Gadamer
L’ermeneutica
Il problema filosofico dell'interpretazione
Gadamer dichiara che lo scopo della sua indagine
non è quello di fissare una serie di norme
tecniche del processo interpretativo, ma quello
di mettere in luce le condizioni del comprendere,
cioè di chiarire i modi in cui si articola il
fenomeno interpretativo.
In secondo luogo, Gadamer intende mostrare come
il comprendere non sia uno dei possibili
atteggiamenti del soggetto, limitato soltanto ad
ambiti particolari della sua esperienza, ma
coincida con «il modo d'essere dell'esistenza
come tale». Da ciò l'universalità dell'ermeneutica.
In terzo luogo, Gadamer si propone di illustrare
come nel comprendere si realizzi un'esperienza
di verità e di senso irriducibile al «metodo» della
scienza, ossia a quel tipo di sapere che
persegue l'ideale di una conoscenza obiettiva e
neutrale del mondo. Da ciò il rapporto di
«tensione», suggerito dal titolo del capolavoro di
Gadamer, fra verità (ermeneutica) e metodo
(scientifico).
La critica della coscienza estetica moderna
Gadamer critica la tendenza moderna a scorgere,
nel fatto artistico, una zona segregata e asettica
dello spirito, che non avrebbe più nulla da spartire:
1) con la realtà concreta della vita; 2) con le
questioni del vero e del falso.
A questa teoria dell'arte come «bella apparenza»,
Gadamer fa corrispondere la «coscienza estetica»,
la cui operazione tipica è di mettere in moto un
processo astraente, «differenziazione estetica»,
che consiste nella separazione dell'opera dal suo
contesto vitale originario e nella fruizione del suo
puro valore estetico.
Per Gadamer l'arte non è una fantasticheria surreale
priva di qualsiasi portata veritativa e di qualsiasi
effetto concreto. L'arte non è un evento onirico, ma
un'esperienza del mondo e nel mondo che
«modifica radicalmente chi la fa», ampliando la
comprensione che egli ha di se stesso e della
realtà che lo circonda.
Un poema, un dipinto o una sinfonia non sono entità
innocue, ma eventi che aprono un mondo,
offrendo, secondo l'insegnamento di Heidegger,
una nuova illuminazione del senso riposto delle
cose.
Gadamer elabora una complessa ontologia dell'opera
d'arte, volta a metterne in luce la natura di «gioco» che
vive nelle sue infinite realizzazioni e interpretazioni e
che, come ogni gioco, ha un primato rispetto ai singoli
«giocatori», in quanto gode di un'autonoma realtà e
consistenza, la quale trascende la soggettività dei singoli
giocatori (autori e fruitori).
Appurato che l'arte è un «gioco» che vive nelle sue
molteplici realizzazioni e interpretazioni, nasce il
problema dell'incontro o della «mediazione» fra il mondo
originario dell'opera e il mondo dell'interprete-fruitore.
Scrivendo che «l'estetica deve risolversi nell'ermeneutica»
Gadamer intende appunto evidenziare come la fruizione
dell'opera d'arte comporti, ad un certo punto, il problema
più generale dell'interpretazione.
Il circolo ermeneutico
Gadamer sostiene che l'interpretante può accedere
all'interpretato solo tramite una serie di
«pre-comprensioni» o di «pre-giudizi».
Lungi dall'essere una tabula rasa, la mente
dell'interprete è abitata da un insieme di attese o di
schemi di senso, ovvero da una molteplicità di
«linee orientative provvisorie», che costituiscono
delle preliminari ipotesi di decodificazione
dell'interpretato stesso.
Questa situazione circolare, per cui ciò che si deve
comprendere è già in parte compreso, costituisce il
cosiddetto «circolo ermeneutico».
Circolo che Heidegger, secondo Gadamer, avrebbe
avuto il merito di considerare non solo come
qualcosa di ineliminabile, ma anche come una
condizione positiva del conoscere, ovvero come
l'unica maniera per accedere all'interpretandum.
Anzi, Heidegger ci avrebbe fatto capire come il
problema non sia quello di sbarazzarsi del circolo,
ma di acquistarne coscienza, mettendo «alla prova»
i pregiudizi che lo costituiscono e mostrandosi
eventualmente disposti — di fronte all'«urto» con i
testi — a rinnovare le proprie presupposizioni.
L'interpretante, di fronte all'urto proveniente
dall'interpretato, risulta costretto a mettere a prova
la legittimità delle sue anticipazioni
Sottintendendo l'impossibilità di un punto di vista
meta-situazionale da cui guardare il mondo ed
evidenziando come la comprensione storica sia,
essa stessa, un evento storicamente condizionato,
la teoria del circolo ermeneutico si configura come
una significativa attestazione del carattere storicofinito della razionalità umana, la quale, come
mostrano i «pregiudizi» che la abitano, non è
un'entità autocreatrice, ma un «progetto gettato»
(Heidegger) che si trova ad esistere in un
determinato orizzonte storico, da cui eredita una
specifica mentalità (o «memoria culturale»).
Il circolo ermeneutico rivela una struttura ontologica della comprensione
Il circolo non ha un carattere formale, non è soggettivo né
oggettivo, ma caratterizza la comprensione come
un'interazione del movimento della trasmissione storica e del
movimento dell'interprete. L'anticipazione di senso che guida
la nostra comprensione di un testo non è un atto della
soggettività, ma si determina in base alla comunanza che ci
lega alla tradizione. Questa comunanza, però, nel nostro
rapporto con la tradizione, è in continuo atto di farsi. Non è
semplicemente un presupposto già sempre dato; siamo noi
che la istituiamo in quanto comprendiamo, in quanto
partecipiamo attivamente al sussistere e allo svolgersi della
tradizione e in tal modo la portiamo noi stessi avanti. Il circolo
della comprensione non è dunque affatto un circolo
«metodico», ma indica una struttura ontologica della
comprensione.
H. G. Gadamer, Verità e metodo, p. 343
Pregiudizi, autorità e tradizione
La teoria del circolo ermeneutico si accompagna, in Gadamer,
ad una delle dottrine più caratteristiche del suo pensiero,
ossia alla riabilitazione dei pregiudizi, dell'autorità e della
tradizione.
Parallelamente all'opera di riabilitazione dei pregiudizi,
Gadamer ha tentato una riabilitazione filosofica dell'idea di
autorità. Intesa in modo umano e positivo, ossia come
legame fra persone ragionevoli (e non come rapporto fra bruti
violenti), l'autorità risiede piuttosto in «un atto di
riconoscimento e di conoscenza, cioè nell'atto in cui si
riconosce che l'altro ci è superiore in giudizio e in intelligenza,
per cui il suo giudizio ha la preminenza». Adeguatamente
concepita, l'autorità si basa quindi su di una libera scelta
della ragione dell'individuo, che, conscio dei suoi limiti,
concede fiducia al miglior giudizio altrui.
Analogamente, per quanto concerne la tradizione,
Gadamer chiarisce come l'uomo non può collocarsi fuori
della tradizione, poiché quest'ultima fa parte della
sostanza storica del suo essere.
Le condizioni del comprendere
Secondo Gadamer, il lavoro ermeneutico implica una
«tensione» fra estraneità e familiarità. Infatti, se l'
interpretandum fosse completamente estraneo,
l'impresa ermeneutica sarebbe condannata allo
scacco, mentre se fosse completamente familiare,
non avrebbe senso lo sforzo interpretativo. Di
conseguenza, si deve ammettere che l'
interpretandum, rispetto all'interpretans, risulta
estraneo e familiare nello stesso tempo.
Ora, se l'estraneità, sottolineata dalla distanza
temporale, è dovuta al carattere di alterità
dell'oggetto interpretato, la familiarità è dovuta al
fatto che interpretante e interpretato appartengono
entrambi ad un medesimo processo storico, grazie
a cui figurano in rapporto fra di loro.
La «lontananza temporale» fra interpretante e
interpretato non è un abisso vuoto, ma uno spazio
riempito dalla tradizione, la quale funge appunto
da trait-d'union fra i due poli dell'avventura
ermeneutica.
Questa circostanza trova un'illustrazione nel concetto
di «storia degli effetti», il quale allude al fatto che
l'interprete può accingersi al compito interpretativo
solo sulla base di una serie di interpretazioni già
date.
«La coscienza storica deve prender consapevolezza
del fatto che nella pretesa immediatezza con la
quale essa si mette davanti all'opera o al dato
storico, agisce anche sempre, sebbene
inconsapevole e quindi non controllata, questa
struttura della storia degli effetti».
Al principio della storia degli effetti corrisponde «la
coscienza della determinazione storica» ossia la
consapevolezza della nostra storicità costitutiva o
del nostro essere esposti agli effetti della storia.
Coscienza che ci impedisce di studiare la storia
da un preteso punto di vista «neutrale» e quindi,
di fatto, meta-storico.
Appurata la storicità invalicabile del nostro essere e
del nostro comprendere, l'incontro ermeneutico
non potrà più consistere, secondo Gadamer, in un
«ingenuo» tentativo di mettere tra parentesi se
stessi ed il proprio presente, ma in una «fusione di
orizzonti» dove il proprio tempo non è annullato,
ma posto al servizio della comprensione del tempo
altrui.
Fusione resa possibile non in virtù di qualche artificio
«metodico» ma da quel nesso vivente fra passato
e presente che è la tradizione storica. Nesso che
fonda appunto la specifica «verità» (extrametodica) delle scienze dello spirito.
L'unico modo per stabilire un rapporto vitale con le
opere del passato non è quello di andare alla
ricerca dell'originario perduto, ma quello di
pensare il loro significato trascorso sulla base
della nostra situazione presente
«Hegel enuncia [...] una verità decisiva, in quanto
l'essenza dello spirito storico non consiste nella
restituzione del passato, ma nella mediazione,
operata dal pensiero, con la vita presente».
L'attività ermeneutica assume quindi la forma di un
dialogo fra presente e passato. Più in particolare,
ritenendo che l'essenza del sapere consista
nell'arte del domandare, Gadamer scorge nel
dialogo il fulcro dell'esperienza ermeneutica.
Il testo, che nasce come risposta a una domanda, ci
pone determinate domande e noi, sollecitati dal
suo interrogare, poniamo ad esso nuovi
interrogativi, nell'ambito di un processo infinito, nel
quale ogni risposta si configura come una nuova
domanda.
I concetti di «coscienza della determinazione storica»
e di «fusione degli orizzonti» escludono
programmaticamente la possibilità di un sapere
assoluto. Infatti, prendendo posizione contro
Hegel, Gadamer dichiara che l'uomo non può mai
trascendere i propri limiti e la propria storicità in
direzione di un sapere totale e concluso, in quanto
il nostro sapere storico-ermeneutico è
strutturalmente parziale e costitutivamente aperto,
cioè inevitabilmente finito. Per cui, pur essendo
d'accordo con Hegel nel sottolineare la storicità del
nostro essere, Gadamer è d'accordo con Kant nel
rivendicare la finitudine del nostro sapere.
Essere, linguaggio e verità
Nella terza sezione di Verità e metodo Gadamer prende in
considerazione il linguaggio, mostrando come tutti i
caratteri dell'esperienza ermeneutica esistano solo in
virtù del linguaggio e come linguaggio.
Anzi, respingendo la concezione strumentalistica del
linguaggio, cioè la dottrina secondo cui esso sarebbe
un insieme di «segni» convenzionali per esprimere un
mondo già prelinguisticamente noto, Gadamer sostiene
che il linguaggio fa tutt'uno con la nostra esperienza
concreta delle cose, al punto che «non c'è cosa dove
vien meno il linguaggio», poiché «la parola "appartiene"
in qualche modo alla cosa stessa, e non è qualcosa
come un segno accidentale legato esteriormente alla
cosa».
Questa riconosciuta assolutezza e intrascendibilità
del linguaggio, motivata dal fatto che ogni incontro
con le cose si risolve in un incontro linguistico,
porta Gadamer alla tesi-chiave della sua ontologia
ermeneutica, cioè all'affermazione secondo cui
«l'essere, che può venir compreso, è linguaggio».
Con questa apodittica formula, Gadamer non intende
solo evidenziare come all'uomo risulti intelligibile
ciò che è strutturato come linguaggio, ma intende
dire, più profondamente, che l'essere è linguaggio,
ossia che tutte le forme di vita sono linguaggio e
come tali possono venir esperite e comprese.
Questa identificazione dell'essere con il linguaggio
per Gadamer rappresenta la condizione stessa
dell'ermeneutica.
Infatti, dire che l'essere è linguaggio significa dire
che l'essere in generale e l'essere umano in
particolare è interpretazione.
Da ciò l'equazione essere = linguaggio =
interpretazione.
Equazione che suggerisce l'idea di un
autodisvelamento dell'essere nel linguaggio e
nell'interpretazione. Autodisvelamento che per
Gadamer ha il carattere di un processo
interminabile.
Gadamer, insistendo sul fatto che l'esperienza
ermeneutica possiede la medesima struttura
ontologica dell'esperienza del bello, dichiara che il
concetto di verità implica un tipo di incontro con i
testi il quale, analogamente al tipo di incontro con la
bellezza, ha il significato di un incontro con qualcosa
che si auto-impone come tale.
Gadamer lascia intendere come la verità ermeneutica
non sia il risultato di una conquista «metodica»
oggettivamente accertabile, ma il frutto di una
extrametodica autopresentazione della cosa al
soggetto: «Quando comprendiamo un testo, il
significato di esso ci si impone esattamente come ci
avvince il bello»
Gadamer articola il concetto della verità come
eventualità extrametodica mediante i concetti di
appartenenza e di gioco.
Per «appartenenza» egli intende una situazione in
cui non si ha tanto un agire del soggetto sulla
Cosa, quanto un agire della Cosa (= la verità, la
tradizione, il linguaggio, l'opera d'arte ecc.) sul
soggetto, ovvero la dottrina, di impronta
heideggeriana e antiumanistica, secondo cui la
comprensione è un «momento dell'essere stesso e
non anzitutto un fatto del soggetto».
Con l'idea di gioco, inteso come un processo che possiede
un primato rispetto ai suoi protagonisti, Gadamer
ribadisce come la verità (e il linguaggio in cui essa si
manifesta) sia un «evento» di cui l'uomo non è il soggetto,
ma il tramite.
Infatti, nel «gioco» della verità e del linguaggio, chi gioca
veramente non è l'uomo, ma la verità e il linguaggio.
La verità non è mai un (umanistico) «afferrare», ma un
(ontologico) appartenere a qualcosa (l'essere-linguaggio
incarnato nelle varie comunità e tradizioni storiche) che ci
possiede e ci supera. Da ciò l'idea del gioco come
metafora dei nostri rapporti con il mondo, anzi come la
metafora stessa del mondo, concepito come gioco infinito,
ovvero come un'inesauribile autorappresentazione o
automanifestazione dell'essere nel linguaggio.
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L`ermeneutica di Gadamer