Gadamer e l’ermeneutica
Il circolo ermeneutico
Gadamer sostiene che l'interpretante può accedere all'interpretato solo tramite una serie di «precomprensioni» o di «pre-giudizi». Lungi dall'essere una tabula rasa, la mente dell'interprete è abitata da un insieme di attese o di schemi di senso, ovvero da una molteplicità di «linee orientative
provvisorie», che costituiscono, nel loro insieme, una serie di ipotesi di decodificazione dell'interpretato stesso. Questa situazione circolare, in base alla quale ciò che si deve comprendere è già in
parte compreso, costituisce il cosiddetto «circolo ermeneutico», che Heidegger, secondo Gadamer, avrebbe avuto il merito di non degradare a circolo vitiosus, considerandolo piuttosto non solo
come qualcosa di ineliminabile, ma anche come una condizione positiva del conoscere, ovvero
come l'unica maniera per accedere all'interpretandum.
Anzi, Heidegger ci avrebbe fatto capire come il problema non sia quello di sbarazzarsi del circolo,
ma di acquistarne coscienza, mettendo "alla prova" i pregiudizi che lo costituiscono e mostrandosi
eventualmente disposti — di fronte all' "urto" con i testi — a rinnovare le proprie presupposizioni.
Tanto più che i primi "urti" del soggetto interpretante con l'oggetto interpretato rivelano, di solito,
l'inadeguatezza delle pre-comprensioni iniziali, obbligando l’interpretans a ritornare su di esse, a
rivederle e a correggerle, tramite un reiterato confronto con l'interpretandum. In altri termini, il
circolo ermeneutico non comporta una chiusura dell'interpretante in se stesso, ma una sua programmatica apertura all'«alterità del testo». Infatti, invece di rimanere avviluppato nella ragnatela
soggettiva delle sue pre-comprensioni, l'interpretante, in seguito all'impatto con l'interpretato, si
vede costretto a "mettere alla prova" la legittimità delle proprie anticipazioni:
Chi vuol comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa da esso. Perciò una
coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all'alterità del testo. Tale sensibilità non presuppone né un'obiettiva "neutralità" né un oblio di se stessi, ma
implica una precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni e dei propri pregiudizi.
[...chi cerca di comprendere è esposto agli errori derivati da pre-supposizioni che non trovano
conferma nell'oggetto [...]. Che cos'è che contraddistingue le pre-supposizioni inadeguate se
non il fatto che, sviluppandosi, esse si rivelano insussistenti? (Verità e metodo)
Sottintendendo l'impossibilità di un punto di vista meta-situazionale da cui guardare il mondo, ed
evidenziando come la comprensione storica sia essa stessa un evento storicamente condizionato,
la teoria del circolo ermeneutico si configura come una significativa attestazione del carattere storico-finito della razionalità umana, la quale, come mostrano i pregiudizi che la abitano, non è
un'entità autocreatrice, ma un «progetto gettato» (Heidegger) che si trova a esistere in un determinato orizzonte storico, da cui eredita una specifica mentalità (o «memoria culturale»).
Pregiudizi, autorità e tradizione
La teoria del circolo ermeneutico si accompagna, in Gadamer, a una delle dottrine più caratteristiche del suo pensiero, ossia alla riabilitazione dei pregiudizi, dell'autorità e della tradizione.
Innanzitutto, Gadamer chiarisce come i pregiudizi non siano qualcosa di necessariamente falso
(secondo uno schema di matrice baconiana e illuministica che ha influenzato tutta la cultura moderna, svolgendo la funzione di un vero e proprio "pregiudizio contro il pregiudizio"), poiché accanto a pregiudizi falsi e illegittimi esistono pregiudizi veri e legittimi:
Un'analisi sulla storia dei concetti dimostra che solo nell'illuminismo il concetto di pregiudizio
acquista l'accentuazione negativa che ora gli è abitualmente connessa. Di per sé, pregiudizio
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significa solo un giudizio che viene pronunciato prima di un esame completo e definitivo di tutti
gli elementi obbiettivamente rilevanti [...]. "Pregiudizio" non significa quindi affatto giudizio
falso; il concetto implica che esso può essere valutato sia positivamente sia negativamente
[...]. Ci sono dei préjugés légitimes. Ciò è molto lontano dall'uso comune che il termine ha oggi.
In secondo luogo, Gadamer mette in luce come i pregiudizi facciano parte integrante della nostra
realtà di esseri sociali e storici (in quanto «molto prima di arrivare ad una autocomprensione attraverso la riflessione esplicita, noi ci comprendiamo secondo schemi irriflessi nella famiglia, nella
società e nello Stato»), al punto che una loro ipotetica eliminazione coinciderebbe, di fatto, con
l'annullamento del nostro io concreto.
Parallelamente all'opera di riabilitazione dei pregiudizi, Gadamer ha tentato una riabilitazione filosofica dell'idea di autorità, affermando che essa non implica necessariamente obbedienza cieca e
abdicazione alla ragione e alla libertà. Intesa in modo umano e positivo, ossia come legame tra
persone ragionevoli (e non come rapporto tra bruti violenti), l'autorità risiede piuttosto in «un atto
di riconoscimento e di conoscenza, cioè nell'atto in cui si riconosce che l'altro ci è superiore in giudizio e in intelligenza, per cui il suo giudizio ha la preminenza» (Verità e metodo).
Adeguatamente concepita, l'autorità si basa quindi su una libera scelta della ragione dell'individuo,
che, conscio dei suoi limiti, concede fiducia al miglior giudizio altrui: «L'essenza dell'autorità che
rivendica l'educatore, il superiore, lo specialista, consiste proprio in questo». Ne segue il riconoscimento della distinzione tra autorità e autoritarismo, poiché «la vera autorità non ha bisogno di
affermarsi in modo autoritario». Analogamente, per quanto concerne la tradizione, Gadamer chiarisce come «sia la critica illuministica alla tradizione, sia la sua riabilitazione romantica non colgono
la verità della sua essenza storica». Di fronte all'ingenua pretesa illuministica di sbarazzarsi della
tradizione si erge infatti la pretesa romantica di stabilire delle «"tradizioni radicate" davanti alle
quali la ragione dovrebbe solo tacere», dimenticando che la tradizione, per essere umanamente
tale, ha bisogno di essere razionalmente e liberamente accettata: «Anche la più autentica e solida
delle tradizioni non si sviluppa naturalmente in virtù della forza di persistenza di ciò che una volta
si è verificato, ma ha bisogno di essere accettata, di essere adottata e coltivata». In ogni caso,
l'uomo non può collocarsi fuori della tradizione, poiché quest'ultima fa parte della sostanza storica
del suo essere.
Le condizioni del comprendere
Secondo Gadamer, il lavoro ermeneutico implica una "tensione" tra estraneità e familiarità. Infatti,
se l'interpretandum fosse completamente estraneo, l'impresa ermeneutica sarebbe condannata
allo scacco, mentre se fosse completamente familiare, non avrebbe senso lo sforzo interpretativo.
Di conseguenza, si deve ammettere che l'interpretandum, rispetto all'interpretans, risulta estraneo e familiare nello stesso tempo. Ora, se l'estraneità, sottolineata dalla distanza temporale, è
dovuta al carattere di alterità dell'oggetto interpretato, la familiarità è dovuta al fatto che interpretante e interpretato appartengono entrambi a un medesimo processo storico, grazie a cui sono
in rapporto tra di loro.
Detto altrimenti, la «lontananza temporale» tra interpretante e interpretato non è un abisso vuoto, ma uno spazio riempito dalla tradizione, la quale funge appunto da trait d'union tra i due poli
dell'avventura ermeneutica.
Questa circostanza trova una delucidazione nell'importante (e complesso) concetto di «storia degli
effetti» (Wirkungsgeschichte), il quale, in una delle sue valenze di fondo, allude al fatto che l'interprete può accingersi al compito interpretativo solo sulla base di una serie di interpretazioni già date, ovvero (parlando in termini ancor più generali) sulla scorta degli "effetti" prodotti da un deter2
minato evento. Per fare un esempio (nostro): io posso rapportarmi alla filosofia di Kant solo sulla
base delle interpretazioni che di essa sono state date, ovvero sulla scorta della fortuna che essa ha
incontrato attraverso i secoli, o degli effetti nei quali si è concretizzata la sua presenza nella storia.
Come si può notare, del concetto di «storia degli effetti» a Gadamer non interessa tanto l'aspetto
metodologico-normativo, ovvero la prescrizione di integrare l'intendimento di un evento del passato con l'analisi della sua fortuna presso i posteri, quanto l'aspetto teoretico-trascendentale, cioè
la constatazione di una condizione di fondo del comprendere storico:
Non si vuol dire, infatti, che la ricerca debba sviluppare una tale storia degli effetti accanto allo
studio dell'opera come tale. Il precetto ha invece un significato teoretico. La coscienza storica
deve prender consapevolezza del fatto che nella pretesa immediatezza con la quale essa si mette davanti all'opera o al dato storico, agisce anche sempre, sebbene inconsapevole e quindi non
controllata, questa struttura della storia degli effetti. (Verità e metodo, pp. 350-351)
Il principio della «storia degli effetti» trova corrispondenza nella «coscienza della determinazione
storica», ossia nella consapevolezza della nostra storicità costitutiva, o del nostro essere esposti
agli effetti della storia. Tale coscienza ci impedisce di studiare la storia (come in fondo voleva lo
storicismo ottocentesco) da un preteso punto di vista "neutrale" e quindi, di fatto, metastorico.
Appurata la storicità invalicabile del nostro essere e del nostro comprendere, l'incontro ermeneutico non potrà più consistere, secondo Gadamer, in un ingenuo tentativo di mettere tra parentesi
se stessi e il proprio presente, ma in una «fusione di orizzonti» in virtù della quale il proprio tempo
non è annullato, ma posto al servizio della comprensione del tempo altrui. Questa fusione è resa
possibile non da qualche artificio "metodico" ma, come ben sappiamo, da quel nesso vivente tra
passato e presente che è la tradizione storica, nesso che fonda appunto la specifica verità (extrametodica) delle scienze dello spirito.
Gadamer esemplifica il concetto di «fusione degli orizzonti» tramite la contrapposizione tra
Schleiermacher ed Hegel. Il primo, ispirandosi all'ideale della ricostruzione, concepisce la fatica
ermeneutica nei termini di un rigoroso oblio del presente a favore di un'oggettiva riproduzione del
passato. Il secondo, ispirandosi all'ideale dell'integrazione, insiste sull'impossibilità di "recuperare"
il passato e dichiara che le opere trascorse sono simili a «frutti staccati dall'albero». Pertanto, l'unico modo per stabilire un rapporto vitale con esse non è quello di andare alla ricerca dell'originario perduto, ma quello di pensare il loro significato trascorso sulla base della nostra situazione presente:
Hegel enuncia [... ] una verità decisiva, in quanto l'essenza dello spirito storico non consiste
nella restituzione del passato, ma nella mediazione, operata dal pensiero, con la vita presente.
(Verità e metodo, cit., p. 207)
L'attività ermeneutica assume quindi la forma di un dialogo tra presente e passato. Più in particolare, ritenendo che l'essenza del sapere consista, platonicamente, nell'arte del domandare, Gadamer scorge nel dialogo — e quindi nella dialettica di domanda e risposta — il fulcro dell'esperienza
ermeneutica. Il testo, che nasce come risposta a una domanda, ci pone a sua volta determinate
domande e noi, sollecitati dal suo interrogare, poniamo a esso nuovi interrogativi, nell'ambito di
un processo infinito, nel corso del quale ogni risposta si configura come una nuova domanda.
I concetti di «coscienza della determinazione storica» e di «fusione degli orizzonti» escludono programmaticamente la possibilità di un sapere assoluto. Infatti, prendendo posizione contro Hegel
(che si qualifica come il costante e decisivo termine di confronto dell'ermeneutica), Gadamer dichiara che l'uomo non può mai trascendere i propri limiti e la propria storicità in direzione di un
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sapere totale e concluso, in quanto il nostro sapere storico-ermeneutico è (e rimane) strutturalmente parziale e costitutivamente aperto, cioè inevitabilmente finito.
Per cui, pur essendo d'accordo con Hegel nel sottolineare la storicità del nostro essere, Gadamer
condivide la rivendicazione kantiana della finitudine del nostro sapere.
Essere, linguaggio e verità
Nella terza sezione di Verità e metodo Gadamer prende in considerazione il linguaggio, mostrando
come tutti i caratteri dell'esperienza ermeneutica esistano solo in virtù del linguaggio e come linguaggio. Anzi, respingendo la concezione strumentalistica del linguaggio, cioè la dottrina (prevalente nella cultura occidentale) secondo cui esso sarebbe un insieme di "immagini" (della realtà)
oppure di "segni" (convenzionali) per esprimere un mondo pre-linguisticamente noto, Gadamer
sostiene che il linguaggio fa tutt'uno con la nostra esperienza concreta delle cose, al punto che
«non c'è cosa dove vien meno il linguaggio», poiché «la parola "appartiene" in qualche modo alla
cosa stessa, e non è qualcosa come un segno accidentale legato esteriormente alla cosa».
Questa riconosciuta assolutezza e intrascendibilità del linguaggio, motivata dal fatto che ogni incontro con le cose si risolve in un incontro linguistico, porta Gadamer alla tesi chiave della sua ontologia ermeneutica:
l'essere, che può venir compreso, è linguaggio [Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache].
Con questa apodittica formula, Gadamer non intende (solo) evidenziare, tautologica-mente, che
all'uomo risulta intelligibile ciò che è strutturato come linguaggio, ma intende dire, più profondamente, che l'essere è linguaggio, ossia che tutte le forme di vita sono linguaggio e come tali possono venir esperite e comprese.
Questa identificazione dell'essere con il linguaggio rappresenta la condizione stessa dell'ermeneutica. Infatti, dire che l'essere è linguaggio significa dire che l'essere in generale e l'essere umano in
particolare — che sussiste concretamente sotto forma di discorsi, libri, opere d'arte ecc. — è interpretazione. Da ciò l'equazione essere = linguaggio = interpretazione, che suggerisce l'idea di un
autodisvelamento dell'essere nel linguaggio e nell'interpretazione, autodisvelamento che per Gadamer ha il carattere di un processo interminabile. Nelle ultime pagine di Verità e metodo, Gadamer, insistendo sul fatto che l'esperienza ermeneutica possiede la medesima struttura ontologica
dell'esperienza del bello, dichiara che il concetto di verità sotteso all'esperienza ermeneutica implica che nell'incontro con i testi, analogamente all'incontro con la bellezza («Le cose belle sono
quelle il cui valore rifulge di per sé»), qualcosa si autoimponga come tale.
In altri termini, rifacendosi a «un antico aspetto costitutivo della verità» antitetico al «moderno
metodologismo scientifico», Gadamer lascia intendere che la verità ermeneutica non sia il risultato
di una conquista "metodica" oggettivamente accertabile, ma il frutto di un'extrametodica autopresentazione della cosa al soggetto:
Quando comprendiamo un testo, il significato di esso ci si impone esattamente come ci avvince
il bello. (Verità e metodo, p. 558)
Gadamer articola la sua concezione della verità come eventualità extrametodica mediante i concetti di appartenenza e di gioco.
Per «appartenenza» egli intende una situazione in cui non si ha tanto un agire del soggetto
sulla cosa, quanto un agire della cosa (la verità, la tradizione, il linguaggio, l'opera d'arte ecc.) sul
soggetto, ovvero la dottrina, di impronta heideggeriana e antiumanistica, secondo cui la comprensione è un «momento dell'essere stesso e non anzitutto un fatto del soggetto» (Verità e metodo,
cit., p. 524).
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Con l'idea di «gioco», inteso come un processo che possiede un primato rispetto ai suoi
protagonisti, Gadamer ribadisce come la verità (e il linguaggio in cui essa si manifesta) sia un
«evento» di cui l'uomo non è il soggetto, ma il tramite. Infatti, nel «gioco» della verità e del linguaggio, chi gioca veramente non è l'uomo, ma sono la verità e il linguaggio. In altri termini, la verità non è mai un (umanistico) "afferrare'; ma un (ontologico) appartenere a qualcosa (all'esserelinguaggio incarnato nelle varie comunità e tradizioni storiche) che ci possiede e ci supera.
Da ciò l'idea del gioco come metafora dei nostri rapporti con il mondo, anzi come la metafora stessa del mondo, concepito come gioco infinito, ovvero come un'inesauribile autorappresentazione o
automanifestazione dell'essere nel linguaggio.
Pur celebrando Hegel per l'impostazione antisoggettivistica della sua filosofia (e per il superamento dello spirito soggettivo in quello oggettivo), Gadamer, che ha un senso kantiano della finitudine
dell'uomo, si differenzia dall'autore dell'Enciclopedia per la negazione risoluta di ogni ideale di sapere assoluto e di possesso definitivo del vero. Infatti, sebbene la verità si illumini platonicamente
nel dialogo (prospettato come modello di ogni esperienza di verità), l'interpretazione si configura
come un compito senza fine:
la messa in luce del senso vero contenuto in un testo o in una produzione artistica non giunge a un
certo punto alla sua conclusione; è in realtà un processo infinito. (Verità e metodo, p. 348).
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