Welfare locale o welfare localistico? La residenza anagrafica come strumento di accesso ai – o di negazione dei – diritti sociali di Enrico Gargiulo Paper for the Espanet Conference “Innovare il welfare. Percorsi di trasformazione in Italia e in Europa” Milano, 29 Settembre — 1 Ottobre 2011 Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Torino Welfare locale o welfare localistico? La residenza anagrafica come strumento di accesso ai – o di negazione dei – diritti sociali Introduzione A partire dagli anni Settanta del Novecento, il welfare state è entrato in una fase di graduale decentralizzazione. L’evoluzione in senso regionale e sub-regionale delle politiche sociali ha dato origine, in Italia e in altri paesi europei, a un processo di localizzazione dei diritti sociali. L’attribuzione e la concreta attuazione di questi diritti, di conseguenza, da competenze statali sono diventate prerogative specifiche di enti sub-statali quali le Regioni, le Province e i Comuni. Nel campo del diritto all’assistenza sociale, la legge 328/2000 e la riforma del Titolo V della Costituzione rappresentano il punto di arrivo di un processo di localizzazione che ha inizio nel 1977, con l’introduzione del D.P.R. 616 in applicazione della legge 382 del 19751. Nel campo del diritto all’assistenza sanitaria, è possibile riscontrare un processo analogo, avviato anche in questo caso con la legge 382, che ha come prima tappa l’istituzione, con la legge 833 del 1978, di un Servizio sanitario nazionale caratterizzato da una struttura decentrata2, e come tappa successiva la trasformazione, con il D.Lgs. 502 del 1992, delle Unità sanitarie locali in aziende, nell’ambito di un sistema in cui alle regioni vengono attribuite responsabilità sempre maggiori3. Il processo di localizzazione delle politiche socio-assistenziali e sanitarie sottrae senza dubbio importanza alla cittadinanza quale status formale a cui ancorare la titolarità dei diritti sociali. Parallelamente, attribuisce importanza a un altro status: la residenza. Al cittadino statuale si affianca così un nuovo soggetto: colui che risiede legalmente all’interno di un territorio sub-statale amministrativamente definito, ricevendone in dotazione specifici diritti. Il sistema di “cittadinanze locali” che sta lentamente prendendo forma presenta delle importanti potenzialità ma anche degli evidenti rischi. Se da un lato i sistemi di welfare locale possono configurarsi come ambienti più inclusivi nei confronti dei migranti rispetto ai sistemi di welfare statuale in cui sono inseriti, dall’altro possono trasformarsi in meccanismi fortemente escludenti. 1 A riguardo, cfr. Girotti: pp. 297-300. All’interno del SSN, a livello centrale lo stato si riserva compiti di programmazione sanitaria e di determinazione degli standard nazionali, assumendo parallelamente funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività regionali. A livello decentrato, invece, le regioni – vere e proprie strutture portanti – svolgono funzioni di legislazione e di programmazione, di gestione e di controllo della spesa, di programmazione e di gestione del personale, mentre le Unità sanitarie locali rivestono un ruolo espressamente operativo (cfr. ivi: pp. 304-310). 3 Le USL, seppur riaggregate e ridotte numericamente, sono trasformate in aziende autonome all’interno di un nuovo sistema regionale, mentre le regioni vengono ulteriormente responsabilizzate, assumendo funzioni di supporto tecnico e di controllo di gestione nei confronti delle nuove aziende (cfr. ivi: pp. 313-314). 2 Al centro di questa tensione tra inclusione ed esclusione si colloca un istituto giuridico poco appariscente ma allo stesso tempo estremamente rilevante: la residenza anagrafica. Alla residenza, infatti, sono agganciati alcuni diritti fondamentali, tra i quali l’iscrizione al sistema sanitario nazionale, l’accesso alle prestazioni socio-assistenziali e quello al sistema scolastico. Negare la residenza, dunque, significa negare indirettamente questi diritti, anche a soggetti che si trovano a soggiornare regolarmente all’interno del territorio italiano. È evidente, allora, come le scelte effettuate in materia di residenza abbiano degli evidenti e immediati effetti sul processo di integrazione degli stranieri. Precludere o comunque ostacolare l’accesso ai servizi sociali e sanitari, l’inclusione nel sistema scolastico e, nel caso dei cittadini comunitari, la partecipazione al voto locale significa inequivocabilmente, ad avviso di chi scrive, porre un freno a quell’interazione a basso conflitto tra comunità ‘ospitante’ e soggetti migranti, incentrata sull’integrità dei due gruppi, che è al centro della definizione di integrazione proposta a livello istituzionale. La trasformazione della residenza da strumento di accesso ai diritti in meccanismo di esclusione dagli stessi avviene mediante specifiche politiche, che potremmo definire ‘politiche di residenza’4. Tali politiche a volte hanno un carattere implicito, e si traducono nella mancata, nella incompleta o nella arbitraria applicazione di alcune norme, mentre altre volte hanno un carattere esplicito, e prendono forma attraverso la produzione di specifiche norme, quali le Ordinanze comunali. Obiettivo di questo paper è arrivare a una definizione delle politiche di residenza, descrivendone la logica e interpretandone le finalità5. Allo scopo di raggiungere questo obiettivo, verrà innanzitutto analizzata la nozione di residenza, evidenziando come, al suo interno, convivano due accezioni tra loro in tensione. Successivamente, verranno messi in luce i problemi e i rischi connessi a un’interpretazione restrittiva di questa nozione. A riguardo, si farà riferimento, come caso di studio, alla vicenda di Cittadella, Comune in cui, mediante un’Ordinanza emanata dal Sindaco, l’iscrizione anagrafica è stata subordinata a rigidi vincoli. Il discorso si sposterà così sulle politiche di residenza: di tali politiche si sottolineerà tanto la natura regolativa dei processi migratori 4 Con questa espressione, mutuata dal lessico politico locale, si fa usualmente riferimento all’atteggiamento più o meno apertamente ostile che certi operatori anagrafici manifestano nei confronti degli stranieri che richiedono la residenza e, più in generale, alla tendenza, che caratterizza alcuni amministratori locali, a concedere la residenza a soggetti vicini alla propria parte politica e a negarla, viceversa, a coloro che reputano essere politicamente avversi (cfr. Dinelli 2010: p. 687). In questo paper, invece, le politiche di residenza verranno a coincidere, come vedremo meglio in seguito, con l’insieme delle pratiche, delle decisioni e delle iniziative normative tramite cui le amministrazioni locali effettuano, o quantomeno provano a effettuare, una sorta di selezione della popolazione residente. 5 Non saranno oggetto di attenzione, invece, le interazioni tra la pluralità degli attori, pubblici e privati, coinvolti nel processo di policy making. Né saranno indagate le forme e le dinamiche delle reti in cui tali attori sono inclusi. Pur riconoscendo che a promuovere le politiche di residenza non è quasi mai un attore unitario, e nonostante la consapevolezza dell’importanza rivestita dai legami intercorrenti tra i soggetti che partecipano alla costruzione di tali politiche, in questo paper ci si concentrerà esclusivamente sui contenuti e sugli obiettivi delle misure che hanno come oggetto la residenza anagrafica. quanto la funzione ostativa del processo di inclusione sociale degli immigrati. Infine, nell’ultima parte del paper si rifletterà su come le politiche di residenza ostacolino il processo di integrazione degli stranieri escludendoli dalla redistribuzione di alcuni beni pubblici fondamentali, quali i diritti sociali. 1 La residenza, una nozione carica di tensioni Nell’ordinamento giuridico italiano, la nozione di ‘residenza’ è definita dall’articolo 43 del Codice Civile6: «La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale». Lo stesso articolo definisce anche un’altra nozione, quella di domicilio: «Il domicilio di una persona è nel luogo in cui ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi». Nel linguaggio comune, tuttavia, ‘domicilio’ e ‘residenza’ non sono termini nettamente distinti. La tendenza a considerarli equivalenti è filtrata all’interno del senso comune proprio dal campo del diritto, attraverso il processo di codificazione delle norme giuridiche: il Code Napoleon del 1804 — modello ispiratore di molte esperienze successive di codificazione civile negli stati europei e in quelli latinoamericani – ha identificato il domicilio quale unico luogo di relazione tra l’individuo e lo spazio, assorbendo al suo interno la nozione di residenza (Morozzo della Rocca 2003: 1014). È però con il primo codice civile del Regno d’Italia, emanato nel 1865, che la distinzione tra residenza e domicilio viene sancita e riconosciuta: «la persona, talvolta, ha la sede dei suoi affari in un luogo diverso dalla sede dei suoi affetti» (Ibidem). Tale distinzione è stata poi ripresa dal codice attualmente vigente. La nozione giuridica di residenza è nata per effetto di un processo di ‘gemmazione’ che ha coinvolto la nozione di domicilio: questa nozione, in origine unitaria, composta dall’elemento materiale del dimorare e dall’elemento spirituale dell’aver stabilito in un dato luogo la sede dei propri affari e interessi, si è smembrata in due concetti differenti, dei quali il primo ha conservato il nome iniziale mentre il secondo ha acquistato il nome di residenza (cfr. Dinelli 2010: 651). Il domicilio, per come è concepito attualmente, è dunque un’entità la cui definizione prescinde dalla stabile presenza fisica della persona in un certo luogo e si incentra, piuttosto, sul considerare tale luogo, da parte di quella stessa persona, il centro dei propri interessi patrimoniali e personali; la residenza, viceversa, è un’entità essenzialmente fisica, la cui definizione, di fatto, coincide con il «dimorare» in un luogo, trattenendosi abitualmente – attraverso cioè una serie di comportamenti ripetuti7, tali da renderne socialmente prevedibile la prosecuzione – in esso (Ivi: 651-652). 6 Per esclusione, da questa norma è ricavata la nozione giuridica di ‘dimora’, distinta dalla residenza in ragione della sua natura di sede non abituale ma occasionale, temporanea, di una persona (Morozzo della Rocca 2003: 1013) 7 Affinché la residenza possa considerarsi acquisita, tuttavia, non è necessario che la successione di comportamenti conformi si sia già verificata; piuttosto, è sufficiente accertare che la persona richiedente abbia fissato la propria dimora in un posto con l’intenzione – desumibile da vari elementi – di stabilirvisi in modo non temporaneo (cfr. Dinelli 2010: 652). Nel campo del diritto, si ritiene comunemente che tanto il domicilio quanto la residenza si compongano di un elemento oggettivo – dato dall’insistenza di una persona in uno specifico luogo dello spazio – e di un elemento volontaristico – dato invece dalla decisione della persona di voler utilizzare quel luogo a fini di domicilio o a fini di residenza: «non basterà a dire questa è la mia residenza o il mio domicilio, ma occorrerà che alla volontà dichiarata corrisponda un fatto, una consuetudine di vita in un luogo. D’altra parte, il fatto materiale di trovarsi a vivere in un luogo deve essere espressione di una scelta del soggetto di fissare in quel luogo la sua residenza o il suo domicilio» (Morozzo della Rocca 2003: 1014). La centralità dell’elemento soggettivo – dell’intenzionalità – nel caso della residenza appare tuttavia discutibile, come è stato recentemente rilevato: «l’accertamento dell’abitudine a dimorare in un luogo è di per sé sufficiente a fondare la sussistenza della residenza, senza che a ciò possa esser d’ostacolo una contraria volontà del soggetto – anche espressa in modo esplicito – o addirittura la sua convinzione di risiedere altrove» (Dinelli 2010: 653). In altre parole, se la volontà di un soggetto è un elemento importante nel qualificare come abituale la sua presenza in un dato luogo, la mancanza di tale volontà non è, di per sé, un elemento in grado di escludere la residenza dello stesso nel medesimo luogo se le sue abitudini di vita rivelano, di fatto e contrariamente alle intenzioni soggettive, l’effettività della dimora (Ibidem). La residenza, dunque, coerentemente con l’orientamento giurisprudenziale in materia, si caratterizza come una res facti, vale a dire come una situazione basata sulla presenza stabile di un soggetto in un determinato luogo; una situazione, per converso, scarsamente influenzabile dall’atteggiamento e dalle intenzioni dello stesso, a meno che tale atteggiamento e tali intenzioni non si traducano in una serie di consuetudini comportamentali evidenti (Ivi: 654). Oltre al ruolo della dimensione intenzionale, un’altra importante differenza sembra sussistere tra la residenza e il domicilio: il secondo costituisce il luogo di imputazione di posizioni giuridiche soggettive prevalentemente patrimoniali, il centro degli affari economici di una persona; mentre la prima sembra coincidere con il luogo degli affetti familiari di un individuo, con il centro dei suoi bisogni elementari ed esistenziali (cfr. Morozzo della Rocca 2003: 1015). Questa differenza, però, tende a scomparire quando le dimensioni degli ‘affari’ vengono a coincidere «con le preoccupazioni della mera sussistenza» (Ibidem). In tal caso, infatti, il domicilio assume i caratteri esistenziali e non esclusivamente patrimoniali della residenza, tanto da diventare – per i poveri, quindi, e non per gli abbienti – «l’ultimo (l’unico) luogo di propria appartenenza per chi non può più vantare alcun titolo di proprietà privata» (Ibidem). Per individui che non hanno un luogo specifico in cui abitare, per i senza fissa dimora e i ‘barboni’, il domicilio viene dunque assorbito dalla residenza. Se si considerano complessivamente le condizioni materiali della vita di un individuo, e non soltanto gli aspetti puramente patrimoniali ed economici della stessa, risulta chiaro allora come sia la residenza, e non il domicilio, la nozione centrale nel rendere conto del rapporto tra una persona e il territorio in cui questa, di fatto, trascorre la propria esistenza. E la centralità della residenza si fa ancora più evidente quando tale nozione deve tradursi in uno specifico atto amministrativo: l’iscrizione nei registri anagrafici. Con questo atto, il riconoscimento formale della condizione di residente ha definitivamente luogo. Prima di questo atto, viceversa, le condizioni previste dalla legge affinché sussista la residenza, pur se soddisfatte da un dato soggetto, possono anche non tradursi in un riconoscimento effettivo. L’art. 43 del codice civile, dunque, non definisce del tutto la residenza da un punto di vista formale. Al suo interno sono individuate alcune condizioni relative alla abitualità del contesto materiale di vita che potrebbero tradursi in una definizione di questo genere8. Ma la traduzione effettiva delle condizioni individuate dall’art. 43 è affidata ad altre norme, in virtù delle quali, tuttavia, un soggetto che sembra soddisfare le condizioni previste dal codice civile può anche essere escluso dall’iscrizione anagrafica. Residente di fatto, insomma, è colui che è stabilmente presente all’interno di un certo luogo; ma residente in un senso più specifico è colui che è formalmente registrato come tale. La condizione di chi vive stabilmente in una data area – ossia, la residenza per così dire sostanziale –, pur trovando un riconoscimento nell’ambito del codice civile, non si traduce automaticamente in un legame giuridico tra un soggetto e il comune in cui tale soggetto svolge materialmente la propria esistenza – vale a dire nella residenza formale: l’iscrizione nei registri anagrafici, contrariamente alle intenzioni degli individui che ne fanno richiesta, può anche non avvenire. Si fa evidente, di conseguenza, la tensione tra le due diverse accezioni della residenza. La presenza e la rilevanza di questa tensione, del resto, sono immediatamente evidenti se si presta attenzione a un dibattito sorto in ambito giuridico in merito alla distinzione tra residenza civile — definita appunto dall’art. 43 del codice civile — e residenza anagrafica — disciplinata invece dalla legge 1228/1954 e dal d.p.r. 223/1989. I sostenitori di tale distinzione9 affermano che la residenza anagrafica si fonda su presupposti diversi da quelli sottesi alla residenza civilistica. Nello specifico, «il problema centrale della residenza anagrafica è rappresentato dal suo aspetto formale, stante che la forma è ad substantiam, per cui solo la presenza dell’atto amministrativo ne determina la sussistenza; all’incontro, la residenza civilistica è rappresentata da facta concludentiae 8 Come abbiamo visto poco fa, nel caso di soggetti senza fissa dimora, le due condizioni coincidono. L’iscrizione nei registri anagrafici, infatti, normalmente incentrata sulla residenza, nel caso di persone senza fissa dimora è fondata invece sul domicilio: per queste persone, il secondo è di fatto assorbito dalla prima. 9 Tra questi, cfr. in particolare Castaldi 2004, Coscia 2006 e Panozzo 2006. non rappresentabili da un atto e, quindi, da una fattualità storicizzata» (Coscia 2006: 836). Ma soprattutto, al centro della distinzione tra le due residenze vi è un’altra distinzione giuridica: quella tra diritto soggettivo e interesse legittimo. Chi sostiene la tesi secondo cui la residenza anagrafica debba essere distinta dalla residenza civilistica ritiene che la prima si configuri come un interesse legittimo e non come un diritto soggettivo. In altre parole, «una cosa è il diritto soggettivo del soggetto a fissare la propria “residenza” (così come recita la Costituzione) in ogni parte del territorio nazionale, ma un’altra è quella relativa ad un diritto soggettivo affievolito che, a partire dal punto in cui esiste la possibilità che su tale diritto incida legittimamente un potere esterno, si trasforma in interesse legittimo che investe completamente il concetto di “residenza anagrafica”» (Castaldi 2004: 531). Il diritto alla libera circolazione e al soggiorno, definito come primario e assoluto dall’art. 16 della Costituzione, si troverebbe, in questa prospettiva, a fare i conti con la normativa anagrafica: così considerato, tale diritto tenderebbe a «condizionarsi», in quanto «per ritornare ad essere pieno ha bisogno di essere “integrato” dei due elementi fondamentali che permeano il concetto di “residenza anagrafica”», ossia «l’elemento oggettivo, inteso come “stabile permanenza” nel territorio comunale; l’elemento soggettivo, inteso come “volontà di rimanervi”» (Ibidem). E dato che l’accertamento in merito alla sussistenza di tali elementi è affidato all’ufficiale d’anagrafe, «il quale ha poteri discrezionali di valutazione degli elementi posti a fondamento della richiesta» (Coscia 2006: 837), ne risulterebbe confermata la differenza tra le due residenze: «per la formazione dell’atto amministrativo di iscrizione della residenza l’accertamento della P.A. opera ex ante l’iscrizione stessa, mentre nella residenza civilistica la situazione è sempre dedotta dall’interessato o da chi abbia interesse e può contestarsi solo con un giudizio ex post» (Ibidem). 2 Residenza ed esclusione degli immigrati: il caso di Cittadella La distinzione tra residenza formale e residenza sostanziale, dunque, secondo alcuni giuristi non sussisterebbe soltanto di fatto ma anche di diritto: in sintesi, la prima (la residenza civilistica) andrebbe distinta dalla seconda (la residenza anagrafica) perché il legame tra alcuni diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e l’atto amministrativo dell’iscrizione nei registri dell’anagrafe sarebbe mancante. La mancanza di questo legame, inoltre, renderebbe legittima l’indipendenza tra le due: la residenza anagrafica, alla luce di queste considerazioni, non dovrebbe essere considerata un diritto. L’argomento qui riportato, tuttavia, è giuridicamente discutibile. Tra la funzione anagrafica e alcuni diritti fondamentali della persona10, e non soltanto del cittadino, corre infatti un legame molto stretto. Nello specifico, è evidente il nesso tra l’iscrizione anagrafica e: l’art. 2 della Costituzione, che sancisce il rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, anche nel suo essere membro di formazioni 10 L’iscrizione anagrafica, inoltre, è un criterio di accesso alla cittadinanza: la legge 91/1992 stabilisce, per le differenti categorie di stranieri, differenti periodi di residenza legale per poter ottenere la cittadinanza. sociali, in quanto il rifiuto della residenza anagrafica comporta l’esclusione, non solo giuridica, di un soggetto dalla partecipazione comunitaria; l’art. 14 Cost., che sancisce l’inviolabilità e il rispetto del domicilio, e più in generale della vita privata, proteggendo gli individui da provvedimenti arbitrari della Pubblica amministrazione; l’art. 16 Cost. — in precedenza richiamato —, che afferma la libertà di movimento e di circolazione dell’individuo, comprendendo senza dubbio la libertà di residenza, di domicilio e di dimora; l’art. 32 Cost., tramite il quale viene sancito il diritto alla salute dei cittadini e della collettività, poiché l’iscrizione al sistema sanitario nazionale — istituzione che costituisce l’attuazione più diretta di tale diritto — è vincolata alla residenza (cfr. Morozzo della Rocca 2003: 1018-1020). La presenza di un legame così stretto tra l’iscrizione anagrafica e alcuni diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione qualifica dunque la residenza anagrafica come un diritto soggettivo perfetto (cfr. ivi: 1020), «un diritto soggettivo indegradabile, autonomamente azionabile davanti al giudice ordinario» (Dinelli 2010: 674). L’argomento secondo cui la residenza anagrafica andrebbe distinta dalla residenza civilistica, non configurandosi come un diritto soggettivo, fornisce inoltre una evidente legittimazione agli atteggiamenti apertamente escludenti manifestati da alcuni gruppi politici fortemente radicati in aree specifiche del paese. A riguardo, è emblematico il caso di Cittadella11: il 16 novembre 2007, l’allora Sindaco, Massimo Bitonci, richiamando gli art. 50 e 54 del TUEL12 ha emanato un’Ordinanza comunale, presto definita «ordinanza anti-sbandati», con l’obiettivo dichiarato di impedire l’iscrizione nei registri anagrafici a individui senza fissa dimora, ‘barboni’ e disoccupati, a prescindere dal fatto che i soggetti appartenenti a queste categorie fossero o meno cittadini italiani, ma, soprattutto, con l’ 11 Sul caso di Cittadella, cfr. Campo 2007 e Paggi 2007. Quest’ultimo è stato il rappresentante della CGIL nel ricorso al TAR del Veneto contro il Sindaco del Comune di Cittadella, il Comune di Cittadella e il Ministero dell’Interno per ottenere l’annullamento dell’Ordinanza. Il ricorrente ha addotto le seguenti ragioni: Violazione per falsa e/o errata applicazione degli artt. 50 e 54 d.lgs 267/2000, della legge 24 dicembre 1954 n. 1228, del d.p.r. 30 maggio 1989 n. 223; Violazione di legge per incompetenza; Violazione per falsa e/o errata applicazione dell’art. 6 TU 286/98, dell’art. 15 d.p.r. 394/99 e s.m.; del d.lgs. 30/2007; Violazione degli artt. 2, 3, 14, 16, 32 e 38 della Costituzione. Secondo il ricorrente, il potere previsto dalle citate norme del TUEL è stato esercitato al di fuori e in violazione dei presupposti indicati al suo interno e in violazione delle circolari ministeriali, pur richiamate nel medesimo provvedimento sia perché, quanto alle funzioni statali, il Sindaco ha il potere di sovrintendere ad esse, rappresentando a tal fine l’Autorità di Governo, ma non può intervenire in tali funzioni modificandone le previsioni normative, sia perché non sussiste, né sussisteva al momento dell’adozione dell’ordinanza, alcuna situazione di emergenza che caratterizzasse in modo peculiare il territorio del Comune di Cittadella rispetto ad altre aree ad esso vicine o lontane. Nel corso del 2008, il Tar della Lombardia, con la sentenza n. 1239 del 13 maggio ha annullato numerose Ordinanze comunali che prendevano spunto da quella di Cittadella. 12 Nello specifico, il comma 2 dell’art. 54 prevede che «Il sindaco, quale ufficiale del Governo, [adotti], con atto motivato e nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento giuridico, provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini; per l'esecuzione dei relativi ordini [possa richiedere] al prefetto, ove occorra, l'assistenza della forza pubblica». Il comma 4 dell’art. 50, per converso, prevede che il Sindaco eserciti «le altre funzioni attribuitegli quale autorità locale nelle materie previste da specifiche disposizioni di legge», mentre il comma 5 dello stesso articolo dispone che «in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale» il Sindaco, quale rappresentante della comunità locale, possa adottare delle «ordinanze contingibili e urgenti». obiettivo ben più specifico e mirato di non conferire la residenza legale a cittadini stranieri, comunitari o non comunitari che fossero, pur se in possesso di un regolare titolo di soggiorno. L’eventuale esclusione dall’iscrizione nei registri anagrafici era motivata con il mancato soddisfacimento, da parte dei soggetti richiedenti, di alcuni requisiti, declinati in maniera diversificata con riferimento alle specifiche categorie di cittadini stranieri. I cittadini comunitari intenzionati a soggiornare sul territorio italiano per più di tre mesi, tenuti quindi, sulla base della legge italiana, a iscriversi all’anagrafe, erano gravati di ulteriori obblighi rispetto a quelli previsti dalla normativa nazionale. Se privi di un regolare contratto di lavoro, dovevano essere detentori di un reddito non inferiore a una certa soglia – fissata a 5.061 euro nel caso in cui il richiedente l’iscrizione fosse solo o, al più, accompagnato da un familiare –, disporre di un alloggio avente determinate caratteristiche di salubrità e, infine, non essere soggetti ‘socialmente pericolosi’. I cittadini extracomunitari, invece, per ottenere l’iscrizione nei registri anagrafici, dovevano soddisfare i seguenti requisiti: il possesso di una carta di soggiorno in corso di validità; nel caso che la carta fosse scaduta o in corso di rinnovo, la disponibilità, al pari dei cittadini comunitari, di una «idonea sistemazione alloggiativa e di un reddito annuo, proveniente da fonti lecite, di importo superiore al livello minimo previsto dalla legge per l’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria»; un passaporto valido con regolare visto d’ingresso. Inoltre, l’Ordinanza prevedeva che, dell’avvenuta iscrizione anagrafica, dovesse essere data comunicazione alla Questura del capoluogo di Provincia. Per comprendere meglio i contenuti dell’Ordinanza, soffermiamoci sul primo requisito – quello di carattere economico –, e consideriamolo separatamente per quanto riguarda i cittadini comunitari e per quanto riguarda i cittadini extracomunitari. Nella normativa italiana finalizzata alla regolamentazione del soggiorno dei cittadini comunitari sul territorio della repubblica13, è già presente un requisito di questo genere. Il Decreto legislativo emanato a riguardo e la Direttiva europea da questo recepita prevedono infatti una disparità di trattamento tra cittadini italiani e cittadini comunitari. L’ordinanza comunale emanata dal sindaco di Cittadella, tuttavia, si discosta in senso peggiorativo dalla normativa nazionale per la seguente ragione: la discriminazione avviene non sotto il profilo dei requisiti richiesti ma sotto quello del trattamento effettivo riservato agli stranieri comunitari, in quanto la norma comunale prescrive che, 13 Cfr., a riguardo, il Decreto Legislativo 6 febbraio 2007, n.30 Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, la circolare del Ministero dell’interno n. 19/2007 e il Decreto Legislativo 28 febbraio 2008, n. 32 Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, recante attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Recentemente, con il decreto-legge n. 89 del 23 giugno 2011 sono state introdotte ulteriori modifiche al decreto legislativo del 2007. Nella circolare n. 5188 del 29 giugno 2011 sono contenute alcune specifiche circa i contenuti e gli obiettivi di tale decreto. «preventivamente all’iscrizione anagrafica» – sospendendo quindi il relativo procedimento –, sia svolta una «adeguata attività di indagine e verifica in ordine a quanto dichiarato in particolare modo in merito all’individuazione della provenienza e alla liceità della fonte da cui derivano le risorse economiche» (cfr. Paggi). Nel caso dei cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti, l’iscrizione nei registri anagrafici è, secondo la normativa italiana14, un diritto soggettivo incondizionato, così come lo è per i cittadini italiani: «le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani». L’unico requisito che i primi devono soddisfare rispetto ai secondi – per i quali il diritto di soggiorno sul territorio è coessenziale al loro status di cittadini – è appunto la regolarità del soggiorno sul territorio dello stato. Tale regolarità, peraltro, può essere intesa come una condizione più ampia del mero possesso di un permesso di soggiorno in corso di validità15, e ancor più ampia, a maggior ragione, del possesso di una carta di soggiorno; possesso che, invece, è richiesto dall’Ordinanza. Una volta entrati regolarmente all’interno del territorio del paese ospitante, quindi, gli stranieri extracomunitari non sono tenuti a disporre di un reddito superiore a una certa soglia. Alla luce di queste considerazioni, è chiaro come l’iniziativa del sindaco di Cittadella introduca requisiti ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa nazionale. L’Ordinanza, infatti, oltre a richiedere la Carta e non il semplice Permesso di soggiorno, nel caso in cui questa sia scaduta prevede per i cittadini extracomunitari l’obbligo di dimostrare il possesso di «un reddito annuo, proveniente da fonti lecite, di importo superiore al livello minimo previsto dalla legge per l’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria». Per quanto riguarda poi il secondo ordine di requisiti, quelli riferibili alle condizioni igienicosanitarie dell’ambiente abitativo, l’Ordinanza è chiaramente illegittima (Campo 2007: 67). Nessuna norma, infatti, considera la disponibilità di un’abitazione idonea come un requisito per l’iscrizione anagrafica dei cittadini comunitari. Rispetto ai cittadini extracomunitari, parimenti, la richiesta di disporre di un alloggio conforme ai parametri previsti dalla normativa regionale in materia di edilizia residenziale pubblica è illegittima: tale richiesta è prevista ai fini della stipula del «contratto 14 Cfr., a riguardo, il Decreto Legislativo 25 Luglio 1998 n. 286 Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (in particolare, l’art. 6 co. 7) e il Decreto del Presidente della Repubblica 31 Agosto 1999 n. 394 Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (in particolare l’art. 15). 15 In questo senso, «l’esibizione del permesso di soggiorno non è di per sé il requisito per poter procedere all’iscrizione anagrafica del residente straniero, ma è solo la prova documentale privilegiata dell’esistenza del diverso e sostanziale requisito della regolarità del soggiorno. Ben potendo darsi che uno straniero regolarmente presente non sia in grado, per ragioni indipendenti dalla sua volontà, di esibire il permesso di soggiorno in corso di validità» (Morozzo della Rocca 2006: 56). Inoltre, per gli stranieri extracomunitari l’iscrizione anagrafica può anche coesistere con uno stato di irregolarità: allo scadere del permesso di soggiorno, per coloro che sono in attesa di rinnovo l’iscrizione rimane valida; mentre per quanti non hanno richiesto il rinnovo decade soltanto dopo un certo periodo di tempo (cfr. Ibidem). In questo senso, quindi, tra gli iscritti all’anagrafe figurano anche soggetti irregolari. di soggiorno» dalla normativa in materia di immigrazione16; tuttavia, il controllo circa il suo soddisfacimento, come tale, è demandato allo Sportello Unico presso la Prefettura competente, e non all’Amministrazione comunale (Paggi 2007). In altre parole, la disponibilità di un alloggio conforme nulla ha a che vedere con l’iscrizione nei registri anagrafici; può essere considerata, piuttosto, alla stregua di un parametro in grado di condizionare l’ingresso del cittadino straniero nel paese ospitante. Una volta avvenuto l’ingresso e stipulato il contratto di soggiorno, il controllo sull’idoneità dell’alloggio si presume espletato; l’autorità comunale, di conseguenza, non ha la facoltà di imporre un nuovo controllo17. Per queste ragioni18 la richiesta avanzata nell’Ordinanza si configura come un «accertamento “sanitario”» che, in quanto «sistematico e non collegato a particolari situazioni già rilevate o segnalate, esula completamente dai poteri sindacali di tutela della salute pubblica e si appalesa dunque viziato sotto il profilo dell’eccesso di potere, per sviamento dell’atto rispetto alle sue funzioni tipiche» (Ibidem). E veniamo al terzo ordine di requisiti, quelli relativi alla presunta ‘pericolosità sociale’ dei soggetti richiedenti l’iscrizione nei registri anagrafici. A riguardo, l’Ordinanza dispone che se a richiedere l’iscrizione anagrafica sono «soggetti nei confronti dei quali, per notizie ed informazioni direttamente acquisite ovvero per atti emessi e/o provvedimenti precedentemente adottati da parte dell’Autorità Giudiziaria e/o di Pubblica Sicurezza», sia accertabile «un presunto status di pericolosità sociale tale da porre a rischio il mantenimento e la salvaguardia dell’ordine e la sicurezza pubblica», preventivamente alla loro iscrizione sia data debita informazione, a riguardo, «alla Prefettura ed alla Questura di Padova», istituendo, a tal fine, «un’apposita commissione interna, costituita dall’ufficiale d’Anagrafe, da un funzionario dell’Ufficio demografico e da un appartenente la Polizia Locale, con il compito di esaminare le singole richieste e ove ne sussistano i motivi, stabilire la necessità di inoltrare l’informativa preventiva al Prefetto ed al Questore di Padova». Su questo punto, l’Ordinanza è piuttosto ambigua: se considera la pericolosità sociale come un elemento ostativo all’iscrizione, allora si configura come illegittima, dato che le norme di legge e le circolari ministeriali sono molto chiare nel non attribuire alle Amministrazioni locali simili poteri di veto; se, viceversa, prevede l’obbligo di segnalare alla Prefettura e alla Questura soggetti presunti pericolosi, allora è parimenti illegittima, perché va a condizionare l’esercizio del diritto di residenza (Campo 2007: 68). L’Ordinanza, insomma, rischia di bloccare a monte le 16 A riguardo, cfr. gli art. 5 bis e 22 del D. Lgs. 286/98 (come modificato dalla Legge n. 189/02). Nell’Ordinanza, peraltro, non è nemmeno indicato, in maniera chiara, quali siano i parametri a cui fare riferimento per verificare l’idoneità dell’alloggio (Paggi 2007). 18 Su questo punto, l’iniziativa del sindaco di Cittadella contrasta esplicitamente, oltre che con le norme in materia di immigrazione, anche con la l. 1228/1954 e con il D.p.r. n. 223/1989 – norme che, nel momento in cui l’Ordinanza è stata emanata, costituivano il fulcro della normativa sulla residenza –, e con le Circolari del Ministero dell’Interno n. 8 del 29 maggio 1995 e n. 2 del 15 gennaio 1997, impartite per assicurare la dovuta omogeneità, su tutto il territorio nazionale, al riconoscimento del diritto di iscrizione anagrafica delle persone che abitano in alloggi fatiscenti o precari e delle persone con precedenti penali. 17 iscrizioni anagrafiche «solo perché si presume una possibile pericolosità che deve essere accertata da altri soggetti istituzionali a ciò preposti dalla legge, specie se si considera che l’iscrizione anagrafica non toglierebbe comunque nulla alla possibilità di adottare i provvedimenti sanzionatori del caso – da parte degli organi realmente competenti – se e quando necessario» (Paggi 2007). Il caso di Cittadella qui riportato evidenzia bene una specifica tendenza: gli operatori anagrafici, su esplicita indicazione dei Sindaci, esigono ai fini dell’iscrizione documentazioni non richieste dalla legge19, realizzando così una vera e propria selezione delle persone ritenute ‘meritevoli’ di risiedere presso il proprio Comune. E questa selezione, a volte, avviene non soltanto di fatto ma anche di diritto, in virtù di norme locali – le Ordinanze comunali – che violano apertamente le norme dello stato20. Il senso di queste Ordinanze, e più in generale di tutti i provvedimenti orientati ad autorizzare i Sindaci e i poteri locali a negare la residenza a cittadini stranieri anche se regolarmente soggiornanti, può essere sinteticamente e grossolanamente riassunto nel seguente modo: al potere dello stato di decidere chi possa stare dentro i propri confini e chi debba invece starne fuori, si aggiunge un altro potere, esercitato questa volta dalle amministrazioni locali, quello di decidere chi possa risiedere all’interno di una porzione specifica del territorio statuale e chi, viceversa, non sia autorizzato a farlo. Il potere di cui i Sindaci si autoinvestono, però, è un potere che, secondo la legge, non spetterebbe loro: quelli collegati all’anagrafe permangono interessi di pertinenza statale, nonostante siano i Comuni a essere incaricati delle funzioni anagrafiche; nell’esercizio di queste, di conseguenza, il sindaco agisce come «ufficiale di governo», come organo dell’amministrazione statale, e non come soggetto politico autonomo (cfr. Morozzo della Rocca 2003: 1018). In quanto ufficiale di governo, inoltre, il sindaco è gerarchicamente subordinato al Prefetto (cfr. ibid.). Per 19 Successivamente all’Ordinanza di Cittadella qui menzionata, alcuni articoli delle norme che regolavano l’iscrizione anagrafica sono stati modificati. Nello specifico, la legge 94/2009 ha introdotto delle modifiche tanto in relazione al criterio di iscrizione incentrato sulla residenza quanto in relazione a quello incentrato sul domicilio. Nello specifico, per ciò che concerne il primo criterio, l’art. 1 co. 18 della legge 94/2009 aggiunge, dopo il co. 1 dell’art. 1 della legge 1128/1954, un co. 2 che introduce, in caso di iscrizione e di richiesta di variazione anagrafica, una «verifica, da parte dei competenti uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie dell'immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza, ai sensi delle vigenti norme sanitarie»; mentre, per ciò che concerne il secondo criterio, la stessa legge prevede due innovazioni: l’art. 3 co. 38 introduce l’obbligo, a partire dalle nuove iscrizioni, di fornire «gli elementi necessari allo svolgimento degli accertamenti atti a stabilire l’effettiva sussistenza del domicilio»; mentre il co. 39 dello stesso articolo prevede l’istituzione di un Registro nazionale delle persone senza fissa dimora presso il Ministero dell’interno (cfr. Mariani: 79-80). Nonostante i cambiamenti introdotti, comunque, i criteri contenuti nella normativa nazionale rimangono differenti, e meno restrittivi, di quelli contenuti nell’Ordinanza di Cittadella. Ciò non significa, però, che le modifiche apportate dalla normativa non mettano a rischio l’iscrizione anagrafica di alcune categorie di soggetti, e nello specifico delle popolazioni nomadi e rom, ostacolando, di conseguenza, i Comuni nella compilazione degli elenchi dei giovani tenuti all’adempimento dell’obbligo scolastico; compilazione che avviene proprio sulla base delle risultanze anagrafiche (cfr. Dinelli 2010: 691). 20 La Corte costituzionale, con la sentenza n. 115 del 4 aprile 2011, ha abrogato l’art. 6 del Decreto-legge 92/2008, ossia la norma del cosiddetto «pacchetto sicurezza» che attribuiva più poteri ai Sindaci, riconoscendo così l’illegittimità di molte delle Ordinanze comunali emanate negli ultimi anni. Nonostante la decisione della Corte, il Ministro dell’Interno Roberto Maroni si è detto convinto della necessità di restituire ai Sindaci, pur nei limiti posti dalla Consulta, i poteri sottratti ai Sindaci. questa ragione, nel momento in cui decidono di introdurre specifici vincoli all’iscrizione anagrafica, i Sindaci, pur rivestendo in materia – secondo la legge – un ruolo tecnico, scelgono autonomamente di assumere un ruolo politico. Questa inversione dei ruoli ha lo scopo deliberato di interrompere il processo di costruzione delle cittadinanze locali; forse perché tale processo potrebbe portare alla costruzione di cittadinanze più inclusive di quella statuale, ponendosi così a favore di soggetti che, normalmente, sono da questa esclusi. La maggiore inclusività delle cittadinanze locali, infatti, potrebbe tradursi in primo luogo nell’allentamento, per non dire nella ricomposizione, della tensione tra la dimensione formale e la dimensione sostanziale della residenza: a questo livello, uno straniero residente, attraverso una partecipazione più diretta alla vita collettiva – e nello specifico alla vita politica –, potrebbe trovare nello status di «cittadino locale» un riconoscimento formale della propria condizione di soggetto che sente di essere membro in senso pieno di una comunità. In secondo luogo, la maggiore inclusività delle cittadinanze locali potrebbe tradursi in una relazione più stretta tra la dimensione formale del riconoscimento giuridico e la dimensione, altrettanto formale, della titolarità dei diritti associati a tale riconoscimento. È mediante l’iscrizione anagrafica, come abbiamo visto, che uno straniero regolarmente soggiornante sul territorio italiano può avere accesso ai diritti che la legge associa al suo status. Più in generale, a livello locale la differenza tra cittadini e non cittadini nella titolarità e nel concreto esercizio di alcuni diritti potrebbe ridursi, fino quasi a scomparire. In alcuni casi, questa differenza potrebbe addirittura invertirsi: i secondi – nella misura in cui sono residenti – potrebbero trovarsi in una condizione di vantaggio rispetto ai primi21. È chiaro allora come le scelte effettuate in tema di residenza siano strategiche nel favorire, o viceversa nell’ostacolare, il processo di integrazione degli immigrati. Proprio per questa ragione è necessario definire meglio le politiche che hanno come oggetto la residenza. 21 Con la sentenza n. 432/2005, ad esempio, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima una norma regionale lombarda (legge regionale n. 1/2002 Interventi per lo sviluppo del trasporto pubblico regionale e locale) che richiedeva come requisito per l’accesso al diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico e di linea – diritto riconosciuto alle persone totalmente invalide per cause civili –, oltre alla residenza anche la cittadinanza italiana. Questa sentenza, da un lato, «mostra come possa esservi una parziale divaricazione tra la comunità statale e quella regionale, di modo che l’estraneità di un soggetto rispetto alla prima non incide necessariamente sulla sua appartenenza alla seconda», e dall’altro, «afferma che non è illegittima la scelta regionale di destinare determinate provvidenze sociali ad esclusivo vantaggio dei propri residenti, senza che sia neppure necessario supportare una simile decisione con ulteriori considerazioni legate ad obiettive differenze di condizione tra questi soggetti e coloro che risiedono altrove» (Dinelli 2010: 699-700). La residenza, a prescindere dalla cittadinanza, diventa dunque il criterio di accesso a determinati diritti, lo spartiacque tra chi ne è titolare e chi non è titolare: un italiano non residente nella regione Lombardia è escluso dal beneficio previsto dalla norma; mentre uno straniero residente ne è incluso. La tendenza qui emersa è confermata dall’Ordinanza n. 32/2008 emessa dalla Corte costituzionale, nella quale si dichiara inammissibile, per manifesta infondatezza, la questione di legittimità, sollevata dal Tar di Milano, in merito alla legge regionale Lombardia n. 7/2005, che ha introdotto il requisito di cinque anni di residenza e di svolgimento di attività lavorativa nel Comune per l’accesso alle Case Popolari. In questo caso, l’effetto della decisione della Corte è il seguente: un italiano residente da meno di cinque anni è escluso da un beneficio di cui può invece fruire uno straniero residente da un numero superiore di anni (cfr. ivi: p. 706). 3 Le politiche di residenza: tra politiche migratorie e politiche per (contro) gli immigrati Comprendere che tipo di oggetto siano le ‘politiche di residenza’ non è cosa scontata. A un primo sguardo si presentano come un insieme di misure che vertono su una materia minore. Come tali, quindi, non sembrano incidere in maniera significativa sulla vita delle persone. A uno sguardo più attento mostrano invece una consistenza ben differente, quella di canale di accesso privilegiato ad alcuni diritti fondamentali. Le politiche di residenza sono senza dubbio un caso particolare di politiche pubbliche. Sono cioè «un insieme di misure […] relativamente coerenti, che si propongono di trattare un problema socialmente rilevante» (Donolo e Sordini 2006: p. 261). Come tali, le politiche di residenza evidenziano al loro interno la presenza degli elementi salienti che caratterizzano la più ampia famiglia delle politiche pubbliche22: il potere di fare o di non fare detenuto da un governo (Dye 1972: p. 2); la natura processuale delle decisioni – non una singola scelta, ma un insieme di scelte tra loro interrelate (Jenkins 1993: p. 34); la presenza di più attori nel processo decisionale, i quali agiscono sulla base della percezione, reale o meno, dell’esistenza di un problema (Anderson 1979: p. 3). Ora, le politiche di residenza si propongono senza dubbio di trattare un problema socialmente rilevante: l’“emergenza immigrazione”. Nel tentare di “risolvere” il problema in oggetto, i governi locali esercitano il proprio potere scegliendo in alcuni casi di fare qualcosa – imporre dei vincoli all’iscrizione anagrafica – e in altri casi di non fare alcunché – rallentando, mediante la propria inazione, l’iter burocratico che porta all’ottenimento della residenza. La scelta di fare o di non fare non è costituita da una decisione singola, ma da un insieme di decisioni: emanare un’Ordinanza, rafforzare le procedure di controllo sui requisiti per l’ottenimento della residenza, rallentare le pratiche per l’iscrizione anagrafica, ecc. A questo insieme di decisioni partecipano più attori – il Sindaco, altri esponenti politici locali, non necessariamente della maggioranza, associazioni civiche, gruppi di pressione, ecc. – spinti dalla percezione che esista un problema (che può anche essere il rafforzamento del consenso elettorale, e non direttamente il controllo dei flussi migratori). Nel definire la natura di politiche pubbliche delle politiche di residenza ne è stato definito anche l’oggetto23. Tale oggetto è costituito, in senso lato, dai fenomeni migratori. Le politiche che hanno come oggetto questi fenomeni, a partire dalla definizione che ne ha dato Thomas Hammar, sono usualmente suddivise in due classi: le politiche di immigrazione (immigration policy) e le politiche 22 Non si ha certamente l’ambizione, in questa sede, di pervenire a una definizione esaustiva di ‘politica pubblica’. A riguardo, si rimanda a Regonini 2001. 23 La definizione dell’oggetto di una politica pubblica, comunque, non è mai completa ed esaustiva. Come sottolinea Regonini, le politiche pubbliche non hanno per loro natura confini “oggettivi” quanto ai problemi che le generano e che si propongono di risolvere (Regonini 2001). per gli immigrati (immigrant’s policy)24. Le prime hanno come oggetto la regolazione dei flussi migratori, il controllo della componente irregolare e la definizione delle norme per l’ingresso degli stranieri. Le seconde, invece, sono rivolte in maniera specifica agli immigrati, con l’obiettivo di favorirne l’inclusione sociale e l’integrazione25 nella comunità ospitante. Le politiche di residenza, come vedremo, sono riconducibili tanto alle politiche migratorie quanto alle politiche per gli immigrati. O meglio, regolando in qualche modo l’accesso degli immigrati a un dato territorio e ai beni pubblici presenti al suo interno, come normalmente fanno le politiche del primo tipo, producono effetti sull’inclusione e sull’integrazione di questi soggetti, agendo, di fatto, come politiche del secondo tipo. Per comprendere come ciò accada, è bene analizzare, separatamente, i due tipi di politiche. Come anticipato poche righe fa, le politiche migratorie regolano sostanzialmente il movimento degli stranieri attraverso i, e all’interno dei, confini dello stato di arrivo. Per definire queste politiche è utile, come suggerito da Grete Brochmann, prendere in considerazione i meccanismi di controllo dell’immigrazione (cfr. Brochmann 1999: pp. 25-30). Questi meccanismi possono essere esterni oppure interni. Nello schema elaborato da Brochmann, il complesso dei controlli interni e il complesso dei controlli esterni possono essere immaginati, rispettivamente, come dei continua. Per semplicità, tuttavia, la continuità può essere ridotta a stati discreti, fino a essere dicotomizzata. Ogni complesso dei controlli può dunque essere suddiviso – pur tenendo presente che questa suddivisione non è mai netta – in una dimensione esplicita e in una dimensione implicita: la prima ha a che fare con le politiche ufficiali; la seconda, invece, riguarda i meccanismi di controllo nascosti o poco evidenti e, al contempo, tutte le forme più o meno sistematiche di applicazione distorta o parziale delle procedure previste dalle politiche ufficiali (Brochmann 1998: p. 26). La dimensione esplicita è per definizione manifesta, visibile; la dimensione implicita, viceversa, è spesso nascosta, e si mostra pubblicamente soltanto in alcune occasioni (Ibidem). 24 Come fa notare Caponio, a queste due categorie se ne dovrebbe affiancare una terza, quella delle politiche per i migranti, vale a dire delle misure di prima accoglienza per i soggetti presenti sul territorio ma il cui status giuridico è incerto (cfr. Caponio 2006a: pp. 228-29). 25 Al di là della dimensione statale, il dibattito sull’integrazione si è spostato sempre più, negli ultimi anni, verso la dimensione locale (cfr. Campomori 2008 e Caponio 2006a e 2006b). Una tipologia delle politiche locali per gli immigrati è stata proposta da Alexander (cfr. Alexander 2003); nel contesto italiano è stata proposta invece da Zucchetti (cfr. Zucchetti 1999). Tipi di controllo delle migrazioni internazionali (Brochmann 1998, come riadattato in Ambrosini 2005: p. 193). Controlli esterni Controlli Controlli esterni espliciti espliciti (ad esempio visti di ingresso) Controlli interni Controlli interni espliciti (ad esempio controlli di polizia sulla regolarità dei titoli di soggiorno) Controlli Controlli esterni impliciti Controlli interni impliciti impliciti (ad esempio ridefinizione del concetto di (ad esempio processi di chiusura sociale nei rifugiato) confronti degli stranieri) Esempi di controlli espliciti esterni, secondo Brochmann, sono dati dai dispositivi, giuridici e polizieschi, di controllo delle frontiere, ma anche dai sistemi tecnologici di identificazione delle persone e dai programmi di sostegno allo sviluppo finalizzati a contenere le emigrazioni. Esempi di controlli espliciti interni, per contro, sono forniti dagli accertamenti delle forze dell’ordine orientati a porre rimedio ai limiti dei controlli espliciti esterni, intercettando soggetti che sono entrati illegalmente o che, pur se entrati legalmente, sono rimasti all’interno del territorio oltre il periodo di validità del permesso di soggiorno. Anche i meccanismi di regolazione dell’accesso ad alcuni benefici, come ad esempio i diritti sociali, possono essere annoverati tra i controlli espliciti interni, poiché consentono di localizzare gli immigrati irregolari. Qui l’obiettivo non è la prevenzione dell’immigrazione irregolare, ma la possibilità di rendere più difficoltoso il soggiorno a soggetti in condizione di irregolarità. Come sottolinea Brochmann, questo tipo di controlli, più che costituire un sistema specifico di gestione dei flussi migratori, può essere considerato parte di un sistema generale, o per meglio dire ‘nazionale’, di regolazione della vita sociale: i meccanismi di controllo non agiscono sugli immigrati come tali; piuttosto, attribuendo la titolarità dei diritti sociali ad alcune categorie di soggetti e negandola al contempo ad altre, permettono di individuare gli immigrati irregolari. Oltre ai meccanismi di regolazione dell’accesso ai benefici sociali, altri meccanismi generali – che agiscono cioè, paritariamente, sui cittadini e sui non-cittadini – consentono in realtà di esercitare forme di controllo particolari su questi ultimi. È il caso delle sanzioni nei confronti dei datori di lavoro che impiegano forza-lavoro non in regola: colpendo il lavoro irregolare, anche quello prestato da cittadini, queste sanzioni finiscono per colpire soprattutto gli stranieri privi del permesso di soggiorno26. Infine, una forma di controllo esplicito interno che, a 26 A riguardo, secondo Brochmann, il ruolo dei Sindacati è importante nell’esercitare una funzione di controllo dell’immigrazione irregolare: in contesti come quelli scandinavi, in cui le associazioni dei lavoratori hanno un peso politico rilevante, i lavoratori stranieri sono spinti a cercare un’occupazione in settori in cui l’influenza sindacale è debole. In questi contesti, inoltre, i Sindacati, assicurando elevati standard nelle condizioni di lavoro, si fanno promotori di un trattamento favorevole nei confronti degli stranieri in regola, evitando la formazione di una sottoclasse di noncittadini. Queste organizzazioni finiscono così per trovarsi in un dilemma: sono favorevoli al mantenimento di rigide barriere all’ingresso, ostacolando di conseguenza gli immigrati irregolari, ma al contempo favoriscono l’integrazione degli stranieri regolari. Proprio per questa ragione i sindacati finirebbero molto spesso per incoraggiare, o quantomeno differenza di queste ultime, agisce direttamente sui non-cittadini è rappresentata dalle norme in materia di ‘naturalizzazione’, ossia di acquisto della cittadinanza. Passando dalla dimensione esplicita a quella implicita, è nuovamente possibile parlare di controlli esterni e di controlli interni. I primi sono rappresentati innanzitutto dai controlli fallaci e inefficienti alle frontiere. Secondo Brochmann, il fatto che, nonostante le leggi e i meccanismi di regolamentazione, un considerevole numero di persone riesca a passare la linea che separa due stati trova senza dubbio una spiegazione nell’inconsistenza delle restrizioni e nell’elevato grado di arbitrarietà che contraddistingue la loro applicazione, ma è riconducibile, soprattutto, alla considerevole presenza di valori umanitari all’interno delle società di arrivo, che fungono da deterrente al rispetto tassativo delle norme in materia di immigrazione. I controlli espliciti esterni sono rappresentati inoltre dalla ridefinizione del concetto di rifugiato o dall’introduzione della nozione di ‘paese terzo sicuro’, tramite la quale l’onere dell’accoglienza è trasferito ad altri stati. I secondi – quelli interni – sono rappresentati invece dalla chiusura sociale nei confronti degli stranieri; chiusura che si può trasformare, in alcuni casi, in vera e propria discriminazione. Esempi di controlli impliciti interni, poi, sono dati da quei dispositivi, come il divieto di lavorare per i rifugiati e i richiedenti asilo, che rendono i non-cittadini dipendenti dalle prestazioni del welfare state. Le politiche per gli immigrati, così come quelle migratorie, costituiscono un insieme composito e non facile da sintetizzare. Per tentarne una sintesi, è necessario individuare alcuni criteri in grado di distinguerle tra loro. Una proposta utile, in questo senso, è stata avanzata da Sandro Busso, il quale ha proposto due criteri: le competenze in materia di immigrazione da parte dei settori delle pubbliche amministrazioni a cui le politiche sono riconducibili; i beneficiari finali delle politiche (Busso 2007: p. 459). Da un lato, quindi, le competenze amministrative dirette sono distinte da quella indirette, e dall’altro, le misure rivolte in maniera specifica agli immigrati sono considerate separatamente da quelle rivolte alla popolazione nel suo complesso. Combinando i due criteri, è possibile individuare quattro diverse classi di politiche: per sostenere, una delle forme di controllo interno delle migrazioni più diffuse: la sanatoria (cfr. Brochmann 1998: p. 27). Tipologia della politiche per gli immigrati per settore di riferimento e beneficiari (Busso 2007: p. 461). Settori di riferimento nella Pubblica Amministrazione Competenze Dirette Straneri Stranieri Italiani e Beneficiari a. Politiche di accoglienza (emergenza abitativa, informazioni, lingua…) Competenze Indirette c. Politiche di settore (iniziative in ambito sanitario, sportelli lavoro presso i CPI …) b. d. Politiche di convivenza Politiche di cittadinanza (eventi, incontri, manifestazioni, promozione (Servizi sanitari, socio-assistenziali, scuola, politiche cultura multietnica…) abitative …) Più in dettaglio, ognuna delle classi è articolata al suo interno nel seguente modo: a. “Politiche di accoglienza”. Si tratta di politiche che fanno capo a settori della pubblica amministrazione con competenze dirette in materia di immigrazione, mirate a implementare servizi rivolti unicamente alla popolazione immigrata. Rientrano in questa categoria le politiche emergenziali e di accoglienza propriamente dette, che affrontano problemi come la mancanza di alloggio, le difficoltà linguistiche, la carenza di informazioni su documenti e servizi. b. “Politiche di convivenza” o interculturali. Anch’esse riconducibili a settori con competenze dirette ma rivolte al totale della popolazione, orientate a favorire una convivenza priva di conflitti e una valorizzazione della “risorsa immigrato”. Esempi tipici sono gli eventi culturali, gli incontri e le manifestazioni soprattutto a livello locale, i progetti di educazione a una “concezione multiculturale della cittadinanza” realizzati tipicamente nelle scuole. c. “Politiche di settore”. Sono politiche che fanno a capo a settori della Pubblica Amministrazione con competenze su temi specifici, e solo indirettamente sull’immigrazione, ma rivolte unicamente agli immigrati. Comprendono la definizione e l’erogazione di servizi che mirano a compensare lo svantaggio degli stranieri nell’accedere agli interventi strutturali, quali ad esempio le iniziative in ambito sanitario per garantire l’assistenza agli irregolari, o gli sportelli immigrati presso i centri per l’impiego. d. “Politiche di cittadinanza”. Riuniscono l’insieme delle politiche concepite per garantire al totale della popolazione i beni di cittadinanza fondamentali in ognuna delle aree della vita pubblica: lavoro, ambito sociale e sanitario, abitazione e istruzione. Sono i cosiddetti interventi strutturali, a cui gli immigrati accedono a parità di condizioni con gli italiani a seguito della presenza regolare sul territorio nazionale (Ivi: p. 460). Questa tipologia, come sottolinea l’autore, presenta notevoli difficoltà sul piano pratico27; tuttavia, costituisce un’utile guida per orientarsi tra le misure proposte in favore degli immigrati. Le politiche dei primi tre tipi, come si evince dalla tabella, sono specificamente orientate al tema dell’immigrazione, mentre quelle del quarto tipo sono ‘generali’ (Ivi: p. 461). Ed è proprio a misure di quest’ultimo tipo che le politiche di residenza vanno in qualche modo a legarsi: precludendo l’iscrizione anagrafica, tali politiche precludono anche, come abbiamo già visto, l’accesso ad alcuni servizi di importanza fondamentale; servizi che spetterebbero, paritariamente, ai cittadini e ai non cittadini. La presunta emergenza del fenomeno migratorio che si sarebbe presentata in alcune aree del paese, dunque, non è affrontata attraverso il potenziamento delle politiche di tipo ‘a’ – come forse sarebbe logico attendersi –, ma mediante il restringimento dell’accesso alle politiche di tipo ‘c’. A una strategia di gestione puntuale e contingente della crisi, insomma, è anteposta una logica di esclusione sistematica e strutturale dai beni comuni, ossia da quei beni che, come tali, dovrebbero essere disponibili a tutta la comunità. Nonostante la loro natura dichiaratamente ‘emergenziale’, le politiche di residenza agiscono così su beni di carattere strutturale. Le politiche di residenza, pertanto, funzionano da politiche per (ma sarebbe meglio dire contro) gli immigrati in quanto si configurano come politiche migratorie: le misure volte a restringere l’accesso ai registri anagrafici producono effetti sull’inclusione sociale degli stranieri nel momento in cui regolano la loro presenza all’interno del territorio comunale. Le politiche migratorie, in altre parole, implicano le politiche per (contro) gli immigrati. Ma vediamo più in dettaglio questo aspetto. Riprendendo la terminologia di Brochmann, le politiche di residenza agiscono come meccanismi di controllo interni, tanto impliciti quanto espliciti: il controllo, nel primo caso, avviene mediante un rallentamento delle pratiche burocratiche necessarie per l’iscrizione anagrafica, mentre nel secondo caso avviene attraverso l’introduzione di specifiche norme che consentono di rendere più difficoltosa l’iscrizione stessa. Implicite o esplicite che siano, le politiche di residenza, precludendo l’accesso ai registri anagrafici, escludono gli stranieri dai diritti sociali. Dalla prospettiva della residenza, allora, la differenza tra le politiche migratorie e le politiche per gli immigrati sembra quasi sfumare. Per comprendere meglio questo aspetto, può essere utile fare riferimento alla tipologia delle politiche pubbliche proposta da Lowi28. Questa tipologia è particolarmente appropriata nel nostro caso perché è ancorata a una grandezza spesso trascurata: la coercizione (Regonini 2001: p. 388). 27 In primo luogo, «perché le politiche sono costituite da un insieme ampio di azioni e interventi possibili, che molto spesso non possono essere tradotti in misure» (Busso 2007: p. 461). 28 Questa tipologia è stata proposta in vari saggi, parte dei quali sono stati tradotti in italiano e sono confluiti in un volume dal titolo La scienza delle politiche. Per maggiori dettagli sui contenuti di questa politica cfr. Regonini 2001: in particolare pp. 386-389. Lowi, a riguardo, è piuttosto esplicito: una politica pubblica è «una norma formulata da una qualche autorità governativa che esprime una intenzione di influenzare il comportamento dei cittadini, individualmente o collettivamente, attraverso l’uso di sanzioni positive o negative» (Lowi 1985; trad. it. 1999: p. 230). Inoltre, la tipologia proposta da Lowi è particolarmente adatta a interpretare il presente contesto in quanto è incentrata sulle norme e non sui loro effetti concreti; è improntata cioè a una concezione formale delle politiche più che a una visione focalizzata sull’impatto effettivo delle stesse29. L’approccio formalistico e legalistico promosso da Lowi, dunque, si presta bene ad analizzare il caso di Cittadella: la politica qui in oggetto viene fondamentalmente a coincidere con una specifica norma – l’Ordinanza comunale emanata dal Sindaco; l’importanza di questa norma, peraltro, è data non tanto e non solo dagli effetti che immediatamente produce quanto dal valore simbolico che le viene associato. Certamente, in questa sede non si ha la pretesa di approfondire in maniera minuziosa ed esaustiva i contenuti della tipologia proposta da Lowi. Si ritiene però opportuno richiamare, seppur brevemente, i contenuti di tre dei quattro tipi di politica proposti dallo studioso americano. Innanzitutto, abbiamo le politiche regolative, le quali mirano a condizionare i comportamenti di determinate categorie di individui, imponendo, mediante l’introduzione di obblighi e sanzioni, il rispetto di specifiche norme. Su questo punto Lowi è molto chiaro: «alla carota del sussidio si aggiunge il bastone di sanzioni dirette. Qui abbiamo, ovviamente, un uso più diretto e immediato del potere di coercizione da parte del governo» (Lowi 1971; trad. it.: p. 75). Le misure volte a regolare le condotte individuali hanno tutte un elemento in comune: «dichiarano certe azioni buone o cattive, e prospettano l’applicazione di sanzioni positive o negative rispetto alla condotta in questione. Vi è sempre qui un principio di esclusione, anche se è spesso espresso in modo vago» (Ivi, p. 76). Poi abbiamo le politiche costitutive, le quali «stabiliscono strutture, regole del gioco, e attribuiscono sfere di autorità dentro i cui confini potranno essere create le future politiche governative» (Ivi: p. 63). In questo caso il livello di coercizione è diretto e, a differenza di quanto accade per le politiche regolative, si applica non all’azione individuale ma all’ambiente in cui l’azione ha luogo. Circa queste politiche, Lowi fa una precisazione: «fondare un organo amministrativo è un atto costituente, mentre attribuire a questo organismo determinati poteri su determinati individui o proprietà non sarebbe un atto costituente, ma un atto di diverso tipo […]» (Ibidem). Infine, abbiamo le politiche redistributive: qui l’obiettivo è quello di modificare gli 29 Su questo punto, cfr. Regonini 2001: pp. 390-392. Lowi, a riguardo, afferma che le sua classificazioni «non si occupano minimamente dei concreti impatti delle politiche sulla società, sul mondo politico, o sull’economia […]. Così una legge può essere classificata, diciamo, come redistributiva, anche se dopo vent’anni dalla sua emanazione essa non ha dato luogo ad alcun effetto redistributivo»; dunque, «la classificazione e l’analisi che ne discende richiedono che le categorie di politiche pubbliche […] siano intese come uno sforzo di afferrare le intenzioni dei governanti così come esse sono espresse nel linguaggio formale del governo» (Lowi 1985; trad. it., 1999: p. 236). equilibri che sussistono tra i gruppi sociali riallocando parzialmente i beni prodotti e fornendo benefici a larghe fasce della popolazione. Queste misure «sono coercitive nel senso che ognuna di esse è intesa a influenzare un comportamento su base non facoltativa. Ma è uno sforzo che si concretizza attraverso la manipolazione del sistema piuttosto che attraverso influenze dirette sui comportamenti» (Ivi: p. 81). Ora, le politiche di residenza sembrano caratterizzarsi prevalentemente come politiche regolative, in quanto vincolano il riconoscimento formale della presenza all’interno di un dato territorio al soddisfacimento di determinati requisiti. In questo senso, condizionano i comportamenti individuali introducendo obblighi e sanzioni allo scopo di far rispettare specifiche norme: “se il soggetto X vuole iscriversi nei registri anagrafici del Comune Y deve disporre di un dato reddito, di un alloggio adeguato, ecc.; altrimenti, l’iscrizione è negata”. Il principio di esclusione, inoltre, è qui piuttosto chiaro: lavoro, reddito, alloggio e pericolosità sociale costituiscono l’insieme dei criteri che consentono di stabilire se un individuo è “degno” o meno di essere incluso nella comunità. Ma le politiche di residenza si configurano anche, in una qualche misura, come politiche costitutive: l’Ordinanza di Cittadella, ad esempio, istituisce appositamente degli organismi – un’apposita commissione interna – preposti a decidere in merito all’accettabilità delle domande di residenza. La coercizione, in questo caso, si applica all’ambiente e non agli individui: è l’organizzazione amministrativa comunale, e non i soggetti che si rivolgono ad essa per chiedere l’iscrizione anagrafica, a subire delle modifiche. Le politiche di residenza, dunque, si configurano direttamente come regolative e come costitutive. Tali politiche, però, si configurano anche, indirettamente, come redistributive. L’obiettivo delle politiche di residenza, infatti, è quello di modificare gli equilibri tra i gruppi sociali riallocando tra loro i beni prodotti in una maniera assolutamente diseguale. Proprio per questa ragione tali politiche hanno uno scopo redistributivo. E per raggiungere questo scopo – una redistribuzione selettiva – non c’è che un unico mezzo: una regolazione restrittiva. In questo senso, è possibile affermare che la seconda è il necessario presupposto della prima. Conclusioni Le politiche di residenza, come abbiamo visto fin qui, coinvolgono in prima battuta il piano delle politiche migratorie. Queste ultime, dunque, sebbene rimangano ancora in larga misura appannaggio dei governi centrali (cfr. Campomori 2008), stanno interessando sempre più i governi locali. I Sindaci, in particolare, seppur con modalità giuridicamente e politicamente controverse, rivendicano in maniera crescente la propria autonomia in materia di regolazione dei flussi migratori. E questa autonomia regolativa ha effetti diretti sulle politiche per l’integrazione. Le politiche di residenza, pertanto, pongono senza dubbio una serie di interrogativi di estrema rilevanza circa il modello di integrazione che sta prendendo forma nel contesto italiano. Che senso ha, ad esempio, parlare di ‘interazione a basso conflitto’ tra i migranti e la popolazione autoctona – per citare l’espressione della Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati istituita con la legge 40 del 98 – quando si è di fronte a fenomeni locali di esclusione esplicita come quelli che abbiamo visto nel caso di Cittadella? Che senso ha parlare di integrazione come uguaglianza tra cittadini e stranieri – ossia come parità, tra i due gruppi, di risorse e di posizioni sociali e, al contempo, come parità giuridica – quando questa parità, in alcuni contesti, è palesemente negata? Le risposte a questi interrogativi non sono affatto univoche. Per cercare di decifrarle è bene tornare alla premessa da cui siamo partiti: la residenza si pone attualmente come uno status, se non alternativo, quantomeno complementare alla cittadinanza. Come tale, racchiude in sé delle promesse ma al contempo dei rischi. Nei confronti delle differenze istituite dalla cittadinanza, la condizione di residente sembra agire come uno strumento livellatore: i diritti di cui si è titolari grazie alla residenza prescindono dal possesso della cittadinanza. D’altro canto, la residenza può rafforzare quelle stesse differenze: la negazione della residenza, come abbiamo visto nel paper, ha effetti molto più dirompenti su un non-cittadino che su un cittadino. La residenza – e questo è il problema principale – diventa un potenziale e comodamente azionabile meccanismo di esclusione nel momento in cui l’accesso effettivo ai registri anagrafici è gestito in maniera del tutto arbitraria da amministratori locali chiaramente bramosi di effettuare una ‘selezione all’ingresso’ dei soggetti desiderabili e di quelli, viceversa, indesiderabili. Quello che sembra star prendendo forma nel contesto italiano, pertanto, è un sistema di inclusione/esclusione multilivello: al livello più alto troviamo la cittadinanza europea, riservata a tutti i cittadini degli stati membri ma non ai cittadini extra-comunitari, anche quando questi ultimi sono regolarmente presenti all’interno del territorio dell’Unione; al livello intermedio troviamo la cittadinanza statuale, i cui criteri di accesso variano da stato a stato; al livello più basso troviamo le ‘cittadinanze locali’, l’accesso alle quali è in parte regolato dalle Regioni e dagli Enti locali e in parte dagli stati. E questo sistema, man mano che ci si avvicina al livello più basso, può diventare più inclusivo così come può, viceversa, diventare più escludente: al livello inferiore possono essere azionati meccanismi di esclusione nei confronti di soggetti che, sulla base dei criteri vigenti ai livelli superiori, sono formalmente inclusi. Un sistema del genere produce esiti senza dubbio paradossali. Il mancato riconoscimento formale della residenza in un dato contesto locale non si traduce nell’allontanamento da quel contesto30: i soggetti a cui è impedita l’iscrizione nei registri della popolazione residente continuano in molti casi a vivere all’interno del territorio che non li riconosce formalmente. E se di fatto continuano a condurre la loro esistenza nell’ambito spaziale perimetrato dai confini amministrativi del Comune dalla cui anagrafe sono esclusi è anche perché di diritto sono autorizzati a farlo: la loro presenza nel territorio italiano – nell’intero territorio italiano, e quindi anche in quel Comune – è riconosciuta dalle leggi statuali in materia di immigrazione, ed è perciò pienamente legale. Il mancato riconoscimento giuridico a livello locale, in altre parole, non è accompagnato da una parallela mancanza di riconoscimento giuridico a livello statuale. Quella che si viene a creare, perciò, è una incongruenza tra i due livelli: nonostante sia vigente al livello superiore, una regola, in alcuni casi, è apertamente violata al livello inferiore. Riferimenti bibliografici Alexander M., 2003, “Local policies toward migrants as an expression of Host-Stranger relations: A proposed typology”, in Journal of Ethnic and Migration Studies, vol. 29, n. 3, pp. 411-430. Ambrosini M., 2005, Sociologia delle migrazioni, Bologna, il Mulino. Ambrosini M., 2010, Richiesti e respinti. L’immigrazione in Italia Come e perché, il Saggiatore, Milano. Anderson C.W., 1979, “The Place of Principles in Policy Analysis”, in American Political Science Review, n. 73, pp. 711-723. Brochmann G., 1998, “Controlling immigration in Europe. Nation-state dilemmas in an international context”, in van Amersfoort e Doomernik (a cura di), 1998, pp. 22-41. Brochmann G., 1999, “The Mechanisms of Control”, in Brochmann e Hammar (a cura di), 1999, pp. 1-27. 30 L’allontanamento da un dato territorio comunale, infatti, è disciplinato attraverso una misura denominata ‘rimpatrio con foglio di via obbligatorio’. Le leggi di riferimento sono la n. 773 del 1931, la n. 1423 del 1956 e la n. 327 del 1988. Ma questa misura ha come destinatari soggetti con un’alta capacità delinquenziale relazionata alla commissione di reati collegati a territori e contesti sociali molto precisi; soggetti, insomma, molto diversi da quelli che, sulla base dei contenuti dell’Ordinanza di Cittadella, rischiano di vedersi rifiutata la propria richiesta di iscrizione anagrafica. In generale, dunque, non sussistono elementi tali da indurre a ritenere che al rifiuto della residenza possa far seguito un foglio di via. Brochmann G. e Hammar T., (a cura di), 1999, Mechanisms of Immigration Control. A Comparative Analysis of European Regulation Policies, Oxford-New York, Berg. 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