Quaderni acp
www.quaderniacp.it
bimestrale di informazione politico-culturale e di ausili didattici della
A ssociazione
www.acp.it
C ulturale
P ediatri
ISSN 2039-1374
I bambini e il cibo
maggio-giugno 2014 vol 21 n°3
Poste Italiane s.p.a. - sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art 1, comma 2, DCB di Forlì - Aut Tribunale di Oristano 308/89
La Rivista è indicizzata in SciVerse Scopus
Quaderni acp
Website: www.quaderniacp.it
May-June 2014; 21(3)
97 Editorial
Mother did you know?
Paolo Siani
Training better with less:
the FAD (distance learning) of Quaderni acp
Michele Gangemi
Italian paediatricians decide if they want
to protect breastfeeding
Sergio Conti Nibali
Epilepsies in paediatrics: a diagnostic framing
Giovanni Tricomi
100 Formation at a distance (FAD)
My child suffers from epilepsy
Stefania Manetti, Costantino Panza,
Antonella Brunelli
110 Informing parents
111 Research letters
XXV meeting Italian Paediatrics Association
Red
Q uaderni
acp
bimestrale di informazione politico-culturale e di ausili didattici della
Associazione
Culturale
Pediatri
Presidente Paolo Siani
Direttore
Michele Gangemi
Direttore responsabile
Franco Dessì
Indirizzi
Amministrazione
Associazione Culturale Pediatri
Direttore editoriale
via Montiferru 6, 09070 Narbolia (OR)
Tel. / Fax 078 57024
Comitato editoriale
Direttore
Michele Gangemi
Giancarlo Biasini
Antonella Brunelli
Sergio Conti Nibali
Luciano de Seta
Stefania Manetti
Costantino Panza
Laura Reali
Paolo Siani
Maria Francesca Siracusano
Maria Luisa Tortorella
Enrico Valletta
Federica Zanetto
Casi didattici
FAD - Laura Reali
Collaboratori
via Ederle 36, 37126 Verona
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Ufficio soci
via Nulvi 27, 07100 Sassari
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Stampa
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viale Angeloni 407, 47521 Cesena
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Internet
La rivista aderisce agli obiettivi di diffusione
gratuita on-line della letteratura medica
ed è pubblicata per intero al sito
web: www.quaderniacp.it
Redazione: [email protected]
118 Info
Francesco Ciotti
Giuseppe Cirillo
Antonio Clavenna
Carlo Corchia
Franco Giovanetti
Italo Spada
120 A window on the world
Giovanna Benzi
PUBBLICAZIONE ISCRITTA
NEL REGISTRO NAZIONALE
DELLA STAMPA N° 8949
Ignazio Bellomo
© ASSOCIAZIONE CULTURALE PEDIATRI
ACP EDIZIONI NO PROFIT
113 Forum
Infertile couples, medically assisted procreation
and child health
Pierpaolo Mastroiacovo, Carlo Corchia
Health in Cuba: a right for everybody,
a duty for each one
Enrico Valletta
122 A close up on progress
The breaking of tolerance in autoimmune diseases
and its induction in transplantation medicine
Federica Barzaghi, Rosa Bacchetta
124 Learning from stories
A slow course not always benign
Brunetto Boscherini, Patrizia del Balzo
HLA and celiac disease: to each one his own risk
Enrico Valletta
Psychiatry (in paediatric care) betweeen diagnosis
and excess of diagnosis
Francesco Ciotti
127 Appraisals
Which vaccinations for children with diabetes?
Franco Giovanetti
131 Vaccinacipì
Female genital mutilation:
a story seems enough to uncover a world
Valentina Venturi, Tamara Fanelli, Enrico Valletta
132 Paediatrician among two worlds
136 Book
138 Movies
139 ACP Documents
141 Meeting synopsis
Medical training in the family paediatrician
office during paediatric residency
Cristina Gagliardo, Salvatore Aversa,
Naire Sansotta
143 The world of postgraduate
144 Letters
Organizzazione
Progetto grafico
Programmazione Web
Gianni Piras
LA COPERTINA
“Amelia e la mamma”(1927). Ambrogio Alciati 1878-1929. Olio su tela. Non indicata la collocazione
NORME REDAZIONALI PER GLI AUTORI. I testi vanno inviati alla redazione via e-mail
([email protected]) con la dichiarazione che il lavoro non è stato inviato contemporaneamente ad altra rivista.
Per il testo, utilizzare carta non intestata e carattere Times New Roman corpo 12 senza corsivo; il
grassetto solo per i titoli. Le pagine vanno numerate. Il titolo (italiano e inglese) deve essere coerente
rispetto al contenuto del testo, informativo e sintetico. Può essere modificato dalla redazione. Vanno
indicati l’Istituto/Ente di appartenenza e un indirizzo e-mail per la corrispondenza. Gli articoli vanno
corredati da un riassunto in italiano e in inglese, ciascuno di non più di 1000 caratteri, spazi inclusi.
La traduzione di titolo e riassunto può essere fatta, se richiesta, dalla redazione. Non devono essere
indicate parole chiave.
– Negli articoli di ricerca, testo e riassunto vanno strutturati in Obiettivi, Metodi, Risultati, Conclusioni.
– I casi clinici per la rubrica “Il caso che insegna” vanno strutturati in: La storia, Il percorso diagnostico, La
diagnosi, Il decorso, Commento, Cosa abbiamo imparato.
– Tabelle e figure vanno poste in pagine separate, una per pagina. Vanno numerate, titolate e
richiamate nel testo in parentesi tonde, secondo l’ordine di citazione.
– Scenari secondo Sakett, casi clinici ed esperienze non devono superare i 12.000 caratteri, spazi
inclusi, riassunti compresi, tabelle e figure escluse. Gli altri contributi non devono superare i
18.000 caratteri, spazi inclusi, compresi abstract e bibliografia. Casi particolari vanno discussi
con la redazione. Le lettere non devono superare i 2500 caratteri, spazi inclusi; se di
lunghezza superiore, possono essere ridotte dalla redazione.
– Le voci bibliografiche non devono superare il numero di 12, vanno indicate nel testo fra parentesi
quadre e numerate seguendo l’ordine di citazione. Negli articoli della FAD la bibliografia va elencata in ordine alfabetico, senza numerazione.
Esempio 1): Corchia C, Scarpelli G. La mortalità infantile nel 1997. Quaderni acp 2000;5:10-4.
Nel caso di un numero di autori superiore a tre, dopo il terzo va inserita la dicitura et al. Per i libri
vanno citati gli autori secondo l’indicazione di cui sopra, il titolo, l’editore, l’anno di edizione.
Esempio 2): Bonati M, Impicciatore P, Pandolfini C. La febbre e la tosse nel bambino. Il Pensiero
Scientifico, 1998. Un singolo capitolo di un libro va citato con il nome dell’autore del capitolo,
inserito nella citazione del testo.
Esempio 3): Tsitoura C. Child abuse and neglect. In: Lingstrom B, Spencer N. Social Pediatrics.
Oxford University Press, 2005.
Per qualsiasi ulteriore dettaglio si invita a fare riferimento a uno degli articoli già pubblicati sulla
rivista.
– Gli articoli vengono sottoposti in maniera anonima alla valutazione di due o più revisori. La
redazione trasmetterà agli autori il risultato della valutazione. In caso di non accettazione del
parere dei revisori, gli autori possono controdedurre.
È obbligatorio dichiarare l’esistenza o meno di un conflitto d’interesse. La sua eventuale esistenza non
comporta necessariamente il rifiuto alla pubblicazione dell’articolo.
Quaderni acp 2014; 21(3): 97
Lo sai mamma?
Paolo Siani
Presidente ACP
Lo sai mamma? è un Progetto nato alcuni anni fa e realizzato dal Laboratorio per
la Salute Materno-Infantile dell’Istituto
“Mario Negri” di Milano, in collaborazione con Federfarma Lombardia e ACP.
Oggi è anche un libro per le mamme e i
papà, che raccoglie 48 schede in cui vengono affrontati argomenti sanitari (quali
la celiachia, il vomito, la congiuntivite) e
aspetti di carattere più generale (es. l’alimentazione, i bambini e la TV, le tappe
della crescita), realizzate con rigore
scientifico, aggiornate secondo i più
recenti dati della letteratura e scritte con
un linguaggio molto semplice e facilmente comprensibile ai genitori.
Il Progetto è innovativo anche per la sua
assoluta indipendenza da case farmaceutiche o altri sponsor. Finanziato da ACP,
esso vuole offrire ai genitori informazioni indipendenti (aspetto in genere non
scontato in Italia) e aggiornate, raccolte
sotto forma di schede nel volumetto che
trovate allegato a questo numero di
Quaderni acp.
Dare ai genitori informazioni corrette, e
al tempo stesso semplici, e fornire strumenti utili per la crescita dei bambini
sono tra gli interventi di sostegno alla
genitorialità che ACP ha sempre avuto
ben presenti e che ha cercato di realizzare in questi anni in molti modi, nella consapevolezza che la promozione della
funzione genitoriale è da considerare
“cura” al pari dell’informazione e delle
azioni prettamente sanitarie. Pasquale
Causa, nel 2007, ci ricordava che “un
genitore competente è anche capace di
osservare il suo bambino e reggere il
disagio psicologico delle malattie intercorrenti, con una riduzione delle consultazioni per l’acuto banale”.
Questo libro è scritto da pediatri amici,
amici tra di loro (che, come consuetudine in ACP, hanno svolto questo lavoro
gratuitamente) e amici delle famiglie e
dei bambini.
Sono state selezionate e aggiornate 48
schede. Alcune sono dedicate a consigli
di carattere generale: alimentazione, igiene dentale, posizione per la nanna, sicurezza in auto, in bici e in moto, bambini e
TV. Altre, più specifiche, offrono informazioni su alcune comuni malattie: la
celiachia, la psoriasi, la stipsi, l’asma, le
coliche, la congiuntivite, la febbre, il vomito, la diarrea, l’impetigine, ma anche la
depressione e i disturbi d’ansia. Due
schede infine sono dedicate ai progetti
“Nati per Leggere” e “Nati per la Musica”, essendo sia la lettura ad alta voce
che l’ascolto della musica due interventi
straordinari di supporto alla genitorialità.
Tutte le schede sono state valutate da un
gruppo di 9 mamme senza competenze in
ambito medico-scientifico, con scolarità
media inferiore o superiore, con figli in
età prescolare o scolare.
Il 94% delle schede è stato giudicato
dalle mamme facilmente comprensibile;
solo per 3 schede è stata necessaria una
revisione più consistente.
Lo sai mamma? non vuole essere un libro di ricette ma uno strumento, un aiuto
ai genitori a comprendere le nostre ricette e quello che sta dietro alle nostre ricette, come ci diceva il professor Panizon.
L’iniziativa è anche una ulteriore prova
della possibile collaborazione e condivisione del nostro lavoro con altre associazioni, gruppi, istituzioni. In questo
Progetto siamo partner del prestigioso
Istituto “Mario Negri” che ci affianca e
ci sostiene ancora una volta, dopo la
splendida esperienza della ricerca ENBe.
Siamo convinti che solo il lavoro di
squadra paga e noi stiamo provando a
mettere nella grande squadra ACP dei
veri top player.
Ringraziamo il Pensiero Scientifico
Editore e il suo direttore, dottor Luca De
Fiore, per aver reso possibile l’operazione anche contenendone i costi.
Il libro potrà essere acquistato direttamente online sul sito www.pensiero.it,
oppure al prossimo Congresso Nazionale
ACP a Cesena (con uno sconto per gli
iscritti al Congresso).
Infine, tutto questo è stato reso possibile
grazie al lavoro di Maurizio Bonati,
Antonio Clavenna, Michele Gangemi,
Daniela Miglio, Mario Narducci, Aurelio
Nova, Laura Reali, Federica Zanetto.
A tutti loro va il sincero grazie dell’ACP. u
Per corrispondenza:
Paolo Siani
e-mail: [email protected]
97
Quaderni acp 2014; 21(3): 98
Formare meglio a meno:
la FAD di Quaderni acp
Michele Gangemi
Direttore Quaderni acp
Si è appena conclusa la formazione a distanza (FAD) 2013 di Quaderni acp, che ha
registrato un alto numero di adesioni e un
riscontro molto favorevole da parte degli
iscritti.
La valutazione positiva ha riguardato, per
la totalità degli iscritti, sia la rilevanza
degli argomenti trattati che la qualità educativa della proposta formativa. Un grazie
a tutti per il ritorno indispensabile per verificare la correttezza del percorso e per
testare l’utilizzo della FAD anche in contesti non usuali, come quello della pediatria
di gruppo. Pensiamo che altri ambiti educativi potrebbero essere valutati per l’introduzione della FAD con conseguente “cooperative learning”. L’iniziativa ha anche
permesso alla rivista di contenere i costi a
carico dell’ACP, pur confermando la scelta
editoriale di assenza di sponsor.
Rimandiamo anche all’editoriale “La FAD
di Quaderni acp: il perché di una scelta”
(Quaderni acp 2013;20(1):1) per approfondire e ripensare al razionale di questa iniziativa di formazione, centrata su “Diagnosi
e terapia delle patologie nell’area pediatrica
in ambito territoriale e ospedaliero”.
Anche il titolo di questo editoriale, “Formare meglio a meno”, vuole riassumere le
caratteristiche di tale proposta formativa:
1) Scelta degli argomenti in base ai bisogni
formativi del target individuato (pediatri
ospedalieri e di libera scelta). La costruzione di percorsi assistenziali nel contesto reale permette di vedere i problemi da vari
punti di vista, compreso quello del bambino
e della sua famiglia. Gli argomenti di carattere clinico hanno permesso anche il riequilibrio tra la parte più pratica della rivista e
la parte inerente ad aspetti di politica sanitaria, peraltro ugualmente importanti.
2) Percorso formativo basato su casi didattici orientati alla riflessività e al problem solving, piuttosto che a risposte mnemoniche.
La messa in pratica dei contenuti dei dossier
con l’ausilio dei casi didattici permette ai
partecipanti di andare oltre la teoria.
3) Assenza di sponsor.
4) Basso costo per i soci ACP in rapporto
alla qualità dell’iniziativa e al numero dei
crediti ECM erogati (18). Il percorso FAD
Per corrispondenza:
Michele Gangemi
e-mail: [email protected]
98
ha catturato l’attenzione e l’interesse anche
dei non soci.
5) Professionalità del provider ECM (Accademia Nazionale di Medicina) che ringraziamo per la collaborazione e il supporto fornito agli utenti.
Riteniamo che vada continuata in ambito
ACP, e non solo, la riflessione sul futuro
della formazione tramite FAD, anche per
contenere la pletora di congressi caratterizzati da modesta ricaduta formativa e spesso costosi, sia in termini di iscrizione che di
spese di soggiorno. Anche il problema dei
costi e del ricorso a sponsor non disinteressati potrebbe essere parzialmente risolto
con queste nuove metodologie formative,
purché di qualità.
La capacità di scelta del singolo pediatra
resta infatti il criterio principale per evitare
l’adesione a percorsi FAD qualsiasi e con
modesta ricaduta dal punto di vista formativo. Il pediatra non può rinunciare a essere
protagonista della propria formazione e alla
costruzione del proprio portfolio con uno
sguardo anche ai bisogni del sistema oltre
che del singolo. La creazione del professionista riflessivo secondo Schon resta un obiettivo oggi ancora troppo poco perseguito.
In tale consapevolezza ci piacerebbe avviare sulla Rivista un confronto vero con i lettori per sollecitare motivazioni, analizzare
bisogni e ricreare la cultura dell’aggiornamento continuo affidabile e di qualità, che
sia residenziale, sul campo o a distanza. In
ambito ACP il recente percorso di ricerca
ENBe è un esempio di aggiornamento attivo, partecipato, collaborativo rispetto a
prassi spesso consolidate e non sempre appropriate. Anche i congressi sono necessari alla vita delle associazioni e delle società
scientifiche che operano nel campo della
salute, come momenti di condivisione di
percorsi professionali ed esperienze personali. Come scrive Atul Gawande in Salvo
complicazioni (Fusi Orari, 2005), «una volta l’anno, tuttavia, c’è un posto pieno di
gente che lo sa. Sono tutti intorno a te. Arrivano e ti si siedono accanto. Gli organizzatori chiamano il loro convegno annuale
“congresso dei chirurghi” e l’espressione
mi sembra molto giusta. Per qualche gior-
no siamo, con tutti i pro e i contro della
situazione, un unico popolo di medici». E
ancora, «un congresso dovrebbe differenziarsi da un altro, non fosse altro perché i
partecipanti (i soci) sono diversi, i bisogni
diversi, le ragioni societarie e associative
diverse» e «non importa solo di cosa si discute a un congresso ma anche come si espongono i contenuti e come ci si confronta» (De Fiore L, Bonati M. La fiera dei
congressi. Ricerca e Pratica 2010;26:3-8).
Concludiamo queste riflessioni in margine
alla proposta FAD di Quaderni acp con
l’invito all’iscrizione al percorso 2014, che
mantiene lo stesso titolo ma ha alcune
importanti novità:
1. maggiore interattività con la presenza di
un tutor virtuale che aiuterà da un punto di
vista didattico. L’avvio di un forum con gli
iscritti è una preziosa risorsa da sfruttare
per una crescita collettiva.
2. Aumento dei crediti ECM (27) che potranno essere ottenuti per l’anno 2014 se il
percorso sarà terminato entro il 31 dicembre 2014, o per l’anno 2015, se concluso
entro la scadenza indicata (i crediti formativi ECM possono essere ottenuti anche
solo con la formazione a distanza).
3. Costo invariato di 50 euro per i soci ACP,
sempre in assenza di sponsor e pur con una
maggiore interattività e incremento dei crediti ECM. Tutto questo è possibile grazie
all’impegno degli autori e di tutta la redazione. Un grazie particolare va a Laura
Reali per la costruzione dei casi didattici, a
Gianni Piras per l’assistenza tecnica e al
Presidente e Direttivo ACP per l’appoggio
costante alla nuova linea editoriale.
4. La rubrica “info genitori” di Quaderni acp
pubblicherà informazioni utili per i genitori
riguardanti argomento e problemi clinici
oggetto del dossier. Anche questo è un ulteriore passo in avanti nella gestione dei percorsi assistenziali che non possono prescindere dal coinvolgimento attento e consapevole dei genitori e da una ricaduta corretta
della formazione nella pratica quotidiana.
Le norme per l’iscrizione alla FAD 2014
sono indicate al presente link: http://www.
acp.it/fad-acp.
Vi attendiamo numerosi anche per questa
altra, nuova avventura insieme. u
Quaderni acp 2014; 21(3): 99
I pediatri italiani decidano
se vogliono proteggere l’allattamento
Sergio Conti Nibali (a nome del Gruppo Nutrizione dell’ACP)
Pediatra di famiglia, Messina
Preambolo
Al recente Convegno degli Argonauti a
Palermo, Monica Garraffa ha presentato
i dati di una ricerca multicentrica nazionale (le città interessate sono state Trieste, Bergamo, Milano, Modena, Ancona,
Roma, Messina e Palermo, con il coordinamento dell’Unità per la Ricerca sui
Servizi Sanitari e la Salute Internazionale dell’IRCCS “Burlo Garofolo” di
Trieste) sull’influenza della pubblicità
delle formule di proseguimento e sulle
conseguenti scelte delle famiglie; le conclusioni erano che le pubblicità delle formule giocano con i dubbi e le incertezze
delle mamme, che le aziende, per raggiungere i loro risultati, nascondono al
pubblico il fatto che il latte di proseguimento è un prodotto inutile per una
mamma che allatta al seno, che la pubblicità dei latti 2 funziona anche per
effetto trascinamento sui latti 1, che la
maggior parte delle donne incinte e delle
madri, a prescindere dal livello di istruzione, ha poca conoscenza dei diversi
tipi di formula per le diverse età e che i
professionisti sanitari continuano a essere obiettivi prioritari delle attività di
marketing. In estrema sintesi, dunque, le
ditte hanno aggirato la Legge che vieta la
pubblicità dei latti 1 perché sanno che
pubblicizzando i latti 2 ottengono lo stesso risultato.
L’importanza della protezione
dell’allattamento
Alzi la mano quel pediatra o quel neonatologo (immagino una distesa di mani
alzate!) che non abbia appreso, nel corso
dei suoi anni di specializzazione, la superiorità dell’allattamento al seno rispetto a
quello artificiale e i suoi vantaggi per la
salute dei bambini, che non abbia assistito a lezioni magistrali sulle sue proprietà
nutrizionali, che non abbia ascoltato da
illustri professori che l’allattamento è
una priorità di salute pubblica e che va
sostenuto e promosso: fiumi di parolone
che molto spesso (sempre?) sono state
confinate a nozioni, al limbo del “sape-
re”, piuttosto che al molto più incisivo
“saper fare”. Alzi la mano (immagino di
non vederne!) chi ha appreso durante il
suo curriculum formativo come concretamente sostenere l’allattamento sin
dalla gravidanza, quali pratiche assistenziali lo favoriscono o lo ostacolano,
come aiutare una mamma in difficoltà
con l’allattamento.
L’Italia ha tassi subottimali di allattamento sia per la prevalenza che per la
durata; negli USA recenti ricerche hanno
stimato che bassi tassi di allattamento
costano al Sistema sanitario 14,2 miliardi di dollari/anno per malattie in età
pediatrica (inclusi 911 decessi); 733,7
milioni di dollari (costi diretti) e 126,1
milioni (costi indiretti) per malattie delle
donne prevenibili con l’allattamento al
seno; sono cifre da capogiro che potrebbero (dovrebbero) essere presentate ai
dirigenti della sanità, ai ministri e governanti da chi ha a cuore per davvero la
salute materno-infantile (e, quindi, dai
pediatri e dalle loro associazioni e
società scientifiche); qualsiasi politico,
di fronte a questi numeri, ancor di più in
un periodo di revisioni e tagli alla spesa
pubblica, si renderebbe subito conto che
bisognerebbe far qualcosa per migliorare
la situazione e per incentivare l’allattamento al seno; e chiederebbe aiuto agli
“esperti” del settore, che risponderebbero, probabilmente, con i soliti discorsi
che occorre promuovere e sostenere l’allattamento con la formazione dei pediatri
e degli operatori sanitari che si occupano
del percorso nascita, che bisogna rafforzare gli organici, trasferire più risorse per
l’assistenza al neonato, e così via. Tutto
giusto e sacrosanto, tranne che per un
“dettaglio”; è ormai accertato che il
sostegno e la promozione servono a ben
poco se non sono accompagnati da una
seria politica di protezione. Protezione
da cosa? I dati del mercato mondiale dei
cibi per l’infanzia descrivono cifre da
capogiro (27 miliardi di dollari nel 2010
del fatturato ricavato dalle formule per
lattanti e latti di crescita) e con il 10%
speso in pubblicità; è chiaro, quindi che,
quando si parla di protezione, si fa riferimento a politiche di difesa dei consumatori dal marketing e quindi, in definitiva,
alla messa in pratica di quanto già scritto
nel Codice di regolamentazione per la
pubblicità dei sostituti del latte materno
dell’OMS; Codice citato in tutti i documenti, ma tuttora non applicato nella pratica e solo molto parzialmente recepito
nel D.L. 9/2009 n. 82.
La proposta
Dunque il punto è questo: assodato che il
sostegno e la promozione senza protezione non potranno mai raggiungere l’effetto desiderato (livelli ottimali di allattamento), e assodato che la protezione
deve passare attraverso l’applicazione
totale del Codice (che, ricordiamocelo,
viene firmato dal 1981 ogni anno con
l’impegno della sua diffusione agli operatori sanitari e del suo rispetto da parte
dei nostri ministri), se è vero che tutti i
pediatri italiani e le loro multivariate
sigle che li rappresentano hanno a cuore
la salute materno-infantile, allora TUTTE insieme queste sigle dovrebbero
chiedere con forza ai nostri politici un
nuovo D.L. che recepisca dalla A alla Z
quanto scritto nel Codice.
Chi fa pubblicità ai sostituti del latte
materno ha capito molto bene che in ogni
caso, in qualsiasi parte del mondo, questa
attività di marketing comporta sempre
una diminuzione della prevalenza e della
durata dell’allattamento. Le tecniche di
pubblicità sono svariate, e alcune di queste coinvolgono gli operatori sanitari e le
loro associazioni (sponsorizzazioni per
l’organizzazione di congressi, acquisto
di attrezzature, disponibilità a venire incontro a “bisogni” di varia natura); anche
per questi aspetti i pediatri devono decidere da che parte stare (salute o profitto).
Chi ha veramente a cuore la salute materno-infantile e vuole davvero contribuire
a ottenere tassi ottimali di allattamento
firmi una proposta di adeguamento della
Legge italiana al Codice dell’OMS.
L’ACP si impegna a scriverla. u
Per corrispondenza:
Sergio Conti Nibali
e-mail: [email protected]
99
Quaderni acp 2014; 21(3): 100-109
Le epilessie in età pediatrica:
inquadramento diagnostico
Giovanni Tricomi
UO di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, ASL Cesena
Introduzione
Il termine “epilessia” deriva dal verbo
greco e<pilambánein (epilambánein) che
significa “essere sopraffatti, essere colti
di sorpresa”.
L’epilessia è un disturbo neurologico
caratterizzato dal ripetersi di crisi epilettiche, eventi improvvisi, di durata variabile, derivanti da un’attività neuronale
anomala.
Un paziente con diagnosi di epilessia
presenta una predisposizione, più o meno
prolungata nel tempo, a presentare crisi
epilettiche e peculiari aspetti di tipo neurobiologico, cognitivo, psicologico e
sociale correlati a questa condizione.
Le crisi epilettiche si caratterizzano per
un’ampia variabilità di sintomi derivanti
dalla localizzazione delle popolazioni
neuronali coinvolte e dal grado di coinvolgimento dei circuiti nervosi interconnessi.
Una crisi epilettica si definisce sintomatica acuta o provocata quando si verifica
durante una malattia sistemica o in stretto rapporto temporale con documentato
danno/processo patologico a livello cerebrale; si parla invece di crisi epilettiche
sintomatiche remote o non provocate
quando gli episodi critici si verificano in
assenza di fattori precipitanti o in presenza di un danno non recente del sistema
nervoso centrale.
Una particolare condizione è rappresentata dallo stato di male epilettico, “situazione nella quale una crisi epilettica
(generalizzata o focale, motoria o no) si
prolunga per più di 20 minuti o nella
quale le crisi si ripetono a brevissimi
intervalli (inferiori al minuto), tali da
rappresentare una condizione epilettica
continua”. Accanto a questa definizione,
richiamandosi al fatto che una crisi convulsiva isolata dura raramente più di 2-10
minuti e utilizzando un criterio operativo
basato sull’importanza della rapidità dell’intervento, è stata recentemente adottata
in età evolutiva una definizione operativa
(operational definition) finalizzata al-
FIGURA
1
Figura 1a
Figura 1b
Tracciato EEG in veglia (a) e sonno (b) di una bambina con epilessia benigna dell’infanzia con punte centrotemporali (BECTS) o epilessia rolandica. Si noti come le anomalie localizzate a livello delle regioni centro-temporali aumentino durante il sonno. La paziente presentava crisi epilettiche durante il sonno, nelle ore del mattino in prossimità del risveglio, caratterizzate da emissione di suoni gutturali, scialorrea e scosse tonico-cloniche generalizzate.
l’avvio tempestivo del trattamento (5-10
minuti). Nel bambino le cause più frequenti di stato di male convulsivo sono
rappresentate dalle convulsioni febbrili
prolungate, dagli insulti acuti a carico del
sistema nervoso centrale e dalle malattie
neurologiche pregresse.
La diagnosi di epilessia è definita dall’occorrenza di due o più crisi epilettiche
non provocate o sintomatiche remote,
separate da un intervallo di tempo di
almeno 24 ore.
Esistono diversi tipi di epilessia, che presentano prognosi diverse. È quindi più
corretto parlare di “epilessie” al plurale.
Epidemiologia
In Italia le persone affette da epilessia
sono circa 500.000 con una prevalenza di
4-8/1000/anno e un’incidenza di 2453/100.000/anno. Si rilevano due picchi
di incidenza interessanti, rispettivamente
il primo anno di vita (86/100.000) e l’età
avanzata (incidenza sopra gli 85 anni
pari a 180/100.000). L’incidenza dell’epilessia in Europa relativa all’età infantile e adolescenziale è di circa 70/100.000.
Classificazione
La classificazione dell’International League Against Epilespsy (ILAE) del 2001
Per corrispondenza:
Giovanni Tricomi
e-mail: [email protected]
a distanza
100
F
A
D
formazione a distanza
utilizza un approccio multiassiale: asse 1
(fenomenologia ictale o semeiologia),
asse 2 (tipo/i di crisi), asse 3 (tipo di sindrome epilettica), asse 4 (eziologia), asse
5 (comorbidità e problemi associati relativi alle aree di funzionamento cognitivo,
comportamento, tono dell’umore ed effetti della condizione sulla qualità della
vita).
L’attuale classificazione delle epilessie
continua a seguire un approccio multidimensionale, prendendo in considerazione sia le caratteristiche delle crisi sia i
fattori eziologici che prognostici, e i
grandi progressi conoscitivi in ambito
genetico e nelle tecniche di indagine,
anche al fine di migliorare la pratica clinica e favorire la ricerca.
Le crisi epilettiche possono essere definite focali o parziali quando l’attività
elettrica neuronale anomala interessa una
regione cerebrale circoscritta di un emisfero; in questo caso la semeiologia dell’episodio critico dipende dalla localizzazione delle popolazioni neuronali
coinvolte e dal propagarsi della scarica
anomala ai circuiti nervosi connessi; i
sintomi prodotti dalla scarica parossistica neuronale possono essere positivi o
negativi e manifestarsi con segni clinici
motori, sensoriali/sensitivi, psichici o
vegetativi (figura 1). Una crisi epilettica
focale può evolvere in una crisi generalizzata.
Le crisi epilettiche generalizzate si caratterizzano per manifestazioni elettro-cliniche che coinvolgono in modo diffuso
entrambi gli emisferi cerebrali fin dall’inizio dell’evento parossistico (figura 2).
Una crisi si può definire indeterminata
quando le caratteristiche cliniche e
semeiologiche non consentono un preciso inquadramento (figura 3).
Le crisi epilettiche in ciascun paziente
tendono a manifestarsi con le stesse
caratteristiche, ciò a espressione del fatto
che il circuito neuronale coinvolto viene
attivato con specifiche modalità anatomo-funzionali.
Il compito del clinico è di cercare di
ricondurre le crisi epilettiche che si
manifestano in un paziente all’interno di
una “sindrome epilettica” definita da un
complesso di sintomi/segni costantemente associati e tali da determinare un’entità unica e caratteristica. Le sindromi
epilettiche sono definite in base alla presenza di elementi specifici che riguarda-
Quaderni acp 2014; 21(3)
FIGURA
2
Tracciato EEG di paziente con epilessia assenze del bambino (CAE), che si caratterizza per la presenza di una
scarica di punte-onde generalizzata, di ampio voltaggio, alla frequenza di circa 3 Hz. Durante questo esame
una crisi di assenza viene indotta dall’iperpnea e in concomitanza della scarica di anomalie generalizzate. La
bambina presenta una perdita di contatto con l’ambiente circostante di breve durata (circa 6-7 secondi).
FIGURA 3:
CLASSIFICAZIONE DELLE EPILESSIE IN BASE A TIPO DI CRISI, EZIOLOGIA E PROGNOSI
CLASSIFICAZIONE IN BASE AL TIPO DI CRISI
Focali o parziali
Generalizzate
Indeterminate
CLASSIFICAZIONE IN BASE ALL’EZIOLOGIA
Idiopatiche
Sintomatiche
Presunte sintomatiche (in sostituzione al vecchio termine “criptogenetiche”)
CLASSIFICAZIONE IN BASE ALLA PROGNOSI
Sindromi epilettiche a prognosi eccellente (es. crisi neonatali benigne, epilessie focali benigne ecc.)
Sindromi epilettiche a prognosi buona (es. epilessia con assenze del bambino ecc.)
Sindromi epilettiche a prognosi incerta (es. epilessia mioclonica giovanile ecc.)
Sindromi epilettiche a prognosi infausta (es. epilessie miocloniche progressive ecc.)
no età d’esordio, tipo di crisi, aspetti clinici del paziente, caratteristiche EEG,
storia naturale, storia familiare, sviluppo
psicomotorio/cognitivo, risposta alla
terapia antiepilettica ecc. (tabella 1). La
diagnosi sindromica, definita dall’insieme delle caratteristiche della specifica
condizione, è importante in quanto fornisce al clinico strumenti fondamentali per
dirigere l’iter diagnostico, scegliere le
strategie terapeutiche e ipotizzare la prognosi. Alcune sindromi epilettiche sono
più comuni rispetto ad altre (es. epilessia
benigna con punte centro-temporali o
BECTS, epilessia mioclonica giovanile o
JME) ed è pertanto importante conoscerle perché di frequente riscontro nella pratica clinica.
Le crisi epilettiche possono avere diversa eziologia e le cause possono essere
fondamentalmente ricondotte nell’ambito di fattori genetici o fattori acquisiti.
Nelle epilessie a eziologia genetica le
crisi rappresentano il sintomo centrale di
una condizione determinata geneticamente (tabella 2). Non risulta sempre
possibile identificare il gene mutato
responsabile e pertanto una causa genetica può essere presunta sulla base di specifiche caratteristiche cliniche, anamnestiche e dei dati provenienti da alcuni
esami strumentali.
Nelle epilessie acquisite le crisi rappresentano il sintomo di una condizione
strutturale (es. sofferenza pre-peri-postnatale; anomalie dello sviluppo corticale;
esiti di traumi cranici, stroke, infezioni
cerebrali e interventi neurochirurgici;
tumori cerebrali ecc.) o metabolica.
Bisogna comunque tenere in considerazione che molte lesioni strutturali cerebrali come le malformazioni corticali e le
malattie metaboliche hanno una causa
genetica (figura 4).
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TABELLA
Quaderni acp 2014; 21(3)
1: ESEMPI DI SINDROMI EPILETTICHE RAGGRUPPATE IN BASE ALL’ETÀ DI ESORDIO
Sindromi epilettiche a esordio in epoca neonatale
Crisi neonatali familiari benigne (BFNSs)
Sindrome rara con esordio tipico a 2-3 giorni di vita. Sviluppo
psicomotorio normale. Le crisi sono di breve durata (1-2 minuti)
e possono essere molto frequenti (fino a 20-30 al giorno). Molte
crisi iniziano con un’attività motoria di tipo tonico con apnea, cui
fanno seguito vocalizzi, movimenti oculari, segni autonomici,
automatismi motori e clonie focali o generalizzate; non si verifica stato epilettico. Le crisi si risolvono spontaneamente da 1 a 6
mesi dopo l’esordio. Circa il 10-14% dei pazienti svilupperà altri
tipi di crisi negli anni futuri. Familiarità positiva per episodi analoghi in epoca neonatale; studi di linkage hanno dimostrato
mutazioni sui cromosomi 20q o 8q a livello di geni codificanti
per subunità dei canali voltaggio-dipendenti del potassio.
Crisi neonatali benigne (BNSs)
Descritti casi sporadici. Crisi cloniche di breve durata che diventano progressivamente più frequenti, associate a crisi di apnea e
talvolta a stato epilettico. Il bambino nella fase intercritica è normale. L’età di esordio è tipicamente tra i 4 e i 6 giorni di vita (in
passato definite come “crisi del quinto giorno”). La prognosi,
relativamente al rischio di ricorrenza di altre crisi in futuro e allo
sviluppo psicomotorio, è buona.
Encefalopatia epilettica a esordio infantile precoce
(EIEE o sindrome di Ohtahara)
Esordio generalmente nei primi 10 giorni di vita. La crisi tipica è
rappresentata da un movimento tipo spasmo tonico di durata
maggiore rispetto a quello tipico della sindrome di West. Queste
crisi possono manifestarsi isolate o in grappoli con durata di ogni
singola crisi tonica da 1 a 10 secondi e una frequenza di questi
episodi variabile da 10 a 300 nelle 24 ore. Le crisi possono essere generalizzate e simmetriche o lateralizzate; meno frequentemente possono verificarsi crisi motorie cloniche focali con caratteristiche erratiche. Il più delle volte è presente una grave anomalia strutturale dello sviluppo cerebrale. L’EEG presenta un pattern tipo “suppression-burst”. Prognosi negativa per lo sviluppo
psicomotorio e aumentato rischio di mortalità. Possibile, per i
bambini che sopravvivono, una futura evoluzione in sindrome di
West o in sindrome di Lennox-Gastaut. Epilessia farmacoresistente.
Encefalopatia mioclonica precoce (EME)
Esordio nei primi giorni di vita. Pattern EEG tipo “suppressionburst”. Si distingue dalla sindrome di Ohtahara per la presenza
di un mioclono intenso ad alta frequenza e con caratteristiche
migranti; possono verificarsi crisi focali di tipo clonico o crisi di
tipo tonico. Spesso associata con malattie metaboliche (es. iperglicinemia non chetotica).
Epilessia con crisi focali migranti
Condizione con caratteristiche non ancora ben definite a esordio
nelle prime settimane di vita. Epilessia ad andamento rapidamente ingravescente con crisi focali o multifocali caratterizzate
da variabile (“migrante”) localizzazione del focolaio prevalente.
Forma farmacoresistente a prognosi negativa.
Sindromi epilettiche a esordio in età infantile
Spasmi infantili (ISs o sindrome di West)
Età d’esordio in genere tra i 4 e i 6 mesi (più raramente possono verificarsi nel tardo periodo neonatale o dopo i 12 mesi). Le
crisi sono rappresentate dai tipici spasmi in grappoli che si verificano soprattutto in veglia; gli spasmi possono essere in flessione o in estensione; un’alterazione cerebrale focale può determinare degli spasmi asimmetrici. Il periodo degli spasmi si associa
a una regressione psicomotoria con riduzione dell’attenzione
visiva e dell’interazione e aumento dell’irritabilità. A seconda
dell’eziologia si distinguono forme “sintomatiche” (circa il 90%)
o “presunte sintomatiche”; sono state descritte delle forme geneticamente determinate (gene CDKL5 nelle femmine e gene ARX
nei maschi). La sindrome di West è definita dalla combinazione
degli spasmi con un pattern EEG molto caratteristico, definito
“ipsaritmia”. Le terapie più efficaci sono rappresentate dalla
somministrazione di ormone adrenocorticotropo (ACTH), o di
alte dosi di corticosteroidi per via orale o, nel caso di spasmi
infantili sintomatici di sclerosi tuberosa, dal vigabatrin.
Epilessia mioclonica benigna dell’infanzia (BMEI)
Condizione rara (rappresenta circa l’1% delle epilessie generalizzate idiopatiche). Esordio tra i 4 mesi e i 3 anni di vita. Le crisi
miocloniche coinvolgono principalmente il capo, gli occhi, gli arti
superiori, il diaframma e più raramente gli arti inferiori (in questo caso possono causare occasionali cadute); le crisi miocloniche possono verificarsi isolate o in brevi grappoli. Sviluppo psicomotorio nella norma. Rapporto maschi/femmine = 2:1. EEG
intercritico normale; le crisi miocloniche hanno un correlato EEG
di scariche di punta-onda o polipunta-onda. I farmaci utilizzati
per il trattamento sono l’acido valproico o altri antiepilettici ad
ampio spettro.
Epilessia mioclonica severa dell’infanzia
(SMEI o sindrome di Dravet)
Rappresenta probabilmente l’1-3% delle epilessie con esordio nel
primo anno di vita; esordio tipicamente tra i 5 e i 12 mesi con
ricorrenti episodi di stato epilettico in corso di febbre (crisi spesso focali/lateralizzate). I tipi di crisi che possono verificarsi sono
le crisi cloniche associate alla febbre, le crisi miocloniche, le
assenze atipiche e le crisi focali complesse. Prima dell’esordio lo
sviluppo psicomotorio è normale; dal secondo anno di vita si
verificano diversi tipi di crisi con prevalente componente mioclonica (soprattutto a partire dai 18 mesi). Il calore (febbre o anche
un bagno caldo) rappresenta un fattore scatenante le crisi. L’EEG
intercritico mostra anomalie generalizzate, focali o multifocali, e
può rilevare una fotosensibilità. Storia familiare di epilessia e/o
convulsioni febbrili nel 15-25%; in circa il 70% dei casi è presente una mutazione nel gene SCN1A. I farmaci più efficaci sono
l’acido valproico e il clobazam in associazione con lo stiripentolo; la carbamazepina e la lamotrigina peggiorano la sintomatologia critica. Una evidente regressione dello sviluppo psicomotorio si manifesta tipicamente dopo circa un anno dall’esordio delle
crisi. Aumentato rischio di morte improvvisa (Sudden Unexpected
Death in Epilepsy o SUDEP).
Sindromi epilettiche a esordio in età pre-scolare
Epilessia con crisi mioclono- astatiche
(EMAS o sindrome di Doose)
Condizione rara, leggermente più comune nel sesso maschile e
familiarità positiva in circa un terzo dei casi. Esordio all’età di 25 anni con frequenti crisi di caduta; le cadute possono essere
causate dalle crisi mioclono-astatiche e/o dalle crisi atoniche. Le
crisi mioclono-astatiche, caratteristiche di questa condizione,
possono essere associate alle crisi atoniche, miocloniche e alle
crisi di assenza; lo stato epilettico mioclono-astatico è comune.
L’EEG può essere normale negli stadi iniziali e in seguito caratterizzarsi per rallentamenti a livello biparietale, scariche generalizzate di punta-onda lenta e scariche di punta-onda irregolari
associate alle crisi mioclono-astatiche. L’acido valproico è il farmaco più efficace in quanto agisce contro le crisi miocloniche, le
crisi atoniche e le “assenze”; nei casi con crisi resistenti la lamo-
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Quaderni acp 2014; 21(3)
trigina a basse dosi in combinazione con l’acido valproico può
essere efficace; altri farmaci utilizzati nelle forme resistenti al trattamento sono l’etosuccimide e le benzodiazepine. La prognosi è
variabile.
Epilessie miocloniche progressive
Questa categoria comprende diverse forme di epilessia (es. epilessia mioclonica con ragged-red fibers o MERRF, malattia di
Lafora, malattia di Unverricht-Lundborg ecc.) che all’inizio possono presentare caratteristiche simili a quelle presenti nella sindrome di Doose, ma che in seguito si differenziano da questa
forma per la presenza di rilevanti anomalie neurologiche e per il
ritardo/deterioramento dello sviluppo cognitivo. La triade presente in questi pazienti è rappresentata da tipi diversi di crisi
(incluse le crisi miocloniche), presenza di segni neurologici e
deterioramento progressivo.
Sindromi epilettiche del bambino
Epilessia assenze del bambino (CAE)
Anche definita con il termine “picnolessia” (episodi critici che tendono a verificarsi molto frequentemente, da decine fino a centinaia di volte al giorno); le crisi si manifestano con improvvisa e
breve perdita di contatto con l’ambiente circostante, associata a
mancanza di risposta agli stimoli esterni e all’interruzione delle
attività volontarie in corso (durata degli episodi di “assenza”
generalmente dai 4 ai 20 secondi); possono essere presenti piccole ipercinesie interessanti i distretti peri-orale e peri-oculare e/o
automatismi; le crisi sono in genere tipicamente scatenate dall’iperventilazione (una manovra, che può essere utilizzata in ambulatorio e che può evocare una crisi di “assenza” in più del 90%
dei bambini con CAE, consiste nel far respirare profondamente il
paziente per circa 3 minuti facendogli tenere le braccia distese in
avanti e invitandolo a contare gli atti respiratori). Un EEG standard nelle forme tipiche è sufficiente per la diagnosi. Età di esordio tra i 4 e i 10 anni (picco di età tra i 5 e i 7 anni; più frequente
nelle bambine). Forte componente genetica con familiarità positiva in un terzo dei casi e rischio di ricorrenza nei figli di circa il
10%. Possono verificarsi, anche se raramente, crisi tonico-cloniche generalizzate, in genere molto tempo dopo l’inizio delle
“assenze” (di solito in adolescenza dopo la remissione delle
“assenze”). L’EEG intercritico risulta normale; le crisi di assenza
hanno un correlato EEG rappresentato da scariche di punta-onda
generalizzate e di ampio voltaggio a circa 3 Hz. I farmaci antiepilettici di prima scelta sono l’etosuccimide (non protegge da
eventuali crisi tonico-cloniche generalizzate), l’acido valproico e
la lamotrigina; il trattamento con carbamazepina è controindicato in quanto può aggravare l’epilessia. La prognosi relativamente
alla scomparsa delle crisi di assenza è molto buona (scomparsa
delle crisi in genere prima dei 12 anni); c’è un aumentato rischio
in età adulta di sviluppare crisi tonico-cloniche generalizzate.
Epilessia con assenze miocloniche (EMA)
Età d’esordio tra i 2 e i 13 anni. Prevalenza maschile. Il 50% dei
pazienti ha un normale sviluppo psicomotorio/cognitivo all’esordio. Le crisi tipicamente si caratterizzano per delle “assenze” a
inizio brusco con marcato mioclono ritmico e sincrono che interessa simmetricamente gli arti; possono essere coinvolti bocca,
mento, occhi e palpebre; le crisi durano tipicamente meno di un
minuto; in un terzo dei casi possono verificarsi crisi tonico-cloniche generalizzate, “assenze” pure e crisi astatiche. C’è una familiarità per epilessia nel 25% dei casi; molti casi restano a eziologia sconosciuta. Prognosi negativa per lo sviluppo cognitivo e il
controllo delle crisi. Il trattamento più efficace è rappresentato in
genere dalla combinazione di acido valproico con etosuccimide
o lamotrigina.
Epilessia assenze con mioclonie palpebrali (sindrome di Jeavon)
Esordio tra i 2 e i 14 anni con picco a 6-8 anni; di più frequente riscontro nel sesso femminile. Crisi brevi (durata circa 3-6
secondi), spontanee o precipitate dalla chiusura degli occhi in
ambiente illuminato (non al buio); crisi caratterizzate da deviazione dello sguardo verso l’alto e retropulsione del capo con palpebre che presentano clonie ripetitive con possibile associazione
di compromissione dello stato di coscienza. L’EEG rileva brevi
scariche di punta/polipunta-onda generalizzate, di ampio voltaggio a 3-6 Hz e fotosensibilità.
Epilessia benigna con punte centro- temporali
(BECTS o Epilessia rolandica)
Rappresenta la più comune epilessia focale del bambino; età d’esordio tra i 3 e i 13 anni; più comune nei maschi. Crisi focali che
coinvolgono il distretto facciale/periorale, che possono evolvere
con una secondaria generalizzazione; le crisi si verificano
nell’80% dei casi in fase di sonno; le caratteristiche tipiche includono una sensazione unilaterale di torpore/parestesie a livello
della lingua, gengive o guance, suoni gutturali o arresto del linguaggio, ipersalivazione, difficoltà di deglutizione o scialorrea
post-critica, movimenti involontari o contratture toniche della lingua o della mandibola, clonie interessanti una parte del volto.
L’EEG intercritico è caratterizzato dalla presenza di punte lente
difasiche a livello delle regioni centro-temporali, che possono
avere localizzazione monolaterale e che aumentano in frequenza nel sonno.
Se le caratteristiche cliniche e dell’EEG non risultano assolutamente tipiche, è consigliabile effettuare un esame RM encefalo
per escludere una forma di epilessia lesionale. Il trattamento con
farmaci antiepilettici non è generalmente indicato a meno che le
crisi siano particolarmente frequenti e/o prolungate e tale condizione crei disagio al paziente e ai familiari; nel 90% dei casi si
ha una remissione dopo alcuni anni dall’esordio delle crisi e
soprattutto dall’età di 16 anni. In alcuni casi le anomalie presenti in sonno sono molto rappresentate tanto che alcuni Autori parlano di uno spettro che collega l’epilessia benigna con punte
(BECTS) alla sindrome di Landau-Kleffner.
Epilessia con parossismi occipitali
(CEOP forma di Panayiotopoulos)
Familiarità positiva per epilessia e anomalie EEG intercritiche in
parenti di primo grado. Età d’esordio con picco tra i 3 e i 5 anni.
Le crisi tipicamente si verificano all’inizio del sonno; episodi critici caratterizzati da deviazione laterale dello sguardo e vomito,
spesso con alterazione dello stato di coscienza; le crisi possono
avere una durata prolungata. Molti bambini non presentano più
crisi epilettiche prima del compimento dei 10 anni di età mentre
altri possono presentare solo 1-2 episodi nell’arco della vita.
Sindrome di Landau- Kleffner (LKS)
Nota anche come afasia epilettica acquisita, si tratta di una condizione rara a esordio rapido (in un bambino precedentemente
normale), caratterizzata da sintomi che fanno apparire il bambino che ne è affetto “come se fosse sordo”; si instaura, ad andamento fluttuante e rapidamente progressivo, un disturbo della
comprensione del linguaggio con impossibilità a decodificare il
significato di alcuni suoni (agnosia uditiva, es. impossibilità nel
comprendere il significato di un telefono che squilla) e una afasia espressiva; possono essere presenti altri problemi cognitivi e
comportamentali. L’età d’esordio è tra i 3 e gli 8 anni con rapporto maschi/femmine di 2:1.
Possono verificarsi crisi tonico-cloniche generalizzate, assenze
atipiche e crisi motorie focali. L’EEG mostra frequenti scariche
epilettiche soprattutto durante il sonno e a livello delle regioni
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temporali. Si tratta di una encefalopatia epilettica in cui il funzionamento cerebrale viene compromesso dall’attività epilettica.
I farmaci più comunemente utilizzati per il trattamento sono i corticosteroidi e le benzodiazepine; alcuni bambini vengono sottoposti a intervento di chirurgia dell’epilessia.
Epilessia con punte-onde continue nel sonno
o stato epilettico elettrico in sonno (CSWS, ESES)
Il termine stato epilettico elettrico in sonno (ESES) è sinonimo di
punte-onde continue nel sonno (CSWS); esiste una sovrapposizione tra l’epilessia con punte-onde continue nel sonno (CSWS)
e la sindrome di Landau-Kleffner (LKS) (la prima è definita da
caratteristiche EEG, mentre la seconda da aspetti clinici); molti
bambini con LKS presentano una forma di CSWS o una condizione simile; la LKS può essere considerata un tipo di CSWS
con un focus epilettogeno a livello temporale e una conseguente
regressione del linguaggio. La CSWS si caratterizza per la
triade: punte-onde continue occupanti più dell’80% del sonno
a onde lente, crisi epilettiche e regressione cognitivo-comportamentale. L’età d’esordio è tipicamente tra i 4 e i 6 anni
(range 1-11).
Possono essere presenti deficit nella memoria, regressione nelle
funzioni cognitive e iperattività. I maschi sono più colpiti delle
femmine. Il primo evento parossistico è generalmente una crisi
generalizzata in sonno (possono in alcuni casi verificarsi crisi
focali o focali con secondaria generalizzazione che possono
avere caratteristiche simili alla forma BECTS).
L’evoluzione di questo tipo di epilessia si caratterizza per la possibile comparsa di altre crisi come le assenze tipiche e atipiche,
le assenze miocloniche, le crisi cloniche e atoniche, le crisi tonico-cloniche generalizzate. Il trattamento si basa sull’utilizzo di
diversi farmaci antiepilettici (soprattutto benzodiazepine, acido
valproico, etosuccimide o levetiracetam) e dei corticosteroidi; la
carbamazepina può far peggiorare la sintomatologia critica;
alcuni bambini vengono sottoposti a intervento di chirurgia dell’epilessia.
Sindrome di Lennox- Gastaut (LGS)
Questa condizione definisce una relativamente rara e grave
forma di epilessia caratterizzata dalla presenza di crisi toniche
(elemento sempre presente) o anche atoniche e crisi di assenza
atipiche; in genere è presente una causa sintomatica individuabile (nel 30% dei casi ci si orienta verso una “presunta sintomaticità”). L’EEG si caratterizza per la presenza di punte-onde lente
diffuse e parossismi di attività rapida. La prognosi per quanto
riguarda lo sviluppo cognitivo, le caratteristiche comportamentali e il controllo delle crisi è negativa.
Epilessia con parossismi occipitali (CEOP forma di Gastaut)
Età d’esordio con picco tra i 7 e i 9 anni. Le crisi sono caratterizzate da brevi sintomi visivi senza alterazione dello stato di
coscienza e sintomi post-critici che comprendono cefalea, nausea
e vomito; alcune crisi si protraggono con movimenti di tipo versivo, disturbi sensoriali, automatismi, clonie interessanti un emilato
o diffuse. Questa forma di epilessia rispetto alla forma di
Panayiotopoulos ha una prognosi leggermente peggiore per
quanto riguarda la scomparsa delle crisi. L’EEG ha caratteristiche
simili a quanto si riscontra nella forma di Panayiotopoulos e presenta come elemento caratteristico anomalie epilettiformi a livello delle regioni occipitali che vengono soppresse dall’apertura
degli occhi (“fixation-off sensitivity”) e attivate dal sonno.
Sindromi epilettiche a esordio in età adolescenziale
Epilessia assenze giovanile (JAE)
Età d’esordio con picco a 12 anni, tipicamente in prossimità del
periodo puberale. A differenza della CAE si verificano pochi episodi di “assenza” al giorno e il grado di compromissione dello
stato di coscienza sembra minore anche se le anomalie elettriche
tendono ad avere una durata prolungata. Circa l’80% dei
pazienti presenterà crisi tonico-cloniche generalizzate mentre il
15% manifesterà anche crisi miocloniche (meno intense di quelle
che si verificano nell’epilessia mioclonica giovanile). L’EEG
mostra anomalie generalizzate costituite da complessi puntaonda a 3 Hz, spesso indotte dall’iperventilazione; la fotosensibilità è inusuale. Molti pazienti rispondono al trattamento con
acido valproico anche se la prognosi, relativamente alla scomparsa delle crisi a lungo termine, è meno buona rispetto alla
CAE.
Epilessia mioclonica giovanile (JME)
Esordio tra i 12 e i 18 anni. Le crisi sono di tipo tonico-clonico
generalizzate e miocloniche, e si verificano tipicamente subito
dopo il risveglio; la coscienza è conservata durante le crisi miocloniche; le crisi tonico-cloniche generalizzate sono spesso precedute da una serie di crisi miocloniche in crescendo; le crisi di
assenza si verificano in circa un terzo dei casi. Una storia di
oggetti che cadono dalle mani mentre si prepara la colazione è
tipica. L’eccessiva stanchezza, la carenza di sonno e l’alcol sono
potenziali fattori scatenanti. L’EEG tipicamente mostra scariche di
polipunte seguite da onde lente irregolari a frequenza compresa
tra 1 e 3 Hz; le crisi di assenza hanno un correlato EEG di complessi polipunta-onda a 4-6 Hz che rallentano fino a 3 Hz (queste scariche epilettiche sono molto meno regolari rispetto a quanto si vede nell’epilessia assenze del bambino o nell’epilessia
assenze giovanile). I farmaci antiepilettici generalmente utilizzati
sono l’acido valproico, il clonazepam e il levetiracetam; la lamotrigina può causare un aumento delle crisi miocloniche ma risulta essere efficace in combinazione con l’acido valproico; il trattamento con carbamazepina è controindicato. La prognosi per
quanto riguarda il controllo delle crisi è buona ma è in genere
sconsigliato interrompere il trattamento antiepilettico per l’alto
rischio di ricorrenza delle crisi in assenza di terapia.
Epilessia con crisi tonico- cloniche generalizzate (GTCS)
al risveglio
Esordio in genere nella seconda decade di vita. La diagnosi di
questo tipo di epilessia è principalmente clinica e deve essere
sospettata quando si verificano crisi tonico-cloniche generalizzate (GTCS) subito dopo il risveglio, in assenza di frequenti ipercinesie di tipo mioclonico; le crisi possono essere facilitate dalla
riduzione delle ore di sonno; frequenza delle crisi piuttosto
bassa. La prognosi è favorevole sia per la bassa frequenza delle
crisi che per la buona risposta al trattamento (molti pazienti
hanno una ricomparsa delle crisi dopo la sospensione di un trattamento antiepilettico efficace). Alcuni pazienti che hanno presentato in passato altre forme di epilessia (es. CAE) possono
avere un’evoluzione in questa condizione. L’EEG tipicamente si
caratterizza per la presenza di scariche di punta-onda o polipunta-onda, irregolari, con frequenze comprese tra i 2 e i 4 Hz
(queste alterazioni non vengono tuttavia riscontrate in tutti i
pazienti con esami EEG di routine; in tal caso un EEG in sonno
può fornire informazioni diagnostiche aggiuntive); una discreta
percentuale di pazienti presenta fotosensibilità.
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TABELLA
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2
EPILESSIE IDIOPATICHE
Trasmis. Locus
AD
20q13
8q24
AD
2q24
AD
16p11
2q24
Crisi neonatali benigne familiari
Crisi neonatali-infantili benigne familiari
Crisi infantili benigne familiari
Crisi infantili benigne familiari
ed emicrania emiplegica familiare
Epilessia autosomica dominante notturna del lobo frontale
AD
AD
Epilessia familiare del lobo temporale laterale
Epilessia genetica con convulsioni febbrili plus (GEFS+)
AD
AD
Epilessia mioclonica familiare infantile (FIME)
Epilessia mioclonica giovanile (sindrome di Janz)
AR
AD
Epilessia generalizzata idiopatica con fenotipi variabili
(incluse assenze precoci)
Epilessia generalizzata idiopatica e
Atassia episodica
Encefalopatie epilettiche
Encefalopatia epilettica a esordio precoce
(periodo neonatale/primo anno di vita)
Spasmi infantili e fenotipo rett-like
Epilessia mioclonica severa dell’infanzia/
Sindrome di Dravet
Epilessia e ritardo mentale nelle femmine
EPILESSIE MIOCLONICHE PROGRESSIVE
Malattia di Unverricht-Lundborg (EPM1)
Malattia di Lafora (EPM2)
MERRF/MELAS
Sialidosi
- Tipo 1, 2
- Galattosialidosi
Ceroidolipofuscinosi
- Infantile tardiva di Jansky-Bielschowsky
“Finlandese”
“Variante”
- Giovanile di Spielmeyer-Vogt-Sjogren
- Adulta di Kufs
AMRF (action myoclonus-renal failure syndrome)
- variante simil-ULD senza interessamento renale
PME con atassia precoce
Atrofia dentato-rubro-pallido-luisiana
Malattia di Gaucher tipo III
Malattia di Huntington giovanile
Gangliosidosi GM2
EMP con inclusione di neuroserpina
EMP a esordio precoce
1q23
20q13
1p21
8p12
10q24
2q24
19q13
2q24
5q
16q13
5q34
6p12
Gene
KCNQ2
KCNQ3
SCN2A
PRRT2
SCN2A
ATP1A2
CHRNA4
CHRNB2
CHRNA2
LGI1
SCN1A
SCN1B
SCN2A
GABRG2
TBC1D24
GABRA1
EFHC1
AD
AD
AD
1q35
2q22
19q
SLC2A1
CACNB4
CACNA1A
AR
de novo
AR
de novo
X-linked
de novo
X-linked
X-linked
11p15
9q34
16p13
20q13
Xp22
2q24
Xq22
Xq22
SLC25A22
STXBP1
TBC1D24
KCNQ2
CDKL5
SCN1A
PCDH19
PCDH19
AR
AR
AR
Materna
AR
21q22.3
6q24
6q22
Mt-DNA
n-DNA
EPM1 (Cistatina B)
EPM2A (Laforina)
EMP2B (Malina)
t-RNA (8344,8356,8363)
POLG1
AR
AR
6p21.3 Neuraminidasi(NEU)
20q13.1 PPCA
AR
AR
AR
AR
AR
AD
AR
AR
AR
AD
AR
AD
AR
AD
AR
11p15
13q21
15q21
16p
15q21
20q13.33
4q21
4q21
12q12
12p13
1p21
4p16
15q23-q24
3q26
7q11
CLN2
CLN5
CLN6
CLN3
CLN6
DNAJC5
SCARB2
SCARB2
PRICKLE1
B37 (Atrofina)
Glucocerebrosidasi
Huntingtina
Hexa
PI12
KCTD7
9q32
16p13
TSC1
TSC2
MALFORMAZIONI CEREBRALI SU BASE GENETICA
Malformazioni dovute a proliferazione neuronale anomala
Sclerosi tuberosa
AD
AD
In termini generali le epilessie vengono
distinte in tre grandi categorie eziologiche: forme “idiopatiche”, forme “sintomatiche” e forme “presunte sintomatiche”.
Le epilessie idiopatiche comprendono
sia forme generalizzate che focali e si
caratterizzano per l’assenza di lesioni
cerebrali strutturali; sono causate da fattori genetici definiti o presunti. Il termine “idiopatico” non è sinonimo di epilessia a evoluzione benigna. Esempi di epilessie idiopatiche sono l’epilessia assenze del bambino, l’epilessia mioclonica
giovanile, l’epilessia con parossismi
occipitali forma di Gastaut, ecc.
Le epilessie “sintomatiche” sono caratterizzate da crisi che sono la conseguenza
di una causa primaria identificabile.
Esempi di epilessia sintomatica includono la sclerosi tuberosa e le displasie corticali focali. Le crisi sintomatiche acute
sono il risultato di un insulto cerebrale
immediatamente precedente l’evento
parossistico (es. ipossia, febbre) (le crisi
acute sintomatiche ricorrenti non sono
classificate come epilessia). Le epilessie
da causa sintomatica remota sono secondarie a un danno cerebrale pregresso (es.
stroke, meningoencefalite).
Le epilessie “presunte sintomatiche” (termine che sostituisce la vecchia dizione
“criptogenetiche”) rappresentano le forme in cui non risulta chiaramente identificabile una causa primaria (es. normalità dell’esame neuroradiologico) ma che
non possono essere inquadrate nell’ambito delle forme idiopatiche; in tal senso il
termine epilessia “presunta sintomatica”
definisce un’epilessia a eziologia non
nota e la necessità di effettuare ulteriori
approfondimenti diagnostici. Molte
forme gravi di epilessia dell’infanzia
rientrano all’interno di questo gruppo.
In relazione alla prognosi le epilessie
possono essere distinte in: sindromi epilettiche a prognosi eccellente (epilessie a
evoluzione benigna con remissione
spontanea delle crisi età-correlata e non
associate ad alterazioni dello sviluppo
psico-fisico); sindromi epilettiche a prognosi buona (epilessie farmaco-sensibili
in cui la terapia può essere sospesa dopo
un certo periodo di tempo); sindromi epilettiche a prognosi incerta (epilessie farmaco-dipendenti che possono rispondere
bene al trattamento antiepilettico ma che
si caratterizzano per crisi che possono
105
F
A
D
formazione a distanza
Quaderni acp 2014; 21(3)
Trasmis. Locus
Gene
Malformazioni dovute a migrazione neuronale anomala
Lissencefalia isolata (ILS)/eterotopia sottocorticale (SBH) AD
17p13.3 LIS1
Lissencefalia isolata (ILS)/eterotopia sottocorticale (SBH) AD
Xq22.3-q23 DCX
Lissencefalia isolata (ILS)/eterotopia sottocorticale (SBH) AD
12q13.12 TUBA1A
Sindrome di Miller-Dieker
AD
17p13.3 LIS1+YWHAE
Lissencefalia X-linked con genitali ambigui (XLAG)
X-linked Xp22.1 ARX
Lissencefalia con ipoplasia cerebellare (LCH)
AR
7q22.1 RELN
Lissencefalia con ipoplasia cerebellare (LCH)
AR
9p24.2 VLDLR
Eterotopia periventricolare bilaterale classica
X-linked Xq28
FLNA
Eterotopia periventricolare e sindrome di Elhors-Danlos X-linked X28
FLNA
Eterotopia periventricolare, dimorfismi facciali
e costipazione severa
X-linked X28
FLNA
Eterotopia periventricolare
AD
5p15.1 Eterotopia periventricolare
AD
5p15.33 Eterotopia periventricolare e sindrome di Williams
AD
7p11.23 Eterotopia periventricolare
AD
4p15
5p14.3-15 Eterotopia periventricolare
AD
Eterotopia periventricolare e agenesia del corpo calloso AD
1p36.22-pter Eterotopia nodulare periventricolare (PNH) e microcefalia AR
20p13
ARFGEF2
Distrofia muscolare congenita di Fukuyama
o sindrome di Walker-Warburg (WWS)
AR
9q31.2 FKTN
“Muscle-eye-brain disease (MEB)” o WWS
AR
19q13.32 FKRP
“Muscle-eye-brain disease (MEB)”
AR
22q12.3 LARGE
“Muscle-eye-brain disease (MEB)”
AR
1p34.1 POMGnT1
“Muscle-eye-brain disease (MEB)” o WWS
AR
9q34.13 POMT1
“Muscle-eye-brain disease (MEB)” o WWS
AR
14q24.3 POMT2
Sindrome CEDNIK
AR
22q11.2 SNAP29
Malformazioni dovute a organizzazione corticale anomala
Polimicrogiria bilaterale perisilviana (BPP)
X-linked Xq22
SRPX2
Polimicrogiria bilaterale fronto-parietale (BFPP)
AR
16q13
GPR56
Polimicrogiria asimmetrica
AD
6p25.2 TUBB2B
Polimicrogiria con agenesia del corpo calloso e microcefalia AD
3p21.3-p21.2 TBR2
Polimicrogiria (con anidria)
AD
11p13
PAX6
1p36.3-pter Polimicrogiria
AD
Polimicrogiria e microcefalia
AD
1q44-qter Polimicrogiria, PNH e agenesia del corpo calloso
AD
6q26-qter 2p16.1-p23 Polimicrogiria e dimorfismi facciali
AD
Polimicrogiria, microcefalia e idrocefalo
AD
4q21-q22 Polimicrogiria
AD
21q2
Polimicrogiria e sindrome di Di George
AD
22q11.2 Polimicrogiria e sindrome di Goldberg-Shprintzen
AR
10q21.3 KIAA1279
Polimicrogiria e sindrome di Warburg Micro
AR
2q21.3 RAB3GAP1
ANOMALIE CROMOSOMICHE ED EPILESSIA
Cromosoma 1
Delezione 1p36
Cromosoma 4
Delezione 4p16.3 (sindrome di Wolf-Hirshhorn)
Cromosoma 6
Delezione 6q terminale
Cromosoma 12 Trisomia 12p
Cromosoma 14 Cromosoma 14 ad anello
Cromosoma 15 Delezione 15q11-13, disomia uniparentale, mutazioni “Imprinting Center”,
mutazioni Gene UBE3A, Inv dup 15
Cromosoma 17 Delezione 17p13.3 (sindrome di Miller-Dieker)
Cromosoma 20 Cromosoma 20 ad anello
Cromosoma X
Sindrome del cromosoma X fragile, sindrome di Klinefelter (XXY),
duplicazione (X) (p11.22-p11.23)
Cromosoma Y
47, XYY
(modificata da Update relativo ai geni implicati nelle epilessie - Commissione Genetica LICE - Bianchi A, et
al., aggiornata al 15 maggio 2012).
106
F
A
D
verificarsi nuovamente dopo sospensione della terapia); sindromi epilettiche a
prognosi infausta (epilessie resistenti al
trattamento) (figura 3).
In alcune specifiche condizioni si pensa
che l’attività epilettiforme stessa possa
contribuire ad alterare il normale funzionamento cerebrale (es. ridotto stato di
vigilanza o deficit cognitivi); si parla in
tal caso di “encefalopatia epilettica”.
Questo concetto implica che la disfunzione cerebrale possa essere parzialmente reversibile quando si tratta l’epilessia
con una terapia antiepilettica adeguata.
Diagnosi
La diagnosi di epilessia è un percorso
spesso molto complesso che deve tener
conto del tipo di crisi (fenomenologia,
topografia), del contesto clinico (età d’esordio, familiarità, condizioni cliniche
generali e presenza di altri sintomi associati) e delle caratteristiche di alcuni
esami strumentali specifici (es. EEG critico e intercritico, dati neuroradiologici
ecc.).
Il primo passo verso una diagnosi di epilessia consiste nello stabilire se un evento parossistico sia o no una crisi epilettica; esiste infatti, specie nel bambino,
tutta una serie di eventi parossistici di
natura non epilettica (es. mioclono neonatale benigno, iperecplessia, spasmi
affettivi respiratori, reflusso gastro-esofageo, parasonnie, vertigine parossistica,
atassie episodiche, episodi sincopali,
tics, stereotipie, comportamenti di autostimolazione, disturbi psicogenetici
ecc.), la cui conoscenza è fondamentale
per non incorrere in errori diagnostici.
In questi casi l’anamnesi e la ricostruzione dell’evento parossistico risultano fondamentali; un’esame video-EEG con
polimiografia viene spesso richiesto per
una valutazione dirimente.
Secondo studi recenti una percentuale tra
il 3,5% e il 43% di bambini inviati per
effettuare un esame video-EEG presenta
una diagnosi di fenomeno parossistico di
natura non epilettica.
Bisogna inoltre essere sicuri che siamo di
fronte a un’epilessia e non a una condizione sintomatica che si manifesta clinicamente con crisi epilettiche acute ricorrenti.
Distinguiamo nel percorso diagnostico
delle epilessie alcune tappe fondamentali: anamnesi, esame obiettivo (generale,
formazione a distanza
FIGURA
Quaderni acp 2014; 21(3)
4
Figura 4a
Figura 4b
Tracciato EEG di paziente con epilessia focale sintomatica di sindrome di Sturge-Weber. Si noti come le anomalie EEG presenti a livello delle regioni parieto-temporo-occipitali destre (a) correlino con le sedi anatomiche delle alterazioni documentate dall’esame RM encefalo (b). La sindrome di Sturge-Weber è una malattia neurocutanea congenita sporadica, che si caratterizza clinicamente per la presenza di un emangioma capillare del volto che segue la distribuzione della branca oftalmica del trigemino,
angiomi leptomeningei, glaucoma, crisi epilettiche, eventi infartuali cerebrali e ritardo cognitivo di grado variabile. È stato recentemente dimostrato che tale condizione può
essere determinata dalla mutazione a livello del gene GNAQ.
psichico e neurologico), indagini neurofisiologiche, neuroimmagini, indagini di
laboratorio e genetiche, valutazione neuropsicologica.
– Anamnesi: l’approccio a un paziente
con epilessia o che ha presentato uno o
più episodi parossistici di sospetta natura
epilettica trova nell’anamnesi un
momento fondamentale, senza il quale è
impossibile pensare di poter correttamente programmare tutte le indagini di
approfondimento necessarie per giungere a un preciso inquadramento della condizione in esame. L’analisi dei dati clinici raccolti attraverso l’anamnesi consente di formulare una corretta diagnosi in
circa la metà dei casi. Gli obiettivi principali dell’anamnesi si realizzano grazie
alla raccolta del maggior numero di
informazioni con la finalità di definire il
tipo di crisi, la presenza di eventuali fattori eziologici e/o scatenanti, e le circostanze di occorrenza dell’episodio parossistico (es. veglia, sonno, digiuno, esposizione a stimoli luminosi intermittenti o
a fattori ambientali che causano aumento
della temperatura corporea ecc.).
Secondo i livelli di evidenza, cianosi,
scialorrea, morsus e stato confusionale
post-critico sono gli elementi clinici che
inducono ad accentuare il sospetto diagnostico di crisi epilettica. Particolare
importanza riveste anche l’analisi dei
sintomi che precedono la crisi, qualora
presenti, e che caratterizzano la fase di
recupero (sintomi post-critici). I dati clinici vengono spesso forniti da un testimone dell’evento parossistico ed è pertanto fondamentale ricavare gli elementi
anamnestici direttamente da chi ha assistito all’episodio, soprattutto quando il
paziente non è in grado di riferire nulla o
poco dell’accaduto. La semeiologia è
rappresentata da ciò che un osservatore
esterno vede e/o da ciò che il paziente
percepisce di una crisi epilettica. L’analisi accurata di ciò che accade immediatamente prima, durante e dopo l’episodio
critico può fornire fondamentali elementi per ipotizzare la localizzazione dell’area epilettogena. I segni clinici di una
crisi epilettica si manifestano non appena
la scarica epilettica si sviluppa nel tempo
e nello spazio; i sintomi clinici si manifestano con una latenza temporale dall’inizio della scarica che può variare a
seconda del tipo di crisi (es. le crisi temporali si propagano più lentamente
rispetto alle crisi frontali). La semeiologia delle crisi e l’identificazione del circuito neuronale precocemente interessato dalla propagazione della scarica epilettica sono presupposti fondamentali per
formulare ipotesi di localizzazione dell’area epilettogena. Esempi di segni/sintomi altamente localizzatori sono rappresentati dalle illusioni/allucinazioni uditive, dalle allucinazioni visive lateralizza-
te e dalle posture tonico-cloniche lateralizzate. I segni/sintomi che non risultano
essere localizzatori sono la deviazione
del capo/occhi, le manifestazioni tonicocloniche del distretto buccale, le posture
distoniche, le allucinazioni olfattive e la
perdita di contatto con l’ambiente. Gli
elementi clinici vanno integrati con gli
esami strumentali.
– Esame obiettivo generale, psichico e
neurologico: la visita del paziente rappresenta un momento fondamentale del
percorso diagnostico. I principali aspetti
da valutare, per quanto riguarda l’esame
obiettivo generale, sono altezza, peso,
circonferenza cranica, cute (con particolare attenzione alla rilevazione di eventuali aree cutanee con ipo- o ipercromia
o angiomi), organi esplorabili alla palpazione dell’addome, eventuali aspetti dismorfici. L’esame obiettivo psichico con
osservazione del comportamento fornisce dati sullo stato di vigilanza/orientamento, sullo sviluppo psicomotorio/cognitivo e sull’eventuale presenza di disturbi del comportamento. L’obiettività
neurologica può rilevare la presenza di
segni neurologici maggiori in grado di
orientare la diagnosi verso una forma
sintomatica.
– Indagini neurofisiologiche: l’elettroencefalogramma (EEG) è un esame di fondamentale importanza per la diagnosi di
epilessia e per il monitoraggio dei pa107
F
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D
formazione a distanza
zienti affetti da tale condizione. L’EEG
può fornire elementi specifici che orientano/confermano il sospetto diagnostico
del clinico; da questo esame vengono
inoltre ricavati dati fondamentali relativi
all’organizzazione/funzionamento dell’attività elettrica cerebrale sia in veglia
che in sonno. L’EEG consente inoltre di
valutare in modo approssimativo il
rischio di ricorrenza di nuovi episodi critici in base alla maggiore/minore ricchezza di anomalie nella fase intercritica
e, insieme ai dati clinici, la risposta al
trattamento antiepilettico. Bisogna però
sempre tenere in considerazione che
l’EEG non è uno strumento magico e che
il medico refertatore ha bisogno di informazioni molto precise che descrivano
con la massima accuratezza le caratteristiche del paziente in esame (età, condizioni generali, patologie di cui è affetto)
e le motivazioni che hanno portato a
effettuare l’indagine in oggetto (es.
descrizione accurata dell’evento parossistico e delle circostanze/modalità di
occorrenza). La ripetizione dell’esame in
uno stesso paziente va valutata e definita
in base al tipo di epilessia, alla risposta al
trattamento antiepilettico e ad altre variabili cliniche. L’esame EEG può essere
effettuato con diverse modalità che
dipendono dal quesito diagnostico e più
nello specifico dal tipo di crisi, dalla loro
frequenza e talvolta da fattori contingenti (es. condizioni di urgenza, pazienti non
collaboranti). Così, mentre per alcuni
casi è sufficiente richiedere un EEG di
routine (S/EEG, Standard EEG), per altri
può essere necessario effettuare una registrazione prolungata nelle 24 ore con
EEG dinamico (A/EEG, Ambulatory
EEG), un EEG con videoregistrazione
(video-EEG) o un monitoraggio videoEEG a lungo termine (LTVEEG
Monitoring). L’EEG di routine consiste
in una registrazione in veglia in condizioni basali (a occhi chiusi e aperti) per
almeno 20 minuti, seguita da una registrazione durante tecniche di attivazione
(iperventilazione e stimolazione luminosa intermittente); un’altra tecnica di attivazione è rappresentata dalla registrazione in sonno (spontaneo o dopo privazione ipnica). Un EEG standard può rilevare anomalie epilettiformi intercritiche o
critiche in soggetti con sospette crisi epilettiche in circa il 50% dei casi; la percentuale aumenta fino al 90% con regi-
Quaderni acp 2014; 21(3)
strazioni ripetute o in sonno; la possibilità di registrare anomalie durante un
EEG standard è di circa il 90% se l’esame viene effettuato entro le 24 ore da una
crisi epilettica (soprattutto nei bambini)
ed è per questo che nel caso di una prima
crisi è indicata l’esecuzione di un EEG il
più presto possibile. Anomalie EEG a un
esame standard sono rilevabili nello 0,54% di soggetti che non hanno mai presentato crisi epilettiche; questo dato deve
far riflettere sul fatto che l’EEG può
essere disinformativo e quindi non raccomandato in alcune situazioni (es. soggetti giovani con sincopi neuro-mediate).
L’EEG dinamico si realizza grazie ad
apparecchi portatili che consentono la
registrazione per tempi variabili da 12 a
72 ore mentre il paziente svolge le sue
normali attività di vita quotidiana; tale
metodica non aggiunge informazioni
diagnostiche nel 50% dei casi. La registrazione video-EEG con possibile
aggiunta di poligrafia consente una più
precisa analisi dell’evento parossistico e
permette di distinguere gli episodi di
natura epilettica da quelli di natura non
epilettica. L’utilizzo del monitoraggio
video-EEG a lungo termine (LTVEEG
monitoring) viene riservato a condizioni
molto particolari ed effettuato in centri
altamente specializzati, con la finalità di
cercare di individuare l’origine delle scariche epilettiche (vengono utilizzati speciali elettrodi di superficie o elettrodi che
possono essere impiantati in profondità
in diverse aree cerebrali).
– Neuroimmagini: le neuroimmagini forniscono un importante contributo nello
stabilire eziologia, prognosi e trattamento delle epilessie di nuova diagnosi.
Questo tipo di indagini è raccomandato
quando la crisi presenta caratteristiche
cliniche che fanno presupporre un focolaio epilettogeno localizzato, o quando
non è stato ancora raggiunto un preciso
inquadramento diagnostico dell’epilessia
o quando si sospetta una condizione sintomatica. Quando disponibili, le tecniche
di risonanza magnetica (RM) sono preferibili a quelle di tomografia computerizzata (TC) sia per la migliore risoluzione
e accuratezza delle immagini, che per
evitare l’esposizione del paziente a
radiazioni.
L’esame neuroradiologico è generalmente non necessario in alcune forme di epilessia idiopatica (epilessia assenze del
108
F
A
D
bambino, epilessia assenze forma giovanile, epilessia mioclonica giovanile, epilessia benigna con punte centro-temporali) quando la diagnosi è chiaramente
definita sulla base dei dati clinici e delle
caratteristiche EEG.
Vanno infine ricordate alcune tecniche di
neuroimaging funzionale (PET, SPECT),
di utilizzo non diffuso, che possono essere utili in alcuni casi particolari per una
più precisa definizione/localizzazione
dell’area epilettogena.
– Esami di laboratorio e genetici: gli
esami ematochimici di base non sono
generalmente indispensabili in fase diagnostica iniziale, anche se possono essere utili per escludere particolari condizioni come uno squilibrio elettrolitico,
uno scompenso metabolico, fattori endocrinologici o tossici e per l’inizio di una
terapia antiepilettica.
La rachicentesi con esame del liquor è
indicata in tutte le condizioni in cui si
pone il sospetto diagnostico di un processo infettivo/infiammatorio interessante il sistema nervoso centrale; in tali condizioni, oltre all’esame liquorale chimico-fisico di base, possono essere utili
specifiche indagini sierologiche e liquorali finalizzate a isolare marker di agenti
infettivi specifici o di reazione autoimmunitaria; altre indagini più specifiche
su liquor (es. dosaggio lattato/piruvato,
glicina ecc.) possono essere effettuate
nel sospetto di specifiche condizioni (es.
malattie metaboliche).
Gli esami genetici possono essere effettuati in alcuni casi particolari, quando le
caratteristiche del paziente, il tipo di epilessia e alcuni esami strumentali (es.
EEG e RM encefalo) orientano la diagnosi verso una condizione geneticamente determinata, come per esempio
alcune encefalopatie epilettiche a esordio
in età infantile o nel sospetto di una condizione sindromica specifica associata a
epilessia (es. sindrome di Rett, sindrome
di Angelman ecc.); tali esami andrebbero
richiesti da professionisti esperti in epilettologia e vanno coordinati e integrati
con una consulenza genetica che coinvolga il bambino e i familiari.
– Valutazione neuropsicologica: questo
tipo di valutazioni risulta fondamentale
per indagare il funzionamento cognitivo,
la presenza di disturbi neuropsicologici
in comorbilità, per monitorare l’evoluzione clinica e gli eventuali possibili
formazione a distanza
effetti indesiderati del trattamento antiepilettico (es. disturbi della memoria, dell’attenzione, sintomi comportamentali
ecc.).
Conclusioni
L’inquadramento diagnostico del bambino con epilessia è un percorso molto
complesso, all’interno del quale i dati
clinici si integrano con la conoscenza e
l’esperienza del medico che programma
e successivamente interpreta gli esami di
approfondimento necessari. L’espandersi
delle conoscenze, soprattutto nel campo
della genetica, sta ampliando in modo
rapido il panorama conoscitivo in ambito
epilettologico. Il raggiungimento di una
corretta diagnosi è presupposto fondamentale per l’ottimale applicazione delle
strategie terapeutiche disponibili e per
fornire adeguate informazioni sulla prognosi. u
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Wong-Kisiel LC, McKeon A, Wirrell EC. Autoimmune encephalopathies and epilepsies in children
and teenagers. Can J Neurol Sci 2012;39(2):134-44.
IL PREMIO “BERTRAND RUSSELL AI SAPERI CONTAMINATI” 2014 A FRANCO PANIZON
Claudio Magris ha così commentato la figura di Franco Panizon nel suo intervento nell’aula del consiglio comunale di Trieste all’indomani della scomparsa di un “amico non facile”: «È stato, anche in modo imbarazzante, se stesso: mi piacerebbe assomigliargli
un po’». Parole simili le ho sentite nel febbraio dello scorso anno da Paolo Rumiz, con cui ero a cena a Milano a casa di comuni
amici. Perché il Premio “Bertrand Russell ai Saperi contaminati” a Franco Panizon? Non solo perché Panizon è stato per la Pediatria
italiana ciò che Franco Basaglia ha rappresentato per la Psichiatria ma anche perché è stato “maestro” di professionalità, impegno civile e, direi, di vita per una buona metà dei pediatri di base che oggi operano sul territorio di Reggio Calabria. A più di un
anno dalla sua scomparsa, la Fondazione Mediterranea insieme all’Università Mediterranea gli rende omaggio attribuendo alla
sua memoria l’edizione del 2014 del Premio “Bertrand Russell ai Saperi Contaminati” per il suo impegno civile e di fine umanista
che ha accompagnato la sua attività professionale. Panizon, stravagante e imprevedibile, da ragazzo della Repubblica di Salò
diventato comunista e poi, dopo anni di un laicismo integrale, cattolico, ha sempre inseguito le sue idee e, così facendo, ha inventato e prodotto: per esempio il “day hospital pediatrico”, che consente ai minori di rientrare a casa a fine cura giornaliera, per non parlare dell’umanizzazione delle cure pediatriche negli ospedali con l’apertura della corsia ai genitori dei piccoli pazienti. Oggi queste sono realtà acquisite (chi lascerebbe più suo
figlio in una corsia di ospedale “abbandonato” alle cure dei soli infermieri?) ma non lo erano negli anni Settanta, gli anni in cui avveniva la coeva rivoluzione di Basaglia negli ospedali psichiatrici, gli anni in cui ancora riverberava in corsia l’impianto di una Pediatria baronale e sclerotizzata oltre che maldisposta verso i diritti dell’infanzia. La sua fu una rivoluzione silenziosa, mai assurta come quella di Basaglia all’attenzione dei media, che ha letteralmente trasformato la Pediatria italiana. Ma non è solo per questo che, oggi, gli viene assegnato il Premio Russell: Franco Panizon, professore emerito di Pediatria nel
Dipartimento di Scienze della Riproduzione e dello Sviluppo dell’Università di Trieste, in cui ha diretto la Clinica pediatrica dell’IRCCS “Burlo Garofolo”, è stato
anche quel fine umanista, pittore e critico d’arte che, da laico, ha concluso la sua vita curando i bambini dell’Ospedale cattolico “Divina Providencia” di Luanda
in Angola. Concludo citando Panizon: «Questo vale per tutti gli uomini, ma specialmente per i medici e specialmente per i pediatri: guardare in là, più in là
possibile, non pensare solo all’oggi del tuo paziente, pensa anche al suo domani; non pensare solo ai tuoi pazienti, pensa anche a tutti i pazienti; non pensare solo ai presenti, ma pensa anche ai lontani e ai futuri».
Vincenzo Vitale, Pediatra di famiglia, Presidente Fondazione Mediterraneo
109
F
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Quaderni acp 2014; 21(3): 109
Il bambino che soffre di epilessia
Stefania Manetti*, Costantino Panza**, Antonella Brunelli***
*Pediatra di famiglia, Piano di Sorrento (Napoli); **Pediatra di famiglia,
Sant’Ilario d’Enza (RE); ***Direttore del Distretto ASL, Cesena
La parola epilessia fa paura, richiama alla memoria immagini spaventose e situazioni poco controllabili. Nell’articolo
sull’inquadramento diagnostico delle
epilessie scritto per i pediatri lettori di
questa rivista, leggiamo che la parola
epilessia deriva da un termine greco che
significa “essere colti di sorpresa”.
Come si manifesta?
L’epilessia o le convulsioni si manifestano con movimenti muscolari, sensazioni o
comportamenti provocati da una serie di
scariche elettriche anomale che partono
dal nostro cervello. A seconda poi di
quanti muscoli sono interessati da queste
scariche elettriche si possono avere scosse e contrazioni diffuse a tutta la muscolatura o a una parte (per esempio un braccio e una gamba), oppure un completo
rilassamento della muscolatura con perdita del tono muscolare.
La crisi epilettica che spaventa di più è
generalmente quella che si manifesta con
scosse rapide e violente di tutto il corpo
e spesso perdita di conoscenza. A volte
queste crisi possono essere precedute da
movimenti di piccole parti del corpo e
poi propagarsi a tutti i muscoli. Alcuni
bambini possono invece avere altri tipi di
crisi epilettiche definite “assenze”, momenti (anche pochi secondi) durante i
quali il bambino perde il contatto con
l’ambiente che lo circonda.
Qual è la causa?
Si parla di epilessie e non di epilessia
perché ci sono tipi diversi di questa
malattia.
Le epilessie possono dipendere da fattori
genetici o da cause acquisite; la storia
clinica e quella familiare possono spesso
essere utili per ricercare le cause.
Tutte le convulsioni sono epilessie?
No, non tutte le convulsioni sono epilessie; a volte i bambini possono avere episodi simili alle crisi epilettiche ma che in
realtà non sono epilessie.
Ecco alcuni esempi:
Per corrispondenza:
Stefania Manetti
e-mail: [email protected]
110
– gli spasmi affettivi, improvvisi “svenimenti” che un lattante può avere
durante il pianto quando va in apnea e
“trattiene il respiro”;
– le sincopi, episodi di perdita di conoscenza legati a cause diverse dall’epilessia;
– i disturbi del sonno, come gli episodi
di pavor notturno e il sonnambulismo.
Sarà il pediatra a formulare un sospetto
diagnostico e quindi a consigliare, se
necessari, altri esami o visite utili per
arrivare a una diagnosi.
Come si fa la diagnosi?
È necessario riferire al pediatra tutte le
informazioni sulla storia familiare e dare
una descrizione precisa dell’episodio: la
durata, i sintomi iniziali, le parti del
corpo interessate e la perdita o meno di
conoscenza. Tutto quello che accade
prima e dopo la crisi convulsiva è un
indizio importante per capire la sede del
cervello da cui sono partite queste “scosse elettriche”.
Per arrivare alla diagnosi sono necessarie
una consulenza con il neuropsichiatra
infantile e alcuni esami strumentali.
L’elettroencefalogramma (EEG) viene
richiesto per capire se siamo di fronte a
una forma di epilessia, per identificare la
sede da cui partono le scosse elettriche,
l’efficacia di una terapia e per valutare il
rischio di avere una nuova crisi. L’EEG
da solo non dice tutto quello che c’è da
sapere ma dev’essere integrato sempre
alla storia clinica e familiare del bambino. È un esame indolore e semplice: si
applica una cuffia con piccoli elettrodi in
testa e si registra in questo modo l’attività elettrica del cervello. A volte può
essere necessario effettuare questa registrazione durante il sonno del bambino.
Dopo una prima crisi epilettica è utile
effettuare subito un EEG, perché i risultati ottenuti sono più indicativi e precisi.
In alcuni casi, se la diagnosi è difficile
da effettuare, sono necessari esami come
la Tomografia Assiale Computerizzata
(TAC) o la Risonanza Magnetica Nuclea-
«Drago vago, serpe di mago Figlio e nipote di pesce di lago Dura, scura, nera paura Brutto fantasma di brutta figura… ».
B. Tognolini,
Filastrocca contro tutte le paure,
in Rime Raminghe, Salani 2013
re (RMN) per poter avere delle “fotografie” speciali del cervello.
Questi esami vanno prescritti se veramente necessari e su consiglio dello specialista.
Con l’epilessia bisogna assumere
farmaci per sempre?
No. Dopo la prima crisi epilettica si può
decidere di non assumere farmaci e
monitorare nel tempo l’eventuale ricorrenza della crisi. Non sempre è necessario assumere farmaci per tutta la vita; in
alcuni casi e per alcuni tipi di epilessie i
farmaci, dopo uno-due anni senza crisi,
vengono sospesi, sempre su decisione
dello specialista.
Qualora occorresse prendere una medicina per controllare le crisi epilettiche, sarà
necessario fare degli esami di laboratorio
per dosare i livelli del farmaco, regolarne
le dosi e monitorare gli effetti collaterali
della terapia.
Il bambino con epilessia
è meno intelligente?
Le crisi epilettiche non riducono l’intelligenza o le capacità di apprendimento; ci
sono farmaci per curare l’epilessia che
possono però avere effetti negativi sull’apprendimento scolastico; sarà lo specialista in questi casi a valutare ogni
situazione e a prescrivere, se necessario,
il farmaco più adatto.
Il bambino con epilessia potrebbe sentirsi umiliato dai compagni oppure i genitori potrebbero essere troppo protettivi
limitando le sue normali esperienze e
attività di gioco. Specie durante l’adolescenza questo può creare un disagio psicologico notevole.
Che cosa non può fare?
Al di fuori di sport estremi (alpinismo,
paracadutismo, automobilismo, motociclismo, pugilato, immersioni subacquee…) si può praticare ogni sport, sempre sotto la sorveglianza di un adulto.
Per praticare sport agonistici o ottenere la
patente di guida è invece necessaria una
valutazione dell’Autorità competente. u
Quaderni acp 2014; 21(3): 111-112
Sessione Comunicazioni orali
al XXV Congresso Nazionale
dell’Associazione Culturale Pediatri
Pubblichiamo quattro abstract di ricerche e casi clinici selezionati per la presentazione orale al XXV Congresso Nazionale dell’ACP.
Irradiazione medica in una popolazione
pediatrica con MICI: cosa stiamo facendo?
Giovanna Ventura, Floriana Zennaro, Mario de Denaro, F. Bulfone,
Andrea Taddio
IRCCS Materno-Infantile “Burlo Garofolo”, Trieste
Per corrispondenza: e-mail: [email protected]
Background Ci sono evidenze crescenti che l’esposizione a radiazioni ionizzanti a basse dosi aumenti il rischio di tumore. I bambini affetti da malattia infiammatoria cronica intestinale (MICI) rappresentano una popolazione pediatrica particolarmente esposta a
radiazioni ionizzanti.
Obiettivi Valutare la dose efficace cumulativa (CED) di una popolazione pediatrica affetta da MICI seguita presso un centro di riferimento.
Pazienti e metodi Si tratta di uno studio retrospettivo. Sono stati
selezionati per lo studio tutti i pazienti che hanno ricevuto diagnosi di MICI e sono stati seguiti presso la Clinica Pediatrica dell’IRCCS “Burlo Garofolo” dal 1996 al 2012. Sono stati raccolti il
numero e il tipo di indagini radiologiche irradianti l’addome. La
CED è stata stimata tenendo conto della tecnica radiologica e dello
strumento utilizzati, dell’epoca dell’esame e delle caratteristiche
del paziente.
Risultati preliminari Tra il 1996 e il 2012 sono stati diagnosticati
e/o presi in cura 373 casi di MICI a esordio pediatrico. Di questi,
206 (55%) non hanno fatto esami radiografici. I risultati si riferiscono quindi a 167 soggetti che hanno fatto esami radiologici (70
femmine, 97 maschi, età media alla diagnosi 10,5 anni, follow-up
medio 10 anni). Di questi, 148 pazienti avevano il morbo di Crohn
(CD), 19 la rettocolite ulcerosa (RCU). La CED media è risultata
13,52 mSv. I pazienti con CD hanno una CED media di 14,10 mSv,
quelli con RCU di 9,02 mSv. La dose di esposizione media nel
primo anno è pari al 42,2% della CED (5,71 mSv). TAC addome,
scintigrafia gastrointestinale, clisma opaco e serigrafia dell’intestino tenue hanno un peso relativo sulla CED rispettivamente di
42,8%, 19,7%, 9,2%, 14,1%.
Conclusioni e discussione Circa la metà dei nostri pazienti non è
mai stata sottoposta a esami irradianti. La dose efficace cumulativa
dei pazienti che hanno ricevuto radiazioni ionizzanti è risultata
inferiore rispetto a studi analoghi pubblicati in letteratura, mentre
sono sovrapponibili la distribuzione della dose per diagnosi (CD o
RCU) e il peso di ciascuna tecnica radiologica. Questo è probabilmente attribuibile alla specificità del nostro Centro e in particolare
ai fattori che portano a privilegiare indagini non irradianti (la radiologia pediatrica, la sedazione procedurale per le endoscopie, la
videocapsula senza studio fluoroscopico). Lo studio dimostra che la
popolazione di bambini affetti da MICI diagnosticata nel nostro
Centro è stata esposta a una dose di radiazioni moderata, secondo i
range di riferimento in letteratura. Si tratta di una irradiazione
importante, vista l’elevata probabilità di successiva irradiazione
diagnostica durante l’età adulta. Il maggiore utilizzo della RMN in
luogo della TAC nel prossimo futuro potrà ridurre ulteriormente
l’irradiazione dei pazienti con MICI seguiti presso il nostro Centro.
La dose di radiazioni già ricevuta dal paziente in età pediatrica
dovrebbe essere inclusa come informazione rilevante nel processo
di transizione dal pediatra al gastroenterologo dell’adulto.
Cosa complica una diagnosi
Elena Malpezzi, Valentina Decimi
Scuola di Specializzazione in Pediatria, AO “San Gerardo”,
Università di Milano-Bicocca, Monza
Per corrispondenza: e-mail: [email protected]
Caso clinico Descriviamo il caso di Marco, giunto alla nostra
osservazione a 8 mesi con una storia di rettorragia cominciata nel
periodo perinatale, quando veniva riscontrata una ragade perianale,
a cui si attribuiva l’origine del sanguinamento. A 6 mesi la ricomparsa del sintomo portava il bambino a due ricoveri, durante i quali
veniva riscontrata un’anemia microcitica. Nel sospetto di allergia
alle proteine del latte vaccino, veniva pertanto posta indicazione a
dieta con latte idrolisato, con scarsa compliance familiare, che ne
rendeva difficile la valutazione dell’efficacia. Visti prick test negativi e una sintomatologia sfumata e in regressione, dopo poche settimane veniva liberalizzata la dieta. Il nostro paziente manifestava
inoltre alterazioni rapide dello stato neurologico associate a ipertono e tachipnea, senza perdita di coscienza, quasi sempre in concomitanza di rialzi della curva termica: tali episodi venivano interpretati come crisi convulsive febbrili e trattati con diazepam endorettale. Marco viene ricoverato da noi dopo uno di questi episodi, trasferitoci dalla Terapia Intensiva (TI), dove era stato ricoverato per
episodio settico. Giunto alla nostra osservazione, notiamo un bambino in buone condizioni generali e con indici di flogosi in rapido
calo; soprattutto conosciamo la mamma, da cui risulta difficile ricostruire l’anamnesi, in quanto ci presenta dei racconti caotici nella
cronologia, incoerenti e dai quali sembra emergere che gli episodi
di convulsioni siano in realtà brividi in corso di rialzo termico e che
la rettorragia sia attribuibile a una ragade (tutt’ora presente), seguita da episodi di febbre e gastroenterite (coprocoltura positiva per
ADV). Dopo due settimane di degenza dimettiamo il piccolo, sereni del fatto che l’ematochezia appare risolta e che sia stato un caso
ingigantito da una famiglia inattendibile. Ma dopo tre giorni Marco
torna: ha ripreso a presentare rettorragia. Nelle settimane seguenti
il percorso diagnostico ricomincia: gli indici di flogosi fanno propendere per uno stato infiammatorio (PCR modesta, VES aumentata), la curva termica presenta picchi di febbre elevata, indipendenti
dalle terapie antibiotiche, la rettorragia è quasi costante. Una ileocolonscopia (MICI? Polipi intestinali? Diverticoli?) mostra un’ansa ileale con mucosa iperemica, edematosa, microerosa, con un
quadro istologico indicativo per lieve colite cronica aspecifica:
anche la dieta priva di proteine del latte vaccino, iniziata ex adiuvantibus, non porta ad alcun beneficio clinico. Dall’età di 9 mesi
però, iniziano a delinearsi più chiaramente episodi postprandiali di
verosimile “dolore addominale”, caratterizzati da sudorazione profusa e pianto: dopo aver eseguito un Rx del transito intestinale
(esclusi ostruzioni, volvolo, malrotazione), una scintigrafia intesti-
111
research letters
Quaderni acp 2014; 21(3)
nale (negativa per diverticolo di Meckel), ecografie seriate, in corso
degli episodi dolorosi, documentano un ispessimento di 3 mm dell’ultima ansa ileale con invaginazione del tratto a monte. Il successivo intervento in laparotomia evidenzia la presenza di un tratto di
ileo-cieco edematoso e tumefatto, facilmente sanguinante, che
viene asportato: un’angiomatosi diffusa all’istologia.
Conclusioni Gli angiomi intra-addominali sono neoplasie benigne
rare, che interessano prevalentemente bambini sotto i 2 anni. La diagnosi è spesso difficile: ecografia, TC e RMN, utili per la diagnosi di
angiomi di altre sedi, hanno bassa sensibilità. Il sanguinamento intestinale è talora l’unico “sintomo-guida” che conduce alla loro diagnosi.
con ecografia, e in caso di dubbi con RMN. Le immagini alla nascita possono costituire utile termine di paragone in caso di patologia
successiva o sovrainfezione. In caso di meningite atipica o ricorrente in un soggetto con fossetta spinale, la presenza di tramite
fistoloso va sempre sospettata e riconsiderata come causale, anche
in presenza di pregresso imaging negativo, soprattutto se effettuato
in epoca precoce. L’intervento chirurgico è solitamente preferibile
in elezione dopo risoluzione dell’acuzie infettiva, a meno di una
mancata risposta alla terapia medica che mette a rischio il paziente
di mortalità e morbilità a distanza per l’infezione protratta.
Meningite polimicrobica in bambina
con cisti dermoide intrarachidea infetta
Naire Sansotta, Orsiol Pepaj, Franco Antoniazzi
Unità Operativa di Pediatria, Università degli Studi di Verona
Per corrispondenza: e-mail: [email protected]
Federica Zucchetti*, V. Tono*, Francesco Canonico**,
Carlo Giussani***, Elena Sala*, Maria Luisa Melzi*
*Clinica Pediatrica, Fondazione MBBM, AO “San Gerardo”, Monza
**Unità di Neuroradiologia, AO “San Gerardo”, Monza
***UO di Neurochirurgia, AO “San Gerardo”, Monza
Per corrispondenza: e-mail: [email protected]
Caso clinico Presentiamo il caso di una bambina di 3 anni, ricoverata per sospetta spondilodiscite; la paziente presentava, al momento del ricovero, febbre da dieci giorni e dolore lombare. Da segnalare all’esame obiettivo angioma mediano lombosacrale con fossetta
lombare, indagato all’età di 6 mesi con risonanza con riscontro di
fossetta a fondo cieco, non in comunicazione con il sacco durale.
All’ingresso in reparto viene posta in terapia con cefazolina e vengono eseguiti radiografia del rachide dorso-lombare e del torace,
ecografia addome, ecocardiogramma e indici di flogosi: nella
norma. Per il persistere della sintomatologia e il peggioramento
delle condizioni cliniche, viene eseguita rachicentesi in terza giornata di ricovero con evidenza di pleiocitosi neutrofila, ipoglicorrachia e iperproteinorrachia. È stata quindi sospesa cefazolina sono
stati iniziati ceftriaxone e desametasone. Durante la terapia steroidea apiressia, rachialgia e rigor persistenti. Per il riscontro di positività liquorale per Enterococcus faecalis e per la ripresa della febbre
viene aggiunta alla terapia vancomicina, poi sostituita da ampicillina e amikacina, sospendendo ceftriaxone, senza beneficio. Alla
rachicentesi ripetuta in quarta giornata il liquor è in peggioramento,
positivo per Proteus mirabilis ed enterovirus: viene quindi modificata la terapia associando linezolid ad ampicillina e gentamicina,
sospendendo amikacina. Per il quadro inedito e la presenza di fossetta sacrale è stata effettuata una risonanza del rachide nel sospetto
di focolaio occulto; le immagini, confrontate con la RMN effettuata
a 6 mesi di vita, hanno permesso di evidenziare una raccolta ascessuale intrarachidea a partenza dalla fossetta lombare, con indicazione a eseguire evacuazione chirurgica della stessa. In sede di intervento riscontro di tratto di seno dermico a partenza dalla fossetta
lombare esteso fino a livello durale. All’incisione della dura, fuoriuscita di liquor purulento e riscontro di voluminosa cisti dermoide
a prosecuzione dal seno dermico. Il decorso post-operatorio è stato
regolare con sfebbramento, normalizzazione della clinica e degli
esami ematici. Dopo l’intervento sospesa terapia con ampicillina e
gentamicina, sostituita con meropenem, associato a linezolid per tre
settimane. È stato inoltre proseguito desametasone a basso dosaggio
per dieci giorni a scopo antiedemigeno. Nel post-ricovero la bambina ha eseguito visita fisiatrica, audiometria e test di sviluppo intellettivo per il follow-up di eventuali sequele. Attualmente la bambina è in buone condizioni di salute e non presenta esiti di malattia.
Conclusioni In presenza di anomalie cutanee suggestive di malformazione spinale occulta è opportuno effettuare accertamenti strumentali e valutazione neurochirurgica alla nascita in prima battuta
112
La sete passa, ma…
Caso clinico Francesca è una ragazzina di 11 anni e 8 mesi che
giunge presso il nostro ambulatorio di Endocrinologia pediatrica
per arresto di crescita (< 3º percentile), calo ponderale di 5 kg negli
ultimi cinque mesi, in recente quadro diagnosticato come potomania. Anamnesi patologica remota poco significativa: lieve prematurità (32 settimane) senza esiti, due-tre episodi di infezioni delle vie
urinarie nei primi anni di vita, non associati a malformazioni. Un
anno prima, comparsa di polidipsia (assume circa 4 litri al giorno)
e poliuria (riferite 8-9 minzioni). Per tale motivo, è stata ricoverata
presso altra sede dove era sottoposta a esami ematochimici (osmolarità plasmatica 290 mOsm/kg, osmolarità urinaria 347 mOsm/kg)
e test dell’assetamento che ha documentato un incremento della
concentrazione urinaria con parametri laboratoristici di osmolarità
sierica e ioni sempre entro i range di normalità. I valori di ormone
antidiuretico (ADH) risultavano indosabili, ma venivano interpretati come secondari a eccesso di introito di liquidi. Viene posta diagnosi di potomania e consigliata restrizione idrica (1,5 l/die).
Francesca ci racconta che ora pratica la restrizione idrica senza particolare sofferenza, ma perde peso, anche se il suo appetito le sembra normale e lamenta cefalea frontale a frequenza plurisettimanale. Alla nostra visita si presenta in buone condizioni generali, a
eccezione di un aspetto pallido, occhi alonati e un’alopecia areata
già in terapia topica. Si pensa: patologia ipofisaria (deficit di ormone della crescita = GH, diabete insipido parziale) o potomania con
disturbo dell’alimentazione? Agli accertamenti emato-chimici: profilo biochimico nella norma a eccezione di lieve ipovitaminosi D,
assetto tiroideo, assetto ormonale (ACTH, cortisolo, FSH, LH,
HPRL) e ioni nella norma (Na 141 mEq/l). Al carico di arginina si
evidenzia deficit di GH (picco 3,8 mg/l). Esame urine: ps 1004, pH
5,5, resto nella norma; volume urinario: 2500 ml/24 ore (80
ml/kg/24 ore); osmolarità plasmatica: 288 mOsm/kg/H2O; osmolarità urinaria: 161 mOsm/kg/H2O e ADH: in corso. Sottoponiamo
pertanto Francesca a RMN encefalo e ipofisi che mostra una
neoformazione della cavità sellare di 26 x 22 mm con coinvolgimento del seno cavernoso, chiasma ottico e recesso sovra-ottico del
terzo ventricolo. Alla scansione TAC encefalo non si evidenziano
calcificazioni: pertanto i radiologi concludono per verosimile macroadenoma ipofisario. Sottoposta a intervento chirurgico di resezione transfenoidale per via endoscopica nasale, Francesca inizia
terapia sostitutiva (idrocortisone, levotiroxina e desmopressina).
Ma la sua storia non finisce qui! All’esame istologico si evidenzia
germinoma cerebrale e intanto arrivano i risultati dell’ADH: concentrazione indosabile. Dovrà essere sottoposta a chemioterapia.
Ma quel test di assetamento era veramente negativo o si trattava già
di diabete insipido parziale? Attenzione perché, se dopo deprivazione di fluidi, l’osmolarità urinaria è < 300 mOsm/kg può essere
posta diagnosi di diabete insipido, se invece questa è compresa tra
300 e 750 mOsm/kg può essere potomania, ma anche diabete insipido parziale! u
Quaderni acp 2014; 21(3): 113-117
Coppie infertili, procreazione medicalmente
assistita e salute infantile
Pierpaolo Mastroiacovo, Carlo Corchia
ICBD, Alessandra Lisi International Centre on Birth Defects and Prematurity, Roma
La procreazione medicalmente assistita (PMA) è un atto medico ed è quindi necessario conoscerne i vantaggi e soprattutto i rischi,
secondo il dettato “primum non nocere”. Il contributo pubblicato in questo numero di Quaderni è, per l’appunto, focalizzato sui
rischi della PMA per la salute infantile e integra da una prospettiva diversa i precedenti due interventi, che si muovevano nella
sfera del sentire comune e del diritto. Gli Autori sono Pierpaolo Mastroiacovo e il sottoscritto. Nel frattempo, l’8 aprile scorso c’è
stato un altro pronunciamento della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’incostituzionalità della legge 40 per la parte che
riguarda la fecondazione eterologa. Questo è il comunicato stampa della Corte: “La Corte Costituzionale, nell’odierna Camera di
Consiglio, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 4, comma 3, 9, commi 1 e 3 e 12, comma 1, della Legge 19 febbraio 2004, n. 40, relativi al divieto di fecondazione eterologa medicalmente assistita”. Il Forum sulla PMA sta per terminare. I
vostri commenti possono essere inviati collegandosi al sito di Quaderni (www.quaderniacp.it) e cliccando su “invia un articolo o
scrivi alla redazione”, oppure direttamente al mio indirizzo di posta elettronica ([email protected]).
Carlo Corchia
La procreazione medicalmente assistita
(PMA) è un atto medico, nel quale vengono impiegate tecnologie, procedure,
conoscenze e professionalità. Come per
ogni atto medico è necessario conoscerne vantaggi e rischi.
In questo articolo ci occuperemo dei
rischi, cioè dei possibili esiti sfavorevoli
associati alla PMA in generale e, in particolare, alle tecniche di riproduzione
assistita (Artificial Reproductive Techniques, ART), che comprendono essenzialmente la fecondazione in vitro (IVF) e la
iniezione intracitoplasmatica di spermatozoo (ICSI).
I rischi della procreazione assistita,
soprattutto per i feti e i bambini, sono
stati oggetto di attenzione crescente da
quando, nel 1978, nacque nel Regno
Unito la prima neonata concepita con
IVF. L’interesse è motivato: a) dal fatto
che con le ART i gameti sono manipolati al di fuori dell’apparato riproduttivo
materno; b) dalla diffusione di sempre
nuove tecniche di prelievo e di conservazione degli stessi gameti, di modalità di
fecondazione, conservazione e trasferimento degli embrioni.
In questo articolo viene illustrato lo stato
attuale delle conoscenze su tali aspetti,
ricorrendo ai risultati delle revisioni
sistematiche e dei grandi studi di coorte
più recenti pubblicati nella letteratura in
lingua inglese. In via preliminare vengono fatte alcune brevi considerazioni
metodologiche, allo scopo di rendere più
chiari i termini del problema e di facilitare l’interpretazione dei risultati delle
ricerche.
Considerazioni metodologiche
Quando studi diversi confermano la presenza di un’associazione tra un fattore di
rischio e un esito, occorre sempre escludere la possibilità che si tratti di un’associazione spuria derivante da confondimento o bias. Nel nostro caso l’età della
coppia, il suo stato socio-economico, la
durata del periodo di infertilità e i motivi
dell’infertilità (confondimento da indicazione) sono variabili confondenti; è fondamentale pertanto includerle nel piano
di rilevazione per poterle poi prendere in
considerazione nell’analisi dei dati. I
bias provocano distorsioni nella stima
della direzione e della forza delle associazioni, cioè dei Rischi Relativi (RR) e
degli Odds Ratios (OR). Alcuni esempi
sono i bias da ricordo (recall bias) e
soprattutto, per quel che riguarda la
PMA, i bias da accesso ai servizi sanitari e quelli da sorveglianza o da attenzione medica. Poiché le persone che si rivolgono alla fecondazione assistita tendono
a utilizzare i servizi sanitari di più e
meglio del resto della popolazione, questo può influire positivamente sugli esiti
perinatali, riducendo la differenza di
rischio tra i due gruppi. Al contrario, la
sorveglianza e l’accertamento degli esiti
possono essere migliori in caso di PMA,
con aumento della frequenza dei problemi diagnosticati e, di conseguenza, del
differenziale di rischio rispetto a chi ha
avuto una gravidanza naturale. Se i vari
bias non vengono previsti in fase di progettazione dello studio e non se ne tiene
conto nella raccolta dati, i risultati delle
ricerche possono essere più o meno
viziati, e sarà impossibile conoscere l’entità della distorsione ed effettuare correzioni in fase di analisi.
È necessario, inoltre, chiedersi che cosa
della PMA contribuisce all’aumento di
rischio: i farmaci impiegati, le procedure
di laboratorio, la manipolazione degli
embrioni, la fisiologia materna, le caratteristiche materne e paterne? Alcune di queste variabili sono veri e propri confondenti, altre sono variabili intermedie nella
catena causale che va dal motivo che induce a richiedere la fecondazione assistita
(infertilità o altro) agli esiti in gravidanza
e per i bambini. Non tenerne conto non è
d’aiuto per la ricerca che mira ad aumentare le possibilità di successo della PMA
riducendo i rischi, anche attraverso modifiche delle tecniche impiegate [1]. Quando
non esistono sistemi di sorveglianza e follow-up specificamente disegnati per studiare in modo approfondito questi aspetti,
spesso vengono utilizzati registri e basi di
dati creati per altri scopi [2]. In Italia, il
Registro Nazionale della Procreazione
Medicalmente Assistita raccoglie i dati dei
Centri di PMA in forma aggregata, con
l’obiettivo di valutare le percentuali di
successo, e solo poche informazioni sulle
caratteristiche dei neonati al momento del
parto, in particolare sulla prematurità [3].
In mancanza di record-linkage individuali
tra i dati del registro e quelli di morbosità,
mortalità e follow-up, nessuna indagine
approfondita è, pertanto, possibile.
Gli studi della letteratura sono prevalentemente retrospettivi, spesso usano differenti definizioni per l’esposizione e per
gli esiti, possono avere popolazioni di
Per corrispondenza:
Pierpaolo Mastroiacovo
e-mail: [email protected]
forum
113
forum
controllo inappropriate, frequentemente
sono di dimensioni ridotte e solo recentemente hanno iniziato a presentare dati di
follow-up a distanza [4]. Tutto ciò non
agevola l’analisi e l’interpretazione dei
loro risultati.
Gravidanze plurime
Le gravidanze plurime rappresentano la
“complicanza” più frequente della PMA;
la loro quota è in relazione col numero di
embrioni trasferiti. In Italia i parti plurimi dopo PMA costituiscono circa il 18%
del totale*. La maggior parte dei nati plurimi dopo fecondazione assistita è dizigote e origina dal trasferimento multiplo
di embrioni. Vi è comunque anche una
quota di monozigoti, compresa tra l’1% e
il 5% dei casi di ART; tale frequenza è
più elevata di quanto si riscontra nella
popolazione generale (0,4%) e appare
essere in relazione con alcune particolari
tecniche di coltura in vitro e di trasferimento di blastocisti [2].
Il problema dei parti plurimi è sostanzialmente quello della prematurità e dei
rischi a essa associati [5]. In Europa il
tasso di prematurità nei nati da gravidanza plurima varia dal 42% al 78%, e la
proporzione di tutti i nati pretermine
attribuibile alla pluralità è compresa tra il
17% e il 27% [6]. In Italia la quota di
pretermine fra i gemelli e i nati da gravidanze plurime dopo ART è rispettivamente del 46% e dell’84%, mentre, come
è noto, la frequenza di prematurità nella
popolazione generale è intorno al 7% [3].
La gravidanza gemellare dopo IVF o
IVF/ICSI comporta, rispetto alla gravidanza gemellare naturale, un aumento
del 23% del rischio di prematurità; l’incremento di rischio è ancora più elevato
(+63%) per la nascita a età gestazionali
(EG) <32-33 sett. [7]. Per quanto a parità
di EG i nati pretermine da gravidanza
plurima dopo PMA non siano maggiormente affetti da problemi neonatali di
quelli concepiti naturalmente, i nati pretermine sono comunque ad alto rischio di
esiti sfavorevoli [8]. L’azione più efficace per ridurre la probabilità di questi esiti
è prevenire la nascita pretermine e quindi, nel caso della PMA, evitare che una
gravidanza gemellare o plurima abbia
inizio, in particolare mediante norme e
procedure che consentano il trasferimento in utero di non più di uno-due embrioni per volta [2].
114
Quaderni acp 2014; 21(3)
CHE
NE PENSI?
In questo articolo abbiamo scelto di presentare i valori di incremento o diminuzione
di rischio come percentuale e senza intervallo di confidenza al 95%, essendo tutti statisticamente significativi, cioè con intervallo di confidenza che non include l’unità. Per
esempio abbiamo espresso un OR o RR di 1,47 (IC 95%: 1,23-1,61) come “incremento del rischio del 47%” oppure (+47%). Questa scelta tende a una maggiore
immediatezza e semplicità del messaggio. Non ne siamo convinti del tutto. Voi che ne
pensate? Scrivete al Direttore della Rivista o al curatore della rubrica.
TABELLA 1: INCREMENTO DI RISCHIO DI ESITI OSTETRICI E PERINATALI ASSOCIATI A
FECONDAZIONE ASSISTITA IN GRAVIDANZE SINGOLE
Autori
Esiti
Incremento %
di rischio
Pandey S, et al. 2012 [9]
Emorragia ante-partum
Ipertensione in gravidanza
Diabete gestazionale
Limitazione di crescita in utero
PROM
Parto pretermine
Anomalie congenite
Travaglio indotto
Taglio cesareo
Mortalità perinatale
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
McDonald S, et al. 2009 [10]
Nascita a 32-36 sett. EG
Nascita < 32-33 sett. EG
+ 052
+ 127
Schieve LA, et al. 2007 [11]
Incompetenza cervicale
Placenta previa
Distacco di placenta
+ 500
+ 280
+ 280
Henriksson P, et al. 2013 [12]
Tromboembolia venosa
Embolia polmonare (1º trimestre)
+ 077
+ 597
149
049
048
039
016
054
067
018
056
086
TABELLA 2: INCREMENTO DI RISCHIO DI DIFETTI CONGENITI ASSOCIATI A TECNICHE DI
FECONDAZIONE ASSISTITA (ART)
Autori
Esiti
Wen J, et al. 2012 [14]
Tutti i difetti
Sistema nervoso
Sistema genitourinario
Apparato digerente
Sistema circolatorio
Sistema muscoloscheletrico
Occhio, orecchio, faccia e collo
+
+
+
+
+
+
+
037
101
069
066
064
048
043
Reefhuis J, et al. 2009 [15]
(gravidanze singole)
Difetti cardiaci settali
Labioschisi
Atresia esofagea
Atresia ano-rettale
+
+
+
+
110
140
350
270
Halliday JL, et al. 2010 [16]
(gravidanze singole)
Difetti della blastogenesi, IVF/ICSI
IVF
ICSI
Tecniche a fresco
Congelamento
+ 180
+ 224
+ 133
+ 265
+ 060*
* Non statisticamente significativo
Incremento %
di rischio
forum
Gravidanze singole
ed esiti ostetrici e perinatali
Un aumento di rischio di esiti ostetrici e
perinatali associati a PMA è stato riscontrato soprattutto nelle gravidanze singole
(tabella 1).
In una metanalisi di 30 studi di coorte, la
fecondazione con IVF/ICSI è risultata
associata a incrementi di rischio da un
minimo del 16% per la rottura prematura
delle membrane (PROM) a un massimo
del 149% per l’emorragia ante-partum.
L’aumento di probabilità di nascita pretermine è risultato del 50% circa [9].
Stime simili, tratte da altre tre revisioni
sistematiche, erano state presentate in
uno studio precedente [5].
In un’altra revisione sistematica, che ha
preso in esame l’effetto dell’IVF sulla
prematurità nelle gravidanze singole,
l’incremento di rischio è risultato tanto
più alto quanto più bassa era l’EG [10].
In uno studio di popolazione su gravidanze singole nel Massachusetts, un
aumento di rischio è stato osservato
anche per incompetenza cervicale, placenta previa e distacco di placenta [11].
In uno studio svedese in cui le donne
erano state accoppiate per età e anno di
osservazione è stato riscontrato un
aumento di rischio per problemi tromboembolici venosi associato a IVF
durante tutto l’arco della gravidanza ma
soprattutto nel primo trimestre. Nello
stesso studio è risultato notevolmente
aumentato anche il rischio di un esito
raro come l’embolia polmonare, ma solo
nel primo trimestre di gravidanza [12].
Le cause dell’aumento di frequenza di
esiti ostetrici e perinatali in caso di IVF
nelle gravidanze singole non sono ancora
chiare. In uno studio che ha utilizzato i
dati di un registro nazionale di IVF, la primiparità, il fumo, il BMI elevato e la presenza di un “gemello evanescente” erano
associati a rischio aumentato di nascita
prima di 32 sett.; l’età materna, la primiparità, il fumo, il BMI elevato e gli anni di
infertilità erano associati a limitazione di
crescita in utero; il rischio di placenta previa era aumentato in presenza di età
materna avanzata e di trasferimento di
blastocisti, e diminuito in caso di primiparità; il distacco di placenta, infine, era
associato al fumo in gravidanza [13].
Difetti congeniti
Un rischio aumentato di avere bambini
con difetti congeniti dopo IVF o ICSI è
Quaderni acp 2014; 21(3)
stato confermato in una metanalisi di 46
studi, con un incremento medio del 37%
[14]. La relazione era presente per tutte
le categorie di difetti, con aumento massimo del 101% per i difetti del sistema
nervoso e minimo del 43% per quelli di
occhio, orecchie, faccia e collo. Nello
stesso studio nessuna differenza è emersa tra IVF e ICSI (tabella 2).
Il rischio sembra aumentare in particolare
per alcuni difetti. Da una analisi dei dati
delle gravidanze singole del National
Birth Defects Prevention Study statunitense è stata osservata un’associazione tra
ART e i difetti cardiaci settali, la labioschisi con o senza palatoschisi, l’atresia esofagea e l’atresia ano-rettale [15].
Dai dati di un registro australiano di
popolazione l’impiego di ART (IVF e
ICSI) è risultato soprattutto associato a un
aumento di rischio dei cosiddetti difetti
della blastogenesi [16]. Si tratta di difetti
gravi che originano nelle prime 4 settimane dal concepimento e che comprendono,
tra quelli più noti, i difetti della parete
addominale, i difetti di segmentazione
vertebrale, la fistola tracheo-esofagea, i
difetti del diaframma, i difetti del tubo
neurale, l’atresia ano-rettale, l’agenesia
renale, la sindrome di regressione caudale
e il teratoma sacro-coccigeo. Nelle gravidanze singole l’incremento di rischio è
risultato di +180% per tutte le ART insieme, di +224% per l’IVF e di +133% per
l’ICSI. Sempre nello stesso studio e sempre per i difetti della blastogenesi l’aumento di rischio era collegato soprattutto
all’impiego di tecniche a fresco (+265%),
mentre era inferiore e statisticamente non
significativo in caso di trasferimento di
embrioni congelati (+60%).
Da segnalare, infine, l’aumento di rischio, a seguito di ART, di fenotipi da
imprinting, come le sindromi di SilverRussell, di Beckwitt-Wiedemann e di
Angelman, anche se la frequenza complessiva di questi difetti, a seguito di
ART, rimane comunque bassa, inferiore
a 1:5000 [17]. I motivi che provocano
l’incremento di rischio non sono ancora
chiari, ma è probabile che possano essere collegati a modifiche epigenetiche
durante le primissime fasi di sviluppo
dell’embrione, momento in cui l’epigenoma è altamente vulnerabile [18].
Tecniche di riproduzione assistita
o infertilità?
La domanda più rilevante è se l’aumento
dei rischi ostetrici, perinatali e per difetti
congeniti, sia dovuto alle tecniche di
riproduzione assistita o a fattori parentali collegati all’infertilità. Usualmente si
parla di infertilità in assenza di concepimento dopo un anno o più di rapporti
sessuali non protetti, ma le definizioni
sono eterogenee, anche per gli studi
inclusi nelle metanalisi.
In uno studio di coorte in Sud Australia
l’aumento di rischio di difetti congeniti
in gravidanze singole derivanti da PMA
a confronto con gravidanze naturali in
donne senza storia di infertilità è risultato pari al 28%; un aumento di rischio è
stato rilevato per l’ICSI in caso di uso di
tecniche a fresco, non per l’impiego di
embrioni congelati, mentre per l’IVF non
è stata rilevata alcuna differenza [19].
Un’associazione con un rischio aumentato di difetti congeniti è stata anche osservata per tutti gli altri metodi di fecondazione assistita, in particolare per l’uso
isolato del clomifene (+219%). Nel caso
di gravidanze spontanee in donne che
avevano avuto un precedente figlio con
concepimento assistito e in donne con
documentata storia di infertilità ma che
non avevano fatto ricorso a PMA il
rischio era aumentato rispettivamente del
26% e del 37%. Questi risultati confermano quelli di un precedente studio
danese e dimostrano che i fattori collegati all’infertilità hanno un ruolo indipendente, rispetto alle tecniche di PMA, nell’aumento di rischio di difetti congeniti,
anche se, come sottolineano gli stessi
Autori, non si può escludere la presenza
di confondimento residuo per variabili
non rilevate dai registri, come per esempio l’uso di clomifene [20].
Il congelamento potrebbe svolgere il suo
“effetto protettivo” sullo sviluppo di
difetti congeniti attraverso la selezione
degli embrioni “migliori” e più vitali;
alternativamente o in aggiunta, le tecniche a fresco potrebbero compromettere
la recettività endometriale, e quindi
l’ambiente endouterino, in conseguenza
dell’esposizione alle alte dosi di ormoni
utilizzate prima del prelievo degli ovociti, i quali, una volta fecondati, vengono
immediatamente trasferiti in utero [16].
Il trasferimento di embrioni conservati
con tecniche di congelamento, piuttosto
che l’impiego di tecniche a fresco, comporterebbe anche un rischio inferiore di
altri esiti perinatali, quali prematurità e
crescita fetale limitata, come sembrano
indicare i risultati di uno studio di popo115
forum
lazione retrospettivo effettuato in Danimarca, Norvegia e Svezia [21]. L’associazione tra ART e prematurità, basso
peso, limitazione di crescita in utero e
mortalità perinatale è stata riscontrata
anche in uno studio di coorte norvegese
in gravidanze singole indipendentemente
dall’impiego di tecniche a fresco [22]. In
una metanalisi di 14 studi, inoltre, il rischio combinato e aggiustato di parto
pretermine in caso di lungo intervallo
temporale, non meglio definito dagli
Autori, prima dell’inizio naturale di una
gravidanza desiderata è risultato aumentato del 38%. [23]. Gli Autori concludono che i rischi delle tecniche di PMA non
potranno essere adeguatamente valutati
fino a quando non saranno chiariti gli
effetti dell’infertilità e di tutti i fattori a
essa connessi.
In un’altra metanalisi di 65 studi in gravidanze singole, se il periodo di infertilità
era stato >1 anno, il rischio di parto pretermine associato a IVF/ICSI a confronto
di gravidanze iniziate spontaneamente è
risultato aumentato del 55%; se il periodo
di infertilità era stato <1 anno, l’incremento (+45%) di prematurità era presente
quando il concepimento era avvenuto
dopo l’uso di induttori dell’ovulazione
e/o inseminazione intrauterina [24]. Il
rischio è risultato aumentato (+27%) in
caso di impiego di IVF/ICSI in madri che
avevano avuto anche un’altra gravidanza
insorta spontaneamente. Una riduzione
del rischio si è osservata per l’ICSI a confronto con l’IVF (-20%) e quando erano
stati impiegati embrioni congelati invece
che ottenuti con tecniche a fresco (-15%).
Pertanto, nonostante l’infertilità sia un
fattore di rischio indipendente di nascita
pretermine, l’incremento di rischio derivante dall’uso della PMA sembra essere
reale ed è probabilmente in relazione
anche con le tecniche impiegate, in particolare con l’uso di induttori dell’ovulazione e di tecniche a fresco con lunghi
periodi di coltura.
Effetti a distanza
I risultati delle indagini sugli esiti a
distanza nei nati da PMA vanno analizzati e interpretati con cautela. Alcuni piccoli studi di follow-up suggeriscono un
possibile aumento della frequenza di
ipertensione, iperglicemia a digiuno,
aumento del grasso corporeo, età ossea
avanzata e disordini subclinici della
tiroide nei bambini e adolescenti nati con
IVF [25]. È probabile comunque che la
116
Quaderni acp 2014; 21(3)
relazione non sia di tipo causale ma
dovuta all’associazione con altre variabili confondenti legate alla PMA, come
quelle cui abbiamo già accennato nelle
considerazioni metodologiche.
Da oltre un decennio diversi studi hanno
riscontrato un aumento di rischio di paralisi cerebrale (PC) nei nati da fecondazione assistita. In uno dei più recenti,
effettuato in Australia e nel quale sono
stati esclusi i casi di malattia originatisi
in periodo post-natale, è stato riscontrato
un aumento di PC nei nati da gravidanza
singola pari al 120% [19]. È stato ipotizzato che tale incremento possa essere
dovuto alla più alta frequenza di prematurità, di gravidanze plurime e di casi di
“gemelli evanescenti” nei nati con fecondazione assistita, oltre che a fattori legati all’infertilità. In effetti, nell’indagine
australiana appena citata, il risultato non
era stato aggiustato per EG. In uno studio
danese che ha utilizzato i dati di una
coorte nazionale di nati e quelli del registro nazionale delle PC, nessun incremento di rischio di PC è stato riscontrato
in relazione alla durata del periodo precedente l’inizio naturale della gravidanza; in caso di IVF/ICSI, invece, l’incremento di rischio, aggiustato per EG e
gemellarità, è risultato pari al 130% [26].
Non è possibile pertanto escludere che le
ART comportino, indipendentemente da
altri fattori, un aumento della probabilità
di sviluppare PC nei bambini concepiti
per mezzo di queste tecniche.
Una revisione sistematica di 80 studi ha
preso in esame gli esiti cognitivi e comportamentali, lo sviluppo emotivo e psicomotorio e la presenza di malattie mentali [27]. Al momento e nonostante i
limiti di molti studi inclusi nella revisione, si può ritenere che lo sviluppo neuroevolutivo dopo concepimento con
ART sia nel complesso sovrapponibile a
quello che si osserva in caso di concepimento naturale. In un altro studio, gli
stessi Autori di questa revisione, utilizzando i dati del registro danese e tenendo
in considerazione anche variabili in relazione con le condizioni sociali, non
hanno riscontrato alcuna relazione tra
problemi mentali e IVF o ICSI; hanno
invece osservato un aumento di rischio
associato all’uso di induttori dell’ovulazione, con o senza successiva inseminazione, per quel che riguarda problemi
mentali nel complesso (+20%), disordini
dello spettro autistico (+20%), disturbi
ipercinetici (+23%), disturbi della con-
dotta, emotivi e sociali (+21%) e presenza di tic (+51%) [28]. Secondo osservazioni per ora limitate, e che pertanto richiedono conferme da studi metodologicamente ben condotti, è stato anche
riscontrato un aumento della frequenza di
depressione e di tendenza ad abuso di
alcol in giovani adulti nati dopo IVF [29].
In base ai risultati di una metanalisi di 25
studi, i bambini nati dopo trattamenti per
l’infertilità hanno un rischio aumentato di
cancro in generale (+33%), di tumori
linfoemopoietici (+59%), di tumori del
sistema nervoso (+88%) e di altri tumori
solidi (+119%). Per quel che riguarda particolari tipi di tumori, il rischio è più elevato per leucemie (+65%), neuroblastoma
(+304%) e retinoblastoma (+62%) [30].
Anche in questo caso, tuttavia, le conclusioni degli Autori sono che i risultati non
escludono la possibilità che all’aumento
di rischio contribuiscano, in parte o totalmente, fattori legati all’infertilità. Dall’analisi dei dati del registro svedese delle
nascite è stata riscontrata un’associazione
persino tra asma in età pediatrica e IVF;
tale associazione, tuttavia, scompare se
nell’analisi si tiene conto della durata del
periodo di infertilità [31].
Infine, cosa si può dire?
Nonostante i limiti metodologici degli
studi e pur tenendo conto dell’infertilità e
dei molti fattori ancora sconosciuti a essa
collegati, l’associazione tra la PMA e il
rischio di esiti perinatali e in età pediatrica sembra essere reale. Vanno ricordati, in
particolare, alcune complicanze della gravidanza, la gemellarità, la prematurità,
certi difetti congeniti, la mortalità perinatale. Al momento non si può del tutto
escludere che vi sia un aumento di rischio
anche per problemi e patologie dell’età
pediatrica, fra cui problemi neurologici e
neuroevolutivi e malattie tumorali.
Peraltro, parlare in generale dei rischi
della PMA è poco informativo e di scarsa utilità. L’uso di induttori dell’ovulazione da soli o associati a inseminazione
intrauterina, il trasferimento di embrioni
a fresco e le colture embrionali prolungate appaiono le tecniche che più di altre
comportano un rischio maggiore di esiti
sfavorevoli. Che cosa poi sia responsabile a livello biologico e molecolare dell’incremento di rischio è ancora oggetto
di studio e di ipotesi [32]; come abbiamo
visto per alcune patologie, è possibile vi
contribuiscano anche fattori epigenetici e
forum
QUALI
SONO GLI ASPETTI SALIENTI DI CUI
ABBIAMO PARLATO?
La PMA, indipendentemente dai fattori legati all’infertilità di coppia, si
associa a un rischio aumentato di
alcuni esiti perinatali, in particolare
prematurità e difetti congeniti e, forse,
anche di patologie in età pediatrica. Il
fattore di rischio più rilevante è rappresentato dalle gravidanze gemellari
e plurime. Fra le tecniche, quelle maggiormente associate a esiti sembrano
essere l’uso di induttori dell’ovulazione e le tecniche a fresco. Molti sono
ancora i fattori non completamente
noti responsabili dei rischi associati
alla PMA, tra cui fenomeni epigenetici e di imprinting genomico.
legati all’imprinting genomico [1]. È
fuor di dubbio che la più efficace misura
preventiva per ridurre la probabilità di
esiti negativi legati alla PMA è quella di
evitare, per quanto possibile, le gravidanze plurime [33].
In questo intervento nel Forum sulla PMA
si è solo parlato di associazioni e di incremento di rischio, per cercare di fornire
delucidazioni in merito alle eventuali
relazioni causali tra i metodi impiegati e
gli esiti. Altri due aspetti sono tuttavia
fondamentali. I risultati delle ricerche
devono prima di tutto essere utilizzati per
informare le persone che si rivolgono alla
fecondazione assistita. A questo scopo è
necessario tener conto non solo dei rischi
relativi, ma conoscere anche la frequenza
di base dell’esito in questione; solo così,
infatti, è possibile fornire una stima dell’incremento assoluto di rischio. In secondo luogo, gli stessi risultati possono essere utilizzati per conoscere l’impatto della
PMA sulla popolazione nel suo complesso; per questo, tuttavia, è necessario non
solo conoscere la frequenza di base degli
esiti e stimare il rischio relativo legato
all’esposizione, ma anche sapere la quota,
sul totale, della popolazione esposta.
Tutto ciò si può ottenere solo disponendo
di registri con informazioni quanto più
complete possibili sulle donne che si
rivolgono alla PMA, sulle tecniche impiegate e sugli esiti perinatali e a lungo termine dei bambini nati con questi metodi,
con possibilità di analizzare i dati individuali, ancorché resi anonimi, e non solo in
forma aggregata. In Italia, purtroppo, date
le regole e la legislazione vigente sull’uso
dei dati sanitari, è molto difficile fare
ricerca in questo campo. u
Bibliografia
La bibliografia è disponibile nella versione online.
* Ministero della Salute. Relazione del Ministro
della Salute al Parlamento sullo stato di attuazione
della Legge contenente norme in materia di procreazione medicalmente assistita. Roma 2013.
CANDIDATURE PER IL CONSIGLIO DIRETTIVO
da votare al prossimo Congresso ACP - 2014
Pubblichiamo i nomi e i curricula dei candidati al Consiglio direttivo ACP pervenuti in
tempo utile per le scadenze della rivista. Si ricorda ai soci che può essere votato qualsiasi
socio ACP, anche non ufficialmente candidato, purché iscritto da almeno un anno.
LAURA DELL’EDERA Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1979, Specializzazione in
Puericultura nel 1982, perfezionata in Neonatologia nel 1985, presso l’Università degli
Studi di Bari. Pediatra di famiglia presso la ASL BA nel Comune di Rutigliano (BA).
Animatore di formazione. Iscritta all’ACP dal 1996, vicepresidente dell’ACP Puglia e
Basilicata dal 2007 al 2009, ha collaborato alla organizzazione di numerosi corsi per
il Gruppo ed è stata fino al 2010 webmaster del sito dell’ACP Puglia e Basilicata.
Attualmente impegnata in veste di pediatra nell’ambito degli incontri del Percorso
Nascita presso il Consultorio di Rutigliano. Tutor incaricato nella Scuola di Specializzazione di Pediatria dell’Università di Bari. Interessi: sostegno e promozione dell’allattamento al seno, approfondimenti in tema di maltrattamento e abuso sui minori.
DANIELE DE BRASI Nato a Napoli il 30-1-1965. Laureato in Medicina e Chirurgia
presso l’Università di Napoli “Federico II” nel 1989. Dal 1989 al 1993 ha svolto il
Corso di specializzazione in Genetica medica presso l’Università “La Sapienza” di
Roma e ha frequentato la Struttura di Genetica medica dell’Università Cattolica del
Sacro Cuore di Roma. Nel 1992 ha esercitato attività di ricerca presso il laboratorio
dell’Institute of Cancer Research - Columbia University, a New York. Successivamente
ha frequentato il Corso di formazione in Biotecnologie avanzate presso il CEINGE
(Centro di Ingegneria genetica) di Napoli fino al 1993. Ha quindi conseguito la
Specializzazione in Pediatria presso l’Università “Federico II” di Napoli e successivamente il Dottorato di ricerca in Scienze pediatriche XIV ciclo presso il Dipartimento di
Pediatria della stessa Università. Attività ospedaliera pediatrica in qualità di dirigente medico a tempo indeterminato nel 2001. Attualmente svolge attività di reparto
presso l’Unità complessa di Pediatria sistematica dell’Ospedale pediatrico “Santobono” di Napoli. Svolge, inoltre, attività di consulenza di Genetica clinica presso i
reparti dell’AO Santobono-Pausilipon ed è responsabile dell’ambulatorio e del Day
Hospital aziendale dedicato ai bambini con malattie genetiche. È docente di Genetica
del Corso di Laurea in Infermieristica pediatrica dell’Università di Napoli “Federico
II”. È autore, in tali ambiti, di numerose pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali, e ha partecipato in qualità di relatore/moderatore a numerosi congressi e
convegni locali e nazionali. È attualmente responsabile della segreteria ospedaliera
dell’ACP, membro del Direttivo ACP Campania e socio ACP. È inoltre socio della
Società Italiana di Pediatria (SIP), della Società Italiana di Malattie genetiche pediatriche e Disabilità congenite (SIMGePeD) e della Società italiana di Genetica Umana
(SIGU).
FRANCO MAZZINI Pediatra di libera scelta e di comunità a Cesena dal 1992. Da
subito iscritto ad ACP, presidente del gruppo ACP Romagna e coordinatore del gruppo regionale dell’Emilia-Romagna dal febbraio 2009. Diploma in Adolescentologia
clinica e preventiva conseguito presso l’Università Ambrosiana di Milano nel 1999.
Master in Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) organizzato dalla Regione
Emilia-Romagna nel 2007. Dal 2000 impegnato in un ambulatorio di Medicina dell’adolescente, inserito stabilmente tra i servizi del Consultorio giovani dell’ASL di
Cesena. Membro del gruppo aziendale che segue il percorso diagnostico-terapeutico dei DCA, con la gestione di uno spazio settimanale dedicato. Pubblicazione di
alcuni lavori in tema di adolescenza e interventi a seminari, corsi ECM o congressi su
questa tematica. Coautore del testo Curarsi dell’adolescente (SEE, 2003) e collaborazione alla realizzazione del libro Una pediatria per la società che cambia, curandone la parte dedicata alla Pediatria di Comunità (Editore ‘Tecniche Nuove’, 2007).
Referente dell’Unità Pediatrica di Cure Primarie dell’ASL di Cesena dal 2009 e coordinatore della Segreteria Adolescenti ACP dal gennaio 2013. “Mi piace lavorare
assieme a colleghi e amici per sviluppare idee, iniziative e crescere nella mia professione. Ho avuto la fortuna di conoscere persone importanti che mi hanno insegnato
ad apprezzare e valorizzare il mio ruolo di pediatra al fianco di bambini, adolescenti
e famiglie, e cerco di promuovere queste cose che ho imparato, alle persone e ai colleghi che incontro quotidianamente”.
117
Quaderni acp 2014; 21(3): 118-119
Rubrica a cura di Sergio Conti Nibali
Buoni spesa per le mamme
che allattano?
Si tratta di un Progetto pilota per studiare la fattibilità di offrire buoni spesa alle
mamme di due quartieri delle contee di
Derbyshire e South Yorkshire; interesserà 130 madri tra quelle a reddito più
basso nei due quartieri. Se tale Progetto
dimostrerà che l’iniziativa è fattibile, inizierà un vero e proprio Progetto di ricerca, con un campione maggiore di madri a
basso reddito, per valutare i potenziali
effetti positivi in termini di prevalenza e
durata dell’allattamento e per escludere
che vi siano effetti negativi.
Come per tutti i progetti di ricerca, i
risultati finali saranno pubblicati e resi
noti alle Autorità sanitarie locali e nazionali; se queste valuteranno che l’iniziativa offre più vantaggi che svantaggi,
rispetto ai costi, potrebbero decidere di
estenderla facendola diventare programma di governo.
Come tutte le decisioni di questo tipo, le
Autorità sanitarie locali e nazionali prenderanno in considerazione anche la convenienza politica dell’intervento, oltre
che i possibili benefici per individui e
collettività. Il Progetto si muove in un
ambito ben conosciuto; quello degli
incentivi finanziari per la promozione
della salute. Sono interventi che si fanno
da anni per gli obiettivi di salute più
diversi: dalle vaccinazioni alla nutrizione, dai controlli prenatali al parto protetto. Incentivi simili si usano anche in
ambito extrasanitario, come iscrivere i
figli a scuola o acquistare dei giocattoli
educativi. In inglese questo si chiama
“conditional cash transfer”, cioè trasferimento di denaro condizionato al raggiungimento di un obiettivo.
Le ricerche svolte finora in decine di Paesi in tutti i continenti mostrano in generale
risultati positivi, tanto che molti governi
(dall’India al Brasile, dal Quebec alla
Norvegia) usano da anni i “conditional
cash transfer” per raggiungere obiettivi di
salute che ritengono prioritari.
Ancora più importante: essendo i “conditional cash transfer” dei veri e propri trasferimenti di risorse dai ricchi ai poveri
(il denaro solitamente lo si prende dalle
118
tasse pagate dai più ricchi), molti governi li considerano strumenti per ridurre
diseguaglianze e iniquità, per far raggiungere cioè anche ai poveri uno stato
di salute ottimale.
Questo è sicuramente il razionale dei ricercatori dell’Università di Sheffield. Essi sanno benissimo, perché lo mostrano
statistiche e studi provenienti non solo
dall’Inghilterra, ma da moltissimi altri
Paesi (Italia compresa), che le donne di
bassa classe sociale allattano molto meno delle donne ricche, istruite e con un
buon lavoro. E vogliono vedere se un incentivo finanziario può contribuire a ridurre tali disuguaglianze. Non sarà sicuramente sufficiente: se una donna che
allatta ha difficoltà ad attaccare al seno il
suo bambino, o è affetta da una mastite,
a nulla le serviranno i buoni spesa.
Avrebbe bisogno di poter rivolgersi a una
persona, operatore sanitario o mamma
alla pari, che sia in grado di darle un
aiuto pratico per risolvere il suo problema concreto. E può darsi che la ricerca
mostri che, più che i buoni spesa, è
necessario garantire accesso universale e
gratuito all’aiuto di cui ha bisogno.
(Fonte: Ibfan Italia)
Riviste scientifiche: sì o no?
Le riviste scientifiche dovrebbero smetterla di pubblicare ricerche sponsorizzate
dall’industria farmaceutica? È un quesito
che il BMJ ha posto a Richard Smith (già
direttore della Rivista), Peter Gøtzsche
(direttore del Centro Cochrane di
Copenhagen) e a Trish Groves (responsabile delle ricerche del BMJ); i primi
due hanno risposto con un “sì”, il terzo
con un “no”.
Smith e Gøtzsche ritengono che la questione sia molto simile alla decisione del
BMJ e di altre riviste di non pubblicare
ricerche finanziate dall’industria del
tabacco; i farmaci rappresentano la terza
causa di morte, specialmente a causa
delle ricerche false pubblicate; si sa
bene, infatti, che i risultati favorevoli ai
farmaci derivano quasi sempre da ricerche sponsorizzate dalle industrie e si sa
altrettanto bene che la metà delle ricerche non viene pubblicata proprio perché
non riesce a produrre i risultati attesi
dalle ditte. La differenza con l’affaire
degli studi finanziati con i soldi dell’industria del tabacco è che quelli sono
comunque rari, mentre le ricerche sui
farmaci finanziate da Big Pharma costituiscono i due terzi delle ricerche pubblicate da The Lancet e dal NEJM.
Big Pharma spende milioni di dollari per
la riproduzione degli articoli e per distribuirli ai medici che così sono ingannati
proprio dall’autorevolezza della rivista
che ha pubblicato i dati: insomma, un
gigantesco conflitto d’interesse. Loro
pensano che ci possa essere un nuovo
modello da implementare.
Un modello basato sulla trasparenza nell’impostazione degli studi; si dovrebbe
prima presentare sul web una revisione
sistematica su quanto già si conosce dell’argomento; si dovrebbero chiaramente
enunciare i metodi e i modelli statistici
che si vorrebbero applicare; i dati sui
quali lavorare dovrebbero essere a disposizione di tutti e non dell’industria, in
modo che chiunque, in tutte le fasi della
ricerca, possa intervenire; il ruolo delle
riviste sarebbe solo quello di pubblicare i
risultati delle revisioni sistematiche e l’analisi dei dati, anche contrastanti, da
parte di gruppi indipendenti; le riviste,
inoltre, dovrebbero fare a meno di qualsiasi sponsorizzazione di Big Pharma,
come fa Prescrire. Risultato? I farmaci
non sarebbero più la terza causa di mortalità dopo le malattie cardiovascolari e il
cancro!
Anche Groves nel motivare la sua risposta negativa parte dall’esempio delle
ricerche sponsorizzate dall’industria del
tabacco che, se pur vero che, come Big
Pharma, mira a far soldi, ha obiettivi
molto diversi. Big Pharma difatti produce
e vende prodotti destinati al miglioramento della salute, così come le riviste si
sforzano di pubblicare lavori che contribuiscano a migliorare lo stato di salute;
l’industria del tabacco, al contrario,
vende prodotti che nuociono alla salute.
A meno che non vogliamo estremizzare e
dire che i farmaci, come le sigarette, sono
prodotti per uccidere il consumatore.
Groves è consapevole dei problemi delle
info
Quaderni acp 2014; 21(3)
salute
ricerche sponsorizzate dall’industria, ma
pensa che si potrebbe intervenire utilizzando alcune strategie: coinvolgere i
pazienti nel definire l’agenda della ricerca, rendere un obbligo di legge la trasparenza nella valutazione di un farmaco,
richiedere risorse indipendenti per la
valutazione dei farmaci e la prova di un
valore aggiunto per tutti i nuovi farmaci.
Una maggiore apertura potrebbe contribuire a trasformare l’immagine di Big
Pharma e, in cambio, i governi potrebbero estendere i tempi di brevetto. Una
soluzione per la trasparenza degli studi
potrebbe essere quella proposta dalla
campagna “AllTrials”. Proprio in questa
ottica il BMJ sta pubblicando studi dall’iniziativa RIAT (una sorta di ripristino
degli studi finora invisibili e abbandonati) e sta invitando gli accademici che trovano prove precedentemente non pubblicate a scrivere e a pubblicare i dati, se gli
investigatori originali non vogliono
farlo; inoltre il BMJ intende promuovere
la pubblicazione di ricerche con risultati
negativi e trials di efficacia comparativi;
e si impegnerà a pubblicare dati provenienti dall’industria solo se avrà garanzie
circa la possibilità di accedere ai dati. E
conclude con una domanda: noi redattori
abbiamo paura o non siamo in grado di
estendere il divieto di pubblicazione
anche alle ricerche finanziate dall’industria del farmaco perché i nostri giornali
ricevono soldi? No, non è questo il motivo; lui è d’accordo con la direttrice del
BMJ, Godlee, che ha detto: “Se questi
sforzi non portano al più presto a un
cambiamento epocale nel modo con cui
vengono prodotti gli studi finanziati dall’industria, il BMJ potrebbe decidere di
interromperne la loro pubblicazione”.
L’Ospedale “Meyer”
nell’occhio del ciclone
Ha suscitato una corale presa di posizione
la decisione dell’Ospedale Pediatrico
“Meyer” di Firenze di concedere all’azienda che produce il latte di crescita
“Mukki Bimbo” (la Centrale del latte di
Firenze, Pistoia e Livorno, società a partecipazione pubblica) di scrivere sull’etichetta del prodotto «studiato in collabo-
razione con gli esperti di nutrizione infantile dell’Ospedale Pediatrico “Meyer”».
Mai finora si era verificato che un
Ospedale pubblico patrocinasse il lancio
di un prodotto commerciale destinato
all’alimentazione infantile.
Le reazioni da parte di associazioni dei
consumatori, di singoli operatori sanitari,
di associazioni no profit, di Ibfan Italia,
dell’Unicef Italia e del coordinamento
della rete italiana degli Ospedali Amici
dei Bambini non si sono fatte attendere e
sono state particolarmente dure. Nel
Comunicato stampa si auspica che l’episodio rappresenti l’occasione per una
riflessione collettiva e istituzionale non
solo sulle collaborazioni di presìdi sanitari con le industrie, ma anche e soprattutto sull’effettiva utilità dei latti di crescita e sull’opportunità di proporli ai
bambini. Infatti oggi, grazie alle martellanti campagne pubblicitarie che fanno
leva sul giusto e legittimo desiderio di
ogni genitore di fare il meglio per il proprio bambino fin dai primi anni, è ormai
diffusa l’abitudine di sostituire il latte
materno o artificiale di proseguimento
con il latte di crescita, proposto per bambini da 1 a 3 anni.
Tuttavia è evidente che non sempre il
mercato alimentare offre le migliori soluzioni per il consumatore e non sempre
utilizza pratiche di marketing obiettive e
trasparenti.
Questi latti sono presentati come utili a
favorire una crescita sana ed equilibrata;
tuttavia la realtà è ben diversa: sono inutili, costosi, possono interferire con l’allattamento materno, la loro promozione è
in contrasto con il Codice internazionale
sulla Commercializzazione dei Sostituti
del Latte materno ed è in contrasto con
l’educazione alimentare, impegno condiviso di ogni Regione.
I latti di crescita non sono prodotti “ricchi di natura”, come recita lo slogan del
“Mukki Bimbo”, ma vere e proprie formule industriali grazie all’aggiunta di
acqua, saccarosio, lattosio, aroma di
vaniglia, vitamine, minerali, ferro, fibre,
acidi grassi essenziali. L’educazione alimentare dovrebbe fare parte delle politiche di ogni Regione, di ogni istituzione
sanitaria e di ogni pediatra con modalità
sia pure diversificate, ma coordinate e
indipendenti da interessi commerciali.
La promozione, il sostegno e la difesa
dell’allattamento rimangono al centro
delle attenzioni dedicate alla prima
infanzia, seguita da una costante attenzione al consumo di alimenti freschi,
naturali e diversificati (facenti parte della
normale dieta della famiglia) e al mantenimento di corretti stili di vita.
L’alleanza tra istituzioni sanitarie, specialmente se pubbliche, e consumatori,
specialmente se bambini, è la condizione
perché questo diventi un progetto di salute efficace.
Per tutti questi motivi viene chiesto che
venga tolto dalle confezioni di “Mukki
Bimbo” e dalle pubblicità ogni riferimento a istituzioni sanitarie pubbliche.
Quanta strada
per l’ortofrutta prima
di arrivare a tavola!
Secondo uno studio condotto negli Stati
Uniti il viaggio di spinaci, broccoli,
piselli e altri prodotti ortofrutticoli consumati in una città come Chicago per
raggiungere gli scaffali dei supermercati
è in media di 2400 km! Facendo un po’
di calcoli si scopre che solo il 20% dell’energia necessaria per produrre e commercializzare questi prodotti è da addebitare al settore agricolo; la rimanente
quota è assorbita dalle fasi di trasporto,
refrigerazione, lavorazione, confezionamento e distribuzione.
Anche in Italia è normale trovare al supermercato mele e pere provenienti dal
Cile, kiwi importati dalla Nuova Zelanda, ananas dal Kenya. C’è anche l’uva
proveniente dal Sudafrica, i salmoni dalla Norvegia, i vini dalla California e potremmo continuare l’elenco di prodotti
non proprio a km 0.
Sul sito inglese “Food Miles” è possibile
scoprire quanti chilometri percorre il
cibo che mangiamo: basta inserire il
luogo in cui ci troviamo, quello di provenienza dell’alimento e il nome in inglese.
Per provare a “giocare”, andate direttamente sul sito, dove compare il calcolatore virtuale.
119
Quaderni acp 2014; 21(3): 120-121
La salute a Cuba: un diritto per tutti,
un dovere per ciascuno
Enrico Valletta
AUSL della Romagna, Dipartimento Materno-Infantile, Ospedale “G.B. Morgagni-L. Pierantoni”, Forlì
“… without affecting quality of health [care],
provided at no cost to all citizens
– and even improving it –
expenditures can be reduced appreciably.”
Raoul Castro, 20 dicembre 2009
Cuba è, da oltre cinquant’anni, una spina
nel fianco degli Stati Uniti (USA). Paese
dove l’idea socialista ha trovato una
declinazione concreta che ha resistito
all’evaporazione dello storico riferimento sovietico, trovando le motivazioni per
proseguire il proprio originale cammino
di modernizzazione.
L’embargo commerciale, imposto dagli
USA in questo mezzo secolo, non ha
risparmiato il cibo, i farmaci e le tecnologie mediche e ha richiesto al Sistema
Sanitario (SS) cubano un ulteriore sforzo
organizzativo per affrancarsi da una
situazione tipicamente terzomondiale e
migliorare quegli indicatori di salute che
oggi permettono a Cuba di confrontarsi
alla pari con buona parte dei Paesi a elevato sviluppo. Questo nonostante il prodotto interno lordo (2012) pro capite
(US$ 10.000) sia circa il 20% di quello
degli USA (US$ 49.000) e del Canada
(US$ 42.000) e che la percentuale di
quanto investito in sanità (2010) sia di
gran lunga inferiore (Cuba 10,2%, USA
17,6%, Canada 11,4%) [1-2]. Da tempo
le scelte strategiche, la programmazione
e l’assetto organizzativo del SS cubano
hanno meritato l’attenzione degli osservatori internazionali per la capacità di
raggiungere importanti obiettivi di salute
per tutta la popolazione, salvaguardando
i princìpi dell’universalità e dell’equità, a
fronte di una ridotta disponibilità di
risorse.
Le strategie, la programmazione,
l’organizzazione
Cuba ha una superficie pari a un terzo del
territorio italiano, una popolazione di
poco più di 11 milioni di abitanti, il 75%
dei quali risiede nelle città, con oltre 2
milioni di abitanti nella sola Avana. Agli
inizi degli anni Sessanta la gran parte
delle risorse sanitarie era concentrata
nella capitale, esisteva un solo ospedale
rurale e la mortalità infantile era pari al
5-10%.
L’azione del nuovo governo di Fidel
Castro si rivolge subito al contrasto della
povertà nelle zone rurali, dell’analfabetismo e delle diseguaglianze nell’accesso
ai servizi sanitari [3]. Il SS nazionale
invia centinaia di professionisti nelle
zone rurali e nel 1970 gli ospedali rurali
sono già 53. Il ruolo di questi operatori
sanitari non è solo clinico, ma anche educativo e di prevenzione nei confronti
delle malattie infettive più diffuse (malaria, diarrea, malattie soggette a vaccinazione).
Tra il 1976 e il 1983, la Costituzione e la
Legge di Salute Pubblica fissano i capisaldi delle successive riforme sanitarie:
• Le cure sanitarie sono un diritto accessibile a chiunque, gratuitamente.
• Lo Stato è responsabile delle cure sanitarie.
• I servizi di prevenzione e cura lavorano in maniera integrata.
• I cittadini sono partecipi dello sviluppo
e del funzionamento del SS.
• Cure sanitarie e sviluppo socio-economico si muovono in maniera integrata.
• La cooperazione sanitaria globale è
compito fondamentale del SS e dei
suoi professionisti.
Il Ministero della Salute Pubblica si fa
carico della programmazione dei percorsi universitari e professionali delle diverse figure sanitarie, in termini di numeri,
competenze e distribuzione sul territorio,
incentivando la decentralizzazione nell’intento di rendere il SS effettivamente
accessibile in ogni regione del Paese. In
quel periodo viene concepito un nuovo e
basilare modello operativo, quello degli
“ospedali di comunità” nei quali convergono le discipline fondamentali delle
cure primarie (Ostetricia, Ginecologia,
Pediatria, Medicina interna e Odontoiatria) in grado di fornire l’assistenza di
base. Progressivamente, le competenze
di questi “policlinici” vengono integrate
con ulteriori servizi in grado di offrire
20-30 diverse prestazioni specialistiche e
diventano sedi di tirocinio universitario e
professionale [4]. Nel 1983 parte il programma di medicina di famiglia che porterà alla costituzione dei team medicoinfermieristici, capillarmente diffusi in
tutto il Paese, con responsabilità diretta
sulla salute delle piccole comunità (8001500 persone) loro affidate.
Nel 1989, con la disgregazione dell’Unione Sovietica, inizia un nuovo periodo
di grave crisi economica per Cuba che,
tuttavia, continua nella propria politica di
forte indirizzo centrale sulla programmazione della sanità pubblica e di grande
flessibilità periferica nell’applicazione
delle strategie di prevenzione e cura che
tengono conto dei bisogni delle microrealtà locali.
È un sistema articolato in livelli crescenti di complessità, destinati a filtrare il
ricorso alle strutture d’eccellenza e alle
tecnologie più dispendiose che pure esistono e sono disponibili.
Attraverso quindici anni di continue riorganizzazioni dettate dalla scarsità di
risorse, ma sostenute da una costante tensione politica sui temi della salute, dal
2006 alcuni indici di performance e di
soddisfazione dei cittadini sembrano
nuovamente in crescita e c’è spazio per
ragionare di ricerca e divulgazione scientifica in termini di priorità e di beneficio
per la comunità [5-6]. Oggi il sistema di
cure primarie costituisce il pilastro del
SS cubano, con oltre 13.000 team medico-infermieristici di prossimità, 488
ospedali di comunità, 336 case della
maternità, centri di salute mentale e centri diurni per anziani in grado di risolvere l’80% dei problemi di salute dei cittadini, a fronte di meno di 215 strutture che
operano a livelli di complessità maggiori
[3-7]. Il 48,5% dei medici e dei dentisti
opera nelle cure primarie.
Per corrispondenza:
Enrico Valletta
e-mail: [email protected]
120
internazionale
osservatorio internazionale
Cosa ci dicono
gli indicatori di salute?
La disponibilità di dati sulle performance
dei Sistemi Sanitari Nazionali in tutto il
mondo consente di avere un’idea complessiva della situazione nei singoli Stati
e di operare alcune interessanti comparazioni [1-2-7]. Nel 2011, l’attesa di vita
alla nascita era di 78 anni a Cuba, 79 anni
negli USA e 76 anni nel continente americano nel suo complesso. La mortalità
infantile (<1 anno) è passata da oltre
40/1000 nati vivi nei primi anni Sessanta
a 4,3/1000 nel 2012 (figura 1) [8]. È un
dato migliore di quello registrato negli
USA (6,1/1000) e che ha recentemente indotto ricercatori dell’Alabama
(9,2/1000) ad analizzare più a fondo il
modello cubano di assistenza maternoinfantile [9]. Ne emerge un 5% di nati di
basso peso a Cuba contro l’8% circa
negli USA e il 10,4% in Alabama. Il
100% delle gravidanze è monitorato
nelle strutture pubbliche; le donne sono
visitate mensilmente entro le 33 settimane di gestazione, due volte al mese tra la
34ª e la 38ª settimana e, se la donna non
si presenta alla visita, il medico delle
cure primarie si reca a domicilio.
Dopo il parto, bambino e mamma vengono visitati una volta alla settimana fino ai
3 mesi e una volta al mese fino al compimento del primo anno di vita. La copertura vaccinale oscilla tra il 96% e il 99%.
Secondo Save the Children, Cuba è al
primo posto tra i Paesi meno sviluppati
(livello II) per la cura alla condizione
materna (Mother’s Index, 2012); il 100%
delle partorienti è assistito da personale
addestrato e il 72% delle donne utilizza i
moderni metodi anticoncezionali (73%
in USA e Canada, 41% in Italia) [10].
Tutto questo richiede evidentemente,
oltre all’organizzazione, personale adeguato e motivato.
Il 6,8% della popolazione cubana in età
lavorativa è impiegato nella sanità pubblica e i medici sono 67/10.000 abitanti
(24/10.000 negli USA) (anni 2005-
Quaderni acp 2014; 21(3)
FIGURA 1: TASSO DI MORTALITÀ INFANTILE (< 1 ANNO) A CUBA E NEGLI USA (ANNI
1965-2012) [8]
2012). Come elemento costitutivo della
propria mission, il SS cubano offre assistenza gratuita, al di fuori del proprio territorio, con oltre 35.000 operatori a più di
70 milioni di persone in almeno 70
nazioni.
L’attenzione del governo cubano ai temi
della salute è evidentemente elevata,
costante nel tempo, orientata al raggiungimento degli obiettivi, con un forte
impegno a rendere le cure primarie
accessibili a tutti i cittadini in qualsiasi
zona del Paese. Oltre ai criteri di equità,
sostenibilità e qualità dei servizi, il sistema conta fortemente sul coinvolgimento
attivo di ogni cittadino e delle comunità
locali per la prevenzione e il contrasto
alle più importanti malattie croniche
non-trasmissibili (cardiovascolari, respiratorie, cancro e diabete) e per contribuire al continuo miglioramento dello stato
di salute di tutta la popolazione [11].
Responsabilità personale, coesione
sociale e partecipazione della comunità
per trasformare i cittadini da users with
rights in actors with duties. u
Bibliografia
[1] Index Mundi. www.indexmundi.com.
[2] World Health Organization. WHO Health Statistics 2013. www.who.int.
[3] Keck CW, Reeds GA. The curious case of
Cuba. Am J Public Health 2012;102(8):e13-22.
doi: 10.2105/AJPH.2012.300822.
[4] Iñiguez L. Overview of evolving changes in
Cuba’s health services. MEDICC Rev 2013;15(2):
45-51.
[5] Alvarez M, Artiles L, Otero J, Cabrera N.
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care: an inexcusable absence. MEDICC Rev 2013;
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de Registros Medicos y Estadistica de Salud.
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[8] The World Bank. World Bank Developmental
Indicators. http://data.worldbank.org/data-catalog/world-development-indicators.
[9] Neggers Y, Crowe K. Low birth weight outcomes: why better in Cuba than Alabama? J Am Board
Fam Med 2013;26(2):187-95. doi: 10.3122/jabfm.
2013.02.120227.
[10] Save the Children. Nutrition in the first 1,000
days. State of the world’s mothers, 2012.
[11] Luis IP, Martinez S, Alvarez A. Community
engagement, personal responsibility and self help
in Cuba’s health system reform. MEDICC Rev
2012;14(4):44-7.
121
Quaderni acp 2014; 21(3): 122-123
La rottura della tolleranza nella patologia autoimmune e
l’induzione della tolleranza nella medicina trapiantologica
Federica Barzaghi*°, Rosa Bacchetta*
*San Raffaele Telethon Institute for Gene Therapy (HSR-TIGET), Division of Regenerative Medicine, Stem Cells and Gene Therapy,
Istituto Scientifico “San Raffaele”, Milano; °Università Vita Salute San Raffaele, Milano
Abstract
The breaking of tolerance in autoimmune diseases and its induction in transplantation medicine
The two main roles of the immune system are protection from infections and maintenance of immunological tolerance (avoiding “self-aggression”). Impairment of these
functions results in the onset of immunodeficiency and/or autoimmunity. Here are summarized the mechanisms of immunological tolerance and the main characteristics of
two paradigmatic monogenic diseases due to the loss of a tolerance mechanisms.
Finally, three examples are reported regarding how the knowledge acquired on immune tolerance paved the way for the definition of new therapeutic interventions in the
context of transplantation and genetic diseases with immune dysregulation.
Quaderni acp 2014; 21(3): 122-123
Il sistema immunitario ha un ruolo fondamentale non solo nella difesa contro i patogeni ma anche nel mantenimento della tolleranza immunologica, che protegge l’organismo dalla “autoaggressione” contro antigeni self. Esistono malattie genetiche (e
non), in cui queste proprietà vengono meno, determinando l’insorgenza di immunodeficienza e/o autoimmunità. In questo lavoro sono sintetizzati i meccanismi che consentono il mantenimento della tolleranza immunologica e le caratteristiche di due
malattie monogeniche paradigmatiche, caratterizzate ciascuna dalla perdita di uno
dei due principali meccanismi di tolleranza. Infine, si forniscono tre esempi di come
le conoscenze acquisite circa la tolleranza immunologica abbiano dato spunto per
nuovi interventi terapeutici nell’ambito dei trapianti e delle malattie genetiche da
immunodisregolazione.
Introduzione
Il sistema immunitario esercita due attività fondamentali: l’eliminazione dei
patogeni e la protezione dell’organismo
dalla “autoaggressione” verso antigeni
self, cioè espressi dai propri tessuti e
organi. L’anomalo funzionamento di tali
meccanismi protettivi determina l’insorgenza rispettivamente di immunodeficienza o autoimmunità.
In particolare, per impedire che il sistema immunitario reagisca impropriamente contro antigeni self, esiste un sistema
di regolazione definito “tolleranza
immunologica”, che consiste nel riconoscimento antigenico non seguito da eliminazione dell’antigene stesso [1].
Esistono una tolleranza immunologica
centrale e una periferica. Quella centrale
ha sede nel timo ed è correlata alla capacità da parte delle cellule epiteliali del
timo di esprimere antigeni self, con lo
scopo di presentarli ai linfociti T per selezionarli negativamente. Infatti, i linfociti T che legano antigeni self con elevaPer corrispondenza:
Federica Barzaghi
e-mail: [email protected]
122
ta affinità vengono eliminati perché considerati potenzialmente autoreattivi. Tale
meccanismo non è però infallibile ed è
pertanto possibile che alcuni linfociti autoreattivi vengano immessi in circolo. A
fronteggiare tale evenienza è chiamato il
secondo sistema di controllo immunologico, quello periferico, rappresentato
principalmente da una sottopopolazione
di linfociti a funzione regolatoria. Tali
linfociti T, o cellule T regolatorie, si occupano di spegnere la riposta immune ai
patogeni quando questa non sia più necessaria e di eliminare, mediante vari
meccanismi soppressivi, i linfociti autoreattivi che erroneamente sono sfuggiti ai
meccanismi di tolleranza centrale [2-3].
La rottura della tolleranza
nella patologia autoimmune
La patogenesi delle patologie autoimmuni è ancora oggi oggetto di intenso studio. Si ipotizza che in molte di esse (es.
diabete mellito di tipo 1, malattie infiammatorie croniche intestinali, artrite reu-
matoide, …) ci sia un’interazione tra caratteristiche genetiche e fattori ambientali, che determina un’alterazione della
regolazione del sistema immunitario con
perdita della tolleranza verso il self [4].
In rari casi tale difetto può essere di origine genetica, dovuto alla mutazione di
un singolo gene. In particolare, esistono
due patologie monogeniche rappresentative della perdita dei meccanismi di regolazione: Autoimmune PolyEndocrinopathy-Candidiasis-Ectodermal Dystrophy (APECED) e Immune dysregulation,
Polyendocrinopathy, Enteropathy, X-linked syndrome (IPEX), paradigmi rispettivamente della perdita di tolleranza centrale e periferica. Si tratta di immunodeficienze primitive caratterizzate non
tanto da infezioni gravi e frequenti,
quanto dall’aumentata incidenza di multiple manifestazioni autoimmuni.
Mutazioni del gene Autoimmune Regulator (AIRE), fattore di trascrizione preposto a favorire l’espressione di peptidi self
a livello delle cellule timiche, determinano la perdita della tolleranza centrale.
Pertanto i linfociti autoreattivi vengono
eliminati in maniera meno efficiente a livello timico e mediano l’aggressione autoimmune di molteplici organi. La patologia che ne deriva prende il nome di APECED. Fin dalla prima infanzia i bambini
affetti possono sviluppare poliautoimmunità, principalmente caratterizzata da
insufficienza surrenalica, ipoparatiroidismo e candidiasi mucocutanea. Recentemente è stato dimostrato che anche quest’ultima manifestazione è di natura
autoimmune, in quanto è dovuta alla presenza di anticorpi contro una particolare
citochina (IL-17), che ha un ruolo importante nella difesa contro la Candida [5].
Durante l’infanzia e l’adolescenza, questi
bambini hanno un’elevata probabilità di
sviluppare altre patologie autoimmuni
quali alopecia, vitiligine, tiroidite, diabete, epatite, gastrite atrofica, insufficienza
ovarica e/o testicolare. Al momento
non esiste una terapia risolutiva per
l’APECED e spesso la diagnosi avviene
aggiornamento avanzato
quando la funzione degli organi bersaglio
(es. surrene, paratiroidi, pancreas) è già
stata compromessa. Pertanto, i pazienti
sono trattati con terapia ormonale sostitutiva, nel caso di endocrinopatia, e con
terapia antifungina per la candidiasi.
Mutazioni del gene FOXP3, fattore di
trascrizione che regola la funzione delle
cellule T regolatorie, determinano la perdita della tolleranza periferica e quindi le
cellule T regolatorie non sono più in grado di sopprimere i linfociti autoreattivi
circolanti. I bambini affetti sviluppano
molto precocemente una malattia autoimmune multisistemica molto grave, definita sindrome IPEX, il cui quadro clinico è caratterizzato dalla triade: enteropatia autoimmune, diabete mellito di tipo 1
ed eczema [6]. L’enteropatia rappresenta
il sintomo prevalente nella quasi totalità
dei casi e spesso la diarrea insorge in lattanti ancora allattati al seno. Nei più
grandi non risponde a variazioni dietetiche e persiste anche in corso di nutrizione parenterale totale. Altre manifestazioni aggiuntive possono essere tiroidite,
epatite e citopenie autoimmuni, alopecia,
ipereosinofilia e aumento delle IgE sieriche. A oggi, sono riportati in letteratura
138 casi, di cui circa la metà diagnosticata negli ultimi tre anni, forse a testimoniare anche un recente aumento della
conoscenza della patologia da parte dei
clinici. Una diagnosi precoce è indispensabile per assicurare al bambino l’inizio
tempestivo della terapia immunosoppressiva che consenta di superare la fase
acuta della malattia e di mantenere sotto
controllo l’aggressione autoimmune.
L’immunosoppressione non è sufficiente
a curare la malattia. L’unica possibilità
per impedire l’insorgenza di altre manifestazioni, seppure gravata da elevati
rischi, è il trapianto di midollo osseo. Le
possibilità terapeutiche sono quindi limitate dalla disponibilità di un donatore
compatibile e dalla rapidità con cui si
avvia il paziente al trapianto. Bisogna
infatti garantire che tale procedura venga
avviata prima che il danno d’organo sia
troppo avanzato e la funzionalità definitivamente compromessa.
L’induzione della tolleranza
nella medicina trapiantologica
Da quanto detto finora nell’ambito delle
patologie autoimmuni, si può dedurre
quale possa essere il ruolo fondamentale
della tolleranza immunologica in ambito
trapiantologico. Il trapianto allogenico è
infatti gravato da due principali rischi:
– il rigetto del trapianto, che determina
l’aggressione dell’organo trapiantato (nel
trapianto di organo solido) oppure delle
cellule infuse (trapianto di cellule staminali ematopoietiche = CSE) da parte del
sistema immunitario del ricevente;
Quaderni acp 2014; 21(3)
– la malattia del trapianto contro l’ospite
(Graft Versus Host Disease = GVHD),
che è peculiare del trapianto di CSE, e
che consiste nell’aggressione di organi
del ricevente (es. cute, intestino, fegato) da parte delle cellule del donatore.
Recentemente, sono state elaborate strategie per la prevenzione della GVHD e
del rigetto del trapianto mediante l’utilizzo di una particolare sottopopolazione di
cellule T regolatorie (Tr1) che producono
una citochina molto immunosoppressiva
chiamata IL-10 [7].
Nei trapianti di cellule staminali ematopoietiche per malattie linfoproliferative,
l’equilibrio tra Graft Versus Leukemia
(GVL) e GVHD è un fattore critico per il
successo della terapia, in quanto si vogliono eliminare le cellule maligne
(GVL) del ricevente senza ledere la funzionalità degli organi (GVHD). Per questo è stato creato un protocollo clinico
definito ALT-TEN, nell’ambito del quale
cellule T del donatore vengono messe a
contatto con cellule presentanti l’antigene del ricevente in presenza di IL-10.
Questo ha lo scopo di generare delle cellule T del donatore tolleranti (Tr1) verso
antigeni presentati da cellule del ricevente. Le cellule Tr1 vengono infuse nel
ricevente dopo il trapianto di CSE in modo da favorire la tolleranza da parte dei
linfociti del donatore nei confronti dei
tessuti del ricevente. Finora, il numero
dei soggetti trattati è stato molto limitato
e tuttavia il trattamento è risultato fattibile e alcuni pazienti hanno risolto la
malattia completamente, con follow-up
di circa 7 anni (Bacchetta et al. Frontiers
in Immunology, in corso di stampa).
Nell’ambito del trapianto di organo solido, invece, è in corso uno studio collaborativo europeo (ONE study), che consiste
nella prevenzione del rigetto nel trapianto
di rene da donatore vivente, mediante l’utilizzo di diversi tipi di cellule regolatorie
in ciascun centro, che hanno in comune
l’obiettivo di indurre tolleranza immunologica nel ricevente. Una possibilità
implica il prelievo dal ricevente di linfociti T che, in vitro, vengono messi a contatto con cellule presentanti l’antigene
derivate dal donatore. Questo determina
la creazione di cellule Tr1 del ricevente
“tollerogeniche” (cioè in grado di mantenere la tolleranza immunologica) nei confronti di antigeni dell’organo trapiantato
presentati dalle cellule del donatore [8-9].
Questi studi hanno dato impulso anche
alla elaborazione di nuove prospettive
terapeutiche per le malattie monogeniche
da immunodisregolazione come la sindrome IPEX. Negli ultimi anni la ricerca
in questo ambito si è concentrata sulla
creazione di un vettore lentivirale contenente il gene FOXP3 con la finalità di
prelevare linfociti T o CSE da pazienti
affetti da IPEX e creare delle cellule ingegnerizzate in vitro, contenenti il costrutto del gene corretto e quindi in grado
di ripristinare una popolazione di cellule
T regolatorie FOXP3-positive, capaci di
ristabilire la tolleranza periferica [10].
Questa opzione potrebbe dare una possibilità ai bambini affetti che non possono
affrontare un trapianto di CSE perché privi di donatore compatibile e rappresenterebbe una terapia mirata e razionale.
Conclusioni
Lo studio delle malattie autoimmuni e in
particolare delle rare malattie monogeniche autoimmuni (come APECED e IPEX)
ha notevolmente implementato la conoscenza dei processi fisiologici e patologici inerenti alla tolleranza immunologica.
Ciò ha gettato le basi per l’applicazione di
nuove strategie terapeutiche mediante
cellule indotte o manipolate in vitro, non
solo nell’ambito trapiantologico (GVHD
e rigetto), ma anche nell’ambito di rare
malattie genetiche (come la sindrome
IPEX) le quali, finora, non conoscevano
altra possibilità terapeutica che il trapianto di midollo osseo (se possibile) o lunghi
periodi di immunosoppressione gravata
da notevoli effetti collaterali. u
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10.1126/scitranslmed.3007320.
123
Quaderni acp 2014; 21(3): 124-126
Un decorso lento
non sempre è benigno
Brunetto Boscherini*, Patrizia del Balzo**
*Professore ordinario, Clinica Pediatrica, Università Tor Vergata, Roma; **Pediatra di famiglia, Roma
Abstract
A slow course not always benign
The patient described is a four year old female with pubarche, mild clitoris hypertrophia and body height below her genetic target. Laboratory findings showed significant high levels of 17OH-Progesterone and Testosterone (T) and slightly increased
DEAS levels. An ACTH test with a molecular analysis excluded the diagnosis of non
classical congenital adrenal hyperplasia (NC CAH) but confirmed an heterozygosy for
CYP21A. In the following 12 months height velocity increased and DEAS and T levels
remained high. In order to exclude a virilizing adrenal tumor (VAT) characterized by
a progression of symptoms and very high levels of DEAS (> 600-700 mcg/dl), adrenal
ultrasound and a MRI were performed. An “atypical” form of VAT was confirmed. A
VAT must be suspected even in the presence of mild and slowly progressive signs of
hyperandrogenism and slightly increased levels of adrenal androgens.
Quaderni acp 2014; 21(3): 124-126
Viene descritto il caso di una bambina di 4 anni con pubarca insorto all’età di 3,8
anni, modesta ipertrofia del clitoride e statura al di sotto del bersaglio genetico. I
dosaggi ormonali mostravano un aumento significativo del 17OH-Progesterone e del
Testosterone (T) mentre i valori di DEAS erano modicamente aumentati. L’ACTH test
e l’indagine molecolare consentivano di escludere il sospetto di sindrome adrenogenitale non classica (SAG NC) mentre svelavano un’eterozigosi per il gene CYP21A.
Nel corso dei dodici mesi successivi l’incremento della velocità di crescita e il persistente aumento dei valori di T e DEAS portavano a considerare la diagnosi di tumore
virilizzante del surrene (TVS), il cui quadro clinico è più frequentemente caratterizzato da un decorso clinico ingravescente e da livelli di DEAS > 600-700 mcg/dl.
L’ecografia e la Risonanza Magnetica (RM) confermavano la presenza di un TVS,
nella sua forma “atipica”. Un TVS va sospettato anche in presenza di modesti segni
di iperandrogenismo a evoluzione lenta e livelli di androgeni poco elevati.
La storia
Giulia viene condotta dai genitori a consulenza endocrinologica all’età di 4 anni
per la comparsa di peluria pubica da 3-4
mesi. I genitori non riferiscono modificazioni della velocità di crescita sia staturale che ponderale.
La piccola è in buone condizioni generali e lo stato nutrizionale è ottimo: pesa 16
kg (50º percentile), è alta 101 cm (50º
percentile), con bersaglio genetico al 75º
percentile.
All’esame obiettivo presenta peluria sessuale nella regione pubica (pubarca 2º
stadio) e la conformazione dei genitali è
normale a eccezione di una modesta ipertrofia del clitoride. Assenza di telarca e
di ircarca, non sintomi cushingoidi, PA
105/70. L’età ossea, all’età di 4 anni, è di
5 anni e 9 mesi. Sintetizzando, il quadro
clinico è caratterizzato da:
Per corrispondenza:
Brunetto Boscherini
e-mail: [email protected]
124
– pubarca prematuro (PP), iniziato a 3
anni e 8 mesi
– modesta ipertrofia clitoridea
– assenza di telarca
– statura al 50º percentile, inferiore al
bersaglio genetico
- età ossea di 5 anni e 9 mesi, quindi
superiore all’età cronologica
- velocità di crescita staturale (VCS)
non valutabile per mancanza di precedenti dati antropometrici.
– decorso clinico lento.
Il percorso diagnostico
L’endocrinologo richiede alcuni esami:
DEAS: 209 mcg/dl (v.n. 5-35), 17OHP:
618 ng/dl (v.n. < 200); Testosterone (T):
85 ng/dl (v.n. < 10), che risultano aumentati; Cortisolo: 6,2 mg/dl (v.n. 5-20), che
risulta normale.
Quali ipotesi diagnostiche prendere in
considerazione in base alla storia, all’esame clinico e ai risultati degli esami di
laboratorio? Sostanzialmente quattro:
1. Adrenarca esagerato atipico (tabella 1)
È una variante del pubarca prematuro
idiopatico. I pazienti, prevalentemente
femmine di età media di 6-7 anni, spesso
in sovrappeso, presentano oltre alla peluria pubica alcuni sfumati sintomi di iperandrogenismo, come modesta ipertrofia
del clitoride, acne cistica, accelerazione
della VCS e dell’età ossea, inizio anticipato della pubertà ma con prognosi della
statura finale nell’ambito del bersaglio
genetico [1-3]. I valori del T sono appena superiori ai limiti massimi per l’età,
quelli di DEAS possono essere elevati,
anche fino a 200-300 µg/dl, mentre il
17OHP è nella norma [1-2].
Giulia ha alcune caratteristiche cliniche
in accordo con questa ipotesi diagnostica, ma i valori elevati del 17OHP e soprattutto del T la escludono.
2. Tumore virilizzante del surrene (TVS)
(tabella 2)
La presenza di pubarca associato a ipertrofia del clitoride, l’età ossea avanzata e
i valori francamente elevati di T sarebbero a favore di questa ipotesi, ma il decorso clinico di Giulia è lento, mentre di
regola in questa patologia il decorso è
rapido e ingravescente. Inoltre la statura
di Giulia è inferiore (invece che superiore) al bersaglio genetico e il dosaggio di
DEAS che la bambina presenta non è
molto elevato (in questo tipo di tumore si
trovano, in genere, valori superiori a
600-700 µg/dl). Pertanto sembra di poter
escludere anche questa ipotesi.
3. Sindrome adrenogenitale
non classica (SAG NC) da deficit
di 21 idrossilasi (tabella 3)
A favore di questa ipotesi sono: pubarca
precoce [4], ipertrofia del clitoride, decorso relativamente lento, età ossea avanzata, 17OHP basale elevato (oltre 200
ng//dl). Inoltre anche l’aumento del T fa
il caso che insegna
parte della SAG NC, seppure in misura
minore rispetto a quello del caso in
esame. Per escludere l’ipotesi di una
SAG NC, che si ritrova nel 5-20% dei
pazienti con adrenarca prematuro, viene
effettuato un test all’ormone adrenocorticotropo (ACTH) [5-6]. Il 17OHP dopo
stimolo raggiunge il valore di 920 ng/dl.
Tale risposta (< 1000 ng/dl) caratterizza
gli eterozigoti per la mutazione del gene
CYP21A2, condizione per definizione
asintomatica e molto frequente (circa 1/60
nella popolazione generale) [7]. Viene
quindi effettuata un’indagine genetica
che conferma lo stato di eterozigote (portatore sano) per la mutazione del gene
CYP21A2 ed esclude la presenza di una
mutazione omozigote o una doppia eterozigosi per la CYP21A2.
4. Deficit dell’enzima 3
beta-idrossisteroidodeidrogenasi
Può presentarsi, nella forma non classica, con una sintomatologia simile a quella di Giulia. Pertanto è stato sequenziato
il gene HSD3B2, ma non sono state trovate anomalie.
L’endocrinologo decide a questo punto
di aspettare e di rivalutare la bambina
con controlli regolari periodici, in considerazione del decorso clinico lento e del
risultato non dirimente degli accertamenti effettuati.
Nel corso dei dodici mesi successivi alla
prima osservazione il pubarca e l’ipertrofia del clitoride si mantengono stazionari, ma la VCS mostra un’accelerazione
per cui la statura raggiunge il 75º percentile, mentre il T rimane costantemente
elevato (tra 85 e 200 ng/dl). In base a ciò
l’endocrinologo riconsidera l’ipotesi di
un TVS.
A favore di questa ipotesi depone la scarsa risposta del 17OHP all’ACTH (da 618
ng/dl a 920 ng/dl), tipica del tumore surrenalico, che diventa indipendente dal
controllo corticotropinico.
Viene pertanto praticata un’ecografia del
surrene che mostra una voluminosa formazione del surrene sinistro, ipoecogena, solida, a margini regolari, reperto
confermato anche dalla RM.
La diagnosi
A circa un anno dall’inizio della sintomatologia la bambina, che ha raggiunto i
5 anni, viene operata per l’asportazione
Quaderni acp 2014; 21(3)
TABELLA
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1: ADRENARCA “ESAGERATO” ATIPICO
Età media 6-7 anni, prevalenza sesso femminile
Frequente il sovrappeso
Pubarca precoce e modesta ipertrofia del clitoride
Velocità di crescita staturale accelerata
Età ossea superiore all’età cronologica
Prognosi della statura finale nell’ambito del bersaglio genetico
Tendenza a sviluppare iperandrogenismo, PCO, sindrome metabolica
17OHP normale
Testosterone modicamente elevato
DEAS di poco superiore a limiti massimi per l’età, in genere intorno a 200-300 µg/dl
TABELLA
2: TUMORE VIRILIZZANTE DEL SURRENE (FORMA CLASSICA)
• Età preferita prima dei 4 anni e tra 12 e 14 anni
• Pubarca associato a evidenti sintomi di iperandrogenismo (ipertrofia del clitoride,
acne, irsutismo)
• Decorso veloce, ingravescente
• Velocità di crescita staturale molto accelerata
• Età ossea di regola aumentata
• DEAS sempre elevato, in genere > 600-700 µg/dl
• Testosterone sempre elevato, anche > 150-200 ng/dl
• 17OHP modicamente elevato
• Eco/RM positivi per massa surrenalica
TABELLA
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3: SAG NC DA DEFICIT DI 21 IDROSSILASI
Età di comparsa variabile
Pubarca isolato o associato a ipertrofia del clitoride o del pene, acne, irsutismo
Statura superiore al bersaglio genetico
Velocità di crescita staturale moderatamente accelerata
Età ossea superiore all’età cronologica di circa 2 anni
Previsione della statura inferiore al bersaglio genetico
17OHP basale > 200 ng/dl e > 1000 ng/dl dopo ACTH
Testosterone modicamente aumentato
DEAS normale
Indagine molecolare: delezione o mutazioni del gene CYP21A2
in laparoscopia della massa surrenalica
(dimensioni: 57 x 48 x 46 mm; peso:
52 g). L’esame istologico conferma: adenoma corticale del surrene, con invasione vascolare focale.
Il decorso post-operatorio è ottimo e i
successivi controlli sono risultati sempre
negativi. La diagnosi definitiva è quindi:
forma atipica di tumore virilizzante del
surrene in bambina con eterozigosi per il
gene CYP21A2.
Commento
TVS è il più frequente (90%) dei tumori
funzionali del surrene, che comprendono
anche la meno comune sindrome di
Cushing. Sono rari e rappresentano lo
0,2% di tutti i tumori in età pediatrica
[8]. Negli USA si riscontrano circa 15
nuovi casi/anno, ma in Brasile l’incidenza è 15 volte superiore ad altre aree geografiche [9]. L’età di presentazione più
frequente (60%) è prima dei 4 anni (nel
12% nel primo anno di vita, eccezionalmente anche nel neonato) e a 12-14 anni.
I tumori virilizzanti sono sporadici, a
volte associati alla sindrome di Li Fraumeni (cancro familiare a trasmissione
dominante), alla sindrome di BeckwithWiedemann e all’emipertrofia [8-10].
125
il caso che insegna
Il rapporto femmine/maschi è di 1,6:1
ma varia a seconda dell’età: prima dei 3
anni è molto più frequente nel sesso femminile. I TVS possono essere maligni o
benigni e questi ultimi sono più frequenti nella femmina e nel surrene sinistro.
La maggioranza (75%) è localizzata e il
10% invade le aree adiacenti. Nel 5% dei
pazienti al momento della diagnosi si trovano metastasi nei polmoni o nel fegato
o in entrambi [8].
I sintomi della forma classica sono riportati nella tabella 2. Una massa addominale è presente in circa la metà dei
pazienti e l’ipertensione arteriosa si
manifesta nel 55% dei tumori con sintomi misti (virilizzanti e cushingoidi), ma
anche nella metà di quelli con soli sintomi virilizzanti [11].
Nel bambino in cui i sintomi virilizzanti
si associano a quelli cushingoidi si deve
sempre sospettare un tumore del surrene,
per cui è giustificato ricorrere, già in
prima battuta, all’ecografia o, meglio,
alla RM del surrene [11-12].
La forma atipica del TVS (tabella 4) è
meno comune della forma classica e in
questi pazienti la sintomatologia è meno
evidente. Il pubarca può essere inizialmente l’unico sintomo, tanto che in
Brasile, dove il TVS è frequente, il pubarca, anche isolato, che compare prima dei
4 anni viene considerato un TVS fino a
prova contraria [11]. Inoltre il decorso
può essere così lento che l’intervallo di
tempo tra i primi sintomi e la diagnosi
può essere di molti anni, anche fino a 8
anni, specie se il tumore è di piccole
dimensioni [13]. Questo lungo intervallo
è spiegabile per le condizioni generali del
bambino che si mantengono buone per
lungo tempo, la lenta progressione della
sintomatologia e la modesta o inesistente
accelerazione della VCS, come in effetti è
avvenuto nel caso descritto [9].
Anche il comportamento degli androgeni
surrenalici è atipico. Il DEAS, che nei
pazienti con la forma classica risulta molto
elevato [11], oltre 600-700 µg/dl e fino a
10 volte superiore alla norma, nella forma
atipica è meno elevato [11-13]. La diagnosi differenziale del TVS si pone essenzialmente con la SAG NC, diagnosi spesso
erroneamente formulata [13]. Infatti la sintomatologia della forma atipica del TVS
differisce poco da quella della SAG NC;
inoltre, sia il 17OHP basale che il T sono
elevati in entrambe le condizioni.
La terapia è chirurgica con asportazione
del tumore; se permangono residui o
sono presenti metastasi il trattamento si
avvale del mitotane o di altri regimi chemioterapici. La radioterapia è utilizzata
di rado [9]. La prognosi è considerata
non buona, ma migliora se:
1. la resezione del tumore è completa;
2. l’età < 3 anni;
3. il tumore è localizzato;
126
Quaderni acp 2014; 21(3)
TABELLA
4: TUMORE VIRILIZZANTE DEL SURRENE (FORMA ATIPICA)
•
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•
•
•
Pubarca associato a modesta ipertrofia del clitoride
Decorso lento
Velocità di crescita staturale normale o poco accelerata
Età ossea moderatamente avanzata
DEAS meno aumentato rispetto alla forma classica, con valori nell’ordine di quelli del pubarca precoce esagerato ed, eccezionalmente, del pubarca prematuro
idiopatico
• Testosterone sempre elevato
• 17OHP può essere aumentato (> 200 ng/dl)
• Eco/RM positivi per massa surrenalica
COSA
ABBIAMO IMPARATO
– Il tumore virilizzante del surrene si può presentare, oltre che nella forma “classica”, in una forma “atipica”. In questa il decorso è lento, invece che rapido, l’entità delle manifestazioni androgeniche modeste invece che vistose. Anche l’elevazione degli androgeni surrenalici è minore rispetto alla forma classica.
– L’associazione di pubarca e ipertrofia del clitoride deve far sospettare, specie nei
primi anni di vita, un tumore virilizzante del surrene. Pertanto è giustificato richiedere, già in prima battuta, oltre al dosaggio degli androgeni surrenalici, l’ecografia e la RM del surrene.
– Un DEAS di poco superiore ai limiti massimi della norma, quindi molto inferiore
a 600-700 µg/dl, non esclude la diagnosi di tumore virilizzante del surrene.
– Un valore costantemente elevato di testosterone è fortemente a favore di un processo tumorale del surrene.
4. i sintomi cushingoidi sono assenti;
5. la pressione arteriosa è normale.
La sopravvivenza a distanza di cinque
anni è intorno al 50%. Quasi tutti i bambini con stadio avanzato del tumore presentano metastasi. L’exitus dopo due
anni e mezzo dall’inizio riguarda circa
un terzo dei pazienti, spesso per complicazioni ipertensive o per massiva emorragia durante l’intervento.
La dimensione del tumore è il più importante fattore prognostico: se il peso è
<100 g, la prognosi è favorevole. Questi
dati ribadiscono l’importanza di una diagnosi precoce.
Nel caso di Giulia la diagnosi di TVS è
stata formulata dopo dodici mesi dalla
prima osservazione. I fattori che hanno
contribuito a ritardarla sono stati:
1. la statura al di sotto del bersaglio genetico alla comparsa del pubarca;
2. un iperandrogenismo limitato al pubarca e una modesta ipertrofia del clitoride, che sono rimasti immodificati
nel corso di un anno.
Inoltre il dato di un 17OHP basale elevato, che dopo stimolo raggiungeva un valore al limite tra SAG NC ed eterozigosi, ha
reso necessaria l’indagine molecolare. u
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Quaderni acp 2014; 21(3): 127-130
HLA e celiachia:
a ciascuno il proprio rischio
Enrico Valletta
AUSL della Romagna, UO di Pediatria, Ospedale “G.B. Morgagni-L. Pierantoni”, Forlì
Abstract
Quaderni acp 2014; 21(3): 127-130
DQ2 e che buona parte dei rimanenti è
DQ8-positiva anche se, in Italia, questi
valori appaiono un po’ inferiori rispetto
al Nord Europa [5-7]. La negatività per
DQ2 e DQ8 rende, comunque, assai improbabile lo sviluppo della malattia, pur
se con alcune differenze di rischio all’interno di questo gruppo. Il 30% circa della
popolazione generale è DQ2/DQ8-positivo con un rischio di CE attorno al 3%.
La determinazione degli HLA predisponenti alla celiachia (CE) è una risorsa
importante nella diagnosi dei casi con
sierologia e clinica suggestivi e per individuare i soggetti (principalmente famigliari di celiaci) che sono a rischio di sviluppare la malattia o nei quali, al contrario, possiamo escluderla con ragionevole
certezza. Secondo l’European Society of
Paediatric Gastroenterology, Hepatology
and Nutrition (ESPGHAN), la presenza
di una sierologia francamente positiva, di
sintomi compatibili e di HLA predisponenti può essere sufficiente per concludere la diagnosi senza ricorrere alla biopsia duodenale [1]. D’altra parte, in un
contesto a elevato rischio di CE, la presenza o l’assenza degli HLA “giusti” ci
consiglierà, rispettivamente, un atteggiamento di vigile sorveglianza piuttosto
che di consapevole rassicurazione.
Stiamo parlando degli HLA di classe II
-DQ2 e -DQ8 che lo specialista richiede
sempre più frequentemente, ma che
anche il pediatra di famiglia può trovarsi
a dovere interpretare perché sollecitato
dai famigliari di un soggetto affetto. Le
informazioni che possiamo trarre dal
referto del laboratorio sono più di quante
immaginiamo, a condizione di avere
Approfondire le definizioni che il laboratorio ci dà degli HLA è utile per interpretare meglio i referti e la letteratura di
riferimento. Il genotipo HLA-DQ2 è codificato dagli alleli DQA1*05 (catena α)
e DQB1*02 (catena β) e viene oggi identificato con la sigla DQ2.5, l’HLA-DQ8
dagli alleli DQA1*0301 e DQB1*0302.
Determinando il DQ, il laboratorio ci
restituisce due copie del DQA1* e due
copie del DQB1*. I soggetti DQ2.5-positivi possono essere suddivisi in tre sottogruppi a seconda che esprimano due
copie di DQB1*02 (gruppo G1), una
copia di DQB1*02 in trans (su alleli
diversi) con DQA1*05 (gruppo G2) o
una copia di DQB1*02 in cis (sullo stesso allele) con DQA1*05 (gruppo G3). I
soggetti DQ2.5-negativi sono divisi in
due gruppi: uno che include i portatori di
due copie di DQB1*02 (in assenza del
DQA1*05), dell’HLA-DQ8 o di una
copia di ciascuno di questi (gruppo G4) e
l’altro che include tutti gli altri genotipi
DQ (gruppo G5). Nella popolazione italiana il rischio di sviluppare la CE è più
elevato (fatto pari a 1) nel gruppo G1 e
decresce progressivamente per i soggetti
appartenenti a G2 (0,68), G3 (0,23), G4
(0,10) e G5 (0,02) [8]. Questi dati ci consentono già alcune interessanti osservazioni. La prima è che la presenza di
DQ2.5 (DQA1*05/DQB1*02) si conferma il fattore di rischio più elevato nell’ambito dell’assetto HLA, soprattutto in
presenza di una doppia copia di
DQB1*02; la seconda è che DQ8
HLA and celiac disease: to each one his own risk
HLA typing is frequently used to support clinical and serological suspect of celiac disease and to assess genetic predisposition in first-degree relatives of affected individuals. It is well known that the greatest proportion of celiac subjects carry HLA-DQ2 or
-DQ8 molecules. People negative for DQ2/DQ8 are at a very low risk to develop
gluten intolerance. A careful evaluation of HLA markers can help us in stratifying predisposed individuals in different classes of risk. Knowing these differences is useful to
be able to give parents a more precise and accurate communication.
Nella celiachia, la determinazione dell’assetto HLA è frequentemente impiegata come
supporto in fase diagnostica e per definire la predisposizione a sviluppare la malattia
nei famigliari dei soggetti affetti. È noto che la celiachia si manifesta quasi invariabilmente solo nei soggetti positivi per HLA-DQ2 e -DQ8. In assenza di questi HLA, si
può ritenere che il rischio di sviluppare l’intolleranza al glutine sia trascurabile. Una
più attenta interpretazione dell’assetto HLA ci può aiutare a distinguere, nell’ambito
dei soggetti predisposti, diversi livelli di rischio. Conoscere queste differenze è utile
per poter dare ai genitori una comunicazione più precisa e puntuale.
sotto mano qualche semplice chiave di
lettura.
HLA, glutine e celiachia
Il legame tra HLA-DQ2 e -DQ8 e glutine è, per così dire, “strutturale”. Determinate sequenze aminoacidiche contenute nelle diverse componenti del glutine
(α-, γ-, ω-gliadina e glutenina) hanno
un’elevata affinità per alcuni siti di legame presenti sulle molecole DQ2 e DQ8
espresse sulle cellule che presentano
l’antigene ai linfociti T. La transglutaminasi tessutale modifica (deaminazione)
la struttura della gliadina in modo da
aumentare ulteriormente questa affinità.
In realtà, il DQ2 è in grado di riconoscere un numero maggiore di peptidi derivati dal glutine rispetto al DQ8 e già questo
rappresenta un primo elemento per differenziare il rischio di sviluppare la malattia [2-4]. In presenza di HLA diversi dal
DQ2/DQ8 il legame con il glutine (nativo o modificato dalla transglutaminasi) è
di gran lunga meno efficiente e rende
molto meno probabile l’attivarsi dei
meccanismi immuno-mediati propri
della CE.
È ormai noto che circa il 90% dei pazienti con CE è portatore dell’eterodimero
HLA a rischio,
ma quanto a rischio?
Per corrispondenza:
Enrico Valletta
e-mail: [email protected]
127
il punto su
(DQA1*0301/DQB1*0302) ha un rischio relativo inferiore a DQ2.5; la terza
è che anche i portatori di una doppia
copia di DQB1*02 (in assenza di
DQA1*05), pur non essendo né DQ2.5né DQ8-positivi, hanno un rischio relativo paragonabile a quello dei soggetti
DQ8-positivi. Infine, chi ha un assetto
HLA-DQ diverso dai precedenti ha un
rischio di CE cinquanta volte inferiore a
chi è DQ2.5-positivo. L’esistenza di una
graduazione del rischio all’interno dei
cinque sottogruppi è stata confermata
anche successivamente, assegnando valori di rischio pari a 21% per G1, 17%
per G2, 6% per G3, 5% per G4 e 0,6%
per G5 [9].
Lo studio di Megiorni e coll. descrive
meglio le differenze del rischio, non solo
in relazione all’assetto HLA, ma anche al
sesso, tenendo come riferimento un
rischio di CE pari a 1:100 nella popolazione generale [10]. La tabella mostra
che: il rischio più elevato di CE sta nella
contemporanea presenza di DQ2.5 e di
DQ8; la positività per DQ2.5 conferisce
un rischio maggiore nei soggetti con
doppia copia di DQB1*02 rispetto a
quelli con singola copia; la doppia copia
B1*02, anche nei soggetti DQ2.5/DQ8negativi conferisce un elevato grado di
rischio (1:26) e che la presenza di una
sola copia di B1*02 porta con sé un
rischio dimezzato rispetto alla popolazione generale ma comunque non trascurabile (1:210); la presenza del solo
DQA1*05, seppure marginale (1:1842),
non è del tutto irrilevante, soprattutto nei
maschi. La positività per DQ8 (1:89)
conferisce un rischio aggiuntivo (1:24)
se associata a una copia di B1*02.
Un’analoga (pur con qualche lieve differenza) graduazione del rischio all’interno
degli HLA di predisposizione è stata
osservata in celiaci italiani anche da Piccini e coll. [7]. Già dieci anni fa Karell e
coll. [11] avevano segnalato che un’elevata percentuale di celiaci DQ2.5/DQ8negativi risultava positiva, comunque,
per una metà dell’eterodimero DQ2.5;
aveva cioè o DQA1*05 o DQB1*02, e
raccomandavano di non limitarsi alla definizione di DQ2.5/DQ8-positivo/negativo ma di valutare anche l’eventuale presenza di metà dell’eterodimero DQ2.5.
Nei soggetti DQ2.5/DQ8-negativi merita una particolare attenzione anche
l’eterodimero DQA1*0201-DQB1*0202
128
Quaderni acp 2014; 21(3)
TABELLA:
RISCHIO DI CELIACHIA IN RELAZIONE ALL’ASSETTO HLA E AL SESSO [6-7]
HLA
DQ2.5 e DQ8
DQ2.5 (B1*02/02)
DQ8 (B1*02 pos.)
B1*02/02
DQ2.5 (B1*02/X)
DQ8 (B1*02 neg.)
B1*02/X
A1*05
Altro
Rischio
Maschi
Femmine
1:7
1:10
1:24
1:26
1:35
1:89
1:210
1:1842
1:2518
1:8
1:13
1:52
1:26
1:54
1:157
1:208
1:1027
1:2497
1:7
1:8
1:16
1:27
1:26
1:62
1:211
1:8327
1:2530
(HLA-DQ2.2) che ha strette analogie
con DQ2.5 e che è stato associato alla
CE in alcune casistiche europee [12].
Studi ulteriori hanno dimostrato che la
CE è più frequente nelle femmine rispetto ai maschi (F:M = 1,8), che le femmine
sono più frequentemente DQ2.5/DQ8positive (F = 94%; M = 85%), mentre c’è
una prevalenza dei maschi (F:M = 0,7)
tra i celiaci DQ2.5/DQ8-negativi [5].
Il rischio nei parenti
di primo grado
La determinazione HLA è utilizzata per
individuare chi, tra i famigliari di un celiaco, potrebbe sviluppare la CE (i
DQ2.5/DQ8-positivi) e chi, al contrario, può essere ragionevolmente esentato da ripetuti controlli sierologici (i
DQ2.5/DQ8-negativi). L’informazione
che di solito viene data ai genitori è che
la probabilità di un altro caso di celiachia
tra i fratelli è circa il 10%. Anche in questo contesto, sapere interpretare alcuni
assetti può aiutarci a essere più precisi
nella valutazione del rischio. In una
recente casistica italiana, il 65% dei fratelli/sorelle e il 58% dei genitori di un
celiaco avevano un assetto HLA predisponente a rischio molto elevato o elevato (DQ2.5, DQ8, DQB1*02/02) ma, tra
questi, la percentuale di celiaci era molto
diversa: 20% tra i fratelli/sorelle e 6% tra
i genitori [10]. Ne discendeva un rischio
di CE del 13,6% nella fratria – maggiore
per le femmine (17,6%) rispetto ai maschi (10,8%) – e solo del 3,4% nei genitori. All’interno del gruppo dei fratelli/sorelle, le femmine avevano meno
frequentemente dei maschi un HLA a
rischio (57% vs 71%), ma in questo caso
la probabilità di CE era raddoppiata (F =
Valutaz. del rischio
Molto
Molto
Alto
Alto
Alto
Alto
Basso
Molto
Molto
alto
alto
basso
basso
29%; M = 15%). Il dato, già segnalato
più sopra nella popolazione generale,
conferma che la positività per
DQ2.5/DQ8 rappresenta un rischio di CE
maggiore per le femmine rispetto ai
maschi, soprattutto se l’aplotipo predisponente è ereditato dal padre [5]. In sintesi, circa il 40% della fratria di un soggetto con CE avrà un rischio trascurabile
di malattia, mentre sui rimanenti con
HLA predisponenti si potrà ragionare
cercando di graduare il rischio in relazione ai diversi aplotipi presenti.
Quando gli HLA?
Le raccomandazioni dell’ESPGHAN assegnano un ruolo importante agli HLA
sia in fase diagnostica che di gestione dei
contesti famigliari a rischio [1]. Nei
bambini con segni e sintomi suggestivi
di CE e anticorpi transglutaminasi
(TGA) fortemente positivi (oltre dieci
volte la norma), la presenza di HLA predisponenti consente di concludere la diagnosi senza ricorrere alla biopsia. Al
contrario, l’assenza di HLA a rischio
mette in forte crisi (anche se non esclude
in assoluto) l’ipotesi diagnostica. Gli
HLA hanno un loro spazio anche nelle
situazioni dubbie, nelle quali gli elementi clinici, sierologici e istologici sono
discordanti o quando l’iter diagnostico è
stato anomalo o complicato. Recentemente, sembra emergere una linea speculativa che riterrebbe superflua la tipizzazione HLA nei bambini sicuramente sintomatici e con TGA positivi a titolo elevato; in questi casi c’è da attendersi la
(quasi) certa presenza di HLA predisponenti e si potrebbe forse concludere per
una diagnosi di CE “risparmiando” un
esame non indispensabile. Si tratta di un
il punto su
ulteriore tentativo di semplificazione e
razionalizzazione per il quale, tuttavia,
mancano allo stato attuale evidenze sufficienti. In presenza di fratelli/sorelle o
genitori con CE è possibile utilizzare gli
HLA per individuare i soggetti (circa il
40%) a bassissimo rischio ed esentarli da
ulteriori e ripetuti accertamenti sierologici. Per tutti gli altri è raccomandata la
sorveglianza clinica e sierologica ogni
due-tre anni; una più precisa graduazione
del rischio, sulla base degli aplotipi rilevati, può essere data per completare
l’informazione ai genitori ma non modifica, nella sostanza, i tempi e i modi della
sorveglianza.
In sintesi
La genetica della CE è argomento complesso e in continua evoluzione. I rapporti tra sistema HLA e CE rappresentano la parte di questo mondo a noi più
vicina sia come comprensibilità che
come possibilità di utilizzo nella pratica.
In realtà, la CE è malattia multifattoriale
a forte componente genetica, ma il sistema HLA risponde solo per 40% circa del
rischio genetico. E gli altri 39 loci genetici non-HLA, individuati e ritenuti rilevanti per la CE, contribuiscono per non
più di un ulteriore 5% [3]. C’è quindi
ancora molto da scoprire e da capire. Per
Quaderni acp 2014; 21(3)
il pediatra può essere utile avere dimestichezza con l’assetto HLA-DQ che viene
frequentemente richiesto come supporto
nelle diagnosi molto “facili” (per evitare
la biopsia), in quelle molto “difficili”
(casi dubbi o complessi), e per selezionare i famigliari potenzialmente a rischio
da seguire nel tempo. La terminologia
che i laboratori utilizzano nelle risposte
non è sempre uniforme e può indurre in
inganno. Lo schema riassunto nella
tabella ci dice che esistono diversi gradi
di predisposizione all’interno del sistema
DQ2/DQ8 e che qualche attenzione va
posta anche alla composizione allelica
per evitare di sottovalutare quote di
rischio potenzialmente significative
(B1*02/02 e B1*02/X). Possono apparire differenze non sempre decisive ai fini
di un “consiglio genetico” (si tratta, pur
sempre, di una malattia assolutamente
benigna), ma utili per rispondere con
maggiore precisione ad alcune domande
poste dai genitori. u
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La psichiatria (anche infantile)
tra diagnosi e diagnosticismo
Francesco Ciotti
Neuropsichiatra infantile, Cesena
Allen Frances, capo della task force del
DSM IV americano, ha scritto nel 2013,
in contemporanea all’uscita del DSM V
in USA, un libro durissimo contro l’ultima edizione della classificazione psichiatrica americana delle malattie mentali, dal titolo Primo, non curare chi è normale (Bollati-Boringhieri). In una conferenza tenuta a Bologna per la rivista
Per corrispondenza:
Francesco Ciotti
e-mail: [email protected]
Psicoterapia e scienze umane ha illustrato le ragioni della sua avversione all’ultima classificazione psichiatrica, ma ancor
prima nella sua relazione ha messo in
discussione a posteriori la classificazione IV, da lui stesso diretta, per le conseguenze che ha prodotto in USA dopo la
sua diffusione successiva al 1994 nella
edizione originale e al 2000 nell’edizione rivista.
Le conseguenze nefaste delle classificazioni rivedute e corrette sono, secondo
Frances, le false epidemie, ovvero l’invenzione di nuove malattie e nuove diagnosi che portano bambini e adulti a sot-
toporsi a visite inutili e a psicofarmaci
dannosi. In particolare il DSM IV ha prodotto la diffusione di tre false epidemie
in età evolutiva:
1. L’epidemia del disturbo bipolare. Assimilando i disturbi di comportamento e
della condotta in età preadolescenziale e
adolescenziale al disturbo bipolare dell’adulto (depressione-mania), ha condotto molti giovani a prognosi non dimostrate e a trattamenti con antidepressivi senza dimostrazione di efficacia.
2. L’epidemia di ADHD. Limitando la
diagnosi alla presenza di sola inattenzione e di sola iperattività e in un solo
129
il punto su
contesto di vita, ha allargato la sindrome e i bambini trattati con farmaci.
3. L’epidemia di autismo, con l’estensione della diagnosi di autismo di Asperger o ad alto funzionamento ai bambini temperalmente molto riservati, e
con trattamenti antipsicotici dannosi e
per l’umore e per l’obesità. Questo si è
prodotto nonostante la task force del
DSM IV avesse scientemente obiettivi
conservativi della nuova classificazione rispetto alla precedente del DSM
III. Gli effetti probabili della DSM V
saranno ancora più disastrosi perché la
nuova task force ha volutamente perseguito obiettivi rivoluzionari rispetto
alla precedente, nonostante le nuove
conoscenze neuroscientifiche, che
hanno introdotto nuove informazioni
sul funzionamento normale del cervello, nulla abbiano apportato di significativo per la conoscenza delle malattie
mentali, fatta eccezione forse per la
demenza di Alzheimer.
Il DSM V crea nuove diagnosi perché
amplia il confine tra normalità e
devianza, in quanto si prefigge esplicitamente lo scopo della identificazione
precoce dei disturbi ai fini di un intervento precoce che modifichi la storia
naturale di quel disturbo da lieve a
grave.
È il metodo dello screening che, se è
fallace, coi falsi positivi crea più danni
che benefici non solo in psichiatria ma
in tutta la medicina: ne sono esempio
recente le conclusioni sullo screening
del cancro alla prostata, che non salva
vite ma produce danni.
Uno screening per essere efficace deve
soddisfare due criteri:
1. permettere una diagnosi accurata con
pochissimi falsi positivi e negativi;
2. disporre di una terapia-intervento efficace e sicura che modifichi la storia
130
Quaderni acp 2014; 21(3)
naturale della malattia-disturbo. Ora in
psichiatria queste due condizioni non
esistono quasi mai. Pochi gli strumenti standardizzati capaci di distinguere
chiaramente tra normalità e patologia.
Costosi, poco efficaci, molto insicuri
gli psicofarmaci. Attraverso questo
metodo fallace il DSM V medicalizza
la variabilità individuale, deresponsabilizza le persone, crea queste nuove
diagnosi:
1. il “rischio psicotico”, da trattare
con gli antipsicotici per impedire
l’evoluzione in psicosi (crea il 70%
di falsi positivi);
2. la “disregolazione del temperamento” che sostituisce il disturbo bipolare (categoria introdotta da un solo
gruppo di ricerca al mondo, che
mette a rischio farmacologico inutile bambini e adolescenti);
3. “ansia-depressione” mista, transitoria (rende pazienti un 10% di persone che realizzano normali e necessari sintomi di adattamento agli
stress del vivere;
4. alimentazione incontrollata o binge
eating con una abbuffata settimanale (in USA una nuova inarrestabile
epidemia);
5. disturbi neuro-cognitivi minori,
prodromici dell’Alzheimer (crea ai
test clinici il 50% di falsi positivi,
devastati dal falso allarme);
6. depressione post-lutto (conduce
inutilmente dal medico chi avrebbe
bisogno di famiglia e di amici);
7. ADHD dell’adulto (allarga inutilmente l’uso dei farmaci psicostimolanti);
8. disturbo d’ansia generalizzato (senza porre confini chiari tra ansia fisiologica e devianza).
Si calcola che questi criteri porteranno il
35% della popolazione ad avere una
nuova diagnosi psichiatrica in un anno e
il 100% ad avere una diagnosi psichiatrica nella vita.
Probabilmente la classificazione psichiatrica descrittiva delle malattie mentali ha
già progredito per quanto più poteva e
non dispone, al momento, di scoperte
scientifiche che riguardino la patogenesi
dei disturbi da autorizzare modifiche
significative. Su questo piano la psichiatria oggi è al tempo dell’astronomia
prima di Keplero, della biologia prima di
Darwin e della fisica prima di Einstein.
Del resto, il cervello è il sistema più
complesso dell’universo. Probabilmente
dietro un disturbo grave della schizofrenia si celano cento malattie diverse, per
le quali disponiamo di un farmaco sintomatico utile, l’antipsicotico, come l’antipiretico per la febbre. Abbiamo farmaci e
psicoterapie utili, ma li usiamo male. Un
terzo delle depressioni gravi non è adeguatamente trattato, mentre i medici di
base prescrivono gli antidepressivi a persone che non ne hanno bisogno. I servizi
psichiatrici di secondo livello rischiano
di essere sommersi da una domanda e da
invii inappropriati, mentre non trovano
risorse e tempo per trattare i disturbi
gravi. Curare chi è normale o per normalizzare le differenze e le sofferenze della
vita e della società crea danni alle persone e profitti alle case farmaceutiche. Il
primo dovere del medico, come ci ha
insegnato Ippocrate, è non nocere, specie
per gli psichiatri, specie per la mente dell’uomo. La prossima edizione del DSM
forse va affidata, non più a una task force
ristretta di ricercatori che vedono pazienti e cavie in laboratorio, ma a un gruppo
più vasto di specialisti, medici e non,
sanitari, epidemiologi, politici, filosofi,
sociologi. Perché, come ci insegnava
Basaglia, la malattia mentale non è definita dalla natura, ma dalla definizione
sociale di essa. u
vaccin
Quaderni acp 2014; 21(3): 131
Quali vaccinazioni nel bambino
affetto da diabete mellito?
Franco Giovanetti
Dirigente medico, Dipartimento di Prevenzione, ASL CN2, Alba, Bra (CN)
Il diabete mellito fa parte di un gruppo di
malattie croniche molto diverse tra loro,
ma con una caratteristica comune: l’aumentato rischio di sviluppare determinate
malattie infettive o di manifestare le complicanze a esse correlate. In particolare, le
infezioni da virus influenzali e le malattie
invasive da Streptococcus pneumoniae
sono responsabili di un aumentato rischio
di ospedalizzazione e morte nei bambini
con malattie croniche, in confronto ai
bambini sani [1-3]. Queste osservazioni
dovrebbero rappresentare la base razionale per garantire a tutti i bambini con
malattie croniche non solo le vaccinazioni di routine appropriate all’età, ma anche
le vaccinazioni supplementari raccomandate per la loro patologia. Sappiamo da
tempo che non è così. L’indagine a cluster
ICONA condotta in Italia nel 2008 ha evidenziato nei bambini a rischio una copertura vaccinale contro l’influenza di gran
lunga inferiore al 10%, mentre contro lo
pneumococco risultava vaccinato solo il
49% dei soggetti al di sotto dei 2 anni [4].
Un’indagine effettuata nei centri specialistici di tre Regioni italiane sui soggetti
con malattie croniche da 6 mesi a 18 anni
ha evidenziato una bassa copertura vaccinale e un ritardo nella somministrazione
dei vaccini di routine e di quelli raccomandati in base alla patologia [5]. In particolare, i bambini con diabete di tipo 1
erano quelli con i maggiori ritardi vaccinali. Tra le cause del ritardo riferite dai
genitori, la più frequente era la presenza
di una malattia intercorrente o la riattivazione della patologia di base, ma non
mancavano la carenza d’informazione, la
paura del vaccino e l’aver ricevuto un
parere contrario alla vaccinazione. A tal
proposito uno studio ha evidenziato che il
ricevere una raccomandazione specifica
per l’immunizzazione contro l’influenza
da qualsiasi medico (può trattarsi del
pediatra di famiglia o dello specialista o
altro medico) è un agente forte determinante dell’adesione alla vaccinazione nei
bambini con malattie croniche [6].
L’influsso positivo risulta indipendente da
variabili quali le caratteristiche sociodemografiche, il numero di contatti con
operatori sanitari e la malattia di base.
Questa osservazione coincide con l’espePer corrispondenza:
Franco Giovanetti
e-mail: [email protected]
rienza quotidiana degli operatori dei centri vaccinali, i quali possono confermare il
ruolo centrale (in positivo ma purtroppo,
alcune volte, anche in negativo) dello specialista o del pediatra di fiducia nelle scelte vaccinali operate dai genitori dei bambini con malattia cronica.
Negli ultimi anni le tecniche di biologia
molecolare (PCR) hanno permesso di
valutare l’efficacia dei vaccini influenzali sull’influenza confermata in laboratorio, anziché sulle Influenza-like Illness
(ILI), come invece accadeva in precedenza. Una metanalisi degli studi condotti con tale metodologia ha evidenziato un’efficacia vaccinale moderata negli
adulti sani e risultati inconsistenti nei
bambini per quanto riguarda i vaccini
inattivati; sicuramente migliore è apparsa l’efficacia dei vaccini vivi attenuati,
con evidenza di protezione elevata
(83%) nella fascia d’età da 6 mesi a 7
anni [7]. In generale si può dire che le
stime di efficacia del vaccino inattivato
nei bambini di età ≥ 6 mesi variano
anche notevolmente a seconda della stagione e del disegno dello studio.
Complessivamente sono disponibili limitati dati di efficacia nei bambini da studi
che hanno utilizzato la PCR. Tra questi
un recentissimo studio caso-controllo,
condotto durante le stagioni influenzali
2010-11 e 2011-12 negli Stati Uniti, ha
riscontrato nei bambini vaccinati una
riduzione di tre quarti del rischio di sviluppare forme severe di influenza [8]. Se
è difficile valutare l’efficacia del vaccino
influenzale nella popolazione generale e
nelle varie fasce d’età, considerato anche
il differente matching tra ceppi vaccinali
e ceppi circolanti in corrispondenza delle
varie stagioni influenzali, ancor più difficile è trovare evidenze di efficacia nelle
singole patologie. Nel caso del diabete
non sono disponibili revisioni sistematiche o studi randomizzati e controllati sull’effetto dei vaccini influenzali inattivati
vs placebo o nessun intervento: ciò non
deve stupire, in quanto non sarebbe etico
nei soggetti ad alto rischio promuovere
studi sperimentali che prevedano un
gruppo di controllo non vaccinato [9].
Per quanto riguarda il vaccino contro lo
pneumococco la situazione appare sicuramente più lineare. Dopo l’era del vaccino coniugato 7-valente, l’introduzione
del vaccino 13-valente promette risultati
importanti nella riduzione delle malattie
invasive da S. pneumoniae [10]. Attual-
mente il vaccino è registrato per un
amplissimo range di età, che si estende
dalle 6 settimane di vita sino all’anziano.
Il bambino diabetico di qualsiasi età può
quindi ricevere il vaccino 13-valente,
qualora non sia stato vaccinato nel primo
anno di vita, come prevede il calendario
vaccinale vigente. u
Conflitto d’interessi. L’Autore dichiara di
non avere rapporti di tipo economico con
aziende farmaceutiche. Sporadicamente
ha accettato inviti da Wyeth (ora Pfizer),
Sanofi-Pasteur, Novartis Vaccines e GSK
per la partecipazione a convegni.
Bibliografia
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131
fra due mondi
Quaderni acp 2014; 21(3): 132-135
Le mutilazioni genitali femminili:
basta una storia per svelare un mondo
Valentina Venturi*, Tamara Fanelli**, Enrico Valletta***
*Pediatra di libera scelta, AUSL della Romagna, Forlì; **Ufficio Minori, Questura di Forlì; ***AUSL della Romagna, Dipartimento
Materno-Infantile, Ospedale “G.B. Morgagni-L. Pierantoni”, Forlì
Abstract
siderando che in numerosi Paesi africani
Female genital mutilation: a story seems enough to uncover a world
Female genital mutilation/cutting (FGM/C) is a common practice among populations
of North and Central Africa, from the Atlantic coast to the Horn of Africa, and of
Middle East. As many as one hundred to one hundred and forty million girls have been
cut worldwide and three million girls are at risk of being cut every year. Most of them
are cut before 15 years of age. A number of young women and girls migrating from
Africa to Italy are likely to have been cut, or their parents are planning to cut them in
the future. Such practice is banned and punished both by Italian and international
legislation. The case described shows how important it is for the paediatrician to be
aware and informed of the cultural and legal implications in order to act properly.
la maggioranza delle bambine subisce
una MGF entro i 5 anni età, non è improbabile che anche il pediatra possa imbattersi in problematiche di questa natura e
ne debba riconoscere le complessità
socio-sanitarie e medico-legali. Il caso
che descriviamo ci aiuta a rendere più
realistica questa ipotesi [2].
Gli interventi rituali sui genitali femminili sono una pratica antichissima presso le
popolazioni che appartengono alla fascia centro-nord africana, dalla costa atlantica
al Corno d’Africa fino al Medio Oriente. Sono circa 100-140 milioni le donne che in
tutto il mondo hanno subìto una mutilazione genitale (MGF) e ogni anno circa 3 milioni rischiano uguale trattamento. La maggioranza di questi interventi avviene entro i
15 anni di età. I crescenti flussi immigratori rendono attuale questa problematica
anche in Italia ed è ragionevole ritenere che un certo numero di bambine, provenienti da Paesi nei quali le MGF sono consuetudine, siano state o possano essere sottoposte a mutilazioni di questo tipo. La legislazione italiana e larga parte di quella internazionale condannano e puniscono questa pratica. Il caso che descriviamo dimostra
che il pediatra deve essere consapevole di questo fenomeno e conoscere il contesto
culturale e normativo nel quale potersi muovere con avvedutezza ed efficacia.
“Anya (nome di fantasia) ha 9 anni ed è
nata in Italia da genitori che provengono
dal Burkina Faso. Sono la sua pediatra
da quando aveva 2 anni; dopo di lei sono
nati un fratellino che ha ora 5 anni e la
sorellina S. di 4 anni, entrambi miei
pazienti dalla nascita. Sono quasi sempre venuti in ambulatorio con la mamma
che, pur parlando poco l’italiano, è
abbastanza autonoma e non aspetta che
il marito torni dal lavoro per farsi
accompagnare da me, come è spesso abitudine delle donne immigrate. All’inizio
è stato difficile farsi capire: la mamma
mi portava Anya solo quando era malata, senza prendere appuntamento e faceva fatica a comprendere le indicazioni
che le davo. In seguito ha iniziato a
seguire meglio le mie prescrizioni, a presentarsi agli appuntamenti dei bilanci di
salute e non solo per le malattie dei bambini, a non utilizzare il Pronto Soccorso
per situazioni di mia competenza: ero
convinta di aver instaurato una buona
relazione con questa famiglia. Certamente la differenza culturale permaneva, era evidente nel modo di vestire della
madre, nel modo un po’ sbrigativo e rude
(per me) di trattare i bambini e nelle abitudini alimentari che l’hanno portata a
svezzare i figli con i cibi tipici del proprio paese d’origine.
... ma l’Africa era presente nelle loro vite
più di quanto io potessi immaginare e
l’ho percepito il giorno in cui sono stata
contattata da un’ispettrice dell’Ufficio
Minori della Questura per informazioni
su Anya e sulla sua famiglia. Dalla scuola di Anya era pervenuta la segnalazione
che la bambina si era detta preoccupata
per un “taglio” nelle parti intime che
avrebbe dovuto subire l’estate successiva, così come era accaduto alla sorella
minore S. quando era stata in Africa.
Costernata per la mia ignoranza dei fatti
Quaderni acp 2014; 21(3): 132-135
Gli interventi rituali sui genitali femminili sono una pratica antichissima tra le
popolazioni della fascia centro-nord africana, dalla costa atlantica al Corno
d’Africa fino al Medio Oriente. Sono
circa 100-140 milioni le donne che in
tutto il mondo hanno subìto una mutilazione genitale e, ogni anno, circa 3 milioni rischiano un uguale trattamento [1].
Tutti gli organismi internazionali, coinvolti nella tutela dei diritti umani e attenti alle condizioni socio-sanitarie dei
Paesi in via di sviluppo, hanno espresso
condanna nei confronti delle pratiche di
mutilazione genitale femminile (MGF),
avviando indagini epidemiologiche e
programmi di monitoraggio, promuovendo campagne educative e incoraggiando provvedimenti legislativi che
mettessero al bando qualsiasi intervento
non terapeutico di questa natura. Tra i
documenti più recenti, il pronunciamento dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite (Intensifying global
efforts for the elimination of female genital mutilations, dicembre 2012) e l’ampio report dell’UNICEF (luglio 2013)
Per corrispondenza:
Enrico Valletta:
e-mail: [email protected]
132
che fotografa lo stato attuale del fenomeno alla luce delle dinamiche socio-culturali intervenute negli ultimi 20 anni
(figura 1) [1-2]. Molti Stati africani e del
Medio Oriente hanno ratificato disposizioni e leggi che scoraggiano o bandiscono qualsiasi MGF incontrando, peraltro,
grandi difficoltà nella loro attuazione.
I flussi migratori provenienti dall’Africa
hanno portato la consapevolezza del problema anche in Italia. L’art. 4 della
Legge n. 7 del 9 gennaio 2006 (vedi
oltre) formula Linee Guida di comportamento per le figure professionali sanitarie e sociali, tese alla prevenzione, assistenza e riabilitazione delle donne e delle
bambine sottoposte a MGF; nel 2007 il
Ministero della Salute pubblicava una
ricognizione delle risorse regionali dedicate al monitoraggio di questa pratica
[3-4]. Già alcuni anni prima la Regione
Emilia-Romagna aveva condotto un’indagine conoscitiva ed elaborato raccomandazioni per supportare i professionisti nell’approccio culturale, ancor prima
che sanitario, a un tema così complesso
[4-5]. Gli operatori dell’area ostetricoginecologica sono evidentemente in
prima linea rispetto alle possibili ripercussioni di natura funzionale, sessuale e
infettiva, e alle complicanze connesse
alla gravidanza e al parto. Tuttavia, con-
La storia di Anya,
raccontata dalla sua pediatra
pediatri fra due mondi
Quaderni acp 2014; 21(3)
FIGURA 1: PERCENTUALE DI DONNE SOTTOPOSTE A MGF
TABELLA
1: CLASSIFICAZIONE DELLE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI [3-5-6]
Tipo I
Asportazione del prepuzio, con o
senza l’asportazione di parte o di
tutto il clitoride
In evidenza l’area di tessuto rimosso
Tipo II
Parziale o totale rimozione del
clitoride e delle piccole labbra con
o senza escissione delle grandi
labbra
In evidenza l’area di tessuto rimosso
e dopo sutura
Tipo III
Tipo IV
0%
20%
40%
60%
80%
100%
(mai avevo avvertito alcun timore in
Anya, né notato nulla di strano in S.!),
guardo nella cartella della sorella minore e vedo che S. aveva saltato il bilancio
di salute dei 2 anni, recuperato malamente con un peso, un’altezza e qualche
annotazione sullo sviluppo psico-motorio in occasione di una visita per patologia acuta verso i 2 anni e mezzo (nessun
appunto sui genitali!). Cerco nella mia
cartella qualche traccia di un suo precedente soggiorno in Africa, ma non trovo
prove certe (nell’ottobre del 2010 avevo
prescritto la profilassi antimalarica per
Anya e per il fratellino che, presumibilmente, erano andati in Africa, ma non
per S.!). Mi accorgo di avere in programma per S. un appuntamento per il
bilancio di salute dei 3 anni di lì a poco,
per cui mi congedo dalla dottoressa
dell’Ufficio Minori con l’impegno di
ricontattarla a breve per fornirle informazioni più precise. Nel frattempo lei
avrebbe convocato con discrezione la
famiglia per un colloquio.
Al bilancio di salute S. è accompagnata
dai genitori; sul libretto sanitario verifico che si era recata in Africa nel 2010 (la
Riduzione del canale vaginale con
taglio e avvicinamento delle piccole e/o grandi labbra fino a sigillarle anche mediante sutura (infibulazione), con o senza escissione
del clitoride.
In evidenza l’area di tessuto rimosso
e dopo sutura
Operazioni, non specificamente classificate, che includono: perforazione,
penetrazione o incisione del clitoride e/o labbra, stiramento del clitoride
e/o labbra, cauterizzazione mediante ustione del clitoride e del tessuto circostante, raschiamento del tessuto circostante l’orifizio vaginale o incisione della vagina, introduzione di sostanze corrosive o erbe in vagina per
causare emorragia o allo scopo di serrarla o restringerla
profilassi antimalarica era stata probabilmente prescritta dal medico dell’Ufficio di Igiene che l’aveva vaccinata per
la febbre gialla). Ancora prima che io
inizi a visitare la bambina, il padre mi
comunica che il giorno precedente erano
stati convocati in Questura per rispondere ad alcune domande rivolte alle famiglie di immigrati. Nel corso di quell’intervista avevano ammesso di aver sottoposto S. a una pratica di chirurgia rituale femminile come era consuetudine per
tutte le bambine della loro famiglia (era
stato così anche per la madre di S.). Il
fatto si era verificato nel 2010 quando
erano tornati in Africa dai loro parenti
(S. aveva circa un anno e mezzo). Anche
Anya avrebbe dovuto subire lo stesso
intervento ma era stato rimandato perché in quei giorni non stava bene. Nel
colloquio avuto in Questura avevano capito di aver fatto “qualcosa di sbagliato” per la nostra Legge ed erano preoccupati. Non ho quindi dovuto addurre
alcuna giustificazione per esaminare i
genitali della bambina e per verificare
che le piccole labbra erano state ridotte
a due piccoli lembi mucosi in corrispon-
denza della commissura vulvare anteriore e che il clitoride era appianato.
Durante la visita, il padre mi ripete che
nella loro famiglia si tratta di una pratica abituale, come la circoncisione per i
maschi, ed effettivamente durante lo
stesso viaggio in Africa il fratellino di
Anya era stato circonciso, anche lui in
casa, come la sorella. Mi dice anche che
in Burkina Faso le donne che non sono
sottoposte a quella pratica da bambine,
trovano marito con difficoltà, sono considerate “diverse”. Mi permetto di far
osservare al padre che, anche se diffuse
e accettate nel suo Paese, sono pratiche
molto dolorose e dannose per la salute
delle bambine. Gli spiego che la Legge
italiana vieta le pratiche di questo tipo e
che sono tenuta a riferire il tutto alla dottoressa della Questura.
Alcuni giorni dopo ho rivisto la piccola
S. insieme a una ginecologa esperta in
questo tipo di lesioni, che ha confermato
la presenza di una MGF di III tipo con
clitoridectomia e asportazione delle piccole labbra (una delle più diffuse in
Africa). Ricevuto il referto congiunto mio
e della ginecologa, l’Ufficio Minori della
133
pediatri fra due mondi
Questura ha avviato il successivo iter
giudiziario”.
Disposizioni e leggi in tema
di mutilazioni genitali femminili
Le pratiche di MGF appartengono a
retaggi di culture ancestrali, nell’ambito
dei cosiddetti “riti di passaggio”, volti a
scandire le fasi della vita sociale all’interno dei gruppi umani. Si tratta di pratiche che portano alla rimozione (o al danno) parziale o totale dei genitali esterni
femminili (compiute sulla base di motivazioni non terapeutiche), che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
ha classificato in quattro tipologie (tabella 1) [6]. Nel 2001, il Parlamento
dell’Unione Europea ha adottato una
Risoluzione di condanna delle MGF in
quanto violazione dei diritti umani fondamentali e ha chiesto agli Stati membri
di considerare reato qualsiasi tipo di
MGF [7].
Il legislatore italiano, con la Legge n. 7
del 9 gennaio 2006, “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle
pratiche di mutilazione genitale femminile” (G.U. n. 14 del 18 gennaio 2006),
ha introdotto nel Codice penale uno specifico reato che punisce queste pratiche.
Nel panorama del diritto italiano è il
primo esempio di cultural crime, o reato
culturalmente motivato: un “comportamento realizzato da un membro appartenente a una cultura di minoranza (immigrato), […] considerato reato dall’ordinamento giuridico della cultura dominante. Questo stesso comportamento,
tuttavia, all’interno del gruppo culturale
dell’agente è condonato, o accettato
come comportamento normale, o approvato, o addirittura è sostenuto e incoraggiato in determinate situazioni”. La
Legge, intervenendo in un contesto di
evidente conflitto normativo/culturale, si
propone di individuare “le misure necessarie per prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di MGF quali violazioni dei diritti fondamentali all’integrità
della persona e alla salute delle donne e
delle bambine”. I Ministeri per le Pari
Opportunità, della Salute, dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, del
Lavoro e delle Politiche Sociali, degli
Affari Esteri e dell’Interno hanno individuato, congiuntamente, programmi diretti a informare le comunità degli immi134
Quaderni acp 2014; 21(3)
grati sulle leggi italiane che vietano le
MGF, sui diritti fondamentali delle
donne e delle bambine e sulla corretta
preparazione al parto per le donne infibulate. Sul versante socio-sanitario si è
operato sull’aggiornamento degli insegnanti della scuola dell’obbligo, sul
monitoraggio dei casi già conosciuti e
sulle attività di prevenzione, assistenza e
riabilitazione delle donne e delle bambine che hanno subito una MGF. Il Ministero dell’Interno ha istituito un numero
verde (800 300 558), “finalizzato a ricevere segnalazioni da parte di chiunque
venga a conoscenza dell’effettuazione,
sul territorio italiano, delle pratiche di
MGF, nonché a fornire informazioni
sulle organizzazioni di volontariato e
sulle strutture sanitarie che operano
presso le comunità di immigrati provenienti da Paesi dove sono effettuate tali
pratiche”.
La Legge italiana prevede sanzioni pecuniarie e amministrative nel caso in cui la
MGF sia attuata all’interno delle strutture sanitarie del nostro Paese (D.L.
8.6.2001, n. 231). Per l’operatore sanitario responsabile di taluni di questi delitti
è prevista l’interdizione dalla professione da 3 a 10 anni. La stessa Legge del
2006 intende garantire non solo l’integrità fisica e la salute, ma anche il benessere psico-sessuale della donna, la sua
dignità e libertà di autodeterminazione.
Individuando come illecite le mutilazioni
dei genitali esterni, si è voluto tutelare la
donna nei suoi diritti sessuali proteggendola da pratiche mutilanti intese a controllarne l’esercizio della sessualità pur
senza incidere sulla sua capacità di procreare. Qualsiasi tipo di MGF, da chiunque provocata e per qualsiasi motivo in
assenza di “esigenze terapeutiche”, è
considerato reato. Se da questo deriva
una “malattia nel corpo o nella mente” o
se la mutilazione ha l’intento specifico di
“menomare le funzioni sessuali”, il reato
è considerato ancora più grave. Si è voluto, così, eliminare qualsiasi spazio di
impunità anche per le menomazioni della
funzione sessuale che non si accompagnino, necessariamente, a una mutilazione (es. incisione del clitoride o della
vagina o restringimento dell’organo femminile).
Il reato è considerato più grave se commesso a danno di un minore o per fini di
lucro. Le stesse disposizioni si applicano
quando il fatto è commesso all’estero da
cittadino italiano o da straniero residente
in Italia e, previa richiesta del Ministro
della Giustizia, quando la vittima sia un
cittadino italiano o uno straniero residente in Italia. Se il responsabile del fatto è
il genitore o il tutore, si può arrivare,
rispettivamente, alla decadenza della
potestà genitoriale o alla interdizione
perpetua dalla tutela. Per questi reati c’è
l’obbligo di procedere d’ufficio. L’esercente un servizio di pubblica necessità
(sanitario libero professionista) ha l’obbligo di redigere il referto entro 48 ore,
mentre il Pubblico ufficiale (dipendente
pubblico) o l’incaricato di Pubblico servizio (professionista convenzionato con
il SSN), che abbia avuto anche solo
“notizia” dell’esecuzione di una MGF,
deve redigere “senza ritardo” la denuncia (rapporto). Entrambe le comunicazioni devono essere trasmesse o al Pubblico
Ministero o a un ufficiale di Polizia giudiziaria.
Anya, tra cultura e legge
Le cose iniziano a muoversi attorno ad
Anya nell’aprile 2012, quando una sua
compagna di classe riferisce alla propria
madre, assistente sociale, una frase che
poteva rimandare a pratiche di MGF
(“questa estate in Africa mi taglieranno e
cuciranno la passerotta”). L’assistente
sociale inoltrava la segnalazione all’Ufficio Minori della Questura. L’Ufficio
prendeva contatto con la pediatra di
Anya e convocava i genitori affrontando,
in termini prudentemente generali, il
tema delle MGF. Nel colloquio i genitori
di Anya ammettevano, senza difficoltà,
di avere sottoposto in Burkina Faso, nel
novembre del 2010, la figlia terzogenita
a un intervento di chirurgia rituale. L’intervento, che trovava la loro piena adesione, poiché “una donna non è una donna” se non ha subìto questa procedura,
era stato effettuato da personale non
medico.
Le verifiche successive della pediatra e
della ginecologa sulla sorellina di Anya
definivano il quadro dal punto di vista
sanitario. Vale la pena ricordare che il
pediatra ha l’obbligo di denunciare le
ipotesi di reato a danno dei minori rilevate nell’ambito della sua attività, inoltrando il referto al Pubblico Ministero o
a un ufficiale di Polizia Giudiziaria (es.
Ufficio Minori). Nel nostro caso, il refer-
pediatri fra due mondi
to della pediatra e la denuncia sanitaria
della ginecologa avevano evidenziato
una “mutilazione genitale di terzo
grado”, reato specificamente contemplato dall’art. 583 bis c.p. L’iter giudiziario
proseguiva con la comunicazione alla
Procura della Repubblica per accertare la
responsabilità penale dei genitori e al
Tribunale per i Minorenni al fine di
garantire la tutela dei minori appartenenti al nucleo familiare. I genitori erano,
infatti, imputabili del reato in quanto
entrambi residenti in Italia così come la
sorella di Anya in qualità di persona offesa. Il Tribunale per i Minorenni emetteva
un Decreto provvisorio di sospensione
dalla potestà genitoriale, nominando
tutore provvisorio il Servizio sociale perché effettuasse, assieme ai Servizi sanitari della AUSL, una stretta vigilanza sulla
crescita psicofisica dei bambini e sui loro
rapporti con i genitori. Attraverso un’appropriata mediazione culturale si predisponeva un progetto educativo e psicologico di sostegno al nucleo familiare e, in
particolare, a S., vittima della mutilazione. Ai genitori veniva fatto divieto di
condurre i minori fuori dal territorio italiano, per impedire che anche Anya
potesse subire lo stesso intervento all’estero.
La successione degli eventi mette in luce
l’importanza della tempestiva segnalazione dell’assistente sociale all’Ufficio
Minori: essa ha consentito di verificare la
menomazione di S., di accertare la
responsabilità dei genitori ma, soprattutto, di scongiurare analogo destino per
Anya. La stretta integrazione tra l’autorità giudiziaria e i servizi socio-sanitari
coinvolti ha dato l’avvio a un percorso
virtuoso di tutela dei minori e di affiancamento di tutto il nucleo familiare in
un’ottica di maggiore consapevolezza e
di integrazione socio-culturale.
Ci è noto un solo caso analogo in giurisprudenza, nel quale il Tribunale di
Verona (sentenza del 14 aprile 2010)
condannava due coppie di genitori e una
mammana nigeriani per avere effettuato,
Quaderni acp 2014; 21(3)
in territorio italiano, ripetute pratiche di
MGF e di circoncisione su bambini connazionali.
Alcune considerazioni
La storia di Anya riassume alcune delle
molte problematiche che accompagnano
il tema delle MGF. Si tratta di un fenomeno con implicazioni antropologiche,
religiose, storiche, sociali e culturali talmente vaste da sconsigliarne una trattazione sommaria e superficiale. Ci limiteremo pertanto a qualche considerazione
pratica suggerita dal caso descritto.
Il primo messaggio per il pediatra è che,
in conseguenza dei crescenti flussi migratori in atto e della giovane età (entro i
15 anni) alla quale vengono quasi sempre
attuate le pratiche di MGF, è del tutto
possibile che tra le proprie assistite possa
esserci qualche bambina che è stata sottoposta a chirurgia rituale. È bene esserne a conoscenza per motivi legati alla
salute della paziente (rischio infettivo,
disturbi della minzione, regolarità della
dinamica mestruale, difficoltà di ordine
sessuale), per una migliore comprensione del contesto culturale del suo nucleo
familiare e per vigilare – come nel caso
di Anya – sul possibile reiterarsi di un
intervento oggi considerato gravemente
lesivo dei diritti fondamentali dell’individuo e della sua integrità psico-fisica.
Il secondo messaggio è che la pratica
delle MGF è reato contemplato dal
nostro Codice penale e, come tale, impegna ogni operatore sanitario a un’opera
di prevenzione oltre che di immediata
segnalazione all’Autorità giudiziaria,
anche nel semplice sospetto che possa
verificarsi entro e fuori i confini italiani.
Non tanto e non solo perché la Legge
possa dispiegare i propri effetti punitivi,
ma soprattutto perché possano essere
messe in atto azioni volte a favorire un
mutamento culturale e il consapevole
rifiuto di qualsiasi pratica di MGF. I dati
raccolti dall’UNICEF dicono che qualcosa sta cambiando anche nella cultura
dei Paesi interessati e che la percentuale
delle donne operate è passata dal 54% al
36%, con una diminuzione particolarmente evidente in Kenya, Benin, Repubblica Centrafricana, Iraq e Liberia [2].
Nello stesso Burkina Faso, è punibile
non solo chi provoca una MGF, ma anche chi venga a conoscenza del fatto e
non lo riferisca.
L’ultimo messaggio, trasversale a tutto il
percorso descritto, è che la comunicazione su questo tema, con le famiglie e con
le bambine/adolescenti, deve essere
improntata alla massima prudenza e
rispetto di culture e tradizioni a noi pressoché sconosciute. È una raccomandazione contenuta in qualsiasi documento
che tratti l’argomento MGF, a partire dal
termine stesso “mutilazione” che, pur
formalmente corretto per la nostra cultura, potrebbe risultare altrove offensivo e
ostacolare ogni ulteriore tentativo di
comprensione reciproca. u
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135
Quaderni acp 2014; 21(3): 136-137
Rubrica a cura di Maria Francesca Siracusano
Cosa pensano i bambini
del loro essere malati
Anna Rosa Favretto,
Francesca Zaltron
Mamma,
non mi sento
tanto bene
Donzelli editore, 2013
pp. 202, euro 25
Questo libro di due ricercatrici di cultura
sociologica, ma abituate a lavorare con i
pediatri, affronta un problema poco analizzato: che cosa pensano i bambini della
loro salute e specialmente (“specialmente” perché questo riguarda molto i pediatri) cosa pensano di se stessi quando si
ammalano o “non si sentono tanto bene”.
Lo star bene o lo star male, in verità, non
sono stati assoluti ma confinanti e quindi
è particolarmente interessante il problema delle “soglie”, cioè della percezione
del passaggio dallo stato di salute a quello di malattia. Il problema, che dovrebbe
destare molto interesse fra i pediatri e fra
i genitori, si colloca su un piano più
generale: quanto si tiene conto, nella vita
quotidiana, della capacità dei bambini di
essere persone attive e progressivamente
sempre più competenti? Il libro colloca il
problema nella triade genitore/bambino/pediatra e cerca risposte con una
ricerca alla quale hanno partecipato 151
bambini fra 7 e 10 anni residenti a Torino
e nella provincia di Asti e i loro 20 pediatri del Gruppo ACP dell’Ovest, cioè del
Piemonte e Valle d’Aosta. Oltre ai pediatri hanno partecipato alla ricerca
50 madri, 13 padri e 26 insegnanti. Il
punto di vista di genitori e insegnanti è
ovviamente di grande interesse nella
comprensione, la più completa possibile,
di cosa pensano i bambini. Si è trattato di
una ricerca qualitativa, metodo più efficace per la comprensione del senso di
quello che si voleva indagare, condotta
attraverso focus group e interviste semistrutturate. Cosa pensano i bambini del
loro star bene o star male comporta
anche di interrogarsi sul ruolo che, nella
corrente pratica ambulatoriale, viene
assegnato al bambino all’interno della
136
relazione di diagnosi e cura. Molto spesso (quasi sempre?) il rapporto è fra adulti (pediatra e genitori) e tende a escludere
il bambino. La ricerca ha messo in evidenza una buona presenza, anche in
bambini abbastanza piccoli, verso il 7°
anno, di una discreta competenza sui più
frequenti “star male” che affollano lo
studio del pediatra e che spesso vengono
classificati come il famoso acuto banale;
e anche una discreta comprensione della
efficacia, nel far passare lo “star male”,
sia dei farmaci che dell’attesa che passi e
quindi della capacità di arrangiarsi da
soli. Circa la capacità dei bambini di raccontare il loro malessere, è emerso che
ne sono capaci se ascoltati e aiutati in ciò
che raccontano. Esiste nella pratica corrente un certo scetticismo su queste loro
capacità e l’aiuto alla comprensione che
il libro, in qualche tratto faticoso, produce può essere di aiuto. E occorre dire che
tale scetticismo non è solo dei pediatri,
ma anche degli adulti che hanno partecipato alla ricerca. Al Convegno di Tabiano si è proposto ai partecipanti un questionario su cosa pensassero di tutto questo i pediatri di quel Convegno. Il quesito riguardava “Simone di 5 anni in studio
con i genitori per mal di pancia”. Ha partecipato all’indagine il 79,3% dei convegnisti. Un risultato molto buono, ma non
inatteso dato che Franco Panizon chiamava quelli di Tabiano pediatri consapevoli. Vi sapremo dire.
Giancarlo Biasini
Uno svezzamento a 3 stelle
Alain Ducasse,
Paule Neyrat
Ducasse bebè.
100 ricette semplici,
sane e buone
dai 6 mesi ai 3 anni
L’Ippocampo, 2013
pp. 167, euro 15
Al primo sguardo siamo catturati dalle
bellissime fotografie di invitanti piatti
colorati che si alternano a illustrazioni
divertenti. Proviamo allora a leggere
qualche ricetta e ci viene l’acquolina in
bocca e il primo pensiero è: “Ma è proprio necessario avere un bambino da
svezzare?”. Sarebbe sicuramente bello
iniziare un lattante ai piaceri della tavola
ma… in assenza del medesimo perché
non provare qualche ricetta noi adulti?
Sono semplici, gustose e, oltre a educare
al gusto, insegnano a rispettare il susseguirsi delle stagioni e dei loro prodotti.
La frutta e la verdura, che spesso i bambini rifiutano, vengono proposte insieme
a yogurt, formaggi, pastina, cereali e
“impiattati” in modo invitante. In tutte le
ricette non viene mai usato zucchero o
miele ma solo succo d’agave in piccole
dosi. Non mancano ovviamente le erbe
aromatiche, il cui uso permette di dare
sapore alle pietanze, riducendo o eliminando i condimenti meno sani come il
sale e i dadi. Un importante effetto collaterale dello svezzamento attuato seguendo le ricette di Ducasse sarà una regressione di tutti i componenti adulti della
famiglia che vorranno mangiare le pappe
del più piccolo! Un’unica critica: le
tabelle stilate dalla nutrizionista che ha
collaborato alla stesura del libro non
sono completamente condivisibili, come
l’indicazione a usare il latte di proseguimento o crescita sino ai 2 anni, indicazione che il bambino stesso, dopo aver
assaggiato le gustose pietanze, forse rifiuterà! Se quindi decidete di consigliarlo a qualche vostra paziente, dovrete forse chiederle di non seguire alla lettera le
tabelle e i suggerimenti di Paule Neyrat.
Buona lettura e… buon appetito.
Patrizia Elli
Una storia personale
John Williams
Stoner
Fazi editore, 2012
pp. 332, euro 17,5
La prima edizione americana è del 1965
ma in Italia il romanzo è arrivato solo adesso. Perché l’ho letto? Il tam tam ristretto di qualche amico e il fatto curioso
che il nome del protagonista del libro,
William, è in realtà il cognome dello
scrittore così come l’origine contadina e
l’attività di professore universitario:
l’Autore però giura che non c’è nulla di
libri
Quaderni acp 2014; 21(3)
« Un classico è un libro che non ha
mai finito di dire quel che ha da
dire».
buona
autobiografico. Di solito queste dichiarazioni sono in realtà una confessione, e
questo mi ha intrigato molto. La storia
racconta la vita di un professore di letteratura, dalla sua adolescenza fino alla sua
morte. Una storia speciale? No! Una storia normale, si potrebbe dire. Ma la normalità è un’ideologia, una falsità che inghiotte tutto senza riconoscere l’unicità
di ogni persona e di ogni vicenda umana.
L’Autore del libro questo lo sa e dentro
questa apparente normalità racconta una
storia di eroica quotidianità. La narrazione di John Williams, sempre in terza persona, è dolce, delicata, ma netta, senza
orpelli e non fa trapelare alcun giudizio
morale. Una scrittura ricca di attenzione,
compassione e affetto per ogni personaggio del romanzo. Questa delicatezza tuttavia nasconde sciabolate di profonda
introspezione che colpiscono non il protagonista, William Stoner, bensì il lettore. Come arriva Stoner alla fine della sua
vita? È felice? Ha avuto un’esistenza
compiuta? È stato quello che voleva diventare? Oppure ha scoperto quello che
era? Riuscirà Stoner ad assolvere l’imperativo “conosci te stesso” e avrà coltivato l’amore, non quell’amore che pensiamo come uno stato di grazia ma quella
parte del divenire umano, una condizione inventata e modificata momento per
momento, e giorno dopo giorno, dalla
volontà, dall’intelligenza e dal cuore? E
noi scegliamo o scopriamo quello che
siamo? Condividiamo l’amore come lo
ha vissuto Stoner? Quante domande con
cui confrontarsi con chi ha letto il romanzo. Le ultime due pagine, infine, mi
hanno riportato alla memoria gli ultimi
momenti di vita di Adriano nella indimenticabile prosa di Marguerite Yourcenar. Stoner è un libro di grande potenza e delicatezza e volevo condividere con
voi questa bella lettura.
Costantino Panza
La faticosa adolescenza
Daniela Corbella,
Luca Ercoli,
Laura Locatelli
Adolescenza e
Autonomia: che fatica!
Soprattutto per le madri
di figli maschi
Pubblicato dall’Autore,
2014
pp. 176, euro 16
Italo Calvino
Perché leggere i classici
Il libro è stato scritto da una pediatra, da
un educatore e da un giornalista, e indaga le relazioni tra genitori e figli adolescenti. Utilizzando le interviste semistrutturate mirate a entrambi i genitori, o
solo ai padri.
La prima scoperta è che le relazioni tra
madri e figli di sesso diverso, e padri e
figli di sesso diverso non sono uguali, e
che la fatica di crescere un figlio maschio
da parte della madre sembra maggiore.
Il libro scorre su due binari: il primo
dedicato alla riflessione sull’adolescenza
di oggi e sulla storia che ci ha portato
fin qui, il secondo sulle strategie educative. Quindi vengono trattati l’identità sessuale e il cervello maschile e femminile;
i racconti aneddotici di mamme e ragazzi aiutano a capire come vengono vissuti.
Il secondo aspetto riguarda la quotidianità educativa dei genitori, e il modello
proposto è quello che mira ad aumentare
le competenze relazionali dei ragazzi e il
raggiungimento dell’autonomia attraverso lo sviluppo di life skill, definite
dall’OMS come “competenze sociali e
relazionali che permettono ai ragazzi di
affrontare in modo efficace le esigenze
della vita quotidiana, rapportandosi con
fiducia a se stessi, agli altri e alla comunità”.
La difficoltà che i genitori incontrano è
quella della comunicazione dell’educazione, che deve basarsi sull’equilibrio tra
il codice normativo, tradizionalmente
legato alla figura paterna, e il codice
affettivo, considerato un codice per lo
più materno.
Nelle relazioni familiari contemporanee,
in una società in cui i ruoli di uomini e
donne si sono ridefiniti sugli attuali stili
di vita, entrambi i genitori sono spesso
portatori di tutti e due i codici, e gli
esempi di “piccole storie” riportate nel
libro ci danno uno spaccato di questo
cambiamento.
Chi, alla fine della lettura del libro,
volesse concorrere ad ampliarne i contributi alla base, può partecipare inviando
le risposte alle domande poste nelle
interviste ai genitori e riportate nell’appendice del libro indirizzandole a
info@adolescenzaeautonomia.
Maria Francesca Siracusano
Emozione, socialità, musica
Silvia Azzolin,
Emilia Restiglian
Giocare con i suoni.
Esperienze e scoperte
musicali nella prima infanzia
Carocci Faber, 2013
pp. 192, euro 13
Lo studio della musica come attività
della mente e del corpo è una delle più
recenti scoperte delle neuroscienze. Non
è passato molto tempo da quando lo psicobiologo Colwyn Trevarthen affermava
che la comunicazione tra gli umani è un
affare esclusivamente musicale, una
competenza che organizza tutte le caratteristiche temporali e sociali dell’essere
umano. Questa musicalità umana, in
altre parole la capacità di entrare in
comunicazione con i nostri congeneri in
modo interattivo, è fondamentale nei
primi periodi della nostra vita, quando un
bambino non esiste di per sé, ma esiste
un bambino solo se sono presenti intorno
a lui le cure del genitore. Attualmente
sono presenti studi scientifici che confermano i profondi legami tra emozione,
socialità e musica e, conoscendo il significato delle emozioni come regolatrici
delle attività psicologiche e componenti
essenziali per agire secondo ragione, non
possiamo ignorare l’influenza di un’attività musicale nella crescita del bambino.
Questo agile volumetto di 190 pagine,
scritto da una pedagogista e da una
docente di metodologia dell’educazione
musicale, ha il pregio di fornire alcune
basi scientifiche sulla relazione tra musica e cervello umano e le prospettive
didattiche per l’intervento musicale. A
entusiasmare, tuttavia, sono soprattutto i
percorsi ludico-musicali nella prima
infanzia: canti, danze, filastrocche, ninnananna, storie sonore, esperienze concrete d’interazione utilizzabili da genitori ed educatori. Una rapida carrellata di
sperimentazioni in corso in Italia, tra cui
l’intervento del nostro Stefano Gorini e
di Cecilia Pizzorno su Nati per la
Musica, e una ventina di pagine di utile
bibliografia concludono questa interessante lettura.
Costantino Panza
137
Quaderni acp 2014; 21(3): 138
ragazzi
La moltiplicazione dei rapporti
familiari nel secondo film di Francesco Bruni
Noi 4
Italo Spada
Comitato cinematografico dei ragazzi, Roma
Lo aveva detto Fedro duemila anni fa; lo
dice Francesco Bruni in questa sua seconda regia; lo dice chi va a vedere Noi 4 con
la convinzione di assistere a una delle
solite commedie all’italiana: “Non sempre le cose sono come sembrano”. Può
accadere infatti di trovare in un film, che
sembrava ricalcare le commediole all’italiana, la descrizione di una famiglia in
crisi e i tentativi per recuperare i rapporti logorati, ma non estinti.
Da una parte un padre (Ettore) fallito e
una madre (Lara) superattiva e superansiosa; dall’altra la figlia maggiorenne
(Emma) contestatrice e il figlio adolescente (Giacomo) alle prese con la prima
cotta della sua vita. Mondi solo apparentemente separati che hanno lasciato
momenti di felicità in uno scatto fotografico. A dispetto di ogni previsione pessimistica, proprio quando ormai sembra
impossibile ricostruire i cocci di ciò che
fu, ecco la svolta.
L’evento che fa cambiare direzione ai 4
coincide con il colloquio orale che il
figlio più piccolo si accinge a sostenere
per superare gli esami di licenza media.
Padre, madre e sorella si ritrovano uniti
alle sue spalle, lasciando da parte interessi personali, impegni di lavoro, ansie
affettive. È già estate, prime ore del
pomeriggio. C’è tempo per andare a
festeggiare con un tuffo nel lago e con un
rientro collettivo nella tana della serenità. Domani sarà per tutti un altro giorno; non quello della resurrezione totale,
ma della speranza.
L’alba li ritroverà più determinati, meno
nevrotici, più entusiasti, più felici. Potrebbe finire qui la lettura di questo film
che intreccia e moltiplica il tema affrontato da Bruni nel 2011 con Scialla!, ma
sarebbe un’analisi incompleta. C’è ben
altro, infatti. Non più la ricucitura di un
solo rapporto tra padre e figlio, ma una
fitta trama di relazioni trasversali da ricostruire: marito e moglie, padre e figlia,
padre e figlio, madre e figlia, madre e
Per corrispondenza:
Italo Spada
e-mail: [email protected]
138
figlio. E non è tutto, perché ognuno dei
quattro personaggi si trascina problemi
personali più o meno gravi, più o meno
condivisi con gli altri: Ettore, le malcelate frustrazioni per la mancanza di ispirazione e di impiego; Lara, il nervosismo
di un superlavoro e l’ossessione di una
bellezza al tramonto; Emma, le aspirazioni artistiche sospese nell’occupazione
del Teatro Valle, le delusioni d’amore e
la paura di una maternità non desiderata;
Giacomo, la nostalgia di un’infanzia felice, la paura provocata da sogni e incubi,
i turbamenti affettivi accentuati dalla
timidezza.
Allo scompiglio di relazioni e affetti fa
da sfondo una Roma cantiere aperto,
caotica e infocata dall’afa di giugno.
Bruni, da bravo sceneggiatore, conosce
bene il linguaggio delle immagini e non
si lascia sfuggire il ricorso a metafore,
simboli, allegorie, rimandi. Qualche citazione: avere concentrato tutto in una sola
giornata quasi in funzione del finale che
ai cinefili dovrebbe ricordare quel “dopo
tutto domani è un altro giorno” di Via col
vento; avere presentato Lara (Ksenia
Rappoport) come una donna che pedala
da sola senza mai avanzare, convinta che
il percorso della palestra come quello
della vita sia sempre in salita; avere fatto
perdere il falso treno della felicità a
Emma (Lucrezia Guidone) per farle trovare un meno veloce, ma più tranquillo,
mezzo sul quale viaggiare aggrappata al
guidatore, averla bloccata un attimo
prima di cedere alla tentazione di annegare, averle ridato il sorriso solo quando
ha trovato la complicità della madre precipitatasi in suo aiuto da una sponda
all’altra del Tevere.
E ancora: Giacomo (Francesco Bracci)
che ha paura dell’avverarsi di un sogno
nel quale naufraga l’intera famiglia,
Ettore (Fabrizio Gifuni) che agli occhi
del figlio esaurisce il credito del bancomat e la credibilità di genitore, Lara ed
Ettore che si ritrovano senza volerlo in
mezzo alla strada e chiedono aiuto alla
figlia per rientrare a casa, l’amuleto portafortuna che emerge dagli scavi di
Roma antica… Accostamenti che, in
un’arte che è essenzialmente immagine,
non possono essere – e non sono – casua-
li. Come non è casuale l’intelligente
montaggio di Marco Spoletini che, più di
una volta, non chiude immediatamente la
sequenza e lascia ogni conclusione allo
spettatore: Emma è incinta, o no? Ettore
si lascerà sfuggire una seconda volta la
proposta di lavoro? Lara, dopo la felicità
di una sera, sarà meno nevrotica? Giacomo riandrà altre volte al mare con la
cinesina Xiaolian? E, soprattutto, quei
4 ritorneranno a essere 1? u
Noi 4
Regia: Francesco Bruni
Con: Fabrizio Gifuni, Ksenia Rappoport,
Lucrezia Guidone, Francesco Bracci,
Raffaella Lebboroni, Milena Vukotic
Italia, 2014
Durata: 90’, col.
documenti
Quaderni acp 2014; 21(3): 139-140
Due documenti dell’ACP
Pubblichiamo due documenti che esprimono importanti prese di posizione dell’ACP su temi fondamentali per la salute
infantile. Il primo riguarda il presunto legame tra vaccini e autismo, di cui si fa un gran parlare più per faccende legali
che di salute pubblica. Il secondo si riferisce al mercato dei latti di crescita e alla loro presunta utilità. In entrambi i casi la
posizione dell’ACP non è viziata da alcun conflitto di interesse. (Red)
Autismo-vaccini, un allarme infondato
L’ipotesi che la vaccinazione antimorbillo-parotite-rosolia
(MPR) possa essere associata ad autismo è stata sollevata da
uno studio inglese pubblicato nel 1998 su The Lancet, e successivamente riesaminata da numerosi studi nessuno dei quali ha
confermato che possa esserci una relazione causale tra vaccino
MPR e autismo. Nel 2010 la rivista The Lancet ha formalmente ritirato tale articolo. Il caso della bambina alla quale è stata
diagnosticata una “sindrome autistica post-vaccinale” ha riacceso in Italia una campagna contro la vaccinazione MPR.
L’ACP, che ha da sempre sostenuto l’importanza dell’indipendenza del mondo scientifico-sanitario rispetto agli interessi dell’industria, ribadisce la propria posizione nel comunicato di
seguito pubblicato, in cui si afferma che la “sindrome autistica
postvaccinale” è una diagnosi che non esiste; che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e la letteratura scientifica
smentiscono categoricamente ogni connessione tra autismo e
vaccino MPR; e che la copertura attuale di vaccinazione MPR
è ferma in Italia a circa il 90% dei bambini di 2 anni di età, un
dato assolutamente troppo basso per scongiurare il rischio di
nuove epidemie. Giustamente il ministro Lorenzin invita a non
creare allarmismi non sostenuti da evidenze scientifiche.
Il documento
Noi pediatri ACP abbiamo sempre messo le politiche vaccinali
tra le priorità per la Salute pubblica e da sempre chiediamo alle
istituzioni politico-sanitarie una particolare attenzione rispetto a
diversi punti di sofferenza del Sistema:
• Manca una cabina di regia sulle politiche vaccinali di cui è
prova la frammentazione del calendario vaccinale nelle diverse realtà regionali.
• Il sistema di sorveglianza epidemiologica è carente sul capitolo vaccinazioni, sia sugli obiettivi vaccinali raggiunti sia
sugli effetti collaterali.
• Scarsa attenzione ai conflitti di interesse nei confronti delle
aziende farmaceutiche.
L’ACP ha da sempre sostenuto l’importanza dell’indipendenza
del mondo scientifico-sanitario rispetto agli interessi dell’industria e per questo si è data, fin dal 1999, un Codice di autoregolamentazione, recentemente aggiornato per ribadire la necessità
di salvaguardare la professione medica dalle ingerenze dei produttori di farmaci, baby food, dispositivi medici e qualsiasi altro
ambito che possa condizionare il lavoro e l’autonomia del medico e di ogni operatore sanitario.
La politica di trasparenza e autonomia della classe medica che
contraddistinguono da sempre l’operato ACP ci permette di
ribadire che:
• La “sindrome autistica postvaccinale” è una diagnosi che non
esiste: si tratta di una prognosi formulata in modo subdolo e
scorretto, e auspichiamo che la Procura di Trani, sul caso
della diagnosi che stabilisce nesso (mai provato) tra vaccino
trivalente e autismo, si affidi a una commissione scientifica
indipendente.
• L’OMS e la letteratura scientifica come il British Medical
Journal (BMJ) smentiscono categoricamente ogni genere di
connessione tra autismo e vaccino MPR, ma c’è un dato che
più di tutti lo smentisce: l’evidenza dei dati epidemiologici
mondiali che, a fronte delle molte centinaia di milioni di dosi
di vaccino somministrate, non trova alcuna correlazione con
una contemporanea diffusione dell’autismo, la cui diagnosi
negli ultimi anni è sicuramente aumentata, ma solo perché
oggi giungono a diagnosi non solo i casi eclatanti del passato, ma anche i tanti casi più sfumati del cosiddetto spettro
autistico una volta non individuati.
• La copertura attuale di vaccinazione MPR è ferma in Italia a
circa il 90% dei bambini di due anni di età, un dato assolutamente troppo basso per scongiurare il rischio di nuove epidemie. Solo il vaccino può evitare le complicanze del morbillo,
che sono per la gran parte curabili, ma che possono avere esiti
mortali o invalidanti, ed è una patologia in grande aumento e
che continua a fare vittime nei Paesi dove la copertura vaccinale non è garantita. E non tralasciamo che la rosolia resta tra le
principali cause di incurabili malformazioni fetali e di aborti.
• Una nota sulle campagne di “informazione” contro specifici
vaccini, che di fatto portano a una diffidenza generalizzata
anche verso vaccinazioni di provata efficacia e sicurezza
come l’antipolio, con inevitabili danni per la salute pubblica.
Il Consiglio Direttivo ACP
I latti di crescita:
utili solo a chi li produce
Una nota informativa allegata all’ultimo numero di Pediatria
news riporta la posizione della SIP rispetto alla necessità di utilizzare i latti di crescita nel bambino da 1 a 3 anni di vita. A
sostegno della bontà dell’utilizzo di latti rafforzati nel bambino
di questa fascia di età, nella nota vengono portate alcune motivazioni (peraltro non supportate da alcun riferimento bibliografico) come “fornire un maggiore apporto di acidi grassi vegetali, di ferro” e micronutrienti. L’OMS, EFSA, IBFAN, sulla
base di evidenze scientifiche solide, dichiarano che i latti di crescita sono prodotti inutili nell’alimentazione dei bambini se non
addirittura negativi, in quanto l’alto contenuto di zuccheri e il
conseguente sapore dolce potrebbero influenzare le preferenze
del bambino per i cibi dolci e favorire sovrappeso e obesità
[2-4]. L’ACP sostiene tali evidenze scientifiche e ha espresso la
sua posizione nel comunicato che di seguito riproduciamo.
Il documento
L’uso dei latti di crescita non può e non deve essere lo “strumento offerto al pediatra (e dal pediatra alla famiglia) in vista di
una nutrizione più bilanciata”. Il pediatra deve saper proporre
fin da subito uno stile di vita sano, suggerendo un divezzamento flessibile, complementare a richiesta, variegato e adeguato al
modello dietetico della famiglia.
Inoltre, secondo le ditte produttrici, i bambini dovrebbero bere
500 ml di latte formulato ogni giorno: ciò non è supportato da
alcuna evidenza scientifica ed è anche in netto contrasto con le
raccomandazioni sull’allattamento al seno.
Ciononostante, nell’ultimo numero di Pediatria news, è stata
allegata una nota informativa attraverso la quale la SIP prende
posizione rispetto alla necessità di utilizzare i latti di crescita nel
bambino da 1 a 3 anni di vita.
A sostegno della bontà dell’utilizzo di latti rafforzati nel bambino di questa fascia di età, nella nota vengono riportate alcune
motivazioni (peraltro non supportate da alcun riferimento
bibliografico) quali “fornire un maggiore apporto di acidi gras139
documenti
si vegetali, di ferro” e micronutrienti;
l’European Food Safety Agency (EFSA)
a tale proposito ha concluso, in un parere pubblicato nell’ottobre 2013, che l’apporto adeguato di acidi grassi omega-3,
ferro, vitamina D e iodio va assicurato a
lattanti e bambini della prima infanzia
che manifestano o sono a rischio di
manifestare livelli inadeguati di queste
sostanze nutritive e non indiscriminatamente a tutti [1].
Nella nota SIP si afferma inoltre che
“non sempre è facile l’adattamento del
bambino e della sua famiglia a una alimentazione più ricca di nutrienti variegata”; questo è vero se il modello di divezzamento proposto è rigido e povero, situazione che non rappresenta la maggioranza dei nostri bambini.
L’ACP si dissocia da questi messaggi
poiché non sostenuti da evidenze scientifiche. La proposta di alimenti dolcificati
e arricchiti di ferro e vitamine va in direzione opposta a quella suggerita dall’OMS, EFSA, IBFAN che, sulla base di
evidenze scientifiche solide, dichiarano
che i latti di crescita sono prodotti inutili
nell’alimentazione dei bambini se non
addirittura negativi, in quanto l’alto contenuto di zuccheri e il conseguente sapore dolce potrebbero influenzare le preferenze del bambino per i cibi dolci e favorire sovrappeso e obesità [2-4].
L’ACP ritiene, inoltre, poco etico che,
nell’attuale situazione di crisi del Paese
che vede molte famiglie in gravi difficoltà economiche, il pediatra si faccia
promotore di un prodotto inutile e costoso, che può condizionare negativamente
l’allattamento materno, raccomandato
ben oltre il primo anno di vita anche
recentemente dal Tavolo Tecnico Operativo Interministeriale sulla Promozione
dell’Allattamento al Seno [5].
Raccomandare i latti di proseguimento
configura inoltre il mancato rispetto del
Codice Internazionale sulla Commercializzazione dei Sostituti del Latte Materno.
L’ACP ritiene che compito centrale del
pediatra siano la promozione, il sostegno
e la difesa dell’allattamento e una costante attenzione al consumo di alimenti freschi, naturali e diversificati orientati a
mantenere un corretto stile di vita.
Consiglio Direttivo ACP e Segreteria
nutrizione ACP
Bibliografia
[1] Scientific Opinion on nutrient requirements and
dietary intakes of infants and young children in the
European Union. EFSA Journal 2013;11(10):3408
[103 pp.]. doi:10.2903/j.efsa.2013.3408.
[2] Information concerning the use and marketing
of follow-up formula. The use of follow-up formula. WHO 17 July 2013.
[3] http://www.efsa.europa.eu/it/press/news/131025.htm/.
[4] http://www.ibfanitalia.org/unindagine-dettagliata-sui-latti-di-crescita/.
[5] http://www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=2113.
140
ERRATA CORRIGE
Nel numero 2/2014 il Dossier FAD non precisava l’esatta sede degli Autori che va
così letta:
Martina Fornaro, Enrico Valletta
AUSL della Romagna, Ospedale “G.B. Morgagni-L. Pierantoni”, UO di Pediatria, Forlì
La figura 5 viene riportata con maggiore chiarezza
Figura 5: indicazioni per il percorso diagnostico nell’ittero colestatico
Ci scusiamo con gli Autori e i lettori per il disguido e precisiamo che nella piattaforma
on line era già stata inserita questa versione corretta.
WORKSHOP NEWSLETTER PEDIATRICA ACP
Giovedì 9 ottobre 2014 – ore 10,00-13,00
presso Associazione Orizzonti
Sobborgo Federico Comandini, 106 – Cesena
Il punto sulla Newsletter
I gruppi di lettura, Quaderni acp, la formazione pediatrica: una visione d’insieme.
Le schede della Newsletter
Un confronto sulla elaborazione delle schede da parte dei gruppi di lettura; il sito web
della Newsletter pediatrica; proposte per il futuro.
I gruppi di lettura
Le risposte al questionario: dall’organizzazione alla motivazione. La parola ai gruppi.
Conclusioni
Moderatori: Roberto Buzzetti, pediatra-epidemiologo clinico, Bergamo; Luca Ronfani,
pediatra, Servizio di Epidemiologia e Biostatistica, IRCCS “Burlo Garofolo”, Trieste
Organizzazione a cura della redazione Newsletter pediatrica ACP
Iscrizione gratuita
Per informazioni e iscrizioni: Laura Brusadin, [email protected]
Quaderni acp 2014; 21(3): 141-142
Rubrica a cura di Federica Zanetto
Nuove politiche locali
per l’infanzia
e l’adolescenza
Giuseppe Cirillo (ACP),
Matteo Rabesani (Save the Children)
Il 27 novembre 2013 si è tenuto a Napoli,
nella sala Giunta del Comune, un seminario a porte chiuse di confronto e riflessione sulle politiche locali in materia di
“infanzia e adolescenza” tra la rete di
“Crescere al Sud” (di cui fa parte anche
ACP) e gli Assessorati all’istruzione e
alle politiche sociali di Napoli e Palermo,
nonché due rappresentanti del Ministero
dell’Istruzione.
L’esperienza concreta degli operatori sul
territorio porta tutti a confrontarsi ogni
giorno con dinamiche sociali sempre più
complesse e caratterizzate da forme di
disagio e difficoltà a più dimensioni. Il
dato della povertà economica, la sua
incidenza nelle aree metropolitane del
Mezzogiorno e le ricadute sulla condizione di vita di un numero sempre più
grande di bambini e adolescenti sono
forse l’elemento più evidente e preoccupante, ma molti altri sono i fattori di contesto che agiscono sulle stesse situazioni
rendendole gravi e di difficile lettura, a
partire dalla debolezza del sistema educativo e scolastico, ma anche sociale e
sanitario.
Negli ultimi anni, inoltre, l’amministrazione dello Stato, a ogni livello, ha individuato nei vincoli di bilancio e nella
mancanza di risorse la principale motivazione per non riuscire a rispondere efficacemente assicurando i servizi sociali
ed educativi necessari a far fronte, se non
a prevenire, le conseguenze della crisi
sui bambini e gli adolescenti.
La rete “Crescere al Sud”, che riunisce
circa quaranta associazioni, nasce per
denunciare la condizione di disagio dei
minori nel Mezzogiorno, ma lavora soprattutto per consolidare un percorso comune tra le organizzazioni che la compongono, al fine di costruire un piano
d’azione con proposte concrete per migliorare la vita dei bambini e degli adolescenti delle Regioni del Sud. “Crescere
al Sud” pone all’attenzione alcuni temichiave a partire da princìpi di carattere
generale:
1. Le politiche per l’infanzia e l’educazione devono essere considerate come
controluce
un presupposto allo sviluppo e alla
crescita economica e sono una condizione indispensabile per garantire benessere, coesione e sicurezza all’intera
comunità.
2. I finanziamenti per le politiche per
l’infanzia e l’adolescenza non devono
essere considerati come “spesa sociale” a perdere, bensì come investimento, cioè “buona spesa”, capace di generare risparmio e razionalizzazione
della programmazione economica.
3. Le politiche per l’infanzia e l’adolescenza devono essere considerate e
programmate come politiche universali, cioè pensate per tutti e non solo
per “gruppi svantaggiati”, e devono
essere considerate ed elaborate come
parte del sistema educativo.
In particolare questi sono i punti che
riguardano le amministrazioni locali:
• Coordinare i propri interventi di politica sociale con le politiche sanitarie ed educative (in particolare di
contrasto alla dispersione e di integrazione) al fine di considerare le
scuole come primi “presìdi sociali”
del territorio e, allo stesso tempo, favorire l’interazione e la collaborazione tra operatori sociali, della scuola e
del privato sociale, abbattendo il
muro che spesso separa chi si occupa
di educazione dentro la scuola e chi
si occupa dei ragazzi in strada.
• Ricostruire la prima linea dell’intervento sociale, quella del rapporto
diretto con le persone, quella dell’offerta attiva, della vicinanza.
• Svolgere un ruolo di coordinamento
e di regia degli interventi sul territorio al fine di evitare sovrapposizioni e, al contrario, creare collegamenti e sinergie tra gli interventi
progettuali che insistono nelle stesse aree.
• Accompagnare il sistema della premialità nella selezione dei soggetti/territori con cui attuare gli interventi con misure di accompagnamento, per permettere di coinvolgere nelle politiche attive di inclusione
anche i soggetti/territori che rischiano di restare esclusi.
• Porsi come catalizzatori delle risorse locali, favorendo la partecipazione di soggetti privati allo sviluppo
del territorio (imprese e fondazioni
•
•
•
•
•
in primis), facendosi promotori di
sistemi di rete in cui risorse, beni e
servizi possono incontrare più facilmente i destinatari.
In considerazione dell’importanza,
dell’efficienza ed efficacia di intervenire fin dalla nascita e anche
prima, allo scopo di garantire un
pieno sviluppo delle capacità dei
bambini e delle bambine e di ridurre da subito le diseguaglianze “sociali”, è richiesto un impegno preciso a dedicare attenzione e risorse
per l’aumento dell’offerta quantitativa e qualitativa dei servizi integrati alla prima infanzia (0-6 anni), attraverso ordinari percorsi integrati
di accompagnamento e sostegno
precoci, così come avviene nella
maggior parte dei Paesi europei e
come sperimentazioni importanti di
“Adozione sociale” hanno mostrato
in Campania, a Palermo e a Messina. Individuare degli hub territoriali (consultorio, asilo nido, servizio sociale ecc.) intorno a cui si sviluppa la rete territoriale per gli
interventi universalistici per i bambini 0-6 anni e le loro famiglie.
Dedicare una particolare attenzione
alle fasce particolarmente svantaggiate – bambini poveri, disabili, minori stranieri e rom – al fine di favorirne l’integrazione.
Rendere maggiormente partecipe il
territorio delle progettualità e degli
interventi, aprendo le scuole alla
reale partecipazione degli altri attori in un’ottica di positiva “comunità
educante”.
Favorire il ruolo e la partecipazione
dei ragazzi e delle ragazze, incrementando le progettualità centrate
sull’educazione tra pari (peer to
peer) e incentivandola attraverso la
possibilità di far rientrare il percorso
formativo informale dei ragazzi nella
valutazione generale del loro
Curriculum Vitae.
La centralità della scuola: va costruito un progetto scuola che la
definisca come “spazio pedagogico/culturale”, capace di proporsi sia
come presidio educativo/culturale,
sia come presidio sociale, cioè capace, pur non perdendo la sua vocazione educativo-formativa, di attivare risorse sociali e forme di “ca141
congressi controluce
pacitazione” degli altri attori e soggettività territoriali (dentro il tema
della scuola, appare dirimente la
questione degli alunni di cittadinanza non italiana non solo per la
possibilità di fare buona scuola, ma
anche come sostegno indispensabile
ai processi di convivenza e accoglienza dell’intera comunità).
• Il potenziamento dei servizi 0-6 anni (a iniziare dai nidi e dall’inserimento nell’obbligo scolastico della
scuola per l’infanzia) e del mantenimento della loro vocazione pubblica (anche conservando la loro funzione pubblica nelle esperienze di
integrazione con il privato sociale).
All’interno di questo potenziamento
è necessario sottolineare la necessità di strutturare modelli e percorsi
di intervento precoci (0-3 anni), in
una prospettiva longitudinale che si
anticipi ai primi mille giorni di vita:
quindi un modello-prototipo precoce e tempestivo con il più alto grado
potenziale di efficienza e di efficacia, in cui il sostegno ai genitori e
l’home visiting a valenza educativa
ne siano i pilastri fondamentali.
Questo modello richiede un’integrazione socio-educativa e sanitaria
a tutti e tre livelli, istituzionale,
organizzativo-gestionale e professionale, attenta ai diritti e all’esclusione e isolamento sociale, e che
preveda offerta attiva in un’ottica
preventiva e non sintomatica. I cardini principali di questo modello di
intervento precoce integrato possono essere sintetizzati in:
씰 accoglienza e valutazione dell’inclusione sociale alla nascita e
anche in gravidanza presso i punti
nascita (vedi “Fiocchi in ospedale
di Save the Children”);
씰 accompagnamento territoriale e
offerta attiva di sostegno dei genitori e home visiting a forte valenza educativa;
씰 a partenza da hub territoriale (asilo nido, consultorio, servizio sociale, centro per le famiglie, centro territoriale comunitario innovativo), percorsi comunitari di
contrasto all’isolamento ed esclusione sociale, come gruppi di
auto-aiuto pre e post gravidanza e
asilo nido, progetti personalizzati
142
Quaderni acp 2014; 21(3)
•
•
•
•
•
per le condizioni di maggiore disagio attraverso tutor educativi ed
équipe multidisciplinari (vedi
anche il modello “Adozione sociale” di Napoli, Regione Campania, Palermo, Messina, Roma,
Cesena, Trieste). Tali interventi e
presìdi infatti non rappresentano
solo un fondamentale luogo educativo per i bambini e le bambine
delle nostre città, ma anche un
importante supporto alla conciliazione tra tempi di vita quotidiana,
cura dei figli e lavoro per molte
donne che in tale assenza vedono
depotenziate non solo le loro possibilità di accesso al mercato del
lavoro, ma anche a tante altre opportunità di socialità e relazione.
Ridefinizione e rafforzamento delle
politiche di contrasto alla dispersione e all’abbandono scolastico, a
iniziare da un riequilibrio tra le
azioni tese a “trattare” i dispersi e le
situazioni di abbandono conclamato, e quelle tese alla prevenzione di
tali fenomeni (recuperando il forte
sbilanciamento sulle prime).
Implementazione dei sostegni ai
percorsi scolastici e potenziamento
delle attività di formazione ed educazione permanente.
Centralità delle iniziative di monitoraggio, accompagnamento e valutazione degli interventi e delle
diverse azioni non solo per valutarne, in itinere, l’andamento e l’efficacia, ma anche per evitare sprechi
e sovrapposizioni in un momento di
forte crisi economica.
Considerare il dialogo e l’integrazione tra pubblico e privato sociale
non come luogo della delega o del
disinvestimento pubblico, ma al
contrario come spazio per un mantenimento e valorizzazione della
funzione pubblica dei presìdi e degli
interventi e della funzione di governance e coordinamento dell’ente
locale. Importante il recupero di una
relazione attenta e concreta tra
amministrazione, scuole e presìdi di
intervento territoriali.
Individuare azioni specifiche per le
aree metropolitane che portano con
sé specifiche problematicità e complessità di contesto.
• Superare la logica dei progetti con
quella dei servizi, a iniziare dalla
definizione di programmazioni di
sistema capaci di superare la precarietà degli interventi e le logiche dei
servizi spot, per definire un insieme
di interventi strutturati e stabilizzati
all’interno del sistema di welfare
locale. Superare le criticità legate
alla “frantumazione/frammentazione/mancanza di continuità” degli
interventi territoriali (dai prototipi
alle azioni degli Enti locali) è un
punto che appare come nodo da cui
partire nella definizione delle politiche a livello locale.
• Mettere al centro il tema della
povertà, che rischia di allargare a
dismisura i fenomeni della dispersione e dell’abbandono, di negare le
possibilità e i diritti dei bambini e
degli adolescenti e di stabilizzare la
separazione tra la “città dei primi” e
la “città degli ultimi”, proponendo
un’improbabile e ingiusta idea di
benessere e sicurezza centrati sull’istituzionalizzazione, il contenimento e l’abbandono di aree sempre più
ampie di popolazione.
• Porre attenzione alle metodologie e
alle modalità operative a partire dall’implementazione-stabilizzazione
dei sistemi di monitoraggio e valutazione.
Per quanto riguarda il nodo delle risorse
e della loro gestione:
1. agire sul bilancio per rendere prioritario l’intervento dedicato alle politiche
sociali e della scuola con trasferimenti
interni tra i vari capitoli di bilancio;
2. assicurare una gestione delle risorse
razionale ed efficiente, agendo sul
funzionamento amministrativo, al fine
di eliminare sprechi e ritardi che
vanno a impattare direttamente sulla
sopravvivenza delle realtà operanti sul
territorio;
3. migliorare la capacità di utilizzare in
tempi rapidi le risorse comunitarie esistenti e quelle previste dalla prossima
programmazione 2014-2020, concentrandone l’uso su pochi obiettivi e
azioni prioritarie, a partire dall’investimento sul capitale umano per eccellenza, l’infanzia. u
specializzando
Quaderni acp 2014; 21(3): 143
La formazione dello specializzando
nell’ambulatorio del pediatra di famiglia
Cristina Gagliardo*, Salvatore Aversa**, Naire Sansotta***
*Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università “Federico II”, Napoli; **Presidente dell’Osservatorio Nazionale Specializzandi in
Pediatria (ONSP); ***Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università di Verona
Introduzione
e punto della situazione
Secondo il Decreto ministeriale dell’1
agosto 2005 il riassetto delle Scuole di
Specializzazione dell’Area sanitaria prevede, tra le attività professionalizzanti
obbligatorie per il raggiungimento delle
finalità didattiche nel corso di studi di
specializzazione in Pediatria, la frequenza presso il pediatra di famiglia (PdF).
Tra gli obiettivi formativi, tale testo cita:
“Lo specializzando deve acquisire le competenze professionali specifiche della
pediatria del territorio, con particolare riferimento all’attività preventiva, alle competenze razionali e alle modalità di ragionamento clinico…”. Dunque vi aspettereste che ogni specializzando d’Italia frequentasse l’ambulatorio del PdF, invece,
nonostante tutto sembri standardizzato,
nella pratica poi non sembra essere così.
Infatti, una recente indagine condotta dall’Osservatorio Nazionale Specializzandi
in Pediatria (ONSP) mediante questionario online ha evidenziato che una collaborazione tra la Scuola di Specializzazione in Pediatria e il PdF è presente
solo in metà delle scuole italiane (vedi
figura). L’attività formativa del pediatra
attraverso ore di lezione frontale e/o
seminari nei cinque anni si verifica solo
in metà di queste, mentre nella restante
metà l’interazione tra specializzando e
pediatra di libera scelta è limitata alla frequenza all’ambulatorio. Quest’ultima tuttavia non è neppure standardizzata tra le
scuole italiane ma risulta varia: frequenza
continua per un mese, affiancamento
durante l’orario dell’ambulatorio, accessi
negli orari di servizio del pediatra del territorio, turni di 6 mesi, frequenza giornaliera per 4-6 mesi, e così via. La frequenza nell’ambulatorio del pediatra è obbligatoria solo nell’80,6% delle scuole che
prevedono la frequenza dello specializzando presso il PdF. Solo nel 25% delle
scuole è previsto un corso di formazione
di tutoraggio: in tal caso questo viene
espletato non dall’Università ma dagli
stessi Pdf. Il numero di pediatri coinvolti
ammonta a circa 1-5 pediatri nel 60%
delle scuole e in metà di queste non è prevista alcuna copertura assicurativa.
Per corrispondenza:
Naire Sansotta
e-mail: [email protected]
FIGURA: INDAGINE SULLE ESPERIENZE DI FORMAZIONE E DIDATTICA TUTORIALE IN PEDIATRIA DI FAMIGLIA NELLE SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE IN PEDIATRIA (ONSP, 2013)
L’esperienza a Napoli
Dopo aver analizzato la situazione nazionale, riportiamo l’esperienza dei colleghi
specialisti in Formazione dell’Università
“Federico II” di Napoli, dove è prevista
la frequenza, da parte dello specializzando, dell’ambulatorio del PdF per un periodo di tre mesi, obbligatoriamente entro i primi tre anni di attività lavorativa.
Cinque sono i PdF che fungono da tutor
dislocati sul territorio di Napoli e
Provincia scelti sulla base del loro curriculum, della competenza clinica, della
volontà di insegnare e far apprendere, e
sulla disponibilità di tempo.
La maggior parte dei colleghi di Napoli
(28/31) crede che sia estremamente utile
tale periodo di formazione, perché in
questo modo si ha l’opportunità di conoscere le reali esigenze sanitarie del territorio che spesso vengono solo percepite
in ambiente ospedaliero e soprattutto
universitario. Tra i vantaggi di tale esperienza vi è l’osservazione del bambino
“fisiologico” e dei fenomeni parafisiologici che consentono, da una parte, di
identificare strategie preventive (obesità,
sovrappeso, vaccinazioni…), e, dall’altra, di imparare a riconoscere subito le
“red flags” nel bambino malato. Infatti, i
colleghi di Napoli si reputano soddisfatti
di tale interazione con il PdF per la possibilità di acquisire alcune competenze
fondamentali quali agire per priorità,
individuare la criticità, diagnosticare e
trattare pur senza disporre delle attrezzature e dei laboratori degli ospedali.
Inoltre, secondo la maggioranza degli
specializzandi, l’esperienza acquisita dal
PdF risulta necessaria per apprendere
algoritmi di scelta diagnostica rapida e
per la terapia delle più comuni patologie
dell’età pediatrica (influenza, infezioni
respiratorie, gastroenterite, disturbi fun-
zionali, dermatite atopica). Secondo il
parere degli specializzandi, il periodo di
formazione presso il PdF può essere
positivo per entrambi i protagonisti coinvolti: da una parte l’esperienza di un PdF
aiuta la conoscenza troppo spesso scolastica del giovane medico; dall’altra, la
presenza di menti giovani e anche tecnologicamente preparate rappresenta un
incentivo per il PdF al confronto con
esperienze diverse e ad approfondire
argomenti specialistici che spesso non
sono condivisi dal pediatra stesso.
Tra gli svantaggi riportati viene indicata
una situazione di affollamento di visite
presso gli studi dei PdF che non hanno la
possibilità di analizzare insieme allo specializzando tutte le problematiche dei
pazienti sottoposti alla visita. Una piccola parte degli specializzandi (2/31) ha
anche riferito che, dopo il primo periodo
di entusiasmo, l’attività del PdF risultava
ripetitiva e che i pazienti in condizioni di
salute precarie o quelli la cui diagnosi
risultava difficile venivano inviati a centri ospedalieri o di terzo livello e persi al
follow-up.
Ecco le proposte dei colleghi di Napoli
per migliorare il periodo di formazione
presso il PdF: un periodo di formazione
maggiore (circa 6 mesi), frequentare
almeno due diversi PdF, fare riferimento
al PdF-tutor non solo nel periodo limitato di apprendimento stabilito entro i
primi tre anni ma anche negli anni successivi per poter rappresentare un tramite nella complicata rete università-ospedale-territorio.
Nel prossimo numero di Quaderni acp
proveremo a indagare il processo di formazione dello specializzando nell’ambulatorio del PdF da parte di un direttore
della Scuola di Specializzazione di Pediatria e le proposte di un PdF (tutor). u
143
Quaderni acp 2014; 21(3): 144
a Qacp
LA FAD 2013:
i vostri commenti
Le FAD 2013 sono state utili, scorrevoli,
stimolanti al ragionamento clinico che è
alla base del nostro lavoro. Grazie e alle
prossime del 2014!!!
Innocenza Rafele
(ACP Lazio)
Ho appena concluso il percorso FAD
2013. È stato molto utile e istruttivo nonché divertente, quasi un diversivo.
Grazie e un saluto a tutti gli Autori.
Mimmo Capomolla
(ACP dello Stretto CALABRIA)
Il percorso FAD è stato bellissimo, complimenti a tutti.
Ripeto, bellissima FAD, la migliore.
Fabrizio Fusco
(ARP Vicenza)
Approfitto per ringraziare sia Laura
Reali che tutti i colleghi che hanno lavorato al corso FAD; il materiale che ci
avete proposto è stato sempre molto interessante; a me sono piaciute particolarmente le parti di nefrologia ed endocrinologia per la chiarezza nel presentare i
punti chiari e quelli controversi e per il
taglio pratico con immediati effetti sul
mio comportamento clinico. Tutti i percorsi sono stati dei momenti di studio
piacevoli e il percorso dei casi clinici
dopo lo studio teorico è geniale perché
rappresenta un momento di riflessione su
quanto si è appreso, permette di individuare gli aspetti su cui si può avere ancora confusione ed è un momento leggero e
in qualche modo divertente del corso.
Posso dire che non li ho mai fatti per
l’obbligo dei crediti ma per il piacere
dello studio. Quindi ancora un grazie
veramente sentito a tutti voi.
Emanuela
I casi clinici sono la cosa più bella e più
interessante del corso.
Mi sono sempre piaciuti e mi hanno molto interessato, sono proprio fatti bene!
Grazie
Raffaele
L’iniziativa di Quaderni acp di organizzare una formazione a distanza ha suscitato l’interesse della nostra Associazione
che fin dall’inizio ha aderito con diverse
iscrizioni. L’opportunità di formarsi tramite questo strumento agile e di fruire di
contenuti di elevato spessore ha stimolato i più a concludere il percorso: chi non
l’ha concluso ha addotto come motivazioni elementi squisitamente tecnici.
Complessivamente il giudizio è stato
buono con punte di eccellenza: l’approccio a tappe con casi clinici sempre molto
circostanziati ha favorito l’apprendimento e coinvolto in maniera positiva il
discente.
Un problema che abbiamo riscontrato si
è registrato nell’esecuzione del questionario sull’ultimo modulo avente come
argomento l’ipotiroidismo. Le opzioni di
scelta di alcune domande erano poco
chiare e apparentemente tutte corrette,
per cui solo rispondendo a caso la maggior parte di noi ha potuto concludere il
modulo.
Qualcuno anche ha avuto difficoltà nell’accesso iniziale, risolte però grazie
all’aiuto prezioso di Gianni Piras.
Una collega ha segnalato per il primo e
ultimo percorso una difficoltà a estrapolare il “take home “ pratico.
Fatte queste eccezioni abbiamo considerato il percorso snello e scorrevole,
ragione per cui è stato salutato con entusiasmo il secondo percorso FAD cui si
sono già iscritti 21 dei nostri soci.
Che dire di più?
Complimenti per l’iniziativa e un augurio di future ulteriori occasioni di aggiornamento
Il Direttivo ACP Verona
Ringraziamo i colleghi che ci hanno
scritto in attesa di ricevere altri pareri
per poter migliorare insieme.
MULTA PER PUBBLICITÀ
INGANNEVOLE
La Perfetti Van Melle è stata multata di
150.000 euro perché nella sua pubblicità voleva convincere che masticare una gomma poteva sostituire il
lavaggio dei denti. Anzi si vantavano
effetti salutistici per la bocca evocati
dalla presenza di camici bianchi,
studi odontoiatrici e altro. Le gomme
incriminate: Daygum protex, Daygum
XP, Vivident Xylit, Pure white, e
Happident white. Si è trattato per
l’Autorità garante di pubblicità ingannevole. (Altroconsumo 2013;3,10:5)
FRUTTI DI BOSCO
CON VIRUS
Sono stati segnalati frutti di bosco
surgelati (Boscobuono della ditta
Green Ice) con presenza del virus
dell’epatite. (Altroconsumo 2013;3,6)
CRISI ECONOMICA
E CALO DI GUADAGNI
DEI MEDICI IN INTRAMOENIA
Per la prima volta, nel 2012, nei dati
della libera professione medica intramoenia c’è una inversione. Le compartecipazioni complessive del personale
sanitario scendono da 1054 miliardi a
935 milioni (-11,3%). Il calo maggiore
è in Lombardia (-26,16%), quello
minore in Sicilia (-0,02%). Le Regioni
sopra il 10% sono il Piemonte, il Veneto, la Toscana, l’Umbria, la Puglia, la
Basilicata, la Calabria. Le Regioni
dove si riscontra un aumento sono tutte
costrette ai piani di rientro dove la
riduzione del personale ha probabilmente determinato attese più lunghe e
quindi maggiore ricorso al privato:
Abruzzo +4,10%, Sardegna +5,5%,
Molise +24%, Lazio +4,10%. Anche la
Provincia di Bolzano ha un gradiente
positivo (+4,58%), ma questo significa
forse un minore morso delle crisi.
(Ilsole24OREsanità 25-31 marzo 2014)
144
Quaderni
acp
website: www.quaderniacp.it
maggio-giugno 2014 vol 21 nº 3
Editoriale
97 Lo sai mamma?
Paolo Siani
98 Formare meglio a meno:
la FAD di Quaderni acp
Michele Gangemi
99 I pediatri italiani decidano
se vogliono proteggere l’allattamento
Sergio Conti Nibali
Formazione a distanza
100 Le epilessie in età pediatrica:
inquadramento diagnostico
Giovanni Tricomi
Informazioni per genitori
110 Il bambino che soffre di epilessia
Stefania Manetti, Costantino Panza,
Antonella Brunelli
Research letters
111 Sessione Comunicazioni orali
al XXV Congresso Nazionale
dell’Associazione Culturale Pediatri
Red
Forum
113 Coppie infertili, procreazione
medicalmente assistita e salute infantile
Pierpaolo Mastroiacovo, Carlo Corchia
Info
118 Buoni spesa per le mamme che allattano?
118 Riviste scientifiche: sì o no?
119 L’Ospedale “Meyer” nell’occhio del ciclone
119 Quanta strada per l’ortofrutta
prima di arrivare a tavola!
Osservatorio internazionale
120 La salute a Cuba: un diritto per tutti,
un dovere per ciascuno
Enrico Valletta
Aggiornamento avanzato
122 La rottura della tolleranza nella patologia
autoimmune e l’induzione della tolleranza
nella medicina trapiantologica
Federica Barzaghi, Rosa Bacchetta
Il caso che insegna
124 Un decorso lento non sempre è benigno
Brunetto Boscherini, Patrizia del Balzo
Il punto su
127 HLA e celiachia: a ciascuno il proprio rischio
Enrico Valletta
129 La psichiatria (anche infantile) tra diagnosi
e diagnosticismo
Francesco Ciotti
Vaccinacipì
131 Quali vaccinazioni nel bambino
affetto da diabete mellito?
Franco Giovanetti
Pediatri fra due mondi
132 Le mutilazioni genitali femminili:
basta una storia per svelare un mondo
Valentina Venturi, Tamara Fanelli,
Enrico Valletta
Libri
136 Mamma, non mi sento tanto bene
di Anna Rosa Fabretto, Francesca Zaltron
136 Ducasse bebè
di Alain Ducasse, Paule Neyrat
136 Stoner
di John Williams
137 Adolescenza e Autonomia: che fatica!
di Daniela Corbella, Luca Ercoli, Laura Locatelli
137 Giocare con i suoni
di Silvia Azzolin, Emilia Restilian
Film
138 La moltiplicazine dei rapporti familiari
nel secodo film di Francesco Bruni: Noi 4
Italo Spada
Documenti
139 Due documenti dell’ACP
Red
Congressi controluce
141 Nuove politiche locali
per l’infanzia e l’adolescenza
Lo specializzando
143 La formazione dello specializzando
nell’ambulatorio del pediatra di famiglia
Cristina Gagliardo, Salvatore Aversa,
Naire Sansotta
Lettere
144 La FAD 2013
Come iscriversi o rinnovare l’iscrizione all’ACP
La quota d’iscrizione per l’anno 2014 è di 100 euro per i medici, 10 euro per gli specializzandi, 30 euro per gli infermieri e per i non sanitari. Il versamento può essere
effettuato tramite il c/c postale n. 12109096 intestato a: - Associazione Culturale Pediatri, Via Montiferru, 6 - Narbolia (OR) (indicando nella causale l’anno a cui si riferisce la quota)
oppure attraverso una delle altre modalità indicate sul sito www.acp.it alla pagina “Iscrizione”. Se ci si iscrive per la prima volta occorre scaricare e compilare il modulo per la richiesta di adesione presente sul sito www.acp.it alla pagina “Iscrizione” e seguire le istruzioni in esso contenute oltre a effettuare il versamento della quota come sopra indicato. Gli iscritti all’ACP hanno diritto a ricevere la rivista bimestrale Quaderni acp, la Newsletter mensile Appunti di viaggio e la Newsletter quadrimestrale Fin da piccoli del Centro per la Salute
del Bambino richiedendola all’indirizzo [email protected]. Hanno anche diritto a uno sconto sulla iscrizione alla FAD dell’ACP alla quota agevolata di 50 euro anziché 150; sulla
quota di abbonamento a Medico e Bambino, indicata nel modulo di conto corrente postale della rivista e sulla quota di iscrizione al Congresso nazionale ACP. Gli iscritti possono usufruire di iniziative di aggiornamento, ricevere pacchetti formativi su argomenti quali la promozione della lettura ad alta voce, l’allattamento al seno, la ricerca e la sperimentazione e
altre materie dell’area pediatrica. Potranno partecipare a gruppi di lavoro su ambiente, vaccinazioni, EBM e altri. Per una informazione più completa visitare il sito www.acp.it.
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