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Titolo originale: La première fois, j’avais six ans…
Copyright © Oh! Éditions 2008
All rights reserved
Traduzione dal francese di Alessandra Di Lernia
Prima edizione: settembre 2009
© 2009 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-1550-7
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di ¢Purple Press s.r.l., Roma
Stampato nel settembre 2009 presso Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
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Isabelle Aubry
La prima volta
avevo sei anni
Newton Compton editori
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1.
Porte Dauphine, e altrove
A Parigi la notte ci sono macchine che solcano, discrete, strade illuminate o deserte, a bordo coppie perbene. Uomini e donne che sorridono, eccitati in anticipo dal piacere che li attende,
poco più in là. Sono tutti diretti a Porte Dauphine.
Anch’io ci vado, perché l’uomo che mi porta ha deciso così.
Poco fa, prima di partire, Renaud mi ha detto che mi avrebbe
fatto una bella sorpresa. Bella o meno, io non posso far altro
che seguirlo. Lui è un tipo irascibile, tendente al violento. Le
sue mani grosse e nodose spengono le sigarette con un fare
brusco, impetuoso, e allo stesso modo tirano gli schiaffi. È da
molto tempo che Renaud mi fa paura, ma oggi va abbastanza
bene, canticchia. Il festino che s’è apparecchiato rallegra lui ma
preoccupa me.
Porte Dauphine: la danza delle macchine comincia. Si inseguono, si sorpassano, girano all’impazzata intorno alla rotonda. Tra chi è al volante e il passeggero di fianco corrono sguardi di intesa, mentre si valuta la merce della macchina accanto.
Abbaglianti in direzione di Renaud: quello dell’auto vicina è
chiaramente interessato. Affare fatto: Renaud si mette a seguirlo nelle stradine. Parigi, banlieue, parcheggi, ascensore, corridoio: non so ancora dove sto andando, ma il nodo all’altezza
dello stomaco mi avverte che siamo arrivati alla meta. La famosa sorpresa, me lo sento, non è un regalo. Entriamo nel piccolo appartamento del signor Chiunque. Un televisore, moquette marroncina, un tavolo basso, la signora Chiunque con i
capelli biondo platino e un lungo divano, su cui si siede l’allegra combriccola. A quanto pare ognuno sa perché si trova lì.
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Me lo immagino anch’io, e l’angoscia mi attanaglia ancora di
più quando vengo lasciata sola, a porte chiuse, con quest’uomo. Che non mi conosce. Che comincia a spogliarmi. Che si
sbottona i jeans mentre mi accarezza il seno.
Vorrei fuggire subito, prima che succeda ciò che deve succedere. Resto perché Renaud, che se n’è andato nella stanza
accanto con la bionda, lo esige.
È una cosa lunga. Il mio sguardo si incolla al soffitto mentre
il mio corpo sprofonda nei cuscini sotto il peso dell’uomo calvo, sconosciuto. I suoi su-e-giù mi danno la nausea. I minuti
passano, ho sempre più caldo, il supplizio sembra non finire
mai. Renaud torna con la sua conquista e bisogna ancora
ammucchiarsi, a quattro, su questo logoro divano-letto, davanti alla TV spenta.
Mi concentro al massimo per non provare niente. Il mio corpo diventa un pacchetto di ovatta di cui ognuno fa ciò che vuole. Quando alla fine i muggiti tacciono, io ho solo voglia di
morire.
Ho tredici anni e mezzo e ho appena vissuto la mia prima
orgia.
Ce ne saranno altre. Molte altre. Orge a quattro, a sei, a venti. Non contento di mettermi nel suo letto, Renaud farà di me,
la bambina bruna e timida, una puttana redditizia e silenziosa.
Mi imbratteranno, per molto tempo, spesso, Porte Dauphine e
altri luoghi. Scolara di giorno, giocattolino sottomesso la notte:
la mia vita. Una decina, a volte una quindicina di tizi passano
sul mio corpo. Io non conto. Chiudo gli occhi, inerte. Stacco la
spina.
Una volta, uno dei tizi mi domanda:
«Pare che questa cosa non ti piaccia…».
Perspicace, il tipo. Non mi piace, è ovvio. Anzi, la odio. Preferirei, come tutte le ragazzine della mia età, passare la serata
davanti alla TV, o a leggere la biografia dell’adorata Edith Piaf,
o anche a fare i compiti, perché no? Sì, preferirei che non ci
fosse più nessun porco a calpestarmi la vita. Mi piacerebbe non
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funzionare più, notte dopo notte, come recipiente di sperma
per decine di uomini, che si sfogano tra le mie gambe di bambina. Farei di tutto perché questo incubo finisse. Queste serate interminabili sono la mia agonia. Crepo a poco a poco, e il
giorno dopo tutto ricomincia. Gli potrei buttare tutto all’aria,
a questo poveraccio, mentre si riaggiusta i pantaloni. Ma non
gli dico niente. Sto zitta perché sono una bambina e perché
Renaud, l’uomo che ogni sera mi violenta e mi cede a chi gli
pare, è mio padre.
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2.
Un oggetto
È uno scoglio testardo, battuto da violente ondate ma sempre
aguzzo. Uno sperone immerso nell’oceano, selvaggiamente bello, arido, e ostile nei giorni di tempesta. La punta della Torche
si degna di addolcirsi solo lì, alle sue spalle, sulla terraferma,
dove si scorge la rotondità di dune fiorite di tulipani arancioni… Questa penisola disturbata è il luogo che più amo al mondo. È il centro della mia regione del cuore, il Finistère. Vi ho
vissuto, e quando l’ho lasciata, non è mai stato per molto tempo. Ci sono sempre tornata; in vacanza da bambina, poi da
adulta con gli amori della mia vita. È in questa terra salata che
affondano le mie radici. Vi si stabilirono i miei avi, di fronte al
mare, in un triangolo iodato compreso tra Audierne, Bénodet
e Quimper. Qui le mie bisnonne aspettavano, sole, i mariti, i
fratelli o i figli partiti a pescare al largo. E le mie nonne, con le
cuffie bretoni in testa, passarono la loro giovinezza con gli
occhi nel blu, ad aspettare il padre marinaio.
E così sarebbero seguite generazioni di pescatori se non ci
fosse stata Valentine.
È lei la prima a lasciare la Bretagna: la mia nonna paterna. In
gioventù, Valentine è più bella di chiunque altra. Una bruna di
carnagione chiara, con il portamento di una principessa. Così
bella che vince, quando ha appena sedici anni, il titolo di “regina delle ricamatrici”! Negli anni Venti, questo concorso di bellezza non era cosa da niente: la coroncina porta a mia nonna
una notorietà locale, proposte di matrimonio a palate, nonché
un viaggio di andata e ritorno per la capitale. La miss rifiuta di
legarsi ma intasca il biglietto. Da Parigi riporterà qualche bella
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cartolina in bianco e nero, e mio nonno, René Aubry. Certo
non è bretone, ma che importa! Questo giovane apprendista
edile, che sorride raramente, che parla in modo asciutto, le piace. È alto, imponente, grande lavoratore. O meglio: ha le mani
d’oro.
È l’inizio del XX secolo, l’epoca in cui le famiglie francesi
aspirano al progresso e alle comodità. Mio nonno può offrir
loro tutto questo su un piatto d’argento, visto che conosce i
segreti del riscaldamento centrale! Quando decide di stabilirsi
nelle terre di sua moglie, quando arriva nel mio Finistère con
questo gioiello moderno che è il solo nella regione a saper far
funzionare, l’antico apprendista diventa re.
Attrezza i dintorni, lavora senza sosta e guarda crescere l’impresa che ha fondato. Nel paese del Cavallo d’orgoglio1 mio
nonno fa la parte del leone. Mia nonna, mentre il marito scalda il paese, apre un negozio di piccoli elettrodomestici che presto si fa un’ottima reputazione. Pian piano, Valentine intraprende la scalata sociale. Lei e suo marito finiscono per stabilirsi ai confini di una landa selvaggia, in un grande casolare
abbandonato. Con le proprie mani, mio nonno resuscita l’imponente fabbricato, pianta l’orto sul retro, i fiori davanti. Nel
grande parco niente è sopravvissuto, se non qualche arbusto
scampato alle aspre folate dei venti. A parte queste piante curve, bruciate fino alla linfa dal soffio del mare, non cresce niente, dicono. Poco importa, mio nonno è combattivo, e interra
scrupolosamente degli arboscelli ispidi che dopo qualche anno
daranno vita a un lussureggiante viale di abeti, maestosa barriera esotica nell’arido paesaggio di granito… La storia dei miei
nonni è come questo modesto giardino divenuto un parco sontuoso: a forza di lavorare divennero delle personalità. Questa
passione nel lavoro non l’hanno mai perduta. E me l’hanno trasmessa.
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Il Cavallo d’orgoglio è un libro di P-J. Hélias pubblicato nel 1975. Descrive la
dura vita contadina bretone alla vigilia della prima guerra mondiale. Del 1980
l’omonimo film di C. Chabrol (n.d.t.).
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Da bambina, trascorro molto tempo con loro, e la parola
d’ordine è “vietato poltrire”.
«Isabelle, vieni qui, ti mostro qualcosa».
Ed eccomi tutta orecchi, ad ascoltare nonno disquisire sulla
filatelia, sull’arte di riprodurre un salice per talea o sulla tecnica per scolpire la gamba di una sedia… Nell’enorme laboratorio di mio nonno troneggia infatti un tornio meccanico che mi
affascina. Chino sul suo banco da lavoro, strizzando un po’ gli
occhi, mio nonno si mette all’opera, e io osservo trasformarsi
come per miracolo fra le sue dita il tronco di pino in gamba del
letto o in un’altra meraviglia. Per giorni, io lo vedrò così occupato a fabbricare, per me, magnifici cubi, tagliati e levigati in
un bel legno color caramello…
«Isabelle, puoi dirmi che significa il termine “presellare” per
piacere?».
Io ho diritto a tre risposte, ma faccio scena muta. Con René
Aubry, anche i giochi insegnano: afferra un vocabolario, pesca
una parola a caso e me ne lascia indovinare la definizione per
poi rivelarmela se non riesco a trovarla. Per lui le parolacce
peggiori sono “dilettantismo” e “ozio”. Quando mio nonno
non ha niente da insegnarmi, raggiungo mia nonna per il test
gastronomico. Lecco il cucchiaio di astice all’armoricana,
mescolo le marmellate ancora fumanti, e poi, nell’attesa del
banchetto, corro al parco a catturare qualche animaletto. Una
volta riporto in un secchio, all’ora dell’aperitivo, un serpente
che ho acchiappato, magnifico, lucente.
«Guarda che bella biscia che ho trovato, nonno, che ne dici?
È bella, no?».
René Aubry, con il suo solito atteggiamento stoico, mi chiede
prontamente di allontanarmi, va nel suo laboratorio a cercare
il tosaerba e passa freneticamente più e più volte sopra il mio
magnifico trofeo di caccia.
Quel giorno mi meritai, oltre a tante coccole consolatrici, una
lezione sugli animali pericolosi.
Saper distinguere una biscia innocua da una vipera velenosa,
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cucinare, cucire, fare lavori manuali o curare le piante, giocare
a croquet… con i miei nonni Valentine e René, ho imparato
tantissime cose.
Con Augustine, ho imparato a essere amata.
Augustine è l’altra mia nonna, la madre di mamma. Nonna,
insomma. Mi si stringe il cuore solo al ricordo: questa piccola
donnina che in tutta la sua vita non s’è mai tolta la sua alta cuffia bretone. Le sue dolci parole in bretone ancora mi risuonano nelle orecchie, e tra le dita, sento la consistenza del pettine,
impigliato tra i suoi capelli grigi, che amo toccare quando sono
tra le sue braccia… Mia nonna. L’amo più di ogni altro in famiglia. E lei mi contraccambia completamente.
In più la sua casetta è a due passi dalla spiaggia, e io adoro la
spiaggia.
Non appena posso, corro lì, mi precipito. Tutta sola, mi butto tra le onde, batto i piedi, sguazzo tra i potenti cavalloni
increspati! Qui il tempo vola: a volte esco al mattino per tornare a casa la sera, piena di fango, sporca come un maiale, con le
guance rosa, e i polpacci pieni di graffi. Felice! Sulla soglia c’è
Augustine che mi aspetta, preoccupata e furiosa.
«Isabelle, ha visto l’ora?».
Mia nonna spesso fa confusione con le lingue: bretone,
francese, ci si perde un po’ e allora mi dà del lei, segno di
affetto nella sua lingua madre. Comunque è furiosa. Perché
mi sono dimenticata di fare merenda, o mi sono rotolata tra
le ortiche. O ancora perché ho preso la sua bici nera, troppo
grande per le mie gambette di bambina, e sono caduta e il
vicino ha dovuto riportarmi a casa perché da sola non riuscivo a camminare.
Nonnina mi vieta formalmente di prenderle di nuovo la bici.
«Mai più, capito?».
Poco male! Non mi mancano le idee per divertirmi, e trovo
un altro gioco, ancora più piacevole: un grillo da acchiappare
o una lunga spilla da inserire nella presa elettrica. Augustine
non ne può più e allora c’è il frustino che mi aspetta. Nonna lo
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tira fuori quando vuole farmi capire qualcosa. Giochiamo a chi
è più furbo: non appena si mette di schiena, strappo di nascosto una stringa del frustino. Giorno dopo giorno, il povero
aggeggio si spelacchia e, quando Augustine lo vuole usare,
ormai è maledettamente meno efficace. Me la rido di nascosto
per lo scherzo che le tiro. Capisce il trucchetto? Certo, ma fa
finta di non vedere. Tenera, Augustine…
A volte la esaspero proprio con le mie stupidaggini. La sua
cuffia si mette a tremare quando torno a casa con due ore di
ritardo, con i pantaloncini tutti strappati perché ho voluto
cogliere le more tra i rovi. Ma è un osso duro, ne ha viste di
peggio. Suo marito, mio nonno, era un pescatore. All’alba,
lasciava la moglie per il mare, dicendo a gran voce, come per
scongiurare il destino: «Stavolta non torno sicuro».
E la moglie gli rispondeva – anche lei in bretone – di non
preoccuparsi, visto che diceva questo ogni volta. Il destino
finì per dargli ragione: morì in mare. Non annegato, no. Morto stecchito sul ponte del peschereccio, stroncato da un
aneurisma. All’epoca, quando accadeva un dramma del genere, l’equipaggio non si perdeva in smancerie: i compagni del
bastimento attaccavano il corpo a una corda e lo trainavano
nell’Atlantico, per una o due ore, simulando l’annegamento.
L’accaduto veniva dichiarato come un incidente sul lavoro,
così che la vedova potesse percepire la pensione. Troppo
cuore o mancanza di fegato, i colleghi del nonno non si sacrificarono alla tradizione: il cadavere restò sul ponte e Augustine ha dovuto rimboccarsi le maniche. Sola, con cinque figli,
senza entrate, la mia bretone si fece assumere in fabbrica.
Anno dopo anno, dalla mattina alla sera, ha messo sardine in
conserva, occupandosi dei suoi ragazzini con le forze residue.
Un tempo madre coraggio, oberata di impegni, ora nonna
affettuosa.
A volte mi sembra ancora di ricordare la sensazione delle mie
piccolissime mani tra le sue, quando mi portava sulle dune piene di rosmarino per insegnarmi a camminare. E il suo odore sul
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cuscino, quando la sera mi rannicchiavo accanto a lei, per
addormentarmi con il naso nel suo collo.
Al suo fianco ho trascorso i momenti più belli della mia
infanzia, se non della mia vita. Lei mi protegge, mi consola, mi
ama e mi diverte. Con Augustine, io esisto.
Con i miei genitori, è tutta un’altra storia.
Dal matrimonio tra Augustine e il marinaio nascerà Marie,
mia madre, ultima di cinque figli, alla quale sicuramente mancò la propria madre. In seguito, sognò di diplomarsi, ma purtroppo dovette mettersi presto a lavorare. René e Valentine
diedero alla luce mio padre, Renaud, bambino viziato che ricevette tutto quel che era mancato ai genitori. Si sistemò come
elettricista, invidioso del fratello che invece era ingegnere. Io
sono il risultato dell’unione tra questa frustrazione e questa
acredine. Frutto concepito per disattenzione: i miei genitori
abitavano a pochi chilometri di distanza. La loro vicinanza si è
probabilmente trasformata in amicizia, poi evoluta in una storiella, e così sono stata concepita senza essere desiderata. Mia
madre infatti resta incinta quando non ha ancora diciotto anni
e si vede promessa a un futuro radioso, in città, con un buon
lavoro. Ultima figlia, la gravidanza rappresenta per lei una catastrofe per i suoi progetti dorati. Fine degli studi! Per Marie un
biglietto di sola andata per il municipio. Vi si mette in posa per
il fotografo, bella sposa ricoperta di tulle e gigli bianchi, al
braccio di mio padre. Innamorati? Forse, ma soprattutto
costretti.
«Quando ho saputo di essere incinta, mi sono sentita in
trappola».
Sin dai primi momenti della mia esistenza, sono quindi un
frutto del caso, che nessuno vuole. Anni dopo, mia madre non
mi risparmia nessun dettaglio: vengo a sapere dalla sua stessa
bocca che ha tentato il possibile per abortire. Per nove mesi,
versa disperata fiumi di lacrime, salta sugli scogli per cercare di
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staccare il vigoroso feto che sono. Niente da fare, non mollo.
Già allora sono tenace.
Nonostante tutto, io nasco in piena salute l’11 aprile 1965,
all’ospedale di Pont-l’Abbé. Mia madre mi allatta, per un po’,
fin quando un bel mattino i suoi seni si mettono in sciopero.
Troppe contrarietà, più nulla da dare al neonato affamato.
«Ho litigato con tuo padre, e il latte è finito », mi dice.
Già allora, quindi, i miei genitori litigano. Bisogna dire che
Renaud Aubry è un campione in questo: irascibile, egoista,
imprevedibile. Da bambino non trovava niente di più divertente che spintonare la piccola vicina, che portava un pentolone di
latte. Quando il latte si versava, mio padre rideva del suo scherzo crudele. Da adulto coltiva il suo lato leggermente sadico. In
macchina, non appena vede uno straniero su un motorino,
sterza un po’ di lato, roba da farli slittare giù nel fossato, straniero e motorino insieme… Mio padre ha l’odio facile: gli arabi, i neri, i più giovani, i più vecchi. In sostanza, ama solo se
stesso. Convinto di essere un uomo fuori dal comune, litiga
regolarmente con suo padre, a cui rimprovera di non considerarlo per il suo giusto e immenso valore. Lui, il piccolo elettricista, ha una rivincita da prendersi, dalla vita, dal fratello ingegnere, e questa ambizione lo consuma. Monta in collera per un
nonnulla, convinto che il mondo intero lo invidi e lo derubi.
Fierissimo della sua cintura nera di judo, sport che ha praticato in marina, non esita a fare a pugni. Le armi, i fucili, i coltelli: adora tutto ciò. E fare a botte, ancora di più. Un giorno si
arrabbia con mio nonno: urla, sbraita. Il giorno dopo è il turno di suo cognato, nella casetta di Augustine. Per una cosa da
niente, il tono si alza, partono i pugni, un po’ d’olio si rovescia
sul gas e le fiamme lambiscono il soffitto. Ho tre anni, l’angoscia della situazione mi paralizza.
Così è mio padre, questo padre che amo più di ogni cosa e
che mi fa tanta paura. Ovviamente lo amo perché è forte, intelligente, e perché è il mio papà. E anche lui mi ama, a suo modo.
Male. Io sono carne della sua carne, sangue del suo sangue, e
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dal momento che lui ama se stesso enormemente, ama un po’
anche me di riflesso. In quanto degna figlia di suo padre, vuole che io sia la più bella, la più sveglia, la più educata. Di quel
che sono veramente, di quello che penso, delle mie gioie e dei
miei dolori se ne infischia non poco. Di fatto, io esisto per valorizzare lui. Gli piacerebbe essere al centro del mondo anche
agli occhi della moglie. Gli piacerebbe tanto che Marie lo
ammirasse, che lo accompagnasse ovunque. Ma con lei funziona meno.
Mia madre, sposata a un egocentrico purosangue, a volte non
ne può più del suo carattere e degli eccessi d’ira. Le loro liti
scandiscono il mio quotidiano nell’appartamento della banlieue parigina in cui ci siamo stabiliti. Mio padre ha trovato un
lavoretto come riparatore di elettrodomestici, mia madre è
impiegata come segretaria e mi appioppa a una tata del quartiere. Una volta, tornata in anticipo dal lavoro, mia madre sorprende il marito della tata che urla e si dimena come un pazzo:
lui mi tira dei gran ceffoni, io grido, è il panico generale! La
mamma mi porta via immediatamente da questa strana casa e
chiama in aiuto sua madre. La mia cara nonna, Augustine,
sbarca quindi a Carrières-sur-Seine con cuffia e valigia per
occuparsi di me. Tanto lavoro, pochi soldi, un bambino, la suocera a casa… I motivi di attrito non mancano tra i miei genitori e i posacenere volano nella stanza più spesso di quanto
dovrebbero. Una sera, non ho ancora tre anni, mia madre addirittura si prende madre e figlia sotto braccio, e tutte e tre ce ne
scappiamo con la metro… Io non capisco niente, una dopo
l’altra vedo passare le fermate, e in testa ho un’accozzaglia di
domande: perché ho dovuto lasciare i miei giocattoli? E mio
padre, a casa da solo, come sta?
Così è andata la mia prima infanzia, tra litigate e tensioni.
Sono stata privata di quel senso di sicurezza che è necessario a
questa età per crescere sereni. Mai mi sono sentita protetta
accanto ai miei genitori. È sufficiente una lite perché uno dei
due sbatta la porta, perché io mi ritrovi dai miei nonni o altro18
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ve. Temo costantemente il conflitto. Mi domando spesso se
questa sera dormirò nel mio letto. Non so come sarà il domani.
I miei genitori mi fanno crescere irrequieta.
Quando non vanno d’accordo è orribile. Quando vanno
d’accordo, non va molto meglio: si vogliono divertire, andare a
cavallo, ballare, bere e fare l’amore visto che non si stanno
facendo guerra. In questi casi, è come se io non esistessi.
All’età in cui sto per entrare alla scuola materna, i miei genitori tornano nella natale Bretagna. I miei nonni, Valentine e
René, sono andati in pensione e hanno deciso di spartire i loro
beni, oramai sostanziosi, tra i due figli. A ognuno va un immobile, con un negozio al pianterreno. A mio padre spetta quello
di elettrodomestici: lui aggiusta, installa e ripara in giro per le
case dei clienti. Mia madre si occupa del negozio. Tutti e tre
andiamo a vivere proprio sopra, in un appartamento che mio
padre si mette a ristrutturare a modo suo, nello spirito del
“loft”. All’epoca va già di moda e non c’è niente di meglio per
mio padre che un ambiente unico, senza pareti divisorie: può
vedere tutto, ed esser visto da tutte. Dirigista, invasato, manipolatore: mio padre aveva il profilo perfetto per diventare il
guru di una setta, una sorta di hippy perverso… Aveva degli
amici fricchettoni, che chiamava gli “yè-yè” con un po’ di sufficienza. Ma, vedete, Renaud Aubry è un piccolo-borghese,
figlio del presidente dell’Unione dei commercianti, imprenditore di un’azienda che si trova pure in una zona commerciale
periferica. Allora la sua piccola comunità, la costruirà con molta discrezione a casa.
Per prima cosa abbatte i muri del nostro appartamento. A
che servono, d’altronde? Mio padre è allergico all’intimità
degli altri. E della sua tutti devono approfittare. Appena può,
gira per casa nudo, e quando va in bagno o a farsi la doccia,
lascia sistematicamente la porta aperta. Come se niente fosse,
mio padre costruisce un appartamento senza barriere, senza
confini. Uno spazio senza limiti. Piazza il letto matrimoniale
nella stanza principale. Salone e camera da letto fanno tut19
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t’uno. I muri di camera mia e quelli del bagno ancora resistono. Ma a casa nostra, le porte chiuse sono sconsigliate. E così
un tardo pomeriggio, di ritorno da scuola, salgo le scale che
portano al nostro appartamento e trovo i miei genitori sul letto, nudi come vermi, che si toccano. Hanno sentito i miei passi. Sanno che sono lì, vicinissima, eppure continuano. Non
capisco molto ciò che sta succedendo, ma ho l’impressione di
essere nel posto sbagliato. Scappo in camera mia per l’imbarazzo. Questa è la prima volta che i miei genitori fanno l’amore
davanti a me, ma non l’ultima. A seconda delle loro voglie, si
saltano addosso, e basta che in quel momento io passi davanti
a loro per assistere allo spettacolo. A volte, durante la passeggiata domenicale nel bosco, la libidine di mio padre scatta
improvvisamente: afferra all’improvviso mia madre per il braccio, e si infratta con lei. Io resto sul sentiero a fare il palo, ubbidendo ai loro ordini, e canticchio per non sentire i gemiti.
Forse il fatto che io sia vicinissima li eccita. Oppure sono così
poco importante per loro che non li turbo affatto. Di quello
che provo io, nessuno si preoccupa. È così per i loro bagordi
come per altri ambiti della vita: conto come il due di picche.
Mia madre gestisce il negozio, mio padre si occupa dei clienti e quanto a me, io vengo dopo, cercando malgrado tutto di
farmi spazio nei buchi dei loro impegni. Non è facile. A pranzo, il compito di farmi mangiare è dato a Suzanne, la collaboratrice domestica dei nonni. La vedo ancora, in lacrime, risentita del mio rifiuto. Non mi va la marmellata, non mi va la buona e cara Suzanne, voglio mamma, punto e basta. Quando
piomba mia nonna in fretta e furia, quantomeno accetto di spiluccare qualcosa. Dopo la scuola, ciondolo per strada con le
mie amiche fino alla chiusura del negozio, oppure mi rintano
per ore nella cuccia della mia cagnetta, Dolly. Ecco l’unico
ricordo felice che ho con mia madre: il giorno in cui siamo
andate a prendere questo adorabile bassotto. Un colpo di fulmine: non appena ho visto il suo musetto, l’ho presa in braccio
e non ci siamo più lasciate. Di pomeriggio vado a dormire sui
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suoi cartoni, mi rannicchio su di lei, gioco di continuo a lanciarle la palla, adoro stare con lei e lei con me. Non come mia
madre, che sembra avere ben altre cose a cui pensare. La sera,
dopo cena, mi piacerebbe tanto che si occupasse di me! E allora faccio di tutto per attirare l’attenzione: le chiedo un bacio,
di farmi le trecce perché non mi vengano i nodi ai capelli
durante la notte, le mostro il pigiama facendo finta che non lo
so infilare.
«Questo è il davanti o il di dietro? Non ci riesco, mamma,
aiutami!».
Tutte le sere, sempre lo stesso teatrino: io che infastidisco mia
madre. Io la tormento, lei sospira, io chiedo qualcosa, lei si
innervosisce. Vorrei che mi dedicasse del tempo, che mi accarezzasse i capelli lunghi, vorrei che ci scambiassimo coccole in
continuazione. Ma lei si limita al minimo sindacale. Ho quattro
anni, poi cinque, poi sei, ma la mia esistenza di bambina non
interessa a nessuno.
Una sera che i miei genitori vanno al ristorante resto da sola
a casa, come sempre, con la mia Dolly che è incinta. Sembra
che voglia partorire proprio questa notte, vedo la mia cagnetta
spingere, spingere, soffrire, e un sacco uscirle dalla pancia.
Assisto, sconvolta, alla nascita di minuscoli bassotti bagnati.
Che fare? Come aiutarla? Cerco invano di rintracciare per telefono i miei genitori. Che ritornano tranquillamente nel cuore
della notte. Che accennano solo un sorriso per le mie emozioni della veglia.
I miei primi anni di vita sono un misto di solitudine e noia.
Ricordo perfettamente la sensazione di vuoto che mi assale
quando i miei genitori mi abbandonano per andare a divertirsi in giro. In un giorno del genere, in uno dei loro periodi buoni, decidono di andare a fare una passeggiata in spiaggia, dopo
il pranzo domenicale dai nonni. Mi lasciano a casa, con Diane,
il cane, e nonno. Che, con l’aiuto della digestione, si addormenta subito. Ma mi annoio, io. Allora, cerco di passare il tempo come posso: una caramella per me, una per Diane. Svuoto
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tutta la scatola, fino all’ultima leccornia: e ora? Vado all’assalto della camera di nonna. Nel suo portagioie, mi metto a pescare e a provare tutti i gioielli che mi passano sotto mano, e li
sparpaglio per tutta casa, finendo per perdere un braccialetto
che non si ritroverà mai più. Dopo aver mangiato tutta la confezione di caramelle alla vitamina C, decido che è arrivato il
momento di fare un po’ di giardinaggio. Nonno è lì che russa,
immerso nel sonno: mi introduco di soppiatto nel suo laboratorio e mi impossesso delle sue belle cesoie di legno. All’entrata della proprietà un arbusto di fusaggine di diversi metri d’altezza accoglie i visitatori. La sua forma allungata, a uovo, è l’orgoglio di mio nonno, è la sua pianta preferita. Per potarlo, faccio un bel buco di un metro di diametro, profondo cinquanta
centimetri. Tornati dalla passeggiata, i miei genitori constatano
l’opera:
«Perché l’hai fatto?»
«Non lo so».
Lo so benissimo: voglio attirare la loro attenzione. Ecco quello che potrei dire. E invece vomito tutta la sera.
Ma essere malati non rende i miei genitori più attenti. Un giorno, ho sei anni, torno da scuola con le gambe tremanti e le orecchie che ronzano. Forse ho l’influenza, ma a negozio c’è gente.
Allora mia madre mi infila cinquanta franchi in tasca e da sola
vado dal medico. Verdetto: morbillo. Devo ancora correre in farmacia, prima di sprofondare a letto, dove mi annoio di brutto
per qualche giorno, fino a che i miei genitori decidono che è arrivato il momento di farmi tornare a scuola. Ma io sono ancora
malata! La maestra mi rispedisce immediatamente a casa, e sarà
necessario che Valentine decida di prendermi con sé perché possa fare la convalescenza vicino a chi mi vuole bene.
Un’altra volta torno a casa con il ginocchio sanguinante,
risultato di una bella caduta in bici.
«Sali su e pulisciti», mi grida mia madre.
La ferita avrebbe meritato qualche punto. Ma non me li metteranno, e questa cicatrice sulla gamba ancora oggi mi ricorda
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il dramma della mia infanzia: per me, mia madre, non ha mai
avuto tempo. Per anni non ci sono stata che io a occuparmi di
me. Dentista, dottore, parrucchiere: andrò sola ovunque e
sempre. Già all’età di sei anni, ho la netta sensazione di non
esistere ai loro occhi. Il seguito mi proverà che ho ragione.
Sono un oggetto: ingombrante per mia madre, di desiderio
per mio padre.
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3.
Il nostro piccolo segreto
È nel bagno che sono morta la prima volta.
Ho sei anni e sguazzo nella vasca con mio padre. Mi guarda
fisso mentre gioco a fare ciaf-ciaf nell’acqua calda, divertendomi a mandare gli schizzi fino a terra. Lui ha tutt’altro gioco in
mente: senza dire una parola, mi prende la mano e la mette tra
le sue gambe, indicandomi il ritmo da seguire. Dopo lunghi
minuti, mio padre si ferma. Il bagno è finito, mi dice, è tempo
di mettersi a quattro zampe sul pavimento. Obbedisco senza
capire: non è come al solito, è inquietante, strano. Ho paura,
ma perché ho così paura? Sono completamente bagnata e dai
miei capelli l’acqua sgocciola in piccoli rivoli che seguo con lo
sguardo. Sento mio padre inginocchiarsi dietro di me e qualcosa di duro sfregare il fondo della mia schiena.
Ho voglia di piangere. E di andarmene via correndo, subito,
velocemente, per raggiungere la cuccia della mia Dolly. Ma resto
lì, sul pavimento di piastrelle. Il mio corpo è un blocco di cemento, la testa ronza. Qualcosa di grave, di anormale, sta accadendo.
Lo percepisco dal silenzio che regna mentre papà si infila l’accappatoio, dall’aria seria che assume, dopo. D’altronde mi dice che
sono carina ad aver giocato con lui, ma questo gioco appartiene
solo a noi, e soprattutto non bisogna spiegarlo alla mamma.
«Non una parola, intesi? Gli altri non capirebbero».
Il tono si fa secco. Riconosco la sua aria cattiva che non ammette repliche, la mano indugia sulla maniglia della porta. Acconsento: sarà il nostro piccolo segreto.
Di parlare non ho diritto, ma di gemere sì. Quando mia madre
è assente, mio padre mi insegna a gemere, perché questo gli pia25
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ce ancora di più. A volte, è dopo il bagno. Altre volte, mio padre
approfitta di un momento di buco tra i vari impegni di lavoro e
dell’assenza di mia madre, uscita a fare la spesa o impegnata al
negozio, per venire ad accarezzare la sua Isa cara. In questi casi,
la cosa avviene nel letto, il mio, o il suo.
Dopo, posso tornare a giocare.
Detesto le sue mani sul mio corpo. Ho paura di questi
momenti luridi, e ancora di più di chiedergli di fermarsi. Allora non dico niente. Talvolta, qualche lacrima mi scende sulle
guance: tutto preso dal suo piacere, lui non si rende conto di
niente. Io sono sua figlia e la sua bambolina, docile, silenziosa.
«Tu sei muta come una tomba!», fa notare, con gli occhi fissi su di me.
Ne è contento, pare. A sentir lui, una dote simile non è da
tutti. In ogni modo, non ha di che preoccuparsi, ho capito
bene: se racconto a chicchessia la minima cosa, un mare di guai
si abbatterà su di noi. Voglio essere separata da lui? È questo
che voglio? Voglio che si faccia del male al mio adorato papà?
Voglio, per caso, che la polizia piombi a casa e lo porti lontano
da me? Certo che no! Se racconto la minima cosa, la nostra vita
sarà fottuta, e per colpa mia. Quindi sto zitta, le sue parole mi
incatenano.
«Tu sei l’unica che amo veramente».
Me lo ripete per tutta l’infanzia. Su un punto ha pienamente
ragione: io l’adoro, tanto quanto lo temo. Né le sue carezze
disgustose né le sculacciate a mutande abbassate che mi dà
quando faccio qualche scemenza me lo fanno amare meno. Ho
sette anni e un giorno mio padre, appena rientrato dal lavoro,
è colto da un malore e crolla davanti a me. Ho la sensazione
che il cuore mi stia per scoppiare. Mia madre si precipita su di
lui, lo prende per il busto, e zoppicando andiamo di corsa
all’ospedale che si trova non lontano da casa nostra. Meningite. I medici ordinano il trasferimento immediato a Nantes.
Vivo momenti di profonda angoscia: mio padre sta per morire
e io non sono con lui. Non muore. Quando vado a trovarlo
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all’ospedale, se ne sta costretto a letto, circondato dai suoi
parenti. Dopo un’ora di chiacchiere, quelli che sono venuti a
fargli visita decidono di andare a mangiare nel ristorante vicino, lasciando il malato là sdraiato. Quanto a me, neanche a
parlarne:
«Io resto con papà».
Da quel giorno, Renaud Aubry non smetterà di dirmi che
sono l’unica che lo capisce. Sono, dice, la più carina, la più
intelligente. Ed è un profluvio di belle parole per questo amore filiale, che calpesta nell’intimità ma che descrive abbondantemente. Da me esige il massimo. Vuole che io sia la prima della classe, la più obbediente a casa, e soprattutto che io riempia
i vuoti della sua vita. Ha sempre bisogno che ci si prenda cura
di lui, e ovviamente sua moglie non gli basta, dato che i rapporti tra loro, come il cielo delle isole, volgono rapidamente da
sereni a burrascosi. E io devo rivestire tutti i ruoli: amico, confidente, domestico, giocattolo sessuale. Mi racconta nel dettaglio i suoi problemi di coppia, persino i particolari erotici,
quello che a mia madre piace e quello che non le piace. Mi vuole al suo fianco quando fa i lavoretti di casa, e in questo caso io
devo stargli vicinissima per passargli gli attrezzi. Gli viene
voglia di andare a correre sulla spiaggia, di fare una partita a
scacchi? Considerando che mia madre detesta entrambe le
cose, sono io che devo sostituirla. Mi fa sorbire infinite partite
a scacchi che mi fanno venire il mal di testa; in bici, percorro
chilometri sotto la pioggia e sulla sabbia dietro di lui che procede spedito a piccole falcate. Dopo un’ora di corsa, il martirio: le cosce in fiamme, lui neanche se ne accorge. All’improvviso gli viene voglia di andare al cinema? Mi porta con lui a
vedere quello che gli gira. Il primo film della mia vita sarà quindi Lo sciacallo, una storia di un sicario ingaggiato per uccidere
De Gaulle, insomma, non proprio il genere di distrazione adatto a una bambina di otto anni. Ma l’importante è che mio
padre abbia sempre un po’ di compagnia e che possa soddisfare le sue voglie, di qualsiasi tipo esse siano. La moglie gli dà
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buca: lui ripiega su di me. Lei e io, tutto sommato, siamo quasi uguali: tutti me lo ripetono, e mio padre per primo, sono il
ritratto sputato di mia madre. D’altronde le piace vestirmi
come lei: incinta di mia sorella, si fa cucire un giorno una bella tunica blu marino, molto ampia, per nascondere le sue
rotondità. Avanza del tessuto, ed eccomi vestita con un abito
pre-maman identico al suo, taglia XS! Sono quindi una Marie
in miniatura, in meglio, perché più sottomessa e sempre disponibile. È così che piaccio a mio padre, o quantomeno è quel
che credo io. Si masturba su di me e ruba la mia infanzia, perché mi vuole bene. Lui me lo dice e io ne sono convinta.
«Darei la vita per te, tanto mi sei cara», mi dice.
Ma a me non piace che mi si voglia bene così!
Allora un giorno mia madre mi ha dato dei soldi per andare
dal parrucchiere, io filo dritta al negozio, con un’idea ben chiara in testa:
«Molto corti, per favore».
«Sei sicura, Isabella? Non preferisci tenere i capelli lunghi?»
No, non voglio. Non ne posso più di questa zazzera, voglio
veder cadere ai miei piedi le lunghe ciocche brune. Voglio essere un ragazzo. Così, forse, mio padre mi amerà di meno e mi
lascerà in pace. Il parrucchiere esegue, ma il misero stratagemma non funziona. Mio padre mi ama ancora, malgrado il taglio
alla paggetto. Mi ama nel bagno e nel suo letto. Mi ama di giorno quando mia madre è fuori, o di sera quando lei esce.
Non so quanto sia durato questo inferno. Oggi, non mi resta
che qualche flash: l’asciugamano che mio padre stende sul lenzuolo per evitare ogni traccia sospetta. Il pene che fuoriesce
dall’acqua piena di schiuma del bagno. E la sua cosa sul mio
sedere. È tutto ed è abbastanza per farmi venire ancora voglia
di vomitare, trentasette anni dopo. Mia madre, lei, in questi tre
anni, non si è accorta di niente. O quasi.
Mamma è il fantasma della mia prima infanzia. È assente,
anche quando c’è. Impegnata al negozio per lunghe giornate,
preoccupata il resto del tempo, pare che non si interessi vera28
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mente a me. Mi gestisce. L’importante è che le apparenze siano salve: che il negozio sia tenuto bene, che io sia carina e ben
vestita, che i vicini vedano in noi una famiglia come le altre. A
me non manca niente quindi. Tranne: affetto, complicità, coccole, dialogo. Tutto questo “superfluo”, tutto ciò che tesse quel
legame così dolce tra un bambino e sua madre, da noi finisce
nel dimenticatoio. Mia madre era troppo distante da me per
rendersi conto del calvario che pativo a causa di suo marito. Un
giorno, comunque, deve aver sospettato qualcosa. Siamo tutt’e
due sole a casa, il negozio è chiuso. Ho sette, forse otto anni e
vedo venire mia madre verso di me, con l’aria seria e le sopracciglia inarcate:
«Isabelle, spogliati e allungati sul letto, per favore».
Obbedisco. Lei mi scruta in silenzio, dalla testa ai piedi,
osservandomi attentamente anche la vagina, sicura di trovarci i
segni di qualcosa. Dura per qualche lungo minuto. Non capisco niente di quel che mi sta capitando. Sospetta qualcosa? Ha
sorpreso mio padre in un atteggiamento equivoco con me? In
ogni caso, non mi fa nessuna domanda. E la vita continua come
se niente fosse accaduto. O quasi.
Perché, anche se io non dico niente a mia madre, i miei comportamenti sostituiscono le mie parole. Inizio a distruggere il
bel quadretto familiare. Ricomincio a fare pipì a letto, ma non
ottenendo alcuna reazione le rubo anche i soldi dal portafoglio.
Prima ogni tanto, poi spesso. Niente. Allora vado direttamente a spillare denaro dalla cassa del negozio: intasco una bella
moneta da cinque franchi e corro a comprare una cassetta per
gli attrezzi che regalo a mio cugino. E qui, quantomeno, la
famiglia reagisce:
«Come, cinque franchi? Isabelle, non si fanno queste cose, i
soldi si guadagnano a fatica. Va’ a giocare ora».
Fine della storia. Allora, visto che devo prendere il posto di
mia madre senza che nessuno se ne accorga, tanto vale che lo
faccia fino in fondo. Vicino al letto dei miei, c’è un armadio
pieno dell’odore di mia madre e dei suoi abiti. Vi sono riposte,
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ben piegate, le camicie con i bottoncini dorati, le belle maglie
di cotone, e sull’appendiabiti i vestiti scollati che le cadono
benissimo sul suo corpo snello. So che non è una buona cosa,
non è buona per niente, ma allungo comunque la mano verso i
suoi travestimenti colorati. È necessario che io lo faccia. È
necessario che io abbottoni il suo corpetto sul mio torace di
bambina. È necessario che io infili le sue scarpe di vernice,
troppo grandi per i miei piedi minuti. La sua gonna corta mi
si rigonfia all’altezza delle caviglie, e allora faccio un risvolto
con l’aiuto di una molletta per capelli per non inciampare. È
una cosa che non mi piace, ma una sorta di forza mi spinge a
farlo. Sul ripiano del comò sono esposte in bella mostra una
miriade di scatolette profumate. Prendo il portacipria e stendo la polvere bianca sul mio viso. Lo stesso per il fard sulle
guance e il rossetto sulle labbra. Sono pronta, esco acconciata in questo modo. Ho paura di quello che faccio, mi vergogno del mio abbigliamento ridicolo, ma è come una sfida che
lancio a me stessa. È necessario che mi si veda così e che non
fallisca. Alcuni vicini mi incrociano vestita come un pagliaccio, truccata come un camion rubato. Vedo i loro occhi pieni
di rimprovero posarsi su di me e provo una tremenda vergogna. Certo, in qualche modo, voglio che raccontino l’aneddoto a chi voglia ascoltarlo. Ma nessuno lo vuole, oppure i vicini discreti si tengono bene in caldo questa chicca. Nessuno
viene a parlarmene.
Lo scandalo non ha luogo e io rincaro la dose. A scuola
divento prepotente. Riesco a essere una brava alunna senza
fare troppi sforzi, ma quanto a comportamento, va di male in
peggio. E a ragione! Patisco abbastanza a casa e allora, quando non sto sotto il giogo di mio padre, mi sfogo, senza aver
paura di niente e di nessuno. E poi a me piace fare di testa mia.
Abbandonata a me stessa ho imparato a essere indipendente, e
adoro esserlo… La boss della scuola, dunque, sono io. Ho la
mia banda, una decina di ragazzini e ragazzine coetanei che
comando a bacchetta. Durante la ricreazione ci azzuffiamo.
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Organizzo e prendo parte alle risse piuttosto attivamente! Le
insegnanti mi fanno delle lavate di capo di tanto in tanto, ma
per la brava allieva quale sono le rimostranze non durano a
lungo. A mensa sto a capotavola, una posizione strategica per
imporre i miei diktat. Vado ben oltre il mio ruolo, proibendo a
uno di mangiare, costringendo un altro a finire gli spinaci che
odia. Mia cugina ancora se lo ricorda: per lei in questo periodo sono un vero e proprio tiranno. Bisogna dire che ho un
buon esempio: l’aria cattiva di mio padre io la imito, e funziona. Con me, i miei compagni rigano dritto. In parrocchia, il
giovedì, mi sono fatta qualche amica che addestro a un particolare tipo di raid. Ci introduciamo di soppiatto in chiesa
quando il prete è tutto preso dai suoi affari, e svuotiamo a
dovere la cassetta delle elemosine piena di monete. A tasche
piene, corriamo a spendere il nostro bottino dal fornaio del
quartiere. Coca cola e liquirizia fino a star male! Il prete non ci
ha mai pizzicato. Né lui né nessun altro. Certe malefatte passano facilmente inosservate…
Quando mio padre comincia a fare quelle cose con me mia
madre è incinta di mia sorella, almeno così mi sembra di ricordare. Già poco materna, lo è ancora meno via via che le cresce
la pancia. Ma il peggio deve ancora arrivare.
Il giorno in cui mia sorella nasce, mio padre apre la porta
per annunciarmi la grande notizia. È mattina, io dormo
ancora profondamente, borbotto qualcosa tra i denti e mi
riaddormento di colpo. Che mi lascino approfittare di una
mattinata tranquilla! Ancora non lo so, ma non ne restano
molte…
Mia madre torna dall’ospedale con un bel poppante bianco
bianco e con i capelli scuri. È Camille, la mia sorellina adorata,
sul letto davanti a me. Sono affascinata dai suoi capelli fini e
dalle pieghette della sua pelle rosa. Allora è questo un neonato? Ha l’aria fragile, è più piccolo di quanto avessi immaginato. Mia madre toglie il pannolino di tessuto, spilla dopo spilla,
dandomi una spiegazione sbrigativa:
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«Allora, queste sono le fasce, le pieghi a T e poi rimetti le spille da balia sui lati facendo attenzione a non pungerla. Ora devo
andare a comprare il pesce, finisci tu».
Finisci tu… Ero già la seconda moglie di mio padre, divento
all’età di sei anni e quattro mesi la madre di mia sorella. La porto a fare le passeggiate, in una vecchia carrozzina blu che spingo con tutte le mie forze e che è grande quasi quanto me. Dopo
la passeggiata, la nanna: fino a che mia sorella non dorme, io
non ho il diritto di uscire. Resto quindi accanto a lei mentre fa
i versi, pregando con tutta me stessa che il sonno la stordisca.
«Fa’ la ninna, ti prego, dormi, su, fammi il piacere…».
Cerco di ipnotizzarla, ma niente da fare! Non appena smette
di piangere, quando ha gli occhi a mezz’asta, io me la svigno
fuori dalla stanza in punta di piedi per raggiungere le mie amiche che sono sotto ad aspettarmi per una gara di corda o una
rissa… Cammino piano piano sulla moquette, ma Camille deve
avere l’orecchio fino, ed ecco che ricomincia, urla fino a farsi
scoppiare i polmoni. Allora, con la morte nel cuore, torno vicino alla culla, canticchiandole qualcosa all’orecchio perché si
addormenti… È così carina, con il ditino in bocca… Mia sorella è il mio amore e il mio incubo. Pannolino, passeggiata, biberon, di nuovo pannolino, ninna e ri-biberon: sono inchiodata a
casa, per colpa di questo neonato. I suoi strilli mi perforano i
timpani e i suoi bisogni mi sfiniscono. Non ho né l’età né la
voglia di essere mamma. E poi non capisco: perché devo occuparmi io di lei? Perché sono la madre di mia sorella, perché
mia madre non mi ama come madre? E perché mio padre mi
ama come moglie? Vedo che per gli altri le cose funzionano in
tutt’altro modo… Più passa il tempo, meno mi sembra di essere normale.
Questa angoscia che mi rode dentro, io la uso contro di me.
Verso i sette o gli otto anni mi metto a fumare. Rubo soldi ai
miei e senza nascondermi trotterello fino al tabacchi a comprare le sigarette. Puzzo di portacenere freddo. Conseguenza o
coincidenza, le mie bronchiti feroci compaiono nello stesso
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periodo. Per evitare complicazioni vengo spedita in colonia in
montagna a prendere una bella boccata d’aria pura, per un
mese.
L’orrore! Di notte fa talmente freddo che mi battono i denti
nel sacco a pelo verdastro che risale al servizio militare di mio
padre. Senza rendermene conto, certe notti mi rannicchio
accanto alla mia vicina, e la mattina ci ritroviamo appiccicate
l’una all’altra. Verdetto: sonnambulismo. Ma il problema è
altrove: vorrei che qualcuno mi scaldasse e calmasse quel groviglio orribile di pensieri che ho in testa. Io mi sento diversa,
strana: capisco bene che quel succede a casa non è normale, ma
non oso dirlo a nessuno.
«Gli altri non capirebbero».
Questa frase di mio padre mi soffoca. Il nostro piccolo segreto e tutti gli altri, mia sorella che mi sfianca, mia madre che mi
ignora, tutto questo forma una bolla fetida che resta incastrata
in fondo alla gola e mi fa sentire estranea al resto dei bambini.
Io che, a scuola, dirigo le mie truppe come una star della
ricreazione, mi scopro intimidita e schiva quando sono in mezzo a sconosciuti. Vedo gli altri divertirsi e resto nel mio angoletto, incapace di farmi degli amici. Niente mi tocca. Allora, un
pomeriggio, decido di andarmene. Dato che nessuno si preoccupa di me, prendo coraggio, scappo dalla colonia e mi arrampico sulle alture vicine. Mi siedo su una roccia, con la testa tra
le mani, e aspetto. Che mi trovino, che mi vengano a pescare
Qualcuno noterà la mia assenza? La risposta è sì. Nel giro di
qualche ora, comincio a vedere l’agitazione salire tra i sorveglianti della colonia. Dal mio nido d’aquila, intravedo le formichine che si muovono vorticose alla ricerca di Isabelle. Alla fine
mi trovano e il loro sollievo mi procura un sottile piacere: con
calma raggiungo gli altri ragazzi per la cena.
Sarà la prima fuga della mia vita, e non sarà l’ultima. I furti,
le sigarette, le risse, i travestimenti e la pipì a letto… Senza
averne coscienza, mando SOS che nessuno recepisce. A casa
mia madre è oberata. Non solo deve stare dietro al negozio, ma
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anche preoccuparsi del nuovo capriccio di mio padre. Si chiama Martine, una ragazza carinissima, e lui se ne è invaghito.
Martine vive in una camera del castello dove a volte i miei vanno a cavallo. Qui mio padre la incrocia, la corteggia e da bravo
manipolatore qual è, finisce per sedurla. Ma il signor Aubry
non si limita a un banale adulterio: ha ben altre ambizioni. Lui
non è uno qualsiasi, è convinto di meritare il meglio. Due donne che si occupano di lui non sono sufficienti. Allora quando
mia madre un bel mattino sorprende a gambe all’aria il marito
e Martine, mio padre le annuncia tranquillamente, senza neanche pensarci troppo, che è necessario che lei se ne faccia una
ragione: Martine verrà a vivere con noi. Che le piaccia o no.
Che altro può fare? Mia madre ha due bambine da crescere e
se perde il marito, perde pure il reddito, dato che il negozio è
di mio padre. In sintesi, Marie è incastrata. E poi forse spera in
cuor suo di avere meno addosso il marito, se lui se la spassa con
Martine. Comunque sia, mi ritrovo un bel giorno con due
mamme sotto lo stesso tetto.
Non me ne lamento, al contrario. Martine mi offre tutto ciò
che mia madre non mi dà: tempo, affetto, coccole. Quando siamo insieme parliamo a lungo, ci facciamo il solletico, giochiamo e a volte la mattina lei mi fa certe acconciature da far crepare di invidia le mie compagne di classe. Il fine settimana, di
solito, cerco di scomparire: i miei si ritrovano insieme, e per un
nonnulla la conversazione si infiamma e litigano. Di sicuro è in
questo periodo che nasce il mio odio profondo per la domenica. Ma da quando Martine vive da noi, questa maledetta giornata vola. Facciamo i picnic nel bosco, le passeggiate a cavallo!
A volte accendiamo la radio e ci mettiamo a ballare come due
pazze il charleston! In questo strano periodo mia madre sembra fare buon viso a cattivo gioco. Quando lavora al negozio
può contare su Martine perché si occupi delle mocciose, a lei
fa comodo, a me fa felice. Agli occhi della gente, dei clienti, di
chi le sta intorno salva la faccia e mente spudoratamente: Martine è una dipendente che ospitiamo, niente di più. In privato
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la sposa e l’amante se la intendono. O quantomeno abbastanza da poter andare a letto con mio padre a ogni ora del giorno
e della notte…
Una sera le due donne si mettono in testa di andare a ballare
e di spassarsela un po’, lasciando come al solito le ragazzine
sole a casa. Ma Renaud, l’unico che decide a casa nostra, non
ne vuole sapere. Lui preferirebbe starsene a casa con il suo
harem. I toni salgono, le signore non si lasciano intimidire, finiscono per uscire, piantando in asso mio padre. È notte fonda,
circa le quattro del mattino, quando le urla violente di mio
padre mi svegliano. Mio padre aveva aspettato le sue donne
buona parte della notte, fremendo di rabbia. Una bestia!
Quando tornano, furioso, le rincorre per tutta casa. Io me ne sto
rintanata sotto le coperte, aspettando che la tempesta finisca.
Invano. Dopo le grida, le botte; e poi i botti. Alla fine mi riaddormento all’alba dopo una notte passata a tremare… L’indomani, a colazione, sorprendo le sopravvissute, mia madre e Martine, con in mano una sega di metallo, tutte prese a segare il fucile da caccia del caro papino. Mia madre, con il viso tumefatto,
rimane a casa. Marie, preoccupata dei pettegolezzi della gente,
preferisce tenere segreti i vari rischi della sua vita coniugale.
Non mi ricordo se mio padre, durante l’episodio Martine,
abbia tentato di toccarmi. Forse l’ha fatto, forse no. In ogni
caso, quel periodo resta una parentesi incantata della mia vita.
Purtroppo finisce presto. Mia madre, sottomessa ma non idiota, si stanca presto del marito sadico, violento e bigamo. Nel
giro di pochi mesi, quindi, fa stabilire una constatazione di
adulterio, e durante un picnic al fiume Odet, Martine mi
annuncia la sua partenza.
«Quando sarai più grande, capirai», mi dice.
Quel giorno ho pianto tutte le lacrime che avevo. Volevo
bene a Martine, e poi senza di lei mi sarei di nuovo ritrovata
sola con i miei genitori… E alla mercé di mio padre. O almeno
così pensavo, perché invece alla fine è andato a vivere con Martine, abbandonando moglie, bambine e negozio, che al tempo
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vantava ottocentomila franchi di debiti. Una mattina, mia
madre fa lo stesso, sicuramente in fuga dai creditori e dall’umiliazione pubblica del tradimento e dell’abbandono. Sono in
quarta elementare. Mia madre mi viene a prendere in macchina, con le valige nel cofano. Così, in un minuto, perdo casa,
scuola e amici.
È a Brest che ci sistemiamo: mia madre in un quartiere tranquillo, mio padre e Martine accanto al porto. Gestiscono un
bar, il quartier generale degli scaricatori di porto. L’ambiente è
perfetto per mio padre, che qui può soddisfare la sua sete di
risse. Con l’aiuto della birra tutte le serate finiscono in sbevazzate con botte e ferite, o addirittura peggio, probabilmente. In
una serata particolarmente animata, mio padre spara un colpo
di lacrimogeno in mezzo agli occhi di un cliente. Non so se il
tipo è diventato cieco o se se l’è cavata. Una cosa è certa: mio
padre non si è mai preoccupato per questo crimine. La notte
stessa se l’è svignata a Parigi e ci si è trasferito. Ciao ciao Brest,
Martine e il bar degli scaricatori… Dopo questo episodio
rocambolesco, i miei finiscono per riappacificarsi, e il mio
incubo ricomincia. Io che avevo provato un immenso sollievo
all’idea che i miei non si sarebbero più ritrovati nella stessa
stanza a insultarsi e a tirarsi addosso i piatti, casco dalle nuvole alla notizia del loro ricongiungimento. Peggio: mio padre
non è cambiato per niente. Autoritario e irascibile, continua
pure a interessarsi da molto vicino alla sua figlia prediletta: io.
Quando gira intorno alla mia personcina, mi metto in modalità silenziosa, e cerco di farmi invisibile. Provo a non farlo
arrabbiare né incuriosire. Non funziona tanto.
Devo avere nove anni, e siamo in vacanza sulla costa spagnola. Fa caldo, e sono in spiaggia con lui. Lo vedo che cerca di
appiccicarsi a me, vorrà toccarmi. Ma che mi lasci in pace!
Allora mi butto tra le onde per evitarlo, ma lui mi segue, mi
prende in giro, cerca di farmi tornare da lui. Nuoto più veloce
che posso, senza fiato ma determinata, con mio padre alle calcagna. Non si calmerà mai, quindi? Un’ira fortissima, scono36
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sciuta, mi monta dentro. Perché mi infastidisce così tanto?
L’ho forse meritato? Non ne posso più delle sue carezze continue! Nuoterò chilometri, annegherò se serve, ma questa volta
non mi toccherà. Anche se muoio di paura, le dighe che egli
aveva pazientemente costruito hanno ceduto, e dentro di me
l’odio emerge facilmente:
«Se continui, racconto tutto a mamma».
Ecco cosa gli urlo, rossa di rabbia, nuotando dritta verso il
largo. Anche se questo gli fa male, anche se questo uccide la
nostra famiglia, come mi ha promesso, io sono pronta a spifferare tutto. Sono pronta a qualsiasi cosa, piuttosto che vederlo
ricominciare.
A ripensarci, quel giorno devo averlo spaventato a morte;
quelle parole mi hanno offerto una tregua inattesa. Mio padre
si è visto, in un batter d’occhio, respinto dalla moglie e con le
manette ai polsi? Probabilmente. Mi ricordo ancora la sua faccia confusa e la rapidità con cui ha fatto marcia indietro per
nuotare fino alla spiaggia. Grazie a questa rabbia venuta non si
sa da dove mi ha lasciato in pace, almeno per un po’. Il ricordo delle sue carezze viziose si è nascosto in qualche angolo
recondito della mia memoria, l’amore che provavo per il mio
papà ha avuto la meglio e io mi sono affrettata a dimenticare
tutto.
Sucy-en-Brie, Alfortville… Cambio città, appartamento e
scuola, a seconda dei traslochi dei miei genitori. La nostra
situazione economica non è proprio rose e fiori, e tutta la famiglia si trova presto stipata in un miniappartamento. I rapporti
tra i miei genitori non tardano a deteriorarsi. Un bel giorno, li
sorprendo in cucina a massacrarsi. Piovono botte, mia madre
afferra un coltello… Mio padre sbatte la porta, è saltato tutto.
Alla fine papà e mamma si separano; definitivamente, questa
volta. Mentre mio padre si trasferisce a Fontenay-sous-Bois,
mia sorella, mia madre e io traslochiamo a Maisons-Alfort. E la
mia vita diventa un vero inferno.
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Mia madre di giorno lavora in un negozio di elettrodomestici. E la sera se ne va spesso da qualche parte, probabilmente a
incontrare il fidanzatino di turno. Di conseguenza, ho mia
sorella in braccio dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. Adoro Camille, sì, i suoi sorrisi mi incantano, le sue faccette mi fanno ridere, ma che peso sulle spalle! La vado a prendere a scuola, le faccio fare i compiti, la lavo, le do da mangiare,
faccio la spesa. Alcune sere, mia madre mi lascia cinquanta
franchi sul tavolo della cucina e un piccolo appunto:
«Per mangiare. Torno dopodomani».
Queste parole mi fanno sprofondare nello sconforto. Mia
madre mi manca, non ne posso più di giocare a fare la donna
delle pulizie e la babysitter. Dopo un po’ sono stufa della mia
sorellina. E poi gioco a fare la mamma senza avere mai avuto
un modello affidabile. Allora la mia Camille ne paga lo scotto.
A volte mi innervosisce così tanto che le allungo dei gran ceffoni. Bisogna dire che anche io non me la passo bene: la solitudine mi pesa. Non mi attrae più niente, poche amiche nella
nuova scuola, nessun adulto a vegliare su di me, e a nove anni
questo incesto che nascondo ha già cominciato a logorarmi.
Capisco nettamente che non sono più come prima, che piano
piano sto diventando una piccola donna. Il mio corpo mi fa
schifo. Troppo grosso, troppo alto, troppo tutto. Allora dopo
scuola, lascio mia sorella di tre anni sola a casa e vado a fare il
giro dell’isolato correndo a perdifiato, per buttare giù qualche
chilo. Mentre lei cena io mi accontento di una banana o di una
mela. È il mio debutto nella cerchia degli anoressici.
A mio padre, invece, va piuttosto bene.
S’è rifatto la vita con una certa Monique, e vive con lei e suoi
due figli a Fontenay-sous-Bois. Ha diritto di venire a trovarci,
e quindi lo vedo di tanto in tanto. Ancora oggi mi stupisco nel
constatare la capacità che avevo di occultare i capitoli più neri
di quella nostra storia. A nove o dieci anni, ho fatto zapping
sulle sue carezze schifose. So ormai che questo gioco di prestigio ha un nome: rimozione. L’incesto è l’incubo, l’indicibile,
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l’impossibile che diviene realtà. È papino caro che vi violenta
una sera, e vi coccola il giorno dopo. Suicidarsi o dimenticare:
il bambino massacrato non ha alternative. Io ficco l’incesto sotto il tappeto e poi si vedrà! Il mio corpo si spezza, il mio umore cede, ma sopravvivo comunque grazie alla rimozione del crimine che ho subito. Tra me e l’orrore ho alzato un muro. Questo buco nero mi protegge: l’ombra è sempre là, ma la tengo a
distanza. Anche se mio padre mi fa sempre paura, trovo la sua
nuova casa meno sgradevole della mia. Nel suo appartamento
c’è vita, giocattoli, compagni con cui a poco a poco faccio amicizia: Romain e Jérôme, i figli di Monique. Sono un po’ più
grandi di me, e noi tre insieme ci lanciamo in lunghe partite a
carte, facciamo i compiti fianco a fianco. La vita a casa di mio
padre ricorda quella di una vera famiglia. Non come da mia
madre, dove sono la domestica tuttofare. A Monique confido
la mia solitudine, e il peso che mia sorella rappresenta per me.
Immagino che sia colpita dalla ragazzina allo sbando che sono,
dato che finisce per proporre a mio padre di accogliermi a casa
con loro. Lui accetta, chiaramente. La sua cocchina adorata ai
suoi piedi, diventerà il patriarca di una famiglia ricomposta, o
di ben altro probabilmente.
Questa nuova tana, l’appartamento di mio padre e della sua
compagna, mi fa gola. Credo che mi ci troverò bene in questa
piccola tribù. Ma mia madre non ne vuole sapere. Ha per me
altri progetti: dato che non ne posso più di essere sola con mia
sorella, mi propone un’alternativa:
«Un anno in collegio, Isabelle, penso ti farà bene, avrai delle
amiche, degli adulti che ti seguiranno…».
Neanche a parlarne. Voglio che ci si prenda cura di me,
voglio una vera famiglia, io, non che mi si ficchi in prigione.
M’immagino già catapultata in una nuova scuola, con bidelli
ovunque che controllano ogni mio passo, senza le mie compagne di classe… Un incubo. Il giorno in cui mamma viene a cercarmi per portarmi al convitto, scappo e trovo rifugio al commissariato. Mia madre mi raggiunge, e il giudice chiamato dai
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poliziotti conferma che è lei a decidere della mia vita. Direzione collegio, quindi. Arrivata al cancello dell’istituto, approfitto
del fatto che mia madre è di schiena e me la do a gambe. Mi
recuperano a forza prima che io svanisca nel nulla. Alla fine,
davanti alla mia testardaggine, mia madre e il giudice cedono:
viene aperta un’inchiesta sociale e mio padre ottiene l’affidamento. Ho appena iniziato le medie, e faccio le valigie per trasferirmi da lui e dalla sua nuova compagna.
Senza rendermene minimamente conto, mi getto di nuovo
nelle fauci del lupo.
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Titolo originale: La première fois, j`avais six ans…