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PERSIO TINCANI
UN VESTITO NUOVO PER L’IMPERATORE
CONSIDERAZIONI SULLA FENOMENOLOGIA DEL POTERE
Nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e
politica siano in rapporti piuttosto cattivi l'una
con l'altra e nessuno, che io sappia, ha mai
annoverato la sincerità tra le virtù politiche1.
SIR LAUNCELOT: “Look, my liege!
(trumpets)
ARTHUR: “Camelot!”
SIR GALAHAD: “Camelot!”
LAUNCELOT: “Camelot!”
PATSY: “It’s only a model”2
1. Il vestito nuovo dell’imperatore
Una favola molto nota racconta di un imperatore che vuole un vestito bellissimo. Si presenta da lui
un sarto che gli dice di possedere una stoffa così preziosa da poter essere vista soltanto dalle
persone di particolare intelligenza, saggezza, gusto e così via, ma che la gente volgare non sarebbe
riuscita a vedere. L’imperatore è entusiasta dell’idea e chiede al sarto di mostrargliela: questi apre
un cofano e espone al sovrano il tessuto meraviglioso. Il fatto è che, per quanto si sforzi,
l’imperatore non vede niente: il sarto muove le mani come se stringessero un pezzo di stoffa e ne
decanta i ricami e i colori, ma sua maestà non li vede. A questo punto, tra sé e sé, egli si dice che
non potrà mai ammettere di non vedere la preziosa stoffa: ciò equivarrebbe a confessare la propria
inadeguatezza al ruolo che ricopre. Così, comincia a decantarne i pregi e a commentare con il sarto
imbroglione la squisitezza dei sottili ricami. Nei giorni che seguono il sarto va ogni giorno
dall’imperatore, gli prende le misure e gli fa provare più volte il vestito inesistente. Poco per volta,
l’imperatore finisce per convincersi di vederlo davvero e si pavoneggia davanti allo specchio,
pensando che nessun sovrano al mondo ha la fortuna di possedere un manto così splendido. Nel
Ringrazio Corrado Del Bo, Ian Carter, Giuseppe Lorini, Stefano Moroni, Olof Page e Lorenzo Passerini, con i quali ho
discusso una versione provvisoria di questo saggio nel Gruppo di lavoro sulla giustizia del Centro interuniversitario di
Filosofia sociale (Pavia).
1
2
H. ARENDT, Verità e politica, trad. di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, p. 29.
T. GILLIAM – T. JONES, Monty Python and the Holy Grail, UK 1975.
2
frattempo, fa annunciare dagli araldi che in occasione della prossima cerimonia ufficiale egli si
mostrerà ai propri sudditi con indosso il più bel vestito che si sia mai visto al mondo.
Giunto finalmente il gran giorno, l’imperatore indossa il suo bel vestito ed esce sulla piazza
gremita. La gente accorsa in massa resta a bocca aperta: nessuno aveva mai visto un vestito più
bello.
Che cosa sta succedendo? Forse, tutti stanno prendendo in giro l’imperatore, oppure temono
di essere puniti se diranno che non c’è alcun vestito e che vedono soltanto un signore di mezza età,
nudo e sovrappeso. Credo però che la spiegazione sia un’altra, che cercherò di mostrare in questo
articolo.
2. Potere, potenza, disciplina
Secondo Max Weber, il potere è caratterizzato da un’aspettativa di trovare obbedienza, aspettativa
che riposa sul consenso di sfondo prestato dai dominati e che si manifesta in una speculare
disposizione ad obbedire.
la potenza designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad
un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità.
Per potere si deve intendere la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un
comando che abbia un determinato contenuto; e per disciplina si deve intendere la possibilità di
trovare, in virtù di una disposizione acquisita, un’obbedienza pronta, automatica e schematica ad
3
un certo comando da parte di una pluralità di uomini .
Nella definizione della potenza non viene menzionata l’“obbedienza”, mentre questo concetto è
centrale tanto per la definizione del potere quanto per quella della disciplina. Il motivo è subito
chiarito da Weber:
il concetto di «potenza» è sociologicamente amorfo. Tutte le possibili qualità di un uomo e tutte le
possibili costellazioni possono metterlo in condizione di far valere la propria volontà in una data
situazione. Il concetto sociologico di «potere» deve essere pertanto più preciso, e può designare
soltanto la possibilità di trovare una disposizione ad obbedire ad un certo comando.
Il concetto di «disciplina» comprende la «consuetudine» all’obbedienza priva di critica e
4
resistenza da parte delle masse .
Un aspetto da sottolineare è che il potere e la disciplina hanno bisogno di una molteplicità di
soggetti. Infatti, entrambi i concetti sono definiti con la descrizione di un rapporto (almeno)
bilaterale dominante/dominati. Per di più, i dominati sono l’elemento che sembra avere maggiore
3
M. WEBER, Economia e società, trad. di T. Bagiotti, F. Casablanca, P. Rossi, Comunità, Milano, 1995, I, pp. 51-2. Ho
reso lo spaziato con il corsivo. Cfr. H. Popitz, Fenomenologia del potere. Autorità, dominio violenza, tecnica, trad. di P.
Volonté e L. Burgazzoli, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 13.
4
Ivi, p. 52.
3
importanza nella costituzione di questo particolare rapporto, dato che tanto il caso del potere che
quello della disciplina sono definiti da un loro specifico comportamento, l’obbedienza, appunto.
Il caso della potenza, già sotto questo aspetto è diverso. Essa è infatti definita come la
possibilità di attuare la propria volontà «in una data situazione». Ciò suggerisce che si possa parlare
di potenza anche al di fuori di un rapporto e, in effetti, la prima parte della definizione conferma
questa conclusione. Sebbene Weber inserisca in maniera esplicita la potenza nella «relazione
sociale», precisa che essa si caratterizza per affermarsi «anche di fronte ad un’opposizione», cioè
nonostante la volontà contraria delle persone verso le quali si esercita. Tuttavia, non è necessario
che la potenza si eserciti contro la volontà dei dominati, che possono anche eseguire di buon grado
gli ordini che vengono loro rivolti: non importa che esista o meno un’opposizione. Ciò significa che
la volontà dei dominati, nell’ipotesi della potenza, non rileva. Non è quindi necessario che esista un
rapporto tra il dominante e i dominati, dato che la potenza può essere esperita comunque. Di certo,
poi, non esiste tra essi un rapporto giuridico, almeno nel senso kantiano di relazione tra soggetti
tutti portatori di diritti e doveri.
Mentre per la potenza è sufficiente che esista in capo ad un soggetto la possibilità di imporre
la propria volontà, perché si abbia potere (o disciplina) occorre che sia instaurato un rapporto tra chi
comanda (il dominante) e chi viene comandato (i dominati). Il potere, quindi, non trae origine dalla
possibilità concreta di coartare, quanto sull’esistenza di una generalizzata accettazione della
legittimità della fonte degli obblighi5.
Dal punto di vista delle ragioni dell’obbedienza, la distinzione tra potenza e potere è
esemplificata da quella tra essere obbligati e avere un obbligo. Nella classica situazione del bandito,
A ordina a B di consegnargli il denaro e minaccia di sparargli se non obbedisce. Secondo la teoria
degli ordini coattivi questa situazione spiega la nozione di obbligo e dovere in generale. L’obbligo
giuridico si può trovare in questa situazione ingrandita: A deve essere il sovrano abitualmente
obbedito e gli ordini devono essere generali, in quanto prescrivono delle classi di comportamenti e
non delle singole azioni. La plausibilità della tesi secondo cui la situazione del bandito spiega il
significato del concetto di obbligo sta nel fatto che riguardo ad essa si direbbe certamente che B, se
ha obbedito, è stato «obbligato» a consegnare il proprio denaro. È ugualmente certo, però, che si
traviserebbe la situazione se si dicesse, in relazione a questi fatti, che B «aveva un obbligo» o un
6
«dovere» di consegnare il denaro .
5
Un’eccezione alla regola per cui la disciplina richiede una pluralità di soggetti sembra essere rappresentata dal caso
dell’autodisciplina, che ricorre quando un soggetto si impone di tenere un comportamento. In realtà, l’autodisciplina
può essere interpretata come «un gioco intertemporale tra i propri sé temporali» (P. DASGUPTA, La fiducia come bene
economico, in D. GAMBETTA (ed.), Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della cooperazione, trad. di D.
Panzieri, Einaudi, Torino, 1989, p. 70).
6
H.L.A. HART, Il concetto di diritto, trad. di M. Cattaneo, Einaudi, Torino, 1965, pp. 98-9.
4
In questo passaggio, Herbert Hart introduce una critica alla concezione imperativista del diritto,
secondo la quale esso non sarebbe altro che un sistema di ordini sostenuti da minacce (Austin)7.
Con lo spostamento dell’argomentazione nel punto di vista del soggetto che riceve il comando si
mettono in luce alcuni aspetti stridenti: come esiste un dovere di pagare le tasse o di presentarsi
all’autorità giudiziaria, non si può parlare di un dovere del rapinato di consegnare il denaro, o della
donna aggredita di permettere lo stupro8. Esempi del genere chiariscono che esistono delle
differenze tra queste fattispecie. Secondo Hart, infatti, «per capire il concetto generale di obbligo
quale necessario elemento preliminare per la comprensione di esso nella sua forma giuridica,
dobbiamo rivolgerci a una situazione sociale diversa che, a differenza della situazione del bandito,
comprende l’esistenza di norme sociali»9.
Ciò consente di introdurre il concetto di autorità, che può essere qui interpretato come una
definitiva stabilizzazione e normalizzazione del rapporto di potere. Si obbedisce agli ordini per
paura della punizione o per libera inclinazione. La relazione di autorità si crea quando questi due
motivi si confondono, creando un particolare adattamento psichico. Così,«chi esercita l’autorità non
deve necessariamente impiegare misure “pesanti”. Può rinunciare alla minaccia di punizioni fisiche
e materiali. L’autorità è (o sembra), in un certo qual modo, disarmata, il risultato di misure leggere.
Un insegnante che tenga in mano la sua classe con la massima naturalezza è probabilmente
riconosciuto come un’autorità»10.
Come nota Bruce Lincoln, l’autorità e il potere crescono sulla base del consenso di coloro
che vi sono soggetti (la “relazione stabile” di Weber), senza il quale non si avrebbe potere ma
soltanto un riuscito esperimento di potenza. L’autorità, infatti, «dipende soprattutto dalla fiducia del
pubblico, o dalla strategia di quest’ultimo, che decide volontariamente di comportarsi come se
provasse effettivamente tale fiducia»11.
Se ciò è vero, allora non importa più molto che il popolo veda davvero il vestito
dell’imperatore: l’adesione alla struttura politica si manifesta nell’uniformità del comportamento dei
dominati che, vedano o meno il manto, si comportano come se lo vedessero, spalancano la bocca
7
Cfr. J. AUSTIN, The province of Jurisprudence determined and the uses of the study of Jurisprudence, Weidenfeld &
Nicolson, London, 1954.
8
Il classico caso del bandito è esaminato anche da Robert Paul Wolff per contrapporre il potere-potenza (da lui
ricompresi nella stessa figura concettuale) all’autorità. «Quando do il mio portafoglio a un ladro che mi punta contro
una pistola, lo faccio perché ciò di cui mi minaccia il ladro è peggiore della perdita di denaro che devo subire.
Riconosco che egli ha qualche potere su di me, ma difficilmente gli riconoscerei un’autorità, cioè che egli ha diritto a
pretendere i miei soldi e che io ho il dovere di darglieli» (R.P. WOLFF, In difesa dell’anarchia, a cura di M. Ricciardi,
trad. di G. Accolti Gil e A. Bertolo, Elèuthera, Milano, 1999, p. 36.
9
HART, Il concetto di diritto, cit., p. 102.
10
H. POPITZ, Fenomenologia del potere, Autorità, dominio, violenza, tecnica, trad. di P. Volonté e L. Burgazzoli, Il
mulino, Bologna, 2001, pp88-9.
11
B. LINCOLN, L’autorità. Costruzione e corrosione, trad. di S. Romani, Einaudi, Torino, 2000, p. 12.
5
per lo stupore e applaudono. Se la storia del vestito nuovo dell’imperatore finisse qui, non si
potrebbe mai sapere che cosa le persone abbiano visto.
3. Una menzogna e una recita
Torniamo nella piazza principale, dove tutti stanno acclamando l’imperatore e il suo vestito nuovo.
Tra la folla c’è un bambino che non si capacita di quello che sta succedendo e non riesce più a
trattenersi dal gridare che l’imperatore è nudo. A quel punto, la folla comincia a rumoreggiare e
finisce per esplodere una risata fragorosa. All’improvviso tutti vedono che l’imperatore è nudo;
persino lo stesso sovrano si accorge di essere stato gabbato e fugge dentro al palazzo pieno di
vergogna rimuginando propositi di vendetta contro il sarto.
Prima che il bambino cominci a gridare, sembra proprio che nessuno si accorga di nulla:
l’imperatore aveva infatti annunciato che si sarebbe mostrato al popolo con indosso il più bel vestito
di tutti i tempi e adesso la folla lo ammira, lo vede.
Come è possibile? Secondo Mary Douglas «l’analisi dei processi cognitivi individuali non
potrà che venire avvantaggiata dal riconoscimento che gli individui sono coinvolti nella costruzione
di istituzioni fin dall’inizio dell’impresa cognitiva. Anche i semplici atti di classificare e ricordare
sono istituzionalizzati»12. Se esiste un rapporto di potere, dunque, la lettura del mondo che si
stabilisce entro il rapporto di relazione è determinata dal modello cognitivo offerto dall’accettazione
della sua legittimità. Nella favola dell’imperatore, addirittura, si può affermare che la lettura del
mondo sia interamente determinata dal modello cognitivo dell’autorità. Il comportamento della
piazza, infatti, mostra che non ne esiste un altro.
La relazione di potere esiste in quanto esiste la stabile disponibilità ad obbedire da parte dei
dominati, che si comportano come se il potente fosse davvero in grado di coartarli, cioè sulla base
dell’accettazione di una menzogna. Ma il “come se” è ben più di una menzogna: è una recita, in cui
ciascuna delle parti finge. Finge il dominante, che si comporta come se fosse in possesso di una
potenza in grado di coartare i dominati; e fingono i dominati, che si comportano come se fossero
(presi ad uno ad uno e nel complesso) meno potenti del dominante.
Secondo Lincoln, la storia del vestito nuovo dell’imperatore mostra che, dato che la
relazione di potere/autorità coincide con l’esistenza di un rapporto di fiducia (in primo luogo,
fiducia nella capacità di punire), è possibile che le persone possano comportarsi «come se fossero
presenti le insegne del potere che effettivamente non ci sono»13. Tuttavia, sebbene i sudditi
dell’imperatore «siano disponibili ad accondiscendere parzialmente a questa richiesta (per il rispetto
12
M. DOUGLAS, Come pensano le istituzioni, trad. di P.P. Giglioli, Il Mulino, Bologna, 1990, p. 107.
6
dovuto alla sua autorità), in realtà vi sono limiti ben precisi alla loro volontà e capacità di agire in
questo modo. E così, nel momento in cui uno fra il pubblico (è significativo che si tratti di un
bambino, ovvero il simbolo dell’individuo meno istruito e intimorito dall’autorità) dà voce allo
scetticismo, l’autorità dell’imperatore crolla»14.
Non credo che la lettura di Bruce Lincoln sia corretta. Se così fosse (se la folla vedesse
l’imperatore nudo ma accettasse di comportarsi come se fosse vestito) non scoppierebbe a ridere
quando il bambino dice come stanno le cose. Piuttosto, qualcuno lo sgriderebbe, o magari lo
prenderebbe da parte per spiegargli che “non si fa”. Resta però significativo che sia un bambino a
gridare che l’imperatore è nudo, cioè l’individuo meno istruito sull’autorità e quindi meno
intimorito da essa. Che, poi, nella favola l’autorità sia tutta una questione di mantelli è dimostrato
dal fatto che, una volta vistolo nudo, nessuno veda un motivo per non ridere in faccia
all’imperatore: con il mantello è scomparso anche il timore, la fiducia nella facoltà di punire.
4. Minacce e promesse
La minaccia è uno dei più importanti strumenti attraverso i quali il dominante interviene per
modificare il comportamento dei dominati15. Certo, il comportamento può essere influenzato anche
dalle promesse (promesse di ricompense), ma esse si rivelano assai più dispendiose in caso di
conformità16. Un ordine sostenuto da una minaccia, infatti, comporta un’attività del dominante solo
nel caso in cui il comportamento di coloro ai quali esso è diretto non sia conforme a quanto
comandato: i casi di comportamento conforme, infatti, non danno luogo a nessuna attività da parte
del potere. Al contrario, un sistema di ordini sostenuto da promesse (promessa di un vantaggio per
chi ubbidisce al comando) si rivela dispendioso nel caso in cui le persone alle quali l’ordine si
rivolge ottemperino a quanto comandato. Heinrich Popitz ha mostrato con grande chiarezza che
in caso di conformità le minacce sono di gran lunga più convenienti. Se sono davvero efficaci, il
loro costo è basso. Se il minacciato si comporta in modo conforme, colui che minaccia non è
tenuto a fare assolutamente nulla. Al contrario, in caso di successo le promesse diventano costose.
13
LINCOLN, L’autorità, cit. p. 12.
Ibidem
15
Alla minaccia si può affiancare il potere di intimorire, cioè di collegare prospettive più o meno terribili alla
disobbedienza. In un suo recente lavoro, James Hillman tratta addirittura i due casi (minacciare e intimorire) come
omologhi, il che mi pare in tutta franchezza una semplificazione eccessiva: «del generale Andrew Jackson, diventato in
seguito presidente degli Stati Uniti, si diceva che “otteneva il massimo dai suoi uomini perché lo temevano più di
quanto non temessero i nemici”. L’esercizio del potere ottiene con la paura quello che non è possibile ottenere
altrimenti. La televisione ci impartisce ogni giorno questa lezione. Né il distintivo della carica, né la voce dell’autorità
riescono a far fare le cose rapidamente quanto la minaccia di un manganello o di una pistola» (J. HILLMAN, Il potere.
Come usarlo con intelligenza, trad. di P. Donfrancesco, Rizzoli, Milano, 2002, p. 211). Sul ruolo del timore come fonte
di legittimità vedi R. ESCOBAR, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna, 1997.
16
Per semplicità di esposizione, indicherò la promessa di una ricompensa con “promessa” e la promessa di un male con
“minaccia”.
14
7
Se esse non si limitano a semplici riconoscimenti verbali o a ricompense simboliche, chi promette
– colui che produce conformità – è tenuto a regalare qualcosa: denaro, cariche, prebende, la figlia,
17
promozioni, pranzi, gioielli, aiuti di ogni tipo .
Una minaccia credibile, il più delle volte, produce obbedienza e non attiva alcuna reazione da parte
del minacciante. Per questo, già semplici considerazioni di economia rappresentano buone ragioni
perché un dominante che si aspetti una preponderanza di comportamenti conformi scelga di
sostenere i propri ordini con minacce piuttosto che con promesse. Come nota ancora Popitz,
«elargire ricompense per la conformità alle norme sarebbe semplicemente troppo dispendioso. Non
la finiremmo più di fare doni grandi e piccoli [...]. Le minacce sono viceversa redditizie, perché in
generale possiamo fare affidamento sul rispetto delle norme. Dovunque ci si possa aspettare un
elevato grado di conformità, il modo più economico e razionale per salvaguardarla sono le
minacce»18. Questa non è però la sola ragione che, dalla prospettiva del dominante, rende la
minaccia più attraente della promessa.
Il dominante che promette, infatti, è obbligato a mostrare la propria potenza se vuole
continuare ad ottenere obbedienza. Il potere che sostiene i propri ordini con le minacce, al contrario,
può più facilmente dissimulare il proprio deficit di potenza.
Nella sua formalizzazione classica, nel caso della promessa il comando tipico assume la
forma “fai X e ti verrà dato Y”, nel caso della minaccia quella “fai X altrimenti Z”, dove Y è
qualcosa di piacevole (una ricompensa) e Z è qualcosa di sgradevole (una punizione)19. La reazione
del dominante, si è visto, viene provocata rispettivamente dall’adempimento e dal non adempimento
dell’ordine.
Se l’ordine è sostenuto da una promessa, chi lo adempie lo fa in vista della ricompensa, che
può perciò essere considerata la sola ragione per cui un soggetto ha tenuto un comportamento
conforme a quanto comandato. Per questo motivo, una volta eseguito l’ordine, l’esecutore si aspetta
di ricevere quanto gli è stato promesso: al proprio adempimento deve infatti corrispondere uno
speculare adempimento da parte del dominante, come in una sorta di rapporto sinallagmatico.
Certo, non intendo sostenere i motivi dell’obbedienza siano tutti riconducibili ad argomenti
di minaccia o promessa. Esistono molti casi di pretesa di autorità nei quali il problema della
minaccia temuta o della ricompensa attesa non affiorano neppure alla superficie. D’altra parte, però,
il fatto che essi non traspaiano non significa necessariamente che non vi siano; nell’ambito dei
17
H. POPITZ, Fenomenologia del potere, cit., pp. 74-5.
Ivi, p. 76.
19
Il termine “punizione” sembra suggerire un riferimento istituzionale. La “punizione” è associata da un lato alla
“violazione” e dall’altro alla “pena”, piuttosto che a concetti quali quelli di “offesa” e “vendetta”. In questo senso, già
Hobbes: «A PUNISHMENT, is an Evill inflicted by publique Authority, on him that hath done, or omitted that which is
Judged by the same Authority to be a Transgression of the Law; to the end that the will of men may thereby the better
be disposed to obedience» (Th. HOBBES, Leviathan, Oxford at the Clarendon Press, London, 1958, p. 238).
18
8
comandi che non appaiono fondati su minacce/ricompense si possono infatti individuare numerosi
casi in cui questa relazione esiste in maniera nascosta o sottintesa.
Al di là della minaccia/ricompensa esplicita, vi sono molte ragioni che spiegano
l’obbedienza,
la più comune, considerando la storia dell’umanità nel suo complesso, è semplicemente la forza
prescrittiva della tradizione. Il fatto che una certa cosa sia sempre stata fatta in un certo modo è per
la maggior parte degli uomini una ragione perfettamente sufficiente per continuare a farla in quel
modo. Perché dovremmo sottometterci a un re? Per la semplice ragione che ci siamo sempre
sottomessi a dei re. E perché il primogenito del re dovrebbe diventare re a sua volta? Perché i
primogeniti sono sempre stati eredi al trono. La forza di ciò che è tradizionale è radicata a tal punto
nelle menti degli uomini che nemmeno la conoscenza delle origini casuali e violente di una
famiglia regnante ne indebolirà l’autorità agli occhi dei sudditi20.
Il caso della tradizione, tuttavia, non mi pare del tutto esente dall’intreccio di minaccia e di offerta.
In realtà, un comando può provenire da un’autorità tradizionale e non per questo essere privo di un
rafforzamento di quel genere. Oppure (e forse è l’ipotesi più comune) la stessa autorità tradizionale
è rafforzata dall’esistenza di un apparato di minacce e offerte che funge da sfondo a ogni singolo
comando.
Un tipico caso di comando emesso da un’istituzione tradizionale è quello della norma sacra.
Si prenda, ad esempio, il settimo comandamento: “Non rubare”. La struttura della proposizione
ricade nella fattispecie della lex imperfecta, cioè quella delle disposizioni che contengono soltanto il
precetto. Isolato dal contesto istituzionale, il comando “Non rubare” non prevede alcuna sanzione
per i trasgressori, né alcuna ricompensa per chi vi ottempera. Da questo si potrebbe dedurre che
l’obbedienza non è dovuta né alla paura di una punizione né all’aspettativa di un premio. Essa,
piuttosto, deriverebbe dalla convinzione che il comando è in sé giusto e come tale meritevole di
essere obbedito.
Questa interpretazione solleva due questioni distinte. In primo luogo, si può controbattere
che un comando che viene eseguito dai dominati per la forza della condivisione non sarebbe in
realtà un comando, ma un “argomento persuasivo”: «quando mi si ordina di fare qualcosa, posso
scegliere di obbedire anche senza aver subìto minacce, perché mi si convince che la cosa va fatta. In
un caso del genere, io non obbedisco, a rigor di termini, a un comando, ma piuttosto constato la
forza di un argomento o la giustezza di una prescrizione»21.
Perché il comando sia in realtà un “argomento persuasivo” non serve che esso ne assuma la
forma esteriore. Non serve, in altri termini, che si tratti di una proposizione argomentata. Di norma,
20
21
WOLFF, In difesa dell’anarchia, cit., p. 39.
Ivi, p. 38.
9
il capomastro ordina – tout court – agli operai di indossare l’elmetto; in realtà, potrebbe anche
convincerli a farlo durante un briefing sull’antinfortunistica approntato alla bisogna.
Sarebbe però un errore ritenere che il caso dell’argomento persuasivo sia limitato a specifici
ambiti dell’agire strettamente tecnico. Lo stesso diritto civile, secondo alcuni, sarebbe un insieme di
norme tecniche modellate su imperativi ipotetici del tipo: “Se vuoi fare X, ecco il modo per farlo”22.
Del resto, l’intero insieme delle norme di diritto potrebbe essere inteso come un insieme equiesteso
di argomenti persuasivi, che potrebbero suonare più o meno così: “È nel tuo interesse fare (o non
fare) X o Y dato che in caso contrario riceveresti una punizione”. Il concetto di “argomento
persuasivo”, come si vede, può essere facilmente esteso a ricomprendere una varietà di fattispecie
assai ampia, il che tende ad indebolire molto l’obiezione basata su di esso.
In secondo luogo, come ho in parte anticipato, il fatto che la minaccia o la ricompensa non
compaiano nella formulazione del comando non significa che esse non vi siano. La norma sacra, in
questo senso, è paradigmatica. Prese una per una, le norme di un dato sistema sacrale difficilmente
esplicitano le conseguenze dell’adempimento o della deviazione da esse; i comandamenti di Mosè,
per rimanere sull’esempio, sono un insieme di comandi e divieti ai quali non viene collegata
nessuna conseguenza condizionata. Ciò non significa però che la loro violazione non comporti
conseguenze: essi appartengono ad un sistema che assegna alle persone un posto in paradiso o tra le
fiamme dell’inferno, soppesando le azioni che esse compiono in vita23. Anche in questo caso,
dunque, si ha a che fare con norme il cui adempimento comporta l’erogazione di punizioni o premi.
Si potrebbe ancora obiettare che questa lettura della norma sacra sia, in qualche modo, un
po’ troppo fiduciosa. Tanto la ricompensa quanto il castigo, infatti, sono inverificabili, essendo
rimandati ad una dimensione ulteriore rispetto alla vita così come la sperimentiamo (una
dimensione la cui stessa esistenza è inverificabile). Ciò, sia chiaro, vale solo per le norme sacre che
non prevedono una sanzione secolare: un tale ragionamento non avrebbe ragione d’essere nei casi in
cui un’autorità sacrale avesse il potere di comminare sanzioni “in questo mondo”. Al giorno d’oggi,
ciò avviene soltanto nei regimi ierocratici, con buona pace degli integralisti di casa nostra.
Credo però che questa obiezione abbia un punto debole nel fatto di non considerare
l’atteggiamento soggettivo dei destinatari delle norme, operando così una sovrapposizione dei piani
argomentativi. Se il soggetto A osserva il settimo comandamento “Non rubare” perché crede che se
lo violasse andrebbe all’inferno, per A la sanzione del settimo comandamento è l’inferno. Il fatto
che il soggetto B non creda all’inferno non toglie nessun peso al ragionamento che A compie nel
22
HART, Il concetto di diritto, cit., p. 36.
Il riferimento ai comandamenti non deve essere preso con rigore filologico o teologico. Nel giudaismo, infatti,
l’immortalità dell’anima è un concetto tutt’altro che pacifico; così, la lettura che qui propongo potrebbe, casomai,
calzare meglio per la traduzione cristiana del complesso della legge mosaica. In ogni caso, si tratta soltanto di un
esempio.
23
10
momento in cui osserva il settimo comandamento. Il fatto che B consideri inverificabile la sanzione
dell’inferno non significa nulla: A la considera certa e agisce in conformità ai comandamenti per
evitare di subirla.
Non serve spiegare come la possibilità di sostenere i comandi con punizioni o premi
rimandati a una dimensione ulteriore rispetto alla vita terrena presenti vantaggi considerevoli per il
dominante. Del resto, sebbene questi non sia impegnato in prima persona nella comminazione di
sanzioni o nella elargizione di premi, un tale sistema richiede comunque un certo onere da parte sua.
Un sistema del genere, infatti, necessita di un solido apparato simbolico ampiamente condiviso, che
diffonda tra i dominati la solida convinzione dell’ineluttabilità delle conseguenze delle loro azioni24.
5. Inadempimenti
Non sempre il dominante si comporta come ci si aspetta. Ciò ha effetti di un certo peso, tanto sul
sistema basato su promesse quanto su quello basato su minacce.
Può succedere, ad esempio, che la ricompensa non arrivi. È ovvio che ciò non cambierà la
sostanza delle cose per quanto riguarda i comandi già eseguiti; tuttavia, nel suo complesso il sistema
basato sulla promessa subisce un danno dal mancato adempimento da parte del dominante. La forza
dei comandi, infatti, si basa sulla fiducia nella ricompensa, una fiducia che viene indebolita da ogni
inadempimento.
Nel caso degli ordini sostenuti dalle minacce, come si è visto, le cose funzionano in maniera
diversa: il dominante si attiva soltanto in caso di disobbedienza. Qui, il motivo dell’obbedienza è il
desiderio di evitare la punizione: chi non vuole Z deve fare X. È chiaro che anche nell’ipotesi di
ordini sostenuti da minacce la punizione può non arrivare: magari sono riuscito a fuggire, oppure ho
corrotto i poliziotti o, più semplicemente, nessuno si è accorto del fatto che io non abbia eseguito
l’ordine (ad esempio, ho parcheggiato l’auto in sosta vietata, ma sono ripartito prima che un vigile
passasse da quelle parti). Tuttavia, in questi casi, non mi rivolgerò all’autorità competente per
richiamarla all’adempimento delle sue minacce (immaginate una persona che si presenta
nell’ufficio di polizia municipale dicendo: “Ho parcheggiato davanti a un passo carrabile dalle 10 di
questa mattina fino a mezzogiorno; potreste, per favore, multarmi?”); se invece ho tenuto un
comportamento perché ingolosito dalla ricompensa, nel momento in cui questa dovesse tardare non
mancherei di sollecitarne la consegna.
24
In ambito occidentale, un’alta vetta di raffinatezza nell’elaborazione simbolico-normativa è rappresentata
dall’invenzione del Purgatorio e dal mercato delle indulgenze. V., per tutti, J. LE GOFF, La nascita del Purgatorio, trad.
di E. De Angeli, Einaudi, Torino, 1982). Tra gli esempi decisamente più rozzi, ricordo alcuni manifesti propagandistici
del dopoguerra di un partito cattolico italiano che ammonivano che, nella cabina elettorale, “Dio ti vede, Stalin no”.
11
Questo mette in luce un’altra importante differenza tra i comandi sostenuti da promesse e i
comandi sostenuti da minacce, e cioè il fatto che in quest’ultima ipotesi vi sono molte più
possibilità di bluffare che non nella prima, come si vede dai due esempi seguenti.
A. Promessa. Un professore universitario incarica un proprio collaboratore di scrivere una
bibliografia su un determinato argomento. Questi, però, non ha il tempo o la voglia di farlo. Un bel
giorno, egli si presenta in aula e dice agli studenti: “Ho bisogno di due volontari che redigano una
bibliografia sull’argomento X. Come premio, darò loro cinque punti in più all’esame”. I due
volontari vengono fuori alla svelta e consegnano nel giro di qualche settimana una bibliografia ben
fatta. Tuttavia, arrivato il giorno dell’appello, scoprono con disappunto di essere stati presi in giro:
nessuno sa nulla del loro credito, e i due ricevono il voto solo sulla base della prova d’esame
sostenuta. Il perfido assistente, poi, non è nemmeno in commissione. In realtà, egli non avrebbe
avuto alcuna possibilità di onorare la promessa e lo sapeva bene, ha mentito fin dall’inizio.
B. Minaccia. Un impiegato vorrebbe partecipare a delle gare podistiche allo scopo di riuscire a
partire per le prossime olimpiadi con la nostra nazionale. Il capoufficio viene a conoscenza delle sue
intenzioni e non ne è contento per niente. Soprattutto, non gli va giù la prospettiva di dovergli
concedere giornate di permesso (se non addirittura un lungo periodo di aspettativa) nel caso entrasse
a far parte della selezione azzurra. Così, chiama l’impiegato e gli dice che se si iscriverà ad una gara
verrà licenziato. L’impiegato, seppure a malincuore, abbandona il proprio progetto.
In questi esempi, alcuni soggetti hanno orientato il comportamento di altri, nel primo con una
promessa, nel secondo con una minaccia. In entrambi i casi si è trattato di un bluff: l’assistente non
aveva il potere di pagare con cinque punti il lavoro dei due studenti e (almeno se la storia si svolge
in un paese civile), il capoufficio non può licenziare un impiegato perché partecipa alle maratone.
La differenza sta nel fatto che il bluff viene smascherato soltanto nel primo caso: la ricompensa non
arriva e i due studenti capiscono di essere stati truffati. Nel caso dell’impiegato, invece, non c’è
nulla che riveli che il capoufficio l’abbia sparata grossa. Certo, l’impiegato può venire a conoscenza
del bluff con facilità (può chiedere al proprio sindacalista, può consultare un manuale di diritto del
lavoro, ecc.) ma deve comunque ricorrere a fonti di informazione esterne al caso specifico, che di
per sé non offre alcuna possibilità di scoprire il gioco.
In concreto, l’esempio dell’impiegato podista comprende tre fasi (a, b, c):
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a) il capoufficio dice all’impiegato che lo licenzierà se si iscriverà ad una maratona, b) l’impiegato
non si iscrive alla maratona, c) il capoufficio non lo licenzia.
Questa sequenza, però, è solo apparentemente causale. Noi, che siamo in possesso di
informazioni più complete (siamo a conoscenza del fatto che il capoufficio non può licenziare gli
impiegati perché si iscrivono alle marcelonghe), sappiamo che le cose sarebbero potute andare
anche in maniera diversa. In effetti, se l’impiegato si fosse iscritto alla marcialonga, la sequenza
sarebbe stata modificata così:
a) il capoufficio dice all’impiegato che lo licenzierà se si iscriverà ad una maratona, b) l’impiegato
si iscrive alla maratona, c) il capoufficio non lo licenzia.
La sostituzione del secondo elemento della sequenza non modifica il terzo, e ciò mostra che essa
non è una sequenza causale ma un mero succedersi di avvenimenti lungo l’asse temporale. Si tratta
soltanto di elementi contigui, la cui successione può far presumere del tutto erroneamente
l’esistenza di un vincolo di causalità. Come ha mostrato David Hume, infatti, la causalità non è una
qualità intrinseca delle cose, ma una connessione tra esse, che attribuiamo sulla base
dell’osservazione degli accadimenti: «l’idea di causa ed effetto deriva dall’esperienza, che ci
presenta certi oggetti costantemente congiunti fra loro, e così induce un’abitudine a riconoscerli
uniti, tale che non possiamo evitare di vederli così»25. L’esempio dell’impiegato è volutamente
estremo, dato che tutti sanno che il comportamento del capoufficio sarebbe illegittimo. Tuttavia, la
conoscenza di questa circostanza può essere derivata soltanto da elementi ulteriori rispetto al caso
specifico, dal quale non traspare nulla che possa rivelare in qualche modo che non potrà esservi
alcun licenziamento. Se si escludono queste informazioni (che, ripeto, sono esterne), l’unico modo
per sapere se il capoufficio mente è iscriversi alla gara.
Che cosa fa presumere l’esistenza di un nesso causale? Il fatto che si verifica in apparenza
ciò che il capoufficio promette: dire “se ti iscriverai alla gara ti licenzierò” sembra equivalente a “se
non ti scriverai alla gara non ti licenzierò”. In realtà, si tratta di una falsa equivalenza, e in questo
fraintendimento si trovano tutte le ragioni dell’inganno. Tutto ciò che il capoufficio può fare se
l’impiegato si iscrive alla gara, infatti, è non licenziarlo; le affermazioni “se non ti iscriverai alla
gara non ti licenzierò” e “se ti iscriverai alla gara non ti licenzierò” sono entrambe vere, nel senso
che descrivono situazioni la cui realizzazione dipende dal comportamento delle parti. Robert
Nozick esemplifica questo ragionamento con un esempio molto simile:
13
voi mi minacciate di licenziarmi se faccio A: io mi trattengo dal fare A a causa di questa minaccia e
sono costretto a non fare A. Ma, a mia insaputa, voi state bluffando. Sapete di non avere
assolutamente modo di mettere in pratica questa minaccia, né lo fareste se ne aveste la possibilità.
Io non ero non libero di fare A (senza dubbio pensavo di esserlo), per quanto io fossi costretto a
26
non fare A .
Il modo in cui la minaccia viene rivolta, infatti, è tale da suggerire che sia in potere di chi la enuncia
il metterla in atto o meno. In realtà, almeno nel nostro caso, il minacciante non ha la possibilità di
infliggere il male che promette. Nonostante ciò, essa sortisce l’effetto voluto: l’impiegato non si
iscrive alla gara podistica nonostante, il capoufficio non avesse alcuna possibilità di mettere in atto
quanto minacciato. Fino a qui, non sembrano esserci molte differenze con il caso degli studenti
gabbati con una promessa non mantenuta: in entrambi i casi, infatti, qualcuno ha indotto qualcun
altro a fare qualcosa attraverso una menzogna.
È chiaro però che tra le due figure corrono anche importanti differenze. In primo luogo, è
possibile sostenere che i due studenti hanno agito di loro volontà ma non così l’impiegato. Come
sostiene Nozick, al di fuori di casi particolari, «una persona che fa qualcosa spinta dalle minacce
non compie un’azione del tutto volontaria, mentre questo non è normalmente il caso di qualcuno
che fa qualcosa spinto da un’offerta [...] (ci sono altri approcci possibili per quest’area. Potremmo
chiederci perché diciamo che accettiamo le offerte, mentre subiamo le minacce, piuttosto che
accettarle)»27. La differenza che qui interessa, però, è un’altra: nel caso degli studenti il bluff è
svelato, nel caso dell’impiegato no.
Il motivo di ciò è, tutto sommato, molto semplice. Mentre nel primo caso il ricercatore si
comporta in modo diverso da quanto aveva detto all’inizio, il capoufficio si comporta come aveva
detto che avrebbe fatto: “se non ti iscriverai alla gara non ti licenzierò”, e in effetti non licenzia
l’impiegato. Così, soltanto il primo viene sbugiardato dal proprio stesso comportamento: egli non
ha alcun potere di far lievitare il voto dei due studenti. Mentre il ricercatore si comporta in modo
diverso da quello che i due studenti si aspettano, il capoufficio fa esattamente quello che
l’impiegato si aspetta. La situazione che si verifica, infatti, è questa:
a) il capoufficio dice all’impiegato che non lo licenzierà se non si iscriverà alla maratona; b)
l’impiegato non si iscrive alla maratona; c) il capoufficio non lo licenzia.
25
D. HUME, Trattato sulla natura umana, trad. di P. Gugliemoni, Bompiani, Milano, 2001, p. 265 (edizione con testo a
fronte, basata sull’edizione critica Selby-Bigge/Nidditch, Oxford University Press, Oxford, 1978, p. 125).
26
R. NOZICK, Puzzle socratici, trad. di D. Zoletto, Cortina, Milano, 1999, pp. 17-8.
27
Ivi, pp. 43-4.
14
Da questo punto di vista, il capoufficio ha mantenuto la parola. Come ho accennato, però, l’inganno
si basa sul fatto di sottintendere che l’altra sequenza di azioni possibile sia :
a) il capoufficio dice all’impiegato che lo licenzierà se si iscriverà alla maratona; b) l’impiegato si
iscrive alla maratona; c) il capoufficio lo licenzia,
mentre, come si è visto, l’unica azione c) possibile è “il capoufficio non lo licenzia”.
Una volta prodotto il fraintendimento, tuttavia, non è possibile scoprire il bluff se non violando la
norma, cioè iscrivendosi alla maratona. In quel caso, il capoufficio sarebbe costretto a fare qualcosa
che l’impiegato non si aspetta, cioè non licenziarlo. Questa, infatti, è la sola maniera a sua
disposizione per violare i patti. Se chi subisce una minaccia obbedisce, allora «può, anche in un
secondo tempo, non sapere se chi minacciava era nelle condizioni di imporre la sanzione. L’ipotesi
che ha determinato il suo comportamento resta non comprovata»28.
6. Il bluff della grazia
Che cosa succede se chi minaccia non tiene fede ai patti, cioè non mette in pratica la
conseguenza spiacevole condizionata? In linea generale, verrebbe da dire che alla scoperta del bluff
consegue la perdita della possibilità di sperimentare in futuro la stessa minaccia con una
ragionevole aspettativa di successo.
In questa materia, tuttavia, cercare di definire delle regole non è una cosa semplice, dato che
esistono sempre esempi particolari che le contraddicono. Pensiamo al classico caso di un genitore
che rimprovera un bambino perché ha fatto una certa cosa proibita X. Per rafforzare la proibizione,
il genitore dice: “Se farai ancora X ti manderò in collegio”. Dopo pochi giorni il bambino fa ancora
X (di solito è così). Il genitore si mostra molto arrabbiato e gli dice che lo porterà in collegio
l’indomani mattina. Quando il bambino si sveglia si guarda attorno con circospezione e aspetta di
essere portato in collegio, dai temuti frati. Il genitore però, lo accompagna a scuola come tutte le
mattine e gli dice “Ho deciso di concederti un’altra possibilità. Ma attento: questa è l’ultima. Se
farai ancora X ti porterò in collegio in men che non si dica”.
Se il bambino è l’ottimo Franti, si sbellicherà dalle risate e non ci sarà più niente da fare:
correrà subito a fare X che, per lui, è diventata un’attività permessa (il bluff è scoperto). Con
28
POPITZ, Fenomenologia del potere, cit., p. 70.
15
bambini ragionevolmente buoni, però, le cose possono andare in un altro modo. Il fatto che il
genitore non mantenga la parola può essere dovuto a (almeno) due diverse circostanze:
a) il genitore non aveva intenzione di mandare il bambino in collegio o, pur volendolo, sapeva
di non averne la possibilità: le rette sono molto costose, oppure immaginava che il resto
della famiglia si sarebbe opposto con tutte le forze;
b) il genitore aveva intenzione e possibilità di mandare il bambino in collegio ma ha deciso di
essere clemente.
Non interessa qui conoscere il motivo per il quale la minaccia non sia stata posta in atto. In ogni
caso, l’interesse del genitore è far credere che ciò sia dovuto alla sua intenzione di graziare il bimbo
colpevole. In questo modo, anche se non esisteva la possibilità di infliggere la punizione
minacciata, la sua autorità resta salva, forse persino rafforzata.
Esempi del genere non sono limitati alla sfera domestica e pedagogica. Una delle forme
generali che il potere può assumere, infatti, è quella del perdono, ossia della “grazia”, «un potere
riserbato a tutti e posseduto da tutti»29. Come ha mostrato Elias Canetti, la grazia è una forma
particolarmente alta e schiacciante di potere, in quanto «presuppone la condanna; se non è stata
pronunciata una condanna, non può aver luogo alcun atto di grazia»30.
La presupposizione della condanna rappresenta l’aspetto più importante di questa modalità
di manifestazione del potere, perché si traduce nel dare per scontato che la punizione avrebbe potuto
essere comminata. Quando la mancata concretizzazione della minaccia assume questa forma,
l’autorità del minacciante ne risulta accresciuta. La grazia, infatti, è la decisione eccezionale di non
comminare una pena. Se la grazia è creduta – cioè se il minacciato crede di essere stato graziato –
nello stesso tempo deve essere per forza di cose accettata anche la possibilità di eseguire la pena
(anzi, rispetto alla grazia questo rappresenta un prius logico).
Queste considerazioni mostrano che la mancata comminazione della pena (cioè il mancato
attuarsi della minaccia) non significa necessariamente il crollo della fiducia nella facoltà di punire
del dominante. Da ciò derivano due diverse conseguenze:
a) le possibilità di bluffare sopravvivono alla delusione dell’aspettativa di obbedienza.
L’impiegato podista si iscrive alla gara, il capoufficio lo chiama e gli dice “Avevo promesso
di licenziarti e dovrei farlo. Non lo faccio soltanto perché tua moglie e i tuoi figli non
devono pagare per le tue stupidaggini”;
b) il dominante afferma la propria libertà di non rispettare i patti.
29
E. CANETTI, Massa e potere, trad. di F. Jesi, Adelphi, Milano, 1981, p. 360.
16
Soprattutto l’ultimo punto è l’affermazione di una superiorità schiacciante sui dominati. Chi
possiede la grazia, infatti, possiede il diritto di non rispettare le regole (o, almeno, di non rispettare
quella particolare regola in quel particolare momento).
In realtà, le cose non sono così schematiche. Il supremo potere del dominante (quello di
ignorare le regole) non può essere esercitato con disinvoltura, pena la perdita della credibilità dei
suoi comandi. L’esercizio del potere della grazia, sia esso un bluff o no, deve svolgersi in modo da
conferire all’evento un forte carattere di eccezionalità.
Al di là delle modalità tecniche del suo esercizio, comunque, la grazia rappresenta un
ulteriore strumento a disposizione del dominante, che può sopperire alla sua incapacità di punire un
determinato atto vietato.
Questo aspetto è ignorato del tutto da Popitz, che scrive:
per le minacce intese come tentativi di esercitare potere, il minacciante paga un prezzo, in quanto
limita e vincola se stesso.
Questo prezzo può essere considerevole: è infatti il minacciato a decidere se chi minaccia
debba essere preso in parola. Chi minaccia (o promette) si rende esplicitamente dipendente dal
comportamento altrui. Questo può anche voler dire che è l’altro a stabilire il momento del
conflitto, che sarà lui a decidere quando provocarlo. Spesso il vantaggio dell’effetto sorpresa passa
dalla parte del minacciato. Inoltre, e molte volte questo diventa il rischio maggiore, chi minaccia
mette in gioco la propria credibilità; se non riesce a mettere in pratica la sua minaccia, l’effetto di
ogni futura minaccia è compromesso31.
L’interpretazione di Popitz sembra indebolire parecchio la forza della minaccia, e ciò non soltanto
se si accetta la mia interpretazione della grazia (o quella di Elias Canetti, dalla quale riprendo le
linee essenziali). Soprattutto nella parte finale del brano, Popitz sostiene che il minacciante rischi di
perdere la possibilità di minacciare se le violazioni non vengono sempre seguite dalle punizioni.
Mi pare che questa lettura sia assai semplicistica. Come mostrerò nell’ultimo paragrafo,
oltre alla grazia è possibile infatti immaginare altre strategie che garantiscono il perpetuarsi della
possibilità di minacciare anche in assenza di una regolare punizione della disubbidienza.
Se la grazia esprime il potere del dominante di non attenersi sempre alle regole, il relativo
rafforzamento del suo potere si rende ancora più evidente se si considera che essa non esaurisce lo
spettro delle possibili deviazioni dalla previsione: il dominante che grazia afferma la propria facoltà
di mancare alla parola data, una facoltà che può manifestarsi anche in altre forme. Se il dominante
può tradire la propria parola, allora può anche punire gli autori di comportamenti conformi (“ti
avevo detto che non ti avrei punito se avessi fatto X, ma ho cambiato idea e ti punisco lo stesso”).
Allo stesso modo, un simile dominante può anche non premiare chi ha tenuto un comportamento in
forza di una promessa (“ti avevo detto che ti avrei premiato se tu avessi fatto X, ma non ti premio
30
Ivi, p. 361.
17
nonostante tu lo abbia fatto”). Da questa prospettiva, la promessa sembra recuperare un po’ di quel
potere di ingannare che gli è stato prima negato. Introducendo tra le prerogative del dominante
quella di poter deviare dalle regole, allora la mancata consegna della ricompensa non
necessariamente significa che egli abbia bluffato. Se la grazia manifesta la possibilità che il
dominante non tenga fede alla parola data, ciò può avere effetti anche nel caso della promessa non
mantenuta, almeno entro certi limiti.
7. Credibilità
Esiste una ulteriore differenza tra la minaccia e la promessa che, fino ad ora, non è stata presa in
considerazione. Perché la minaccia possa orientare il comportamento deve essere credibile; questa
affermazione ha qui un duplice significato:
a) il male minacciato non deve essere palesemente al di fuori delle possibilità del minacciante,
nel senso che deve essere plausibile tanto che esso abbia la possibilità materiale di
infliggerlo tanto che ne abbia la volontà. Un bambino che dice a un adulto “se non mi
comprerai le caramelle ti prenderò a sberle” sta formalmente minacciandolo, ma si tratta di
una minaccia che non modificherà il suo comportamento (tutt’al più, si può dire che il
bambino ha comunicato all’adulto il proprio desiderio di avere delle caramelle, che questi è
libero di assecondare o meno). Una persona che dice a un amico “se anche questa volta
arriverai in ritardo ti sparerò” non lo sta realmente minacciando. Anche se la sua frase
assume la forma della minaccia, è chiaro che quella persona non si presenterà
all’appuntamento con una rivoltella carica.
b) deve esistere una ragionevole probabilità che possa essere scoperta la violazione. Anche se
il minacciante ha sia la forza che la volontà di mettere in atto il male minacciato, ciò può
avvenire soltanto se viene a conoscenza del comportamento condizionante. Questo ostacolo
può assumere due aspetti. In primo luogo, esistono determinati tipi di ordini dei quali è
impossibile scoprire la violazione (o, perlomeno, è assai difficile): la moglie che intima al
marito “ti proibisco di pensare ad altre donne”, ad esempio, ha scarse possibilità di
accorgersi della violazione del comando (a meno che il marito non compia azioni ulteriori
rispetto al pensare). In secondo luogo, esistono molti casi in cui la violazione si può scoprire
con facilità, ma non è altrettanto semplice individuarne l’autore.
31
POPITZ, Fenomenologia del potere, cit., p. 68.
18
La promessa, invece, può modificare il comportamento anche se non sussistono entrambe queste
condizioni. In particolare, la condizione b) non è sempre necessaria. Di solito, chi acquista un
biglietto della lotteria non lo fa perché la cosa in sé gli fa piacere, ma perché desidera vincere il
premio in palio, anche se sa che la probabilità che ciò avvenga è quasi nulla. Chi organizza la
lotteria, a sua volta, non lo fa per il gusto di dare agli acquirenti il brivido dell’imprevisto, ma lo fa
al fine di guadagnare del denaro. In pratica, nel momento in cui mette in vendita i biglietti, è come
se dicesse ad ogni potenziale giocatore “Dammi un po’ di soldi e io ti prometto che, forse, te ne
darò molti di più”. In casi del genere, una promessa tutto sommato incredibile ha l’effetto di
modificare il comportamento delle persone, che sono disposte ad assumersi oneri certi di fronte ad
una prospettiva di guadagno altamente improbabile32.
In questi casi, esiste però un rapporto di proporzionalità inversa tra l’onerosità del
comportamento richiesto e la quantità delle adesioni: tanto più caro sarà il biglietto della lotteria,
tanti meno biglietti si riusciranno a vendere. In linea generale, quindi, la promessa inverosimile può
modificare il comportamento delle persone, ma solo se non richiede loro adempimenti troppo
onerosi.
8. Punirne uno per educarli tutti
Nel paragrafo precedente si sono individuate alcune caratteristiche fondamentali del comando
sostenuto da minacce o da promesse. In particolare:
1. in condizioni di conformità diffusa (o in condizioni che fanno presumere che vi sarà
conformità diffusa) la minaccia rappresenta, dal punto di vista del dominante, un’alternativa
più economica della promessa;
2. in caso di bluff, la promessa ha minori possibilità di sopravvivere all’adempimento (oneshot) rispetto alla minaccia;
3. una minaccia deve essere credibile per poter funzionare come coercizione, ma anche una
promessa inverosimile può avere qualche effetto.
La possibilità della grazia, come si è visto, rende i confini assai più sfumati. Se essa significa che il
dominante è libero di non rispettare i patti, le limitazioni dei suoi possibili comportamenti fissate da
Popitz devono essere riviste.
32
In realtà, il caso della lotteria potrebbe anche essere pensato in termini diversi. Possiamo immaginare che
l’organizzatore dica: “Dammi un po’ di soldi, e io ti garantisco una minima possibilità di averne molti di più”. Credo
però che la differenza con l’interpretazione che ho proposto nel testo sia soltanto terminologica.
19
Qui mi interessa però evidenziare un’ulteriore modalità di bluff a disposizione del
dominante che appoggi i propri ordini alle minacce. La minaccia, come si è appena visto, per essere
credibile deve essere pronunciata da un soggetto che appaia in grado di punire le violazioni. Ciò
significa che esso deve apparire:
a) in possesso della forza necessaria (non posso minacciare di incarcerare qualcuno se non
esiste nessun carcere);
b) in possesso della volontà di infliggere il male minacciato;
c) in grado di accorgersi della violazione e di individuarne l’autore.
Ribadisco che non importa che il minacciante sia davvero in possesso di questi requisiti, ma che tale
appaia al minacciato. Un bandito che mi punta addosso una pistola pone in essere una minaccia
credibile, anche se esiste la possibilità che l’arma sia finta, che sia vera ma scarica, che sia carica
ma che si incepperà e così via.
Dei tre elementi che concorrono alla credibilità della minaccia, il terzo è di sicuro il più
debole: la scoperta della violazione o l’individuazione del colpevole comportano per il dominante
un’attività ulteriore rispetto a quella di punire, che spesso si rivela difficile e dispendiosa. Ciò è
evidente soprattutto se le minacce non sono rivolte a soggetti determinati ma a una generalità di
individui, come avviene per le norme giuridiche. Di solito, infatti, chi viola consapevolmente una
norma lo fa confidando di sfuggire alla punizione, o perché la violazione non verrà scoperta
(parcheggiamo in sosta vietata sperando che non passi un vigile urbano) o perché non se ne
attribuirà a noi la responsabilità (rapiniamo una banca sperando di fuggire senza essere identificati).
L’assimilazione della norma giuridica alla minaccia non è una mera semplificazione. Al di là
dell’accennata teorizzazione del positivismo austiniano, è indubbio che la minaccia, «dal punto di
vista formale, non si differenzia dalla maggior parte delle interazioni in cui siamo coinvolti
quotidianamente»33, molte delle quali rappresentano la concretizzazione di fattispecie previste da
norme34.
33
Ivi, p. 70. Secondo David Gauthier, la minaccia ha un ruolo nei rapporti della vita di ogni giorno in quanto, in genere,
le persone non dispongono di informazioni complete. Ciò comporta, a suo parere, uno svolgimento non pienamente
razionale delle interazioni (cfr. D. GAUTHIER, Morals by Agreement, Clarendon Press, New York, 1986, p. 155.
34
In effetti, l’insieme delle interazioni che compiamo ogni giorno non si esaurisce in quello delle norme giuridiche con
le quali abbiamo a che fare. Ad esempio, entro dal droghiere e compro due etti di formaggio, lo pago ed esco. Sia io che
il droghiere abbiamo rispettato alcune norme giuridiche che prevedono delle sanzioni in caso di non conformità: io ho
pagato il prezzo della merce, il droghiere mi ha consegnato la merce che gli ho chiesto dopo averla pesata su una
bilancia non truccata, ha battuto lo scontrino e me lo ha consegnato. Tuttavia, è assai probabile che il nostro
comportamento abbia rispettato anche altre regole: regole non giuridiche che prevedono sanzioni non giuridiche. Ad
esempio, entrando nel negozio ho salutato i presenti e ho atteso il mio turno (in caso contrario, le persone mi avrebbero
etichettato come un maleducato); il droghiere mi ha trattato con gentilezza e serietà (in caso contrario, lo avrei punito
non comprando da lui il formaggio, o non tornando più nel suo negozio). Nell’ottica di Popitz (che in gran parte
condivido) tutti questi comportamenti rappresentano altrettante minacce. Con lo stesso esempio: «entriamo in un
negozio per comprare qualcosa. Il negoziante ci porge la merce e si aspetta che paghiamo. Noi per lo più lo facciamo. E
lo facciamo anche (o forse soltanto) per evitare una reazione sgradevole da parte sua. Così in quello che stiamo facendo
20
Si potrebbe obiettare che la mia versione del potere è in qualche maniera estremizzata: l’idea
che le relazioni sociali e le strutture di dominio siano contrassegnate dalla continua presenza della
minaccia potrebbe sembrare una descrizione valida solo per i dispotismi e per i domini arbitrari,
scomparsi con l’instaurazione del moderno stato di diritto e del rule of law. In realtà, se è vero che il
potere normativo presenta importanti differenze rispetto a quelle diverse forme di dominio, non
cessa per questo di essere una forma di dominio anch’esso, provvisto di strutture finalizzate alla
modifica del comportamento dei dominati.
Secondo Wolfgang Sofsky, autore di un profondo studio sui campi di sterminio nazisti, il
potere normativo si differenzia dal dispotismo e dal regime del terrore per alcuni aspetti
fondamentali:
il potere normativo [...] definisce percorsi d’azione differenti e distribuisce sanzioni contro chi non
sceglie la strada prevista. Questo potere orienta l’azione minacciando sanzioni e obbligandosi ad
applicarle effettivamente nei casi dovuti. Esso non ha nulla a che vedere con il terrore arbitrario,
anzi è il suo esatto contrario, in quanto prefigura il futuro sociale e rende prevedibili gli esiti
dell’azione. Se si obbedisce ci si sottrarrà alla punizione, mentre il rifiuto comporterà conseguenze
precise. Il potere normativo dirige i comportamenti per mezzo della paura della sanzione, ma
lascia sempre aperta la scelta se obbedire o meno. Esso agisce con la minaccia, non con il terrore,
convogliano la volontà dei singoli nella direzione desiderata, senza spezzarla. Il potere
sanzionatorio orienta l’azione, non la distrugge35.
La definizione evidenzia il carattere impersonale della moderna struttura di dominio, una qualità già
sottolineata da Max Weber nella descrizione del “potere legale”36. Sofsky mette in luce qui un
elemento della massima importanza, cioè l’obbligo che il potere applichi ad ogni deviazione dal
comando le conseguenze condizionate che ha minacciato. Questa considerazione è già stata svolta
da Popitz, che però vede in essa un attributo della minaccia in generale37. La tesi di Sofsky, invece,
è che un tale obbligo per il dominante sia uno degli stigmi della differenza tra il potere legalenormativo e le altre forme di dominio, contraddistinte da uno spazio arbitrario più o meno ampio.
Secondo questa interpretazione (che, come ho già accennato più sopra, non condivido fino in
fondo), una volta emesso il comando-minaccia, il dominante non avrebbe più alcuna possibilità di
scelta, né alcuno spazio per l’iniziativa. Nel momento in cui il dominato entra in conflitto (spetta ad
esso l’iniziativa, rappresentata dalla disobbedienza), il dominante deve mettere in atto quanto ha
minacciato.
al momento ci lasciamo guidare da quello che presumiamo essere il futuro comportamento degli altri» (POPITZ,
Fenomenologia del potere, cit., pp. 70-1).
35
W. SOFSKY, L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, trad. di N. Antonacci e F.S. Nisio, Laterza, RomaBari, 2002, pp. 26-7.
36
Cfr. WEBER, Economia e società, cit., I, 212 ss.
37
Supra, § 3.
21
La riduzione dell’arbitrio (che, al limite, permane solo nel momento della pronuncia della
minaccia) fa sì che le reazioni divengano prevedibili e calcolabili, una circostanza che, in fondo,
appare rassicurante: «le nostre azioni quotidiane hanno carattere convenzionale, sono confezionate
in decisioni standardizzate»38, che solo noi abbiamo il potere di attivare attraverso le nostre azioni.
Questa totale mancanza di arbitrarietà nella reazione del dominante dovrebbe allora ridurre
decisamente anche la misura dell’arbitrio nella fissazione delle norme: il dominante, sapendo che
sarà impegnato alle azioni che minaccia, dovrà valutare le proprie reali possibilità di azione prima
di emettere l’ordine. Come nota Niklas Luhmann, «un’aspettativa normativa vincola colui che la
formula più di una proiezione cognitiva. È maggiore la pressione a mantenerla in seguito, vincendo
ogni resistenza; di riflesso è anche maggiore la cautela nell’impegnarsi subito normativamente in un
quadro incerto»39.
Tutto questo, però, sarebbe vero solo se ogni infrazione fosse sempre seguita dalla sanzione,
cioè se il dominante mettesse sempre in atto il comportamento al quale si è impegnato con la
minaccia. Nella realtà, invece, non sempre le sanzioni vengono comminate. Secondo le tesi di
Popitz e Sofsky, ogni mancanza di reazione del dominante a seguito del verificarsi della fattispecie
condizionante equivarrebbe a screditarne il potere, perché indebolirebbe la fiducia nella sua
capacità di punire.
Tuttavia, ciò non avviene. Nonostante il dominante, di fatto, non metta in atto quanto ha
minacciato, il suo potere di minacciare persiste; anzi, persiste addirittura il potere di rivolgere la
stessa minaccia conservando l’aspettativa di obbedienza. Nell’ambito del potere normativo, ciò
significa che la norma-minaccia “Fai X altrimenti Z” sopravvive al verificarsi di X non seguito dal
verificarsi di Z. Questa circostanza può essere definita come la capacità del sistema di resistere alle
delusioni, una qualità la cui ragione Hans Kelsen identificò nel “principio di imputazione”, il nesso
particolare che collega le due parti (prescrittiva e sanzionatoria) della norma:
la forma grammaticale del principio di causalità così come quella del principio di imputazione è un
giudizio ipotetico (proposizione) che collega un fatto considerato come condizione a un fatto
considerato come conseguenza. Ma il significato del collegamento, nei due casi, è diverso. Il
principio di causalità afferma: se c’è A, c’è (o ci sarà) B. Per ciò che riguarda l’applicazione del
principio di causalità alle leggi di natura, mi riferisco all’esempio [... della] legge che descrive
l’effetto del calore sui corpi metallici. Se un corpo metallico è riscaldato, è (o sarà) dilatato. Sono
esempi del principio di imputazione applicato alle leggi sociali i seguenti [...]: se un uomo
commette un furto, deve essere imprigionato (legge giuridica). La differenza tra la causalità e
l’imputazione è che la relazione tra la condizione che nella legge di natura è presentata come
causa, e la conseguenza che è presentata come effetto, è indipendente da ogni atto umano o
sovrumano, mentre la relazione tra la condizione e la conseguenza che si trova in una legge
morale, religiosa o giuridica, è stabilita da atti di esseri umani o sovrumani; è appunto quello
38
POPITZ, Fenomenologia del potere, cit., p. 72.
N. LUHMANN, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, trad. di A. Febbrajo e R. Schmidt, Il Mulino,
Bologna, 1990, p. 497.
39
22
specifico carattere della connessione fra condizione e conseguenza che viene espresso dal termine
«dover essere»40.
Questa tesi, però, non spiega un gran che: con essa, infatti, si sostiene che il nesso che collega la
violazione all’esecuzione del comportamento minacciato non è un vincolo di necessità, cioè che
l’esistenza della componente prescrittiva non dipende dall’attuarsi della componente sanzionatoria.
Il punto che qui mi interessa chiarire è un altro: perché le norme continuano ad essere
obbedite? Esistono, secondo me, due diversi livelli di spiegazione.
A. In primo luogo, una risposta è data dalla differenza evidenziata da Herbert Hart tra “essere
obbligati” e “avere un obbligo”41. La seconda fattispecie, come si è visto, pertiene ai rapporti di
potere, mentre la prima è caratteristica della sperimentazione della potenza. Si ha un “obbligo”
quando si condivide un sistema cognitivo e simbolico, che fa sì che il singolo ordine venga
inquadrato come un elemento di una sintassi che, nelle sue linee di fondo, è da noi utilizzata e
approvata. Utilizzando un concetto di Talcott Parsons, lo stesso Luhmann sostiene la necessità della
creazione di un sistema simbolico comune, una struttura che «presuppone che entro un sistema
sociale che voglia mostrarsi capace di sopravvivere venga prodotto un sufficiente consenso sui
valori e una sufficiente intesa relativa al sistema simbolico condiviso»42.
B. Un’altra possibile spiegazione è, per così dire, più pragmatica. Riprendendo le considerazioni
svolte in apertura di questo saggio, si può intendere una relazione di potere come la stabilizzazione
di un rapporto di potenza: la potenza passa in potere quando non si rende più necessario esperirla
per ottenere obbedienza.
Si tratta di un procedimento analogo a quello della trasformazione del carisma in pratica
quotidiana descritto da Max Weber. Come è noto, Weber intende il potere a legittimazione
carismatica come sottoposto di continuo al vaglio della “prova”: il capo deve fornire continua
evidenza del fatto che la sua guida arreca vantaggio ai dominati. Nel momento in cui la prova
venisse a mancare, la sua autorità svanirebbe. Tuttavia, nella sua forma pura il potere carismatico è
destinato a non essere durevole, e ciò proprio in quanto la sua originaria «forma magica»43 è per sua
stessa natura occasionale e eccezionale. Perciò, le relazioni di potere carismatico sono sempre
relazioni effimere.
40
KELSEN, Lineamenti, cit., pp. 216-7.
Supra, § 2.
42
LUHMANN, Sistemi sociali, cit., p. 229.
43
WEBER, Economia e società, cit., p. 238.
41
23
Se però questa relazione non resta effimera ma acquista un carattere durevole – dando luogo ad
una «comunità» di compagni di fede, di guerrieri o di discepoli, oppure ad un gruppo di partito o
ad un altro gruppo politico o ierocratico – allora il potere carismatico che esisteva nella sua
purezza tipico-ideale, per così dire, soltanto allo status nascendi, deve mutare in modo essenziale il
proprio carattere: esso si trasforma in senso tradizionale o razionale (legale), oppure in entrambe
queste direzioni44.
Per stabilizzare la relazione di potere, in altri termini, è necessario rinunciare alla precarietà della
prova. Le ragioni della ricerca di stabilità, come mostra lo stesso Weber, possono essere molteplici.
Esse sono però riassumibili nell’«’interesse ideale, o anche materiale, degli aderenti alla
conservazione e alla continua rianimazione della comunità»45.
Se però le persone possono avere interesse ad appartenere ad una comunità, quale interesse
potrebbero avere nel piegarsi a minacce la cui attuabilità è dubbia?
Soprattutto per quanto riguarda situazioni di dominio diffuso (come lo stato), un minimo di
riflessione rende evidente che il dominante non è in grado di mettere in atto tutte le minacce che ha
dichiarato. Come nota Heinrich Popitz,
il potere della minaccia su molti uomini si fonda sul presupposto di una scansione temporale dei
casi di devianza. Il potere basato sulla minaccia è in grado di affrontare la necessità di imporre
sanzioni su diversi fronti contemporaneamente quanto una banca sarebbe capace di superare
un’improvvisa fuga di capitali da più parti. Neppure lo stato moderno, con il suo incomparabile
potere coercitivo, sarebbe in grado di sopportare un’infrazione simultanea delle sue norme (tale
per cui le infrazioni che è lecito aspettarsi nell’arco di un anno fossero concentrate in un solo
giorno)46.
Senza giungere a questi estremi, ogni giorno assistiamo a violazioni che restano impunite. Le
relativamente innocue infrazioni al codice della strada, ad esempio, passano per lo più inosservate.
Tuttavia, sebbene esistano automobilisti e pedoni più o meno indisciplinati, nel complesso le regole
della circolazione stradale vengono rispettate. Anche se quotidianamente commettiamo tre o quattro
infrazioni, rispettiamo però la maggior parte delle regole. Perché?
Il motivo è che qualcuno viene punito. Non penso qui a chi commette violazioni
particolarmente gravi o evidenti (guidare contromano in autostrada o parcheggiare nel posto
riservato al questore) ma a chi viene punito per infrazioni che noi stessi abbiamo appena commesso.
Questa circostanza mostra che, sebbene il dominante non sia in grado di punire tutte le infrazioni, è
comunque in grado di punirne alcune, il che crea una situazione di massima incertezza.
Quando ci troviamo di fronte all’alternativa di seguire la regola o deviare da essa, non è
possibile prevedere quale dei due comportamenti si rivelerà più vantaggioso. Se la punizione
venisse sempre comminata (cioè se venisse sempre eseguito il comportamento minacciato) la scelta
44
Ivi, p. 243.
Ibidem.
46
POPITZ, Fenomenologia del potere, cit., pp. 77-8.
45
24
più vantaggiosa sarebbe seguire la regola, almeno in linea generale. Sappiamo però che non tutte le
violazioni vengono punite, e che di ciò sono a conoscenza sia il dominante che i dominati. Ciò
introduce un ulteriore elemento da considerare nella scelta del comportamento. Se la minaccia non
viene posta in essere, il comportamento più vantaggioso potrebbe essere non obbedire all’ordine.
Potrei, ad esempio, posteggiare la mia auto in divieto di sosta, risparmiando il tempo che avrei
passato cercando un parcheggio libero.
Questa ipotesi di comportamento, tuttavia, genera un elemento di incertezza che può
seriamente intralciare i nostri progetti di vita, e ciò è già evidente dall’esempio del parcheggio in
sosta vietata. Parcheggiando dove capita è certo che si risparmia tempo nell’immediato, ma non è
sicuro che ciò non comporterà una maggiore perdita di tempo già nel medio periodo: al ritorno dalle
mie commissioni potrei trovare l’auto al suo posto, ma potrei anche avere la brutta sorpresa di
vederla rimossa, una circostanza che farebbe saltare tutti gli altri miei progetti per la giornata.
La certezza che non tutte le violazioni potranno essere punite, infatti, non consente di
identificare in anticipo quali singole violazioni lo saranno e quali no. Un piano d’azione che
comprende delle disobbedienze, così, non può avere esisti prevedibili, dato che le disobbedienze
commesse potrebbero essere tra quelle che vengono punite.
9. Un altro vestito, per niente nuovo
Credo di essere riuscito a mostrare che le ragioni per l’obbedienza sono spesso paradossali e, nella
normalità dei casi, sono riconducibili a motivazioni di economia del ragionamento.
Il dominante presenta attraverso la minaccia un’alternativa: eseguendo l’ordine si eviterà il
conflitto, trasgredendolo si eviterà il conflitto o non si eviterà il conflitto. Presumendo il dominante
come in grado di punire ogni violazione, l’alternativa si semplifica. Conviene forse schematizzare
questo punto.
Tab. A: Situazione reale. Il dominante non riesce a punire tutte le violazioni
Obbedienza
Non-conflitto
Disobbedienza
Conflitto
Non-conflitto
Tab. B: Situazione convenzionale. Il dominante punisce tutte le violazioni
Obbedienza
Non-conflitto
Disobbedienza
Conflitto
25
La convenzione semplifica le cose, soprattutto per il dominato, perché assegna ai termini
dell’alternativa dell’obbedienza conseguenze sicure. Le due tabelle possono essere intese come
l’espressione di due diversi sistemi cognitivi, il secondo dei quali ha un effetto di semplificazione
del mondo e di codificazione delle aspettative più alti del primo.
L’obbedienza, in entrambi i sistemi cognitivi, è il comportamento che evita al dominato di
essere colpito da reazioni spiacevoli del dominante. Alla disobbedienza, invece, i due sistemi
assegnano conseguenze diverse. Anzi il primo sistema, di fatto, non assegna in anticipo nessuna
conseguenza: il dominante può reagire o non reagire.
Dal punto di vista del dominato, il primo sistema presenta dei costi molto più elevati,
soprattutto costi decisionali più alti. Dal momento che non è possibile conoscere in anticipo le
reazioni del dominante, il dominato dovrà di volta in volta valutare la possibilità che la propria
disobbedienza sia o meno seguita da una sanzione. Un errore, del resto, può avere conseguenze
assai spiacevoli (come si è visto nell’esempio del parcheggio selvaggio). Collegando la reazione del
dominante ad ogni disobbedienza, il secondo sistema offre un quadro ridotto della realtà: di fatto
esso esclude a priori che dalla disobbedienza possa derivare un vantaggio per il dominato ma,
d’altra parte, presenta una sicura riduzione dei costi decisionali.
È chiaro che nella favola dell’imperatore e del suo vestito nuovo, tutti (o meglio, quasi tutti)
hanno adottato un sistema cognitivo convenzionale; l’imperatore ha detto che indosserà un bel
vestito e ciò vale come un’affermazione performativa: crea un fatto descrivendolo. Perché allora
basta che un bambino dica che non vede niente perché all’improvviso tutti (imperatore compreso)
vedano le cose come stanno?
Ci sono due possibili risposte: l’ignoranza pluralistica e l’inversione della cascata delle
preferenze. La prima ipotesi, in realtà, presuppone che nessuno veda il vestito, ma creda che gli altri
lo vedano: con ‘ignoranza pluralistica’, infatti, si definisce «uno stato psicologico caratterizzato
dalla credenza che pensieri, i propri atteggiamenti e sentimenti siano diversi da quelli degli altri
anche se il comportamento pubblico è identico»47. Si tratta di un atteggiamento cognitivo che
suppone negli altri un livello di informazione più esteso di quello posseduto da noi. Se i miei vicini
si comportano in un certo modo in una data situazione, ciò dipende dal fatto che essi riescono a
vedere qualcosa che io ignoro; e visto che a loro non succede niente di spiacevole, allora non ci
sono ragioni perché io mi comporti in maniera diversa. L’ignoranza cognitiva, così, è assieme
47
C. BICCHIERI – Y. FUKUI, La grande illusione. Ignoranza, cascata informativa e persistenza di norme impopolari, in
«Etica ed economia», I/1999/2, p. 57.
26
l’espressione di sfiducia nel mio livello di informazione e di fiducia nel livello di informazione
degli altri, che «sanno di sé o del mondo qualcosa che io ignoro»48.
Questa spiegazione mostra che il consenso può basarsi su un paradosso, o meglio, su di un
malinteso. Nessuno vede ragioni per obbedire, ma lo fa ugualmente perché si vede che gli altri lo
fanno, desumendo che esistano ragioni per l’obbedienza che gli altri vedono.
Il meccanismo dell’ignoranza pluralistica, tuttavia, regge fino a che tutti reggono la propria
parte. Nel momento in cui qualcuno solleva dubbi o domanda spiegazioni, gli altri si sentono
incoraggiati a fare altrettanto. Questo fenomeno si verifica spesso durante le lezioni o le assemblee.
Al termine, passa di solito qualche minuto senza che nessuno domandi chiarimenti; poi, dopo che il
primo ha alzato la mano e posto una domanda, più o meno tutti fanno altrettanto: «la prima
domanda genera di solito una cascata di altre domande perché indica a tutti che la lezione è davvero
difficile»49.
L’altra possibile spiegazione è che nella piazza si produca un’inversione della cascata delle
preferenze (o, se si preferisce, una cascata di preferenze inverse). Secondo questa interpretazione, le
persone nella piazza, imperatore compreso, hanno (quasi) tutte adottato un particolare sistema
cognitivo. All’interno di questo sistema esiste un bellissimo vestito che viene indossato
dall’imperatore. Che il sistema cognitivo sia proposto o no dall’imperatore non ha importanza, dato
che anch’egli lo condivide e orienta i propri comportamenti sulla base di esso (l’imperatore della
favola, infatti, non sa di essere nudo). Ma scherziamo? Come è possibile che nessuno veda una cosa
tanto evidente? Il fatto è che, in quel sistema cognitivo, l’imperatore non può essere nudo e, di
conseguenza, non lo è mai. Allo stesso modo, nel sistema degli ordini sostenuti dalle minacce, il
dominante mette in atto quanto minaccia e, di conseguenza, punisce sempre.
La voce del bambino è qui la voce della devianza, che indica l’esistenza di un sistema
cognitivo alternativo nel quale l’imperatore può essere sia vestito che nudo. La risata della piazza
significa che quel sistema ha convinto tutti; compreso l’imperatore che, infatti, fugge nel palazzo.
Ma è sufficiente una sola voce dissenziente per cambiare l’orientamento di una folla numerosa? In
certe condizioni, sì: «possono bastare pochi devianti capaci di farsi sentire per generare uno
spostamento rilevante dell’opinione pubblica. Tutte le rivoluzioni sono state iniziate da esigue
minoranze la cui visibilità e capacità di fornire, o almeno di proporre, un’alternativa, hanno dato
voce all’insoddisfazione popolare. Ma non ci sarebbe stato un grande ribaltamento politico se la
maggioranza non fosse già stata delusa dallo status quo»50.
48
DASGUPTA, La fiducia come bene economico, cit., p. 66.
BICCHIERI – FUKUI, La grande illusione, cit., p. 69.
50
Ibidem.
49
27
Questo, però, non è il tempo delle rivoluzioni. Piuttosto, è il tempo delle favole, che costano
poco e divertono molto. C’è un’altra favola nella quale l’imperatore non è nudo. Ha un vestito ma, a
guardarlo bene, non è tanto bello: la stoffa è scadente. il taglio non è impeccabile e, soprattutto, è
pieno di buchi.
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Un vestito nuovo per l`im peratore. Considerazioni sulla fenom