quindi del Giudice dell’Udienza Preliminare o del Giudice del giudizio – poiché ha la disponibilità del processo, quando è investito di una domanda relativa alla cautela, può anche superare la domanda in bonam partem; quindi, per esempio, se la domanda è solo quella di rendere meno gravose le misure applicate, il Giudice può anche revocare la misura, perché sono venute meno le esigenze cautelari. Per concludere, io ritengo che, se si è formato un giudicato cautelare, nel senso che se c’è stata l’ordinanza del Giudice che ha applicato la misura e c’è stata l’impugnazione e il Tribunale ha confermato, o se non c’è stata impugnazione, quella misura rimane validamente nel processo, quindi è un’ordinanza che risulta legittimamente emessa e spiega i suoi effetti nel processo. Però, secondo me, bisogna scollegare l’art. 309 c.p.p. dall’ art. 299 c.p.p. cioè non bisogna spingere gli effetti dell’ordinanza che applica la misura e dell’ordinanza del riesame che eventualmente la confermi, fino a limitare la possibilità di mettere sempre in discussione l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari; sia perché dalla lettera dell’art. 299 c.p.p. come diceva già il relatore che mi ha preceduto, l’Avvocato De Franceschi, si ricava chiaramente che presuppone la possibilità di rimettere in discussione, in ogni momento, la sussistenza delle esigenze cautelari, ma anche dei gravi indizi di colpevolezza (le misure sono immediatamente revocate quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti le condizioni di applicabilità), sia perché, vorrei dire, anche il principio di non colpevolezza affermato dalla Costituzione verrebbe in un certo modo ad essere limitato e compresso se si giunge a dire che vi è una fase in cui, pur essendo stata pronunciata una sentenza di condanna definitiva, non è più in discussione la responsabilità dell’indagato. Per ritornare alla Corte Costituzionale, proprio in una di queste sentenze che ho citato, sentenza 7 e 15 marzo ‘96 n. 71, la Corte riconosce che nel nostro ordinamento non trova spazio “una concezione rigorosa ed astratta dell’autonomia del provvedimento incidentale di libertà rispetto a quello di merito, giacché ciò condurrebbe alla paradossale conseguenza di ritenere 17 possibile la rivalutazione del presupposto dei gravi indizi di colpevolezza in qualsiasi momento del processo e dunque anche dopo l’eventuale intervento di una sentenza di condanna in aperta autonomia con la coerenza stessa del sistema, che certo non tollera il concorso di due pronunce giurisdizionali sul tema della colpevolezza, l’una di tipo prognostico e l’altra fondata sul pieno merito, e come tale suscettibile di passaggio in giudicato.” Quindi, se vogliamo attenerci alla giurisprudenza costituzionale, secondo me di giudicato cautelare si può parlare con fondamento di causa solo dopo la condanna di primo grado, perché solo con la condanna di primo grado un Giudice che ha piena cognizione del merito e che ha potuto esaminare tutti gli atti - adesso sì tutti gli atti del processo, perché voi sapete che se il Pubblico Ministero può scegliere in fase di richiesta di misura cautelare deve però trasmettere Giudice, con la richiesta di rinvio a giudizio, tutti gli atti - è solo qui che, a mio parere, si può dire che si è effettivamente formato un “giudicato cautelare”. Allora quale potrebbe essere la soluzione? Perché, diciamo la verità, forse il principio del giudicato cautelare nasce da un’esigenza che è eminentemente pratica: quella di trovarsi a motivare sempre e di nuovo le stesse cose. Io credo che un Difensore ha tutto l’interesse di reiterare anche più volte un’istanza già rigettata, se non altro quando la persona fisica del Giudice chiamato a decidere è diversa da quella che ha emesso la misura: pensiamo ai periodi feriali in cui negli uffici G.I.P. si alternano un po’ tutti, pensiamo anche alle assenze o alle malattie dei Giudici, pensiamo quando la competenza passa dal G.I.P. al G.U.P.. Quindi probabilmente a spingere per la formulazione del giudicato cautelare è anche un’esigenza tutto sommato pratica. Allora, se questa è l’esigenza, si potrebbe forse trovare una soluzione che la soddisfi senza però comprimere diritti costituzionalmente garantiti. Quale potrebbe essere questa soluzione? La dico lì, senza ovviamente nessuna pretesa di convincere nessuno: potrebbe essere quella di semplificare l’obbligo di motivazione, quasi come una legittimazione della motivazione per relationem. Cioè, quando c’è un’ordinanza del G.I.P. non impugnata, un’ordinanza del Tribunale del riesame, il Giudice che è chiamato di nuovo a rivalutare gli stessi elementi, sia in punto esigenze cautelari, sia in punto gravi indizi di responsabilità, non dirà “rigetta perché si è formato il giudicato cautelare”, ma dirà “rigetta perché condivido pienamente le argomentazioni delle precedenti ordinanze”. Se le condivide. Altrimenti è libero di decidere in senso difforme. Non è una soluzione meramente linguistica, come potrebbe sembrare, perché, e lo dico come G.I.P, se, nell’ “ereditare” il fascicolo di altri miei colleghi dovessi verificare che sono venuti meno o non ritengo sussistenti i gravi indizi di responsabilità o le esigenze cautelari, non 18 avrei difficoltà ad accogliere, magari tenuto conto della giurisprudenza con una formula più soft rispetto a quella che potrei usare. Penso di fermarmi qui per lasciare spazio agli altri relatori. Chiudo con una considerazione: la Corte Costituzionale in fondo ha ritenuto che quello che pregiudica l’indagato poi imputato è il fatto che a giudicare sia lo stesso Giudice persona fisica che ha deciso in materia cautelare. In realtà, secondo me, quello che pre-giudica, se vogliamo parlare di un pre-giudizio, è il fatto che ci siano degli imputati in stato di custodia cautelare, che questi imputati siano in stato di custodia cautelare magari da molto tempo; perché a me a volte capita, quando si tratta di decidere soprattutto gli abbreviati e mi sembra che poi gli elementi non siano proprio tantissimi e pienamente convincenti, di leggere le ordinanze del Tribunale del riesame con le quali è stata confermata la misura, e magari mi farebbe anche piacere trovare qualche conforto ulteriore nei Giudici che si sono succeduti, perché il decorrere del tempo non incide solo sulle esigenze cautelari, ma secondo me anche un po’ sulla valutazione dei gravi indizi di responsabilità, perché quando la misura viene applicata all’inizio delle indagini, ognuno di noi è portato a pensare che poi quelle indagini si completeranno in un certo modo, si troveranno altri elementi a coprire non vuoti rilevanti, ma incertezze piccole e meno piccole. Succede invece che la Polizia e il Pubblico Ministero, una volta ottenuta la misura, si acquietino e l’indagine finisce lì; cioè vi trovate dopo un anno esattamente con le stesse prove raccolte all’inizio e vi chiedete che cos’hanno fatto nel frattempo, perché questo processo è rimasto fermo un anno anziché venire prima a giudizio dove magari nella fase dell’abbreviato si può procedere ad una integrazione. E mi farebbe piacere vedere che qualcuno prima di me, anche dopo l’applicazione della misura, si sia chiesto se quegli elementi erano davvero sufficienti. Non mi piace il principio del giudicato cautelare e mi fermo qui. AVV. RENATO ALBERINI Ringrazio la Dottoressa Galasso. Passo ora la parola al nostro Presidente della Sezione Distrettuale del Riesame, Dottor Angelo Risi, che potrà illustrarci su quello che è il diritto e la giurisprudenza viva del nostro Tribunale del riesame. DOTT. ANGELO RISI Innanzitutto voglio darvi qualche dato. Il Tribunale Distrettuale del Riesame di Venezia, come certamente saprete, riesamina ex Art. 309 o valuta in sede di appello ex Art. 310 tutte le ordinanze, rispettivamente quelle cautelari e quelle in materia di libertà, dell’intero distretto. Attualmente vengono celebrate quattro udienze alla settimana e le due Sezioni hanno ripartito, come diceva l’Avvocato Vassallo, la loro competenza per una ragione ovvia: perché a seguito della 19 trattazione di queste questioni si verifica ai sensi dell’Art. 34 un’incompatibilità e di conseguenza c’è un meccanismo, che adesso qui non rileva ma comunque è evidente, che serve ad evitare che chi ha fatto il riesame o l’appello componga poi il Tribunale in sede dibattimentale e quindi si trovi poi in condizione a doversi astenere. Tuttavia è stata ieri presentata una richiesta di modifica di questo sistema, nel senso che il Tribunale di Venezia si trasformerà, se il Consiglio Superiore accoglie questa proposta, in unica sezione collegiale di talché ci sarà una circolazione interna dei Giudici e questo assicurerà, secondo me, una circolarità delle diverse esperienze professionali e questo, fra le ragioni che io all’epoca avevo suggerito, che sono state recepite nella richiesta dal Presidente del Tribunale, è quella di una maggiore uniformità di giurisprudenza, nel senso che tutti lavoreranno con tutti e quindi, ferma rimanendo la necessità di dover ovviamente mettere in campo meccanismi predeterminati per evitare questioni di incompatibilità, ci sarà la possibilità di formare collegi più eterogenei e quindi di confrontarsi con diverse esperienze. Questo dovrebbe consentire, non dico delle decisioni favorevoli alla Difesa in maggior numero, ma certamente una minore disuguaglianza nei parametri di valutazione. In effetti quando il legislatore previde il Tribunale Distrettuale del Riesame, voleva evidentemente che un unico organo coordinasse e decidesse secondo criteri il più possibile razionali e coordinati, quelli che dovevano essere i parametri sulla base dei quali una persona deve attendere il processo in carcere o agli arresti domiciliari o sottoposto a una misura cautelare piuttosto che libero. Vi do un numero approssimativo: l’anno scorso il Tribunale della libertà di Venezia ha trattato circa 2250 procedimenti e di questi, grosso modo, un pochino più del 70% in sede di riesame ed il resto come appelli. Questo non deve stupire, anche se numericamente le ordinanze in materia di libertà che riguardano la manutenzione, diciamo con un’espressione riassuntiva, della misura cautelare adottati ex art. 299 cpp sono numericamente di più delle ordinanze cautelari. Questa è la dimostrazione provata che i G.I.P. fanno un buon governo dei criteri di scelta delle misure e quindi gli interventi del Tribunale dell’appello sono inferiori a quanto numericamente ci si potrebbe aspettare, perché effettivamente la possibilità, una volta vagliata la prima situazione, di modulare lo strumento cautelare man mano che il tempo passa, attraverso tutta una gamma di passaggi, dalla misura più severa a quella meno severa, valutando naturalmente il tempo passato. In massima il trend è in aumento perché alla fine del primo semestre di quest’anno erano stati registrati 50 procedimenti in più il che ci porterà alla fine dell’anno a superare i 2500. Si tratta di un numero solo di poco inferiore alla Corte d’Appello di Bologna, dove la Sezione del Riesame è formata da nove Giudici più un Presidente che si 20 occupano solo ed esclusivamente del riesame e non delle udienze collegiali. Questo per dare un attimo il metro della valutazione di quello che è anche l’impegno che viene profuso in questa attività, che sta diventando molto più impegnativa dello stesso impegno collegiale, anche a seguito della circostanza che da un lato moltissimi procedimenti, grazie al giudizio abbreviato davanti al G.I.P., non pervengono più al giudizio collegiale e dall’altro anche al fatto che l’aumento della competenza del monocratico ha spogliato il Collegio di parecchi procedimenti di ordinaria facilità, basti pensare al 73 legge stupefacenti, che prima invece intasavano il rito collegiale. Dopo questa breve anticipazione, siccome non vorrei fratturare questa nostra conversazione all’improvviso, inverto l’ordine di trattazione degli argomenti, nel senso che parlerò per primo del giudicato cautelare, che è il principio che normalmente noi utilizziamo più frequentemente decidendo gli appelli. Adesso, se mi si dovesse chiedere qui oggi quali sono i principi che normalmente noi più spesso utilizziamo direi che in sede di riesame vero e proprio il nostro criterio di valutazione si basa per lo più sulla valutazione della corretta qualificazione giuridica della fattispecie e naturalmente sul problema dell’integrazione sì/integrazione no, annullamento sì/annullamento no, di cui parlerò dopo. Invece in materia di appello normalmente il criterio che noi per lo più veniamo chiamati ad applicare, e adesso vi dirò quella che è la giurisprudenza della sezione a cui appartengo, è quello del giudicato cautelare. Innanzitutto io penso che sia necessario fare un attimo di chiarezza, perché su questo problema del giudicato cautelare si è detto di tutto e di più. Il problema qual è? Ogni volta che il Giudice investito della questione ai sensi dell’Art. 299, e a cascata, il Giudice dell’appello ex Art. 310 cpp nei casi in cui il Difensore non abbia avuto soddisfazione, deve evidentemente confrontarsi con le precedenti decisioni che sono già intervenute in materia di libertà, e quanto meno quella dell’ordinanza cautelare genetica del Tribunale del riesame che integra la prima decisione e/o delle ulteriori decisioni intervenute che hanno detto qualcosa sempre e sicuramente sulla permanenza dei due parametri: attualità di un quadro indiziario fortemente connotato in senso accusatorio, esigenze cautelari e relativi problemi della loro permanenza e intensità. Innanzitutto, secondo me, bisogna fare un attimo chiarezza su quella che è la natura giuridica di questa preclusione processuale, questo è il suo esatto nome, non giudicato cautelare; perché anche la Corte di Cassazione in questa materia ha avuto per un lungo periodo le idee abbastanza confuse. L’espressione “giudicato cautelare” è giuridicamente errata, per l’ovvia ragione che innanzitutto l’espressione “giudicato cautelare” fa evidentemente riferimento alle sentenze, mentre invece i provvedimenti che vengono emessi dal Tribunale 21 del riesame sono delle ordinanze. Il problema immediatamente conseguente a questo è che le ordinanze per definizione sono emesse allo stato degli atti e quindi hanno una loro definitività, però hanno una loro portata più modesta rispetto la res giudicata. Perché? Perché la sentenza copre il dedotto e il deducibile, mentre invece la preclusione processuale, essendo una decisione emessa allo stato degli atti, riguarda solo il dedotto, cioè soltanto le questioni che sono state espressamente oggetto di decisione e non quelle che astrattamente avrebbero dovuto essere poste alla sua attenzione e non sono state poste. Il problema è quello che, a seguito di questa situazione, può essere rimessa in discussione l’ordinanza e il suo contenuto soltanto se sono sopravvenute delle nuove situazioni. Quindi, se ripeto, si tratta di ordinanze, il contraddittorio può essere limitato alle sole sopravvenienze. Se vogliamo, a questo punto, credo si possa definire il giudicato cautelare come una preclusione di natura endoprocessuale suscettibile di formarsi a seguito di pronunce emesse all’esito del procedimento incidentale di impugnazione, non solo da parte del G.I.P. che ha emesso la misura, allorché la stessa non sia stata impugnata, ma anche in sede di riesame, quando la decisione del riesame non viene impugnata; in sede di giudizio di appello ex 310 quando la decisione non viene impugnata e anche a seguito del giudizio di Cassazione che eventualmente annulli per determinate motivazioni, con o senza rinvio, rimettendo gli atti al Tribunale del riesame. In sostanza, quindi, l’ordinanza cautelare che non viene impugnata o non è più impugnabile, e a maggior ragione quando viene confermata, impedisce rivalutare le questioni che sono già state esaminate e che sono già state decise, salvo che non sopravvengano i famosi fatti nuovi, che possono consistere in elementi di fatto nuovi oppure anche in semplici questioni di diritto. Quindi le ordinanze cautelari non sono suscettibili di passare in giudicato, però dal sistema complessivo delle impugnazioni si ricava agevolmente che quando esse non possono essere impugnate o su di esse si siano esaurite le procedure di impugnazione, esse divengono definitive e irrevocabili allo stato degli atti e pertanto possono essere modificate, lo ribadisco, soltanto nel caso di sopravvenienza di fatti nuovi. Qual è la ragione per cui accade questo? Innanzitutto si tratta di un istituto di carattere generale; la preclusione processuale intesa come possibilità che una ordinanza definitiva possa essere revocata e modificata per sopravvenienza è un istituto di carattere generale. Citerò un esempio per tutti: quando viene emessa una misura di prevenzione ai sensi della legge del 1956, per esempio la misura della sorveglianza speciale, contro questo provvedimento possono essere proposti determinati tipi di impugnazione, appello e ricorso per Cassazione. Una volta che questo non accada, perché spira il termine per l’impugnazione 22 oppure una volta che la Corte d’Appello o di Cassazione abbia confermato il provvedimento, non è che il sorvegliato non possa chiedere la revoca, potrà chiederne la revoca affermando che nel corso del periodo di tempo in cui soffre della sanzione della prevenzione speciale la situazione sia mutata, però avrà - evidentemente - l’onere di provare che sulla base di fatti sopravvenuti la sua pericolosità è venuta meno. Questo fenomeno si verifica anche davanti al Giudice di sorveglianza: alla fine della procedura davanti al Tribunale di sorveglianza viene emessa un’ordinanza allo stato degli atti che anch’essa, una volta che divenga definitiva, potrà essere rimessa in discussione se, quando e nella misura in cui sopravvengano dei nuovi elementi. Naturalmente il problema è che l’applicazione di questo principio in tema di libertà personale assume un suo significato particolarmente pregnante, però, come adesso andrò a dire, se questo principio viene correttamente applicato non è e non diventa un commodus discessus per il Giudice pelandrone che non è tenuto a riesaminare la situazione di un detenuto ma diventa uno strumento che deve essere utilizzato in presenza di effettive sopravvenienze. Lo scopo quindi è evidente: si vuole evitare la reiterazione di provvedimenti che possono porsi in contrasto fra loro, con altri provvedimenti che hanno il medesimo oggetto e sono caduti sulle stesse questioni, e si vuole evitare che questo accada quando la situazione di fatto sottostante non è minimamente mutata. E’ chiaro che in una situazione del genere si scontrano due principi di rango costituzionale, perché da un lato c’è una persona che è in una situazione di privazione della libertà personale, più o meno pregnante, che con l’esigenza di un controllo costante sulla effettiva attuale presenza di tutti i presupposti previsti perché la misura cautelare esplichi la sua efficacia. Dall’altro però vi è anche l’esigenza, per ragioni di economia processuale, ma io direi soprattutto per ragioni di coerenza del sistema, che non possa essere la questione riesaminata in modo tale che si crei un conflitto fra decisioni. Spesso si dice che il riferimento normativo del cosiddetto giudicato cautelare altro non è che un’interpretazione estensiva dell’applicazione del principio dell’Art. 649 Codice di Procedura Penale. Sono d’accordo su questo, solo a condizione che si possa affermare che la ratio è la medesima. Perché qual è la ratio del ne bis in idem? Evitare da un lato che l’imputato soffra due procedimenti diversi per lo stesso fatto, che evidentemente è un principio di civiltà giuridica, ma soprattutto che si eviti la possibilità che il medesimo fatto venga giudicato da due organi diversi con la possibilità di un contrasto fra decisioni, il che in termini di certezza del diritto non è evidentemente ammissibile. Se questo è il presupposto di partenza di questo istituto io sono d’accordo nel ritenere che il riferimento normativo sia corretto; diversamente 23 non è così, perché si tratta di un principio generale ordinamentale. Se questo è il giudicato cautelare, se questi sono i suoi limiti e la sua ratio, vediamo quali sono i suoi effetti. Innanzitutto l’effetto del giudicato cautelare non è la inammissibilità della richiesta presentata dal Difensore ai sensi dell’Art. 299, ma è più semplicemente la circostanza e la conseguenza che il Giudice che viene investito di questa questione è esonerato dall’obbligo di reiterare un’identica motivazione potendo respingere le richieste operando semplicemente una motivazione per relationem. Quindi non è vero che la proposizione della richiesta, quando è identica a quella precedentemente già decisa ovvero analoga, venga dichiarata inammissibile; noi, in tutti i casi in cui ciò si verifichi, non facciamo dichiarazione di inammissibilità, né in sede di dispositivo, né in sede di deposito del provvedimento, come si potrebbe fare se ciò fosse, cioè de plano, senza fissare l’udienza, ma motiviamo dicendo: “Questa è la situazione, richiamato il provvedimento originario, richiamati i provvedimenti non impugnati, motiviamo semplicemente confermando per relationem una decisione già adottata, lì dove non vengano palesati però fatti nuovi”. Ribadisco che il concetto è questo: per carità, l’indagato ai sensi dell’Art. 299 e 310 ha tutto il diritto di riproporre anche all’infinito il tema della sua libertà personale e il Giudice non può dichiarare inammissibile la richiesta, però evidentemente deve porsi il problema del confronto e della verifica della decisione che va ad adottare con le analoghe decisioni, io direi identiche, se il tema proposto è lo stesso, che sono già state decise da altri Giudici. Si tratta, come dicevo, di un istituto di carattere generale e vi ho già anticipato le ragioni. A questo punto si potrebbe porre il problema della circostanza che, nel caso in cui non vengano proposti fatti nuovi, anche in casi macroscopici, l’indagato rimanga in stato di detenzione. In realtà ciò non è corretto, perché anche se l’appello è uno strumento devolutivo per cui il Collegio ex Art. 310 cpp vede il perimetro della sua decisione sempre e comunque limitato la Corte di Cassazione con due decisioni, che adesso non andrò a leggere per non annoiarvi, ha affermato che comunque il Collegio è sempre tenuto ad accertare d’ufficio l’esistenza di ragioni, pur diverse da quelle prospettate dall’interessato, che indichino l’insussistenza dei presupposti della misura. Questo vuol dire che, a prescindere dal fatto che il Difensore, cui compete l’onere di indicare i fatti nuovi, non li abbia indicati perché non ce ne sono, in tutti i casi in cui il Collegio accerti attraverso un’operazione, che deve necessariamente fare d’ufficio, la caduta di una qualsiasi situazione che comporta la rimessione in libertà dell’interessato, lo deve fare d’ufficio, a prescindere dal fatto che il Difensore abbia più o meno correttamente prospettato la situazione del fatto nuovo e sopravvenuto. 24 Leggo velocemente e spero di non annoiarvi, ma ritengo che sia giusto dirlo, perché noi lo facciamo concretamente, nei limiti del nostro giudizio tenuto conto che la trasmissione degli atti dell’appello è sempre estremamente contenuta, perché, diversamente da quanto accade in sede di riesame ove ci vengono trasmessi non solo gli atti che naturalmente ha visionato il G.I.P., ma in linea di massima tutti gli atti dell’indagine, in sede d’appello la nostra verifica è limitata soltanto a un numero limitato di atti. Ripeto, in tema di misure cautelari il Giudice ha sempre il dovere in ogni stato e grado del procedimento, anche indipendentemente dalle sollecitazioni di parte, di adottare i provvedimenti necessari ad evitare che si determinino in concreto situazioni patologiche e in particolare che una persona subisca limitazioni della propria libertà personale. Farò un esempio: potrebbe capitare, ed è capitato, che il Difensore ponesse determinate questioni e non si fosse invece accorto che il termine di carcerazione di fase era scaduto. E’ chiaro che in questi casi il Tribunale dell’appello ex Art. 310, prescindendo dalla tematica della correttezza delle questioni poste, opera un controllo e, se verifica che - come in casi eclatanti come questo - non vi fossero i presupposti per la prosecuzione del trattamento cautelare, opera automaticamente l’annullamento dell’ordinanza e la rimessione in libertà. Questo a dimostrazione che ancora una volta il giudicato cautelare, sempre nel senso appena inteso, non preclude assolutamente al Giudice dell’appello una verifica ex ufficio di quella che è la permanenza dei suoi presupposti. E’ ovvio che il Difensore ha sempre l’interesse e certamente l’onere di individuare lui ed evidenziare i fatti nuovi che pongono in rilievo eventuali mutamenti della situazione, che evidentemente potrebbero essere un deperimento del quadro di indagine, e adesso andrò a fare alcuni esempi, oppure una diminuzione o un affievolimento delle esigenze cautelari o comunque semplicemente invocare a distanza di tempo una misura meno affittiva in virtù del famoso problema del trascorrere del tempo. Quindi qui il problema non è tanto se essere d’accordo o no sul principio della preclusione processuale, forse il problema vero è quello di individuare, fermo rimanendo che il Giudice dell’appello ha l’onere di fare una verifica d’ufficio delle condizioni eclatanti di restrizione, cosa debba intendersi per fatto nuovo; perché mi sembra di capire, dall’esperienza degli ultimi cinque anni al Tribunale del riesame, che è proprio sul problema di cosa debba intendersi per fatto nuovo che si verifica la maggiore confusione. Naturalmente è impossibile fare un’elencazione esaustiva; posso dire in generale quello che ho appena detto: si deve trattare di qualunque elemento sopravvenuto che incida effettivamente sui due presupposti: 273 cpp., il quadro indiziario, e 274 cpp., le esigenze cautelari. Che cos’è fatto nuovo? Innanzitutto direi che fatto nuovo per 25 esempio può essere un atteggiamento collaborativo assunto dall’indagato nel corso delle indagini, però a condizione che si tratti di un comportamento oggettivamente e comprovatamente collaborativo e non deve trattarsi di una mera, a distanza di tempo, ammissione dei comportamenti che ormai sono assodati al procedimento, perché il presentarsi davanti al Pubblico Ministero per essere interrogati a distanza di molti mesi dai fatti ammettendo fatti ormai assodati non è valorizzabile come fatto nuovo che deve invece evidenziare un distacco dell’indagato dall’ambiente criminogeno e quindi essere apprezzabile come effettiva resipiscenza, non come un espediente di carattere difensivo, che serve soltanto a rimettere in gioco il quadro indiziario. È fatto nuovo, per esempio, che altro indagato o altro imputato abbia ottenuto una decisione favorevole. Anche qui però bisogna vedere se la posizione fra i due era identica, se erano coimputati nello stesso fatto e se la caduta del quadro indiziario fa riferimento evidentemente ad entrambi. È fatto nuovo, per esempio, la sopravvenienza di un programma di recupero che venga concordato nel caso in cui si tratti, per esempio, di un soggetto in carcerazione e caratterizzato da alcoldipendenza o tossicodipendenza. Sto facendo degli esempi a braccio. È fatto nuovo il ridimensionamento dei fatti che avvenga ad opera del Giudice dell’appello, che abbia per esempio riformato la sentenza di primo grado e abbia individuato la gravità dei fatti come inferiori a quelli originariamente valutati in sede di riesame. Durante il processo, perché il problema si pone anche durante il processo, è fatto nuovo la modifica del quadro indiziario, per esempio, con la ritrattazione di uno o più testi, oppure semplicemente con la circostanza che il quadro indiziario si sia polverizzato per effetto del processo perché magari le originarie accuse non hanno trovato conferma e quindi nel corso del processo e all’esito dell’istruttoria dibattimentale o di parte di essa ben può trovare ingresso una richiesta di rimessione il libertà dell’indagato, a questo punto, lì dove si sono verificati, appunto, questi fatti nuovi. Viceversa non è fatto nuovo che l’indagato abbia reperito un’attività lavorativa, o meglio, che venga prospettata l’esistenza di una possibile attività lavorativa, almeno di per sé; non è fatto nuovo la circostanza, che viene vantata spesso, che l’imputato si sia correttamente comportato durante il trattamento carcerario o agli arresti domiciliari: non è un fatto nuovo perché è un obbligo giuridico quello di restare agli arresti domiciliari o prestare puntualmente adempimento agli obblighi di Polizia Giudiziaria o di firma del registro e quant’altro. Sono obblighi giuridici che gravano sull’indagato e che sono puniti evidentemente con l’eventuale aggravamento della misura. Fatto nuovo è una sentenza anche non definitiva, come ho già detto, che abbia ampiamente ridimensionato i fatti. 26 Poi ci sono, secondo me, al di là del fatto nuovo e del non fatto nuovo, determinate circostanze che possono essere considerate fatti nuovi o meno a seconda della motivazione che era stata adottata o dal Tribunale del riesame o dal Giudice dell’appello. Per esempio, la prospettazione di un luogo idoneo per gli arresti domiciliari: se il Tribunale del riesame o il G.I.P. ex 299 cpv. aveva affermato nella decisione con carattere di definitività che il luogo che veniva in allora prospettato era un luogo che non era idoneo perché, per esempio, era il luogo dov’era avvenuto il reato, (spaccio in abitazione), oppure era un luogo collocato all’interno dell’ambiente in cui si era sviluppato il reato, insomma, in tutti i casi nei quali effettivamente era quel domicilio che veniva ritenuto inidoneo la prospettazione di un nuovo e diverso domicilio, per esempio distante molti chilometri dal luogo di commissione del reato, è effettivamente un fatto nuovo e quindi impone al Giudice dell’appello dopo e al Giudice ex 299 cpv. prima una valutazione nuova sull’idoneità. Se invece la decisione di non ammettere agli arresti domiciliari, per esempio, era legata ad una prognosi di inaffidabilità dell’indagato, perché si affermava che la sua pericolosità, come evidenziata da molte cose che adesso non dirò, modalità, personalità, non permetteva una prognosi favorevole di spontaneo adempimento a questi obblighi, la circostanza che venisse prospettato un nuovo luogo domiciliare, magari vicino al precedente, evidentemente non può costituire fatto nuovo. E vorrei dire che è proprio questa categoria di fatti - che in concreto va valutato caso per caso e che non posso naturalmente qui in anticipo esemplificare - che pone in concreto e non in astratto il problema della valutazione e dello scontro fra il nuovo elemento che viene prodotto e quelle che erano le decisioni pregresse che vanno valutate non nella loro parte dispositiva, ma nelle ragioni per le quali si era assunta quella decisione. Vengo quindi al problema del tempo, perché credo statisticamente di non dire una sciocchezza se dico che il 95% delle prospettazioni in cui si chiede la revoca o l’affievolimento della misura cautelare è legato al trascorrere del tempo. La giurisprudenza della Corte di Cassazione è granitica su questo punto come non mai e non starò qui a leggerla, ma in sostanza il principio è che il mero ed inerte trascorrere del tempo, se non è accompagnato da altri elementi, non comporta di per sé una variazione delle esigenze cautelari. Quindi il tempo e le esigenze cautelari, questo è il tema della riflessione. Perché questo? Perché naturalmente proprio il principio della preclusione processuale vuole che si determinino dei punti fermi. Allora, siccome il tempo è un elemento che evidentemente è dinamico per definizione, se dovessimo affermare tout court il principio che il trascorrere del tempo è un criterio che impone una rivisitazione pressoché continua e una verifica - a questo punto faccio un paradosso - 27 quotidiana della persistenza delle esigenze cautelari, non se ne verrebbe fuori, perché ogni giorno bisognerebbe dire: “Guardate, dovete fare un controllo, perché è passato un periodo che, sulla base di tutta una serie di elementi – che adesso non dirò – potrebbe essere idoneo ad affievolire se non nullificare le esigenze cautelari”. Quali siano poi questi ulteriori elementi che dovrebbero accompagnarsi al passaggio del tempo la Corte non dice, perché non sa quali possono essere, perché diversamente, se così fosse, ce li avrebbe indicati. In realtà la Corte è solo ed esclusivamente preoccupata dalla circostanza che l’affermazione del tempo come principio, diciamo così, destabilizzatore del giudicato cautelare è terrorizzante, per cui, si dice, il tempo da solo non basta, ci vuole qualche altro elemento; solo che il problema è che questo altro elemento sopravvenuto già di per sé avrebbe una sua efficacia nel rimettere in discussione il giudicato cautelare. Quindi, veramente siamo su un campo che potrei definire di ipocrisia giuridica un po’ da parte di tutti. Dirò subito che questo orientamento della Corte di Cassazione soffre, secondo me, anche di una situazione di lapsus freudiano, perché qualche volta, in qualche decisione, anziché parlare di tempo che decorre dall’inizio della misura, si parla di tempo dalla commissione del reato. Per esempio mi sono segnato questa sentenza che dice testualmente così: “In materia di richiesta di revoca della custodia cautelare in carcere l’attuale sussistenza delle condizioni di applicabilità della misura in quanto correlata a fatti sopravvenuti, va tenuta in considerazione tenuto conto del tempo trascorso dal commesso reato. Detto tempo – e conferma il principio generale – può acquistare rilevanza solo se accompagnato da altri elementi”. Perché la Corte dice questa cosa? Perché il tempo del commesso reato è cosa diversa dal tempo di inizio di espiazione della misura cautelare, e quando dice questa cosa, secondo me, dice l’unica cosa che ha un vero riferimento normativo, perché l’Art. 292 comma secondo lettera c) cpp, nell’indicare quali sono gli elementi essenziali dell’ordinanza cautelare non parla di tempo in generale, parla per l’appunto di tempo di commissione del reato. E che tempo di consumazione del reato e tempo di inizio di sofferenza della misura cautelare non coincidano è dimostrato dal fatto che spesso la misura cautelare viene applicata anche a distanza notevole dalla consumazione del reato, a volte un anno, a volte anche di più. Perché? Perché l’attualità dell’esigenza cautelare non necessariamente presuppone che il reato sia in corso. Cioè, siccome il pericolo di reiterazione è la probabilità che una persona commetta lo stesso tipo di reato, allora l’esigenza cautelare può sussistere anche se il reato non era in corso al momento della sua applicazione. In realtà attraverso questa indecisione della Corte secondo me si rivela la vera trama logica del ragionamento, ha in realtà è che abbiamo tutti paura di dire una 28 grande verità cioè che il tempo che si passa in carcere influisce necessariamente sulle esigenze cautelari, perché non c’è trattamento carcerario che non induca la persona, neanche il delinquente più incallito, a una forma di riflessione e di presa di distanza dal reato; perché altrimenti se così non fosse dovremmo tutti quanti a questo punto fare una riflessione sul fatto che il carcere non serve a nulla e che quindi l’intero sistema è fallito.. se è vero che neppure nella immediatezza della sofferenza carceraria una persona non ha un atteggiamento di resipiscenza vorrebbe dire che l’intero sistema si basa su un presupposto, che è fallito di fatto, cioè che il carcere non serve assolutamente a niente, neppure a indurre una persona per un periodo limitato di tempo a cercare di non ricadere nel reato non fosse altro che per il fatto puramente egoistico di non dover ritrovarsi nella situazione di restrizione della libertà personale. A questo punto devo dire che l’orientamento che il Tribunale del riesame di Venezia e soprattutto il Giudice dell’appello ha assunto è quello il quale va apprezzato il passaggio del tempo ai fini dell’affievolimento delle esigenze cautelari, in forza della indubbia dissuasività che porta con sé la perdita della libertà personale. Però devo anche dire che questa valutazione viene fatta soltanto in termini che definirei di una certa macroscopicità: noi assumiamo la necessità di una rivisitazione delle esigenze cautelari sotto il profilo della graduazione della scelta di una misura meno affittiva, quando il tempo trascorso si ponga in una fascia media intorno alla metà del termine di carcerazione preventiva di fase. Cosa voglio dire? Che se la prospettazione del passaggio del tempo è effettivamente accompagnata da elementi nuovi, allora si può pervenire ad una decisione anche evidentemente immediata, se invece il problema del tempo viene prospettato solo così com’è, noi cominciamo a considerare che il tempo abbia avuto un’efficacia talmente dissuasiva da imporre, non dico la rimessione in libertà, però una variazione in senso favorevole quando ci troviamo a circa metà del temine di fase. Salvo eccezioni diciamo che in linea di massima lì dov’è possibile viene sempre privilegiata la situazione degli arresti domiciliari quando esista un minimo di possibilità di fare una valutazione positiva e quindi esista la possibilità di un minimo di affidamento su questa situazione. Si tratta di un giudizio molto delicato nel quale entrano in gioco evidentemente tutta una serie di altri fattori: la maggiore o minore vicinanza nel tempo dalla commissione del fatto, quindi consideriamo quanto tempo è trascorso dalla commissione del fatto oltre che dall’inizio della sofferenza cautelare, e se questi fatti sono della stessa indole o di indole diversa, se il fatto naturalmente è più o meno grave, consideriamo anche che l’impatto della carcerazione può essere maggiore o inferiore a seconda dell’età anagrafica del soggetto e a seconda del fatto che si tratti della prima esperienza carceraria 29 oppure meno. E’ ovvio che il primiparo, come lo chiamiamo noi, dopo qualche mese ha fatto una serie di riflessioni che chi invece ha sofferto lunghi periodi di carcerazione anche in espiazione pena non può evidentemente aver fatto o se le ha fatte le ha largamente superate; quindi consideriamo il problema del passaggio del tempo soltanto in questo tipo di situazioni, valutando tutta una serie di elementi che sono quelli che vi ho appena indicato. In presenza di queste situazioni rivisitiamo le esigenze cautelari e, lì dove troviamo che esse si siano affievolite, cerchiamo di individuare una misura che eventualmente sia compatibile con altre eventuali esigenze di vita che vengano prospettate, prima fra tutte quella dell’attività lavorativa, cercando favorire, in questo devo dire che il legislatore ci ha dato vari strumenti che ci consentono di mantenere una qualche forma di controllo, un inizio di reinserimento sociale che necessariamente deve passare attraverso l’individuazione di un’attività lavorativa e anche l’indicazione di un inserimento sul territorio con carattere di stabilità. E’ chiaro che chi è destinatario di questo beneficio sa bene che, nel caso in cui questo non venga rispettato, esistono delle sanzioni, che portano all’aggravamento, della natura. In questo caso il Tribunale della libertà quando giudica chi ha ottenuto un beneficio e, non lo ha rispettato, rinnoverà la sua valutazione a distanza di un tempo pari, se non superiore, a quello che aveva comportato una valutazione a sé favorevole. Alleggerirò un attimo il tema. Le impugnazioni del Tribunale del riesame sono ad alto tasso di iniziativa da parte dell’indagato. Direi, fermo rimanendo che poi il Difensore è libero di venire in udienza e indicare i motivi che ritiene a sostegno dell’impugnazione, l’80/90 per cento delle richieste di riesame provengono direttamente dal carcere, vengono fatte a modello 12 dall’interessato. Però qualche volta, anzi, frequentemente ci troviamo di fronte a delle richieste che, proprio perché provenienti direttamente dall’interessato, ci inducono ad una serie di problematiche non indifferenti, perché noi abbiamo il problema anche di dover qualificare giuridicamente l’impugnazione. Allora, se l’impugnazione proviene da un Difensore è ovvio che il problema è facilmente risolvibile, salvo particolari casi; laddove invece l’impugnazione provenga direttamente dall’interessato il problema si complica. Il problema è che, effettivamente, abbiamo un grosso problema che è quello che quando una richiesta di riesame viene depositata presso un istituto carcerario, il termine entro il quale vengono richiesti gli atti da cui decorrono a cascata tutti i termini a pena di sanzione di inefficacia della misura e quant’altro indicati nell’Art. 309 cpp, diversamente da quello che accade con la richiesta di riesame depositata nelle Cancellerie, decorre dal momento di presentazione di questa richiesta 30 all’istituto carcerario, laddove quindi il tempo che ci mette questa richiesta per pervenire alla Cancelleria del Tribunale del riesame è un tempo che consuma una parte del termine entro il quale vanno immediatamente richiesti gli atti. Quindi, obiettivamente questo ci mette in enorme difficoltà perché dobbiamo svolgere un’attività istruttoria per cercare di capire se questo soggetto è detenuto in forza di un’ordinanza cautelare, se sì, quando è stata emessa, verosimilmente dobbiamo valutare se è ammissibile, perché è passato un congruo periodo di tempo, oppure se si tratta di una impropria proposizione dei motivi di appello contro una sentenza ovvero se si tratta di un’impugnazione contro un’ordinanza verosimilmente emessa in sede di sentenza dal Giudice con la quale, per esempio, gli viene negata la modifica della misura cautelare in corso. Tutto questo noi non lo possiamo sapere e dobbiamo evidentemente accertarlo con strumenti che fanno capo direttamente al carcere. Veniamo invece al principio che più frequentemente viene invocato in sede di riesame e che è il problema dell’annullamento della misura per vizio di motivazione. Innanzitutto dirò questo: il primo problema che volevo affrontare è quello della qualificazione giuridica del fatto. Io mi sono sempre molto stupito del fatto che abbia faticato ad affermarsi all’interno della Corte di Cassazione il principio che il Giudice del riesame debba - non possa - debba qualificare innanzitutto correttamente e giuridicamente il fatto. Dico questo perché, siccome il Giudice del riesame, con una decisione che come è stato ben detto si integra sicuramente con quella originaria dell’ordinanza cautelare genetica, deve evidentemente fare un controllo di quello che è il quadro indiziario per stabilire se quel quadro indiziario è connotato da gravità; per gravità si intende che vi sia un’elevata probabilità di condanna in sede di giudizio di merito. Non vedo come questo giudizio di congruità su elementi indiziari possa farsi senza prima operare un controllo sulla correttezza della fattispecie giuridica e della ricostruzione che il Pubblico Ministero ha fatto dei fatti. Si tenga presente che il Difensore e l’imputato, perché l’Art. 309 stranamente parla di imputato, ma dovrebbe anche parlare semplicemente di indagato, non è solo interessato ad ottenere l’eventuale annullamento della misura o al limite una sua sostituzione, ma è anche interessato a una corretta qualificazione giuridica del fatto, perché i termini di carcerazione decorrono a seconda di quella che è la qualificazione giuridica che viene data dal G.I.P. prima e dal Tribunale del riesame dopo. Quindi, facendo un esempio banale, non è indifferente per l’imputato avere il riconoscimento della fattispecie, per es. un 73 quinto comma L.S., il cui termine di fase è mesi 6 piuttosto che il 73 quinto comma L.S., dove il termine di fase è un anno. Questo suo interesse si esplica non solo nei confronti della qualificazione giuridica del fatto vero e proprio, ma anche sulla sussistenza 31 delle circostanze aggravanti, laddove possano incidere sul termine di fase. Ancora non capisco, se è vero, come è vero, che il Tribunale del riesame si sostituisce o ha gli stessi poteri del G.I.P. e si pone nelle stesse condizioni del G.I.P., per quale ragione il G.I.P., seppur faticosamente, è riuscito ad affermare il suo diritto di qualificare i fatti e noi non si possa evidentemente, proprio per verificare la correttezza dell’operato del G.I.P., a nostra volta fare questo. Io credo che, sia stata una preoccupazione alla base di questo, che adesso vi andrò ad esplicitare: che questa situazione è potenzialmente produttrice di complicanze non indifferenti nel processo, e mi spiego. Se il Tribunale del riesame qualifica un fatto - stiamo all’esempio di prima, un 73 quinto comma e la decisione non viene impugnata, questa situazione farà stato - e quindi il giudicato cautelare opererebbe anche a suo favore come in questo caso all’interno della fase cautelare; quindi, se nessuno lo impugna diventa definitivo, quella persona rimane detenuta per un 73 quinto comma L.S.. Ma cosa succede se il Pubblico Ministero, che è libero di esercitare l’azione penale come meglio crede, ritiene invece di andare avanti sulla sua originaria ipotesi? D’altra parte nell’esercizio dell’azione penale è libero, nessuno lo può evidentemente condizionare. Secondo me, ancora più impegnativamente nel caso in cui il Pubblico Ministero porti davanti al Giudice dell’udienza preliminare questa persona con una formulazione diversa, e il Giudice dell’udienza preliminare anche lui aderisca alla tesi del Pubblico Ministero e dica: “No, questa persona va rinviata a giudizio per un 73 L.S.”. A questo punto siamo veramente in una situazione che definirei un nervo scoperto del sistema, perché al Giudice nessuno può contestare, dapprima al G.U.P., ma poi neanche al Giudice del dibattimento - poi la decisione del merito evidentemente troncherà questa discussione - si può contestare il diritto di qualificare giuridicamente il fatto in sede di udienza preliminare; nè si può contestare al Pubblico Ministero di dover aderire alla prospettazione del Tribunale del riesame. Evidentemente si crea una situazione così fatta: a fini cautelari si dovrà far riferimento alla decisione del Tribunale del riesame, stato nella fase cautelare. Questa persona venga tratta a giudizio; questa incertezza durerà fino alla fine del giudizio di primo grado allorquando il Giudice di merito dovrà pronunciarsi, e a questo punto la vicenda cautelare - in questo caso verrà emessa una sentenza ancorché non definitiva, e questa sentenza evidentemente dirà una parola chiara sul problema del tipo di qualificazione giuridica – che seppur provvisoriamente, dovrà essere operata. Anche il problema della possibilità di dichiarare l’incompetenza per territorio del Giudice per le Indagini Preliminari che ha emesso la misura ha vissuto un problema analogo. Anche lì all’inizio la giurisprudenza era nel senso che non 32 era rilevante porre questa questione al Tribunale del riesame. Poi in realtà si è riconosciuto che fra le tante cose che deve verificare il Tribunale del riesame c’è anche il problema della competenza per territorio. Detto questo e quindi chiarito, lo riconfermo: il problema del giudicato cautelare non è un istituto che operi sempre e necessariamente in danno dell’imputato, anzi, credo che una delle sue prime applicazioni avvenne proprio in un caso in cui il G.I.P. aveva respinto la richiesta di misura cautelare, il Pubblico Ministero l’aveva ripresentata esattamente negli stessi termini senza impugnare la prima decisione, e il G.I.P. gli rispose dicendo: “Non c’è nessun fatto nuovo, gli elementi indiziari e cautelari che mi sottoponi nuovamente sono gli stessi di prima, per cui non ho motivo di pronunciarmi nuovamente”, e la prima applicazione fu proprio in favore dell’imputato. Veniamo un attimo invece al problema della possibilità di integrare o non integrare la motivazione. Perché effettivamente l’Art. 292 cpp, indicando tutta una serie di presupposti della misura cautelare, dice: “Sono presupposti a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio”. Allora qui c’è stata tutta una questione se effettivamente il Tribunale del riesame - io direi che questa questione ha ancora carattere di attualità – debba, in presenza di una situazione come quella prevista, tout court dichiarare la nullità dell’ordinanza cautelare oppure poter procedere ad integrazione dei relativi motivi. L’Avvocato De Franceschi ricordava una sentenza delle Sezioni Unite che avrebbe dovuto troncare questa discussione e invece, come adesso vi dirò, non è assolutamente così, nel senso che l’orientamento della Corte di Cassazione tuttora segue due diverse opinioni fra loro non conciliabili, nel senso che una parte, che definirei più prudente, segue l’orientamento secondo il quale bisogna operare un distinguo fra motivazione insufficiente, suscettibile di venir integrata, e motivazione totalmente assente, che invece legittima il Giudice al suo annullamento. Una parte, invece, della Corte di Cassazione sostiene che questo potere di annullamento per vizio della motivazione è esercitabile soltanto da sé stessa, Giudice di legittimità, e che quindi l’annullamento da parte del Tribunale del riesame non sia possibile, perché deve sempre e comunque intervenire sanando la nullità e sostituendosi al G.I.P., che questa motivazione non aveva reso. Questa questione venne portata quasi subito all’attenzione della Corte Costituzionale, che con ordinanza del ’96 la dichiarò manifestamente inammissibile. Cos’era successo? Il Tribunale del riesame di Catanzaro aveva sollevato la questione della legittimità costituzionale dell’Art. 309 cpp nella parte in cui consentiva di confermare il provvedimento o modificarlo anche per motivazioni diverse, dicendo che secondo loro era incostituzionale per violazione dell’Art. 324 cpp nella parte in cui consentiva di far ciò anche quando l’ordinanza era nulla. La Corte 33 Costituzionale dichiarò manifestamente inammissibile la questione dicendo che l’interpretazione del Tribunale di Catanzaro era errata, perché, a suo dire, in tutti i casi in cui l’ordinanza era nulla il potere di integrazione non era esercitabile. Leggo testualmente la massima: “In quella sede la Corte Costituzionale decise per la manifesta inammissibilità della questione sotto il profilo della erroneità della prospettazione fornita dal Giudice remittente. Nel contempo affermò che i poteri di riforma o di conferma da parte del Tribunale del riesame, anche per motivi diversi, era esercitabile legittimamente solo se il provvedimento stesso non risultava radicalmente nullo, perché in questi casi il Tribunale avrebbe dovuto provvedere solo ed esclusivamente all’annullamento dell’atto, non potendosi configurare in capo a sé il potere costitutivo quanto all’emissione di un valido provvedimento”. Quindi la Corte Costituzionale disse: “No, guarda che hai sbagliato, l’interpretazione corretta non è questa: quando il provvedimento non è nullo tu devi annullarlo”, e la Corte Costituzionale nel far ciò richiamò un orientamento della Corte di Cassazione, che in parte si era espressa in questo senso. Questo avveniva negli anni ’94, ’95 e ’96. Voglio anticiparvi una cosa. Qual è la vera ragione per la quale bisogna essere estremamente cauti nel configurare un potere integrativo del Tribunale del riesame? Per una ragione molto semplice: se fosse lecito al Tribunale del riesame non limitarsi a degli interventi di integrazione di una motivazione, che però comunque deve esistere, anche se insufficiente, avverrebbe praticamente che soltanto in sede di giudizio di riesame si spiegherebbe all’imputato la ragione per la quale deve essere detenuto. Quindi in sostanza l’ordinanza cautelare originaria e genetica perderebbe il suo significato di provvedimento che deve comunicare alla persona perché deve stare in carcere. E glielo dovremmo dire ora per allora privandolo di un grado di giurisdizione, perché se io dico a una persona perché deve andare in carcere, e glielo dico per la prima volta in sede di riesame, il provvedimento del riesame integra l’ordinanza cautelare genetica, però contro il provvedimento del Tribunale del riesame è ammissibile soltanto il ricorso per Cassazione, che è Giudice di legittimità. Quindi io privo l’imputato di un grado di giurisdizione nel merito. Io credo che se questa è la ratio, allora noi dobbiamo ritenere – e questa è la tesi che noi seguiamo – che tutti i casi in cui l’intervento integrativo che s’impone è un intervento che porta a delle argomentazioni assolutamente nuove, che spiazzano completamente la Difesa perché introducono nuovi argomenti contro i quali non ha potuto e non potrà assumere nessun atteggiamento critico; quella motivazione è nuova, e questo a noi non è consentito. Mentre, viceversa, quando questa motivazione, ancorché insufficiente, porta con sè comunque, sia 34 pur a livello embrionale, quelle che sono le motivazioni che devono essere usate e che possono essere usate ampliandole, senza uscire da quello che è il contraddittorio già stabilito con il provvedimento di primo grado, in questi casi invece questo intervento è possibile e anzi doveroso, nel rispetto però, ripeto, di questo principio del contraddittorio processuale. Se così non fosse, veramente a questo punto il provvedimento originario non avrebbe ragione di esistere e soltanto il Tribunale del riesame potrebbe a questo punto lui emettere direttamente l’ordinanza cautelare, magari con delle garanzie, perché no, di tipo superiore, come quelle offerte da un Collegio. Anche se su questo ci sarebbe molto da dire perché, mentre il Giudice per le Indagini Preliminari non ha un termine per l’emissione della misura cautelare, quindi può riflettere tutto il tempo che desidera, viceversa il Tribunale del riesame ha dei termini ghigliottina, che impongono spesso decisioni molti impegnative nel raggio di poche ore, quindi francamente, pretendere questo sarebbe eccessivo. Ecco che la Corte di Cassazione non è assolutamente univoca in questo atteggiamento, quindi a fianco dell’orientamento che vi ho appena riferito e che conserva la sua significanza, l’atteggiamento più recente, quello per esempio del 2004 è nel senso di negare al Tribunale del riesame il potere di annullamento, tant’è che si è testualmente affermato che: “Il Tribunale del riesame non può annullare il provvedimento impugnato per difetto di motivazione, in quanto solo al Giudice di legittimità è riconosciuto il potere di pronunciare l’annullamento a fronte della nullità comminata e per omessa motivazione”. E non è una sentenza isolata, questa del settembre del 2004, ve ne sono di più recenti che suonano tutte nello stesso modo: il Giudice di legittimità siamo noi, soltanto noi possiamo annullare per vizio di motivazione, voi dovete sempre e comunque integrare, perché l’annullamento è l’ultima ratio del provvedimento cautelare, quindi in tutti i modi bisogna assumere un atteggiamento di carattere conservativo. C’è, nel ragionare della Corte di Cassazione, a mio avviso, un errore di diritto profondo, perché l’Art. 309 primo comma dice che il Tribunale contro l’ordinanza cautelare, vado a memoria, si può proporre richiesta di riesame anche nel merito. Allora quel “anche nel merito” secondo me vuol dire che il Giudice del riesame valuta anche la legittimità dell’atto e quindi non è vero che il giudizio di legittimità spetta esclusivamente alla Corte di Cassazione. Dico anche che non bisogna enfatizzare l’eventuale tesi secondo la quale l’annullamento dell’ordinanza per vizio di motivazione è un danno irreparabile, perché in questo caso l’eventuale annullamento dell’ordinanza cautelare per mancanza di motivazione non preclude al Pubblico Ministero di chiedere la stessa identica misura e naturalmente non preclude al G.I.P. di emettere una 35 nuova identica ordinanza come quella già emessa, naturalmente a questo punto però motivando che non aveva motivato, quindi in questo caso non opera alcuna preclusione processuale. Perché? Perché in questo caso il Tribunale del riesame non giudica nel merito dicendo: “Sì, ci sono sufficienti indizi, sì, ci sono sufficienti esigenze cautelari”; si limita a dire: “Qui c’è una motivazione inesistente, noi non possiamo verificarla e quindi assumiamo una decisione che dichiari la nullità di questo provvedimento, però se tu lo motivi adeguatamente noi poi lo riesaminiamo nel merito”. Il danno che ne deriva, fermo rimanendo il problema della reperibilità dell’indagato, dal punto di vista giuridico è assolutamente accettabile. Vi segnalo che l’orientamento, quindi, che noi seguiamo è quello espresso dalla Corte nel ’98, e questa sentenza merita di essere letta: “La mancanza di motivazione dell’ordinanza de libertate configura una nullità, che riguardando un bene di assoluta rilevanza costituzionale come la libertà delle persone riveste carattere assoluto, e non è perciò sanabile dal Giudice dell’appello. Laddove infatti la motivazione manchi del tutto non si tratta di completarla o di integrarla o sostituirla, il che rientra nei poteri del Giudice dell’appello, ma sebbene di sostituirsi al primo Giudice redigendo la motivazione al suo posto e privando oltretutto l’imputato di un grado di giurisdizione de libertate”. Quindi questa sentenza secondo me dice quello che è il principio che dobbiamo ragionevolmente applicare e cioè che dobbiamo limitarci a poteri integrativi laddove esiste una motivazione che ci consenta di poter in qualche modo riempire degli spazi che sono però, come perimetro del contraddittorio, delimitati e in tutti i casi in cui le argomentazioni sono ex novo, e quindi la motivazione è inesistente o, come si dice, apparente, in questi casi dobbiamo limitarci a una mera declatoria di nullità dell’ordinanza. Il problema è naturalmente quello di stabilire, come ho già detto, quando in concreto questa motivazione c’è o non c’è. Le ragioni che vi ho appena indicato e il criterio interpretativo e teleologico è quello che vi ho appena detto: cioè noi operiamo questo intervento quando la motivazione che possiamo adottare in qualche modo si ricollega a quella già esistente nel provvedimento; nei casi in cui la motivazione dev’essere del tutto nuova non mettiamo mano all’ordinanza. Voglio ricordare un’altra sentenza della Corte di Cassazione che nel ‘92 disse che la congruità o meno della motivazione di un provvedimento giurisdizionale non può dipendere dal fatto che il Giudice abbia usato le parole del legislatore, dovendosi invece avere riguardo solo al fatto che egli abbia o meno indicato i concreti elementi di prova. Perché tutt’oggi ci sono G.I.P. che quando emettono la misura cautelare riportano pedissequamente la previsione dell’Art. 274 lettera c) o b) o quel che è. 36 Vengo all’ultima questione venendo qui a un’indicazione di carattere pratico. La stragrande maggioranza delle ordinanze in cui viene invocato questo principio sono le ordinanze di tipo cumulativo, perché purtroppo, quando viene emessa un’ordinanza nei confronti di 10, 15, 20, 30 persone, viene da sé che non si può misurare la motivazione soggetto per soggetto e quindi la tentazione da parte del Pubblico Ministero prima e del G.I.P. poi di fare una motivazione che in qualche modo vada ad indicare nella gravità del fatto in sé e per sé il criterio di necessità della presenza delle esigenze cautelari è forte, l’Art. 275 cpp impone un criterio di scelta delle misure che tenga conto anche della complessiva personalità dell’individuo, quindi, se anche il fatto è uguale, è chiaro che la misura cautelare nei confronti dell’incensurato non potrà essere così severa come quella nei confronti del recidivo specifico che ha già una personalità fortemente compromessa. In particolare questo tipo di situazioni si verifica nei procedimenti per spaccio di droga e per violazione degli Art. 73 e 74 L.S., poiché è un dato di fatto ormai conosciuto da tutti che questi procedimenti si basino quasi esclusivamente sulle intercettazioni telefoniche; è quella che noi chiamiamo la cosiddetta “droga parlata”, cioè: sequestri non ce ne sono o sono modestissimi, l’impianto accusatorio è basato tutto sul contenuto di intercettazioni telefoniche, molto spesso anche in chiaro: “è buona, non è buona, me ne hai data un etto di meno, troviamoci e quant’altro”. Solo che c’è un piccolo particolare, che naturalmente la Corte di Cassazione in materia di intercettazioni telefoniche è molto severa e afferma che la prova – questo vale per il dibattimento, ma vale evidentemente anche per la misura cautelare – può anche consistere solo ed esclusivamente nelle intercettazioni, però il contenuto deve essere in equivoco, deve essere chiaramente riferibile al reato, ma soprattutto deve essere certa l’identificazione dei soggetti fra cui intervengono le conversazioni. Il problema è che quando si va a motivare questo tipo di ordinanza, secondo quella che è la giurisprudenza della Corte di Cassazione bisognerebbe indicare capo d’imputazione per capo d’imputazione, e quindi soggetto per soggetto, quali sono le intercettazioni telefoniche che provano il reato e qual è il contenuto, sia pur riassuntivo, della telefonata. La Corte di Cassazione riassuntivamente dice: “Quando i gravi indizi di colpevolezza necessari per l’adozione di un provvedimento restrittivo sono fondati sulla registrazione di colloqui telefonici intercettati, il Giudice, per soddisfare l’obbligo della motivazione, deve indicare specificatamente con riferimenti testuali o riassuntivi il tenore dei colloqui registrati, la loro riferibilità diretta o indiretta all’indagato, dimostrando la sussistenza degli elementi di prova idonei a far ritenere altamente probabile la commissione del fatto”. Il problema è che quasi nessun G.I.P. rispetta questo principio, nel senso che la maggior parte 37 degli impianti delle ordinanze cautelari è fatta così: c’è un capo d’imputazione e poi si dice “Ritenuto che sussiste un sufficiente e adeguato quadro indiziario ricavabile dalle telefonate numero: 2024, 2025, 2026, punto a capo”. Allora va bene il riferimento alle conversazioni, ma evidentemente va operata una non rimandabile attività di motivazione che ricolleghi la telefonata, il suo contenuto e poi una valutazione che spieghi perché quella telefonata ha un significato indiziario e che colleghi quel significato indiziario a quel ben determinato indagato e a quella ben determinata imputazione. Se questo non viene fatto viene precluso al Tribunale del riesame di fare un’opera di verifica dei singoli elementi indiziari uno per uno, specialmente quando il capo d’imputazione è articolato in 30, 40, 50 cessioni e gli imputati sono 20, 30, 40. In tutti questi casi il Tribunale del riesame di Venezia è pervenuto alla decisione di annullare l’ordinanza sostenendo che gli era preclusa in via assoluta la verifica del quadro indiziario e anche, e conseguentemente laddove c’era, anche quella sulla valutazione sulla concreta esistenza degli elementi cautelari; ma questo veniva dopo evidentemente, perché se cade il quadro indiziario non si va neanche a fare questo tipo di verifica. Quindi, e ribadisco quello che dice la Corte: “In tema di misure cautelari, l’obbligo di motivare il convincimento colla sussistenza dei gravi indizi non può ritenersi adempiuto dal Giudice per le Indagini Preliminari che si limita a un generico rinvio alle fonti di prova - vedi il numero delle telefonate - senza la precisazione del loro contenuto, quanto meno degli elementi idonei a consentire l’individuazione di quegli specifici elementi la cui forza probante abbia reputato tale da indurlo ad adottare la misura cautelare. Diversamente si precluderebbe di fatto agli interessati di esercitare appieno il loro diritto di difesa per l’impossibilità di individuare gli elementi di accusa presi in considerazione per ciascuno di loro in riferimento a ciascuna delle imputazioni”. Con questo io avrei concluso. Volevo segnalarvi due brevissime osservazioni, la prima: il potere di integrazione del Giudice del riesame è tuttora oggetto di dibattito da parte della Corte di Cassazione. Non so se voi ricordate di un recente intervento delle Sezioni Unite in materia di decreto di convalida di sequestro probatorio in cui si è detto che il Pubblico Ministero deve motivare le specifiche esigenze probatorie per le quali ritiene di convalidare il sequestro operato dalla Polizia Giudiziaria. Questa sentenza riguarda una materia completamente diversa, però in questa sentenza è contenuto un inciso e la Corte di Cassazione quando parla di questa cosa dice: state attenti, Giudici del riesame, che se manca la motivazione sulle esigenze probatorie del sequestro non potete intervenire e integrarlo. Ma non perché prende posizione sul problema della possibilità o meno di integrare la motivazione, anzi, adesso vi 38 leggerò l’inciso, si guarda bene dal prendere posizione su questo e dice: voi non potete farlo perché è il Pubblico Ministero che ha emesso un provvedimento difettoso e tu, Giudice, non puoi integrare un provvedimento del Pubblico Ministero dove è l’Accusa che deve individuare il perimetro di esigenze probatorie. Quando parla del problema dell’integrazione della motivazione dice, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite: “Il quesito della possibilità di integrare la motivazione si intreccia con il più generale e fortemente dibattuto problema dell’ampiezza dei poteri meramente demolitorio oppure integrativo e sanante riservato al Giudice del riesame ai sensi dell’Art. 309 comma nono”, e questo lo dice l’8 marzo del 2004. Quindi la Corte si sta continuando a porre il problema del potere integrativo e ancora sussiste un forte dibattito sulla possibilità di integrare o non integrare la motivazione. Con questi due orientamenti, quello più garantista, secondo il quale questo atteggiamento non potrebbe avvenire in determinati casi, cioè soltanto in caso di insufficienza, è quello che invece è più sfavorevole all’imputato in cui si dice in sostanza: il Tribunale del riesame ha il dovere e il compito doveroso di fare lui la motivazione anche quando non era mai stata presa in considerazione. L’ultima cosa che volevo dire è questa: uno dei principi, quello credo più complicato in assoluto, che ci troviamo spesso ad applicare è il principio in sede di appello del cosiddetto problema delle ordinanze cautelari a catena. Vi segnalo che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite a proposito ha emesso il 10 giugno una decisione abbastanza sconcertante, nella quale, rimangiandosi completamente quanto affermato nel 1997, anche lì a Sezioni Unite, ha affermato che una volta.. voi sapete cosa sono le ordinanze a catena, succede questo: quando viene emessa un’ordinanza cautelare e subito dopo un’altra ordinanza cautelare e le stesse ordinanze hanno ad oggetto fatti diversi, ma fra loro uniti da un determinato vincolo, continuazione e nesso teleologico, a determinate condizioni opererebbe la cosiddetta retrodatazione, cioè si va a guardare il termine di carcerazione partendo dall’applicazione dell’ordinanza prima. L’effetto di questa situazione fino adesso era fortemente frenato dal fatto che la retrodatazione operava solo se i fatti della seconda ordinanza erano desumibili fin dall’inizio, cioè in sostanza l’istituto serviva a evitare che il Pubblico Ministero, frazionando l’accusa, tenesse una persona dentro emettendo misure cautelari dilazionate in modo da prorogare ingiustamente i termini di carcerazione. Questo rimedio in realtà era stato studiato ancora sotto il vecchio codice, però la desumibilità era in qualche modo un correttivo, cioè si diceva: siccome il Pubblico Ministero è stato inerte e non ha chiesto subito la misura cautelare fin dall’inizio, se poi la chiede dopo 5 o 6 mesi la può anche ottenere, però quella misura è come se avesse avuto efficacia restrittiva fin dall’origine. 39 Sennonché la Corte di Cassazione a Sezioni Unite detta questo principio dicendo: ci siamo sbagliati, nel momento in cui adesso viene riconosciuto il vincolo di continuazione fra i fatti della prima ordinanza e i fatti della seconda ordinanza il termine retroagisce automaticamente e non si va a verificare la desumibilità allo stato degli atti. Se a questa pronuncia si mette in contrapposizione l’altra pronuncia della scarcerazione ora per allora, e cioè che nel caso in cui sia intervenuto uno sforamento del termine di fase, anche nel caso in cui poi abbia fatto seguito una sentenza, è una questione un po’ complicata, in sostanza, attraverso questo meccanismo si fanno retrodatare tutte le ordinanze cautelari a partire dalla prima in modo pressoché automatico e, anche se è intervenuta una sentenza, la scarcerazione viene comunque emessa ora per allora anche se l’imputato avrebbe avuto diritto alla scarcerazione in allora, ma adesso non più perché magari è intervenuta la sentenza e quindi è scattato il termine di fase successivo e magari non si è superato il termine complessivo. Ciò nonostante le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che, siccome la libertà personale è un bene insopprimibile, quando una persona ha fatto anche un giorno semplicemente in più a quel punto ha diritto alla scarcerazione, anche se la proroga è tempestivamente intervenuta attraverso una sentenza. Quindi a questo punto il Tribunale del riesame, come Giudici dell’appello ex Art. 310, ha cominciato a ricevere questo tipo di lamentele, nella forma dell’appello, perché la sentenza è del 10 giugno e quindi stanno cominciando a pervenire le prime questioni su questa specifica cosa. Io ho smesso di tediarvi. AVV. RENATO ALBERINI Ringrazio il Presidente Risi per l’interessante intervento e anche perché è diritto vivo attuale e quindi è di riferimento per tutti noi operatori del diritto proprio come metodologia dei nostri futuri ricorsi per riesame e appello. Avendo finito con gli interventi abbastanza presto rispetto ad altri analoghi convegni volevo chiedere ai presenti se c’erano delle domande specifiche da rivolgere ai nostri due illustri interlocutori, approfondimenti o chiarimenti o precisazioni, o allargamenti anche sul tema che non è stato trattato specificamente, altrimenti possiamo chiudere qui e ringraziare nuovamente i nostri illustri ospiti. 40