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TEMI
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E M S
DELLA
NUTRIZIONE
Anoressia
nervosa
Dalle origini alla terapia
A cura di
Michele O. Carruba
Professore Ordinario di Farmacologia – Dipartimento di Scienze Precliniche
LITA Vialba, Ospedale “L. Sacco” – Università degli Studi di Milano
Presidente Associazione Nazionale Specialisti in Scienza dell’Alimentazione
Con la collaborazione di
Arianna Banderali, Giovanni Caputo,
Francesco Cavagnini, Hellas Cena, Massimo Cuzzolaro,
Angela Favaro, Enzo Nisoli, Gabriella Redaelli,
Gabriella Ripa di Meana, Paolo Santonastaso
ISTITUTO DANONE
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ISTITUTO DANONE
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DELLA
E
N UTRIZIONE
OBIETTIVI
anone è una società multinazionale operante nel settore alimentare. La sua “mission”
istituzionale è quella di migliorare l’alimentazione umana, sia con prodotti di alta qualità
ed elevato valore nutrizionale, sia con iniziative di ricerca e di divulgazione scientifica. In quest’ottica ha deciso di destinare risorse alla ricerca e alla cultura della nutrizione, dando vita
all’Istituto Danone.
D
L’Istituto Danone si prefigge di:
Incoraggiare la ricerca scientifica sul rapporto tra alimentazione e salute
Promuovere una corretta educazione alimentare
Diffondere i risultati della ricerca nutrizionale presso gli operatori della salute e dell’educazione alimentare
Costituire un anello di giunzione tra il mondo scientifico e gli operatori della salute e
dell’educazione alimentare
Gli obiettivi dell’Istituto Danone sono quindi due:
Conoscere – attraverso la promozione di ricerche, proprie o di terzi, nel settore nutrizionale
Far conoscere – attraverso attività editoriali e congressuali mirate a diffondere la cultura
della nutrizione
Per adempiere a questa missione, l’Istituto Danone si avvale di un Comitato Scientifico
che rappresenta l’elemento propositivo, la fonte delle conoscenze ed il garante della scientificità di tutte le attività dell’Istituto stesso. A far parte di questo Comitato sono stati chiamati, tra i massimi esperti nazionali dei vari settori della nutrizione umana, i professori Marcello
Giovannini (Presidente), Ermanno Lanzola e Carlo Vergani (Vicepresidenti), Vittorio Bottazzi,
Michele O. Carruba, Alberto Notarbartolo, Gianfranco Piva, Pierpaolo Resmini e Enrica Riva.
Sede Istituto Danone: Via F. Filzi, 25 – 20124 Milano
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E M S
DELLA
NUTRIZIONE
Anoressia nervosa
Dalle origini alla terapia
A cura di
Michele O. Carruba
Professore Ordinario di Farmacologia – Dipartimento di Scienze Precliniche
LITA Vialba, Ospedale “L. Sacco” – Università degli Studi di Milano
Presidente Associazione Nazionale Specialisti in Scienza dell’Alimentazione
Con la collaborazione di
Arianna Banderali
Specialista in Scienza dell’Alimentazione, Psicoterapeuta
Segretario Associazione Nazionale Specialisti in Scienza dell’Alimentazione
Presidente Associazione Italiana Disturbi dell’Alimentazione e del Peso
Giovanni Caputo
Segretario Scientifico della Società Italiana per lo Studio dei Disturbi
del Comportamento Alimentare, Responsabile del Centro Ambulatoriale
per la Diagnosi e la Cura dei Disturbi del Comportamento Alimentare
della ASL Roma B – Ospedale “S. Pertini” di Roma
Francesco Cavagnini
Professore Ordinario di Endocrinologia – Università degli Studi di Milano
Hellas Cena
Ricercatore presso il Centro Ricerche sulla Nutrizione Umana e la Dietetica
Università degli Studi di Pavia
Massimo Cuzzolaro
Presidente della Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare
Responsabile del Centro Ambulatoriale per i Disturbi del Comportamento Alimentare
del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell’Età Evolutiva
Università “La Sapienza” di Roma
Angela Favaro
Ricercatore in Scienze Psichiatriche – Dipartimento di Scienze Neurologiche
e Psichiatriche – Università degli Studi di Padova
Dirigente di I Livello – Azienda Ospedaliera di Padova
Enzo Nisoli
Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Precliniche
LITA, Ospedale “L. Sacco” – Università degli Studi di Milano
Gabriella Redaelli
Dirigente I Livello Divisione di Endocrinologia e Malattie Metaboliche
Ospedale “San Luca” IRCCS, Milano – Istituto Auxologico Italiano
Gabriella Ripa di Meana
Membro del Consiglio Scientifico della “Fondation Européenne pour la Psychanalyse”
Psicanalista – Roma
Paolo Santonastaso
Professore Associato di Psichiatria – Dipartimento di Scienze Neurologiche
e Psichiatriche – Università degli Studi di Padova
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ndice
Introduzione
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M.O. Carruba
Inquadramento: aspetti diagnostici, epidemiologici
ed eziopatogenetici
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M. Cuzzolaro
Il ruolo della famiglia nella genesi e nella terapia
29
A. Favaro, P. Santonastaso
La malnutrizione nell’anoressia nervosa
51
H. Cena
Le complicanze cliniche con particolare riferimento
al sistema endocrino
63
F. Cavagnini, G. Redaelli
Psicobiologia dell’anoressia nervosa:
un razionale per l’intervento farmacologico?
87
E. Nisoli
Anoressia: la cura psicanalitica
103
G. Ripa di Meana
La terapia cognitivo-comportamentale
129
A. Banderali
Le strutture di ricovero e cura
153
G. Caputo
3
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ntroduzione
M. O. Carruba
L’anoressia nervosa, come molte
altre patologie diffuse essenzialmente
nelle cosiddette “società del benessere”, è purtroppo una malattia complessa, subdola e difficile da trattare.
Complessa in quanto origina dall’interazione di diversi fattori: genetici, biologici, psicologici e micro- e macro-sociali che concorrono con ruoli diversi
nella genesi e nella perpetuazione della
patologia.
Instaurandosi con lentezza e prevalentemente nella popolazione femminile
in età adolescenziale, l’anoressia può
davvero essere considerata una patologia “subdola” in quanto colpisce,
all’esordio in modo non evidente, soggetti in una già complessa fase di strutturazione della propria identità fisica,
psicologica, sessuale e sociale, dove in
molti casi l’identificazione del proprio io
e la stima di sé coincidono in modo
eclatante con l’immagine corporea.
Oltre a questo la patologia risulta
difficile da trattare perché, nonostante
gli sforzi della ricerca di base, non esiste ancora un trattamento univoco e risolutivo. L’anoressia nasce come disturbo che affonda le sue radici nella
psiche, ma che genera una sequela di
problemi organici gravi e pericolosi che,
a loro volta, si ripercuotono nuovamente
sulla psiche. L’approccio terapeutico,
pertanto, non può che essere di tipo interdisciplinare e integrato e tendere necessariamente ad una riabilitazione sia
psichiatrica sia nutrizionale, utilizzando,
opportunamente bilanciati a seconda
delle caratteristiche del paziente, tutti
gli strumenti di cui si dispone.
Purtroppo l’incidenza di questa malattia è in rapida crescita e la classe
medica si trova spesso impreparata non
solo a gestirla ma spesso anche a riconoscerla nella sua fase di insorgenza.
Pertanto, fedeli allo spirito che vuole contraddistinguere questa collana di
volumi “ITEMS”, lo scopo di quest’opera è di riportare, in modo sintetico ma
puntuale, tutte quelle informazioni indi-
5
1802_99 Introduzione
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Introduzione
spensabili a comprendere la complessità di questa patologia emergente, in
modo da fornire alla classe medica
quegli strumenti necessari non tanto o
non solo per impostare una tempestiva
terapia, ma soprattutto per poterla individuare in fase precoce in modo da migliorarne la prognosi.
Oltre alle indispensabili informazioni
sui criteri diagnostici, epidemiologici,
eziopatogenetici e sulle complicanze e
sui diversi approcci terapeutici, un capitolo è stato dedicato alle strutture di ricovero e cura in modo da fornire delle
precise linee guida per un corretto approccio terapeutico che non può prescindere dalla disponibilità di idonei ambienti e strumenti di cura.
Infatti, purtroppo, nonostante gli
sforzi degli specialisti in questo campo,
il nostro Paese è ancora lontano dagli
standard assistenziali considerati ottimali per questa patologia.
Per sensibilizzare non solo la classe
medica, da parte della quale si riscontra
comunque già una concreta rispondenza, ma soprattutto l’ambito Istituzionale,
opera anche in modo attivo la SIS.DCA
(Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare), che
si batte per diffondere una più adeguata
consapevolezza e una maggiore cultura
per la gestione di questa patologia.
Siamo infatti consapevoli che si potranno ottenere grandi risultati e benefici per la collettività solo a condizione
che le Istituzioni Sanitarie regionali e
nazionali siano informate e istruite rispetto a questo grave problema sociale.
Noi medici da parte nostra abbiamo
il dovere non solo di incrementare la ricerca scientifica, ma anche di far sì che
il trasferimento di questi risultati si trasformi concretamente in benefici per i
pazienti, avviandoli verso il trattamento
per loro più adeguato.
Prof. Michele O. Carruba
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nquadramento:
aspetti diagnostici,
epidemiologici
ed eziopatogenetici
M. Cuzzolaro
Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell’Età Evolutiva
Università “La Sapienza” di Roma
è una caratteristica del secolo che si sta
chiudendo.
Dalla prima descrizione medica
dell’anoressia nervosa come malattia
specifica sono trascorsi ormai più di tre
secoli. Richard Morton pubblicò, nel
1689 in latino e nel 1694 in inglese, due
osservazioni cliniche, il caso di una ragazza di 18 anni e quello di un ragazzo di
16, segnalando che i caratteri di questi
due quadri erano in parte simili ma in
parte profondamente diversi rispetto a
quelli osservati in altre forme di consunzione (phthisis): chiamò la sindrome osservata nei due giovani “tisi nervosa”.
Nei tre secoli che ci separano dalle
osservazioni di Morton si sono succedute molte opinioni diverse sul tema dei
disturbi dell’alimentazione, della loro
classificazione nosografica e della loro
terapia.
D’accordo con vari studiosi, si può
dividere in cinque “ere” la storia del pensiero medico sull’anoressia nervosa:
1) descrittiva, 2) pituitaria (quando si
Uno sguardo indietro
Nella mitologia, nell’arte e nelle pratiche sociali, l’eccesso, l’orgia alimentare e il digiuno, non quello obbligato dalla
carestia ma quello autoimposto, hanno
sempre occupato spazi importanti.
La medicina, attenta fin dalle origini
alla dieta e agli effetti buoni e cattivi dei
regimi alimentari, si è interessata alla psicopatologia dell’alimentazione anche in
epoche remote.
L’anoressia nervosa, presente forse
nel Medioevo nella forma di digiuni ascetici perseguiti talora fino alla morte (sono esemplari le vicende di sante come
Margherita d’Ungheria o Caterina da
Siena), è stata descritta in testi di medicina almeno a partire dalla fine del Seicento. In quelle antiche cronache è possibile rintracciare molti dei sintomi propri
dei casi attuali salvo la paura morbosa
d’ingrassare e i disturbi dell’immagine
del corpo: la cerniera fra disagio del corpo e anomalie delle condotte alimentari
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Inquadramento: aspetti diagnostici, epidemiologici ed eziopatogenetici
confuse l’anoressia nervosa con l’insufficienza ipofisaria), 3) di riscoperta della
malattia, 4) psicoanalitica e 5) bio-psicosociale.
L’ultima fase è iniziata nei primi anni
Sessanta ed è stata caratterizzata dal
tentativo di studiare il concorso e le interazioni tra fattori biologici, psicologici
personali, familiari, culturali e macrosociali nella eziopatogenesi della malattia.
Sono state formulate varie ipotesi su
singoli fattori; non è stata ancora costruita, invece, una teoria sintetica che
spieghi i meccanismi eziopatogenetici
dell’anoressia nervosa e, in particolare,
che indichi quale specifica interazione di
forze sia necessaria e sufficiente per determinare la sindrome.
Il modello generale di malattia che
sembra più convincente e utile applicare
all’anoressia nervosa, allo stato attuale
delle conoscenze, è quello che vede nella malattia la “via finale comune” di vari
possibili processi patogenetici che nascono da interazioni diverse tra forze
molteplici.
Il modello della via finale comune è
stato applicato a molte patologie, dall’ulcera peptica alla depressione, e può essere riassunto in tre punti:
1. la malattia risulta dall’interazione di
vari fattori predisponenti che agiscono
su un individuo;
2. degli individui a rischio solo alcuni si
ammalano effettivamente;
3. in quelli che sviluppano la malattia la
presenza, il peso e le modalità di interazione dei vari fattori predisponenti
variano da caso a caso.
Secondo Lucas, nella terza e nella
quarta fase della storia dell’anoressia
nervosa, fra gli anni Trenta e i Sessanta,
i maggiori progressi hanno riguardato lo
studio psicologico e il trattamento psicoterapeutico della malattia.
Nella fase attuale, “bio-psico-sociale”, gli aspetti biologici della sindrome sono intensamente studiati accanto a quelli psicologici, micro- e macro-sociali. Sul
piano terapeutico, si tende a un “approccio terapeutico multidimensionale”.
L’anoressia nervosa
nella sistematica
clinica attuale
dei disturbi
del comportamento
alimentare
Nelle classificazioni psichiatriche
(World Health Organization, ICD-10,
1993; American Psychiatric Association,
DSM-IV, 1994) la rubrica disturbi dell’alimentazione o del comportamento alimentare (in inglese, eating disorders)
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M. Cuzzolaro
comprende l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa e i disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati (anoressie e bulimie parziali, incomplete, quadri clinici in cui sono presenti
quasi tutti ma non tutti i sintomi che la
comunità scientifica ha convenuto di ritenere necessari per la diagnosi medica
di anoressia o di bulimia). Fra questi ultimi, il “Disturbo da alimentazione incontrollata” (in inglese, “Binge Eating Disorder” ) ha suscitato nell’ultimo decennio un interesse crescente per i suoi legami, importanti, con l’obesità.
Anoressia nervosa e bulimia nervosa
sono due sindromi che la nosografia psichiatrica più recente, a partire dal 1980,
tiene distinte: i criteri diagnostici sono tali
che la diagnosi di stato può essere solo
l’una o l’altra. Anoressia e bulimia condividono però molti caratteri ed è frequente che la stessa persona passi, in momenti diversi della vita, dall’uno all’altro
disturbo.
A dispetto delle radici etimologiche
del termine (ob-edere: mangiare troppo) l’obesità non figura, finora, tra i disturbi del comportamento alimentare né
figura altrove nelle classificazioni psichiatriche. È una condizione somatica definita su base morfologica (eccesso di massa grassa) e non è dimostrato che sia
associata abitualmente a particolari di-
sturbi psichiatrici o a specifici profili patologici di personalità.
Un certo numero di persone obese
(dal 5 al 30% secondo il tipo di selezione del campione), soprattutto quelle che
si sono sottoposte a diete drastiche ripetute, presenta, però, un “Disturbo da alimentazione incontrollata”.
Sul piano epidemiologico, inoltre,
obesità e disturbi del comportamento alimentare sono aumentati in modo parallelo e con forti analogie di distribuzione
(Paesi industrializzati) nella seconda
metà del Novecento.
Il trattamento dell’obesità, infine, si
basa tuttora sulla ricerca di modificazioni
stabili dello stile di vita, in particolare del
comportamento alimentare e dell’attività
fisica: in altre parole, su cambiamenti
psicologici. È per queste ragioni che negli ultimi anni è diventata sempre più forte la tendenza a collegare gli studi sull’obesità a quelli sulla psicologia e la psicopatologia dell’alimentazione creando
gruppi multidisciplinari di lavoro, teorico e
clinico, nel campo.
Le principali novità introdotte dal
DSM-IV (1994) rispetto alle classificazioni precedenti (1980 e 1987) sono
state quattro:
1. i Disturbi del Comportamento Alimentare (Eating Disorders), DCA,
non sono più inscritti fra quelli di so-
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Inquadramento: aspetti diagnostici, epidemiologici ed eziopatogenetici
lito diagnosticati per la prima volta
durante l’adolescenza ma sono stati
spostati nel corpo generale della
classificazione;
2. le diagnosi di anoressia nervosa e di
bulimia nervosa non possono coesistere ma si escludono reciprocamente;
3. sono stati definiti due sottotipi per ciascuna sindrome;
4. è stata proposta una nuova categoria
diagnostica, Binge Eating Disorder,
che figura due volte: sia fra i Disturbi
del comportamento alimentare non
altrimenti specificati (cod. 307.50),
sia nell’Appendice B, come categoria
da sottoporre a ulteriori studi.
La Tabella 1 riassume i criteri correnti per la diagnosi di anoressia nervosa nei due sottotipi.
In sintesi, tre caratteristiche sono indispensabili per porre la diagnosi psichiatrica di anoressia nervosa: paura
morbosa di aumentare di peso, perdita
intenzionale di peso e amenorrea.
Tabella 1
Criteri diagnostici
dell’anoressia nervosa.
Anoressia nervosa – Criteri diagnostici DSM-IV (cod. 307.1)
A. Rifiuto di mantenere il peso corporeo al livello minimo normale per l’età
e la statura o al di sopra di esso (ad es., perdita di peso che porta a mantenere
il peso corporeo al di sotto dell’85% di quello atteso; o, in età evolutiva,
mancanza dell’aumento di peso previsto che porta a un peso corporeo inferiore
all’85% di quello atteso)
B. Intensa paura di aumentare di peso o di ingrassare, pur essendo sottopeso
C. Disturbi nel modo di sentire il peso e le forme del proprio corpo, influenza
indebita del peso e delle forme del corpo sulla valutazione di sé, o diniego
della gravità della perdita di peso in atto
D. Nelle donne che hanno già avuto il menarca, amenorrea, cioè assenza di almeno
tre cicli mestruali consecutivi. (Si considera una donna amenorroica se i suoi cicli
avvengono solo dopo somministrazione di ormoni, ad es., di estrogeni)
Specificare il sottotipo
• Sottotipo con restrizioni: durante l’episodio di anoressia nervosa la persona
non presenta frequenti episodi di abbuffate o di comportamenti purgativi
(ad es., vomito autoindotto o abuso/uso improprio di lassativi, diuretici o clisteri)
• Sottotipo con abbuffate/condotte di eliminazione: durante l’episodio
di anoressia nervosa la persona presenta frequenti episodi di abbuffate
compulsive o di comportamenti purgativi (ad es., vomito autoindotto o abuso/uso
improprio di lassativi, diuretici o clisteri)
[la soglia di frequenza non è fissata: ≥ 1 episodio/settimana?]
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Nell’anoressia nervosa il peso viene
mantenuto a livelli più bassi che nella bulimia nervosa con un Indice di Massa
Corporea di solito ≤ 17,5 kg/m2. L’Indice di Massa Corporea (inglese: Body
Mass Index, BMI) si calcola dividendo il
peso in chilogrammi per l’altezza in metri elevata al quadrato (BMI = kg/m2). Si
considerano valori normali quelli compresi tra 19 e 24.
La diagnosi differenziale fra anoressia nervosa di tipo bulimico e bulimia nervosa è fondata sui criteri amenorrea e
peso: nell’anoressia le mestruazioni
mancano da almeno tre mesi o non sono mai comparse (anoressia nervosa
prepuberale o premenarcale) e il peso è
gravemente inferiore a quello atteso.
L’anoressia nervosa maschile, che
presenta anch’essa una variante bulimica, è molto più rara di quella femminile
(1:10). Le caratteristiche cliniche sono
simili e i criteri diagnostici sono gli stessi: l’amenorrea è sostituita dalla perdita
della libido e dell’attività eiaculatoria.
Secondo alcuni studiosi il bisogno
coatto ed eccessivo di esercizio muscolare (palestra, corsa, ecc.) in adolescenti e giovani deve essere interpretato come un equivalente dell’anoressia nervosa. In effetti, questo sintomo fa parte
spesso di un quadro anoressico ma da
solo non giustifica l’equivalenza.
Lo spettro
del comportamento
alimentare
I comportamenti alimentari umani e
quelli di un singolo individuo in epoche
diverse della vita si distribuiscono lungo
un continuum.
È frequente che uno stesso paziente entri ed esca tra varie categorie diagnostiche: molte anoressie evolvono in
senso bulimico (più della metà); molti
soggetti affetti da bulimia hanno sofferto
in precedenza di un disturbo anoressico
conclamato o, più spesso, parziale, breve, passato magari inosservato; in altri
casi ancora si alternano nel tempo fasi
anoressiche e fasi bulimiche.
Comportamenti anoressici e bulimici
si combinano fra loro e si succedono gli
uni agli altri sia perché in entrambi la costruzione del sintomo passa attraverso il
codice alimentare sia perché si instaura
un circolo vizioso: restrizione prolungata
dell’introito calorico → perdita di controllo sull’alimentazione → senso di colpa e allarme → restrizione dell’introito
calorico.
Le diete drastiche, soprattutto se
protratte e ripetute, producono due
conseguenze: alterano il metabolismo
con diminuzione del dispendio energetico di base e maggiore tendenza a in-
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Inquadramento: aspetti diagnostici, epidemiologici ed eziopatogenetici
grassare e inducono disturbi del comportamento alimentare, in particolare
in senso bulimico: la restrizione favorisce la disinibizione e la perdita di controllo.
Per queste ragioni nell’obesità è così difficile mantenere nel tempo le perdite di peso conseguite e, fra gli obesi, sono soprattutto quelli che hanno fatto
molte diete a sviluppare un disturbo da
alimentazione incontrollata.
L’abuso di diete restrittive è tra i fattori responsabili dell’insorgenza di comportamenti alimentari abnormi e la diffusione delle diete estetiche è una delle
cause del grande aumento dei disturbi
dell’alimentazione.
La Figura 1 rappresenta graficamente le aree di sovrapposizione di sintomi fra i vari disturbi del comportamento alimentare e la distribuzione del sintomo binge eating (abbuffate compulsive)
(Cuzzolaro, 1997).
Dati epidemiologici
La specie umana ha sviluppato attraverso migliaia di secoli meccanismi
biologici e schemi di comportamento
Figura 1
ANr =
ANb =
BNp =
BNnp =
BED =
Aree di sovrapposizione
dei sintomi e
distribuzione trasversale
del comportamento
binge eating.
Anoressia Nervosa tipo restrittivo
Anoressia Nervosa tipo bulimico
Bulimia Nervosa tipo purgativo
Bulimia Nervosa tipo non purgativo
Binge Eating Disorder
(Disturbo da Abbuffate Compulsive)
Presenza del sintomo
“abbuffate compulsive”
(binge eating)
BED
BNp
ANr
ANb
ANORESSIA
NERVOSA
BNnp
BULIMIA
NERVOSA
BINGE
EATING
DISORDER
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OBESITÀ
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M. Cuzzolaro
adatti a fronteggiare la penuria di risorse
alimentari. Solo da pochi decenni e solo
in alcune regioni della Terra si confronta,
impreparata, con la sovrabbondanza di
cibo. Questo è lo sfondo su cui si inscrive il grande aumento di anoressia, bulimia e obesità nella seconda metà del
Novecento.
Nel loro insieme i disturbi del comportamento alimentare rappresentano un
problema grave e diffuso soprattutto tra
le adolescenti e le giovani donne. Studi
sulla fascia d’età 8-14 anni indicano una
elevata presenza di comportamenti alimentari abnormi già in epoche molto
precoci.
Nei Paesi occidentali industrializzati,
compresa l’Italia, ogni 100 ragazze in età
di rischio (12-25 anni) 8-10 soffrono di
qualche disturbo del comportamento alimentare: 1-2 nelle forme più gravi (anoressia e bulimia), le altre nelle forme più
lievi, spesso transitorie, di disturbi parziali, subliminali. Tra le giovani donne la
prevalenza della bulimia (1%) è maggiore di quella dell’anoressia (0,3-0,5%).
Anoressia e bulimia colpiscono soprattutto le donne (90-95% dei casi).
L’anoressia nervosa prediligeva, in
passato, le classi sociali medio-alte. Negli ultimi due decenni tutti i disturbi del
comportamento alimentare si sono
equamente diffusi nei vari strati sociali.
L’età d’esordio cade, per lo più, fra i
10 e i 30 anni: l’età media d’insorgenza
è 17 anni. Sono descritte forme, non rare, prepuberali, che insorgono prima dei
primi cambiamenti somatici della pubertà, e premenarcali, prima del menarca, mai comunque prima degli 8 anni.
Sono descritte anche forme tardive, perfino successive alla menopausa. In questi ultimi casi, la diagnosi differenziale
deve prestare attenzione a disturbi depressivi mascherati e ricercare precedenti episodi anoressici rispetto ai quali
quello attuale può essere una lontana recidiva.
L’anoressia maschile (Andersen,
1990) non presenta differenze sostanziali, sul piano epidemiologico, rispetto a
quella femminile. Anche tra i maschi l’incidenza e la prevalenza dell’anoressia
sembrano in aumento negli ultimi decenni, ma forse non nella stessa proporzione del sesso femminile.
È stata segnalata una rapida sequenza di cambiamenti nella frequenza
relativa delle varie forme di psicopatologia del comportamento alimentare: negli
anni Sessanta i quadri clinici più comuni
erano le anoressie restrittive, nei decenni successivi sono diventate sempre più
frequenti le forme bulimiche.
Anoressia e bulimia sono sindromi
legate alla cultura (culture bound), spe-
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Inquadramento: aspetti diagnostici, epidemiologici ed eziopatogenetici
cifiche cioè di alcuni Paesi e di certe culture e assenti in altri. È un dato importante per la comprensione del peso dei
fattori sociali e culturali nella loro patogenesi (Nasser, 1997; Vandereycken e
Noordenbos, 1998).
Anoressia e bulimia sono disturbi
frequenti nei Paesi occidentali industrializzati, in Australia e Nuova Zelanda, in
Sudafrica, in Giappone. Sono assenti o
molto rare nei Paesi poveri dell’Africa,
dell’Asia e dell’America Latina.
Anoressia e bulimia appaiono legate
a valori e conflitti specifici della cultura
occidentale, connessi, in particolare, alla costruzione dell’identità femminile e al
ruolo familiare e sociale della donna
(Nasser, 1997; Blechman e Brownell,
1998). La loro diffusione in Paesi
dell’Est europeo, del Terzo Mondo e fra
gli immigrati da nazioni povere verso nazioni ricche appare correlata al miglioramento delle condizioni economiche e,
ancora di più, ai processi di acquisizione
di modelli culturali occidentali.
to alimentare. Non è ancora possibile
costruire una teoria sintetica che spieghi
i meccanismi eziopatogenetici e che, in
particolare, indichi quale specifica interazione di forze sia necessaria e sufficiente.
È utile distinguere tra fattori predisponenti a lungo termine, fattori precipitanti e fattori che tendono a perpetuare
la sindrome. Un cenno particolare meritano alcuni fattori di natura iatrogena.
Fattori predisponenti
a lungo termine
Un rapido elenco di possibili fattori di
rischio comprende: una predisposizione
genetica, il genere femminile, la giovane
età, una storia di sovrappeso e di diete,
alcune malattie croniche (ad es., diabete mellito, sindrome di Turner), certi tratti di personalità e problemi psicologici (ad
es., tratti ossessivi, ambizioni esasperate, perfezionismo, scarso controllo degli
impulsi, intolleranza delle frustrazioni,
particolari difficoltà nel processo di separazione-individuazione, rifiuto del corpo
adulto e della sessualità, fissazione all’infanzia e a forme infantili di dipendenza e
di controllo).
Una parte importante, studiata da
tempo (Selvini-Palazzoli, 1981), è gio-
Fattori
eziopatogenetici
Fattori individuali, familiari e socioculturali concorrono a determinare l’insorgenza dei disturbi del comportamen-
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cata dalle caratteristiche di vischiosità e
scarsa definizione dei ruoli del gruppo familiare, dall’incapacità di riconoscere e
incoraggiare la distinzione, la separazione, l’autonomia. Sono frequenti la soggezione al mito del successo, il bisogno
di rispondere sempre alle attese sociali e
di eseguire al meglio i compiti richiesti, la
dipendenza dal consenso e dall’ammirazione degli altri.
Su queste stesse linee interviene il
peso dei fattori micro- e macro-sociali e
dei valori culturali: la competitività esasperata di certi ambienti (scolastici, artistici, sportivi), la richiesta di prestazioni
straordinarie, l’esaltazione della magrezza, il mito della bellezza, le sollecitazioni
molteplici e contraddittorie alle quali è
esposta una giovane donna nell’era postmoderna, variegato collage di nuovo e di
antico.
un trauma e una minaccia al controllo di
sé e della propria vita.
La pubertà femminile è una vicenda
più complessa di quella maschile dal
punto di vista della elaborazione psichica: rapido aumento del peso corporeo,
trasformazioni morfologiche evidenti,
menarca, rischio di gravidanza, cambiamento profondo nel modo di essere
guardata.
Un nucleo psicologico importante è
la paura di perdere il controllo e la stima
di sé: la reazione difensiva può essere
una estrema concentrazione sul corpo,
sul peso e sulla dieta come campo privilegiato nel quale recuperare un sentimento di dominio e di valore.
La perdita di peso e la repressione
degli impulsi golosi acquista il significato
di un’impresa straordinaria e di un segno, eroico e irrinunciabile, di autodisciplina; al contrario, un aumento anche minimo di peso diventa il segnale di una
perdita catastrofica di controllo e di prestigio.
L’ipotesi che lega dieta, immagine
mentale del corpo e stima di sé è un vertice utile per l’interpretazione di alcuni
sintomi anoressici e bulimici: al controllo
e alla manipolazione dell’immagine del
proprio corpo attraverso la dieta viene affidato il compito di riparare debolezze e
conflitti della stima di sé.
Fattori precipitanti
Vari eventi della vita possono precipitare l’inizio di un’anoressia o di una bulimia: separazioni e perdite, malattie, alterazioni dell’omeostasi familiare, esperienze sessuali, situazioni minacciose per
la stima di sé.
Un evento importante è l’esperienza
dei cambiamenti puberali, vissuta come
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Fattori di autoperpetuazione
Rialimentazioni forzate non contrattate con la paziente, non accompagnate
da un efficace supporto psicoterapeutico e tali da provocare un aumento rapido di peso scatenano gravissime ansie,
sono seguite da ricadute e, talora, provocano tentativi di suicidio o scompensi
psicotici.
Gli effetti del digiuno e della perdita
di peso tendono a mantenere i sintomi
perché accentuano la concentrazione sul
cibo, il corpo e il mangiare, aggravano le
distorsioni dell’immagine del corpo e dei
segnali enterocettivi, scatenano crisi bulimiche. Le crisi bulimiche aumentano
l’ansia e la paura di perdere il controllo e
impongono contromisure difensive come
il vomito autoindotto, l’abuso di lassativi,
restrizioni ulteriori della dieta.
Altri fattori di autoperpetuazione sono i guadagni secondari legati alla malattia: posizione di potere in famiglia, attenzioni particolari, esonero da situazioni
sessuali e sociali temute.
Immagini del corpo
e stili alimentari
Le sindromi psichiatriche non sono
entità naturali stabili ma quadri mutevoli
che risentono dello spirito del tempo.
I moderni disturbi del comportamento alimentare (World Health Organization, 1993; American Psychiatric Association, 1994) differiscono da quelli antichi (Morton, 1689; Bell, 1985) non solo
per gli aspetti “quantitativi” appena segnalati (quell’aumento epidemico della
loro incidenza che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento) ma anche
sul piano “qualitativo”, fenomenologico:
la pratica del digiuno volontario e la tendenza all’eccesso alimentare incontrollato accompagnano l’uomo fin dalle origini della sua storia ma solo nella nostra
epoca si sono associate a preoccupazioni, particolari ed esasperate, per il peso
e l’aspetto del corpo (Guillemot e Laxe-
Fattori iatrogeni
Alcuni interventi medici possono favorire lo scatenamento, il mantenimento
o l’aggravamento dei disturbi del comportamento alimentare.
La prescrizione di diete senza una
adeguata valutazione dei fattori di rischio
può avviare l’inizio della malattia.
Una gravidanza consentita da trattamenti dell’infertilità può riaccendere una
sindrome anoressica in remissione, anche da anni.
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naire, 1993; Ripa di Meana, 1995;
Thompson, 1996; Ripa di Meana e Cuzzolaro, in corso di stampa).
È stata già segnalata l’ipotesi di un
circuito disistima di sé ↔ disagio del
corpo ↔ dieta. Ed è stata sostenuta da
più parti l’idea che l’insoddisfazione del
corpo possa essere un fattore di rischio
per lo sviluppo di un disturbo del comportamento alimentare.
Inoltre, un disagio del corpo fino a
una grave dismorfofobia (in termini attuali: disturbo di dismorfismo corporeo)
può rappresentare una sequela psicopatologica non rarissima di un disturbo
anoressico o bulimico guarito.
D’altra parte, la frequenza delle anoressie e delle bulimie è molto più bassa
della frequenza con la quale le persone,
soprattutto giovani, soprattutto donne,
segnalano sentimenti di insoddisfazione
del peso e del corpo ai quali reagiscono
con diete, esercizio fisico e altri comportamenti, più o meno inadeguati.
Dobbiamo supporre, dunque, che il
ruolo giocato dall’insoddisfazione del
corpo nella patogenesi di un’anoressia o
di una bulimia sia importante, sia una
condizione probabilmente necessaria ma
di certo non sufficiente.
I modelli eziopatogenetici sono esercizi speculativi preziosi, fondamentali ipotesi di lavoro e di ricerca.
Modelli interessanti per le questioni
in esame sono quelli della psicopatologia
evolutiva, che studia la costruzione e le
peripezie dei sintomi nei vari passaggi
esistenziali. Il “modello a due componenti”, sviluppato da Mary Connors qualche
anno fa (1996), sostiene in sintesi la seguente tesi: è possibile individuare una
serie di fattori di rischio per lo sviluppo
della insoddisfazione del corpo.
Tali fattori possono essere distinti in
ambientali (ad es., pressioni socio-culturali alla magrezza), fisici (ad es., tendenza genetica al sovrappeso) ed evolutivi (ad es., pubertà, prime relazioni sessuali). Bastano, forse, a provocare insoddisfazione del corpo e tendenza a far
diete; ma non bastano, di certo, a determinare una patologia del comportamento alimentare. Dobbiamo immaginare, allora, l’intervento di altre variabili. Il
modello a due componenti suggerisce
una seconda serie di fattori che contribuirebbero a provocare difficoltà di autoregolazione, difetti nella stima di sé e
attaccamento insicuro. Possono essere
raccolti in tre gruppi: fattori temperamentali e di personalità (ad es., dipendenza dall’approvazione degli altri); fattori traumatici (ad es., abusi fisici e sessuali, negligenze gravi subìte nel corso
dell’infanzia); fattori familiari (ad es., invischiamento).
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Inquadramento: aspetti diagnostici, epidemiologici ed eziopatogenetici
Qualche riflessione ancora sui fattori familiari. Decolpevolizzare le famiglie è
un’idea basilare sia sul piano terapeutico
sia su quello scientifico. Questa posizione ha aperto vicoli ciechi e ha eliminato
eziologie pseudoscientifiche e semplificazioni moralistiche.
Non dobbiamo cadere, però, in un
pregiudizio opposto e pensare che i comportamenti familiari, il modo di essere
genitori, siano irrilevanti rispetto allo sviluppo delle patologie dell’alimentazione e
al loro mantenimento. Basta pensare alle non rare esperienze traumatiche di
abusi fisici e sessuali o di negligenze gravi. Ma anche, e soprattutto, agli abusi
emotivi e a quelle non tangibili atmosfere che gli anglosassoni chiamano insensitive parenting (essere genitori in modi
che non entrano in sensibile sintonia con
i bisogni e le emozioni dei figli).
I fattori di rischio temperamentali,
traumatici e familiari, quando sono presenti in modo importante, possono costituire da soli la premessa di psicopatologie di vario genere (disturbi depressivi,
disturbi d’ansia, disturbi dissociativi, questi ultimi, ad es., soprattutto in seguito a
pesanti esperienze traumatiche). Quando
si combinano con i fattori di rischio per
l’insoddisfazione e il disagio del corpo
possono determinare l’insorgenza di un
disturbo del comportamento alimentare.
Psicometria
La psicometria è un ramo della psicologia. Persegue, come indica il nome,
l’obiettivo di misurare i fatti psichici descrivendoli sotto forma di numeri.
Nelle scienze esatte il numero misura il rapporto fra una grandezza e un’altra della stessa specie, assunta come
unità. In psicologia, il numero non esprime esattamente una quantità ma funziona come un indice che segnala la presenza, più o meno marcata, di una caratteristica.
Gli strumenti utilizzati dalla psicometria sono i test o reattivi mentali.
Un test mira a cogliere e a misurare
le differenze fra le reazioni psichiche di
diversi individui o dello stesso individuo in
tempi e condizioni diverse.
Gli strumenti psicometrici per lo studio della psicopatologia dell’alimentazione sono diventati sempre più numerosi
nel corso degli ultimi trent’anni. Quantità
e varietà sono aumentate in misura parallela all’aumento di frequenza dei casi e
all’esplosione dell’interesse, scientifico e
popolare, in tutti i Paesi occidentali industrializzati, compresa l’Italia, per l’anoressia, la bulimia e l’obesità. Gli strumenti psicometrici trovano applicazioni
nello screening diagnostico (clinico ed
epidemiologico), nella valutazione di indi-
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ci di gravità e negli studi di follow-up sulla storia naturale dei disturbi e sulla loro
risposta a vari tipi di trattamento.
Gli strumenti in uso possono essere
raggruppati in quattro categorie principali:
– scale di autovalutazione;
– scale di valutazione da parte di un osservatore;
– tecniche di misurazione della capacità
di valutare il proprio corpo;
– interviste strutturate.
Il più noto e il più usato fra i test per
l’anoressia nervosa è un questionario autosomministrato: Eating Attitudes Test
(EAT, 1979). L’EAT (Garner e Garfinkel,
1979) è uno strumento che misura i
comportamenti alimentari patologici e
l’atteggiamento psicologico verso il cibo
e il peso, caratteristici dell’anoressia nervosa.
La versione originale (EAT 40) è formata da 40 items. Esiste una versione ridotta (EAT 26) formata da 26 items.
Ad ogni item è possibile rispondere
su una scala Likert a 6 punti: sempre,
molto spesso, spesso, talvolta, raramente, mai.
Al momento della valutazione, per
ogni item, alla risposta più sintomatica si
assegna un punteggio 3, a quella immediatamente adiacente 2, alla successiva
1 e alle restanti tre 0.
I punteggi di tutti gli items vengono
sommati per raggiungere un indice globale della sintomatologia alimentare che
può, quindi, variare da 0 a 120.
Il cut off è fissato dagli autori ai livelli 29/30 e 19/20, rispettivamente per la
versione a 40 e 26 items. Punteggi superiori al cut off (≥ 30 o ≥ 20) indicano
la presenza molto probabile di sintomi di
DCA ma non implicano, necessariamente, una diagnosi di anoressia nervosa o di
bulimia nervosa.
Come tutti gli altri test di questo tipo
l’EAT non ha, dunque, capacità diagnostiche.
È prezioso come strumento di
screening in ricerche epidemiologiche
in due fasi (test e intervista dei soggetti
high-scorers, che hanno riportato punteggi superiori al cut off) ed è utile come
strumento clinico di valutazione della gravità dei sintomi e del loro andamento nel
tempo.
L’EAT è stato tradotto e validato in
molte lingue e applicato a culture diverse. È stato utilizzato in Paesi dell’Europa
Orientale, dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina e in popolazioni immigrate di prima e seconda generazione.
È lo strumento psicometrico per lo
studio dei DCA più usato in assoluto e
più sperimentato in culture diverse. In
Italia è stato tradotto e validato (Cuzzola-
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Punteggi medi EAT
nell’anoressia nervosa
e negli altri gruppi
diagnostici.
60
50
40
30
20
10
0
Il punteggio medio è inferiore alla linea di cut off (29/30) solo nell’obesità
non complicata da BED.
Terapia
Anoressie e bulimie possono essere
malattie molto gravi, pericolose, difficili
da curare.
Nella costruzione di una strategia efficace vanno tenuti presenti quattro
aspetti importanti:
a) La funzione economica del sintomo
È necessario tener conto dei rischi
biologici e delle emergenze somatiche
create dai sintomi così come della funzione di quei sintomi stessi, costosa di-
......................................
Figura 2
Punteggi medi EAT
ro et al., 1988) e applicato in numerosi
studi epidemiologici e clinici.
Il grafico seguente (Fig. 2), tratto da
un campione di 479 utenti dell’ambulatorio per i Disturbi del Comportamento
Alimentare dell’Università di Roma “La
Sapienza” (DSNPEE, Cuzzolaro), mostra
i punteggi medi EAT nei diversi gruppi
diagnostici: ANr (Anoressia Nervosa restrittiva), ANb (Anoressia Nervosa bulimica), BNp (Bulimia Nervosa con pratiche di svuotamento), BNnp (Bulimia
Nervosa senza pratiche di svuotamento),
STED (subthreshold eating disorders,
sindromi parziali), BED (Binge Eating
Disorder), O + BED (Obesità con Binge Eating Disorder), O no BED (Obesità senza Binge Eating Disorder).
ANr
ANb
BNnp
20
BNp
STED
BED
O + BED O no BED
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fesa di una certa integrità di funzionamento mentale.
b) Le interazioni familiari
Una terapia che non coinvolga in
qualche forma e in qualche fase i genitori ha poche probabilità di successo, soprattutto se la paziente è giovanissima;
una terapia che manchi di riconoscere
profondamente l’identità individuale del
soggetto e il suo bisogno di separazione
e distinzione non ne ha nessuna.
c) Il transfert
L’investimento emotivo sul terapeuta
è sospeso fra un eccesso divorante, insaziabile e il rifiuto. L’uso mirato della frustrazione, la ricostruzione sistematica
delle regole terapeutiche, la gestione
calda e ferma della distanza sono presupposti indispensabili in ogni approccio
e in ogni contesto di cura.
d) La collaborazione di specialisti
diversi
I disturbi del comportamento alimentare sono le malattie mentali che coinvolgono e sconvolgono più profondamente il corpo e la sua biologia. Nel corso del tempo, processi psichici e somatici interagiscono fra loro e contribuiscono a determinare, mantenere e complicare i quadri clinici. Il disturbo di base è
psicopatologico. Quindi, la cura a lungo
termine compete a psichiatri, psicanalisti
e psicoterapeuti. Ma in varie circostanze,
a volte d’emergenza, è necessario l’intervento breve di altri specialisti: nutrizionisti, internisti, ginecologi, endocrinologi,
odontoiatri. È necessario imparare a collaborare riconoscendo e rispettando le
diverse aree di competenza.
Ricovero
In condizioni di emaciazione molto
gravi, gli effetti di qualunque psicoterapia
possono essere annullati dai fenomeni di
autoperpetuazione della sindrome legati
alla denutrizione.
È opinione largamente condivisa
che, mentre i casi meno gravi possono
essere trattati subito ambulatoriamente,
quelli più gravi devono essere inizialmente ricoverati. L’ambiente ideale per il ricovero è un piccolo reparto specializzato.
Può essere sufficiente un ricovero parziale, diurno (day hospital).
Le condizioni che, da sole o combinate, possono rendere indispensabile un
ricovero sono le seguenti: perdita di peso ≥ 40% (più temibile se si è verificata
in poco tempo) e rifiuto assoluto di alimentarsi; squilibri elettrolitici (ipopotassiemia); disturbi psichici gravi e alto rischio di suicidio; necessità di una separazione dalla famiglia per interazioni patologiche non controllabili.
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Senza un certo recupero del peso il
trattamento psicoterapeutico di un’anoressica grave è spesso destinato al fallimento, ma è altrettanto vero che ricovero e rialimentazione possono essere accettati solo all’interno di una relazione psicologica di fiducia. Impresa difficile perché la maggior parte delle anoressiche
nega la malattia o riconosce come patologici solo alcuni sintomi (ad es., le crisi
bulimiche ma non la ricerca di magrezza).
È importante stabilire un rapporto di collaborazione con la famiglia. Un ricovero
coatto è molto raro e non auspicabile.
Durante la degenza, la rialimentazione deve essere effettuata evitando metodi coercitivi e umilianti e pericolose
reintegrazioni massive. L’informazione e
semplici tecniche comportamentali, affidate a dietisti e infermieri specializzati,
sono di grande aiuto. Già durante il ricovero, è bene avviare o almeno prevedere un trattamento psicanalitico o psicoterapeutico sistematico a lungo termine,
da proseguire dopo la dimissione. Sono
utilizzate tecniche individuali, familiari e
di gruppo, da sole o associate.
ste patologie né un’efficacia a lungo termine dimostrata sperimentalmente.
Nel corso del tempo, a partire dalla
scoperta dei primi psicofarmaci (cloropromazina, 1952), vari trattamenti farmacologici sono stati tentati in forma sia
di segnalazioni aneddotiche e di studi
aperti senza gruppo di controllo, sia di ricerche controllate con placebo in doppio
cieco.
Un neurolettico, la cloropromazina, è
stata impiegata per la prima volta nel
trattamento dell’anoressia nervosa alla
fine degli anni Cinquanta. Altri neurolettici tipici e atipici (aloperidolo, pimozide,
sulpiride, ecc.) sono stati impiegati con
benefici solo sintomatici e incostanti e
nessun cambiamento sostanziale del nucleo psicopatologico.
Se i neurolettici (in particolare la cloropromazina) hanno marcato il trattamento farmacologico dell’anoressia nervosa negli anni Sessanta, l’impiego di
antidepressivi nell’anoressia e, soprattutto, nella bulimia, ha dominato le ricerche
negli ultimi decenni.
Per quanto riguarda i risultati dei trial
farmacologici con antidepressivi nell’anoressia nervosa, a dispetto di alcune
osservazioni aneddotiche promettenti,
vari studi controllati sull’amitriptilina e
sulla clomipramina non hanno evidenziato differenze significative rispetto al pla-
Psicofarmaci
Non esistono finora farmaci che abbiano un’indicazione specifica per que-
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cebo né per l’aumento di peso né per la
depressione. Il carbonato di litio ha prodotto effetti positivi sull’aumento di peso
significativi rispetto al placebo ma nessun cambiamento apprezzabile sull’atteggiamento anoressico né sull’umore.
Attualmente, come indicazione clinica generale, si può dire che l’impiego di
antidepressivi nell’anoressia deve essere
limitato ai casi in cui coesistono gravi sintomi depressivi e ossessivi, soprattutto
quando persistono, o addirittura si accentuano, dopo il recupero del peso.
Tra gli altri farmaci, la metoclopramide si è rivelata più efficace del placebo
nell’alleviare la dispepsia postprandiale di
un piccolo gruppo di anoressiche, ma la
ricerca dovette essere interrotta perché il
farmaco sembrava precipitare stati depressivi. Per questo motivo, sembra più
consigliabile per i sintomi di ripienezza
gastrica e di intollerabile gonfiore il domperidone, un altro farmaco che blocca la
dopamina ma non supera la barriera
ematoencefalica.
La ciproeptadina, agente antistaminico e antiserotoninico che stimola l’appetito e favorisce l’aumento ponderale, è
stata sperimentata negli anni Ottanta.
A dosi elevate (fino a 32 mg al giorno), la ciproeptadina ha favorito un certo
recupero ponderale in casi di anoressia
nervosa restrittiva ma ha peggiorato i
sintomi in casi del sottotipo bulimico. Il
farmaco non ha trovato nessun impiego
clinico utile.
Il tetraidrocannabinolo è stato usato
senza nessun vantaggio in uno studio
controllato su undici pazienti alcuni dei
quali hanno sviluppato, piuttosto, una
grave disforia con sentimenti di perdita di
controllo e ideazione paranoide: la sostanza è stata provata per la sua capacità
di stimolare l’appetito.
Negli ultimi anni non si sono verificate novità di rilievo salvo qualche segnalazione di una possibile utilità della fluoxetina nella prevenzione di ricadute in pazienti in remissione e qualche ipotesi, del
tutto preliminare, sull’impiego di nuovi
neurolettici (risperidone e olanzapina).
Psicanalisi e psicoterapie
Il trattamento di scelta dei disturbi
del comportamento alimentare è psicologico. I trattamenti psicanalitici o psicoterapeutici, spesso protratti per anni, anche dieci e più, costituiscono, tuttora, lo
strumento più utile di intervento.
La psicanalisi si è occupata di anoressia fin dalle sue origini e per oltre
vent’anni, dagli anni Cinquanta ai Settanta, ha rappresentato l’approccio egemone a questa sindrome.
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Inquadramento: aspetti diagnostici, epidemiologici ed eziopatogenetici
Modelli teorici diversi si sono succeduti e variamente integrati nel tempo:
modello del conflitto pulsioni/difese, psicologia dell’Io, teoria delle relazioni oggettuali, teoria dell’inconscio come linguaggio, psicologia del Sé.
L’indirizzo cognitivo-comportamentale e quello familiare-sistemico hanno dato altri contributi fondamentali alla comprensione e al trattamento dei disturbi
del comportamento alimentare.
Mancano ancora studi sufficientemente estesi e rigorosi che confrontino i
risultati conseguiti con tecniche psicoterapeutiche diverse e con combinazioni di
trattamenti. Una indicazione generale
può essere la seguente: le terapie relazionali-sistemiche (della famiglia) sono
forse il trattamento più efficace per le
pazienti più giovani, fino ai 16 anni; in fasce di età successive sembrano preferibili trattamenti individuali.
Anche quando si applica un trattamento individuale è in genere utile e
spesso indispensabile una consulenza
psicologica, se non una terapia formalizzata, dei genitori o del partner.
risolve spontaneamente in pochi mesi, fino all’estremo opposto di una malattia
cronica, persistente o ricorrente, con una
elevata mortalità. Gli esiti riportati sono
molto diversi da studio a studio per differenze nei campioni, nella durata e nel
metodo dei controlli catamnestici, nei
metri di giudizio.
Nella valutazione devono essere prese in considerazione tre dimensioni: fisica, psichica, sociale. L’esperienza clinica
suggerisce che il decorso della malattia
non è lo stesso ai tre diversi livelli e che
altri disturbi psicopatologici tendono a
persistere a lungo o a presentarsi ex novo anche dopo la remissione dei sintomi
specifici, il miglioramento delle condizioni fisiche e il conseguimento di buoni risultati negli studi e nel lavoro. Non sono
poche le ragazze che, dopo aver superato una malattia anoressica o bulimica,
sviluppano, a breve o lungo termine, altri sintomi psicopatologici, a volte nella
forma di gravi quadri psichiatrici, a volte
in quella di manifestazioni più lievi, tratti
di personalità, stili di vita.
Quanto più lungo è il controllo catamnestico tanto minori sono i risultati
favorevoli: non sono attendibili studi di
durata inferiore a quattro anni. L’età della morte è relativamente tardiva rispetto
a quella di insorgenza. Il suicidio è una
causa frequente di morte.
Esiti
Il decorso dell’anoressia va da un
episodio singolo in adolescenza, che si
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In un terzo dei casi, includendo anche
i meno gravi, la malattia dura più di 6 anni. Il tasso di ricadute (ritorno dei sintomi
dopo breve remissione) è elevato. Recidive (ritorno dei sintomi dopo lunga remissione e interruzione del trattamento) capitano anche a vari anni di distanza.
Miglioramenti notevoli e guarigioni
possono verificarsi anche dopo molti anni di malattia.
somatici, unica strategia efficace di intervento nelle fasi più gravi, rappresenta
l’eccezione occasionale piuttosto che la
regola.
I servizi specialistici di riferimento,
unità operative, strutture residenziali e
semiresidenziali dirette a progetti di riabilitazione a medio e lungo termine, sono assolutamente insufficienti rispetto
al fabbisogno su tutto il territorio nazionale.
La situazione è ancora più grave nelle regioni dell’Italia Centrale e Meridionale.
Il trattamento esige nuovi modelli di
integrazione di competenze professionali diverse.
Per quanto riguarda i servizi, una buona
organizzazione dovrebbe prevedere:
– strutture ambulatoriali specializzate distribuite su tutto il territorio nazionale.
Tali strutture dovrebbero essere in
grado di attuare una valutazione clinica completa, di formulare un piano terapeutico e di attuarlo, con largo spazio per gli interventi psicoterapeutici;
– un centro di ricovero e un servizio di
ospedale diurno specializzati ai quali
più strutture ambulatoriali dovrebbero
far riferimento per il trattamento di
quei casi che richiedono interventi
d’urgenza a breve termine o interventi
di riabilitazione a medio-lungo termine.
Luoghi di cura:
qualche ipotesi
per il futuro
I costi sociali e sanitari sono esaltati
dal fatto che la gestione è, per lo più, in
Italia, non specializzata con ricoveri e
trattamenti ripetuti in servizi inadeguati.
La domanda di cura per anoressie e
bulimie si distribuisce oggi, nel nostro
Paese, in modo largamente casuale: reparti e ambulatori di psichiatria, medicina
interna, ginecologia, endocrinologia, nutrizione clinica possono esserne ugualmente investiti.
La risposta riflette, di conseguenza,
le caratteristiche strutturali, funzionali e
culturali dei servizi in gioco molto più che
la natura e le esigenze della patologia. In
particolare, la possibilità di trattamenti integrati dei disturbi mentali e dei guasti
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Inquadramento: aspetti diagnostici, epidemiologici ed eziopatogenetici
In base al principio del trattamento
multidisciplinare dei disturbi del comportamento alimentare le strutture (ambulatori, reparti di degenza, ospedali diurni) rivolte a queste patologie dovrebbero possedere i seguenti requisiti:
– presenza nella stessa struttura di specialisti in area psicologico-psichiatrica
e internistico-nutrizionale;
– collegamento formalizzato fra i tre livelli: ambulatori, ospedale diurno, reparto di degenza per garantire globalità e continuità delle cure.
Le strutture ambulatoriali dovrebbero essere anche collegate ad altri servizi
e istituzioni sociosanitarie (consultori per
l’adolescenza, servizi di medicina scolastica, medicina di base, pediatria di base,
ecc.) per interventi di prevenzione primaria e secondaria.
Naturalmente, le strutture dovrebbero essere riconoscibili e pubblicizzate
nell’ambito del territorio.
Sarebbe utile l’istituzione di registri
epidemiologici nazionali nei quali far confluire i dati di osservatori epidemiologici
regionali (è opportuno un aggiornamento dei codici nosografici ISTAT).
Dovrebbero essere previsti, infine,
corsi di formazione di base e di aggiornamento permanente per gli operatori, pubblici e privati, impegnati nel trattamento di
queste patologie nuove e mutevoli.
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L RUOLO DELLA FAMIGLIA
NELLA GENESI
E NELLA TERAPIA
A. Favaro, P. Santonastaso
Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche
Università degli Studi di Padova
1997; Minuchin et al., 1978; SelviniPalazzoli, 1978; Vandereycken et al.,
1989), ma gli studi sulle caratteristiche
delle famiglie di pazienti con anoressia
nervosa non sono facili da confrontare
a causa delle diverse metodologie utilizzate e della grande variabilità delle caratteristiche socioculturali e demografiche dei soggetti studiati. La valutazione
dei pazienti e delle loro famiglie nel momento della loro richiesta di aiuto è fortemente influenzato dalla situazione di
“crisi”, secondaria alla malattia, che ha
portato la paziente e la sua famiglia a
chiedere un trattamento. Un altro elemento importante nella valutazione delle
interazioni familiari è che essa può essere influenzata dal livello di attaccamento della paziente alla sua famiglia.
Poiché i problemi di dipendenza, le
spinte verso l’autonomia, il conseguimento di un’identità stabile e sicura,
tutti elementi che ruotano intorno al
processo di individuazione-separazione,
sono tra i problemi fondamentali, la va-
I dati della letteratura
La letteratura scientifica si è interessata a diversi aspetti delle famiglie
dei pazienti con anoressia nervosa, dal
possibile ruolo della famiglia nella eziopatogenesi del disturbo, alle caratteristiche demografiche, agli aspetti genetici e di familiarità psichiatrica, e infine
alle variabili familiari che possono influenzare la prognosi e la risposta al
trattamento.
Fattori familiari
nella eziopatogenesi
dell’anoressia nervosa
Fin dalle prime descrizioni dell’anoressia nervosa è stato sottolineato il
ruolo della famiglia nello sviluppo di
questa patologia (Gull, 1873). Autori di
diverse impostazioni teoriche hanno descritto quale sia il possibile ruolo dei familiari (Bruch, 1973; Dare & Eisler,
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Il ruolo della famiglia nella genesi e nella terapia
lutazione della famiglia o del modo in
cui la paziente percepisce la sua famiglia non può prescindere da questi
aspetti.
Proprio per questi motivi, l’atteggiamento della paziente e della sua famiglia verso la valutazione dei problemi
può variare a seconda della fase del
trattamento. In genere, nella fase acuta, le pazienti anoressiche tendono a
negare qualsiasi problema. La ricerca di
simpatia e approvazione all’interno della
famiglia si manifesta, nel corso del trattamento, con un atteggiamento di ipercompiacenza nei confronti dei terapeuti
che rende più difficile una comprensione autentica dei problemi familiari.
Famiglie più conflittuali o atmosfere
familiari particolarmente negative vengono invece più spesso descritte in pazienti anoressiche-bulimiche e bulimiche (Vandereycken et al., 1989).
Nel descrivere le caratteristiche
delle relazioni familiari è importante tuttavia ricordare che tali conflitti possono
essere sia la causa sia la conseguenza
delle difficoltà di interazione familiare
che accompagnano le famiglie in cui si
manifesta una malattia grave come
questa. Tutte queste considerazioni sottolineano il concetto che, anche se osserviamo un particolare problema di interazione familiare in una determinata
famiglia, la sua specificità e il suo significato come “causa” del problema alimentare sono tutt’altro che dimostrati.
Resta tuttavia fondamentale conoscere
questi problemi perché, anche se non
possiamo dimostrare il loro ruolo come
“causa”, è verosimile che svolgano un
ruolo di rilievo nell’andamento della malattia e nella riuscita del trattamento
proposto.
Uno dei più importanti progressi nel
campo della terapia familiare dell’anoressia nervosa è la formulazione dell’approccio strutturale di Minuchin et al.
(1978). Essi infatti hanno identificato
alcune caratteristiche dell’interazione
familiare che sembrano specifiche delle
famiglie in cui ci sono persone affette
da anoressia nervosa, come l’iperprotettività, la labilità dei confini individuali,
la rigidità e la scarsa capacità di risolvere i conflitti. In Italia, ad opera di Mara
Palazzoli-Selvini (1978) si è molto diffuso il modello sistemico, che presenta
alcune somiglianze e molte differenze
con il modello strutturale. L’approccio
sistemico fondamentalmente sostiene
che la paziente anoressica costituisca il
fattore di “omeostasi” e di stabilità familiare e, tra le tecniche adottate, prevede
anche l’uso di interventi “paradossali”.
La terapia familiare è stata in seguito
applicata anche alla bulimia nervosa.
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A. Favaro, P. Santonastaso
Al di là delle teorie e delle terapie
familiari, per la maggior parte dei terapeuti è evidente come spesso l’anoressia nervosa rappresenti le difficoltà della
persona di raggiungere una propria autonomia, indipendenza ed individualità.
Questi temi sono molto comuni nell’adolescenza, che costituisce infatti il
momento di maggior vulnerabilità individuale e familiare.
Gli studi controllati che hanno valutato l’efficacia della terapia familiare sono molto pochi. Russell et al. (1987)
hanno riscontrato una efficacia della terapia familiare superiore alla terapia individuale nei pazienti di età molto giovane.
A partire da questo studio, molti ritengono che una vera e propria terapia familiare sia più indicata nelle pazienti anoressiche più giovani. La terapia familiare
sistemica risulta inoltre controindicata
nei casi in cui i genitori siano separati,
quando è presente un’alta conflittualità,
una storia di abusi fisici o sessuali all’interno della famiglia o nei casi di una
grave malattia fisica o psichica nei genitori (Vandereycken et al., 1989). Questo tipo di trattamento inoltre risulta più
difficile e meno efficace quando vi sia
una lunga durata di malattia (Liebman
et al., 1983).
In presenza di elevata conflittualità
alcuni autori hanno riscontrato una
maggior efficacia dell’approccio psicoeducazionale rispetto all’approccio sistemico (Eisler e Dare, 1995).
Caratteristiche
demografiche
Le caratteristiche demografiche
comprendono diversi aspetti come la
classe sociale, l’ordine di genitura, l’età
dei genitori alla nascita del paziente,
l’integrità della coppia parentale. Molti
disturbi psichiatrici mostrano una maggior prevalenza nelle classi socioeconomiche più basse, ma è difficile capire
quanto questo sia solo secondario ad
un processo di selezione “sociale” o se
sia invece causato da fattori di ordine
sociale. Nei primi studi sull’anoressia
nervosa, questa patologia sembrava
rappresentare una eccezione, poiché
tra i pazienti con anoressia nervosa era
stata riscontrata più frequentemente
l’appartenenza alla classe sociale medio-alta (Hoek, 1993; Gard e Freeman,
1996). Questa osservazione sembrava
in parte confermata dai primi studi di
prevalenza svolti da Crisp in alcune
scuole londinesi (Crisp et al., 1976).
Egli aveva indagato retrospettivamente
nove scuole superiori, la maggior parte
delle quali private, intervistando gli inse-
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Il ruolo della famiglia nella genesi e nella terapia
gnanti. Le diagnosi venivano poi confermate contattando il medico che aveva in cura le ragazze indicate come
possibili casi. Nelle scuole private è stata riscontrata una prevalenza dell’1%
tra le ragazze sopra i 16 anni, mentre
nelle scuole pubbliche (erano indagate
solo 2 scuole) la prevalenza era molto
inferiore (1 caso ogni 550 ragazze).
Questo studio è stato considerato poco
attendibile per aver indagato soprattutto
soggetti di una particolare classe sociale (Hoek, 1993).
Studi controllati hanno portato a risultati contrastanti che in alcuni casi
confermavano una maggior appartenenza a classi sociali agiate (Askevold,
1982), mentre in altri questa teoria veniva confutata (Vandereycken et al.,
1989). Dati contrastanti sono anche
emersi da quegli studi che hanno cercato differenze di classe sociale nei diversi
sottogruppi di pazienti con disturbi del
comportamento alimentare (Vandereycken et al., 1989; Gard e Freeman,
1996). Un fattore che invece sembra significativamente associato ad una maggior prevalenza di disturbi del comportamento alimentare è il grado di urbanizzazione del luogo di residenza. Sembra infatti che in aree ad alta urbanizzazione vi
sia una prevalenza maggiore di disturbi
del comportamento alimentare ed in
particolare di bulimia nervosa (Hoek,
1993; Santonastaso et al., 1999).
Gli studi controllati che riguardino
l’ordine di genitura, l’età dei genitori e
l’integrità del nucleo familiare nei pazienti con anoressia nervosa sono molto
pochi e spesso contraddittori. A partire
da Hilde Bruch (1973), alcuni autori
avevano osservato una età più avanzata
nei genitori di pazienti con anoressia
nervosa, ma studi controllati hanno
smentito questa osservazione. La stessa Bruch (1973) aveva riportato che le
pazienti con anoressia nervosa erano
più spesso primogenite o ultimogenite,
ma anche questo dato è stato poi
smentito da osservazioni su campioni
più numerosi (Gowers et al., 1985). Infine, per quanto riguarda l’integrità del
nucleo familiare, i pochi studi presenti
nella letteratura sembrano rilevare percentuali simili o addirittura più basse, rispetto ai dati sulla popolazione generale, di famiglie non integre a causa di
separazione o morte dei genitori.
Familiarità psichiatrica
e studi sulla genetica
Gli studi sulla familiarità psichiatrica
si basano essenzialmente su due tecniche: la tecnica di indagine della storia
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A. Favaro, P. Santonastaso
familiare (family history method) e
quella di studio diretto della famiglia (family study method). Entrambi gli approcci hanno vantaggi e svantaggi.
La prima tecnica è la più semplice
e si basa sulla raccolta di informazioni
sui familiari attraverso l’intervista del
paziente o eventualmente di un altro familiare. La seconda prevede l’intervista
diretta dei familiari di primo grado allo
scopo di valutare la presenza di qualsiasi altra forma di patologia psichiatrica.
Ovviamente la seconda tecnica risulta
più affidabile e precisa, anche se molto
più “costosa” (Andreasen et al., 1977).
Negli ultimi anni gli studi sulla familiarità nei disturbi del comportamento
alimentare hanno cercato di meglio
comprendere il ruolo dei fattori genetici
e dei fattori familiari non-genetici nella
patogenesi dell’anoressia e della bulimia nervosa (Santonastaso et al.,
1997). È stato dimostrato, infatti, come entrambi questi tipi di fattori legati
alla famiglia siano di notevole importanza (Kendler et al., 1995). Un’alta frequenza di disturbi affettivi, di disturbi da
abuso di sostanze e di disturbi del comportamento alimentare sono stati osservati nelle famiglie di pazienti con disturbi del comportamento alimentare.
È interessante l’osservazione che,
nei pazienti con disturbi del comporta-
mento alimentare, vi sia più spesso una
comorbilità per disturbi affettivi in presenza di un membro della famiglia con
un’anamnesi positiva per disturbi affettivi (Kassett et al., 1989; Walters e
Kendler, 1995). In seguito a queste osservazioni, la letteratura scientifica ha
esplorato la possibilità che l’anoressia
nervosa rappresentasse una “forma” di
disturbo depressivo e che quindi anoressia e disturbi affettivi condividessero
una comune eziologia (Biederman et
al., 1985).
Altri studi hanno analizzato le differenze all’interno dei diversi sottogruppi
di disturbi del comportamento alimentare. Strober (1982) e Santonastaso
et al. (1997) hanno osservato, per
esempio, una maggior frequenza di
obesità, disturbi affettivi e disturbi da
abuso di sostanze nei familiari di pazienti con anoressia nervosa di tipo bulimico-purgativo rispetto ai familiari di
pazienti anoressiche restrittive. Risultati simili sono stati riscontrati nel confronto di pazienti con bulimia nervosa e
pazienti con anoressia restrittiva (Piran
et al., 1985), mentre Laessle et al.
(1987) hanno rilevato che le pazienti
che riportano le più alte percentuali di
familiarità psichiatrica sono quelle con
anoressia bulimico-purgativa sia a confronto con soggetti di controllo sia con
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Il ruolo della famiglia nella genesi e nella terapia
pazienti affette da anoressia nervosa di
tipo restrittivo o da bulimia nervosa. Tra
le pazienti con bulimia nervosa, un nostro studio ha evidenziato una più frequente familiarità psichiatrica tra le pazienti senza una storia di pregressa
anoressia (Santonastaso et al., 1997).
Altri studi tuttavia non hanno riscontrato alcuna differenza tra diversi sottogruppi (Gershon et al., 1984; Schmidt
et al., 1993).
Nonostante queste premesse, gli
studi di genetica non sembrano indicare
la presenza di una diatesi comune tra disturbi del comportamento alimentare e
disturbi affettivi (Strober et al., 1990;
Kendler et al., 1995), né tra disturbi del
comportamento alimentare e disturbi da
abuso di sostanze (Kendler et al., 1995;
Kaye et al., 1996). Lilenfeld et al. (1998)
in un recente lavoro svolto utilizzando il
family study method hanno valutato
l’aggregazione di disturbi psichiatrici
nelle famiglie con pazienti anoressici e
bulimici e in famiglie di controlli sani.
Nei familiari di pazienti con disturbi del
comportamento alimentare è stato riscontrato un aumentato rischio per disturbi alimentari sottosoglia, disturbo
depressivo maggiore e disturbo ossessivo-compulsivo rispetto ai familiari dei
controlli. Il rischio di disturbi da dipendenza da sostanze era più elevato nei
familiari di pazienti con bulimia nervosa,
ma l’aggregazione familiare sembrava
indicare una patogenesi indipendente
tra i due disturbi. Al contrario il disturbo
di personalità di tipo ossessivo, che era
più frequente tra i familiari delle pazienti
anoressiche, sembra essere legato a
fattori di rischio di tipo familiare comuni
a quelli cui è legata l’insorgenza di anoressia nervosa. Gli autori concludono
affermando che è possibile una vulnerabilità comune per anoressia nervosa e
bulimia nervosa. I disturbi dell’umore, il
disturbo ossessivo-compulsivo e i disturbi da dipendenza da sostanze probabilmente non condividono una diatesi
comune con i disturbi del comportamento alimentare, mentre i tratti di personalità ossessiva possono costituire un
fattore di rischio familiare specifico per
l’anoressia nervosa.
Questi studi sembrano indicare una
importante componente familiare nell’insorgenza dell’anoressia nervosa. Pochi studi tuttavia hanno cercato poi di
capire quanto questa componente familiare fosse di ordine genetico o ambientale. Holland et al. (1984), in uno dei
primi studi svolti su gemelli, aveva riscontrato un numero significativamente
maggiore di monozigoti concordanti come diagnosi rispetto ai dizigoti, con una
stima dell’ereditabilità di circa l’80%.
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A. Favaro, P. Santonastaso
Tuttavia questo studio ha il limite di
essere stato svolto su soggetti che avevano chiesto un trattamento.
Poiché una anamnesi familiare positiva per anoressia nervosa rende verosimilmente più probabile la richiesta di
aiuto, i dati di questo studio potrebbero
sovrastimare l’aggregazione familiare di
questa patologia.
Più adatti a questo scopo sono gli
studi che valutano l’aggregazione di
anoressia nervosa in coppie di gemelle
presenti nella popolazione generale
(Walters & Kendler, 1995), ma in questo caso il principale limite è rappresentato dalla rarità del disturbo anoressico
che può impedire di stimare in modo
esatto il grado di ereditabilità.
cui si manifesta e, quando ci arrivano,
la durata di malattia è già piuttosto lunga (Santonastaso et al., 1996; Santonastaso et al., 1999). Questo fatto può
dipendere anche dalle grandi difficoltà
che i genitori incontrano nel convincere
la figlia della necessità di un controllo
medico e di una cura. In questa prospettiva, i fattori familiari possono essere determinanti nell’anticipare o nel tardare il momento in cui inizia il trattamento e influire, quindi, anche in questo modo, sull’esito a lungo termine. È
stato rilevato infatti che un inizio precoce del trattamento riduce i rischi di cronicizzazione e facilita l’approccio terapeutico.
Le possibili influenze negative della
famiglia sull’evoluzione del disturbo sono
alla base di una pratica molto diffusa già
nelle prime descrizioni cliniche dell’anoressia: quella di separare a scopo
terapeutico la paziente dai suoi familiari,
soprattutto attraverso l’ospedalizzazione.
Vandereycken e Pierloot (1983),
valutando la risposta al trattamento di
un gruppo di pazienti anoressiche, osservarono che l’uso rigido della regola
della “parentectomia”, cioè dell’allontanamento totale della paziente dalla famiglia fino al recupero completo del peso, poteva avere alcuni vantaggi nella risposta a breve termine, ma aveva an-
Fattori familiari
che influiscono sulla
prognosi e sulla risposta
al trattamento
Un comune dato di osservazione
che si ricava dagli studi epidemiologici
su popolazione generale e da quelli su
popolazioni cliniche è che le anoressiche arrivano all’osservazione medica in
una percentuale molto più bassa di
quanto ci si aspetterebbe pensando alla
gravità del disturbo e all’evidenza con
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Il ruolo della famiglia nella genesi e nella terapia
che numerosi e gravi effetti collaterali.
Uno dei più importanti effetti collaterali
era il drop-out, cioè l’abbandono del
trattamento da parte della paziente.
Questo è uno dei motivi principali per
cui il trattamento proposto da Vandereycken si è poi trasformato in una terapia che coinvolge la famiglia e che tiene
conto dei bisogni della famiglia stessa
(Vandereycken et al., 1989).
L’indicazione ad un coinvolgimento
della famiglia nel trattamento viene anche da alcuni studi che hanno osservato un peggioramento dei sintomi familiari in parallelo al miglioramento dello
stato fisico della paziente anoressica.
Crisp et al. (1974), per esempio, avevano osservato un significativo aumento
della sintomatologia psiconevrotica, sia
nei padri sia nelle madri, durante il recupero di peso delle figlie. Questo aumento riguardava in particolare i sintomi
ansiosi e fobici.
È interessante notare che i cambiamenti erano tanto più netti quanto più
povera era la qualità della relazione tra
coniugi, a sottolineare quale ruolo possa rivestire la malattia della figlia nell’equilibrio familiare.
Lo stesso studio aveva poi osservato una relazione significativa tra
l’esito del trattamento e la sintomatologia iniziale dei genitori.
Morgan e Russell (1975), in un loro
studio di follow-up, riportano che l’unico fattore familiare che sembra influenzare la prognosi è la presenza di relazioni problematiche tra il paziente e altri
membri della famiglia prima dell’esordio
del disturbo alimentare. Altri fattori, come la rivalità tra sorelle, la presenza di
disturbi psichiatrici nei familiari, la classe sociale o anomalie della struttura familiare non sembravano avere alcun impatto. Dopo questo primo lavoro, sono
molto pochi gli studi di follow-up che
prendono in considerazione il ruolo dei
fattori familiari nella prognosi dell’anoressia nervosa. Il dato più significativo e
costante che sembra emergere
(Steinhausen et al., 1991; Santonastaso e Pavan, 1993) è che una relazione
disturbata tra paziente e genitori costituisce un fattore prognostico negativo.
Di fronte a queste evidenze, la letteratura scientifica si è trovata di fronte
alla necessità di definire con più precisione quale disturbo della relazione tra
paziente e famiglia abbia un significato
prognostico. A questo proposito sono
state utilizzate diverse tecniche di valutazione delle interazioni familiari già
usate per altri disturbi psichiatrici. Queste tecniche comprendono questionari
autosomministrati, come la Family Environment Scale (FES), la Family Adap-
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A. Favaro, P. Santonastaso
tation and Cohesion Scale (FACES) o
la Family Assessment Device (FAD;
Epstein e Bishop, 1983), e interviste
cliniche, come la McMaster Structural
Interview of Family Functioning (MCSIFF; Epstein e Bishop, 1983). Queste
scale e interviste misurano aspetti come la capacità di problem solving familiare, la cooperazione, la comunicazione, il coinvolgimento affettivo, i ruoli
familiari, la coesività. In uno studio recente di North et al. (1997), è stato riscontrato che un buon esito a due anni
dall’inizio del trattamento in un campione di pazienti adolescenti con anoressia
nervosa è associato ad un buon funzionamento familiare iniziale. Inoltre la percezione del funzionamento familiare fornita dalle pazienti corrispondeva sostanzialmente a quella della valutazione data
dalle interviste svolte con i familiari
stessi. In un lavoro di follow-up a più
lungo termine svolto su pazienti adolescenti con anoressia nervosa, Strober
et al. (1997), indagando diversi aspetti
della famiglia come la presenza di familiarità psichiatrica, il tipo di relazioni familiari, l’adattamento sociale, l’incoraggiamento all’autonomia, le aree di conflitto, ha riscontrato che le variabili familiari potevano essere considerate predittive dell’esito a lungo termine. In particolare, la presenza di atteggiamenti
ostili verso la famiglia sembrava aumentare la lentezza della remissione e il rischio di insorgenza di bulimia. Il passaggio da anoressia a bulimia, fattore
che impedisce o rallenta molto il processo di piena guarigione, era anche significativamente associato ad una mancanza di empatia o affetto dei genitori
verso i figli.
Altri metodi già sperimentati con altre patologie psichiatriche ed in seguito
utilizzati anche per la valutazione delle
problematiche familiari nell’anoressia
nervosa sono la valutazione dell’emotività espressa e la valutazione del carico
familiare.
Il concetto di emotività espressa
deriva da alcune ricerche svolte sulla
schizofrenia (Vaughn e Leff, 1976) che
avevano osservato come gli atteggiamenti e i comportamenti dei familiari
potessero significativamente influenzare
il tasso di ricadute (intese come necessità di riospedalizzazione) dei pazienti
schizofrenici. La misurazione dell’emotività espressa, effettuata in genere attraverso una intervista specifica, la
Camberwell Family Interview (CFI),
comprende cinque scale principali: il
criticismo (cioè la presenza di commenti
critici verso il paziente), l’ostilità, l’ipercoinvolgimento emotivo, il calore affettivo e i commenti positivi.
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Il ruolo della famiglia nella genesi e nella terapia
Gli studi svolti su pazienti con disturbi del comportamento alimentare,
utilizzando il concetto di emotività
espressa, riportano tassi di criticismo
inferiori rispetto ai familiari di pazienti
schizofrenici (Szmukler et al., 1985; Le
Grange et al., 1992). Entrambi questi
studi osservano tassi di criticismo significativamente più alti nelle famiglie di
pazienti bulimiche rispetto a quelle di
pazienti con anoressia nervosa. Questo
è probabilmente legato al fatto che l’incapacità di controllare l’alimentazione e
l’impulsività, tipiche della bulimia nervosa, sono più difficilmente comprensibili
e accettabili da parte di genitori. La bulimia viene, infatti, spesso interpretata
come mancanza di volontà e non come
uno stato patologico, suscitando così
ostilità e commenti critici da parte dei
genitori. L’emotività espressa nelle famiglie con pazienti affette da anoressia
nervosa è comunque significativamente
maggiore rispetto a famiglie di pazienti
con fibrosi cistica e a famiglie di controllo (Blair et al., 1995).
In uno studio svolto a Padova, utilizzando una scala autosomministrata
(Questionario per i Problemi Familiari:
QPF; Morosini et al., 1991) che comprende, oltre a due scale di carico familiare, anche due scale che misurano le
emozioni espresse, criticismo e iper-
coinvolgimento (Santonastaso et al.,
1997b), non hanno riscontrato differenze significative tra genitori di pazienti
schizofrenici e genitori di pazienti con
disturbi del comportamento alimentare,
né tra genitori di pazienti con anoressia
nervosa e genitori di pazienti con bulimia. Questo potrebbe dipendere in parte dal diverso strumento utilizzato rispetto agli studi precedenti ed in parte
anche dalle caratteristiche del campione di soggetti che è costituito, nello
studio svolto a Padova, per lo più da
pazienti in età adulta. Gli studi precedenti invece erano stati svolti entrambi
su pazienti adolescenti. È possibile, infatti, che la patologia alimentare in età
adolescenziale susciti minor criticismo e
ostilità rispetto ad una patologia che insorge o si prolunga fino all’età adulta
quando ci si aspetta che il figlio diventi
più responsabile ed in grado di prendersi cura di sé. Nello studio svolto a Padova, inoltre, è emersa, nell’anoressia
nervosa, una significativa correlazione
tra criticismo da un lato e durata di malattia, depressione, ostilità, insoddisfazione corporea, desiderio di magrezza e
senso di inefficacia dall’altro (Santonastaso et al., 1997b).
Come per la schizofrenia, alcuni
studi hanno cercato di valutare quale
ruolo ricoprisse l’emotività espressa nel-
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la risposta al trattamento dell’anoressia
nervosa e nell’andamento della malattia.
Szmukler et al. (1985) hanno riscontrato che in pazienti adolescenti che intraprendevano una terapia familiare, il livello di drop-out era significativamente associato al livello familiare di criticismo. Il
criticismo familiare, al contrario, sembrava non influire sul drop-out dei pazienti che, a random, venivano seguiti
con un trattamento individuale. Le Grange et al. (1992) hanno svolto uno studio
interessante che, oltre a valutare l’efficacia predittiva delle variabili di emotività
espressa nella risposta al trattamento di
un gruppo di pazienti adolescenti (età
<18 anni) con anoressia nervosa, valutava anche l’effetto sull’emotività
espressa dei genitori di due tipi diversi di
trattamento, la terapia familiare o l’approccio psicoeducazionale (coinvolgimento dei genitori nel trattamento, ma i
genitori vengono visti separatamente
dalla paziente). Anche se i risultati vanno interpretati con qualche cautela per
la numerosità piuttosto bassa del campione, lo studio di Le Grange et al.
(1992) sembra indicare una maggior efficacia dell’approccio psicoeducazionale
nel diminuire il criticismo dei familiari. Al
contrario, la terapia familiare sembra
provocare un aumento del criticismo dopo 32 settimane di trattamento, nono-
stante che il peso e lo stato clinico delle
pazienti migliori allo stesso modo nei
due gruppi. Il miglioramento della paziente inoltre sembra significativamente
correlato al livello iniziale di criticismo dei
familiari e, nel gruppo di pazienti con
scarsa risposta al trattamento, il criticismo sembra ulteriormente aumentare.
Questo dato sottolinea il possibile
ruolo dei fattori familiari nel mantenimento dell’anoressia nervosa. I commenti critici, infatti, possono indurre un
maggior senso di inutilità e incapacità a
pazienti che hanno già una stima di sé
molto bassa e che ricorrono alla restrizione calorica come unici metodi di autoaffermazione e rassicurazione. Queste affermazioni sono confermate dai
dati riscontrati nello studio svolto da
Santonastaso et al. (1997b) che ha osservato una significativa correlazione
del criticismo dei genitori non solo con
l’insoddisfazione corporea e il desiderio
di magrezza, ma anche con la depressione e il senso di inefficacia delle pazienti con anoressia nervosa. La difficoltà alla guarigione e la mancanza di
risultati concreti della terapia possono a
loro volta aumentare i livelli di criticismo
con l’instaurarsi di un pericoloso circolo
vizioso che solo un trattamento che
coinvolga i genitori può fermare (Hodes
e Le Grange, 1993).
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Un altro studio dell’influenza dell’emotività espressa sulla risposta al
trattamento e sull’esito ad un anno di
distanza è stato svolto da Van Furth et
al. (1996). Anche questo studio ha
considerato solo pazienti affette da
anoressia nervosa in età adolescenziale. Il criticismo iniziale nei genitori delle
pazienti era piuttosto basso e tendeva a
migliorare ulteriormente dopo il trattamento che comprendeva anche, in tutti
i casi, una qualche forma di terapia familiare. Ciononostante gli autori hanno
riscontrato che la variabile che meglio di
ogni altra era in grado di predire sia la
risposta al trattamento sia l’esito della
malattia a distanza di un anno, era la
presenza di commenti critici materni.
L’insieme dei problemi e delle difficoltà che ricadono sui familiari dei pazienti affetti da una grave patologia costituisce invece quello che viene definito come “carico” familiare (Fadden et
al., 1987). In ambito psichiatrico esso è
stato definito come la presenza di problemi, difficoltà o eventi negativi che affliggono la vita di una o più persone significative per un paziente psichiatrico
(Platt et al., 1985). L’inizio di una malattia fisica e/o mentale all’interno di
una famiglia è un trauma che crea ai
familiari considerevoli difficoltà e problemi e per il quale non sempre viene for-
nito aiuto e sostegno sufficiente. Inizialmente lo studio del carico familiare è
stato rivolto prevalentemente alla malattia schizofrenica, ma poi l’interesse si è
allargato ad altre patologie psichiatriche
e somatiche come la depressione, i disturbi d’ansia, la demenza, i danni cerebrali, il diabete e l’insufficienza renale.
Se gli studi sull’emotività espressa
cercano di identificare negli atteggiamenti e nelle risposte emotive della famiglia i fattori che possono influenzare il
decorso della malattia del paziente, le
valutazioni del carico familiare cercano di
identificare e misurare i fattori, dipendenti dalla patologia del paziente, che
costituiscono un carico per i familiari. Tra
i concetti di emotività espressa e carico
familiare vi è quindi una stretta interrelazione: se l’emotività espressa influenza il
decorso della malattia del paziente, il
decorso può, a sua volta, determinare
una variazione del carico familiare. Hoenig e Hamilton (1966) hanno introdotto
una distinzione fondamentale tra carico
familiare oggettivo, che concerne i problemi oggettivi conseguenti alla patologia del paziente, come i problemi economici, le limitazioni nelle capacità lavorative e nel tempo libero, le limitazioni sociali e gli effetti secondari sulla salute
dei familiari, e il carico soggettivo, che
riguarda invece la percezione soggettiva
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dei familiari del carico stesso. Nella
schizofrenia, il carico soggettivo è risultato inferiore al carico oggettivo, ma le
due componenti possono manifestarsi e
variare in modo indipendente.
Nei disturbi del comportamento alimentare gli unici studi che hanno valutato il carico familiare sono gli studi
svolti a Padova (Santonastaso et al.,
1997a; 1997b). Questi studi hanno utilizzato una scala autosomministrata, il
Questionario per i Problemi Familiari,
che comprende due sottoscale relative
al carico oggettivo e a quello soggettivo. Gli studi hanno evidenziato che il
carico familiare è maggiore nell’anoressia nervosa rispetto alla bulimia nervosa, ed è particolarmente alto nelle famiglie di pazienti anoressiche del sottogruppo bulimico-purgativo (Santonastaso et al., 1997a). Il carico soggettivo
sembra maggiore di quello oggettivo sia
nell’anoressia nervosa sia nella bulimia.
Il secondo studio (Santonastaso et al.,
1997b) ha confrontato il carico riportato
dalle famiglie con disturbi del comportamento alimentare con quello riportato
da famiglie di pazienti schizofrenici gravi
(durata media di malattia 10 anni).
Il carico oggettivo e quello soggettivo sono risultati significativamente più
alti nella schizofrenia rispetto ai disturbi
del comportamento alimentare.
Tuttavia il carico soggettivo riportato
dalle famiglie di pazienti con anoressia
bulimico-purgativa non si differenziava
statisticamente da quello riportato dalle
famiglie di pazienti schizofrenici.
Altro dato di rilievo di questi studi è
la correlazione riscontrata nell’anoressia, ma non nella bulimia, tra gravità
degli atteggiamenti e dei sintomi alimentari e il carico familiare. Infine, valutando in alcune pazienti la risposta al
trattamento ambulatoriale, è emerso
che i genitori delle pazienti non migliorate si differenziavano dai genitori delle
pazienti migliorate per alcune variabili.
In particolare le madri delle pazienti non
migliorate riportavano, nella fase iniziale
di valutazione, un carico soggettivo significativamente maggiore rispetto alle
madri delle pazienti che avevano risposto positivamente al trattamento. I padri
delle pazienti non migliorate invece non
si differenziavano per quanto riguarda il
carico percepito, ma per la presenza,
alla valutazione iniziale, di maggiori sintomi depressivi e di somatizzazione.
Pazienti sposate
Tipicamente quando si pensa
all’anoressia nervosa si pensa ad adolescenti, ma non è infrequente ormai
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avere a che fare con pazienti adulte,
sia perché il disturbo ha una certa percentuale di cronicizzazione e quindi
continua nella vita adulta, sia perché
alcuni casi possono avere una insorgenza tardiva. Poiché alcune di queste
pazienti sono sposate o convivono con
il loro partner, è logico chiedersi quale
sia il ruolo del disturbo nella relazione
di coppia e come la relazione di coppia
possa influire sul decorso e sulla risposta al trattamento dell’anoressia nervosa. Se esiste una connessione significativa tra questi due aspetti, sarà importante quindi coinvolgere il partner
nel trattamento. Questo tema ha ricevuto una scarsa attenzione da parte
della letteratura scientifica (Van den
Broucke et al., 1995). Uno dei dati su
cui la letteratura concorda è che le
coppie in cui sia presente un soggetto
affetto da anoressia nervosa manifestino un rilevante livello di insoddisfazione
riguardo alla loro relazione di coppia.
Ma mentre i pazienti stessi considerano
il disturbo alimentare come la causa
dei loro problemi di coppia, i terapeuti
spesso pensano che il problema sia
l’opposto: sono state infatti spesso osservate presenza di collusione, mancanza di intimità, carenze comunicative
ed evitamento di conflitti tra i due partner. Queste osservazioni cliniche sono
state in parte confermate da uno studio
controllato (Van den Broucke et al.,
1995) che ha rilevato una carenza nella capacità di aprirsi l’uno con l’altro,
una significativa mancanza di intimità e
una carenza di capacità comunicative
nelle coppie di soggetti con disturbi
dell’alimentazione.
Aspetti clinici
La valutazione iniziale
Al di là dei dati della ricerca scientifica, quel che è certo è che il problema
alimentare provoca nella famiglia un
grande capovolgimento nelle abitudini,
crea conflitti o peggiora quelli già esistenti, causa un aumento della tensione
interpersonale e dell’aggressività.
Indipendentemente dalle molteplici
cause del disturbo, la famiglia, insieme
al paziente, è la vittima principale della
malattia e delle sue conseguenze, ma
costituisce al tempo stesso una risorsa
indispensabile in qualsiasi programma
terapeutico (Favaro & Santonastaso,
1996).
L’approccio alla famiglia utilizzato
nel nostro gruppo di lavoro è parte integrante di un lavoro di équipe in cui il te-
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rapeuta familiare collabora e mantiene i
contatti con il terapeuta della paziente e
con gli altri operatori coinvolti nel trattamento (Santonastaso et al., 1999).
Nella fase iniziale di valutazione del
caso, ai genitori delle pazienti che convivono con la famiglia d’origine dovrebbe essere dedicato separatamente almeno un incontro da parte di uno psichiatra o uno psicologo che si occupa
specificamente dei problemi dei familiari. Lo scopo è quello di dare ai genitori un’occasione per parlare delle proprie difficoltà nei confronti della malattia della figlia e per fornire alcune informazioni sui suoi sintomi e sul suo comportamento. L’approfondimento della
storia della paziente con i familiari è reso necessario dalla tendenza alla negazione dei sintomi e alla sottovalutazione
del problema da parte di molte pazienti
anoressiche. A loro volta i terapeuti
forniscono informazioni sui problemi
dell’adolescenza, sulle conoscenze attuali nel campo dei disturbi alimentari e
del loro possibile trattamento. Il fatto
che i genitori vengano invitati ad un incontro con un professionista diverso da
quello che si occupa della paziente può
indurre una certa opposizione, se non
un rifiuto, in alcuni genitori che si sentono “esclusi”; per questo motivo è opportuno non rifiutare qualche contatto
anche con il terapeuta che segue la figlia, in accordo e in presenza della paziente.
Uno studio che ha preso in esame
gli articoli sull’anoressia comparsi nel
corso di un anno su alcuni quotidiani e
settimanali ha potuto osservare, tra le
altre cose, che nella maggioranza dei
casi l’eziologia dell’anoressia viene attribuita a conflitti familiari o a caratteristiche dei genitori come “madre iperprotettiva” e “padre assente”.
Nella cultura dei mezzi di comunicazione di massa la famiglia è quindi considerata come “origine” o “responsabile”
del disturbo (Mondini et al., 1996).
Questo può essere uno dei motivi per
cui i genitori incontrano grande difficoltà
nel portare la figlia ad una consultazione medica o a convincerla a intraprendere una cura e contribuiscono a ritardare l’inizio della cura.
Nell’incontro con i familiari non è
infrequente osservare che i genitori arrivano alla consultazione non soltanto in
uno stato di comprensibile apprensione
per la salute della figlia, ma anche tesi
e colpevolizzati.
Poiché l’obiettivo principale di un
approccio psicoeducativo è la ricerca
della collaborazione della famiglia, nei
primi colloqui è meglio evitare la discussione su problemi conflittuali più ango-
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scianti, cercando di stabilire un’atmosfera di comprensione e cooperazione,
in cui i genitori si sentano partecipi del
programma terapeutico, rassicurati dalla possibilità di chiedere indicazioni, alleviati dai sentimenti di colpa. Se si crea
un rapporto di fiducia, l’équipe terapeutica può diventare per la famiglia un
punto di riferimento anche nel caso in
cui la paziente dovesse rifiutare o abbandonare la terapia. Al contrario,
escludere i genitori dal trattamento può
determinare, di per sé, sfiducia ed aggressività nei confronti dei terapeuti e
aumentare il rischio di un drop-out.
I primi incontri servono soprattutto a
completare il quadro diagnostico e a
cogliere il punto di vista dei familiari:
come è insorto il disturbo, quali conseguenze ha avuto sulla paziente e quali
sono state le ripercussioni sulla famiglia
e sulle sue relazioni sociali. Può capitare che qualche comportamento non riportato dalla paziente sia invece stato
osservato dai genitori (per esempio
l’uso di lassativi o altri farmaci). Si tratta
spesso di notizie ed osservazioni utili
per capire i meccanismi attraverso i
quali il disturbo si alimenta. Nella prospettiva del trattamento è utile capire
l’atteggiamento della madre nei confronti della malattia della figlia, quali siano le modalità e la qualità del rapporto:
una madre comprensiva, non troppo
angosciata, con un atteggiamento “elastico” può essere coinvolta nell’aiutare
una figlia a riprendere ad alimentarsi di
più e meglio; una madre rigida, angosciata e ipercritica dovrebbe essere aiutata a mantenere un maggior equilibrio
e una maggiore “distanza”.
Può accadere che alcune pazienti,
soprattutto quelle meno giovani, chiedano di non coinvolgere i familiari: questa richiesta deve essere valutata con
attenzione tenendo conto sia del diritto
alla riservatezza di una paziente adulta e
responsabile, sia della possibilità che il
silenzio impedisca di chiarire conflitti
che contribuiscono al mantenimento del
disturbo. La gravità del disturbo e i possibili rischi di complicazioni di cui la paziente può non percepire la gravità è
talvolta un motivo per non aderire alle
richieste (evidentemente patologiche)
della figlia, parlando comunque con i
genitori.
Il contatto con i genitori può esaurirsi in uno o due incontri se non vengono individuati particolari bisogni o rilevanti problemi di rapporto; eventuali altri
contatti potranno essere ripresi in seguito, in relazione all’evoluzione del trattamento della figlia.
Per le famiglie poco conflittuali, in
cui la coppia genitoriale è integra, può
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La fase del trattamento
essere indicato partecipare ad incontri
psicoeducazionali individuali o di gruppo, dove discutere le strategie ed i
comportamenti da adottare nelle situazioni particolari che si vengono a creare
in una famiglia con una ragazza anoressica o bulimica (Favaro e Santonastaso, 1996).
Nelle coppie separate o in aperto
conflitto, il gruppo di genitori è sconsigliabile, mentre possono essere utili alcuni incontri con il singolo nucleo familiare per evitare, nella misura possibile,
il coinvolgimento della paziente nel
conflitto parentale e per aiutare i genitori a facilitare l’autonomizzazione della
figlia.
Esistono altri casi in cui l’approccio
ai genitori risulta notevolmente difficile
nonostante un’apparente mancanza di
conflittualità: sono quelli in cui il disturbo anoressico, nonostante il raggiungimento di una rilevante gravità, viene
negato dai genitori allo stesso modo in
cui viene negato dalla paziente.
Si tratta in genere di situazioni ad
alto rischio, che possono arrivare
all’osservazione del medico dopo una
lunga durata di malattia (Vanderycken
et al., 1989). La presenza di simili
meccanismi all’interno della famiglia
può essere considerata una delle indicazioni all’ospedalizzazione.
Come in molte altre patologie psichiatriche, anche nei disturbi dell’alimentazione, si sono affermati programmi psicoeducativi per i genitori (family
counselling) che prevedono incontri
con il nucleo familiare e incontri di
gruppo con coppie di genitori (Perednia
et al., 1989). L’approccio psicoeducativo presuppone che la famiglia non sia
la causa del disturbo, ma che possa essere una risorsa nel trattamento o che
possa ostacolarlo.
Abitualmente gli incontri sono tenuti da professionisti diversi da quelli
che curano la paziente; quest’ultima di
solito non partecipa, ma fin dall’inizio
deve sapere che le notizie riportate dai
genitori verranno utilizzate e discusse
per migliorare i risultati della terapia,
mentre non verrà riferito ai genitori il
contenuto dei colloqui. Un aspetto
fondamentale degli incontri con i familiari è di fornire tutte le informazioni
necessarie sui disturbi dell’alimentazione e sulle tecniche terapeutiche (Favaro e Santonastaso, 1996). Nonostante l’aumento dell’interesse da parte dei mass-media, i disturbi dell’alimentazione restano per larga parte incompresi anche nelle famiglie in cui si
verificano.
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L’approccio psicoeducativo si basa
su studi dell’Emotività Espressa, citati in
precedenza, che hanno osservato come
programmi di informazione ai familiari
sulla malattia, la sua diffusione, le possibili cause e i trattamenti efficaci, sono
in grado di diminuire l’emotività espressa e il criticismo da parte dei genitori.
Ad esempio una migliore conoscenza
dei meccanismi della malattia consente
di capire meglio il significato di alcuni
comportamenti che prima apparivano
soltanto irrazionali e provocatori.
Indipendentemente dal setting (con
il singolo nucleo familiare o con il gruppo) la prima parte degli incontri è dedicata appunto agli aspetti informativi: gli
argomenti vengono affrontati con un
linguaggio semplice, ma vengono fornite le conoscenze più recenti sulla diffusione dei disturbi alimentari nella popolazione femminile, sui fattori di rischio,
comuni a molte adolescenti, come la
danza o gli sport molto competitivi. Sono chiaramente descritti i criteri diagnostici e le complicanze a breve e lungo
termine; un’attenzione particolare viene
dedicata alla descrizione dei meccanismi di automantenimento della malattia,
le conseguenze psicologiche della restrizione alimentare, come l’irritabilità, la
depressione, l’isolamento sociale. Viene spiegato come la paura di ingrassare
sia incontrollabile e quanto grande sia
lo sforzo necessario per riuscire a contrastarla, come alcuni rituali anoressici,
che ormai condizionano la vita familiare,
siano incoercibili e non si possano evitare con la “buona volontà”.
Le informazioni più richieste dai familiari riguardano in genere le “cause”
dell’insorgenza del disturbo; a volte può
essere utile spostare l’attenzione dalle
cause di insorgenza, che suscitano nei
genitori forti sensi di colpa, alle cause di
mantenimento del disturbo e all’utilità di
ridurre i rischi di cronicizzazione, argomenti più concreti e facili da affrontare.
Il terapeuta esamina con i familiari le dinamiche di rapporto che si sono modificate nel corso della malattia e li aiuta a
capire le strategie ed il modo migliore di
reagire in determinate situazioni. Per
esempio, può essere opportuno consigliare ai genitori di evitare contrattazioni
sul cibo o di chiedere alla figlia di mangiare “per amor loro”. Si tratta di evitare
che si sviluppino all’interno della famiglia vantaggi secondari legati alla malattia, che possono riguardare anche altri
membri della famiglia. A questo scopo
si possono esemplificare alcuni cambiamenti verificatisi nella famiglia in seguito all’insorgenza del disturbo che hanno
contribuito a mantenere o ad aggravare
il problema.
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Quando si lavora con il singolo nucleo familiare, con il procedere degli incontri diminuisce progressivamente la
quantità di informazioni di carattere generale e si approfondisce il problema
specifico di quella famiglia. A volte è
necessario contenere gli atteggiamenti
più critici e l’ipercoinvolgimento dei genitori, ponendo un limite ai comportamenti più “patogeni” e cercando, se
possibile, di aiutarli a sperimentare atteggiamenti alternativi.
Poiché si è visto che la depressione
e il carico soggettivo dei genitori sono
correlati ad una evoluzione più sfavorevole, altre volte diventa necessario farsi
carico dei bisogni e delle necessità dei
genitori, che possono anche essere relativamente indipendenti dall’andamento della malattia della figlia.
In ogni caso il mantenimento di una
buona alleanza terapeutica con i familiari permette in molti casi di superare
momenti di difficoltà nel percorso terapeutico, soprattutto attraverso una comunicazione continua tra i membri dell’équipe.
Nelle pazienti molto giovani, se il
rapporto con la madre non è apertamente conflittuale e se la ragazza accetta il suo aiuto, la modificazione di
certi atteggiamenti materni (come la
paura di interferire troppo o, all’opposto,
un’intromissione continua) può dare risultati talora sorprendenti e risolutivi.
Il gruppo di genitori, oltre a fornire
un supporto psicologico legato al fatto di
condividere esperienze simili, apporta un
notevole rinforzo alle proposte di cambiamento all’interno delle famiglie: l’attuazione con successo di una strategia
in uno dei nuclei familiari fornisce infatti
l’esempio pratico di come alcuni cambiamenti possano realmente verificarsi.
Gli incontri, che hanno in genere
una frequenza mensile, non hanno quindi lo scopo di indagare le cause del disturbo, né di porre in discussione le dinamiche familiari o di analizzare i conflitti
latenti, con il rischio di acutizzarli. L’oggetto della terapia non è la famiglia o la
coppia genitoriale, ma la malattia della
figlia e tutto ciò che può rendere difficile
la sua guarigione.
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A MALNUTRIZIONE
NELL’ANORESSIA NERVOSA
H. Cena
Centro Ricerche sulla Nutrizione Umana e la Dietetica
Università degli Studi di Pavia
ci e che si traducono in carenze energetiche, proteiche e di micronutrienti.
Tuttavia, in maniera del tutto peculiare, si instaura una serie di meccanismi d’adattamento metabolico e di modificazione della composizione corporea
tali da consentire la protratta sopravvivenza di questi pazienti.
Nonostante ci si trovi di fronte ad
un disordine alimentare grave, i parametri comunemente presi in considerazione per la valutazione dello stato nutrizionale risultano solo lievemente alterati.
Introduzione
L’anoressia nervosa è un disordine
nutrizionale severo che colpisce prevalentemente giovani di sesso femminile,
caratterizzato da una notevole restrizione alimentare che comporta inevitabilmente un importante calo ponderale.
Le diete seguite dai soggetti con
anoressia nervosa non sono uniformi
sia per la scelta degli alimenti sia per la
composizione in macro e micronutrienti
e per l’apporto energetico, hanno però
in comune il fatto di essere per lo più
inadeguate da un punto di vista nutrizionale.
La maggior parte degli autori che ha
studiato questo aspetto è concorde nel
ritenere che la malnutrizione causata
dall’anoressia nervosa sia una forma
cronica di malnutrizione proteico-energetica (MPE) simil-marasmatica, caratterizzata da alterazioni dello stato di nutrizione che si instaurano progressivamente
in conseguenza a deficit alimentari croni-
Stato vitaminico
I vari studi riportati in letteratura sullo stato vitaminico-minerale sono per lo
più frammentari e controversi, tuttavia
Fisher et al. suggeriscono che sarebbe
opportuno prendere in considerazione
anche le carenze vitaminico-minerali
subcliniche.
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La malnutrizione nell’anoressia nervosa
A partire da questo concetto risulta
importante individuare nuovi indici diagnostici per scoprire le potenziali carenze conseguenti all’alimentazione restrittiva e quindi poter prevenire con un
adeguato trattamento le sequele neurologiche coinvolte nelle carenze vitaminiche.
Per quanto riguarda i fattori emopoietici come la vitamina B12, i folati e
il ferro, la maggior parte degli autori è
concorde nel rilevare, nelle pazienti
anoressiche, livelli di TIBC (Total Iron
Binding Capacity) più bassi e livelli di
B12 e ferritina più elevati rispetto ai valori di riferimento. Il riscontro di concentrazioni più elevate di vitamina B12 può
essere spiegato dal fatto che questa,
immagazzinata principalmente a livello
epatico, non vi sia sufficientemente
trattenuta a seguito di un’alterazione di
quest’organo.
Molti autori hanno rilevato concentrazioni di cobalamina e di folati nei valori di normalità con assenza di anormalità ematologiche (anemia megaloblastica) e/o disfunzioni neurologiche tipiche
di uno stato carenziale.
D’altra parte Moyano et al. partendo dal presupposto che, data l’alimentazione fortemente ipocalorica delle
anoressiche, una carenza vitaminica
fosse inevitabile specialmente a carico
dei folati, hanno dosato la concentrazione plasmatica totale di omocisteina
(THcy) come marker dello stato dei folati e della cobalamina, ipotizzando che
concentrazioni più elevate di THcy nelle
pazienti anoressiche siano determinate
da una carenza subclinica di folati (in
parte dovuta a una riduzione dei folati
intracellulari e in parte ad una loro minor disponibilità).
Nonostante le riserve della maggior
parte delle vitamine del gruppo B si
esauriscano velocemente, sindromi carenziali come il beri-beri e la pellagra
sono state riscontrate raramente in pazienti con anoressia nervosa.
Nella maggioranza dei casi non si
riscontrano deficit di tiamina, vitamina
B6 e riboflavina.
Capo-Chichi et al., in uno studio recente, riportano che la malnutrizione e
la riduzione delle concentrazioni di ormoni tiroidei (triiodotironina) osservate
nelle pazienti con anoressia modificano
il metabolismo della riboflavina eritrocitaria e plasmatica, alterando la conversione in cofattori della riboflavina con
conseguente aumento dei livelli eritrocitari di riboflavina, diminuzione della concentrazione di FAD (flavin-adenin-dinucleotide) plasmatico e aumento dell’escrezione di acido etilmalonico e isovalerilglicina.
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Dallo studio riportato sembrerebbe
pertanto che disfunzioni tiroidee indotte
dalla malnutrizione possano ripercuotersi sul metabolismo della riboflavina e
dell’Acil-CoA. Tuttavia nella maggior
parte dei casi non si arriva al riscontro
clinico di carenze riboflaviniche con sintomi quali stomatite angolare, glossite o
dermatite seborroica.
Carenze di vitamina C sono molto
rare, dato che questi soggetti assumono
nella loro alimentazione parecchia frutta
e verdura. Ritroviamo comunque descritto in letteratura qualche caso di
scorbuto con complicanze neuromiopatiche in pazienti con anoressia nervosa.
Anche i dati relativi ai livelli di vitamine liposolubili sono frammentari e contraddittori: alcuni autori riportano una riduzione dei livelli circolanti di vitamina A
mentre in altri studi si riscontrano livelli
normali di vitamina A e concentrazioni
più elevate di carotene.
Per quanto riguarda la vitamina E,
raramente sono state riscontrate carenze clinicamente manifeste. I livelli significativamente ridotti nelle pazienti anoressiche delle frazioni β e γ-tocoferolo
suggeriscono una ridotta assunzione di
alimenti contenenti vitamina E, mentre
l’ampio range dei livelli di α-tocoferolo
potrebbe dipendere dall’utilizzo di supplementi vitaminici.
Vaisman et al. hanno riscontrato livelli più bassi di α-tocoferolo giustificati
dal fatto che, non essendo immagazzinato in grandi quantità a livello epatico,
viene depleto più velocemente.
Tuttavia sembra chiaro che queste
concentrazioni sono influenzate dal grado, dall’entità e dalla durata nel tempo
della malnutrizione oltre che dal tipo di
dieta cui le anoressiche si sottopongono. La ridotta concentrazione plasmatica di vitamine potrebbe suggerire
un’eventuale carenza di altri fattori dietetici essenziali. C’è accordo generale
nel considerare che la carenza di vitamina D implicata nell’eziopatogenesi
dell’osteoporosi, generalmente presente nelle pazienti anoressiche, è determinata anche da una serie di fattori ormonali, da alterazione della composizione
corporea, da ridotta assunzione dietetica di calcio, ecc.
Acidi grassi
La forte restrizione alimentare, cui
generalmente le anoressiche si sottopongono, è tipicamente carente in
grassi ed energia e può provocare nel
tempo carenze in EFA (acidi grassi essenziali). Interessanti studi sono stati
svolti su pazienti anoressiche per quan-
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to concerne lo stato degli acidi grassi
essenziali, importanti precursori delle
prostaglandine e componenti delle
membrane cellulari. Sintomi clinici della
carenza di EFA comprendono secchezza della cute, ritardo nella cicatrizzazione e trombocitopenia. Lo stato degli
EFA può essere correlato alla severità
dell’anoressia nervosa e può essere
moderato dall’assunzione proteica. Studi su animali da esperimento hanno dimostrato che un aumento dell’apporto
proteico in diete povere in EFA potrebbe alleviare alcuni sintomi clinici della
carenza. È stato dimostrato come i
soggetti anoressici abbiano valori circolanti di EFA inferiori rispetto a quelli di
riferimento, con variazioni compensative di acidi grassi non essenziali e una
diminuzione della fluidità delle membrane plasmatiche. Alcuni autori di conseguenza suggeriscono un’integrazione
giornaliera di linoleato necessaria per
ricostituire le riserve organiche di EFA
e stabilire valori normali degli acidi
grassi nei fosfolipidi plasmatici.
oltre a seguire una dieta sbilanciata,
presentano danni epatici che condizionano la sintesi di carnitina con conseguente progressiva debolezza e atrofia
muscolare. Questa può essere diagnosticata precocemente con una biopsia
muscolare o con la valutazione dei livelli
di carnitina muscolare e di conseguenza
trattata con somministrazione orale di
L-carnitina.
Elettroliti e minerali
Per quanto riguarda gli elettroliti,
questi subiscono alterazioni significative
solo nei casi di anoressia nervosa di tipo “purgativo” caratterizzata da frequenti episodi di vomito autoindotto, dall’abuso di lassativi e/o diuretici; mentre
nei casi di anoressia nervosa di tipo restrittivo, senza cioè condotte eliminatorie, nonostante la condizione di grave
sottopeso ad essi associata, non si evidenziano generalmente alcune delle
maggiori anormalità elettrolitiche che discuteremo oltre.
Queste anormalità sono state ampiamente descritte in letteratura e includono in particolare condizioni di ipokaliemia e ipocloremia accompagnate da
alcalosi metabolica, ipovolemia e iperaldosteronismo secondario e modificazio-
Carnitina
Un’altra evidenza importante è la
possibile carenza di carnitina in particolare in quelle pazienti anoressiche che,
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ni delle concentrazioni plasmatiche di
sodio. Il significato di queste alterazioni
non è tuttavia ancora ben chiaro e i lavori prodotti dalla letteratura sono frammentari e controversi.
Lucas, analizzando i dati di una casistica molto ampia, commenta che
anormalità laboratoristiche possono non
essere così evidenti se non nelle fasi
più avanzate del disordine alimentare,
data la precoce instaurazione di meccanismi compensatori.
Le concentrazioni sieriche di elettroliti che spesso rientrano nei valori di
normalità possono essere alterate per
via della disidratazione e nei casi con
condotte di eliminazione.
L’ipokaliemia può essere considerata l’alterazione elettrolitica più frequente
nei pazienti con anoressia nervosa non
restrittiva o con “bulimaressia”.
È spesso accompagnata da debolezza muscolare, compromissione cardiovascolare e difetti di conduzione evidenziati da alterazioni elettrocardiografiche, riduzione della motilità gastroenterica, modificazioni della funzionalità
renale e da un certo grado di confusione mentale. Tuttavia numerosi autori riferiscono che livelli anche estremamente bassi di potassio in soggetti con
DCA (Disordini del Comportamento
Alimentare) possono talora coesistere
con la quasi totale assenza di disfunzioni organiche o manifestazioni sintomatologiche ad essi correlate, ipotizzando che l’organismo di questi soggetti riesca a tollerare livelli di ipokaliemia severi che ordinariamente richiederebbero un intervento terapeutico urgente ed immediato.
David Greenfeld et al. in uno studio
su 945 pazienti ambulatoriali con DCA
hanno riferito una prevalenza tutto sommato bassa di ipokaliemia (circa il
4,6%).
La determinazione routinaria degli
elettroliti viene così ad essere da una
parte un indice diagnostico poco sensibile per rivelare una forma di anoressia
o di bulimaressia occulta e dall’altra un
indice molto specifico: nei pazienti reclutati in questo studio, l’ipokaliemia
fornisce, secondo gli autori, un’evidenza
virtualmente certa della messa in atto di
una qualche condotta eliminatoria con
una frequenza prossima ad una volta al
giorno.
Inoltre nell’anoressia nervosa di tipo
non restrittivo (tipo purging) oltre ad
anormalità biochimiche come quelle sopra descritte per quanto riguarda il potassio, possono coesistere anche altre
alterazioni dei minerali fra cui modificazioni a carico delle concentrazioni di calcio, fosforo e magnesio.
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La condizione di ipofosfatemia è un
importante fattore di rischio di aritmia
cardiaca, complicanza dell’anoressia
nervosa potenzialmente fatale.
Allo stesso modo appaiono rilevanti
le modificazioni della concentrazione di
Magnesio, associate a ipocalcemia e
ipokaliemia refrattarie al trattamento
abituale ma rapidamente rispondenti a
infusioni di Magnesio, suggerendo che
il trattamento delle carenze di Magnesio, seppur minori, possono aiutare a
prevenire complicazioni come tetania
prolungata, aritmie e insufficienza cardiaca.
Livelli plasmatici di zinco ridotti rispetto a quelli di riferimento, o alterazioni del metabolismo di questo, sono
stati studiati in misura approfondita come possibili fattori concorrenti all’eziologia dell’anoressia nervosa e alla base
di alcuni sintomi quali lesioni cutanee,
alopecia, nausea, ipogeusia, modificazioni dell’appetito, depressione, irritabilità.
La carenza acquisita di zinco potrebbe essere un fattore autoperpetuante del disordine alimentare di questi
soggetti.
La supplementazione orale di solfato di zinco è stata riportata come una
valida integrazione terapeutica nel trattamento dell’anoressia.
Aminoacidi e proteine
Una tendenza all’iperaminoacidemia
è un’altra delle caratteristiche di frequente riscontro nell’anoressia nervosa.
Benché i livelli assoluti degli aminoacidi
non giochino un ruolo significativo nella
valutazione dello stato nutrizionale, il
calcolo di alcuni rapporti (Fenilalanina/Tirosina, Metionina/Cisteina e Glicina/Valina) e i livelli relativi possono essere di qualche utilità. Il profilo aminoacidico nell’anoressia nervosa è diverso
da quello della malnutrizione severa,
mostrando un andamento di tipo marasmatico nel quadro di una malnutrizione
proteico-energetica bilanciata.
Cisteina e arginina possono essere
considerati aminoacidi limitanti in questa patologia e le conseguenze sul danno ossidativo delle loro ridotte concentrazioni dovrebbero essere ulteriormente indagate.
Anche le ricerche finalizzate allo
studio delle modificazioni relative alla distribuzione e al metabolismo dell’albumina difficilmente giungono all’osservazione di differenze nelle concentrazioni
o nel catabolismo di questa nei soggetti
anoressici rispetto ai controlli.
È stata inoltre osservata una grande espansione del pool extra-vascolare
dell’albumina nei soggetti con anoressia
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nervosa (36% circa se espresso in relazione al peso corporeo). Ciò contrasta
con i risultati precedenti che suggerivano in condizioni di deplezione proteica il
mantenimento del pool plasmatico dell’albumina a scapito del pool extravascolare. L’espansione del pool extravascolare dell’albumina potrebbe essere
correlato all’eccesso relativo del fluido
interstiziale tipico del digiuno e alla fase
iniziale della rialimentazione.
I livelli di prealbumina, RBP (Retinal Binding Protein), ceruloplasmina e
transferrina non differiscono significativamente dai controlli, anche se tendono
ad aumentare con il recupero del peso;
mentre le concentrazioni seriche di
SHBG (Sex Hormone Binding Globulin), significativamente più elevate
nei soggetti con anoressia nervosa,
sembrerebbero essere un buon indice
dello stato nutrizionale in questo tipo di
disordine alimentare per il fatto che
questi valori rientrano nella norma solo
dopo aumento ponderale.
del sistema immunitario è un fattore
causale importante nell’aumentata suscettibilità alle infezioni negli individui
malnutriti. Numerosi studi interessanti
ma controversi sono stati condotti per
valutare i meccanismi, non ancora completamente definiti, e per chiarire le ripercussioni causate da questa condizione sull’organismo.
A differenza di altri tipi di inanizione,
caratterizzati da una riduzione dei CD4+
e da un’aumentata suscettibilità alle infezioni, l’anoressia nervosa non è associata ad alcun aumento delle complicanze infettive. Fink et al. hanno studiato i linfociti T, inclusi i fenotipi CD4 e
CD8, in pazienti con anoressia nervosa
vs pazienti obesi a dieta per poter determinare il motivo per cui il rischio di
infezione degli anoressici differisce da
quello delle altre “popolazioni” malnutrite. I risultati hanno evidenziato che la
perdita di peso in ambedue i gruppi era
associata a una conta di CD4+ normale, mentre i CD8+ erano a livelli più bassi nel gruppo dei soggetti affetti da
anoressia nervosa sia prima sia dopo
l’aumento di peso; nei soggetti obesi gli
stessi erano più bassi solo dopo ma
non prima della dieta. La persistenza di
concentrazioni basse di CD8+ nell’anoressia nervosa anche dopo l’aumento
ponderale suggerisce che, oltre alla
Sistema immunitario
L’alimentazione gioca un ruolo importante nello sviluppo e nella funzionalità del sistema immunitario.
È stato dimostrato che l’alterazione
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perdita di peso, siano coinvolti altri fattori, probabilmente legati agli effetti dello stress, alle condizioni di comorbidità
psichiatrica, o a non ben identificati
aspetti di alterata regolazione della fisiopatologia secondaria al Disturbo del
Comportamento Alimentare.
Numerosi autori hanno studiato gli
effetti della malnutrizione sulla funzione
immunitaria cercando di investigare le variazioni dei sottotipi di linfociti, induzione
delle citochine o dell’attività linfocitaria.
Nei pazienti con anoressia nervosa
severamente malnutriti ci sono risultati
contraddittori sull’immunodeficienza,
compresa la sua assegnazione come
parte del disordine nervoso primario.
Nello studio di Allende et al. la sregolazione del sistema della citochina
dovuta all’interazione fra il SNC e quello
immunitario, sembrerebbe essere l’iniziale alterazione dell’immunodeficienza
nell’anoressia nervosa; d’altro canto
non è stata confutata l’ipotesi che l’immunodeficienza sia una conseguenza
diretta dell’originale perturbazione psichiatrica.
Elevati livelli circolanti di IL (interleukina)-1-beta e di TNF-alfa (Tumor
Necrosis Factor) sono stati osservati; ciò
probabilmente è una delle cause di anomalie riscontrate nelle sottopopolazioni
di T-cells e del loro stato di attivazione.
Questo porterebbe ad un deterioramento non solo della funzione delle cellule T ma anche della cooperazione fra
le cellule T e le B. Questi risultati sono
stati confermati dal fatto che tali alterazioni immunitarie migliorano in seguito
alla rialimentazione, ottimizzando lo stato nutrizionale, a conferma che l’immunodeficienza nell’anoressia nervosa è
secondaria alla malnutrizione.
Conclusioni
Da quanto esposto, appare chiara
l’importanza da dedicare alle complicanze internistiche potenzialmente riscontrabili nell’anoressia nervosa. Quali che
siano le cause scatenanti di tali disturbi
non va dimenticato che i soggetti affetti
da anoressia nervosa sono dei veri e
propri “malnutriti”. La loro malnutrizione
può essere causa di gravi complicazioni
mediche e soprattutto può presentarsi
di volta in volta in forme differenti.
Molti fattori condizionano il tipo ed il
grado di questa malnutrizione (età all’insorgenza della malattia, durata della malattia, tipo di dieta seguita, ecc.) rendendo ancor più difficile un corretto inquadramento diagnostico nutrizionale e richiedendo un intervento terapeutico mirato, personalizzato e multidisciplinare.
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E COMPLICANZE CLINICHE
CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO
AL SISTEMA ENDOCRINO
F. Cavagnini, G. Redaelli
Cattedra di Endocrinologia
Ospedale “San Luca” IRCCS, Milano – Istituto Auxologico Italiano
Università degli Studi di Milano
aritmie o crisi convulsive, che rappresentano reali emergenze mediche.
Il quadro clinico dell’anoressia nervosa si caratterizza per la magrezza,
che può raggiungere gradi estremi, fino
alla cachessia (Fig. 1).
Alla riduzione del tessuto adiposo si
associa ipotrofia muscolare, peculiare
dal punto di vista istologico. Si tratta,
infatti, di una miopatia primitiva con
prevalente atrofia delle fibre di tipo II,
mentre nelle malnutrizioni di diversa origine la miopatia coinvolge entrambi i tipi
di fibre muscolari ed è secondaria a
neuropatia. Si ritiene che nella genesi di
quest’alterazione sia in gioco l’iperattività fisica di queste pazienti in presenza
di deficit calorico e riduzione del contenuto corporeo totale di potassio. Caratteristico in questi casi è un aumento
della creatin fosfokinasi nel siero. Nei
pazienti più gravemente compromessi,
specie dopo prolungata stazione eretta,
possono comparire edemi declivi cau-
Alterazioni
extraendocrine
Nei pazienti affetti da anoressia
nervosa la restrizione alimentare e le
anomalie comportamentali associate
(autoinduzione del vomito, abuso di diuretici/lassativi, iperattività fisica) possono compromettere la funzionalità di ogni
organo ed apparato dell’organismo. Ne
derivano uno spettro sintomatologico e
un quadro clinico complessi e variabili
individualmente a seconda della gravità
raggiunta dalla patologia. Nella maggior
parte dei casi le complicanze cliniche
dei disordini del comportamento alimentare sono pienamente reversibili
con il miglioramento dell’apporto calorico e la conseguente normalizzazione
del peso corporeo. Tuttavia non va dimenticato che alle manifestazioni cliniche determinate dalla malnutrizione cronica si possono sovrapporre complicanze acute, quali squilibri idro-elettrolitici,
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Le complicanze cliniche con particolare riferimento al sistema endocrino
Figura 1
Cachessia in anoressia
nervosa.
sati da aumentata permeabilità capillare, ipoproteinemia e aumento dell’azione sodioritentiva dell’aldosterone. Sono
infatti aumentate la secrezione di questo ormone in risposta agli stimoli specifici e la sensibilità dei tubuli renali alla
sua azione. Paradossalmente, gli edemi
possono peggiorare nella prima fase
della rialimentazione per effetto di una
transitoria iperinsulinemia e della sua
azione sodioritentiva e talora di un eccessivo apporto idrico.
Le alterazioni della cute rivestono
interesse anche perché possono essere
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tra i primi indizi della malattia. La cute si
presenta secca, finemente desquamante, apparentemente sporca, di colorito
pallido-giallognolo; unghie e capelli sono fragili. La sofferenza della cute e dei
suoi annessi è conseguenza della malnutrizione cronica, dell’ipotiroidismo
compensatorio comune agli stati di digiuno protratto e dell’aumento del carotene plasmatico. Quest’ultima alterazione dismetabolica, tipica dell’anoressia
nervosa, deriva da una ridotta conversione del carotene in vitamina A e da
un’aumentata mobilizzazione del colesterolo dal tessuto adiposo a fini energetici (si osserva in particolare un aumento della frazione LDL veicolante il
carotene), cui si aggiunge il già citato
ipotiroidismo. Talvolta ad essa contribuisce un aumentato consumo di vegetali.
A deteriorare l’aspetto della cute spesso concorre la disidratazione, presente
anche quando i pazienti riferiscono polidipsia perché a questa si associa poliuria. Quest’ultima è sostenuta da una diminuzione della secrezione di vasopressina e della sensibilità dei tubuli renali
ad essa, nel quadro di un diabete insipido di moderata entità. È pressoché costante la comparsa di “lanugo”, ossia di
fine peluria, sul viso e sul dorso: essa
non è correlata ad iperandrogenismo
dal momento che in questi pazienti ri-
sulta ridotta l’attività dell’enzima 5α reduttasi, attivatore periferico degli androgeni. Quando la pratica del vomito è
abituale è possibile riconoscere tipiche
callosità al dorso delle mani, in particolare in corrispondenza dell’articolazione
metacarpo-falangea dell’indice, per l’attrito delle dita contro l’arcata dentale
superiore durante l’autoinduzione del
vomito. Più rare sono le dermatosi secondarie all’abuso di farmaci: eritema
fisso da lassativi, reazioni di fotosensibilità da diuretici tiazidici. La cute può apparire cianotica alle estremità per la vasocostrizione indotta da un’abnorme
sensibilità vascolare alle basse temperature. Anche la temperatura corporea
è abitualmente inferiore ai 36 °C e si
modifica in modo anomalo in risposta
alle variazioni esterne. L’incapacità di
mantenere l’omeostasi termica dipende
da un’alterazione primitiva ipotalamica
della termoregolazione.
Se l’anoressia nervosa insorge prima dell’epoca puberale vengono irrimediabilmente compromessi l’accrescimento e la maturazione scheletrici, cosicché la statura definitiva del paziente
risulta inferiore a quella attesa e il rischio di fratture patologiche permane
anche in età adulta. Il ridotto carico
scheletrico, il deficit calorico-proteico, i
bassi livelli di ormoni gonadici e di insu-
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Le complicanze cliniche con particolare riferimento al sistema endocrino
lin-like growth factor 1 (IGF-1), l’eccesso di cortisolo e di interleuchina 6
(IL-6) favoriscono l’insorgenza di osteoporosi, dovuta principalmente ad aumento del riassorbimento osseo (Fig. 2).
Nella donna, la riduzione della densità minerale ossea è direttamente correlata con la durata dell’amenorrea e
con l’indice di massa corporea (Body
Mass Index – BMI) minimo raggiunto.
Figura 2
Osteoporosi e frattura
patologica del radio
in paziente di 31 anni
con anoressia nervosa
cronica.
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La somministrazione di steroidi gonadici
contrasta la demineralizzazione nei pazienti che mantengono a lungo un peso
corporeo abnormemente basso, anche
se non garantisce il recupero completo
del trofismo osseo. Gli indici del metabolismo fosfocalcico si mantengono
nella norma; è stata tuttavia segnalata
una riduzione della frazione libera della
vitamina D.
Nei pazienti affetti da anoressia
nervosa è pressoché costante il rilievo
di ipotensione e bradicardia, dovute a
disidratazione; allo stesso modo sono
frequenti la riduzione dello spessore e
della contrattilità del miocardio e l’ipertono vagale. All’ecocardiogramma si
può accertare la presenza di prolasso
mitralico, secondario alla sproporzione
valvulo-ventricolare, e di versamento
pericardico, entrambi non rilevanti emodinamicamente e senza corrispettivi auscultatori. Il tracciato elettrocardiografico registra frequentemente bassi voltaggi, depressione del tratto S-T, inversione dell’onda T e comparsa di onda
U. L’allungamento dell’intervallo QT,
quando presente, aumenta il rischio di
aritmie – in particolare tachiaritmie ventricolari – favorite dal prolasso mitralico
e dagli squilibri elettrolitici, presenti a livello intracellulare anche in assenza
delle più transitorie modificazioni dei li-
velli plasmatici. Negli stati di malnutrizione prolungati da un lato è stata riconosciuta la presenza di aree degenerative parcellari miocardiche, possibili foci
aritmogeni, dall’altro è stato ipotizzato
l’intervento di un ipertono simpatico
ipotalamico nella genesi delle aritmie.
Le alterazioni della funzione cardiovascolare e la disregolazione autonomica,
che pure regrediscono dopo aumento
ponderale, meritano un’attenta valutazione in quanto possibili cause di episodi sincopali e di morte improvvisa. Il decesso per cause cardiovascolari è stato
descritto anche durante la fase di rialimentazione, per scompenso cardiaco
congestizio dovuto al sovraccarico di un
ventricolo sinistro ancora ipotrofico.
Nei pazienti gravemente defedati è
frequente osservare un rallentamento
motorio e dell’eloquio, che spesso migliora dopo correzione dello stato di disidratazione. A livello neurologico si registra una diminuzione dei riflessi
osteotendinei e talvolta si assiste alla
comparsa di neuropatie periferiche su
base carenziale. Il deficit vitaminico, in
particolare di tiamina, può rendersi manifesto proprio nella fase di renutrizione
in seguito all’aumentato fabbisogno vitaminico indotto da un maggior consumo di carboidrati. Anche il sistema nervoso centrale è frequentemente inte-
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Le complicanze cliniche con particolare riferimento al sistema endocrino
ressato: la TAC documenta un quadro
di “pseudoatrofia cerebrale” con riduzione dello spessore della corteccia e ampliamento degli spazi liquorali. Il grado
di deterioramento mentale non sembra
correlarsi con l’entità della pseudoatrofia, nella cui genesi è stato ipotizzato il
coinvolgimento della perdita di acqua
intracellulare da squilibrio osmotico o
idrico, dell’ipotiroidismo e infine dell’ipercortisolismo ben documentato nei pazienti anoressici.
L’uso di tecniche di visualizzazione
funzionale del cervello ha condotto a risultati contrastanti. Mentre la SPECT
non ha documentato certe alterazioni
del flusso ematico cerebrale, con la PET
è stata rilevata una riduzione del metabolismo del glucosio nella corteccia cerebrale nell’anoressia in fase conclamata, con ipermetabolismo relativo dei nuclei caudati e delle aree frontali inferiori.
La prima alterazione si normalizza insieme al peso corporeo, la seconda può
persistere anche dopo guarigione, forse
in relazione al permanere di atteggiamenti ossessivo-compulsivi, dal momento che analoghe alterazioni tomografiche
si trovano nei pazienti affetti da sindromi
ossessivo-compulsive. In circa la metà
dei pazienti il tracciato elettroencefalografico registra anomalie aspecifiche
probabilmente legate agli squilibri meta-
bolici. L’accorciamento delle fasi del
sonno profondo e REM corrisponde al
sintomo insonnia spesso lamentato dai
pazienti, ma è una modificazione aspecifica, comune per esempio alla depressione. L’incidenza di crisi epilettiche
è aumentata ed è favorita dagli episodi
di vomito, dall’abuso di lassativi o alcool
e dall’assunzione di clorpromazina.
L’apparato gastroenterico, interessato in tutta la sua estensione dalle conseguenze dell’anoressia nervosa, è la
sede della maggior parte dei sintomi lamentati: dispepsia, epigastralgie, precoce senso di ripienezza gastrica, rigurgiti,
dolori addominali, stipsi ostinata. Le alterazioni morfologiche e funzionali riconoscibili in quest’apparato si uniscono
alle alterazioni psicopatologiche nel motivare l’incongrua riduzione dell’apporto
alimentare di questi pazienti. La muscolatura liscia delle pareti dei visceri addominali è ipotonica ed ipotrofica e lo
svuotamento gastrico risulta rallentato
per i cibi solidi e i liquidi ipertonici. L’eziopatogenesi di tale fenomeno sembra riconducibile alla perdita del riflesso duodeno-gastrico che regola la fase tardiva
dello svuotamento gastrico, compromesso per la riduzione cronica del bolo
alimentare nel lume intestinale. È comunque conservata la sensibilità del tubo gastroenterico agli stimoli colinergici
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ed antidopaminergici, utilizzabili quindi a
fini terapeutici. Nei pazienti bulimici si
può verificare distensione acuta dello
stomaco, favorita dalla possibile concomitanza di neuropatie viscerali da avitaminosi. Questo evento rappresenta anche una temibile complicanza della nutrizione enterale forzata, spesso attuata
con il paziente in posizione supina. Se
misconosciuta, la dilatazione evolve verso la necrosi parietale gastrica e la
perforazione, costituendo un’emergenza chirurgica. Quando la pratica del vomito è abituale si osserva un ingrandimento bilaterale ed indolente delle
ghiandole salivari, in particolare delle
parotidi, dovuto alla cronica stimolazione causata dal rigurgito di materiale
acido e di enzimi proteolitici pancreatici
nonché alla malnutrizione. Istologicamente sono documentabili ipertrofia degli acini ghiandolari, infiltrazione grassa
e fibrosi senza segni infiammatori;
l’isoenzima salivare delle amilasi può
essere aumentato nel sangue. Le lesioni dello smalto e della dentina, tipicamente localizzate sulla faccia linguale
dei denti, sono infrequenti perché l’attenta igiene orale generalmente mantenuta dai pazienti li preserva dalla perimolisi prodotta dall’ambiente acido. Più
frequenti sono le lesioni esofagee legate al vomito: esofagiti, erosioni ed ulce-
re della mucosa con ematemesi, fino
alla rottura dell’organo (sindrome di
Boerhaave). È invece l’abuso di lassativi a produrre danni a carico dell’intestino: atonia e dilatazione con perdita delle haustrature e, istologicamente, lesioni infiammatorie aspecifiche e tipiche
alterazioni ultrastrutturali; di queste ultime la più frequente è la “melanosis coli”, ossia una colorazione scura della
mucosa e della sottomucosa. È il quadro del colon catartico (Fig. 3).
A livello dell’intestino tenue possono
verificarsi, particolarmente in fase di rialimentazione, dilatazioni transitorie del
duodeno prossimale e del digiuno, mentre l’atrofia e la dismotilità enteriche
spesso alterano il test di assorbimento
dello xilosio. Infine sono relativamente
rari i segni di sofferenza epatica e pancreatica, che possono paradossalmente
peggiorare nella fase iniziale della rialimentazione. L’aumento degli enzimi
epatici (transaminasi, LDH, CPK, γGT)
e la riduzione degli indici di sintesi
(pseudocolinesterasi, colesterolo, proteine) si accompagnano talora ad epatomegalia steatosica. All’aumento delle
amilasi e alla riduzione della secrezione
stimolata degli enzimi pancreatici, sul
piano istologico corrispondono atrofia
del tessuto ghiandolare, aumento del
tessuto fibroso interstiziale e comparsa
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Le complicanze cliniche con particolare riferimento al sistema endocrino
Figura 3
Megacolon tossico
da abuso cronico
di lassativi.
di calcificazioni diffuse. L’insorgenza di
pancreatiti è comunque un evento raro.
Nell’anoressia nervosa sono presenti numerose alterazioni ematologiche. Il midollo osseo va incontro ad ipoplasia cellulare con trasformazione ge-
latinosa (accumulo di materiale amorfo
extracellulare), nei casi più gravi associata a necrosi cellulare. Ne conseguono vari gradi di leucopenia, anemia e,
più raramente, trombocitopenia. Il quadro può peggiorare durante la fase di
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renutrizione per insufficiente apporto di
ferro, vitamina B12 e fosfati in relazione
all’aumento delle richieste metaboliche.
Le risposte immunitarie cellulo-mediate
sono generalmente diminuite, mentre
l’immunità umorale è aumentata; rimane
controversa la presenza o meno di un
aumentato rischio di infezioni in questi
pazienti. Appaiono ridotti i livelli sierici
dei fattori del complemento, mentre sono aumentati quelli di IL-6 e tumor necrosis factor, citochine ad effetto anoressante che potrebbero contribuire a
perpetuare la malattia.
Frequenti e numerose sono anche
le alterazioni metaboliche. Nel digiuno
prolungato il catabolismo dei lipidi produce chetosi, chetonuria ed iperuricemia, quest’ultima per competizione dei
chetoni con l’acido urico nell’escrezione
renale. I livelli plasmatici di colesterolo
sono aumentati per aumentata mobilizzazione dal tessuto adiposo a fini energetici, ridotta eliminazione e ipoestrogenemia. Si può osservare iperazotemia
prerenale da aumentato catabolismo
proteico e riduzione del flusso plasmatico renale, mentre la creatininemia è normale. L’ipoproteinemia si differenzia dagli altri stati di malnutrizione perché caratterizzata da prevalente riduzione delle
globuline. I livelli glicemici sono ai limiti
inferiori della norma o nettamente ridotti,
mentre generalmente appaiono normali
insulina e glucagone plasmatici. Pur essendo stata descritta una ridotta tolleranza glucidica dopo carico, la sensibilità
all’insulina sembra conservata perché il
numero dei recettori insulinici aumenta a
causa della dieta povera di carboidrati e
dell’attività fisica praticata spesso intensamente.
Durante la rialimentazione si passa
attraverso una prima fase di iperincrezione insulinica per arrivare poi alla normalizzazione della secrezione ormonale
e del numero dei recettori. L’abuso di
diuretici e/o lassativi e l’abitudine al vomito inducono un’alcalosi ipocloremiaipokaliemica spesso associata a ipomagnesiemia, che a sua volta peggiora il
quadro ipopotassiemico.
L’iponatriemia è frequente nei pazienti che assumono notevoli quantità di
liquidi. Tra i minerali è rilevante la carenza di zinco, il cui deficit può contribuire
alla genesi di alcuni sintomi e segni propri dell’anoressia nervosa (Tab. 1).
La molteplicità delle alterazioni fin
qui descritte e il loro mutare in relazione
alle fasi della malattia impongono un
frequente e attento monitoraggio dei
principali parametri clinici e biochimici
dei pazienti affetti da anoressia nervosa.
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Le complicanze cliniche con particolare riferimento al sistema endocrino
Tabella 1
Sintomi da deficienza
di zinco.
• Diminuzione di peso
• Diminuzione dell’appetito
• Ritardo di crescita
• Alterazioni cutanee
• Ritardato sviluppo sessuale
• Perdita di capelli
• Alterazioni dell’umore
• Ipogeusia (per amaro e salato)
Alterazioni endocrine
Funzione gonadica
L’anoressia nervosa si associa a
complesse alterazioni del sistema endocrino che contribuiscono ad alcuni
aspetti del quadro clinico dei pazienti.
La maggior parte di queste anomalie risulta secondaria al calo ponderale, dal
momento che è riconoscibile negli stati
di malnutrizione di altra origine e risulta
reversibile correggendo le carenze nutrizionali. Tuttavia alcune di queste disendocrinie, ad esempio l’ipogonadismo che sostiene l’amenorrea, possono precedere la comparsa delle alterazioni comportamentali e/o persistere
anche dopo normalizzazione del peso
corporeo, suggerendo così l’esistenza
di disfunzioni primarie della neuroregolazione ipotalamica. Anche se non è documentato il ruolo causale delle alterazioni endocrine nella patogenesi
dell’anoressia nervosa, è verosimile che
alcune di esse rappresentino fattori perpetuanti la malattia.
A tutt’oggi l’amenorrea rimane uno
dei criteri diagnostici dell’anoressia
nervosa essendo pressoché costante
nei casi conclamati.
Nonostante rappresenti un’appropriata reazione di adattamento al dimagramento, la scomparsa dei flussi mestruali precede il calo ponderale in circa
il 20% delle pazienti anoressiche e in
circa il 50% dei casi persiste anche dopo il recupero del peso corporeo.
Nell’anoressia nervosa, quindi, la normalizzazione del peso sembra essere
condizione necessaria ma non sufficiente per la completa correzione dei
disordini sessuali e sembra che questa
si ottenga solo quando anche le condizioni psichiche sono migliorate.
L’amenorrea nelle donne, l’impotenza e la riduzione della libido negli
uomini sono sostenute da un ipogonadismo ipogonadotropo con bassi livelli
plasmatici di ormone luteinizzante (LH)
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e follicolostimolante (FSH), i cui picchi
secretori spontanei sono ridotti o limitati alle ore notturne, come nei soggetti prepuberi. Nelle donne anche la risposta delle gonadotropine al releasing hormone specifico (GnRH) risulta
sovrapponibile a quella della fase prepuberale, in cui l’aumento dell’FSH è
maggiore e anticipato rispetto a quello
dell’LH, contrariamente a quanto si rileva nell’adulto. La regressione ad un
profilo secretorio di gonadotropine proprio della fase prepubere ha fatto ipotizzare che l’amenorrea sia sostenuta
da alterazioni di meccanismi neuroregolatori sovraipotalamici. Viceversa, la
possibilità di ripristinare normali livelli
basali e stimolati di gonadotropine con
somministrazioni ripetute di basse dosi
di GnRH e la scarsa risposta dell’LH al
clomifene suggeriscono l’origine ipotalamica della disfunzione. Al deficit di
gonadotropine consegue in ogni caso
la diminuzione dei livelli plasmatici di
estradiolo e progesterone. Il recupero
ponderale si accompagna in genere a
spontanea normalizzazione della secrezione gonadotropinica, seguita a distanza variabile di tempo dalla ripresa
dei flussi mestruali; quest’ultima sembra correlata più con i livelli di estradiolo raggiunti che con quelli di gonadotropine.
Nel maschio affetto da anoressia
nervosa risultano ridotte la concentrazione ematica di testosterone e la risposta delle gonadotropine al GnRH.
In entrambi i sessi sono aumentati i
livelli della proteina di trasporto degli ormoni sessuali (SHBG), la cui secrezione, stimolata dagli estrogeni ed inibita
dagli androgeni, è anche alterata da
fattori nutrizionali, al punto che il suo
aumento è considerato un attendibile
indice di malnutrizione.
Funzione tiroidea
In tutte le condizioni di digiuno protratto la tiroxina (T4) viene preferibilmente convertita nei tessuti periferici in
reverse triiodotironina (rT3), metabolita
biologicamente inattivo della T3, anziché
in T3. Questo meccanismo, finalizzato al
risparmio energetico, dà luogo alla cosiddetta “low T3 syndrome”, in cui si
osservano bassi livelli circolanti di T3, livelli normali o solo lievemente ridotti di
T4 e normali valori dell’ormone tireostimolante (TSH). Quest’ultimo nel 50%
dei casi presenta una risposta ridotta o
ritardata allo stimolo con lo specifico releasing hormone ipotalamico (TRH),
cui risponde in modo analogo anche la
prolattina, generalmente normale in
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Le complicanze cliniche con particolare riferimento al sistema endocrino
condizioni basali. L’ipotiroidismo compensatorio, pur essendo ritenuto concausa di alcuni sintomi e segni della
malattia, non necessita di terapia sostitutiva e va incontro a correzione spontanea dopo recupero ponderale.
ACTH e cortisolo allo stimolo con lo
stesso CRH. A sostegno di questa interpretazione, nell’animale da esperimento la somministrazione intracerebroventricolare di CRH induce aumento
dell’attività motoria, riduzione del consumo di alimenti, rallentamento dello
svuotamento gastrico e inibizione della
secrezione di GnRH, di fatto frequentemente riscontrabili nell’anoressia nervosa. In questi pazienti l’assenza dei
segni clinici propri dell’ipercortisolismo
ha indotto allo studio dei recettori per i
glucocorticoidi, nell’ipotesi di una resistenza periferica all’azione di questi ormoni nell’anoressia nervosa. Le evidenze sperimentali circa numero e affinità dei recettori non sono concordi.
Un recente studio condotto dal nostro
gruppo per la prima volta ha valutato in
vitro la funzionalità recettoriale, dimostrandone l’integrità almeno per quanto
riguarda la capacità dei glucocorticoidi
di inibire la sintesi del DNA, valutata
misurando l’effetto inibitorio del desametasone sull’incorporazione di timidina triziata nei leucociti mononucleati
circolanti (Fig. 4). Questo risultato avvalora l’ipotesi che l’assenza delle tipiche manifestazioni cliniche dell’ipercortisolismo nei pazienti anoressici non
derivi da una ridotta sensibilità ai glucocorticoidi ma piuttosto dalla carenza dei
Asse ipotalamo-ipofisisurrene
Nell’anoressia nervosa è ben documentato uno stato di attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene: i livelli plasmatici ed urinari di cortisolo sono ai limiti superiori della norma o francamente elevati; il cortisolo inoltre non mantiene il fisiologico ritmo circadiano e non si
inibisce come di norma dopo basse dosi di desametasone in circa la metà dei
pazienti.
L’ipercortisolismo, in presenza di
normali concentrazioni di ormone adrenocorticotropo (ACTH), può essere in
parte attribuito al ridotto catabolismo tipico di tutte le condizioni di malnutrizione, ma anche ad un aumento della secrezione dello specifico releasing hormone ipotalamico (CRH). Questo secondo meccanismo è testimoniato direttamente dal riscontro di elevati livelli
di CRH nel liquor di pazienti anoressici
e indirettamente dalla ridotta risposta di
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100
80
60
40
20
.................................................
Effetto inibitorio
dose-dipendente
del desametasone
sull’incorporazione di
timidina triziata nei
leucociti mononucleati
di pazienti con anoressia
nervosa e di volontari
sani.
% incorporazione (3H)timidina
Figura 4
Pazienti anoressici
Volontari sani
10
9
8
– Log (desametasone) (M)
substrati metabolici necessari per sviluppare l’azione ormonale. Peraltro non
si può escludere che nei pazienti con
anoressia nervosa l’ipercortisolismo
giochi un ruolo nella patogenesi
dell’osteoporosi, dell’atrofia cerebrale e
dell’ipotrofia muscolare di frequente riscontro in questi pazienti.
7
crescita (GH), mentre è complesso il
comportamento della sua secrezione
stimolata. È generalmente esagerata la
risposta allo specifico releasing hormone ipotalamico (GHRH), normale quella
a clonidina e arginina, ridotta o assente
quella a ipoglicemia insulinica, levodopa
e desametasone. Anche la manipolazione farmacologica della risposta del GH
al GHRH appare alterata: in ambito colinergico la pirenzepina non la inibisce
né la piridostigmina la potenzia, mentre
i dati sperimentali riguardanti l’effetto
del CRH non sono univoci.
Ormone della crescita
In questa patologia è frequente rilevare elevati livelli basali di ormone della
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È inoltre possibile osservare incrementi paradossi del GH dopo iperglicemia e somministrazione di TRH o GnRH,
analogamente a quanto si verifica in altre condizioni di ipersecrezione somatotropinica, quali l’acromegalia, l’insufficienza renale e il diabete mellito. Anche
lo studio della secrezione spontanea
notturna del GH tramite l’algoritmo Cluster testimonia un aumento della secrezione ormonale non pulsatile e del numero dei picchi secretori, mentre l’am-
piezza di ciascun picco è paragonabile
a quella dei soggetti normali (Fig. 5).
Questi dati, forniti per la prima volta
dal nostro gruppo e più recentemente
confermati da altri, sono sovrapponibili
a quanto rilevato nel diabete mellito
scompensato, altra condizione di “digiuno cellulare”, e nell’acromegalia. Invece, nei soggetti defedati per cause diverse dall’anoressia nervosa l’aumento
del GH non si accompagna ad un aumento della sua pulsatilità.
GH (µg/l)
20
16
...........................
...........................
20
16
12
12
8
8
4
0
4
0
20.30 21.30 22.30 23.30 0.30 1.30 2.30 3.30 4.30 5.30 6.30 7.30 8.30
20.30 21.30 22.30 23.30 0.30 1.30 2.30 3.30 4.30 5.30 6.30 7.30 8.30
Tempo (ore)
20
16
...........................
...........................
GH (µg/l)
Tempo (ore)
GH (µg/l)
Profili secretori notturni
del GH in due pazienti
anoressiche (sopra) e in
due soggetti normopeso
(sotto).
GH (µg/l)
Figura 5
20
16
12
12
8
8
4
0
4
0
20.30 21.30 22.30 23.30 0.30 1.30 2.30 3.30 4.30 5.30 6.30 7.30 8.30
Tempo (ore)
20.30 21.30 22.30 23.30 0.30 1.30 2.30 3.30 4.30 5.30 6.30 7.30 8.30
Tempo (ore)
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Questa differenza è stata attribuita
a diversità nella fisiopatologia delle due
condizioni di malnutrizione, dal momento che in modo peculiare nell’anoressia
nervosa il catabolismo proteico non è
marcatamente aumentato e i tessuti nobili vengono relativamente risparmiati a
scapito del tessuto adiposo. A fronte di
elevati livelli di GH appaiono sempre ridotti quelli di IGF-1, mediatore dell’attività biologica del GH sintetizzato a livello epatico in presenza di un adeguato
apporto nutrizionale. Questo riscontro e
l’assenza dei segni clinici di acromegalia indicano l’esistenza di uno stato di
resistenza acquisita all’azione dell’ormone somatotropo, che, infatti, non appare in grado di far aumentare l’IGF-1
nelle anoressiche nemmeno dopo ripetute somministrazioni sottocutanee.
Inoltre, la presenza di basse concentrazioni ematiche della proteina legante il
GH, corrispondente al dominio extracellulare del recettore per l’ormone, rende
possibile assimilare l’anoressia nervosa
al nanismo di Laron, sindrome caratterizzata da insensibilità all’azione dell’ormone della crescita. Sotto il profilo clinico, la ridotta sensibilità al GH nell’anoressia si traduce in un rallentamento
della crescita staturale quando la patologia si manifesta, come accade frequentemente, in età adolescenziale.
Circa la patogenesi dell’ipersecrezione di GH nell’anoressia nervosa sono state formulate varie ipotesi. È stata
considerata la possibilità che a causa
della malnutrizione venga meno il feedback negativo fisiologicamente esercitato dall’IGF-1 sul GH tramite la somatostatina. Tuttavia non esiste correlazione tra i livelli di IGF-1 e quelli di GH basali e stimolati dal GHRH né tra grado
di dimagramento e secrezione spontanea di GH. La possibilità di una riduzione del tono somatostatinergico nell’anoressia nervosa è stata confermata
direttamente dal riscontro di ridotte
concentrazioni liquorali di somatostatina
e indirettamente da osservazioni sperimentali. Nell’uomo appaiono in accordo
con questa ipotesi anche l’alterata risposta del GH alle variazioni del glucosio ematico e alla somministrazione di
glucocorticoidi, nonché l’impossibilità di
manipolare farmacologicamente la risposta al GHRH, tutti effetti che si
eserciterebbero attraverso un aumento
del tono somatostatinergico. Tuttavia la
secrezione di somatostatina rimane
evocabile con adeguati stimoli, come
dimostra il mancato aumento del GH
dopo ripetute somministrazioni di
GHRH. Infine, per quanto riguarda la
secrezione spontanea dell’ormone, se
l’aumento di quella basale è compatibile
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3.000
2.500
2.000
1.500
1.000
500
0
GH ∆ AUC (µg/l/min)
3.500
* p < 0,05
* p < 0,05
HEX
3.500
3.000
2.500
2.000
1.500
1.000
500
0
GHRH
GHRH
+ HEX
con una riduzione del tono somatostatinergico, l’incremento della componente
pulsatile è da mettere in relazione con
un aumento del GHRH. Nei pazienti
anoressici, oltre a somatostatina e
GHRH, anche il terzo sistema di controllo del GH, quello dei postulati secretagoghi endogeni diversi dal GHRH,
appare alterato: l’esarelina, GH secretagogo esogeno, induce un aumento
del GH inferiore a quello atteso e non è
in grado di potenziare la risposta al
GHRH (Fig. 6).
Si ipotizza quindi un’aumentata secrezione dei GH secretagoghi endogeni, ancora non identificati, ai cui recet-
......................................
4.000
......................................
Risposta incrementale
del GH (∆ AUC, area
sotto la curva) dopo
esarelina (HEX), GHRH e
i due stimoli combinati in
soggetti sani normopeso
(a sinistra) e in pazienti
anoressiche (a destra).
GH ∆ AUC (µg/l/min)
Figura 6
NS
* p < 0,05
HEX
GHRH
GHRH
+ HEX
tori ipotalamici ed ipofisari l’esarelina si
lega per esprimere la propria azione.
In conclusione le complesse anomalie dell’asse GH-IGF-1 descritte
nell’anoressia nervosa sembrano derivare dalla combinazione di difetti dell’azione periferica dell’ormone, dirette conseguenze dello stato di malnutrizione e
anomalie della neuroregolazione del GH.
Leptina
Dopo l’identificazione della leptina,
proteina codificata dal gene dell’obesità
nel tessuto adiposo bianco, una cre-
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scente attenzione è stata rivolta al ruolo
di questo ormone nei disturbi del comportamento alimentare.
La leptina esercita un effetto “antiobesità” riducendo l’assunzione di cibo
e aumentando il consumo energetico
attraverso un’azione centrale mediata a
livello ipotalamico dall’inibizione del
neuropeptide Y e dalla stimolazione della melanocortina.
Nelle pazienti anoressiche i livelli
sierici di leptina sono ridotti e appaiono
direttamente correlati con il BMI, la percentuale di grasso corporeo e i livelli di
IGF-1.
In queste pazienti è stata recentemente segnalata anche un’alterazione
del ritmo circadiano della leptina in rapporto con le alterazioni della secrezione
del ritmo del cortisolo. In ogni caso il
recupero del peso corporeo si accompagna a normalizzazione dei livelli di
leptina, le cui variazioni quindi appaiono
secondarie alla riduzione del tessuto
adiposo.
Merita tuttavia ricordare che nei pazienti anoressici durante la fase iniziale
di rialimentazione i livelli di leptina risultano tendenzialmente più elevati rispetto a soggetti normali con BMI paragonabile. Questo fenomeno suggerisce
che la leptina possa contribuire alla difficoltà del recupero ponderale talora os-
servabile in corso di rialimentazione.
Infine, per il ruolo inibitorio svolto
dalla leptina sulla funzione gonadica,
questo ormone è stato chiamato in
causa anche nella genesi dei disordini
mestruali dell’anoressia nervosa.
Anche in questo ambito la prosecuzione degli studi consentirà di acquisire
ulteriori elementi utili per una maggior
comprensione della complessa fisiopatologia dell’anoressia nervosa.
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SICOBIOLOGIA
DELL’ANORESSIA NERVOSA:
UN RAZIONALE
PER L’INTERVENTO
FARMACOLOGICO?
E. Nisoli
Centro di Studio e Ricerca sull’Obesità, Dipartimento di Scienze Precliniche, LITA,
Ospedale “L. Sacco” – Università degli Studi di Milano
chico legato all’atto alimentare, sia per
l’instaurarsi di un circolo vizioso di restrizione-disinibizione – colpa/allarmerestrizione. Vale la pena di ricordare a
questo proposito che le diete drastiche,
soprattutto se ripetute più volte, costituiscono uno dei fattori responsabili del
passaggio verso comportamenti alimentari abnormi. La diffusione, dunque,
delle diete attuate solo per ragioni estetiche e non per reali necessità mediche
è certamente una delle cause principali
del grande aumento dei disturbi del
comportamento alimentare nella seconda metà del nostro secolo.
Nelle brevi note che seguiranno vogliamo soffermarci in particolare sugli
aspetti psicobiologici dell’anoressia nervosa e verificare se possibile quali di
questi possono suggerire indicazioni per
lo sviluppo di farmaci attivi in tale patologia.
Introduzione
I disturbi del comportamento alimentare comprendono tre sindromi di
interesse psichiatrico: anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbi del comportamento alimentare non altrimenti
specificati o atipici. L’interesse per queste patologie è cresciuto negli ultimi
trent’anni di pari passo con l’aumento
dell’incidenza di queste forme, rare fino
agli anni ’50.
Più della metà delle anoressie evolvono in senso bulimico e la maggior
parte dei casi di bulimia nervosa ha sofferto in precedenza di un disturbo anoressico conclamato o, più spesso, parziale, breve e passato inosservato.
Comportamenti anoressici e bulimici si
combinano e si succedono gli uni agli
altri sia per la scelta, comune, di un codice di espressione del malessere psi-
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Psicobiologia dell’anoressia nervosa: un razionale per l’intervento farmacologico?
canismi eziopatogenetici coinvolti
nell’insorgenza di questa patologia
mentale. È utile distinguere tra fattori
predisponenti a lungo termine (tra cui
fattori individuali, familiari e culturali),
fattori precipitanti (l’esperienza dei
cambiamenti puberali vissuta come un
trauma e una minaccia al controllo di sé
e della propria vita) e fattori che tendono a perpetuare la sindrome (gli effetti
del digiuno e della perdita di peso); un
cenno particolare meritano alcuni fattori
di natura iatrogena (la prescrizione di
diete più o meno drastiche, in età adolescenziale, senza adeguata valutazione
dei fattori di rischio può dar luogo all’inizio della malattia).
È noto che l’anoressia nervosa è
più frequente fra le sorelle e le madri di
anoressiche che nella popolazione generale. Questo dato può essere legato
sia a fattori genetici sia ambientali. Ma
diversi lavori indicano che i fattori genetici giocano un ruolo significativo. Studi
di epidemiologia genetica segnalano
che il rischio di sviluppare la malattia in
parenti di primo grado di una paziente
anoressica è del 6% rispetto all’1% riscontrato tra i parenti dei soggetti di
controllo, e uno studio condotto su 34
paia di gemelli ha dimostrato un tasso
di concordanza maggiore per le anoressiche gemelle monozigoti (55%) rispet-
Note di epidemiologia
Nei Paesi occidentali industrializzati,
compresa l’Italia, ogni 100 ragazze in
età a rischio (12-25 anni) 8-10 soffrono di qualche disturbo del comportamento alimentare: 1-2 nelle forme più
serie e pericolose (anoressia e bulimia
nervosa), le altre nelle forme più lievi,
spesso transitorie, dei disturbi parziali.
L’anoressia nervosa è una malattia soprattutto femminile (90-95% dei casi).
Quasi esclusiva, in passato, delle classi
medio-alte si è diffusa, in anni più recenti, in tutti gli strati sociali. L’età di
esordio cade, per lo più, fra i 10 e i 30
anni: l’età media di insorgenza è 17 anni. Le anoressie prepuberali (che insorgono prima dei primi cambiamenti somatici della pubertà) e premenarcali
(prima del menarca) sono associate a
indici di psicopatologia più elevati e a
una prognosi psichiatrica generalmente
più grave. Sembra in aumento il numero dei casi di anoressia nervosa che
esordiscono dopo i 20 anni, talora dopo
il matrimonio.
Modelli eziopatogenetici
Non è ancora possibile delineare
una teoria sintetica che spieghi i mec-
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to a quello calcolato per le gemelle dizigoti (7%) (Gorwood et al., 1998). Questi dati suggeriscono, dunque, l’esistenza di un tratto geneticamente determinato che sembra essere coinvolto
nell’insorgenza della malattia. È ovvio
ipotizzare che il/i fattore/i geneticamente trasmissibili da soli non possono spiegare la patologia, ma costituiscono,
questo sì, il substrato su cui l’ambiente
può giocare un ruolo essenziale nello
sviluppo della stessa. Dal momento che
il dato più rilevante del comportamento
anoressico è una strenua restrizione
dietetica, è sembrato di qualche rilievo
indagare i sistemi neurotrasmettitoriali e
neuro-ormonali coinvolti nella regolazione dell’assunzione di cibo. In particolare,
negli ultimi anni i ricercatori si sono concentrati su un nuovo ormone, la leptina,
scoperto e caratterizzato recentemente.
I dati che sono emersi finora in questa
direzione possono essere schematicamente riassunti nei punti che seguono.
Zhang e coll. alla fine del 1994 riportarono i risultati di un lungo periodo
di ricerca annunciando l’isolamento del
gene obese e la caratterizzazione molecolare di una sua mutazione e della sua
delezione in due diversi ceppi di topi
geneticamente obesi. Il prodotto di
questo gene, denominato leptina (dal
greco leptos, magro), è un ormone secreto dal tessuto adiposo nel torrente
circolatorio in concentrazioni proporzionali ai depositi grassi totali. La dimostrazione che una mutazione che causa
perdita di funzione del gene ob è causa
di obesità grave nei topi ob/ob e che la
somministrazione di leptina incide in
maniera significativa sulla sindrome
obesità è evidenza diretta che questo
ormone regola l’accumulo di grasso
nell’organismo. Diabetes (db/db) è un
altro ceppo di topi, noto da molti anni e
caratterizzato da obesità e da diabete
mellito non insulino-dipendente
(NIDDM), il cui difetto molecolare consiste in una difettosa ricezione del segnale della leptina nel cervello e quindi
in una marcata leptino-resistenza. In effetti la leptino-resistenza, più che il difetto nella produzione della leptina,
sembra possa rappresentare una causa
fondamentale nell’insorgenza dell’obesità nei soggetti umani. Negli individui
obesi i livelli plasmatici di leptina corre-
a) Leptina e meccanismi
cerebrali di controllo
dell’assunzione di cibo
La leptina è un segnale periferico
che informa il cervello delle riserve
energetiche dell’organismo.
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Psicobiologia dell’anoressia nervosa: un razionale per l’intervento farmacologico?
lano fortemente con il BMI. Questa relazione ha portato al concetto di leptinoresistenza come causa di obesità, anche se tale resistenza resta da dimostrare in maniera definitiva nell’uomo.
fertili, molte delle quali riacquistano la
fertilità in seguito a diminuzione del peso, la perdita di peso ottenuta con la
restrizione calorica non ristabilisce la
fertilità nelle femmine ob/ob, suggerendo che la leptina in quanto tale giochi un ruolo importante nella riproduzione di questi mammiferi. Tanto è vero
che la sua somministrazione in topi
femmina normali anticipa la comparsa
della funzione riproduttiva (Chehab e
coll., 1997). È interessante sottolineare
a questo punto che in una popolazione
di origine turca sono stati individuati alcuni rari individui con una mutazione
puntiforme nel gene che codifica la leptina. Ebbene, questi soggetti, facenti
parte di un’unica famiglia, avevano livelli
estremamente bassi di leptina circolante e presentavano, oltre a un’obesità di
grado elevato, immaturità gonadica e
conseguente infertilità. I soggetti di
sesso femminile erano amenorroici e i
soggetti di sesso maschile non erano
ancora entrati nella pubertà ed erano
caratterizzati da marcato ipogonadismo
(assenza di barba, rari peli pubici e
ascellari, ginecomastia bilaterale, pene
e testicoli ridotti) (Strobel e coll., 1998).
Altri autori hanno riportato che la
sintesi e la secrezione di leptina non sono limitate solo al tessuto adiposo. Intorno all’ottava settimana di gestazione
b) Leptina e fertilità
Sebbene la maggior parte dei ricercatori abbia focalizzato l’attenzione sul
ruolo svolto nel controllo dell’omeostasi
energetica, la leptina ha dimostrato più
recentemente di giocare un ruolo inaspettato nella fisiologia della riproduzione. A supporto dell’“ipotesi del peso
critico”, la leptina è uno degli ormoni
che inducono la pubertà, segnalando il
raggiungimento di una massa adeguata
di depositi energetici a lungo termine
critici per la riproduzione.
Chehab e coll. (1996) hanno dimostrato che la somministrazione di leptina
esogena, oltre a ridurre la massa grassa, ristabilisce la fertilità in topi ob/ob
femmine. Infatti, tale ceppo di topi, oltre
a soffrire di un’obesità massiva e delle
complicanze ad essa associate (per
esempio, il diabete), è anche sterile.
Anche in donne gravemente obese l’infertilità ha un’incidenza molto maggiore
rispetto a donne normopeso. Comunque, al contrario delle donne obese non
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i villi coronici placentari umani producono leptina a livelli paragonabili a quelli
che sono stati descritti nel tessuto adiposo stesso (Masuzaki e coll., 1997).
Si è dimostrata la presenza di leptina
anche nelle cellule amniotiche e nel liquido amniotico durante il secondo e
terzo trimestre di gravidanza (Masuzaki
e coll., 1997; Schubring e coll., 1997).
Questi risultati hanno suggerito che
l’ormone svolga qualche ruolo importante nel mantenimento e nello sviluppo
del feto (Matsuda e coll., 1997). È interessante sottolineare che i livelli plasmatici di leptina della donna gravida
non correlano con il suo BMI. Inoltre, in
questa condizione di aumentato fabbisogno energetico si sviluppa una marcata leptino-resistenza che va risolvendosi dopo il parto (Masuzaki e coll.,
1997).
quanto ci si aspetterebbe considerando
la quantità di grasso perso in tale situazione, suggerendo che il bilancio energetico negativo riduce la quantità di leptina secreta per unità di massa grassa.
In tutti gli studi finora compiuti si è
dimostrato che i livelli circolanti di leptina sono significativamente ridotti in
soggetti con anoressia nervosa rispetto
a soggetti normopeso della stessa età
e sesso (Grinspoon e coll., 1996; Eckert
e coll., 1998; Nakai e coll., 1999).
La correlazione dei bassi livelli di
leptina con gli esigui depositi di grasso
in questi soggetti rendono conto di alcune delle caratteristiche cliniche
dell’anoressia stessa (amenorrea e infertilità).
d) Rialimentazione e livelli
plasmatici della leptina
È stato del resto chiaramente dimostrato che durante la rialimentazione
delle pazienti anoressiche i livelli plasmatici di leptina aumentano più rapidamente e più marcatamente rispetto ai
depositi di grasso dell’organismo. Questo fatto andrebbe tenuto in seria considerazione nel momento in cui si cerca
di ripristinare una normale assunzione di
cibo in tali pazienti.
c) Leptina in pazienti
anoressiche
La perdita di peso induce una più
marcata diminuzione dei livelli plasmatici
di leptina rispetto alla diminuzione
dell’adiposità. Infatti, anche durante la
perdita acuta di peso che si accompagna al digiuno le concentrazioni dell’ormone diminuiscono molto di più di
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Psicobiologia dell’anoressia nervosa: un razionale per l’intervento farmacologico?
Infatti, gli aumentati livelli plasmatici
di leptina in corso di rialimentazione si
oppongono di per sé all’assunzione di
cibo perché inducono sazietà.
Dunque, dal punto di vista clinico va
sottolineata l’importanza di tenere sotto
controllo la produzione di leptina nei
soggetti rialimentati, al fine di bilanciare
tutti gli interventi terapeutici.
Più recentemente, però, è stato
ipotizzato che la leptina moduli la sintesi
e il rilascio di altri neuropeptidi ipotalamici implicati nel controllo dell’assunzione di cibo. Tra questi l’ormone stimolante i melanociti o α-MSH (che deriva
per processamento proteolitico dal
POMC, o pro-opio-melanocortina), il
peptide correlato alla proteina agouti o
AGRP, l’ormone concentrante la melanina o MCH e le oressine A e B.
La somministrazione intracerebrale
di α-MSH negli animali di laboratorio si
è dimostrata in grado di inibire in maniera estremamente significativa l’assunzione di cibo. La stimolazione da
parte dell’α-MSH dei recettori per la
melanocortina di tipo 4 o MC-4, selettivamente espressi in alcuni nuclei
dell’ipotalamo ventromediale, rappresenta un meccanismo di controllo del
peso corporeo, come dimostrano i topi
knockout per questi stessi recettori
(MC-4–/–) che accumulano grasso, aumentando di peso, e presentano una
marcata insulino-resistenza. La leptina
è in grado di stimolare la sintesi e il rilascio di tale neuropeptide. Al contrario
essa inibisce la sintesi del peptide correlato alla proteina agouti o AGRP, che
antagonizza in maniera selettiva l’azione
dell’α-MSH sui recettori MC-4 e aumenta in tal modo il consumo di cibo.
e) La leptina
regola la sintesi di molti
neuropeptidi coinvolti nel
comportamento alimentare
È stato recentemente dimostrato
che la leptina è normalmente in grado
di inibire la sintesi e il rilascio di NPY
nell’ipotalamo ventromediale. Tale azione giustificherebbe l’effetto saziante
dell’ormone, dal momento che l’NPY è
un importante neuropeptide che stimola
l’assunzione di cibo. Inoltre, dal momento che l’NPY è in grado di inibire
l’attività simpatica coinvolta nella spesa
energetica della periferia, l’azione inibente della leptina sull’NPY stesso determina, oltre alla riduzione dell’assunzione di cibo, anche la stimolazione del
dispendio energetico, in particolare attraverso l’attivazione della funzione termogenetica del tessuto adiposo bruno.
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È importante ricordare a questo
punto che, oltre alle sostanze appena citate e che vengono espresse come detto nell’ipotalamo ventromediale, fino a
poco tempo fa nessun neurotrasmettitore era stato specificamente trovato
nell’ipotalamo laterale, che viene considerato anche sede dei centri della fame.
Recentemente, si è riusciti a caratterizzare cinque nuovi peptidi e, per alcuni di
questi, i loro rispettivi recettori, che vengono espressi in questa regione cerebrale. In particolare, l’oressina A e B,
che derivano da un neuropeptide precursore o pre-pro-oressina, vengono
espresse entro un’area limitata dell’ipotalamo laterale. La loro somministrazione
intracerebrale determina un incremento
molto significativo del consumo di cibo.
Costituirebbero quindi due nuovi peptidi
oressizzanti, potenzialmente coinvolti
nella fisiologia dell’assunzione di cibo e
potrebbero essere potenzialmente coinvolti nella patogenesi delle malattie del
comportamento alimentare.
Presumibilmente nel prossimo futuro verranno caratterizzate nuove sostanze che entrano in questa complessa rete neurotrasmettitoriale che, integrando impulsi dalla periferia e dai centri cerebrali superiori, è in grado di elaborare risposte adeguate al controllo
dell’omeostasi energetica degli organi-
smi superiori. Bisogna, comunque, ricordare che la decisione di mangiare (o
più precisamente che cosa mangiare e
quando interrompersi) è, almeno nell’uomo, un fenomeno estremamente
complesso, che risiede al confine tra
volontà e fisiologia. Noi mangiamo per
molte ragioni, che comprendono quelle
edonistiche, quelle che emergono da
conflitti psicologici e quelle correlate alla sopravvivenza di base. Quindi, la caratterizzazione delle vie neurochimiche
potenzialmente coinvolte in questi processi è una sfida di non facile soluzione. Ma tale approccio potrà presto fornire nuove informazioni utili, non solo
per la conoscenza di questi complessi
meccanismi cerebrali, ma anche per la
messa a punto di nuove strategie terapeutiche, più sicure ed efficaci delle
presenti, nel campo delle malattie del
comportamento alimentare.
f) Coinvolgimento dei geni
della leptina
e della melanocortina
nell’eziopatogenesi
dell’anoressia nervosa
Le mutazioni nel gene della leptina
possono causare una marcata obesità
sia nei roditori sia nell’uomo (Zhang et
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Psicobiologia dell’anoressia nervosa: un razionale per l’intervento farmacologico?
al., 1994; Montague et al., 1997). Dal
momento che nelle pazienti con anoressia nervosa i livelli plasmatici di leptina
sono più bassi rispetto ai controlli di pari
BMI, ci si è chiesti se i geni coinvolti
nella regolazione del peso corporeo potessero essere considerati geni candidati per l’anoressia nervosa. Hinney e
coll. (1998a) hanno approfondito questa possibilità analizzando la regione codificante del gene della leptina e parte
di tale gene legata alla regione
upstream (LEGLUR) in 49 pazienti
anoressiche, oltre che in 315 bambini e
adolescenti con obesità estrema. Sono
state così identificate due nuove mutazioni non ancora descritte nella regione
codificante (Ser-91-Ser e Glu-12-Gln),
ciascuna riscontrata in un unico probando, e un nuovo polimorfismo nel
LEGLUR (posizione –1387 G/A; frequenza di entrambi gli alleli pari a circa
lo 0,50).
I test di associazione degli alleli di
polimorfismo di LEGLUR sono risultati
negativi comparando la frequenza allelica tra 115 anoressiche, 71 bulimiche,
315 bambini e adolescenti estremamente obesi, 141 soggetti sani in sottopeso e 50 controlli non selezionati per il
peso corporeo. Quindi, questo studio
non ha riscontrato un’influenza delle variazioni nel gene della leptina nei disor-
dini del comportamento alimentare,
compresa l’anoressia nervosa.
Inoltre, Hinney e coll. (1998b) hanno screenato la regione codificante il
gene POMC in 96 bambini e adolescenti estremamente obesi, 60 soggetti
sani sottopeso e 46 pazienti con anoressia nervosa. Gli autori hanno identificato un totale di 10 varianti, nessuna
delle quali era identica ad alcuna delle
tre mutazioni descritte da Krude e coll.
(1998) in questo gene. Hinney e coll.
(1998b) hanno allora concluso che il
gene POMC può contenere diversi polimorfismi e mutazioni, nessuna delle
quali però può essere facilmente associata ai fenotipi studiati. Infine, mutazioni nel gene che codifica il recettore
MC-4 sono state correlate all’insorgenza di obesità precoce in un numero non
piccolo di soggetti, ma non sembrano
correlare con l’anoressia nervosa (Hinney e coll., 1999).
Nuovi modelli
interpretativi
Malgrado negli ultimi anni sia la ricerca di base sia quella clinica abbiano
compiuto notevoli sforzi, l’eziopatogenesi delle malattie del comportamento
alimentare resta sostanzialmente sco-
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nosciuta. Anche i criteri diagnostici, codificati nel manuale di diagnosi psichiatrica DSM-IV, non sono facilmente interpretabili alla luce di una complessa
variabilità all’interno di singoli gruppi di
pazienti. Inoltre, soprattutto per l’anoressia nervosa, non sembra esistere alcuna base psicopatologica di quelli che,
in fondo, sono i suoi sintomi veramente
più eclatanti e tipici: il digiuno autoimposto e l’aumentata attività fisica. Recentemente, Cecilia Bergh e Per Södersten (1996) hanno proposto una
nuova ipotesi interpretativa del digiuno
autoimposto dell’anoressia nervosa.
Partendo dall’osservazione che l’ipercortisolismo è una tipica manifestazione
del digiuno e dell’attività fisica (Hotta e
coll., 1986; Liu e coll., 1994), che di
per sé il Corticotropin-Releasing Factor (CRF) riduce il consumo di cibo
quando iniettato nel cervello degli animali di laboratorio (Dunn e Berridge,
1990) e che i glucocorticoidi causano
euforia e dipendenza, sia negli animali
sia nell’uomo (Piazza e coll., 1993),
questi autori sottolineano come lo
stress che consegue all’aumentata attività fisica e alla riduzione dell’assunzione di cibo sia in grado di attivare i meccanismi cerebrali di rewarding o compenso. È noto che il sistema del rewarding è costituito dai neuroni dopami-
nergici mesolimbici, e che gli ormoni
surrenalici aumentano il rilascio di dopamina dai terminali nervosi di questi
neuroni (Piazza e coll., 1993). Gli autori
suggeriscono, pertanto, che in una fase
iniziale di stress i meccanismi di rewarding sarebbero sensibilizzati e che in
questa situazione l’organismo sarebbe
particolarmente predisposto al condizionamento, anche da parte di stimoli normalmente neutri, come la richiesta di riduzione dell’assunzione di cibo e l’aumento dell’attività fisica.
L’assunzione di cibo, d’altra parte,
è un comportamento altamente rinforzante, dal momento che fornisce non
solo le calorie e i nutrienti necessari per
la sopravvivenza, ma anche sensazioni
di gratificazione e di piacere. Numerose
evidenze suggeriscono che il cibo manifesta i suoi effetti di rinforzo attraverso
l’attivazione delle vie dopaminergiche
mesolimbiche (Hoebel, 1985).
Studiando un polimorfismo di lunghezza di frammento di restrizione
(RFLP) con alleli (il meno frequente noto come A1, il più frequente come A2),
individuati entro il gene del recettore
dopaminergico D 2 (DRD2), Noble e
coll. hanno suggerito qualche tempo fa
la prevalenza dell’allele DRD2 A1 in associazione con le manifestazioni biologiche e comportamentali tipiche di certi
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Psicobiologia dell’anoressia nervosa: un razionale per l’intervento farmacologico?
tipi di obesità (Noble e coll., 1994). È
stato suggerito che la spiegazione più
probabile dell’apparente relazione tra
obesità e prevalenza dell’allele A1 potrebbe risiedere nel fatto che tale polimorfismo è associato a una diminuzione
della funzionalità e del numero dei recettori D2 nel cervello (Comings e coll.,
1991). Sarebbe, dunque, necessaria
una maggiore introduzione di nutrienti,
come i carboidrati per esempio, per far
fronte a un sistema di rewarding, associato al cibo, deficitario.
Evidenze altrettanto interessanti si
sono recentemente ottenute di una associazione tra alcolismo e prevalenza
dell’allele DRD2 A1. Tali studi hanno
consentito di dimostrare significativi miglioramenti comportamentali in un sottogruppo di alcolisti, soprattutto se
omozigoti A1/A1, trattati con un agonista D2 come la bromocriptina (Lawford
e coll., 1995).
Da tutte queste osservazioni è
sembrato di estremo interesse studiare
l’eventuale presenza di una correlazione
tra l’allele DRD2 A1 e l’anoressia o la
bulimia nervosa. A tale fine abbiamo
isolato il DNA, su cui condurre gli studi
di polimorfismo, dai leucociti del sangue
periferico di 32 pazienti anoressiche
(16-33 anni, BMI = 15,7 ± 0,7 kg/m2).
Tali pazienti sono state sottoposte al
test di Garner (Eating Disorders Inventory, EDI) per la caratterizzazione
dei tratti psicologici e comportamentali.
L’eventuale associazione tra gli alleli A1
o A2 e i punteggi del test comportamentale è stata valutata con un’analisi
di regressione multipla (manoscritto in
preparazione). Nelle pazienti anoressiche che esprimono l’allele A1 la spinta
alla magrezza è correlata positivamente
al sentimento di insoddisfazione per il
proprio corpo (BD) (p < 0,05) e alla
consapevolezza interocettiva (IA) (p <
0,05). Nei soggetti che esprimono l’allele A2 esisterebbe una correlazione
non solo con BD (p < 0,05) e IA (p <
0,005), ma anche con sentimenti di
inefficacia (IN) (p < 0,05) e di diffidenza nei rapporti interpersonali (ID) (p <
0,05). Questo suggerisce che la prevalenza di un allele rispetto all’altro può
caratterizzare diversi atteggiamenti psicologici all’interno della popolazione
delle anoressiche.
Approcci terapeutici
Da quanto ricordato emerge dunque che i meccanismi potenzialmente
coinvolti nell’insorgenza dell’anoressia
nervosa sono molteplici e complessi, e
che nessuno di quelli finora approfonditi
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ha fornito evidenze significative di un
coinvolgimento patogenetico. È allora
chiaro che l’anoressia nervosa è una
malattia grave, pericolosa e difficile da
curare. I disturbi del comportamento alimentare sono le malattie mentali che
coinvolgono e sconvolgono più profondamente il corpo e la sua biologia.
Nel corso del tempo, processi psichici e somatici interagiscono fra loro e
contribuiscono a determinare, mantenere
e complicare i quadri clinici. Il disturbo di
base è psicopatologico, quindi la cura a
lungo termine compete a psichiatri e psicoterapeuti. Ma in varie circostanze, a
volte d’emergenza, è necessario l’intervento di altri specialisti: nutrizionisti, internisti, ginecologi, endocrinologi, odontoiatri, chirurghi. È necessario, dunque, imparare a collaborare, riconoscendo e rispettando le diverse aree di competenza.
Le condizioni che, da sole o combinate, possono rendere indispensabile
un ricovero d’urgenza sono le seguenti:
perdita di peso uguale o superiore al
40% (più temibile se si è verificata in
poco tempo) e rifiuto di alimentarsi;
squilibri elettrolitici (in particolare ipopotassiemia); disturbi psichici gravi e rischio di suicidio; necessità di una separazione dalla famiglia per interazioni patologiche non controllabili. Se è vero
che senza un certo recupero del peso il
trattamento psicoterapeutico di un’anoressica grave è spesso (ma non sempre) destinato al fallimento, è altrettanto
vero che un ricovero e una rialimentazione adeguata possono essere accettati o almeno tollerati solo all’interno di
una relazione psicologica di chiarezza e
di fiducia.
Il trattamento di scelta dei disturbi
del comportamento alimentare in generale e dell’anoressia in particolare è la
psicoterapia con trattamenti che spesso
vengono protratti per anni, anche dieci
e più. Mancano ancora studi sufficientemente estesi e rigorosi che permettano di confrontare i risultati conseguiti
con tecniche psicoterapeutiche diverse
e con combinazioni di trattamenti.
Un’indicazione generale può essere
la seguente: le terapie relazionali-sistemiche (della famiglia) sono forse il trattamento di scelta per le pazienti più giovani, fino ai 16 anni; in fasce di età
successive sono preferibili trattamenti
individuali e di gruppo. Una forma particolare di intervento che si è diffusa negli ultimi venti anni è rappresentata dai
Self-Help Groups, gruppi di auto-aiuto
(nati sul modello degli Alcolisti Anonimi)
tra persone sofferenti per disturbi del
comportamento alimentare. Mancano
però studi controllati che ne dimostrino
l’efficacia.
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Psicobiologia dell’anoressia nervosa: un razionale per l’intervento farmacologico?
Terapia farmacologica
L’osservazione che un aumento del
tono serotoninergico induce sazietà negli animali, così come una sua diminuzione può stimolare l’appetito, ha suggerito l’uso clinico della ciproeptadina,
un potente antagonista dei recettori serotoninergici e istaminergici. Goldberg e
coll. (1979) eseguirono uno studio che
prevedeva quattro combinazioni di trattamento: ciproeptadina (12-32 mg/die)
associata a terapia comportamentale, la
stessa sostanza somministrata in assenza di terapia comportamentale, placebo in concomitanza a terapia comportamentale e placebo soltanto. In
questo studio non si ottennero differenze significative per quanto concerne
l’aumento del peso corporeo tra pazienti anoressiche trattate con ciproeptadina e quelle che ricevevano placebo, indipendentemente dall’associazione con
la terapia comportamentale. Nel 1986
Halmi e coll., nel corso di uno studio in
doppio cieco con ciproeptadina, amitriptilina e placebo, evidenziarono un effetto farmacologico inatteso della ciproeptadina in sottogruppi di pazienti
anoressiche con note di bulimia, un’osservazione questa che suggerisce l’esistenza di una differenza nei meccanismi
regolatori della fame e della sazietà tra
pazienti anoressiche, bulimiche e non
bulimiche. Se tale ipotesi fosse corretta
Non si dispone ancora di farmaci
che abbiano un’indicazione specifica e
un’efficacia provata nel trattamento
dell’anoressia nervosa.
L’ipotesi di un’aumentata attività recettoriale dei sistemi dopaminergici,
con conseguente e precoce senso di
sazietà, nell’anoressia nervosa ha rappresentato il substrato teorico per l’uso
dei neurolettici in questo disturbo. Il primo studio condotto in tale direzione risale al 1958 (Dally, 1958) e riporta
l’impiego di clorpromazina, fino ad un
dosaggio massimo di 1000 mg/die associata all’insulina (60-80 U.I./die) come stimolante dell’appetito. L’evoluzione di questa linea di ricerca ha condotto
nel 1982 ad utilizzare la pimozide che,
ad un dosaggio di 4 o 6 mg/die, ha dimostrato un effetto significativamente
maggiore rispetto al placebo. È stato
inoltre ipotizzato l’impiego della sulpiride, una benzamide sostituita, antagonista selettivo dei recettori della dopamina. Somministrata a 18 pazienti (da
300 a 400 mg/die) per un periodo di
tre settimane in uno studio crociato a
doppio cieco verso placebo, non diede
però risultati positivi rispetto a parametri
quali il peso corporeo o variabili attitudinali e comportamentali.
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essa potrebbe costituire un criterio di
valutazione per differenziare sottogruppi
nell’anoressia nervosa.
L’esistenza di una possibile relazione tra disturbi dell’umore e disordini del
comportamento alimentare ha motivato
l’utilizzazione terapeutica di farmaci antidepressivi nell’anoressia nervosa. Studi controllati con placebo sono stati
condotti con cloripramina (50 mg/die) e
con amitriptilina (115 e 160 mg/die),
due bloccanti della captazione di serotonina senza che gli autori rilevassero
significativi effetti terapeutici. I criteri
che potrebbero guidare la scelta di un
trattamento antidepressivo sembrano
essere la presenza di un concomitante
disturbo dell’umore nel paziente o nei
familiari, il tipo di meccanismo alimentare (assenza di fame o precoce senso di
sazietà) e la qualità dei cibi assunti (carboidrati o proteine). Analoghe premesse teoriche hanno suggerito l’impiego
dei sali di litio. Gross e coll. (1981), che
hanno confrontato l’effetto del farmaco
rispetto al placebo in uno studio in doppio cieco controllato durato quattro settimane, hanno evidenziato un aumento
di peso statisticamente significativo nei
pazienti trattati con litio ed hanno ipotizzato che tale ione possa influenzare, direttamente o indirettamente, la funzione
dei recettori insulinici, e, quindi, che
questi pazienti abbiano una maggiore
sensibilità all’insulina. Non manca però
chi avanza il dubbio che il guadagno di
peso corporeo possa in realtà dipendere da fenomeni di ritenzione idrica, noto
effetto collaterale dei sali di litio.
Occorre sottolineare, inoltre, i rischi
di tossicità del litio in pazienti che tendono al vomito autoindotto e ad abusare di lassativi e diuretici e sono quindi
facilmente predisposti a squilibri idroelettrolitici con conseguente aumento dei
livelli litiemici in relazione agli stati di
iponatremia. Nessuno dei trattamenti ricordati fin qui ha però dimostrato sicura
efficacia in tutti i pazienti, per cui a
tutt’oggi l’anoressia nervosa costituisce
una patologia assolutamente orfana di
una terapia farmacologica.
Prospettive
della terapia farmacologica
Dalle considerazioni sulla complessità dei circuiti neurali e periferici coinvolti nella modulazione del comportamento alimentare, che abbiamo cercato
di tratteggiare in maniera molto sommaria nei paragrafi precedenti, emerge
la consapevolezza che molto resta da
fare in questa direzione. È del resto vero che la speranza che muove tali ricer-
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Psicobiologia dell’anoressia nervosa: un razionale per l’intervento farmacologico?
Dunn AJ, Berridge CW
Physiological and behavioral responses to corticotropin-releasing factor administration: is CRF a mediator of anxiety or stress responses?
Bran Res Rev, 15: 71-100, 1990.
che è quella di riuscire, alla fine, ad individuare i meccanismi cellulari e molecolari coinvolti nella patogenesi di malattie mentali gravi come l’anoressia
nervosa. L’atteggiamento più responsabile a questo punto è quello dettato da
una grande umiltà nell’affrontare una
sfida così impegnativa. La posta in gioco, cioè la salute di tante centinaia di
migliaia di pazienti, è talmente importante da giustificare e stimolare gli sforzi in questa direzione.
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noressia:
la cura psicanalitica
G. Ripa di Meana
“Fondation Européenne pour la Psychanalyse” – Roma
«Emergeranno parole che sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro»
(R. Char, 1977)
Il lavoro analitico si configura come
una pratica di cura che è, al tempo stesso, una teoria e un’etica. La psicanalisi
insegna che il sintomo psichico non va
semplicemente eliminato, come se fosse
un persecutore estraneo al soggetto. Ritiene, invece, che vada ascoltato in modo da stimolare nel soggetto un particolare allenamento a trovare il senso e il valore di ciò che lo fa soffrire. Tale effetto
di senso – altrettanto che di non senso,
di controsenso e di equivoco – è in grado di far saltare gli sconosciuti e inconsapevoli vantaggi del sintomo, i quali agiscono occultati dalle tragiche insegne del
dolore e della malattia. E proprio in questi vantaggi risiede – secondo la teoria e
la pratica analitiche – larga parte dell’attaccamento che il paziente ha nei confronti della propria malattia. Attaccamento paradossale, certo, se riflettiamo a
quanto questa lo condanni all’impotenza,
all’ossessione e alla paura.
Tuttavia il vincolo tenace che lo lega
alla sua condizione morbosa dimostra
come proprio in essa si trovi imprigionato e incompreso un pezzo consistente
dell’identità del soggetto e dei suoi più irrinunciabili desideri. L’analista, quindi, lavora contro corrente: contro la corrente
conformista del sintomo e contro ogni
smania di guarigione che sia pretesa comunque, a prescindere dai prezzi soggettivi che comporta. Lo stile compiacente con cui il soggetto anoressico
sembra adeguarsi ai miti e agli ideali in
voga nel suo tempo (le diete, le palestre,
la moda, ecc.) rischia di trarre in inganno la cura fino a convincerla di risanamenti illusori. Rispetto a ciò la cura analitica si pone in un assetto alternativo sia
sul piano clinico sia su quello etico.
Per cercare di comprendere come
un analista lavora con i soggetti anoressici è necessario preliminarmente ricapitolare alcuni concetti fondamentali della
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Anoressia: la cura psicanalitica
psicanalisi. Infatti, senza un chiarimento
previo di tali concetti, sarebbe impossibile intendere ciò di cui stiamo parlando. Ci
riferiamo, nella fattispecie, ai concetti
d’inconscio, di diagnosi, d’interpretazione e di transfert. Ciò che, grazie a tali cognizioni, è consentito capire e giustificare teoricamente è innanzi tutto il postulato secondo cui – a parità di sintomo – il
soggetto che soffre è un soggetto unico
nella sua singolarità e differenza. Del resto, persino i sintomi, pur nella loro apparente uniformità, si rivelano dissimili tra
loro sia per finalità sia per logica e funzionamento.
Così, quando una donna, una ragazza, un ragazzo arrivano in analisi ammettendo subito di essere un’anoressica o
un anoressico, accade che mentre lei o
lui credono di sapere quel che dicono, è
l’analista che preventivamente non sa
quel che lei o lui stanno dicendo con
l’esibizione di quella diagnosi. L’analista,
infatti, deve abituarsi a pensare che nella descrizione e nella codificazione di un
sintomo non c’è nulla che aiuti a comprendere il paziente, ma solo un ausilio a
disposizione delle difese razionali del paziente stesso e della cura. La diagnosi
psicanalitica – diversamente da quella
psichiatrica – individua, nella struttura del
discorso formulato dal soggetto e nel
particolare modo in cui il soggetto stes-
so articola la propria domanda di cura, lo
stile originale con cui è stata organizzata
la patologia in questione.
L’inconscio
Cominciamo con il concetto d’inconscio, nel quale sono contenuti e germinano quelli di transfert, di sintomo e di
domanda.
È generico ma non impreciso sostenere che, prima di Sigmund Freud, l’inconscio era il concetto filosofico con cui
veniva segnalato tutto ciò che non è cosciente. Il padre della psicanalisi, pur non
essendo il primo a nominare l’inconscio,
è stato certamente l’unico a darne la peculiare definizione di memoria in atto:
una memoria, imprevista dal soggetto,
che irrompe nel suo discorso o nel suo
comportamento sotto forma di lapsus, di
amnesia, di sogno o di sintomo. Si tratta
di un vero e proprio sapere che il soggetto ha, sebbene ignori di averlo. Secondo la psicanalisi, quindi, l’inconscio è
immanente all’atto di dire, perciò non c’è
inconscio né prima né dopo l’atto di dire,
di dire quel sapere che non si sa di avere: «Emergeranno parole che sanno di
noi ciò che noi ignoriamo di loro».
Nel 1933 Freud scrive: «... chiamiamo inconscio un processo psichico di
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G. Ripa di Meana
samente affiora nel discorso di un soggetto e altrettanto improvvisamente
scompare.
cui dobbiamo supporre l’esistenza –
per esempio perché la deduciamo dai
suoi effetti – ma del quale non sappiamo nulla. La nostra relazione con
questo processo è la stessa che abbiamo con un processo psichico che ha
luogo in un altro uomo, salvo che è, appunto, nostro. ... chiameremo inconscio un processo quando dobbiamo
supporre che al momento sia in atto,
benché, al momento, non ne sappiamo
nulla». Ricordiamo queste parole di
Freud perché sembrano contenere la migliore sintesi della peculiarità del concetto analitico d’inconscio da non confondere con i diversi inconsci cognitivi o psicodinamici.
Dunque: a voler prendere in considerazione anche soltanto le ultime righe
di questo brano possiamo cogliere sia il
senso di alienazione, sia la scoperta che
l’inconscio produce nel soggetto (che si
sente, appunto, alle prese con una presenza altra da sé), sia la sua comparsa
imprevista e momentanea in un contesto
soggettivo di spaesamento e di ignoranza «chiameremo inconscio un processo quando dobbiamo supporre che al
momento sia in atto, benché, al momento, non ne sappiamo nulla».
In conclusione: l’inconscio non è
un’istanza occulta in attesa di una rivelazione, ma è un sapere che improvvi-
Il transfert
Possiamo, allora, comprendere come sia impensabile il trattamento dell’inconscio al di fuori della cura e del transfert, vale a dire a prescindere dalla presenza di qualcuno che lo ascolti e lo riconosca. Ma l’analista, per poter riconoscere un atto o un discorso inconscio
del suo analizzante, deve sapere ascoltare e intendere simultaneamente gli atti e i segni del proprio inconscio. È perciò necessario che abbia fatto, a sua
volta, un cammino analitico in qualità di
paziente.
L’interpretazione analitica, infatti,
non va intesa come un’operazione ermeneutica, ossia come un mero atto di decodificazione della presunta verità del
soggetto. L’interpretazione, secondo la
psicanalisi, non offre spiegazioni e rivelazioni di senso – magari più evidenti
all’analista che al suo analizzante. Essa
lavora piuttosto per restituire al testo del
discorso il suo enigma e il suo nonsenso.
Per esempio, quanto i sintomi del soggetto contengono d’impensabile o d’impensato fino a quel momento.
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Ciò che patisce e segnala, quindi, il
soggetto dell’inconscio non coincide con
quanto dichiara e sente il soggetto cosiddetto normale ovvero il soggetto della
coscienza e del comportamento. Laddove la coerenza di un discorso, la risposta
a un test psicologico o a un parametro di
“normalità” vacillano, là si fa strada la nostra più intima anomalia, quella che disegna sulla nostra immagine la frantumazione pulsionale, le paure, la malinconia,
l’ossessione, i nudi sogni, l’euforia. Il soggetto dell’inconscio è in presa diretta con
le tempeste libidiche, con le tracce di alterità che ci abitano e ci formano così
come non siamo, o meglio ci deformano
così come siamo.
Ma perché l’analista sia in grado di
ascoltare il discorso manifesto del suo
paziente – rinunciando a capirlo e a possederlo, per poterlo, invece, intendere e
liberare – è necessario che lui stesso abbia conosciuto, nel corso della propria
analisi personale, l’esperienza d’apertura
dell’inconscio. Un’apertura imprevedibile
e uno spaesamento che, poco alla volta,
smontano e infiacchiscono le potenti architetture del sintomo, della patologia.
L’analista deve aver sperimentato, e
soprattutto deve continuare a sperimentare nella sua pratica, come nell’inconscio non tutto sia significabile perché il
senso ultimo delle cose, quanto quello
della verità soggettiva, rappresentano una
meta ideale, irrimediabilmente perduta.
Del resto l’anoressica non manca di
parole che le spieghino il comportamento che ha o che dovrebbe avere. Non c’è
da ingozzare d’altro l’anoressica... che
d’altro o dell’altro ne ha abbastanza. La
paziente va accompagnata nel recupero
di un ascolto di ciò che dice, ma anche di
ciò che non dice, e va aiutata a riconoscere pieni e vuoti del discorso che fa, sia
parlando sia somatizzando. L’anoressica
moderna – che li abbia letti o no, che li
abbia sentiti o no – è comunque infarcita
di luoghi comuni sulla sua “malattia”. E
quelli che le suggerisce il terapeuta non
sono migliori. Allora, l’analista come fa
con questo tipo di pazienti con i quali è
impossibile sia utilizzare il mero silenzio
per ascoltare, sia interpretare, rischiando
di farli sentire satolli, troppo pieni, come
prima, più di prima? Deve intervenire, ma
lasciando in silenzio il Sapere: deve stare
saldo nel suo posto di riferimento, per lasciarsi sorprendere da ciò che accade.
Tuttavia questa sorpresa è l’esercizio di
un particolare stile di conoscenza e di
ascolto, che si apprende nel corso della
propria analisi personale e nel tempo etico intellettuale di una formazione permanente, tesa a temprare l’agnosticismo e
lo spirito scettico, quali requisiti preziosi di
apprendimento e competenza.
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I lavori del transfert, condotti da un
ascolto analitico improntato a liberare il
paziente dal peso di una parola superficialmente assente, se si svolgono in regime di costante autoanalisi da parte
dell’analista nonché di attenta speculazione teorica, assumono quasi subito
una funzione di contenimento anche
quando la crisi si scatena e il paziente
sembra stare peggio. Che il sintomo
anoressico si esasperi durante la cura è
un fenomeno altamente probabile. Il
transfert, invero, funziona proprio nella
sua qualità di provocatore del sintomo.
Ma che cosa s’intende con questa
definizione?
Che le aspettative di affidamento e di
aiuto, implicite in ogni domanda di cura,
comportano inevitabilmente la proiezione
sull’analista di un complesso intarsio di
amore, di odio, d’idealizzazione, di delusione, d’identificazione e disconoscimento caratteristici di quei legami primordiali
che hanno intessuto la trama stessa della formazione soggettiva nonché i penosi
arrangiamenti adottati dalla patologia. Il
transfert, in altri termini, si configura come quell’artificio simbolico capace di sollecitare la riproduzione e la riattualizzazione delle prime domande, dei desideri originari e del danno costitutivo. Nel transfert si manifesta, dunque, quell’intreccio
dimenticato e rimosso di ambizioni e dife-
se con cui il soggetto ha tentato di fronteggiare l’incontro con le figure essenziali
e con i turbamenti principali della sua vita: dalla nascita al tempo infelice della
malattia. Da un simile primordiale intreccio o scenario inconscio – definito, in termini analitici, fantasma – il soggetto riceve sia la propria identità sia la propria invalidità. Accade, allora, che una cura
analitica possa coincidere con il rischio di
uno scatenamento sintomatico, perché
solo attraverso la ripetizione dei sintomi –
riproposti nella situazione vigilata del transfert – diventa plausibile aiutare il paziente ad esplorare e a comprendere il senso
e il nonsenso della sua patologia. Quindi,
la malattia di transfert ha, rispetto alla
malattia vissuta fuori della situazione di
transfert, il vantaggio di trovarsi ad essere indagata, smascherata e dipanata a
partire dai modi, dai mezzi e dalle condotte con cui il paziente tratta, maltratta e
celebra l’oggetto del proprio fantasma inconscio trasferito sull’analista. Tutelato
dalla responsabilità soggettiva e dall’impegno etico di chi lo cura, il soggetto in
analisi si allena a fruire di un senso e di un
valore dei suoi sintomi che, fino a quel
momento, gli erano completamente sconosciuti. Sono questi alcuni dei prerequisiti essenziali per riuscire a comprendere
come la sofferenza psichica, nel corso del
trattamento analitico, non sia più simbo-
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licamente la stessa con cui il paziente si
era presentato alla cura. Una malattia,
nell’ambito di un transfert adeguatamente ascoltato e analizzato, si trasforma in
uno strumento di lavoro e di aiuto ai fini
della guarigione soggettiva.
Se ne deduce che la formazione di
un analista non solo non è affidata esclusivamente alla teoria e ai libri, ma non va
accreditata nemmeno alla semplice empiria ovvero alla mera pratica clinica. La
formazione di chi si espone a curare questi soggetti così gravemente e pericolosamente sofferenti va temprata nel corso della propria analisi personale. Non si
possono curare gli altri – questo è quanto si apprende dalla pratica e dall’etica
psicanalitica – senza riconoscere nei propri punti ciechi, nei propri sintomi e nella
vertigine del proprio fantasma inconscio
degli alleati instabili e rischiosi, ma anche
imprescindibili per il funzionamento del
lavoro terapeutico. Terapia significa, infatti, – secondo la psicanalisi – perseguimento della guarigione originale e diversa per ciascuno, cui ogni soggetto inconsciamente aspira. La formazione
dell’analista, inoltre, deve configurarsi
come una formazione permanente, esercitata nel fuoco di ogni singola cura, nella ricerca e nell’individuazione dei punti di
teoria della clinica, inventati volta per volta da ogni particolare soggetto, che si
trovi alle prese con quel suo unico,
inconfondibile incontro di transfert.
Prerogative della
cura psicanalitica
Una cura psicanalitica mette a disposizione di un soggetto anoressico:
• un luogo di ascolto in cui possa fare
un’esperienza inconsueta nella sua vita: l’esperienza di essere riconosciuto
per qualcosa che non ha mai pensato
né di essere né di sapere;
• un luogo di parola improntato alla leggerezza e al rilancio in forma di enigma
di tutte le questioni chiuse e irrisolte
che lo assillano;
• un’attenzione quanto più possibile libera e fluida, rivolta ad evitare e a
sciogliere gli appesantimenti proiettivi
caratteristici di ogni relazione terapeutica. Infatti, se ignorate, tali proiezioni
rischiano di indurre ulteriori e gravi effetti patogeni;
• una situazione in cui il paziente si sente ascoltato e inteso in quanto portatore di un messaggio, di un discorso,
di un desiderio e non tanto, o non soltanto, di una richiesta e di un bisogno;
• una speciale accortezza posta sulla
lingua e sul linguaggio soprattutto nel-
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la loro qualità d’indicatori di una dimensione altra, imprevedibile, ignorata: la dimensione dell’inconscio.
gestione transferale. Un simile abuso,
infatti, consolida posizioni di dipendenza, nonché fenomeni di “guarigione”
prodigiosa;
• la riluttanza del paziente alle disillusioni indispensabili al mantenimento di
una corretta etica della cura. Quest’ultima non può che essere priva di miraggi e quindi si trova a vanificare non
solo le richieste magiche o seduttive
dei pazienti, ma anche il ricorso a soluzioni terapeutiche confortanti e massificate;
• il forte attaccamento ai sintomi da parte dell’anoressica (come dell’anoressico). Un simile vincolo rende, inevitabilmente, il lavoro del transfert molto accidentato, impervio e fragile. Tra idealizzazione e svalutazione, l’analista di
un soggetto anoressico viene sballottato in una vera e propria tempesta di
proiezioni contraddittorie di cui il paziente tende a misconoscere sia il senso sia la direzione;
• il peculiare tipo di voracità negata e
l’accanito ricorso a strategie di onnipotente godimento narcisistico che
fanno di questi pazienti soggetti non
solo intolleranti della frustrazione, ma
piuttosto ostili, per non dire fobici, nei
riguardi di essa. D’altronde, l’aspetto
spesso gracile e infantile del soggetto
anoressico può sollecitare nell’analista
Ostacoli alla cura
e nella cura
Una cura psicanalitica s’inoltra nella
vischiosa palude degli ostacoli al cambiamento posti clamorosamente da questo tipo di patologie, ma eretti anche dagli intralci più segreti e inconsapevoli che
insidiano o fuorviano anche le migliori intenzioni di chi sia preposto alla direzione
della cura.
Un’analisi esamina quindi:
• le tenaci resistenze adottate dal paziente di fronte al complesso movimento interiore, in virtù del quale passa dal percepirsi come un oggetto malato al riconoscersi come un soggetto
sofferente. Un simile passaggio, del
resto, ha dei costi anche per gli inconsci desideri di potere o di controllo
dell’analista stesso;
• la dura opposizione dei pazienti all’emergere involontario, accidentale,
inconscio della propria verità sconosciuta;
• il possibile sfruttamento, inconsapevolmente perpetrato da parte dello
stesso analista, dei fenomeni di sug-
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la ridondanza involontaria e nociva di
tutele maternalistiche che rischiano di
rendere la cura tanto confortevole
quanto illimitata.
resa dei conti della modernità, impugnando argomenti di taglio fideistico,
come quelli che individuano nell’analisi un’esperienza in diritto di esentarsi,
per principio, dagli appuntamenti della
scienza e della terapia d’oggi;
• l’abuso della suggestione a scopo terapeutico. L’anelito a non far soffrire il
proprio paziente può spingere l’analista a perdere di vista la consegna etica di impedire che il transfert si cronicizzi nell’idealizzazione e nella soggezione. Può accadergli, per esempio, di
non accorgersi che il paziente ha ripreso peso fondamentalmente per
compiacere le aspettative del suo nuovo padrone e signore;
• l’uso più rigido che rigoroso di alcuni
presupposti analitici fondamentali, come quello dell’astinenza dalle prescrizioni e dalle gratificazioni. Si tratta di
evitare, infatti, che il setting analitico si
ammali a sua volta di una forma di
anoressia e di avarizia emozionale, tale da colludere con l’anoressia della o
del paziente;
• il ricatto del tempo e della fretta, da
non sottovalutare nel trattamento di
soggetti come questi spesso braccati:
a) dalla precarietà delle condizioni fisiche, al limite della sopravvivenza;
b) dall’esasperazione dell’ambiente
che li circonda, nel quale si tende ad
Nodi critici
Fecondi sono i nodi critici su cui
l’analista è bene che non finisca mai di
interrogarsi. Per esempio:
• i rischi nel far uso tanto di una posizione direttiva quanto di una posizione attendista: entrambe destinate a prevaricare i tempi e i modi caratteristici del
paziente in causa. D’altro canto, i soggetti anoressici – attraverso le urgenze somatiche e la morte reale – mirano a radicalizzare la posizione dell’analista in una direzione o nell’altra;
• la tentazione di rinnegare l’etica analitica della disillusione e del disincanto. Tradimento etico favorito anche
dalla pressione culturale e scientifica
a dimostrare il valore del trattamento
con gli argomenti dei numeri e dei
successi terapeutici. Una simile sollecitazione a fornire delle prove può indurre a prendere per buone le svariate forme di “fuga nella salute” di cui è
inesorabilmente costellato un percorso di cura;
• la tentazione opposta di sottrarsi alla
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eccedere tanto nella dilazione quanto
nell’urgenza;
c) dalla congerie di proposte miracolistiche di cui sono fatti segno da ogni
parte;
d) dalla struttura orale della loro patologia, avida di risoluzioni subitanee ai
problemi;
e) dalle profonde difese sintomatiche,
messe a repentaglio dagli approfondimenti di una cura lunga e, viceversa,
appena sfiorate – se non addirittura
protette – da trattamenti brevi, di più
corto respiro.
chico enigmatico e mascherato. Grazie a
questo linguaggio e in mancanza di altre
risorse espressive, denuncia un conflitto
lacerante sia con se stesso sia con il proprio ambiente al quale si trova saldamente vincolato. L’anoressia si configura quasi sempre come una patologia
esplicitamente resistente alla cura, perché – a dispetto delle molteplici dichiarazioni del contrario – la rinuncia ad essa si
rivela, per la soggettività inconscia sia del
paziente sia della sua famiglia, una perdita secca: ovvero la scomparsa dell’unica lingua in grado di significare ciò che la
storia, la cultura, il linguaggio psichico a
disposizione fino a quel momento mancano di risorse per articolare.
Nonostante l’apparente omogeneità
di questi pazienti, l’analista si trova di
fronte a persone distinte, sebbene in divisa. Nella divisa dei digiuni, dei rituali di
vomito, delle fobie e delle ossessioni relative al corpo e alle deformazioni dell’immagine. In verità l’uniforme sintomatica
rischia di attirare chi cura nella trappola
della specializzazione e della competenza. “Io so di che si tratta quando qualcuno fa così o si comporta colì”. E, specularmente, da parte del paziente: “Tu sai di
che si tratta quando io mi comporto così”. Niente di più illusorio, per un analista.
La maschera sintomatica protegge la verità dei desideri prima di tutto dal sog-
La scelta del sintomo
e il tempo della cura
Quando si parla della necessità di un
lungo tempo di trattamento, partiamo dal
presupposto che, per lo più e con alcune eccezioni, l’anoressia costituisca
l’unica invenzione soggettiva che il paziente ha trovato per testimoniare la propria fondamentale impossibilità di sopravvivenza psicosomatica. Il soggetto
sembra aver ridotto la sua sola forma di
comunicazione con il mondo esterno e
con se stesso all’oscura metafora di una
soluzione patologica. Si tratta, in altri termini, dell’inconsapevole adozione, da
parte di chi soffre, di un linguaggio psi-
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getto stesso. Egli li teme e li ambisce, i
suoi desideri, con la violenza fanatica con
cui tenta di estinguersi.
Il messaggio principale che sembrano indirizzare queste ragazze e questi ragazzi – dilaniati dall’ossessione dei pieni
e dei vuoti del loro corpo, dal febbrile
controllo dei grammi assunti o perduti –
il loro messaggio principale, appunto, è
di essere aiutati a destreggiarsi con
l’ignoranza e con i misteri che li abitano,
con le ombre e con gli enigmi del sapere, con i loro desideri di morte, così come con i desideri di vita e di eros, che in
loro sono schiacciati da fantasmi di onnipotenza e dalla coazione a evitare qualsiasi perdita, qualsiasi mancanza.
Ma tutto questo, ci potremmo chiedere, è applicabile ai grandi numeri della patologia, alle intenzioni inconsce della domanda media dei pazienti, di quelle
fanciulle rozze e senza discorso che pullulano soprattutto negli ambulatori dei disturbi del comportamento alimentare? In
realtà è tutt’altro che scontato che le pazienti più intellettuali e ricercate siano favorite in una simile impresa; o che, per
esempio, sia questa una qualità indispensabile per un lungo lavoro, possibile solo a pochi privilegiati. In realtà le
speciali inclinazioni alla cura di ciascuno
sono tutte da svelare. Rischiamo di essere fondamentalmente noi a consolida-
re un sistema classista di distinzione sintomatica o peggio ancora terapeutica.
Non è la classe d’appartenenza a differenziare l’assetto patologico di partenza.
Ricchi o poveri, questi soggetti sono tiranneggiati dalle illusioni del controllo.
Anoressica, colta più o meno, non chiede altro che di diventare leggera quanto
basta per tollerare la propria immagine
allo specchio e il sentimento devastante
del proprio corpo.
Dunque, la sua domanda è tutta là,
in quella implacabile rinuncia a nutrirsi.
La sua domanda è sotto gli occhi di tutti... eppure, nessuno la intende. Ha scelto questa strada sintomatica e l’ha scelta, in verità, per farsi fraintendere (cioè
intendere fra le righe, laddove coerenze
e armonie vacillano). Rimpinzata di significati, di luoghi comuni, di buon senso, le
arriva da tutte le parti la domanda di essere normale. E lei dice di “no” al cibo in
quanto simbolo per eccellenza della domanda dell’altro e dice di “sì” alla propria
domanda abnorme, deviante, a una domanda di vuoto e di leggerezza estrema.
Niente perdite, niente regole: non resta
che l’amenorrea. Ecco che l’anoressia
diventa il tragico espediente con cui fanciulli e fanciulle – senza rendersene conto o addirittura convinte del contrario –
esigono di avere fame e di patire i morsi
della mancanza.
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Con la loro magrezza perturbante,
con la loro apparente ottusità, con il gioco spietato che ingaggiano con la morte
chiedono di poter aspirare all’oggetto,
purché non sia lì a disposizione per farsi
divorare. Lo vorrebbero inafferrabile ed
evanescente per poterlo desiderare.
Chiuso nel sintomo c’è l’anelito a uno
spazio di ascolto che non dia cibo o alimento, ma stimoli l’appetito, la fame. Si
tratta di uno spazio in cui venga nutrita la
dimensione enigmatica del soggetto, in
cui venga riconosciuto al desiderio di
vuoto lo statuto di una domanda di cura.
Di che cosa è allarmato il soggetto anoressico quando si accosta alla cura?
Ne teme l’aspetto “alimentare”. Teme, in sostanza, ogni terapia che tenda
a nutrire, sia che offra una dieta adeguata sia che offra più subdolamente un
cibo per l’anima. Sebbene i soggetti
anoressici chiedano (quando sono disposti a chiedere qualcosa) consigli e
orientamenti, in verità restano asserragliati nel loro mondo difeso, vivendo l’incontro con chi li cura come una minaccia analoga a quella da cui hanno tentato di salvarsi attraverso la strategia sintomatica.
Il discorso più conveniente all’anoressia pare essere quello che rispetta i
vuoti, le ombre e gli enigmi cui questi
soggetti sembrano fare appello attraver-
so la loro particolare costruzione sintomatica. Ma per sostenere una dimensione di enigma e di ombra – nel clima di un
transfert solo apparentemente frigido,
ma inconsciamente tempestoso e funesto – bisogna che l’analista abbia acquisito una discreta dimestichezza con i propri fantasmi e con le proprie intolleranze
alla frustrazione.
La scelta di una vera e grave anoressia è di per sé una scelta “culturale”,
se con questo termine intendiamo l’adozione di un registro di segni complesso,
fuorviante per significare cose semplici,
uniche e irrinunciabili per la persona in
questione. Alla cura psichica spetta quindi la sollecitazione di una certa dose di
inappetenza riguardo al sapere, inteso
come controllo e potere sul corpo e
sull’anima propria e altrui. Dunque, chi
intraprende la cura analitica di un’anoressica o di un anoressico bisogna che
sia quanto più possibile allenato a sostenere non il sapere, ma le ombre del sapere; è bene che non si cimenti in una
dieta d’interpretazioni miranti a condizionarne, in un modo o nell’altro, il comportamento, ma piuttosto cerchi di aiutare il
paziente ad alleggerirsi di tutto quanto, a
livello immaginario e simbolico, lo opprime. Si impara così che una magrezza
(talvolta anche estrema) può rivelarsi –
insieme al sistema di rituali che la sostie-
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ne – una condizione imprescindibile perché il corpo pulsionale, facendosi scudo
della metafora deviante dell’estinzione e
dell’astinenza, riprenda a sentire e magari a patire del linguaggio del desiderio.
L’anoressica, con i suoi sintomi, segnala e chiede a chi la cura di venir meno
interpretata e più intesa ovvero presa alla
lettera del suo ostinato rifiuto che la spinge a digiunare di fronte a una tavola imbandita. Ciò che è lì per lei disponibile e in
grande quantità, se e quando le va giù, le
ritorna su in forma di espulsione. Dunque,
sembra che lei non voglia trangugiare né
le parole né il desiderio dell’altro, perché
di parole benefiche e di auspici altrui si
sente già grevemente nutrita.
Tuttavia, l’analista non può ignorare
che nel corso della cura di un’anoressia
si troverà alle prese quasi fatalmente con
una famiglia ostile e con una paziente
pronta a palesare obiettivi convenzionali
e conservatori («Voglio tornare come prima», ecc.) a fronte di una sintomatologia
sovversiva e completamente arcana. È
quindi su una simile contraddizione che
s’innesta il problema della durata della
cura e della malattia. La struttura anoressica con le sue peculiarità fondamentali, in un certo senso, è tutta la vita del
soggetto. I sintomi più acuti e drammatici, però, hanno urgenza di ricevere una
diversa inscrizione nell’ambito di ciascu-
na differente soggettività di ogni singolo
paziente. L’aspetto pericoloso dei sintomi, ciò che li fa coincidere con una vera
e propria deriva di morte e di dannazione,
può attenuarsi relativamente presto una
volta che il soggetto avverte che esiste
uno spazio in cui c’è qualcuno disposto
ad intendere l’unicità e l’inconfondibilità
della sua domanda. E che questo qualcuno ha lasciato stare i manierismi delle
sue competenze e si è fatto sorprendere
dagli aspetti inattesi che il soggetto malato copre, nasconde, sebbene simultaneamente riveli.
La clinica analitica
dell’anoressia
La pancia di Elsa
Attraverso la storia di Elsa cominciamo ad entrare nella clinica e nella tecnica analitiche: in questa tecnica che non
è una tecnica, pur essendo il risultato di
una costante messa a punto di una pratica e di una teoria elaborate e vissute sul
campo.
«Se potessi tagliarmi la pancia!» –
sospira Elsa. Una pancia gonfia, a suo
dire “biafrana”, piena d’aria e di spasmi
che la fa soffrire costantemente, senza
rimedio. Lei non la vuole ascoltare, in-
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tendere: e allora le resta addosso un
ventre angusto, deformato dalle scorrerie di parole inascoltate, di significanti stipati lì a fargli perdere ogni funzione, a
quel ventre, ogni mistero.
B i a - f r a n a : frana, caduta, fallimento di vita (bios) per una donna
trentenne, sposata da qualche anno,
senza desideri di vita sessuale né di vita
feconda.
B i a - f r a n a : per scolpire la frana,
la rovina del materno sul proprio corpo
sterile, e sulla propria vita; su di lei che
ha assistito al progressivo smottamento
della maternità di sua madre il cui figlio –
fratello minore di Elsa – è morto in malo
modo dopo anni interminabili di degradazione e di violenza.
B i a f r a n a : per quel turgore incongruo poggiato sul suo scheletro, immagine di un terzo mondo, ovvero di un
terzo sesso, che gode dell’anfibia onnipotenza di amore e di morte.
E B i a - f r a n a : per significare
quella razza arcana la cui patetica icona
è un implacabile atto d’accusa contro il
benessere e la vita.
Ecco che della pancia dolorosa di Elsa, della sua spettrale magrezza, della
sua esangue e sperduta femminilità può
farsi carico una parola convenzionale, la
cui struttura significante – immersa nel
contesto di quella storia unica e in-
confondibile – è in grado di svilupparsi ed
estendersi oltre le consuetudini linguistiche e il senso comune.
Ma che cos’è il significante, di cui
l’analista ascolta il timbro e i fonemi, non
meno del senso? È l’aspetto aereo della
parola, il soffio del senso, è ciò che insiste nella lingua come il marchio di fabbrica del nostro inconscio, dei suoni primi e degli ultimi che hanno circoscritto e
significato il nostro desiderio. Liberi, i significanti del dire di ognuno sfiorano il
corpo e lo indicano con la leggerezza della loro immaterialità. Se però – come nel
caso di Elsa – restano prigionieri della
negazione o dell’oblio possono trasformarsi in aria pura, aria impazzita, incontenibile, insignificabile.
All’analista, dunque, non resta che
mettersi in ascolto di questi suoni, lasciando al suo stesso inconscio la risonanza di echi imprevedibili attraverso i
quali riuscire a proporre i suoi interventi e
le sue interpretazioni.
Il grasso di Dick
E ora un esempio, dalla clinica di
Freud.
D’improvviso – nel corso di una bella vacanza passata in compagnia di alcuni amici, tra cui una ragazza di cui era in-
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namorato – un paziente di Freud, il tenente H. (passato alla storia come il celebre “Uomo dei topi”) si sente spinto, in
modo inesorabile e coatto, a dimagrire.
Interrompe i pasti e comincia a correre
freneticamente sotto il sole per eliminare il grasso: grasso che, di punto in
bianco, gli appare insopportabile. Agli
stessi occhi del tenente H., questo è
davvero uno strano sintomo, incomprensibile.
L’analisi freudiana procede come
segue. La parola grasso in tedesco si
dice dick, ma Dick è anche il nome di un
suo rivale in amore che, in quel periodo,
gli stava tra i piedi insidiando la sua innamorata. Il tenente H. certamente
avrebbe desiderato eliminare quel giovanotto dalla scena della vacanza, ma solo idealmente e platonicamente… almeno per quanto gli era dato saperne in coscienza. Tuttavia per il suo inconscio le
cose non stavano proprio così. Le inclinazioni coscienti del grave paziente ossessivo di Freud anche questa volta si rivelavano troppo lontane, remote dalla
più complessa trama delle sue voglie e
dei suoi desideri inconsci! Una simile distanza faceva sì che, da un lato, il tenente H. si percepisse abbastanza a suo
agio in quella indesiderata compagnia,
facendo “buon viso a cattivo gioco”
(operazione, del resto, tipica del sogget-
to anoressico); dall’altro lato che si trovasse, invece, monopolizzato dalle pretese di un sintomo anoressico compulsivo, senza poter far altro che patirne passivamente gli effetti.
Come prosegue, allora, l’analisi
freudiana di fronte all’ossessione di dimagrire dell’“Uomo dei topi”?
Se dimagrire è l’atto cui si aspira
per eliminare il grasso e se grasso in
tedesco si dice dick, ne consegue che,
cercando di eliminare il grasso (ovvero di
eliminare dick) il paziente ossessivo di
Freud tenti – grazie all’imporsi di una
censura inconscia – di fare fuori l’antagonista temuto, di nome Dick. In altri
termini, eliminando il suo dick (il suo
grasso) il tenente H. tenta, senza rendersene conto, di eliminare il suo Dick
(il suo rivale). Si tratta, ancora una volta, di un gioco di significanti che giovano
alle difese inconsce del soggetto nella
loro opera di distorsione, di spostamento, di mascheramento del desiderio e
delle sue leggi. Così, grazie a queste
inattese contiguità di suono, di senso e
di nonsenso il paziente di Freud soddisfa, sia pure in modo indiretto, la propria
brama omicida: per un verso, risparmiandosene la conoscenza cosciente
(quindi il rimorso, la colpa e l’impotenza)
per un altro, però, pagando proprio questo risparmio di consapevolezza con il
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prezzo altissimo ed alienante di un angoscioso rituale anoressico. Ecco che un
simile sintomo (la coazione ad eliminare
il grasso) si presenta come un significante che insiste, negli atti del paziente,
sganciato dal significato (la voglia di eliminare il rivale) in quel momento inaccessibile. Dunque D i c k , una sequenza
acustica che s’impone, che può avere
più di un senso, che esiste per differenza e rappresenta il soggetto determinandolo. Il soggetto – contrassegnato e diviso dall’ordine significante delle parole
che enuncia – mentre parla e mentre
soffre, nomina costantemente qualcosa
del proprio desiderio.
Così il sogno di Francesca, in una
fase della sua giovinezza in cui il desiderio di diventare magra aveva assunto i
tratti della fissazione e della manìa, snocciola uno dopo l’altro i significanti-chiave
dell’anoressia, sebbene di un’anoressia
mancata e, per il momento, di un’anoressia essenzialmente sognata.
«Mi peso e mi rendo conto con orrore di pesare 60 kg. Sono terrorizzata soprattutto all’idea che se ne accorgano i miei. Ma, a un certo punto, provo di nuovo… però, questa volta, il
mio peso è di 13 kg. Sono felice, entusiasta, di essere così leggera. Tutto
si svolge in una scenografia surreale.»
Le associazioni al sogno svelano
che 60 kg è il peso della madre, mentre
il suo peso attuale (ancora gravoso, a
suo dire, nonostante tutto) è di 47 kg.
Francesca aspira ad essere leggera nel
sogno come nella vita, però di una leggerezza surreale per una ragazza di
vent’anni: la leggerezza di una bambina,
ma, ancor di più, la leggerezza esaltante di una differenza – la differenza tra se
stessa e la madre. Fatta questa premessa, che cosa si può presumere che
sia accaduto nel sogno? Che il rapido
calcolatore dell’inconscio abbia eseguito una sottrazione tale da produrre la differenza tra due misure di realtà (60 e 47
kg) evidentemente impraticabili entram-
La leggerezza di Francesca
E adesso continuiamo con un breve
sogno di una ragazza a dieta, attratta pericolosamente dall’ossessione della leggerezza. Il linguaggio dei sogni è un sistema di segni capace di trasformare in figure e rappresentazioni quanto il linguaggio dei sintomi tende, invece, a realizzare
in termini somatici, ritualistici e coatti.
Sognare è un privilegio della psiche
quando riesce a narrare il proprio conflitto, o addirittura la propria follia, invece di
spezzarsi nell’agire cieco del reale e nei
cedimenti sintomatici della malattia.
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be per questa ragazza. Né come la madre (= 60), né come se stessa (= 47):
nessuna delle due soluzioni le è sopportabile! L’oasi felice sembra stare soltanto nella differenza. Del resto, la necessità di distinguersi dalla madre è tanto
più urgente e drastica, quanto più viene
misconosciuta dalla sua coscienza.
Francesca, infatti, non è in grado di riconoscere – né tanto meno di realizzare
– questa vitale distinzione, i cui effetti,
d’altro canto – quando poi le sarà diventata possibile – si riveleranno molto ardui
per entrambe, sebbene fecondi.
Al momento del sogno e della dieta,
l’identificazione con la madre tende ad
assumere i connotati di una vera e propria immedesimazione confusiva. Per
Francesca, quindi, avere un peso soltanto diverso dalla madre, non potrebbe bastare (è una misura realistica e una diversità relativa). Nulla di simile sarebbe in
grado di fronteggiare e contrastare l’assolutismo e la radicalità della sua pretesa impotente: di essere completamente
altra, anche a costo di avere una mole
surreale (= 13). Ci vuole, dunque, non
una qualsiasi differenza, ma “la” differenza: ossia la quintessenza della diversità dalla madre, la distinzione pura da
lei. Allora diventa quello l’obiettivo più
ambito, lo scopo da perseguire con autentico fanatismo: «Io sono quel resto
senza peso che è la differenza di me
da mia madre (60–47 = 13)» suggerisce il linguaggio cifrato del sogno.
Questo sembra essere il comandamento inconscio di questa ragazza, la
quale sente di portare addosso il peso di
un’identità che non le compete, ma di
cui non può fare ancora a meno.
Anna digiuna l’identità
Forse l’aveva partorita una donna
zingara, o forse una qualsiasi altra donna esule, illegittima. Comunque il suo viso bruno, non bello ma piuttosto accattivante e astuto, veniva da troppo lontano
per quella madre bionda e grassa che le
stava seduta di fronte dominata dalla sola ossessione di assimilarla a sé per somiglianza o immedesimazione.
La magrezza, in verità, rendeva Anna (17 anni) simile a un insetto. Dalla
sua immagine adolescente, infatti, emergeva una sorta di vecchina rattrappita e
inafferrabile. «Io so tutto di lei, lei mi dice tutto, non ha segreti per me» asserisce la madre, puntando occhi di sfida
sull’analista. E, di seguito, parla incessantemente delle restrizioni alimentari
che, quelle sì, non le capisce, le sfuggono. La ragazza, intanto, tace, soddisfatta di essere parlata dalla madre.
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Da un anno Anna è anoressica. Da
quando quello zingaro è scomparso per
lasciarla in pace: lui, m a l f a t t o r e (lo
definisce la madre), lei, ragazza per bene, fiore all’occhiello della mamma. L’ha
incontrato in palestra e se ne è innamorata così, di colpo. Non sentiva ragioni, lo
voleva a tutti i costi, Anna. Ma lui ha capito che doveva lasciarla stare, le ha confessato che viveva di espedienti e se n’è
andato. Insomma «l’ha protetta da se
stesso e per fortuna me l’ha restituita
come l’ho fatta io» – parola di madre.
Una volta rimasta sola con l’analista,
la ragazza dice: «Nessun altro ha i suoi
modi». L’ha detto subito alla mamma,
ma lei non ha voluto sentirne neanche
parlare di questo ragazzo, un nomade,
un m a l f a t t o r e . Ha provato a dimenticarlo, ma non ce la fa. È un pensiero
assillante. Così, lei non mangia più. Eppure, nonostante Anna esibisca un repertorio di sintomi anoressici classici,
l’analista non può ignorare che tra lo zingaro scomparso e la ragazza che le siede davanti esiste una misteriosa affinità.
Sembra che si tratti, però, di un’affinità
che scava un vuoto: il vuoto che i digiuni
di Anna non vogliono colmare.
Nei pochi momenti in cui la ragazza
resta sola con l’analista, la madre scalpita fuori dalla porta e pretende di raccogliere subito e personalmente l’esito
dell’incontro, le prospettive e il progetto
di guarigione: guarigione da questo rifiuto di mangiare le cose che le cucina con
tanto amore lei, la mamma, cui da un
po’, invece, la figlia risponde in modo
violento, con scenate che non aveva mai
fatto prima.
Tuttavia, la madre apprende con diffidenza che la cura è cura d’anima che
solo le parole che pronuncerà Anna contano... nient’altro. Per Anna, infatti, non
c’è che parlare di sé, della sua storia e
tessere una propria memoria.
La ragazza, per parte sua, è animata da una certa curiosità. Fa appello alla
madre. Vorrebbe cominciare. Il giorno
dopo, invece, la madre telefona per dire
che Anna abita troppo lontano dallo studio dell’analista e, quindi, non può raggiungerlo: troppa fatica per lei. Prima del
congedo, però, sente la necessità di fare una confidenza all’analista. Anna è
una figlia adottiva, ma non lo sa. Non era
stato necessario dirglielo, perché lei, la
madre, è stata una madre completa, una
madre a tutti gli effetti, tanto che Anna le
somiglia «come due gocce d’acqua.
Ha il corpo proprio come il mio, è evidente a tutti». La fantasia che nel corpo
obeso e deformato della madre sia immanente e palese la silhouette di quella
macilenta ragazzina “straniera” è un’idea
abbastanza eccentrica e paradossale da
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consentire, grazie anche alla rivelazione
del “segreto”, la messa a fuoco di un
quadro diagnostico più complesso ed
elaborato.
«Del resto» – prosegue la madre –
«Anna, appena nata, sputava ed evacuava tutto quello che le veniva dato
da mangiare. È sempre stata strana
col cibo. Sarà per questo che oggi
non vuole mangiare! ». Dunque la madre di Anna liquida, con queste parole,
l’eventualità che quanto accade alla figlia
sia un evento soggettivo e non piuttosto
un meccanismo oggettivo che le è piombato addosso senza alcun senso, da sottoporre a qualche esperto capace di rimetterlo adeguatamente in funzione.
Comunica, perciò, all’analista che soltanto lei, in quanto madre, è in possesso del mistero della figlia e, di conseguenza, quest’ultima non ha nulla da aggiungere. La ragazza deve restare fuori
dalla propria storia: non la può e non la
deve recuperare. Anna ha forse definitivamente perduto la propria soggettività
nel momento stesso in cui, per caso,
l’aveva incontrata. Da sempre questa
fanciulla sputa ed espelle, attraverso il
nutrimento reale, quella parola sulle proprie origini che le è stata negata. Chiusa
fuori di se stessa Anna non può alimentare che il vuoto di un soggetto perduto.
Il “no” di questa ragazza, quindi, è il “no”
strutturale di una negazione non pronunciata da lei, ma da cui si trova, fin dalla
nascita, in-nominata. Così Anna precipita nell’anoressia quando incontra sulla
sua strada – tutta piena di evitamenti e di
garanzie – l’ombra di se stessa, sotto le
spoglie di un giovane zingaro. La soggettività di Anna affiora dall’agguato
amoroso di quel nomade m a l f a t t o r e ,
il quale, in verità, sembra rappresentare
l’unico b e n e f a t t o r e riconosciuto
dalla ragazza. Il suo concepimento, infatti, si era rivelato inconcepibile per ben
due volte: non riconosciuta da chi l’aveva messa al mondo, Anna successivamente si trova ad essere misconosciuta
nella sua diversità proprio dallo smodato
riconoscimento dei suoi genitori adottivi,
tutti tesi a negare la loro sterilità. Lei, infatti, deve essere identica alla madre
adottiva, deve sostenere il suo delirio di
maternità naturale, lasciando che vengano misconosciute, una volta di più, le sue
origini e la sua differenza.
Il ritrovamento momentaneo di un
frammento del suo “io” zingaro espulso e
negato è destinato a scomparirle davanti come un riconoscimento impossibile.
Espropriata, allora, dell’unica immagine
b e n f a t t a della sua anima, Anna non
trova altro riscatto che quello di annientare ogni traccia del cibo materno, riducendo il proprio corpo e la propria figu-
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ra ai lineamenti inconfondibili di misteriose radici.
Questo brano di analisi è l’esito di
una sola seduta e di una telefonata:
niente di più. Riportarlo in questa sede
ha la duplice funzione: innanzitutto di
mostrare come l’ascolto dell’inconscio e
la sua diagnosi non richiedano di per sé
tempi sterminati, nonché presunti illimitati approfondimenti, in quanto è verosimile cogliere, anche in poche battute, la
questione attuale che colloca un soggetto dentro o fuori di una cura psichica; e
in secondo luogo ha la funzione di segnalare come questo, che può apparire
soltanto un insuccesso terapeutico, possa forse rivelarsi come una tappa feconda nel successivo cammino di cura della
paziente. E questo grazie alla particolare
maniera in cui si sono articolati questi
due momenti di agnizione e di transfert:
la segreta disponibilità della figlia ad elaborare la propria storia e la segreta confidenza telefonica della madre.
Uno psicanalista, infatti, non lavora
per mietere successi terapeutici, bensì
per aiutare i propri pazienti in un lavoro di
semina, tessitura e ripescaggio di quanto costituisce la causa ignota della sua
disperata soluzione sintomatica. Tale lavoro, però, non sempre è destinato ad
avere nozione dei propri esiti favorevoli,
perché sono precisamente questi ultimi
che – in virtù delle peculiari vicissitudini
del transfert – tendono a prendere vie
traverse e ad organizzarsi in rinvii e spostamenti rispetto al sistema lineare di
aspettative e convinzioni.
I fallimenti di Alberto
Per concludere, il caso che segue ci
mostra la nascita, il senso e la funzione
di un sintomo di transfert.
A un anno dall’inizio del suo lavoro
analitico, Alberto – che aveva annoverato, prima della cura in corso, vari ricoveri senza che le sue ossessioni alimentari
subissero alcun alleggerimento – aveva
ripreso un buon numero di chili, adottando una dieta salutista e rigida, ma non
affamante. L’analista – che lo aveva accolto in uno stato di estrema emaciazione, praticamente ai limiti della sopravvivenza sia fisica sia mentale – vive questo
cambiamento non senza una certa soddisfazione, senza peraltro perdere di vista
il fatto che il cammino appena cominciato prospettava rischi di percorso abbastanza insidiosi. È questo il punto in cui
analista e paziente sono proprio in alto
mare, perché non appena il sintomo si fa
scalfire, il re è nudo. In altri termini: è
esposto il paziente con tutta la sua problematica, non più protetta dal sintomo;
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ma non meno esposto è l’analista di
fronte alla tentazione di sentirsi capace,
competente e riuscito.
Proprio in questa fase, il paziente fa
il seguente sogno: «Sto davanti allo
specchio. Vedo un altro me stesso che
si scolla da me». Alberto ha lasciato il
sintomo e si è diviso in due. Lì, nello
specchio, ha incontrato il sosia. Entrando nel territorio della cura – dove ci arriva forzato dalla famiglia dopo un ennesimo ricovero – questo giovane uomo finalmente riesce ad abbozzare una domanda: riesce a vedere nella superficie
speculare che gli offre l’analista, con la
propria discreta presenza e con il proprio
rispettoso ascolto, l’altro che lui stesso è.
Ma per Alberto l’altro è l’invasore e perciò si è abituato ad espellerlo al prezzo di
depauperarsi, di immiserire materialmente la propria consistenza corporea riducendola all’osso, per l’appunto all’osso di
se stesso. È questo il decorso della strada anoressica: ridursi fisicamente, magari fino all’estinzione, col delirante e inconscio progetto di cancellare, attraverso se stessi, le tracce dell’altro. In verità,
quand’anche sotto le spoglie del medesimo, la nuova presenza è intollerabile.
Così, nel seguito del sogno, lo specchio
va in pezzi, si frantuma... si sbriciola, ed
è la sua stessa identità che va in pezzi:
«Delle schegge mi finiscono tra le
gambe e nei capelli». Tuttavia allorché
nel sogno lo specchio si spezza, irrompe
l’aspetto parassitario di un fallo paterno
pericoloso. «Mi trovo in un boschetto
con Maria. Ci sono dei funghi enormi.
“Sono porcini – le dico – ma non toccarli! Della polverina potrebbe restarti
sulle mani e, qualora fossero velenosi,
potrebbe intossicarti”». Tentativo estremo, forse, per segnalare all’analista di
non toccare quella pericolosa polvere di
significanti in cui si trova la sua verità
soggettiva, che potrebbe far male a lui
come all’altro. Sembra che Alberto abbia
inteso fino a che punto nel lavoro di analisi l’analista sia in gioco, o meglio, a rischio. Ma l’analista è lì per cogliere ogni
occasione che consenta alle parole fondamentali di risuonare. È allenato al loro
veleno e alla loro leggerezza.
Ma, da quel momento, Alberto comincia a vivere abitato dal sosia: da
un’ossessione con cui commenta e giudica i suoi atti quotidiani, in particolare
ogni volta che incontra la propria immagine in uno specchio, in una vetrina o in
una superficie riflettente qualsiasi. Non
si tratta di un’allucinazione uditiva, ma
di un torturante rovello che lo giudica e
lo sanziona con una parola soltanto:
Fallito!. Alberto è disperato perché, in
qualsiasi momento si profili un’occasione di compiacimento, implacabile e pe-
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rentorio il sosia commenta: Fallito!.
Sogni come questi appartengono a
pieno titolo a quel tipo di formazioni
dell’inconscio che costituiscono un vero
e proprio viraggio nell’ambito di una cura. Lasciano una traccia sintomatica insistente che funziona, però, come una
dolorosa, ma necessaria, stella polare
del lavoro di transfert.
Una volta nel transfert, Alberto perde
la corazza del sintomo e, come il sogno
segnala, trova al di là di se stesso un doppio. Si tratta di un io appena nato, che lui
sente come mediocre, le cui dimensioni
annunciano, in tal modo, il tema di svalutazione, evocato in seguito dall’apostrofe:
Fallito!. Inoltre lo specchio del sogno si
spezza e, al posto del doppio, irrompe un
oggetto orale osceno (i funghi porcini) e
persecutorio che, da quel momento, avvelena, la sua vita e la sua analisi. Questo oggetto orale fallico (e il fungo ne è
un discreto simbolo) – già persecutorio
nella fase anoressica pura, sotto forma di
cibo rifiutato – passa dal presentarsi come un frammento onirico, immaginale,
fantastico, all’imporsi come un frammento linguistico, vocale, ossessivo in cui si
concentra il carattere fallimentare (ovvero fallico-alimentare) del vincolo tiranno
e violento esistente tra i suoi due genitori alle prese con lui stesso in qualità di oggetto mancato del loro desiderio.
Allora, vediamo come il significante
f a l l i t o , puro riflesso sonoro, abbia assunto il carattere assillante di un’ossessione: probabilmente proprio in virtù
dell’imposizione al godimento orale (Fallo alimentare!) che nel suo inconscio si
configurava come l’unica premessa simbolica che fosse stata in grado di accoglierlo alla nascita.
Figlio primogenito, unico maschio,
Alberto assume fin da piccolo un’alimentazione che potremmo definire traumatica, in quanto resa innaturale e coatta dal
fondamentale disamore della madre.
Donna fatua e superficiale, quest’ultima, era preoccupata essenzialmente
della propria immagine e del proprio status sociale, facendosi agguerrita nel repertorio dei segni-simbolo della maternità, trasformando il proprio atto di nutrice in un rito di celebrazione alimentare e
fallica. Attraverso questo rito la madre
tentava di dar corpo e pienezza al vuoto
di funzione del marito sia come uomo sia
come padre. Quest’ultimo, a sua volta,
poneva il proprio accento sulla potenza
fallica alimentare della madre (con una
prescrizione di fatto: fallo alimentare!),
per garantire a se stesso l’esercizio clandestino della propria incontinenza pulsionale. Il padre, pronto a lavorare per mantenere i bisogni della famiglia, era – secondo la ricostruzione di Alberto – del
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tutto impreparato di fronte ai desideri
della moglie, che tradiva regolarmente
con altre donne. Contando così sull’incastro reciproco tra madre e figlio, avvitato intorno all’idealizzazione del fallo alimentare della nutrice, questo padre si
sottraeva alla vendetta della sua donna
come all’odio rivale di un figlio che avesse maturato le risorse per diventare un
uomo. Così, immerso fin dalla nascita
nella doppia prescrizione inconscia di un
padre fedifrago – tu madre, fai di tuo figlio il fallo alimentare; e tu figlio alimenta il desiderio di tua madre e falla
alimentare – Alberto si è trovato, nel
tempo dell’emancipazione e dell’autonomia, a dover supplire a una profonda carenza di posizione simbolica all’interno
del triangolo edipico, sottraendosi attraverso l’anoressia ad ogni forma di piacere orale.
Insomma, possiamo concludere che
questo paziente precipita nell’anoressia
in virtù del suo peculiare scenario o fantasma inconscio: non confondibile e
uniformabile con quello di altri soggetti
con un’analoga patologia. Nel suo fantasma, appunto, c’è l’ingiunzione paterna
al godimento orale, ovvero a non essere
altro che il fallo alimentare della madre.
Ed è così che dagli stessi imperativi paterni Falla alimentare! e Fallo alimentare! (certo mai pronunciati in questi termi-
ni dal padre reale, tuttavia non per questo meno stampati in lui con significanti
di fuoco!), possiamo cogliere la deriva di
un’altra sequela significante. Questa,
passando per i suoni caratteristici della
lallazione infantile di copertura ( f a l l a limentare e fallolimentare)
si è concentrata nel significante della caduta e dello scacco: F a l l i m e n t a r e .
Possiamo supporre che l’anoressia
difenda Alberto da profonde angosce di
castrazione fallica, le quali – una volta ridimensionato il sintomo – emergono dalla latenza attraverso i significanti angosciosi del fallimento. Questi ultimi – annodandosi a quelli anoressici del difetto e
della mancanza – concertano, in un vero
e proprio intreccio sonoro, la voce di
dentro che intima F a l l i t o .
Si tratta di un frammento di parola
impazzito che si materializza in un’eco
mentale. Un significante molesto e umiliante che emerge, per differenza, in un
contesto di altri significanti – derivanti da
fallo e da falla – relativi al crollo, alla delusione e al vuoto. Si tratta di significanti anoressici in mezzo ai quali il piccolo io
del primo sogno va alla deriva: mancato
al desiderio della madre e deluso dalla
parola del padre. F a l l i t o , dunque, è
un significante ambivalente, per Alberto,
precipitato da più punti della catena dei
significanti analoghi.
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Da una lato, infatti, tradisce il fatto
che la questione alimentare-orale di Alberto è una questione fallica, mentre
dall’altro fa affiorare un grappolo di parole
legate all’insuccesso e alla rovina. Accade
però che, con l’attenuarsi delle coazioni
anoressiche nel corso del suo lavoro analitico, Alberto si sia messo a rischio di diventare il fallo alimentare del suo analista.
I pazienti si sintonizzano, senza esserne consapevoli, con i desideri inconsci dei propri terapeuti e, quindi, sono
tutt’altro che ignari di quanto il loro destino di malattia e guarigione costituisca
un fallimento o un premio fallico narcisista per chi li cura. Perciò Alberto, nel
momento stesso in cui porta in analisi un
suo miglioramento sintomatico, si trova
esposto ad occupare la sua più antica e
pericolosa collocazione simbolica: questa volta non più rispetto ai suoi genitori
ma all’analista, figura – per via di transfert – vicaria. Allora si alimentano le sue
smanie primordiali di venire ingurgitato
da lui come dalla madre divoratrice del
suo fantasma. Di queste smanie, peraltro, Alberto è abituato a non sapere nulla, salvo tutelarsene attraverso automatismi inconsci di difesa a provato esito
patologico.
Dunque, per avere scampo, a questo giovane uomo non resta che sentirsi
F a l l i t o : fallito nel suo compito di fare
da fiore all’occhiello dell’altro – dell’analista nella fattispecie. Il suo fallimento,
d’altronde, è l’unica carta che si è addestrato a giocare per annullare il dominio
dell’altro su di lui. Insomma, per un verso, deve fallire il compito di nutrire – come fallo alimentare – le voglie cannibaliche della madre-analista. Ma, per un altro verso, se l’analista per caso – con la
presunta guarigione del paziente – tentasse di appagare la propria bramosia terapeutica, questo significherebbe per Alberto essere utilizzato anche da lui come
fallo alimentare. E allora, la voce di dentro insorge, intimando, una volta di più,
F a l l i t o ! . Fallito sarebbe anche l’analista se, con questo eventuale successo,
si fosse illuso di tenere in pugno la causa del desiderio e della sofferenza del
suo paziente.
Dunque, F a l l i t o è Alberto in
quanto oggetto del godimento materno e
in quanto oggetto del godimento terapeutico.
E F a l l i t o è il compito del padre di
negare, attraverso il figlio, il fallimento
della propria virilità. Il che, in termini di
transfert, va inteso così: l’analista, sul
quale è stata proiettata la figura paterna,
non può prendersi il lusso di usare la malattia del suo paziente come un’occasione per dimostrare prima di tutto a se
stesso competenze e capacità.
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Il compito di Alberto, insomma, non
è altro che un compito fallito. Perciò – da
sempre tutt’uno con il proprio compito –
lui non può che sentirsi un soggetto fallito. Ma F a l l i t o è inoltre il desiderio inconscio del paziente; il desiderio che nulla cambi del sistema patologico che lo ha
sostenuto finora: il desiderio che il suo
analista sia un analista fallito. E così Alberto cerca nelle vetrine e negli specchi
il fallimento della propria cura, intimandosi F a l l i t o ! proprio quando vorrebbe
rallegrarsi di se stesso: Alberto, quindi,
mentre si perseguita, gode. Gode, per
esempio, del fatto che nulla sia cambiato e che lui resterà, come sempre, il fallo dell’altro. Questa è, del resto, la doppia funzione del sintomo: far soffrire e
far godere il soggetto simultaneamente
e nascostamente.
Ciò che fino a quel momento Alberto non aveva ancora sperimentato è che
qualcuno sopportasse di non godere del
suo atto alimentare: in altre parole che
qualcuno rinunciasse a sacrificarlo sull’altare del proprio narcisismo. E sta
esattamente in questo l’indispensabile
funzione di un transfert ben sostenuto e
bene analizzato. Infatti, perché Alberto
possa lasciare l’anoressia senza compensarla con un sintomo persecutorio
come l’intimazione F a l l i t o ! , è necessario che l’analista aggiunga, a un fon-
damentale scetticismo sulle valenze miracolistiche del suo trattamento, una tensione rivolta esclusivamente alle verità
che emergono dal discorso del suo paziente e non, viceversa, alla propria riuscita. Solo un lavoro di costante autoanalisi da parte dello psicanalista può favorire i continui smascheramenti ai quali
deve sottoporre il proprio egotismo e la
propria vanità.
Leggendo questi rapidi scorci di clinica analitica, è verosimile contestare
l’idea che la parola sia irrilevante per
l’anoressica o l’anoressico, soggetti ritenuti spesso fondamentalmente privi di
parola. Sembra, viceversa, che essa sia
così vitale da rendere il paziente di frequente refrattario persino agli effetti benefici degli psicofarmaci. E così la psicanalisi, che di parole e del fatto di parlare
si occupa, si configura come uno dei
trattamenti d’elezione nelle anoressie più
resistenti.
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A TERAPIA COGNITIVOCOMPORTAMENTALE
A. Banderali
Associazione Nazionale Specialisti in Scienza dell’Alimentazione
Associazione Italiana Disturbi dell‘Alimentazione e del Peso
In ogni caso esistono molti resoconti che riportano l’efficacia della CBT anche nel trattamento dell’anoressia nervosa. Per il momento però il razionale
per l’applicazione di interventi CBT
nell’anoressia nervosa si basa quasi
esclusivamente sull’esperienza clinica,
dato che, come è stato già detto, esistono ancora poche ricerche controllate.
Introduzione
L’efficacia della terapia cognitivocomportamentale (CBT) per il trattamento della bulimia nervosa è stata
supportata nel passato decennio da dati
di ricerca imponenti ed è ora considerata il trattamento elettivo per la cura di
questo disturbo. Per l’anoressia nervosa, al contrario, ci sono meno dati empirici. Dal 1953 ad oggi sono stati effettuati più di sessanta studi di followup, ma poche sono tuttavia le ricerche
controllate che mettono a confronto i
diversi approcci terapeutici. Ciò in parte
è dovuto alle difficoltà pratiche che si
hanno quando si vuole fare ricerca
sull’efficacia dei trattamenti.
C’è poi da considerare che l’anoressia nervosa ha un’incidenza più bassa della bulimia nervosa, richiede una
terapia più lunga e spesso il progetto
terapeutico viene complicato dal fatto
che alcune pazienti devono essere
ospedalizzate.
Fattori causali
La teorie che sostenevano un singolo fattore causale nel corso degli ultimi decenni sono state rimpiazzate da
una visione di tipo multidimensionale.
I pattern sintomatologici rappresentano
la via finale comune che risulta dall’interazione di tre ampie classi di fattori
predisponenti: 1) culturali, 2) individuali
(psicologici e biologici) e 3) familiari
(Fig. 1).
Si presume che questi fattori causali interagiscano l’uno con l’altro in
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La terapia cognitivo-comportamentale
Figura 1
Multifattorialità
dei disturbi
dell’alimentazione.
FATTORI
PREDISPONENTI
FATTORI
PRECIPITANTI
Individuali
Insoddisfazione
per il proprio
peso e forme
del corpo
Familiari
FATTORI
PERPETUANTI
Fare la dieta
per migliorare
l’autostima e il
controllo di sé
Sintomi
da digiuno
e reazione
degli altri
Culturali
modi diversi fino a portare allo sviluppo
dei disturbi dell’alimentazione. I fattori
precipitanti sono compresi in modo meno chiaro ad eccezione del fattore dieta
che è un elemento precoce di questi disturbi.
I maggiori progressi sia nella comprensione sia nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione sono derivati dalla
comprensione degli effetti perpetuanti
del digiuno con le sue conseguenze
psicologiche, emotive e fisiche (Garner,
1997).
l’anoressia nervosa come la bulimia
nervosa venga alimentata da idee disfunzionali nei confronti del peso e delle
forme corporee, che in molti casi derivano dagli imperativi culturali che impongono di raggiungere un peso assolutamente non realistico.
Data l’attuale pressione culturale
verso la magrezza non è difficile capire
come ragazze, donne, in particolare
quelle con una scarsa autostima, possano arrivare a concludere che i propri
fallimenti personali siano in qualche
modo collegati al loro peso e che raggiungere la magrezza potrebbe migliorare notevolmente la valutazione che
hanno di sé.
Tutto ciò porta a seguire diete restrittive che sono in diretto conflitto con
i sistemi biologici interni, responsabili
della regolazione omeostatica del peso
corporeo.
Terapia cognitivocomportamentale
I più importanti modelli cognitivocomportamentali per il trattamento dei
disturbi dell’alimentazione si basano
principalmente sul presupposto che
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A. Banderali
Quando il dimagramento viene raggiunto, il processo viene perpetuato da
sintomi emotivi e psicologici secondari
alla denutrizione che tendono a mantenere i pensieri disfunzionali e comportamenti idiosincrasici nei confronti del
controllo del peso. I costanti tentativi attuati da una persona che segue una
dieta per regolare il suo peso verso il
basso producono una miriade di sintomi
compensatori tra cui anche le abbuffate.
Per alcune pazienti che sviluppano
un disturbo dell’alimentazione, il fattore
motivante, lo sviluppo della malattia,
non sembra andare oltre una interpretazione letterale o estrema della dottrina
culturale predominante che glorifica la
magrezza. Per altre pazienti, invece, lo
sviluppo del disturbo si complica a causa del ruolo giocato da una serie di fattori psicologici e interpersonali.
Il trattamento cognitivo-comportamentale per i disturbi dell’alimentazione
è derivato principalmente dall’approccio
di Beck e coll. per la cura della depressione e dell’ansia.
All’inizio lo scopo della ristrutturazione cognitiva è di mettere in dubbio
errori specifici di ragionamento o attitudini autodistruttive nei confronti del peso e dell’aspetto fisico, per far sì che la
paziente diminuisca l’intensità della dieta restrittiva.
Molto utili si sono rivelate strategie
comportamentali come l’automonitoraggio e la pianificazione dei pasti, che
hanno come obiettivo principale quello
di normalizzare l’assunzione di cibo.
Grande enfasi viene posta sull’analisi
della relazione funzionale fra le convinzioni distorte correnti e i comportamenti
sintomatici in rapporto al mangiare, al
peso e all’aspetto fisico.
La letteratura clinica indica che le
assunzioni problematiche nei confronti
del cibo e del peso sono delle caratteristiche specifiche e persistenti dell’anoressia nervosa, in grado di interferire in
modo significativo con la guarigione
(Brunch, 1973) e tendono a perdurare
o a riemergere nelle situazioni di crisi
per molti anni (Dally e Gomez, 1979).
Il modello cognitivo-comportamentale per il trattamento dell’anoressia
nervosa è stato ampliato per affrontare
temi storici, di sviluppo e familiari comunemente descritti dai teorici psicodinamici e familiari (Garner et al., 1997).
Aspetti come la paura della separazione, l’abbandono, il fallimento nel processo di separazione-individuazione,
l’adattamento del falso sé, il transfert,
l’iperprotezione, l’invischiamento, l’evitamento del conflitto, il coinvolgimento
inappropriato del bambino nei conflitti
fra i genitori e i sintomi come mediatori
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La terapia cognitivo-comportamentale
della stabilità della famiglia, hanno tutti
un significato distorto da parte dell’individuo, della famiglia o di entrambi. Sebbene il linguaggio, lo stile e le interpretazioni specifiche possano differire marcatamente fra il modello cognitivo-comportamentale e i modelli dinamici è evidente che entrambi gli orientamenti sono focalizzati ad affrontare nello specifico il significato e i sistemi di significato
del paziente. Le rispettive terapie, inoltre, hanno lo scopo di identificare e correggere la cattive concezioni che si presume abbiano avuto uno sviluppo antecedente al disturbo (Garner & Benis,
1985; Guidano & Liotti, 1993). Il vantaggio dell’approccio cognitivo-comportamentale è che esso permette l’incorporazione di temi di sviluppo, quando si
riferiscono ad una paziente in particolare, senza costringere tutti gli altri casi
ad adattarsi ad un sistema esplicativo
restrittivo.
La più lunga durata di trattamento è
necessaria in molto casi di anoressia
nervosa per superare gli ostacoli motivazionali, per raggiungere un appropriato incremento ponderale e occasionalmente per implementare un ricovero o
un day hospital.
In questo capitolo presenterò il modello terapeutico per il trattamento
dell’anoressia nervosa messo a punto
da Garner e coll. La terapia si divide in
tre fasi. Nella prima fase è importante
costruire una buona relazione terapeutica e stabilire i parametri del setting terapeutico. Nella seconda fase vengono
modificati i pensieri disfunzionali relativi
al cibo e al peso e si allarga il focus
dell’intervento sul deficit del concetto di
sé e sulle relazioni familiari e interpersonali disturbate. Nella terza fase, si lavora per prevenire le ricadute e si prepara
la conclusione della terapia.
La Tabella 1 contiene un sommario
delle principali aree di contenuto delle
fasi del trattamento.
Nella prima fase (che dura circa un
mese) la frequenza delle sedute è di
due volte la settimana, nella seconda
fase (di circa un anno) è settimanale e
nella terza fase (di circa sei mesi) è di
due volte al mese. La struttura della seduta individuale è simile a quella descritta per la bulimia nervosa.
Durata e struttura
Il trattamento per l’anoressia nervosa richiede in genere da uno a due anni
ed è perciò più lungo rispetto alle sole
19 sedute in 20 settimane proposte per
trattare la bulimia nervosa (Fairburn et
al., 1993).
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A. Banderali
Tabella 1
Le maggiori aree
di contenuto della
terapia cognitiva.
Fase I
Costruire un’alleanza terapeutica
Valutare le caratteristiche principali del disturbo
Fornire educazione sui sintomi da digiuno e altri componenti selezionati
Valutare e trattare le complicanze mediche
Spiegare le funzioni multiple della sintomatologia anoressica
Presentare il razionale cognitivo del trattamento
Fornire il razionale e i consigli per recuperare un’alimentazione e un peso normali
Implementare l’automonitoraggio e pianificare i pasti
Interrompere le abbuffate e il vomito
L’intervento cognitivo iniziale
Aumentare la motivazione per il cambiamento
Sfidare i valori culturali riguardanti il peso e le forme corporee
Determinare il coinvolgimento ottimale della famiglia
Fase II
Identificare i pensieri disfunzionali, gli schemi cognitivi e le modalità di pensiero
Sviluppare abilità di ristrutturazione cognitiva
Modificare il concetto di sé
Focus interpersonale nella terapia
Terapia familiare
Fase III
Prevenzione delle ricadute e preparazione per la conclusione
Per Fairburn, Marcus & Wilson
(1993) ogni seduta include la determinazione dell’agenda, la revisione
dell’automonitoraggio, l’identificazione
e la modificazione di schemi e comportamenti disfunzionali, il riepilogo della
seduta e l’assegnazione dei compiti a
casa.
Nell’anoressia nervosa sono però
aggiunti altri elementi come il controllo
del peso della paziente, la discussione
del peso all’interno del contesto degli
obiettivi da raggiungere, la revisione
delle complicanze fisiche e la pianificazione dei pasti (Garner et al., 1997)
(Tab. 2).
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La terapia cognitivo-comportamentale
Tabella 2
Struttura delle sedute.
1. Controllare e discutere il peso della paziente nel contesto
degli obiettivi del trattamento
2. Riesaminare le complicanze fisiche potenziali
3. Stabilire l’agenda della seduta nel contesto del peso
e delle complicanze fisiche potenziali
4. Rivedere e modificare la pianificazione dei pasti e l’automonitoraggio
5. Identificare e modificare i comportamenti e gli schemi disfunzionali
6. Riassumere la seduta
7. Assegnare i compiti a casa
Inoltre nell’anoressia nervosa è necessario attuare delle modificazioni al
formato della terapia per prendere in
considerazione i bisogni particolari della
paziente.
L’età della paziente, per esempio, e
le circostanze cliniche determinano se
la seduta debba essere individuale, familiare o un insieme di incontri individuali e familiari.
come requisito fondamentale per un’efficace psicoterapia cognitivo-comportamentale. Questa è particolarmente importante nell’anoressia nervosa in
quanto la paziente può iniziare il trattamento con una considerevole resistenza al cambiamento. Spesso infatti le
pazienti con anoressia nervosa richiedono una terapia in seguito all’insistenza
dei genitori o del coniuge; in questi casi
il terapeuta deve ridefinire come scopo
della terapia l’esplorazione e la risoluzione di problemi importanti per la paziente.
Per attingere materiale cognitivo,
affettivo e comportamentale dalla paziente è necessario sviluppare una buona alleanza terapeutica. Non è raro poi
che le pazienti arrivino alla consultazione con alle spalle una storia di trattamenti terapeutici falliti.
Fase I
La relazione
terapeutica
Beck e i suoi colleghi (Beck, 1976;
Beck et al., 1979) hanno enfatizzato
l’importanza dell’alleanza terapeutica
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A. Banderali
È importante, oltre a fornire una valutazione realistica dei potenziali esiti,
che il terapeuta instilli la speranza di
guarigione. Sono numerose le esperienze cliniche che attestano che molte pazienti guariscono dopo parecchi fallimenti
terapeutici. Le pazienti che non sono in
grado di iniziare il trattamento possono
essere aiutate a gestire i loro sintomi
mantenendo una prospettiva fiduciosa
nei confronti di un futuro cambiamento.
Tali sintomi spesso sono considerati
specifici dei disturbi dell’alimentazione
ed è importante che il terapeuta li riattribuisca alla dieta o al digiuno. Il terapeuta deve rivedere insieme alle pazienti i sintomi da digiuno identificati da
un noto studio eseguito su volontari sani (Keys et al., 1950) (Tab. 3).
La dieta restrittiva
fa aumentare il rischio
di abbuffate
Argomenti
psicoeducazionali
Le pazienti dovrebbero essere educate anche sul fatto che la dieta è il
principale meccanismo che favorisce le
abbuffate (Polivy & Herman, 1985;
Garner et al., 1985; Garner, 1997). Il
fatto che le abbuffate possono verificarsi in assenza di una psicopatologia primaria è sorprendente per molte pazienti
e può fornire un trampolino per una
nuova comprensione dei loro sintomi.
Oggi c’è un accordo sull’utilità di
incorporare la psicoeducazione nella
maggior parte degli approcci al trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione.
Qui di seguito sono riportati alcuni temi
fondamentali dell’intervento educativo.
Sintomi da digiuno
Le pazienti con disturbi dell’alimentazione di solito non interpretano le loro
preoccupazioni per il cibo, gli impulsi ad
abbuffarsi, lo stress emotivo, il deterioramento cognitivo e l’isolamento sociale
come secondari ai loro estremi tentativi
di ridurre o controllare il peso.
La dieta non funziona
Studi di follow-up a lungo termine
sul trattamento dell’obesità indicano
che il 90-95% di coloro che perdono
peso lo riacquistano entro pochi anni
(Garner & Wooley, 1991).
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La terapia cognitivo-comportamentale
Tabella 3
Gli effetti del
semidigiuno secondo
il Minnesota Study
del 1950.
Attitudini e comportamenti nei confronti del cibo
Preoccupazioni per cibo
Collezione di ricette, libri di cucina e menù
Abitudini alimentari inusuali
Aumento del consumo di caffè, tè e spezie
Uso della gomma da masticare
Abbuffate
Cambiamenti emotivi e sociali
Depressione
Ansia
Irritabilità
Instabilità emotiva
Episodi psicotici
Cambiamento di personalità nei test psicologici
Isolamento sociale
Cambiamenti cognitivi
Diminuzione della concentrazione
Scarsità di giudizio
Apatia
Cambiamenti fisici
Insonnia
Debolezza
Disturbi gastrointestinali
Ipersensibilità al rumore e alla luce
Edema
Ipotermia
Parestesia
Diminuzione del BMR
Diminuzione dell’interesse sessuale
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Le pazienti possono trarre dei benefici dalla comprensione che il fallimento
della dieta restrittiva nella perdita di peso
permanente non è in relazione ad una
perdita di forza di volontà ma trova le
sue radici nella biologia. Infatti questa fa
sì che il decremento ponderale produca
nell’organismo degli adattamenti metabolici finalizzati a far tornare il peso corporeo ai livelli mantenuti normalmente.
raggiarne l’uso è spiegare alle pazienti
che i lassativi non sono efficaci per prevenire l’assorbimento delle calorie.
Complicanze fisiche
Le pazienti che soffrono di anoressia
nervosa devono essere sempre sottoposte ad un esame medico accurato per
valutare il loro stato fisico ed eventualmente per identificare la presenza di
complicanze mediche associate alla denutrizione e a certi comportamenti estremi per la perdita di peso.
Ciclo autoperpetuante
di abbuffate e vomito
Il vomito autoindotto e l’abuso di
lassativi vengono utilizzati all’inizio per
prevenire l’aumento di peso, eliminando
le calorie introdotte con una alimentazione normale o un’abbuffata. Diventano autoperpetuanti perché permettono
alla paziente di soddisfare il bisogno di
mangiare eliminando però il feed-back
negativo che l’abbuffata produrrebbe su
un’ulteriore assunzione di cibo.
Educazione riguardo
ai disturbi dell’alimentazione
Molto tempo va dedicato alla chiarificazione dei miti riguardanti l’eziologia
e le complicanze dei Disturbi dell’Alimentazione, che spesso derivano da
rapporti inadeguati o conflittuali.
Abuso di lassativi
Funzione adattiva
dell’anoressia nervosa
L’abuso di lassativi è pericoloso
perché può provocare gravi squilibri
elettrolitici e severe complicanze fisiche.
L’argomento più convincente per sco-
Può essere utile dare alla paziente
una formulazione provvisoria del significato personale del suo disturbo specifi-
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La terapia cognitivo-comportamentale
cando che esso è molto più grave di
una semplice dieta. Se la paziente descrive specifiche paure antecedenti il
disturbo e conflitti, questi possono venire integrati nella comprensione provvisoria della funzione che hanno i sintomi.
Se invece vengono negate specifiche
paure, si può presentare uno scenario
ipotetico spiegando che la natura funzionale del disturbo spesso diventa più
chiara durante il processo di guarigione.
glioramenti nelle aree del comportamento alimentare e del peso corporeo.
Presentazione
del razionale cognitivo
per il trattamento
Fin dall’inizio i principi fondamentali
della terapia cognitiva regolano la condotta e il contenuto della terapia.
Viene data primaria fiducia all’esperienza conscia invece che alle motivazioni inconsce. Viene posta enfasi sui
pensieri disfunzionali, sulle assunzioni,
sui processi schematici e sui sistemi di
significato in quanto variabili di mediazione che contano nei comportamenti
maladattivi e nelle emozioni negative.
Vengono utilizzati dei questionari come
strumento terapeutico fondamentale, il
terapeuta utilizza un approccio attivo e
direttivo. Viene enfatizzato il lavoro svolto al di fuori della seduta come mezzo
per esplorare i pensieri disfunzionali e i
pattern di pensiero. La discussione del
modello cognitivo-comportamentale nel
trattamento dell’anoressia nervosa, rispetto a quanto fatto nella bulimia nervosa, deve essere modificata in modo
da adattarsi alla motivazione presente
della paziente.
Al contrario di quello che accade
L’approccio binario
al trattamento
Il contenuto della terapia può essere diviso in due binari. Il primo affronta
questioni legate al peso, alle abbuffate,
al vomito, alla dieta ferrea e ad altri
comportamenti che mirano al controllo
ponderale. Il secondo affronta temi psicologici come l’autostima, lo scarso
concetto di sé, l’autocontrollo, il perfezionismo, l’espressione delle emozioni,
la regolazione degli impulsi, i conflitti familiari e il funzionamento interpersonale. All’inizio della terapia si pone una
maggiore enfasi sul primo binario enfatizzando l’interdipendenza tra funzionamento fisico e mentale. Il trattamento
poi si sposta gradualmente sul secondo
binario, quando si sono verificati dei mi-
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nella bulimia nervosa, dove i sintomi sono più egodistonici, all’inizio del trattamento con le pazienti affette da anoressia nervosa è consigliabile resistere
all’insegnamento del modello cognitivo
o all’inserimento rapido di tecniche per
l’identificazione e la correzione dei pensieri disfunzionali.
Le pazienti sono resistenti ad accettare un modello di modificazione dei
loro pensieri perché preferiscono i loro
sintomi egosintonici e non sono motivate al trattamento. È consigliabile che i
principi cognitivo-comportamentali vengano esemplificati con gradualità nel
corso della fase iniziale del trattamento.
L’educazione è la prima procedura
cognitiva da implementare con lo scopo
esplicito di modificare le convinzioni della paziente attraverso una corretta informazione.
Altro modo di presentare il modello
cognitivo all’inizio della terapia è fornire
degli esempi.
mentare e al controllo dei sintomi dipende dal livello corrente di motivazione
della paziente. Se la delineazione di
concreti obiettivi di peso va oltre il livello
di motivazione o tolleranza al cambiamento della paziente, l’attenzione andrà
allora spostata per cercare di aumentare le motivazioni al cambiamento.
Di seguito saranno presentati brevemente alcuni metodi per normalizzare
l’alimentazione e il peso.
Affrontare l’aumento di peso
Nell’anoressia nervosa il peso e
l’aumento ponderale devono essere affrontati direttamente. Le pazienti in
molti casi arrivano al primo incontro opponendosi in maniera determinata al
controllo del loro peso. Va ricordato che
esistono molti motivi del perché tale atteggiamento è controterapeutico, se
non irresponsabile. È preferibile che il
peso sia monitorato dal terapeuta in
quanto le variabili ponderali forniscono
dati utili sugli aspetti cognitivi, affettivi e
comportamentali della paziente. Il peso
deve essere controllato in ogni seduta e
il suo valore va riportato su un grafico.
Razionale e consigli
per la normalizzazione
dell’alimentazione
e del peso corporeo
Determinare una soglia
di peso corporeo minimo
Le pazienti che soffrono di anoressia nervosa devono essere informate
La formulazione di obiettivi legati al
peso corporeo, al comportamento ali-
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La terapia cognitivo-comportamentale
che è possibile effettuare il trattamento
ambulatoriale solo se il loro peso non
scende oltre un determinato livello minimo. Se il peso della paziente all’incontro iniziale è vicino a questa soglia,
si deve stabilire chiaramente il livello
ponderale minimo per continuare il trattamento ambulatoriale. Tuttavia non ci
sono regole assolute che riguardano
questo minimo, in quanto esso dipende
dalle condizioni generali di salute della
paziente, dalla presenza di complicanze
di tipo fisico e dalla capacità di fare
progressi nel trattamento ambulatoriale. Se il peso della paziente scende
sotto il minimo stabilito dovranno essere disponibili alternative come il day hospital o il ricovero in ospedale e occorrerà spostare il focus della terapia per
convincere la paziente che questi provvedimenti sono necessari. La determinazione di un obiettivo di range di peso, durante gli incontri iniziali, dipende
dal livello di motivazione e di impegno
della paziente nei riguardi del trattamento.
La paziente deve comprendere
l’importante significato biologico del
raggiungimento di una soglia di peso
minimo è che è necessario raggiungere questo livello di peso per guarire.
Pur essendoci delle differenze individuali, il peso minimo, nelle donne che
hanno già avuto il menarca, corrisponde circa al 90% del peso più elevato
raggiunto. Questo peso in genere favorisce la ripresa del funzionamento ormonale e delle mestruazioni.
Pianificare i pasti
Le pazienti che hanno bisogno di
una struttura per normalizzare il loro
comportamento alimentare possono
trarre beneficio maggiore dalla pianificazione dei pasti piuttosto che dall’uso
dell’automonitoraggio che offre maggiori vantaggi nel trattamento della bulimia nervosa. Pianificare i pasti significa
specificare i dettagli del mangiare, sia
in senso qualitativo sia quantitativo, e
stabilire il contesto in cui il pasto deve
venire consumato, in altre parole il luogo e l’ora.
La pianificazione dei pasti non mira
solo alla rialimentazione, ma anche a
valutare la motivazione e a far emergere i pensieri disfunzionali della paziente
che diventeranno successivamente l’obiettivo dell’intervento cognitivo. L’inizio
di ogni seduta è dedicato a valutare la
capacità della paziente di adattarsi alla
pianificazione dei pasti e agli eventuali
pensieri che impediscono di seguire lo
schema alimentare.
La pianificazione dei pasti implica
molte componenti tra cui:
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La quantità del cibo
Il numero di calorie che le pazienti
necessitano di consumare quotidianamente dipende dal loro peso, dalla condizione metabolica, dalle modalità alimentari e dalla tolleranza al cambiamento. L’ideale è aumentare gradatamente
l’assunzione calorica in modo da favorire
un incremento ponderale di circa 1/2–1
kg la settimana. Per le pazienti ricoverate il numero delle calorie dovrebbe essere stabilito in modo da raggiungere un
aumento di 1-1,5 kg la settimana. La
dieta prescritta alle pazienti ricoverate
non dovrebbe scendere sotto le 1500
calorie al giorno e solitamente essere
aumentata a 1800 e a 2400 calorie nel
corso della prima settimana.
1) l’alimentazione meccanica;
2) il distanziamento dei pasti a intervalli
predeterminati;
3) la specificazione della quantità dei
cibi.
Alimentazione meccanica
La paziente dovrebbe mangiare
meccanicamente secondo dei tempi ed
un piano prestabilito. Il cibo dovrebbe
essere visto come una medicina prescritta per vaccinare la paziente contro il
craving del cibo e le abbuffate. Una
sospensione temporanea della decisione che riguarda il cibo è necessaria nel
trattamento quando le pazienti sono
particolarmente inclini a essere sopraffatte dall’ansia e dalla colpa in situazioni
alimentari problematiche.
La qualità del cibo
La maggior parte delle pazienti
tende a dividere il cibo in “buono” e
“cattivo” spesso in base a miti nutrizionali. Uno degli obiettivi del trattamento
è quello di aiutare le pazienti ad imparare a sentirsi più rilassate nel mangiare
un’ampia varietà di cibi. Un piano settimanale dovrebbe includere delle piccole
quantità del cibo che prima era evitato
o proibito. Le pazienti che soffrono di
episodi bulimici dovrebbero consumare
piccole quantità dei cibi che solitamente
riservano per le abbuffate.
Alimentazione distanziata
È importante che i pasti siano distanziati nel corso della giornata. Non
si dovrebbe mai saltare la colazione e
sarebbe ideale assumere 3 pasti principali e una o due merende. È meglio
seguire degli orari predeterminati piuttosto che basarsi sulle proprie sensazioni interiori. La pianificazione
dell’orario dei pasti fa diminuire il desiderio di cibo, il bisogno di mangiare in
eccesso o troppo poco e la perdita di
controllo.
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La terapia cognitivo-comportamentale
Interruzione del ciclo abbuffate
e/o vomito
Vi è un sottogruppo di pazienti con
anoressia nervosa che si abbuffa e si
induce il vomito. In questi casi può essere molto utile per controllare le abbuffate, il vomito auto-indotto o l’abuso
di lassativi l’uso dell’automonitoraggio
che consiste nel riportare tutti i giorni
su un diario i cibi e i liquidi ingeriti e tutti
gli episodi di abbuffate, vomito, abuso
di lassativi e altri comportamenti estremi
di controllo del peso. Nonostante ci sia
un accordo generale sul valore dell’automonitoraggio, nell’anoressia nervosa
le raccomandazioni relative all’implementazione iniziale e alla flessibilità
nell’attuazione di questa procedura sono variabili.
passando dal cibo e il peso al significato personale che la magrezza ha acquistato per l’individuo. Lo scopo della seconda fase è di identificare il significato
particolare e le funzioni che i sintomi
hanno per la paziente e di aiutarla a trovare mezzi più adattivi per raggiungere
degli obiettivi costruiti.
Riformulare le ricadute
Il terapeuta deve preparare le pazienti al fatto che la loro vulnerabilità nei
confronti di possibili ricadute bulimiche
persisterà particolarmente nei periodi
stressanti. Dopo un episodio bulimico,
le pazienti si puniscono con valutazioni
di sé di tipo disfunzionale che possono
portare a sviluppare un circolo vizioso in
cui i sensi di colpa e di disperazione
complicano ulteriormente il comportamento sintomatico. Le pazienti devono
essere incoraggiate a riformulare la ricaduta, riflettendo sui fattori che l’hanno determinata. Per aiutare le pazienti a
riformulare le ricadute il terapeuta dovrebbe incoraggiarle a mettere in pratica le cosiddette “quattro R”:
1) Riformulare l’episodio come una scivolata e non come una ricaduta.
2) Rinnovare l’impegno per una guarigione a lungo termine.
Fase II
Modificare i pensieri
disfunzionali relativi
al cibo e al peso
e ampliare
successivamente
lo scopo della terapia
Nella seconda fase il contenuto
della terapia si allarga gradualmente
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3) Ritornare a pianificare un’alimentazione regolare senza usare i mezzi di
compenso.
4) Riprendere un controllo sul comportamento per evitare episodi futuri di
perdita di controllo.
profonda che implica la modificazione
dell’identità personale.
Sviluppare abilità
di ristrutturazione cognitiva
La ristrutturazione cognitiva serve
per esaminare e modificare i pensieri
disfunzionali e prevede diversi passi
(Tab. 4).
I pensieri disfunzionali e le assunzioni possono essere compresi attraverso una maggior consapevolezza del
processo di pensiero. Essi possono anche essere messi in luce dall’osservazione di specifiche modalità comportamentali. La paziente viene poi incoraggiata a produrre ed ad esaminare le evidenze a favore e contro un particolare
pensiero disfunzionale. Le successive
strategie cognitive sono state descritte
per il trattamento di altri disturbi emotivi;
tuttavia il contenuto e lo stile sono stati
adattati per essere applicati anche
all’anoressia nervosa.
Identificare i pensieri
disfunzionali, gli schemi
cognitivi e le modalità
di pensiero
Nel corso della terapia, il terapeuta
deve assistere la paziente perché impari
ad identificare i pensieri disfunzionali e
gli errori di processo delle informazioni
che influenzano le sue percezioni e i
suoi pensieri, sentimenti e comportamenti sintomatici.
I pensieri disfunzionali o i comportamenti che mantengono un comportamento sintomatico devono essere connessi a schemi, spesso più generali e
impliciti, che vengono definiti come assunzioni sottostanti (Beck, 1976) o significati impliciti sovraordinati o modelli
schematici (Teasdale & Barnard,
1993). Garner et al. (1982) e Guidano
& Liotti (1983) hanno descritto la progressione nella terapia da strutture cognitive più superficiali legate al cibo e al
peso ad una ristrutturazione cognitiva
Articolazione
delle convinzioni
Le convinzioni e i pensieri disfunzionali sono intrappolati in resoconti com-
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Tabella 4
I passi della
ristrutturazione
cognitiva.
1. Monitorare i pensieri e aumentare la consapevolezza della modalità
di pensiero
2. Identificare, chiarire, distillare e articolare i pensieri disfunzionali
nella forma più semplice
3. Esaminare l’evidenza e gli argomenti pro e contro la validità e l’utilità
dei pensieri disfunzionali
4. Raggiungere una conclusione ragionata, valutando l’evidenza
a favore e contro
5. Fare delle modificazioni comportamentali che siano consistenti,
con la conclusione ragionata
6. Sviluppare pensieri alternativi e interpretazioni più realistiche
7. Modificare gradualmente assunzioni sottostanti riflesse da credenze
e pensieri più specifici
plessi delle esperienze presenti e passate. Le pazienti devono esercitarsi a
pensare, hanno bisogno di aiuto per distillare i pensieri disfunzionali dal flusso
complesso dei loro pensieri.
Attraverso questa tecnica le pazienti possono essere incoraggiate a sviluppare un’idea più realistica dell’impatto
che la maggior parte dei loro comportamenti ha sugli altri.
Decentramento
Sfidare il ragionamento
dicotomico
Decentrare implica il processo di
valutazione di una particolare convinzione da una prospettiva differente in modo da apprezzarne più oggettivamente
la validità.
È utile in modo particolare per combattere le interpretazioni egocentriche
come quella che la paziente è al centro
dell’attenzione delle altre persone.
Il ragionamento dicotomico (tutto o
niente o pensiero assolutistico) è molto
comune nell’anoressia nervosa. Lo stile
di pensiero dicotomico non è applicato
solo al cibo e al peso (cibi “buoni” o cibi
“cattivi”), ma si evidenzia anche nelle
attitudini estreme alla ricerca del successo nello sport, nella carriera, nella
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Sfidare le convinzioni
attraverso esercizi
comportamentali
scuola, nell’essere accettata da parte
degli altri.
Un importante compito terapeutico
è quello di insegnare alla paziente a riconoscere questo stile di pensiero, ad
esaminare le evidenze contro di esso, a
valutare le sue conseguenze maladattive e a praticare l’adozione di uno stile di
vita più bilanciato.
La terapia cognitiva ha, come uno
dei principali obiettivi, quello di aiutare
le pazienti a cambiare il loro comportamento modificando i pensieri disfunzionali e le assunzioni sottostanti. Nel
trattamento dell’anoressia nervosa
però è importante anche l’effetto del
comportamento nei confronti delle modificazioni delle convinzioni. L’ansia e la
paura sono centrali nel mantenimento
dei sintomi del disturbo. Anche con la
più attenta preparazione cognitiva non
si elimina la paura associata al cambiamento delle modalità alimentari e
all’aumento di peso. Se le pazienti intendono guarire, ad un certo punto,
devono iniziare a modificare anche
queste condizioni. I cambiamenti comportamentali forniscono una reale opportunità per esaminare, sfidare e correggere le assunzioni false nei confronti del mangiare, del peso e della valutazione di sé.
Decatastrofizzare
Ellis (1962) ha originariamente
descritto la decatastrofizzazione come
una strategia per sfidare l’ansia che
ha origine dall’esagerare gli eventi negativi.
Questa tecnica implica che il terapeuta chieda alla paziente di chiarire
delle vaghe ed implicite previsioni riguardo a una calamità ponendo la domanda:
«Cosa succederebbe se la situazione che lei teme tanto accadesse
realmente? Sarebbe devastante veramente come lei se lo immagina?».
Oltre ad aiutare la paziente a moderare le previsioni spaventose sul futuro, il terapeuta può facilitare lo sviluppo di strategie per far fronte alle situazioni che la paziente teme nel caso
in cui dovessero verificarsi.
Tecniche di riattribuzione
Nell’anoressia nervosa non ci sono
metodi affidabili per modificare diretta-
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mente l’errata percezione delle dimensioni corporee.
È utile che il terapeuta chieda alla
paziente di attribuire queste autopercezioni corporee al disturbo anoressico e
di trattenersi dall’agire basandosi sui
pensieri intrusivi, sulle immagini o sulle
esperienze corporee.
Questo approccio è contrario al generale obiettivo terapeutico di incoraggiare l’auto-fiducia nella validità e
nell’affidabilità delle esperienze interne.
1) L’io senza valore che è caratterizzato da bassa autostima, sentimenti di
impotenza, senso di identità poco
sviluppato, tendenza a ricercare verifiche esterne, estrema sensibilità alle critiche, conflitto tra autonomia e
dipendenza.
2) L’io perfettibile che include il perfezionismo, la grandezza, l’ascetismo,
lo stile cognitivo tipo new year resolution.
3) L’io sopraffatto che è caratterizzato
dalla preferenza per la semplicità,
per la certezza e dalla tendenza a ritirarsi da ambienti sociali complessi
e intensi.
Modificare il concetto di sé
La concezione di sé è un costrutto
ampio e multidimensionale che include
due sub-componenti: autostima e autoconsapevolezza.
L’autostima è la componente del
concetto di sé primariamente collegata
ad attitudini, sentimenti e percezioni
che costituiscono la valutazione di una
persona o la valutazione del suo valore.
Al contrario l’autoconsapevolezza si riferisce alla percezione e alla comprensione dei processi interni che guidano
l’esperienza.
Vitousek & Ewald (1993) hanno
raggruppato il deficit del concetto di sé
che caratterizza l’anoressia nervosa in
tre ampi cluster:
Migliorare l’autostima
È riconosciuto che la bassa autostima precede spesso l’apparizione dei
sintomi del Disturbo dell’Alimentazione.
L’orgoglio che deriva dal raggiungimento del controllo del peso temporaneamente allevia questo disagio. La correzione della bassa autostima, in particolar modo se è pervasiva e di lunga durata, è un compito molto difficile. A un
certo punto della terapia le pazienti rilevano di sentirsi esseri inferiori e di non
avere alcun valore personale. Per il terapeuta è utile aiutarle a distillare as-
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A. Banderali
Difficoltà nell’etichettare
e nell’esprimere le emozioni
sunzioni vaghe riguardo al valore personale in affermazioni semplici e chiare
del tipo “mi sento una fallita”. Dopo che
le pazienti hanno espresso di avere una
bassa autostima è utile intraprendere
una discussione più generale al riguardo alle basi dell’autostima e applicare
successivamente quello che si è imparato rispetto a una lista di situazioni particolari identificate dalla paziente.
Per molte pazienti il peso e le forme corporee sono diventati lo strumento predominante per la valutazione del
loro valore. È utile determinare i pro e
contro di questa cornice di riferimento
per estenderli poi ad altri comportamenti, tratti o caratteristiche che si sviluppano per attuare il processo di autovalutazione che segue le procedure descritte da Burns (1993). Il decentramento può essere usato per analizzare
il “bilancio decisionale” nell’approcciare
il valore umano. La paziente considera
gli altri allo stesso modo? C’è qualcun
altro che viene considerato senza valore
o inferiore se compie degli errori, è meno intelligente o non agisce in modo
perfetto? Lo scopo di questo approccio
è di aiutare la paziente a costruirsi un
concetto di valore iniziale facendosi alcune domande sul modo in cui valuta
se stessa tramite la tecnica del bilancio
decisionale.
Brunch (1962; 1973) considerò la
mancanza di consapevolezza interocettiva, cioè l’incapacità di identificare e
rispondere accuratamente alle emozioni ed ad altre sensazioni interne, una
caratteristica dell’anoressia nervosa.
Osservò che le pazienti che soffrivano
di anoressia nervosa “si comportavano
come se non avessero diritti autonomi
e sembravano credere che né i loro
corpi, né le loro azioni fossero dirette
da loro stesse”; l’incapacità di identificare e rispondere in modo accurato alle sensazioni interne è stata provata
empiricamente (Bourke et al., 1992;
Schmidt et al., 1993). La confusione
che circonda lo stato inferiore si estende fino alla sfiducia nella validità e
nell’attendibilità di attitudini, motivazioni
e comportamenti. La mancanza di fiducia nel processo di pensiero si riflette
in un esagerato monitoraggio e in comportamenti e atteggiamenti rigidi. I teorici cognitivi hanno attribuito questa
tendenza a credenze idiosincrasiche ad
assunzioni o schemi che le pazienti che
soffrono di anoressia nervosa usano
per valutare il loro stato interno (Garner
& Benis, 1985). Queste credenze solitamente si incentrano intorno ad attitu-
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La terapia cognitivo-comportamentale
dini che riguardano la legittimità, la desiderabilità, l’accettabilità o la giustificazione delle esperienze interne.
I seguenti commenti fatti da alcune
pazienti permettono di capire il problema della scarsa autoconsapevolezza:
“non so come mi sento”; “come dovrei
sentirmi?”; “non mi arrabbio mai”; “sono sempre piena di energia, non mi
stanco mai”. È importante che il terapeuta, una volta che i significati distorti
sono stati revisionati, incoraggi la paziente ad eseguire esercizi comportamentali per rinforzare e legittimare le
nuove interpretazioni.
nel contenuto della terapia, l’affidamento alle procedure cognitive standard
continua. Le pazienti tendono ad applicare gli stessi errori di raggiungimento
e le stesse assunzioni disfunzionali osservate nelle altre aree anche nelle relazioni interpersonali. Il processo di
identificazione e di modificazione degli
schemi interpersonali disfunzionali va
affrontato con le tecniche di ristrutturazione cognitiva.
Terapia familiare
Il supporto che deriva dal coinvolgimento della famiglia nel trattamento
dell’anoressia nervosa deriva da un
gran numero di fonti.
Prima di tutto esistono motivi etici,
finanziari e pratici per includere i genitori nel trattamento delle pazienti più giovani che soffrono di anoressia nervosa.
In secondo luogo le pazienti che sono
guarite considerano la risoluzione dei
problemi familiari ed interpersonali elementi fondamentali della guarigione.
Terzo, anche se i primi studi hanno
sopravvalutato l’efficacia della terapia familiare, questo tipo di intervento ha avuto un impatto costante nel trattamento
dell’anoressia nervosa e ha ricevuto un
sostegno empirico in trial controllati.
Focus interpersonale
nella terapia
Preoccupazioni interpersonali vengono inevitabilmente espresse dalle pazienti che soffrono di anoressia nervosa
durante il corso protratto della terapia.
Gli schemi di sé e gli schemi interpersonali influenzano e sono influenzati
dalle interazioni con gli altri.
La letteratura sulla terapia cognitiva
ha integrato un numero sempre maggiore di processi interpersonali e schemi senza compromettere la fedeltà alla
teoria. Anche se il focus interpersonale
della terapia richiede un cambiamento
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A. Banderali
Fase III
3) Riassumere le aree di continua
vulnerabilità
Il terapeuta deve sottolineare che la
vulnerabilità a sviluppare i sintomi
dei Disturbi dell’Alimentazione può
continuare per molti anni. Le aree di
potenziale vulnerabilità includono:
stress professionali, vacanze, difficoltà nelle relazioni interpersonali e
improvvisi aumenti di peso (ad
esempio durante o dopo una gravidanza).
4) Rimanere in allerta di fronte a segnali premonitori della ricaduta
Il terapeuta deve spiegare alle pazienti l’utilità di esaminare i primi segnali di ricaduta con particolare attenzione alla preoccupazione del peso e delle forme corporee, alle abbuffate, ai rapidi aumenti di peso,
alle perdite graduali di peso e alla
scomparsa del ciclo mestruale.
Prevenzione delle
ricadute
e preparazione
per la conclusione
Nella terza fase l’obiettivo è preparare la paziente alla conclusione della
terapia e fare in modo di sviluppare
strategie per ridurre la probabilità di ricaduta.
Il terapeuta deve aiutare la paziente
a convincersi che potrà riuscire ad affrontare le varie sfide della vita da sola,
anche senza la terapia. Di seguito saranno descritti brevemente gli aspetti
chiave della fase finale del trattamento.
1) Riassumere i progressi
Durante la fase di preparazione alla
conclusione della terapia è utile “valutare” i cambiamenti effettuati durante il trattamento.
2) Riesaminare le basi per continuare
a progredire
Il terapeuta deve riassumere gli
aspetti del trattamento che hanno
giocato un ruolo chiave nel determinare un miglioramento sintomatico.
È essenziale rinforzare l’assoluta necessità di mantenere un comportamento alimentare regolare e non restrittivo.
Conclusioni
Questo capitolo ha fornito una visione dell’approccio cognitivo-comportamentale nel trattamento dell’anoressia nervosa. Allo stato attuale delle conoscenze il modello cognitivo, come altri approcci terapeutici per la cura
dell’anoressia nervosa, deve essere
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La terapia cognitivo-comportamentale
Burns DD
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Quill William Morrow, New York, 1993.
considerato provvisorio perché scarsi
sono gli studi di outcome controllati
eseguiti. Ad ogni modo i risultati clinici
sono abbastanza incoraggianti da supportare ulteriori trial controllati per valutare gli esiti dell’intervento cognitivocomportamentale qui descritto. In questo periodo sono in corso numerosi
studi di ricerca rigorosi che potranno
fornire i dati necessari a sostenere
l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale nella cura dell’anoressia
nervosa.
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L
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E STRUTTURE
DI RICOVERO E CURA
G. Caputo
Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SIS.DCA)
Centro Ambulatoriale per la Diagnosi e la Cura dei Disturbi del Comportamento
Alimentare della ASL Roma B – Ospedale “S. Pertini” di Roma
Può essere indispensabile, in alcune fasi, un ricovero ospedaliero per superare emergenze somatiche o psichiatriche.
La flessibilità delle strutture di cura
è poi motivata dai frequenti mutamenti, sia nell’espressione dei sintomi, sia
nei modi di evoluzione di questa patologia.
Oggi, ad esempio, si osservano,
con frequenza maggiore rispetto al
passato, le forme anoressiche di tipo
purgativo, più pericolose e difficili da
trattare delle forme restrittive.
Un tempo l’AN colpiva con netta
prevalenza l’adolescenza e il sesso
femminile. Al momento osserviamo un
discreto incremento dei casi prepuberi,
maschili o in età tardiva.
Questa patologia, che prima interessava solo le classi più elevate, è oggi
diffusa a tutti i livelli sociali. L’intervento
che si effettua su un paziente in condizioni sociali degradate aumenta la già
elevata difficoltà di cura.
Introduzione
Non è difficile teorizzare l’organizzazione di una struttura d’assistenza per
l’anoressia nervosa (AN), secondo un
modello ottimale, con la disponibilità di
tutte le diverse scelte di cura. Al di là
del non secondario problema dei costi
sanitari, la cura dell’AN è spesso lunga
e difficile e la sua larga diffusione richiede strutture che si adattino ai diversi momenti di trattamento con la dovuta
flessibilità. L’inquadramento nosografico
dell’anoressia comprende forme diverse
sia sul piano sintomatico, sia per la comorbidità psichiatrica associata. Pertanto il paziente necessita di una valutazione approfondita personale e familiare e
di uno stile d’intervento il più possibile
adattato alle sue caratteristiche cliniche.
In alcuni casi l’intervento ambulatoriale specializzato è sufficiente a ristabilire un buon equilibrio. In altri si rende
necessaria una riabilitazione nutrizionale
in ricovero.
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Le strutture di ricovero e cura
Non siamo in grado di prevedere
oggi quali e quante altre trasformazioni
potranno presentare questi disturbi, ma
dobbiamo evitare di costruire strutture
di assistenza che nel tempo si rivelino
non adattabili ai possibili cambiamenti
della patologia.
L’AN è una patologia psichiatrica,
in cui il coinvolgimento somatico assume un ruolo spesso drammatico. In
passato i casi erano rari e si procedeva con un approccio non sistematico,
in cui prevaleva l’intervento psicoterapico.
L’intervento medico, raramente
guidato da un’esperienza specifica, avveniva solo nei momenti critici e si
manteneva distante da quello psichiatrico.
L’incremento che negli ultimi 30
anni ha avuto l’AN ha costretto gli specialisti a tentare strade diverse d’intervento. L’esperienza clinica acquisita e
l’analisi dei dati di ricerca hanno dimostrato la necessità di integrare i diversi
modi di cura in un approccio unitario.
La psicoterapia, secondo i diversi
modelli in uso (analitico, cognitivo o relazionale sistemico) rappresenta il trattamento d’elezione dell’AN. La sua efficacia, però, è strettamente legata alla possibilità di disporre di altri interventi associati: la sorveglianza internistica, la riabili-
tazione nutrizionale, la terapia psicofarmacologica o il counselling familiare.
Una buona struttura di assistenza si
costruisce in funzione della disponibilità
di operatori di diversa competenza, che
intervengono come équipe multidisciplinare. L’AN necessita di questo intervento d’équipe, sia per il bisogno di una
corretta riabilitazione nutrizionale, sia
per le frequenti complicanze somatiche.
Le forme anoressiche protratte o
cronicizzate sono frequentemente causate da trattamenti scorretti o limitati,
che possono essere evitati solo con
l’applicazione rigorosa di modelli di cura integrati. Un trattamento integrato,
che prevede l’impiego di un’équipe,
può avvenire in strutture che vanno dal
semplice ambulatorio specializzato al
day hospital o al centro riabilitativo residenziale.
Siamo ancora lontani dalla possibilità di proporre interventi rapidi e risolutivi, ma molto è stato fatto rispetto agli
approcci pionieristici e limitati di un
tempo.
Offrire un’assistenza adeguata significa disporre di specialisti di concreta
esperienza e robusta formazione. In caso contrario anche il centro più organizzato e moderno rischierebbe di non offrire risposte terapeutiche efficaci a patologie così complesse.
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solo l’operatore di area psicologico-psichiatrica, ma, con diverso coinvolgimento, tutte le figure professionali impegnate nella cura. Gli operatori, oltre
alla specifica esperienza clinica, per
collaborare all’intervento d’équipe, devono possedere le qualità per sapere
lavorare in gruppo, con colleghi di competenza e formazione diverse.
Numerose esperienze mettono in
evidenza la tendenza del paziente anoressico a creare conflitti tra i diversi
operatori, ostacolando la sinergia e l’intervento integrato. Se si stabiliscono
all’interno dell’équipe queste condizioni
negative il risultato immancabile è
l’inefficacia della cura. Il gruppo deve
pertanto essere capace di individuare
per tempo ed evitare tali situazioni critiche. Il buon funzionamento dell’équipe
si ottiene con l’organizzazione di frequenti riunioni e con la costante discussione dei casi seguiti, alle quali tutto il
gruppo deve partecipare. Questi incontri hanno il valore non solo di migliorare
il lavoro clinico, ma anche di mantenere
una comunicazione vivace tra i diversi
operatori. L’équipe deve poi giovarsi di
una periodica supervisione, da parte di
uno specialista esterno, il quale possa
valutare le dinamiche relazionali degli
operatori, allo scopo di garantirne la
coesione. In questo modo il gruppo as-
Formazione
degli operatori
L’AN rimane una patologia di difficile comprensione sul piano eziopatogenetico e di conseguenza anche l’approccio clinico al paziente è difficile. In
genere, lo specialista che cura un soggetto vittima di una sofferenza psichica
deve possedere la capacità di comprendere in profondità la condizione del paziente ed il significato autentico dei sintomi perché il suo intervento abbia efficacia. Questa disposizione vale anche
nei confronti dell’AN, che presenta delle indiscutibili difficoltà nel poter essere
accettata e compresa. L’ostinato rifiuto
alla cura, l’ossessività del controllo, la
ridotta capacità relazionale e la povertà
emotiva, tipiche del soggetto anoressico, producono nell’operatore un senso
di impotenza e frustrazione. Solo chi ha
lungamente sperimentato questo confronto riesce nel tempo a stabilire
un’efficace relazione terapeutica. La
“strategia” anoressica è in sé una modalità difensiva, che il paziente utilizza
nel tentativo di arginare una sofferenza
profonda e inconsapevole e che il terapista deve saper accogliere. Nello stesso tempo non deve sottovalutare i sintomi somatici.
Questo atteggiamento non riguarda
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Le strutture di ricovero e cura
sume la necessaria flessibilità d’intervento, modellandosi sulle prerogative
dei diversi operatori e del tipo di utenza.
all’impostazione di un corretto iter diagnostico e del trattamento successivo.
Deve potersi giovare dell’intervento di
altri specialisti esterni (ginecologo, pediatra, neuropsichiatra infantile, cardiologo, ecc.).
Nell’intervento ambulatoriale, l’équipe di base ha capacità ampie nella fase
di diagnosi, ma limitate sul piano del
trattamento. È possibile attuare, su un
discreto numero di pazienti, una buona
sorveglianza internistica e nutrizionale e,
in una certa misura, un programma di
riabilitazione nutrizionale.
È invece diverso l’intervento di area
psicologica-psichiatrica, che può essere molto efficiente per svolgere l’iter
L’équipe
multidisciplinare
e il trattamento
ambulatoriale
L’équipe multidisciplinare per un
ambulatorio specializzato deve disporre
di vari specialisti (Tab. 1).
Un gruppo così formato è in grado
di rispondere alla maggior parte delle richieste di assistenza ed in particolare
Tabella 1
Caratteristiche generali
dell’équipe
multidisciplinare di base.
È formata almeno da: uno specialista psichiatra
uno specialista internista
(nutrizione clinica, endocrinologia, ecc.)
uno psicologo clinico
uno psicologo per l’intervento familiare
un dietista
Interviene per:
attuare l’iter diagnostico
valutare le condizioni somatiche
svolgere la riabilitazione nutrizionale
organizzare ed avviare il programma di cura
Necessita di:
periodiche riunioni per discutere gli interventi di cura
supervisione esterna per ottimizzare il lavoro
e i rapporti tra gli operatori
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diagnostico e l’impostazione della cura,
ma risulta limitato nel trattamento. Gli
specialisti psichiatri e psicologi difficilmente possono attuare trattamenti psicoterapici individuali, che non siano impostati per durate limitate. Diversamente, in breve tempo, gli operatori si troverebbero in una rapida saturazione
degli spazi di assistenza per tempi non
definibili. L’équipe multidisciplinare prevede la scelta inevitabile di un approccio psicoterapico breve, che dovrà poi
proseguire con altri operatori esterni
con trattamenti prolungati.
Questo aspetto problematico spiega la larga diffusione di interventi in
prevalenza di tipo cognitivo, organizzati
secondo un numero definito d’incontri,
che hanno mostrato la loro validità in
molte forme di disturbi del comportamento alimentare.
Nel caso dell’AN l’approccio psicoterapico breve è importante perché può
produrre nel paziente una maggiore
consapevolezza della propria condizione, migliorare la motivazione alla cura
ed instaurare un rapporto collaborativo
valido. È raro però che questo intervento possa essere in grado di risolvere il
quadro clinico. In genere il paziente necessita di un trattamento psicoterapico
prolungato e spesso associato ad una
terapia dei genitori o familiare.
Diventa così indispensabile che
l’équipe possa contare sull’intervento di
terapisti esterni con i quali la collaborazione deve essere costante e fattiva.
La terapia di gruppo, indicata per
altre forme di disturbi del comportamento alimentare (bulimia nervosa, sindromi parziali) risulta poco efficace
nell’AN.
Un ruolo importante, in alcuni casi
determinante, è svolto dalle terapie familiari. Il counselling consente di stabilire un rapporto di aiuto e guida per i
genitori e deve essere considerato indispensabile.
La terapia familiare invece investe
tutti i membri della famiglia ed è indicata soprattutto quando i pazienti sono
molto giovani (12-16 anni). In ogni caso questo intervento può svolgere un
ruolo fondamentale per l’esito positivo
della cura e non deve mai essere tralasciato, quando il carico familiare, che il
paziente anoressico impone, è molto
elevato.
L’équipe ambulatoriale rimane comunque il punto di riferimento principale: sorveglia l’andamento delle condizioni cliniche e nutrizionali; interviene
quando necessario, con trattamenti farmacologici; gestisce il counselling o la
terapia familiare; procede nella riabilitazione nutrizionale (Fig. 1).
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Le strutture di ricovero e cura
Figura 1
Organizzazione
del percorso
di cura integrata
dell’anoressia nervosa.
AMBULATORIO SPECIALISTICO
PAZIENTE
Fase diagnostica
Complicanze somatiche
e/o psichiatriche
Organizzazione del trattamento
Psicoterapia individuale
Ricovero ospedaliero
Riabilitazione nutrizionale
Ricovero salvavita
Sorveglianza internistica
Riabilitazione residenziale
Counselling familiare
Day hospital
Terapia familiare
Ripristino della cura ambulatoriale
Un aspetto da non sottovalutare riguarda i limiti numerici della gestione
dei pazienti. Un gruppo esperto e ben
allenato può svolgere un vasto intervento diagnostico, ma nella gestione successiva del paziente anoressico deve
essere attento a limitare i casi seguiti
secondo le sue reali possibilità.
L’intervento ambulatoriale d’équipe
svolge, oltre al servizio di diagnosi e cura, anche un’efficace azione di prevenzione secondaria, attraverso la sorveglianza dei casi subclinici e l’individuazione di situazioni di rischio.
Per consolidare il suo ruolo, deve
essere a sua volta integrato con altre
strutture di cura come centri residenziali
o day hospital riabilitativi. È determinante disporre di strutture ospedaliere per il
trattamento di situazioni acute.
Riabilitazione
in centri residenziali
o in day hospital
La cura psicoterapica, che mantiene un ruolo primario, può proseguire
anche molti anni, con il supporto di un
ambulatorio specializzato. Si deve impedire che un eventuale lungo trattamento
sia costellato di scompensi fisici gravi o
situazioni nutrizionali critiche. Ciò spiega
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l’importanza di un trattamento integrato
e la necessità di cure riabilitative.
Può accadere che un’AN si risolva
senza gravi evoluzioni somatiche grazie
ad un’efficace cura psicoterapica individuale e/o familiare, ma nella maggior
parte dei casi la riabilitazione nutrizionale ed il riequilibrio del disturbo dell’immagine corporea rappresentano tappe
terapeutiche indispensabili.
Abbiamo già definito come
un’équipe di base interviene nella fase
ambulatoriale per la diagnosi e per la
preparazione al trattamento. Se, iniziata una psicoterapia, dopo un ragionevole lasso di tempo, l’impegno somatico e le condizioni nutrizionali e psichiche non presentano variazioni, deve
essere presa in considerazione l’opportunità di avviare il paziente ad un ricovero riabilitativo. Tale possibilità deve
essere discussa e concordata con il
paziente, evitando inutili contrapposi-
zioni o imposizioni. Un ricovero riabilitativo si rivela efficace, nella maggior
parte dei casi, solo quando può avvalersi della collaborazione del paziente,
che deve avere chiari gli obiettivi di una
tale scelta (Tab. 2).
Pertanto il concetto di riabilitazione
non deve essere mai limitato al solo
obiettivo di riprendere un peso corporeo
corretto, ma estendersi a migliorare le
capacità relazionali del paziente.
Le strutture atte a rispondere a
queste esigenze di cura possono essere organizzate secondo due modalità: il
ricovero presso centri specializzati residenziali o in day hospital. L’AN ottiene
una buona risposta nella riabilitazione
svolta in ricovero continuato presso
centri specializzati. In questo caso il paziente subisce un effettivo allontanamento dalla famiglia, che nella prima
fase della cura risulta di grande utilità
per ottenere una maggiore collaborazio-
Tabella 2
Obiettivi del ricovero
riabilitativo residenziale
o in day hospital.
• Ristabilire un rapporto con il cibo più equilibrato e non dominato
dall’atteggiamento di controllo ossessivo
• Ristabilire un peso corporeo che non sia necessariamente quello più adeguato
ma che superi i livelli critici
• Migliorare il rapporto con il corpo e ridurre il disturbo dell’immagine corporea
• Creare una crescente consapevolezza della condizione di malattia mettendo
il paziente a confronto con situazioni simili alle sue
• Ristabilire una capacità di socializzare e interrompere lo stato di isolamento
• Creare una distanza tra il paziente e le situazioni familiari che possono
determinare lo stato di sofferenza psichica
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Le strutture di ricovero e cura
ne al trattamento. Mentre le strutture di
day hospital possono essere facilmente
organizzate in un ambito ospedaliero
classico, quelle residenziali dovrebbero
avere alcune caratteristiche specifiche:
– giovarsi di strutture riservate;
– essere organizzate in ambienti accoglienti e possibilmente non ospedalieri;
– disporre di spazi adeguati alle attività
di gruppo, alle terapie corporee ed
occupazionali.
In passato la tendenza era quella di
ottenere dai ricoveri riabilitativi il miglior
risultato rispetto alle condizioni ponderali e nutrizionali. Spesso il ricovero era
il primo o l’unico tentativo di cura, ma in
molti casi queste modalità d’intervento
potevano risultare inefficaci, perché il
solo miglioramento delle condizioni somatiche non è sufficiente alla risoluzione del quadro.
La riabilitazione nutrizionale è proposta con la somministrazione di adeguate
quantità di alimenti, che i pazienti, in
gruppo, accettano di assumere secondo
ritmi equilibrati e senza forzature, guidati
dagli operatori (dietisti). Le modalità con
le quali si procede alla riabilitazione si rifanno a modelli diversi. In genere ogni
équipe sceglie il modello con il quale
trova la maggiore rispondenza.
La scelta del ricovero riabilitativo
deve rappresentare una tappa del pro-
cesso di cura, che inizia con la fase diagnostica ambulatoriale e prosegue con
il trattamento psicoterapico individuale.
Dopo il ricovero la sorveglianza ambulatoriale e la psicoterapia riprenderanno
fino al ristabilirsi di condizioni generali
compensate. In diversi modelli di trattamento, terminata la riabilitazione residenziale, la cura prosegue con una fase
di day hospital per graduare il passaggio ad una maggiore autonomia del paziente. La riabilitazione in day hospital
prevede che il paziente mantenga il rapporto con la famiglia e si è rivelata efficace soprattutto nelle bulimie nervose e
nelle sindromi parziali.
Nell’AN l’intervento in day hospital
è consigliabile quando:
– i rapporti familiari non sono critici o
degradati;
– i genitori del paziente sono collaborativi e disponibili a seguire un corretto
counselling o una terapia;
– le condizioni somatiche e psichiche
sono tali da garantire al paziente una
buona consapevolezza della necessità
di cura;
– il paziente non presenta una lunga
durata di malattia, costellata di molti
ricoveri;
– la fase in day hospital rappresenta la
continuazione di una riabilitazione residenziale.
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Durante la fase di ricovero è importante riuscire a non focalizzare tutto l’intervento sugli aspetti dell’alimentazione
e sulla ripresa del peso corporeo. È ovvio che questi obiettivi rimangono primari, ma debbono essere inseriti in un
dialogo più ampio con il paziente per
evitare che permanga alta l’ossessività
relativa al cibo e al controllo del corpo.
A tale scopo l’équipe di base, che interviene nei centri riabilitativi residenziali o
nei day hospital, è affiancata da altri
operatori, che consentono di diversificare le modalità di cura, adattandole al
modello di trattamento usato. Sia nel
caso di un servizio diurno, sia di ricovero, con una numerosità relativa ai posti
letto disponibili, sono necessari:
– infermieri specializzati;
– dietisti;
– terapisti corporei;
– terapisti occupazionali;
– terapisti di gruppo;
– terapisti familiari.
Tutti gli operatori citati devono possedere una preparazione specifica ed
essere integrati nell’équipe, partecipando alle periodiche riunioni e alla discussione dei casi clinici. Con l’aumento del
numero degli operatori e con la diversificazione degli interventi, la coesione
dell’équipe può essere più difficile e
pertanto deve essere maggiormente
sorvegliata. Proprio in situazioni di ricovero, il paziente anoressico si trova,
nelle prime fasi di cura, esposto ad un
impatto molto diverso, rispetto al trattamento ambulatoriale. Non è raro che le
dinamiche soggettive dei pazienti possano creare incomprensioni e conflitti
nel gruppo degli operatori. In questi casi si possono produrre situazioni di disagio, che si estendono a tutti i ricoverati,
rendendo molto problematica la gestione del reparto.
Gli infermieri e i dietisti sono spesso gli operatori che passano il tempo
maggiore con i pazienti. Devono perciò
conoscere bene il programma di trattamento e possedere una buona capacità
di relazione. Svolgono poi il delicato
compito di una sorveglianza prolungata
del paziente in situazioni, che possono
risultare critiche, come quelle dei pasti
o quelle in cui il paziente tende ad isolarsi. Questi operatori non devono intervenire in modo poliziesco e delatorio,
ma cercare in ogni caso il dialogo e
rappresentare un riferimento fiduciario
per il paziente.
I terapisti corporei lavorano, secondo stili diversi, per riorganizzare il rapporto del paziente con il proprio corpo e
migliorare il disturbo dell’immagine corporea. Secondo alcuni studi, soprattutto nelle situazioni di ricovero, questo in-
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Le strutture di ricovero e cura
tervento svolge funzioni di grande efficacia nel miglioramento complessivo
della situazione anoressica. Secondo
altre ricerche è molto difficile stabilire
l’utilità di questo trattamento, sia perché poco codificato, sia perché è difficile una valutazione di esito. Rappresenta
comunque un campo valido di ricerca,
al quale andrebbe concessa una maggiore attenzione per individuare quali
modelli d’intervento risultino più efficaci.
Anche la terapia occupazionale è
attuata secondo modalità diverse (art
therapy, dance therapy, ecc.) ed ha il
prevalente scopo di rompere l’isolamento e la fissazione ossessiva del paziente sul sintomo, ampliando le sue
esperienze di relazione. Esistono équipe
che sanno integrare in modo valido
questi interventi, il cui effetto risulterà
sicuramente positivo nell’ambito complessivo della cura. Quando invece le
terapie corporea e occupazionale diventano una modalità per riempire il tempo
di degenza, senza un’autentica integrazione nel trattamento, è possibile ottenere solo risultati relativi.
L’organizzazione di gruppi di psicoterapia rappresenta nella maggior parte
dei casi una necessità operativa che riguarda tutte le strutture di ricovero per
l’AN, a causa della crescente numerosità dei pazienti e della scarsità dei centri.
I trattamenti ambulatoriali di gruppo
si sono rivelati validi per forme come la
bulimia nervosa o le sindromi parziali. Risultano di minore efficacia nelle forme
anoressiche, tranne l’eventualità del loro
inserimento durante i ricoveri riabilitativi.
In genere un ricovero riabilitativo
rappresenta una tappa del processo di
cura. Ciò presuppone che il paziente
abbia già iniziato un suo percorso psicoterapico. Riproporre una terapia individuale nel momento del ricovero può
creare problemi di sovrapposizione d’interventi.
Tranne casi specifici, la terapia di
gruppo nel momento del ricovero mantiene l’efficacia del sostegno psicoterapico, evitando di interferire sul proseguimento della cura individuale. Questa
peculiarità deve essere ben conosciuta
dai terapisti di gruppo, che imposteranno il loro intervento senza favorire conflitti con le cure successive.
Il trattamento residenziale ha spesso la funzione iniziale di separare il paziente dalla famiglia, per ridurre gli effetti negativi di dinamiche conflittuali.
Questo non significa che al momento
opportuno non sia avviato un counselling per i genitori, che si rivela sempre
molto utile nel percorso di cura. L’intervento deve essere svolto da operatori
con una specifica preparazione relazio-
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nale-sistemica ed integrato nell’ambito
degli altri trattamenti.
Nei programmi di ricovero un effetto
positivo svolgono anche i gruppi psicoeducazionali, che hanno l’importante funzione non solo di aumentare la consapevolezza e le conoscenze, ma anche di
migliorare la collaborazione dei pazienti.
per attuare un programma di cura. Anche le famiglie dei pazienti possono a
loro volta influenzare negativamente i
rapporti terapeutici, con modalità diverse. Esistono poi quadri clinici che, sulla
pressione di un’elevata sofferenza psichica, presentano comportamenti alimentari critici, una notevole tendenza a
gesti autolesivi o suicidali, come avviene nei casi con disturbo di personalità
borderline. Con minore frequenza rispetto al passato, può accadere che i
pazienti arrivino all’osservazione in condizioni fisiche gravemente scadute e risulti impossibile stabilire una relazione
collaborativa, mentre l’impegno somatico richiede un intervento immediato.
Esistono poi forme croniche o situazioni in cui precedenti trattamenti
inefficaci o errati rendono l’intervento
molto problematico. In questi casi,
tutt’altro che rari, non si può sempre
proporre il percorso di cura che abbiamo illustrato. Si possono adattare soluzioni diverse, ma soprattutto deve intervenire l’esperienza dell’operatore per
concordare con flessibilità quelle cure
che realisticamente possono avviare un
miglioramento. Quando il grado di denutrizione e la sofferenza somatica prevedono il rischio di un evento acuto, è
necessario proporre un ricovero in ambito ospedaliero per una nutrizione arti-
Il ricovero ospedaliero
e l’intervento
nei casi acuti
Abbiamo delineato il percorso terapeutico di un paziente anoressico, che
nella fase iniziale ottiene in un ambulatorio specializzato una corretta diagnosi
ed un avviamento alla cura, raggiungendo una buona consapevolezza del
problema e offrendo collaborazione al
trattamento. Questa situazione rappresenta un tragitto ottimale, che non
sempre è possibile attuare. Non dimentichiamo che l’AN è prima di tutto una
patologia psichiatrica che, attraverso gli
stessi sintomi, può celare una diversa
gravità psichica. La presenza di disturbi
psichiatrici gravi (ad esempio disturbi di
personalità, depressione maggiore,
ecc.) rappresentano sul piano del trattamento ostacoli spesso insormontabili
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Le strutture di ricovero e cura
ficiale, che sarà attuata secondo tecniche opportune (nutrizione parenterale,
sondino nasogastrico). Una tale eventualità deve essere il più possibile concordata con il paziente, mentre sarà imposta solo quando non vi sarà altra
scelta. Durante questi ricoveri può rivelarsi utile la somministrazione di psicofarmaci per ridurre il grado di angoscia,
determinato dalla rialimentazione e dalla
ospedalizzazione.
È necessario mantenere attivo il
rapporto tra paziente e operatore che
ha disposto il ricovero, affinché non
manchi il sostegno psicoterapico e si
favorisca la massima collaborazione con
gli specialisti ospedalieri. Quando possibile è preferibile scegliere reparti di cura
che si rendano disponibili a questi interventi e che dispongano di esperienza
nel rapporto con tali pazienti.
Questo tipo di ricovero, se condotto
in modo corretto, può rappresentare
un’utile opportunità per migliorare la
consapevolezza del paziente e la sua disponibilità al trattamento successivo.
L’operatore deve saper sfruttare questa
possibilità, senza limitarsi ad aspettare
la fine del ricovero ed il miglioramento
della condizione fisica. È importante
che l’aumento ponderale non sia mai
eccessivo e quando possibile deve favorirsi al più presto il ritorno ad un’ali-
mentazione spontanea. Produrre rapidi
ed elevati incrementi ponderali, oltre
che pericoloso sul piano fisiologico, può
determinare gravi sofferenze psichiche
nel paziente, che troverà così un rinforzo a mantenere il suo isolamento e il rifiuto verso cure successive.
Non è raro osservare casi di AN, che
hanno subito numerosi ricoveri ospedalieri, seguiti sempre dal riacutizzarsi
dei sintomi di controllo e di restrizione
alimentare. Anche il ricovero ospedaliero, fatto per superare una fase fisica critica, deve rispettare, entro limiti accettabili, un atteggiamento non aggressivo
verso i sintomi e diventare una delle tappe riabilitative.
Nell’evoluzione di un quadro anoressico, si possono presentare situazioni di gravità estrema che impongono
quello che si definisce un ricovero “salvavita”. A volte la restrizione alimentare
raggiunge livelli tanto gravi da determinare un’ipereccitabilità generalizzata o al
contrario uno stato di totale indifferenza,
con la completa impossibilità di avere la
collaborazione del paziente.
L’uso massivo di vomito autoindotto, di lassativi e diuretici o di miscele di
psicofarmaci, come pure l’ingestione di
quantità elevate di liquidi, determinano
quadri di scompenso acuto. In tali evenienze l’intervento d’emergenza è inevi-
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tabile e spesso solo grazie a terapie intensive si riesce a superare il momento
critico.
Esiste infine l’eventualità di ricorrere ad un trattamento sanitario obbligatorio, come estrema ratio. In genere
questo intervento resta riservato a situazioni psichiatriche acute e dovrebbe
essere il più possibile evitato per ottenere una rialimentazione forzata. Gli
operatori devono possedere la capacità,
anche nei casi più difficili, di portare il
paziente ad accettare la cura e non a
subirla come imposizione. Questo impegno potrà essere ripagato successivamente da una disponibilità al trattamento, che invece non è per niente
scontata dopo un ricovero coatto.
Organizzazione
territoriale delle
strutture di assistenza
Gli esempi dell’organizzazione territoriale di assistenza che sono stati proposti in molti Paesi occidentali sono relativi al livello delle strutture sanitarie e
alla sensibilizzazione sociale al problema
dell’AN. È questa una patologia di
grande impatto, che coinvolge la famiglia, la scuola e i gruppi sociali, con una
notevole risonanza mediatica. Una valida struttura territoriale non si concretizza nella disponibilità di centri clinici più o
meno grandi e ben organizzati, ma deve
basarsi su una rete di assistenza capillare (Fig. 2).
Figura 2
Organizzazione
di una rete territoriale
di assistenza
per l’anoressia nervosa.
OSSERVATORIO EPIDEMIOLOGICO TERRITORIALE
Medicina di base – Consultori familiari e giovanili
Scuole – Centri sociali – Servizi psichiatrici territoriali
Psicoterapie
individuali
Ricoveri ospedalieri
dei casi acuti
Unità ambulatoriali di diagnosi e cura
Centro riabilitativo
in day hospital
Centro riabilitativo
residenziale
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Le strutture di ricovero e cura
Diversi motivi giustificano questa
scelta. La distribuzione a rete:
– permette una comunicazione ottimale
tra le diverse strutture sanitarie e sociali;
– consente di attuare un’efficace prevenzione secondaria;
– favorisce una corretta distribuzione
degli interventi terapeutici;
– utilizza strutture sanitarie già esistenti
sul territorio;
– evita il sovraffollamento di strutture più
complesse come i centri di ricovero;
– consente notevoli risparmi sui costi
gestionali complessivi.
Una rete di assistenza ha il suo primo riferimento in una struttura ambulatoriale dotata di una équipe di base, in
grado di attuare l’iter diagnostico e di
avviare il trattamento, coinvolgendo i
servizi necessari (day hospital, centro
riabilitativo, ospedale). I vari ambulatori,
organizzati in un numero congruo sulla
base della popolazione del territorio, devono lavorare in stretto contatto con gli
altri servizi di accoglienza: medici di base, servizi psichiatrici, consultori familiari e giovanili, centri sociali e scuole. In
questo modo sono favoriti gli interventi
nelle fasi iniziali della patologia (sindromi parziali, forme anoressiche in esordio). Molte ricerche sostengono che un
intervento precoce evita molte delle
complicanze acute, sensibilizza la famiglia e riduce i rischi di cronicità e di cure
errate.
La presenza di un numero adeguato di ambulatori specializzati svolge poi
l’utile funzione di screening sulla popolazione e di sensibilizzazione culturale
per queste patologie ancora poco conosciute. L’intervento ambulatoriale sulla patologia anoressica deve prevedere
uno specifico lavoro di consapevolezza
del paziente, che in molti casi rifiuta le
cure o le subisce senza alcun giovamento reale. La correttezza di questo
approccio riduce notevolmente i ricoveri
e quindi i costi sanitari complessivi. Per
l’AN è comunque necessario disporre
di almeno un centro riabilitativo territoriale, organizzato in forma di day hospital o di ricovero residenziale. È poi indispensabile che le strutture ospedaliere
esistenti offrano la disponibilità di ricovero per situazioni acute.
Uno degli aspetti problematici per
l’organizzazione di una rete di assistenza riguarda le modalità attraverso le
quali definire il numero degli ambulatori
o la disponibilità di posti letto per la riabilitazione nutrizionale. Gli studi epidemiologici di incidenza e prevalenza possono essere di grande aiuto, ma si deve
tenere conto che l’AN è una patologia
mutevole nel tempo, anche nella sua
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diffusione, come già chiarito in precedenza. Da queste considerazioni deriva
la necessità di osservatori permanenti
territoriali, che possano elaborare i dati
della rete di assistenza, adattando così
le modalità d’intervento.
ziente anoressico in fase di esordio,
piuttosto che in una condizione di malattia già avanzata. Questo fenomeno
indica che un certo grado di prevenzione secondaria comincia ad essere presente, anche se è ancora impossibile
ipotizzare interventi preventivi primari
adeguati.
Riuscire ad offrire trattamenti sempre più corretti è possibile se si potrà
contare sulla validità di un’organizzazione sanitaria capillare. Molte volte, ancora oggi, si propongono approcci improvvisati, cure senza fondamento o interventi paradossali. Deve essere chiaro
che un trattamento errato lascia un segno negativo, che allunga la durata della malattia ed espone al rischio di cronicità. In questo modo è inevitabile che i
costi sanitari diventino maggiori. Preparare gli operatori, per quanto oneroso
possa essere, diventa in ogni caso un
investimento produttivo nel tempo.
Rimane complesso il problema di
come trattare le forme prolungate o
cronicizzate, che spesso non possono
trovare nei modelli correnti di cura risposte efficaci. Anche i casi di AN, che
insorgono in situazioni sociali di grave
degrado o in ambiti familiari intensamente patogeni, rappresentano spesso
situazioni che prevedono un confronto
arduo e ben poche soluzioni.
Conclusioni
L’AN, malattia un tempo rara, ci
costringe oggi, con la sua diffusione nel
mondo industrializzato, ad un intervento
terapeutico lungo, complesso e solo in
parte garantito nei risultati. Rispetto al
passato sappiamo, però, che esistono
direzioni di cura corrette che, se forse
non promettono la guarigione, possono
ragionevolmente offrire una netta riduzione della mortalità, un accettabile
reinserimento sociale e un minor rischio
di cronicità.
Ottenere questi pur limitati obiettivi
richiede un grande impegno e un’organizzazione efficiente, fondata sulle capacità professionali degli operatori.
È possibile che aumentando l’esperienza clinica, suffragata dalla ricerca, in
futuro si possa ottenere un intervento
risolutivo e più agevole. Esiste oggi una
migliore informazione ed è diventato più
frequente di un tempo osservare un pa-
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Le strutture di ricovero e cura
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Sarebbe forse utile progettare e sperimentare soluzioni di assistenza innovative, nelle quali il paziente, stabilizzato nelle
condizioni somatiche, possa essere guidato a migliorare il rapporto con se stesso e con gli altri in un ambiente favorevole. L’AN obbliga operatori di diversa formazione ad imparare come attuare una
buona collaborazione. Forse queste importanti esperienze di crescita culturale ci
consentiranno in futuro di immaginare
quelle necessarie nuove soluzioni.
Commissione di studio per l’assistenza ai pazienti
affetti da anoressia e bulimia nervosa – Ministero
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