LA MEDICINA MODERNA E LE SCELTE ALLA FINE DELLA VITA Dr. Giuseppe Renato Gristina Dr. Luciano Orsi Indice Considerazioni preliminari Introduzione Al letto del malato La posta in gioco Un nuovo approccio: la via dell’esperienza Conclusioni Pag. 2 7 9 13 15 18 1 CONSIDERAZIONI PRELIMINARI Il miglioramento delle condizioni di vita e della qualità dell’assistenza sanitaria hanno determinato, nel nostro paese come in tutte le nazioni sviluppate, un progressivo allungamento della vita media. Negli ultimi 50 anni l'aspettativa media di vita alla nascita è passata da 46.5 anni (1950-­‐1955) a 66.0 anni (2000-­‐
2005) e si prevede che entro 30 anni gli over-­‐sessantacinque ammonteranno a un terzo dell’intera popolazione mentre gli over-­‐ottanta passeranno dall’attuale 5.8% al 13.6%. 1 Questi risultati, indubbiamente apprezzabili, hanno tuttavia contribuito ad alimentare il mito di una medicina onnipotente, ma hanno anche indotto una costante crescita del numero dei malati affetti da patologie degenerative, in particolare da insufficienza cronica di uno o più organi (cerebrale, cardiaca, polmonare, renale, epatica). Oggi, più del 5% dei circa 8 milioni di ricoveri effettuati annualmente nei nostri ospedali è costituito da insufficienze croniche d’organo, con una spesa pari al 5% della spesa sanitaria complessivamente dedicata ai servizi ospedalieri (circa 25.000.000.000 €; 4.1% del PIL). 2 Il progressivo invecchiamento della popolazione rimodulerà questa spesa riducendola a 1/3 per gli under-­‐
sessantacinque e raddoppiandola per gli over-­‐ottanta. 1 Secondo lo studio multicentrico europeo Senti-­‐MELC, che ha analizzato le traiettorie dei malati affetti da insufficienza cronica 3 nel nostro paese, negli ultimi 3 mesi di vita la gran parte dei trasferimenti avviene da casa a ospedale nel tentativo, spesso improprio, di prolungare la sopravvivenza; solo in un caso su dieci avviene l’inverso e solo un malato su dieci si sposta da casa a hospice. Peraltro, ricoveri prolungati o ripetuti nel fine vita o la morte in ospedale, sono unanimemente considerati dalla letteratura scientifica come indicatori attendibili di bassa qualità del morire, tenuto conto che la maggior parte dei malati esprime il desiderio di essere curata e morire a casa, che il rischio di essere sottoposti a terapie sproporzionate (e spesso non volute) è più alto in ospedale e, infine, che in quell’ambiente i bisogni fisici e psicosociali hanno minore probabilità di essere intercettati e soddisfatti. 4 È probabile che tra le cause che sostengono questo atteggiamento vi sia anche la mancanza di abitudine a valutare accuratamente la proporzionalità delle cure, intesa come bilancio dell’appropriatezza tecnico-­‐medica degli interventi terapeutici in relazione al raggiungimento di determinati obiettivi di salute o di sostegno vitale 1
http://www.ansa.it/saluteebenessere/notizie/rubriche/salute/2013/11/12/Golini-­‐Istat-­‐2050-­‐65-­‐terzo-­‐
italiani_9607094.html (last accessed 2014 august) 2
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1930_allegato.pdf (last accessed 2014 august) 3
Bertolissi S, Miccinesi G, Giusti F. Come si muore in Italia. Storia e risultati dello studio Senti-­‐MELC. Rivista Società Italiana di Medicina Generale 2012; 2: 17 – 34 4
http://www.plosmedicine.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pmed.1001410 (last accessed 2014 august) 2 per il malato; stando alla letteratura internazionale, porsi l’obiettivo errato è il principale fattore predittivo di comportamenti clinici e pratiche inappropriate nella gestione del fine vita. 5 Secondo la definizione di cure palliative offerta dall’OMS prendere in carico la persona avviata alla fine della vita significa assumere una chiara responsabilità nei suoi confronti e dare una risposta globale ai suoi bisogni fisici, psicologici, sociali e spirituali, garantendo a lui e ai familiari un’appropriatezza dell’assistenza, delle terapie, degli interventi sociali e della relazione di aiuto, con una particolare attenzione rivolta alle condizioni organizzative e agli aspetti etico-­‐giuridici. 6 Di conseguenza una cura di qualità sarà compiutamente realizzata solo adottando un approccio multidisciplinare, dove gli abituali curanti e il personale specialistico palliativista collaborano per poter riconoscere e soddisfare, per quanto possibile, ogni tipo di bisogno di salute. 7 Avvalersi dei servizi di cure palliative nell’assistenza di fine vita è invece la soluzione meno frequentemente attuata; in Italia infatti, solo il 37% di tutti i soggetti deceduti ha avuto accesso a uno o più di questi servizi, mentre il 63% non se ne è giovato, e, pur risultando il servizio di cure palliative domiciliari il più attivato tra i servizi specialistici, esso presenta una fruizione assai disomogenea sul territorio nazionale. 8 Per quanto attiene al carico assistenziale richiesto ai familiari di questi malati, assistere una persona morente è invece quasi sempre un’esperienza di forte impegno fisico ed emotivo, che nei resoconti appare tanto più gravoso quanto più giovane è il deceduto. 3 Circa la capacità di prendere decisioni negli ultimi giorni di vita, risulta che una persona su due non sia assolutamente più in grado di farlo e solamente un individuo su quattro appare ancora mentalmente competente; per converso, mentre oggi i medici sembrano comunicare correttamente la diagnosi all’inizio della malattia, permangono scarsamente inclini ad affrontare i temi dell’inguaribilità e della prognosi infausta durante tutto il decorso della malattia. Ne risulta un’insufficiente consapevolezza prognostica che impedisce ed un reale coinvolgimento dei malati nella scelte di fine vita attraverso una consapevole pianificazione anticipata delle cure. 3 In ultimo, i dati forniti dal GiViTI (Gruppo Italiano di Valutazione degli Interventi in Terapia Intensiva – Istituto Mario Negri di Milano) mostrano che la mortalità di questi malati quando sono ricoverati in Terapia Intensiva (T.I.) è da 2 a 4 volte quella della popolazione generale dei ricoverati in quei reparti (pari al 18%). Un’insufficienza cronica d’organo costituisce dunque un importante fattore determinante la mortalità, poco modificabile dal ricovero nei reparti di T.I. 9 5
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK11874 (last accessed 2014 august) http://www.who.int/cancer/palliative/definition/en (last accessed 2014 august) 7
http://www.fondazionefloriani.eu/cure-­‐palliative (last accessed 2014 august) 8
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2195_allegato.pdf (last accessed 2014 august) 9
GiViTI -­‐ Progetto Margherita PROSAFE – PROmoting patient SAFEty research and quality improvement in critical care medicine. RAPPORTO 2012. Bergamo: Edizioni Sestante, 2013 -­‐ http://www.giviti.marionegri.it/Monografie.asp (last accessed 2014 august) 6
3 Così, le problematiche connesse alla fine della vita trovano nella medicina attuale, una cornice particolare che ne esalta la dimensione etica, imponendo una riflessione sui limiti da porre alle cure. Infatti, dietro la loro sinteticità, le informazioni sopra riportate nascondono un complesso di questioni umane la cui rilevanza morale risiede nel fatto che, grazie allo sviluppo della ricerca farmacologica, biotecnologica e clinica, malattia avanzata e terminalità si possono trasformare in un processo artificialmente e dolorosamente prolungato nel tempo. Tutto ciò apre questioni sul significato di concetti quali: appropriatezza terapeutica, eccesso dei trattamenti (cosiddetto accanimento terapeutico), cure sproporzionate. Questi temi hanno suscitato nella medicina attuale una triplice riflessione: 1) l’evoluzione scientifica, nel suo incessante processo di ridefinizione prima e successivo superamento poi dei limiti biologici, impone un continuo riesame critico dei classici principi etici; 2) che cosa sia bene e giusto fare o non fare in termini clinico-­‐
assistenziali nei confronti dei malati terminali; 3) se questo fare o non fare, esito pratico della riformulazione dei principi morali, debba esser sottoposto alle leggi dello stato oppure se sia possibile ammettere un’area in cui la condotta delle persone sia affidata prevalentemente alle regole derivanti dalle responsabilità individuali e professionali e in cosa queste davvero consistano. Nel nostro paese si è aperto in merito un dibattito tra credenti e non credenti. Il pensiero laico sostiene che i concetti di bene e giusto, quando posti a confronto con le nuove situazioni prodotte dal progresso scientifico, non trovano più una risposta automatica, univoca, sempre sufficiente ed efficace in quanto derivata da valori morali rigidamente codificati, richiedendo invece una costante analisi critica dei principi etici generali ed uno sforzo elaborativo dei nuovi riferimenti etici nati dalle convinzioni profonde raggiunte dalla coscienza morale dei malati, dei loro prossimi, degli operatori sanitari. Così, i non credenti affermano la necessità di abbandonare la concezione che fa derivare comportamenti stereotipati da rigide norme morali elaborate secondo il dettato di una qualsiasi autorità etico-­‐morale, per fare spazio ad una teoria morale che analizza in modo critico l’applicazione dei classici principi morali, proponendosi di affiancare le persone nell’acquisizione della consapevolezza di essere individui moralmente abilitati a compiere scelte etiche responsabili (etica critica). Beauchamp e Childress 10 nel 1979 varano una precisa tendenza dell’etica medica moderna: in mancanza di un riferimento a principi etici assoluti vengono stabiliti principi etici generali da cui derivano norme morali cui bisogna fornire contenuti e specificazioni ulteriori in relazione alla specificità dei singoli casi. L’evoluzione dell’etica medica, basandosi sui diritti più che sui doveri dei malati, ha pertanto riconfigurato gli schemi della relazione sanitario/malato. 10
Beauchamp TL Childress JF. Principi di bioetica. pp 127 – 185 Ed. Le Lettere, Firenze 1999 4 La Chiesa Cattolica, è entrata nel dibattito con due anime che hanno espresso ciascuna una prevalente preoccupazione: la prima, più intransigente, ha sottolineato l’indisponibilità della vita umana paventando che la limitazione delle cure attive potesse aprire all’eutanasia, la seconda è apparsa più attenta a non negare la considerazione pastorale alla sofferenza dei morenti e a tutelarli dalla erogazione di trattamenti sproporzionati. Il Cardinale Martini, richiamandosi con lucidità al contenuto del capitolo 5 del Catechismo della Chiesa Cattolica 11
(… l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire…) ha distinto l’eutanasia dalla rinuncia all’accanimento terapeutico ponendo l’accento su due questioni: la legittimità della limitazione delle cure intesa come loro interruzione quando giudicate sproporzionate dal malato stesso e l’esigenza di elaborare una normativa “che consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto informato delle cure – in quanto ritenute sproporzionate dal malato – senza che questo implichi l’eutanasia ”. 12 Purtroppo, il dibattito teorico e pubblico si è impuntato su quella che potremmo sinteticamente definire l’antinomia tra disponibilità/indisponibilità della vita umana, alimentando uno sterile scontro ideologico tra credenti e non credenti che si è presto trasferito sul piano politico, non senza effetti deleteri. Ne è risultata agevolata l’opera di chi ha praticato un’interdizione al dialogo finalizzata al mantenimento dello statu quo, impedendo ogni reale progresso che in una società plurale non può che passare attraverso l’ammissione della legittimità del pensiero altrui, e degradando i contenuti morali della politica. Il risultato concreto è rintracciabile nell’incapacità a tutt’oggi di conservatori e progressisti ad affrontare l’ipotesi di varare una legge sulla fine della vita. Invece, appare sempre più urgente fornire a questo tema una risposta normativa adeguata, che mantenga un riferimento costante all’esperienza quotidiana dei malati, dei loro cari e degli operatori sanitari, che, in un’ottica empirica, temperi l’astrattezza di principi etici generali, rendendoli realisticamente applicabili alle vicende individuali di malattia terminale. In questo panorama sorgono almeno tre nuovi quesiti: a fronte della sterilità del dibattito nel nostro paese, l’etica ha o no qualcosa da dire sul tema della fine della vita a quei malati e ai loro cari che sperimentano le nuove condizioni del morire? Può o no l’etica intervenire concretamente fornendo risposte ai professionisti sanitari circa i comportamenti da tenere nei confronti dei morenti e delle loro famiglie, offrendo un tessuto connettivo ideale nel quale integrare gli elementi di giudizio forniti dalla scienza? L’etica ha un ruolo nello sviluppo morale di questo specifico contesto sanitario? 11
Catechismo della Chiesa Cattolica Libreria Editrice Vaticana 2005; sez. II, art. 5, par. 2278 -­‐ 2279 http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Attualita%20ed%20Esteri/Attualita/2007/01/cmmartini_210107_io_wel
by_morte.shtml (last accessed 2014 august) 12
5 Il problema è tutt’altro che secondario, poiché dare una risposta a questi quesiti definisce prima di tutto se le questioni pratiche che riguardano la vita e la morte degli esseri umani – quindi non solo le loro scelte ideali in quanto tali (ciò in cui si crede), ma anche i comportamenti che ne derivano (ciò che di conseguenza si fa) – rientrino ancora nella sfera etica o se questa risposta debba divenire unico appannaggio di chi emana norme prescrittive per i cittadini, cioè del legislatore. Se valesse la seconda ipotesi, sarebbe allora inevitabile affermare che l’etica non rappresenta più il luogo dove gli umani impostano reazioni agli eventi che li riguardano definendo in ogni singola situazione cosa sia meglio fare per sé e per gli altri o come e se sia possibile aiutare un altro essere umano e i suoi cari lungo tutta la traiettoria di malattia. E’ quindi evidente che assumersi la responsabilità di mantenere bloccato il processo di sviluppo del ragionamento morale, ancorandolo al tema della disponibilità/indisponibilità della vita umana, significa minare l’architrave della sua intrinseca coerenza, cioè il nesso tra i modi in cui una giustificazione morale opera e l’elaborazione di una risposta alle domande: cosa fare, come agire eticamente? Il rischio implicito in questa deriva giuridica totalizzante è quello di ricercare una soluzione normativa per ogni situazione. In questo modo la preoccupazione circa i rilevanti interessi morali di chi è candidato a morire e di chi se ne deve prendere cura rischia di risolversi in una mera procedura tecnica che, attraverso l’inevitabile svuotamento morale dei soggetti implicati, è finalizzata a concludere una negoziazione – non una relazione – sulle convenienze di volta in volta prevalenti (del medico, del malato, dei suoi cari), non più ispirata alla considerazione dei bisogni morali di coloro che sono e saranno coinvolti nella fase finale della vita. Così, nell’attuale contesto sanitario – negli ospedali o nel territorio – i malati al termine della vita e gli operatori sanitari sono soli di fronte agli interrogativi citati in esordio: esiste un diritto a morire? Esiste un dovere di lasciar morire? Quest’ultima opzione equivale all’eutanasia? Sono lecite le direttive anticipate? Come definire nella pratica clinica quotidiana l’accanimento terapeutico e le cure sproporzionate? I sanitari rimangono (e sono lasciati) soli di fronte ai problemi etici della fine della vita, schiacciati tra i loro dubbi e le loro responsabilità deontologiche e giuridiche, con il timore di essere accusati di omicidio da chi vuol loro negare una coscienza morale autonoma o ridotti a meri tecnici da coloro che, sottovalutando i danni di una deriva contrattualistica, ritengono che il ruolo del medico e dell’infermiere consista nel garantire indifferentemente vita o morte a seconda delle necessità di chi ne fa richiesta, e che, di fatto, finiscono anch’essi per negare agli operatori sanitari una coscienza morale e un’autonomia di giudizio. Le considerazioni contenute in questo documento sul tema della fine della vita, si pongono in modo deliberato su un piano prevalentemente pragmatico non per mancanza di fiducia nei confronti dell’elaborazione teorica, ma perché medici ed infermieri devono trovare oggi risposte concrete da dare alle suddette domande. Questo può avvenire soltanto trasformando la pratica clinica in una pratica della relazione di cura nel cui ambito 6 l’esistenza delle due parti e la tenuta del ragionamento morale che legittima le richieste e giustifica le scelte terapeutiche sarà sostanziata dal reciproco riconoscimento, dal reciproco dialogo. Questo documento ha un duplice obiettivo: dimostrare che i professionisti sanitari si stanno riappropriando, seppure faticosamente, di un loro specifico contenuto etico-­‐culturale: la malattia, il dolore e la morte fanno parte della vita e sono ineludibili in quanto biologicamente intrinseci alla natura dell’essere umano; che attraverso questa verità è possibile restituire dignità ai morenti secondo scienza e coscienza, riconoscendo che laddove non è più possibile guarire è almeno possibile curare lenendo la sofferenza e garantendo una morte dignitosa. INTRODUZIONE La cultura tecnica dei moderni sistemi sanitari si fonda su due funzioni cruciali strettamente connesse: 1) l’uso routinario di un armamentario tecnologico, diagnostico e terapeutico, fino ad ora mai visto nella storia delle istituzioni ospedaliere; 2) l’impiego di tale armamentario per la cura dei malati più gravi, quelli sui quali si addensa il maggior rischio di morte. Queste funzioni si articolano in trattamenti e procedure il cui grado di invasività e aggressività è direttamente proporzionale al livello di gravità della malattia che ha generato il ricovero. E’ nei luoghi di cura che la medicina moderna porta oggi alle estreme conseguenze la concezione secondo la quale “la malattia è un processo naturale che colpisce il corpo” 13 ed è sulla deviazione dalla norma dei parametri fisiologici indotta dalla malattia che, attraverso il monitoraggio e i trattamenti, si concentra l’attenzione dei sanitari, essendo loro funzione storica quella di mantenere in vita i corpi tramite tecnologia e farmaci. Tuttavia, cogliendo gli aspetti irrisolti di questo agire, un documento condiviso da dieci società scientifiche a proposito di cure ai malati morenti 14, 15, definisce criteri clinici, etici e strumenti di valutazione complessiva utili a prendere in esame la possibilità di compiere scelte di trattamento palliativo, finalizzate a promuovere un controllo delle sofferenze e un accompagnamento alla terminalità, supportando loro e i loro cari in una fase così delicata e importante della loro esistenza. 13
Jaspers K. Il medico nell’età della tecnica, trad. it. Raffaello Cortina, Milano 1991 Gristina GR, Orsi L, Carlucci A, Causarano IR, Formica M, Romanò M, per il Gruppo di Lavoro Insufficienze Croniche d’Organo. PARTE I: il percorso clinico e assistenziale nelle insufficienze croniche d’organo “end-­‐stage”. Documento di consenso per una pianificazione condivisa delle scelte di cura. Recenti Prog Med 2014;105(1):9-­‐24 doi 10.1701/1398.15554 (last accessed 2014 august) 15
Gristina GR, Orsi L, Carlucci A, Causarano IR, Formica M, Romanò M, per il Gruppo di Lavoro Insufficienze Croniche d’Organo. PARTE II: evidenze scientifiche nelle insufficienze croniche d’organo “end-­‐stage”. Documento di consenso per una pianificazione condivisa delle scelte di cura. Recenti. Prog Med 2014;105(1):25-­‐39 doi 10.1701/1398.15555 (last accessed 2014 august) 14
7 Quest’altra anima della medicina ha aperto, specialmente negli ultimi anni, uno spazio sempre più ampio alla riflessione bioetica, attribuendole il ruolo di coscienza critica del sapere e della prassi scientifica in ambito clinico; essa ricerca nella relazione di cura che si sviluppa in un contesto umano e clinico di confine, una vera e propria alleanza per preparare e tutelare la parte finale della vita. Così, nel nostro settore di lavoro, la bioetica può intendersi come il processo culturale, multidisciplinare, pluralistico con cui definire e comprendere le questioni morali originate dai mutamenti che la medicina ha provocato circa il nascere, il curarsi ed il morire degli umani. Ed è qui, su questo ultimo confine, che le relazioni che il malato riuscirà ad instaurare in modo del tutto difforme da quello convenzionale, saranno forse per lui le ultime possibili. E’ qui che i sani, medici, infermieri e familiari si confrontano con lo spaesamento delle forti emozioni di fronte alla morte e di fronte alle scelte che ogni volta la precedono, scelte gravose per la fatica di reggere il ruolo che le sancisce, o semplicemente per il fatto di accompagnarle. 16 Proprio questo aspetto conferisce al rapporto tra operatore e malato giunto alla fine della vita, un taglio improntato ad un’autentica drammaticità, tanto solenne quanto privata, che non può essere costretta in alcun paradigma ideologico o giuridico. Hans Jonas descrive questo travaglio: “…Ma in uno stadio finale ormai insensibile a qualsiasi trattamento […] la richiesta di calmanti è più forte del divieto di nuocere e persino di accorciare la vita e dovrebbe trovare ascolto […] Il danno influisce sulla durata della vita, il sollievo accorcia il lasso di tempo che rimane: ma ciò avverrebbe a vantaggio proprio di questo resto di vita, che guadagnerebbe in qualità più di quanto perderebbe in quantità. Né dal punto di vista morale né da quello giuridico è possibile porre sullo stesso piano l’uccidere e questa sorta di scambio concordato col malato, tra sopportabilità e durata della sua condizione di moribondo…”. 17 Cosa vi è di più estremo nella relazione tra due esseri umani, dopo aver garantito ogni tentativo per assicurare la sopravvivenza, della richiesta da un lato di alleviare il dolore fisico e la sofferenza e dall’altro di offrire analgesia e sedazione come gesto ultimo di solidarietà? Si tratta di due tensioni: quella dell’inizio della cura in cui tutto è ancora possibile e quella della fine della cura, che, se bilanciate, alimentano significati nuovi ed inattesi: spazio tanto aperto alla relazione umana quanto chiuso alla rigidità di assunti teorici universali, ove è possibile cogliere attraverso una semeiotica relazionale, non limitata alla sola dimensione fisica, i fenomeni del vissuto personale di malattia e, con essi, l’inevitabilità della sofferenza e della morte. Non quindi un sistema di norme statiche che ricavano autorevolezza da enti morali lontani ed esterni, ma norme etiche condivisibili e comprensibili seguendo ragione e sentimento, scienza e coscienza, pensando 16
Lally I, Pearce J. Intensive care nurses’s perceptions of stress. Nurs Crit Care 1996; 1:17-­‐25 Jonas H. Il diritto di morire. Ed. Il Melangolo, Genova 1991 17
8 anzitutto ad un’etica che sia la trama ordinata delle relazioni che, nel caso della medicina, sono di cura e solidarietà, tramite le quali restituire all’esperienza della malattia e della morte il ruolo che hanno come parte integrante della vita.
Come già sostenuto da Bacone 18: “…Io penso che l'ufficio del medico non è soltanto quello di ristabilire la salute, ma anche quello di mitigare i dolori e le sofferenze causate dalla malattia; e non solo quando ciò, come eliminazione di un sintomo pericoloso, può giovare a condurre alla guarigione; ma anche quando, perdutasi ogni speranza di guarigione, tale mitigazione serve soltanto per rendere la morte facile e serena. [...] Ma ai nostri tempi i medici si fanno una sorta di religione nel non fare nulla quando hanno dato il malato per spacciato; mentre, a mio giudizio, se non vogliono mancare al loro ufficio e quindi all'umanità, dovrebbero acquisire l'abilità di aiutare i morenti a congedarsi dal mondo in modo più dolce e quieto e praticarla con diligenza”. E’ solo in questo spazio non coercibile da codici, regolamenti, ordini o discipline, creato dalla comunione tra esseri umani e facente capo a diritti morali, che può concepirsi la desistenza dalle cure tradizionali come atto che, dismesso l’intento terapeutico finalizzato al controllo della malattia poiché da questa sconfitto, assume quello della pietas. Ed è comprensibile la sensazione diffusa di sollievo che nasce nell’esperienza del personale sanitario laddove le scelte di fine vita vengono condivise fino in fondo dall’équipe con il malato ove possibile e/o con i suoi cari; infatti, quando il peso viene ridistribuito sulle presenze, esserci e condividere alleggerisce il carico. 19, 20 La condivisione tra gli operatori e tra questi e i familiari, diviene elemento di rassicurazione e conferma dell’appropriatezza delle scelte che si compiono, anche in sostituzione di tutti coloro che non potranno esprimere una preferenza in alcun momento del processo clinico-­‐assistenziale: i malati stessi. AL LETTO DEL MALATO La scelta di garantire ad un malato una cura palliativa e non una cura tradizionale, rappresenta una decisione difficile da prendere o condividere per qualsiasi sanitario . 21, 22 In termini strettamente clinici, l’identificazione delle patologie che prevedono una simile decisione è resa oggi possibile grazie metodologie diagnostiche sufficientemente accurate. 18
Bacone F. Della dignità e del progresso delle scienze (1623), in Opere filosofiche, a cura di F. De Mas, Laterza, Bari 1965,vol. II, p. 214 19
Civetta JM. Futile care or caregiver frustration? A practical approach. Crit Care Med 1996;24:346-­‐351 20
Fins JJ, Solomon MZ. Communication in intensive care setting: the challenge of futility disputes. Crit Care Med 2001;29:10-­‐15 21
Thompson BT, Cox PN, Antonelli M. Challenger in end of life in the ICU: statement of the 5th international consensus conference in critical care: Brussels, Belgium, April 2003: Executive Summary. Crit Care Med 32: 100-­‐107, 2004 22
Drazen JM. Decisions at the end of life. N Engl J Med 349: 1109-­‐1110, 2003 9 In rapporto all’ineludibile processo di invecchiamento della popolazione e all’elevato grado di gravità, evolutività e irreversibilità raggiunto, queste malattie in molti casi sfuggono al tradizionale paradigma interpretativo (malattia-­‐diagnosi-­‐terapia-­‐stabilizzazione o guarigione) per collocarsi nel più appropriato contesto del processo biologico del morire. Non si tratta più di malati – concetto che sottende una probabilità di miglioramento della quantità e qualità della vita tramite una terapia – ma di morenti 23, di esseri umani che stanno concludendo in modo ineluttabile il loro ciclo vitale. E’ pertanto sempre più urgente poter disporre di strumenti culturali e legislativi, peraltro già elaborati in sede europea 24, che ci permettano non soltanto di garantire al malato che si avvia alla fine della vita un riconoscimento della sua peculiare condizione ma, attraverso questo riconoscimento, ridefinire funzioni, attività e compiti di ciascuna professionalità sanitaria nell’ambito di specifici ed inediti percorsi clinico-­‐
assistenziali dedicati. Al contrario, l’assunzione di responsabilità a limitare l’accesso alle cure tradizionali ivi inclusi i trattamenti intensivi, e la conseguente gestione della fase finale della vita, della morte e del lutto, costituiscono un complesso di problematiche che attualmente, in assenza degli insegnamenti di etica e comunicazione nelle scuole di medicina, solo alcuni medici tra i più esperti, eticamente motivati e con maggior familiarità con l’evento morte possono affrontare in modo adeguato; è quindi evidente, che in un simile contesto la decisione di limitare le cure rimanga appannaggio di una minoranza. Questa decisione, sentita come necessaria dal medico in ragione dell’intimo convincimento maturato in base alle evidenze scientifiche, diverrà possibile soltanto se apparirà conforme oltre che al giudizio clinico, anche alla volontà del malato e congrua con le risorse disponibili che si impegneranno alla luce della valutazione costo – rischio/beneficio. La triade: giudizio clinico, volontà del malato, entità/congruità delle risorse da impegnare, concorre a definire il concetto di appropriatezza delle cure, laddove il suo opposto – la inappropriatezza – configura quella che rispetto ad ogni singolo caso clinico definiamo in una valutazione prospettica cure sproporzionate e in una epicrisi retrospettiva accanimento terapeutico. 25, 26, 27 23
Malato ‘morente’ o ‘giunto al termine della vita’: colui che, accertate la gravità e l’irreversibilità della sua malattia in base a tutte le valutazioni professionali effettuate, sta concludendo in modo ineluttabile il suo ciclo vitale e per il quale non si può prevedere alcuna capacità di arresto della progressione del suo stato clinico verso la morte. In: LINEE GUIDA SIAARTI – Le cure di fine vita e l’anestesista-­‐rianimatore: raccomandazioni SIAARTI per l’approccio al malato morente. Minerva Anestesiol 2006;72(12):927-­‐63
24
http://undirittogentile.files.wordpress.com/2014/05/guida_finevita.pdf (last accessed 2014 august) 25
http://www.ipasvi.it/archivio_news/fad/7/Programma_del_corso_Appropriatezza.pdf (last accessed 2014 august) 26
Falcitelli N, Trabucchi M, Vanara F. Rapporto Sanità 2004. L’appropriatezza in sanità: uno strumento per migliorare la pratica clinica. 2004. Il Mulino, Bologna. 27
Pronovost PJ, Goeschel CA. Time to Take Health Delivery Research Seriously. JAMA 2011; 306 (3): 301-­‐311. 10 Oggi, consideriamo sproporzionati tutti i trattamenti che, per l’elevato grado di gravità e evolutività raggiunto dalla malattia, non possono più raggiungere l’obiettivo benefico per cui vengono posti in essere o che raggiungono l’unico evidente risultato di rallentare ma non interrompere il processo biologico della morte. 28 Così, attuare cure sproporzionate va contro il bene del malato, e, se tale cura è anche gravosa per lui, diventa un atto di maleficienza (fare il male del malato). Ciononostante, definire sproporzionata una cura non costituisce di per sé l’enunciazione di un principio morale, ma una valutazione empirica di un probabile esito clinico; tale definizione trae però forza morale dal fatto di essere una specificazione del principio di beneficialità (fare il bene del malato) che è il principio storico dell’etica clinica. Il concetto di cure sproporzionate può essere considerato sotto tre possibili approcci teorici incentrati rispettivamente sul concetto di giustizia distributiva, sull’approccio quantitativo e sull’approccio qualitativo. 19 Per quanto attiene al primo, è possibile affermare che, considerato l’attuale livello di sviluppo dei sistemi sanitari europei, la preoccupazione di un’adeguata distribuzione delle risorse non dovrebbe essere cruciale, ma nei paesi del terzo mondo la giustizia distributiva si presenta come un tema drammaticamente centrale nella gestione dei sistemi sanitari. Il secondo si riferisce alla probabilità che un determinato esito possa essere raggiunto con determinate cure; se la probabilità cade al di sotto di una definita soglia non è corretto proseguire poiché la cura è sproporzionata. Questa argomentazione prevede che si stabilisca quale deva essere la soglia, che vi sia in merito un accordo fra i membri dell’équipe, con la consapevolezza che non sempre esiste una netta evidenza scientifica in merito e che, in sintesi, l’approccio quantitativo è ambiguo e arbitrario. Il terzo prevede che una cura venga definita sproporzionata o proporzionata in funzione di un giudizio di qualità della vita che si può raggiungere avendo stabilito in merito un livello minimo accettabile in modo aprioristico. Il problema in questo caso è capire chi stabilisce quale deve essere il livello minimo accettabile di qualità della vita associata ad un determinato trattamento; questo aspetto è importante poiché spesso il medico stima la qualità di vita di un malato più bassa di quanto non facciano quest’ultimo o i suoi familiari. L’unica risposta a queste considerazioni è che solo il malato ha diritto di definire il proprio livello di vita accettabile. Così, ai fini della soluzione del problema se intraprendere/continuare o no cure tradizionali, il concetto di cura sproporzionata da solo è eticamente problematico e pragmaticamente poco efficace. 28
Hinshaw DB. When do we stop and how do we do it? Medical futility and withdrawal of care. J Am Coll Surg 2003;4(196): 1-­‐41 11 E’ possibile concludere che la decisione di passare dalle cure tradizionali alle cure palliative richiede qualcosa più del semplice rispetto dei principi di autonomia, beneficenza, non maleficienza che debbono improntare qualsiasi atto medico. Sarebbe infatti necessario che i clinici evitassero quanto più possibile l’inappropriatezza delle cure, ma anche giudizi guidati esclusivamente da una valutazione prognostica basata sull’evidenza scientifica. Essi, per poter effettuare la scelta di non erogare o sospendere i trattamenti in modo condiviso, dovrebbero piuttosto condurre un dialogo che, svolgendosi per tutta la durata della malattia nell’ambito di una pianificazione anticipata delle cure 29, sia mirato alla piena comprensione di cosa il malato desidera veramente alla luce dei valori ai quali si è ispirato nella sua vita. Solo così tale dialogo sarà fondato sul reale contesto biografico piuttosto che sulle sole considerazioni tecniche, e direttive anticipate maturate e consolidate in questo contesto diverrebbero allora esse stesse ancor più credibili e affidabili. 30 Accurati studi hanno infatti dimostrato che malati con malattie cronico-­‐degenerative in fase avanzata, quando interrogati circa la volontà di essere sottoposti a trattamenti intensivi, modificavano sensibilmente il loro punto di vista a seconda che la domanda fosse posta in modo generico o correlata ad un esito specifico quale la probabilità di non avere speranza di un recupero soddisfacente, di rimanere in un stato vegetativo persistente, di riportare importanti deficit cognitivi o di divenire un peso per i familiari. 31 In sintesi, per ovviare a queste difficoltà, sembra ragionevole coniugare i rigidi e puntuali criteri di valutazione clinica, con l’interpretazione che dei termini proporzionalità/non proporzionalità daranno in ogni singolo caso i malati o, se incapaci, i loro cari. Un così più ampio approccio deve raggiungere, a sua volta, l’equilibrio tra tre criteri: efficacia; benefici; costi. L’efficacia è una stima della capacità di un determinato intervento terapeutico di modificare positivamente la storia naturale di una malattia; l’efficacia deve rispondere al quesito: il trattamento modifica la prognosi? Il criterio dell’efficacia dipende totalmente dalla valutazione tecnico-­‐professonale; esso è incentrato da un lato sulla buona pratica clinica e dall’altro sulle evidenze scientifiche. I benefici si riferiscono a ciò che è percepito come utile dal malato o dai suoi sostituti; si tratta pertanto di una valutazione che pur tenendo conto del parere del sanitario, appartiene di fatto al dominio del malato. Il beneficio deve rispondere al quesito: vale la pena sottoporsi a questo trattamento? 29
Romer AL, Hammes BJ. Communication, trust, and making choices: advance care planning four years on. J Palliat Med 2004;7:335-­‐40 30
Briggs L. Shifting the focus of advance care planning: using an in depth interview to build and strengthen relationships. J Palliat Med 2004;7:341-­‐9 31
Steinhauser KE. Preparing for the end of life: preferences of patients, families, physicians and other care practitioners. J Pain Symptom Manage 22: 727-­‐737, 2001 12 I costi si riferiscono all’impegno fisico, emozionale, economico e sociale imposto dal trattamento al malato. I costi sono sia oggettivi (quelli che ricadono sotto il dominio del medico) che soggettivi (definiti dal malato) la domanda in questo caso è: quanto pesano effettivamente efficacia e benefici in termini di risorse da impiegare e rischi? Questo approccio unisce componenti oggettive e soggettive, integrando competenza e autorevolezza di ciascuna componente (malato, operatori sanitari) conferendo definitiva chiarezza terminologica e concettuale agli aggettivi proporzionato e sproporzionato con cui siamo soliti definire una qualsiasi cura tradizionale. In conclusione, quando i medici propongono in modo unilaterale e privo di alternative il concetto di cure sproporzionate come razionale per la sospensione o la non erogazione di cure attive, preparano il terreno per entrare in conflitto con tre fondamentali considerazioni proprie di molti malati: la vita è un bene da preservare; il parere del medico – la prognosi – è un elemento imprescindibile di valutazione; la decisione del malato, anche se gravosa, di accettare o meno un trattamento è inalienabile. Pertanto, l’unico modo per utilizzare correttamente il concetto di cure sproporzionate nella pratica clinica è quello di correlarlo costantemente da un lato alle valutazioni del malato o dei suoi sostituti adeguatamente informati, dall’altro alla previsione prognostica e ad un piano alternativo di azioni (cure palliative che comunque verranno garantite), concordato dai sanitari con il malato e/o con i suoi familiari. In conclusione, il concetto di cure sproporzionate non è né utile né applicabile se disgiunto dalla possibilità di individuare obiettivi di cura ritagliati per ogni specifico malato nell’ambito di una prospettiva proporzionata all’esito prognostico previsto che si può realizzare solo rispettando la volontà informata del malato, nel contesto della migliore relazione sanitario/malato. LA POSTA IN GIOCO Lo studio senti-­‐MELC già citato 3 e lo studio di Bertolini e coll. sulle scelte alla fine della vita in T.I. 32 ci forniscono un’informazione preziosa per l’esatta comprensione del problema e delle sue dimensioni: ci dicono che per la severità e complessità della malattia, i malati che si trovano nella fase finale della loro traiettoria di malattia non sono più in grado di esprimere una volontà (solamente un malato su quattro appare ancora competente tra quelli studiati a domicilio 3 mentre tra i malati di T.I. l’81% non è in grado di esprimere un consenso all’ingresso in reparto e l’88% non è in grado di esprimere un consenso al piano di cure32). E’ per questo che si avverte oggi una domanda profonda di chiarezza come elemento essenziale di un più generale bisogno di decisioni condivise. 32
Bertolini G, Boffelli S, Malacarne P, Peta M, Marchesi M, Barbisan C, Tomelleri S, Spada S, Satolli R, Gridelli B, Lizzola I, Mazzon D. End-­‐of-­‐life decision-­‐making and quality of ICU performance: an observational study in 84 Italian units. Intensive Care Med 2010;36:1495–1504 13 Ma cosa significa in questo speciale contesto la parola condividere? Certamente non un espediente per affidare ad altri la responsabilità delle scelte; piuttosto la ricostruzione delle volontà del malato alla luce dei valori cui si è ispirato nel condurre la sua esistenza, lasciando a tutti gli attori la possibilità di contribuire a questo che appare come un processo relazionale a più voci e non un singolo atto arbitrario. In sintesi, interpretare l’astensione dai trattamenti o la loro sospensione non come decisioni mediche unilaterali, ma come scelte cliniche ispirate dall’eguale considerazione degli interessi di tutti coloro che nella speciale condizione del termine della vita sono e saranno coinvolti. D’altronde, la definizione fornita da Sackett di Evidence Based Medicine (EBM) 33 (“… un approccio alla pratica clinica dove le decisioni cliniche risultano dall'integrazione tra l'esperienza del medico e l'utilizzo coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze scientifiche disponibili, mediate dalle preferenze del malato…") pone l'accento sulla necessità che il medico, nell'assistenza a ogni singolo malato, faccia riferimento oltre che alle evidenze scientifiche, anche al suo miglior interesse. E’ proprio qui, in questo punto nevralgico del rapporto sanitario/malato, che si iscrive il tema di una legge sulla fine della vita. Una legge che permetta a quella che oggi è ancora una voce fuori campo – la voce del malato – di intervenire per spiegare, illuminare, orientare, esplicitando le sue decisioni maturate gradualmente e consapevolmente attraverso tutto il percorso della malattia (pianificazione anticipata delle cure); una legge che pur definendo la necessaria cornice giuridica del rapporto sanitario/malato non pretenda di modularne ogni passaggio. 34 La voce dell’attore primo, potrebbe allora tornare anche come parola scritta quando resa muta dalla malattia, per colmare lo scarto tra possibilità virtuali, fattibilità reale dell’azione clinica e dilemmi etici correlati al tema dell’insistenza/limitazione terapeutica, per aiutare a rispondere ai tre fondamentali quesiti che gli operatori sanitari si pongono nella loro prassi quotidiana: quale rapporto instaurare fra l’imponente apparato diagnostico e terapeutico a disposizione e ciascuna persona malata nella sua particolare condizione di debolezza? Quando e come usare tutto ciò che conosciamo e che siamo in grado di fare? E’ giusto fare sempre tutto ciò che è tecnicamente fattibile solo perché siamo in grado di farlo o la nostra azione deve ispirarsi anche ad altri principi e criteri? Perché, quando diviene impossibile far coincidere le aspettative di vita con gli esiti realistici delle terapie, quando una leale dialettica tra il medico, il malato e la sua famiglia spinge ad adottare la limitazione delle cure, il corretto uso di concetti quali: trattamento sproporzionato, accanimento terapeutico, sospensione della cura, eutanasia, diviene eticamente cogente tanto quanto le azioni o le non-­‐azioni che ne derivano. 33
Sackett DL. Evidence based medicine: what it is and what it isn't. BMJ 1996;312:71-­‐72 http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00720602.pdf (last accessed 2014 august) 34
14 Di nuovo gli operatori sanitari sono rimandati al dato di fatto essenziale: la morte di un essere umano non più come evento puntuale, ma distillata nell’arco di una artefatta dilatazione temporale, tramite un processo biologico reso innaturale dai supporti della medicina tecnologizzata, concettualmente molto distante da un reale sostegno per la vita. E’ allora in quest’ottica che tutti gli operatori sanitari vorrebbero vedere compiersi il cammino di una legge sulla fine della vita. Una legge in cui sia menzionata la limitazione terapeutica (non iniziare/interrompere le cure tradizionali, anche di sostegno vitale) come atto dovuto al malato quando queste si rivelano sproporzionate, sia garantita per il malato la libertà di rifiutare cure che, seppure teoricamente appropriate, egli stesso riterrebbe non dignitose e per il medico la garanzia di non vedersi perseguito se non erogasse cure ritenute sproporzionate secondo scienza e coscienza o rifiutate dal malato. 35 UN NUOVO APPROCCIO: LA VIA DELL’ESPERIENZA Le nuove condizioni del morire continuano a generare inediti interrogativi: esiste un diritto morale a morire? Accetteremmo per noi o per i nostri cari la dilazione di una morte certa? Possiamo interrompere un tale prolungamento della vita? Quando e come? C’è un comportamento eticamente doveroso verso questi malati? Ci sono diritti da far valere in una situazione del genere? Tali diritti sono solo di natura morale o anche giuridica? Che cosa permette o vieta la legge in tali situazioni? Le cure tradizionali devono essere sempre attuate o per il bene del malato debbono definirsi dei limiti? Chi fissa questi limiti e con quali criteri? Per definire se esiste una liceità del lasciar morire, oltre a definire gravità e prognosi della malattia, occorre affrontare, al letto del malato, alcuni temi con forti implicazioni etiche e giuridiche. Diviene necessario comprendere se la limitazione delle cure equivalesse al concetto di eutanasia (eutanasia attiva), anche il lasciar morire – limitazione dei trattamenti – avrebbe qualcosa a che fare con quel termine (eutanasia passiva). A queste domande esistono già delle risposte. Ad esempio in T.I. una qualche forma di limitazione delle cure è attuata dai medici nel 62% dei malati morenti 32 con un’informazione però di grande rilevanza scientifica ed etica: che la desistenza dalle cure intensive nei malati al termine della vita in T.I. è attuata più spesso nei reparti dove si ottengono i risultati migliori in termini di sopravvivenza, mentre i centri che evidenziano uno standard di cura peggiore (mortalità più alta a parità di gravità), sono anche quelli dove più spesso si attua la prosecuzione ad oltranza dei trattamenti. 35
Barbisan C, Casonato C, Palermo Fabris E, Piccinni M, Zatti P. Aspetti etici e giuridici nelle insufficienze croniche d’organo “end-­‐stage”. Documento di consenso per una pianificazione condivisa delle scelte di cura. Parte III. Recenti Prog Med 2014;105(1):40-­‐44 doi 10.1701/1398.15556 (last accessed 2014 august) 15 Questo significa due cose importanti: la prima che è priva di fondamento la tesi di coloro che sostengono che la limitazione delle cure aprirà la porta al disinteresse, al cinismo e all’indifferenza degli operatori facendo delle T.I. luoghi dove si uccidono i malati; la seconda che Evidence Based Medicine equals to Ethics Based Medicine. Oggi infatti, un numero crescente di operatori sanitari sostiene che riconoscere sacra la vita umana equivale a rispettare i principi morali cui ciascuno si è ispirato per dare senso e valore alla propria esistenza, e che non è possibile negare, in nome di una supposta dignità assoluta, il diritto a chiunque di attribuire autonomamente significati a questo termine, se non altro perché non esiste un unico modo di dare significati alla dignità. Gli operatori stanno imparando che la dignità non rappresenta un carattere di genere, ma il peculiare e soggettivo paradigma lungo il quale si declinano la coscienza e la concezione di vita di ciascuno. Tutto questo gli operatori lo stanno imparando semplicemente dalla loro pratica clinica. La lezione che deriva dall’esperienza si ricollega così sul piano teorico alle conclusioni della speculazione filosofica di Beauchamp and Childress 10 da un lato, e di Hans Jonas dall’altro 36, dimostrando come sia possibile giungere per piani diversi a conclusioni convergenti quando la teoria ha la stessa forza della prassi, nascendo spontaneamente da una coscienza critica. Gli operatori sanitari sanno oggi che nel contesto clinico in cui un malato giunto al termine della vita, nonostante l’erogazione di un trattamento prolungato e massimale, i dati di fatto salienti sono: la liceità morale della richiesta del morente di non essere sottoposto ad ulteriori sofferenze; l’irreversibilità del processo del morire scientificamente verificata; il limite ampiamente sperimentato della cura; l’inutilità della sua prosecuzione. Nella sfera emozionale di medici ed infermieri, la morte di un malato, dopo un lungo periodo di trattamenti mostratisi alla fine inutili e dopo la loro sospensione concordata con lui o con i familiari, non è percepita come un omicidio: è semmai una sconfitta. E’ sempre più chiaro nella coscienza degli operatori sanitari che la causa della morte è però la malattia con la sua ineluttabilità, il suo grado di gravità ed evolutività, non la limitazione terapeutica. Allora, il confine tra il significato dei termini limitazione terapeutica e eutanasia si riduce all’ombra spettrale del contenuto emotivo negativo che la parola eutanasia evoca e che le deriva dall’uso fattone dalla Germania nazionalsocialista per giustificare un vero e proprio genocidio condotto in nome della purezza della razza ariana. 37 Tuttavia, mentre sul piano teorico si suole distinguere tra eutanasia attiva (atto con il quale si aiuta a morire una persona che ne fa richiesta in modo consapevole) ed eutanasia passiva (far si che la morte sopraggiunga a 36
Jonas H., Il diritto di morire. Ed. Il Melangolo, Genova 1991 Michalsen A., Reinhart K., “Euthanasia”: a confusing term, abused under the Nazi regime and misused in present end-­‐
of-­‐life debate. Intensive Care Med 2006, 32: 1304 – 1310 37
16 seguito della sospensione o non erogazione delle cure proporzionate), sul piano clinico pratico tale distinzione non aiuta a comprendere la sostanza del problema come definito dalla task force della European Association of Palliative Care già nel 2003. 38 Una prima ragione è individuabile nel fatto che, in linea con le definizioni date, la limitazione terapeutica non deve assimilarsi all’eutanasia passiva poiché consiste nella desistenza da terapie sproporzionate o rifiutate dal malato. Peraltro, esistono consolidate evidenze circa il fatto che, ad esempio in oncologia, l’interruzione di molte cure tradizionali provoca in realtà un prolungamento della sopravvivenza. 39 Infine equiparare la limitazione terapeutica all’eutanasia attiva è ancor più scorretto, poiché la limitazione terapeutica non significa assolutamente provocare la morte somministrando farmaci. La verità è che, al letto del malato, le parole fino ad oggi utilizzate per spiegare significati e differenze del fare o del non fare, dell’attività o della passività sono ambigue, non aiutano a comprendere la complessità della relazione vita/malattia/morte, lasciano in ombra la delicata trama che costituisce il tessuto della relazione di cura e pertanto non reggono alla prova dei fatti. Esse, con la forza evocatrice di cui sono dotate, servono soltanto ad alimentare l’astratto confronto teorico su disponibilità o indisponibilità della vita. Le parole che servono invece a raccontare la limitazione terapeutica non hanno la stessa forza di quelle usate da chi si ostina a non voler vedere ciò che già è, nell’esperienza di tutti i giorni, nella vita quotidiana di ogni reparto di ospedale, in ogni hospice, in ogni casa dove risiede un morente. Le nostre parole fanno fatica perché hanno la stessa età delle domande di fondo che, a loro volta, sono nate in coincidenza con la nascita e lo sviluppo della medicina tecnologizzata. Esse debbono essere pronunciate sommessamente perché trattano dell’umile esperienza di chi ogni giorno con la morte si confronta. Così, al di là delle questioni terminologiche, ciò che davvero conta è la presa d’atto clinica da un lato dell’impossibilità di garantire al malato, tramite guarigione o stabilizzazione, una qualità di vita che egli stesso possa considerare degna di essere vissuta, dall’altro di stare soltanto prolungando sofferenze che non consistono solo nel dolore fisico, ma anche nell’angoscia e nel delirio generati dalla consapevolezza della morte incombente e del disfacimento del proprio corpo. 40, 41, 42, 43, 44 38
Materstvedt LJ, Clark D, Ellershaw J, Førde R, Gravgaard A-­‐M, Müller-­‐Busch HC, Porta i Sales J, Rapin C-­‐H. Euthanasia and physician-­‐assisted suicide: a view from an EAPC Ethics Task force. Palliat Med 2003;17:97-­‐101; reproduced in: Eur J Palliat Care 2003;10:63-­‐66. 39
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Nyquist PA. Coma, Delirium, and Cognitive Dysfunction in Critical Illness. Crit Care Clin 22: 4, 2006 17 Nella realtà della clinica – attestata l’impossibilità di modificare la prognosi sulla base dell’evidenza scientifica (Evidence Based Medicine) – il non agire corrisponderà all’interruzione di ogni inutile terapia (Good Clinical Practice) 33, non essendo alcun medico obbligato ad erogare cure che non fanno il bene del malato e che anzi fanno solo il suo male 45; l’agire consisterà nel concedere la liberazione dal dolore e dalla sofferenza fisica e psicologica secondo i canoni delle cure palliative e della sedazione palliativa 46 condivisa anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica.11, 47, 48 In verità, nella pratica clinica, l’obiettivo di aiutare una persona a concludere il processo del morire avviato dalla malattia, sospendendo i trattamenti sproporzionati o da lei rifiutati ed alleviando la sofferenza globale, va ben oltre la sterile e confondente differenza tra eutanasia attiva e passiva: esso è parte integrante della relazione di cura ed è tra le funzioni istituzionali primarie di ogni medico. A tale proposito è importante richiamare ancora una volta gli altri risultati del primo studio condotto in Italia sulle scelte di trattamento al termine della vita secondo i quali su 3438 malati morenti studiati in 84 T.I., la limitazione terapeutica – sospensione o astensione dai trattamenti quando evidentemente sproporzionati – era attuata nel 62% dei casi. 32
Tuttavia, pur risultando nella pratica clinica del tutto fittizia la distinzione tra azioni e omissioni, questa obsoleta distinzione carica i medici italiani della tragica responsabilità di essere al penultimo posto in Europa nella prescrizione di morfina e oppiacei per la terapia del dolore terminale nel paradossale timore delle conseguenze clinico-­‐giuridiche di un atto terapeutico. 49, 50 In conclusione, nella moderna visione di un approccio etico alle problematiche correlate alla fine della vita, indipendentemente dalle argomentazioni teoriche tutte interne al dibattito sulla disponibilità/indisponibilità della vita, vi sono: il ripudio dei processi del morire segnati da continue e gravi sofferenze indotte da trattamenti giudicati ormai sproporzionati; la consapevolezza che tali sofferenze sono evitabili tramite analgesia e sedazione alle dosi necessarie; la consapevolezza che la limitazione terapeutica nel malato al termine della vita è un atto clinicamente appropriato ed eticamente doveroso. 44
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of-­‐Life (EURELD) Consortium.Forgoing Treatment at the End of Life in Six European Countries. Arch Intern Med 2005; 165: 401. 18 E’ per questo, ad esempio, che le raccomandazioni sulle cure di fine vita prodotte da società scientifiche e da numerosi documenti approvati da Comitati Etici di singoli ospedali 51 prevedono la sospensione dei supporti vitali e l’attuazione della sedazione palliativa. CONCLUSIONI In sintesi, le scelte pertinenti la fase finale della vita si svincolano dai giudizi morali che fanno riferimento a principi universali per divenire l’irripetibile, specifico nodo che lega in una relazione umana estrema, medici, infermieri, malati e familiari in nome della quale fornire l’ultima risposta possibile: trasformare la terapia in cura, intesa come liberazione dal dolore e dalla sofferenza ed accompagnamento sereno e dignitoso alla morte, assumendo la responsabilità delle scelte finali. Oggi, questo travagliato percorso culturale sembra stia producendo, in una proporzione crescente di operatori sanitari, la consapevolezza che la morte, parte integrante ed ineludibile della vita, interviene a causa della malattia; che è possibile, nel rispetto del principio di autodeterminazione, sospendere o non erogare i trattamenti sproporzionati o rifiutati dal malato; che la medicina palliativa e la sedazione palliativa di un malato alla fine della vita per abolire la sofferenza refrattaria costituiscono un atto medico clinicamente appropriato ed eticamente doveroso; che è ormai impellente la necessità di una legge sulla fine della vita che, prodotta alla luce di un diritto mite, sia in grado di fornire strumenti operativi senza invadere, ma anzi rispettando, il privato territorio della relazione di cura, che dipende invece dalle differenti culture, dalle differenti individualità biologiche e biografiche, dai diversi credo religiosi. Nella complessa situazione della fine della vita, dove istanze morali si mescolano a esigenze di rispetto di leggi e di regole deontologiche, oltre che ad imperativi derivanti da una fede o da una continua ricerca di propri valori, i contenuti dell’etica medica si sono con ogni probabilità sensibilmente differenziati da quelli dell’etica tradizionale. Questa fuga in avanti si è prodotta perché la medicina moderna ha generato nuovi fronti e nuove sfide che chiedono ai sanitari di ripensare il proprio ruolo. Ma se si riconoscono al malato il diritto morale di morire e al sanitario l’eticità della limitazione terapeutica, non è più possibile sostenere, com’è finora accaduto, che il ruolo primario dell’istituzione medica sia quello di tutelare sempre e comunque la vita biologica in sé e per sé pena l’applicazione di ben precise sanzioni. Certamente non è qui in questione il principio di beneficenza implicito nella funzione del sanitario, ma l’accettazione della necessità di adattare i doveri imposti dalla professione al continuo divenire della pratica medica. Per usare una similitudine di Jonas: “autentica vocazione della medicina è avere a che fare con 51
Gristina G.R., Ramunno M., Raccomandazioni per un percorso clinico-­‐assistenziale dedicato al malato al termine della vita in Area Critica e in Degenza Ordinaria – Comitato Etico A.S.O. S.Camillo-­‐Forlanini, Prot. N°1096, 06.09.2006 19 l’integrità della vita o almeno con la situazione nella quale sia ancora desiderabile. Il suo compito è mantenere la sua fiamma viva non la sua cenere ardente […] non l’imposizione di pene e umiliazioni che servono soltanto all’indesiderato prolungamento dell’estinzione”. 52 Il nuovo Codice di Deontologia ha confermato questo generale principio 45 e gli operatori sanitari, pur disponendo oggi della più ampia gamma di mezzi terapeutici, stanno comprendendo l’importanza di finalizzare la limitazione terapeutica e la sedazione palliativa all’offerta di un aiuto ad affrontare la morte imminente e inevitabile, ritornando così alla natura prima e più profonda della professione che è quella di essere al servizio. Ovunque oggi nell’ambito delle discipline della medicina moderna si desidera una cultura nuova. Alcuni hanno già la fortuna di praticarla; altri la stanno costruendo con fatica; altri ancora debbono cominciare e non in tutti c’è fiducia. Ciononostante, c’è voglia di sentirsi partecipi di un cammino con un orizzonte comune, con uno stile condiviso, con un progetto unitario cui attingere la certezza che parlarsi malgrado le differenze culturali sia un segno imprescindibile di civiltà e un bene prezioso per tutti. In un’epoca di grandi e consolidate conquiste scientifiche poste al servizio della nascita e della vita dell’uomo, noi riteniamo che il maggior impegno possibile debba essere oggi profuso da ogni branca del sapere medico per restituire all’esperienza della malattia e della morte il ruolo che hanno come parte integrante della vita. Questo è però possibile solo accettando un dialogo tra pari, che significa responsabilità di ogni interlocutore – ognuno nell'ambito delle proprie conoscenze, della propria storia personale, della propria fede o della propria coscienza – nella composizione di una sintesi etica, che si traduce in una scelta che non può essere né per sempre né per tutti. Non si tratta di relativismo morale, ma di profondo rispetto per l'uomo nel suo divenire biografico e nel suo essere in relazione con gli altri uomini. Non sono qui in questione compromessi tra ciò che è inconciliabile, ma se le coscienze dei credenti e dei non credenti vogliono davvero incontrarsi sulle questioni della fine della vita, la ragione secolare deve rispettare i principi della fede e la religione a sua volta deve aprirsi al dialogo sui limiti del progresso della medicina con sguardo non giudicante. Soltanto l’equilibrio di tutte le componenti in gioco sarà in grado alla fine di garantire le istanze morali di ciascuno producendo una legge in cui tutti possano riconoscersi e che si ponga a garanzia di una effettiva convivenza civile. 52
Jonas H. Il diritto di morire. pp. 49 – 50, Ed. Il Melangolo, Genova 1991 20 
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LA MEDICINA MODERNA E LE SCELTE ALLA FINE DELLA VITA