XXV CONGRESSO NAZIONALE della SOCIETA’ ITALIANA di CRIMINOLOGIA Trattamento ed intervento criminologico nel territorio. Attualità e prospettive 6-8 ottobre 2011 – Como workshop n.4 – Il trattamento dell’infermo di mente reo L’ATTEGGIAMENTO DEI SERVIZI PSICHIATRICI NELLA CURA DELL’INFERMO DI MENTE REO: INCONGRUENZE E DISCONTINUITA’ Bonadiman Fabio, psichiatra criminologo – Trento [email protected] Bonadiman Ilaria, psicologa – Trento [email protected] ABSTRACT Senza voler generalizzare è frequente nella pratica peritale il riscontro di atteggiamenti “resistenti” da parte dei Servizi Psichiatrici nei confronti di autori di reato, sofferenti di una patologia mentale; e come tali spesso soggetti ad accertamenti contenitivi per emergenze psicopatologiche, a valutazioni collaterali in ordine alla imputabilità o interessati a reinserimenti più o meno assistiti alla conclusione della fase giudiziaria. In tali atteggiamenti convergono non solo un abituale logoramento a fronte della mole di lavoro già spettante, ma soprattutto una sorta di pregiudizio nei confronti del fatto/reato; una condotta che fatica ad essere interpretata in una logica clinica e, ancora di più, ad essere compresa negli assunti della relazione di aiuto che sottende l'intervento terapeutico. Si può cosi constatare, talora a fronte anche di lunghe storie psichiatriche, un netto ridimensionamento delle dinamiche psicopatologiche nella lettura del paziente e della situazione criminogena; ed una posizione di distacco, quasi morale, nella relazione in essere e per la quale si predilige la pena alla cura o si devia nel sociale anche la competenza specialistica. Tale dissociazione - tra la solerzia degli interventi precedenti e una sorta di abbandono/delega successivo al fatto/reato - non stupisce in quanto presuppone una integrazione psichiatrica e forense, molte volte estranea alla formazione e alla organizzazione degli operatori dei Servizi Psichiatrici; operatori che tendono a scotomizzare il rilievo sintomatico dell'agire antisociale, non si ritengono pertinenti per manifestazioni aggressive o violente e negano l'interrogativo personale derivabile da eventi giudicati – difensivamente – come estranei all'ambito sanitario. In questa maniera si genera una pericolosa discontinuità che non solo interrompe il senso della cura non più giustificata da stretti criteri clinici o nosografici, ma soprattutto esaspera – in mancanza della necessaria disponibilità – gli intenti dei “nuovi curanti”, ancorché nobili nella mission deistituzionalizzante. Anche attraverso la ricostruzione di una significativa casistica personale si sono precisate meglio quelle incongruenze e quelle discontinuità dei Servizi Psichiatrici che, incapaci di conservare una unitarietà di analisi e di intervento, diventano fattore di criticità della cura dell’infermo di mente reo; una cura che rischia di ridursi ad una buona routine, sganciata da qualsiasi presupposto clinico ed etico e svuotata negli assunti essenziali di referenza e di continuità che solitamente accreditano l'assunto terapeutico del trattamento. 1 A ben vedere i criteri con i quali i Servizi Psichiatrici (SP) rispondono ai mandati di cura e di assistenza mantengono una certa arbitrarietà dentro la quale si confondono prassi ed indirizzi diversi che a loro volta orientano - in maniera non sempre razionale e coerente l'inclusione o l'esclusione dei pazienti multiproblematici dalle prese in carico. Nonostante lo sforzo di condividere delle linee guida, è ancora diffusa una discrezionalità nell'apprezzamento della sintomatologia, del disadattamento, della precarietà relazionale e della disabilità sociale sia nel loro ruolo psicopatogeno; sia nella forma della loro presentazione; una forma che possibilmente non superi quella soglia attesa per la quale venga meno la compliance al trattamento o si dimostri insufficiente il modello di intervento precostituito. Si ha sempre più l'impressione che, nella risposta alle situazioni multiproblematiche, le manifestazioni di interesse psicopatologico non debbano avere una eccessiva criticità che complichi le soluzioni prospettate in termini di psicofarmacologia, supporto, riabilitazione, socioassistenza,..; soluzioni che, per il loro assetto definito e collaudato, devono soddisfare di per sé le necessità o le emergenze di simili pazienti e contesti. Si constata così frequentemente - a fronte di manifestazioni fortemente instabili o aggressive - una sorta di apparato operativo che riduce cura e assistenza con specifici parametri basati quasi sul politicamente corretto inducendo nel paziente un processo di nevrotizzazione istituzionale. Diversamente, cioè nel caso in cui le manifestazioni di cui sopra non vengano piegate dall'intervento proposto, quanto di non riducibile - anche in termini di scompenso psichico o comportamentale - finisce per essere refuso all’interno di una bad company che non ha pertinenza con il mandato e lo spirito dei Servizi Psichiatrici. Questo intrigo di disadattamento cronico, di instabilità comportamentale, di isolamento autarchico, di facile reattività, ancorchè espressione di disagio psichico e interpersonale, acquista una sua rilevanza psicopatologica anche se alla lunga risulta improprio per le agenzie sociosanitarie, non collimando con le loro offerte di cura e assistenza. In questa logica è abbastanza curioso registrare la diffusione di moduli o di protocolli - interessanti l'assunzione della terapia, la frequenza di strutture, le regole di comportamento, l’adesione agli interventi riabilitativi,… - che vengono fatti sottoscrivere al paziente multiproblematico, ingabbiandolo in un percorso cadenzato di verifiche con le quali si sancisce indirettamente anche la qualità delle cure. Non è cosi infrequente che - dovendosi adattare ad una cornice operativa - diverse espressioni critiche sul piano interpersonale esorbitino da questa cornice perché poco addomesticabili o perché fortemente dissonanti dalle aspettative, seppur larghe ed eccezionali, previste dai SP. In questi passaggi critici, spesso radicati sulla accettazione /rifiuto delle cure o sulle contrattazioni talora aggressive/violente, si osservano due alternative spesso perseguite dai SP: o una ampia disponibilità, lasciata al paziente, di adeguarsi alle prescrizioni (per cui facilmente rifiuta); o una dichiarazione di non pertinenza del caso alla luce proprio di quanto proposto e rifiutato dal paziente stesso. Si crea cosi facilmente una labilità nella presa in carico che si interrompe anche per le caratteristiche personologiche di questi pazienti (la bassa coscienza di malattia, le frequenti sospensioni della cura farmacologica, l’abituali disattesa dei controlli ambulatoriali, le ricorrenti manifestazioni oppositive e conflittuali,.. ) che vanificano quella nevrotizzazione istituzionale per la quale cura e assistenza diventano accettazione di un percorso preconfezionato; un percorso che non ha il tempo necessario per la comprensione, per la mediazione e per la tolleranza della incompetenza/disabilità cronica; proprio quella 2 che, impedendo l’accesso ai requisiti formali di cura e assistenza, non può che allontanare una certa fascia di pazienti multiproblematici. Ora se da una parte si deve prendere atto che una simile impronta dei SP derivi dal carico e dalla gravosità delle numerose situazioni pendenti che, a fronte della riduzione di risorse, costringe ad interventi di emergenza o di disponibilità vincolata alla regolarità di tenuta del percorso di cura; dall'altra appare ovvio come la patologia psichiatrica complessa non possa incrociare una simile organizzazione dei SP; una organizzazione che viene facilmente cortocircuitata dalla natura intrinseca di queste manifestazioni che, della negazione di malattia e del rifiuto delle cure, ne costituiscono abitualmente lo snodo psicopatologico. Per la difficoltà di queste strutture instabili /psicotiche/deficitarie ad accedere alla nevrotizzazione degli interventi, è scontato che si creino delle contrapposizioni sul piano terapeutico che possono esitare in forme aggressive o violente anche all'interno degli stessi contesti di cura; contrapposizioni che stridono con gli intenti terapeutici dei SP cosi abitualmente mossi da valenze umanitarie, affettive, solidali e altruistiche. L'espressione aggressiva dello scompenso, le modalità clastiche di oppositività, i possibili agiti violenti e lesivi del paziente multiproblematico diventano cosi forme intollerabili rispetto a queste complessive valenze terapeutiche; valenze che mirano benevolmente ad inquadrare il paziente nell'intervento disponibile e che, una volta deluse, scatenano disappunto e sorpresa. Non solo il reato, ma il rifiuto delle cure o le reazioni dismetriche o eccessive alimentano allora un fastidio crescente che si può notare nella rigidità e stereotipia di certi interventi che, in maniera ripetitiva, affrontano – anche per anni - stesse manifestazioni con stessi rimedi. In realtà tali ultime situazioni sono le più logoranti e tipiche per i SP che devono periodicamente verificare (ed eventualmente integrare sul piano clinico) il senso di queste manifestazioni oppositive o aggressive, superando una istintuale antipatia e paura o la tentazione di escludere la comprensione di queste condotte critiche, estranee ai manuali diagnostici. Comprendere in questo caso significa non solo spiegarsi ciò che può essere correlato in termini psicopatologici o di malfunzionamento mentale, ma soprattutto prendere atto dell'intensità emotiva suscitata da questi accadimenti a livello privato, sul piano interpersonale e nella previsione delle cure. In mancanza di queste operazioni fondamentali è facile che si strutturino una serie di eleganti difese per le quali le manifestazioni scompensative o oppositive possono essere comodamente eluse come forme reattive poco significative sul piano clinico; come gratuite espressioni di una personalità patologica; come prodotto di una precarietà sociale; come esito di una cronicità deficitaria;.. versioni comunque che semplificano la possibile complessità delle manifestazioni, rimandano il loro necessario riaggiornamento e facilitano l’abbandono del paziente multiproblematico per una ragionata non-pertinenza. Detto questo - a riguardo delle espressioni problematiche di pazienti psichiatrici che, non venendo ammessi ad una rilettura estensiva, finiscono per essere isolati in una categoria altra - giova ricordare che il reato, come possibile comportamento sintomatico, è abitualmente estraneo alla logica clinica e terapeutica dei SP; Servizi che, in una dimensione sottilmente morale, ancor di più stigmatizzano tali fatti/reato come contrari alle premesse e ai principi delle relazioni di aiuto. Nel caso di pazienti psichiatrici/autori di reato, si assiste ad una sospensione della tensione clinica che, per le implicazioni giudiziarie del caso, rinuncia presto alla propria funzione esplorativa, rimandando tutte le incombenze ad un altro titolare assunto come nuovo regista - il giudice - in forza anche del nuovo e prevalente ambito non/sanitario. 3 Pur non dimenticando le debite eccezioni, questa posizione defilata dei SP si rinforza poi con tutta una serie di istanze organizzative in base alle quali i pazienti psichiatrici/autori di reato stonano nel reparto ospedaliero (per cui possono e devono andare da un'altra parte); nei centri diurni (perché possono disturbare gli altri utenti), negli ambulatori (perché non vi sono indicazioni), e in generale nei luoghi della cura psichiatrica; luoghi che vengono rigorosamente proposti e garantiti a quanti hanno una diagnosi appropriata e sono in grado di stare nella logica, nelle regole e nei valori previsti. In realtà è la mancata confidenza con le caratteristiche che qualificano il rapporto con i pazienti psichiatrici/autori di reato, prima fra tutte la comprensione intima e personale dell’autore e del reato, che genera il disinvestimento; una bassa confidenza che attiva tensione ed ansietà per le quali si confondono spesso la distanza, il linguaggio, i contenuti, la sensibilità ed talora anche la natura del colloquio, vissuto difensivamente come un appalto conto terzi (lei è qui su disposizione di). In simili frangenti non è facilmente riconoscibile e governabile quel mix di fondo che coniuga gli assunti operativi e l'impaccio emotivo della gestione particolare; un mix che spinge alla sospensione delle competenze anche cliniche e che innesca dei risvolti più istintuali dai quali può derivare, se non risolti, una interferenza significativa rispetto al compito valutativo. Nel tempo, la bassa consapevolezza di queste variabili astensionistiche e dei moventi emotivi e morali sottesi al confronto con il paziente psichiatrico/autore di reato può strutturare una operatività disfunzionale dei SP; una operatività sostenuta da incongruenze e da discontinuità che complicano, ab origine, le esigenze del percorso giudiziario: dalla qualificazione del paziente e del reato fino al piano di trattamento che rischia di rimanere, da subito, confuso e impersonale. L’allentamento infatti della responsabilità in ordine al mandato di salute e di assistenza - sul quale improvvisamente cade il fatto/reato - porta spesso ad offuscare la precisione diagnostica, la qualità delle cure farmacologiche, il senso dell'intervento terapeutico e più in generale la referenza del caso che, per i nuovi interlocutori designati dall’autorità giudiziaria, espone questo paziente ad ulteriore smarrimento e instabilità. Nella rilettura di diversi casi peritati e in ragione del comportamento osservato da parte dei SP si sono potute confermare alcune incongruenze che conseguono ad un insieme di criteri analitici, interpretativi ed operativi che tendono a svuotare la comprensione e la portata psicopatologica del paziente psichiatrico/autore di reato e della situazione indagata. Si possono ricordare in proposito: • la banalizzazione dei precedenti psichiatrici che, seppur ad andamento cronico, vengono spesso ridotti a manifestazioni poco significative; • il basso profilo dell'intervento messo in atto che acquista un tratto prevalentemente routinario/assistenziale; • lo scarso peso della terapia psicofarmacologica che non viene apprezzata nella sua equivalenza con l'intensità clinica dei sintomi; • la aspecificità della diagnosi per la quale si abusa spesso di categorie quali il disturbo di personalità, riducendo quelle interessante lo spettro psicotico; • il rinvio confuso ad una comorbilità soprattutto in presenza di uso di sostanze, che ridimensiona la componente strettamente psichiatrica della sintomatologia; • il rilievo delle diverse precarietà personali, familiari e relazionali che prefigurano una complessiva e prevalente disabilità sociale; • la novità/sorpresa della condotta penalmente rilevante che non trova lettura coerente con la psicopatologia e viene resa inspiegabile sostanzialmente perché imprevedibile. 4 Da questa rappresentazione quasi innocua del paziente psichiatrico e della sua storia è difficile capire quale sia la logica dei SP che, in simili occasioni, si autoaccreditano giudicando adeguato l’intervento psicosociale attivato; disconoscendo la gravità psicopatologica del paziente; dichiarandosi incompetenti riguardo alle ripetute provocazioni; imputando al paziente l'incostanza nelle cure; ritenendolo a priori capace di intendere e di volere ed auspicando un naturale percorso giudiziario “come per tutte le persone”. Colpisce allora – in questa logica - una certa dissociazione di fondo per la quale si caratterizza il paziente come psichiatrico in ordine a ticket, piano terapeutico per farmaci, invalidità civile, patente di guida o statistiche di servizio; e come normale in ordine alle responsabilità di giustizia che appaiono ininfluenti ed indipendenti dalla psicopatologia; una versione che priva il paziente psichiatrico/autore di reato anche di quei precedenti significativi o di quelle anomalie personologiche utilizzabili per tutelarlo sul piano psichiatrico/forense. In ragione di queste incongruenze – con le quali i SP rinforzano e giustificano la loro operatività astensionistica nel caso di paziente psichiatrico/autore del reato - si determinano delle discontinuità;discontinuità che interessano il senso e l’impianto dell’intervento messo in atto e la nuova referenza sociosanitaria cui questo paziente viene sottoposto o affidato. Nel primo caso si constata spesso la frattura o la perdita di quell'idea di fondo che armonizzava - sul piano clinico e terapeutico - l'interpretazione del paziente, la valutazione delle sue risorse e la efficacia dell'intervento; tutti aspetti che, integrati prima in una unitarietà di valutazione e di pianificazione, vengono all’improvviso ridimensionati dal fatto/reato e da nuove presentazioni che stimano al ribasso la portata disturbante delle fragilità evolutive storiche, del disadattamento cronico, della precarietà abituale del contesto socio-familiare; e dei ricorrenti tratti caratteriali che inducevano magari delle condotte impulsive. Talora in modo ancor più confusivo si aggiungono delle considerazioni ambivalenti in riferimento: a precedenti scompensi comportamentali visti di basso profilo psicopatologico; alla mancanza di figure contenitive nel versante interpersonale; alla inefficacia delle terapie psicofarmacologiche; alla inappropriatezza del ricovero;… considerazioni che confondono ancor più la stima corretta del caso e dei suoi determinanti. A chi allora deve combinare – per mandato giudiziario - questa mole di informazioni deriva talora la sensazione di avere a che fare con un altro paziente rispetto a quello che risulta dal primo approfondimento dell’assetto personale e delle evidenze di malattia; evidenze che avevano richiesto e giustificato, anche in termini di prestazioni, l'intervento portato avanti fino al momento del fatto/reato. Proprio riprendendo e analizzando questo atteggiamento astensionistico dei SP – cosi restii ad esplorare il possibile significato sintomatico del reato che rimane espulso da qualsiasi epistemologia – vi si possono delineare anche delle componenti emotive che colorano uno strano vissuto. Si tratta di un vissuto nel quale si condensano alternativamente: un sentimento di “lesa maestà” rispetto alle direttive dell'intervento; un senso di mortificazione rispetto agli obiettivi attesi; una sensazione di delusione rispetto a quanto sottoscritto; una colpevolizzazione rispetto alla condotta imprevista; una tendenza proiettiva sul paziente come arbitro del proprio destino; e una rivendicatività rispetto alla ingratitudine ricevuta; aspetti individuali che richiedono una qualche elaborazione per stemperare delle difese narcisistiche negativamente provate dall’impegno per un intervento frustrato, che però appariva giustificato e dovuto. 5 Nel secondo caso, considerando cioè i compiti della nuova referenza socio sanitaria, si devono citare la fatica aggiuntiva per colmare la rappresentazione generica e aspecifica del paziente psichiatrico/autore di reato; ed il rischio di ulteriore peggioramento di questo paziente per la interruzione del rapporto di cura. Dovendosi in primis cercare una qualche continuità informativa, documentale ed operativa ne derivano delle difficoltà sul piano dei rapporti interistituzionali anche per la indisponibilità dei SP ad assumersi delle competenze specialistiche che sono già sfumate con il fatto/reato. Queste ultime infatti – in relazione ad esempio al fine pena – diventano nel frattempo di pertinenza sociale in forza soprattutto di un isolamento e di un disadattamento cronico che pregiudicano l’autonomia e accompagnano abitualmente la dimensione psicopatologica. Insistendo cosi sulla non stretta pertinenza del caso e sul carico di altre emergenze, i SP lasciano solo una limitata disponibilità di consulenza che elude ancora una volta il problema psichiatrico e che mette spesso in crisi altre agenzie socioassitenziali; agenzie che a loro volta, per una documentata incompetenza specialistica, non sono in grado di gestire le espressioni multiproblematiche di questi pazienti che a questo punto non appartengono a nessuno. Non si può allora ricordare che fin da subito nella situazione del paziente psichiatrico/autore di reato convergono diversi fattori critici: è presente spesso una riacutizzazione psicopatologica; non sono facilmente individuabili delle figure di stabilizzazione; vi è un aggravamento emotivo per l’impatto delle misure contenitive; si estremizzano gli aspetti critici dello sradicamento; si assiste ad un impoverimento affettivo e familiare; vi è la perdita dei referenti sociosanitari storici. Questi fattori appesantiscono la tenuta psichica che deve man mano fare i conti con l’accettazione della nuova realtà; l’interruzione dei rapporti affettivi e quotidiani; la sensazione di essere giudicato e abbandonato; e la fatica ad adattarsi ai nuovi referenti sociosanitari. Tutti questi ulteriori fattori - che appartengono ad una dimensione anche traumatica di cambiamento - innescano facilmente delle modalità reattive, impulsive, oppositive o manipolatorie, quando non francamente persecutorie; modalità con le quali il paziente psichiatrico/autore di reato – oltre a mostrare una propria psicopatologia - prova a trovare un compenso emotivo, riadattandosi alla situazione e organizzando anche un disordinato vissuto di colpa. Cercando allora di recuperare le considerazioni più sopra riportate, emerge ancora una volta il dilemma dello psichiatra/forense che, conscio del prescritto atteggiamento neutrale, è costretto ad approfondire anche tutti gli elementi non clinici del paziente e del suo contesto di vita e a cogliere tutte le vicissitudini – anche istituzionali - che conseguono all'irrompere del fatto/ reato. Basti qui ricordare: il latente abbandono del paziente psichiatrico/autore di reato che vive in una sorta di delegittimazione attraverso una semplificazione diagnostica o una dichiarazione di non competenza del SP; o la delega sanitaria e giudiziaria che confusamente viene assegnata a nuovi interlocutori che rimarranno comunque parziali nella storia clinica di questo paziente; o il pregiudizio nella accessibilità al reato che in questo paziente esige una figura curativa, presente e credibile; accessibilità che costituisce pur sempre una parte indispensabile dell'intervento terapeutico anche in chiave preventiva. Si conferma ancora una volta come questo mandato esplorativo e valutativo richieda uno sguardo neutrale che non significa distacco e compassione, ma consapevolezza di tutte le variabili, anche strettamente personali, che intrudono in uno scenario estremamente 6 complesso come quello della valutazione psichiatrico/forense o del trattamento del paziente psichiatrico/autore di reato. Uno sguardo allo stesso tempo tecnico e umano che non può essere svilito da incongruenze e discontinuità che, per ragioni diverse, indeboliscono quel movente terapeutico che lega responsabilmente la professione medica ad una persona, ancor di più se inferma di mente. 7