gli altri casi nazionali IL CASO FRANCESE slides Lezione 19.05.2010 Un caso di contraddittoria lettura L’industrializzazione francese appartiene, nelle sue regioni nord-orientali, alla prima industrializzazione continentale che coinvolse (tra gli anni ’10 e ‘20 dell’800) quella macroregione sovranazionale comprendente anche le città-stato ed i principati tedeschi nord-occidentali, oltre ad i Paesi Bassi, all’epoca includenti anche quello che poi divenne (1830, 1839) lo stato indipendente del Belgio. Si trattava di una macroregione sovranazionale, che - in assenza di ostacoli fisici - consentì un vivace interscambio di idee, esperienze, uomini e merci, dando l’abbrivio al processo industrializzante. Se, tuttavia, da un lato è indubbio che la Francia anticipò i paesi germanici in un deciso cambiamento dalla manifattura tradizionale al sistema di fabbrica, è altrettanto vero che essa - dopo una partenza veloce – conobbe non pochi rallentamenti nella sua rincorsa ai ritmi di sviluppo britannici, lasciandosi infine superare dalla Germania, decisamente avviata all’unificazione nazionale. Gli interrogativi sull’intervenuto ritardo/rallentamento francese, sia nell’ovvio confronto con la Gran Bretagna che rispetto alle migliori performances tedesche, portano ad individuare il nodo di una minore meccanizzazione relativa nel processo di industrializzazione, dovuto a a) un minor costo del lavoro manuale b) al differenziale nella produzione (ed uso di carbone) in Francia rispetto a Gran Bretagna e Germania In realtà, il minor utilizzo di carbone, e quindi di uso di energia da vapore, trova spiegazione (a parte i più contenuti giacimenti carboniferi del paese) nell’ampio utilizzo di energia idraulica, più economica, e comunque maggiormente disponibile in Francia rispetto a Gran Bretagna e Germania data la ricchezza dei suoi corsi d’acqua. i fattori d’ordine sociale In realtà, nelle analisi degli storici dell’economia sul rallentamento del processo di industrializzazione d’oltralpe risulta più convincente quella che ha posto l’accento sull’ostilità all’industrializzazione di vasti strati sociali, che si sentivano minacciati dai processi di produzione meccanizzati. DI TALE OSTILITA’: vi è chi ha enfatizzato l’ostilità degli artigiani urbani e dei vecchi ceti mercantili, che avrebbe frustrato i nuovi imprenditori nella capacità/possibilità di produrre innovazione e cambiamento sociale. Il che portava come corollario a ritenere che l’imprenditore francese fosse un “soggetto conservatore”, e in quanto tale intrinsecamente/naturalmente restio al nuovo. Non era proprio così, anche se è indubbio che gli imprenditori francesi della prima industrializzazione (e non solo quelli) fossero restii – tranne che nella siderurgia, nelle compagnie ferroviarie e nei c.d. “grandi lavori” – alle forme societarie d’impresa. Il che, tuttavia, non dimentichiamolo, era comune anche ad altri paesi continentali, e per certi versi alla stessa Gran Bretagna. Era realtà il timore di perdere la propria “indipendenza” che portava gli imprenditori francesi a rifuggire dal trasformare la propria impresa in società, fosse essa di persone o azionaria. Tanto più che tali imprenditori riuscivano a realizzare un elevato tasso di profitto, che tuttavia – e qui sta la mancata crescita di dimensioni delle imprese – veniva il più delle volte riversato in investimenti immobiliari in una vocazione all’accumulazione della ricchezza in quanto tale. «Una gestione molto prudente, impianti obsoleti, ed elevati profitti», come sostiene lo storico inglese dell’economia David Landes, non erano per il modo migliore per crescere in un mondo ormai estremamente competitivo. Da cui imprese di piccole dimensioni, ancorate alla famiglia, e con una scarsa propensione ai grandi affari… La realtà appare comunque più articolata… Vi è stato un deciso contributo francese allo sviluppo economico europeo: organizzazione bancaria sviluppo delle ferrovie promozione nuovi settori industriali (vetro, miniere, metallurgia) nonché una forte propensione ad una presenza internazionale, molto più della Gran Bretagna e della Germania, attraverso una significativa esportazione di capitali Va comunque rilevato come l’agire imprenditoriale (in Francia, come in altri paesi) sia l’inevitabile riflesso della mentalità della comunità nella quale l’imprenditore si trova a muoversi… Il che sta a significare che, per interazione reciproca, maturano nel tempo cambiamenti che portano la comunità ad accettare come naturali i comportamenti imprenditoriali: non più considerati “devianti”, bensì connaturati ad una società data: ma si tratta di processi di lunga durata. STRUTTURA DELL’IMPRESA FRANCESE Alla base della struttura d’impresa francese vi è il Code de Commerce napoleonico del 1807, che rappresenta una efficace sintesi tra regole d’ancien régime e le acquisizioni borghesi del periodo rivoluzionario Riassumiamone le forme: a) Ditta individuale b) Società semplice, o impresa familiare (tale società era di semplice costituzione, con il solo obbligo di depositare lo statuto nei registri della locale Camera di Commercio). Si doveva incorporare nel nome della società quello della famiglia (Bonnet frères; J. Jeannot et fils; Fils de Ph. Marat ; J.J. Cousteau de Ph. Cousteau et frères ecc.). Essa fu nell’800 il tipo di impresa più diffusa. c) Società in accomandita, formata tra soci legalmente responsabili della gestione, e soci c.d. “creditori” o “dormienti”. Il capitale era suddiviso in quote, ma poteva essere in parte anche sotto forma di azioni. I soci “gestori” rispondevano illimitatamente delle obbligazioni sociali; quelli “dormienti” per il solo capitale conferito. La costituzione della società in accomandita era estremamente semplice, richiedendo solo una sua registrazione pubblica con indicati i nomi dei soci gerenti, e non invece quelli dei soci “dormienti”. d) Società per azioni, associazione di capitali fondata per uno scopo determinato, che doveva essere obbligatoriamente incorporato nel nome dell’impresa (es. Société des eaux). Il capitale era rappresentato da azioni di valore nominale, liberamente trasferibili sul mercato mobiliare. Fino al 1867 queste società furono strettamente controllate dallo Stato, già dal momento della loro formazione. I loro Statuti dovevano infatti essere sottoposti al Consiglio di Stato, che poteva anche imporre modifiche, e solo successivamente concedeva con Ordinanza o Decreto l’autorizzazione ad operare. Ogni sei mesi, poi, la società azionaria doveva depositare un rapporto finanziario a Prefetto, Tribunale locale e Consiglio di Stato. Il motivo? la diffidenza generale che circondava tali istituzioni… La Società semplice fu per tutto il XIX secolo la forma più diffusa d’impresa. Essa si prestava infatti sia alla gestione di imprese di piccole dimensioni, che di taglia maggiore, purché permanessero familiari. Era anzi il desiderio di non perdere il controllo familiare che portava i proprietari ad adottare, e a conservare tale status giuridico. La Società in accomandita era scelta per le imprese di maggiore dimensione, dove erano necessari capitali anche di terzi. Ma non è detto che una impresa avviata (o trasformata) in tale forma, poi lo rimanesse… il motivo? il già citato desiderio dell’imprenditore (o della famiglia imprenditoriale originaria) di recuperare la propria “indipendenza”. La Società per azioni o era una evoluzione delle Società in accomandita, o nasceva come tale per l’importanza del business prescelto: ad esempio nelle banche, nelle assicurazioni, nei canali, nelle ferrovie, nei grandi lavori, nella siderurgia… Scarse, tuttavia, furono – almeno fino agli anni ‘70/‘80 dell’800 – le società a capitale diffuso… Fu l’introduzione delle (costose) innovazioni tecnologiche - ad es. il processo Bessemer nella metallurgia - a portare ad una molteplicità di fonti di approvvigionamento finanziario… IL FINANZIAMENTO INDUSTRIALE autofinanziamento ruolo centrale non solo nelle imprese familiari, ma anche nelle grandi imprese siderurgiche, minerarie e dei grandi lavori (il livello più elevato fu raggiunto tra la fine dell’Ottocento ed il primo decennio del Novecento) credito bancario Il ricorso alle banche e ad altre fonti di finanziamento esterno si sviluppò gradualmente e in modo diseguale, a seconda delle regioni, del tipo di impresa e del tipo di anticipi richiesti. La posizione degli imprenditori ottocenteschi in merito alla questione del finanziamento bancario è ben nota, dato che essi temevano la ipersensibilità dei banchieri al minimo variare della congiuntura e, soprattutto, il panico che li coglieva nei periodi di crisi. Al minimo segnale di una restrizione monetaria, le banche - soprattutto quelle private - erano solite restringere immediatamente le linee di credito o a chiedere il rientro dalle esposizioni. Da qui una forte resistenza all’indebitamento bancario. La diffidenza era comunque reciproca: se gli industriali ritenevano i banchieri troppo esosi, od addirittura avidi, i banchieri erano restii ad esposizioni di lungo periodo diffidando della capacità degli imprenditori di far fronte ai propri impegni. E nondimeno i due settori non furono mai completamente impermeabili l’uno all’altro e con il tempo andò sviluppandosi una certa osmosi. QUALI BANCHE ? i banchieri privati le “Caisses” (banche commerciali, post ’40) le banche svizzere (Basilea) le grandi banche d’affari: - Crédit Mobilier (dirette partecipazioni azionarie nei grandi business ferroviari, acquedottistici e del gas da illuminazione) - Crédit Lyonnais (imprese tessili e meccaniche) - Société Générale (imprese siderurgiche ed elettrochimiche) LA GESTIONE DELLE IMPRESE Nelle imprese “imprenditoriali” è evidente la centralità decisionale del capo-azienda, e cioè del “padrone” Nelle grandi società azionarie, compaiono già negli anni ’60/70 dell’800 tre tendenze fondamentali, e tra loro collegate: - divisione del potere - specializzazione delle funzioni - ascesa dei tecnici I nodi delle grandi società azionarie: - strutturale limitato frazionamento azionario e ruolo “pesante” delle banche d’affari - le ingenti “riserve” - il problema degli ammortamenti - la redditività…