ISSN 2039-6503 OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA n. 1 - gennaio-marzo 2012 Anno V - n. 1 - gennaio-marzo 2012 - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - DCB Roma Avvocatidifamiglia La normativa sulla professione forense dopo le recenti riforme L’adempimento degli obblighi parentali e l’art. 709 ter c.p.c. Infedeltà coniugale e risarcimento dei danni Tutela della riservatezza e diritto di famiglia Avvocatidifamiglia OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA Avvocati di famiglia Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Nuova serie, anno V, n. 1 - gennaio-marzo 2012 Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4 marzo 1996 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - DCB Roma Amministrazione Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Centro studi giuridici sulla persona Via Nomentana, 257 - 00161 Roma Tel. 06.44242164 Fax 06.44236900 ([email protected]) Direttore responsabile avv. Gianfranco Dosi ([email protected]) Comitato esecutivo dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia avv. Gianfranco Dosi (Roma) avv. Maria Giulia Albiero (Messina) avv. Germana Bertoli (Torino) avv. Matilde Giammarco (Chieti) avv. Corrado Rosina (Barcellona Pozzo di Gotto) avv. Ivana Terracciano Scognamiglio (Napoli) Redazione Direttore responsabile avv. Gianfranco Dosi Impaginazione e Stampa EUROLIT S.r.l. 00133 Roma - Via Bitetto, 39 - Tel. 06.2015137 ([email protected]) SOMMARIO Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 Sommario Editoriale Avvocati di famiglia: l’esigenza di un nuovo paradigma professionale 2 (Gianfranco Dosi) Il processo senza avvocato 2 (Emanuela Comand) Professione forense Il testo coordinato della normativa sulla professione forense dopo le recenti riforme 4 Studi e ricerche L’adempimento degli obblighi parentali. Luci ed ombre dell’art. 709-ter c.p.c. 7 (Rosaria Capozzi) Privacy ed istruttoria nel processo di famiglia 11 (Matteo Santini) Giurisprudenza commentata Due sentenze a confronto sul risarcimento per infedeltà coniugale (Cass. 15 settembre 2011, n. 18853, Corte App. Genova 20 maggio 2006) 19 (Cesare Fossati) I nonni non hanno diritto di intervento e non hanno diritti autonomi (Cass. 27 dicembre 2011, n. 28902 e Cass. 11 agosto 2011, n. 17191) 41 (Domenico Maduli) Corte costituzionale L’impugnazione di riconoscimento non ha termini di decadenza (Corte cost. 12 gennaio 2012, n. 7) 46 Il termine per il disconoscimento non è sospeso per l’incapacità naturale (Corte cost. 25 novembre 2011, n. 322) 49 Lo straniero può sposarsi anche senza permesso di soggiorno (Corte cost. 25 luglio 2011, n. 245) 51 Cassazione Disconoscimento e opponibilità agli eredi (Cass. 16 gennaio 2012, n. 430) 53 La violazione della promessa di matrimonio (Cass. 2 gennaio 2012, n. 9) 54 Audizione del minore (Cass. 19 ottobre 2011, n. 21651) 55 Convivenza more uxorio e assegno di divorzio (Cass. 11 agosto 2011, n. 17195) 57 In libreria Tassazione e famiglia 60 (Paola Aglietta) Il giusto processo e la protezione del minore 60 (a cura di Alessandra Pè e Antonella Ruggiu) Manuale di diritto di famiglia 62 (Michele Sesta) Minori in giudizio. La convenzione di Strasburgo 62 (a cura di Giulia Contri) La separazione personale dei coniugi 64 (a cura di Gilda Ferrando e Leonardo Lenti) Dossier La sottrazione internazionale di minori 27 (Rossella Atzeni) gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 1 EDITORIALE Avvocati di famiglia: l’esigenza di un nuovo paradigma professionale GIANFRANCO DOSI, AVVOCATO DEL FORO DI ROMA l coordinamento dell’Osservatorio - formato dai presidenti delle settanta sezioni territoriali e dai responsabili delle Regioni - avvierà nei prossimi mesi una riflessione sul futuro della professione forense nel diritto di famiglia. Dopo la messa a punto che abbiamo fatto di un nuovo modello processuale unitario per le cause nelle materie del primo libro del codice civile, conclusasi con la presentazione di un vero e proprio progetto di legge presentato nell’aula magna della Cassazione lo scorso 16 dicembre e ora portato all’attenzione dei parlamentari, abbiamo deciso di puntare l’obiettivo sulla nostra professione. Si tratta di un tema quasi inevitabile dal momento che la riflessione che abbiamo fatto sul processo ci ha aiutato a capire che a nuove regole nelle proce- I dure devono seguire una nuova deontologia e soprattutto un nuovo paradigma professionale. I paradigmi tradizionali, sia quello contenzioso (l’avvocato che combatte la causa nell’asserito esclusivo interesse del suo cliente) ma anche quello più avanzato che considera necessario uno sforzo professionale teso soprattutto alla mediazione dei conflitti anziché alla loro risoluzione contenziosa, non sono più sufficienti. Intendo riferirmi alla necessità che gli avvocati acquisiscano una nuova competenza professionale in questo sta il nuovo paradigma - consistente nella capacità di utilizzare i modelli contrattuali per la soluzione dei conflitti nell’area dei diritti disponibili. La mia opinione è che i tribunali saranno fatalmente e inevitabilmente impegnati in futuro nel contenzioso su diritti indisponibili, mentre il contrasto sui diritti disponibili avrà come sede compositiva principale la mediazione o l’arbitrato. L’auspicio dell’avvocatura nel suo complesso oggi sembra andare nella direzione opposta ma temo che i fatti porteranno nella direzione che ho indicato. Una ri- Il processo senza avvocato in pericolo perché non esiste libertà laddove la funzione giurisdizionale sia condizionata dal denaro e dal potere economico. Consentire l’ingresso all’interno di uno studio legale ad un socio non avvocato, anche riducendo la misura del suo apporto economico ed estromettendolo dall’attività squisitamente forense, non offre adeguate garanzie di rispetto delle nostre norme di deontologia. La deontologia non è un corollario superfluo della nostra professione, ma la linfa che alimenta ogni nostra azione e dà un senso al nostro lavoro quotidiano. L’avvocato è non fa. Nel momento in cui una persona si rivolge all’avvocato per essere assistita si affida completamente al suo operato, consegna nelle sue mani i suoi segreti, lo investe del potere di decidere al suo posto. Esistono poche professioni che mettano due essere umani a così stretto contatto, che consentano al difensore di offrire ad un imputato, ad un detenuto la speranza del riscatto o della ribellione se ha subito un ingiustizia. La libertà di essere difesi caratterizza la democrazia: nei regimi dittatoriali scompare la figura dell’avvocato, spesso lui stesso vittima del sistema. Il processo senza avvocato è un processo senza regole ed un processo senza regole è un processo che non tutela i diritti delle persone. L’art. 24 della Costituzione sancisce l’inviolabilità del diritto ad un difensore. Ciò significa che nel nostro ordinamento non è ipotizzabile un processo penale, una causa civile senza la nostra partecipazione. E poiché il processo è frutto di un meccanismo complesso, non solo la parte deve essere assistita da un avvocato, ma l’avvocato deve essere competente. Dove manchi un avvocato o l’avvocato sia incompetente, il rischio di carenza di giustizia è alto. È vero che i nostri contraddittori naturali sono i magistrati e che spetta loro applicare il diritto al caso concreto, ma senza la contemporanea presenza delle tesi contrapposte promosse dagli avvocati all’interno di un processo, i magistrati finirebbero per esercitare non più una funzione, ma un potere assoluto. Gli avvocati debbono recuperare la loro dignità e la consapevolezza del ruolo che la Costituzione ha riservato loro. Gli avvocati hanno il dovere di informare i cittadini che la loro libertà è 2 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 EDITORIALE meditazione serena del sacrosanto diritto di difesa (art. 24 cost.) sarà comunque necessaria dopo la decisione della Corte costituzionale e l’avvocatura non potrà eludere questa riflessione. Vedremo la Corte costituzionale nei prossimi mesi quale direzione imprimerà a questa prospettiva. A prescindere però da quello che sarà lo scenario generale nel quale l’ordinamento giudiziario si collocherà in futuro (se lo scenario della prevalente soluzione contenziosa oppure quello della composizione residuale dei conflitti nelle aule di giustizia) è però necessario, subito, valorizzare la funzione dell’avvocato di famiglia garantendogli una formazione indirizzata all’uso competente degli strumenti contrattuali. Si tratta di una abilità ulteriore rispetto a quella tradizionale agita nella rappresentanza in giudizio. Ed ulteriore anche rispetto alla sensibilità mediativa che pure contraddistingue le competenze professionali di molti colleghi, anche di quelli che non hanno una specifica formazione nella mediazione familiare. L’avvocato combatte quotidianamente per gli altri e per tutelare gli interessi di una persona diversa da sé. Smettiamola di considerarci degli “optional” all’interno del sistema della giustizia. Cominciamo a pretendere il rispetto che ci è dovuto, ma facciamo di tutto perché questo rispetto ci venga riconosciuto per la nostra lealtà, il nostro coraggio, la nostra capacità di rappresentare la difesa massima per ogni diritto violato. Noi avvocati di famiglia più di altri conosciamo l’empatia che ci lega alla parte. Molto spesso parliamo di clienti, ma sono pochi gli avvocati che considerano le persone che assistono solo clienti. In realtà sono persone che chiedono il nostro aiuto, che reclamano la nostra attenzione, che ci usano come zattere per superare momenti difficili. Noi ci occupiamo di diritti, ma dietro ai diritti di una famiglia spezzata, violata, o semplicemente divisa si nascondono dolore, rabbia, frustrazione. Quando tutto il mondo sembra crollare, gli avvocati sono lì pronti a sostenere, difendere, aiutare. Non è solo il codice che ci consente di aiutare le persone che soffrono perchè hanno perso un figlio o non possono avere un figlio o pur avendolo se lo Alla capacità di negoziare una soluzione dovrà accompagnarsi quella di trovare lo strumento negoziale adeguato, s’intende ove possibile al momento che l’uso degli strumenti negoziali presuppone l’esistenza di una ricchezza da negoziare: accordi prematrimoniali, contratti tra conviventi, convenzioni matrimoniali, trasferimenti di ricchezza in funzione compensativa di squilibri patrimoniali, trascrizione di vincoli di destinazione, accordi di separazione e di divorzio o comunque postconiugali, testamento, sistemazioni successorie, patti di famiglia. Uno spettro ampio di soluzioni contrattuali da adeguare ad ogni specifica situazione. Un avvocato competente, quindi, nell’uso degli strumenti contrattuali. La formazione tradizionale dell’avvocato non è quella degli atti e dei contratti. Per questo è necessario un grande sforzo di formazione. In questo sta il nuovo paradigma professionale. Una sfida che nel momento difficile che l’avvocatura sta attraversando non possiamo non accettare. sono visti strappare. È la capacità di ascoltare, di recepire le sofferenze altrui che ci rende indispensabili. Perchè dove esiste la sofferenza quasi sempre c’è un diritto negato o inespresso. Ma l’avvocato è anche quel soggetto scelto dalla Costituzione per superare il pathos e razionalmente, con distacco saper valutare la situazione dal punto di vista tecnico giuridico, dare corpo alle istanze affettive ed umane, trasformare una generica domanda di giustizia in un’azione legale concreta. L’alto valore sociale della nostra professione è proprio la capacità di dare risposte, trovare soluzioni, proporre alternative, individuare il punto di equilibrio tra diverse pretese. Il giudice giudica, decide. Ma l’avvocato è quello che, a monte, individua la soluzione di un problema ed utilizza degli strumenti tecnici per dare risposte ad istanze squisitamente umane. Gli avvocati non vogliono essere costretti a vendere il loro sapere al miglior offerente ed al prezzo più basso. È vero: non solo non siamo merce, ma non vogliamo neppure diventare solo i venditori di noi stessi. Emanuela Comand gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 3 PROFESSIONE FORENSE IL TESTO COORDINATO DELLA NORMATIVA SULLA PROFESSIONE FORENSE DOPO LE RECENTI RIFORME (Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo) con le modifiche apportate dalla legge di conversione 14 settembre 2011 n. 148) TITOLO II LIBERALIZZAZIONI, PRIVATIZZAZIONI ED ALTRE MISURE PER FAVORIRE LO SVILUPPO Art. 3 Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche 5. Fermo restando l’esame di Stato di cui all’art. 33 quinto comma della Costituzione per l’accesso alle professioni regolamentate, con decreto del Presidente della Repubblica emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, gli ordinamenti professionali dovranno essere riformati entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto per recepire i seguenti principi: a) l’accesso alla professione è libero e il suo esercizio è fondato e ordinato sull’autonomia e sull’indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista. La limitazione, in forza di una disposizione di legge, del numero di persone che sono titolate ad esercitare una certa professione in tutto il territorio dello Stato o in una certa area geografica, è consentita unicamente laddove essa risponda a ragioni di interesse pubblico tra cui in particolare quelle connesse alla tutela della salute umana e non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalità o, in caso di esercizio dell’attività in forma societaria, della sede legale della società professionale; b) previsione dell’obbligo per il professionista di seguire percorsi di formazione continua permanente predisposti sulla base di appositi regolamenti 4 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 emanati dai consigli nazionali, fermo restando quanto previsto dalla normativa vigente in materia di educazione continua in medicina (ECM). La violazione dell’obbligo di formazione continua determina un illecito disciplinare e come tale è sanzionato sulla base di quanto stabilito dall’ordinamento professionale che dovrà integrare tale previsione; c) la disciplina del tirocinio per l’accesso alla professione deve conformarsi a criteri che garantiscano l’effettivo svolgimento dell’attività formativa e il suo adeguamento costante all’esigenza di assicurare il miglior esercizio della professione. e) a tutela del cliente, il professionista è tenuto a stipulare idonea assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale. Il professionista deve rendere noti al cliente, al momento dell’assunzione dell’incarico, gli estremi della polizza stipulata per la responsabilità professionale e il relativo massimale. Le condizioni generali delle polizze assicurative di cui al presente comma possono essere negoziate, in convenzione con i propri iscritti, dai Consigli Nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti; f) gli ordinamenti professionali dovranno prevedere l’istituzione di organi a livello territoriale, diversi da quelli aventi funzioni amministrative, ai quali sono specificamente affidate l’istruzione e la decisione delle questioni disciplinari e di un organo nazionale di disciplina. La carica di consigliere dell’Ordine territoriale o di consigliere nazionale è incompatibile con quella di membro dei consigli di disciplina nazionali e territoriali. Le disposizioni della presente lettera non si applicano alle professioni sanitarie per le quali resta confermata la normativa vigente; g) la pubblicità informativa, con ogni mezzo, avente ad oggetto l’attività professionale, le specializzazioni ed i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni, è libera. Le informazioni devono essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere equivoche, ingannevoli, denigratorie. 5-bis. Le norme vigenti sugli ordinamenti professionali sono abrogate con effetto dall’entrata in vigore del regolamento governativo di cui al comma. 6. Fermo quanto previsto dal comma 5 per le professioni, l’accesso alle attività economiche e il loro esercizio si basano sul principio di libertà di impresa. 7. Le disposizioni vigenti che regolano l’accesso e l’esercizio delle attività economiche devono garantire il principio di libertà di impresa e di garanzia della concorrenza. Le disposizioni relative all’introduzione di restrizioni all’accesso e all’esercizio delle attività economiche devono essere oggetto di interpretazione restrittiva. 8. Le restrizioni in materia di accesso ed esercizio delle attività economiche previste dall’ordinamento vigente sono abrogate quattro mesi dopo l’entrata in vigore del presente decreto. PROFESSIONE FORENSE 9. Il termine “restrizione”, ai sensi del comma 8, comprende: a) la limitazione, in forza di una disposizione di legge, del numero di persone che sono titolate ad esercitare una attività economica in tutto il territorio dello Stato o in una certa area geografica attraverso la concessione di licenze o autorizzazioni amministrative per l’esercizio, senza che tale numero sia determinato, direttamente o indirettamente sulla base della popolazione o di altri criteri di fabbisogno; b) l’attribuzione di licenze o autorizzazioni all’esercizio di una attività economica solo dove ce ne sia bisogno secondo l’autorità amministrativa; si considera che questo avvenga quando l’offerta di servizi da parte di persone che hanno già licenze o autorizzazioni per l’esercizio di una attività economica non soddisfa la domanda da parte di tutta la società con riferimento all’intero territorio nazionale o ad una certa area geografica; c) il divieto di esercizio di una attività economica al di fuori di una certa area geografica e l’abilitazione a esercitarla solo all’interno di una determinata area; d) l’imposizione di distanze minime tra le localizzazioni delle sedi deputate all’esercizio della professione o di una attività economica; e) il divieto di esercizio di una attività economica in più sedi oppure in una o più aree geografiche; f) la limitazione dell’esercizio di una attività economica ad alcune categorie o divieto, nei confronti di alcune categorie, di commercializzazione di taluni prodotti; g) la limitazione dell’esercizio di una attività economica attraverso l’indicazione tassativa della forma giuridica richiesta all’operatore; h) l’imposizione di prezzi minimi o commissioni per la fornitura di beni o servizi, indipendentemente dalla determinazione, diretta o indiretta, mediante l’applicazione di un coefficiente di profitto o di altro calcolo su base percentuale; l) l’obbligo di fornitura di specifici servizi complementari all’attività svolta. 10. Le restrizioni diverse da quelle elencate nel comma 9 precedente possono essere revocate con regolamento da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, emanato su proposta del Ministro competente entro quattro mesi dall’entrata in vigore del presente decreto. 11. Singole attività economiche possono essere escluse, in tutto o in parte, dall’abrogazione delle restrizioni disposta ai sensi del comma 8; in tal caso, la suddetta esclusione, riferita alle limitazioni previste dal comma 9, può essere concessa, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita l’Autorità per la concorrenza ed il mercato, entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, qualora: a) la limitazione sia funzionale a ragioni di interesse pubblico; b) la restrizione rappresenti un mezzo idoneo, indispensabile e, dal punto di vista del grado di interferenza nella libertà economica, ragionevolmente proporzionato all’interesse pubblico cui è destinata; c) la restrizione non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalità o, nel caso di società, sulla sede legale dell’impresa. LA LEGISLAZIONE DEGLI ULTIMI MESI - Decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria) (GU n. 155 del 6 luglio 2011) convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111 (GU n. 164 del 16 luglio 2011), “MANOVRA D’ESTATE”. - Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo) (GU n. 188 del 13 agosto 2011) convertito dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 (GU n. 216 del 16 settembre 2011), “MANOVRA BIS”. - Decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione ai sensi dell’art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69) (GU n. 220 del 21. settembre 2011). - Legge 12 novembre 2011, n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato) (GU n. 265 del 14 novembre 2011) LEGGE DI STABILITÀ 2012, ex legge finanziaria). - Decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici, GU n. 284 del 6 dicembre 2011) convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 (GU n. 300 del 27 dicembre 2011) “LEGGE SALVA ITALIA”. - Decreto legge 22 dicembre 2011, n. 212 (Disposizioni urgenti in materia di composizione delle crisi di sovraindebitamento e disciplina del processo civile) (GU n. 297 del 22 dicembre 2011). - Decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività) (GU n. 19 del 24 gennaio 2012, Suppl. Ordinario n. 18). gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 5 PROFESSIONE FORENSE Decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività) Art. 9 Disposizioni sulle professioni regolamentate 1. Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. 2. Ferma restando l’abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante. Con decreto del Ministro della Giustizia di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze sono anche stabiliti i parametri per oneri e contribuzioni alle casse professionali e agli archivi precedentemente basati sulle tariffe. L’utilizzazione dei parametri nei contratti individuali tra professionisti e consumatori o microimprese da luogo a nullità del contratto ai sensi dell’art. 36 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 2061. 3. Il Compenso per le prestazioni professionali è pattuito per iscritto al momento del conferimento dell’incarico professionale. Il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento 1 alla conclusione dell’incarico e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell’esercizio dell’attività professionale. In ogni caso la misura del compenso, previamente resa nota al cliente anche in forma scritta se da questi richiesta, deve essere adeguata all’importanza dell’opera e va pattuita in modo onnicomprensivo. L’inottemperanza di quanto disposto nel presente comma costituisce illecito disciplinare del professionista. 4. Sono abrogate le disposizioni vigenti che per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe di cui al comma 1. 5. La durata del tirocinio previsto per l’accesso alle professioni regolamentate non potrà essere superiore a diciotto mesi e per i primi sei mesi, potrà essere svolto, in presenza di un’apposita convenzione quadro stipulata tra i consigli nazionali degli ordini e il ministro dell’istruzione, università e ricerca, in concomitanza col corso di studio per il conseguimento della laurea di primo livello o della laurea magistrale o specialistica. Analoghe convenzioni possono essere stipulate tra i Consigli nazionali degli ordini e il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione tecnologica per lo svolgimento del tirocinio presso pubbliche amministrazioni, all’esito del corso di laurea. Le disposizioni del presente comma non si applicano alle professioni sanitarie per le quali resta confermata la normativa vigente. DECRETO LEGISLATIVO 6 settembre 2005, n. 206 Codice del consumo, Art. 36. Nullità di protezione 1. Le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto. 2. Sono nulle le clausole che, quantunque oggetto di trattativa, abbiano per oggetto o per effetto di: a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un’omissione del professionista; b) escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista; c) prevedere l’adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto. 3. La nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice. 4. Il venditore ha diritto di regresso nei confronti del fornitore per i danni che ha subito in conseguenza della declaratoria di nullità delle clausole dichiarate abusive. 5. È nulla ogni clausola contrattuale che, prevedendo l’applicabilità al contratto di una legislazione di un Paese extracomunitario, abbia l’effetto di privare il consumatore della protezione assicurata dal presente capo, laddove il contratto presenti un collegamento più stretto con il territorio di uno Stato membro dell’Unione europea. 6 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 STUDI E RICERCHE L’ADEMPIMENTO DEGLI OBBLIGHI PARENTALI. Luci ed ombre dell’art.709 ter c.p.c. ROSARIA CAPOZZI Premessa L’art. 709 ter c.p.c. è stato introdotto dalla legge 54/06 art. 2, comma 2, c.d. sull’affidamento condiviso. Il legislatore, con l’inserimento di tale normativa, ha voluto introdurre nel nostro ordinamento uno strumento di tutela per il minore. Questo può essere invocato da quel genitore che vuole osteggiare comportamenti omissivi o gravi inadempienze dell’altro genitore in danno del minore, o vuole correggere comportamenti che ostacolano l’esercizio della potestà genitoriale o lo svolgimento delle modalità di affidamento. La norma ha la funzione di assicurare la corretta esecuzione di preesistenti provvedimenti emessi in materia di esercizio della potestà genitoriale o dell’affidamento della prole minore di età. L’applicazione della normativa presuppone la pronuncia di un provvedimento da parte dell’autorità giudiziaria che regoli l’affidamento della prole minore di età e l’esercizio della potestà genitoriale, nonché la presenza di una controversia tra i genitori. I provvedimenti possono essere: provvedimenti provvisori ed urgenti del Presidente del Tribunale separazione/divorzio in una fase dilatata del processo, prevista dall’art. 155 sexies c.c. riformato, quando la fase presidenziale non si risolve in una sola udienza in quanto, con la nuova normativa, sono stati ampliati i poteri istruttori del Presidente; provvedimenti del G.I. negli stessi procedimenti; sentenza di separazione e di divorzio; provvedimenti modificativi della separazione del divorzio: decreto ex art. 710 c.p.c./art. 9 L. div.; provvedimenti del Tribunale per i Minori ex art. 317 bis c.c. e di nullità di matrimonio con applicazione al matrimonio putativo. Normativa precedente a quella inerente l’art. 709 ter c.p.c. Prima della entrata in vigore della normativa lo strumento di tutela per l’applicazione dei provvedi- menti di affidamento dei minori era l’art. 6, 10 co, L. div. estensibile anche alla separazione, che attribuisce al giudice del merito l’attuazione dei provvedimenti inerenti l’affidamento della prole. Pertanto giudice dell’esecuzione sarà lo stesso giudice del merito in caso di pendenza di lite; mentre in caso di sentenza passata in cosa giudicata, l’esecuzione verrà assegnata alla sezione dell’ufficio giurisdizionale a cui apparteneva il giudice che ha pronunciato la sentenza. Tale normativa da luogo ad un’esecuzione diretta in via breve, che non ha trovato seguito in quanto le forme utilizzabili della esecuzione per consegna o rilascio, e quella della esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare, sono procedure entrambe assolutamente inadatte per l’esecuzione di provvedimenti riguardanti la prole e spesso inapplicabili in caso di resistenza del minore. Legge 54/06 Alla luce di quanto detto, con la legge 54/06 il legislatore ha voluto dare uno strumento più adatto ai provvedimenti inerenti i figli minorenni. Ha infatti preferito utilizzare con l’art. 709 ter c.p.c., visto i fallimenti della normativa precedente, l’esecuzione indiretta per una più sicura tutela del minore. Procedura questa che non va certamente a suo danno, ma funge da deterrente al genitore inadempiente, il quale potrà vedersi modificato il precedente provvedimento di affidamento, oppure applicata una sanzione al fine di ottenere la cessazione di quei comportamenti che arrechino grave pregiudizio al minore. Tali condotte ineriscono l’esercizio della potestà genitoriale e l’affidamento dei figli minori di età. Ne sono un esempio non occuparsi del mantenimento, dell’istruzione, dell’educazione o della cura del minore, come non rispettare le modalità di affidamento stabilite dal giudice, che possono sia produrre negazioni o difficoltà nel vedere i propri figli, o creare difficoltà nell’altro genitore o nel figlio stesso nell’organizzazione della propria vita, oppure controversie inerenti il tipo di scuola che il minore dovrà frequentare o conflitti sull’educazione religiosa del minore. “In dottrina (Casaburi) si è affermato che l’articolo in commento disciplina due distinti procedimenti: il primo, relativo alla «soluzioni delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento» (es. scelta della scuola per il figlio minore: cfr tribunale di Napoli, decr. 21.02.07); il secondo invece è relativo al caso di «gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento»”.1 La giurisprudenza sulle controversie oggetto della normativa riguardano l’attuazione dei provvedimenti relativi ai figli minori, diversi da quelli di natura economica, almeno che le questioni di carattere economiche siano connesse all’esercizio della potestà, alle modalità di affidamento o al mantenigennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 7 STUDI E RICERCHE mento dei figli. Diversamente altra giurisprudenza, a cui ci associamo, trova possibile la sua applicazione anche in caso di inosservanza degli obblighi di carattere patrimoniale2. Competenza Relativamente alla competenza per materia, l’art. 709 ter c.p.c statuisce il giudice competente a risolvere le controversie tra genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento. Al 1° comma stabilisce che la competenza per le controversie insorte lite pendente sarà quella del giudice del procedimento in corso, mentre in caso di liti sorte quando la sentenza di separazione è già passata in cosa giudicata, la competenza spetterà al giudice del procedimento di revisione ex art. 710 c.p.c. Riguardo invece i figli naturali la situazione è più complessa. Subito dopo l’emanazione della legge 54/06 si sono susseguite sentente diverse (Trib. Milano 12 maggio 2006 che stabiliva la competenza omnicomprensiva del tribunale ordinario). Tale orientamento riteneva che la nuova normativa avesse abrogato l’art. 317 bis c.c. La questione fu sottoposta alla Corte di Cassazione che con la sentenza n. 8362/07 (regolamento di competenza) ha definitivamente escluso che la L. 54/06 abbia voluto abrogare l’art. 317 bis che rimane in vita e ne viene arricchito. Pertanto, in caso di provvedimenti sulla sola potestà genitoriale, emessi dal tribunale per i Minori per figli minori di ex-coppie di fatto, disattesi da uno dei genitori, l’altro potrà ricorrere nelle forme dell’art. 737 c.p.c., proponendo ricorso ex art. 709 ter innanzi allo stesso tribunale per la tutela degli interessi del minore. Sarà ugualmente competente il T.M. per violazioni di provvedimenti emessi ex art. 317 bis cc, inerenti sia l’affidamento che il mantenimento. Mentre sarà competente il T.O. per le sole violazioni di provvedimenti inerenti mantenimento del minore emessi ex art. 148 c.c. In riferimento alla modalità della domanda, il codice prescrive che la domanda debba essere fatta con ricorso, anche se ormai nella prassi processuale “dinanzi al giudice istruttore potrebbe invece essere sufficiente una semplice istanza orale resa in udienza e riportata a verbale, fermo restando il diritto di replica di controparte”.3 In caso di pendenza della lite il ricorso ex 709 ter può essere presentato in qualsiasi fase del giudizio innanzi al Giudice Istruttore. In tal caso il giudice ordina la comparizione delle parti, e avendone i poteri, “può modificare il provvedimento già reso, ove detto provvedimento non si sia rivelato idoneo a dirimere la conflittualità tra le parti”.4 Può inoltre, se del caso, instaurare un procedimento istruttorio, alla fine del quale provvede con ordinanza, che sarà sempre revocabile o modificabile dallo stesso giudice in caso di fatti e circostanze nuovi e intervenuti. Ordinanza non reclamabile.5 Trattasi, pertanto, 8 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 di un sub procedimento incidentale a quello introdotto dalla domanda principale. Il procedimento ex art. 709 ter poi, secondo una recente giurisprudenza, può essere richiesto non solo in via incidentale rispetto al procedimento di revisione ex art. 710 c.p.c., ma anche in via autonoma6. Riguardo alle sentenze definitive, anche se l’articolo in questione cita esclusivamente l’art. 710 c.p.c. tale competenza dovrà estendersi anche ai procedimenti modificativi delle sentenze di divorzio ex art. 9 L. divorzio, o a quelli inerenti il Tribunale per i Minorenni per le ex-coppie di fatto con figli minori. Pertanto, la normativa viene applicata sia agli affidamenti stabiliti in via definitiva con sentenza di separazione o di divorzio, sia a quelli disposti in via provvisoria dal Presidente del Tribunale o in caso di modifica, dal giudice istruttore sempre nelle cause di separazione o divorzio. Riguardo poi la procedura, questa è identica a quella sopra decritta ma, naturalmente, dovendosi instaurare un nuovo giudizio la domanda deve essere proposta con ricorso. In ogni caso il giudice, prima di emettere ogni provvedimento, deve spingere le parti ad addivenire ad un accordo suggerendo quelle risoluzioni che ritiene più consone all’interesse dei figli, così come anche previsto dalla norma corrispondente disposta dall’art. 316 c.c.7 Non vi è dubbio, quindi, che la normativa sull’affidamento condiviso trova applicazione anche riguardo all’affidamento giudiziale dei figli di genitori non sposati, regolato dall’art. 317 cc, sia per i procedimenti in corso, sia per quelli conclusi. Il ricorso verrà proposto al Presidente del Tribunale - Ordinario o per i Minorenni a seconda delle circostanze - che deciderà in Camera di Consiglio con ordinanza reclamabile innanzi alla Corte di appello sezione famiglia per i genitori sposati e innanzi alla Corte di Appello sezione Minorenni per i genitori non coniugati. Inoltre, l’art. 709 ter c.p.c. prescrive, come competenza territorialmente inderogabile, quella del luogo di residenza del minore per i procedimenti di cui all’art. 710 c.p.c., cioè per le cause passate in giudicato. Invece, per i procedimenti in corso, la competenza è dello stesso giudice del luogo presso il quale è pendente la causa. Riguardo ai procedimenti intrapresi ex ar. 710, per residenza del minore deve intendersi quella effettiva ed abituale. Pertanto, in caso di trasferimento del minore unitamente al genitore collocatario, quando manca il consenso dell’altro genitore, risulterà competente il tribunale del luogo della precedente abituale residenza del minore, in quanto luogo dove egli coltiva i suoi rilevanti legami affettivi8. Ciò anche in analogia al dettato del Regolamento CEE 2201/2003, il quale all’art. 10 specifica che, in caso di illecito trasferimento del minore, si conserva la competenza giurisdizionale dell’autorità giurisdizionale dello Stato in cui il minore aveva la residenza abituale antecedentemente all’illecito STUDI E RICERCHE trasferimento, almeno che il genitore non collocatario accetti tale cambio di residenza9. Il comma 2° del summenzionato articolo, stabilisce concisamente che la domanda deve essere fatta con ricorso, e che il giudice convoca le parti ed adotta i provvedimenti opportuni. Tale giudice, dopo aver accertato se i comportamenti di uno dei genitori rientrano nella fattispecie delle gravi inadempienze o di atti che arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, può a suo giudizio emettere due tipologie di provvedimenti: modificare i provvedimenti in vigore, finalizzando il proprio intervento alla soluzione delle controversie intervenute tra i coniugi; oppure emettere, anche congiuntamente al provvedimento sopracitato, altri provvedimenti a carattere sanzionatorio e/o risarcitorio che vanno dalla semplice ammonizione del genitore inadempiente, di cui al n. 1, al risarcimento del danno, a carico di uno dei genitori, in favore del minore o dell’altro coniuge, di cui ai numeri 2 e 3, o alla condanna del genitore inadempiente a una sanzione amministrativa in favore della Cassa ammende al n. 4. Pertanto, tale modalità sanzionatore può avere sia funzione preventiva che mira a scoraggiare comportamenti illeciti; sia funzione repressiva in quanto punisce illeciti già commessi.10 La modifica dei provvedimenti in vigore, prescritta al comma 2° del citato articolo, può essere chiesta dalle parti, senza incorrere in preclusioni processuali applicate per le domande nuove, in qualunque stato e grado del giudizio, quindi anche per la prima volta in appello e in pendenza di ricorso per Cassazione, dove la competenza spetterà alla Corte d’appello che ha emesso la sentenza impugnata. In ogni caso, è da tener presente che nei procedimenti di diritto di famiglia (separazione, divorzio ecc.) anche prima dell’uscita di tale articolo, l’istruttore ha sempre avuto, sia ad istanza di parte, che di ufficio, il potere di modificare o revocare i provvedimenti provvisori ed urgenti emessi dal Presidente del Tribunale o da lui stesso.11 Il fondamento costituzionale dei poteri attribuiti al Giudice dall’art. 709 ter c.p.c, è dato dall’art. 30 della Costituzione. Natura della sanzione prevista dall’art. 709 ter c.p.c. Si discute in dottrina e in giurisprudenza sulla natura della sanzione prevista dall’art. 709 ter c.p.c. Sembra prevalere la tesi del risarcimento sanzionatorio che fa parte del c.d. danno punitivo che svolge la funzione pubblicistica della deterrenza e della punizione volta a prevenire la reiterazione dell’illecito. Istituto questo del tutto nuovo nel nostro ordinamento. Non si tratterebbe, pertanto, di un risarcimento di natura compensativa commisurato al danno subito ma sanzionatorio12. Infatti, non è contemplato nel nostro ordinamento il caso di un provvedimento ex officio per la condanna al risarcimento del danno ex art. 2043, mentre invece con l’art. 709 ter si prevede l’applicazione ex officio della sanzione punitiva da parte del giudice. Comunque, la dottrina e la giurisprudenza, in riferimento ai danni provocati dall’inosservanza dei provvedimenti inerenti la potestà genitoriale e l’affidamento dei figli, si sono espresse in modo diverso. Alcuni hanno catalogato il risarcimento del danno in termini di pene private, danni punitivi o punitive damage (di origine anglosassone), che non hanno niente a che vedere con il risarcimento di cui agli artt. 2043 e 2059, altri alle funzioni delle astreintes (di origine francese), che mirano all’osservanza della norma, tale tipo di sanzione è quella più vicina a quella del 709 ter in quanto è commisurata alla gravità della inadempienza e calata sul caso concreto. Altri ancora, li ritengono danni in re ipsa soggetti a valutazione equitativa, e non ad un accertamento effettivo. Infatti tali azioni, contrariamente a quelle richieste ex art. 2043 non mirano al ristoro dei danni personali e patrimoniali ma solo al pregiudizio sofferto dal minore per l’inadempimento di uno dei genitori in ordine all’esercizio della potestà. In ordine ai danni punitivi parte della dottrina fa rilevare che la cassazione civile con sentenza della terza sezione del 19 gennaio 2007 ha respinto la domanda di delibazione di una sentenza straniera, che prevedeva il pagamento di danni punitivi per contrarietà all’ordine pubblico. Infatti tali danni sono caratterizzati dalla sproporzione tra l’importo liquidato e il danno effettivamente subito13. In ogni caso, la giurisprudenza, concordemente ritiene che tali tipi di danni debbano avere natura sanzionatoria con funzione pubblicistica. La prima sanzione menzionata all’art.709 ter è una semplice ammonizione il cui obbiettivo è quello di far desistere il genitore dalla condotta inadempiente e spingerlo ad osservare i provvedimenti stabiliti dal giudice a tutela dei minori. La quarta sanzione a carattere pubblicistico, è amministrativa pecuniaria e andrebbe versata alla Cassa delle Ammende, ente con personalità giuridica istituito presso il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, con legge del 9 maggio1932, poi riformata dall’art.44 bis della legge 27 febbraio 2009 n. 14. Sanzioni che afferiscono alla dotazione patrimoniale dell’ente. Al momento la legge affida la riscossione all’ufficio apposito del Tribunale, tuttavia la regola generale prevede che le somme iscrivibili a ruolo siano oggetto della riscossione dei concessionari, per il solo fatto di avere provenienza da amministrazioni dello Stato. I relativi fondi servono a finalizzare i progetti dell’amministrazione penitenziaria ed interventi in favore delle famiglie dei detenuti e del risarcimento degli stessi. Tale ammenda, anche se irrogata, fino ad oggi, non è stata mai riscossa per disfunzione del sistema14. I numeri 2 e tre riguardano il risarcimento del danno in favore del minore o dell’altro genitore. gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 9 STUDI E RICERCHE Altro problema esaminato dalla giurisprudenza è stato quello di stabilire quale fosse il giudice competente a emettere i provvedimenti sanzionatori, se solo il collegio o anche il giudice istruttore. Alcuni ritengono che le misure sanzionatorie possano essere anche applicate dal giudice istruttore in corso del giudizio, ritenendo sufficiente un giudizio sommario. In tal caso la decisione sarà emessa con ordinanza e la sanzione sarà calcolata in via equitativa. Si anticiperebbe così in sede cautelare, la liquidazione del danno, consentendo di dare soddisfazione al creditore del risarcimento lite pendente. In ogni caso, lo stesso codice di procedura civile prevede all’art. 179 che le pene pecuniarie sono pronunciate dal giudice istruttore. Altri invece ritengono che spetta solo ed esclusivamente al collegio l’emissione dei provvedimenti sanzionatori e risarcitori di cui sopra in quanto solo un procedimento di cognizione offre le garanzie di un giusto processo15 Mezzi di impugnazione L’art. 709 ter parla genericamente di mezzi di impugnazione secondo i mezzi ordinari richiamati dall’art. 323 cpc. Riguardo ai mezzi di impugnazione, anche qui bisogna fare una distinzione a seconda se trattasi di provvedimenti emessi in un procedimento insorto lite pendente, oppure provvedimenti contenuti in sentenze o decreti del Tribunale. Nel primo caso, se ci troviamo di fronte a provvedimenti provvisori ed urgenti emessi dal Presidente del Tribunale (separazione o divorzio) tale ordinanza è reclamabile ex art. 708, ult. co. innanzi alla Corte d’appello; se invece trattasi di provvedimenti emessi in corso di causa dal GI questi non sono reclamabili, anche se qualche opinione isolata in dottrine li ritiene impugnabili ex art. 669 - terdecies c.p.c., in analogia al modello cautelare16 o reclamabili al collegio ex art. 178 c.p.c ult. co. Nel secondo caso i decreti emessi ex art. 710 cpc o ex art. 9 L. divorzio, contenenti l’irrogazione di sanzioni prescritte nell’art. 709 ter. cpc saranno impugnabili con reclamo innanzi alla corte d’appello ex art. 739 cpc. I decreti ex art. 317 bis c.c. sono impugnabili con reclamo Corte d’Appello sezione minorile, i provvedimenti ex art. 148 c.c. innanzi al T.O.; la sanzione amministrativa con opposizione ai sensi della L. 689/81 innanzi al GdP; le sentenze innanzi alla Corte di Appello. Non sono, invece, ricorribili per Cassazione con ricorso straordinario ex art. 111 Cost. i decreti della Corte d’Appello in quanto in tale ambito non hanno efficacia definitiva. Note 1 AA.VV., Codice di Procedura Civile operativo. Annotato con dottrina e giurisprudenza. Aggiornato alla L. 18.06.2009, n. 69, Napoli 2009, p.1739. 2 Cfr., in tal senso, Trib. Modena, 7 aprile 2006, in Giur. Merito, 2007, 2527, con nota di Casaburi, Art. 709 ter c.p.c: una prima applicazione giurisprudenziale. 3 CASABURI, I nuovi istituti del diritto di famiglia (norme processuali e affidamento condiviso): prime istruzioni per l’uso, relazione svolta all’incontro di studio CSM, Firenze, 31 marzo 2006, in Giur. Mer., suppl. 3, p. 5. Trib. Modena, ord. 7.04.06. 4 Cfr. NAPOLITANO, L’affidamento dei minori nei giudizi di separazione e divorzio, Ed. Giappichelli, Torino 2006, p.272 5 Cfr. art. 177 c.p.c. 6 Cfr. ORDINANZA DEL TRIBUNALE DI VICENZA, 15 aprile 2010, in Famiglia e diritto, 2010, p. 705 ss. 7 Cfr. NAPOLITANO, op.cit. p. 273 8 Cfr. TRIBUNALE MINORI DI ROMA, 16 novembre 1992, in Dir. Fam.,1993, p. 1143 ss. 9 Cfr TRIBUNALE DI BARCELLONA P.G., ord.15 novembre 2010, in Famiglia e diritto,n. 10, 2011, p. 929 ss. In tale ordinanza il collegio ha accolto la preliminare eccezione di incompetenza territoriale della resistente, dichiarando competente il tribunale di Busto Arsizio nella cui circoscrizione si trovava il comune della nuova residenza del minore in quanto il marito, nella separazione consensuale, aveva espresso il suo consenso affinché la moglie, collocataria del minore, potesse trasferire la propria residenza. 10 Cfr. TRIMARCHI, “Illecito (dir. priv.)” in Enc. Dir., XX, Milano 1970, 108. 11 Cfr. Art. 709, 4°co, c.p.c. e art. 4, 8 co, L divorzio. 12 Cfr. TRIBUNALE DI PADOVA, 3 ottobre 2008, in Famiglia e diritto, 2009, pp 609 e ss con nota di Farolfi, L’art. 709 ter; sanzione civile con funzione preventiva e punitiva? 13 Cfr. DE FILIPPIS-MASCIA-MANZIONE-RAMPOLLA, La mediazione familiare e la soluzione delle controversie insorte tra genitori separati, Cedam, Lavins (TN) 2009, p. 196. 14 A nostro parere, le somme raccolte dalla riscossione di tale tipo di ammenda potrebbero essere utilizzate per la costituzione di un fondo a favore delle persone disagiate a causa della dissoluzione della loro famiglia, gestito dal Comune del luogo in cui si è svolto il giudizio. Un esempio potrebbe essere dato dalla costruzione ad opera del Comune, con l’utilizzazione dei fondi raccolti per l’applicazione della sanzione, di abitazioni utilizzabili dal genitore non affidatario e/o non domiciliata rio impossidente, per un tempo non superione a 2 anni dalla emanazione della sentenza di separazione, divorzio ecc, per dargli la possibilità di poter vedere e tenere con sé il figlio in una abitazione idonea e potersi riorganizzare in termini logistici, lavorativi ed economici al fine di conservare la propria dignità. 15 Cfr. TRIBUNALE DI PISA, 19 dicembre 2007, in Famiglia e diritto, 2009, p. 43 ss con nota di Vullo, Competenza e oggetto delle controversie promosse es art. 709 ter. 16 Cfr. http://www.claudiocecchella.it/?id=20080329-Convegno_Osservatorio_di_Paler-Claudio_Cecchella—-ARTICOLO. Accesso del 01/06/2011, alle ore 11. 10 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 STUDI E RICERCHE PRIVACY ED ISTRUTTORIA NEL PROCESSO DI FAMIGLIA MATTEO SANTINI AVVOCATO DEL FORO DI ROMA Il Decreto Legislativo 196/2003 (principi generali e deroghe in ambito giudiziario) Il diritto alla riservatezza è un diritto fondamentale della persona, tutelato dalla Carta costituzionale stessa. In particolare, tale matrice costituzionale è rinvenuta nell’articolo 2 della Costituzione, che “garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Accanto a tali norme di portata generale, il diritto alla riservatezza è indirettamente tutelato anche da ulteriori disposizioni a carattere specifico, come l’articolo 13 sulla libertà personale, l’articolo 14 sull’inviolabilità del domicilio, l’articolo 15 sulla inviolabilità della corrispondenza e l’articolo 21 sul diritto di libera manifestazione del proprio pensiero. È indubbio, quindi, che lo stesso si collochi tra i diritti fondamentali dell’individuo, ancorati alla Costituzione. Il diritto dell’individuo a manifestare il proprio pensiero deve anche essere inteso come diritto di decidere e di scegliere i soggetti destinatari delle nostre manifestazioni del pensiero e come diritto di escludere, i soggetti non graditi, dalle nostre conversazioni. Conseguenza logica è che un diritto di tal rango non può subire compressioni o limitazioni neanche in caso di rapporto di coniugio e/o convivenza. In altre parole, il matrimonio (a cui si deve equiparare una convivenza stabile, come ormai pacificamente riconosciuto dall’unanime dottrina e giurisprudenza) non vale ad escludere il rispetto della privacy dei singoli coniugi; il diritto alla riservatezza, in quanto diritto personalissimo, permane in capo a ciascuno di essi. Come ha opportunamente rilevato la Cassazione, la disponibilità del domicilio da parte di più soggetti non vale ad escludere il diritto alla riservatezza di ciascun convivente (cfr. Cass. Pen. 9827/06, in tema di reato ex art. 615 c.p.). Se il matrimonio è unione materiale e spirituale, comunque ciascun coniuge ha il diritto di conservare la propria privacy. Ciò premesso dal punto di vista teorico, nella pratica, accade molto spesso che un coniuge cerchi di precostituirsi elementi di prova a carico del partner da usare nei giudizi di separazione e di divorzio, oppure faccia uso di dati già costituiti (parliamo quindi prove precostituite o costituende). La questione assume contorni problematici quando tali elementi probatori siano stati ottenuti o comunque trattati in violazione della normativa sulla privacy. Il testo di riferimento è il Decreto Legislativo 196/2003 (cd. Testo Unico Privacy). Per trattamento di un dato personale, intendiamo sia l’acquisizione sia la rivelazione del dato a terzi sia la diffusione dello stesso. Per integrare una condotta di “trattamento dati” di cui al D.Lgs. Cit. è sufficiente anche la mera diffusione dei dati (cfr. art. 4 T.U. Cit.), da intendersi anche come produzione degli stessi in giudizio. Pertanto, anche tale condotta, laddove effettuata in spregio alle norme del Testo Unico citato, potrebbe integrare una condotta punibile. Quindi, ben potrebbe considerarsi responsabile il coniuge che diffonda dati personali del consorte (producendoli in giudizio) in violazione delle norme di cui al D.Lgs. 196/03, se dal fatto deriva nocumento per il soggetto passivo (cfr., in particolare, art. 167 D.Lgs. Cit.). A questo punto è necessario, un accenno agli steps da seguire per trattare i dati “lecitamente”, laddove si vogliano poi usare in ambito giudiziario. In relazione ai dati personali, l’art. 13 T. U. Privacy introduce una deroga all’obbligo di preventiva informativa all’interessato, prevedendo l’esonero dalla stessa quando i dati personali devono essere trattati “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”. In questo caso, quindi, venendo in considerazione un diritto anch’esso costituzionale, il diritto di difesa, e di pari rango rispetto al diritto alla privacy, il legislatore ammette una compressione di quest’ultimo, purché l’esplicazione del diritto di difesa sia effettuata secondo correttezza. In particolare, si richiede che: - i dati oggetto del trattamento siano esatti, da intendersi come precisi e rispondenti al vero; - i dati stessi siano completi, e cioè tali da fornire esatte informazioni, senza estrapolare solo i contenuti utili per una parte; - il trattamento e l’uso degli stessi sia pertinente e non eccedente, e cioè strettamente necessario e non sproporzionato in relazione al diritto che si intende far valere in giudizio; - il trattamento avvenga per il tempo strettamente necessario per fare valere il diritto in giudizio; - il trattamento avvenga privilegiando quelli strumenti che garantiscono la minore compromissione possibile della privacy altrui; nel senso che, se lo stesso risultato può essere raggiunto attraverso due differenti metodi di indagine, deve essere privilegiata l’indagine che determina il minore grado di compromissione dell’altrui riservatezza. gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 11 STUDI E RICERCHE Normalmente i dati sensibili (e cioè i dati personali idonei a rilevare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale) sono oggetto di una tutela rafforzata. Di fatti, per poter trattare dati sensibili occorre, oltre al consenso dell’interessato e all’informativa (come per i dati personali), anche l’autorizzazione preventiva del Garante per la Protezione dati personali (art. 26 D.Lgs. 196/03). Il trattamento dei dati personali in ambito giudiziario L’art. 26 cit. prevede al comma 4 la possibilità di trattare dati personali sensibili senza consenso dell’interessato (come da autorizzazione preventiva del Garante della Privacy, la n. 4/2009) “quando il trattamento è necessario per far valere o difendere in sede giudiziaria un diritto, sempre che i dati siano stati trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. Se i dati sono idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale, il diritto deve essere di rango pari a quello dell’interessato, ovvero consistere in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”. Ancora, l’articolo 60 T.U. Privacy, applicabile al caso di dati sensibili idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale contenuti in atti amministrativi, confermando la rafforzata tutela riconosciuta ai dati sensibili, ribadisce che, laddove manchi il consenso scritto dell’interessato, è possibile richiedere l’accesso agli atti amministrativi che contengono tali dati solo se “la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”. Anche per gli atti giudiziari non è richiesto il consenso dell’interessato, quando il trattamento degli stessi sia strettamente indispensabile per eseguire prestazioni professionali richieste dai clienti per scopi determinati e legittimi e nel rispetto del diritto alla difesa (aut. Gen. 7/2002). In pratica per le finalità sopra descritte non è necessario né il consenso dell’interessato, né l’autorizzazione del Garante per trattare dati semplici o sensibili relativi a terzi, ove ciò sia necessario per far valere un diritto in giudizio e sempre nel rispetto dei principi di verità, completezza dei dati, pertinenza e non eccessività. La ratio di tali deroghe all’obbligo di rispetto della privacy appare evidente: se devo compiere delle attività investigative per acquisire delle prove da utilizzare nel corso di un giudizio di separazione o di divorzio, se la controparte fosse informata della mia intenzione da un lato cambierebbe il proprio comportamento, proprio nella consapevolezza di essere stata atten12 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 zionata, dall’altro negherebbe comunque il consenso al trattamento dei suoi dati personali, ma soprattutto, tenterebbe di celare e di rendere il più difficile possibile per la controparte, la ricerca delle informazioni necessarie per far valere il diritto. Ricapitolando: in relazione al trattamento lecito di dati personali da usare quali prove costituite o costituende: - se trattasi di dati personali occorre il consenso e l’informativa; si può procedere senza informativa solo nelle ipotesi di cui all’articolo 13, comma 5, lett. b) D.Lgs. 196/03; - se trattasi di dati sensibili occorre il consenso, l’informativa e la previa autorizzazione del Garante; si può procedere senza il consenso dell’interessato solo nell’ipotesi di cui all’articolo 26 D.Lgs. 196/03. I dati personali trattati in violazione del Decreto Legislativo 196/2003 Ciò premesso, a quale sorte vanno incontro i dati trattati in violazione delle disposizioni su indicate? L’articolo 11 D.Lgs. 196/03 sancisce l’inutilizzabilità di tutti quei dati trattati in violazione delle norme di cui al Decreto citato. Tuttavia, in relazione alla possibilità di utilizzazione di tali dati in ambito giudiziario, il legislatore ha introdotto una disciplina particolare, contenuta nell’articolo 160, comma 6, T.U. Privacy, secondo cui “la validità, l’efficacia e l’utilizzabilità di atti, documenti e provvedimenti nel procedimento giudiziario basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali nella materia civile e penale”. È evidente che l’intento del legislatore è stato quello di evitare caducazioni automatiche di atti e documenti introdotti in un processo, temperando la sanzione di cui all’articolo 11 D.Lgs. 196/03. Tuttavia, in materia penale la sanzione dell’inutilizzabilità è confermata; di fatti, il rinvio è all’articolo 191 c.p.p., che sancisce l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (con le uniche eccezioni di cui all’articolo 189 c.p.p. per le prove cd atipiche e all’articolo 234 c.p.p. per le prove documentali). In materia civile, invece, è difficile delineare una regola generale. Si deve di fatti rilevare che, mentre in ambito penale è il legislatore che ha disposto preventivamente la sanzione dell’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione delle disposizione di leggi, in ambito civile manca una regola di tal tipo. La valutazione circa l’ammissibilità delle prove è pertanto lasciata al giudice, salvo che disposizioni speciali prevedano diversamente. In altri termini, se nel processo penale si può affermare con certezza che prove assunte violando la normativa Privacy si debbano considerare inutilizzabili, nel processo civile ciò non è disposto preventivamente dalla legge STUDI E RICERCHE e l’inutilizzabilità non è automatica conseguenza; sarà il giudice a dover valutare circa la loro utilizzabilità, caso per caso e usufruendo del potere discrezionale che gli è concesso dalla legge (art. 116 c.p.c.). Alcune categorie professionali, in particolare gli avvocati, utilizzano dati di carattere personale per svolgere attività investigative e difensive o comunque per far valere un diritto in sede giudiziaria. L’utilizzo di questi dati è imprescindibile per garantire una tutela piena ed effettiva dei diritti, con particolare riguardo al diritto di difesa e al diritto alla prova: un’efficace tutela di questi due diritti non è pregiudicata, ed anzi è rafforzata, dal principio secondo cui il trattamento dei dati personali deve rispettare i diritti, le libertà fondamentali e la dignità delle persone interessate, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e alla protezione dei dati personali. È opportuno analizzare nello specifico, la portata e l’estensione del diritto di difesa di rango costituzionale che legittima la compromissione della privacy altrui; è doveroso altresì sottolineare che, per diritto di difesa non si intende solo la difesa da un accusa di un terzo (possa trattarsi della magistratura inquirente o della controparte), ma anche il diritto di agire in giudizio, quindi di far valere un giudizio nei confronti di un terzo (come attore o ricorrente). Le indagini patrimoniali e l’attività investigativa di parte Le disposizioni che agevolano il compito dell’avvocato per effetto del bilanciamento operato dal codice della privacy tra diritto alla difesa e gli altri diritti e libertà fondamentali delle persone interessate, non operano solo durante lo svolgimento di un giudizio necessariamente già instaurato. Le disposizioni del Codice della Privacy possono essere utilmente applicate anche (e soprattutto) nella fase propedeutica all’instaurazione del giudizio, se l’attività è finalizzata effettivamente ed esclusivamente a verificare l’esistenza di un diritto da tutelare in giudizio. Anzi è proprio in questa fase che è necessario acquisire degli elementi di prova su cui poi fondare il proprio ricorso introduttivo (ad esempio per separazione o divorzio giudiziale) o la propria comparsa di costituzione (allegando se del caso i documenti relativi alle prove raccolte). Al contrario, l’esenzione dall’obbligo di notifica al garante o dall’obbligo di ottenere il consenso dell’interessato, non opera per tutto ciò che concerne l’attività puramente stragiudiziale, cioè quell’attività non finalizzata all’instaurazione di un giudizio (come chiarito dal Garante con parere del 3 giugno 2004). Le prove che le parti intendono raccogliere nel corso dei giudizi di separazione e divorzio sono sostanzialmente di due tipi: 1) Le notizie dirette ad accertare il patrimonio e lo stile di vita della controparte. 2) Le notizie dirette a provare eventuali situazioni di infedeltà del coniuge o del convivente o di grave violazione agli obblighi matrimoniali. In effetti, il problema è quello di comprendere quali sono le prove che posso essere raccolte degli avvocati (e per loro conto dagli investigatori) nel corso della loro attività di indagine volta all’acquisizione di elementi da introdurre nel procedimento (già instaurato o da instaurarsi) ed in che modo tali informazioni possano “entrare” nel processo. Certamente, è ammissibile l’acquisizione e la produzione di report investigativi diretti a dimostrare l’eventuale infedeltà coniugale; report supportati da fotografie che come ormai pacificamente accettato, sono pienamente ammissibili ove vengono effettuate in luoghi pubblici o aperti al pubblico. Mentre, nel caso di fotografie scattate in luoghi privati, il problema si fa più delicato e sarà risolto di volta in volta dal singolo tribunale, venendo in questo caso in rilievo il diritto alla privacy ed il diritto alla non intrusione nell’altrui proprietà privata. Può accadere, ad esempio, che il documento raccolto, venga ammesso e valutato come prova dal giudice civile (della separazione) ma che, contemporaneamente, il soggetto ritratto che si ritiene leso nel proprio diritto alla privacy, presenti una querela in sede penale, per interferenze illecite nella vita privata. Ed in questo caso i due procedimenti seguiranno percorsi e sorti diverse. Certamente, se un dato è acquisito e trattato violando la norma penale, e se tale violazione viene accertata tramite una sentenza irrevocabile, il dato non potrà essere utilizzato in un processo civile di separazione o di divorzio; d’altro canto appare evidente che, in considerazione del fatto che i due giudizi (civile e penale) seguono percorsi con tempi differenti, il giudice civile non possa attendere, al fine di giudicare ammissibile o meno, a fini probatori, un documento, l’esito del giudizio penale (può avvenire anche l’opposto e cioè che il giudice penale reputi il comportamento del soggetto che si asserisce aver violato la privacy come penalmente irrilevante, all’esito del processo, mentre il giudice civile, ritenga la prova raccolta violando la privacy come non ammissibile in sede civile). Per ciò che concerne la corrispondenza, se essa (ordinaria, elettronica, ecc) è diretta ad entrambi i coniugi, ciascuna parte potrà tranquillamente produrla in giudizio; altrimenti si può configurare il reato di cui all’articolo 616 cp (violazione, sottrazione o soppressione di corrispondenza) ovvero il comportamento di chi prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa (violazione), a lui non diretta, oppure sottrae o distrae, al fine di prenderne o di farne da altri prender cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non digennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 13 STUDI E RICERCHE retta (sottrazione), oppure, in tutto o in parte, la distrugge o sopprime (soppressione). Il secondo comma afferma che se il colpevole, senza giusta causa, rivela, in tutto o in parte, il contenuto della corrispondenza, è punito, con la reclusione fino a tre anni. A giudizio dello scrivente dovrebbe essere considerata come giusta causa (quindi come scriminante), il diritto della parte di far valere il proprio diritto dinnanzi al giudice civile per la dimostrazione di un comportamento illegittimo della controparte. Il concetto sopra indicato si estende alla corrispondenza elettronica. Quindi alle email, ma anche alla cosi detta MESSAGGISTICA ISTANTANEA (messanger, skype, ecc), ma anche ai sociali network (FACEBOOK), e cioè a tutti gli strumenti informativi protetti da password e da nome utente, all’interno dei quali il soggetto, titolare del profilo, interagisce con il mondo esterno esternando fatti e circostanze private o che non desidera che vengano diffuse o conosciute dalla generalità degli utenti. Altro problema è quello dell’utilizzabilità della corrispondenza elettronica, sotto il profilo dell’autenticità delle stesse, delle genuinità e della riconducibilità del messaggio, al presunto autore. Se per la corrispondenza ordinaria, il problema può essere facilmente risolto procedendo ad una perizia sul documento ai fine di accertarne la genuinità della firma, per il documento informatico il problema si complica. Da un lato perché non tutti i sistemi di messaggistica istantanea consentono di reperire la cronologia delle conversazioni (e questo diventa anche un problema nel caso in cui sia necessario disporre delle intercettazioni per l’accertamento della commissione di reati). Ad esempio sistemi quali SKYPE creati per esigenze di difesa nazionale e muniti di sistemi di difesa particolarmente sofisticati contro le intrusioni, rendono quasi impossibile, una volta cancellata, la ricostruzione della cronologia delle conversazioni (ad esempio skype utilizza un sistema, costituito da algoritmi che creano una criptazione di tutto ciò che viene scritto, nei confronti dell’esterno). Per quello che riguarda i social network è invece più facile ricostruire la cronologia delle conversazioni; però il contenuto delle conversazioni non costituisce una prova certa circa la provenienza delle stesse e la riconducibilità delle stesse al presunto autore. Non sono presenti infatti firme elettroniche e la parte, alla quale la conversazione è imputata, potrebbe benissimo difendersi affermando che qualcun altro è entrato nel suo profilo personale ad ha agito a suo nome. Certo questo non esclude che il giudice nel lambito del suo libero convincimento possa valutare tale prova e convincersi che in realtà l’ipotesi dell’intrusione di terzi nel profilo appare inverosimile. Resta poi il problema della violazione della privacy, relativamente all’accesso abusivo nel profilo 14 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 altrui, con conseguente commissione del reato di violazione, sottrazione, di corrispondenza; problema che come affermavo prima deve essere valutato caso per caso, per accertare quale sia il diritto prevalente (diritto alla privacy o diritto alla difesa). Il Garante della Privacy con parere del 03 giugno 2004 ha stabilito che, in relazione alle banche dati relative alla solvibilità economica, non è necessaria notificazione (anagrafe tributaria). Potranno certamente essere prodotti documenti relativi alla situazione patrimoniale delle parti (visure immobiliari, visure PRA, dichiarazioni dei redditi nelle parte esente la privacy e cioè i dati oggettivi sull’imponibile; si tratta di informazioni per le quali non potrebbe mai parlarsi di violazione della privacy da parte di un avvocati e ciò per tre ragioni fondamentali: 1) l’art. 13 T. U. Privacy introduce una deroga all’obbligo di preventiva informativa all’interessato, prevedendo l’esonero dalla stessa quando i dati personali devono essere trattati “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento)”. 2) depositare la dichiarazione dei redditi della controparte non è una violazione della privacy per il semplice fatto che la controparte è obbligata (per legge) a depositarla nel primo atto difensivo (è lo stesso giudice che con il provvedimento di fissazione di udienza obbligala parte depositare le dichiarazioni dei redditi).Quindi quando la controparte si lamenta perché abbiamo violata la privacy, dice una grande sciocchezza. 3) producendo la dichiarazione dei redditi della controparte (nella parte esente da privacy) io non diffondo il dato a terzi ma unicamente lo comunico al giudice (secondo la forma protetta dell’allegazione al fascicolo processuale). E se ci pensate questa allegazione è il presupposto perché io possa agire in giudizio con cognizione di causa, quantificando con cognizione di causa l’importo dell’assegno di mantenimento da richiedere nei confronti dei figli; valutando con cognizione di causa se richiedere o meno l’assegno di mantenimento o divorzile al coniuge. Senza tali dati (finanziari o patrimoniali) sarebbe impossibile farsi un quadro obiettivo e vi sarebbe un aumento indiscriminato di azioni, nelle quali una parte prova ad agire nei confronti del coniuge (magari con ricorso per modifica delle condizioni di separazione), nella speranza, basata su dati inesistenti, che vi è stato un mutamento delle condizioni reddituali ed economiche della controparte. Una sorta di tentativo di sparare nel mucchio, sperando di prendere qualche cosa. STUDI E RICERCHE Maggiori perplessità sussistono per la produzione degli estratti dei conti correnti bancari, dei quali la parte sia venuta a conoscenza ed in possesso mediante l’ausilio di agenzie che si avvalgono di banche dati dirette a reperire conti correnti o tramite incaricati della banca. Per quanto riguarda tale documentazione, sarebbe opportuno che si pronunciasse il garante della privacy anche se un’eventuale pronunzia non risolverebbe tutti i problemi; nel senso che, il giudice civile sarebbe sempre libero nell’ambito dei suoi poteri di valutare quel documento come elemento che concorre a determinarne il convincimento oppure di disporne lo stralcio e la non ammissione; mentre, il giudice penale in caso di querela continuerà a dover valutare caso per caso se vi è stata o meno una violazione della privacy e se essa è motivata o meno dalla necessità di far valere un diritto di pari rango o di rango superiore. Nessun dubbio invece sussiste circa l’utilizzo di mezzi di prova o di mezzi di ricerca e di acquisizione della prova che sono ritenuti illegittimi ai sensi del nostro ordinamento o la cui ammissione è sottoposta a regole e limiti precisi (intercettazioni telefoniche, ecc). Un problema che si presenta molto spesso nell’ambito dei giudizi di separazione e di divorzio è quello relativo all’utilizzabilità delle riprese audiovisive in un procedimento civile. La norma principale sotto il profilo processuale è l’art. 2712 c.c. che sancisce quanto segue: “Le riproduzioni (Cod. Proc. Civ. 261) fotografiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”. Sul punto la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che: “il disconoscimento delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. (tra le quali sono da includere le riprese adiovisive), che fa perdere alle stesse la loro qualità di prova, pur non essendo soggetto ai limiti e alle modalità di cui all’art. 214 c.p.c., deve, tuttavia essere chiaro, circostanziato ed esplicito (dovendo concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta) e… deve essere tempestivo, cioè avvenire nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla rituale acquisizione delle suddette riproduzioni dovendo per ciò intendersi la prima difesa in cui la parte sia stata posta in condizione di rendersi immediatamente conto del contenuto della riproduzione”. (Cass. 9526/2010). Alla luce del citato orientamento, il suddetto articolo va temperato con un fondamentale principio espresso dal codice di rito. Infatti, ai sensi dell’art. 116 c.p.c. “il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno o dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinato e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo”. Orbene, secondo la Corte di Cassazione “il disconoscimento, che fa perdere alle riproduzioni meccaniche la loro qualità di prova e va distinto dal mancato riconoscimento - diretto o indiretto - che non esclude il libero apprezzamento da parte del giudice delle riproduzioni legittimamente acquisite, deve essere chiaro e circostanziato ed esplicito con allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta” (Cass. n. 8998 del 2001). anche di recente la Suprema Corte, in un procedimento vertente in materia lavoro, ha avuto modo di precisare che “Pur non ignorando altro indirizzo secondo cui il disconoscimento delle riproduzioni meccaniche non consente la formazione della prova piena, ciò non può precludere al giudice la ricostruzione del contenuto della registrazione contestato in modo generico, attraverso elementi gravi, precisi e concordanti” (Cass. 10430/2007). Quindi se pure la parte ha disconosciuto il documento, il giudice può comunque, nell’ambito del proprio libero convincimento, valutare il fatto, sostanzialmente come provato. Reati connessi alla violazione del diritto alla privacy Ciò posto, è opportuno sotto il profilo del diritto sostanziale, valutare se le riprese audiovisive e la loro esibizione nel corso di un procedimento civile possano integrare gli estremi di un reato connesso alla tutela della riservatezza, dell’immagine o del domicilio della persona. Infatti, la suddetta condotta potrebbe integrare il reato di violazione di domicilio, o di violazione della segretezza delle comunicazioni private, o ancora con la violazione di un diritto all’immagine altrui, o quello di trattamento illecito di dati personali (art. 35 L675/1996 oggi art. 167 Codice privacy del 2003). E opportuno premettere che, quanto segue è frutto di studi effettuati in materia penalistica, ed in relazione al regime probatorio del procedimento penale. É scarsa la giurisprudenza e la dottrina in sede di processo civile. Esaminando preliminarmente la tutela della riservatezza, come già accennato in precedenza, l’art. 24 del Codice Privacy, da coordinarsi con l’art. 13 del medesimo testo normativo, prevede che il consenso non è richiesto quando l’attività è volta a far valere o difendere n diritto in sede giudiziaria. Detto articolo affronta il delicato problema del bilanciamento tra diritto di difesa e diritti della privacy dell’interessato e prevede la possibilità che la controparte di un procedimento giudiziale non sia gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 15 STUDI E RICERCHE informata previamente della raccolta di informazioni sul suo conto da parte di terzi. Pertanto, non è soggetto al preventivo consenso, la raccolta di informazioni effettuata al fine esercitare le azioni di tutela e difesa delle proprie ragioni. Sul diritto all’immagine, il Tribunale di S. Maria Capua Vetere, chiamato a pronunciarsi in relazione alla producibilità di immagini fotografiche che ritraevano scene di un adulterio, ha stabilito che “le finalità della giustizia (di cui all’art. 4 L. 675/1996), impongono una legittima violazione anche dell’immagine altrui - pena l’impossibilità di far valere un proprio diritto dinnanzi al giudice”. Sulla tutela del domicilio (art. 615 c.p.), in tema di videoriprese in luoghi privati, aperti o esposti al pubblico, la giurisprudenza penalistica ha più volte affermato che la ripresa di aree comuni non può ritenersi indebitamente invasiva della sfera privata dei condomini ai sensi dell’art. 615 c.p. giacchè l’indiscriminata esposizione alla vista altrui di un’area di pertinenza domiciliare non deputata a manifestazioni di vita privata è incompatibile con la tutela penale della riservatezza. La stessa Corte Costituzionale, con sentenza 149 del 16.05.2008 ha sancito che “il titolare del domicilio non può accampare una pretesa alla riservatezza se l’azione, pur svolgendosi in luoghi di privata dimora, possa essere liberamente osservata dagli estranei, senza ricorrere a particolari accorgimenti (ad es. chi si ponga su un balcone prospiciente la pubblica via), negli stessi limiti, l’attività così liberamente osservata può essere videoregistrata, per confluire, successivamente, nel coacervo probatorio”. Sul punto, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che una normale ripresa in un ambiente esterno può diventare illecita quando si adottano sistemi per superare quei normali ostacoli che impediscono di intromettersi nella vita privata altrui. Per questo, la Corte aggiunge “è necessario bilanciare l’esigenza di riservatezza (che trova presidio nella normativa costituzionale quale espressione della personalità dell’individuo nonchè la protezione del domicilio, pur esso assistito da tutela di rango costituzionale, che dispiega severa protezione dell’immagine), e la naturale compressione del diritto, imposta dalla concreta situazione di fatto o, ancora, la tacita, ma inequivoca rinuncia al diritto stesso, come accade nel caso di persona che, pur fruendo di un sito privato, si esponga in posizione visibile da una pluralità indeterminata di soggetti”. (Cass. Pen. 47165/ 2010). È opportuno tuttavia segnalare che la giurisprudenza ha elaborato la così detta categoria del “quasi domicilio” ovvero, può ritenersi domicilio penalmente tutelato quel luogo, destinato all’esplicazione anche di un solo atto della vita privata, in cui la persona si senta al riparo da sguardi indiscreti e abbia lo ius excludendi alios (es. abitacolo autovettura, camera d’albergo, androne di un condominio). 16 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 La Corte Costituzionale, ha comunque affermato che “stabilire quando la ripresa visiva possa ritenersi finalizzata alla captazione di comportamenti a carattere comunicativo e determinare i limiti entro i quali le immagini concretamente riprese abbiano ad oggetto tali comportamenti, è questione che spetta al giudice a quo risolvere”. Concludendo: ogni ripresa audiovisiva, da chiunque effettuata in aperto luogo pubblico, è ammissibile e probatoriamente utilizzabile sotto forma di “documento” ex art. 234 c.p.p., se eseguita al di fuori del contesto procedimentale, o, se contestualizzata come atto del procedimento, alla stregua di “documentazione” a norma dell’art. 134, quarto comma c.p.p., oppure ai sensi del combinato disposto degli artt. 189 e 190 c.p.p., nel contraddittorio delle parti, in quanto non vietata dalla legge e nella misura in cui sia funzionale all’accertamento dei fatti. La prova verrà così veicolata nel giudizio attraverso la semplice riproduzione del filmato o, se del caso, mediante perizia. Gli stessi argomenti valgono per le immagini e suoni captate in luoghi privati (siano essi aperti, recintati o anche chiusi tra “pareti finestrate”), ma comunque agevolmente osservabili dall’esterno senza l’impiego di particolari strumenti tecnologici (vedi, da ultimo, la citata sentenza della Corte Costituzionale n. 149 del 2008). Le relative videoregistrazioni sono assolutamente legittime, pienamente utilizzabili nella fase delle indagini preliminari e validamente acquisibili. Anche le videoregistrazioni in ambienti domiciliari (si rimanda a quanto precedentemente esposto per l’individuazione del concetto di domicilio) comunque effettuate dal titolare del relativo diritto e messe a disposizione dell’autorità giudiziaria sono pienamente ammissibili ed utilizzabili come prova documentale ex art. 234 c.p.p. (si pensi, ad esempio, alle immagini estrapolate da un sistema di videosorveglianza installato in un appartamento e messe a disposizione dell’autorità giudiziaria dal proprietario dello stesso). Le videoregistrazioni in ambienti domiciliari, occultamente effettuate dagli inquirenti previo decreto autorizzativo emesso dall’autorità giudiziaria a norma del combinato disposto degli artt. 266, secondo comma, e 267 c.p.p., saranno legittime ed utilizzabili alla stregua di intercettazioni di comunicazioni tra presenti, soltanto se riproducano comportamenti di tipo comunicativo. STUDI E RICERCHE In assenza di una normativa che le consenta, disciplinandone casi e modi, sono costituzionalmente vietate, e quindi inammissibili, le riprese audiovisive eseguite nell’altrui domicilio e che contengano immagini di comportamenti non comunicativi. Le videoregistrazioni eseguite nel “quasi domicilio” siano esse rappresentative di qualunque comportamento, sono ammissibili e quindi veicolabili come prova atipica nel giudizio, a norma dell’art. 189 c.p.p., soltanto se precedentemente autorizzate con decreto motivato dell’autorità giudiziaria (pubblico ministero o giudice), in guisa da soddisfare il livello minimo di garanzie costituzionali sopra tratteggiato. Istruttoria processuale (informazioni patrimoniali; attività e facoltà delle parti; poteri del Giudice) È opportuno ora individuare la fase processuale in cui gli elementi probatori raccolti dalla parte debbano essere prodotti in giudizio. La fase introduttiva del procedimento è senza dubbio, il momento in cui le parti (ricorrente e resistente) devono indicare gli strumenti di prova, dei quali si vogliono avvalere nel corso del giudizio, per far valere i propri diritti. L’articolo 706 del codice di procedura civile, è piuttosto scarno circa le indicazioni sul contenuto del ricorso e sulle allegazioni documentali delle parti. L’unico obbligo specifico è quello relativo all’allegazione, unitamente al deposito del ricorso e della memoria difensiva, delle ultime dichiarazioni dei redditi delle parti (e questo come ho detto prima ci fa chiaramente comprendere che la parte che deposita le informazioni circa la dichiarazione dei redditi di controparte non commette una violazione della privacy e ciò proprio sul presupposto che la controparte è tenuta nel primo atto difensivo a produrre tali dichiarazioni). Sul contenuto del ricorso è opportuno rilevare che esso dovrà contenere l’esposizione dei fatti sui quali la domanda è fondata. La facoltà concessa dalla legge al ricorrente, di presentare una memoria integrativa, contenente le indicazioni di cui ai numeri 2, 4, 5 e 6 comma 3 dell’articolo 163 c.p.c., palesa la non necessità che nel ricorso introduttivo siano presenti tutti gli elementi sui quali è fondata la domanda (incluse le allegazioni probatorie). Sull’obbligo di deposito in sede di ricorso o di memoria difensiva, delle dichiarazioni dei redditi delle parti, va rilevato che la mancata allegazione agli atti introduttivi, è priva di sanzione, non comportando alcuna ipotesi di nullità. L’unica conseguenza potrà essere quella della valutazione sfavorevole, da parte del Presidente, del comportamento della parte che ha omesso di depositare le dichiarazioni dei redditi. L’articolo 706 c.p.c. si riferisce genericamente alle “ultime” dichiarazioni dei redditi. In dottrina si è dibattuto se tale indicazioni implichi un obbligo di depositare l’ultima dichiarazione dei redditi presentata dalle parti o se l’obbligo si estenda anche alle precedenti dichiarazioni. In assenza di una specifica disposizione di legge, la questione è stata risolta, come spesso avviene, dalla prassi giudiziaria, dove nei provvedimenti di fissazione di udienza, è indicato l’obbligo di depositare le ultime “tre” dichiarazioni dei redditi. Rispetto all’articolo 5 della legge 1 dicembre 1970, vi è una riduzione dei documenti fiscali che la parte deve allegare al ricorso; tale norma prevedeva infatti l’obbligo per le parti di allegare la dichiarazione dei redditi e ogni documentazione relativa ai redditi e al patrimonio personale. Ciò equivaleva ad imporre a carico di ciascuna delle parti, l’obbligo di allegare tutta la documentazione afferente il patrimonio, come ad esempio le visure del PRA, i certificati della Conservatoria dei Registri Immobiliari, gli estratti dei conti correnti bancari. Oggi, proprio in considerazione della necessità di allegare le solo dichiarazioni dei redditi, saranno le stesse parti che, nell’ambito della loro attività di indagine, potranno acquisire le informazioni e la documentazione diretta a provare la reale situazione reddituale della controparte. Si tratta certamente di una facoltà e non di un obbligo. D’altro lato, nel caso in cui le informazioni o le dichiarazioni dei redditi delle parti, dovessero apparire non verosimili o in contrasto con il tenore di vita del soggetto o se le informazioni di carattere economico fornite dai coniugi non risultino sufficientemente documentate, il Giudice potrà disporre d’ufficio (magari dietro richiesta di una delle parti) le opportune indagini patrimoniali anche a mezzo della Polizia Tributaria. Solitamente le indagini di polizia tributaria vengono espletate secondo due criteri fondamentali: il primo è rappresentato dalla richiesta ed acquisizione di tutta la documentazione relativa al patrimonio mobiliare ed immobiliare del soggetto coinvolto nell’accertamento. Saranno richiesti i certificati presso le Conservatorie dei Registri Immobiliari, presso il Pubblico Registro Automobilistico; verranno effettuate le opportune ricerche volte alla ricerca di conti correnti bancari e alla disponibilità di titoli azionari ed obbligazionari. Saranno altresì oggetto di valutazione ed indagine, le eventuali società di cui il soggetto è socio. Un’attenzione particolare verrà rivolta all’analisi delle dichiarazioni dei redditi, anche al fine di valutarne la correttezza e congruità rispetto al tenore di vita del soggetto. L’indagine potrà poi estendersi alla verifica delle singoli voci indicate nella dichiarazione dei redditi, con particolare riferimento alla verifica sulla veridicità delle singole fatture emesse e di quelle di acquisto, specie sotto il profilo dell’esistenza della prestazione sottostante la fattura. gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 17 STUDI E RICERCHE Il secondo criterio di indagine è rappresentato dall’acquisizione di informazioni, per mezzo di soggetti quali dipendenti, datori di lavoro e soggetti che possano essere a conoscenza di informazioni utili dirette ad ricostruire ed accertare il patrimonio ed il tenore di vita del soggetto. Certamente il limite delle indagini di polizia tributaria, espletate nel corso dei procedimenti di separazione e divorzio, è rappresentato dalla difficoltà di individuare quella parte di patrimonio, eventualmente intestata in modo fittizio a terzi soggetti. Per i patrimoni cosiddetti “occulti” dovranno essere le stesse parti, magari più informate sulla situazione economica del coniuge, ad effettuare attività di indagine, all’esito della quale potranno richiedere al Giudice di estendere le indagini a terzi soggetti, suggerendo quegli elementi che inducano l’organo giudicante a ritenere verosimile l’esistenza di una quota di patrimonio occultato. È agevole comprendere che le indagini effettuate dalla parte possono essere tanto più complete, quanto più alte sono le disponibilità economiche del soggetto. Assistiamo pertanto a due forme di attività istruttoria, caratterizzate l’una dall’intervento di organi di polizia attivati dietro impulso del giudice, nell’ambito dei suoi poteri di introduzione d’ufficio di mezzi prova, dall’altro dall’attività investigativa delle parti, svolta nell’ambito e nei limiti delle facoltà attribuite ai soggetti in causa di far valere i propri diritti, avvalendosi di strumenti non illeciti, pur in apparente violazione di norme, che sono state concepite per garantire il rispetto della privacy dell’individuo; diritto alla privacy, che come ampiamente illustrato nel corso della nostra esposizione, può subire delle legittime compressioni nel corso di un giudizio di separazione o divorzio, qualora ciò sia necessario per far valere un contrapposto diritto di pari rango o di rango addirittura superiore. È doveroso segnalare in questa sede come, ai sensi dell’articolo 155 c.c. le indagini di Polizia Tributaria possono estendersi anche a terzi soggetti che si ritiene detengano o siano intestatari (come prestanome) di beni o attività direttamente o indirettamente riconducibili ad una delle parti in causa. (“ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentali, il giudice dispone una accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi”). 18 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 Sempre con riferimento alla fase istruttoria, l’articolo 709 c.p.p., stabilisce che davanti al Giudice istruttore si applicano le disposizioni di cui agli articolo 180 e 183, incluso quindi il sesto comma n. 2 di quest’ultimo articolo, a mente del quale il Giudice concede alle parti un termine di 30 giorni per l’indicazione dei mezzi di prove a per le produzioni documentali. Possiamo pertanto affermare che nel corso dei giudizi di separazione e di divorzio, esistono tre fasi processuali previste dal codice civile e di procedura, che consentono alle parti di produrre documenti o di indicare mezzi di prova, da individuarsi la prima, nell’allegazione documentale che avviene al momento del deposito del ricorso introduttivo o della memoria difensiva, la seconda dal deposito in cancelleria della memoria integrativa di cui all’articolo 709 c.p.c. e la terza dal deposito della memoria ex articolo 183, VI comma n. 2. Merita altresì di essere affrontato in questa sede, il problema dell’ammissibilità di un’attività istruttoria, finalizzata all’emanazione da parte del Presidente del tribunale dei provvedimenti temporanei ed urgenti ex articolo 708 c.p.c.. Per quanto riguarda i provvedimenti da emanarsi nell’interesse della prole, la soluzione si rinviene nel dettato normativo dell’articolo 155 sexies c.c., il quale prevede che “prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 155 c.c., il giudice, può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova”. La natura pubblicistica degli interessi in gioco, giustifica l’intervento istruttorio del giudice anche in questa fase. Ritengo personalmente che pure in assenza di una specifica norma, tale potere possa estendersi anche ai provvedimenti temporanei ed urgenti da emanarsi nell’esclusivo interesse dei coniugi, consentendo ai Giudice di acquisire prove precostituite e costituende, purchè ciò sia compatibile con la natura urgente del rito. Sulla tipologia delle prove costituende ammissibili nel giudizio di separazione e divorzio è certamente ipotizzabile il ricorso al giuramento, all’interrogatorio formale, alla confessione. Anche sulla prova per testi, non vi sono particolati limitazioni, se non quelle legate alla necessità di adottare una particolare prudenza nell’assumere testi che siano parenti o amici stretti dei coniugi, anche in considerazione del rischio di parzialità degli stessi. GIURISPRUDENZA COMMENTATA DUE SENTENZE A CONFRONTO SUL RISARCIMENTO PER INFEDELTÀ CONIUGALE relazione da lui intrattenuta con altra donna, anch’essa sposata. Il convenuto si costituì chiedendo che la domanda fosse dichiarata inammissibile, trovando la violazione dei doveri coniugali tutela unicamente attraverso il procedimento di separazione personale, e comunque infondata. Istruita la causa anche con CTU sulle condizioni di salute dell’attrice, il tribunale respinse la domanda. L’attrice propose appello e il convenuto propose appello incidentale relativamente alla compensazione delle spese di primo grado. La Corte di Appello di Genova, con sentenza depositata il 20 maggio 2006, rigettò entrambi gli appelli. La sig.ra (…) ha proposto ricorso per Cassazione con atto notificato il 29 giugno 2007 alla controparte, formulando due motivi, ai quali il sig. (…) resiste con controricorso notificato il 4 settembre 2007, entrambe le parti hanno depositato memorie. Motivi della decisione (omissis) I Il risarcimento non è precluso dalla mancanza di una pronuncia di addebito della separazione Cass. civile Sez. I, 15 settembre 2011, n. 18853 Presidente Luccioli, Relatore Felicetti I doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 cod. civ. senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa a detti danni (omissis) Svolgimento del processo 1. La sig.ra (…) con citazione del 22 giugno 2001 convenne dinanzi al tribunale di Savona il marito chiedendone la condanna al risarcimento dei danni (biologico ed esistenziale) causatile dalla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e, in particolare, dall’obbligo di fedeltà, avvenuto con modalità per lei particolarmente frustranti, stante la notorietà della 2. Con il primo motivo si denuncia insufficiente e/o illogica e/o contraddittoria motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio. Si deduce al riguardo che la Corte di appello, dopo avere affermato di condividere la tesi secondo la quale le regole che disciplinano la materia familiare non costituiscono un sistema chiuso che impedisca alla violazione degli obblighi nascenti dal matrimonio l’applicabilità delle norme generali in tema di responsabilità aquiliana, ha poi affermato che, nel caso di specie mancherebbe il presupposto per il diritto al risarcimento. Tale mancanza emergerebbe dall’avere la ricorrente in un primo tempo proposto domanda di separazione con addebito, successivamente abbandonando la procedura per addivenire alla separazione consensuale. Secondo la ricorrente detta motivazione sarebbe incongrua, non comprendendosi in che cosa consista quel “presupposto”, né perché mancherebbe la prova di esso. Con il secondo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 2043 - 2059 - 151 cod. civ.), Si deduce al riguardo che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere non risarcibile il danno ove non vi sia, come nella specie, una pronuncia di addebito in sede di separazione. Il diritto al risarcimento, infatti, trova fondamento nel caso di specie nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto e sarebbe indipendente dalla pronuncia di addebito in sede di separazione personale. Avrebbe pertanto errato la Corte d’appello nel ritenere che l’abbandono della domanda di addebito presupporrebbe la volontà, da parte dei coniugi, di non accertare la causa della crisi coniugale “così erroneamente trasponendo in un giudizio risarcitorio le regole e i limiti specificamente, ad altro fine dettati dall’art. 151 cod. civ.”. Regole e limiti validi per la pronuncia di separazione con addebito e comportanti il divieto di mutamento del titolo, ma non la proponigennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 19 GIURISPRUDENZA COMMENTATA bilità di una domanda di risarcimento, come quella proposta dalla ricorrente. L’addebito, infatti, comporta conseguenze del tutto peculiari e limitate, e in certi casi può essere anche privo di conseguenze pratiche, come lo sarebbe stato nel caso di specie per la ricorrente la quale, rinunciando al giudizio di separazione, non aveva espresso alcuna rinuncia al diritto al risarcimento dei danni, l’azione di risarcimento pertanto, secondo la ricorrente, era comunque esercitabile, in relazione ad una condotta dell’altro coniuge posta in essere nella consapevolezza della sua attitudine a recarle pregiudizio, in quanto contraria ai doveri nascenti dal matrimonio e produttiva di un danno ingiusto. Ciò troverebbe conferma sia nei principi affermati da questa Corte nella sentenza n 9801 del 2005, circa la concorrente rilevanza di determinati comportamenti sia ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle pertinenti statuizioni di natura patrimoniale, sia quale fatto generatore di responsabilità aquiliana; sia nella dottrina la quale ha evidenziato la frequente sussistenza, nella disciplina codicistica e della legislazione speciale, di tutele concorrenti con l’azione risarcitoria. Il motivo si conclude con il seguente quesito: “Posto che la ricorrente ha proposto domanda giudiziale nei confronti del coniuge al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti per effetto dei di lui comportamenti violativi dei doveri nascenti dal matrimonio e lesivi di diritti assoluti e costituzionalmente protetti (salute, immagine, riservatezza, relazioni sociali, dignità del coniuge, ecc.) affermi la Corte il principio che la mancanza di addebito in sede di separazione per mutuo consenso non è preclusiva di separata azione per il risarcimento dei danni prodotti dalla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e riguardanti diritti costituzionalmente protetti”. 2.2. Deve premettersi che la “ratio” della decisione impugnata va ravvisata nella statuizione in essa contenuta secondo la quale la domanda di risarcimento proposta in relazione alla violazione di un dovere nascente dal matrimonio “non può trovare accoglimento” in mancanza della pronuncia di addebito in sede di giudizio di separazione. In relazione a tale “ratio” va esaminato con precedenza il secondo motivo. 2.3. In proposito deve muoversi dai principi già affermati da questa Corte nella sentenza quali la stessa sentenza 10 maggio 2005 n. 9801, ai quali la stessa sentenza impugnata si richiama condividendoli. Secondo quella sentenza i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio non sono di carattere esclusivamente morale ma hanno natura giuridica, come si desume dal riferimento contenuto nell’art. 143 cod. civ. alle nozioni di dovere, di obbligo e di diritto e dall’espresso riconoscimento nell’art. 160 cod. civ. della loro inderogabilità, nonché dalle conse20 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 guenze di ordine giuridico che l’ordinamento fa derivare dalla loro violazione, cosicché deve ritenersi che l’interesse di ciascun coniuge nei confronti dell’altro alla loro osservanza abbia valenza di diritto soggettivo. Ne deriva che la violazione di quei doveri non trova necessariamente la propria sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quali la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale nel caso di allontanamento senza giusta causa dalla residenza familiare ai sensi dell’art. 146 cod. civ., l’addebito della separazione, con i suoi riflessi in tema di perdita del diritto all’assegno e dei diritti successori, il divorzio e il relativo assegno, con gli istituti connessi. Discende infatti dalla natura giuridica degli obblighi su detti che il comportamento di un coniuge non soltanto può costituire una causa di separazione o di divorzio, ma può anche, ove ne sussistano tutti i presupposti secondo le regole generali, integrare gli estremi di un illecito civile. In proposito si è rilevato che la separazione e il divorzio costituiscono strumenti accordati dall’ordinamento per porre rimedio a situazioni di impossibilità di prosecuzione della convivenza o di definitiva dissoluzione del vincolo; che l’assegno di separazione e di divorzio hanno funzione assistenziale e non risarcitoria; che la perdita del diritto all’assegno di separazione a causa dell’addebito può trovare applicazione soltanto in via eventuale, in quanto colpisce solo il coniuge che ne avrebbe diritto e non quello che deve corrisponderlo. La natura, la funzione ed i limiti di ciascuno dei su detti istituti rendono evidente che essi sono strutturalmente compatibili con la tutela generale dei diritti, tanto più se costituzionalmente garantiti, non escludendo la rilevanza che un determinato comportamento può rivestire ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle conseguenti statuizioni di natura patrimoniale, la concorrente rilevanza dello stesso comportamento quale fatto generatore di responsabilità aquiliana. Anche nell’ambito della famiglia i diritti inviolabili della persona rimangono infatti tali, cosicché la loro lesione da parte di altro componente della famiglia può costituire presupposto di responsabilità civile. Fermo restando che, la mera violazione dei doveri matrimoniali, o anche la pronuncia di addebito della separazione, non possono di per sé ed automaticamente integrare una responsabilità risarcitoria, dovendo, in particolare, quanto ai danni non patrimoniali, riscontrarsi la concomitante esistenza di tutti i presupposti ai quali l’art. 2059 cod. civ riconnette detta responsabilità, secondo i principi da ultimo affermati nella sentenza 11 novembre 2008, n. 26972 delle Sezioni Unite, la quale ha ricondotto sotto la categoria e la disciplina dei danni non patrimoniali tutti i danni risarcibili non aventi contenuto economico e, quindi, entrambi i tipi di danno in relazione ai quali è stata formulata la domanda dell’odierna ricorrente. GIURISPRUDENZA COMMENTATA 2.4. Dovrà pertanto considerarsi al riguardo - in conformità à quanto statuito in detta sentenza delle Sezioni Unite - che l’art 2059 cod. civ. non prevede un’autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all’art. 2043, ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali di ogni tipo, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 cod. civ. e cioè la condotta illecita, l’ingiusta lesione di diritti tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso. L’unica differenza tra il danno non patrimoniale e quello patrimoniale consiste pertanto nel fatto che quest’ultimo è risarcibile in tutti i casi in cui ricorrano gli elementi di un fatto illecito, mentre il primo lo è nei soli casi previsti dalla legge. Cioè, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art 2059 cod, civ: a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato: in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale; b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato: in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento; c) quando, al di fuori delle due ipotesi precedenti, il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati, caso per caso, dal giudice. In tale ultima ipotesi il danno non patrimoniale sarà risarcibile ove ricorrano contestualmente le seguenti condizioni: a) che l’interesse leso (e non il pregiudizio sofferto) abbia rilevanza costituzionale; b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, come impone il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. o che il danno non sia futile, ma abbia una consistenza che possa considerarsi giuridicamente rilevante. 2.5. Con specifico riferimento al caso di specie, in cui la condotta illecita in relazione alla quale è chiesto il risarcimento del danno è costituita dalla violazione del dovere di fedeltà nascente dal matrimonio, va specificamente osservato quanto segue. Nel vigente diritto di famiglia, contrassegnato dal diritto di ciascun coniuge, a prescindere dalla volontà o da colpe del- l’altro, di separarsi e divorziare, in attuazione di un diritto individuale di libertà riconducibile all’art. 2 della Costituzione, ciascun coniuge può legittimamente far cessare il proprio obbligo di fedeltà proponendo domanda di separazione, ovvero, ove ne sussistano i presupposti, direttamente di divorzio. Con il matrimonio, infatti, secondo la concezione normativamente sancita del legislatore, i coniugi non si concedono un irrevocabile, reciproco ed esclusivo “ius in corpus” - da intendersi come comprensivo della correlativa sfera affettiva valevole per tutta la vita, al quale possa corrispondere un “diritto inviolabile” di ognuno nei confronti dell’altro, potendo far cessare ciascuno i doveri relativi in ogni momento con un atto unilaterale di volontà espresso nelle forme di legge. Nell’ottica di tale assetto normativo, se l’obbligo di fedeltà viene violato in costanza di convivenza matrimoniale, la sanzione tipica prevista dall’ordinamento è costituita dall’addebito con le relative conseguenze giuridiche, ove la relativa violazione si ponga come causa determinante della separazione fra i coniugi, non essendo detta violazione idonea e sufficiente di per sé a integrare una responsabilità risarcitoria del coniuge che l’abbia compiuta, né tanto meno del terzo, che al su detto obbligo è del tutto estraneo. In particolare, quanto alla responsabilità per danni non patrimoniali, ai quali è limitato il tema del decidere, sulla base dei principi già sopra esposti, perché possa sussistere una responsabilità risarcitoria, accertata la violazione del dovere di fedeltà, al di fuori dell’ipotesi di reato dovrà accertarsi anche la lesione, in conseguenza di detta violazione, di un diritto costituzionalmente protetto. Sarà inoltre necessaria la prova del nesso di causalità fra detta violazione ed il danno, che per essere a detto fine rilevante non può consistere nella sola sofferenza psichica causata dall’infedeltà e dalla percezione dell’offesa che ne deriva - obbiettivamente insita nella violazione dell’obbligo di fedeltà - di per sé non risarcibile costituendo pregiudizio derivante da violazione di legge ordinaria, ma deve concretizzarsi nella compromissione di un interesse costituzionalmente protetto. Evenienza che può verificarsi in casi e contesti del tutto particolari, ove si dimostri che l’infedeltà, per le sue modalità e in relazione alla specificità della fattispecie, abbia dato luogo a lesione della salute del coniuge (lesione che dovrà essere dimostrata anche sotto il profilo del nesso di causalità). Ovvero ove l’infedeltà per le sue modalità abbia trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell’offesa di per sé insita nella violazione dell’obbligo in questione, si siano concretizzati in atti specificamente lesivi della dignità della persona, costituente bene costituzionalmente protetto. 2.6. In relazione ai su detti principi deve darsi risposta positiva al quesito posto dalla ricorrente, con il quale si è chiesto a questa Corte di affermare che gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 21 GIURISPRUDENZA COMMENTATA la mancanza di addebito della separazione non è preclusiva di separata azione per il risarcimento dei danni prodotti dalla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e riguardanti diritti costituzionalmente protetti. Deve intatti ritenersi incompatibile con i principi sopra enunciati l’affermazione della sentenza impugnata (che ne costituisce la “ratio decidendi”) censurata con il motivo, secondo il quale la prova della colpevole violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, ai fini dell’esperibilità dell’azione di risarcimento, sarebbe preclusa ove i coniugi, come nel caso di specie, siano addivenuti a separazione consensuale, rinunciando il coniuge interessato alla pronuncia di addebito, dovendosi tale rinuncia interpretare come rinuncia all’accertamento delle cause della crisi del matrimonio, in quanto giudizialmente accertabili solo nel giudizio di separazione con specifica domanda di addebito. Tale statuizione viene erroneamente collegata alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la dichiarazione di addebito della separazione può essere richiesta e adottata solo nell’ambito del giudizio di separazione, dovendosi escludere l’esperibilità di domande di addebito fuori da tale giudizio (ex multis Cass. sez. un. 4 dicembre 2001, n. 15279; 29 marzo 2005, n. 6625). Quella giurisprudenza pone a fondamento del su detto principio la statuizione dell’art. 151, comma 2, cod. civ., che attribuisce espressamente la cognizione della domanda di addebito al giudice della separazione. Ma ai fini che qui interessano va rilevato che l’art. 151 cod. civ. attribuisce al giudice della separazione la cognizione sulla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio unicamente in relazione alla pronuncia sull’addebito, che in essi trova la “causa petendi”. Cioè in relazione a quello specifico “petiturn”, costituito dalle conseguenze giuridiche che si collegano alla pronuncia di addebito e che sono, per il coniuge a carico del quale venga presa, l’esclusione del diritto al mantenimento (con salvezza del solo credito alimentare ove ne ricorrano i requisiti) e la perdita della qualità di erede riservatario e di erede legittimo, con salvezza del diritto ad un assegno vitalizio in caso di godimento degli alimenti al momento dell’apertura della successione (artt. 155, 549 e 585 cod. civ.). “Petitum” al quale si può non avere interesse, avendo invece interesse, sussistendone i presupposti, al diritto al risarcimento. Non essendo rinvenibile una norma di diritto positivo, né essendo rinvenibili ragioni di ordine sistematico che rendano la pronuncia sull’addebito (inidonea di per sé a dare fondamento all’azione di risarcimento) pregiudiziale rispetto alla domanda di risarcimento, una volta affermato - come sopra si è fatto - che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio non trova necessariamente la propria sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di 22 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 famiglia, ma, ove ne sussistano i presupposti secondo le regole generali, può integrare gli estremi di un illecito civile, la relativa azione deve ritenersi del tutto autonoma rispetto alla domanda di separazione e di addebito ed esperibile a prescindere da dette domande, ben potendo la medesima “causa petendi” dare luogo a una pluralità di azioni autonome contrassegnate ciascuna da un diverso “petitum”. Ne deriva, inoltre, che ove nel giudizio di separazione non sia stato domandato l’addebito, o si sia rinunciato alla pronuncia di addebito, il giudicato si forma, coprendo il dedotto e il deducibile, unicamente in relazione al “petitum” azionato e non sussiste pertanto alcuna preclusione all’esperimento dell’azione di risarcimento per violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, così come nessuna preclusione si forma in caso di separazione consensuale. Ciò trova ulteriore conferma sistematica per un verso nella considerazione che, come sopra si è osservato con specifico riferimento alla violazione dell’obbligo di fedeltà, diverse sono anche la rilevanza e le caratteristiche fattuali che tale violazione può avere ai fini dell’addebitabilità della separazione rispetto a quelle che deve avere per dare fondamento ad un’azione di risarcimento. Per altro verso, nella considerazione che sarebbe del tutto al di fuori della logica del sistema subordinare - risultato al quale condurrebbe la “ratio” della decisione impugnata alla dichiarazione di addebito il risarcimento del danno per violazione di obblighi nascenti dal matrimonio ove tale violazione costituisca reato e abbia dato luogo a condanna penale. Il secondo motivo del ricorso va pertanto accolto - dichiarandosi assorbito il primo - e la sentenza va cassata con rinvio anche per le spese alla Corte d’appello di Genova in diversa composizione che farà applicazione del principio secondo il quale: “I doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi su detti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 cod. civ. senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa a detti danni”. P.Q.M. LA CORTE DI CASSAZIONE Accoglie il secondo motivo. Dichiara assorbito il primo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Genova in diversa composizione. GIURISPRUDENZA COMMENTATA II Il risarcimento per infedeltà è precluso dalla separazione consensuale Corte d’appello di Genova 20 maggio 2006 Presidente Rovelli, Relatore Sangiuolo (omissis) “A.” ha evocato in giudizio il coniuge separato “C.” chiedendone la condanna al risarcimento del danno biologico cagionatole, nella allegata misura di £.1.000.000.000, con comportamenti gravemente contrari ai doveri nascenti dal matrimonio. Esponeva di avere contratto matrimonio col predetto nel maggio 1994 dopo otto anni di serena convivenza, che aveva fatto seguito al fallimento di una precedente unione matrimoniale ; nel 1997 essa era stata informata della esistenza di una relazione extraconiugale che da tempo il marito intratteneva con altra donna. Secondo la espositiva della attrice, a fronte delle richieste di chiarimento formulate dalla consorte, “C.” non aveva negato la circostanza, chiedendo tempo per assumere le proprie decisioni; la situazione - che era divenuta di pubblico dominio - aveva prostrato profondamente la donna, che era caduta in depressione ed aveva interrotto ogni frequentazione ed attività. Tanto premesso, sosteneva che il contegno del “C.”, colpevolmente violatore dei doveri nascenti dal matrimonio, le avesse arrecato grave pregiudizio, e fosse stato fonte di “danno biologico conseguente alla violazione del dovere di fedeltà, o danno psicologico, e di danno esistenziale e/o danno alla serena vita familiare”, giacché l’avvio della relazione col “C.” aveva pregiudicato anche la precedente situazione coniugale della “A.”, che si era separata dal primo marito. Chiedeva il ristoro del pregiudizio come sopra subito, in somma che indicava in £.1.000.000.000. “C.” costituendosi contestava il fondamento e la ammissibilità della domanda; faceva presente che il procedimento di separazione con addebito al marito era stato abbandonato dalla “A.” che era addivenuta a separazione consensuale; aggiungeva che i doveri inerenti al matrimonio regolati dall’art. 143 c.c. erano incoercibili, e che la sanzione per la loro inosservanza andava ricercata solo all’interno delle previsioni dettate legislativamente per l’istituto matrimoniale. Nel merito, contestava gli addebiti che gli erano stati mossi, evidenziava di avere egli pure vissuto con dolore la crisi del coniugio con la “A.”, denunziava la genericità del danno ex adverso lamentato. La causa veniva istruita con documenti, testi e CTU ed era infine definita con la sentenza impugnata che ha respinto la domanda, compensando le spese di lite in ragione della peculiarità della vicenda e della natura dei diritti dedotti. La “A.” ha impugnato la pronunzia con un primo motivo denunziando la erroneità della ricostruzione delle emergenze del processo resa dal primo Giudice, se del caso instando per la rinnovazione della istruttoria. Con un secondo motivo ha censurato la affermazione, contenuta in sentenza, secondo la quale la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio troverebbe la sua sanzione solo all’interno delle regole che presidiano l’istituto matrimoniale, affermando che non sussiste ragione di sorta per negare, al soggetto che abbia riportato danno a seguito del comportamento del coniuge che ne abbia violato i diritti nascenti dal matrimonio, la medesima tutela che sarebbe assentita a persona estranea al nucleo familiare. Con un terzo motivo ha contestato l’affermazione, munita di efficacia saliente quanto alle sorti del giudizio, resa quanto alla mancata indicazione del diritto costituzionalmente garantito o del diritto soggettivo che sarebbe stato violato, esplicitando che la denunziata violazione atteneva al diritto alla salute, all’immagine, alla riservatezza, alle relazione sociali, diritti tutti pregiudicati dall’indebito comportamento tenuto nella fattispecie dall’obbligato. Aggiungeva che il comportamento del “C.” era stato realizzato con palese spregio delle esigenze personali della moglie, della di lei dignità e sensibilità, circostanza che rendeva palese la violazione del diritto e il conseguente pregiudizio subito; sosteneva che ciò fosse tanto più grave, per essere evento del tutto inaspettato, nato all’interno di una relazione che appariva come piena ed appagante. Evidenziava che il convenuto neppure si fosse offerto di provare che il coniugio fosse, all’epoca dei fatti, già compromesso, circostanza che avrebbe potuto attenuare la antigiuridicità del proprio comportamento. Chiedeva pertanto che, in riforma della pronunzia, riconosciuta la violazione del dovere di fedeltà in capo al “C.”, costui fosse condannato a risarcire il danno che con la proprio condotta aveva arrecato alla coniuge, mediante versamento di una somma da determinare, se del caso, in via equitativa. Parte appellata ha preliminarmente eccepito la inammissibilità del gravame, per genericità dei motivi, che non avrebbero individuato con sufficiente chiarezza il nucleo della pronunzia colpito da impugnazione. gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 23 GIURISPRUDENZA COMMENTATA Con un secondo motivo ha eccepito la novità della domanda, di risarcimento del danno esistenziale, che la controparte avrebbe introdotto tardivamente solo alla udienza di precisazione delle conclusioni in primo grado e sulla quale egli non aveva accettato il contraddittorio. L’appellato contestava comunque il fondamento della domanda quanto al danno biologico e la fondatezza dei motivi di appello; sosteneva che il sistema di diritti-doveri nascenti dal matrimonio costituisce un sistema “chiuso” che trova solo al suo interno la propria regolamentazione, sì che la responsabilità per la sua violazione non potrebbe venire sanzionata se non con le specifiche modalità apprestate dalle norme speciali; in fatto sottolineava che le parti si erano comunque separate consensualmente, rinunziando a far valere cause di addebito quanto al verificarsi della crisi coniugale. Censurava la pronunzia quanto alla compensazione delle spese di lite, delle quali chiedeva in via di appello incidentale il ristoro integrale. Precisate le conclusioni come sopra, alla udienza del 19/1/2006 la causa è passata in decisione. Motivi Pregiudizialmente deve essere affermato che il gravame possiede una specificità sufficiente a renderlo ammissibile, avendo l’impugnante indicato con sufficiente chiarezza i punti che costituiscono l’oggetto del devolutum. Neppure può poi utilmente sostenersi la novità della duplice prospettazione del danno lamentato dalla “A.”, avendo essa già nell’atto di citazione in primo grado chiesto il ristoro” del danno biologico conseguente alla violazione del dovere di fedeltà del coniuge (o danno psicologico) e del danno esistenziale e/o danno alla serenità familiare”, allegando che la condotta del “C.” avrebbe “stravolto la esistenza della attrice”; la allegazione è stata poi specificata nelle difese successive sì che pretesa violazione del c.d. “danno esistenziale”- contrariamente a quanto pretende la difesa appellata - è tutt’altro che estraneo al novero delle domande tempestivamente sottoposte al vaglio giudiziale. Nel merito, la Corte reputa che il rigetto della domanda sia sostanzialmente da confermare, ma che la motivazione vada corretta. Il primo Giudice ha affermato che: Il comportamento del coniuge che violi i doveri nascenti dal matrimonio è sanzionato dall’ordinamento con la pronunzia di addebitabilità della separazione; - detta circostanza, in virtù del principio, di prevalenza della lex specialis induce a ritenere che, nel caso di trasgressione di tali doveri, l’autore della stessa non vada incontro a conseguenze ulteriori e diverse, rispetto a quelle previste nel diritto familiare; 24 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 - anche a ritenere che per contro sia ipotizzabile la risarcibilità del pregiudizio conseguente, in base ai principi generali, si verterebbe nell’ambito delle previsioni dell’art. 2059 c.c., seppure nella lettura costituzionalmente orientata resa dalla S.C. che “superando la tradizionale lettura restrittiva della norma, considera inoperante il limite della riserva di legge correlata all’art. 185 c.p., ove la lesione abbia riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti”; - anche aderendo a tale impostazione concettuale, la “A.” neppure avrebbe indicato il diritto costituzionalmente garantito o il diritto soggettivo perfetto che assume essere stato violato dal comportamento del coniuge; essendo venuta meno al proprio onere probatorio, ed avendo omesso di provare l’illecito civile subito, - che in virtù dell’art. 2059 c.c. può trovare riparazione non solo nei suoi aspetti patrimoniali ma anche in quelli non patrimoniali - la domanda non potrebbe che essere respinta. La Corte rileva che la preliminare affermazione dalla quale muove il Tribunale non è condivisibile, e che la motivazione della decisione reiettiva vada sotto detto profilo modificata. Siccome il S.C. ha recentemente affermato, non può ritenersi che le regole che disciplinano la materia familiare costituiscano un sistema chiuso e completo, tale da escludere che le violazioni delle medesime siano passibili di sanzione, secondo i principi che regolano la responsabilità aquiliana del diritto comune. In una pronunzia risalente (2468/1975), la applicabilità di tali previsioni anche a comportamenti che costituivano violazione dei doveri inerenti ai rapporti familiari veniva data quasi come cosa scontata, con la conseguenza che la concreta risarcibilità del danno derivante da tali condotte ai sensi dell’art. 2043 c.c. veniva rimandata ad un esame da eseguire caso per caso. Con due successive pronunzie (3367 e 4108/1993) la S.C. perveniva a diversa soluzione, con la prima affermando che nel caso di addebito della separazione la tutela aquiliana non potrebbe essere invocata per mancanza del danno ingiusto, attesocché l’addebito della separazione non nasce dalla violazione di un diritto dell’altro coniuge, mentre con la seconda affermava che dalla separazione personale dei coniugi può scaturire, sul piano economico, solo il diritto all’assegno, sempre che ne sussistano i presupposti, e che il riconoscimento di tale diritto esclude la possibilità di chiedere anche il risarcimento dei danni a qualunque titoli subiti in conseguenza della separazione imputabile all’altro coniuge, costituendo la separazione un diritto inerente alla libertà della persona ed avendo il legislatore regolato le conseguenze delle violazioni “domestiche” all’interno degli istituti del diritto familiare. Da tale orientamento si è discostata la successiva pronunzia 5866/1995, che ha ammesso in linea teo- GIURISPRUDENZA COMMENTATA rica, oltre al diritto all’assegno, la risarcibilità del danno conseguente al comportamento che costituisca motivo di addebito della separazione, ai sensi dell’art. 2043 c.c. e la più recente 7713 del 2000, che ha riconosciuto al figlio naturale tale dichiarato con pronunzia giudiziale il diritto al ristoro del danno subito per la colpevole inerzia del genitore, oltre al diritto al mantenimento, osservando che una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2043 c.c. impone di ritenere che tale disposizione sia diretta a compensare il sacrificio che detti valori subiscono a causa dell’illecito, indipendentemente dalle ricadute patrimoniali che la lesione possa comportare. Con la ulteriore 9801 del 10/5/2005, la Corte ha proseguito il cammino intrapreso, escludendo apertis verbis la natura di chiuso microcosmo delle norme che regolano l’istituto familiare, ed affermando che non sussiste ragione per ritenere che la sanzione del comportamento violatore dei doveri nascenti dal matrimonio debba esaurirsi nella affermazione dell’addebito, o nel riconoscimento di un assegno di contributo al mantenimento, tanto più che l’assegno disposto in sede di separazione e più ancora di divorzio presenta una connotazione marcatamente assistenziale, che esclude la sua utilizzabilità a fini meramente risarcitori. “La natura, la funzione ed i limiti di ciascuno degli istituti sopra richiamati rendono evidente che essi non sono strutturalmente incompatibili con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, non escludendo la rilevanza che un determinato comportamento può rivestire ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle conseguenti statuizioni di natura patrimoniale la concorrente rilevanza dello stesso comportamento quale fatto generatore di responsabilità aquiliana” (così Cass. 8901/2005 cit). Dette affermazioni paiono a questa Corte decisamente condivisibili, specie alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale che ha sottolineato la componente assistenziale dell’assegno, che pertanto non offre più alcun ristoro al coniuge che lamenti le altrui inadempienze; ammessa la possibilità di chiedere giudiziale tutela per le conseguenze dell’illecito, la attenzione dell’interprete deve peraltro spostarsi sulla natura del diritto la cui violazione giustifica l’accoglimento della pretesa, giacché non è certo la violazione dei doveri del matrimonio a poter costituire di per sé presupposto per il riconoscimento della domanda, pur costituendo uno dei presupposti necessari perché il comportamento, lesivo di un diritto costituzionalmente protetto, possa venire sanzionato con la pronunzia risarcitoria. Ed è proprio detto presupposto a mancare nella fattispecie, circostanza che esime da ogni valutazione ulteriore. La Corte rileva che, come evidenziato dal convenuto nella comparsa di costituzione e dimostrato per tabulas dal medesimo, la “A.” aveva in un primo tempo proposto domanda di separazione con addebito, successivamente abbandonando la procedura per addivenire alla separazione per mutuo consenso. Detta circostanza è munita di rilievo saliente, giacché presuppone una valutazione, adottata dai coniugi univocamente, di non volere accertare o indagare le cause che portarono alla crisi del coniugio, allegandosi la esistenza della intollerabilità della prosecuzione della vita in comune o la sua suscettibilità di portare danno alla vita della prole, circostanza che costituisce elemento condizionante la omologazione delle condizioni della separazione da parte del Tribunale. Come è noto, una volta che i coniugi abbiano definito come sopra le sorti del loro legame, è precluso ogni ripensamento, né è ammissibile la successiva indagine sulla responsabilità del fallimento del coniugio (in tal senso vedi Cass. 6625 del 29/3/2005 ma già in precedenza Cass. 8272/99, 9317/97 e sez. un. 4/12/2001 n.15279); come la giurisprudenza di legittimità e di merito assolutamente prevalente ha evidenziato, è il giudice della separazione, ai sensi dell’art. 151 c.c. a dovere, eventualmente e se richiesto, accertare a quale dei coniugi la separazione medesima sia addebitabile, e la lettera della norma preclude indagini postume, si reputa, anche in relazione a circostanze che fossero emerse dopo la pronunzia di separazione (come affermato espressamente da Cass. 17607/2003 e 6625/2005 già citata). Nel caso di specie, è comunque assolutamente pacifico che, allorquando la “A.” sottoscrisse il verbale di separazione consensuale essa era ben edotta della infedeltà del coniuge, circostanza che aveva allegato nel ricorso per separazione giudiziale che aveva presentato in precedenza; deve pertanto ritenersi che essa, acconciandosi alla separazione per mutuo consenso, avesse inteso, re melius perpensa, omettere ogni accertamento sulla radice causale della crisi, per ragioni che non sono state allegate in causa e che in oggi sarebbero del tutto sprovviste di rilievo ai fini del decidere. Ove tanto si ritenga, la domanda risarcitoria che essa ha proposto in causa non può trovare accoglimento, attesocché prescindendo da ogni considerazione quanto alla individuazione del diritto soggettivo che sarebbe stato leso, il cui difetto sorregge la motivazione della decisione reiettiva, è mancata la prova del preminente presupposto, della colpevole violazione del dovere nascente dal matrimonio da parte del convenuto, che costituisce il primo presupposto fattuale per la prospettabilità della invocata pronunzia risarcitoria. Ogni ulteriore questione resta assorbita; quanto all’oggetto del gravame incidentale, la Corte reputa che la peculiarità della materia e la natura dei diritti coinvolti rendano opportuna la compensazione delle spese dell’intero giudizio, con reiezione del motivo formulato dalla difesa appellata. gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 25 GIURISPRUDENZA COMMENTATA P.Q.M. Definendo il procedimento nel contraddittorio delle parti, ogni diversa istanza disattesa, così provvede giudicando in sede di gravame avverso la sentenza emessa inter partes dal Tribunale di Savona, sezione di Albenga in data 8/2-1-2005: respinge gli appelli e conferma per quanto di ragione la pronunzia gravata; compensa tra le parti le spese di lite. Così deciso in Genova, il 4/20 maggio 2006 IL PUNTO DI VISTA di CESARE FOSSATI AVVOCATO DEL FORO DI GENOVA Una nuova pronuncia della Corte di legittimità (Cass. 18853/2011 che cassa Corte App Genova 20 maggio 2006) in tema di responsabilità civile all’interno dei rapporti familiari, in una materia rispetto alla quale il legislatore ha sempre mostrato insofferenza ad intervenire, nella convinzione di non poter giudicare ambiti così intimi e personali. Per tutto il secolo scorso i comportamenti fonte di sola responsabilità civile, con esclusione quindi delle fattispecie aventi rilevanza penale, tenuti dai componenti della famiglia in danno di un congiunto, sono rimasti per lo più ricompresi nelle norme afferenti i diritti e doveri dei coniugi (artt. 143 e segg. c.c.), esclusi dalle norme che presidiano gli illeciti civili, restando di fatto impuniti. Nel testo originario del codice civile, nel regime di indissolubilità del matrimonio, la separazione era l’unica sanzione tipica prevista per il coniuge venuto meno ai suoi doveri matrimoniali. L’art. 151 c.c. prevedeva che i comportamenti consistenti in: adulterio, abbandono, sevizie, eccessi, minacce o ingiurie gravi, fossero punibili unicamente con l’istanza di separazione per colpa. Dapprima la Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 127 del 1968, quindi la riforma del diritto di famiglia del 1975, condussero alla modifica dei presupposti per giungere alla separazione, e sostituirono il concetto di “colpa” con quello di “addebito”. Mutarono le stesse condizioni per addivenire alla separazione, le quali vennero svincolate dal concetto di sanzione: si passò dalla separazione come reazione a comportamenti personali pregiudizievoli, alla separazione per fatti tali da rendere intollerabile la convivenza, ovvero da arrecare pregiudizio all’educazione della prole. L’addebito restava tuttavia la sanzione ancora una volta tipica ed esaustiva delle conseguenze dei comportamenti dei coniugi nel corso del rapporto matrimoniale. Una sanzione tuttavia del tutto inadeguata a fornire tutela al coniuge debole, avendo riflessi solo in negativo rispetto al coniuge responsabile del com26 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 portamento addebitato: il venir meno del diritto all’assegno di mantenimento (esclusi gli alimenti), così come dei diritti successori. Effetti invero modesti e spesso privi di concreta efficacia preventiva o punitiva, se solo si considera che nella maggior parte dei casi il soggetto responsabile è anche quello dotato di capacità economica, in genere indifferente alla domanda di mantenimento. Per questo motivo per lungo tempo si è parlato del diritto di famiglia come di un “sistema chiuso”: in base a tale prospettazione i diritti e doveri che discendono dal matrimonio troverebbero tutela solo all’interno delle norme che li disciplinano. Dottrina e giurisprudenza hanno così avuto buon gioco a sostenere che il legislatore avrebbe regolato le conseguenze delle violazioni “domestiche” solo all’interno degli istituti del diritto familiare. Occorre dar conto che la giurisprudenza prevalente ha mantenuto forti resistenze all’ingresso nel processo di famiglia di domande ulteriori, diverse da quelle strettamente connesse agli status (in questo senso si pongono, ad esempio, le pronunce di Cass. n. 3367/1993 e 4108/1993). Siamo quindi in presenza di strumenti di reazione diversificati e sostanzialmente difformi: alla cognizione del giudice della famiglia sono ricondotte le misure tipiche del diritto di famiglia (separazione, addebito, assegnazione della casa, affidamento dei figli, etc.); al giudice ordinario le questioni patrimoniali e gli illeciti civili; al giudice penale le violazioni più gravi. È stato lento il cammino per il riconoscimento della risarcibilità degli illeciti all’interno delle relazioni familiari; ancora lungi dal poter essere considerato un obbiettivo raggiunto. Poche isolate pronunce hanno dapprima iniziato a riconoscere astrattamente e solo potenzialmente l’esercizio dell’azione per la responsabilità aquiliana anche in ambito familiare (tra queste: Cass. 5866/ 1995 e Cass. 10/5/2005 n. 9801). Imprescindibile naturalmente il riferimento alla pronuncia che ha costituito il paradigma per il riconoscimento del danno non patrimoniale, vale a dire Cass. SS.UU. 26972/2008, in forza della quale l’art. 2054 c.c. è applicabile nei casi di: reato; danno non patrimoniale espressamente previsto da leggi speciali; lesione grave a diritti inviolabili costituzionalmente garantiti. Quest’ultima è la fattispecie utilizzata per dare ingresso alla risarcibilità di un danno, che non è da intendersi come elemento riparatorio, quanto piuttosto come deterrente e sanzionatorio. Va segnalato come non sia ancora così diffuso e pertanto riconoscibile come diritto acquisito quell’orientamento giurisprudenziale che ammette l’azione di risarcimento danni all’interno del processo di famiglia (si possono segnalare: Trib. Venezia, 14/05/2009 n. 9234 in www.dirittoeprocesso.com; DOSSIER La Sottrazione Internazionale di minori ROSSELLA ATZENI MAGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI GENOVA 1. La Convenzione dell’Aia del 25 ottobre 1980 - Rapporti col Regolamento CE n. 2201/2003 Il fenomeno della sottrazione internazionale di minori è divenuto negli ultimi decenni viepiù importante in relazione all’incremento delle coppie miste, conseguenza dell’accresciuta facilità di spostamenti e di stabilimento nell’ambito dell’Unione europea e dei flussi migratori provenienti in Europa soprattutto dai continenti Sudamericano, Africano ed Asiatico. Questo studio ha lo scopo di mettere in relazione la tutela approntata dalla Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 con il Regolamento CE n. 2201 del 2003 (Bruxelles II bis) relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che ha abrogato il regolamento (CE) n. 1347/2000. La finalità è quella di fornire un ausilio ai pratici del diritto anche tramite l’esame di casi concreti realmente verificatisi. Occorre sottolineare che alla Convenzione dell’Aia hanno aderito tutti gli Stati membri dell’Unione europea. Tale Convenzione prevede un procedimento d’urgenza applicabile nel caso in cui sia avvenuto il trasferimento illecito di un bambino all’estero, senza il consenso dell’altro genitore o dell’affidatario (persona fisica o ente) ovvero quando il minore sia lecitamente portato all’estero, ma sia ivi trattenuto e ne sia impedito il rientro nel paese di residenza abituale. La nozione di residenza abituale (art. 3 della Convenzione dell’Aia) va definita con riferimento al luogo in cui il minore anche di fatto - ha il centro dei propri interessi e dei propri legami affettivi e come precisato dalla Corte di Cassazione è individuata “con riferimento al luogo in cui il minore, in virtù di una durevole e stabile permanenza, anche di fatto, ha il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, derivanti dallo svolgersi in detta località della sua quotidiana vita di relazione”.1 La Convenzione ha l’obiettivo di garantire il bambino leso dal trasferimento illecito e di ripristinare la sua condizione di vita preesistente. A tal fine, il principio cardine su cui si fonda la disciplina convenzionale è correlato al riconoscimento ed all’esecuzione delle decisioni relative all’affidamento del minore che, già rese prima della sottrazione in uno degli Stati contraenti, avranno, appunto, esecuzione e riconoscimento anche negli altri Stati parte della Convenzione. È quindi evidente che la ratio cui si informa tale principio è quella di porre rimedio all’ipotesi in cui un genitore ponga in atto la sottrazione del figlio all’altro genitore, al fine di evitare le statuizioni assunte, in tema di affidamento, dall’Autorità giudiziaria di un certo paese che considera a sé sfavorevoli2. Per tale ragione la Convenzione dell’Aia nega all’Autorità giudiziaria dello Stato in cui il minore si trova illegalmente, di emettere pronunce sul merito modificando il regime giuridico dell’affidamento - immediatamente preesistente all’allontanamento forzato dal luogo di residenza abituale - in favore del genitore che ha posto in atto la condotta illecita. Deve ricordarsi inoltre che la possibilità di applicazione della Convenzione cessa allorché il minore compie 16 anni (art. 4 della Convenzione). 2. La nozione di custodia e l’esercizio effettivo del diritto di affidamento Il concetto di custodia, rilevante ai fini della Convenzione dell’Aia del 1980, prescinde dalla presenza di un titolo giuridico e si individua in una situazione di fatto comprensiva, da un lato, della cura materiale ed affettiva del minore e, dall’altro, del potere di decidere della sua residenza. La normativa convenzionale considera, pertanto, il diritto di custodia in capo ai genitori anche per il solo fatto procreativo, giacché tale diritto non deve derivare necessariamente da un provvedimento o da un accordo, ma può trarre origine anche dalla legge. Peraltro, un dato indispensabile per l’applicabilità della Convenzione è che il diritto di custodia sia effettivamente esercitato al momento del trasferimento del minore o avrebbe potuto esserlo se non si fossero verificate tali circostanze (art. 3 lett. b). Tra le ipotesi legittimanti il diniego del ritorno del minore, è stato oggetto di specifico chiarimento, da parte della Corte di Cassazione, il caso di mancato esercizio dell’affidamento da parte del genitore richiedente il ritorno. Il caso deciso dalla Corte è quello di un cittadino messicano, Reguera, che aveva inoltrato all’Autorità Centrale di Roma un ricorso ai sensi della Convenzione dell’Aia assumendo l’illegittimità della decisione della madre affidataria dei figli, Cumming Ortega, di stabilirsi nell’agosto 2003 con i minori in Italia3. Il Tribunale per i Minorenni di Roma aveva accolto il ricorso osservando che la scelta della madre di condurre con sé i figli all’estero non era stata concordata con l’ex marito e non era stata indotta dal fondato rischio per i minori di esser esposti a situazioni intollerabili ovvero a pericoli fisici e psichici, derivanti dall’esercizio del diritto di visita riconosciuto al padre dall’autorità messicana, in sede di separazione giudiziale. I giudici minorili romani avevano inoltre considerato che a quest’ultimo veniva impedito di mantenere un rapporto costante con i figli, che il trasferimento non aveva determinato la modifica della residenza abituale in Messico dei minori, non potendosi ritenere mutato il centro principale dei loro interessi quale conseguenza diretta ed automatica del reperimento di un lavoro in Italia da parte della madre. Infine i giudici minorili avevano ritenuto infondata la richiesta della madre di modificare le modalità di visita alla luce dell’intervenuto trasferimento in Italia, vertendosi in ipotesi di sottrazione internazionale di minori con la conseguente necessaria applicazione della Convenzione dell’Aia. Avverso il decreto del Tribunale per i Minorenni la Cumming Ortega aveva successivamente proposto ricorso per Cassazione. La Suprema Corte, all’esito del giudizio, aveva cassato il decreto impugnato decidendo la causa nel merito. Aveva affermato, in particolare, che “per quanto nell’art. 1 della Convenzione dell’Aia si indichi espressamente tra le finalità della Convenzione quella di assicurare che i diritti di affidamento e di visita previsti in uno Stato contraente siano effettivamente rispettati negli altri Stati contraenti, i meccanismi processuali diretti a garantire le celere ricostituzione della situazione preesistente alla sottrazione del minore sono destinati ad operare esclusivamente in caso di violazione di un diritto di affidamento” (art. 8). Sul piano dei presupposti dell’ordine di ritorno, infatti la Convenzione attribuisce rilievo esclusivo alla violazione di un diritto di custodia, con la sola condizione che esso sia effettivamente esercitato al momento del trasferimento o del non ritorno e che a sua volta, sia stato conferito da un’attribuzione legale, da una decisione giudiziaria o amministrativa o da un accordo, la cui sussistenza deve valutarsi secondo le norme dello Stato di residenza del minore. Pertanto, “il trasferimento di un minore all’estero, deciso legittimamente dal genitore affidatario, non potrebbe mai qualificarsi illecito ed essere disciplinato alla stregua delle disposizioni previste per il c.d. legal kidnapping, dato che la Convenzione ricollega l’illiceità del trasferimento o del mancato rientro del minore esclusivamente alla violazione di un diritto di affidamento”. Conseguentemente, quando è il genitore affidatario in via esclusiva a “sottrarre” il minore all’altro genitore, quest’ultimo non può domandare il ritorno immediato del figlio, stante la liceità del suo trasferimento a seguito di una decisione sulla scelta della residenza che legittimamente spetta al genitore affidatario. Alla luce di tale pronuncia della Suprema Corte ci si può chiedere, peraltro, quali strumenti di tutela abbia il genitore che voglia esercitare il suo diritto di visita nei confronti dei figli, ormai trasferitisi legittimamente all’estero. Ma ci si può interrogare altresì se analogo principio deve applicarsi se i genitori siano contitolari del diritto di affidamento (affidamento condiviso). gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 27 DOSSIER 2a) Con riguardo al primo interrogativo occorre osservare che l’art. 21 della Convenzione permette al genitore che vuole esercitare il diritto di visita dei figli trasferitisi legittimamente in un altro Stato contraente di sollecitare l’Autorità centrale dello Stato in cui i minori si trovano, affinché essa dia avvio ad un procedimento teso ad ottenere una decisione dell’Autorità giudiziaria competente, in merito alla regolamentazione dei rapporti con i figli, necessaria in ragione del mutato assetto della collocazione dei medesimi figli. È tale il caso deciso dal Tribunale per i Minorenni di Genova con riguardo al ricorso proposto da un padre, cittadino danese, titolare di un diritto di affidamento condiviso con riguardo ai due figli minori, trasferitisi in Italia con la madre. In questa ipotesi il padre adiva l’Autorità centrale al fine di veder regolata la sua facoltà di incontro con i figli e metteva nel contempo in evidenza la necessità di suddividere tra le parti le spese di viaggio relative ai necessari trasferimenti dei ragazzi.4 In questa ipotesi, l’istruttoria svolta permetteva di comprendere il regime di visita preesistente al trasferimento in Italia, nonché la situazione attuale dei bambini, i loro impegni scolastici e sociali, al fine di determinare un calendario d’incontri col padre che tenesse conto delle loro esigenze di studio e di relazione nel luogo di residenza. Sotto il profilo della partecipazione di ciascun genitore alle spese di viaggio dei figli, necessarie alle visite in Danimarca, veniva svolta l’analisi dei documenti prodotti dalla convenuta relativi alla determinazione degli obblighi alimentari di mantenimento dei figli, già decisi dall’Autorità danese sulla base di parametri predeterminati con riguardo all’appartenenza a determinate fasce di reddito, cui ci si atteneva anche al fine di stabilire la partecipazione dei genitori agli oneri di trasferimento dei figli. 2b) Con riferimento al secondo interrogativo circa l’applicazione della Convenzione dell’Aia nell’ipotesi in cui i genitori siano contitolari del diritto di affidamento (affidamento condiviso) è possibile affermare che la Corte di Cassazione nella stessa pronuncia citata indica che “in caso di violazione di un diritto di custodia, attribuito al genitore in via esclusiva o congiunta, obiettivo della Convenzione è ripristinare la situazione preesistente alla violazione, consentendo al minore di tornare il prima possibile a vivere col genitore a cui è stato illecitamente sottratto. Nel caso in cui invece a esser compromesso con il trasferimento del minore all’estero sia il diritto di visita del genitore non affidatario, l’obiettivo della Convenzione - difettando il presupposto della illiceità del trasferimento a norma dell’art. 5 - è garantire a quest’ultimo, con l’ausilio dell’Autorità centrale, l’effettività dell’esercizio del suo diritto di visita o, in alternativa una ridefinizione dei suoi rapporti col figlio alla luce del nuovo contesto ambientale in cui il medesimo si è trasferito”.5 Con riguardo alla normativa europea è inoltre importante ricordare che l’art. 2 del Regolamento CE n. 2201/2003 stabilisce che: “L’affidamento si considera esercitato congiuntamente da entrambi i genitori quando uno dei titolari della responsabilità genitoriale non può, conformemente ad una decisione o al diritto nazionale, decidere il luogo di residenza del minore senza il consenso dell’altro titolare della responsabilità genitoriale”. Quindi, ai sensi del Regolamento citato, l’affidamento condiviso implica necessariamente che la scelta del luogo di residenza del minore debba esser assunta congiuntamente dai genitori e comporta conseguentemente su tale aspetto l’illegittimità di eventuali decisioni assunte da un solo genitore unilateralmente. Recentemente la Corte di Cassazione ha ulteriormente chiarito quali debbano esser gli approfondimenti necessari da parte dei giudici di merito nell’ipotesi in cui nell’ambito del regime dell’affidamento condiviso il trasferimento del minore all’estero sia non concordato con l’altro genitore.6 In particolare è stato affermato con maggior precisione che anche nell’ipotesi in cui i genitori siano titolari dell’affidamento condiviso di un minore - secondo la Convenzione dell’Aia del 1980 - il giudice ha l’onere di verificare in concreto l’effettività del diritto di custodia del bimbo da parte del genitore che ne domanda il ritorno. La Corte di Cassazione, infatti, ha cassato con rinvio il decreto del Tribunale per i Minorenni di Milano in applicazione 28 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 del principio secondo cui ciò che realmente conta - ai fini dell’applicazione della disciplina convenzionale per disporre il rientro di un minore - è l’effettività dell’esercizio del diritto di affidamento. In particolare la Corte ha ritenuto inadeguata e insufficiente la motivazione dei giudici milanesi in punto di effettività dell’esercizio del diritto previsto ex artt. 3 e 13 della Convenzione dell’Aia del 1980, pronunciandosi sul ricorso della madre (cittadina italiana) che aveva assunto che il padre (cittadino tedesco), benché contitolare di un affidamento congiunto - a seguito di separazione legale - esercitasse, in concreto, soltanto il diritto di visita dei figli. Tale pronuncia appare particolarmente interessante laddove traccia il percorso istruttorio cui il giudice di merito è tenuto a seguire ai fini dell’accertamento predetto. Con riguardo alla dimostrazione del mancato esercizio del diritto di affidamento, cui è tenuta la persona che si oppone al ritorno del minore, occorre infatti ricordare che “il principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. non implica affatto che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che è gravato dal relativo onere”, vigendo il principio di acquisizione per cui il giudice, per la formazione del suo convincimento, deve utilizzare tutte le risultanze istruttorie comunque acquisite al processo. Nella specie, tali sono state ritenute dalla Corte le dichiarazioni rese dal padre dinanzi al Tribunale per i Minorenni di Milano in relazione alle specifiche modalità con cui in concreto accudiva i suoi due figli nel periodo antecedente al loro espatrio, onde valutare se esse legittimassero o meno la tutela da lui auspicata. Inoltre, i giudici di merito non avevano provveduto all’ascolto dei minori, asserendo che la loro audizione non pareva opportuna in relazione all’età. Sul punto, pur trattandosi nel caso specifico di procedimento per assunto mancato illecito rientro nella originaria residenza abituale, in cui l’ascolto del minore non è imposto per legge in ragione del carattere urgente e ripristinatorio di tale procedura,7 tuttavia la Corte ha altresì precisato in tale occasione che anche in tale procedimento l’audizione dei minori è in genere opportuna, se possibile. Si deve rammentare altresì che l’ascolto del minore è espressamente previsto dall’art. 11 comma 2 del Regolamento CE 2201/2003. 3. Il diniego del ritorno La Convenzione dell’Aia prevede le ipotesi in cui l’Autorità giudiziaria o amministrativa dello Stato richiesto non è tenuta ad ordinare il ritorno del minore. Le ipotesi sono tassative ed individuate in specifiche circostanze che devono esser dimostrate dall’istante. Esse si realizzano quando: a) il ricorrente non esercitava effettivamente il diritto di affidamento o aveva acconsentito al mancato rientro (come già detto in precedenza, ex art. 13, lett.a); b) è ravvisabile il fondato rischio che il minore sia esposto a pericoli psico-fisici o a situazioni intollerabili; Inoltre il giudice può rifiutare il ritorno se: - il minore vi si oppone ed ha un’età e un grado di maturità tali che sia opportuno tenere conto del suo parere (art. 13, II comma); - sia già decorso un anno dall’illecito trasferimento e si dimostri che il minore si sia già integrato nel nuovo ambiente (art. 12, II comma). - infine l’art. 20 della Convenzione indica, in generale, il caso in cui la domanda di ritorno sia incompatibile con i principi fondamentali dello Stato richiesto. 3.1. Fondato rischio di pericoli fisici e psichici, o di una situazione intollerabile, conseguenti al ritorno Una ragione che legittima il diniego di rimpatrio come suaccennato è “il rischio grave di pericoli fisici e psichici, o di una situazione intollerabile che il minore possa correre per l’effetto del rientro” (art. 13 lettera b della Convenzione dell’Aia). È però necessaria la prova specifica (e non generica) di tale rischio. DOSSIER Un caso emblematico, al riguardo, è quello deciso dal Tribunale di Barcellona nel 2009, relativo ad una coppia di coniugi, di cittadinanza spagnola (la moglie) e tedesca (il marito), che aveva stabilito la residenza in Belgio ed aveva avuto due figli (al momento della sottrazione di 4 e 6 anni). Durante un soggiorno estivo in Spagna presso i familiari della moglie, i coniugi avevano vissuto una grave crisi coniugale a causa della quale il marito aveva deciso di rientrare in Belgio con l’accordo che il 31 agosto la moglie sarebbe ritornata con i figli a Bruxelles. Tuttavia la madre dei bimbi aveva deciso di rimanere in Spagna ed in settembre vi aveva iscritto i figli a scuola, senza darne notizia al padre. A seguito di questa decisione il marito aveva iniziato in Belgio una procedura tesa ad ottenere la custodia dei figli, ai sensi dell’art. 10 del Regolamento CE 2003/2201. Nello stesso tempo egli aveva richiesto il ritorno dei figli all’Autorità Centrale spagnola. Tale Autorità aveva verificato che i bambini si trovavano effettivamente in territorio spagnolo, presso il domicilio della nonna materna; quindi, il Rappresentante legale dello Stato aveva instaurato una procedura orale dinanzi all’Autorità giudiziaria volta al ritorno dei minori, secondo quanto previsto dagli artt. 951-958 del codice di procedura civile spagnolo del 1881. In detta procedura la madre si era opposta al ritorno dei figli asserendo che in questo caso essi sarebbero stati esposti a un grave rischio (secondo l’art. 13 lett. b) della Convenzione dell’Aia). Al fine di provare l’esistenza di tale rischio la madre aveva fornito due indicazioni: a) i figli, al momento, erano in tenera età ed erano stati accuditi in prevalenza dalla stessa convenuta, cosicché se essi fossero tornati col padre avrebbero subito il trauma del distacco dalla madre; b) il padre, nel frattempo, aveva accettato un’offerta di lavoro ad Abu Dhabi e vi era il rischio che egli vi si trasferisse con i figli, senza l’accordo della madre. Contemporaneamente nella procedura belga il giudice aveva deciso concedendo la custodia esclusiva dei figli al padre. Con riguardo a tale caso, conformemente alla giurisprudenza spagnola, i giudici di Barcellona avevano affermato che il distacco dei bambini dalla madre non può costituire un motivo ostativo al ritorno dei figli nello Stato d’origine. Gli stessi giudici avevano ritenuto, inoltre, che il Tribunale competente a decidere sulla facoltà del padre di condurre con sé stabilmente i figli ad Abu Dhabi fosse solo quello belga, in quanto Bruxelles era il luogo di residenza abituale dei minori.8 Peraltro è stato chiarito nel caso specifico che la madre potesse domandare al Tribunale belga delle misure cautelative volte ad evitare l’allontanamento dei figli col padre per altra destinazione. In particolare a questo proposito è stato evidenziato che il giudice adito, in via cautelare, qualora vi è il rischio di sottrazione di un minore, possa - per impedirne l’espatrio - disporre il ritiro del suo passaporto. 3.2. La recente giurisprudenza della Corte dei Diritti dell’uomo L’interpretazione della Convenzione dell’Aia del 1980 è stata oggetto di differenti pronunce da parte della Corte dei Diritti dell’uomo. La Corte ha di recente indicato alle autorità nazionali l’obbligo di effettuare un esame approfondito della situazione dell’intera famiglia, nell’interesse superiore del bambino, considerando i suoi aspetti psicologici e materiali, conseguenti al ritorno. In particolare, ad avviso della Corte, le autorità nazionali dello Stato sul cui territorio risiedeva il minore prima che fosse illecitamente sottratto da uno dei genitori devono valutare, in primo luogo, l’interesse superiore del bambino. La Corte di Strasburgo ha ritenuto contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e in particolare al diritto al rispetto della vita privata e familiare, il comportamento delle autorità nazionali che adottino un provvedimento di ritorno del minore in modo automatico, senza considerare gli effetti e i possibili danni, anche di carattere psicologico, sul bambino. Tali indicazioni sono state svolte nella sentenza relativa al caso Sneersone e Kampanella contro Italia9 che trae origine dalla decisione del Tribunale per i Minorenni di Roma di disporre l’affidamento esclusivo al padre di un bambino nato da una coppia, la cui madre era di nazionalità lettone. In seguito alla separazione, il piccolo, che era stato affidato alla madre, era stato portato dalla donna in Lettonia ove, a suo dire, avrebbe goduto di migliori condizioni di vita, giacché il padre non contribuiva al suo mantenimento e le impediva così di vivere in Italia. Il padre aveva successivamente domandato al Tribunale per i Minorenni di Roma l’affidamento esclusivo del figlio. La sua domanda era stata accolta ed era stato altresì disposto il ritorno del minore. Il decreto non era stato però riconosciuto dai giudici lettoni che l’avevano ritenuto contrario all’interesse superiore del bambino. Dopo l’esperimento di diversi ricorsi giudiziari, la Lettonia aveva domandato alla Commissione europea l’avvio di un procedimento d’infrazione contro l’Italia per l’inosservanza del Regolamento n. 2201/2003, domanda peraltro non accolta in ragione del parere motivato contrario della competente autorità europea, che non ha rinvenuto violazioni del diritto Ue. La Corte dei Diritti dell’uomo, adita successivamente, ha peraltro indicato che i giudici nazionali devono evitare ogni automatismo nelle decisioni di ritorno di un minore e procedere ad un attento esame della situazione, fornendo un’adeguata motivazione sull’inesistenza di rischi per il bimbo in caso di rientro nel paese di residenza abituale, senza trascurare alternative al ritorno. Nel caso specifico ha affermato che non sono sufficienti le sole assicurazioni del padre per ritenere che non sussistano tali rischi. Le autorità nazionali sono tenute ad esame approfondito della situazione dell’intera famiglia e devono tener conto diversi fattori, tra i quali lo stato di fatto, gli aspetti psicologici, materiali e medici. Ciò, ad avviso della Corte trova conferma nella Convenzione dell’Aia del 1980, il cui art. 13 b) esclude il ritorno del minore in caso di fondato rischio che il bimbo sia esposto a pericoli psicofisici o a situazioni intollerabili. Tale norma prevedendo però un’eccezione, deve esser applicata con rigore al fine di evitare che l’obiettivo della Convenzione sia frustrato. Nel caso in esame la Corte ha ritenuto che i giudici nazionali non avevano tenuto in debito conto i danni che il bambino avrebbe potuto subire al rientro in Italia poiché non parlava la lingua italiana ed aveva avuto scarsi legami col padre. Inoltre il distacco dalla madre, che l’aveva accudito stabilmente dalla nascita, avrebbe ulteriormente aggravato la sua situazione psicologica. Già nella sua decisione relativa al caso Neulinger Shuruk contro Svizzera, la stessa Corte10 aveva affermato la necessità di tenere in debito conto quanto previsto dall’art. 3 c. 1 della Convenzione sui diritti del fanciullo e cioé che Si osserva al riguardo, tuttavia, che la sussistenza del rischio che il bimbo sia esposto a pericoli psico-fisici o a situazioni intollerabili, deve esser provata. Non a caso l’art. 13 lett. b) della Convenzione richiede che detto rischio sia fondato. Inoltre è da sottolineare che in virtù dell’art. 11 del Regolamento Ce n. 2201/2003 il ritorno del minore può esser disposto anche in caso di rischio per il minore, qualora nello Stato di origine siano adottate misure protettive, con un’evidente discrepanza tra il regolamento e la Convenzione (come si vedrà anche in seguito). La Corte dei Diritti dell’uomo indica comunque la necessaria preminenza dell’interesse superiore del fanciullo. 3.3. Conclusioni e raccomandazioni adottate dalla Commissione speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia del 1980 e del 1996 nel corso della sua riunione del 01-10 giugno 2011 La Commissione speciale si è riunita a giugno in occasione del sesto meeting sull’applicazione della Convenzione dell’Aia del 1980 e del 1996. I lavori della Commissione hanno dato luogo a delle Conclusioni e a delle Raccomandazioni per gli Stati contraenti.11 gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 29 DOSSIER Con riferimento all’aspetto della violenza domestica, la Commissione ha constatato che molti Stati trattano la questione della violenza coniugale e familiare con alta priorità, in particolare attraverso la sensibilizzazione e la formazione. Tuttavia le decisioni delle autorità giudiziarie dei diversi paesi aderenti spesso non sono uniformi al riguardo. Nel caso in cui sia invocata l’applicazione dell’articolo 13 b) della Convenzione del 1980 in relazione ad atti di violenza coniugale o familiare, le accuse di violenza domestica e i potenziali rischi per il bambino dovrebbe essere esaminati in modo rapido ed appropriato nella misura richiesta dagli obiettivi di questa eccezione. La Commissione Speciale ribadisce il suo sostegno alla promozione di una maggiore coerenza nel trattare le accuse di violenza coniugale e familiare in applicazione dell’articolo 13 b) della Convenzione del 1980. La stessa Commissione ha considerato le tre seguenti proposte per i lavori futuri volti a promuovere la coerenza nell’interpretazione e nell’applicazione dell’articolo 13 b), della Convenzione del 1980, e nel trattamento della questione della violenza coniugale e familiare sollevata nell’ambito delle procedure di ritorno ai sensi della Convenzione 1980: (a) una proposta che comprende, tra le altre cose, lo sviluppo di una guida di buone pratiche in merito all’applicazione dell’articolo 13 (1) b). (b) la creazione di un gruppo di lavoro composto in particolare dai membri della Rete Internazionale dei giudici dell’Aia, che esaminerà la fattibilità di sviluppare uno strumento appropriato per aiutare nella valutazione dell’eccezione fondata sul grave rischio di pericolo. (c) l’istituzione di un gruppo di esperti, tra cui in particolare giudici, esperti delle Autorità centrali e altri esperti nelle dinamiche di violenza domestica, per sviluppare dei principi o una guida relativi a pratiche riguardanti il trattamento di accuse di violenza domestica. La Commissione speciale ha riconosciuto l’importanza dell’assistenza fornita dalle Autorità centrali e altre autorità competenti per ottenere informazioni dallo Stato richiedente, quali i rapporti di polizia, degli operatori sanitari e sociali, e le informazioni sulle misure di protezione e modalità d’intervento disponibili nello Stato in cui il minore deve fare ritorno. La Commissione Speciale inoltre ha ribadito l’importanza della comunicazione giudiziaria diretta, in particolare attraverso le reti giurisdizionali, al fine di valutare se siano disponibili misure di protezione per il bambino e per il genitore che lo accompagna nello Stato in cui il bimbo deve essere restituito. 3.4. La giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo esaminata dalla Commissione speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia del 1980 e del 1996 nel corso della sua riunione del 01-10 giugno 2011 La Commissione speciale, nelle sue Conclusioni e raccomandazioni relative alla riunione tenutasi all’Aia dal 01 al10 giugno 2011, ha indicato che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, nelle decisioni assunte da molti anni, ha espresso il suo sostegno alla Convenzione del 1980, illustrato in particolare in una dichiarazione effettuata nella trattazione del caso Maumousseau e Washington c. Francia (n. 39388/05, CEDU 2007 XIII) secondo la quale la Corte “sostiene in pieno la filosofia alla base di questa Convenzione”. Tuttavia la stessa Commissione speciale ha rilevato una serie preoccupazioni espresse in merito ai termini usati dalla Corte nelle sue decisioni recenti e Neulinger Shuruk c. Svizzera (Grande Chambre, n. 41615/07, 6 luglio 2010) e Raban c. Romania (n. 25437/08, 26 ottobre 2010) nella misura in cui potrebbero essere interpretati “come esigenza che i giudici nazionali abbandonino la velocità e l’approccio rapido previsto dalla Convenzione dell’Aia e si discostino dall’interpretazione restrittiva delle eccezioni di cui all’articolo 13 per orientarsi su una valutazione complessiva e autonoma sul merito della questione”. La Commissione ha rilevato peraltro che un dato rassicurante è da individuare nella recente dichiarazione extragiudiziaria effettuata dal Presidente della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, in cui egli sostiene che la decisione Neulinger e Shuruk c. La Svizzera non segnala un cambio di direzione della 30 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 Corte in materia di sottrazione di minori, e che la logica della Convenzione dell’Aia è che un bambino che è stato sottratto dovrebbe essere riportato nello Stato della sua residenza abituale e che solo in tale Stato la sua situazione deve essere esaminata nella sua interezza.12 4. La richiesta di ritorno Nell’ambito di un ricorso attivato ai sensi della Convenzione dell’Aia per il ritorno di un bambino l’Autorità centrale deve assumere una posizione neutra. È possibile ed auspicabile la comunicazione diretta tra autorità giudiziarie, che nell’esperienza concreta ha facilitato lo scambio di informazioni e la celerità della procedura. Il giudice della residenza abituale, ad esempio, può chiedere al giudice, o anche all’Autorità centrale del paese di sottrazione, notizie sulla condizione di salute psicofisica del minore od altre informazioni che lo concernono. I soggetti legittimati a richiedere il ritorno del minore sono la persona, l’istituzione o l’ente che, anche congiuntamente, abbiano il diritto di custodia, ossia di affidamento del minore, immediatamente prima del suo trasferimento o del suo mancato rientro. (art. 3 lett. a) Conv. Aia 1980) La Commissione speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia del 1980 e del 1996, nel corso della sua riunione del 01-10 giugno 2011, ha indicato che ai sensi della Convenzione, il termine “custodia” deve essere interpretato tenendo conto della natura autonoma della Convenzione e alla luce dei suoi obiettivi. Per quanto riguarda il senso convenzionale e autonomo di “diritto di custodia”, la Commissione speciale prende atto della decisione della Abbott v. Abbott, 130 S.Ct. 1983 (2010), che sostiene ora l’approccio secondo cui un diritto di visita combinato con un diritto di determinare la residenza del minore costituisce un “diritto di custodia” ai sensi della Convenzione dell’Aia del 1980. Questa indicazione è un contributo importante teso a garantire la coerenza a livello internazionale dell’interpretazione della Convenzione.13 Il diritto di custodia può derivare dalla legge, da una decisione giudiziaria o amministrativa o da un accordo tra le parti. (art. 3 lett. b) Conv. Aja 1980) Il consenso al trasferimento o al mancato ritorno del minore, preventivo o successivo allo stesso, preclude l’accesso ad una pronuncia ai sensi dell’art. 8 della Convenzione dell’Aia, difettando l’illiceità dello spostamento del bambino. In caso di illecita sottrazione internazionale di minore, la persona che è stata privata del figlio, in via complementare, può denunciare il sottrattore sotto il profilo penale. La competenza ad emettere l’ordine di ritorno ex art. 8 della Convenzione Aja del 1980 è del giudice dello Stato di residenza abituale o dello Stato dove il minore si trova, adito tramite l’Autorità centrale. Deve quindi interpretarsi in questo senso l’art. 8 della Convenzione in esame, quando indica che, al fine di ottenere assistenza per assicurare il ritorno del minore, la persona legittimata può rivolgersi sia all’Autorità centrale della residenza abituale del minore, sia a quella di ogni altro Stato contraente. Inoltre, qualora nel frattempo il minore venga trasferito in un ulteriore Stato, l’Autorità centrale, che riceve una domanda ex art. 8 della Convenzione, dovrà trasmettere direttamente la domanda di ritorno indirizzandola all’Autorità centrale di ultima destinazione (v. art. 9 della Convenzione). 5. La Convenzione dell’Aia del 25 ottobre 1980 e il Regolamento CE Bruxelles II bis Dal 1° marzo 2005 il Regolamento Bruxelles II (bis) è applicabile a tutti gli Stati membri dell’Unione europea, ad esclusione della Danimarca. La relazione tra le due normative è la seguente: La Convenzione Aia del 1980 fornisce una procedura celere e sicura per il ritorno del minore. Il Regolamento Bruxelles II (bis) fornisce delle regole ordinarie da seguire circa la competenza giurisdizionale ed è complementare alla Convenzione. Al contempo, ai sensi del suo articolo 60, il regolamento stesso prevale sulla convenzione dell’Aia del 1980. All’art. 8 il Regolamento prevede la regola generale in mate- DOSSIER ria di competenza nelle cause aventi ad oggetto la responsabilità parentale. Il successivo art. 10 dello stesso Regolamento prevede un’eccezione in caso di trasferimento o ritenzione illecita del minore. Tale articolo è di complemento all’art. 16 della Convenzione dell’Aia. In virtù del citato art. 10 del Regolamento il giudice dello Stato di residenza abituale del minore immediatamente prima della sottrazione o della ritenzione illecita, conserva la sua competenza fino a che il minore non abbia acquisito un’altra residenza abituale in un altro Stato e il titolare del diritto di custodia abbia dato il suo assenso al trasferimento, ovvero ancora sia trascorso un periodo minimo di un anno in cui il minore abbia risieduto nel nuovo Stato e si sia ivi integrato. In quest’ultimo caso, inoltre, deve verificarsi una delle condizioni di cui ai punti da i a iv della lettera b). Tali condizioni sono le seguenti: i. che nel termine di un anno da quando il titolare del diritto di affidamento ha avuto conoscenza (o avrebbe dovuto aver conoscenza) del luogo in cui il minore si trovava, non è stata presentata alcuna domanda di ritorno; o ii. che sia stata ritirata una domanda di ritorno dal titolare del diritto di affidamento e non sia stata presentata una nuova domanda entro il termine di un anno; o iii. che sia stata archiviata una domanda presentata dinanzi ad un organo giurisdizionale dello Stato membro in cui il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima del suo trasferimento o del suo mancato ritorno illecito; o iv. che l’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la sua residenza abituale, immediatamente prima del suo trasferimento o del suo mancato ritorno, abbia emanato una decisione di affidamento che non prevede il ritorno del minore. Con riguardo a tale ultima ipotesi ci si può chiedere se qualora il giudice della residenza abituale abbia emesso una pronuncia in tema di affidamento del minore in via provvisoria, non includente l’ordine di ritorno, si possa ritenere avvenuto uno spostamento di giurisdizione dall’Autorità giudiziaria dello Stato membro di residenza abituale in favore del foro della nuova residenza. In proposito si è espressa di recente la Corte di Giustizia dell’Unione europea sul rinvio pregiudiziale (con richiesta di procedimento d’urgenza) effettuato dall’Oberster Gerichtshof (Austria).14 Il caso esaminato dalla Corte riguarda una bimba trasferita in Austria dalla madre, in violazione di un precedente provvedimento del Tribunale per i Minorenni di Venezia che, in via provvisoria, aveva disposto l’affidamento condiviso della piccola ai genitori. Tale provvedimento peraltro non aveva statuito il ritorno della minore, ma anzi le consentiva di risiedere con la propria madre in Austria fino all’adozione della decisione definitiva. Nell’ambito del procedimento italiano erano state poi verificate reali difficoltà di visita del padre alla figlia, cosicché, successivamente, con decreto del 10.7.2009 il Tribunale per i Minorenni di Venezia aveva disposto l’immediato ritorno della minore. Un ostacolo all’esecuzione del decreto suddetto, debitamente certificata in guisa da beneficiare in Austria dell’efficacia automatica di cui agli articoli 40 e 42 del Regolamento (CE) n. 2201/2003, era costituito peraltro dalla successiva decisione austriaca di negare il ritorno della minore, resa ai sensi 13, lettera b) della convenzione dell’Aia 25 ottobre 1980. Al riguardo, si ricorda che l’art. 42 del Regolamento (CE) n.2201/2003 prevede la possibilità di ottenere, dal giudice di origine, un titolo esecutivo nello Stato membro di trasferimento: si tratta di un certificato che attesta che tutto il procedimento, che ha dato luogo ad una decisione di ritorno esecutiva in uno Stato membro, è avvenuto nel rispetto dei principi di legalità indicati al capo 2 dello stesso art. 42. Nel caso accennato, l’Autorità austriaca, successivamente al decreto italiano, aveva attribuito in via provvisoria l’affidamento della bambina alla madre. I giudici austriaci di prime cure avevano infatti manifestato il convincimento di esser divenuti competenti in virtù dell’art. 10 del Regolamento lettera b) iv. Adito in merito a tali questioni, l’Oberster Gerichtshof (organo giudiziario austriaco di ultimo grado) aveva domandato in via pregiudiziale l’interpretazione della Corte di Giustizia ponendo, in particolare, i seguenti quesiti (sinteticamente riportati in numero di quattro poichè una delle questioni è stata assorbita dalla soluzione fornita dalla Corte): 1) se il giudice italiano, a seguito della pronuncia della decisione di affidamento provvisorio che non disponeva il ritorno della minore, avesse perso ai sensi dell’art. 10 del Regolamento (CE) 2201/2003 lettera b) punto iv, la giurisdizione attribuitagli dagli artt. 8 e 10 dello stesso Regolamento (sulla base del criterio della residenza abituale originaria della minore in Italia); in particolare il giudice del rinvio domandava se l’art. 10, lett. b), iv), del regolamento dovesse essere interpretato nel senso che un provvedimento provvisorio va qualificato come «decisione di affidamento che non prevede il ritorno del minore» ai sensi di tale disposizione; 2) se il provvedimento dei giudici italiani che disponeva il ritorno ai sensi dell’art. 11, n.8 (che era emanato da un giudice competente ed esecutivo) dovesse presupporre una decisione definitiva sull’affidamento della minore; ed in caso di soluzione affermativa se nello Stato di esecuzione potesse essere eccepita l’incompetenza del giudice dello Stato di origine o l’inapplicabilità dell’art. 11, n. 8, del regolamento per opporsi all’esecuzione della decisione certificata dal giudice di origine ai sensi dell’art. 42, n. 2, del regolamento; 3) se la decisione austriaca di affidamento provvisorio della bambina alla madre resa successivamente al decreto italiano, potesse impedire l’esecuzione in Austria della statuizione italiana di ritorno della bimba; in particolare il giudice del rinvio domandava se l’art. 47, n. 2, secondo comma, del regolamento dovesse essere interpretato nel senso che una decisione che attribuisca un diritto di affidamento provvisorio, emessa in un momento successivo da un giudice dello Stato membro di esecuzione e considerata esecutiva ai sensi della legge di tale Stato, impedisca l’esecuzione di una decisione di ritorno certificata, emessa anteriormente; 4) se, infine, l’esecuzione di una decisione certificata possa essere negata nello Stato membro di esecuzione adducendo un mutamento delle circostanze, sopravvenuto dopo la sua emanazione, tale per cui l’esecuzione potrebbe ledere gravemente il superiore interesse del minore, o se invece un tale mutamento debba essere dedotto dinanzi ai giudici dello Stato membro di origine, il che implicherebbe, ad avviso dei giudici austriaci, la sospensione dell’esecuzione della decisione nello Stato membro richiesto, nelle more del procedimento nello Stato membro di origine. Sul primo quesito la Corte di Giustizia ha affermato che, nella materia in esame, soltanto la decisione definitiva di affidamento è suscettibile di produrre lo spostamento di giurisdizione di cui all’art. 10 lett. b), iv. Tale interpretazione restrittiva si fonda sull’analisi sistematica del regolamento 2003/2201 e sulla considerazione della sua peculiare ratio, individuabile nelle finalità di prevenzione e dissuasione da azioni di sottrazione di minori tra Stati membri, nonché - in caso di avvenuto trasferimento illecito - di predisposizione di un rapido ritorno del minore. Risponde a tale ratio il ruolo centrale, attribuito dal regolamento citato, al giudice del foro di residenza abituale del minore e la necessità di ribadire il principio della conservazione di tale competenza. Perciò la previsione di cui all’art. 10 lett. b), iv), deve esser interpretata in maniera restrittiva, nel senso che il richiamo contenuto alla “decisione di affidamento che non prevede il ritorno del minore” deve ritenersi a una decisione definitiva « adottata sulla scorta di una disamina completa dell’insieme degli elementi pertinenti». La Corte ha ribadito che ogni eccezione al principio della giurisdizione dello Stato di residenza abituale d’origine del minore - principio previsto nel regolamento n. 2201/2003 - deve esser verificata ed applicata dall’interprete alla luce delle suindicate finalità del Regolamento e dell’interesse superiore del fanciullo.15 Ha pertanto escluso, nel caso di specie, che rientri nella nozione di “decisione di affidamento che non prevede il ritorno del minore” ai sensi dell’art. 10, lett. b), iv), del regolamento (…) anche un provvedimento provvisorio con cui si dispone che fino all’adozione della decisione definitiva sull’affidamento “le degennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 31 DOSSIER cisioni relative al minore”, in particolare il diritto di stabilire il luogo di residenza, spettano al genitore che ha sottratto il minore. Infatti, qualora si ritenesse che una tale decisione provvisoria del giudice dello Stato membro della residenza abituale anteriore, potesse comportare la perdita della sua competenza ciò contrasterebbe non solo con il principio di conservazione di tale competenza del foro d’origine (e di limitazione delle eccezioni ad esso) ma altresì con l’interesse del fanciullo. Il giudice del foro di origine «potrebbe infatti essere dissuaso dall’adottare una siffatta decisione provvisoria, quand’anche essa fosse necessaria per tutelare gli interessi del minore». Sul secondo quesito è interessante notare come la sentenza citata abbia affrontato l’aspetto di cui all’art. 11 n. 8 citato, che prevede, in particolare, che “nonostante l’emanazione di un provvedimento contro il ritorno in base all’articolo 13 della convenzione dell’Aia del 1980, una successiva decisione che prescrive il ritorno del minore, emanata da un giudice competente ai sensi del presente regolamento, è esecutiva conformemente alla sezione 4 del capo III, allo scopo di assicurare il ritorno del minore”. Al riguardo l’indicazione della Corte è che la decisione sul ritorno di cui all’art. 11, n. 8 del Regolamento (CE) n. 2201/2003 non presuppone, da parte dello stesso giudice che lo ha disposto, una decisione definitiva sull’affidamento. In particolare, con la sentenza citata si è dunque ribadito come non sia necessaria una pronuncia definitiva sull’affidamento per fondare il ritorno esecutivo. Un’interpretazione contraria potrebbe andare a discapito di una istruttoria ponderata ed esaustiva da parte del giudice del foro d’origine competente, che potrebbe esser forzato “a prendere una decisione sul diritto di affidamento senza disporre di tutte le informazioni e di tutti gli elementi pertinenti, né del tempo necessario a valutarli in modo obiettivo e pacato”. Sul terzo quesito secondo la Corte una decisione di affidamento provvisorio resa dallo Stato di nuova residenza del minore non rientra tra quelle in grado di impedire ai sensi dell’art. 47, paragrafo 2, l’esecuzione in tale Stato di una decisione sul ritorno resa in precedenza dal foro di origine e certificata conformemente all’art. 42. L’analisi del regolamento citato permette di ritenere che, ai sensi dei suoi art. 11 n. 8 e 42, possa esser dotata di esecutività immediata, con l’adozione del previsto certificato, la « decisione che prescrive il ritorno del minore» emanata da un giudice competente ai sensi dello stesso regolamento, a condizione che lo Stato di esecuzione abbia adottato un atto in senso contrario al ritorno, prima del provvedimento del Paese d’origine. La Corte, ribadendo la giurisprudenza già in passato espressa, ha precisato che l’esecutività di una decisione che prescrive il ritorno di un minore - successiva ad un provvedimento di diniego del rientro - beneficia dell’autonomia procedurale, al fine di non ritardare il ritorno di un minore illecitamente trasferito.16 Essa ha altresì confermato la finalità - sottesa agli artt. 11 n.8, 40 e 42) - di fornire una risposta celere all’istanza di ritorno del genitore che ha subito la sottrazione del figlio e la priorità riconosciuta alla competenza del giudice del foro di origine nell’ambito del capo III, sezione 4, del regolamento. Una precisazione molto importante è stata poi ribadita nella sentenza in argomento con riguardo al rapporto tra il regolamento 2003/2201 e la Convenzione dell’Aia del 1980. In particolare è confermato il primato del regolamento su tale convenzione, nei rapporti tra gli Stati membri. Già in precedenza nella sentenza Rinau tale aspetto era stato oggetto di approfondimento. Infatti, alla luce del diciassettesimo considerando del regolamento 2003/2201, quest’ultimo integra le disposizioni della Convenzione dell’Aia del 1980. Ma al contempo il regolamento stesso prevale sulla convenzione dell’Aia del 1980, ai sensi del suo articolo 60. Più precisamente la sentenza del luglio 2010 in esame, riprendendo quanto a suo tempo affermato nel caso Rinau, chiarisce che (in base al meccanismo istituito dagli artt. 11, n. 8, 40 e 42 del regolamento) nel caso in cui il giudice dello Stato membro di illecito trasferimento abbia emesso una decisione contro il ritorno ai sensi dell’art. 13 della Convenzione dell’Aia del 32 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 1980, il regolamento riserva comunque al giudice competente in forza di questo stesso regolamento, e quindi a quello del foro di residenza abituale d’origine, qualunque decisione in merito all’eventuale ritorno del minore. Ciò, come detto, sulla base del primato del regolamento sulla convenzione nei rapporti tra gli Stati membri, ai sensi dell’art. 60 del regolamento stesso. L’art. 11 n. 8 dispone che la decisione sul ritorno resa dal giudice competente è esecutiva conformemente alla sezione 4 del capo III del regolamento, allo scopo di assicurare il rientro del minore.17 In proposito tutta la giurisprudenza della Corte di Giustizia fa riferimento ad un altro fondamentale principio sotteso al regolamento: quello di reciproca fiducia tra gli Stati membri. In osservanza di tale principio, si può evidenziare che il giudice competente del foro di residenza abituale d’origine, prima di adottare la decisione di ritorno del minore, deve tener conto delle ragioni e degli elementi probatori sui quali sia stata fondata la decisione contro il ritorno. “Il fatto che egli abbia preso in considerazione tali elementi contribuisce a giustificare l’esecutività della decisione, una volta che sia stata adottata”.18 Sempre con riguardo al terzo quesito, la Corte ha chiarito le ragioni per cui ha escluso che una decisione di affidamento provvisorio, resa dal foro dello Stato di nuova residenza del minore, possa esser in grado di impedire (ai sensi dell’art. 47 paragrafo 2) l’esecuzione in tale Stato di una decisione sul ritorno, emessa dal giudice della residenza abituale, e certificata conformemente all’art. 42 del Regolamento.19 Ha precisato infatti che ai sensi degli artt. 42 n. 1 e 43 n. 2 del Regolamento il rilascio di un certificato non è impugnabile dinanzi ai giudici dello Stato membro del trasferimento, (vi è infatti solo la possibilità di sua rettifica in caso di errore materiale) e la decisione certificata ha valore esecutivo con efficacia immediata, senza alcuna possibilità di opposizione al suo riconoscimento. Di conseguenza, il riferimento che è contenuto nell’art. 47 paragrafo 2 alla possibilità che la decisione certificata non sia eseguita “se è incompatibile con una decisione esecutiva emessa posteriormente” va inteso soltanto con riferimento alle eventuali decisioni pronunciate successivamente dai giudici competenti dello Stato membro di origine. Ciò quindi nel rispetto del principio della competenza del giudice dello Stato di residenza abituale del minore. Infine, in linea con tutti i principi finora enunciati, l’esecuzione di una decisione certificata non può essere evitata nello Stato membro di esecuzione adducendo un mutamento delle circostanze, successivo alla sua emanazione, tale per cui l’esecuzione potrebbe esser gravemente pregiudizievole per il minore. A proposito del quarto quesito, la Corte ha affermato che “un mutamento del genere deve essere dedotto dinanzi al giudice competente dello Stato membro di origine, al quale dovrebbe essere presentata anche l’eventuale domanda di sospensione dell’esecuzione della sua decisione”.20 Questa osservazione è conforme ad una giurisprudenza ormai consolidata della Corte di Giustizia. In tal senso, ad esempio, si era espressa la stessa Corte in una sua decisione del 23 dicembre 2009.21 Nella relativa sentenza è ribadita la necessità che i giudici nazionali osservino il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni pronunciate dagli Stati membri, previsto nel Regolamento n.2201/2003, principio che (come si evince dal ventunesimo considerando dello stesso Regolamento) è a sua volta fondato sul criterio giuda della reciproca fiducia tra gli Stati membri. Anche in questa sentenza si afferma, conformemente all’art. 28 n.1 del Regolamento, che i provvedimenti relativi alla responsabilità genitoriale, emessi nello Stato membro ed esecutivi devono, in linea di principio, esser eseguiti nello Stato membro richiesto. Il divieto di qualsiasi riesame nel merito di una decisione esecutiva, da parte del giudice dello Stato membro di esecuzione, è altresì ribadito, ai sensi dell’art. 31, n. 3 del Regolamento stesso. È evidente, dall’esame dei casi concreti oggetto di decisione della Corte di Giustizia, come quest’ultima miri a garantire l’osservanza degli atti direttamente applicabili negli Stati membri DOSSIER da parte degli stessi, con interpretazioni, pur restrittive, ma giustificate dall’obiettivo di salvaguardare le finalità dell’Unione ed al contempo l’interesse del minore. Nello specifico evitare che, con interpretazioni aperte ad eccezioni sempre maggiori al principio della competenza del giudice dello Stato membro di residenza abituale del minore, lo scopo del regolamento n. 2201/2003, di prevenire, dissuadere e risolvere con celerità i casi di sottrazione internazionale di un fanciullo, sia frustrato. Ciò nell’interesse di quest’ultimo a conservare ed esercitare in maniera regolata ed agevole valide relazioni affettive con entrambi i genitori, nell’ambiente in cui ha sviluppato stabilmente relazioni parentali e sociali. Come già detto, la Convenzione dell’Aia del 1980 indica delle ipotesi tassative in cui il giudice del luogo ove si trova il minore può negare il suo ritorno nello Stato di residenza abituale. L’obiettivo perseguito dagli Stati firmatari della Convenzione era la predisposizione di una procedura chiara e facilmente accessibile, atta a permettere il rientro del minore con la necessaria celerità. Tuttavia, negli anni l’attuazione pratica del procedimento istituito dalla Convenzione si è rivelata talvolta lenta e complicata. Sulla base di questa considerazione, gli Stati membri dell’Unione europea nel predisporre uno strumento regolamentare che fosse in grado di superare i difetti della Convenzione, hanno inteso inserire nel Regolamento Bruxelles II bis delle norme volte ad assicurare che l’Autorità giudiziaria della residenza abituale, competente prima della sottrazione del minore, mantenga in tema di decisioni sulla responsabilità genitoriale, la competenza anche successivamente. In tal modo, sulla base del Regolamento, il giudice del foro d’origine è in grado di assumere una decisione che supera quella eventuale di non ritorno, pronunciata dal giudice del luogo ove si trova il minore dopo la sua sottrazione. Ciò al fine di garantire l’efficace e celere rimpatrio del bambino. Come si è accennato, pertanto, il Regolamento 2201/2003 ha una valenza complementare rispetto alla Convenzione dell’Aia del 1980, prevalendo su questa in virtù della disposizione contenuta nell’art. 60 dello stesso Regolamento. 6. Il termine per la decisione L’Autorità giudiziaria adita è tenuta a pronunciarsi sulla domanda di ritorno entro il termine di sei settimane. In proposito la Convenzione dell’Aia del 1980 prevede un provvedimento d’urgenza stabilendo che qualora decorrano sei settimane dalla data d’inizio del procedimento senza che una decisione sia intervenuta, il richiedente può domandare una dichiarazione che precisi le ragioni del ritardo. Anche il Regolamento 2201/2003 si conforma al termine indicato dalla Convenzione prevedendo all’art. 11 punto 3 che l’autorità giudiziaria, salvo il caso in cui circostanze eccezionali non lo consentano, emana il provvedimento al più tardi sei settimane dopo aver ricevuto la domanda. Detto termine non sempre viene rispettato nella pratica. Peraltro si ritiene che la durata della procedura debba esser il più possibile contenuta. Al riguardo alcuni rallentamenti possono esser determinati dalla stessa applicazione della Convenzione e dettati dall’esigenza di favorire la composizione amichevole della controversia. In proposito, l’art. 7 lettera c) della Convenzione dell’Aia recita che le Autorità centrali devono cooperare reciprocamente assumendo, direttamente o tramite intermediari, tutti i provvedimenti necessari per assicurare la consegna volontaria del minore, o agevolare una composizione amichevole. La mediazione è uno degli strumenti utilizzabili ai fini di una consegna volontaria del minore. Tuttavia la composizione del conflitto tra i genitori può dilatare i tempi della pronuncia del giudice sul ritorno. Un esempio è quello di un caso occorso tra Spagna e Olanda in cui l’Autorità centrale olandese tardò sette mesi nel presentare la domanda all’Autorità giudiziaria, malgrado vi fosse una insistente istanza in tal senso da parte del ricorrente che non intendeva più sottoporsi alla mediazione, stante il rifiuto della madre, convenuta e autrice della sottrazione, a giungere ad un accordo.22 Analogo ritardo è stato riscontrato in un procedimento che ha coinvolto le Autorità centrali spagnola e tedesca. In tale caso il padre, ricorrente, era titolare del diritto di affidamento della figlia minore, grazie ad una decisione giudiziale, e la madre esercitava, al momento della sottrazione, il diritto di visita della figlia. La bambina era partita in Germania per visitare la mamma ed era stata ivi trattenuta. Celebrata l’udienza, il Tribunale aveva rinviato la pronuncia della decisione ad altra data per ben quattro volte. Al ricorrente era stato proposto di partecipare ad una mediazione in Germania durante i fine settimana con un costo di 2.500 euro per ogni genitore. Il ricorrente aveva invece domandato il ritorno della minore chiedendo che la mediazione si realizzasse in Spagna.23 Alla luce di tali casi è evidente come il ricorso alla mediazione non debba snaturare l’urgenza del procedimento e comportare rilevanti ritardi nell’adozione della decisione. La mediazione può costituire uno strumento di ausilio alla risoluzione del conflitto e alla gestione del ritorno del minore nell’ambito di una composizione amichevole tra le parti, sempre peraltro nel rispetto del carattere di celerità della procedura. Pur confermandosi gli indubbi vantaggi del ricorso alla mediazione - di cui si tratterà appresso - essa ha una valenza positiva qualora non determini una violazione della Convenzione, e pertanto sia applicata quando le parti siano consenzienti e seriamente motivate. 7. La mediazione La sottrazione internazionale di minori potrebbe esser ritenuta da alcuni una materia non affrontabile con l’ausilio della mediazione, in ragione del livello elevato del conflitto tra le parti, della distanza geografica tra i paesi - che rende difficile la realizzazione delle sessioni - e delle differenze culturali e religiose tra i genitori che acuiscono le tensioni. Inoltre, il concorso di diversi sistemi legali e le differenze linguistiche complicano il procedimento e le comunicazioni. Occorre altresì tener presente che nei casi di sottrazione di minore le parti sono sottoposte a diversi fattori di stress rilevanti, quali: la rottura delle relazioni personali, il timore della perdita dei rapporti affettivi, le preoccupazioni economiche, il timore di assumere delle decisioni fondamentali di ordine personale e familiare. Tuttavia vi sono numerose ragioni per far ricorso alla mediazione. È opportuno astenersi sempre dal qualificare il genitore che sottrae il figlio come “cattivo”, come colui che si disinteressa di causare un danno all’altro e che non tiene in conto i diritti del minore a relazionarsi con entrambi i genitori. Peraltro, guardando la sottrazione dal punto di vista del danno al minore le conseguenze, nella maggior parte dei casi, sono irreparabili.24 Infatti gli studi svolti dall’Associazione “REUNITE”25 indicano che i bambini perdono la confidenza col genitore e gli altri familiari da cui sono stati allontanati e ricordano l’esperienza di sottrazione per anni. Le difficoltà di ripristinare la relazione del bimbo con l’altro genitore sono tanto maggiori quanto più lungo è il tempo trascorso dal momento della sottrazione. Una di esse può esser conseguente alla perdita della lingua della residenza abituale, che è più repentina quanto più piccolo è il bambino; in tal modo il minore perde il veicolo essenziale al mantenimento della sua relazione con l’altro genitore. Inoltre maggiore è la distanza geografica tra i due genitori, maggiore è la difficoltà di esercizio del diritto di visita, soprattutto per i bambini la cui età non consente loro di viaggiare soli. Anche le condizioni economiche delle parti possono incidere negativamente sulla possibilità di affrontare il viaggio. 7.1. La mediazione nella Convenzione dell’Aia e nel contesto europeo La Convenzione dell’Aia contiene il riferimento alla mediazione in maniera implicita laddove, all’art. 7, dispone che le Autorità Centrali devono collaborare tra loro e promuovere la collaborazione tra le Autorità competenti dei rispettivi Stati - al fine di consentire la restituzione immediata dei minori - nongennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 33 DOSSIER ché di garantire la restituzione volontaria del bambino o facilitare una soluzione amichevole (punto c dell’art. 7). L’art. 10 della Convenzione afferma che l’Autorità Centrale dello Stato dove si trova il minore adotterà o farà in modo che siano adottati tutti i provvedimenti adeguati per assicurare la sua riconsegna volontaria. Il ricorso alla mediazione in materia di sottrazione di minori è stato dapprima sperimentato in Gran Bretagna e successivamente attuato anche in altri paesi come la Francia. L’esigenza di un procedimento teso alla conciliazione stragiudiziale delle parti è stata progressivamente sentita da tutti i paesi dell’Unione europea. In tale contesto, in seno al Consiglio d’Europa è stato elaborato, dalla Commissione per l’Efficienza della Giustizia, un rapporto sull’utilizzo della mediazione, che ha rilevato, nei paesi oggetto dell’indagine, la necessità di una maggiore conoscenza dello strumento, di una sensibilizzazione in tal senso dei giudici e della messa a disposizione da parte degli Stati parti di fondi atti a far fronte alla relativa spesa.26 Rispondendo a queste necessità, l’Unione europea, con la Direttiva 2008/52/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale, ha voluto indicare agli Stati membri l’urgenza di approntare meccanismi di mediazione efficaci, tesi a fornire alle parti “una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale attraverso procedure concepite in base alle esigenze delle parti”. La Direttiva evidenzia in particolare che “gli accordi risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente e preservano più facilmente una relazione amichevole e sostenibile tra le parti. Tali benefici diventano anche più evidenti nelle situazioni che mostrano elementi di portata transfrontaliera”. L’Unione europea persegue quindi esplicitamente “l’obiettivo di facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e di promuovere la composizione amichevole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario”. La predetta direttiva si applica alle controversie transfrontaliere, in materia civile e commerciale. Con riguardo alla necessità di rendere un efficace servizio informativo al pubblico sui vantaggi della mediazione l’articolo 9 della richiamata Direttiva indica agli Stati membri di incoraggiare nei modi più appropriati, “la divulgazione al pubblico, in particolare via Internet, di informazioni sulle modalità per contattare i mediatori e le organizzazioni che forniscono servizi di mediazione”. In linea con tale indicazione l’Autorità giudiziaria belga ha recentemente avviato un progetto pilota, istituendo all’interno del “Tribunal de la Jeunesse” di Bruxelles un “Bureau d’information” che propone il ricorso alla mediazione come alternativa al Tribunale e che è in grado di indirizzare gli utenti che ne facciano richiesta ai centri specializzati per la mediazione.27 Inoltre tale “Bureau” fornisce informazioni anche sui costi della mediazione specificando che in linea generale essa è a carico delle parti ma che le spese e gli onorari del mediatore possono esser coperti dall’assistenza giudiziaria statale, nel rispetto di determinate condizioni. Il sito (indicato in nota 27) fornisce inoltre una lista di mediatori raccomandati dallo stesso Tribunale. L’Articolo 2 della Direttiva 2008/52/CE, indica l’utilità del ricorso alla mediazione nelle controversie transfrontaliere. A tal fine definisce in via generale per controversia transfrontaliera quella in cui almeno una delle parti è domiciliata o risiede abitualmente in uno Stato membro diverso da quello di qualsiasi altra parte alla data in cui: a) le parti concordano di ricorrere alla mediazione dopo il sorgere della controversia; b) il ricorso alla mediazione è ordinato da un organo giurisdizionale; c) l’obbligo di ricorrere alla mediazione sorge a norma del diritto nazionale; o d) ai fini dell’articolo 5, un invito è rivolto alle parti. 34 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 Come evidenziato, il ricorso alla mediazione è previsto anche su indicazione dell’organo giurisdizionale che, investito di una causa, può - se lo ritiene appropriato e tenuto conto di tutte le circostanze del caso - invitare le parti ad aderire alla mediazione allo scopo di dirimere la controversia. Il Giudice può altresì invitare le parti a partecipare ad una sessione informativa sul ricorso alla mediazione se tali sessioni hanno luogo e sono facilmente accessibili (art. 5 della direttiva) La mediazione può anche esser prevista come obbligatoria dal diritto nazionale degli Stati membri, ma deve esser lasciata impregiudicata la possibilità per le parti di ricorrere al sistema giudiziario. Le parti hanno inoltre la possibilità di chiedere che il contenuto di un accordo scritto risultante da una mediazione sia reso esecutivo. L’esecutività è possibile salvo che il contenuto dell’accordo sia contrario alla legge dello Stato membro in cui viene presentata la richiesta o se la legge di detto Stato membro non ne prevede l’esecutività (art. 6 della direttiva). I termini dell’accordo possono essere resi esecutivi in una sentenza, in una decisione o in un atto autentico da un organo giurisdizionale o da un’altra autorità competente in conformità del diritto dello Stato membro in cui è presentata la richiesta. La direttiva, infine, pone agli Stati membri l’onere di indicare alla Commissione gli organi giurisdizionali o le altre autorità competenti a ricevere le richieste tese a rendere esecutivo un accordo. In Italia è di recente promulgazione il decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, relativo al nuovo istituto della mediazione civile e commerciale, la cui finalità precipua è quella di promuovere la risoluzione stragiudiziale delle controversie, tramite il ricorso alla mediazione. Già con la Legge del 2006 n. 54 in materia di diritto di famiglia, la mediazione tra le parti è stata regolata e incentivata, prevedendo che nel corso del giudizio teso alla definizione del regime di affidamento di un minore ad uno o ad entrambi i genitori, il giudice possa rimandare la decisione per consentire alle parti di ricorrere alla mediazione. Con riguardo all’applicazione della mediazione ai casi di sottrazione internazionale di minore occorre tenere in debito conto che i ritardi nelle procedure di ritorno ledono l’interesse superiore del minore. Il tempo gioca a favore del genitore che ha sottratto il bimbo e complica inevitabilmente la possibilità di ristabilire lo status quo. Non si può tuttavia pensare di escludere la mediazione in tale settore, ma si può prevedere che essa sia implementata e supportata da una struttura giuridica appropriata, che garantisca l’uguaglianza delle parti, che permetta di evitare i ritardi indebiti e che, inoltre, garantisca l’applicazione delle soluzioni raggiungibili. Alla luce dell’indicazione contenuta nella Convenzione dell’Aja, essa ha un’evidente utilità sia al fine di prevenire le sottrazioni che per porvi fine. La mediazione opera in tali contesti come un meccanismo molto efficace soprattutto nei casi i cui esiti possono rivelarsi molto traumatici per il minore, quali ad esempio quelli definiti dai magistrati francesi come “retour guillotine”, cioè quando un bimbo si vede rinviato al genitore cui era stato sottratto “dal mattino alla sera”, senza alcuna preparazione. Evitare simili conseguenze costituisce certamente un motivo valido per iniziare la mediazione, ma ve ne sono altri altrettanto validi quali: - perseguire la cooperazione tra le parti, piuttosto che permettere al vincitore e al vinto di affrontarsi; tale ultimo tradizionale modo di operare crea infatti maggiore aggressività tra i soggetti coinvolti; - incentivare la consapevolezza nei genitori delle conseguenze dannose dello sradicamento del figlio, aiutandoli a concentrarsi sulle necessità e i sentimenti del minore; - liberare il bambino dal conflitto di lealtà che abbia strutturato nei confronti di uno dei genitori, contribuendo in tal modo a generare in lui sicurezza e sollievo. È possibile citare alcuni casi di utilizzo della mediazione con esiti favorevoli. Un esempio è quello in cui la negoziazione e la mediazione sono state agevolate dai governi dei paesi coinvolti. Si trattava della sottrazione di una minore franco-russa di DOSSIER nome Elise di tre anni avvenuta ad Arles (Francia) nel marzo 2009. Due procedimenti per sottrazione internazionale venivano iniziati: uno dalla madre in Russia ed uno dal padre in Francia. Erano intervenuti, con risultati positivi, il Console Generale della Russia, il Ministro della Giustizia e degli Esteri, nonché il Segretario di Stato per i Diritti Umani. Era stato quindi attivato un percorso di mediazione tra le parti. Un altro caso è quello di “Shaban-Arias”(minore residente in Guatemala, madre argentina cattolica, padre giordano musulmano). Tra gli intervenuti nel processo di negoziazione: il Presidente della Repubblica Argentina, il Re di Giordania, il Segretario Generale delle Nazioni Unite.28 7.2. La Mediazione secondo le Conclusioni dalla Commissione speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia del 1980 e del 1996 adottate nella sesta riunione del 01-10 giugno 2011 La Commissione speciale ha preso atto dei notevoli sviluppi in materia di utilizzo della mediazione nel contesto della Convenzione del 1980 ed ha accolto con favore il progetto della Guida alle buone pratiche sulla mediazione ai sensi della Convenzione del 1980. Il Bureau Permanente è stato quindi invitato a rivedere la Guida alla luce delle discussioni della Commissione speciale, tenendo conto anche dei pareri degli esperti. Dovrebbe essere prevista in tale Guida l’aggiunta di esempi di accordi di mediazione. La versione rivista della stessa sarà distribuita agli Stati contraenti. La Commissione speciale ha preso altresì atto degli sforzi già compiuti in alcuni Stati per l’istituzione di punti di contatto centrali e pertanto ha incoraggiato tutti gli Stati a considerare l’istituzione di tali un punto di contatto o la designazione di un’Autorità centrale come punto di contatto centrale. Le coordinate dei punti centrali di contatto sono disponibili sul sito web della Conferenza dell’Aia. 8. Il ritorno in caso di misure adeguate a protezione del minore Come già detto “il rischio grave che il minore possa correre per l’effetto del rientro” (art. 13 lettera b della Convenzione dell’Aia) può fondare una decisione contro il ritorno. Fatto salvo quanto già riportato circa la giurisprudenza della Corte di Giustizia, occorre rilevare altresì che l’art. 11 punto 4. del Regolamento 2201/2003 dispone che un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro non può rifiutare di ordinare il ritorno di un minore in base all’art. 13 lett b) della Convenzione dell’Aia del 1980, qualora sia dimostrato che sono previste misure adeguate per assicurare la protezione del minore dopo il suo ritorno. Da questa disposizione può arguirsi che il giudice cui sia chiesta una decisione contro il ritorno, deve raccogliere tutte le informazioni necessarie per comprendere ciò che può accadere dopo la restituzione del minore, prima di adottare o meno il provvedimento richiesto, senza limitarsi alla cognizione delle allegazioni delle parti, al fine di tutelare pienamente l’interesse del fanciullo. Ci si può chiedere chi debba porre in essere le “misure adeguate”, atte a garantire la protezione del bambino dopo il suo ritorno. Si può ritenere che solo gli organismi preposti alla protezione del minore esistenti nello Stato membro possano predisporre e fornire dette garanzie, quali i Servizi sociali locali, gli Uffici per la protezione minorile esistenti nelle Forze dell’Ordine (presenti in Italia presso le Questure) coordinati dai Tribunali specializzati per i Minorenni.29 In tal senso di sicura utilità può risultare anche il contatto tra autorità giudiziarie dei paesi interessati, tramite la rete dei giudici dell’Aia. 9. Il provvedimento contro il ritorno del minore nel Regolamento 2201/2003 Come già detto, l’art. 11 del Regolamento CE 2201/2003 nei paragrafi dal 6 all’8 fa riferimento alla possibilità che un’Autorità giudiziaria di uno Stato membro dove sia stato trasferito il minore rifiuti la restituzione sulla base dell’art. 13 della Convenzione dell’Aia del 1980. In tali ipotesi l’Autorità denegante deve immediatamente trasmettere direttamente o tramite l’Autorità centrale una copia del provvedimento giudiziario di rifiuto del ritorno e dei per- tinenti documenti (comprendenti la trascrizione delle audizioni dinanzi al giudice) all’Autorità giurisdizionale dello Stato membro di residenza abituale del minore, o all’Autorità centrale di esso. La ricezione di detti documenti deve avvenire entro un mese dall’emanazione di detto provvedimento. Tali atti, oggetto di trasferimento al giudice del foro della residenza abituale d’origine, serviranno a questo ultimo giudice per valutare tutti gli elementi istruttori del caso, prima di adottare l’eventuale decisione di ritorno del minore. Questi infatti, come già su indicato, deve tener conto delle ragioni e degli elementi probatori sui quali sia stata fondata la decisione contro il ritorno. Il fatto che egli abbia preso in considerazione tali elementi contribuirà a giustificare l’esecutività della decisione, una volta che sia stata adottata.30 10. I provvedimenti di cui all’Articolo 15 del regolamento n.2201/2003: trasferimento delle competenze a una autorità giurisdizionale più adatta a trattare il caso Il regolamento n.2201/2003 prevede all’art. 15 un’eccezione alla regola generale stabilita nell’art. 8 dello stesso. L’art. 8 dispone - con riguardo alle domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore - la competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente alla data in cui sono adite. L’art. 15 prevede invece che: 1. In via eccezionale le autorità giurisdizionali di uno Stato membro competenti a conoscere del merito, qualora ritengano che l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame particolare sia più adatto a trattare il caso o una sua parte specifica e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore, possono: a) interrompere l’esame del caso o della parte in questione e invitare le parti a presentare domanda all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro conformemente al paragrafo 4, oppure b) chiedere all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro di assumere la competenza ai sensi del paragrafo 5. 2. Il paragrafo 1 è applicabile: a) su richiesta di una parte o b) su iniziativa dell’autorità giurisdizionale o c) su iniziativa di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con cui il minore abbia un legame particolare, conformemente al paragrafo 3. Il trasferimento della causa può tuttavia essere effettuato su iniziativa dell’autorità giurisdizionale o su richiesta di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro soltanto se esso è accettato da almeno una delle parti. 3. Si ritiene che il minore abbia un legame particolare con uno Stato membro, ai sensi del paragrafo 1, se tale Stato membro: a) è divenuto la residenza abituale del minore dopo che l’autorità giurisdizionale di cui al paragrafo 1 è stata adita; o b) è la precedente residenza abituale del minore; o c) è il paese di cui il minore è cittadino; o d) è la residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità genitoriale; o e) la causa riguarda le misure di protezione del minore legate all’amministrazione, alla conservazione o all’alienazione dei beni del minore situati sul territorio di questo Stato membro. 4. L’autorità giurisdizionale dello Stato membro competente a conoscere del merito fissa un termine entro il quale le autorità giurisdizionali dell’altro Stato membro devono essere adite conformemente al paragrafo 1. Decorso inutilmente tale termine, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adita ai sensi degli articoli da 8 a 14. 5. Le autorità giurisdizionali di quest’altro Stato membro possono accettare la competenza, ove ciò corrisponda, a motivo delle particolari circostanze del caso, all’interesse superiore del minore, entro 6 settimane dal momento in cui sono adite in base al paragrafo 1, lettere a) o b). In questo caso, l’autorità giurisdizionale preventivamente adita declina la propria competenza. In caso contrario, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adito ai sensi degli articoli da 8 a 14. gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 35 DOSSIER 6. Le autorità giurisdizionali collaborano, ai fini del presente articolo, direttamente ovvero attraverso le autorità centrali nominate a norma dell’articolo 53. La norma in esame consente pertanto all’Autorità giudiziaria del foro competente d’origine, in presenza di una o più condizioni di cui al punto 3 della norma, di indirizzare le parti ad un giudice di un altro Stato membro interrompendo l’esame del caso (lett. a), ovvero di chiedere a tale altro giudice se ritenga la sua competenza, con riguardo alle domande relative alla responsabilità genitoriale di un minore. Tale scelta deve esser valutata con riferimento al caso concreto e deve rispondere all’interesse del fanciullo. Un’applicazione di tale disposizione è stata effettuata nel 2008 dal Tribunale di Barcellona con riguardo al caso di un bimbo la cui madre, di nazionalità peruviana, aveva vissuto tra la Spagna e l’Italia, spostandosi frequentemente col figlio.31 La madre in particolare aveva risieduto col bimbo in Spagna per circa un anno, ivi l’aveva iscritto all’asilo nido ed aveva condotto una vita regolare, aiutata dai parenti residenti anch’essi a Barcellona. Il piccolo era stato poi condotto in visita al padre, di nazionalità ecuadoriana, che lavorava in Italia. Successivamente, madre e figlio rientravano in Spagna. Poi, richiamati dal padre in Italia, vi avevano vissuto per periodi intermittenti di diversa durata facendo spesso rientro a Barcellona. Ciò fino a quando la donna aveva deciso di separarsi definitivamente dal compagno, di cui lamentava i maltrattamenti e la ritenzione del figlio. La donna aveva adito quindi il Tribunale di Barcellona chiedendo l’affidamento del bambino e la sua collocazione presso di sé in Spagna. Con un provvedimento emesso ai sensi dell’art. 15 del Regolamento citato, il Tribunale di Barcellona aveva chiesto ai giudici italiani se si ritenessero competenti a decidere sulla domanda di affidamento del bambino alla madre e di ritorno del piccolo in Spagna. Il Tribunale di Barcellona riteneva in particolare la sussistenza di due condizioni previste nel punto 3 dell’art. 15 del Regolamento Bruxelles bis II: quelle indicate alla lettera b) - giacché l’Italia era ad avviso dei giudici spagnoli la residenza abituale del minore - e alla lettera d) poiché in Italia era stata fissata la residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità genitoriale: il padre. Il Tribunale per i Minorenni di Genova riteneva la propria competenza, avuto riguardo alla sussistenza delle condizioni di cui all’art. 15 punto 3 citate, valutando che l’Autorità giudiziaria italiana appariva quella più adatta a decidere il caso in quanto il bimbo si trovava in Italia col padre e si sarebbero potuti accertare meglio gli interessi del bambino, grazie all’intervento dei servizi sociali territoriali, ed al più agevole ascolto del minore. La collaborazione tra le autorità giudiziarie italiana e spagnola avveniva direttamente, senza l’intervento delle autorità centrali, agevolmente ed in tempi celeri, come previsto dall’art. 15 punto 6 del regolamento n. 2201/2003, ricorrendo alla reciproca traduzione degli atti. Analogo caso di cooperazione è stato trattato dal Tribunale per i Minorenni di Genova con l’Autorità giudiziaria polacca, relativamente ad un bimbo figlio di un cittadino italiano e di una cittadina polacca, i quali, separatisi, avevano raggiunto un accordo secondo cui il piccolo avrebbe soggiornato presso il padre durante il periodo estivo. Di fatto madre e figlio si trovavano in Polonia ed il padre lamentava che l’ex compagna non aveva ottemperato a quanto previsto nell’accordo. Egli chiedeva al Tribunale l’affidamento esclusivo del figlio, assumendo la sua residenza abituale in Italia, prima che la madre nel settembre 2008 (ed entro l’anno dalla data del ricorso) lo portasse in Polonia. Indicava altresì che era pendente presso l’Autorità giudiziaria polacca un procedimento volto alla determinazione del contributo al mantenimento del figlio da parte del padre, attivato dalla madre. Dall’esame degli atti della procedura polacca, prodotti dal ricorrente, era emersa altresì la domanda proposta dalla stessa madre, in quel procedimento, circa la regolamentazione dei rapporti del bimbo con il genitore italiano. Tuttavia, nel procedimento instaurato a Genova, gli assunti del padre sulla residenza abituale del minore in Italia risultavano confusi e contradditori, così come i termini del riferito ac36 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 cordo non provato documentalmente. La madre, benché ritualmente citata, non si era costituita in giudizio. Il Tribunale per i Minorenni di Genova aveva ritenuto sussistenti due delle condizioni previste dal punto 3 dell’art. 15, quali quelle di cui alla lettera c), poiché il bambino era cittadino polacco, e alla lettera d) poiché in Polonia era stata fissata la residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità genitoriale: la madre. Inoltre, la possibilità dell’Autorità giudiziaria polacca di assumere celermente informazioni più approfondite dai servizi sociali locali, sulla condizione familiare e ambientale di crescita del bimbo, aveva indicato l’opportunità della trattazione del caso da parte dei giudici polacchi, come ipotesi maggiormente rispondente all’interesse del minore. Quindi il Tribunale polacco, tra l’altro già adito dalla madre sulla determinazione del mantenimento economico del figlio e dei rapporti di questi col genitore - in effettivo contradditorio col padre - era stato considerato più adatto a decidere il caso. Pertanto ai sensi dell’art. 15 del regolamento citato, il Tribunale per i Minorenni di Genova, aveva trasmesso ai giudici polacchi la richiesta volta ad ottenere una loro pronuncia sulla competenza, che veniva da essi successivamente emessa in senso affermativo.32 11. L’ascolto del minore L’articolo 13 della Convenzione dell’Aia del 1980 prevede alla lettera b) 2° comma che il ritorno del minore può esser rifiutato qualora si accerti che il minore si oppone al rientro e che ha raggiunto un’età ed un grado di maturità tali per cui sia opportuno tener conto del suo parere. Con riguardo alla normativa europea l’art. 11 2° comma del Regolamento CE 2201/2003 dispone specificamente che “Nell’applicare gli artt. 12 e 13 della Convenzione dell’Aja del 1980, si assicurerà che il minore possa esser ascoltato durante il procedimento se ciò non appaia inopportuno in ragione della sua età e del suo grado di maturità”. Più in generale, l’ascolto del minore, già stabilito dalla Convenzione di New York sui Diritti del Fanciullo, è ritenuto oggi un adempimento necessario nei procedimenti che li concernono alla luce dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25.1.1996, ratificata con la L. n.77 del 2003 e della giurisprudenza dominante. L’obbligo dell’ascolto del minore nei procedimenti che li riguardano deriva dunque da norme di carattere internazionale. Tale audizione, pertanto, deve esser svolta salvo il caso in cui possa essere in contrasto con i suoi interessi fondamentali, cosicché sussiste l’obbligo per il giudice di motivare l’eventuale assenza di discernimento del minore che possa giustificarne l’omesso ascolto. A tale proposito, nel 2009, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite33 ha ribadito la necessità dell’audizione del minore, ad eccezione dell’ipotesi in da essa possa derivare un danno al bimbo. Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha indicato che anche “nel procedimento per il mancato illecito rientro nella originaria residenza abituale, l’audizione del minore - benché non imposta dalla legge, in ragione del carattere urgente e meramente ripristinatorio di tale procedura34 - è da ritenere anche in tale procedimento, in genere, opportuna, se possibile”. Ciò è inoltre specificamente previsto, dal Regolamento CE 2201/2003, relativamente a procedimenti che interessino cittadini degli Stati membri dell’Unione europea. Pertanto anche nell’ambito della procedura di rientro del minore il suo ascolto è in via di principio necessario al fine di poter valutare, ai sensi dell’art. 13, comma 2 della Convenzione dell’Aia del 1980, l’eventuale opposizione del bambino al ritorno, salvo ragioni di inopportunità, in relazione all’età o al grado di maturità e, a fortiori, di danno per quest’ultimo.35 Al riguardo la Corte di Cassazione ha cassato, con rinvio, un decreto del Tribunale per i Minorenni di Milano, in relazione alla mancata audizione dei minori (sentenza in nota 34). Nel caso di specie, ad avviso della Corte, i giudici minorili - oltre a non aver adeguatamente approfondito l’aspetto relativo all’effettivo esercizio dei diritti ricompresi “nel diritto di affidamento” - non hanno sufficientemente motivato la decisione di non procedere all’ascolto dei bambini, richiamando generica- DOSSIER mente ragioni di opportunità rinvenibili nella loro età e immaturità. Tale motivazione è stata ritenuta, dai giudici di legittimità, imprecisa e non supportata dalle risultanze istruttorie. Nello specifico, la Corte di Cassazione ha considerato che l’età dei minori non ne precludeva l’ascolto. La stessa Corte ha altresì dissentito dalla valutazione di immaturità dei bambini, svolta dai giudici di merito, osservando che non era confortata da elementi obiettivi e che era anzi smentita dagli ascolti già disposti ed attuati in diversa sede giudiziaria. Con tale pronuncia la Suprema Corte ha dunque indicato chiaramente come il giudice non possa limitarsi a generici richiami all’età del minore onde farne conseguire un giudizio di immaturità, al fine di evitarne l’audizione. L’analisi del giudice deve per contro esser approfondita e deve essere altresì specifica, talché l’età non può esser valutata come elemento di per sé atto a escludere l’ascolto ma vista in rapporto a tutti gli elementi emersi nell’ambito dell’istruttoria, che contribuiscono a fornire indicazioni valide al giudice nella sua determinazione di procedere o meno all’audizione del bambino. Non appare in contrasto con tale orientamento la recente sentenza della Corte dei Diritti dell’uomo36 già citata, ove si afferma che non costituisce una violazione della Convenzione la circostanza che nel procedimento interno le autorità nazionali abbiano ritenuto inopportuno sentire il minore, prima di adottare il provvedimento di ritorno. Tale sentenza è in linea anche con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, che ha affermato come il diritto del bambino ad esser ascoltato “non” comporti la sua “audizione in quanto tale, bensì la possibilità per il minore di esser sentito” sempre che ciò sia opportuno in relazione alla sua età e al suo grado di maturità (come si desume dall’art. 42 del Regolamento n. 2201/2003).37 È evidente tuttavia che la decisione di non procedere all’ascolto del bambino deve essere specificamente motivata anche con riferimento a tutti i dati istruttori. La Commissione speciale per l’attuazione della Convenzione dell’Aia, nella sua sesta riunione del giugno 2011, ha ribadito tali principi nelle sue Conclusioni, affermando che deve esser accolto con favore l’indirizzo di dare ai bambini, considerata la loro età e maturità, la possibilità di essere ascoltati nei procedimenti di ritorno, indipendentemente dal fatto che la difesa sia stata fondata ai sensi dell’articolo 13 (2). La Commissione Speciale ha constatato che gli Stati parti adottano approcci diversi nel loro ordinamento interno quanto alle modalità in cui le opinioni del minore possono esser raccolte ed introdotte nel procedimento. Ha sottolineato comunque l’importanza di garantire che la persona che parla al bambino, che sia il giudice, un esperto indipendente o qualsiasi altra persona, sia, per quanto possibile, dotata di una formazione adeguata a tale compito. Si è inoltre indicata la necessità che i bambini siano informati, a seconda dell’età e del grado di maturità, del processo in corso e delle possibili conseguenze. La Commissione Speciale ha rilevato altresì che un numero crescente di Stati prevedono, in casi di sottrazione, la possibilità di un rappresentante legale distinto del minore. È da ritenere quindi auspicabile che il giudice procedente si avvalga del supporto di un consulente o di un esperto (psicologo, pedagogo) che possa essergli d’ausilio nella formulazione delle domande al bambino e nella conduzione dell’udienza, onde evitare e/o superare sue possibili reazioni di chiusura. Si è appurato, in particolare, che il ricorso a forme grafiche e di disegno è una valida strategia di ascolto, in grado di fornire concrete indicazioni di lettura (secondo valenze ormai verificate dagli specialisti) dello stato d’animo e della condizione del bambino. È inoltre importante che sia spiegato al minore il proprio ruolo ed il significato degli incontri col giudice e con l’esperto. Occorre evitare domande induttive o con modalità ambivalenti, squalificanti o neganti, in quanto interferiscono e ostacolano marcatamente la relazione con il minore. L’uso di un linguaggio semplice e chiaro, implica domande brevi e aperte al fine di favorire risposte ampie e libere. Inoltre è opportuno rivolgere al minore domande sugli aspetti emotivi legati ai contenuti del colloquio e domande di chiarificazione (se necessario) specificando che si vuol capire bene (onde evitare influenze di suggestione positiva o negativa). È infatti importante non dimenticare che “la psiche infantile è sotto l’egida delle emozioni e non del costrutto logico-formale: pertanto la credibilità e la plausibilità della narrazione di un minore.. non deve far riferimento ai parametri degli adulti, bensì alle competenze specifiche dell’età”. È quindi conseguente a tali indicazione anche l’opportunità dell’osservazione “degli atteggiamenti, del comportamento, dei gesti, del gioco, del linguaggio del minore al fine di comprenderne a fondo le modalità senso percettive, attentive, mnemoniche, di pensiero e il loro significato”.38 12. Cooperazione Internazionale e Sottrazione Internazionale di minori: la comunicazione giudiziale diretta tramite la rete dei Giudici dell’Aia Il Network dei Giudici dell’Aia fornisce un valido strumento di comunicazione tra i Giudici dei diversi Stati interessati da casi di sottrazione internazionale di minori. La funzione di questi giudici di contatto è quella di fungere da intermediari tra il giudice nazionale adito e l’autorità giudiziaria ove si ritiene si trovi il minore, o più semplicemente tra le autorità giudiziarie degli Stati membri di cui le parti sono cittadine. In queste ipotesi il giudice che vuole chiedere la cooperazione dell’autorità giudiziaria straniera può contattare direttamente uno dei giudici facenti parte della lista dei membri della rete e domandare un contatto con detta autorità. È possibile attivare tale contatto anche per mezzo dell’Autorità Centrale. Ogni giudice, a tal fine, deve rivolgersi alla propria Autorità Centrale Nazionale. Può rivestire particolare importanza entrare in comunicazione con il giudice straniero al fine di verificare se le misure che il giudice interessato intende disporre possano essere eseguite e siano esistenti nell’ordinamento straniero ove devono esser applicate. Ciò ad esempio, nel caso in cui sia necessario adottare delle misure di protezione nei confronti del figlio (e se del caso anche della madre) da eventuali violenze domestiche. Ogni Stato firmatario della Convenzione dell’Aia del 1980 dovrebbe nominare un magistrato quale giudice di contatto nel proprio paese al fine di agevolare la cooperazione nel senso suindicato. Qualora siano necessarie informazioni sul caso, il giudice nazionale può anche attivare una comunicazione diretta con il collega straniero. Normalmente il giudice straniero non comunica con le parti. Le parti comunque devono esser poste a conoscenza della comunicazione intercorrente tra egli ed il collega straniero o il magistrato di contatto della rete Aia. In tal caso è opportuno che tali comunicazioni avvengano per iscritto. In questo modo le parti possono accedere a tali atti. La forma scritta riveste nel caso specifico una reale garanzia di trasparenza e di rispetto del contradditorio che deve esser salvaguardata. Se il caso lo richiede, è possibile anche prevedere che le parti prendano parte alla comunicazione tra i giudici dei diversi Stati interessati. Nel gennaio 2009 si è tenuta a Bruxelles una riunione volta ad ampliare e rafforzare il Network dei Giudici dell’Aia. In tale occasione, a conclusione dell’incontro, sono state formulate delle Raccomandazioni agli Stati contraenti. Tra esse, in particolare, quella che indica ad ogni Stato parte della Convenzione la necessità di nominare un Magistrato di Collegamento nell’ambito della rete Aia. È stato altresì raccomandato l’incremento della diretta collaborazione tra i giudici dei diversi Stati della Convenzione attraverso la conoscenza del ruolo svolto dalla rete e la sensibilizzazione degli operatori giuridici coinvolti.39 La Commissione speciale per l’attuazione della Convenzione dell’Aia nella sesta riunione del giugno 2011 ha constatato con favore, nelle sue Conclusioni, la straordinaria crescita della Rete internazionale dei giudici dell’Aja, avvenuta tra il 2006 e il 2011, ed attualmente composta da 65 giudici provenienti da 45 Stati. gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 37 DOSSIER Gli Stati che non hanno ancora nominato i giudici della Rete dell’Aia sono stati inoltre incoraggiati a farlo al più presto. La Commissione ha valutato positivamente l’adozione di misure, sia a livello nazionale che regionale, da parte di alcuni Stati e delle organizzazioni regionali per la realizzazione di reti giudiziarie e la promozione di comunicazioni giudiziarie. È stata altresì sottolineata l’importanza delle comunicazioni dirette giudiziarie, nell’ambito delle procedure relative alla tutela internazionale dei minori e alla sottrazione internazionale di minori. Note 1 V. Cass. Sez. I, 15.2.2008 n. 3798. 2 La Convenzione all’art. 3 precisa infatti che: “il trasferimento o il mancato rientro di un minore è ritenuto illecito: a) quando avviene in violazione dei diritti di custodia assegnati a una persona, istituzione o ogni altro ente, congiuntamente o individualmente, in base alla legislazione dello Stato nel quale il minore aveva la sua residenza abituale immediatamente prima del suo trasferimento o del suo mancato rientro e: b) se tali diritti vanno effettivamente esercitati, individualmente o congiuntamente, al momento del trasferimento del minore o del suo mancato rientro, o avrebbero potuto esserlo se non si fossero verificate tali circostanze. Il diritto di custodia, citato al capoverso a) di cui sopra può in particolare derivare direttamente dalla legge, da una decisione giudiziaria o amministrativa, o da un accordo in vigore in base alla legislazione del predetto Stato”. 3 V. Corte di Cassazione - Sezione I civ., sentenza del 20 gennaio-21 marzo 2005, n. 6014. 4 V. Decreto del Tribunale per i Minorenni di Genova del 21.11.08, nel procedimento n. 913/08 V.G. Presidente Sansa, Rel. Atzeni. 5 V. Cassazione - Sezione I civ., sentenza 20 gennaio-21 marzo 2005, n. 6014. 6 V. Cassazione sez. I, Sentenza del 19.05.2010 n. 12293 rinvenibile in: www.minoriefamiglia.i 7 In tal senso v. anche la sentenza della Corte Giustizia dell’11 luglio 2008, causa C -195/08, Rinau, punti dal 51 al 52 della motivazione. 8 Conclusioni del Workshop tenuto, nell’ambito dell’Iniziativa della Rete Europea della Formazione Giudiziaria, a Barcellona il 10-12 giugno 2009 sul tema “La sustracciòn internacional de menores: los nuevos desafìos”. 9 V. sentenza della Corte dei Diritti dell’uomo del 12.07.2011 sez. II, ricorso n. 14737 Sneersone e Kampanella contro Italia. 10 V. Sentenza della Grande Chambre della Corte dei Diritti dell’uomo, n. 41615/07, del 6 luglio 2010, caso Neulinger Shuruk contro Svizzera. 11 V. Conclusioni e raccomandazioni della Commissione speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia del 1980 e del 1996, a seguito della sua sesta riunione del 01-10 giugno 2011: http<Nessuno(a)>://www.hcch.net/upload/ concl28sc6_e.pdf 12 V. punto 47 e seg. delle Conclusioni e raccomandazioni della Commissione speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia del 1980 e del 1996, a seguito della sua riunione del 01-10 giugno 2011, tenutasi all’Aia. 13 V. punto 45 delle Conclusioni e raccomandazioni della Commissione speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia del 1980 e del 1996, a seguito della sua riunione del 01-10 giugno 2011, tenutasi all’Aia. 14 v. Sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, III Sez., 1° luglio 2010, causa C-211/10 (Presidente Lenaerts; Relatore Juhàsz) il cui testo integrale è consultabile sui siti: www.guidaaldiritto.ilsole24ore.com e www.curia.europa.eu. 15 In tal senso v. anche la sentenza della Corte Giustizia dell’11 luglio 2008, causa C -195/08, Rinau, punti dal 51 al 52 della motivazione. 16 V. ancora la sentenza Rinau cit., punti 63 e 64 della motivazione. 17 V. punto 58 della sentenza della Corte giust. 1° luglio 2010, causa C-211/10. 18 V. punto 59 della sentenza della Corte giust. 1° luglio 2010, causa C-211/10. 19 L’art. 47 cit. recita: «1. Il procedimento di esecuzione è disciplinato dalla legge dello Stato membro dell’esecuzione. - 2. Ogni decisione pronunciata dall’autorità giurisdizionale di uno Stato membro e dichiarata esecutiva ai sensi della sezione 2 o certificata conformemente all’articolo 41, paragrafo 1, o all’articolo 42, paragrafo 1, è eseguita nello Stato membro dell’esecuzione alle stesse condizioni che si applicherebbero se la decisione fosse stata pronunciata in tale Stato membro. In particolare una decisione certificata conformemente all’articolo 41, paragrafo 1, o all’articolo 42, paragrafo 1, non può essere eseguita se è incompatibile con una decisione esecutiva emessa posteriormente». 20 V. punto 83 della sentenza della Corte di Giustizia citata, del 1° luglio 2010, C- 211-10. 21 V. sentenza della Corte di Giustizia del 23 dicembre 2009, causa C- 403/09 PPU, Deticek contro Sgueglia. 22 Caso H28 (1788) Spagna - Olanda, oggetto di studio nel Workshop tenuto, nell’ambito dell’Iniziativa della Rete Europea della Formazione Giudiziaria, a Barcellona il 10-12 giugno 2009 su “La sustracciòn internacional de menores: los nuevos desafìos”. 23 Caso H 28 (2047) Spagna- Germania oggetto di studio nel Workshop di cui alla nota precedente. 24 V. la Relazione di Maria Isabel TOMAS GARCIA, (Giudice del Tribunale di prima istanza di Barcellona) “Family mediation involving International child abduction cases. International experience and applicable models, svolta al Workshop citato. 25 “Reunite” è un’organizzazione senza fine di lucro che nacque nel Regno Unito e che è specializzata nella sottrazione internazionale dei minori i cui obbiettivi essenziali sono: fornire informazioni e appoggio ai genitori e ai familiari di minori sottratti, fornire informazioni legali dei distinti paesi e offrire mediazione in caso di sottrazione internazionale di minori. Tale organizzazione offre un servizio di contatto telefonico 24 ore su 24: tel+44(0) 116 2555 345, fax: +44 (0) 116 2556 370 e pag web: www.reunite.org. 26 v. Analysis on assessment of the impact of Council of Europe recommendations concerning mediation, nel sito: www.coe. int/t/dghl/cooperation/cepej/mediation/default_en.asp 27 Informazioni più dettagliate sono inoltre reperibili dall’utente sul sito www.mediation-justice.be. 28 Casi citati dal Giudice Maria Isabel Tomas Garcia nella sua Relazione al Workshop citato (per maggiori informazioni www.foundchild.org.ar). 29 In tal senso V. la relazione del Giudice Jacques Keltjes, del Tribunale del distretto dell’Aia, svolta al Workshop “Sustraccion internacional de menores: los nuevos ritos”. 30 V. punto 59 della sentenza della Corte di Giustizia sul caso Rinau, più volte citata. 31 V. Decreto del 31 marzo 2008 nel procedimento n. 281/07 V.G., Presidente Sansa, Rel. Atzeni, pubblicato in “Nuova Giurisprudenza Ligure”. 32 V. Decreti del 25.08.2008 e dell’11.12.2009 nel procedimento n. 997/07 V.G., Presidente Sansa, Rel. Atzeni, pubblicati in “Nuova Giurisprudenza Ligure”. 33 V. Cassazione, Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238. 34 V. Cassazione del 4.4.2007 n. 8481. 35 V. Cassazione sez. I, Sentenza del 19.05.2010 n. 12293 rinvenibile in www.minoriefamiglia.it. 36 V. sentenza della Corte dei Diritti dell’uomo del 12.07.2011, ricorso n. 14737, caso Sneersone e Kampanella contro Italia. 37 V. Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 22.12.2010 causa C- 491/10 Zarraga. 38 Tali principi generali in tema di ascolto del minore sono contenuti nelle Linee Guida dell’Ordine degli Psicologi del Lazio che ha affrontato nello specifico le ipotesi di perizie in caso di abuso sui minori. 39 V. Relazione di Philippe Lortie, Primo Segretario della Conferenza dell’Aia, svolta ai lavori del “Workshop Sustraccion internacional de menores: los nuevos ritos”. Inoltre una lista dei membri della rete citata è allegata al presente articolo. 38 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 GIURISPRUDENZA COMMENTATA Trib. Monza 5/11/2004; Trib. Milano 24/09/2002; Trib. Firenze 13/06/2000 e Cass. 10/05/2005 n. 9801). Oggi da più parti si segnala la necessità di por mano ad una riforma del sistema che permetta anzitutto il superamento del concetto di addebito, misura sempre meno riconosciuta dalle corti di merito, verso un più moderno e soddisfacente sistema di responsabilità civile. Le nuove misure contro la violenza (artt. 342-bis, 342-ter c.c. e 736-bis cpc) ed i recenti rimedi introdotti per contrastare le frequenti violazioni (art. 709ter c.c. e 614-bis cpc) confermano la necessità per l’ordinamento di un nuovo paradigma unitario d’intervento che assegni al giudice della famiglia la cognizione di tutte le controversie che vedono coinvolti i componenti il nucleo familiare (sia esso rappresentato dalla famiglia legittima o naturale). L’ultima pronuncia della Cassazione, la n. 18853 del 15/09/2011, lungi dal risolvere l’annoso problema della compatibilità tra le regole che presiedono alla responsabilità civile ed il processo di famiglia, sembra piuttosto complicarlo. Il principio alla base di quest’ultima pronuncia è che l’azione per il riconoscimento dei danni arrecati dal comportamento del coniuge è svincolata ed autonoma rispetto alla pronuncia della separazione, potendo conseguire anche ad una separazione consensuale, senza che il titolo della separazione (giudiziale, giudiziale con addebito o consensuale) condizioni l’esercizio della diversa azione risarcitoria. L’attrice, che pure era pervenuta alla trasformazione della separazione da giudiziale con richiesta di addebito a consensuale, aveva avviato un successivo giudizio basato sostanzialmente sui medesimi fatti che avevano dato origine alla richiesta di separazione: l’infedeltà conclamata del marito, esercitata con modalità particolarmente penose per la parte incolpevole. L’impugnata sentenza della Corte d’Appello di Genova (del 20/05/2006, su www.avvocatidifamiglia. net), pur confermando il rigetto della domanda dell’attrice pronunciato dal giudice di prime cure (Tribunale di Savona, Sezione Distaccata di Albenga), ne aveva modificato le ragioni fondanti. Se il primo giudice aveva ritenuto insussistente un diritto soggettivo in capo alla moglie vittima dei comportamenti infedeli del marito, la Corte d’Appello ha ritenuto invece che la sua domanda di danni, pur astrattamente riconoscibile, in virtù dell’ormai conquistata risarcibilità dei danni ingiusti anche nell’ambito delle relazioni familiari, non possa trovare nella specie accoglimento, in quanto contrastante con l’espressa rinuncia ad indagare le cause del fallimento del matrimonio, per avere l’attrice in precedenza aderito ad una pronuncia di separazione consensuale. Se da un lato l’affermazione della Suprema Corte della piena risarcibilità dei danni ulteriori, non ne- cessariamente connessi alle ragioni della separazione, può considerarsi in linea con le più moderne istanze di riconoscimento della responsabilità anche in ambito familiare, dall’altro tuttavia l’aver svincolato l’analisi dei presupposti dell’azione dalle cause della separazione, ripropone l’insoluto problema dell’ammissibilità dell’azione di danno all’interno del processo di famiglia. Resta in sostanza prospettato un doppio binario, con buona pace delle esigenze di concentrazione delle tutele e di economia di giudizio; un doppio sistema fatto di regole autonome e non comunicanti: quello dei diritti e doveri matrimoniali, con propri rimedi, quelli riconducibili al concetto di separazione con addebito, e quello della responsabilità civile, con presupposti che oggi si rifanno alla possibile lesione grave di un interesse fondato su garanzie costituzionali. Una pronuncia che lascia perplessi in ordine alla effettività della tutela risarcitoria, in funzione della quale si auspica un unico giudice ed un più coordinato ambito d’intervento. IL PUNTO DI VISTA di CESARE FOSSATI AVVOCATO DEL FORO DI GENOVA Non è necessaria la pronuncia di addebito della separazione per chiedere i danni al coniuge infedele Una nuova pronuncia della Corte di legittimità in tema di responsabilità civile all’interno dei rapporti familiari, in una materia rispetto alla quale il legislatore ha sempre mostrato insofferenza ad intervenire, nella convinzione di non poter giudicare ambiti così intimi e personali. Per tutto il secolo scorso i comportamenti fonte di sola responsabilità civile, con esclusione quindi delle fattispecie aventi rilevanza penale, tenuti dai componenti della famiglia in danno di un congiunto, sono rimasti per lo più ricompresi nelle norme afferenti i diritti e doveri dei coniugi (artt. 143 e segg. c.c.), esclusi dalle norme che presidiano gli illeciti civili, restando di fatto impuniti. Nel testo originario del codice civile, nel regime di indissolubilità del matrimonio, la separazione era l’unica sanzione tipica prevista per il coniuge venuto meno ai suoi doveri matrimoniali. L’art. 151 c.c. prevedeva che i comportamenti consistenti in: adulterio, abbandono, sevizie, eccessi, minacce o ingiurie gravi, fossero punibili unicamente con l’istanza di separazione per colpa. Dapprima la Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 127 del 1968, quindi la riforma del diritto di famiglia del 1975, condussero alla modifica dei presupposti per giungere alla separazione, e sostituirono il concetto di “colpa” con quello di “addebito”. gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 39 GIURISPRUDENZA COMMENTATA Mutarono le stesse condizioni per addivenire alla separazione, le quali vennero svincolate dal concetto di sanzione: si passò dalla separazione come reazione a comportamenti personali pregiudizievoli, alla separazione per fatti tali da rendere intollerabile la convivenza, ovvero da arrecare pregiudizio all’educazione della prole. L’addebito restava tuttavia la sanzione ancora una volta tipica ed esaustiva delle conseguenze dei comportamenti dei coniugi nel corso del rapporto matrimoniale. Una sanzione tuttavia del tutto inadeguata a fornire tutela al coniuge debole, avendo riflessi solo in negativo rispetto al coniuge responsabile del comportamento addebitato: il venir meno del diritto all’assegno di mantenimento (esclusi gli alimenti), così come dei diritti successori. Effetti invero modesti e spesso privi di concreta efficacia preventiva o punitiva, se solo si considera che nella maggior parte dei casi il soggetto responsabile è anche quello dotato di capacità economica, in genere indifferente alla domanda di mantenimento. Per questo motivo per lungo tempo si è parlato del diritto di famiglia come di un “sistema chiuso”: in base a tale prospettazione i diritti e doveri che discendono dal matrimonio troverebbero tutela solo all’interno delle norme che li disciplinano. Dottrina e giurisprudenza hanno così avuto buon gioco a sostenere che il legislatore avrebbe regolato le conseguenze delle violazioni “domestiche” solo all’interno degli istituti del diritto familiare. Occorre dar conto che la giurisprudenza prevalente ha mantenuto forti resistenze all’ingresso nel processo di famiglia di domande ulteriori, diverse da quelle strettamente connesse agli status (in questo senso si pongono, ad esempio, le pronunce di Cass. n. 3367/1993 e 4108/1993). Siamo quindi in presenza di strumenti di reazione diversificati e sostanzialmente difformi: alla cognizione del giudice della famiglia sono ricondotte le misure tipiche del diritto di famiglia (separazione, addebito, assegnazione della casa, affidamento dei figli, etc.); al giudice ordinario le questioni patrimoniali e gli illeciti civili; al giudice penale le violazioni più gravi. È stato lento il cammino per il riconoscimento della risarcibilità degli illeciti all’interno delle relazioni familiari; ancora lungi dal poter essere considerato un obbiettivo raggiunto. Poche isolate pronunce hanno dapprima iniziato a riconoscere astrattamente e solo potenzialmente l’esercizio dell’azione per la responsabilità aquiliana anche in ambito familiare (tra queste: Cass. 5866/ 1995 e Cass. 10/5/2005 n. 9801). Imprescindibile naturalmente il riferimento alla pronuncia che ha costituito il paradigma per il riconoscimento del danno non patrimoniale, vale a dire Cass. SS.UU. 26972/2008, in forza della quale l’art. 40 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 2054 c.c. è applicabile nei casi di: reato; danno non patrimoniale espressamente previsto da leggi speciali; lesione grave a diritti inviolabili costituzionalmente garantiti. Quest’ultima è la fattispecie utilizzata per dare ingresso alla risarcibilità di un danno, che non è da intendersi come elemento riparatorio, quanto piuttosto come deterrente e sanzionatorio. Va segnalato come non sia ancora così diffuso e pertanto riconoscibile come diritto acquisito quell’orientamento giurisprudenziale che ammette l’azione di risarcimento danni all’interno del processo di famiglia (si possono segnalare: Trib. Venezia, 14/05/2009 n. 9234 in www.dirittoeprocesso. com; Trib. Monza 5/11/2004; Trib. Milano 24/09/2002; Trib. Firenze 13/06/2000 e Cass. 10/05/2005 n. 9801). Oggi da più parti si segnala la necessità di por mano ad una riforma del sistema che permetta anzitutto il superamento del concetto di addebito, misura sempre meno riconosciuta dalle corti di merito, verso un più moderno e soddisfacente sistema di responsabilità civile. Le nuove misure contro la violenza (artt. 342-bis, 342-ter c.c. e 736-bis cpc) ed i recenti rimedi introdotti per contrastare le frequenti violazioni (art. 709ter c.c. e 614-bis cpc) confermano la necessità per l’ordinamento di un nuovo paradigma unitario d’intervento che assegni al giudice della famiglia la cognizione di tutte le controversie che vedono coinvolti i componenti il nucleo familiare (sia esso rappresentato dalla famiglia legittima o naturale). L’ultima pronuncia della Cassazione, la n. 18853 del 15/09/2011, lungi dal risolvere l’annoso problema della compatibilità tra le regole che presiedono alla responsabilità civile ed il processo di famiglia, sembra piuttosto complicarlo. Il principio alla base di quest’ultima pronuncia è che l’azione per il riconoscimento dei danni arrecati dal comportamento del coniuge è svincolata ed autonoma rispetto alla pronuncia della separazione, potendo conseguire anche ad una separazione consensuale, senza che il titolo della separazione (giudiziale, giudiziale con addebito o consensuale) condizioni l’esercizio della diversa azione risarcitoria. L’attrice, che pure era pervenuta alla trasformazione della separazione da giudiziale con richiesta di addebito a consensuale, aveva avviato un successivo giudizio basato sostanzialmente sui medesimi fatti che avevano dato origine alla richiesta di separazione: l’infedeltà conclamata del marito, esercitata con modalità particolarmente penose per la parte incolpevole. L’impugnata sentenza della Corte d’Appello di Genova (del 20/05/2005, su www.avvocatidifamiglia. net), pur confermando il rigetto della domanda dell’attrice pronunciato dal giudice di prime cure (Tribunale di Savona, Sezione Distaccata di Albenga), ne aveva modificato le ragioni fondanti. GIURISPRUDENZA COMMENTATA I NONNI NON HANNO DIRITTO DI INTERVENTO NEL PROCESSO DI SEPARAZIONE NÉ SONO TITOLARI DI UN AUTONOMO DIRITTO DI VISITA I Cass. civ. Sez. I, 27/12//2011, n. 28902 I nonni non possono intervenire nel processo di separazione Se il primo giudice aveva ritenuto insussistente un diritto soggettivo in capo alla moglie vittima dei comportamenti infedeli del marito, la Corte d’Appello ha ritenuto invece che la sua domanda di danni, pur astrattamente riconoscibile, in virtù dell’ormai conquistata risarcibilità dei danni ingiusti anche nell’ambito delle relazioni familiari, non possa trovare nella specie accoglimento, in quanto contrastante con l’espressa rinuncia ad indagare le cause del fallimento del matrimonio, per avere l’attrice in precedenza aderito ad una pronuncia di separazione consensuale. Se da un lato l’affermazione della Suprema Corte della piena risarcibilità dei danni ulteriori, non necessariamente connessi alle ragioni della separazione, può considerarsi in linea con le più moderne istanze di riconoscimento della responsabilità anche in ambito familiare, dall’altro tuttavia l’aver svincolato l’analisi dei presupposti dell’azione dalle cause della separazione, ripropone l’insoluto problema dell’ammissibilità dell’azione di danno all’interno del processo di famiglia. Resta in sostanza prospettato un doppio binario, con buona pace delle esigenze di concentrazione delle tutele e di economia di giudizio; un doppio sistema fatto di regole autonome e non comunicanti: quello dei diritti e doveri matrimoniali, con propri rimedi, quelli riconducibili al concetto di separazione con addebito, e quello della responsabilità civile, con presupposti che oggi si rifanno alla possibile lesione grave di un interesse fondato su garanzie costituzionali. Una pronuncia che lascia perplessi in ordine alla effettività della tutela risarcitoria, in funzione della quale si auspica un unico giudice ed un più coordinato ambito d’intervento. Svolgimento del processo l - Nei giudizi riuniti di separazione personale pendenti davanti al Tribunale di Roma, separatamente proposti dai coniugi M. T. ed E. R. con reciproche richieste di addebito, interveniva in data 30 ottobre 2002 l’ing. A. T., rispettivamente padre e suocero dei predetti, manifestando la propria disponibilità a rendersi affidatario dei nipoti minorenni F. e C. T. e chiedendo, comunque, una regolamentazione degli incontri degli stessi con i nonni paterni. 1.1 - Con sentenza n. 29279 in data 9/28 ottobre 2004 il Tribunale, pronunciando con sentenza non definitiva la separazione personale dei coniugi, dichiarava altresì inammissibile l’intervento dell’ing. T. 1.2 - Costui proponeva appello avverso tale decisione, contestando la fondatezza della pronuncia di inammissibilità del proprio intervento, giustificato sia dal rilievo attribuito dalla nuora, nelle proprie difese, al comportamento dei nonni paterni nei confronti della prole, sia, in ogni caso, dall’esercizio del diritto di visita. 1.3 - La Corte di appello di Roma, con la decisione indicata in epigrafe, rigettava l’appello, ponendo in evidenza come nel giudizio di separazione personale la qualità di parte spetti esclusivamente ai coniugi, e non può essere riconosciuta ai loro parenti, neppure al limitato fine di meglio tutelare gli interessi dei figli minori. 1.3 - Avverso tale decisione propone ricorso l’ing. A.T., deducendo quattro motivi. Le parti intimate non svolgono attività difensive. Il Collegio ha disposto la motivazione in forma semplificata. Motivi della decisione 2 - Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 150 e 155 cod. civ., dell’art. 105 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per non aver la corte territoriale considerato che le novellate disposizioni in materia gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 41 GIURISPRUDENZA COMMENTATA di affidamento della prole, nel prevedere il diritto dei figli minori di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale, determinano i presupposti per la legittimità dell’intervento di questi ultimi nel giudizio di separazione personale dei coniugi, allo scopo di ottenere, come nel caso, l’affidamento della prole o, comunque, e sempre nell’interesse della stessa, una congrua regolamentazione degli incontri fra nonni e nipoti. 2.1 - Viene in proposito formulato il seguente quesito di diritto: “È ammissibile, nel procedimento di separazione giudiziale fra coniugi, in base al combinato disposto degli atto 150 IV 155 c.c., quest’ultimo come novellato dall’art. 1 della l. 8 febbraio 2006, n. 54, l’intervento volontario, principale o autonomo, in applicazione dell’art. 105 c.p.c., dell’ascendente, il quale formuli al giudice adito, laddove quest’ultimo dovesse ritenere sussistenti presupposti giuridici dell’affidamento della prole a terzi, la domanda di affidamento dei figli minori dei coniugi separandi e, in ogni caso, la domanda di fissazione di giorni ed orari di incontri dei figli minori con il medesimo ascendente, a garanzia della conservazione dei rapporti significati vi di cui al comma l dell’art. 155 c.c. citato?”. 2.2 Al quesito deve darsi, sulla scorta dell’attuale assetto del diritto positivo, risposta negativa, con correlato giudizio di infondatezza del relativo motivo. Soccorre in proposito l’orientamento, che il Collegio condivide, ed al quale, anzi, intende dare continuità, secondo cui l’art. 1, comma primo, della legge 8 febbraio 2006, n. 54, che ha novellato l’art. 155 cod. civ., nel prevedere il diritto dei minori, figli di coniugi separati, di conservare rapporti significativi con gli ascendenti ed i parenti di ciascun ramo genitoriale, affida al giudice un elemento ulteriore di indagine e di valutazione nella scelta e nell’articolazione di provvedimenti da adottare in tema di affidamento, nella prospettiva di una rafforzata tutela del diritto ad una crescita serena ed equilibrata, ma non incide sulla natura e sull’oggetto dei giudizi di separazione e di divorzio e sulle posizioni e i diritti delle parti in essi coinvolti, e non consente pertanto di ravvisare diritti relativi all’oggetto o dipendenti dal titolo dedotto nel processo che possano legittimare un intervento dei nonni o di altri familiari, ai sensi dell’art. 105 cod. proc. civ., ovvero un interesse degli stessi a sostenere le ragioni di una delle parti, idoneo a fondare un intervento “ad adiuvandum”, ai sensi dell’art. 105, comma secondo, cod. proc. civ. (Cass., 16 ottobre 2009, n. 22081). Mette conto in questa sede di ribadire che la novelIa invocata dal ricorrente sotto un certo profilo recepisce un principio già ritenuto sussistente in ambito giurisprudenziale (Cass., 24 febbraio 1981, n. 1115; Cass., 25 settembre 1998, n. 9606), formulato, tuttavia, in termini generici, senza contenere alcun 42 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 riferimento alla posizione soggettiva degli ascendenti e degli altri parenti. Il loro interesse indiretto, di natura morale o affettiva, affinché sia realizzato il diritto dei minori a conservare quei rapporti di natura familiare certamente indispensabili sul piano psicologico non ottiene, quindi, una valorizzazione tale da farlo assurgere a posizione soggettiva direttamente tutelabile, e quindi in alcun modo è ipotizzabile un intervento principale o litisconsortile. Del pari non può realizzarsi nei giudizi di separazione e di divorzio con le forme dell’intervento, sia pure adesivo dipendente, in considerazione della funzione e dell’oggetto di tali giudizi (con evidente carenza di quella connessione pure richiesta dall’art. 105 c.p.c.) e, soprattutto, della mancata assunzione, da parte dei minori portatori dell’interesse tutelato, della formale qualità di parte (cfr. Cass., 17 gennaio 1996, n. 364). In altri termini, in assenza di un dato normativo che autorizzi un’iniziativa sul piano giudiziario degli ascendenti, come avviene nei giudizi “de potestate” (art.336, c. lo, c.c.), non è consentito l’intervento degli stessi nei giudizi di separazione e di divorzio, nei quali la posizione dei minori è tutelata sotto forme - ritenute legittime anche dal giudice delle leggi. (Cass. n. 185 del 1986), che non prevedono la loro assunzione della qualità di parte, né uno specifico diritto di difesa, come avviene nei procedimenti di adozione. D’altra parte, una lettura sistematica del quadro normativo, alla luce delle norme che disciplinano la revisione delle condizioni della separazione (art. 155 ter c.c.; art. 710 c.p.c.) e che sono intese a dirimere i conflitti fra genitori (art. 709 ter c.p.c.), induce a ritenere che questi ultimi siano gli unici soggetti cui è affidata la legittimazione sostitutiva all’esercizio dei diritti dei minori. (omissis) P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. II Cass. civ. Sez. I, 11/08/2011, n. 17191 Presidente Gabriella Luccioli Relatore Andrea Scaldaferri L’art. 1, comma primo, della legge 8 febbraio 2006, n. 54, che ha novellato l’art. 155 cod. civ., nel prevedere il diritto dei minori, figli di coniugi separati, di conservare rapporti significativi con gli ascendenti (ed i parenti di ciascun ramo genitoriale), non attribuisce ad essi un autonomo diritto di visita Svolgimento del processo 1. Nel settembre 2000 M.C., premesso che nell’ottobre 1995 aveva contratto matrimonio con C.R. e GIURISPRUDENZA COMMENTATA dall’unione era nata nell’aprile 1996 la figlia D., proponeva domanda di separazione con addebito al coniuge; il quale a sua volta, costituendosi, chiedeva addebitarsi alla M. la responsabilità del fallimento dell’unione coniugale. Il Tribunale di Cremona, sentiti testimoni, acquisite informazioni ed espletata c.t.u., con sentenza del 2 novembre 2006 pronunciava la separazione, respingeva entrambe le domande di addebito, affidava ad entrambi i genitori la figlia D. disponendo che essa coabitasse con la madre e regolando il diritto di visita del padre, a carico del quale poneva l’obbligo di versamento, a titolo di contributo al mantenimento della figlia, della somma di Euro 250,00 mensili, oltre al 50% delle spese straordinarie. 2. L’appello proposto dalla M. - al quale resisteva il C. proponendo appello incidentale - veniva parzialmente accolto dalla Corte d’appello di Brescia, che addebitava la separazione al C., affidava in via esclusiva la figlia D. alla madre, regolava in misura più contenuta il diritto di visita del padre, ed aumentava a Euro 350,00 mensili (oltre aggiornamenti di legge e 50% delle spese straordinarie) il contributo a carico di quest’ultimo al mantenimento della figlia. Osservava la Corte che dai comportamenti del C. e dei suoi genitori risultanti dai rapporti di servizio e dalle relazioni redatti dai Carabinieri intervenuti più di una volta nella vicenda matrimoniale prima della separazione- nonché dalla documentazione relativa ai comportamenti dei coniugi successivi al ricorso per la separazione, emergevano manifestazioni di sostanziale disprezzo per la M. da parte di tutti i membri della famiglia C.. Manifestazioni che, per la disinvoltura con la quale erano state poste in essere e per la loro gravità, non consentivano di ritenere che si fosse trattato di esternazioni occasionali, estemporanee ed improvvise, e facevano invece ritenere verosimile che esse fossero frutto di un prolungato e graduale deterioramento dei rapporti favorito dalla contiguità abitativa tra le due famiglie. Tali elementi, valutati complessivamente, giustificavano secondo la Corte l’addebito della separazione al C., il quale, abdicando alla tutela della autonomia del proprio nucleo familiare e della dignità della propria moglie e mantenendo una condotta che confermava la valutazione compiuta dai consulenti d’ufficio circa l’esistenza di una sua dipendenza non ancora risolta con la madre, aveva violato l’obbligo, previsto dall’art. 143 cod.civ., di assistenza morale dovuta alla moglie. Tale contesto, osservava inoltre la Corte alla luce delle relazioni dei consulenti d’ufficio e del servizio pubblico di assistenza famigliare, sconsigliava il ricorso all’affidamento condiviso (che richiede, oltre a un accordo sugli obiettivi educativi, una buona alleanza genitoriale ed un profondo rispetto dei rispettivi ruoli, nella specie da ritenere assenti), laddove la attenta, contenitiva e partecipe capacità genitoriale riscontrata dai consulenti nella M. giustificava l’affidamento esclusivo alla medesima della figlia, essendo peraltro pregiudizievole per lo sviluppo psicologico di quest’ultima una distribuzione in parti uguali del tempo di collocazione presso i due genitori (che, costringendo la bimba ad un adattamento a due realtà tra loro diverse e nemiche, avrebbe costituito il presupposto per la strutturazione in essa di un rapporto relazionale e di una individuazione di tipo scisso), ed essendo piuttosto necessario ridurre il più possibile i contatti tra i genitori definendo rigorosamente il giorno di visita del padre, senza riconoscere ai nonni paterni un autonomo diritto di frequentazione della nipote, distinto ed ulteriore rispetto alla facoltà dei medesimi di vedere la bambina in occasione delle visite della stessa al padre. Osservava infine la Corte che il maggior reddito lavorativo del C., il fatto che egli continuasse a godere della casa coniugale, le incrementate esigenze della figlia e la maggiore permanenza della medesima con la madre giustificavano l’elevazione all’importo di Euro 350,00 mensili del contributo del C. al mantenimento della minore. 3. Avverso tale sentenza, depositata il 25 settembre 2007 e notificata il 26 ottobre successivo, C.R. ha proposto ricorso a questa Corte con atto notificato il 19 novembre 2007, basato su sette motivi. Resiste M.C. con controricorso. Motivi della decisione (omissis) 7. Il sesto motivo concerne la violazione e falsa applicazione dell’art. 155 cod. civ., comma 1, nonché vizio di motivazione, in riferimento al diniego di riconoscimento di un autonomo diritto di visita dei nonni. Sostiene il ricorrente che, alla luce della norma sopra richiamata, le figure ascendentali sono titolari di un autonomo diritto di mantenere continui e significativi rapporti con il nipote di età minore; e che la forte conflittualità tra le due famiglie non costituirebbe motivo sufficiente per negare tale diritto. La censura è priva di fondamento. L’art. 155 c.c., comma 1, non attribuisce agli ascendenti del minore un autonomo diritto avente il contenuto indicato dal ricorrente. La norma attribuisce invece al minore il diritto di conservare rapporti significativi con gli ascendenti, nel quadro del mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con i propri genitori e con la medesima finalità di evitare, per quanto possibile, che la separazione produca traumi nello sviluppo della personalità del minore stesso. Non merita dunque censure la motivazione della sentenza che, avvalendosi della facoltà discrezionale di provvedere alla concreta regolazione di tale questione nella suddetta prospettiva (e tenendo conto fra l’altro di quanto già esposto circa la posizione assunta dai nonni paterni nella vicenda coniugale in esame), ha ritenuto idonea a realizzare nella specie l’integennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 43 GIURISPRUDENZA COMMENTATA resse della minore la possibilità della medesima di vedere i nonni paterni in occasione delle visite al padre, che peraltro occupa un’abitazione attigua a quella nella quale i nonni stessi abitano. (omissis) P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. IL PUNTO DI VISTA di DOMENICO MADULI AVVOCATO DEL FORO DI ROMA In un contesto storico - sociale nel quale viviamo con la crisi del modello - standard famiglia ed il dilagare del conflitto generazionale, sembra rafforzarsi ed addirittura essere più intenso il rapporto tra i “nuovi” vecchi ed i giovani di oggi. Infatti, sembra che il loro rapporto non sia mai stato così intenso come in questo momento. Gli studiosi sono impegnati a scoprire come ed in che misura gli anziani di casa plasmano i ragazzi e cosa ricevono da loro. Sono sempre meno numerosi i ragazzi che considerano antiquati i loro nonni. Su internet gli anziani usano i blog per parlare dei nipoti afflitti dal divorzio dei genitori, delle vacanze trascorse coi ragazzi e persino delle loro relazioni sentimentali. In Francia è stata fondata una scuola europea per i nonni, negli Stati Uniti addirittura un sindacato dei pensionati è sempre attivissimo per chiedere interventi di sostegno alla famiglia. Mentre, gli psichiatri più progressisti esortano gli anziani ad attuare la “terapia familiare multi generazionale”, trasformandosi in mediatori in grado di risolvere i conflitti tra genitori e figli. Negli ultimi due decenni i nipoti si sono ritrovati nonni e nonne “nuovi”: più tolleranti e disponibili di prima, più indipendenti e partecipi. Gli scienziati, a loro volta, hanno distolto la loro attenzione dal nucleo unifamiliare dedicando per la prima volta uno studio mirato al rapporto tra nonni e nipoti. I sociologi stanno mettendo a fuoco l’importanza che nonni e nonne rivestono oggi per la famiglia e la società, mentre psicologi e pedagogisti, studiando l’influenza dei nonni sui nipoti, si sono accorti dei forti legami che uniscono le due generazioni. Infatti, in molte culture i nonni non hanno mai svolto un ruolo tanto importante nella vita dei nipoti come accade oggi. Essi sono un fenomeno da non sottovalutare in materia sia economica ed infatti il loro aiuto vale miliardi di euro ed in relazione alla disponibilità di tempo libero che i genitori hanno sempre di meno. È una svolta storica perché in Paesi quali la Svezia, la Francia o la Danimarca, dotati di ottime infra44 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 strutture per la custodia dei bambini, sono molti i nonni che si occupano dei nipoti, seppure in misura minore rispetto alle nazioni dell’Europa Meridionale come la Spagna e l’Italia. In un recente studio Corinne Igel, sociologa dell’Università di Zurigo, ha affermato: “L’assistenza dello Stato soppianta in parte quella fornita dai privati cittadini, ma è al tempo stesso il fattore che rende possibile la solidarietà in molte famiglie”. Secondo una indagine Istat promossa dalla commissione Affari sociali della Camera, in Italia i bambini di età compresa tra uno e due anni e con la madre che lavora vengono affidati, nell’ordine, ai nonni (52,3 per cento), al nido privato (14,3 per cento), al nido pubblico (13,5 per cento) ed in ultima istanza alla baby - sitter (solo al 9,2 per cento). L’impegno dei nonni coi nipoti rimane comunque grande, specie nelle famiglie in cui lavorano entrambi i genitori o nel caso di un genitore single. In Germania un bambino su tre sotto i sei anni viene affidato ai nonni almeno una volta la settimana. Quelli in età dai 55 ai 69 anni dedicano mediamente 47 ore al mese alla cura dei nipoti Un noto pediatra milanese, in una recente pubblicazione personale, ha rilevato come dopo la chiusura delle scuole, un milione di under - 14 italiani sia andato in vacanza coi nonni. Mentre durante l’anno il 64,4 per cento dei ragazzi sotto i 14 anni è affidato abitualmente ai nonni quando i genitori non sono in casa. Allora, i dati parlano chiaro: se da un lato i nonni danno affetto e cure, i nipoti restituiscono vitalità e saperi; se l’aiuto fornito alle famiglie dai nonni, secondo la Camera di Commercio di Milano, vale 5 miliardi di euro durante le ferie, una importanza fondamentale in tale contesto di crisi economico - familiare rivestono i “nuovi - vecchi”. Inoltre fanno risparmiare ogni anno 50 miliardi di euro prestando la loro opera come baby-sitter o nei lavori di casa. La Disney Interactive ha svolto una indagine su un campione di 1085 bambini scoprendo che, potendo il 37 per cento di loro (contro il 29 per cento) preferirebbe trascorrere le vacanze coi nonni anziché coi genitori. In sostanza la figura dei nuovi padri e delle nuove madri si interseca e trova un nuovo equilibrio con un modello anch’esso mutato: ci troviamo davanti a soggetti nell’evoluzione del concetto arcaico di famiglia, autoritario, fatto di sottomissioni ed ubbidienza, tipico della generazione dei nonni nati tra il 1908 ed il 1929, ad oggi ritroviamo una generazione di un nonno moderno, sprint, che naviga su internet, magari imparando il, sistema proprio dal nipote, con un atteggiamento moderno. Studi etnologici effettuati su 75 diverse culture hanno dimostrato che le generazioni appaiono fortemente unite laddove le persone anziane sono dotate di scarsa autorità formale. Questo significa che GIURISPRUDENZA COMMENTATA i nonni odierni, quelli che non si intromettono e non pretendono di inculcare ai nipoti le loro opinioni, finiscono per determinare in larga parte le scale di valori dei giovani. Comunque sia è anch’esso un dato certo che i nonni che si dedicano ai nipoti con uno spirito rivoluzionario, cioè con quella spinta emotiva e forma di collaborazione che non veniva fuori quando erano giovani, quando da padri si preoccupavano di tutto e riuscivano a partecipare ben poco all’educazione dei figli; oggi loro cercano di recuperare il tempo perduto coi nipoti. Spingono la carrozzina, cambiano i pannolini e la danno vinta su tutto. In sostanza i nuovi nonni non sono altro che le vecchie nonne che non si sostituiscono, però, alla educazione dei nipoti ma che ricoprono un ruolo di riferimento per una famiglia che, come concetto “allargato” del termine, vede tante figure in redistribuzione ed in ricollocazione. Sono figure nuove che evidenziano come nell’ultima fase della loro vita alcune capacità sociali ed emozionali trovano nuova linfa a costante contatto con l’energia fisica di un bambino che scopre un mondo ancora diverso da quello dei genitori che separati e non potranno mai vedere la prospettiva dal lato di coloro che hanno una generazione ed una esperienza di quanto meno tre generazioni di differenza. Pertanto, è l’arricchimento spirituale, economico e sociale che fotografa i nuovi nonni di oggi. Le sentenze della Cassazione 11 agosto 2011, n. 17191 e 27 dicembre 2011, n. 28902, hanno stabilito che la legge sull’affido condiviso tuteli solo di fatto i rapporti tra nonni e nipoti, non prevedendo né un diritto di visita dei nonni né una azione diretta degli ascendenti e degli altri familiari per regolare le visite coi bambini. La prima sezione civile spiega come gli anziani non sono titolari di una azione soggettiva direttamente tutelabile, poiché la nuova legge non contiene alcun riferimento alla posizione soggettiva degli ascendenti e degli altri parenti. Il loro indiretto interesse di natura morale ed affettiva non ottiene quindi una valorizzazione tale da farlo assurgere a posizione soggettiva direttamente tutelabile e quindi in alcun modo non è ipotizzabile un intervento principale o litisconsortile. Infatti, non è consentito l’intervento dei nonni nei giudizi di separazione e di divorzio che non prevedano la loro assunzione di qualità di parte, come invece avviene nei procedimenti di adozione. In buona sostanza, i nonni non potranno più agire in giudizio per richiedere che il diritto di visita dei nipoti venga autonomamente regolato. Di certo vi è che da meno di un mese dovremo considerare tale Sentenza con grande rispetto dei suoi contenuti tutti ma viene da pensare cosa ha spinto a cambiare totalmente lo spirare del vento: la carenza della legge sull’affido condiviso in materia di tutela dei diritti di coloro che ad oggi sono un pilastro socio - economico delle nuove famiglie, dei nuovi padri e delle nuove madri oppure l’eccesso di protagonismo, di amore, l’inversione dei ruoli da consigliere della crescita del bambino alla petulante richiesta di vedersi riconosciuto il ruolo di nonno padre o di nonna - madre? gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 45 CORTE COSTITUZIONALE alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico (Corte cost. sentenze 322 del 2011, n. 216 e n. 112 del 1997). L’IMPUGNAZIONE DEL RICONOSCIMENTO DI UN FIGLIO NATURALE NON È CONDIZIONATA AD UN TERMINE ANNUALE DI DECADENZA (COME L’AZIONE DI DISCONOSCIMENTO) Corte cost., 12 gennaio 2012, n. 7 È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c., sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost., l “nella parte in cui non sottopone ad un termine annuale di decadenza il diritto del genitore di esperire l’azione di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità”, attesa la non comparabilità (sotto il profilo ontologico e teleologico) delle situazioni poste a raffronto in rapporto ai limiti temporali di proponibilità dell’impugnazione ex art. 263 c.c. e dell’azione di cui all’art. 244 c.c. (limiti peraltro diversamente ascrivibili, gli uni, alla categoria dei termini di prescrizione e, gli altri, a quella dei termini di decadenza), giacché l’imprescrittibilità dell’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità trae giustificazione dalla superiore esigenza di far cadere ogni falsa apparenza di status, mentre il breve termine di decorrenza dell’azione di disconoscimento di paternità trova ragione nel favor legitimitatis quale espressione della presunzione di paternità rispetto al figlio concepito durante il matrimonio. La crescente considerazione del favor veritatis (la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini: sentenze n. 50 e n. 266 del 2006) non si pone in conflitto con il favor minoris, poiché anzi la verità biologica della procreazione costituisce una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore, che si traduce nella esigenza di garantire ad esso il diritto alla propria identità e, segnatamente, 46 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 Svolgimento del processo e motivi della decisione Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 263 del codice civile promosso dal Tribunale ordinario di Bolzano nel procedimento vertente tra K.A e K.D. con ordinanza del 13 maggio 2011, iscritta al n. 177 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2011. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 14 dicembre 2011 il Giudice relatore Paolo Grossi. Ritenuto che - nel corso di un giudizio civile promosso (con citazione notificata il 1° dicembre 2008) da un padre per ottenere la pronuncia di non veridicità del riconoscimento del figlio naturale dal medesimo effettuato in data 18 agosto 2003 - il Tribunale ordinario di Bolzano, con ordinanza emessa il 13 maggio 2011, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 263 del codice civile, «nella parte in cui non sottopone ad un termine annuale di decadenza il diritto del genitore di esperire l’azione di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità»; che il rimettente censura, innanzitutto, la disparità di trattamento (che sorge confrontando l’azione de qua con quella di disconoscimento di paternità ex artt. 244 e segg. cod. civ.) tra i minori nati o meno in costanza di matrimonio, giacché al padre di figlio legittimo è imposto, a pena di decadenza, di iniziare l’azione di disconoscimento entro il termine annuale decorrente o dalla nascita del figlio o dal momento in cui viene a conoscenza dell’adulterio della moglie, commesso in periodo di presunto concepimento, o ancora dal momento in cui egli sa della propria impotentia generandi, mentre al padre naturale che ha riconosciuto il figlio come proprio, con atto ufficiale, non è posta limitazione alcuna per l’impugnazione della volontaria dichiarazione effettuata; (omissis) che, in particolare, il rimettente ritiene ingiustificata la disparità del trattamento che (prendendo quale tertium comparationis il termine di proposizione dell’azione di disconoscimento di paternità ex art. 244 cod. civ.) sarebbe riservata ai minori in ragione del fatto dell’essere o meno nati in costanza di matrimonio (giacché la situazione del figlio legittimo - il quale, decorso il termine di decadenza sancito da tale ultima disposizione, potrà contare sul CORTE COSTITUZIONALE persistere del legame e sui diritti economici ed ereditari derivanti dal suo status - diverge dalla situazione del figlio naturale, che continua ad essere esposto «in eterno» al rischio che il dichiarato padre possa ricredersi e impugnare il riconoscimento in ogni momento); e ritiene altrettanto ingiustificata la analoga disparità riservata al padre legittimo rispetto a quello naturale (considerato che al padre legittimo è riconosciuto uno spatium deliberandi annuale, entro il quale decidere se agire per troncare il rapporto genitore-figlio, mentre al secondo è dato illimitato spazio per fare altrettanto); che la norma in esame è già stata oggetto di scrutini di costituzionalità (in riferimento ad analoghi profili) definiti nel senso della inammissibilità delle relative questioni dalle sentenze n. 134 del 1985 e n. 158 del 1991; che, nella prima decisione (sulla richiesta di sostituire la contestata imprescrittibilità dell’impugnazione de qua con «termini brevi di decadenza per l’esercizio dell’azione») questa Corte ha affermato che, «a prescindere dalla difficoltà di stabilire un razionale dies a quo per il termine invocato [...], sta la decisiva considerazione che non la Corte, ma solo il legislatore, potrebbe stabilire la durata del termine da sostituire all’imprescrittibilità disposta dall’art. 263 c.c.» (sentenza n. 134 del 1985); che, nella seconda pronuncia (su altra questione sollevata «per disparità di trattamento rispetto ai termini di proposizione dell’azione di cui all’art. 244 del codice civile»), questa Corte ha altresì sottolineato che «il profilo di disparità di trattamento tra il figlio naturale riconosciuto, permanentemente esposto alla perdita del proprio status, data la imprescrittibilità dell’azione ex art. 263 del codice civile, e il figlio legittimo, per il cui disconoscimento il padre dispone di azione sottoposta a termine di decadenza annuale ex art. 244 del codice civile, non sussiste», in quanto «le due situazioni non sono comparabili, dato che per la prima, come s’è detto, vale il principio superiore che ogni falsa apparenza di status deve cadere, da cui la imprescrittibilità dell’azione; per la seconda vale la presunzione pater est is quem iustae nuptiae demonstrant superabile solo - per il favor legitimitatis - con la decadenza nel breve termine di un anno dell’azione di disconoscimento»; che altresì, citando il proprio precedente del 1985, questa Corte ha aggiunto che - se «non può ignorarsi che alla coscienza collettiva, mutando il rapporto di valore tra appartenenza familiare e isolata identità individuale, potrebbe apparire eccessivamente rigorosa la imprescrittibilità dell’azione di impugnazione del riconoscimento non veridico qualora si volesse bilanciare la incertezza della durata dello status del riconosciuto con l’interesse sociale alla sua verità» - tuttavia, «non il giudice delle leggi, ma “solo il legislatore potrebbe stabilire la du- rata del termine da sostituire all’imprescrittibilità disposta dall’art. 263 del codice civile”» (sentenza n. 158 del 1991); che il rimettente (ben consapevole che la sollevata questione è già stata esaminata da questa Corte, di cui peraltro richiama solo la sentenza n. 158 del 1991) ritiene che essa meriti nuovo esame alla luce della adozione di interventi legislativi diretti ad attuare la piena parità dei diritti dei figli, minori e non, siano essi nati in costanza di matrimonio o da genitori non sposati, non essendo a suo dire più sostenibile, per giustificare la diversità di trattamento riservata a figli legittimi e figli naturali, la prevalenza data al favor veritatis, nel caso di figli nati fuori del matrimonio, e data invece al favor legitimitatis, in caso di figli legittimi, per i quali non sia tempestivamente esperita l’azione di disconoscimento entro il sopra ricordato termine di decadenza; che, tuttavia, i motivi evidenziati nelle citate decisioni - estensibili anche all’omologo ulteriore profilo di asserita disparità di trattamento tra padre naturale e legittimo e sintetizzabili nella non comparabilità delle situazioni poste a raffronto, nella non configurabilità di una pronuncia additiva a “rime obbligate” e nella conseguente esclusiva spettanza al legislatore del potere di stabilire la durata del termine eventualmente da sostituire all’imprescrittibilità disposta dalla norma censurata - risultano tuttora validi pur in presenza dei richiamati interventi legislativi; che, infatti, tanto la disciplina degli artt. 250 e 284 cod. civ. quanto quella dell’art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), operano (al fine di omologare la condizione e la tutela dei diritti di tutte le categorie di figli, in particolare se minori) in contesti connotati dalla presenza di uno status di filiazione da un determinato genitore, rispetto al quale non si pongono problemi di contestazione in termini di difetto di veridicità del medesimo status; che, d’altra parte, quanto alla impossibilità per il coniuge o il convivente consenziente di proporre, successivamente al ricorso a (pur vietate) tecniche di procreazione medicalmente assistita eterologa, il disconoscimento della paternità ovvero l’impugnazione di cui alla norma censurata, la previsione dell’art. 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) configura una ipotesi di intangibilità ex lege dello status, la quale (come tale) incide non già sul profilo della imprescrittibilità dell’azione di cui alla norma censurata, quanto piuttosto su quello completamente diverso (e qui non censurato) della legittimazione alla impugnazione medesima; che pertanto, da un lato, va ribadita la non comparabilità (sotto il profilo ontologico e teleologico) gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 47 CORTE COSTITUZIONALE delle situazioni poste a raffronto in rapporto ai limiti temporali di proponibilità dell’impugnazione ex art. 263 cod. civ. e dell’azione di cui all’art. 244 cod. civ. (limiti peraltro diversamente ascrivibili, gli uni, alla categoria dei termini di prescrizione e, gli altri, a quella dei termini di decadenza), giacché l’imprescrittibilità dell’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità trae giustificazione dalla superiore esigenza di far cadere ogni falsa apparenza di status, mentre il breve termine di decorrenza dell’azione di disconoscimento di paternità trova ragione nel favor legitimitatis quale espressione della presunzione di paternità rispetto al figlio concepito durante il matrimonio; che, d’altro lato, va affermato che il petitum richiesto mira nuovamente ad ottenere una pronuncia manipolativa che non si configura affatto “a rime obbligate”, in quanto la contestata previsione della imprescrittibilità (che dalla norma impugnata è riferita a tutti i soggetti legittimati all’azione, mentre dal rimettente è contestata esclusivamente con riferimento al padre) potrebbe essere sostituita in svariati modi, e quindi non necessariamente prevedendo, al posto di un altrettanto ipotizzabile ordinario o breve termine di prescrizione, solo il diverso strumento del termine di decadenza (il quale, a sua volta, non necessariamente dovrebbe coincidere con quello annuale di cui all’art. 244 cod. civ.); che, parimenti, neppure risulterebbero soluzioni costituzionalmente imposte quella di eliminare o meno l’imprescrittibilità a seconda dei diversi soggetti che agiscono per impugnare il riconoscimento, ovvero quella ineludibile (in quanto diretta ad evitare gli stessi inconvenienti che hanno portato alla declaratoria di illegittimità costituzionale proprio dell’art. 244 cod. civ.: sentenze n. 170 del 1999 e n. 134 del 1985) di individuare un momento di decorrenza dell’eventuale termine alla impugnazione che non vulneri il diritto di azione del soggetto, fintanto che sussista una assenza di consapevolezza in capo ad esso della esistenza stessa del presupposto della non veridicità del riconoscimento; laddove - poiché il riconoscimento del figlio naturale è un atto di volontà corrispondente normalmente, ma non sempre, alla convinzione di chi lo opera di essere il genitore naturale - il detto dies a quo potrebbe anche non coincidere con quello della conoscenza di fatti che escludono la paternità naturale, bensì con quello del pentimento di chi ha operato il riconoscimento (sentenza n. 134 del 1985); che, prospettandosi un così ampio spettro di possibili interventi, va altresì riaffermato che il potere di stabilire la natura, la durata e la modulazione del termine per la proposizione dell’impugnazione in esame spetta al legislatore, al quale solo è consentito di operare, anche in ragione dell’evolversi della coscienza collettiva, il necessario bilanciamento del 48 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 rapporto tra tutela della appartenenza familiare e tutela della identità individuale; bilanciamento che, peraltro, si è mosso (nella presente realtà sociale) piuttosto nella direzione (opposta rispetto a quella auspicata dal rimettente) della tendenziale corrispondenza tra certezza formale e verità naturale; che, d’altronde, questa Corte ritiene che la crescente considerazione del favor veritatis (la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini: sentenze n. 50 e n. 266 del 2006) non si ponga in conflitto con il favor minoris, poiché anzi la verità biologica della procreazione costituisce una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore, che si traduce nella esigenza di garantire ad esso il diritto alla propria identità e, segnatamente, alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico (sentenze 322 del 2011, n. 216 e n. 112 del 1997); che, pertanto, la questione è manifestamente inammissibile. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. P.Q.M. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 263 del codice civile, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Bolzano, con l’ordinanza indicata in epigrafe. CORTE COSTITUZIONALE IL TERMINE DI UN ANNO PER L’AZIONE DI DISCONOSCIMENTO È SOSPESO PER IL PERIODO IN CUI L’INTERESSATO È IN STATO DI INCAPACITÀ NATURALE Corte cost., 25 novembre 2011, n. 322 Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine indicato nell’art. 244 cod. civ. è sospesa anche nei confronti del soggetto che, sebbene non interdetto, versi in condizione di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, sino a che duri tale stato di incapacità naturale. (omissis) Motivi della decisione 1. - Il Tribunale ordinario di Catania censura l’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine annuale di proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità sia sospeso, non solo quando la parte interessata si trovi in stato di interdizione per infermità di mente, ma anche quando questa si trovi in stato di incapacità naturale. Il rimettente - premesso che (precedentemente alla proposizione del giudizio a quo) l’attore era stato dichiarato interdetto con sentenza del 30 gennaio 2004, e che, con successiva sentenza del 6 luglio 2007, era stata altresì dichiarata la nullità, per infermità mentale, del matrimonio contratto con la convenuta in data 15 dicembre 1990, da cui, il 19 febbraio 1992, era nato il figlio - osserva che, dagli accertamenti effettuati e dalle conclusioni rassegnate dai consulenti tecnici nel corso di predetti giudizi, l’attore è «soggetto che sin dalla nascita ha manifestato un ritardo mentale di tale gravità da renderlo incapace non solo di provvedere materialmente ai propri interessi, ma altresì di esprimere giudizi [...] possedere capacità di critica tali da autodeterminarsi [...] e, dunque formarsi una autonoma volontà e consapevolezza degli eventi esterni e, in sintesi, radicalmente privo della capacità di intendere e di volere». Il Tribunale denuncia, quindi, il contrasto della norma, in primo luogo, con l’art. 3 della Costituzione, in quanto sottopone irragionevolmente alla medesima disciplina due soggetti (quello pienamente capace di intendere e di volere e quello incapace naturalmente al momento in cui è sorto lo sta- tus) che si trovano in una condizione di fatto e giuridica del tutto diversa. E, in secondo luogo, con l’art. 24 Cost., poiché - avendo questa Corte sottolineato (nelle sentenze n. 170 del 1999 e n. 134 del 1985) che il diritto di azione e i principi costituzionali che presiedono alla tutela giurisdizionale dei diritti vengono irrimediabilmente lesi «quando si consente che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi da cui sorge il diritto stesso» - impedisce al soggetto titolare di un’azione personalissima che si trovi nella condizione, anche temporanea, di non potere avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione, di poterla validamente esperire, senza che tale sostanziale privazione del diritto di agire possa essere giustificata da un preminente diverso interesse quale il favor legitimitatis. 2. - La questione è fondata. 2.1. - L’art. 245 cod. civ. stabilisce che «Se la parte interessata a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità si trova in stato di interdizione per infermità di mente, la decorrenza del termine indicato nell’articolo precedente è sospesa, nei suoi confronti, sino a che dura lo stato di interdizione. L’azione può tuttavia essere promossa dal tutore». La disposizione si colloca nel contesto del sistema che regolamenta i termini di proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità del figlio concepito durante il matrimonio ex art. 244 cod. civ., nei casi indicati dal primo comma del precedente art. 235. In particolare, essa predispone una peculiare garanzia di conservazione del diritto di azione in capo a colui il quale sia stato dichiarato interdetto per infermità di mente, in ragione del fatto che il soggetto si trova nella impossibilità, per la accertata incapacità di provvedere ai propri interessi, di proporre consapevolmente (conoscendone i presupposti e rappresentandosene coscientemente gli effetti) la propria domanda giudiziale che trae origine dalla scelta di far valere un diritto personalissimo. 2.2. - Il rimedio della sospensione dei termini previsto dalla norma censurata riposa, d’altronde, sulla medesima ratio che ha condotto questa Corte a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 244, secondo comma, cod. civ., dapprima, «nella parte in cui non dispone, per il caso previsto dal numero 3 dell’art. 235 dello stesso codice, che il termine dell’azione di disconoscimento decorra dal giorno in cui il marito sia venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie» (sentenza n. 134 del 1985), e, successivamente, «nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare, contemplata dal numero 2) dell’art. 235 cod. civ. decorra per il marito dal giorno in cui esso sia venuto a conoscenza della propria impotenza di generare» (sentenza n. 170 del 1999); nonché, in apgennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 49 CORTE COSTITUZIONALE plicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, del primo comma dello stesso art. 244 cod. civ. «nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare di cui al numero 2) dell’art. 235 cod. civ., decorra per la moglie dal giorno in cui essa sia venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito» (sentenza n. 170 del 1999, cit.). Tali pronunce si fondano sulla duplice affermazione della irragionevolezza della previsione di una preclusione dell’esercizio dell’azione di disconoscimento al soggetto che non sia a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima; e della irrimediabile lesione del diritto di azione che si verifica allorquando si consenta che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi da cui sorge il diritto stesso. 2.3. - Orbene, risulta palese come una identica esigenza di dare effettività a tale garanzia (affermata da questa Corte con riguardo ai termini di cui all’art. 244 cod. civ.) sia teleologicamente sottesa anche alla scelta legislativa, tradotta nella disposizione oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità, di sospendere sine die la decorrenza del termine di proposizione dell’azione de qua nel caso in cui la parte interessata a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità si trovi in stato di interdizione per infermità di mente, e quindi nella situazione di non potere avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione e di poterla validamente esperire. Ma ciò porta ad affermare che la tutela approntata dalla norma censurata dipende, non già dalla formale perdita della capacità di agire del soggetto quale conseguenza della dichiarazione di interdizione, bensì dall’accertamento della sussistenza in concreto di una gravemente menomata condizione intellettiva e volitiva del medesimo, in presenza dei presupposti di cui all’art. 414 cod. civ. Poiché, però, la inequivoca previsione di cui all’art. 245 cod. civ. non consente di estenderne interpretativamente la operatività anche rispetto ad un soggetto formalmente capace, l’esclusione della praticabilità della omologa garanzia nei confronti di chi, sebbene non interdetto, si trovi (come nella specie) in eguali condizioni di abituale infermità di mente che lo rende incapace di provvedere ai propri interessi, determina la lesione di entrambi gli evocati parametri (artt. 3 e 24 Cost.). Ciò, a causa sia della irragionevole equiparazione del soggetto capace a quello di fatto incapace, ovvero (specularmente) dell’irragionevole diversità di trattamento riservata a soggetti che versino in un’identica situazione di abituale grave infermità di mente, che preclude in entrambi i casi la conoscenza dei fatti costitutivi dell’azione in esame; sia della contestuale lesione del diritto di azione - e del correlato principio di ten50 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 denziale corrispondenza, in materia di status, tra certezza formale e verità naturale (sentenze n. 216 e n. 112 del 1997) - impedito al titolare di un’azione personalissima che si trovi nella condizione di non avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione e quindi nella impossibilità di esperirla validamente e tempestivamente. Pertanto, l’art. 245 cod. civ. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine indicato nell’art. 244 cod. civ. è sospesa anche nei confronti del soggetto che, sebbene non interdetto, versi in condizione di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, sino a che duri lo stato di incapacità naturale. 2.4. - Ovviamente, rispetto alla esigenza di individuare se, quando e per quanto tempo il soggetto non abbia avuto coscienza dei fatti in presenza dei quali sorge il suo potere di agire, va precisato che seppure la previsione di cui alla norma in esame è connotata, sul piano probatorio, da una presunzione ex lege di mancata conoscenza (da intendersi quale assenza di consapevolezza dei relativi presupposti e cause, nonché di rappresentazione cosciente delle conseguenze) dei presupposti costitutivi dell’azione in esame da parte dei soggetti che siano stati dichiarati interdetti e finché dura lo stato di interdizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 429 e 431 cod. civ. - l’estensione della garanzia della sospensione varrà evidentemente solo per quegli incapaci naturali rispetto ai quali (non già sulla base di una presunzione, bensì in ragione delle prove offerte, acquisite e valutate dal giudice) sia stato accertato che versino in uno stato di grave abituale infermità mentale, ossia che sussistano quei medesimi presupposti richiesti dall’art. 414 cod. civ. per la dichiarazione di interdizione, e fino a quando sia stato ugualmente provato (ove nel frattempo non si sia pervenuti autonomamente ad una dichiarazione di interdizione) il venir meno dello stato di incapacità. La qual cosa comporta che, come d’altronde previsto per l’interdetto, anche per l’incapace naturale - che non può, ovviamente, avvalersi dell’azione del tutore - varrà la medesima regola della corrispondenza della durata della sospensione della decorrenza del termine alla situazione di effettiva incapacità del soggetto che ne beneficia. P.Q.M. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine indicato nell’art. 244 cod. civ. è sospesa anche nei confronti del soggetto che, sebbene non interdetto, versi in condizione di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, sino a che duri tale stato di incapacità naturale. CORTE COSTITUZIONALE LO STRANIERO PUÒ SPOSARSI IN ITALIA ANCHE SE NON HA REGOLARE PERMESSO DI SOGGIORNO Corte cost., 25 luglio 2011, n. 245 Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 116, 1° comma, c.c., come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge n. 94 del 2009, limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano». Sebbene la ratio della disposizione censurata possa essere effettivamente rinvenuta nella necessità di garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori, deve osservarsi come si presenti non proporzionato a tale obiettivo il sacrificio imposto - dal novellato art. 116, 1° comma, c.c. - alla libertà di contrarre matrimonio, non solo degli stranieri, ma anche dei cittadini italiani che intendano coniugarsi con i primi. Motivi della decisione 1.- Il Tribunale ordinario di Catania ha sollevato in riferimento agli articoli 2, 3, 29, 31 e 117, primo comma, della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano». La novella introdotta dalla predetta legge, in altri termini, fa carico allo straniero che intenda contrarre matrimonio in Italia di produrre tale atto. (omissis) La questione è fondata. 3.1.- Giova ricordare come questa Corte (sentenze n. 61 del 2011, n. 187 del 2010 e n. 306 del 2008) abbia affermato che al legislatore italiano è certamente consentito dettare norme, non palesemente irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali, che regolino l’ingresso e la permanenza di stranieri extracomunitari in Italia. Tali norme, però, devono costituire pur sempre il risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative in materia di disciplina dell’immigrazione, specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali, tra i quali certamente rientra quello «di contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (sentenza n. 445 del 2002). In altri termini, è certamente vero che la «basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero» «consistente nella circostanza che, mentre il primo ha con lo Stato un rapporto di solito originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo» - può «giustificare un loro diverso trattamento» nel godimento di certi diritti (sentenza n. 104 del 1969), in particolare consentendo l’assoggettamento dello straniero «a discipline legislative e amministrative» ad hoc, l’individuazione delle quali resta «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici» (sentenza n. 62 del 1994), quali quelli concernenti «la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione» (citata sentenza n. 62 del 1994). Tuttavia, resta pur sempre fermo - come questa Corte ha di recente nuovamente precisato - che i diritti inviolabili, di cui all’art. 2 Cost., spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani», di talché la «condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata - per quanto riguarda la tutela di tali diritti - come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (sentenza n. 249 del 2010). Sebbene, quindi, la ratio della disposizione censurata - proprio alla luce della ricostruzione che ne ha evidenziato il collegamento con le nuove norme sull’acquisto della cittadinanza e, dunque, la loro comune finalizzazione al contrasto dei cosiddetti “matrimoni di comodo” - possa essere effettivamente rinvenuta, come osserva l’Avvocatura dello Stato, nella necessità di «garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori», deve osservarsi come non proporzionato a tale obiettivo si presenti il sacrificio imposto - dal novellato testo dell’art. 116, primo comma, cod. civ. alla libertà di contrarre matrimonio non solo degli stranieri ma, in definitiva, anche dei cittadini italiani che intendano coniugarsi con i primi. È, infatti, evidente che la limitazione al diritto dello straniero a contrarre matrimonio nel nostro Paese si traduce anche in una compressione del corrispondente diritto del cittadino o della cittadina italiana che tale diritto intende esercitare. Ciò comporta che il bilanciamento tra i vari interessi di rilievo costituzionale coinvolti deve necessariamente tenere anche conto della posizione giuridica di chi intende, del tutto legittimamente, contrarre matrimonio con lo straniero. Si impone, pertanto, la conclusione secondo cui la previsione di una generale preclusione alla celebrazione delle nozze, allorché uno dei nubendi risulti gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 51 CORTE COSTITUZIONALE uno straniero non regolarmente presente nel territorio dello Stato, rappresenta uno strumento non idoneo ad assicurare un ragionevole e proporzionato bilanciamento dei diversi interessi coinvolti nella presente ipotesi, specie ove si consideri che il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) già disciplina alcuni istituti volti a contrastare i cosiddetti “matrimoni di comodo”. Ed infatti, in particolare, l’art. 30, comma 1-bis, del citato d.lgs. n. 286 del 1998 prevede: con riguardo agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero con cittadini stranieri regolarmente soggiornanti, che il permesso di soggiorno «è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole»; con riguardo allo straniero che ha fatto ingresso in Italia con visto di ingresso per ricongiungimento familiare, ovvero con visto di ingresso al seguito del proprio familiare nei casi previsti dall’articolo 29, del medesimo d.lgs., ovvero con visto di ingresso per ricongiungimento al figlio minore, che la richiesta di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno «è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato». 3.2.- Del pari, è ravvisabile, nella specie, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. 52 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 In proposito, si deve notare che la Corte europea dei diritti dell’uomo è recentemente intervenuta sulla normativa del Regno Unito in tema di capacità matrimoniale degli stranieri (sentenza 14 dicembre 2010, O’Donoghue and Others v. The United Kingdom). In particolare, la Corte europea ha affermato che il margine di apprezzamento riservato agli Stati non può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, ad un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione (par. 89 della sentenza). Secondo i giudici di Strasburgo, pertanto, la previsione di un divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità del matrimonio, è lesiva del diritto di cui all’art. 12 della Convenzione. Detta evenienza ricorre anche nel caso previsto dalla norma ora censurata, giacché il legislatore lungi dal rendere più agevole le condizioni per l’accertamento del carattere eventualmente “di comodo” del matrimonio di un cittadino con uno straniero - ha dato vita, appunto, ad una generale preclusione a contrarre matrimonio a carico di stranieri extracomunitari non regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato. P.Q.M. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano». CASSAZIONE LA SENTENZA DI DISCONOSCIMENTO DELLA PATERNITÀ È OPPONIBILE ANCHE AGLI EREDI E QUINDI ANCHE A COLORO CHE NON HANNO PARTECIPATO AL PROCEDIMENTO Cass. civ. Sez. I, 16 gennaio 2012, n. 430 Nel giudizio di disconoscimento di paternità né colui indicato come padre naturale, né i suoi eredi, sono legittimati passivi e la sentenza che ne accoglie la domanda, in quanto pronunciata nei confronti del pubblico ministero e di tutti gli altri contradittori necessari assumendo, quindi, autorità di cosa giudicata erga omnes, essendo inerente alla status della persona, è opponibile nei confronti di tali soggetti, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio. Svolgimento del processo P.V., P.N., P.E., P.S., Pa.Vi. e P.C., tutti quali eredi di P.A., ricorrono per cassazione, con due motivi e memoria, nei confronti di C.V., avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli n. 2388/2009 del 14 luglio 2009, che ha rigettato l’appello da loro proposto avverso la sentenza in data 8 gennaio 2008, con la quale il Tribunale di Napoli aveva dichiarato che C.V. era figlia naturale di P.A.. La Corte di appello di Napoli, a sostegno della decisione, ha così motivato: - la sentenza che aveva dichiarato che la C. non era figlia di C.G. era opponitele agli eredi del P., anche se questi non avevano partecipato a quel giudizio, trattandosi di sentenza costitutiva inerente allo status di una persona, opponibile con forza di giudicato erga omnes; (omissis) Motivi della decisione 1. Con il primo motivo i ricorrenti principali deducono che l’esito del giudizio di disconoscimento di paternità proposto dalla C. non era loro opponibile, non avendovi essi partecipato pur essendo controinteressati e legittimati passivi, ben potendo la loro sfera giuridica essere modificata dalla pronuncia emessa a conclusione di detto giudizio. La censura è priva di fondamento. Osserva il collegio che questa Corte, con orientamento a cui si intende in questa sede dare continuità, ha già affermato che la sentenza che accolga la domanda di disconoscimento della paternità, in quanto pronunciata nei confronti del pubblico ministero e di tutti gli altri contraddittori necessari, assume autorità di cosa giudicata erga omnes, essendo inerente allo status della persona (Cass. 1985/194). In particolare, la paternità legittima non può essere messa in discussione e neppure difesa da colui che è indicato come padre naturale, il quale, allorché deduca che l’esito positivo dell’azione di disconoscimento di paternità si riverbera sull’azione di riconoscimento della paternità intentata nei suoi confronti, si limita in realtà a far valere un pregiudizio di mero fatto, tanto da non poter agire contro la sentenza di disconoscimento neppure con l’opposizione di terzo, atteso che il rimedio contemplato dall’art. 404 c.p.c., presuppone in capo all’opponente un diritto autonomo la cui tutela sia però incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata (Cass. 2005/12167). Di conseguenza, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, deve ritenersi che né colui che sia indicato come padre naturale, né i suoi eredi, sono legittimati passivi nel giudizio di disconoscimento della paternità e che la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento è opponibile nei confronti di tali soggetti, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio. La Corte di appello di Napoli - affermando che la sentenza che aveva dichiarato che la C. non era figlia di C.G. era opponibile agli eredi del P., anche se questi non avevano partecipato a quel giudizio, trattandosi di sentenza costitutiva inerente allo status di una persona opponibile con forza di giudicato erga omnes - si è uniformata all’orientamento giurisprudenziale sopra enunciato e la decisione impugnata resiste alle infondate critiche sollevate dai ricorrenti, il cui riferimento alla sentenza di questa Corte n. 9033 del 12 settembre 1997 (la quale ha configurato come contraddittori necessari nel giudizio riguardante la dichiarazione di paternità naturale tutti i soggetti la cui sfera giuridica sia suscettibile di effetti in seguito alla formazione di uno status diverso da quello originario) non è attinente alla fattispecie dedotta nel presente giudizio, riguardante non la dichiarazione di paternità naturale, ma il disconoscimento della paternità, fermo restando che la decigennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 53 CASSAZIONE sione richiamata è stata comunque superata dalla successiva sentenza delle Sezioni Unite n. 21287 del 3 novembre 2005 (la quale ha escluso che siano contraddittori necessari, passivamente legittimati nel giudizio per la dichiarazione di paternità naturale, i soggetti portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, ai quali può essere “riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio a tutela dei rispettivi interessi”). P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale e il primo motivo del ricorso incidentale (omissis). *** LA PROMESSA DI MATRIMONIO INGIUSTIFICATAMENTE NON RISPETTATA, OBBLIGA SOLO A RIMBORSARE LE SPESE AFFRONTATE Cass. civ. Sez. VI, 2 gennaio 2012, n. 9 La rottura della promessa di matrimonio senza giustificato motivo configura violazione delle regole di correttezza e di auto responsabilità, che non possono considerarsi lecite o giuridicamente irrilevanti, ma non costituisce illecito extracontrattuale, essendo espressione della fondamentale libertà matrimoniale, né responsabilità contrattuale o precontrattuale, poiché la promessa di matrimonio non è un contratto e neppure crea un vincolo giuridico tra le parti. In siffatti casi si configura una speciale obbligazione “ex lege” che pone a carico del recedente ingiustificato l’obbligo di rimborsare alla controparte quanto meno l’importo delle spese affrontate e delle obbligazioni contratte in vista del matrimonio. Svolgimento del processo e motivi della decisione “1.- Con la sentenza impugnata in questa sede la Corte di appello di Catania ha confermato la sentenza con cui il tribunale di Catania - Sez. dist. di Paterno - ha condannato C.G. al risarcimento dei danni in favore di F.P., per ingiustificata rottura della promessa di matrimonio, nella misura di Euro 9.875,45, somma corrispondente alle spese fatte ed alle obbligazioni contratte dalla fidanzata in previsione delle nozze. 54 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 In accoglimento dell’appello incidentale proposto dalla F. la Corte di appello ha poi condannato il C. al risarcimento dei danni non patrimoniali, liquidati in Euro 30.000,00. Quest’ultimo propone sette motivi di ricorso per cassazione. L’intimata non ha depositato difese. 2.- I primi due motivi, con cui il ricorrente lamenta vizi di motivazione e violazione degli art. 79, 80 e 81 cod. civ. nel capo in cui la sentenza impugnata lo ha condannato al rimborso delle spese, sono inammissibili perché generici ed apoditticamente formulati. Il ricorrente lamenta che la Corte di merito non abbia preso in esame le sue deduzioni circa il giusto motivo della rottura del fidanzamento e non abbia tenuto conto, nella quantificazione dei danni, della misura in cui dette spese avrebbero potuto essere recuperate, ma non fa alcun riferimento alla concreta motivazione della sentenza, che ha ritenuto non provate le eccezioni da lui sollevate, né illustra le ragioni per cui la motivazione si dovrebbe ritenere insufficiente, illogica o contraddittoria. 3.- Con il terzo e il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 81 e 2059 c.c., e vizi di motivazione, sul rilievo che il risarcimento dei danni conseguenti all’ingiustificata rottura della promessa di matrimonio va circoscritto alle spese fatte ed alle obbligazioni contratte dal promissario; non può essere esteso oltre questi limiti - e men che mai al risarcimento dei danni non patrimoniali – poiché il recesso dalla promessa non costituisce illecito, in quanto la legge vuoi salvaguardare fino all’ultimo la piena libertà delle parti di decidere se contrarre o non contrarre matrimonio. Richiama a conforto la recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ. Sez. 3, 15 aprile 2010 n. 9052). 3.- I motivi sono fondati. Va premesso che la rottura della promessa di matrimonio formale e solenne - cioè risultante da atto pubblico o scrittura privata, o dalla richiesta delle pubblicazioni matrimoniali (come nel caso di specie, ove il ricorrente ha esercitato il recesso solo due giorni prima della data fissata per la celebrazione delle nozze) - non può considerarsi comportamento lecito, come assume il ricorrente, allorché avvenga senza giustificato motivo. È indubbio che tale comportamento non genera l’obbligazione civile di contrarre il matrimonio, ma il recesso senza giustificato motivo configura pur sempre il venir meno alla parola data ed all’affidamento creato nel promissario, quindi la violazione di regole di correttezza e di autoresponsabilità, che non si possono considerare lecite o giuridicamente irrilevanti. Poiché, tuttavia, la legge vuoi salvaguardare fino all’ultimo la piena ed assoluta libertà di ognuno di contrarre o non contrarre le nozze, l’illecito consistente nel recesso senza giustificato motivo non è assoggettato ai principi generali in tema di respon- CASSAZIONE Il Collegio, all’esito dell’esame del ricorso, ha condiviso la soluzione e gli argomenti prospettati dal relatore. In accoglimento del terzo e del quarto motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata nella parte in cui ha condannato il ricorrente al risarcimento dei danni non patrimoniali. P.Q.M. La Corte di cassazione accoglie il terzo e il quarto motivo di ricorso; rigetta il primo e il secondo motivo e dichiara assorbiti gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da F. P. con l’atto di appello incidentale e conferma il rigetto dell’appello principale, proposto da C.G.. *** AUDIZIONE DEL MINORE NELLE PROCEDURE DI ADOZIONE sabilità civile, contrattuale od extracontrattuale, né alla piena responsabilità risarcitoria che da tali principi consegue, poiché un tale regime potrebbe tradursi in una forma di indiretta pressione sul promittente nel senso dell’accettazione di un legame non voluto. Ma neppure si vuole che il danno subito dal promissorio incolpevole rimanga del tutto irrisarcito. Il componimento fra le due opposte esigenze ha comportato la previsione a carico del recedente ingiustificato non di una piena responsabilità per danni, ma di un’obbligazione ex lege a rimborsare alla controparte quanto meno l’importo delle spese affrontate e delle obbligazioni contratte in vista del matrimonio. Non sono risarcibili voci di danno patrimoniale diverse da queste e men che mai gli eventuali danni non patrimoniali. La motivazione della sentenza impugnata, circa la rilevanza degli interessi non patrimoniali, degli affetti e dei diritti della persona del promesso sposo incolpevole, che sarebbero anche costituzionalmente protetti e che risulterebbero lesi dalla rottura della promessa, è irrilevante e non congruente con la disciplina giuridica della materia, poiché tralascia il presupposto ineliminabile per poter attribuire rilevanza ai suddetti diritti e interessi: cioè l’assoggettamento della promessa di matrimonio e del suo inadempimento ai principi generali in tema di responsabilità, contrattuale od extracontrattuale, anziché ai soli effetti espressamente previsti dall’art. 81 c.c.. (omissis) Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 2011, n. 21651 Il minore può essere sentito direttamente dal giudice, ma l’ascolto può essere anche indiretto, tramite un ausiliare del giudice Svolgimento del processo Con ricorso depositato in data 26/9/2007, V.M. chiedeva al Tribunale per i minorenni di Palermo pronunciarsi l’adozione da parte sua della minore C.M., nata il (OMISSIS), figlia della propria moglie C.S. e di padre ignoto, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, lett. B). La C. veniva sentita ed esprimeva assenso all’adozione. Il Tribunale per i minorenni di Palermo, con sentenza depositata il 26/6/2008, disponeva farsi luogo alla predetta adozione. Con ricorso in appello, depositato il 13/3/2009, la C. chiedeva la revoca dell’adozione, essendo venuta meno la comunione materiale e spirituale tra i coniugi V. - C., separatisi di fatto nel (OMISSIS). Si costituiva regolarmente il contraddittorio, e il V. chiedeva rigettarsi l’appello. La Corte di Appello di Palermo, con sentenza 19/314/4/2010, accoglieva l’appello della C. e rigettava l’istanza di adozione da parte del V.. Ricorre per cassazione il V., sulla base di due motivi. Resiste, con controricorso, la C.. (omissis) gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 55 CASSAZIONE Motivi della decisione Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 79 e 80 c.p.c., L. n. 184 del 1983, art. 52, comma 2, e vizio di motivazione. Sussistendo conflitto di interessi tra la C. e la figlia minore, si doveva nominare un curatore speciale; il preminente interesse della minore stessa avrebbe comunque richiesto la conferma del provvedimento del Tribunale per i minorenni. Con il secondo motivo, violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 45, nonché della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo in ordine all’adozione della minore, alla necessità di tenere conto delle sue aspirazioni, e comunque di sentire il suo legale rappresentante o, in caso di conflitto, un curatore speciale ad hoc nominato. Non si ravvisa violazione delle norme indicate nel primo motivo, in ordine all’affermata necessità di nomina di un curatore speciale. Gli artt. 78, 79 e 80 c.p.c., prevedono la nomina di un curatore speciale, tra l’altro, in caso di conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante. L’art. 320 c.c., comma 6, prevede ipotesi di conflitto di interessi, tra genitore e figlio, ma soltanto patrimoniali. Al contrario gli artt. 347 e 360 c.c., non indicati dal ricorrente, individuano - ma solo in materia di tutela - conflitto di interessi, anche personali. Il minore ultraquattordicenne esprime il suo consenso all’adozione, il legale rappresentante (genitore o tutore), in caso di età inferiore dell’adottando, viene sentito. D’altra parte, l’art. 46 assicura una netta preminenza alla posizione del genitore che deve prestare il suo assenso. Non si potrebbe, in linea di principio escludere l’applicabilità dell’art. 78 c.p.c., e segg., in caso di conflitto di interessi tra il minore e il suo legale rappresentante (nella specie il genitore). E tuttavia il ricorrente avrebbe dovuto proporre istanza al giudice competente ai sensi dell’art. 80 c.p.c., fornendo indicazioni specifiche al riguardo (il conflitto deve essere concreto, diretto ed attuale, e sussiste se al vantaggio di un soggetto corrisponde il danno dell’altro: al riguardo, Cass. n. 2489 del 1992), non essendo sufficiente il deterioramento di rapporti tra il genitore dell’adottando e il coniuge richiedente: avrebbe cioè dovuto prospettare, anche ai fini della nomina di un curatore, che interesse reale della minore era quello di essere adottata. Neppure si ravvisa violazione della L. n. 183 del 1984, art. 45, nonché della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 (ratificata con L. n. 176 del 1991), denunciata nel secondo motivo. L’art. 45 predetto, in materia di adozione in casi particolari, prescrive l’ascolto del minore che abbia compiuto gli anni dodici, ma pure di età inferiore, se capace di discernimento. La norma, modificata dalla L. n. 149 del 2001, che introduce ed intensifica 56 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 l’audizione del minore nella procedura adozionale, recepisce evidentemente ed opportunamente - il dibattito di questi anni sull’opportunità dell’ascolto del minore e le indicazioni pregnanti di importanti documenti internazionali. La Convenzione di New York sui diritti del bambino, all’art. 12, e quella di Strasburgo sui diritti processuali del minore, all’art. 3, attribuiscono al minore il “diritto” di essere ascoltato, “perché possa esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessi”. Anche la Carta Europea sui diritti fondamentali, all’art. 24, precisa che “i bambini possono esprimere liberamente la loro opinione, ed essa viene presa in considerazione per le questioni che li riguardano”. Questa nuova “cultura” sull’ascolto del minore già aveva influenzato la riforma dell’adozione del 2001, ed oggi trova un riscontro nell’art. 155 sexies c.c., sull’affidamento condiviso. La giurisprudenza di questa Corte ha più volte insistito sull’obbligatorietà dell’ascolto, ove indicato dalla norma (per tutte, Cass. S.U. n. 9094 del 2007), la cui mancanza potrebbe rendere invalido il provvedimento assunto. Nulla si dice nell’art. 45 suindicato sulle modalità di ascolto. Il minore può essere sentito direttamente dal giudice, ma pure l’ascolto può essere indiretto, tramite un ausiliare del giudice, psicologo, educatore, che riferirà poi al giudice stesso. Sarà lo stesso ausiliare a fornire informazioni sulla sua capacità di discernimento (per qualche indicazione, v. Cass. n. 14216 del 2010). Nella specie, come emerge dalla sentenza impugnata, la minore, che è ancora in tenera età, è stata più volte ascoltata dal CTU, il quale ne ha evidenziato aspirazioni, ricordi, sofferenze. Sostiene infine il ricorrente che è comunque interesse della minore la conferma della pronuncia di adozione. L’adozione (anche quella in casi particolari, di cui all’art. 44 predetto) ha lo scopo di consentire l’inserimento del minore in un contesto idoneo al suo armonico sviluppo. Quanto all’adozione del figlio del coniuge, la norma attribuisce titolo giuridico ad un rapporto di fatto molto più frequente oggi che in passato; con l’introduzione del divorzio, spesso si costituiscono nuove famiglie, con figli nati da precedente matrimonio (prima evidentemente poteva trattarsi solo del coniuge superstite che contraeva nuovo matrimonio): non vi è alcun rapporto parentale tra il coniuge e il figlio dell’altro coniuge, eppure esiste una situazione di convivenza, e la presenza del nuovo coniuge può avere una notevole influenza sullo sviluppo della personalità del fanciullo. Ulteriore elemento esplicitamente individuato dalla norma sull’adozione in casi particolari è la “realizzazione del preminente interesse del mi- CASSAZIONE nore”. Non si tratta di una precisazione superflua: sebbene tutta la normativa adozionale si ispiri alla realizzazione di tale interesse, l’esigenza avvertita dal legislatore di far esplicito riferimento ad esso trova ragione nel rilievo che la norma, oltre ad aver posto precisi limiti, ed individuato casi tassativi per limitare la portata dell’istituto, lo circonda di ulteriori cautele, precisando che comunque sarà necessaria un’ulteriore valutazione: che l’adozione realizzi il “preminente interesse del fanciullo”. Dunque, non basta che il coniuge del genitore presenti domanda, pur consentendo i genitori del minore (e il minore stesso ultraquattordicenne), ma è necessario che tra il richiedente e il minore stesso sussista effettivamente un valido rapporto affettivo. Da quanto osservato emerge che, di regola, l’adozione del figlio del coniuge presuppone convivenza comune, armonia, affetto tra i coniugi, e dovrebbe tendenzialmente escludersi quando la comunione di vita tra essi, come nella specie, sia venuta meno. E tuttavia la valutazione va fatta, come si diceva, alla stregua dell’interesse del minore, da valutare in relazione alla specifica fattispecie: dunque, ove si sia instaurata una positiva relazione tra quest’ultimo e il richiedente, la cessazione della convivenza matrimoniale tra il richiedente e il genitore del minore non dovrebbe, sempre e comunque, far venir meno l’interesse del fanciullo all’adozione. Del resto, com’è noto, anche nell’adozione legittimante, ai sensi della L. n. 184, art. 25, comma 5, se nel corso dell’affidamento preadottivo interviene separazione tra i coniugi richiedenti, può pronunciarsi “nell’esclusivo interesse del minore”, adozione a favore di uno o di entrambi i coniugi, ove essi o uno di loro ne facevano richiesta. Il giudice a quo ha effettuato, al riguardo, la sua valutazione di fatto, e dunque insuscettibile di controllo in questa sede, in quanto accompagnata da una motivazione ampia, approfondita e non illogica. Richiamando le risultanze della consulenza tecnica, la sentenza impugnata, pur dando atto del positivo rapporto tra la minore e il V., il quale, prima di forti contrasti con la moglie, aveva assunto il ruolo di padre, ben accettato dalla bambina, precisa che M. ha espresso grande sofferenza per un clima familiare altamente conflittuale. che la poneva nella drammatica posizione di figlia contesa e obbligata a scegliere con quale genitore schierarsi; essa ricordava con terrore le urla e le liti dei genitori ed esprimeva grande timore, di fronte ad un possibile incontro dei genitori, di un rinnovarsi dell’aspro conflitto. D’altra parte, in relazione ai suggerimenti del consulente - continua il giudice a quo la madre aveva parzialmente mutato il suo atteggiamento verso il coniuge, mostrandosi idonea ad una collaborazione con lui nell’interesse della figlia; di fronte ai toni pacati della moglie, il V. ha reagito con rabbia, rifiutando un confronto sereno, espri- mendo forme di immaturità ed egocentrismo, restando prigioniero del suo bisogno di ricevere, sempre e comunque, approvazioni incondizionate del suo operato, dei suoi pensieri e delle sue idee. Ancora, la sentenza impugnata richiama ulteriori aspetti critici della personalità del V., quali la sua percezione del potere in generale, e di quello genitoriale, in particolare, con conseguente totale squalifica, da parte sua, della figura materna, per concludere che l’adozione sarebbe nociva per la minore, perché attiverebbe, in modo improprio e dannoso per lei, le rivendicazioni del V. tese ad esercitare un incisivo potere genitoriale, senza tener conto del delicato e complesso contesto esistenziale in cui la bambina si trova. Vanno dunque rigettati i motivi proposti, in quanto infondati, e, conclusivamente, va rigettato il ricorso. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; dichiara compensate le spese del presente giudizio di legittimità. *** CONVIVENZA MORE UXORIO E RILEVANZA SULL’ASSEGNO DIVORZILE Cass. civ. Sez. I, 11/08/2011, n. 17195 La mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimento. Qualora, tuttavia, tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, tanto che i conviventi instaurino tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, poiché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché solo di fatto. Ne consegue la mancanza di ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso. Svolgimento del processo Con ricorso ritualmente notificato, F.F. chiedeva dichiararsi, nei confronti della moglie L.P., la cessazione degli effetti civili del matrimonio, con esclusione dell’assegno divorzile. Costituitosi il contraddittorio, la L. dichiarava di non opporsi al divorzio, e chiedeva assegno per sé. gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 57 CASSAZIONE Il Tribunale di Roma, con sentenza non definitiva, dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Con sentenza definitiva del 30 settembre - 6 ottobre 2005, rigettava la domanda di assegno della L., stante la stabile convivenza more uxorio di questa con altro uomo. Proponeva appello avverso tale sentenza la L., ribadendo la richiesta di assegno per sé. Costituitosi il contraddittorio, il F. chiedeva rigettarsi l’appello. La corte d’Appello di Roma, con sentenza 12 giugno - 20 giugno 2007, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, disponeva in favore della L. assegno mensile per l’importo di Euro 250,00. Ricorre per cassazione il F., sulla base di tre motivi. (omissis) Motivi della decisione Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, nonché vizio di motivazione in ordine alla stabile convivenza della L. con altro uomo, ciò che dovrebbe escludere la cor58 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 responsione di assegno divorzile a carico dell’ex coniuge. Per una migliore intelligenza della problematica sollevata, va considerato che una convivenza stabile e duratura, con o senza figli, tra un uomo e una donna, che si comportano come se fossero marito e moglie, è stata volta a volta definita con espressioni diverse, quali concubinato, convivenza more uxorio, famiglia di fatto, la prima connotata negativamente, la seconda di valore neutro e la terza positivamente connotata. Si può addirittura ipotizzare una sorta di passaggio, almeno in parte anche in successione temporale, dall’uso di un’espressione all’altra, che si accompagna ad un corrispondente mutamento nel costume sociale. La prima fase è anche l’unica che trova (o, meglio, trovava) un preciso riscontro normativo: il concubinato (una sorta di adulterio continuato) costituiva reato, nonché causa di separazione per colpa. La convivenza tra uomo e donna, come se fossero coniugi, rilevava soltanto come forma di sanzione e condizione necessaria era ovviamente che uno dei conviventi fosse sposato - al fine di maggior difesa CASSAZIONE della famiglia legittima. La fase del concubinato volgeva al termine, dopo una nota sentenza della Corte Costituzionale (Corte Cost. n 167/1969) che cancellò tale ipotesi di reato. In una diversa fase, nella quale l’espressione convivenza more uxorio andava gradualmente sostituendo quella di concubinato, prevaleva una sorta di “agnosticismo” dell’ordinamento nei confronti del fenomeno, derivante dalla mancata regolamentazione normativa di esso, e, con riferimento ai principii costituzionali, dall’art. 29 Cost., che soltanto “riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, disposizione ritenuta confermativa del disinteresse dell’ordinamento verso altri tipi di organizzazione familiare. In una fase successiva, che si può collocare temporalmente alle soglie e successivamente alla riforma generale del diritto di famiglia, l’espressione “famiglia di fatto” comincia ad essere sempre più frequentemente accolta. Essa non indica soltanto il convivere come coniugi, ma individua una vera e propria “famiglia”, portatrice di valori di stretta solidarietà, di arricchimento e sviluppo della personalità di ogni componente, e di educazione e istruzione della prole. In tal senso, si rinviene, seppur indirettamente, nella stessa Carta Costituzionale, una possibile garanzia per la famiglia di fatto, quale formazione sociale in cui si svolge la personalità dell’individuo, ai sensi dell’art. 2 Cost. La riforma del diritto di famiglia del 1975, pur non contenendo alcun riferimento esplicito alla famiglia di fatto, viene ad accelerare tale evoluzione di idee: nella rinnovata normativa emerge un diverso modello familiare, aperto e comunitario, una sicura valutazione dell’elemento affettivo, rispetto ai vincoli formali e coercitivi, l’eliminazione di gran parte delle discriminazioni della filiazione naturale rispetto a quella legittima. E talora si ritiene attribuita rilevanza giuridica alla famiglia di fatto, in presenza di figli, con riferimento all’art. 317 bis c.c., ove si precisa che i genitori naturali, se conviventi, esercitano congiuntamente la potestà. Nella specie, la Corte d’Appello accerta l’instaurazione di un rapporto stabile di convivenza della L. con altro uomo: questi ha dato un apporto notevole al menage familiare, mettendo a disposizione per la convivenza un’abitazione di (OMISSIS), proprietà di una s.r.l. di cui egli detiene il 99% delle quote, la coppia ha avuto due figli, in un breve lasso di tempo (2001 - 2003); durante la convivenza matrimoniale non erano nati figli. Presume la Corte di merito che gli impegni connessi alla maternità ed all’accudimento dei bambini, ancora in tenera età, abbiano impedito “il collocamento nel mondo del lavoro della L.”; Ritiene peraltro che, benché la volontarietà di alcune scelte di vita della L. (l’instaurazione della convivenza, la nascita dei figli, etc.), non possa farsi ri- cadere sul coniuge, tuttavia la sperequazione dei mezzi di questa di fronte alle disponibilità economiche del F. - che già caratterizzavano il tenore di vita durante la convivenza matrimoniale - giustifichi la corresponsione di un assegno divorzile a carico dell’ex coniuge. l’argomentazione del Giudice a quo è palesemente erronea. È vero che giurisprudenza consolidata di questa Corte (tra le altre, da ultimo, Cass. n 23968/2010) afferma che la mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimento. E tuttavia, ove tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, e i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che; di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio: come già si diceva, arricchimento e potenziamento reciproco della personalità dei conviventi, e trasmissione di valori educativi ai figli (non si deve dimenticare che obblighi e diritti dei genitori nei confronti dei figli sono assolutamente identici, ai sensi dell’art. 30 Cost. e art. 261 c.c., in ambito matrimoniale e fuori dal matrimonio), la mera convivenza si trasforma in una vera e propria famiglia di fatto (al riguardo, Cass., n. 4761/1993). A quel punto il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner non può che venir meno di fronte: all’esistenza di una famiglia, ancorché di fatto. Si rescinde così ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, con ciò, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso (v. s.u. 2 punto Cass. 2003 n. 11975). È evidente peraltro che non vi è né identità, né analogia tra il nuovo matrimonio del coniuge divorziato, che fa automaticamente cessare il suo diritto all’assegno, e la fattispecie in esame, che necessita di un accertamento e di una pronuncia giurisdizionale. Come talora questa Corte ha precisato (al riguardo, tra le altre, Cass. n. 3503/1998), si tratta, in sostanza, di quiescenza del diritto all’assegno, che potrebbe riproporsi, in caso di rottura della convivenza tra i familiari di fatto, com’è noto effettuabile ad nutum, ed in assenza di una normativa specifica, estranea al nostro ordinamento, che non prevede garanzia alcuna per l’ex familiare di fatto (salvo eventuali accordi economici stipulati tra i conviventi stessi). P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, che pure si pronuncerà sulle spese del presente giudizio di legittimità. gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 59 IN LIBRERIA In libreria a cura dell’avv. GIANFRANCO DOSI PAOLA AGLIETTA Tassazione e Famiglia. Aspetti Fiscali, tutela giuridica e accertamento nelle vicende familiari Giuffrè Editore 2011 Edito da Giuffrè Editore nella Collana Teoria e Pratica del diritto in materia di Fisco e Tributi si segnala una pubblicazione dal titolo Tassazione e Famiglia - Aspetti Fiscali, tutela giuridica e accertamento nelle vicende familiari di Paola Aglietta che è Dottore Commercialista in Torino e Revisore Contabile, partner dello Studio LS Lexjus Sinacta Avvocati e Commercialisti Associati. Il libro il cui sottotitolo è Aspetti Fiscali, tutela giuridica e accertamento nelle vicende familiari si propone di fornire uno strumento chiaro, di facile comprensione e che permetta un’immediata risposta ai quesiti propri delle dinamiche fi60 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 scali connesse alle vicende del rapporto familiare. Vengono approfondite in particolare le problematiche fiscali legate a situazioni patrimoniali complesse nonché agli aspetti propri dell’azienda familiare ovvero della cessione e/o conferimento di quote di aziende. L’autrice segue un percorso serrato e sistematico accompagnando il lettore nell’esame ed analisi del sistema della tassazione applicato alla persona fisica ed alla persona giuridica per poi soffermarsi nell’analisi e nello sviluppo di considerazioni relative alle figure più particolari connesse alla famiglia ed all’Azienda familiare. Il testo è ricco di schemi riepilogativi che permettono al fruitore meno esperto di avere una immediata cognizione del problema e delle possibili soluzioni allo stesso: di particolare utilità rimangono gli schemi relativi al reddito dell’attività di impresa piuttosto che derivanti da lavoro autonomo nonché l’analisi del cumulo tra reddito da lavoro dipendente e da lavoro autonomo ovvero l’attenta e puntuale analisi delle detrazioni e/o deduzioni fiscali per i familiari a carico. Il percorso narrativo si dispiega attraverso tre parti per un totale di tredici capitoli. Una prima parte incentrata sulla tassazione dei redditi con distinzione degli stessi in redditi: delle persone fisiche, fondiari, di capitali, di lavoro dipendente e di lavoro autonomo, di impresa e redditi diversi con conclusiva analisi delle agevolazioni fiscali e delle detrazioni. La seconda parte si focalizza sul patrimonio e le vicende della famiglia dove vengono analizzate le figure che si propongono di tutelare i bisogni della famiglia. Di particolare interesse è questa parte del testo in cui risulta approfondita la tematica del fondo patrimoniale, del trust nonché dell’acquisto d’azienda mediante procedure di family by out (leverage by out); il tutto accompagnato da una puntuale indicazione degli incom- benti fiscali e dell’impatto delle imposte e delle tasse sull’operazione. A tale proposito l’Autrice si sofferma anche nell’indicazione ed analisi delle possibili criticità legate alla segregazione del patrimonio e, di contro, dei vantaggi propri ed impropri dell’impiego di tali forme di gestione del patrimonio della famiglia. La terza parte si sofferma sull’annosa questione dell’accertamento dei redditi alla luce delle recenti innovazioni introdotte in ambito fiscale per l’accertamento induttivo del reddito. Un libro chiaro e semplice nella sua impostazione e di grande utilità atteso che permette di ottenere immediate risposte per il successivo approfondimento della problematica da parte del Professionista. ALESSANDRA PÈ e ANTONELLA RUGGIU (a cura di) Il Giusto processo e la protezione del minore Puer Franco Angeli 2011 L’opera regala contributi di studio che prestigiosi autori hanno reso nell’ambito del XXVII Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia svoltosi a Brescia nel 2008 in occasione del sessantesimo anniversario della Costituzione. L’introdu- IN LIBRERIA zione di Cesare Ruperto, Presidente emerito della Corte Costituzionale ricorda la sovranità delle regole e dei valori costituzionali sul legislatore, sugli operatori del diritto primi tra tutti sui giudici che nei processi sono deputati ad investire la Corte del giudizio di costituzionalità di ciascuna legge ritenuta non conforme alla Costituzione prima di applicarla. La prima parte dell’opera affronta l’importante questione dell’ascolto dei bambini nei procedimenti civili con un richiamo alla rilevante normativa di riferimento a livello internazionale ed europeo sino alla previsione del nuovo testo dell’art. 155 sexsies c.c. introdotto dalla Legge n. 54/2006. Esamina gli orientamenti interpretativi circa la obbligatorietà o la facoltatività dell’ascolto, le modalità, le condizioni e l’ambito dello stesso, ne precisa il contenuto processuale non diretto in ogni caso all’acquisizione degli elementi istruttori. Al minore deve essere data la possibilità di essere ascoltato in relazione a qualsiasi procedimento che lo riguardi e la mancanza di ciò, in forza del Regolamento CE 2201/03, costituisce motivo di rifiuto del riconoscimento negli Stati membri delle decisioni straniere relative alla potestà genitoriale. La seconda parte più specificamente si occupa dell’impatto delle regole del giusto processo ex art. 111 Cost. sui procedimenti giudiziari aventi ad oggetto la protezione e l’affidamento dei minori ed il fine della realizzazione del loro superiore interesse. I diversi contributi evidenziano come il giusto processo necessiti di specializzazione con approccio multidisciplinare dei giudici onorari in ragione dei mutamenti profondi che la società repentinamente subisce, di maggiore raccordo tra i pubblici ministeri ed i servizi sociali ed in genere con tutti i soggetti che si occupano di assistenza e che possono riferire sulle condizioni di pregiudizio o abbandono di un minore. Il giusto processo richiede anche maggiore chiarezza e competenza circa l’esercizio delle funzioni di difensore dei genitori e di curatore speciale/avvocato del minore quale parte del processo mentre le consulenze tecniche dovrebbero ridurre al minimo i disagi per i minori ed essere espletate solo se strettamente necessarie; nelle stesse il minore dovrebbe trovare un suo spazio di accoglienza che lo aiuti a chiarire ed attenuare “il dolore confusivo” in cui è immerso. La terza parte è poi dedicata al ruolo dei servizi sociali nei processi minorili ed al rapporto tra questi ed i tribunali - terzi ed imparziali - che dovrebbe essere equilibrato e rispettoso del principio del contraddittorio. Un approfondimento viene riservato nella quarta parte al processo penale minorile imperniato sul principio della personalità del minore, della rapida uscita del minore dall’area penale, della minore offensività del processo e del recupero sociale del minore. Di particolare interesse è l’analisi del mutamento del processo penale minorile in base al nuovo concetto di “devianze minorili” che ha cambiato volto in ragione dell’evoluzione negli anni del concetto di famiglia e del termine di adolescenza. I contributi della parte quinta descrivono in maniera puntuale i dodici principi deontologici destinati ai giudici che si occupano di minori e di famiglia, principi recepiti nel Codice etico approvato dall’IMJF il 24 aprile 2010 che riprende ed integra i principi di Bangalore approvati a l’Aja il 26 novembre 2002. Da ultimo, i lavori dei gruppi di studio evidenziano la possibilità di individuare, attraverso una analisi comparativa di esperienze straniere, gli elementi per una riforma ordinamentale e processuale della materia capace di dare maggiore chiarezza e definitività alla leggi che la regolano come quella sull’affido condiviso (legge 54/2006) e quella sui procedimenti di adozione e de potestate (legge 149/2001 entrata in vigore l’1 luglio 2007). L’obiettivo del testo che è rivolto a tutti gli utenti del diritto, è quello di fornire nuovi ed utili spunti di cambiamento alla situazione attuale della giustizia minorile. gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 61 IN LIBRERIA MICHELE SESTA Manuele di Diritto di Famiglia CON SCHEMI RIASSUNTIVI Cedam, quarta edizione 2011 Manuale del diritto di famiglia o meglio delle relazioni familiari, testo di facile lettura e comprensione rivolto a chiunque, non solo agli studenti. L’autore passa in rassegna gli istituti fondamentali del diritto di famiglia arricchiti dei nuovi contenuti apportati dalle regole dettate dalla legge sull’affido condiviso ma anche dalle norme esistenti in ambito internazionale e comunitario a soddisfazione degli interessi della famiglia intesi come interessi dei singoli che ne fanno parte con uno sguardo attento alla tutela dei figli. Il matrimonio e le condizioni per contrarlo, i diritti e doveri nascenti dal matrimonio la cui violazione, se produttiva di un danno ingiusto derivante della lesione della persona costituzionalmente tutelata, è fonte di responsabilità giuridica a prescindere dal rimedio dell’addebito. Analizzando gli effetti patrimoniali discendenti dal vincolo matrimoniale, si sottolinea il progressivo abbandono del regime della comunione in favore della separazione dei beni (art. 215 c.c.), degli altri regimi pattizi (artt. 167 e 210 c.c.) e degli altri regimi patrimoniali atipici (artt. 167 c.c. 62 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 e 30 L. 218/95). Ipotesi di autonomia dei partners nel disporre del loro rapporto che traggono spunto dalle diverse esperienze in essere in atri Paesi a migliore tutela del “coniuge debole” per una equa allocazione della ricchezza familiare. L’impresa familiare e la prosecuzione dell’attività imprenditoriale a seguito della morte dell’imprenditore (artt. 768 bis e ss. c.c. introdotti dalla L. 14/02/06 n. 55). Accanto alla tutela della famiglia fondata sul matrimonio si pone la necessità di una adeguata tutela giuridica per le convivenze di fatto anche omosessuali - già disciplinate come matrimoni negli ordinamenti di vari Paesi - attraverso il processo di valorizzazione della sfera individuale dei membri della famiglia. L’autore affronta la copiosa disciplina della rottura del matrimonio e dei suoi effetti di natura personale, patrimoniale e nei riguardi dei figli rapportandola al fenomeno diffuso della famiglia di fatto e della famiglia ricomposta attraverso la rassegna di vari progetti di legge ad iniziativa parlamentare non giunti però a compimento. Il testo dedica particolare attenzione al rapporto genitore-figlio ricordando come l’ordinamento, sensibile all’indissolubilità dello stesso al di là del matrimonio, sia arrivato all’unificazione dello status di filiazione. I minori ed i suoi bisogni sono al centro dell’attenzione del diritto di famiglia che si evolve sulla scorta degli orientamenti emersi in sede internazionale. Accanto alla valorizzazione dei diritti dei minori, l’autore segnala lo sviluppo di una maggiore sensibilità da parte della famiglia (amministrazione di sostegno o art. 155 quinquies co. 2 c.c.) agli obblighi di cura ed assistenza dei soggetti deboli (anziani, Handicap). L’attuazione dei doveri di solidarietà connessi alla famiglia riguarda anche l’imponente flusso migratorio che interessa il nostro sistema con parti- colare riferimento al ricongiungimento familiare. Michela Sesta affronta il tema della responsabilità civile nell’ambito delle relazioni familiari. Responsabilità che muta in ragione dei “nuovi danni” elaborati negli ultimi anni dalla giurisprudenza per poi concludere con pratici schemi riassuntivi di tutti gli argomenti trattati nel manuale. GIULIA CONTRI (a cura di) Minori in Giudizio. La Convenzione di Strasburgo Puer Franco Angeli 2011 Si segnala nella Collana Puer edita da Franco Angeli una ottima pubblicazione dal titolo Minori in Giudizio - La convenzione di Strasburgo a cura di Giulia Contri che è psicoanalista e avvocato della salute, docente presso la Scuola della “Società Amici del pensiero Sigmund Freud di Milano” nonché collaboratrice con la rivista MinoriGiustizia; occupandosi, altresì, del riordinamento di minori in difficoltà in famiglia, nella scuola e nel giudiziario. Il libro il cui sottotitolo è La Convenzione di Strasburgo si rivolge alle diverse professionalità del giudice, dell’avvocato, dello psicologo, dell’assistente sociale e degli operatori a vario titolo dell’ambito giudiziario al fine di verificare quale sia lo stato appli- IN LIBRERIA cativo della Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei minori adottata dal Consiglio d’Europa il 25 Gennaio 1996 proponendo una serie di interventi di esperti di quelle richiamate categorie che, nell’ambito di procedimenti giudiziari, si trovano a doversi confrontare con le problematiche tutte quante imperniate attorno al minore ed alla sua capacità di “stare in giudizio”. Sin dalla premessa l’autrice ci rappresenta come a far da materia e da spunto per il testo sia il Colloquio dal titolo capacità del minore e Convenzione di Strasburgo promosso dalla Società “Amici del Pensiero Sigmund Freud” di Milano dell’Ottobre 2009. I contributi dei relatori sono stati ri- portati in relazione alle tematiche trattate. Il lettore è accompagnato nella lettura da una alternanza tra le riflessioni a carattere prioritariamente giuridico e quelle più propriamente a carattere psicologico e sociale. La prima, la seconda e la quarta sezione del libro si soffermano nell’esame puntuale del diritto del minore ad essere parte nel giudizio nonché alla capacità di quest’ultimo a stare in giudizio mentre la terza e la quinta si soffermano sui risvolti psicologici e sociali della presenza del minore nel giudizio. Il percorso narrativo si snoda attraverso riflessioni e contributi tesi a focalizzare l’attenzione del lettore circa il ruolo svolto dal bambino nel processo procedendo attraverso l’analisi dell’evoluzione giurisprudenziale tra la capacità giuridica e di agire, capacità di intendere e di volere, per poi addentrarsi nell’analisi del peso che potrebbe essere dato all’opinione espressa dal bambino in giudizio con riferimento alla “capacità di discernimento” del minore; ciò anche alla luce della Legge 20 Marzo 2003, n. 77. L’analisi clinica del minore, dell’evoluzione della sua capacità di discernimento, la sua attitudine a comprendere la società per inserirvisi con l’ausilio dei genitori e i metodi approntati dall’Ordinamento interno ed internazionale per la rieducazione del bambino e la sua imputabilità, trovano ampio spazio di approfondimento, permettendo al lettore di avere maggiori spunti nell’avvicinarsi alle problematiche giuridiche nelle quali può essere coinvolto il minore. Di particolare interesse è l’analisi svolta della Convenzione di Strasburgo sul ruolo dell’avvocato nonché sulla relazione avvocato/minore intesa come avvocato/assistito nonché sulla necessità di promuovere la presenza in giudizio del minore e non sostituirla; il tutto alla luce del paradosso della Convenzione per il quale al minore è riconosciuto il diritto a stare in giudizio ma non bisogna coinvolgere il minore in un giudizio. La sesta sezione vuole soffermarsi sulla formazione dell’avvocato relativamente all’attività alla quale è chiamato in tali giudizi con particolare attenzione al modo di rapportarsi del “Legale” con il minore laddove il suo compito è quello di aiutare il minore a fare valere il proprio pensiero e non sostituire il proprio a quello del minore, a tale fine vengono elencate “sette regole d’oro” da seguire nell’assistenza del minore. Un libro da leggere anche per i “non addetti ai lavori” anche quale spunto di riflessioni rispetto a tematiche di interesse oltre che giuridico anche sociale. gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 63 IN LIBRERIA GILDA FERRANDO e LEONARDO LENTI (a cura di) La separazione personale dei coniugi in Trattato teorico-pratico di diritto privato diretto da Guida Alpa e Salvatore Patti Cedam, Padova, 2011 Il volume offre al lettore un insieme veramente interessante di contributi sulla separazione personale dei coniugi. La prima parte raccoglie riflessioni aggiornate sulla separazione consensuale (Gilda Ferrando), sulla separazione giudiziale (Leonardo Lenti) e sulla separazione di fatto (Luciano Oliviero) a cui si accompagnano uno studio sulla riconciliazione (Luciano Oliviero) e sugli ordini di protezione (Roberta Barbanera). La seconda parte del volume tratta degli 64 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012 effetti della separazione sui rapporti personali tra i coniugi (Leonardo Lenti), dell’affidamento dei figli (Gilda Ferrando), dell’assegnazione della casa familiare (Gilda Ferrando), delle questioni relative al mantenimento coniugale e dei figli (Luciano Oliviero). La terza parte affronta sia le questioni processuali con una riflessione sul processo di separazione (Gianfranco Dosi), sia i profili connessi alla violazione dei doveri familiari e alla responsabilità civile (Leonardo Lenti); si passano poi in rassegna alcuni profili di diritto internazionale e dell’unione europea (Joelle Long) e gli aspetti fiscali (Agnese Querci). Chiude il volume un’interessante rassegna che prende in considerazione più punti di vista su alcune grandi questioni problematiche offrendo un panorama dei più significativi orientamenti della giurisprudenza. MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA Avvocati di famiglia Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Le sezioni territoriali dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Ancona Arezzo Ascoli Piceno Asti Avellino Avezzano Barcellona Pozzo di Gotto Bari Belluno Benevento Bolzano Brescia Cagliari Caltanissetta Campobasso Caserta Cassino Catania Chiavari Chieti Civitavecchia Crotone Cuneo Firenze Frosinone Genova Grosseto Isernia La Spezia Larino Termoli Latina Livorno Lodi Lucca Macerata Massa Messina Milano Napoli Nola Nuoro Oristano Palermo Parma Perugia Pesaro Pescara Pisa Pistoia Prato Reggio Calabria Reggio Emilia Rieti Roma Roma Sud Rossano Salerno Sassari Siracusa Taranto Tempio Pausania Teramo Torino Trani Treviso Udine Varese Velletri Verona Vibo Valentia