La questione del Gesù storico quattro CHI SCRISSE i quattro vangeli? Dopo la predicazione orale, la formazione dei vari racconti (pericopi), l’elaborazione dei primi documenti scritti all’interno delle diverse comunità delle origini, la stesura dell’unico Vangelo in quattro documenti giunge alla sua fase definitiva: vengono scritti e fissati i tre Vangeli sinottici e il Vangelo di Giovanni che la Chiesa riconoscerà e tramanderà senza più toccarli. Ma chi sono gli evangelisti? E la loro testimonianza è degna di fede? I l lavoro finale della stesura dei quattro Vangeli come noi li conosciamo oggi è opera degli «evangelisti» che la tradizione antica ha identificato all’unanimità con Matteo, Marco e Luca per quanto riguarda i sinottici e con Giovani per il quarto vangelo. Costoro hanno compiuto un prezioso lavoro di redazione dell’antico materiale tramandato in vario modo e, da autentici autori, hanno composto le loro opere letterarie con un taglio personale. (ermêneutês) di Pietro, scrisse accuratamente, ma non certo in ordine quanto si ricordava di ciò che il Signore aveva detto o fatto. Infatti non aveva ascoltato direttamente il Signore né era stato suo discepolo, ma in seguito, come ho detto, era stato discepolo di Pietro. Questi svolgeva i suoi insegnamenti in rapporto con le esigenze del momento, senza dare una sistemazione ordinata ai detti del Signore. Sicché Marco non sbagliò affatto trascrivendone alcuni così come ricordava. Di una cosa sola infatti si preoccupava: di non tralasciare nulla di quanto aveva udito e di non dire nulla di falso in questo”. Questo è quanto viene esposto da Papia a proposito di Marco». La notizia rende noto anzitutto lo stretto rapporto tra Marco e l’apostolo Pietro, a proposito della composizione del Vangelo, un dato che rimarrà acquisito in tutta la tradizione successiva. Papia nota che Marco non fu discepolo diretto di Gesù, ma fu discepolo di Pietro, l’apostolo di Gesù. Per quanto riguarda il rapporto tra Marco e Pietro, si è pensato a un riferimento alla I Lettera di Pietro, che nei saluti finali ha: «Vi salutano la Chiesa, che è stata eletta come voi e dimora a Babilonia, e I. l’EVANGELISTA MARCO Riguardo all’evangelista Marco, la prima testimonianza importante che possediamo su di lui è quella che ci viene da un certo Papia, vescovo di Gerapoli che nei primi decenni del II secolo (intorno all’anno 110) aveva scritto una poderosa opera in cinque libri dal titolo «Spiegazione dei loghia (detti) del Signore» di cui sono giunti fino a noi solo alcuni frammenti. In uno di questi frammenti riportato da Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica III,39,15) dice: «[Papia] riporta a proposito di Marco, autore del Vangelo, una testimonianza che suona così: “Marco, divenuto interprete 19 II. l’EVANGELISTA MATTEO Marco, mio figlio» (1Pt 5,13). Si suppone che questa lettera, sia stata scritta a Roma (sarebbe «Babilonia» in senso polemico, apocalittico) e che Marco, che doveva era «figlio» di Pietro in senso spirituale, convertito da lui e suo discepolo. Il collegamento con il Marco della lettera di Pietro sarà fatto esplicitamente in seguito, a partire da Clemente Alessandrino e da Origene, e qualche studioso pensa che non si tratti di notizie indipendenti, ma tutte derivate da quella di Papia, perché non sarebbero esistite altre fonti, ma tutti avrebbero attinto da lui ampliando e sviluppando quanto ricavavano dalla sua testimonianza. Anche la composizione a Roma del Vangelo di Marco verrà indicata più esplicitamente da testimonianze posteriori (Ireneo, Clemente Alessandrino). Potremmo dire, riassumendo, che il Vangelo di Marco è stato scritto per i cristiani che vengono dal paganesimo e non conoscono le consuetudini e le tradizioni giudaiche: Marco si sofferma spesso a dare spiegazioni. Usa parole che difficilmente potrebbero essere capite da chi non fosse romano: centurione (ufficiale dell’esercito), speculator (osservatore), quadrante (moneta), legione (circa 6.000 uomini). Traduce invece tutte le espressioni che riporta nella sua lingua materna, l’aramaico: Boanèrghes (figli del tuono); effatà (apriti); Abbà (Padre); talità kum (fanciulla, alzati); e così via. La trama del Vangelo di Marco presuppone inoltre un’esperienza missionaria abbastanza dura in mezzo ai pagani. Nel testo troviamo insegnamenti che sembrano rivolti a confortare cristiani perseguitati. Si può dunque avanzare l’ipotesi che il Vangelo di Marco sia stato composto a Roma, subito dopo la morte di Pietro e durante la persecuzione di Nerone. In tal caso risalirebbe agli anni 64-70 d.C. Il vangelo di Matteo non dice nulla riguardo al suo autore. Gli antichi identificavano senz’altro l’evangelista Matteo col pubblicano chiamato da Gesù a seguirlo, che nel Vangelo in questione viene appunto denominato Matteo (Mt 9,9). Poiché Marco e Luca danno a questo pubblicano il nome di Levi, vuol dire che il personaggio aveva forse due nomi, come capita a molti altri (Saulo-Paolo, Simone-Pietro). Anche in questo caso la tradizione antica prende le mosse dalla testimonianza di Papia di Gerapoli, riportata da Eusebio di Cesarea: «Matteo raccolse/coordinò i detti (loghia) in lingua ebraica, e ciascuno li interpretò (ermênêuô) come poteva». I loghia di cui parla, potrebbero essere una raccolta di veri e propri detti, frasi o sentenze pronunciate da Gesù, o delle raccolte sapienziali, che Matteo avrebbe raccolto e curato (quindi ne risulterebbe una raccolta che non è l’attuale Vangelo); oppure, più probabilmente, l’autore intendeva dire che Matteo raccolse e mise in ordine i detti di Gesù in un suo Vangelo, riferendosi ad un originale aramaico del testo greco che non ci è pervenuto. L’espressione «in lingua ebraica» indica con ogni verosimiglianza la lingua aramaica come negli Atti degli Apostoli (21,40). Altra difficoltà che viene da questa notizia sorge con il verbo ermênêuô che significa interpretare ma anche tradurre. Nel primo caso si tratterebbe di un fatto generico, cioè della consueta interpretazione orale fatta nelle celebrazioni, comprendente la traduzione e la spiegazione del testo evangelico, oppure si potrebbe anche pensare ad un commento vero e proprio messo per iscritto. Nel secondo caso, più verosimile, si parlerebbe di una vera e propria traduzione. Però l’analisi degli studiosi assicura che l’attuale Vangelo di Matteo non è una traduzione dall’ebraico o dall’aramaico, ma un testo scritto originariamente in greco. Tutte le altre testimonianze patristiche 20 riguardanti Matteo sembrano dipendere da Papia: Ireneo di Lione (180 circa) scrive: «Matteo pubblicò presso gli Ebrei, nella loro lingua, uno scritto di Vangelo, mentre Pietro e Paolo predicavano a Roma e fondavano la Chiesa». In questo caso si potrebbe anche trarre una datazione per il nostro scritto, ovvero la metà degli anni ’60. Altri autori sulla stessa scia sono concordi nel dire che Matteo fu il primo a scrivere un Vangelo. Origene scrive: «Come ho appreso dalla tradizione riguardo ai quattro Vangeli, che sono anche i soli accettati dalla Chiesa di Dio che è sotto il cielo, per primo è stato scritto quello secondo Matteo, che prima era un pubblicano, poi apostolo di Gesù Cristo; egli l’ha redatto per i credenti provenienti dal giudaismo, e composto in lingua ebraica. Il secondo è quello secondo Marco, che lo ha fatto come Pietro gli ha indicato». Eusebio è della stessa opinione: «Matteo predicò in un primo tempo agli Ebrei. Poiché doveva rivolgersi anche ad altri, mise per iscritto nella lingua dei suoi antenati il suo Vangelo, supplendo così con lo scritto alla sua presenza diretta, nei confronti di coloro dai quali si allontanava». Tuttavia, il vangelo che va sotto il nome di Matteo non è la raccolta dei ricordi dell’apostolo Matteo. Anche se il Vangelo è stato posto sotto l’autorità di quel discepolo di Gesù, si tratta in realtà di un’opera che rispecchia una comunità formata da cristiani della seconda metà del I sec. Certo, esso non è frutto di immaginazione, ma si basa su tradizioni che sono giunte all’evangelista e che quest’ultimo ha raggruppato in un racconto coerente. Anche se l’autore del Vangelo si rivolge a una comunità giudaica di lingua greca, questo non esclude la possibilità che abbia avuto origine in qualche città fuori della Palestina; si propone come molto probabile Antiochia di Siria. Poiché Matteo sembra conoscere la distruzione di Gerusalemme (vi è un accenno abbastanza chiaro nella «parabola del banchetto di nozze» in 22,7), la data di composizione viene collocata negli anni ’70. III. l’EVANGELISTA LUCA (e atti degli apostoli) Anzitutto, secondo la tradizione che viene dall’antichità ma che è accettata anche dalla critica moderna, è chiaro che il Vangelo di Luca e gli Atti sono dello stesso autore. Sul Vangelo di Luca le prime testimonianze antiche risalgono alla fine del II secolo e sono quelle di Ireneo di Lione (Adversus Haereses III,1,1) e del Canone Muratoriano: entrambe queste fonti accreditano l’opinione che Luca fosse il compagno di viaggio di Paolo e suo collaboratore. Sono notizie piuttosto sintetiche e forse questa sinteticità indica che il Vangelo di Luca suscitava meno problemi rispetto ad altri. Ireneo si limita a dire: «Luca, compagno di Paolo, fissò nel suo libro il vangelo da lui annunziato». Il passo del Canone Muratoriano ribadisce le stesse informazioni, precisando che Luca è «medico», e aggiungendo alcuni altri particolari: che scrisse dopo l’ascensione del Signore, non conobbe direttamente il Signore, e scrisse a partire dalla nascita di Giovanni Battista, in base a quanto poté appurare: «Questo medico, Luca, preso con sé da Paolo come esperto della dottrina, lo compose dopo l’ascensione di Cristo secondo ciò che egli (Paolo) credeva. Neppure lui però vide il Signore in carne, e perciò cominciò a raccontare così come poteva ottenere (il materiale), dalla nascita di Giovanni». Forse, queste affermazioni si fondano su passi di lettere paoline in cui Paolo menziona un certo Luca, medico, come suo collaboratore: «Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema» (Col 4,14); «Ti saluta Epafra... con Marco, Aristarco, Dema e Luca, miei collaboratori» (Fm 23-24). Tertulliano riferisce che nella Chiesa 21 si era soliti attribuire il Vangelo di Luca all’apostolo Paolo (Adversus Marcionem IV,5,3: «Nam et Lucae digestum Paulo adscribere solent»): in questo caso Paolo sarebbe addirittura autore del Vangelo. Origene, nel prologo delle sue Omelie su Luca, si sofferma sul prologo del Vangelo di Luca notando come già esso documenti l’esistenza di una moltitudine di Vangeli, specialmente di Vangeli eretici, e afferma l’ispirazione dei quattro (Mt, Mc, Gv e Lc), sottolineando che si tratta della posizione della Chiesa. Eusebio (Historia Ecclesiastica III,4,6-7) raccoglie le varie notizie a sua disposizione e ne dà di nuove. Dice, di nuovo, che Luca era originario di Antiochia di Siria e che avrebbe conosciuto anche gli altri Apostoli: probabilmente egli interpreta così il prologo del suo vangelo dove l’autore sostiene di aver consultato i testimoni oculari, dunque gli Apostoli, per redigere il testo; forse suppone che, in quanto compagno di Paolo, lo avesse seguito anche in occasione degli incontri che egli ebbe con alcuni Apostoli a Gerusalemme. Un’altra fonte, il cosiddetto «Prologo Antimarcionita» (un trafiletto di introduzione ai Vangeli scritto nel II sec. d.C. in reazione all’eresia di Marcione) arricchisce le notizie su Luca: «Siro di Antiochia, di arte medico, divenuto discepolo degli apostoli; alla fine, avendo seguito Paolo fino al suo martirio, avendo servito il Signore senza distrazione, non sposato, senza figli, morì in Beozia all’età di ottantaquattro anni, pieno di spirito santo». La scheda che Gerolamo dedica a Luca nel suo De viris illustribus, la prima “Storia della letteratura cristiana” che sia stata composta (De vir. ill. 7), indica esplicitamente i riferimenti ai passi paolini in cui è menzionato Luca, mostra attenzione alla competenza dell’autore nella lingua greca (Graeci sermonis non ignarus), dà notizia della sepoltura e della traslazione delle reliquie a Costantinopoli, un tema che acquista molto rilievo nel IV secolo. Successivamente al IV secolo la leg- genda si impadronirà di Luca, come di altri autori: si dirà che era uno dei 70 discepoli inviati da Gesù (Lc 10,1 ss.), oppure il discepolo innominato di Emmaus (Lc 24,18); si dirà, dopo il VI sec., che fosse un pittore: un quadro di R. van der Weyden (1440) presenta Luca intento a dipingere Maria (probabilmente si allude all’attenzione con cui Luca nel suo racconto dell’infanzia parla di Maria). Di fatto Luca è poi diventato il santo protettore di pittori e artisti. Insomma: è plausibile che Luca sia stato un cristiano della seconda generazione, non un discepolo di Gesù ma un collaboratore di Paolo; era certamente un uomo di grande cultura (poco importa se fosse o meno medico), perfettamente inserito nel mondo ellenistico in cui probabilmente si è formato, ma altrettanto inserito nella fede di Israele. È difficile dire se abbia scritto il suo Vangelo prima o dopo quello di Matteo (comunque non tanto prima né tanto dopo), certo è che essi hanno usato fonti comuni ma anche materiale proprio e che la prospettiva di Luca conferma la tradizione secondo cui avrebbe scritto da e per una comunità ellenistica. Un uomo aperto, dunque, come il suo maestro Paolo. E forse proprio per questo affascinato dalla persona di Gesù, in particolare dal suo modo così universale di portare la salvezza, superando ogni chiusura e barriera, fisica e spirituale. III. l’EVANGELISTA GIOVANNI L’attribuzione del IV Vangelo all’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo, ha suscitato infiniti dibattiti e non è ancora una questione chiusa. Il primo teste certo sulla paternità del IV vangelo è Ireneo di Lione, che verso il 180 scrive: «Giovanni, il discepolo del Signore, colui che riposò sul suo petto (Gv. 13,3), ha pubblicato anche lui un Vangelo men22 tre dimorava ad Efeso in Asia». Ireneo si basava sulle testimonianze di Policarpo di Smirne (morto nel 155), il quale avrebbe conosciuto e udito parlare l’apostolo Giovanni. Ciò ci è anche confermato da Ireneo medesimo, che ricorda in altro luogo il suo incontro con Policarpo, ed il fatto che Policarpo «raccontava della sua dimestichezza con Giovanni e con le altre persone che avevano visto il Signore». Per quanto riguarda la dimora in Efeso di Giovanni, si aggiunge la testimonianza di Policrate di Efeso, che in una lettera a papa Vittore (189-198) rammenta che «è in Asia che riposano i grandi astri: [...] Filippo, uno dei dodici apostoli [...] e ancora Giovanni, che ha riposato sul petto del Signore, che è stato sacerdote [...] Costui riposa ad Efeso». Il Canone muratoriano afferma: «Il quarto degli evangeli è quello di Giovanni, uno dei discepoli. Poiché i suoi condiscepoli e vescovi lo esortavano, disse: “Digiunate con me per tre giorni da oggi e ci racconteremo a vicenda ciò che ad ognuno verrà rivelato”… Che c’è di strano, dunque, se Giovanni tanto costantemente presenta anche nelle sue lettere delle particolarità, dato che dice di se stesso: “Ciò che abbiamo visto con i nostri occhi e udito con le nostre orecchie e che le nostre mani hanno toccato, queste cose abbiamo scritto a voi” (1 Gv 1,1 ss.). Così non solo egli si professa testimone oculare ed auricolare, ma anche scrittore di tutte le cose mirabili del Signore, per ordine». L’attribuzione a Giovanni fu accettata quasi unanimemente dalla tradizione antica, a partire da Ireneo, fonte autorevole perché a contatto con l’ambiente giovanneo, ma anteriormente non dovettero mancare dubbi. Per esempio apprendiamo da Eusebio e da Ippolito che un dotto ed ortodosso prete romano, di nome Gaio, vissuto sotto papa Zefirino (199-217), ripudiava Giovanni in quanto lo riteneva opera dell’eretico Cerinto. Epifanio ci parla di una setta eretica che respingeva questo vangelo; a costoro da il nome di Alogi, ovvero negatori del Logos annunziato nel Prologo del Vangelo di Giovanni. La questione giovannea è ritornata negli ultimi secoli perché la diversità del Vangelo di Giovanni in cui, per esempio, non ci sono parabole ma grandi discorsi centrati su immagini, ha indotto la critica moderna a disconoscere la storicità del testo e a considerarlo una ricostruzione teologica tarda. Se non fosse che, alcuni papiri egiziani risalenti all’inizio del secondo secolo rendono chiaro che il Vangelo è stato scritto ancora nel primo secolo, seppure verso la sua fine, proprio come vuole la tradizione. Allora chi è l’autore di questo Vangelo? E quale è la sua attendibilità storica? Seguiamo qui il libro di J. Ratzinger, Gesù di Nazareth. È il Vangelo stesso a fare , al riguardo, una chiara affermazione nel racconto della passione. A proposito del colpo di lancia che colpì il costato di cristo è detto: «Chi ha visto ne da testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero perché anche voi crediate» (Gv 19,35). Il vangelo afferma di risalire ad un testimone oculare e costui è evidentemente quello che stava presso la croce e che è definito il «discepolo che Gesù amava». Ricorderete inoltre che questo discepolo, durante l’ultima cena, aveva il suo posto accanto a Gesù e che quando sorse la domanda circa il traditore, si reclinò «sul petto di Gesù» (13,25). Chi è dunque questo discepolo che il vangelo non identifica mai direttamente con il nome? Dai tempi di Ireneo di Lione (+ 202) la tradizione della Chiesa riconosce all’unanimità Giovanni di Zebedeo come il discepolo prediletto e l’autore del vangelo. Ma la complessità della redazione del testo solleva ulteriori domande. A questo riguardo, ancora una volta, è importante una notizia del nostro Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica, III, 39) che riporta questa testimonianza presa ancora una volta da Papia di Gerapoli: «Se da 23 qualche parte sopraggiungeva qualcuno che avesse frequentato i presbiteri, mi informavo sulle parole dette dai presbiteri, chiedendo ciò che hanno detto Andrea, Pietro, Filippo, Tommaso, Giacomo, Giovanni, Matteo o qualche altro discepolo del Signore, e ciò che dicono Aristione e Giovanni il presbitero, discepoli del Signore. Ero infatti persuaso che i racconti tratti dai libri non potevano avere per me lo stesso valore delle parole di una voce viva e sonora» Dunque, in questo passo, si distingue tra un Giovanni apostolo e l’altro detto “presbitero”. Mentre non avrebbe conosciuto il primo, Papia avrebbe conosciuto il secondo di persona. Si tratta di una notizia degna di attenzione perché, con altri indizi, rivela che ad Efeso esisteva una sorta di scuola giovannea che faceva risalire le sue origini al discepolo prediletto di Gesù, nella quale un certo «presbitero Giovanni» era poi l’autorità decisiva. Questo presbitero appare nella seconda e terza lettera di Giovanni come mittente ed autore del testo. Evidentemente non coincide con l’apostolo cosicché in questo passo del testo canonico incontriamo espressamente la misteriosa figura del presbitero. Esso doveva essere strettamente legato all’apostolo e magari aveva conosciuto persino Gesù. Dopo la morte dell’apostolo venne considerato il pieno detentore della sua eredità; nel ricordo, le due figure si sono sovrapposte sempre di più. Per concludere, Ratzinger afferma che «possiamo attribuire al presbitero Giovani una funzione essenziale nella stesura definitiva del testo evangelico, durante la quale egli, senz’altro, si considerò sempre come l’amministratore dell’eredità ricevuta dal figlio di Zebedeo» (p. 266). Si potrebbe per così dire, insomma, che l’autore del Vangelo di Giovanni è l’amministratore dell’eredità del discepolo prediletto. Il Gesù dei Vangeli, ce ne rendiamo sempre più conto, è una figura storicamente sensata e convincente. L’unico Vangelo diversamente interpretato dai quattro evangelisti, ce lo presenta in tutta la sua complessità e verità. n Il pensiero di Madre Paolina «Continua, Dio, a prenderti amorevolmente cura di noi! Lode a te per ogni lotta, per ogni sofferenza che tu mandi, come anche per ogni gioia perché ambedue, la sofferenza e la gioia, pro-vengono dal tuo cuore di padre; ed entrambe sono per la nostra salvezza». 24