Azeglio
Bertoni
Tracce di futuro
Galleria San Francesco
Galleria Napoleone Cacciani
Azeglio Bertoni
Galleria
Napoleone Cacciani
Tracce di futuro
Comune di Boretto
Testi:
Ivan Cantoni
Progetto grafico:
Fotografie:
Alessandro Bosoni
a cura di Ivan Cantoni
La Galleria d’arte San Francesco nasce a Reggio Emilia nel 2000, dapprima come
bottega di antiquariato italiano, poi come galleria di arte contemporanea intesa a
favorire e promuovere gli artisti del territorio emiliano.
Direttrici artistiche sono le sig.re Marisa Spaggiari e Giovanna Vezzosi, madre e figlia,
entrambe raffinate conoscitrici e collezioniste di antiquariato, di dipinti, sculture ed
incisioni contemporanee.
Partendo dalla considerazione che nel territorio italiano è per tradizione consolidata
molto prolifica la produzione artistica, la scelta della direzione della galleria è stata ed
è quella di selezionare in modo autorevole gli artisti del territorio e di accompagnarli
verso un mercato nazionale ed internazionale.
Via Bardi 4/B, 42121 Reggio Emilia
TEL 0522/440458
email: [email protected]
ORARI DI APERTURA
Tutti i pomeriggi 16.00 - 19.30
Esclusi lunedì e giovedì
Nata nel 2008 per iniziativa dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Boretto e
dell’Associazione Boretto Arte Cultura, che ne cura la gestione, la Galleria Napoleone
Cacciani organizza e promuove eventi di diverso genere: mostre personali, collettive,
performances, notti bianche. I suoi locali si sono trasformati nel tempo in un laboratorio
di incontro e confronto fra personalità artistiche eterogenee, accomunate da una
produzione di alto profilo tecnico e creativo.
L’attività della galleria ha fini esclusivamente culturali, non produce alcun profitto
ed è animata da un gruppo di volontari che credono nell’importanza dell’arte come
elemento costitutivo della civiltà nelle sue espressioni più alte.
Via Roma, 16 - 42022, Boretto (RE)
E-mail: [email protected]
Per contatti: 333 5242942 (curatore Ivan Cantoni)
Facebook: Amici della Galleria d’arte Napoleone Cacciani
web: http://www.csart.it/index.html?pg=35&id=73&from=4
Azeglio Bertoni
e il Novecento che non c’è
Il Novecento che c’è
Quando, nel 1958, Azeglio Bertoni si diploma presso l’Istituto d’Arte “Paolo
Toschi” di Parma, la situazione delle arti figurative in Italia è a un punto di svolta. Il
dibattito fra Realismo e Astrattismo, che aveva animato i primi anni del dopoguerra,
continuava con toni stanchi su posizioni ormai assestate. Il Partito Comunista aveva
già imposto l’ortodossia del naturalismo sociale e didascalico, lanciando l’anatema
contro chi si era avventurato sui sentieri neopicassiani suggeriti da Guernica. Lo
stesso Guttuso si era riallineato e, al massimo della trasgressione, distendeva in
spiaggia bagnanti proletarie di domenica pomeriggio. I fautori del formalismo e
dell’astrazione praticavano un linguaggio variamente neocubista e geometrizzante
di ottima qualità pittorica, ma ormai impantanato in un manierismo passibile di
innumerevoli varianti. La corrente più aggiornata era l’Informale che aveva trovato
nel gesto, nella materia e nell’esaltazione di un’emotività ancora sconvolta dagli
orrori della guerra, un modo per riformare la pittura su modelli in parte americani
(Action painting e Espressionismo astratto), in parte francesi. La direzione era
stata indicata da Michel Tapié che si era stabilito a Torino dal 1956, quattro anni
dopo aver portato Pollock ad esporre per la prima volta a Parigi. Anche Francesco
Arcangeli aveva da poco organizzato un gruppo di pittori di estrazione padana,
il cui “Ultimo naturalismo” si presentava di fatto come un informale ingentilito
da iniezioni di impressionismo e di buon carattere emiliano-romagnolo (Pompilio
Mandelli era di Luzzara, Sergio Romiti bolognese).
Restava poi una numerosa frangia di indecisi i quali, senza intrupparsi nelle file
del realismo, ma tenendosi ugualmente lontani dall’astrazione, andavano elaborando
una figurazione aggiornata con un pizzico di cubismo, un poco di colore fauve e,
occasionalmente, qualche suggestione surrealista. Variando di poco le dosi degli
ingredienti, questa figurazione dall’aria fintamente moderna si trascinerà sino alla
fine del secolo, affollando le mostre e i concorsi di provincia.
La pittura si dibatteva insomma fra manierismi di varia estrazione dai quali
faticava a trovare una via d’uscita, una fiammella di vero rinnovamento che le
permettesse di instaurare un rapporto autentico e viscerale con il proprio tempo.
Il germe del futuro per le arti figurative in Italia stava in realtà germogliando
altrove. Proprio nell’inverno di quel 1958, ultimo anno di studi a Parma per Bertoni,
Lucio Fontana, a Milano, compie i suoi primi tagli. Sempre nel 1958 Burri accede
alla Biennale di Venezia: i catrami, i sacchi, le combustioni e i ferri sono già stati
elaborati a partire dal ’52 a Roma. Da quasi dieci anni Capogrossi ha intrapreso la
via dell’astrazione e nella Biennale del ’54, con i suoi segni pseudoalfabetici, guida
l’astrattismo italiano verso l’uscita dal labirinto delle geometrie più o meno cubiste
e concretiste. Intanto, sempre nel ’54, Ettore Colla assembla le sue prime sculture
con materiali in ferro di recupero. Burri, Capogrossi, Colla sono, insieme a Mario
Ballocco, i fondatori e i principali animatori del gruppo “Origine”, con sede a Roma
(ma con attività e contatti anche a Milano). Manca soltanto l’intervento genialmente
neodadaista e duchampiano di Piero Manzoni, che espone i suoi primi Achromes nel
1958 a Milano, per aprire la strada alla rivoluzione concettuale. Castellani, Paolini,
Kounellis, Pascali, Pistoletto, Merz sono già ai blocchi di partenza per l’inebriante
corsa degli anni ’60.
L’empasse dell’arte italiana del secondo dopoguerra è finalmente sciolta, la strada
per innumerevoli ricerche è aperta e i vecchi scontri teorici sono alle spalle, ma
alle spalle questi autori si lasciano anche la pittura, il mestiere, il valore intrinseco
dell’opera come manufatto, in cui il pensiero si unisce indissolubilmente alla mano.
Il mondo poggiato sul Socle di Manzoni sarà un enorme ready-made in cui tutto
potrà divenire arte ad eccezione delle tele dipinte. Ai critici più avveduti non resterà
che registrare e sancire l’avvento di una svolta, che è invero uno spostamento di
campo, un cambio del terreno di gioco. Il problema delle arti figurative in Italia,
all’uscita dalla Seconda guerra mondiale, viene risolto sostituendo le arti stesse
con qualcos’altro e sulla natura di questo “qualcos’altro” si apriranno illimitate
sperimentazioni, sostenute da un dibattito dottissimo e vivace, tanto vivace da
proseguire ancora oggi: gli dobbiamo gli squali di Hirst, gli happening di Vanessa
Beecroft, gli hitlerini e i papi di Cattelan.
Il Novecento che non c’è
La pittura fu lasciata a dimenarsi nel pantano e nessuno se ne occupò più: la
questione era troppo spinosa e carica di problemi inveterati, tanto valeva darla
per dispersa e celebrare, quando se ne fossero perdute definitivamente le tracce,
un funerale a bara vuota. I musei cominciarono a somigliare alla tomba del Milite
Ignoto: qualcosa dentro c’era, tutti erano d’accordo sul fatto che andasse rispettato
e riverito, ma su chi e cosa fosse esattamente nessuno se la sentiva di esprimersi.
In questa eroica marcia verso un futuro senza estetica, qualcuno si stava invero
facendo carico delle sorti della pittura, non tanto per una consapevole e meditata
scelta teorica, quanto per impossibilità costituzionale a fare diversamente, per una
vocazione non reprimibile a maneggiare pennelli, colori, tele e a dipingervi sopra
qualcosa di riconoscibile (verrebbe da dire di “bello”, ma l’aggettivo, da allora,
suona scabroso, imbarazzante, soprattutto se applicato alle arti figurative).
Alcuni pittori con alle spalle una ventina d’anni di lavoro, attraversata la bufera
della guerra, non si erano “aggiornati”, o almeno non lo avevano fatto come la
maggior parte dei loro colleghi. Dopo aver preso parte ai grandi movimenti stilistici
del ventennio, trattenuto il fiato negli anni più disastrosi dell’invasione nazista,
avevano semplicemente ripreso a dipingere senza geometrizzare le forme, senza
mettere in scena i partigiani della resistenza, senza dissolvere la composizione nel
magma della materia pittorica. Uno di essi è Renato Vernizzi, colui che Azeglio
Bertoni riconosce come il proprio autentico maestro. Questi artisti erano tutt’altro
che ingenui e passatisti. Si erano liberati dalle piacevolezze e dai virtuosismi
del tardo Ottocento aderendo al rigore novecentista. Si erano staccati poi dal
formalismo dei dettami sarfattiani per aderire alla spontaneità e all’ingenuità
ricercata del chiarismo. Qualcuno, recuperando il colore, guardava al moderato
espressionismo di Corrente. Vernizzi fino agli anni ’40 aveva praticato una pittura
programmaticamente “debole”, depotenziata, quasi per dimostrare a se stesso e al
suo pubblico che le seduzioni del sensualismo decadente (alla Ettore Tito) non lo
toccavano minimamente. La successiva scelta di non aggiornarsi in senso cubista
o realista non comportava un ritorno al magniloquente accademismo ottocentesco,
tantomeno un indulgere ai mezzucci del bozzettismo di genere, giunto stancamente
sino agli anni ’20.
Vernizzi decise di dipingere e basta, seguendo la propria vocazione e il proprio
amore per un’arte che non avrebbe potuto praticare in altro modo. Recuperò il
disegno, si riappropriò di una sicurezza nella stesura della materia pittorica che aveva
messo da parte nel periodo chiarista e cercò di lavorare con freschezza, facendosi
guidare soltanto dalla propria sensibilità. Tornò alla natura senza naturalismi e alla
realtà senza realismi. Sistemò il cavalletto davanti al mondo e lo ritrasse, punto. Così
facendo si sentì vicino ad alcuni grandi del passato che avevano operato con una
simile disposizione d’animo (Hals, Velasquez, Manet), ma non tentò riesumazioni
citazioniste, né si fece imitatore di nessuno.
Quando Azeglio Bertoni lo conobbe da allievo all’Istituto “Toschi” di Parma,
Vernizzi si trovava in questa fase, la più matura, del suo percorso artistico. Abitava
e aveva lo studio a Milano, la città in cui si stavano ponendo le basi dell’arte
contemporanea italiana, una straordinaria avventura intellettuale in cui la pittura,
in senso proprio, non avrebbe trovato alcun ruolo. Molti studenti aderirono con
passione al nuovo che avanzava e divennero i fondatori delle neoavanguardie. Erano
ragazzi nati negli anni trenta, alle soglie della guerra. Castellani è del ’30, Manzoni
del ’33, Lo Savio del ’35, Kounellis del ’36, Paolini del ’40. La fama e le sale dei musei
li attendevano. La critica ufficiale infatti, dopo un periodo di attesa, si accorse di
loro e ne fece l’oggetto privilegiato, anzi esclusivo, delle proprie indagini. C’era però
qualcuno che la pittura, il disegno, il colore ce li aveva nel sangue e non riusciva a
decidere di lasciarseli alle spalle. Costoro raccolsero l’insegnamento di maestri come
Vernizzi e ne fecero il punto di partenza per il proprio percorso, per la ricerca della
propria strada. Da secoli la storia dell’arte procedeva così. Lavorarono in silenzio,
nel più completo isolamento, esclusi dalle grandi manifestazioni, condannati al
disinteresse. Insieme ai loro insegnanti, essi costituiscono “Il Novecento che non c’è”,
ossia una linea dell’arte del secolo passato che nessuno ha studiato, a cui nessuno
ha dato visibilità, ma che esiste e ha prodotto molta pittura, tutta da studiare e
da capire. Basta sfogliare i dizionari degli artisti prodotti in ambito provinciale o
regionale per scoprire quanti abbiano dipinto con risultati di alto livello qualitativo,
nell’era della morte ufficiale della pittura.
Oggi, in un tempo che vede finalmente il ritorno della pittura sulla ribalta dell’arte
contemporanea, è indispensabile indagare questi autori del secondo Novecento per
capire se e come abbiano avuto un ruolo nella rinascita della figurazione a partire
dagli anni ‘80-’90.
Azeglio Bertoni: tracce di futuro
Fra le molte vie che attendono di essere indagate, noi seguiremo quella di Azeglio
Bertoni il cui segno distintivo è la ricerca continua, senza scorciatoie e cedimenti, di
una figurazione capace di tradurre in forme, colore, volumi, il movimento interiore
prodotto nell’artista dalla realtà di ogni giorno: le persone, gli eventi, la natura.
Bertoni, il cui lavoro si dipana in un arco temporale di cinquant’anni e non mostra
segni di stanchezza, ha operato scelte radicali e controcorrente.
In continuità con l’indicazione fornitagli da Vernizzi, ha azzerato la situazione
della pittura ed è ripartito dalle basi: dalla realtà e dalla strumentazione essenziale
della propria arte. Null’altro. Così, senza farsi guidare da assunti teorici provenienti
dall’esterno e senza proporselo come obiettivo, ha contribuito a tirare fuori la pittura
dal pantano in cui i suoi predecessori l’avevano trascinata, sentendosi obbligati ad
aggiornarla sulla base di modelli formali solo apparentemente moderni, di fatto
vecchi di almeno quarant’anni.
Egli ha scelto il ripiegamento in una dimensione intima, familiare. Mentre intorno
a lui imperversa la bufera degli happening e delle performance, dipinge un universo
circoscritto nel quale i modelli sono la moglie, i figli e i nipoti, gli amici; i temi sono
per lo più emanazione diretta del suo entourage di relazioni e affetti, con aperture
verso la spiritualità cristiana. A rappresentare le grandi lacerazioni del nostro tempo,
le correnti che attraversano la storia sociale e politica, le ossessioni dell’attualità, ci
sono i maestri di estrazione concettuale, i protagonisti delle biennali, di Documenta,
dei palcoscenici ufficiali dell’arte contemporanea. La pittura figurativa, dopo la
definitiva rinuncia alla magniloquenza ottocentesca, ai plasticismi novecentisti,
alle violenze neoespressioniste e all’armamentario neocubista, sarebbe capace di
confrontarsi in modo diretto e scoperto con il proprio tempo, con un tempo in cui
l’immagine impera dalla televisione al web e può essere facilmente manipolata da
chiunque?
A questa domanda gli artisti del “Novecento che non c’è” non hanno dato una
risposta. Essi hanno liberato la pittura e i suoi mezzi da ogni manierismo, ma
l’hanno tenuta al sicuro e al calduccio nel salotto di casa. Da lì alcuni giovani l’hanno
prelevata e gettata nel mondo contemporaneo, nelle città, nelle metropolitane, nei
luoghi di lavoro e di svago, nei cinema, nei centri commerciali, e poi, per chiudere
il cerchio, di nuovo nella dimensione privata delle case e delle famiglie di oggi.
Altri l’hanno spedita in universi fantastici e misteriosi, affidandole l’esplorazione
del subconscio dell’uomo contemporaneo o delle terre caleidoscopiche del mondo
psichico. Indubbiamente questa pittura, oggi disinibita e capace di confrontarsi con
una contemporaneità spaventosamente complessa, è arrivata sino a noi grazie al
lavoro di artisti come Azeglio Bertoni che l’hanno tenacemente difesa e praticata ad
alti livelli nei decenni più sfavorevoli della storia dell’arte. Ora passano il testimone a
una generazione di artisti figurativi, alcuni dei quali sono loro allievi diretti, disposti
a intrecciare un rapporto vitale e privo di complessi di inferiorità con il proprio
tempo.
Finalmente la pittura ha ritrovato il proprio futuro.
La scultura: una storia a sé.
La scultura nel secondo Novecento ha avuto un destino meno drammatico rispetto
alla pittura. Alcune grandi figure hanno attraversato la guerra mantenendo viva la
figurazione senza incorrere nell’ostracismo della critica. Marino Marini e Manzù,
Minguzzi, Emilio Greco e, successivamente, Perez, Bodini, Vangi hanno convissuto
con Cascella, Pomodoro, Consagra senza essere banditi dalle pagine dei volumi di
storia dell’arte. Persino a Messina, pur sottoposto a giudizi tanto inclementi quanto
frettolosi, è stato concesso di esistere. Di fatto nella scultura i manierismi e gli
impantanamenti non sono mancati, il cubismo e l’espressionismo di ritorno hanno
prodotto tanti monumenti e soprammobili fra il repellente e il decorativo, ma il
giudizio complessivo della critica è stato favorevole.
Azeglio Bertoni è tanto pittore quanto scultore e la sua formazione in questo campo
non ha nulla di provinciale. Dopo l’istituto d’arte si è specializzato a Salisburgo nella
scuola diretta da Oskar Kokoschka, dove l’insegnamento della scultura era affidato
a Giacomo Manzù, di cui si può considerare un allievo diretto.
Attraverso Manzù egli viene a contatto con quella linea della scultura italiana
che, alle soglie del Novecento, rinuncia tanto ai volumi pieni e tesi del classicismo,
quanto alla pretesa verità del naturalismo. La statuaria ottocentesca, con il suo
repertorio di eroi mitologici e romantici – ma anche di contadini, mendicanti e
operai – viene così archiviata a favore di immagini modellate rapidamente, con
superfici increspate e vibranti, che esprimono con immediatezza l’emozione prodotta
nell’artista da personaggi e situazioni della quotidianità. Dalla Scapigliatura del
Grandi all’Impressionismo di Medardo Rosso, il percorso di avvicinamento dei
procedimenti e dei fini della scultura a quelli della pittura è continuo e progressivo,
sino a giungere ad opere plastiche pensate per essere percepite da un solo punto
di vista. Questa è la tradizione con la quale l’opera di Azeglio Bertoni conserva
profondi e vitali legami.
A differenza del suo maestro, che modulava con dolcezza le superfici accarezzandole
e increspandole senza scavarle in profondità, Bertoni pratica un modellato vigoroso,
entra con forza nella forma e genera un chiaroscuro marcato. L’effetto è vibrante e
pittorico, ma si carica di un drammaticità che in Manzù è assente. Le sue figure ci
offrono alcuni effetti di luce e ombra propri, a rigore, della sola pittura. Soprattutto
nelle composizioni più complesse e di maggiori dimensioni, accade che un lato del
volto dei personaggi appaia modellato in maniera più sommaria, meno ricca di
particolari: è il lato in ombra, quello che, nell’intenzione dello scultore, non deve
essere illuminato in modo diretto, proprio come in un dipinto, in cui è il pittore a
determinare la provenienza dalla luce. Nel lavoro di Azeglio Bertoni pittura e scultura
sono emanazioni della stessa percezione della realtà e nascono da un processo creativo
sostanzialmente univoco. Come la sua pittura è priva di manierismi, così lo è la sua
scultura, in cui l’impressione sensibile ed emotiva generata dal soggetto si traduce
immediatamente nel gesto plastico, fresco e spigliato. Nel secolo dei manifesti e
delle dichiarazioni di poetica, una simile prassi operativa appare quanto mai
controcorrente, singolarmente scevra da sovrastrutture concettuali e da “messaggi”
di qualsiasi natura. Una maniera scomoda, anche questa, di operare nel Novecento.
Ivan Cantoni
Omaggio a Renato Vernizzi, terracotta, cm 43x25x18, 2013
Ritratto di Cesare Zavattini, bronzo, cm 39x28x39, 1980
Ritratto del fratello Adelchi, olio su tela, cm 40x30, 1971
a destra Nello studio, olio su tela, cm 50x40, 1980
11
Marina a Sturla
olio su tela, cm 35x40, 1964
Zavattini in bicicletta,
bronzo, cm 47x39x45, 2001
13
Ritratto di Ilario, bronzo, cm 28x15x18, 1988
Sarah sulla sedia, bronzo, cm 44x29x27, 1978
Pescatorello, bronzo
cm 28x41x26, 1996
15
Sinfonia d’autunno, olio su tela, cm 70x60, 1968
Mele cotogne, olio su tela, cm 30x40, 1997
Codisotto. Campo di grano (particolare), olio su tela, cm 60x70, 1978
17
Autoritratto con gli occhiali, olio su tela, cm 50x40, 1980
La pace, bronzo, cm 27x15x19, 1988
Inverno, bronzo, cm 48x60x35, 2010
Il martire, gesso, cm 78x55x35, 2006
23
Il pellegrino, gesso patinato, cm 67x45x27, 2008
25
Profilo di Sarah, olio su tela, cm 30x25, 1992
a sinistra Sarah e Briciola, olio su tela, cm 80x60, 1987
27
Autoritratto con basco, olio su cartone telato, cm 40x25, 2004
a sinistra Don Chisciotte e Dulcinea, olio su tela, cm 70x60, 2007
Mamma per gioco, terracotta, cm 39x30x34, 2013
Ritratto dello scultore Criscuoli, terracotta, cm 30x20x25, 2013
AZEGLIO BERTONI
Dedico la mostra
ai miei famigliari e agli amici che mi hanno sostenuto.
Azeglio
È nato nel 1939 a Codisotto di Luzzara, dove vive a lavora.
Si è diplomato all’Istituto “P. Toschi” di Parma con i maestri R. Vernizzi, A. Pizzinato,
U. Lilloni. Nel 1958 completa la propria formazione a Salisburgo sotto la guida di Giacomo
Manzù, presso la scuola delle arti diretta da Oskar Kokoschka.
Oltre a dedicarsi ininterrottamente alla pittra e alla scultura, ha svolto la professione di
insegnante di disegno e storia dell’arte nei licei. Nell’ambito di un’attività espositiva più
che quarantennale le sue opere sono state ospitate da sedi prestigiose: il Convento dei
Cappuccini di Assisi, la Galleria Comunale di Orange (Francia), la Galleria d’Arte Moderna
Ricci Oddi di Piacenza, il Museo del Cinema di Roma.
Dal 2000 al 2012 ha curato la rassegna di pittura, grafica e scultura “arteinartiemestieri”
istituita dalla Fondazione Scuola di Arti e Mestieri “F. Bertazzoni” di Suzzara.
Azeglio Bertoni
Via Nazionale, 213 - 42045 Codisotto di Luzzara (RE)
0522 976750
[email protected] - www.azegliobertoni.it
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