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Anno VI, numero 1 • Gennaio-Marzo 2012
Editoriale
Sommario
Editoriale
Luigi Costato
Cibo e politica estera dell’UE
Cibo e politica estera dell’UE
1
Ricerche
Emanuele Marconi
Francesco Bruno
Claims salutistici, tutela del
consumatore e sviluppo
della scienza
3
Il Convegno di Viterbo del
2-3 dicembre 2011
Controlli, certificazioni,
responsabilità - II
Mariachiara Tallacchini
Sicurezze e responsabilità
in tempi di crisi
14
Anna Moscarini
L’accreditamento nel
Regolamento CE
n. 765/2008 e le “fonti”
di produzione privata
23
Laura Ammannati
Mercati finanziari,
società di rating, autorità
ed organismi di certificazione 31
Paolo Borghi
Le azioni di classe
nel settore alimentare
39
Luigi Russo
Controlli e certificazioni
nel settore agrario:
la condizionalità
48
Riccardo Ricci Curbastro
Il ruolo di garanzia
dei consorzi di tutela
56
Alimentare & Globale
a cura di
Paolo Borghi e Laura Salvi
59
AlimentarEuropeo
a cura di
Paolo Borghi e Laura Salvi
62
I Goti, capeggiati da Alarico, chiesero invano all’imperatore d’occidente
Onorio l’assegnazione di territori - anche di confine, e nella disponibilità
della classe degli ottimati, che li sfruttavano male utilizzando schiavi,
ovviamente svogliati - per poterli coltivare, e lo stesso sacco di Roma
dell’inizio del V secolo d.C. non fu che uno strumento per costringere,
senza risultato, l’imperatore ad accontentarli. A breve seguì la caduta
della parte occidentale dell’impero romano e la fine di un mondo che si
credeva eterno.
L’Unione europea non sembra avere coscienza del fatto che le migrazioni non sono un fenomeno cessato con la sconfitta di Romolo Augustolo,
ma un dato permanente della vita dell’umanità: si va dove si sta meglio,
dove si presume si troverà cibo, e si è mossi dalla sua carenza nel luogo
natio, cui si aggiunge, oggi, anche la fuga da guerre intestine ben più
sanguinose di quelle di un tempo, scatenate da ambiziosi mossi dalla
brama di potere, che consente di acquisire la disponibilità delle poche
ricchezze locali e, magari, qualche sostegno economico esterno, normalmente utilizzato in compiacenti banche off shore.
La nostra civiltà va appassendo: pochi bambini, molti vecchi, bassa produttività in generale, sistema di sicurezza sociale che scricchiola sotto un
carico imprevisto (da chi ci ha governato), lavori da noi rifiutati ed affidati
ad immigrati disposti ad accettarli, strisciante invasione di popoli alla
ricerca di un benessere che, comunque, sembra diminuire anche per noi.
Occorre che gli Stati europei si decidano, anche sotto la spinta della crisi
dell’Euro, a darsi una costituzione federale e, nello stesso tempo, che
sostengano le famiglie con figli, a costo di penalizzare chi figli non fa (lo
si può pensare anche se non si è fascisti) e che riprendano la politica agricola che aveva prodotto tante eccedenze, allora deprecate pubblicamente ma utilizzate, invece, come straordinario strumento di politica estera,
cosa che potrebbe accadere anche oggi, a fronte di tanta miseria, di tanta
fame insoddisfatta, di tanti bambini morti nelle più nere delle condizioni.
Non posso credere che i paesi emergenti potrebbero contestare una
PAC indirizzata a elargire abbondanti aiuti alimentari; è lecito pensare,
invece, che si voglia progressivamente abbandonare ogni aiuto all’agricoltura e puntare sull’aumento dei prezzi dei cibi, dimenticando che la
domanda può essere teoricamente alta, ma in pratica non realizzata per
mancanza, oltre che di cibo, anche di denaro.
La soluzione al problema non potrà che essere l’arrivo di tanti affamati
che, anche se non realizzeranno il sacco di Roma – forse si è già provveduto autonomamente alla bisogna – porteranno ad un progressivo, ma
anche rapido, cambiamento della nostra società, non senza qualche
rischio per il regime democratico.
Luigi Costato
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rivista
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Direttore
Luigi Costato
Vice direttori
Ferdinando Albisinni - Paolo Borghi
Comitato scientifico
Francesco Adornato - Sandro Amorosino - Alessandro Artom
Corrado Barberis - Lucio Francario - Alberto Germanò
Giovanni Galloni - Corrado Giacomini - Marianna Giuffrida
Marco Goldoni - Antonio Jannarelli - Emanuele Marconi
Pietro Masi - Lorenza Paoloni - Michele Tamponi
Coordinatrice della Redazione
Eleonora Sirsi
Segreteria di Redazione
Monica Minelli
Editore
A.I.D.A. - ASSOCIAZIONE
ITALIANA DI DIRITTO ALIMENTARE
Redazione
Via Ciro Menotti 4 – 00195 Roma
tel. 063210986 – fax 063217034
e-mail [email protected]
Sede legale
Via Ricchieri 21 – 45100 Rovigo
Periodico iscritto il 18/9/2007 al n. 393/2007 del Registro
della Stampa presso il Tribunale di Roma (online)
ISSN 1973-3593 [online]
Periodico iscritto il 26/5/2011 al n. 172/2011 del Registro
della Stampa presso il Tribunale di Roma (su carta)
ISSN 2240-7588 [stampato]
stampato in proprio
dir. resp.: Ferdinando Albisinni
HANNO COLLABORATO A QUESTO FASCICOLO
LAURA AMMANNATI, ordinario nell’Università di
Milano
PAOLO BORGHI, ordinario nell’Università di Ferrara
FRANCESCO BRUNO, associato nell’Università del
Molise
LUIGI COSTATO, emerito nell’Università di Ferrara
EMANUELE MARCONI, ordinario nell’Università del
Molise
ANNA MOSCARINI, straordinario nell’Università
della Tuscia - Viterbo
RICCARDO RICCI CURBASTRO, presidente Federdoc
LUIGI RUSSO, associato nell’Università di Ferrara
LAURA SALVI, dottoranda nell’Università di Ferrara
MARIACHIARA TALLACCHINI, ordinario nell’Università
Cattolica di Milano
I testi pubblicati sulla Rivista di diritto alimentare, ad
eccezione delle rubriche informative, sono sottoposti
alla valutazione aggiuntiva di due “referees” anonimi.
La direzione della rivista esclude dalla valutazione i
contributi redatti da autori di chiara fama. Ai revisori
non è comunicato il nome dell’autore del testo da valutare. I revisori formulano un giudizio sul testo ai fini
della pubblicazione, ed indicano eventuali integrazioni
e modifiche che ritengono opportune.
Nel rispetto della pluralità di voci e di opinioni accolte
nella Rivista, gli articoli ed i commenti pubblicati impegnano esclusivamente la responsabilità degli autori
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Anno VI, numero 1 • Gennaio-Marzo 2012
2
Questo fascicolo della Rivista propone indagini e ricerche, che collocano il diritto
alimentare all’interno di una prospettiva disciplinare che supera l’ambito domestico e rinvia ad un diritto multipolare, nel quale opera una pluralità di poteri, pubblici e privati, non riducibili all’interno degli assetti disciplinari tradizionali e fortemente caratterizzati dal confronto con le ragioni dell’economia e della tecnica.
L’editoriale che apre il fascicolo sottolinea la dimensione strategica della politica
agricola e alimentare europea, ponendo in rilievo l’intimo legame che lega le scelte in tema di food security e le crescenti domande di riforma delle istituzioni, nonché il carattere trasversale e necessariamente transnazionale di ogni scelta in
argomento. Sicché le ragioni delle scelte riformatrici attualmente in discussione
innanzi al Parlamento Europeo non possono essere ricercate esclusivamente in
una prospettiva di compatibilità economica e di bilancio, ma vanno collocate nelle
ragioni stesse di esistenza della UE.
La ricerca di Emanuele Marconi e Francesco Bruno su “Claims salutistici, tutela del
consumatore e sviluppo della scienza: il caso dei Betaglucani”, muovendo dall’esame di recenti provvedimenti dell’AGCM, analizza le criticità evidenziate dalle scelte
in materia, ed il privilegiato rapporto fra scienza e diritto, che si esprime nelle regole sulle indicazioni nutrizionali e sulla salute negli alimenti.
In analoga prospettiva, nella seconda parte del fascicolo sono pubblicate le ulteriori relazioni (le prime sono state pubblicate nel fascicolo 4-2011) presentate nel
corso del Convegno annuale dell’AIDA del 2-3 dicembre 2011, svoltosi a Viterbo,
presso l’Università della Tuscia, su “Controlli, certificazioni, responsabilità”.
Mariachiara Tallacchini indaga sulla dimensione del diritto nella società della
conoscenza, in prospettiva comparativa fra ordinamenti ed esperienze, formulando ipotesi di rilettura della “crisi” come normalità e di costruzione di nuove
“responsabilità”.
Anna Moscarini rilegge le scelte normative e disciplinari in materia di accreditamento, in riferimento al ruolo delle fonti dei privati e alle specificità delle norme
tecniche tra le altre fonti dei privati, sottolineando il rilievo centrale che assume la
conoscibilità (o non conoscibilità) delle norme tecniche ai fini del sindacato giurisdizionale e della stessa legittimità del diffuso e crescente riscorso a tali norme
tecniche in aree cruciali della regolazione.
Laura Ammannati esamina la disciplina dei mercati finanziari, sotto il profilo del
ricorso alla comunicazione come strumento di regolazione, con specifica attenzione alle agenzie ed alle attività di rating, analizzandone le linee evolutive nell’ordinamento nordamericano ed in Europa, tra iper-regolazione, tendenze alla pubblicizzazione e ricerca di nuovi possibili standards legati a nuovi modelli di valutazione.
Paolo Borghi propone una riflessione sul possibile ruolo della “azione di classe”
nel settore alimentare, evidenziandone le peculiarità in riferimento ai diritti tutelati ed alle diverse tipologie di danno, e ne valuta i possibili esiti, analizzando il caso
dei claims come esperienza esemplare nel diritto alimentare sotto il profilo della
tutelabilità del danno concorrenziale.
Luigi Russo estende l’indagine al regime dei controlli e delle certificazioni nel settore primario, nell’ambito della disciplina comunitaria e della attuazione sul piano
nazionale, anche in vista delle proposte di riforma attualmente all’esame del
Parlamento Europeo.
Riccardo Ricci Curbastro riferisce delle esperienze dei Consorzi di tutela dei vini
di qualità a denominazione di origine, sottolineandone il ruolo di garanzia.
Completano il fascicolo le rubriche, curate da Paolo Borghi e Laura Salvi,
Alimentare & Globale, sul WTO e il commercio internazionale, e AlimentarEuropeo,
che dà conto dei procedimenti innanzi alla Corte di giustizia, decisi od in corso di
decisione, che in varia misura investono temi propri del diritto alimentare europeo.
la redazione
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3
Ricerche
Claims salutistici, tutela del consumatore e sviluppo della scienza: il caso dei betaglucani*
Emanuele Marconi
Francesco Bruno
1.- Introduzione
Recenti provvedimenti dell’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato (AGCM)1 sui prodotti alimentari
contenenti quantità di betaglucani consentono di effettuare
alcune considerazioni circa l’interpretazione delle indicazioni/claims sulla salute per gli alimenti c.d. funzionali, nuova
frontiera del settore alimentare italiano.
Scienza e diritto hanno un terreno di dialogo privilegiato
proprio nelle regole sulle indicazioni nutrizionali e sulla salute degli alimenti (i c.d. claims salutistici o health claims); dialogo che, fino ad oggi, nel settore alimentare aveva avuto
ad oggetto prevalentemente (se non esclusivamente) l’ingegneria genetica, con continui confronti che coinvolgevano (e tuttora coinvolgono) filosofia, religione ed ecologia2.
Nei claims salutistici il dibattito si restringe ad argomentazioni tecniche in una cornice giuridica. In Europa il panel di
esperti dell’EFSA3 NDA (Nutrition, Diet and Allergies) valuta
la possibilità di comunicare al consumatore particolari
benefici aggiuntivi all’organismo (ulteriori rispetto al normale contenuto nutrizionale) di taluni alimenti, esercitando una
attività di controllo e verifica sui risultati ottenuti da centri di
dipartimenti universitari, nonché da centri di ricerca di industrie alimentari multinazionali (e non). La valutazione è rigorosamente correlata a criteri scientifici, ma anche in questo
caso, come sovente accade nel settore alimentare, sono i
criteri di ricerca sulla validità del rapporto tra alcune sostanze e la salute umana che sono posti in discussione: parametri riconosciuti a livello internazionale o in altre rilevanti
giurisdizioni (come quelli espressi dalla Food and Drug
Administration negli USA). In altre parole, la relazione tra
alimento (come componente di una dieta), alimento funzionale (alimento – come si dirà – rilevante per il miglioramento dello stato di salute e di benessere e/o per la riduzione
del rischio di malattia) e farmaco (sostanza o prodotto che
cura le malattie) è di per sé problematico e pieno di insidie4.
Il lavoro qui proposto intende, in una innovativa (almeno a
nostra conoscenza) commistione di linguaggio scientifico e
giuridico, segnalare alcuni processi in atto in quel difficile
equilibrio tra imprese (che investono in ricerca per migliorare la qualità, anche funzionale alla salute, dei propri alimenti), i “valutatori scientifici”5 di tali prodotti come riconosciuti
dalla legge (nel nostro caso europea) e il consumatore (il
quale, comunque, resta il supremo “valutatore” e arbitro del
mercato6).
(*) Il lavoro è frutto comune dei due autori: Emanuele Marconi ha redatto i parr. 2, 4 e 6, mentre Francesco Bruno ha redatto i parr. 1, 3
e 5. Il presente scritto rientra nell’ambito della ricerca Prin 2008 - “Agricoltura e crisi alimentari. Strategie, regole e tecniche”, coordinatore nazionale Prof. F. Adornato; Unità del Molise con ricerca dal titolo “Individuazione di tecniche di food safety per soddisfare le esigenze della food security”,prot. 2008M2C4NR_004 - responsabile Prof. Panfili.
(1) Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, provvedimento n. 22834, in Bollettino AGCM n. 39 del 17 ottobre 2011, PS6892Pasta Colavita con Betaglucani riduce il Colesterolo; provvedimento n. 22462, in Bollettino AGCM n. 21 del 13 giugno 2011, PS6691 –
Galbusera-0,001% di colesterolo; provvedimento n. 22463, in Bollettino AGCM del 13 giugno 2011, PS6813-Kellogs Optivita-con betaglucano riduce il colesterolo; provvedimento n. 22464, in Bollettino AGCM n. 21 del 13 giugno 2011, PS6821 – Saiwa Oro Cereacol; provvedimento n. 21851, in Bollettino AGCM n. 47 del 20 dicembre 2010, PS5595 – Pastariso Scotti attiva-riduce il colesterolo.
(2) Su tutti tali aspetti ci permettiamo di segnalare F. Bruno, Biotecnologie e comunicazione: le etichette dei prodotti geneticamente modificati, in A. Germanò e E. Rook Basile (a cura di), Il diritto alimentare tra comunicazione e sicurezza dei prodotti, Torino, 2005.
(3) Sull’EFSA, v. F. Adornato, voce Autorità alimentare per la sicurezza alimentare, in Diritto alimentare. Mercato e sicurezza, BD on line,
dir. da F. Albisinni, Wolters Kluwer It., www.leggiditaliaprofessionale.it, 2008.
(4) In particolare, sul rapporto tra le definizioni di alimenti e medicinali, v. L. Petrelli, I probiotici: criteri per la qualificazione dei prodotti
quali alimenti o medicinali nel diritto comunitario, in Riv. dir. agr., 2008, I, 539:
(5) “L’Autorità europea per la sicurezza alimentare, che, rispetto alle tipologie ricorrenti, non può definirsi né indipendente né regolatoria,
segnala, proprio attraverso il rilievo dell’elemento tecnico-scientifico, il punto di rottura nell’equilibrio degli interessi tutelati. Ma segnala
anche, a livello di politica del diritto, l’inesorabile rafforzamento dello Stato sovranazionale, con l’espansione dei poteri comunitari, ancorché in un precario equilibrio, sotto il profilo logistico-organizzativo, con il principio di sussidiarietà, che ha assunto, nel diritto comunitario, una rilevanza costituzionale” (così, F. Adornato, voce Autorità alimentare per la sicurezza alimentare, cit.).
(6) Sull’abusato e (ormai) confuso lemma “consumatore”, sul suo ruolo nel panorama legislativo (e nella società post-moderna fondata
sul “consumo”) rinviamo al non più recente, ma ancora efficace, G. Alpa e G. Chinè, Consumatore (protezione del) nel diritto civile, in
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2. - I prodotti funzionali e gli alimenti ai betaglucani
Il regolamento CE 1924/20067 che disciplina le indicazioni
nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari non
definisce cosa siano i prodotti funzionali. L’European Food
Information Council ha disposto8, come “work definition”,
che sarebbero funzionali gli alimenti per i quali sia soddisfacentemente dimostrato che possano implicare un effetto
benefico e mirato su una o più funzioni dell’organismo, ulteriore rispetto ai normali effetti nutritivi, in modo che dalla
loro assunzione consegua un evidente miglioramento dello
stato di salute e di benessere dell’organismo e/o riduzione
del rischio di malattia9.
Sembrerebbe, dunque, che i prodotti funzionali siano alimenti che per qualche aspetto particolare (indotto direttamente o indirettamente dall’uomo) della composizione
apportino un beneficio aggiuntivo all’organismo, oltre il
semplice apporto di nutrienti. Ma non si tratta di una cate-
4
goria di alimenti autonoma sul piano normativo, è sempre
necessario fare riferimento alla definizione di alimenti cui al
reg. CE 178/2002; invero, l’art. 2, lett. a) del reg. CE
1924/2006 precisa che trovano applicazione “le definizioni
di “alimento” (o “prodotto alimentare”), “operatore del settore alimentare”, “immissione sul mercato” e “consumatore
finale” di cui all’articolo 2 e all’articolo 3, punti 3, 8 e 18 del
regolamento (CE) n. 178/2002…”.
Le decisioni dell’AGCM in oggetto riguardano prodotti alimentari in cui sono presenti i betaglucani composti con
effetti bioattivi e valenza salutistica. Si tratta di polisaccaridi non amido costituiti da lunghe catene lineari di molecole di glucosio legate con legami glicosidici b-1-3 e b-14, presenti in quantità significative (4-7%) in alcuni cereali quali orzo ed avena. Particolare interesse riveste uno
specifico alimento, la pasta di orzo con betaglucani sia
per l’importanza che la pasta ricopre in termini di quantità
assunte) nel contesto italiano (circa 27 kg anno/procapite)
Dig. disc. priv., Sez civ., III, Torino, 1988. V., inoltre, G. Alpa, Il diritto dei consumatori, Roma-Bari, 2002, p. 412 e G. Chinè, Il consumatore, in N. Lipari (a cura di), Trattato di diritto privato europeo, I, 2 ed., Padova, 2003. Nel settore alimentare, v. S. Carmignani, La tutela del consumatore di alimenti, in Diritto alimentare. Mercato e sicurezza, BD on line, dir. da F. Albisinni, Wolters Kluwer It., www.leggiditaliaprofessionale.it, 2011.
(7) Sul provvedimento comunitario e, più in generale, sulle indicazioni nutrizionali e sulla salute v.: S. Masini, Prime note sulla disciplina
europea delle indicazioni nutrizionali e sulla salute, in Diritto e giur. agr. alim. e ambiente, 2007; L. Costato, Le indicazioni nutrizionali
del reg. n. 1924/2006, in Riv. dir. agr., 2008, I, 299 e ss.; A. Di Lauro, voce Indicazioni nutrizionali ed health claims, in Diritto alimentare. Mercato e sicurezza, cit., 2011; L. Petrelli, Le nuove regole comunitarie per l’utilizzo di indicazioni sulla salute fornite sui prodotti alimentari, in Riv. dir. agr., 2009, I, 50 ss.; L. Petrelli, Il regime sanzionatorio applicabile alle indicazioni sulla salute non conformi alle disposizioni del regolamento (CE) n. 1924/2006, in Riv. dir. agr., 2009, I, 396; L. Costato – P. Borghi – S. Rizzioli, Compendio di diritto alimentare, 5^ ed., Padova, 2011.
(8) Ad onor del vero, già dai primi anni novanta i termini “functional foods” “designer foods” o “nutraceuticals foods” erano utilizzati come
parole chiave della grande industria alimentare, in modo intercambiabile per indicare tutti quei prodotti o ingredienti alimentari che offrono particolari benefici fisiologici non nutritivi per il miglioramento della salute (sul punto C. M. Hasler, “Foreword”, in Mazza G. (a cura
di) Functional Foods: Biochemical & Processing Aspects, Technomic publication, Pensylvania, 1998). Una prima definizione scientifica
è stata però elaborata tra il 1995 ed il 1999 da un gruppo di più di 100 esperti che hanno lavorato al progetto FUFOSE (Functional Food
Science in Europe), azione concertata tra l’International Life Science Institute (ILSI) Europeo e la Commissione Europea, comparve per
la prima volta nel 1999 sul British Journal of Nutrition, nel documento recante il nome di “Scientific Concepts of functional Foods in
Europe, Consensus Document”. In base a quanto stabilito in questo documento, “un alimento può essere considerato funzionale se
dimostra in maniera soddisfacente di avere effetti positivi e mirati su una o più funzioni specifiche dell’organismo, che vadano oltre gli
effetti nutrizionali normali, in modo tale che sia rilevante per il miglioramento dello stato di salute e di benessere e/o per la riduzione del
rischio di malattia. Fermo restando che gli alimenti funzionali devono continuare ad essere alimenti e devono dimostrare la loro azione
nelle quantità in cui vengono assunti normalmente nella dieta. Gli alimenti funzionali non sono ne compresse, ne capsule, ma alimenti
che formano parte di un regime alimentare normale”.
(9) In realtà, come precisato nel documento della Commissione (un quasi-opuscolo) del 2010 dal titolo “Functional Foods”, vi sono dubbi
se considerare quali prodotti funzionali solo quelli in cui è intervenuta l’opera dell’uomo per assicurare all’alimento un valore nutrititivo o
una qualita per la salute che altrimenti non esisterebbe (e quindi in tal caso si tratterebbe solo di prodotti trasformati), ovvero lo siano
anche gli alimenti non trasformati (o di prima trasformazione) come particolari tipologie di pesce o carne, o il the o la cioccolata. Si legge
in tale documento invero che “Many definitions exist worldwide for functional foods, but there is no official, or commonly accepted definition. One view is that any food is indeed functional because it provides nutrients and has a physiological effect. So, functional food
should be considered a marketing term for a food whose attraction lies in its health claims and the way the product is perceived. Some
even believe that, any food, if marketed appropriately, particularly with an accompanying health claim, is a functional food. Some foods
considered to be functional are actually natural whole foods where new scientific information about their health qualities can be used to
proclaim benefits. Many, if not most, fruits, vegetables, grains, fish, and dairy and meat products contain several natural components
that deliver benefits beyond basic nutrition. Examples include lycopene in tomatoes, omega n-3 fatty acids in salmon or saponins in soy.
Even tea and chocolate have been noted in some studies as possessing functional attributes, i.e. attributes beyond the provision of traditional nutrients. Others think that only fortified, enriched or enhanced foods with a component having a health benefit beyond basic
nutrition should be considered as functional. Most definitions also suggest that a functional food should be, or look like, a traditional food
and must be part of our normal diet. A functional food can be targeted at the whole population or at particular groups, which may be defined, for example, by age or genetic constitution”.
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che come possibile alimento per veicolare differenti composti bioattivi10.
Inoltre l’orzo è un cereale che merita attenzione non solo
per la presenza dei betaglucani ma anche perché coltura
che si adatta meglio del frumento alle condizioni pedoclimatiche italiane meridionali ed ai cambiamenti climatici in atto
ed è pertanto caratterizzata da un’alta sostenibilità ambientale11.
3.- Il quadro normativo di riferimento: il Codice del
Consumo, il Regolamento CE n. 1924/2006 e la disciplina
sulle etichette dei prodotti alimentari
Le decisioni dell’AGCM richiamate si riferiscono al caso in
cui sia utilizzata una indicazione sulla salute non conforme ai
requisiti di cui al reg. CE 1924/2006 e ricalcano il tipico schema delle pratiche commerciali scorrette ingannevoli: segnalazione del consumatore, apertura del procedimento, eventuali pareri istruttori di altre autorità o organi, conclusioni con
eventuale previsione di sanzioni pecuniarie e inibitorie.
Il quadro normativo di riferimento va trovato nel rapporto tra
il Codice del consumo12 e il reg. CE 1924/200613. Il Codice del
consumo è il d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (modificato dal
d.lgs. 2 agosto 2007, n. 146)14.
5
L’organo che deve valutare il corretto adempimento delle
regole sulle pratiche commerciali scorrette e ingannevoli è,
come anticipato, l’AGCM15. Essa non può agire d’ufficio (se
non nel caso di comportamenti ritenuti lesivi della concorrenza), ma si può attivare solo a seguito di una denuncia di
parte che può essere effettuata da: singoli consumatori,
associazioni di consumatori, imprese concorrenti di quelle
che divulgano i messaggi ritenuti ingannevoli, ogni pubblica
amministrazione che ne ha interesse in relazione ai propri
fini istituzionali, anche su denuncia o segnalazione del pubblico (cittadini, imprese, associazioni di consumatori)16. Se
l’Autorità accerta l’ingannevolezza del messaggio o l’illiceità della pubblicità comparativa, può imporre con decisione
motivata all’operatore pubblicitario il divieto o l’interruzione
della sua diffusione. Inoltre, al fine di impedire che il messaggio continui a produrre effetti, l’obbligo di rendere pubblica a sue spese a mezzo stampa, oppure attraverso la
radio o la televisione, la decisione dell’autorità nonché,
eventualmente, un’apposita dichiarazione rettificativa.
In caso di inottemperanza, senza giustificato motivo, a
quanto disposto dall’Autorità è prevista l’irrogazione di una
sanzione amministrativa pecuniaria e, nei casi di reiterata
inottemperanza, la sospensione dell’attività per un periodo
non superiore a trenta giorni. Inoltre, l’Autorità può invertire
l’onere della prova nel corso del procedimento disponendo
(10) E. Marconi e M. Carcea, Pasta from non traditional raw materials. Cereal Foods World, 46(11), 522-530, 2001; E. Marconi e M.C.
Messia, Pasta made from non traditional raw materials: technological and nutritional aspects, in Durum wheat chemistry and technology. J. Abecassis, M. Carcea and M. Sissons Eds., AACC St Paul, MN (USA), in press; R.E. Cubadda e E. Marconi, Sviluppo di alimenti funzionali a base di cereali arricchiti con beta glucani dell’orzo: una rassegna. Ingredienti Alimentari 36:6-13, 2008.
(11) M. Moresi e R. Valentini, Dieta mediterranea e impatto ambientale, in Industrie Alimentari 49 (maggio): 9-20, 2010.
(12) La denominazione “Codice” al d.lgs. n. 206 del 2005 (e lo stesso ruolo di un tal provvedimento “ordinatore” di un settore) è stato (e
lo è tuttora) oggetto di dibattito. Si passa da critiche severissime sul provvedimento a più o meno convinti encomi. Il parere del Cosiglio
di Stato che ha accompagnato la sua approvazione (Cons. St., sez. atti normativi, 20 dicembre 2004, n. 11602/04, in Foro it., 2005, III,
c. 348) precisa che il codice del consumo è “uno dei primi provvedimenti della nuova fase di codificazione in materia di semplificazione
e riordino (ora denominato “riassetto”) normativo dopo quella dei c.d. “testi unici misti” di cui all’ormai abrogato art. 7 l. 8 marzo 1999 n.
50”, e lo definisce come una manifestazione di una «codificazione di nuova generazione», nella quale “all’idea regolativa del codice si
è sostituita l’esistenza di discipline sistematicamente organizzabili in una pluralità di codici di settore”. A sostegno delle proprie argomentazioni il Consiglio di Stato specifica che il codice del consumo “si inserisce in una strategia di «semplificazione» che va intesa come
«sinonimo di qualità della regolamentazione» e, pertanto, la scelta della denominazione di «codice», in luogo di quella di «testo unico»,
appare condizionata dal fatto che «si fa sempre più pressante, non solo in Italia - l’esigenza di riordino sostanziale e di riduzione dello
stock normativo. Ciò ha consentito, negli ultimi anni, un ritorno della cultura della “codificazione”, sotto forme diverse e soprattutto con
metodologie più attente all’impatto sostanziale delle norme ed alla indispensabile coerenza e armonia giuridica delle stesse all’interno
di ciascun codice e con le altre norme dell’ordinamento giuridico”. Sul punto, rinviamo alle considerazioni (certamente valide anche in
questo caso) effettuate sul Codice ambientale da A. Germanò e E. Rook Basile, Introduzione, in A. Germano’, E. Rook Basile, F. Bruno
e M. Benozzo, Commento al codice dell’ambiente, Torino, 2008.
(13) Sulle sanzioni penali (in particolare, l’art. 13 legge 283 del 1962 artt. 2 e 18, d.lgs. n. 109 del 1992) che potrebbero trovare applicazione in caso di utilizzo di una indicazione sulla salute non conforme alle condizioni richieste dal reg. CE n. 1924/2006 v. L. Petrelli, Il
regime sanzionatorio applicabile alle indicazioni sulla salute non conformi alle disposizioni del regolamento (CE) n. 1924/2006, cit., 404
e ss.
(14) La dottrina sul Codice del consumo è sterminata. V., ad esempio, G. Alpa e L. Rossi Carleo (a cura di), Codice del consumo.
Commentario, Napoli, 2005; G. Cavazzoni, L. Di Nella, L. Mezzasoma e V. Rizzo (a cura di), Il diritto dei consumi: realtà e prospettive,
Napoli, 2008; V. Cuffaro (a cura di), Codice del consumo e norme collegate, 2a ed., Milano, 2008.
(15) Ciò ai sensi dell’ormai abrogato (dall’art. 146 del Codice del consumo) d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 (che ha recepito la direttiva
450/1984/ CEE). L’AGCM è stata istituita con la legge n. 287 del 1990.
(16) La denuncia, da cui parte l’istruttoria dell’Autorità, deve contenere i dati identificativi del denunciante (non sono ammissibili denunce
anonime), la copia o, se questa non può essere allegata, l’indicazione puntuale del messaggio pubblicitario denunciato ed i motivi per i
quali lo si ritiene ingannevole.
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che sia il “professionista” (e non il denunciante) a fornire le
prove della correttezza dei dati di fatto contenuti nel messaggio pubblicitario se questa esigenza risulti giustificata
dalle circostanze del caso specifico. Se la prova richiesta è
omessa o ritenuta insufficiente, i dati di fatto dovranno
essere considerati inesatti e la pratica commerciale ingannevole o sleale. Dell’eventuale decisione sul risarcimento
del danno causato dalle pratiche ingannevoli (per esempio,
se questa configura un caso di concorrenza sleale a norma
dell’art. 2598 del Codice Civile o di violazione della disciplina del diritto d’autore, o del marchio di impresa) è competente il giudice ordinario, mentre avverso la decisione
dell’AGCM si può ricorrere esclusivamente al giudice amministrativo.
Venendo a quanto di nostro interesse, una pratica commerciale è considerata scorretta “se è contraria alla diligenza
professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura
apprezzabile il comportamento economico, in relazione al
prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al
quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la
pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di
consumatori” (art. 20, comma 2, Codice del Consumo)17. Ed
è ingannevole quando “contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo,
anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo” a
determinati elementi (elencati all’art. 21, comma 1 del
Codice del Consumo18) “e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso” (art. 21, comma
1, Codice del Consumo). Le pratiche commerciali scorrette
perché ingannevoli possono essere anche omissive (c.d.
omissioni ingannevoli). E’ tale “una pratica commerciale
che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonche’ dei limiti del
mezzo di comunicazione impiegato, omette informazioni
rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura
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commerciale e induce o è idonea ad indurre in tal modo il
consumatore medio ad assumere una decisione di natura
commerciale che non avrebbe altrimenti preso” (art. 22,
comma 1 del Codice del Consumo).
Peraltro, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo
del Codice del Consumo (il 22), una pratica commerciale è
altresì considerata un’omissione ingannevole quando si
occulta o si presenta in modo oscuro, incomprensibile,
ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti di cui al
comma 1. Qualora il mezzo di comunicazione impiegato per
la pratica commerciale imponga restrizioni in termini di spazio o di tempo, nel decidere se vi sia stata un’omissione di
informazioni, si tiene conto di dette restrizioni e di qualunque misura adottata dal professionista per rendere disponibili le informazioni ai consumatori con altri mezzi. Vi sono
alcune pratiche, elencate nell’art. 23 del Codice del
Consumo, che sono “in ogni caso ingannevoli” (nel senso
che prescindono dall’effettività dell’induzione in errore del
consumatore).
Il reg. CE 1924/2006, invece, è la norma europea che ha
armonizzato19 le condizioni d’uso delle indicazioni volontarie
nutrizionali e sulla salute: l’idoneità degli alimenti funzionali
di apportare un beneficio aggiuntivo all’organismo (oltre ai
“normali” requisiti nutrizionali) può apparire in comunicazioni commerciali, etichetta, pubblicità e presentazione degli
alimenti al consumatore (compresi quelli commercializzati
senza imballaggio o offerti alla rinfusa) esclusivamente se
sono rispettati determinati requisiti legali.
Il dispositivo comunitario distingue tra indicazioni nutrizionali20, indicazioni sulla salute e indicazioni relative alla riduzione di un rischio malattia.
Di nostro interesse sono le ultime due categorie. Le indicazioni sulla salute includono “qualunque indicazione che
affermi, suggerisca o sottintenda l’esistenza di un rapporto
tra una categoria di alimenti, un alimento o uno dei suoi
componenti e la salute”. Le indicazioni relative alla riduzione di un rischio malattia sono “qualunque indicazione sulla
salute che affermi suggerisca o sottointenda che il consumo
(17) La diligenza professionale è il normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere
essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori. Al fine di identificare una pratica commerciale come sleale, occorre che tale requisito concorra (cumulativamente e non alternativamente) con l’alterazione (anche potenziale) del comportamento economico del consumatore. La necessaria e cumulativa concorrenza dei due requisiti è stata prevista al fine di evitare che pratiche commerciali lecite (quali, ad esempio, la c.d. pubblicità indiretta), finiscano per ricadere nell’ambito di applicazione della direttiva medesima,
divenendo, in tal modo, pratiche vietate (così N. Maione, Le pratiche commerciali sleali nella direttiva 2005/29/CE, in G. Alpa e G. Capilli
(a cura di), Lezioni di diritto privato europeo, Padova, 2007, 1068).
(18) Per quanto di nostro interesse, riportiamo l’elemento indicato nella lettera b) dell’art. 21, comma 1 del Codice del Consumo: “le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilita’, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza
post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneita’ allo scopo, gli usi, la quantita’, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o
i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto”.
(19) L’art. 1 del reg. CE 1924/2006 precisa che tale provvedimento “armonizza le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative
degli Stati membri concernenti le indicazioni nutrizionali e sulla salute, al fine di garantire l’efficace funzionamento del mercato interno
e al tempo stesso un elevato livello di tutela dei consumatori”.
(20) Le indicazioni nutrizionali sono “qualunque indicazione che affermi, suggerisca, o sottointenda che un alimento abbia particolari proprietà nutrizionali benefiche” dovute all’energia (che apporta, non apporta o apporta a tasso ridotto o accresciuto) o alle sostanze nutritive (che contiene, non contiene o contiene in proporzioni ridotte o accresciute” (così l’art. 2, comma 2, 4) del reg. CE 1924/2006).
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di una categoria di alimenti, di un alimento o di uno dei suoi
componenti riduce significativamente un fattore di rischio di
sviluppo di una malattia umana”21.
L’impiego delle indicazioni nutrizionali e sulla salute non
deve essere ambiguo o fuorviante (art. 3, lettera a del regolamento) e sono legittime esclusivamente se: sono rispettati i requisiti generali di cui al capo II del regolamento (in particolare dell’art. 5); sono rispettati i requisiti specifici di cui al
capo IV del regolamento per le indicazioni sulla salute (in
particolare dell’art. 10). E’ possibile apporre ad un alimento
una indicazione nutrizionale soltanto se queste sono comprese nell’elenco allegato al Regolamento, mentre le indicazioni sulla salute sono autorizzate con la specifica procedura complessa disposta dallo stesso provvedimento e, quindi, incluse negli appositi elenchi (in realtà, come si dirà,
siamo ancora sostanzialmente in una fase transitoria). La
procedura autorizzatoria non è necessaria solo se le indicazioni sulla salute sono basate su dati scientifici generalmente accettati e ben comprese dal consumatore medio (si tratta delle c.d. indicazioni sulla salute “generiche”, come ad
esempio, “il calcio fa bene alle ossa”). Al contrario, qualsiasi inserimento di indicazioni “basate su dati scientifici recenti e/o che includono una richiesta di protezione di dati riservati è adottato secondo la procedura” complessa che si conclude con il provvedimento della Commissione (art 13 e 14
reg CE 1924/2006).
Tra le condizioni di carattere generale che devono rispettare le indicazioni nutrizionali e sulla salute ai sensi dell’articolo 5 ricordiamo: - deve essere dimostrato che la presenza, l’assenza o il contenuto ridotto in un alimento di una
sostanza nutritiva o di altro tipo, rispetto alla quale è fornita
l’indicazione, ha un effetto nutrizionale o fisiologico benefico, sulla base di prove scientifiche generalmente accettate;
- la sostanza rispetto alla quale è fornita l’indicazione: i) è
contenuta nel prodotto in una quantità tale da produrre l’effetto nutrizionale o fisiologico indicato, sulla base di prove
scientifiche generalmente accettate, o ii) non è presente o
è presente in quantità ridotta, in modo da produrre l’effetto
nutrizionale o fisiologico indicato, sulla base di prove scientifiche generalmente accettate; - la quantità del prodotto
tale da poter essere ragionevolmente consumata fornisce
una quantità, della sostanza cui si riferisce l’indicazione,
tale da produrre l’effetto nutrizionale o fisiologico indicato,
sulla base di prove scientifiche generalmente accettate; - si
possa ritenere che il consumatore medio comprenda gli
effetti benefici secondo la formulazione dell’indicazione.
In riferimento ai requisiti specifici per le indicazioni sulla
salute, l’art. 10, par. 2, del regolamento precisa che esse
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sono consentite solo se l’etichettatura o, in mancanza di
etichettatura, nella presentazione e nella pubblicità sono
comprese le seguenti informazioni: una dicitura relativa
all’importanza di una dieta varia ed equilibrata e di uno
stile di vita sano; la quantità dell’alimento e le modalità di
consumo necessarie per ottenere l’effetto benefico indicato; se del caso, una dicitura rivolta alle persone che
dovrebbero evitare di consumare l’alimento e, infine,
un’appropriata avvertenza per i prodotti che potrebbero
presentare un rischio per la salute se consumati in quantità eccessive.
La domanda di autorizzazione delle indicazioni sulla salute
deve essere presentata alle autorità nazionali competenti22
(in Italia il Ministero della Salute) le quali informano l’EFSA
che invia gli atti alla Commissione e gli altri Stati membri.
Sul diniego o accettazione della domanda è competente la
Commissione (ente che gestisce il rischio, sul modello dello
schema introdotto dal reg. CE 178/2002), che decide fondandosi sul parere dell’EFSA (in caso di non conformità
deve motivare la divergenza, come avviene per gli organismi geneticamente modificati23). L’autorità europea deve
accertarsi che la formulazione proposta per l’indicazione
sulla salute sia basata su dati scientifici e soddisfi i criteri
(generali e specifici) disposti nel reg. CE 1924/2006; fin qui
si tratta di attività “tecnico-scientifica” sulla validità del
claim. Ma ha altresì un’altra fondamentale funzione, nella
logica della comunicazione del prodotto sul mercato e sulla
possibilità (imprescindibile) che i cittadini siano posti in condizione di effettuare scelte consapevoli sulla propria alimentazione: l’EFSA “si esprime sulla formulazione della proposta per l’indicazione sulla salute, valutando se è comprensibile e significativa per il consumatore medio” (art. 16, par. 2,
lett c) del reg. CE 1924/2006). Attività, questa, che forse
sarebbe stato preferibile farla almeno co-gestire con la
Commissione, trattandosi di una questione di comunicazione che attiene non solo ad un angolo di visuale tecnico ma
altresì di opportunità commerciale e di relazione tra consumatori e operatori alimentari.
Una volta autorizzata, l’indicazione sulla salute viene inserita in un apposito registro comunitario, nel quale vi è apposita sezione dedicata alle indicazioni sulla salute autorizzate in base a dati protetti da proprietà industriale.
Oggi, mentre le indicazioni nutrizionali, se conformi ai requisiti disposti nel provvedimento comunitario e alle relative
condizioni di applicazione previste nell’allegato24 possono
essere apposte sui prodotti alimentari che circolano nel
mercato europeo, le indicazioni sulla salute dovrebbero
poter essere apposte sugli alimenti solo una volta adottato
(21) Così l’art. 2, comma 2, 6) del reg. CE 1924/2006.
(22) Le procedure sono specificate nel Reg. CE n. 353/2008 della Commissione, modificato dal reg. CE n. 1169/2009.
(23) Sulle procedure autorizzatorie europee degli OGM ci permettiamo di segnalare, M. Benozzo e F. Bruno, La disciplina delle biotecnologie tra diritto europeo e diritto statunitense, in G. Alpa e G. Capilli (a cura di), Lezioni di diritto privato europeo, cit., 243 e ss.
(24) L’Allegato è stato integrato con il Regolamento n. 116/2010/UE della Commissione del 9 febbraio 2010, adottato a seguito di consultazione dell’EFSA. Con tale regolamento sono state definite le indicazioni nutrizionali “fonte di acidi grassi omega-3”, “ricco di acidi grassi omega-3”, “ricco di grassi monoinsaturi”, “ricco di grassi polinsaturi”, ricco grassi insaturi”.
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il citato elenco comunitario (che non è ancora stato ufficialmente determinato dalla Commissione25, in attesa dei
numerosi pareri dell’EFSA26). Sennonchè, tra le misure transitorie è precisato che possono essere apposte le indicazioni sulla salute di cui all’art. 13, par. 1 lett a) (sul ruolo di una
sostanza nutritiva o di altro tipo per la crescita, lo sviluppo
e le funzioni dell’organismo) “fino all’adozione dell’elenco
…., sotto la responsabilità degli operatori economici del settore alimentare, purchè siano conformi al presente regolamento e alle vigenti disposizioni nazionali applicabili e fatta
salva l’adozione delle misure di salvaguardia di cui all’art.
23”. Misure di salvaguardia che consentono a qualsiasi
Stato membro un intervento limitatorio della circolazione
dell’alimento con una indicazione che si ritiene (anche dopo
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la sua iscrizione nell’elenco comunitario) avere una fondatezza scientifica insufficiente.
In altre parole, l’indicazione sulla salute (quella più comune
sul ruolo di una sostanza nutritiva o di altro tipo per la crescita, lo sviluppo e le funzioni dell’organismo) può oggi
essere apposta ad un prodotto alimentare, sebbene non sia
stato ancora pubblicato l’elenco delle indicazioni consentite
dalla Commissione di cui all’art. 13, par. 3 del reg. CE
1924/2006. Deve però essere conforme a tutti i requisiti
previsti dalla legislazione comunitaria ed eventualmente per
verificare se esso sia legittimo si deve far riferimento agli
elenchi provvisori degli Stati membri o ai relativi pareri
dell’EFSA (se esistenti)27. Si pone il dubbio28 se altresì le
indicazioni sulla salute non presenti nemmeno negli elenchi
(25) L’elenco doveva essere trasmesso alla Commissione dagli Stati membri entro il 31 gennaio 2008 e quello definitivo della
Commissione sarebbe dovuto essere adottato dalla Commissione entro il 31 gennaio 2010.
(26) Nel sito del Ministero della salute è presento lo stato dei lavori. Nel gennaio 2008, gli Stati Membri hanno inviato alla Commissione
Europea le liste nazionali di claims sulla base di una ricognizione di quelli già esistenti sul territorio. L’elenco è così suddiviso: Annex 1:
lista dei claims riferiti a nutrienti vari. Annex 2 A: lista dei claims riferiti ad ingredienti erboristici prevalentemente utilizzati negli integratori alimentari. Annex 2 B: lista dei claims riferiti ad ingredienti erboristici prevalentemente utilizzati nei prodotti alimentari di consumo corrente. Si è proseguito suddividendo la totalità delle indicazioni in nove liste consolidate ognuna delle quali riferita ad una specifica categoria: vitamine, minerali, fibre, macronutrienti, alimenti, probiotici, diete, botanici, altre sostanze. La Commissione Europea, dopo aver
esaminato oltre 44.000 indicazioni fornite dagli Stati Membri, ha trasmesso all’EFSA un elenco provvisorio di 4185 indicazioni. L’EFSA ha
condotto uno screening preliminare di tutte le indicazioni ricevute dalla Commissione europea in base a specifici criteri adottati dal gruppo di esperti NDA, richiedendo, attraverso un processo di “chiarificazione”, chiarimenti su relazioni con la salute troppo vaghe o poco chiare, e/o su condizioni d’uso non sufficientemente specificate, traduzioni del testo. Gli esperti del gruppo scientifico NDA dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare hanno pubblicato, a luglio 2011, gli esiti della valutazione dell’ultimo gruppo di indicazioni “funzionali generiche”, ad esclusione di quelle relative a sostanze botaniche. La pubblicazione della serie finale di 35 valutazioni è il culmine di oltre tre
anni di lavoro da parte dell’EFSA. A partire dal 2008 il gruppo scientifico ha valutato 2.758 indicazioni funzionali generiche riguardanti gli
alimenti per stabilire se alla loro base vi fossero evidenze scientifiche solide, assistendo in tal modo la Commissione europea e gli Stati
membri nello stabilire un elenco di indicazioni autorizzate sui cibi. Le indicazioni approvate consentiranno ai consumatori europei di compiere scelte più informate per la propria alimentazione. Calendario della pubblicazione delle valutazioni EFSA nel settore: 1° ottobre 2009,
521 indicazioni sulla salute, trattate in 94 pareri 25 febbraio 2010, 416 indicazioni sulla salute, trattate in 31 pareri 19 ottobre 2010, 808
indicazioni sulla salute, trattate in 75 pareri 8 aprile 2011, 442 indicazioni sulla salute, trattate in 63 pareri 30 giugno 2011, 536 indicazioni sulla salute, trattate in 73 pareri 28 luglio 2011, 35 indicazioni sulla salute, trattate in 5 pareri. I risultati delle valutazioni sono stati favorevoli quando vi erano prove sufficienti a sostegno delle indicazioni. Così è avvenuto per circa una su cinque delle indicazioni esaminate, che riguardavano essenzialmente: vitamine e minerali; fibre dietetiche specifiche relative al controllo della glicemia, al colesterolo nel
sangue, o alla gestione del peso corporeo; colture di fermenti lattici vivi e digestione del lattosio; effetti antiossidanti dei polifenoli nell’olio
di oliva; noci e miglioramento della funzione dei vasi sanguigni; pasti sostitutivi e controllo del peso; acidi grassi e funzionalità cardiaca;
il ruolo di una gamma di prodotti sostitutivi dello zucchero (come il sorbitolo e lo xilitolo) nel mantenere la mineralizzazione dei denti o
abbassare l’aumento dei livelli di glucosio nel sangue dopo i pasti; bevande contenenti carboidrati-elettroliti/creatina e prestazioni sportive. Gli esperti hanno espresso pareri sfavorevoli nei casi in cui le informazioni fornite non hanno permesso di stabilire una correlazione
tra l’alimento e l’effetto rivendicato da stabilire. Tra i motivi: mancanza di informazioni atte a individuare la sostanza su cui si fondava l’indicazione (per esempio indicazioni su “probiotici” o “fibra alimentare” senza specificare quale fibra in particolare); mancanza di prove che
l’effetto vantato fosse davvero benefico per il mantenimento o il miglioramento delle funzioni corporee (per esempio alimento con “proprietà antiossidanti” e indicazioni per “eliminazione dell’acqua” per via renale); mancanza di precisione quanto all’indicazione sulla salute rivendicata (ad esempio indicazioni riguardanti termini come “energia” e “vitalità”, o indicazioni sulla salute delle donne o l’energia mentale); mancanza di studi sull’uomo con misurazioni affidabili del beneficio per la salute rivendicato; indicazioni riferite a categorie alimentari come “frutta e verdura” e “prodotti lattiero-caseari” considerate troppo ampie per essere associate a effetti specifici. a maggior parte
degli esiti sfavorevoli sono riferiti principalmente ai probiotici. A tale riguardo l’EFSA, in collaborazione con la Commissione europea e gli
Stati membri, ha proposto una procedura di “ further assessment”, cioè la ri-presentazione di un numero limitato di indicazioni “funzionali generiche” sulla salute relative a microrganismi, che sono state giudicate dal gruppo non sufficientemente caratterizzate o indicazioni
per le quali le prove fornite nel corso della presentazione iniziale non erano sufficienti a stabilire un rapporto di causa ed effetto. L’EFSA
prevede di ricevere dalla Commissione europea prima della fine del 2011 le indicazioni da riesaminare e il calendario preciso delle valutazioni successive verrà stabilito una volta completata la fase di ritrasmissione. Tutti i pareri scientifici espressi è possibile consultare il
sito dell’EFSA all’indirizzo: http://www.efsa.europa.eu/it/topics/topic/nutrition.htm.
(27) Come precisato proprio dall’AGCM nel provvedimento n. 22834 cit.
(28) Cfr. L Petrelli, Le nuove regole comunitarie per l’utilizzo di indicazioni sulla salute fornite sui prodotti alimentari, cit., 76.
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provvisori degli Stati membri possano essere fornite sui
prodotti alimentari. In attesa di chiarimenti sul punto propenderemmo per una risposta positiva solo nel caso in cui
la domanda di autorizzazione sia stata già presentata dall’impresa alimentare all’autorità nazionale. In tal caso, in
assenza di prescrizioni normative contrarie, riteniamo che il
soggetto richiedente sia portatore del medesimo interesse
legittimo in capo al soggetto la cui indicazione sulla salute
sia già stata inserita nell’elenco nazionale e inviata in sede
europea.
Non solo. Che gli elenchi provvisori nazionali integrino provvedimenti da cui scaturiscono effetti giuridici non è precisato nel regolamento, perciò riteniamo che essi possano solo
essere considerati atti endoprocedimentali senza alcuna
efficacia “esterna” sul procedimento di riconoscimento dell’indicazione. Dove il provvedimento nazionale ha tali effetti, al contrario, il legislatore comunitario normalmente si preoccupa di precisarlo, come nel caso della complessa procedura di valutazione di incidenza (in cui sempre sussiste un
rapporto tra autorità nazionali ed europee29): in quel caso è
espressamente precisato che il provvedimento ministeriale
con cui si inviano gli elenchi delle zone da preservare per la
biodiversità ivi presente abbia una efficacia dispositiva, poiché dal momento della loro pubblicazione già nasce l’obbligo per i cittadini di non danneggiare quegli habitat naturali
lì indicati.
Altresì interessante è l’articolo 9 del provvedimento che
tratta delle “indicazioni comparative”30. Il confronto tra prodotti può essere fatto soltanto tra alimenti della stessa categoria prendendo in considerazione una gamma di alimenti
di tale categoria. La differenza nella quantità di una sostanza nutritiva e/o nel valore energetico è specificata e il confronto è riferito alla stessa quantità di prodotto. Inoltre, il
secondo comma precisa che “le indicazioni nutrizionali
comparative confrontano la composizione dell’alimento in
questione con una gamma di alimenti della stessa categoria privi di una composizione che consenta loro di recare
una indicazione, compresi alimenti di altre marche”. Qui
questioni interpretative potrebbero sorgere per verificare
cosa in realtà si intenda per “categoria” di alimenti, posto
che il regolamento non la precisa31.
Infine, il quadro normativo si compone altresì delle regole
sulle etichette dei prodotti alimentari32, peraltro recentemente mutata. Il reg. CE n. 1169/201133 ha sostituito la direttiva
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2000/13/CE (sulle etichette degli alimenti) e la direttiva
90/496/CEE (sull’etichettatura nutrizionale degli alimenti).
Il d.lgs. 23 giugno 2003, n. 181 (che ha recepito la direttiva
2000/13/CE) prevede una serie di limitazioni alle imprese
nella presentazione, pubblicità ed etichettatura degli alimenti: il consumatore non deve essere indotto in errore
sulle caratteristiche del prodotto, agli alimenti non possono
essere attribuiti effetti o proprietà che non possiede, in particolare (ai nostri fini) è vietato collegare ad un alimento proprietà atte a prevenire, curare o guarire una malattia umana
(tranne che per le acque minerali o i prodotti destinati ad
un’alimentazione particolare).
4. - I procedimenti dell’AGCM sui prodotti alimentari ai betaglucani: la Pasta Colavita
Ogni istruttoria dell’AGCM sugli alimenti contenenti betaglucani è significativa e merita di essere ripresa in alcuni passaggi. Tuttavia, il provvedimento “Pasta Colavita con betaglucani riduce il colesterolo” riguarda l’utilizzo di sfarinati di
orzo contenenti betaglucani (e non frazioni di fibra d’orzo e
d’avena come in altri casi), produzione sulla quale il nostro
sistema agroalimentare mediterraneo potrebbe puntare nel
futuro per l’elevata sostenibilità ambientale e la frugalità
della coltivazione dell’orzo e per la elevata valenza dietetico-nutrizionale della composizione delle cariossidi.
L’operatore alimentare (“il professionista” secondo la terminologia utilizzata dal Codice del consumo) ha utilizzato un
claim che accredita la pasta Pasta Colavita con betaglucani in grado di contribuire “a ridurre il colesterolo e a contenere la glicemia nonché a regolarizzare il funzionamento
intestinale e facilitare il raggiungimento del senso di sazietà, contribuendo al controllo del peso corporeo”. Tale “funzione”, specifica ed ulteriore rispetto agli altri prodotti alimentari analoghi, sarebbe conseguenza del peculiare contenuto di betaglucani nell’alimento.
L’AGCM ha ritenuto tale indicazione sulla salute della pasta
in oggetto illegittima ed ha provveduto ad irrogare una sanzione pecuniaria e ne ha vietato la diffusione o la continuazione. La ragione su cui si fonda la decisione è interessante: si è accolto il collegamento tra il prodotto e le nuove funzioni sulla salute derivanti dall’apporto dei betaglucani, ma
si è concluso che si tratta di pratica commerciale scorretta
(29) Sulla valutazione di incidenza ci permettiamo di rinviare a F. Bruno, La valutazione di incidenza nella giurisprudenza amministrativa,
in Dir. giur. agr. alim. e amb., 2008.
(30) Di forte attualità, anche alla luce di una nota indicazione nutrizionale comparativa che vede contrapposti due importanti operatori alimentari.
(31) Sul punto v. la direttiva 2006/114/CE.
(32) Sulle etichette degli alimenti la letteratura è ormai vasta, per tutti, v. A. Germanò e E. Rook Basile (a cura di), Il diritto alimentare tra
comunicazione e sicurezza dei prodotti, cit.; L. Costato, Compendio di diritto alimentare, cit.; F. Albisinni, Etichettatura dei prodotti alimentari, in Diritto alimentare. Mercato e sicurezza, BD on line, dir. da F.Albisinni, Wolters Kluwer It., www.leggiditaliaprofessionale.it,
2012, il quale, tra l’altro, precisa che “le più recenti decisioni in materia dell’AGCM si sono connotate per un rigoroso scrutinio dell’etichettatura dei prodotti alimentari”.
(33) Il provvedimento ha, tra l’altro, provveduto a sostituire l’art. 7 del reg. 1924/2006 sulle “informazioni nutrizionali”.
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“in quanto contraria alla diligenza professionale e idonea,
attraverso la veicolazione di informazioni salutistiche non
adeguatamente avallate dal punto di vista scientifico, a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico
del consumatore medio in relazione ai prodotti pubblicizzati dal professionista”. Motivo: il “vanto” salutistico dell’alimento non sussisterebbe poiché non vi sarebbe correlazione tra il consumo medio giornaliero ipotizzabile per il consumatore medio e gli effetti benefici sulla sua salute. Invero,
afferma l’AGCM, “costituisce principio generale della …
disciplina comunitaria la diretta correlazione fra un effetto
salutistico e l’adeguata quantità della sostanza nel prodotto
di cui si suggerisce il consumo, corrispondente normalmente alla porzione del prodotto stesso, come richiesto dall’art.
5 del reg. 1924/2006”.
In particolare, in riferimento al claim relativo all’efficacia
coadiuvante nella riduzione del colesterolo, tutto si fonda
sui pareri già resi dall’EFSA al riguardo34, sia precedenti che
successivi al provvedimento AGCM, i quali statuiscono che
occorre un fabbisogno giornaliero di betaglucani, di orzo o
avena o in combinazione, di almeno 3g per avere effetti
benefici sul colesterolo.
E’ importante ricordare in questa fase che sia EFSA che
FDA attribuiscono effetti fisiologici simili e paragonabili ai
beta glucani da avena che di orzo fissando, pertanto, stessi limiti per le indicazioni salutistiche (3 g/die).
Al contrario, una porzione di pasta Colavita, pari a 80 grammi di prodotto crudo, reca – come dichiarato espressamente dallo stesso operatore alimentare nella confezione – 1,8
g di betaglucani, insufficienti a ottenere l’effetto riduttivo sul
colesterolo.
In realtà, tali dati sono considerati dal “professionista”, il
quale nei messaggi e sul packaging dell’alimento ha precisato che “una razione (80g) [della pasta] Su Colavita” fornirebbe “all’organismo più della metà della razione giornaliera utile” a “contenere …[il]…il colesterolo” oppure a “tenere
sotto controllo il colesterolo”.
Tuttavia, l’AGCM rileva che “tali precisazioni sono presentate …in modo parziale ed assolutamente insufficiente a
chiarire i reali effetti salutistici del prodotto derivanti dal suo
consumo, anche perché riprodotte con caratteri grafici nettamente inferiori rispetto al claim principale, nonché separati e aventi diversa collocazione in tutti i messaggi esaminati (oppure apposta sul retro, nelle confezioni)”. Come a dire:
la notizia, in realtà, è comunicata al consumatore, ma con
modalità tali da rendere comunque il messaggio nella pratica ingannevole.
L’interpretazione restrittiva dell’AGCM che limita il raggiun-
10
gimento della quantità fisiologicamente attiva di betaglucani 3g betaglucani/die all’assunzione della singola porzione
ed eventualmente a porzioni dello stesso prodotto che possono essere assunte giornalmente (vedi nota 38 pag 131
bollettino AGCM 47 del 20 dicembre 2010 e § 68 pag 159
bollettino AGCM 21 del 13 giugno 2011) può distorcere in
maniera significativa i comportamenti virtuosi di produttori di
alimenti che vogliano impiegare ingredienti naturalmente
ricchi o arricchiti per via fisica di componenti funzionali
come i beta glucani, la ratio della norma 1924/2006 ed i
pareri e statuizioni dell’EFSA e della FDA per i seguenti
motivi:
i) l’Art. 5 lett b) e d) reg 1924/2006 relativo alle condizioni
generali per l’impiego di indicazioni nutrizionali e sulla salute fa riferimento ad una quantità significativa della sostanza
rispetto alla quale è fornita l’indicazione salutistica e non
vincola tale quantità al concetto di porzione: lettera b) “è
contenuta nel prodotto finale in una quantità significativa ai
sensi della legislazione comunitaria o, in mancanza di tali
regole, una quantità tale da produrre l’effetto nutrizionale o
fisiologico indicato, sulla base di prove scientifiche generalmente accettate”; lettera d) “la quantità del prodotto tale da
poter essere consumata fornisce una quantità significativa
della sostanza o di altro tipo cui si riferisce l’indicazione, ai
sensi della legislazione comunitaria o, in mancanza di tali
regole, una quantità tale da produrre l’effetto nutrizionale o
fisiologico indicato, sulla base di prove scientifiche generalmente accettate”;
ii) la FDA per poter utilizzare il claim salutistico oltre ad indicare il limite di 3g betaglucani/die fissa anche quello per porzione (0,75 g/porzione). FDA è arrivata a questo doppio
valore basandosi sull’assunto che l’intake della dieta giornaliera è composto da 4 momenti (tre pasti ed uno snack
ossia 0,75x4 = 3 g di betaglucani/die). L’FDA ha ritenuto che
la presenza sul mercato di sufficienti varietà e tipologie di
prodotti a base di betaglucani (da orzo e/o avena) potesse
soddisfare questi 4 momenti/occasioni di assunzione durante la giornata (FDA § 101.81 Health claims: soluble fiber
from certain foods and risk of coronary heart disease (CHD);
iii) il livello di 3 grammi di betaglucani per porzione è di difficile raggiungimento utilizzando ingredienti naturalmente
ricchi o arricchiti in questi componenti come gli sfarinati
d’orzo e di avena (per problemi tecnologici dovuti alla riduzione dell’attidutine alla trasformazione e allo scadimento
sensoriale per l’aggiunta della materia prima non convenzionale (farina d’orzo e di avena); tale interpretazione premia un approccio meno etico e rispettoso del prodotto alimentare e del consumatore quale quello di addizionare
(34) Pareri EFSA “Scientific Opinion on the substantiation of health claims related to beta-glucans and maintenance of normal blood cholesterol concentrations and maintenance or achievement of a normal body weight”, EFSA Journal 2009; 7(9):1254, “Scientific Opinion
on the substantiation of a health claim related to oat betaglucan and lowering blood cholesterol and reduced risk of (coronary) heart
disease”, EFSA Journal 2010; 8(12):1885, “Scientific Opinion on the substantiation of a health claim related to barley beta-glucans and
lowering of blood cholesterol and reduced risk of (coronary) heart disease”, EFSA Journal 2011; 9(12):2470, “Scientific Opinion on the
substantiation of a health claim related to barley beta-glucans and lowering of blood cholesterol and reduced risk of (coronary) heart
disease”, EFSA Journal 2011; 9(12):2471.
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sostanze ottenute per sintesi od estratte chimicamente (non
più alimenti-alimentazione ma farmaci-nutraceutica).
L’approccio della fortificazione contrasta con il modello di
alimentazione mediterraneo favorendo i Paesi del nord
europa e penalizzando il sistema agricolo come produttore
di ingredienti ad alta valenza dietico-funzionale; iv) La
Commissione europea con il Regolamento (UE) n.
1160/2011 del 14 novembre 2011 (successivo ai provvedimenti AGCOM) concernente l’autorizzazione e il rifiuto
all’autorizzazione di determinate indicazioni sulla salute fornite sui prodotti alimentari e che si riferiscono alla riduzione
dei rischi di malattia in seguito alla domanda della
CreaNutrition AG, presentata a norma dell’art. 14, paragrafo 1, lettera a) del regolamento (CE) n. 1924/2006, e successivo parere dell’Autorità (EFSA) in merito all’indicazione
sulla salute riguardante gli effetti del beta-glucano contenuto nell’avena sulla riduzione del colesterolo nel sangue
(domanda EFSA-Q-2008-681, parere EFSA Journal
2010;8(12):1885) ha stabilito che per quanto riguarda il
beta-glucano dell’avena possa essere consentito il claim
salutistico sulla riduzione dei rischi di malattia “è stato dimostrato che il beta-glucano dell’avena abbassa/riduce il colesterolo nel sangue. L’ipercolesterolemia costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo di cardiopatie coronariche”.
Come condizioni d’uso dell’indicazione pone che “il consumatore va informato del fatto che l’effetto benefico si ottiene con l’assunzione quotidiana di 3g di beta-glucano dell’avena” e soprattutto che “l’indicazione può essere utilizzata per prodotti alimentari che forniscono almeno 1g di beta
glucano dell’avena per porzione quantificata.”
Sulla base di questa ultimo regolamento comunitario e delle
precedenti statuizioni dell’EFSA la pasta Colavita fornisce
un contributo per porzione 1,8 g/porzione significativamente superiore a quello indicato dalla FDA (0,75 g/porzione) e
soprattutto dal regolamento comunitario 1160/2011 (1,0
g/porzione) in grado di soddisfare più del 50% dell’assunzione raccomandata di betaglucani giornaliera. La differenza può essere pertanto conseguita facilmente con l’assunzione durante la giornata di altre alimenti ricchi in questi
componenti ormai ampiamenti diffusi nel panorama della
grande distribuzione organizzata GDO e non solo (cereali
da colazione, pasta, pane, biscotti, cereali perlati per minestre, snack, crackers etc).
Anche negli altri casi oggetto di attenzione di AGCM (Scotti,
Kellogg’s, Saiwa e Galbusera) la presenza dei betaglucani
per porzione raggiunge almeno il 25% della dose giornaliera fisiologicamente attiva, e nella maggior parte dei casi
anche la quantità indicata nel regolamento UE 1160/2011 di
1g betaglucani/porzione.
In riferimento agli ulteriori claims relativi all’efficacia di regolazione del funzionamento intestinale e del controllo del
peso e di contenimento della glicemia, anch’essi non sono
11
ritenuti legittimi. I primi due sono esclusi perché “con pareri
del 2009 e 2011 … [l’EFSA] ha espressamente escluso
l’esistenza di una correlazione di causa-effetto tra consumo
di betaglucani da avena/orzo e un sostanziale aumento del
senso di sazietà che conduca ad una riduzione dell’apporto
energetico e, quindi alla riduzione del peso corporeo. In
particolare, è stata esclusa la conferma scientifica del claim
che collegasse al consumo di fibre (intese come “all carbohydrate components occurring in foods that are non-digestible in the human small intestine”) un effetto, tra altri, di normale funzionalità intestinale”.
Riguardo agli effetti di contenimento e di tenuta sotto controllo della glicemia, l’EFSA ha recentemente35 pubblicato
un parere con cui ha validato scientificamente un claim specifico al riguardo che così recita: “il consumo di betaglucani
da avena e orzo contribuisce alla riduzione dell’innalzamento del glucosio dopo i pasti”. Tuttavia, l’indicazione, per
espressa previsione dell’Autorità alimentare europea, deve
essere corredata da una specifica condizione d’uso relativa
alla necessità che attraverso l’alimento proposto al consumatore si introducano a pasto “4g di beta-glucani per ogni
30g di carboidrati (pane/pasta) disponibili”.
Pertanto, sulla base di tali indicazioni dell’EFSA, l’AGCM
conclude con l’affermare che “è ben evidente, pertanto che,
a fronte di un dichiarato quantitativo di 1,8g di betaglucani
per 80g di pasta Su Colavita, il vanto salutistico di contenimento della glicemia risulta ingannevole”.
5.- Segue: Pasta Riso Scotti, Kellogs, Saiwa e Galbusera
Altra decisione AGCM36 relativa alla Pasta-riso Scotti risulta
essere interessante e si ricollega proprio alla comunicazione della quantità di betaglucani nella porzione. Il professionista in tale procedimento ha fatto effettuare uno studio in
cui si stabilisce che “una porzione di PastaRiso (75g di prodotto crudo)...apporta almeno il 25% (0,75g) della quantità
giornaliera di betaglucani consigliata per ridurre il colesterolo”. Più precisamente ed in base alle analisi eseguite ed ai
valori indicati in etichettatura nutrizionale (1,7g di betaglucani per 100g di prodotto), sarebbe dimostrato, a dire della
società, che il quantitativo dei polisaccaridi fornito da detta
porzione “risulta superiore ad un terzo della quantità di
betaglucani che EFSA raccomanda di consumare quotidianamente al fine di mantenere le normali concentrazioni di
colesterolo nel sangue”.
Inoltre, il professionista fa un ulteriore ragionamento di tipo
giuridico: “in assenza di un’effettiva e dettagliata regolamentazione comunitaria che individui quali claims nutrizionali possono essere utilizzati e in quali condizioni, non può
non farsi riferimento all’elenco dei claims riferiti a nutrienti
vari trasmesso dal Ministero italiano” a Bruxelles.
(35) EFSA Journal 2011; 9(6):2207.
(36) Il citato provvedimento n. 21851, Pastariso Scotti attiva-riduce il colesterolo.
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Sul primo rilievo l’AGCM ha ignorato le indicazioni della
FDA sul rapporto per porzione, ma ha considerato solo
quello generale dei 3g al giorno precisati dall’EFSA. Invero
si legge nel provvedimento, se “una porzione di PastaRiso
oppure 6-7 Risette Attive – pari, ciascuna, a 75g di prodotto crudo - reca, dichiaratamente, soltanto 0,75g di betaglucani, il consumo quotidiano degli alimenti reclamizzati –
che, di norma (e, magari, non costantemente) si attesta su
un’unica o al massimo due porzioni – non può certo assicurare quel fabbisogno giornaliero di almeno 3g, necessario in base al suddetto elenco di cui all’art. 13 del
Regolamento, al parere EFSA ed anche alle precedenti statuizioni della Food and Drug Administration americana - ad
ottenere il pur vantato effetto riduttivo sul colesterolo”.
Sul secondo rilievo, ossia sugli eventuali effetti giuridici del
provvedimento con cui l’autorità nazionale competente invia
le richieste di claims alla Commissione l’AGCM conferma la
logica incentrata esclusivamente sui lavori dell’EFSA per la
valutazione scientifica delle indicazioni sulla salute: “l’opinione tecnica dell’EFSA resta, comunque il riferimento più
puntuale al fine di accertare la correttezza – nel senso dell’adeguato fondamento scientifico - dei claim utilizzabili
dagli operatori alimentari e relativi al rapporto betaglucanicolesterolo: solo l’utilizzo del claim precisamente validato
può garantire i consumatori, dal punto di vista scientifico,
nelle scelte commerciali afferenti a prodotti alimentari”.
Tuttavia, si conferma (seppur implicitamente) in tale istruttoria il ruolo di gestore del rischio della Commissione: “in
attesa delle definitive determinazioni ufficiali della
Commissione ex 13 del Regolamento, non deve farsi univoco riferimento – a differenza di quanto sostenuto dal professionista – “all’elenco dei claims riferiti a nutrienti vari trasmesso dal Ministero italiano”: questi, infatti, fino alla loro
definitiva
approvazione,
mantengono
valore
di
proposte/richieste in attesa di ricevere validazione scientifica da parte dell’EFSA37. E allora, seguendo proprio tale
ragionamento dell’AGCM sul ruolo della Commissione,
appare fuor dubbio che quantomeno le porzioni della
PastaRiso Scotti, come anche per la Pasta Colavita, siano
conformi alla normativa comunitaria, superando quanto stabilito dal regolamento della Commissione 1160/2011 (ossia
almeno 1g di betaglucani per porzione), anche se tale limite non è ancora formalmente recepito dalla EFSA.
Analoga conclusione permane nelle altre decisione
dell’AGCM sui betaglucani d’avena. Ad esempio, nella
“Galbusera relativamente ai prodotti col cuore con betaglucani” il claim non precisava che l’alimento “aiuta a ridurre” il
colesterolo, ma più prudentemente si limitava ad indicare
nelle confenzioni e nella pubblicità che il prodotto “aiuta a
controllare” il colesterolo. Proprio perché l’EFSA, esplicitamente, nel parere adottato il 12 novembre 2010 e riguar-
12
dante il betaglucano da avena, ha ritenuto che “il seguente
wording sia conforme alle evidenze scientifiche: “Oat betaglucan (nella quantità minima di 3g/die) has been shown to
lower/reduce blood cholesterol. Blood cholesterol lowering
may reduce the risk of (coronary) hearth disease” [È stato
dimostrato che i betaglucani d’avena riducono il colesterolo. La riduzione del colesterolo può ridurre il rischio cardiovascolare]”.
Il ragionamento dell’operatore alimentare è che “vari studi
indicherebbero che possono essere significative, ai fini del
controllo dei livelli di colesterolo, anche quantità inferiori alla
soglia dei 3 g/die di betaglucani, che comunque è quella
indicata sulle confezioni dei propri prodotti. Del resto, se
una data quantità concorre a ridurre il colesterolo, sarebbe
sufficiente, secondo il professionista, una dose inferiore per
mantenerne costante il livello”. Inoltre, “quanto al contenuto
di betaglucani in una porzione di prodotto, il professionista
ha fatto presente che nel 2006 la FDA statunitense ha individuato in 0,75g il dosaggio minimo di betaglucani ai fini dell’utilizzo di claim evidenzianti i benefici dei betaglucani per
la salute”.
Precisazioni, queste dell’operatore alimentare, non considerate dall’AGCM, la quale considera solo il limite dei 3g
giornalieri come i limite che è necessario superare nella
porzione media per potersi avvalere della indicazione sulla
salute. Posizione confermata altresì nei procedimenti
“Kellogg’s optivita-con betaglucano riduce il colesterolo” e
“Saiwa oro cereacol”, in cui i “professionisti” si sono impegnati (in modo da evitare la sanzione pecuniaria che certamente sarebbe stata erogata) a togliere in tutte le forme di
presentazione dell’alimento ai consumatori ogni tipo di collegamento tra i betaglucani presenti nel prodotto e la riduzione del colesterolo.
6.- Conclusioni
I reiterati provvedimenti dell’AGCM sui prodotti contenenti
betaglucani sembrerebbero rafforzare le tesi dubitative
sulla corretta interpretazione e sul ruolo attuale della normativa europea sulla sicurezza alimentare. Come appare
chiaro, la struttura di preservazione della salute dei cittadini comunitari si incentra basicamente sui pareri dell’EFSA.
L’arbitro sembrerebbe non essere più il consumatore, ma
l’autorità tecnica (l’EFSA) e l’autorità che dovrebbe garantire la (libera) concorrenza sul mercato (nel nostro ordinamento l’AGCM), che tutto filtrano, tutto discernono. Questa
potrebbe essere un’esigenza delle società dei consumi di
massa, che necessita di scelte celeri, neutre (sotto il profilo
istituzionale), soprattutto strategicamente indirizzate a evolvere il mercato dei prodotti. Ma persiste il dubbio che nel
(37) L’assunto è supportato da quanto espressamente precisato dal Ministero della Salute nella circolare n. 5247 del 15 marzo 2008,
secondo cui “la lista trasmessa alla Commissione Europea ha il significato di una raccolta di indicazioni da sottoporre alla valutazione
scientifica e non di indicazioni già autorizzate”.
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governo (iper) efficiente delle (eventuali) emergenze alimentari si siano trascurati o sottovalutati alcuni aspetti istituzionali.
Come precisato, “la produzione di massa di beni alimentari
e la necessità di tutelare il consumatore fanno assumere
all’elemento tecnico-scientifico un ruolo centrale e diffusamente “invasivo” nel sistema della sicurezza alimentare, al
punto che si può riconoscere il passaggio dalla rilevanza
del dato tecnico, rappresentato dalla “natura delle cose”, al
primato della tecnica, la quale, peraltro, per sua natura,
ignora gli effetti asimmetrici che, sul piano economico e
sociale, da essa possono derivare, ancorché in nome del
(giusto) valore da attribuire alla sicurezza alimentare medesima”38.
Forse è possibile ipotizzare un passaggio ulteriore per cercare di ridurre tali effetti asimmetrici, in modo da riportare le
(reali) esigenze umane al centro delle regole: dovrebbe
essere superata l’unicità, nel senso della mancanza di pluralità, del dato tecnico, di carenza di confronto verso l’esterno. Non è detto che tutti (ossia tutti i tecnici dell’alimentazione e della salute) siano concordi nel ritenere che solo 3g al
giorno di betaglucani garantiscano benefici per i cittadini
(come, invece, appare convinta l’AGCM). Se si tratta di elementi tecnici che hanno margini di discrezionalità, il consumatore dovrebbe conoscerli, proprio per garantirgli scelte
consapevoli. Per eludere che la tecnica possa essere strumentalizzata per ridurre la concorrenza, la libertà di impre-
13
sa e di ricerca o per favorire territori o operatori rispetto ad
altri, insomma per evitare di dare ragione a George Orwell.
Il rispetto e la tutela del consumatore ma anche dell’alimento devono essere al centro dell’attenzione: l’etica e la sostenibilità ambientale nella produzione di alimenti devono
essere il punto di arrivo di un processo complesso che vede
coinvolto innanzitutto il cittadino, i suoi rappresentanti (i
legislatori) e i suoi garanti sul mercato (le autorità o le agenzie che nei vari paesi membri dovrebbero consentirgli scelte consapevoli).
ABSTRACT
The work analyzes the EU legislation about Nutrition and
Health Claims and the regulatory system concerning the
functional products, with a specific focus on foods (pasta
and biscuits) in which there is a presence of beta-glucans.
In particular, the authors studied in depht the Regulation
(EC) No 1924/2006 of the European Parliament and of the
Council of 20 December 2006, the specific conditions of
health claims and recent decisions of the AGCM (Autorità
Garante della Concorrenza e del Mercato) in which the
Authority has rejected specific health claims related to betaglucans and maintenance of normal blood cholesterol concentrations and maintenance or achievement of a normal
body weight.
(38) F. Adornato, voce Autorità alimentare per la sicurezza alimentare, cit.
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Il Convegno di Viterbo del 2-3 dicembre 2011
Controlli, certificazioni, responsabilità - II
Sicurezze e responsabilità
in tempi di crisi
Mariachiara Tallacchini
1.- Il diritto nella società della conoscenza
Il dispiegamento sociale della scienza e il venir meno di una
netta separazione tra il laboratorio e il mondo esterno – dal
momento che molte tecnologie possono essere testate solo
nell’ambiente-, hanno investito diritto e politica di un ruolo
inedito, che consiste nel farne i regolatori/decisori non solo
delle attività della scienza, ma dello stesso sapere scientifico. Legge e misure di policy assumono in quantità e in
ambiti crescenti i contenuti delle scienze, e svolgono una
funzione di validazione nei confronti del sapere scientifico,
stabilendo quali conoscenze devono essere ritenute attendibili e legittimamente produttive di effetti nel sociale.
Le riflessioni su scienza-tecnologia, diritto e politica sono
state per molto tempo caratterizzate da un prevalente
approccio tecnicistico, in cui si mescolano epistemologia
dell’oggettività e ideologia della reciproca neutralità tra i
sistemi coinvolti. Questa visione, peraltro, ha una lunga storia, che data da molto prima che scienza e sistemi normativi entrassero in relazione diretta. A partire dalle origini del
pensiero moderno, la riflessione filosofica ha individuato
nello statuto della scienza le basi di neutralità, oggettività e
certezza che sembravano irrimediabilmente assenti nei
sistemi politici e giuridici. Dalle costruzioni logiche dei giuristi all’uso politico della democraticità intrinseca della comunità scientifica, la possibilità privilegiata che il metodo della
scienza ha offerto ai saperi e alle discipline sociali per
emanciparsi dai giudizi di valore e dalle opinioni soggettive
è stato esplorato in ogni direzione.
Tale concezione si è accompagnata a una sostanziale astoricità e astrattezza nel modo di guardare sia alla scienza
che al diritto. Mescolando (neo)positivismo e giuspositivismo, diritto e politica hanno considerato la scienza sia un
referente metodologico non eguagliabile sia un sistema
separato all’interno della società. Questo atteggiamento ha
condizionato anche la regolazione delle attività e dei prodotti scientifici.
Poiché la scienza è considerata come un’istituzione sociale
indipendente, che determina con criteri oggettivi le conoscenze da ritenersi valide in una data situazione, le attività
normative volte a regolamentare la scienza sono pensate
essenzialmente come attività di normazione tecnica, destinate a recepire acriticamente conoscenze la cui validazione
è garantita da un sistema e da metodi estranei a quelli elaborati per le regole della convivenza sociale.
Il carattere probabilistico delle leggi scientifiche e la più
generale incertezza che sempre circonda l’implementazione sociale delle nuove tecnologie è stata all’origine di prospettive di policy diverse nei contesti normativi statunitense
ed europeo. In ambito europeo, pur nella coesistenza di
molteplici modelli di science policy, le riflessioni sull’incertezza sono state all’origine, anche nel settore della sicurezza alimentare, di nuovi strumenti giuridici che collegano l’allocazione delle conoscenze rilevanti a forme differenziate di
responsabilità rispetto alle conoscenze medesime o alle
loro conseguenze. In tali nuove forme di responsabilità si
mescolano approcci innovativi1 e soluzioni che ripropongono in nuova veste il modello della certezza e dell’oggettività della scienza e dei suoi esperti.
“Prendere sul serio” la società della conoscenza e il ruolo
dei cittadini europei2 significa approfondire prospettive di
ricerca epistemica, di valorizzazione di tutta la conoscenza
rilevante e di riforma democratica3 per ora più evocate che
praticate dalle istituzioni comunitarie4.
2.- Dalla “repubblica della scienza” alla scienza socialmente regolata, dalla certezza alla probabilità
La comunità scientifica come modello ideale di società
Nel modello di rapporto tra scienza e policy incorporato
dalla concezione “moderna” della scienza5, il fondamento
della “verità” che la scienza comunica ai sistemi normativi
(1) F. Albisinni, Controlli, certificazioni, responsabilità tra pubblico e privato, tra domestico e globale, Convegno AIDA, Viterbo, 2-3 dicembre 2011, http://www.aida-ifla.it/allegati/File/CONVEGNO%20AIDA/ALBISINNI %20ABSTRACT.pdf.
(2) B. Wynne et Al., Taking European Knowledge Society Seriously, Brussels, European Commission, 2007.
(3) K. Siune et Al., Challenging Futures of Science in Society - Emerging trends and cutting-edge issues. Report of the MASIS Expert
Group, Brussels, 2009, ftp://ftp.cordis.europa.eu/pub/fp7/sis/docs/sis_masis_ report_en.pdf (sito visitato nel febbraio 2012).
(4) A. Majone, Europe as the Would-be World Power. The EU at Fifty, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2009.
(5) S. Funtowicz, Modelli di scienza e policy in Europa, in S. Rodotà e M. Tallacchini (a cura di), Trattato di Biodiritto, Vol. I, Ambito e fonti
del biodiritto, Giuffrè, Milano 2010, 533-551.
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non riguarda immediatamente la dimensione di validità del
sapere, che non è mai oggetto esplicito di discussione, ma
la sua credibilità etica: una credibilità essenzialmente connessa all’eticità interna alla comunità scientifica.
La razionalità della scienza sta dietro e giustifica i modelli di
società liberal-democratica; la comunità scientifica si è
offerta come modello democratico di convivenza per la
comunità sociale e politica, ma al tempo stesso si propone
anche come modello di società apolitica, svincolata dalle
regole che valgono per la società.
L’immagine che la comunità scientifica ha trasmesso di sé,
e che ancora riemerge, è l’ideale della “repubblica della
scienza”, un ideale che, a partire da Bacone, giunge intatto
alle descrizioni di Michael Polanyi e Robert Merton:6 gli
scienziati compongono una perfetta comunità di pari grado
(peers), che si autoregola attraverso conoscenze condivise
e liberamente discusse, in assenza di meccanismi coercitivi e di forme di autorità diverse dalla conoscenza stessa.
La scienza, che non riconosce autorità superiori, esterne a
sé per quanto riguarda la validità delle conoscenze scientifiche medesime, gode di una naturale autorità nei confronti
della società. Tale autorità rispetto al sapere nasconde di
fatto un preciso potere: il potere di non permettere alla
società di discutere quel sapere.
La struttura della comunità scientifica si lega fortemente alla
natura delle conoscenze che in essa circolano. Tali conoscenze sono quelle degli addetti ai lavori, non accessibili ai
non-scienziati, ai non-esperti.
La natura esclusiva del sapere scientifico è peraltro la premessa del doppio carattere non-democratico dei sempre
più diffusi comitati di esperti (ivi compresi i comitati di bioetica): non-democratici perché sovente chiusi alla partecipazione del pubblico; non-democratici perché non funzionanti
in base a procedure di decisione pluralistica. I comitati
scientifici, infatti, non solo molto raramente includono nonesperti, ma esprimono decisioni giustificate dall’accordo
circa un sapere condiviso –dal momento che la verità non
ha bisogno di consenso.
Inoltre, nell’immagine idealizzata della scienza che Polanyi
e Merton proponevano negli anni Cinquanta – per riaffermarne il valore proprio quando la fiducia del pubblico nella
comunità scientifica cominciava a mostrare segni di crisi –
validità ed eticità della conoscenza scientifica sono indicati
come un binomio indissolubile. La validità della scienza è
15
parte di un ethos che, nel dare corpo al metodo scientifico,
forgia anche l’integrità morale degli scienziati7.
L’intrinseca eticità della comunità scientifica ha rappresentato una delle ragioni più importanti per esimere la scienza
dalle garanzie giuridico-politiche previste per altri poteri.
Validità delle conoscenze, moralità dei soggetti coinvolti ed
eticità (versus politicità) del metodo decisionale si saldano
in una prospettiva che veicola come ‘inferiori’ le procedure
e le garanzie giuridiche la cui storia, come si è detto, è stata
in gran parte segnata dal rincorrere la perfezione del metodo scientifico.
Il modello della indiscutibilità (esterna) del sapere scientifico e della comunità di esperti come comunità apolitica è
transitato, dal funzionamento interno al sistema-scienza,
alla policy e al diritto science-based8, vale a dire a una politica della scienza e dell’uso del linguaggio scientifico come
estranei e inattaccabili dal punto di vista delle scienze
sociali e dei linguaggi normativi. E ciò è di fatto accaduto
quando ormai tanto le procedure di comitato quanto la figura dell’esperto erano ormai al centro di critiche e revisioni.
Le politiche dell’incertezza
La crescente dimensione di incertezza del sapere scientifico e i potenziali rischi che ne derivano alla società sono
stati gli elementi costitutivi della problematizzazione delle
politiche della scienza9.
Con l’espressione ‘incertezza della scienza’ si fa allusione a
varie forme di indeterminazione del sapere in campo scientifico: la complessità delle conoscenze, la mancanza o l’insufficienza di dati, l’imprevedibilità degli esiti, il carattere
stocastico delle previsioni in molti settori di indagine naturalistica10. L’incertezza intrinseca del sapere scientifico contemporaneo non dipende unicamente dall’aumento delle
situazioni di rischio o imprevedibilità connesse al procedere
della conoscenza, ma dall’intrinseca incompiutezza e indeterminazione della scienza rispetto alla necessità di definizione delle scelte sociali, delle politiche pubbliche, delle
decisioni giuridiche.
Già alla metà degli anni ottanta il filosofo della scienza Ian
Hacking osservava che la centralità epistemica acquisita
dall’ignoranza in relazione all’applicazione delle scienze, in
particolare nella valutazione dei rischi, non era sostenuta da
(6) Cfr. M. Polanyi, The Republic of Science, in Minerva, 1962, I, 54-73; R. Merton, Science and Democratic Social Structure, in Social
Theory and Social Structure, New York, Free Press, 1968, 604-615.
(7) R.Merton, Science and Democratic Social Structure, cit., 613.
(8) B.Wynne, Expert Discourses of Risk and Ethics on Genetically Manipulated Organisms: the Weaving of Public Alienation, in M.
Tallacchini – R. Doubleday (a cura di), Politica della scienza e diritto: il rapporto tra istituzioni, esperti e pubblico nelle biotecnologie,
Politeia, n. 62, 2001, 51-76.
(9) H.Nowotny, P.Scott, M. Gibbons, Rethinking Science: Knowledge and the Public in an Age of Uncertainty, Polity Press, London 2001.
(10) B. Wynne, Uncertainty and Environmental Learning: Reconceiving Science and Policy in the Preventative Paradigm, “Global
Environmental Change” 1992, June, pp.111-127. J.R. Ravetz (ed.), Special Issue: Post-Normal Science, “Futures” 1999, 31; S.
Funtowicz, Post-Normal Science. Science and Governance under Conditions of Complexity, in M. Tallacchini, R. Doubleday (a cura di),
Politica della scienza e diritto: il rapporto tra istituzioni, esperti e pubblico nelle biotecnologie, “Politeia” 2001, XVII, 62, pp. 77-85.
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un’adeguata riflessione sul suo statuto epistemico e ciò è
diventato sempre più evidente nelle “lezioni tardive” – dal
titolo di un rapporto della European Environmental Agency
che esplora i modi per prevenire i danni che derivano da
applicazioni tecnologiche malaccorte e troppo rapide – che
le società contemporanee e i loro ordinamenti hanno dovuto apprendere. Le lezioni tardive sono i danni, talora catastrofici (BSE, asbesto, etc.), di cui si sono tempestivamente
intraviste le potenziali avvisaglie di rischio; ma tali moniti
sono stati trascurati perché non sufficientemente supportati
da evidenze scientifiche, che sono poi giunte, sovente, tardive. Si descrivono nella letteratura sulle politiche e il diritto
della scienza quattro diverse forme di incertezza: rischio,
incertezza in senso proprio, ignoranza e indeterminazione.
Il diritto ha così sviluppato un proprio linguaggio per riferirsi
e trattare l’incertezza della tecnoscienza da implementare e
regolare socialmente. Si parla di rischio quando le variabili
caratterizzanti un problema sono conosciute e la probabilità rispettiva di esiti differenti, positivi e negativi, è quantificata. L’incertezza è la condizione in cui, pur essendo noti i
parametri di un sistema, l’incidenza quantitativa dei fattori in
gioco non è nota, e dunque si ignora la probabilità di un
evento. Nell’ignoranza manca o è incompleta la conoscenza delle variabili rilevanti, e manca quindi ogni possibilità di
quantificazione. L’indeterminazione, infine, è quella particolare incertezza che si produce nel rapporto tra esseri umani
e sistemi tecnologici.
In tale quadro hanno preso forma i costrutti giuridici e di
policy della valutazione del rischio e del principio di precauzione –, attraverso i quali si può seguire l’evoluzione degli
intrecci tra scienza e diritto, e le divisioni tra ordinamenti
giuridici e politiche della scienza cui tali scelte hanno condotto.
La valutazione del rischio rappresenta il primo impegno critico del diritto nei confronti della scienza, il segno di un primo confronto tra saperi e interessi diversi, di cui il diritto è
chiamato a operare un’oggettiva composizione. L’approccio precauzionale – teoricamente definito nel diritto internazionale al Principio 15 della Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo (1992) e successivamente elaborato a
più riprese nel diritto comunitario – consiste invece nell’affermazione della doverosità di un intervento preventivo,
pur in assenza di evidenza scientifica, laddove si prospetti
un possibile danno alla salute o all’ambiente.
Valutazione del rischio e principio di precauzione sono certamente accomunati dal fatto di comportare sempre un’anticipazione della soglia di rilevanza di fenomeni potenzialmente pericolosi connessi a nuovi prodotti o attività tecnoscientifiche: essi traducono l’esigenza di rappresentare
anticipatamente, e dunque di scongiurare tempestivamente, eventi potenzialmente dannosi, in particolare quando la
16
probabilità e l’entità del danno non abbiano contorni netti,
ma appaiano gravi o irreversibili.
In altri termini mentre la valutazione del rischio non tratta in
modo specifico l’incertezza, che viene assimilata al rischio
calcolabile, il principio di precauzione non è neutrale nei
confronti dell’incertezza, ma mostra un preciso orientamento a favore della sicurezza dei cittaini.
Ma se la regolazione della scienza è un’esigenza condivisa
a livello internazionale, i concreti assetti con cui scienza,
istituzioni, industria e società civile interagiscono nei diversi contesti normativi sono molteplici. Lo sviluppo e il consolidamento delle nuove tecnologie nei differenti ordinamenti
non sono avvenuti indipendentemente da preesistenti
assetti di tipo tecnoscientifico e sociopolitico, ma ne sono
stati condizionati, influendo poi sulla loro evoluzione successiva. In altri termini, scienza e policy si trovano in un
intreccio di legami di produzione reciproca (o co-produzione) che rende gli specifici contesti locali peculiari, tra loro
non riducibili e dipendenti da più ampie concezioni della
scienza, del diritto e della politica11.
Nella distanza che separa valutazione di impatto e principio
di precauzione si articola in modi diversi la funzione di integrazione e mediazione critica della policy rispetto al sapere
scientifico, divenuto il motore fondamentale dei cambiamenti nelle società knowledge-based. Il medesimo sapere
scientifico può giustificare scelte di policy opposte, come è
accaduto, per esempio, nelle politiche degli OGM12.
Questa distanza nel concepire e nel rispondere all’incertezza ha separato, e malgrado tutto ancora separa, le epistemologie di Unione Europea e Stati Uniti rispetto all’implementazione di nuove tecnologie.
L’elemento di diversità apparentemente più evidente ed
immediato sembra riguardare il carattere maggiormente
science-based, più rigorosamente e oggettivamente informato da fatti e conoscenze scientifici, della regolazione
della scienza negli Stati Uniti. I protocolli procedurali e gli
standard delle agenzie federali statunitensi (come, per
esempio, la FDA) hanno rappresentato e in parte ancora
rappresentano un modello di rigore e serietà.
Importanti studi hanno mostrato la reale complessità delle
politiche science-based che, dietro una facciata di oggettività, sono percorse da complesse attività di mediazione e
negoziazione dei saperi. Le nomine e i pareri degli esperti,
pur ufficialmente dichiarati neutrali, si rivelano a un’analisi
attenta sempre intimamente legati all’assunzione di particolari premesse e valutazioni, ed inscindibili da esse13.
Ciò che si può dire è che, in generale, gli specifici immaginari e narrazioni retoriche statunitensi nella giustificazione e
legittimazione delle politiche basate sulla scienza (a livello
governativo, nelle Agenzie federali e nella ricerca) poggia in
larga parte su una visione positivistica del sapere, che si
(11) B. Wynne et Al., Taking European Knowledge Society Seriously, cit.
(12) S. Jasanoff, Designs on Nature: Science and democracy in Europe and the United States, Princeton NJ, Princeton University Press
2005 (ed. it. Fabbriche della natura: biotecnologie e democrazia, il Saggiatore, Milano 2008).
(13) S. Jasanoff, The Fifth Branch. Science Advisers as Policymakers, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1990.
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manifesta esplicitamente in due posizioni. Per quanto riguarda la scienza incerta, l’approccio science-based riconosce
rilevanza all’incertezza solo quando e in quanto quantificabile, cioè riconducibile al rischio; mentre tende a qualificare
l’incertezza non calcolabile come assenza di rischio14.
Sul fronte della visione generale del rapporto tra scienza e
policy, poi, il modello più accettato è ciò che Aaron Wildafsky
ha sintetizzato nell’espressione “science speaks truth to
power”:15 la scienza porge la sua verità neutrale al potere,
mantenendosi istituzionalmente distinta e separata da esso.
Entrambi questi elementi sono stati storicamente elaborati,
e sono poi rimasti pressoché immodificati, da un famoso
rapporto del National Research Council pubblicato nel 1983:
il cosiddetto Red Book, dedicato alla valutazione dell’esposizione a sostanze tossiche in relazione all’insorgenza di
tumori.16 Il documento muoveva dall’intento di individuare il
miglior meccanismo istituzionale per la collaborazione tra
scienza e governo, in modo da assicurare che la regolazione si fondi sulla conoscenza scientifica più affidabile.
A tal fine nel Red Book sono teorizzati e costruiti risk assessment e risk management come due realtà distinte. Il risk
assessment rappresenta la base fattuale per definire gli
effetti prodotti sulla salute umana dall’esposizione a condizioni e materiali pericolosi; il risk assessment è invece il
processo di valutazione delle alternative di policy e di selezione delle azioni di regolazione più appropriate, che integra i risultati del risk assessment con elementi sociali, economici e politici per giungere a una decisione.
Tale divisione ha percorso tutte le politiche della scienza
negli Stati Uniti ed è poi approdata anche in Europa17.
Pur essendo stata profondamente influenzata dai caratteri
della science policy statunitense, di cui rivela taluni tratti,
l’Europa comunitaria si è trovata nella necessità storica e politica di elaborare modelli parzialmente differenti. In Europa i
rapporti tra scienza e società non hanno solo prodotto un
modo diverso di intendere la politica della scienza, ma anche
un nuovo modo di pensare la cittadinanza e il ruolo dei cittadini. Il carattere innovativo della riflessione europea non è
solo una risposta pragmatica all’esigenza politica di creare
17
processi decisionali sufficientemente omogenei e standardizzati in questioni scientifico-tecnologiche caratterizzate da elevata incertezza. Palese è anche lo sforzo teorico di elaborare una specifica epistemologia in cui possano riconoscersi la
politica e la regolazione della scienza in Europa.
Presupposto essenziale di tale concezione è che solo un
atteggiamento consapevolmente valutativo delle direzioni
dell’evoluzione scientifica e delle sue implicazioni possa
fondare una società libera – ciò che spiega anche la centralità, pur non priva di ambiguità18, che l’etica ha acquisito in
relazione alle politiche della scienza europee.
La riflessione etica in Europa si è caricata di una simbolica
valenza “civica” nel momento di transizione dall’Europa
economica all’Unione europea. La volontà costante di integrare scienza e valori rappresenta il tratto più caratteristico
dell’identità epistemica europea, la peculiare cifra della politica e del diritto della scienza in Europa. Tale cifra è riconoscibile, per esempio, nel modo in cui le valutazioni assiologiche entrano nella definizione di incertezza e ne condizionano il trattamento normativo (per esempio nel principio di
precauzione); nei limiti etici posti ai diritti di proprietà intellettuale in campo biotecnologico, dove vigono espliciti divieti di brevettabilità e una generale clausola di contrarietà
all’ordine pubblico e alla moralità (art.6, Direttiva 44/1998).
Infine, l’identità epistemica europea non è separabile dall’identità politica, dove l’appello ai valori comuni dei cittadini europei ha svolto una funzione surrogatoria rispetto
all’esercizio diretto, da parte dei cittadini, dei propri diritti nel
contesto comunitario19.
All’inizio di questo secolo, le profonde scosse connesse ad
emergenze sanitarie o alimentari, e legate alla scarsa competenza di istituzioni ed esperti nel regolare la scienza
hanno prodotto una crisi di fiducia tra cittadini e istituzioni. I
cittadini, infatti, sono apparsi consapevoli – al di là dei tentativi di ridurre il disagio civico ad una semplice questione di
ignoranza della scienza - degli errori compiuti a livello sia
nazionale sia comunitario.
All’inizio del ventunesimo secolo, la Commissione Europea
si è mossa in due direzioni per superare questa crisi20. Il
(14) Se nella questione OGM (o nel caso dell’ormone della crescita nelle carni) la contrapposizione tra i termini del discorso americano
– risk and sound science— ed europeo –precaution— è stato netto, la situazione in altri settori è più complessa. Le battaglie per regolamentare taluni rischi sono partite, o sono state vinte, prima negli Stati Uniti (fumo da sigaretta), e taluni prodotti (come la lista di sostanze tossiche della Proposition 65, the Safe Drinking Water and Toxic Enforcement Act californiana del 1986) sono regolati, almeno in alcuni stati, in modo più restrittivo oltreoceano che non in Europa.
(15) A.Wildavsky, Speaking Truth to Power, Boston, Little Brown and Co., 1979.
(16) National Research Council, Committee on the Institutional Means for Assessment of Risks to Public Health, Risk Assessment in the
Federal Government: Managing the Process, NAP, Washington DC 1983.
(17) Negli ultimi anni la Commissione europea ha intrapreso numerose attività di “Improvement of Risk Assessment in View of the Needs
of Risk Managers”, come le “Rules of Procedure of the Scientific Committees on Consumer Safety, Health and Environmental Risks,
Emerging and Newly Identified Health Risks”, 18/12/2009, http://ec.europa.eu/health/scientific_committees/docs/
rules_procedure_en.pdf (sito visitato nel febbraio 2012).
(18) M. Tallacchini, Governing by Values. EU Ethics: Soft Tool, Hard Effects, “Minerva” 2009, 47, 281–306.
(19) S. Funtowicz, I. Shepherd, D. Wilkinson, J.R. Ravetz, Science and Governance in the European Union: a contribution to the debate,
in Science and Public Policy, 2000, vol.27, 5, 327-336.
(20) M. Tallacchini, La nascita della politica della scienza contemporanea, in S. Rodotà e M. Tallacchini (a cura di), Trattato di Biodiritto,
Vol. I, Ambito e fonti del biodiritto, Giuffrè, Milano 2010, 53-77.
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primo intervento è consistito nella pubblicazione, nel 2001,
del Libro Bianco sulla governance europea21, dove il termine governance22, allude a un sistema di governo che ricerchi attivamente, tra l’altro, il concreto coinvolgimento dei cittadini, così da superare quel deficit di democrazia di cui le
istituzioni comunitarie sono state accusate.
Il secondo ha riguardato la predisposizione, nel 2002, di un
Piano di azione per la Scienza e la Società23 (Science and
Society, e successivamente Science in Society)24 per avvicinare i cittadini al sapere scientifico e al governo della
scienza. La trasformazione ritenuta auspicabile in tale settore consiste nella “democratizzazione della scienza”:
segnatamente, democratizzazione dell’expertise scientifico
e partecipazione dei cittadini25.
Questo percorso avrebbe potuto interpretare la crisi come la
necessità di instaurare tavoli decisionali diversi nelle questioni di incertezza scientifica. L’Action Plan for Science and
Society, invece, è stato prevalentemente pensato a sostegno
della “strategia di Lisbona”: fare dell’Unione europea, oggi
pubblicizzata come Innovation Union26, la più dinamica e
competitiva economia knowledge-based al mondo. Il documento fornisce una lettura riduttiva della sfiducia dei cittadini, suggerendo che individui meglio informati scientificamente si mostrerebbero più fiduciosi nei confronti degli scienziati – secondo la prospettiva definita come deficit model.
La cosiddetta knowledge-based society è stata ed è in misura crescente costruita, in particolare dopo la crisi economica, principalmente come il necessario complemento della
knowledge-based economy, una strategia retorica funzionale ad un modello di crescita e di competitività economica.
Contro questa lettura un po’ semplicistica della relazione tra
scienza e società si è osservato che non è vero che i cittadini siano sospettosi nei confronti della scienza in generale.
Piuttosto, se un atteggiamento di diffidenza esiste, esso è
selettivo e riguarda specifici settori scientifici, all’interno di
vaste aree di accettazione – e persino di entusiasmo.
Inoltre, non è vero che una maggiore conoscenza dei temi
si trasformi automaticamente in una diminuzione dei timori.
3.- Crisi” come normalità
Già nel 1984 Charles Perrow27 aveva mostrato con grande
18
chiarezza, dopo l’incidente nucleare di Three Mile Island,
che in sistemi complessi (tecnologici o sociali), le cui parti
funzionano in stretta correlazione, gli incidenti che ne possono derivare vanno considerati come “incidenti normali”
(normal accidents), dal momento che i diversi possibili guasti o malfunzionamenti di singoli elementi possono interagire in combinazioni imprevedibili.
All’inizio degli anni novanta Ravetz e Funtowicz avevano
introdotto, in relazione alle sfide di policy poste dalla scienza incerta, l’espressione post-normal science, come la condizione in cui “typically facts are uncertain, values in dispute, stakes high, and decisions urgent”28.
Il concetto, ormai divenuto classico, portava all’attenzione
le situazioni in cui diritto e policy sono chiamati ad integrare il sapere tecnico-scientifico, risultando i dati scientifici
incerti, insufficienti o suscettibili di interpretazioni fortemente divergenti. E rivelava che le condizioni apparentemente
“anomale” della scienza post-normale – rispetto alla scienza normale kuhniana – rappresentano oggi la realtà normale dei rapporti tra scienza e società, le situazioni quotidiane
in cui rischi largamente non-prevedibili o non-controllabili
devono entrare nella regolazione della scienza.
L’incertezza (scientifica e sociale) diventa così costitutiva:
non una dimensione eventuale e temporanea, ma la condizione strutturale del rapporto tra scienza e società, perché
ad essere incerti non sono solo i fatti o i valori, ma il concreto combinarsi di tutte le circostanze.
Ciò significa che le scelte operate dai decisori pubblici in
tema di impatti ambientali, grandi opere, biotecnologie, biomedicina, contengono come evento “fisiologico”: la potenzialità e l’opportunità per un apprendimento collettivo, tanto
scientifico come politico, nel governo di società complesse.
L’incertezza, connaturale alla complessità, è normale ed è
piuttosto la negazione della sua normalità, la “normalizzazione” che ne tacita l’esistenza attraverso scelte autoritarie
o un uso improprio della politica, ad essere patologica.
La più recente riflessione sui rischi nelle nanotecnologie ha
spinto il concetto di incertezza oltre la precauzione. Secondo l’epistemologo Jean-Pierre Dupuy, il principio di precauzione, così come formulato nelle esistenti politiche internazionali, non coglie la vera nozione di incertezza; ed è questa mistificazione il vero pericolo negli attuali sviluppi delle
nanotecnologie e della biologia sintetica.
(21) Commission of The European Communities, European Governance. A White Paper, Brussels, 25.7.2001 COM(2001) 428 final.
(22) R.A.W. Rhodes, Understanding Governance. Policy Networks, Governance, Reflexivity and Accountability, Maidenhead, Open
University Press, 1997.
(23) Commission of The European Communities, Science and Society Action Plan, Luxembourg, Office for Official Publications of the
European Communities 2002.
(24) Dg Research and Technology Development, From science AND society to science IN society: towards a framework for ‘co-operative
research’, Brussels, February 2006.
(25) M. Tallacchini, Politica della scienza e diritto: epistemologia dell’identità europea, “Politeia” 2001, XVII, 62, 6-21.
(26) Sul concetto di Innovation Union si veda http://ec.europa.eu/research/innovation-union/index_ en.cfm (sito visitato nel febbraio 2012).
(27) C. Perrow, Normal Accidents: living with high-risk technologies, Princeton University Press, Princeton 1999 (New York 1984).
(28) S. Funtowicz J.R. Ravetz, A New Scientific Methodology for Global Environmental Issues, in R. Costanza (ed.), Ecological
Economics: The Science and Management of Sustainability, Columbia University Press, New York 1991, 137-152.
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L’introduzione della probabilità soggettiva in statistica ha
infatti consentito, a giudizio di Dupuy, di ridurre l’incertezza
all’idea di rischio quantificabile, dal momento che la probabilità non corrisponde più ad oggettive regolarità naturali,
bensì al grado di coerenza presente nelle scelte di un determinato agente. Così l’incertezza epistemica, costruita
come mancanza soggettiva di conoscenza, viene equiparata a un’incertezza ben diversa, vale a dire l’incertezza intrinseca di un fenomeno avente natura stocastica. Conseguentemente, il principio di precauzione è ridotto al rischio
come analisi costi-benefici.
Ma la nozione realmente in gioco di fronte alle tecnologie
emergenti è quella di incertezza intrinseca. Tale concetto
allude a condizioni di incomprimibilità informazionale, che è
all’origine della non-predittibilità dei fenomeni. Si tratta delle
situazioni in cui un processo complesso non può essere ulteriormente semplificato e ridotto, dal momento che esso costituisce la più semplice rappresentazione di se stesso. L’unico
modo per determinare il comportamento futuro di un simile
sistema consiste nel vedere come funzionerà una volta
avviato. Non esistono altre scorciatoie e l’incertezza è radicale29.
Questa situazione, peraltro, non deve necessariamente
essere interpretata come una condizione di impasse
rispetto alla ricerca e alle applicazioni tecnologiche, bensì
come un punto di partenza di consapevolezza epistemica
nell’individuazione delle politiche che possano ridurre gli
effetti inattesi. Infatti, se si rinuncia ad un suo dell’idea del
sapere scientifico come forma di rassicurazione per la
policy, allora l’inquadramento del problema si sposta dalla
negazione all’accettazione dell’incertezza, e alle conseguenze costruttive per le politiche della scienza che da ciò
derivano. Come Perrow indicava a proposito degli incidenti normali connaturati alla complessità delle tecnologie, i rischi non saranno mai eliminati dalle tecnologie ad
elevata pericolosità, ma smettendo di mettere sotto accusa le persone e i fattori sbagliati, eviteremo di aumentare
ancora di più i rischi e cominceremo ad individuare strategie di controllo più corrette.
19
4.- Le nuove responsabilità
La parola italiana “responsabilità” è stata finora impiegata
per ricondurre ad un unico termine una varietà di significati, di hard e soft law, relativi al “rispondere”30. Si è trattato del
tentativo di tradurre costrutti provenienti dal diritto e dalla
policy anglosassoni e privi, non solo di un corrispettivo linguistico italiano, ma anche di una tradizione e cultura istituzionali e civiche della responsabilità. Diversamente, i termini in lingua inglesi sono specificamente volti a connotare,
oltre alla dimensione compensativa e restitutiva rispetto ad
eventi di danno (liability), le dimensioni preventive del
rispondere, vale a dire il possesso delle capacità di intervento preventivo e proattivo atte ad evitare un danno (preventative responsibility); e l’idoneità soggettiva in termini di
preparazione professionale, assenza di conflitti di interesse,
qualità individuali (biografia personale e intellettuale) di chi
sia preposto a posizioni di responsabilità (accountability).
Alcune tra le misure più innovative nel rimodellare in modo
complesso e preventivo l’idea di responsabilità nel rapporto tra scienza, istituzioni e società sono state adottate da
recenti disposizioni europee sulla sicurezza (nel doppio
significato di safety e security) alimentare31. Si tratta di
norme che tendono ad abbinare conoscenza e responsabilità, collegando specifiche forme di responsabilizzazione o
responsabilità all’individuazione di soggetti in possesso di
adeguate conoscenze e della possibilità di controllare i
fenomeni oggetto di regolazione.
Due esempi interessanti e, per certi versi, contrapposti nel
panorama delle nuove geometrie della responsabilità sono
offerti dal Regolamento n. 765/2008 in materia di accreditamento nella vigilanza sulla commercializzazione dei prodotti (alimentari e non) immessi nel mercato europeo32 e dal
Regolamento (UE) n.1169/2011 del Parlamento europeo e
del Consiglio del 25 ottobre 2011 relativo alla fornitura di
informazioni sugli alimenti ai consumatori33.
Il Regolamento 765/2008 prevede l’istituzione di organismi
di certificazione nazionale, preposti alla valutazione di conformità per tutti i prodotti immessi nel mercato comunitario.
(29) J.P. Dupuy, Complexity and Uncertainty a Prudential Approach to Nanotechnology. European Commission, A Preliminary Risk
Analysis on the Basis of a Workshop Organized by the Health and Consumer Protection Directorate General of the European
Commission, in Brussels 1 – 2 March 2004, http://portal.unesco.org/ci/en/files/20003/11272944951Dupuy2.pdf/Dupuy2.pdf (sito visitato
nel febbraio 2012): ‘‘The key notion here is that of informational incompressibility, which is a form of essential unpredictability. In keeping with von Neumann’s intuitions on complexity, a complex process is defined today as one for which the simplest model is the process
itself. The only way to determine the future of the system is to run it: there are no shortcuts. This is a radical uncertainty’’.
(30) Cfr. M. Foddai, Responsabilità e soggettività, in S. Rodotà e M. Tallacchini (a cura di), Trattato di Biodiritto, Vol. I, Ambito e fonti del
biodiritto, Giuffrè, Milano 2010, 403-435.
(31) Cfr. L. Costato e F. Albisinni (eds), European Food Law, Cedam, Padova 2012.
(32) Regolamento (CE) n.765/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 luglio 2008 che pone norme in materia di accreditamento e vigilanza del mercato per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti e che abroga il regolamento (CEE) n.339/93
(33) Regolamento (UE) n.1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli
alimenti ai consumatori, che modifica i regolamenti (CE) n. 1924/2006 e (CE) n. 1925/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio e
abroga la direttiva 87/250/CEE della Commissione, la direttiva 90/496/CEE del Consiglio, la direttiva 1999/10/CE della Commissione, la
direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, le direttive 2002/67/CE e 2008/5/CE della Commissione e il regolamento
(CE) n. 608/2004 della Commissione.
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Tali organismi esperti, uno per Stato membro, sono volti a
garantire che ogni ordinamento nazionale abbia individuato un soggetto responsabile della certificazione dei prodotti
e competente a dialogare con gli altri soggetti della rete
europea. La certificazione intende garantire l’effettiva presenza dei requisiti per un alto livello di protezione di interessi pubblici quali “la salute e la sicurezza in generale, la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro, nonché la protezione
dei consumatori, la protezione dell’ambiente e la sicurezza
pubblica” (Considerando 1).
Il Regolamento 1169/2011, invece, ha riorganizzato tutti i
provvedimenti in tema di etichettatura degli alimenti, ricollegando alla corretta informazione sanitaria, economica,
ambientale, sociale ed etica, l’effettiva possibilità di garantire ai cittadini un elevato grado di tutela della salute. Infatti,
uno dei principi generali che la legislazione alimentare si
prefigge consiste nel “costituire una base per consentire ai
consumatori di compiere scelte consapevoli in relazione agli
alimenti che consumano e di prevenire qualunque pratica in
grado di indurre in errore il consumatore”. Il Regolamento,
peraltro, non si limita ad evocare la categoria dei consumatori, intendendo la questione dell’informazione alimentare
anche come un fattore di cittadinanza. La salute e il benessere dei cittadini, nonché la realizzazione dei loro interessi
sociali ed economici (Considerando 2) sono menzionati tra i
valori connessi alla sicurezza degli alimenti.
La doppia costruzione di alimenti sicuri e di cittadini capaci
di scelte alimentari responsabili dovrebbe unire in un legame di complementarità due tra gli elementi portanti di un
sistema alimentare efficiente. E ad un primo sguardo i due
provvedimenti sembrano proporre l’integrazione fra due
forme complementari di tutela: da un lato, le certificazioni
esperte che validano la conformità dovrebbero realizzare
un alto grado di sicurezza rispetto ai prodotti in circolazione; dall’altro, la piena implementazione del diritto all’informazione consente una forma di responsabilizzazione del
consumatore-cittadino.
Tuttavia, i criteri di costruzione della sicurezza nei due
ambiti girano intorno a premesse distanti. Ciò risulta anche
dal linguaggio utilizzato nei due provvedimenti. Mentre nel
Regolamento 765/2008 i termini di riferimento sono rappresentati dalla credibilità, fiducia e peer review tra organismi
di certificazione, nel Regolamento 1169/2011 il linguaggio è
piuttosto quello del diritto di informazione/dovere di informarsi, con la conseguente responsabilizzazione del cittadino rispetto alle sue “scelte” alimentari.
20
Fiducia e valutazione del rischio dominano il Regolamento
765/2008. Gli enti nazionali di accreditamento devono essere capaci di generare “il necessario livello di fiducia nei certificati di conformità” (Considerando 12), vale a dire di “accrescere la fiducia reciproca tra gli Stati membri quanto alla
competenza degli organismi di valutazione della conformità
e, conseguentemente, quanto alla validità dei certificati e dei
rapporti di prova da questi rilasciati” (Considerando 13). Gli
organismi nazionali di accreditamento si confrontano tra loro
secondo un “sistema di valutazione inter pares”, la modalità
di lavoro esistente all’interno delle comunità scientifiche.
In questo contesto di sapere condiviso dagli esperti, la decisione sul rischio di un prodotto “si fonda su un’adeguata
valutazione del rischio che tiene conto della natura del
rischio stesso e sulla probabilità che si materializzi” (Art.
20). Il sistema europeo delle allerte rapide34 viene richiamato laddove un rischio grave richieda un intervento rapido
(Art. 20).
Diritto all’informazione e scelte responsabili dei consumatori caratterizzano invece il Regolamento 1169/2011, che stabilisce un collegamento diretto tra elevato livello di tutela
della salute dei consumatori e diritto all’informazione
(Considerando 3). Il Regolamento rende anche obbligatoria
l’informazione sulla presenza nell’alimento di nanoparticelle35 — i cui rischi sono ancora largamente inesplorati – proponendo una propria definizione e inserendosi nel dibattito
ancora aperto sull’opportunità di una definizione normativa
di nanoparticella (Considerando 25).
Le due realtà della certificazione e della fornitura delle conoscenze adeguate ai cittadini, che potrebbero rappresentare due elementi potenzialmente correlabili, sussistono invece come realtà separate. Solo l’Art. 3.4 del Regolamento
sull’etichettatura precisa che “i cittadini e le parti interessate sono consultati in maniera aperta e trasparente, direttamente o attraverso organi rappresentativi, nel corso dell’elaborazione, della valutazione e della revisione della legislazione alimentare”. Ma il punto resta vago e isolato.
La prospettiva delle certificazioni rimane legata alla visione
della comunità scientifica di stampo mertoniano: “l’accreditamento trasparente”, recita il Regolamento 765/2008,
“garantendo il necessario livello di fiducia nei certificati di
conformità, dovrebbe essere considerato lo strumento preferito per dimostrare la competenza tecnica di tali organismi
da parte delle autorità pubbliche nazionali in tutta la
Comunità” (Considerando 12); il Regolamento 1169/2011
mette in campo i diritti dei consumatori/cittadini e ricerca “un
(34) Direttiva 2001/95/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 dicembre 2001 relativa alla sicurezza generale dei prodotti.
(35) Art. 2 t) «nanomateriale ingegnerizzato»: il materiale prodotto intenzionalmente e caratterizzato da una o più dimensioni dell’ordine
di 100 nm o inferiori, o che è composto di parti funzionali distinte, interne o in superficie, molte delle quali presentano una o più dimensioni dell’ordine di 100 nm o inferiori, compresi strutture, agglomerati o aggregati che possono avere dimensioni superiori all’ordine di
100 nm, ma che presentano proprietà caratteristiche della scala nanometrica.
Le proprietà caratteristiche della scala nanometrica comprendono:
i) le proprietà connesse all’elevata superficie specifica dei materiali considerati; e/o
ii) le proprietà fisico-chimiche che differiscono da quelle dello stesso materiale privo di caratteristiche nanometriche.
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livello elevato di protezione della salute e degli interessi dei
consumatori” fornendo loro “le basi per effettuare delle scelte consapevoli e per utilizzare gli alimenti in modo sicuro”.
Ma tra esperti e cittadini un vero dialogo ancora manca.
5.- Sicurezza e responsabilità: oltre la separazione tra
esperti e cittadini
Numerose strategie convergenti e capaci di reinquadrare le
crisi come normalità provengono e sono state suggerite da
studiosi di scienza e policy a partire da contesti tecnoscientifici anche molto distanti.
Collaborazione e divisione di responsabilita’ tra esperti e
non-esperti - In generale, le diverse strategie di governo
dell’incertezza si collocano nell’orizzonte che coniuga
scienza e democrazia attraverso l’acquisizione al tavolo
decisionale e la discussione trasparente di tutta la conoscenza rilevante ai fini di policy. Politiche più consapevoli
e riflessive possono fondarsi sull’ampliamento sia dell’acquisizione di expertise –tutta la conoscenza ‘rilevante’ e
non solo scientificamente valida in astratto— sia delle
modalità del processo decisionale. Questo approccio è
stato definito modello di partecipazione estesa (extended
participatory model)36. Da un lato si allarga la consultazione con gli scienziati e si amplia la nozione di esperto fino
a ricomprendere saperi e soggetti finora esclusi; dall’altro
si costruisce uno spazio istituzionale di discussione in cui
la scienza trovi forme di stabilizzazione sociale più criticamente e democraticamente vagliate, e in cui sia garantito
l’accesso dei cittadini alle informazioni e alle decisioni.37
Ciò comporta certamente una sfida intellettuale: accantonare la concezione secondo cui l’expertise consiste unicamente nel sistema autoreferenziale di validazione delle
conoscenze da parte di una comunità di pari grado, e
secondo cui la democrazia può esprimersi solo nel voto di
una maggioranza38.
Questa collaborazione tra esperti e non esperti sta configurando nuove concezioni della cittadinanza, ormai estesa,
21
come “cittadinanza scientifica”, anche alle decisioni pubbliche su questioni science-based39.
Dall’integrità alla accountability - L’ampliamento dell’expertise e delle conoscenze rilevanti per la policy implica che
tutti i saperi si debbano accreditare secondo modalità non
riconducibili unicamente all’appello alla validità della scienza. Se tradizionalmente – nel modello mertoniano – si è
fatto e si fa appello all’integrità degli scienziati o degli esperti come ad un elemento che è parte dell’ethocs della scienza, particolari contesti di science policy in cui il sapere
scientifico è oggetto di posizioni ideologiche e di interessi
economici in conflitto – come peraltro spesso avviene proprio nel settore agroalimentare – esigono standard più elevati di credibilità e accreditamento.
In tal senso, Sheila Jasanoff ha prospettato il concetto di
accountability come una questione composta di tre elementi in interazione: l’integrità del singolo scienziato; la credibilità della scienza, ben oltre il peer-review; la comunicazione
aperta e trasparente dei comitati40.
Legal preparedness come costruzione di saperi e relazioni
pronte per l’inaspettato - Il concetto di legal preparedness,
che è stato ampiamente utilizzato nell’ambito delle emergenze nella sanità pubblica a partire dagli anni novanta,
può rappresentare un elemento coerente con il modello di
partecipazione estesa.41 La nozione evoca la necessità di
predisporre anticipatamente un chiaro quadro normativo di
definizione dei poteri e doveri tale che i soggetti istituzionalmente coinvolti in un’emergenza siano in grado di muoversi con rapidità, coerenza e coordinamento reciproco attraverso saperi condivisi e legami di fiducia reciproca.
Inizialmente oggetto di una riflessione teorica tendente a giustificare un esercizio di autorità e una limitazione cospicua
dei diritti individuali in nome dello stato di pericolo, la legal
preparedness, beneficiando di una visione più diffusa della
conoscenza, sta ormai transitando verso una ridistribuzione
dei ruoli, la costruzione di un quadro di informazione, formazione e relazioni anticipate rispetto al verificarsi di una crisi,
alla diffusione “capacitante” dei saperi rilevanti tra i cittadini.
(36) S. Funtowicz, Modelli di scienza e policy in Europa, cit.
(37) Commission of The European Communities, European Governance. A White Paper, cit.
(38) A. Liberatore and S. Funtowicz (Guest Editors), Special issue on democratising expertise, expertising democracy, in (30) Science
and Public Policy, n. 3, 2003, 147: “If democracy is only seen as majority voting, and expertise as a self-referential system in which only
peers can recognise and judge each other, then clearly democratising expertise is a contradiction in terms. When such premises are
challenged, however, the contradiction disappears, while different issues still need to be addressed”.
(39) M. Leach, I. Scoones & B. Wynne (eds), Science and Citizens. Globalization & the Challenge of Engagement, Zed Books, LondonNew York, 2005.
(40) S. Jasanoff, Testing Time for Climate Science, “Science” 2010, Vol. 328, 7 May.
(41) A.D. Moulton, R.N. Gottfried, R.A. Goodman, A.M. Murphy, and R.D. Rawson, What is Public Health Legal Preparedness?, “Journal
of Law, Medicine & Ethics” 2003, 31, 672-683: “Public health legal preparedness” is a term born in the ferment, beginning in the late
1990s, that has led to unprecedented recognition of the essential role law plays in public health and, even more recently, in protecting
the public from terrorism and other potentially catastrophic health threats. The initial articulation of public health has not kept pace with
rapid evolution in the concept and in practical development of public health preparedness itself.‘ This poses the risk that legal preparedness may fall behind construction of general readiness in the public health system (...). Inadvertent results might include both negative
health impacts and infringement on individual rights” (672).
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In questa prospettiva, “l’essere sempre pronti per l’inaspettato” implica la predisposizione di una serie di misure di
policy preventive e proattive di lungo periodo, che precedono la crisi più che limitarsi unicamente a rispondervi. Si tratta, per esempio, di fornire previsioni probabilistiche al pubblico anche rispetto ad eventi caratterizzati da bassa probabilità; di iniziare e mantenere costante la comunicazione
con i cittadini per aumentarne la familiarità con le scienze e
gli esperti coinvolti; di ridurre l’impatto delle informazioni
infondate; di motivare la partecipazione del pubblico; di fornire conoscenze pratiche spendibili con competenza e sicurezza nel momento della crisi, etc…42
Ritrovare il posto della scienza nella società - Il sistema
delle certificazioni (standard, comunicazione, validazione)
rappresenta certamente una risposta alla complessità della
conoscenza, ma riflette anche una visione autoreferenziale
della comunità scientifica, che oggi esige una rivisitazione.
Le brevi riflessioni proposte sulle condizioni di incertezza e
crisi rispetto a una domanda sociale di sicurezza e responsabilità indicano che sono pensabili modalità più aperte e
integrate di certificazione e accreditamento, compiendo
qualche passo in avanti
nei rapporti tra scienza e società: la comunicazione bi-direzionale (two-ways communication) tra scienziati e cittadini,
l’educazione allo scambio dei linguaggi, l’integrazione tra
rappresentazione, valutazione e comunicazione dei problemi, le trasformazioni necessarie ad un uso attivo delle conoscenze.
Qual è il giusto posto per la scienza nella società? Oltre
mezzo secolo di teorie e pratiche di policy ha continuato e
continua a girare intorno a questo punto.
Le condotte corrette (sound) della scienza e della democrazia, ha osservato ancora Sheila Jasanoff, si fondano sui
medesimi valori. Si tratta della fedeltà alla ragione e all’argomentazione; della trasparenza sui criteri di giudizio e
decisione; dell’apertura alle critiche; dello scetticismo
rispetto ai valori dominanti ma indiscussi; della volontà di
22
dare spazio alle voci dissenzienti, valutandone la validità;
della disponibilità a riconoscere le incertezze; dell’atteggiamento critico di fronte alle autorità indiscusse; dell’attenzione ai problemi di legittimazione e giustizia; dell’equità nella
comunicazione43.
La consapevolezza del parallelismo tra apprendimento
nella scienza e nella democrazia è la via di rinnovamento di
teorie e pratiche nei dominii congiunti della conoscenza e
della politica.
ABSTRACT
Certainties and responsibilities in times of crisis
In democratic knowledge-based societies the reference to
scientific evidence as a source for objectivity and certainty
has become a major tool to make law and policy more reliable and legitimate. However, as unforeseen risk in connection with science-based policies (especially in the health
and food sector) can hardly be reduced and controlled, new
legal concepts to deal with uncertainty in science policy
have been shaped in different legal systems. The construction of a safe market both through certification bodies and
the right to information for responsible citizens framed by
Regulations 765/2008 and 1169/2011 belong to this theoretical framework.
After having presented the main characters of the US and
EU science policy, the paper argues in favor of a radical
approach to uncertainty as a normal condition. This approach encompasses democratizing policy-making processes
by assembling all relevant knowledge from citizens, and a
two-ways communications between experts and nonexperts. In order to rebuild citizens’ trust towards scientific
and political institutions, and to establish sound forms of
responsibility towards unexpected impacts of innovation,
new interactions between science and society should take
place.
(42) International Commission on Earthquake Forecasting for Civil Protection, Operational Earthquake Forecasting. State of Knowledge
and Guidelines for Utilization, “Annals of Geophysics” 2011, 54, 4, 316-391.
(43) S. Jasanoff, The Essential Parallel Between Science and Democracy, in Seed Magazine, February
17,2009,http://seedmagazine.com/content/article/the_essential_parallel_between_science_and_democracy (sito visitato nel febbraio
2012).
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L’accreditamento
nel Regolamento CE n. 765/2008
e le “fonti” di produzione privata
Anna Moscarini
1.- L’accreditamento tra funzione pubblica ed abilitazione
all’esercizio di attività professionali
Le certificazioni degli organismi di accreditamento sono atti
amministrativi volti a creare certezze pubbliche circa l’idoneità professionale degli enti di certificazione a svolgere la
loro attività.
L’attività posta in essere dagli organismi di accreditamento
è quella tipicamente pubblicistica di acclarare l’idoneità
professionale degli enti di certificazione della qualità, indipendentemente dallo status soggettivo, pubblico o privato,
indifferente per l’ordinamento comunitario, dell’organo preposto all’accreditamento.
Si tratta di un’attività rientrante tra gli atti di certezza pubblica nel senso in cui Giannini usava questa nozione per
indicare atti, provenienti dai pubblici poteri, aventi la finalità
non di fondare una verità ma di fornire un’utilità che possa
essere accettata in quanto ragionevolmente rispondente a
verità1, e dunque di attestare, come rispondente a qualità
professionali presuntivamente possedute, l’idoneità all’esercizio dell’attività di certificazione.
Appare irrilevante, ai fini della individuazione della funzione
di accreditamento, che il soggetto cui è affidata la funzione
sia privato o pubblico, né tale qualità soggettiva può giustificare la natura privata e non pubblica delle certezze acclarate dall’organismo di accreditamento.
Sebbene il soggetto sia privato, gli atti di certezza pubblica
da esso posti in essere producono effetti validi per la generalità, a differenza degli atti di certezza privata che non
possono istituire qualificazioni giuridiche, non possono
creare certezze efficaci nei confronti dei terzi, più ampie
dell’obbligo giuridico, sono inautonome, a differenza delle
certezze pubbliche, nel senso che accedono sempre a
qualcosa, ad un bene o ad un rapporto ordinato ad un bene, e non possono circolare o trasferirsi separatamente da
esso.
Il problema del soggetto, pubblico o privato che svolga la
funzione amministrativa di accreditamento è questione destinata a divenire recessiva rispetto alla natura oggettiva-
23
mente pubblica delle funzioni esercitate, ovvero di contro,
intrinsecamente privata ed affidata all’autonomia dei singoli.
E’ nota la difficoltà, per la dottrina amministrativistica, di individuare un criterio discretivo che consenta con certezza
di distinguere gli enti pubblici dagli enti privati. Per esempio
Sandulli, a fronte della proliferazione degli enti pubblici,
sorti per rispondere alle molteplici esigenze dello Stato sociale, trovandosi nella difficoltà di individuare elementi discretivi che, con certezza, potessero identificare l’essenza
del pubblico rispetto al privato, escludeva che la natura degli interessi perseguiti potesse essere sufficiente ad identificare l’essenza del pubblico, ravvisando nell’ordinamento
anche enti privati ai quali era affidato il perseguimento di finalità pubblicistiche.
Anzi proprio la presenza di soggetti privati volti al perseguimento di finalità pubblicistiche, e definiti “enti privati di interesse pubblico2”, creava la difficoltà della distinzione, fino al
punto di condurre ad una conclusione perplessa circa il
proprium del pubblico rispetto al privato ed alla conseguente applicazione del diritto comune.
Allo stesso tempo molti enti portatori di interessi di categoria, essenzialmente privati o collettivi ma certamente non
generali, come gli ordini professionali, finivano per essere
qualificati dalla legge come “enti pubblici”, di guisa da consolidare l’impressione che il criterio dell’interesse non potesse essere decisivo ai fini della qualificazione.
Un’altra ipotesi era ed è che, in difetto della capacità discretiva del criterio dell’interesse a radicare ciò che costituisce l’essenza del “pubblico”, si possano utilizzare criteri
di riconoscimento esteriori e formali del soggetto quali la
potestà di autoorganizzazione, l’esercizio di autotutela, la
presenza di regole formali e sostanziali relative al procedimento amministrativo.
Ma anche tali criteri possono non risultare sicuri ai fini dell’identificazione di una funzione amministrativa in senso
oggettivo, che prescinda dalla natura pubblica o privata del
soggetto cui essa sia riconducibile.
Dovendosi pertanto prescindere dalla rilevanza della qualità del soggetto, pubblico o privato, è bene considerare in
senso oggettivo la natura della funzione esercitata.
L’accreditamento degli enti di certificazione crea una certezza pubblica sull’idoneità professionale degli enti accreditati, solleva le società dall’onere di provare la competenza del proprio certificatore, stabilisce parametri oggettivi
per correggere le asimmetrie informative presenti nel mercato3, risponde ad esigenze oggettive di creazione e di
consolidamento della sicurezza e della garanzia di qualità
dei prodotti e dei servizi.
(1) M.S. Giannini, Certezza pubblica, in Enc. dir., vol. VI, 769 ss.
(2) A. M. Sandulli, Enti pubblici ed enti privati di interesse pubblico, in Studi giuridici in onore di Giovanni Salemi, Milano 1961, 317 ss.
sostiene che i pubblici poteri interferiscano sempre di più nella sfera privatistica, senza inserire enti collettivi nell’organizzazione dei pubblici poteri.
(3) A. Benedetti, Certezza pubblica e “certezze private”, Milano 2010, 97.
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In quanto produttivi di certezza pubblica gli atti di accreditamento sono atti amministrativi, anche se posti in essere
da privati nell’esercizio di pubbliche funzioni, ed anche nei
casi in cui la legittimazione di tali soggetti sia non di tipo
politico, in assenza di afferenza al circuito dell’indirizzo politico, ma tecnica e reputazionale, basata cioè sulla peculiare professionalità del soggetto e sulla sua capacità di garantire e di consolidare la fiducia nel mercato, di incrementare l’innovazione, di ampliare la concorrenza4.
La natura pubblica della funzione di accreditamento non
esclude la concorrenza di interessi pubblici e privati: da un
lato appare evidente il fine strettamente pubblicistico della
tutela dei consumatori, del consolidamento della fiducia,
della protezione della salute e della sicurezza pubblica, oltre che quello, anch’esso pubblicistico, della diffusione di
condizioni di uniformità nella circolazione dei prodotti e dei
servizi.
Dall’altro lato il fine ultimo dell’accreditamento è quello del
rilascio di una sorta di abilitazione professionale all’esercizio dell’attività di certificazione, e dunque risponde ad un
interesse collettivo della categoria dei produttori-imprenditori ad ottenere il riconoscimento di uno standard minimo di
qualità dei loro prodotti e servizi.
Dunque la concorrenza di interessi, pubblici e privati, connota la funzione di accreditamento, l’abilitazione professionale è strumentale all’interesse privato alla rimozione di un
ostacolo all’esercizio di un’iniziativa privata, ed è allo stesso tempo servente i fini del consolidamento della fiducia,
della tutela della salute e della creazione di condizioni di
uniformità nella circolazione di beni e servizi.
Nonostante la concorrenza di interessi pubblici e privati, le
opinioni prevalenti della dottrina sono nel senso della natura pubblicistica dell’attività di accreditamento posta in essere da soggetti privati5, ove il sintagma “certezze private”
è usato in un senso diverso da quello gianniniano, per indicare, per l’appunto, l’attività di certezza pubblica posta in
essere da privati per acclarare l’idoneità degli organismi
certificatori a svolgere la funzione certificatrice sulla base
della valutazione di professionalità acquisite.
La funzione di accreditamento, ancorché strumentale e
funzionale alla successiva attività di certificazione, é distinta da questa e ne costituisce il presupposto. E’ il primo
anello di una catena di relazioni contrattuali che si basano
sulla fiducia, sulla sicurezza, sulla standardizzazione di beni e servizi, ed afferisce alla fase, strettamente pubblicisti-
24
ca, dell’abilitazione professionale rilasciata a soggetti destinati a svolgere un’attività privata dominata dalla logica di
mercato.
Da qui l’interesse pubblico per l’accreditamento che ponga
le basi generali della fiducia dei consumatori e che consenta altresì agli enti di certificazione di ottenere una sorta di
abilitazione professionale, tradizionalmente rispondente alla rimozione di un ostacolo all’esplicazione di un’attività affidata all’autonomia privata ed espressione di libertà di iniziativa economica individuale.
2.- L’accreditamento nel Regolamento CE n. 765 del 2008
e l’istituzione di Accredia
La natura pubblicistica dell’attività di accreditamento, indipendentemente dallo status giuridico dell’organismo che vi
procede6, è espressamente prevista dall’art. 4, co. 5 del
Regolamento CE n. 765 del 2008, quale attività di autorità
pubblica7, distinta dalla vigilanza, senza fine di lucro, esclusa dalla concorrenza e dalla funzione di certificazione,
esercitata in condizioni di indipendenza ed in assenza di
conflitto di interesse rispetto ai certificatori, affidata allo
svolgimento di procedimenti adeguati ed efficienti, volti a
rendere pubblici i risultati delle attività mediante resoconti
periodici.
Il Regolamento CE ha ricondotto la funzione di accreditamento alla sfera della sovranità degli Stati chiamati ad organizzare un sistema interno con un unico organismo nazionale di accreditamento destinato a cooperare e a coordinarsi con gli altri organismi nazionali.
In attuazione delle previsioni comunitarie, il decreto interministeriale 22 dicembre 2009 ha disciplinato, per l’Italia,
l’organizzazione ed il funzionamento dell’unico organismo
nazionale di accreditamento, la definizione dei criteri per la
fissazione delle tariffe di accreditamento e le modalità di
controllo da parte dei Ministeri interessati.
Le prescrizioni di carattere generale, cui deve rispondere
l’organismo italiano di accreditamento, sono di operare
senza fini di lucro, di avere un modello organizzativo atto a
garantire lo svolgimento dell’accreditamento come attività
di interesse pubblico, di non fornire attività o servizi propri
degli enti di valutazione della conformità, né consulenza, di
porre in essere strutture atte a garantire la partecipazione
delle parti interessate, di non svolgere concorrenza né con
(4) G. Zanobini, L’esercizio privato delle pubbliche funzioni e le organizzazioni degli enti pubblici, in Scritti vari di diritto pubblico, Milano
1955, 96 ss.
(5) A. Fioritto, La funzione di certezza pubblica, Padova 2003, 291 ss.; A. Benedetti, Certezza pubblica e “certezze” private, cit., 131 ss.,
la quale usa il sintagma “certezze private”, per l’appunto nel senso diverso da quello gianniniano, ma non certamente per escludere la
natura pubblicistica dell’attività di accreditamento.
(6) L’art. 3 del Regolamento n. 765/2008 recita: “Il presente capo si applica all’accreditamento, utilizzato su base obbligatoria o volontaria, in relazione alla valutazione della conformità, indipendentemente dallo status giuridico dell’organismo che vi procede.”
(7) L’art. 4, co. 5 prevede “qualora l’accreditamento non sia effettuato direttamente dalle stesse autorità pubbliche, gli Stati membri incaricano il proprio organismo nazionale di effettuare l’accreditamento quale attività di autorità pubblica e gli conferiscono un riconoscimento formale”.
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gli organismi di valutazione della conformità né con gli altri
organismi di accreditamento.
Con altro decreto interministeriale, emanato in pari data, è
stata designata Accredia, quale unico organismo italiano di
accreditamento, associazione senza scopo di lucro dotata
della personalità giuridica di diritto privato.
Accredia deriva dalla fusione di Sincert e Sinal, soggetti
che in precedenza svolgevano analoga attività, ed é subentrata alle precedenti associazioni nel ruolo di firmataria
degli accordi internazionali di mutuo riconoscimento relativamente all’accreditamento dei laboratori di prova e degli
organismi di certificazione e di ispezione.
La scelta organizzativa compiuta dall’ordinamento italiano
è quella di centralizzare la funzione di accreditamento imputandola ad un ente privato che valuti l’abilitazione all’attività di certificazione di soggetti pubblici e privati, in posizione di indipendenza, terzietà, non concorrenza.
La funzione svolta dall’organismo nazionale di accreditamento è assimilabile a quella dell’abilitazione professionale, in quanto al pari di quella rimuove un ostacolo, attraverso il rilascio del certificato di accreditamento all’esercizio di
un’attività libera per la quale è necessario il possesso di
determinati requisiti tecnici.
Tale abilitazione deve permanere nel corso dell’intero svolgimento dell’attività dell’ente di certificazione, e l’organismo
di accreditamento svolge, al pari di un ordine professionale, anche un’attività di controllo sull’organismo di valutazione della conformità accreditato, adottando tutte le misure
appropriate entro tempi ragionevoli per limitare, sospendere o revocare il certificato di accreditamento, ove l’organismo accreditato non sia più competente a svolgere una
determinata attività di valutazione della conformità o abbia
commesso una violazione grave dei suoi obblighi.
3.- L’attività di accreditamento e le “fonti” dei privati
Tra le varie funzioni di tipo strettamente pubblicistico che il
regolamento attribuisce ad Accredia vi è quella di concorrere, con proprie linee guida, a definire l’ambito delle attività per le quali è opportuno il rilascio del certificato di accreditamento, il che consente all’organismo medesimo di integrare la fattispecie con proprie determinazioni8.
Può destare qualche perplessità la scelta del legislatore
comunitario di affidare all’organismo nazionale di accreditamento il compito di individuare le attività di valutazione
25
della conformità per le quali è competente ad effettuare
l’accreditamento, rinviando, se del caso, alle pertinenti legislazioni e norme tecniche comunitarie o italiane.
Le perplessità, si badi bene, non afferiscono alla scelta del
soggetto privato cui affidare la funzione pubblica di accreditamento, quanto alla fluidità del parametro cui ancorare
l’esercizio della funzione amministrativa, quale quella dell’accreditamento, volta al rilascio di un’autorizzazione.
L’attribuzione ad un soggetto privato dell’esercizio di una
funzione amministrativa, non attraverso lo strumento concessorio ma attraverso l’istituzione, per legge, del soggetto
costituito per la cura di interessi generali risponde ad un
modello del tutto consolidato di esercizio privato di pubbliche funzioni, che pone le sue radici nel dibattito originariamente incorso tra i padri fondatori del diritto amministrativo, Orlando, Ranelletti, Santi Romano, Zanobini, volto ad
affermare come naturale e pienamente rispondente al sistema la concorrenza dei soggetti privati, con lo Stato e gli
altri enti pubblici, alla cura di interessi generali9.
Non c’è dubbio che l’attività di accreditamento degli enti di
certificazione, attività tipicamente pubblicistica, di attribuzione di una determinata qualità con effetti di rilevanza generale sulla base di un provvedimento autorizzatorio, costituisca espressione di un munus pubblico esercitato da un
soggetto privato.
La circostanza che il soggetto privato non sia inserito nell’organizzazione amministrativa dello Stato o di altro ente
pubblico ma che sia del tutto autonomo nell’esercizio delle
funzioni non esclude ma anzi è pienamente compatibile
con l’applicazione della disciplina propria del diritto amministrativo agli atti posti in essere dal soggetto privato, sia
per quel che riguarda il procedimento, sia per quel che
concerne le caratteristiche di indipendenza del soggetto,
nonché l’obbligo di giustificazione delle ragioni della decisione, e la sottoposizione al sindacato del giudice amministrativo sugli atti di diniego.
Fermo restando che l’esercizio privato di pubbliche funzioni costituisce un modello sempre più diffuso di esercizio
della funzione amministrativa, rispondendo a criteri di sussidiarietà, adeguatezza, proporzionalità, economicità dell’azione amministrativa, non può da ciò desumersi che il
soggetto privato, proprio perché privato, possa ritenersi
svincolato da parametri normativi per l’esercizio delle funzioni, anche perché tali parametri costituiscono l’indefettibile criterio di esercizio del controllo del giudice amministrativo sull’esercizio della discrezionalità.
(8) L’art. 4, co. h del D.I. 22 dicembre 2009 ripete pedissequamente l’art. 8, co. 5 Regolamento CE n. 765/2008 del 9 luglio 2008 ai sensi
del quale gli organismi nazionali di accreditamento designati da ciascun singolo Stato membro individuano le attività di valutazione della
conformità per le quali sono competenti ad effettuare l’accreditamento, rinviando, se del caso, alle pertinenti legislazioni e norme comunitarie o nazionali.
(9) Si veda l’interessante ricostruzione proposta da F. De Leonardis, Soggettività privata e azione amministrativa, Padova 2000, 19 ss.
l’A., dopo aver ricostruito le origini del dibattito dottrinale ed aver analizzato le espressioni più significative di esercizio privato di pubbliche funzioni, conclude nel senso della piena armonizzabilità dell’ambito funzionale o della cura dell’interesse generale e quello dell’autonomia privata, il primo afferendo alla piena soddisfazione dei destinatari o beneficiari dell’esercizio della funzione pubblica, il secondo
agli strumenti che devono essere utilizzati per il conseguimento dei corrispondenti fini.
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Quindi se desta perplessità la scelta del legislatore comunitario di rendere il soggetto privato autoreferenziale nella
definizione dell’ambito di estensione della propria attività, è
particolarmente importante l’individuazione dei criteri per
l’esercizio della funzione amministrativa di accreditamento.
La scelta, si ribadisce, di forte arretramento dei poteri pubblici, anche rispetto all’individuazione delle attività da sottoporre ad accreditamento, affidate alla discrezionalità dell’organismo privato esercente pubbliche funzioni, porta al
risultato di rendere anche il parametro normativo che limita
la funzione amministrativa di accreditamento eventuale e,
sostanzialmente, autoreferenziale in quanto costituito, se
del caso, dalle pertinenti legislazioni e norme tecniche comunitarie e nazionali e dunque da norme di fonte prevalentemente privata, integrate da linee guida, proprie dello
stesso organismo nazionale di accreditamento.
La lettura delle fonti normative, che dovrebbero costituire il
parametro per l’esercizio della funzione di accreditamento,
conferma l’arretramento dei poteri pubblici a funzioni di
mera regolazione e di delega di funzioni, anche normative,
a soggetti privati.
Il Regolamento CE, e la fonte normativa nazionale, quest’ultima peraltro di incerta qualificazione giuridica - decreto di natura non regolamentare10 - prevedono che l’organismo preposto all’accreditamento provveda alla pubblicazione dei resoconti oggetto di revisione contabile e che si
sottoponga ai controlli ed alla valutazione inter pares rispetto ai criteri di conformità stabiliti dalle pertinenti norme
armonizzate, al fine di garantire l’indipendenza e la terzietà
dell’organo, oltre al collegamento con gli altri organismi di
valutazione della conformità degli altri Paesi dell’Unione.
I criteri in base ai quali viene accordato o negato l’accreditamento sono costituiti esclusivamente da norme tecniche,
cioè da fonti private che non sono pubblicate, se non nel loro riferimento generico, nelle fonti di cognizioni comunitarie.
Le stesse norme, di per sé già di difficile accesso, sono
ampiamente integrate da linee guida elaborate dallo stesso
organismo di accreditamento il quale, pertanto, non si limita all’esercizio della sola funzione amministrativa per la
quale esso è stato istituito ma provvede, anche direttamente, a creare il parametro in riferimento al quale esso svolgerà l’esercizio della discrezionalità.
Si pongono problemi di conoscibilità delle norme tecniche
da parte dei destinatari in quanto gli enti di certificazione,
per essere valutati e soggetti al procedimento di accreditamento, debbono acquistare le norme tecniche di fonte privata poste sul mercato dagli organismi di normalizzazione,
in base a tariffe stabilite dallo stesso organismo unico na-
26
zionale, e debbono avere accesso alle linee guida dettate
dallo stesso organismo privato per attuare ed integrare le
disposizioni comunitarie e nazionali.
La relazione che intercorre tra organismo di accreditamento
ed imprese che vi si assoggettano è di tipo contrattuale, nel
senso che le imprese soggette ad accreditamento, utilizzato su base obbligatoria o volontaria, debbono accettare le
norme tecniche, e pagare un corrispettivo per ottenere una
certificazione della competenza tecnica e dell’idoneità professionale di operatori di valutazione della conformità.
Ne consegue, pertanto, che l’attività, tipicamente pubblicistica dell’accreditamento, riconducibile all’esercizio privato di
una pubblica funzione – quella di creazione di certezze pubbliche – pur rientrando in una funzione tipicamente amministrativa, assimilabile alla figura del concessionario, si traduce
nell’applicazione ed anche nell’integrazione di fonti private,
cioè delle norme tecniche prodotte dagli enti competenti11.
Descritto il procedimento, appare opportuno riflettere sulla
natura e sulla funzione delle norme tecniche, nonché sulla
possibilità di sottoporle al sindacato del giudice amministrativo.
4.- Le norme tecniche
Per integrare il parametro di esercizio della discrezionalità
tecnica l’ente nazionale di accreditamento utilizza standards, regole, regolazioni, buone pratiche di produzione
che costituiscono il complesso delle norme tecniche.
In alcuni casi il legislatore rinvia alle specifiche tecniche
obbligatorie, in altri casi, nei quali il rilievo del principio di
legalità è particolarmente stringente, per esempio laddove
è necessario definire dei valori-soglia per i confini delle attività lecite e definire ipotesi di reato o di illecito amministrativo, le regole tecniche vengono incorporate in atti amministrativi generali o in linee guida12.
Sia che il legislatore si limiti ad un mero rinvio sia che il parametro di legalità sia integrato da atti amministrativi generali volti a conferire alle regole tecniche un crisma di autorità pubblica, l’ordinamento privato nel quale le norme tecniche vengono elaborate e create, quello degli organismi privati di normalizzazione, conserva caratteristiche di originarietà rispetto all’ordinamento generale, e si afferma, pertanto, quale ordinamento parallelo, contribuendo a rendere
plurale l’ordinamento generale.
Il fondamento di validità della norma tecnica nell’ordinamento generale risiede nell’essere adeguata allo stato delle
conoscenze e la validazione che venga fatta dall’ordina-
(10) Sul frequente ricorso del Governo a decreti di natura “non regolamentare” sia consentito il rinvio ad A. Moscarini, Sui decreti “di natura non regolamentare” che producono effetti normativi, in Giur. cost., 2008, 5075 ss.
(11) L. Bush, Quasi states? The unexspected rise of private food law, e F. Albisinni, Towards the self-regulation code on beer advertising
in Italy, Steps on the long lasting path of competition/cooperation of public and private food law, entrambi in Private food law, B. Van Der
Meulen (ed.), The Netherlands, 2011, rispettivamente 51 ss. e 229 ss.
(12) P. Lazzara, La normativa tecnica. Integrazione tra pubblico e privato nella prospettiva della pluralità degli ordinamenti: “incorporazione”, rinvio, collegamento e riconoscimento, in Studi in onore di Alberto Romano, Napoli 2011, 395 ss.
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mento generale non può supplire alla validità della regola
tecnica nel suo sistema di riferimento, che conserva pertanto autonomia ed originarietà rispetto al sistema pubblico.
Quindi la validità è strettamente connessa all’evoluzione
tecnologica e presenta caratteristiche di temporaneità, determinandosi, indipendentemente dalla tempestività del recepimento normativo, la rapida obsolescenza di quelle tecniche superate dal progresso tecnologico.
Le regole tecniche riguardano prodotti e servizi, condizionano la commerciabilità dei primi e l’idoneità delle imprese
all’esercizio di alcuni servizi affidati, ad esempio, tramite
procedure di appalto.
Le esigenze cui la normalizzazione risponde sono, nonostante la differenza dei contesti nei quali essa interviene,
sostanzialmente uniformi: in primis l’osservanza di regole
prodotte dagli organismi di normalizzazione, in cui confluiscono enti pubblici, enti di ricerca, enti esponenziali di categorie di produttori, o di consumatori esonera i produttori
dall’onere della prova della conformità dei processi produttivi alle regole dell’arte; in secondo luogo la normalizzazione rende uniformi i procedimenti autorizzatori tipici dei settori ad elevato rischio della salute e che richiedono condizioni di peculiare sicurezza; la diffusione delle norme tecniche facilita le condizioni di circolazione di beni e servizi in
quanto rende uniforme la commerciabilità dei prodotti stessi e stabilisce criteri di riferimento per la valutazione della
responsabilità civile contrattuale ed extracontrattuale.
Se in genere la normalizzazione riguarda i prodotti industriali, anche i soggetti produttori sono sottoposti a processi di qualificazione quale presupposto della loro partecipazione alle gare d’appalto indette dalle pubbliche amministrazioni.
La qualificazione tecnica delle imprese, e cioè il possesso
delle certificazioni relative ai servizi ed ai sistemi di qualità
aziendale è realizzata dalle società organismi di diritto privato
di attestazione (SOA) competenti ad attribuire la qualificazione necessaria, a seguito di un rapporto contrattuale con la
singola impresa. Anche il sistema di qualificazione delle imprese per l’accesso alle gare pubbliche di appalto transita,
dunque, per l’applicazione e l’accettazione di norme tecniche.
5.- La specificità delle norme tecniche tra le altre “fonti” dei
privati
La definizione di “norma tecnica” accettata dall’organizzazione internazionale per la standardizzazione è la seguen-
27
te: “specificazione tecnica o altro documento accessibile al
pubblico, elaborato con la cooperazione o l’approvazione
generale di tutte le parti interessate, fondato sui risultati
conseguiti dalla scienza, dalla tecnologia e dall’esperienza,
mirante al beneficio ottimale della comunità nel suo insieme e approvato da un organismo qualificato sul piano nazionale, regionale o internazionale13”.
La norma tecnica è caratterizzata da quattro elementi fondamentali14: la consensualità derivante dall’essere approvata con il consenso di tutti coloro che partecipano ai lavori, la democraticità, desumibile dalla possibilità per tutti gli
interessati di partecipare ai lavori, la trasparenza, consistente nel fatto che l’ente di normazione segnala le tappe
fondamentali dell’iter di approvazione di un progetto di norma, tenendo il progetto stesso a disposizione degli interessati, la volontarietà, nel senso della mancanza di sanzione
per l’ipotesi di mancata osservanza della norma tecnica.
Si tratta a tutti gli effetti di norme poste da fonti private, la
cui riconducibilità al concetto di “fonte” in senso stretto può
presentare alcuni profili di criticità, in ragione della mancanza delle caratteristiche di obbligatorietà della norma e
che pur rispondendo ad una logica corporativa, espressione cioè di interessi di categoria, non trascurano i profili di
interesse pubblico sottesi alle esigenze di certezza e di tutela dei valori fondamentali della salute e della sicurezza.
Indipendentemente dal fatto che esse possano o meno integrare il concetto di fonte di un ordinamento privato o che
sia la stessa autorità amministrativa, sia pur nella sua configurazione privatistica di soggetto privato esercente una
pubblica funzione, a predeterminare i criteri in base ai quali
svolgere la funzione di accreditamento attraverso atti di recepimento autoritativo e di integrazione di fonti private, le
norme tecniche presupposto indefettibile per lo svolgimento dei procedimenti autorizzatori della p.a. o delle gare
d’appalto per l’affidamento dei contratti pubblici e, quindi,
criteri di esercizio della discrezionalità tecnica debbono poter essere conosciute dai destinatari dell’accreditamento.
In quanto parametri di esercizio della discrezionalità tecnica le norme tecniche devono essere acquisite dall’autorità
pubblica e devono essere conosciute dai destinatari delle
medesime.
In alcuni casi le norme tecniche sono recepite da atti della
pubblica autorità con l’effetto di perdere il carattere di facoltatività e di acquisire la qualità di prescrizione vincolante,
ad esempio nell’ambito dei capitolati tecnici accessori ad
alcuni contratti pubblici.
In altri casi, come si diceva in precedenza, manca l’esplici-
(13) E. Gargale, Amministrazione pubblica e privati nella certificazione, in Riv. sem. inf. dir. 1993, 251 ricorda la definizione di “norma tecnica” accettata dall’Organizzazione internazionale per la standardizzazione.
(14) A. Fioritto, La funzione di certezza pubblica, cit., 296 ss., il quale distingue la norma tecnica, che non ha carattere di obbligatorietà,
dalla regola tecnica che, in quanto richiamata da una legge o da un altro provvedimento dell’autorità, ha efficacia obbligatoria e vincolante. Non è chiaro nel pensiero dell’autore se detta distinzione sia rilevante ai fini dell’individuazione del procedimento di formazione
delle norme tecniche, che è consensuale ma in taluni casi integrato anche dalla partecipazione di pubbliche autorità, ovvero se il grado
di vincolatività dipenda non dal procedimento di formazione ma dal rinvio che una norma di legge o altro atto della pubblica autorità faccia alla regola tecnica.
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to recepimento in atti autoritativi ed il parametro per l’esercizio della discrezionalità tecnica è interamente affidato alle
fonti private prodotte dagli organismi di normalizzazione, richiamate con un mero rinvio.
L’accessibilità e la conoscibilità di detti standards, che nelle
fonti di produzione è affidata alla pubblicazione e dunque alla presunzione di conoscenza delle norme da parte dei destinatari, è anticipata al momento della produzione delle regole
tecniche, e cioè al procedimento consensuale e volontario, e
dunque “democratico” che connota la loro formazione.
Una volta esaurito il procedimento di produzione delle norme tecniche, le medesime, per essere conosciute dai terzi,
che vogliano entrare nel mercato dominato ad esempio da
incumbents, debbono essere acquistate.
Vediamo le conseguenze che tale peculiare aspetto produce
sull’attività di accreditamento degli enti di certificazione.
L’attività di accreditamento presuppone la conoscenza delle
regole tecniche da parte di chi chieda di sottoporsi ad accreditamento. Per la conoscenza di tali regole occorre stabilire
una relazione contrattuale con l’ente di accreditamento e pagare una tariffa, il cui ammontare viene stabilito dallo stesso
ente di accreditamento in relazione a parametri condivisi con
gli altri enti di accreditamento istituiti dai diversi Paesi membri legati da collegamenti e rapporti di cooperazione.
Per ovviare a tale indefettibile relazione contrattuale, trattandosi di ottenere il rilascio di un’abilitazione, e dunque
un’autorizzazione all’esercizio di un’attività, l’unica alternativa sarebbe stata quella di affidare la funzione di accreditamento agli organi dell’amministrazione attiva, pubblicizzando il procedimento e consentendo agli interessati l’accesso anche alle norme tecniche in relazione alle quali si
valutano i presupposti dell’accreditamento.
Anche in tale caso le imprese interessate all’accreditamento avrebbero subito i costi degli adeguamenti infrastrutturali
necessari per accedere all’accreditamento ma è ragionevole ritenere che avrebbero risparmiato i costi della tariffa,
accedendo non ad una relazione contrattuale con un soggetto privato ma ad un procedimento amministrativo a tutti
gli effetti posto in essere da un organo pubblico.
L’accreditamento degli enti di certificazione costituisce attività anche procedimentale diversa dall’attività che gli enti
di certificazione pongono in essere una volta ottenuta l’abilitazione professionale ed ha una intrinseca natura autoritativa, come del resto lo stesso legislatore comunitario ha
dichiarato definendo la funzione di accreditamento quale
“attività di autorità pubblica”.
In materia alimentare, e specialmente nelle ipotesi di certificazioni obbligatorie della qualità, dove sono in gioco valo-
28
ri costituzionali come la salute e la sicurezza, quis custodiet custodes?
Il legislatore ha indicato un organismo privato, senza scopo di lucro, genericamente soggetto ad alcuni controlli, validi soprattutto per le certificazioni obbligatorie, ma sostanzialmente operante come amministrazione indipendente.
Depongono in favore di tale configurazione, nonostante la
natura privata del soggetto, l’assenza di scopo di lucro, l’indipendenza rispetto agli organismi di valutazione della conformità anche dal punto di vista del possesso di azioni o
degli interessi finanziari o gestionali, l’organizzazione e la
gestione ispirata a principi di obiettività e di imparzialità.
L’attività di accreditamento, ancorché funzionale al rilascio di
un’abilitazione professionale, svolge anche un ruolo di regolazione del settore alimentare, in quanto non si limita all’abilitazione iniziale degli enti di certificazione ma si concretizza
anche in un’attività di vigilanza nei confronti degli stessi enti.
L’attività di regolazione del settore si svolge con funzione
integrativa e non sostitutiva dei controlli effettuati dalle amministrazioni competenti sui singoli prodotti in sede di rilascio delle autorizzazioni, ed integrativa anche dell’attività di
vigilanza del mercato che la normativa comunitaria affida
ad organismi distinti da quelli di accreditamento.
Sebbene l’accreditamento sia del tutto distinto dalla vigilanza non può escludersi che anche l’attività dell’organismo di accreditamento, svolgendosi con le modalità proprie di un soggetto privato esercente un munus pubblico,
concorra alla regolazione del settore.
La funzione di regolazione è del tutto affidata alle regole
tecniche che diventano, pertanto, non solo criteri di esercizio della discrezionalità amministrativa ma anche norme di
settore ed assumono la natura di fonti proprie dell’ordinamento sezionale.
Si ripropone pertanto la questione dell’idoneità delle regole
tecniche ad assumere una rilevanza oggettiva, e a produrre effetti nei confronti dei terzi, attraverso il meccanismo
del rinvio fisso o mobile15.
La questione, certamente non nuova, assume però dimensioni sempre più consistenti, all’interno del dibattito sulle
“fonti” dei privati.
6.- L’interpretazione ed il sindacato del giudice amministrativo sulle norme tecniche
Le “fonti” dei privati16 hanno sancito il superamento del cd.
“modello Westfalia” cioè quel modello che prevedeva l’identità
tra Stato, ordinamento giuridico e monopolio del sistema delle
(15) A. Sandulli, Le norme tecniche dell’edilizia, in Riv. giur. edil., 1974, 189 ss.; F. Ancora, Normazione tecnica e certificazione di qualità. Elementi per uno studio, in Il Consiglio di Stato, II, 1994, 1575 ss., Id., Normazione tecnica, certificazione, qualità e ordinamento giuridico, Torino 2000, 200 ss. F. Salmoni, Le norme tecniche, Milano 2001, 245 ss., L. Mengoni, Diritto e tecnica, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2001, 1 ss.; A. Zei, Tecnica e diritto tra pubblico e privato, Milano 2008, 7 ss.
(16) W. Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, Milano 1963; S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1953; S. Romano,
Ordinamenti giuridici privati, in Studi giuridici in memoria di Filippo Vassalli, Torino 1960, 1371 ss.; S. Pugliatti, Autonomia privata, in
Enc. dir., vol. IV, Milano 1959, 366 ss.
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fonti17, sostituendo all’obbligatorietà delle norme il consenso,
ritenuto vincolante oltre la sfera giuridica dei contraenti.
Le “fonti” dei privati, nella crisi degli ordinamenti sovrani e
nel prevalere della de-territorializzazione e globalizzazione
dei fenomeni economici, hanno acquisito una rilevanza
sempre maggiore in quanto il legislatore, tradizionalmente
coincidente con un organo dello Stato, non ha più la forza
di regolare e di intercettare fenomeni economici globali, e
arretra affidando il ruolo di normatore non solo ad organismi sovranazionali ma anche ai privati, che danno vita a
procedimenti normativi il cui contenuto è consensualmente
negoziato con i destinatari delle norme stesse, nella coincidenza tra interessi rappresentati ed interessi “generali”.
Il problema degli interessi generali, molto presente nel testo
della Costituzione18, è assorbito dagli interessi privati e si confonde con gli interessi di categoria, sicché esiste il rischio che
essi prevalgano sull’interesse generale, al quale le norme
tecniche precipuamente devono rispondere quali la tutela della sicurezza, della salute, dell’affidamento dei consumatori.
Il problema che si pone per le norme tecniche è in parte
comune a quello che riguarda tutte le “fonti” dei privati,
cioè di tutte le manifestazioni di autonomia privata che assumono un’efficacia giuridica ulteriore rispetto alla sfera
giuridica dei contraenti, in deroga al principio generale secondo il quale il contratto ha effetti solo tra le parti.
Di fronte all’esigenza, risalente nel tempo, di fondare l’ordinamento dei privati con carattere di originarietà e di indipendenza rispetto all’ordinamento statale, in quanto i privati sono ritenuti capaci di formulare regole giuridiche migliori, più rispondenti agli interessi rappresentati, il problema che si pone per
le norme tecniche è quello del controllo ex ante ed ex post
dell’attività di produzione normativa, in quanto solo detti controlli possono garantire che il perseguimento degli interessi
rappresentati dagli organismi privati di produzione delle norme
tecniche coincida effettivamente con l’interesse generale.
Il controllo preventivo ex ante è assicurato dalla vigilanza
dei Ministeri e degli altri organi con responsabilità dell’indirizzo politico economico, mentre il controllo successivo ex
post è attribuito al sindacato del giudice amministrativo sugli atti posti in essere dall’organo di accreditamento.
Questi strumenti consentono di ovviare al deficit di legittimazione democratica degli organi di produzione normativa
e di soddisfare il principio di legalità dell’azione amministrativa attraverso la tecnica del rinvio, fisso o mobile, che
norme di fonte pubblica facciano a norme tecniche.
E’ difficile svolgere un discorso comune tra le norme tecniche e le altre “fonti” dei privati, individuare un filo comune tra
29
fenomeni eterogenei quali i contratti collettivi di lavoro, le
norme tecniche, le clausole dei codici deontologici poste dagli ordini professionali, i contratti internazionali di soft law.
In tutti i casi in cui le “fonti” dei privati assumono, oltre ad una
legittimazione politica, anche un riconoscimento di appartenenza formale al sistema delle fonti, l’ordinamento testa l’idoneità di dette “fonti” ad essere veicolo di interessi generali.
Così è avvenuto per i contratti collettivi di lavoro, che hanno acquisito rilevanza di fonte di produzione con validità
erga omnes, fino alla recente modifica dell’art. 360 n. 3
c.p.c., che ha riconosciuto la ricorribilità in cassazione per
violazione delle norme di contratto collettivo, solo perché
testati dall’ordinamento, ed in particolare dalla giurisprudenza costituzionale, come idonei a costituire i minimi inderogabili di una retribuzione proporzionata alla quantità e
qualità del lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare
al lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Le clausole dei codici deontologici, prodotte dagli ordini professionali, che pur essendo enti pubblici sono enti esponenziali di interessi di categoria, sono state riconosciute come
dotate di valore normativo dalla giurisprudenza di Cassazione in quanto idonee ad integrare il parametro della correttezza nell’ambito dei giudizi di responsabilità professionale.
Anche in tal caso l’ordinamento ha testato l’idoneità di “fonti” poste in essere da organismi rappresentativi di interessi
di categoria al perseguimento di interessi generali ed ha riconosciuto agli ordini professionali la competenza a decidere sui provvedimenti disciplinari in base alle clausolenorme da essi stessi prodotte, ipotizzando una competenza non soltanto regolatoria ma anche sostitutiva della giurisdizione di merito, con eventuale ricorso per Cassazione
avverso gli atti adottati dall’ordine.
Anche le norme tecniche, frutto di processi di “stabilizzazione”, di “orientamento” e di produzione di senso partono non
dall’alto, dalla dinamica del potere pubblico, ma dal basso,
dalle dinamiche istituzionali attraverso le quali si costruiscono “significati” e processi generatori di “significato”19 e devono essere strumentali al perseguimento di interessi generali.
Non è priva di criticità la circostanza che gli enti di normazione siano espressione di associazioni di categoria di produttori e di organismi privati che non hanno collegamenti
particolari, né sul piano strutturale né su quello funzionale,
con organismi pubblici.
Lo Stato non è più il garante della riduzione di asimmetrie
informative20, così come il diritto non sta nei progetti di un
Principe, non scaturisce dalla sua testa, non esplicita le
sue volontà benefiche o malefiche comunque potestative21.
(17) A. Pizzorusso, La problematica delle fonti del diritto all’inizio del XXI secolo, in Foro It. 2007, 33 e ss.
(18) Si veda M. Luciani, La produzione economica privata, id., L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Riv. dir. cost., 1996, 124 ss.;
Id., Unità nazionale e struttura economica. La prospettiva della Costituzione repubblicana, Relazione al Convegno annuale AIC, Torino
27-29 ottobre 2011.
(19) A. Benedetti, Certezza pubblica e “certezze private”, cit., XVI
(20) A. Predieri, Lo Stato come riduttore delle asimmetrie informative nella regolazione dei mercati finanziari, in AA.VV., Mercato finanziario e disciplina penale, Milano 1993, 64 s ss.
(21) P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano 2005, 23.
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Ma i controlli ex ante ed ex post consentono di garantire
che la produzione normativa tecnica possa veicolare interessi generali, anche nell’attività di accreditamento degli
enti di certificazione posta in essere da Accredia.
Accredia si propone il perseguimento di obiettivi di interesse generale, con il perfezionamento delle regole, lo studio
di nuovi schemi di accreditamento, lo sviluppo di linee guida per la valutazione uniforme delle norme di riferimento,
per venire incontro alle crescenti e diversificate esigenze
del contesto socio-economico del Paese.
Ci sono le premesse normative perché non diventi strumento di veicolazione dei soli interessi dei più forti, con effetti anticoncorrenziali, ma ovviamente occorrerà attendere
la prassi per poter svolgere una valutazione compiuta, e
per verificare se la delegificazione in senso atecnico22 compiuta dallo Stato in favore dell’organismo privato non precluda alle imprese interessate ed a tutti i destinatari l’accessibilità delle norme tecniche.
Occorre scongiurare il rischio che il trasferimento della sede di produzione normativa dagli organi pubblici sedi della
rappresentanza ai privati possa ostacolare le possibilità di
accesso e di conoscenza delle fonti.
Il difetto di legittimazione democratica dei procedimenti di
produzione23 normativa deve essere colmato con l’accessibilità delle fonti private e con la partecipazione degli interessati ai procedimenti amministrativi che li riguardano.
La questione centrale posta dalle norme tecniche, sia ai fini dell’interpretazione sia ai fini del sindacato del giudice
amministrativo, è quella della loro conoscibilità, tema che
si ripropone anche a voler considerare sufficiente il grado
di democraticità della produzione delle norme tecniche garantito dal procedimento.
Il sindacato del giudice amministrativo sugli atti dell’organismo di accreditamento evidenzia i limiti propri del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica delle scelte
dell’amministrazione.
E’ noto che la giurisprudenza amministrativa ha notevolmente
consolidato le possibilità, per il giudice, di sottoporre a controllo le valutazioni tecniche della pubblica amministrazione e detto consolidamento potrà estendersi anche al sindacato sulla
discrezionalità tecnica dell’organismo unico di accreditamento.
I provvedimenti di accreditamento e quelli di diniego, soggetti al sindacato del giudice amministrativo, richiedono la
conoscenza delle norme tecniche da parte del giudice il
quale, per giudicare dell’esercizio della discrezionalità tec-
30
nica, deve conoscerne i parametri.
Si dovrebbe escludere l’interesse e la legittimazione al ricorso dei concorrenti contro i provvedimenti di accreditamento di
altri enti certificatori della qualità, mentre si pone la questione
del sindacato sulla discrezionalità tecnica dell’organismo unico nazionale nelle ipotesi di diniego dell’accreditamento.
La discrezionalità tecnica sarà sindacabile nella misura in
cui, rispetto alle decisioni dell’Accredia, sussista un certo
margine di scelta tra più soluzioni tecnicamente possibili.
E’ ipotizzabile un controllo della discrezionalità tecnica nella forma del sindacato “forte”24, che non si limiti cioè ad una
verifica di ragionevolezza e coerenza tecnica della decisione amministrativa, ma che, grazie agli strumenti istruttori di
accesso al fatto di cui il giudice amministrativo dispone,
possa tradursi in un esito non soltanto cassatorio ma sostitutivo dell’attività amministrativa illegittima.
Solo un sindacato sostitutivo può riequilibrare ex post
l’eventuale eccesso di potere esercitato da un soggetto privato esercitante pubbliche funzioni, e consentire celermente il ripristino della legalità attraverso la concessione dell’accreditamento illegittimamente negato.
Per valutare se detta discrezionalità sia stata esercitata in modo immune da censure come avviene ad esempio, in materia
di appalti dove il possesso di certificazioni, da parte delle imprese, costituisce requisito di partecipazione alle gare, ovvero
criterio di attribuzione del punteggio nell’offerta economicamente più vantaggiosa, non può prescindersi dall’accessibilità, anche per il giudice amministrativo, delle norme tecniche.
In definitiva, pertanto, sia ai fini dell’interpretazione, sia ai
fini del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica resta ineludibile la questione della conoscibilità e dell’accessibilità delle norme tecniche.
ABSTRACT
The function of accreditation of certification bodies is one
of the acts of certain public and is held by a private operator of public functions.
The paper discusses the legitimacy of private bodies performing public functions, highlights the different profiles of civil
intrinsic activity of accreditation, addresses the issue of technical standards, their amenability to the concept of “source” and the possibility of judicial discretion on the technique.
(22) A. Morrone, Delegificazione, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, 2006, 1772
(23) Sia consentito il rinvio, anche per ulteriori riferimenti dottrinali sulle norme tecniche, ad A. Moscarini, Le fonti dei privati, in Giur. cost.
2010, 1895 e ss.
(24) Sulle differenze tra sindacato “forte” con esito sostitutivo e sindacato “debole”, con esito soltanto cassatorio, si veda D. De Petris,
Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova 1995, 167 ss. ; Id., Valutazioni tecniche della pubblica amministrazione, in
Diz. dir. pubbl., diretto da S. Cassese, vol. VI, cit., 6176 ss.; sui poteri del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche si veda F.
Cintioli, Consulenza tecnica d’ufficio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità amministrativa, in Il nuovo processo amministrativo dopo la legge 205/2000, a cura di F. Caringella e M. Protto, Milano 2001, 913 ss.
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Mercati finanziari, società di
rating, autorità ed organismi di
certificazione
Laura Ammannati
1.- L’informazione come strumento di regolazione: dalla
certezza alla fiducia
I mercati, e non solo quelli finanziari, così come una gran
parte delle relazioni economiche e della vita quotidiana sono caratterizzati da carenze di informazione. Le relazioni
tra soggetti e operatori presenti su mercati aperti, complessi e talvolta globali sono caratterizzate da forti elementi di
incertezza in gran parte prodotta da insufficiente informazione. E’ noto che una informazione adeguata rappresenta
una condizione necessaria per compiere scelte o mettere
in atto comportamenti economici razionali.
La condizione di asimmetria informativa è generalmente ritenuta uno dei fondamentali e classici motivi di ricorso alla
regolazione da parte delle istituzioni. Il gap informativo può
essere ridotto con il ricorso a meccanismi di regolazione finalizzati a produrre certezze oppure, meglio sarebbe dire,
a ridurre l’incertezza e l’insicurezza così come i costi di
transazione nel reperimento delle informazioni necessarie
da parte del singolo o di gruppi economici o sociali.
La risposta regolatoria tipica è rappresentata dalla mandatory disclosure e dalla correlata attribuzione di competenze
di enforcement al regolatore1. Si pensi ad interventi tra loro
diversi, da quelli di labelling di beni e prodotti alle misure di
trasparenza introdotte nelle relazioni tra operatori e risparmiatori/investitori sui mercati finanziari.
Certamente sul mercato finanziario i problemi informativi
appena accennati appaiono declinati in modo particolare.
Già a prima vista è chiaro che la soluzione dei problemi informativi e la creazione di un mercato finanziario informato
non può essere ricondotta principalmente alla azione degli
investitori soprattutto a causa di costi troppo elevati di ricerca e per le gravi difficoltà di coordinamento. Ma non può
essere neppure del tutto affidata all’azione volontaria degli
emittenti che non garantiscono soluzioni efficienti e possono riprodurre analoghe situazioni di asimmetria riguardanti
31
l’esattezza della informazione divulgata.
In considerazione di questi comportamenti, come appena
ricordato, uno strumento cui fare ricorso può essere quello
della “divulgazione obbligatoria”, cioè imposta dal regolatore che, come parte estranea alla transazione, non dovrebbe avere di per sé interessi in conflitto con la diffusione di
una informazione esaustiva e di buona qualità.
Tuttavia questo tipo di regolazione presenta alcuni limiti
ben presenti alla teoria economica. Tra questi possiamo ricordare innanzitutto il necessario equilibrio che il regolatore deve prendere in considerazione tra bisogno di informazione dell’investitore ed esigenze di tutela dell’emittente.
Inoltre la constatazione che una esorbitante richiesta di informazione può avere come esito una informazione incompleta o una violazione degli obblighi nel caso in cui la connessa sanzione sia di scarsa rilevanza ed ancora che una
pesante azione di intrusione sul mercato può avvantaggiare alcuni soggetti a scapito di altri.
Così laddove il regolatore non è in grado di dare una risposta efficiente ai problemi informativi, è possibile che un
soggetto terzo diverso dalle parti della transazione possa
intervenire a ridurre il gap informativo.
In considerazione di questo obiettivo fin dagli anni 90 la letteratura statunitense aveva aperto una riflessione su un
meccanismo di governance dei mercati volto a facilitare le
transazioni attraverso indicazioni dirette a ridurre l’incertezza. Il modello cui si fa qui riferimento è quello dei “Gatekeepers” o dei “Reputational Intermediaries”. I due termini
possono, in linea generale, essere considerati sinonimi.
Tuttavia nella prima definizione è più evidente la funzione
di condizionamento dell’accesso al mercato, mentre nella
seconda sono evidenziati i caratteri che fanno di questi
soggetti attori sofisticati e affidabili nel mercato2.
Questi particolari soggetti sono stati definiti anche “intermediari informativi” o “infomediary”, nome coniato negli anni 90 negli USA e molto usato per indicare i soggetti che
forniscono servizi informativi nel mercato finanziario3.
Tale categoria di intermediari gode di una particolare autorevolezza in particolare per due motivi: innanzitutto, sono
ritenuti soggetti altamente sofisticati e quindi capaci di dare
informazioni di elevata qualità; in secondo luogo, sono pagati per il servizio offerto e la loro permanenza sul mercato
finanziario così come la continuità della loro attività dipende dalla qualità del servizio fornito e dalla correttezza del
comportamento. A partire da questi elementi si possono
segnalare alcuni esempi sui quali una buona parte della
(1) V. a questo proposito la trattazione ‘classica’ di A. OGUS, Regulation: Legal Form and Economic Theory, Hart Publishing, Oxford and
Portland, 1994, 121 ss.
(2) Sul tema v. in particolare lo scritto di J. C. Coffee, The Acquiescent Gatekeeper: Reputational Intermediaries, Auditor Independence
and the Governance of Accounting, (maggio 2001), Columbia L. & E. WP No. 191, in http://ssrn/com/abstract=270944, e il volume Gatekeepers: The Professions and Corporate Governance, OUP, 2006. Più in generale per un quadro del dibattito in materia v. G. Ferrarini – P. Giudici, I revisori e la teoria dei gatekeepers, in Nuove prospettive della tutela del risparmio, Giuffrè, Milano, 2006, p. 130 ss..
Più in dettaglio sulla regolazione dei gatekeeper e sui correlati profili di responsabilità civile, v. P. Giudici, La responsabilità civile nel diritto dei mercati finanziari, Milano, Giuffré, 2008, cap. IV, e in partic. la Sez. VIII sulle Agenzie di rating.
(3) Il termine fu coniato da J. Nagel, The Coming Battle for Customer Information, in Harward Business Review, 1996.
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letteratura in materia si è soffermata4: da una parte, le banche di investimento che sottoscrivono un titolo per poi collocarlo sul mercato ad un prezzo ritenuto appropriato e la
quantificazione avviene attraverso complesse e sofisticate
analisi; dall’altra, le società di revisione contabile che fondano la loro reputazione garantendo l’attendibilità della situazione finanziaria dell’emittente come risulta dalle scritture contabili. Una terza tipologia, peraltro talvolta controversa, è rappresentata dalle agenzie di rating la cui funzione
principale consiste nell’analisi del merito di credito degli
emittenti di titoli di debito (privati o pubblici) per valutarne il
livello di rischio. Il rating rappresenta quindi uno strumento
informativo a disposizione dell’investitore per valutare il rischio di credito.
Come per gli altri intermediari, anche per le Agenzie di rating entra in gioco l’elemento della reputazione che deve essere posta a garanzia della qualità dell’informazione offerta
al mercato. Gli effetti reputazionali del proprio comportamento sono rilevanti quando il soggetto opera con continuità
sul mercato e, laddove fornisse prestazioni inadeguate, sarebbe sanzionato dallo stesso mercato5. Non dobbiamo dimenticare che la gravità dei più recenti fallimenti nel settore
finanziario hanno messo in crisi le certezze relative a questo
modello e hanno indotto la letteratura americana a ridiscutere la posizione di questi soggetti e i meccanismi tradizionalmente indicati come fondamento della loro credibilità.
In più l’esperienza dei mercati finanziari mostra come il
32
comportamento dei soggetti di mercato non si struttura
sempre in condizioni di valutazione razionale delle informazioni a loro destinate6. Infatti i mercati, e quelli finanziari al
massimo grado, evidenziano forti elementi di irrazionalità
che si condensano in un generalizzato atteggiamento di
sfiducia nel corretto funzionamento del mercato stesso. A
questo proposito è il caso di ricordare come il dibattito da
tempo aperto nell’area delle scienze sociali, giuridiche ed
economiche sul tema del “rischio” e della sua possibile regolazione suggerisca che la necessità di prendere decisioni in condizioni di rischio sconta spesso l’impossibilità o
l’incapacità di certezze riguardo il comportamento degli altri soggetti di mercato. Quindi il meccanismo della fiducia
spesso sostituisce le complesse attività di valutazione delle
informazioni come momento propedeutico alla assunzione
di decisioni per il futuro7.
In queste circostanze il rating, in quanto espresso in forma
semplice e immediatamente percepibile8, ha in parte modificato il suo valore sul mercato proprio grazie alla fiducia
che i meccanismi reputazionali consentivano di far crescere di contro alle incertezze del mercato. Quindi il rating ha
iniziato a svolgere principalmente un ruolo di propagatore
di fiducia sistemica9. E questo è accaduto soprattutto in
quelle aree dove la regolazione era più debole o dove i
procedimenti di regolazione autorizzavano le agenzie a fornire un rating con valore per così dire normativo per la disciplina del mercato10.
(4) Sul tema v. A. Tuck, Multiple Gatekeepers, Harvard, John M. Olin Center for law, economics, and business, Discussion Paper No.
33, 3/2010, in http://ssrn.com/abstract=1577405, dove l’autore afferma che “In the context of business transactions, gatekeepers are lawyers, investment bankers, accountants and other actors with the capacity to monitor and control the disclosure decisions of their
clients – and thereby to deter corporate securities fraud”. Ed inoltre v. F. Partnoy, Overdependence on Credit Ratings was a Primary
Cause of the Crisis, San Diego Legal Studies Paper No. 09-015 (2009), in http://ssrn.com/abstract=1430653, che riassume le cause
della nascita degli intermediari informativi e sostiene che “information intermediaries have arisen because of information asymmetry
between buyers and sellers, particularly in markets where sellers have superior information but cannot costlessly convey this information to buyers. If buyers are economically rational, prices in a market with information asymmetry will reflect the average quality of a
product, and sellers with superior products will bear the cost of the information asymmetry. Consequently, sellers in such a market will
have an incentive to disclose the superior nature of their product so that they can receive the highest price. In financial markets, to the
extent that sellers cannot credibly make such disclosures, there are incentives for information intermediaries to play this role”.
(5) Sui “reputational systems” e la loro funzione di aggregazione e disseminazione dell’informazione ai consumatori dell’informazione stessa, v. E. Goldman, The Regulation of Reputational Information, (TechFreedom, Washington, D.C., 2010), Santa Clara Univ. Legal Studies
Research, Paper No. 1754628, in SSRN: http://ssrn.com/abstract=1754628 293 ss. Su questi temi, v. di recente il lavoro di A. Benedetti,
Certezza pubblica e “certezze” private. Profili pubblici e certificazioni di mercato, Giuffrè, Milano, 2010, ed in particolare p. 32 ss. e 73 ss.
(6) Anche se declinata in un diverso contesto, sul rilievo che sta assumendo la behavioural economics per valutare il comportamento
dei soggetti sui mercati e per mettere in atto strumenti di regolazione adeguati ad influenzare i comportamenti, v. di recente N. Rangone, Il contributo dell’economia comportamentale alla qualità delle regole, MCR, 1/2012 (in corso di pubblicazione).
(7) Sul rapporto tra “diritto del rischio” e certezza v. la relazione di F. Di Porto, Regolazione del rischio, informazione e certezza giuridica, presentata al convegno “Controlli, certificazioni, responsabilità. Tra pubblico e privato, tra domestico e globale” organizzato dall’Associazione Italiana di Diritto Alimentare presso l’Università della Tuscia, Viterbo 2-3 Dicembre 2011, ora pubblicato in q. Riv., www.rivistadirittoalimentare, n. 4/2011, 34.
(8) Proprio Moody’s ancora nel 2010 ha sostenuto che l’obiettivo del rating è “to provide investors with a simple system of gradation by
which relative creditworthiness of Securities may be noted…” (Moody’s, Ratings Definitions, in http://v3.moodys.com/ratingsprocess/Ratings-Definitions/002002 ).
(9) G.A. Akerlof e R.J. Shiller, Animal Spirits, Princeton Univ. Press, Princeton and Oxford, 2009; trad. it., Spiriti animali, Rizzoli, 2009,
25 ss.
(10) I punti più significativi della regolazione avente ad oggetto le agenzie di rating così come si è sviluppata negli Stati Uniti e nell’ordinamento comunitario sono illustrati da F. Parmeggiani, La regolazione delle agenzie di rating tra tentativi incompiuti e prospettive future, in Giurispr. Comm., 2010,1, 1 -34 e cfr. la bibliografia ivi citata.
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2.- Le agenzie di rating
Le agenzie di rating nascono all’inizio dello scorso secolo.
Basti ricordare, con riguardo alle prime tre più note, che
John Moody creò la prima agenzia nel 1909 e nel 1916 fu
creata la Poor Company cioè l’antenata di Standard and
Poor’s; circa un decennio dopo nel 1924 Fitch iniziava la
sua attività11. La loro importanza è cresciuta nel tempo e
nonostante alcuni importanti default, a cominciare dagli anni 70, inducessero a puntare i riflettori sulla affidabilità dei
rating emessi sugli strumenti del debito, l’enorme potere
delle agenzie sui mercati finanziari non è mai stato messo
realmente in discussione12.
La posizione acquisita nel tempo dalle agenzie ha portato
ad un incremento significativo del tipo delle attività che
vengono fornite e che ormai includono pre-rating assessment o talvolta una partecipazione dell’agenzia nella costruzione del prodotto sul quale sarà poi emesso il rating.
Tuttavia un mutamento radicale della loro struttura economica è il portato di un sostanziale ribaltamento del modello
iniziale che prevedeva il pagamento della prestazione da
parte degli investitori. Questo è stato sostituito dal modello
attuale, il cd issuer paid model, dove è lo stesso emittente
a pagare la prestazione. Questa trasformazione è cruciale
dal momento che una delle più diffuse tipologie di rating è
proprio l’ “issuer rating”, cioè il rating correlato alla capacità
e alla stabilità finanziaria dell’emittente13.
Cercando di rispondere alla domanda posta più volte “How
much money do Rating Agencies make?”, la gran parte dei
commentatori ha riconosciuto che l’issuer paid model su
cui è costruita l’attività delle Agenzie ha in sé un inevitabile
conflitto di interessi e può tradursi automaticamente in rating meno affidabili per gli investitori. A questo proposito
sono note alcune condotte opportunistiche che hanno ulteriormente aggravato il conflitto di interessi. Si tratta talvolta
di presentazioni anticipate (pagate dal cliente) dei modelli
di valutazione che saranno adottati per la definizione del
rating e del possibile conseguente risultato cosicché l’emittente possa eventualmente mettere in campo contromisure
finalizzate alla manipolazione dello stesso modello oppure
gli stessi emittenti utilizzano lo strumento di commissionare
in via confidenziale l’elaborazione di più rating e scegliere
poi di divulgare il più alto.
33
Pesanti conflitti di interessi sono presenti anche riguardo
alla proprietà in quanto nell’azionariato delle agenzie (e
non solo di una) si ritrovano, ad esempio, molti importanti
gestori di fondi di investimento e alcune tra le più importanti banche d’affari. Sono tra l’altro costanti e forti gli intrecci
azionari anche tra queste due categorie di operatori.
Altra caratteristica rilevante del sistema è rappresentata
dalla struttura del mercato caratterizzato da una concorrenza limitata e da un elevato potere di mercato degli incumbent14. In breve è utile ricordare come ciò sia riconducibile
ai caratteri specifici di questo mercato in cui, da una parte,
rileva la reputazione generalmente riconosciuta ai soggetti
di più antica tradizione e, dall’altra, sono presenti economie
di scala che favoriscono i soggetti di maggior dimensione.
Inoltre una rilevante barriera all’accesso, forse la maggiore,
è stata rappresentata, inizialmente nella disciplina statunitense, dalla attribuzione da parte del regolatore e del legislatore di un ruolo privilegiato a determinate agenzie. Alcuni
esempi delle difficoltà incontrate dalle nuove agenzie nell’ottenere, in passato, la qualifica di Nationally Recognized
Statistical Rating Organizations (NRSRO) sono illustrati da
Hill nel suo saggio del 2004. Un caso tra tutti: uno dei soggetti cui fu rifiutato in prima battuta l’accesso era l’agenzia
Egan-Jones, nota per due caratteristiche, forse connesse:
l’avere effettuato i downgrading di Enron e WorldCom parecchi mesi prima di Moody’s e Standard & Poor’s e il percepire le proprie commissioni principalmente dagli investitori anziché dagli emittenti. L’agenzia è stata ammessa tra le
NRSRO ma solo nel 200715.
3.- Il ruolo del rating e la “domanda di rating” da parte dei
regolatori
A questo punto possiamo chiederci qual è il ruolo specifico
del rating sui mercati finanziari. In sintesi il rating nel sistema finanziario può assolvere a tre diverse funzioni.
La prima, cui si è già fatto cenno nella parte iniziale, riguarda la riduzione del gap di informazione proprio perché il rating si rappresenta come un bene che incorpora una specifica informazione. Il valore informativo (information value)
del rating rileva in quanto è un indicatore prospettico. Insieme al bene informazione le agenzie mettono sul mercato
(11) Una ricostruzione delle origini, tra le altre, in F. Dittrich, The Credit Rating Industry: Competition and Regulation (Inauguraldissertation zur Erlangung des Doktorgradesder Wirtschafts- und Sozialwissenschaftlichen Fakultät der Universität zu Köln), 2007, in
http://ssrn.com/abstract=991821 , 16 ss.; e G. Ferri – P. Lacitignola, Le agenzie di rating, Il Mulino, Bologna, 2009, 19 ss.
(12) C. A. Hill, Regulating the Rating Agencies, Business, Georgetown University Law Center Economics and Regulatory Policy Working
Paper No. 452022 (2004), in http://ssrn.com/abstract=452022, 5 ss.
(13) Le tipologie di rating possono essere in sintesi due. Analoga a quella appena citata è la tipologia correlata alla capacità dell’emittente è il cd “sovereign rating” caratterizzato dal fatto che l’emittente è uno stato; la seconda importante tipologia è l’ “instrument rating”
per cui il giudizio è dato sulla singola emissione di strumenti finanziari.
(14) Il tema delle barriere all’ingresso di questo mercato è uno di quelli oggetto di diverse proposte di riforma. Su queste, v. P. Deb, M.
Manning et al., Whither the credit ratings industry?, Bank of England, Financial Stability Paper No. 9 – March 2011, 12 ss.
(15) V. per questo C. A. Hill, Regulating the Rating Agencies, cit., 54 ss, che evidenzia il carattere opaco delle procedure di qualificazione e le responsabilità della SEC per il ristretto numero di NRSRO.
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un bene correlato, cioè la reputazione (reputational value),
che gli emittenti acquisiscono principalmente in caso di
giudizio positivo, ma in parte anche per la sola circostanza
di aver fatto ricorso al rating e di sottoporre ad un costante
monitoraggio la propria affidabilità.
La seconda funzione può essere rappresentata da una attività che è definita dalla letteratura internazionale di “certificazione”16 e che si riferisce all’utilizzo di questo strumento
per distinguere tra titoli con differenti caratteristiche di rischio e per specificare termini e clausole all’interno di contratti finanziari17.
La terza funzione rappresenta una variante ormai molto
estesa del ruolo cosiddetto di certificazione esercitato riguardo elementi contrattuali o pratiche di mercato. Faccio
qui riferimento a quello che è stato nel tempo un uso pervasivo del rating all’interno di numerose procedure di regolazione. Negli Usa le prime misure regolatorie che usano il
rating come parametro risalgono agli anni 30 dello scorso
secolo e hanno avuto un notevole incremento nel tempo, in
particolare negli anni 7018.
Ritornando ai nostri giorni, sebbene la domanda di rating
da parte dei regolatori sia stata finora più diffusa negli Stati
Uniti, non mancano interessanti esempi anche in Europa e
nel nostro paese. Qui mi limiterò a ricordare qualche
esempio senza pretese di completezza.
L’esempio più citato di affidamento sui rating da parte della
regolazione a livello globale è rappresentato dagli accordi
cd “di Basilea 2” del 2004 sui requisiti di capitale delle banche. L’accordo è limitato alle banche attive a livello internazionale ma nell’Unione Europea è stato esteso, a mezzo
34
delle direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, anche agli enti
che operano a livello nazionale. L’accordo di Basilea 2, al
pari delle disposizioni di recepimento dei suoi contenuti, indica gli standard che le banche devono rispettare di fronte
a tre dei principali rischi riguardanti la propria operatività (rischio operativo, rischio di credito e rischio di mercato)19. In
questo quadro i rating sono impiegati nella quantificazione
della copertura, in termini di fondi propri, richiesta a fronte
dell’esposizione al rischio di credito da parte delle banche.
In Italia, la prima legge che ha dato rilevanza al giudizio
delle agenzie è la n. 130 del 1999 (Disposizioni sulla cartolarizzazione dei crediti). La legge prevede infatti che, nel
caso in cui i titoli oggetto delle operazioni di cartolarizzazione siano offerti ad investitori non professionali, l’operazione deve essere sottoposta alla «valutazione del merito
di credito da parte di operatori terzi» (art. 2, c. 4).
Inoltre questa stessa legge ha delegato la Consob a fissare, con proprio regolamento, i requisiti di professionalità e i
criteri richiesti a garanzia dell’indipendenza degli operatori
che svolgono la valutazione del merito di credito. Il regolamento Consob n. 12175 del 1999 ha disciplinato i requisiti
di professionalità e quelli di indipendenza.
Un altro caso è rappresentato dall’art. 100 bis, c. 4 del Testo Unico della Finanza (TUF), dove si esclude che possa
essere considerata «offerta al pubblico» la rivendita sistematica, a soggetti diversi dagli investitori qualificati, di titoli
di stato emessi da paesi dell’area OCSE che vantino un rating di livello almeno pari all’investment grade, purché tale
giudizio sia assegnato «da almeno due primarie agenzie
internazionali» di rating20.
(16) International Monetary Fund, The uses and abuses of sovereign ratings, in Global Financial Stability Review, October 2010, 85–122.
(17) L’effettivo valore informativo del rating è in teoria connesso al carattere di tempestività sia del rilascio che della modifica. Così le
agenzie di rating interpretano ruoli potenzialmente in conflitto: fornire tempestive informazioni al mercato e allo stesso tempo comunicare rating stabili a fini di regolazione e contrattazione. È infatti dimostrato l’impatto della modifica del rating sui corsi di borsa, come
nel caso di downgrading dei titoli, il cui effetto è di fatto rafforzato dalla pratica del rating trigger, cioè di quelle clausole contrattuali che
riconoscono agli investitori certe facoltà soprattutto in caso di variazioni negative del rating (sul punto, v. ancora, tra l’altro, C. A. Hill,
Regulating the Rating Agencies, 69 s.).
(18) E’ interessante ricordare quello che rappresenta sicuramente il primo caso in questo ambito. All’indomani della crisi del 1929 e per
ridurre l’elevato rischio di credito che caratterizzava gli intermediari finanziari americani, l’Office of the Comptroller of the Currency elaborò nuove regole per le banche. Gli istituti di credito potevano contabilizzare al loro valore di acquisto solo i bond che avessero ricevuto da almeno un’agenzia un rating BBB o superiore, disponendo che i bond valutati al di sotto di tale soglia dovessero essere iscritti a
bilancio secondo il loro valore di mercato e che il 50% delle perdite realizzate dovesse essere accantonato a garanzia del capitale. Nel
1936, mentre la crisi continuava ad affliggere il mercato americano, lo stesso Office e la Federal Reserve inasprirono le restrizioni regolamentari, con un provvedimento che imponeva alle banche di detenere unicamente titoli ai quali fosse stato attribuito da almeno
due agenzie un rating almeno pari a BBB. Tale regola ebbe un impatto cruciale sui mercati, in quanto circa metà dei bond all’epoca negoziati non erano in grado di soddisfare tale requisito e di conseguenza videro la propria negoziabilità fortemente compromessa. Questo intervento costituì la prima dimostrazione dell’enorme potere che la regolazione era in grado di attribuire alle agenzie di rating,
quando elevava i loro giudizi al rango di parametri con i quali disciplinare il mercato. Già all’epoca vennero sollevate non poche critiche.Per una ricostruzione delle regole statunitensi che incorporano, in diversa misura e con diversi effetti, i giudizi delle agenzie di rating v. F. Partnoy, The Siskel and Ebert of Financial Markets: Two Thumbs Down for the Credit Rating Agencies, in Washington University Law Quarterly (1999), in http://ssrn.com/abstract=167412 , 619 ss. e in partic. 686 ss.
(19) Sul punto, v. in particolare L. Enriques – M. Gargantini, Regolamentazione dei mercati finanziari, rating e regolamentazione del rating, in Analisi giuridica dell’economia, 2/2010, 476 s.; ed anche F. Parmeggiani, La regolazione delle agenzie di rating tra tentativi incompiuti e prospettive future, cit. 21 ss.
(20) Un riferimento al rating dell’emittente era incluso nell’art. 28 septies, c. 1 lett. b) del regolamento emittenti in vigore fino al
30.6.2009. Questo è stato sostituito dall’art. 34 che non contiene un riferimento diretto al rating ma alla presenza di “uno o più indicatori
di mercato del rischio di credito del’emittente o del garante”.
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Su un altro versante possiamo ricordare la circolare ISVAP
474/D del 2002 (in attuazione dell’art. 30 c. 1 del d.lgs.
174/1995) dove, in rapporto ad alcuni prodotti finanziari assicurativi, veniva richiesto un rating attribuito da una primaria agenzia almeno pari a “BB” o equivalente, a condizione
che nessun’altra agenzia avesse attribuito una valutazione
inferiore.
Anche in ambito europeo, nonostante l’evoluzione della crisi finanziaria, il Committee of European Securities Regulator (CESR), ora sostituito dalla nuova Autorità, la European
Securieties and Markets Authority (ESMA), ha dimostrato
fiducia nei confronti dei rating. Infatti, le linee-guida in materia di fondi monetari approvate nel maggio del 2010 prevedevano che tali fondi potessero investire unicamente in
titoli dotati di rating elevato.
La crescente inclusione del rating nella normativa finanziaria ha creato un eccessivo affidamento del regolatore sui
giudizi delle agenzie ed ha portato a riconoscere il rating
come un fondamentale parametro attribuendogli di fatto
una sorta di “forza di legge”, una rilevanza normativa.
Di conseguenza la domanda dei servizi di rating ha subito
un ulteriore radicale mutamento. Alla trasformazione intervenuta con il passaggio al modello “issuer paid” si è aggiunto l’intervento diretto del regolatore che per legge prevede l’applicazione all’emittente di un trattamento normativo favorevole nel caso questi possegga un rating al di sopra di una determinata soglia.
Una simile previsione trasforma la funzione esercitata nei
mercati dalle agenzie. Infatti, in assenza di qualsiasi intervento regolamentare, esse svolgono un ruolo da intermediario reputazionale vendendo un giudizio con un importante valore informativo.
Al contrario, l’attribuzione al rating di un valore normativo
trasforma le agenzie in venditori di un “trattamento regolamentare”, la cd “regulatory license” descritta in un famoso
articolo di Partnoy del 1999 che per primo ha analizzato
questo fenomeno21. Di conseguenza le agenzie agiscono
come peculiari gatekeeper che, invece di determinare
semplicemente quali soggetti possono operare sul mercato, decidono col proprio rating quali soggetti possono beneficiare di un trattamento regolamentare più favorevole22.
In sintesi le agenzie si trasformano da soggetto che vende
un giudizio che incorpora un valore informativo in soggetti
che vendono una regulatory licence. Questo prospetta un
evidente paradosso delle agenzie di rating per cui, a fronte
di un decrescente informational value del rating, l’importanza e la prosperità delle stesse agenzie è di molto aumentata nel tempo.
35
Sempre secondo Partnoy, una causa importante, se non la
principale, dei recenti tsunami sui mercati finanziari sta nella “overdependence” dal rating veicolato dalla regolazione
come parametro normativo. Questa condizione è stata riconosciuta anche dai regolatori e la stessa SEC ha proposto interessanti, anche se iniziali, modifiche. Ma ciò che più
colpisce è che, indipendentemente dalla influenza regolatoria, molti operatori di per sé mantengono una incrollabile
fiducia nel rating confermando la loro dipendenza. Infatti,
dopo decenni di dominio delle agenzie e del rating, quest’ultimo è divenuto parte della “cultura finanziaria” influenzando gli stessi comportamenti economici23. Sul punto ritorneremo nelle osservazioni finali.
Nonostante diverse critiche24, il punto di vista della regulatory license non è da sottovalutare dal momento che lo stesso Reg. europeo n. 1060 del 2009 consente che banche,
imprese di investimento o di assicurazione ed altri organismi utilizzino “a fini regolamentari solo rating emessi da
agenzie di rating del credito stabilite nella Comunità e registrate conformemente al presente regolamento” (art. 4).
Possiamo comunque osservare fin da subito che, al di là
dell’ambiguità che connota le agenzie di rating e il loro prodotto, il loro ruolo come “intermediari dell’informazione” sia
stato più o meno costantemente riconosciuto, anche se, in
assenza di procedure regolatorie inclusive di rating, questo
avrebbe rappresentato soltanto un indicatore, tra i molti, a
disposizione dell’investitore.
4.- La regolazione del rating
I giudizi emersi durante la crisi finanziaria hanno condotto
legislatori e regolatori a irrigidire le norme sulle società di
rating e a introdurne di nuove, in particolare sul versante
del conflitto di interessi.
Senza poter entrare qui nel dettaglio è interessante ricordare in breve alcuni passaggi.
Negli USA già negli anni 70 dello scorso secolo veniva attuato un primo intervento di regolamentazione delle Agenzie attraverso la creazione di un albo presso la SEC per la
loro iscrizione come NRSRO (Nationally Recognized Statistical Rating Organization). L’iscrizione è finalizzata a riconoscere validità alle regole inclusive di un rinvio ai rating.
Solo di recente il legislatore americano è divenuto più consapevole degli effetti negativi della funzione regolamentare
del rating. Infatti nel 2006 il Credit Rating Agency Regulatory Act si proponeva di rendere più affidabile il mercato
del rating soprattutto rafforzando il regime di vigilanza.
(21) In primo luogo v. F. Partnoy, The Siskel and Ebert of Financial Markets: Two Thumbs Down for the Credit Rating Agencies, cit. , 681 ss.
(22) Riguardo il ruolo riconosciuto dai regolatori alle agenzie di rating e all’effetto conseguente sulla loro funzione di gatekeepeeper, v. F.
Partnoy, How and why credit rating agencies are not like other gatekeepers, in University of san Diego, Legal Studies Research Paper,
No. 07-46 (May 2006), in http://ssrn.com/abstract=900257, 59-101.
(23) F. Partnoy , Overdependence on Credit Ratings was a Primary Cause of the Crisis, in University of San Diego, Legal Studies Research Paper No. 09-015 (July 2009), in http://ssrn.com/abstract= 1430653, 9 ss.
(24) Tra l’altro, v. C. A. Hill, Regulating the Rating Agencies, cit., 60 ss.
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Queste disposizioni hanno trovato attuazione nel 2007 con
un provvedimento della SEC che punta alla riduzione della
opacità delle procedure di valutazione delle richieste di
ammissione all’albo e introduce norme a tutela dell’indipendenza dei giudizi come, ad esempio, l’obbligo di non
condizionare l’emissione di rating all’acquisto preliminare
di altri servizi.
Comunque solo dopo aver riscontrato che il sistema del regulatory license aveva contribuito alla diffusione dei titoli tossici ingenerando negli investitori un irrazionale affidamento,
nel 2009 la SEC è intervenuta sulla domanda di servizi delle
agenzie e ha iniziato a eliminare dalla regolazione il riferimento al possesso di rating come parametro necessario.
Infine il Dodd-Franck Act (Dodd-Franck Wall Street Reform
and Consumer Protection Act) del 2010 mette l’accento
sulla governance delle agenzie, in particolare sulla composizione dei CdA, e sulle regole di comportamento (Sec.
932). Inoltre (Sec. 939A) richiede alla SEC di fare una ricognizione della regolazione che richiede un riferimento al rating e successivamente di eliminare i vincoli di rating e di
sostituirli con standard di diversa natura25.
La revisione dell’accordo di Basilea 2, cioè Basilea 3, si è
mossa in una direzione simile, cioè puntando alla riduzione
dei conflitti di interesse26. Un altro aspetto interessante delle proposte del Comitato di Basilea ha riguardato la necessità che le agenzie di rating, per rilasciare giudizi validi ai
fini della regolamentazione prudenziale, rispettino il codice
di condotta IOSCO al quale le maggiori agenzie di rating
sono tuttavia in gran parte allineate.
In Europa la normativa finanziaria ha fatto minor affidamento sul rating e forse per questo motivo la revisione della funzione regolamentare è apparsa meno urgente.
Il Reg. CE 1060 del 1999 ha avuto come obiettivo il miglioramento della qualità del rating ed ha imposto alle Agenzie
un obbligo di registrazione (che non elimina i procedimenti
di riconoscimento delle agenzie di rating già introdotti); precise regole di comportamento, in particolare relative alla
prevenzione dei conflitti di interesse, alla trasparenza relativa ai modelli di valutazione e ai criteri di correttezza nella
presentazione dei giudizi; inoltre ha introdotto un sistema
di vigilanza da parte delle autorità nazionali.
Il Regolamento è stato recepito in Italia con il d. lgs.
176/2010 che modifica il TUF e attribuisce alla Consob le
36
funzioni di vigilanza (art. 4-bis) e la possibilità di applicare
le misure sanzionatorie in presenza di violazioni (art. 193,
c. 1-quinquies).
Le disposizioni comunitarie del 1999 sono state riviste con
il Reg UE 513/2011 che affida alla European Securities
and Markets Authority (ESMA) le competenze relative alla
registrazione e alla supervisione delle agenzie di rating registrate e ha come obiettivo prevalente il miglioramento
della trasparenza dell’informazione da parte delle stesse
agenzie.
Infine si registra un progetto relativo alla definizione di un
contesto legale per l’attività delle agenzie presentato dalla
Commissione il 15 novembre scorso (COM(2011) 747 def).
Tra gli obiettivi, quelli più rilevanti riguardano, in linea generale, la riduzione della dipendenza dal rating, al quale è
riconosciuto un ruolo quasi-istituzionale, delle istituzioni finanziarie; e più in dettaglio obblighi di maggiore trasparenza nell’attribuzione dei rating sovrani attraverso la regolamentazione della loro pubblicazione; infine un rafforzamento dell’indipendenza delle agenzie in vista di una eliminazione dei conflitti di interessi. A questo fine è richiesta una
rotazione triennale tra le agenzie di valutazione degli emittenti e la presentazione di due differenti rating in caso di
valutazione di strumenti complessi di finanza strutturata27.
Su un altro versante, sempre a livello europeo, le agenzie
di rating sono state escluse dalla applicazione della disciplina comunitaria riguardante “la corretta presentazione
delle raccomandazioni di investimento e la comunicazione
al pubblico di conflitti di interesse” (dir. 2003/125/CE).
La stessa esclusione è stata prevista, dopo una prima posizione in senso contrario, dalla legislazione italiana. Infatti
la nota legge sulla tutela del risparmio (262/2005) ha modificato il TUF (art. 114, c.8) escludendo che il rating potesse
essere incluso nella categoria delle raccomandazioni di investimento28. Di conseguenza le agenzie sono escluse dagli obblighi imposti ai soggetti che producono o diffondono
ricerche o valutazioni riguardanti gli strumenti finanziari (indicati nell’art. 180, c.1 lett.a) o gli emittenti e che sono obbligati a presentare l’informazione in modo corretto e a comunicare preventivamente la presenza di ogni eventuale
conflitto di interessi.
Il regolamento emittenti Consob (n. 11971/1999) nell’ultima
versione del 2007 dell’art. 69-decies ha escluso le agenzie
(25) Il Dodd-Franck Act chiede alla SEC «to review (i) any regulation that requires the use of an assessment of the creditworthiness of a
security and (ii) any reference to or requirement in such regulations regarding credit ratings, and modify them to remove those references and substitute standards of creditworthiness the SEC determines to be appropriate. The SEC’s proposed rules, if adopted, would
remove the references to credit ratings […] and replace them with new standards relating to the trading characteristics of covered securities». Dopo oltre un anno la FED, l’Agenzia di assicurazione dei depositi e il Dipartimento del Tesoro hanno elaborato tre indicatori di
merito di credito diversi dai rating.
(26) Sul punto, v. Basel Committee on Banking Supervision, Enhancements to the Basel II framework, Basilea, luglio 2009 e qualche
commento in L. Enriques – M. Gargantini, Regolamentazione dei mercati finanziari, rating e regolamentazione del rating, cit., 484 s.
(27) Dopo il falso downgrading della Francia del 10 nov. è stata anticipata la presentazione delle regole europee. Dal canto suo la SEC
ha aperto un’indagine su S&P per verificare se dietro il falso allarme non esista un caso di insider trading.
(28) Per questo, v. M-T. Paracampo, L’informativa finanziaria derivata. Ruolo e responsabilità degli analisti finanziari, Cacucci, Bari,
2008, 57 e 125 ss.).
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di rating dall’applicazione delle norme del regolamento lasciandovi assoggettati solo i soggetti abilitati e gli altri soggetti che professionalmente producono o diffondono valutazioni del merito di credito29.
A livello globale l’impatto del rating sui mercati finanziari è
cresciuto nel tempo. Così l’attività delle agenzie è stata oggetto di diversi interventi della IOSCO (International Organization of Securities Commissions) e nel 2004 è stato
emanato un Codice di condotta indirizzato proprio alle
agenzie30 (rivisto nel maggio del 2008). Il recepimento delle
disposizioni del codice, che prevede un meccanismo di
“comply or explain”, da parte delle agenzie è stato oggetto
di periodiche verifiche. Nel 2009 la Credit Rating Agency
Task Force of IOSCO ha condotto una verifica sulla implementazione dei requisiti di trasparenza richiesti dalla quale
emerge che 7 delle 21 agenzie monitorate avevano iniziato
il percorso necessario all’adeguamento, mentre le tre maggiori avevano sostanzialmente recepito le ultime revisioni.
4.- Osservazioni finali
Il primo punto riguarda il significato e il carattere dei recenti
interventi di rafforzamento della regolazione delle agenzie
di rating.
In effetti, come la maggior parte degli osservatori ha messo
ben in evidenza, la strada imboccata non è stata chiaramente quella di una ridefinizione radicale del sistema di
rinvio regolamentare al rating. Al contrario, sembrerebbe
aver prevalso la tendenza a confermare le scelte precedenti con un surplus di vincoli intorno alla attività delle
stesse agenzie31.
Almeno fino al più recente periodo il risultato più visibile
della nuova regolazione sembrava un rinnovato credito da
parte dei regolatori alla affidabilità dei giudizi delle agenzie.
Di fronte a questa rinnovata fiducia in un rating emesso in
base a nuove e più attente regole, la strada di una regolazione più stringente e di dettaglio è stata battuta inizialmente dagli USA anche prima di Enron e WorldCom. E
ora, a seguito della crisi, anche dall’Europa32.
Tuttavia più di recente si intravedono tendenze, soprattutto
37
negli USA, verso un significativo abbandono, o quanto meno ridimensionamento, del ruolo regolamentare del rating.
Infatti è del 2009 una rule della SEC (final rule –
12.11.2009) che sembra riconoscere come l’assunzione
del rating come parametro di valutazione degli strumenti finanziari e della stabilità dell’issuer abbia consentito alle
agenzie (più specificamente alle NRSRO) di vendere agli
emittenti una regulatory licence. Quindi il regolamento apporta alcuni significativi emendamenti per eliminare il riferimento all’esistenza di un rating33. Infine, come abbiamo già
accennato nella parte precedente, con il Dodd-Frank Act si
interviene in modo rilevante sul legame tra rating e normazione finanziaria (v. Sec. 939 e 939B).
Il secondo punto, strettamente connesso a questo, ci riporta al tema della natura del rating. L’evoluzione del ruolo
delle agenzie e del rating ha prodotto una distorsione del
mercato e una torsione dell’originario significato. Infatti il
rating doveva esprimere esclusivamente un “parere”, un’
“opinione” sul merito di credito di un emittente o di uno
strumento finanziario, in un dato momento, messo a disposizione dell’investitore. Non è un caso che negli USA il rating è ricondotto all’area della libertà di espressione garantita dal 1° emendamento della Costituzione34. Anche la IOSCO definisce il credit rating come “an opinion”, e in modo
analogo si esprime il reg. 1060 del 2009 (art. 3, c.1 lett.a).
Quindi l’attribuzione di un valore normativo al rating ne ha
modificato l’originaria natura trasformandolo in una sorta di
certificazione delle caratteristiche del soggetto o dello strumento finanziario. In conclusione è evidente che esiste una
profonda ambiguità riguardo l’individuazione della natura
del rating.
Il rating non è certamente assimilabile ad una certificazione in
quanto le agenzie di rating esercitano una funzione diversa
da quella di certificazione ad esempio della qualità. Difatti non
attesta la conformità di uno strumento ad una normativa specifica o a standard tecnici così come non attesta della adeguatezza degli emittenti alle regole specifiche che disciplinano la loro attività. In questo senso l’attività delle agenzie non
può essere assimilata a quella delle società di revisione35.
Riguardo le agenzie di rating, in esse convivono due
aspetti talvolta anche confliggenti: una sorta di legittimazio-
(29) M -T. Paracampo, Ivi, 130 ss
(30) Sul ruolo della IOSCO, v. tra l’altro M. Senn, Non-State Regulatory regimes. Understanding Institutional Transformation, Springer,
Berlin - Heidelberg, 2011, 117 e 120.(31) V. per questo D. Masciandaro, Non oracoli solo opinioni, in Il Sole 24 ore, 11 gennaio 2012.
(32) In questa prospettiva v. S. Rousseau, Regulating credit rating agencies after the financial crisis: the long and winding road toward
accountability, Capital Markets Institute, Rotman School of Management, University of Toronto (July 23, 2009), in http://ssrn.com/abstract=1456708; ed anche M. Bussani, Credit Rating Agencies’ Accountability. Short Notes on a Global Issue, in Global Jurist (2010),
vol. 10, iss.1, in http://ssrn.com/abstract=1515285 .
(33) Il regolamento emenda alcune rule emanate in attuazione del Securities Exchange Act del 1934 e dell’Investment Company Act del
1940 con espliciti riferimenti al rating delle NRSRO.
(34) Di grande rilevanza il riflesso di questa qualificazione sulla responsabilità civile delle agenzie nei confronti degli investitori, e sul
punto v. le osservazioni di P. Giudici, La responsabilità civile nel diritto dei mercati finanziari, cit., 413 – 417, che ipotizza che, se le
agenzie sono uno strumento di accesso al mercato finanziario, il trattamento in termini di responsabilità civile non dovrebbe essere diverso da quello riservato alle banche d’affari.
(35) Su questo v. anche G. Ferri – P. Lacitignola, Le agenzie di rating, cit., 112 ss.
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ne che deriva dal mercato in base al meccanismo reputazionale e un’altra che invece deriva dalla regolazione36.
Possiamo arrivare a sostenere che l’intervento della regolazione ha addirittura modificato la natura stessa delle agenzie, creando un ibrido, cioè un “public – private gatekeeper”?
Oppure, come altri propongono37, dovremmo arrivare ad
una completa e radicale eliminazione dalle disposizioni vigenti delle norme che contengono rinvii ai rating in quanto
la soluzione migliore sarebbe riportare il rating alla sua originaria dimensione privatistica?
L’utilizzo del rating a fini regolatori così come la regolazione pubblica delle agenzie non è un evento ineluttabile. Ciò
che lascia maggiormente perplessi è, come abbiamo avuto
modo di vedere, l’ambiguità cha ha caratterizzato l’intervento dei legislatori e dei regolatori che, da una parte, attribuiscono al rating un ruolo “pubblicistico” condizionante
mentre, dall’altra, riconoscono la diversità del rating rispetto alle raccomandazioni di investimento e sottraggono le
agenzie alla applicazione delle regole imposte ad altri intermediari informativi.
Tuttavia come le diversità presenti allo stato attuale nell’esperienza statunitense rispetto a quella europea indicano, è possibile intraprendere un percorso di semplificazione e di ridefinizione della natura del rating e quindi anche
della correlata regolazione delle agenzie.
Con una qualche semplificazione del ragionamento possiamo ipotizzare che se la rilevanza pubblicistica del rating
dovesse permanere sarebbe forse necessaria l’introduzione di ulteriori e più invasive regole per le stesse agenzie
come, ad esempio, una più attenta disciplina degli assetti
proprietari, obblighi relativi alla governance, oppure la definizione delle procedure di emissione. Ma sicuramente
l’elenco degli aspetti da regolare sarebbe ben più lungo.
Sembra allora auspicabile che la strada da percorrere sia
quella di una sorta di “pubblicizzazione” di questi organismi
prodotta da una tendenziale iper-regolazione? O piuttosto
sarebbe auspicabile che anche il legislatore europeo iniziasse a rivedere le contraddizioni della sua normazione
mettendo in atto una attenta valutazione, caso per caso,
38
delle regolamentazioni che includono il rating nell’ottica di
una sostituzione di questo parametro con standard basati
su modelli di valutazione più affidabili?
ABSTRACT
The experience of the financial markets has been showing
how the behaviours of economic operators are not always
structured on the rational assessment of information
received. The most common attitude is a widespread mistrust towards the correct functioning of the market. The
ongoing debate about risk and risk regulation demonstrates
that reaching a decision in risky conditions is often shaped
by the complete uncertainty about the other market operators’ attitude. Therefore trust mechanisms replace complex
assessment activities of information as an initial step in taking decisions for the future. According to these premises,
the rating, as expressed in an alphabetical and easily intelligible mark, has partially changed its value in the market
and is aimed at spreading systemic trust based on the
CRAs’ reputation.
The first part of this paper includes a brief review of the principal critical elements (such as conflicts of interest) characterizing the CRAs’ activity model and the market structure.
The second part highlights more in depth the current role of
the CRAs that is no longer that of “Information
Intermediaries”. Indeed, since ratings have become woven
in to many national, European and global regulations concerning both banks and financial intermediaries, an “artificial demand” of rating is increasingly urged by regulators.
The global credit crisis has called into question this role of
rating agencies as financial gatekeepers. The third part
deals with the recent counter-measures put into place by
legislators and regulators to regulate and make CRAs more
accountable and rating procedures more transparent. Lastly
some final remarks concerning the rating nature (opinion or
normative parameter) and several proposals for redesigning CRAs regulation.
(36) Sul punto v. per alcune considerazioni generali, Ch. M. Bruner, States, Markets, and Gatekeepers: Public-private Regulatory Regim e s i n a n e r a o f E c o n o m i c G l o b a l i z a t i o n , i n M i c h i g a n J o u r n a l o f I n t e r n a t i o n a l L a w , [ Vo l . 3 0 : 1 2 5 ] , 1 6 4 s s . , i n
http://students.law.umich.edu/mjil/uploads/articles/v30n1-bruner.pdf ; e le considerazioni in materia di L. Pianesi, Le agenzie di rating
tra privatizzazione di funzioni pubbliche e opinioni private “geneticamente modificate”, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2011/1, 194 ss.
(37) V. L. Enriques – M. Gargantini, Regolamentazione dei mercati finanziari, rating e regolamentazione del rating, cit., 496 ss.
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Le azioni di classe
nel settore alimentare
Paolo Borghi
1.- Un’utilità particolare?
Una riflessione sul ruolo che può svolgere la cosiddetta
“azione di classe”1 nel settore alimentare (e soprattutto – se
vi sono – su eventuali peculiarità di tale ruolo) non può che
partire dal suo tratto dominante, ossia dalla natura collettiva dello strumento processuale, dovendosi anzitutto chiarire che detta natura concerne essenzialmente le modalità
organizzative del soggetto attore, la sua struttura particolare (una pluralità di soggetti individuali che agiscono insieme
in modo organizzato, e trattati dal punto di vista processuale dando rilevanza a tale organizzazione collettiva); non una
sua propria natura collettiva intrinseca (ad agire rimane
infatti una pluralità di soggetti singoli, non una associazione
né una società o altra forma di soggettività giuridica collettiva), e neppure la natura o la struttura dei diritti che con lo
strumento si fanno valere, i quali sono e rimangono strettamente individuali, ciascuno con la propria titolarità in capo
al singolo, e con il proprio contenuto concreto riferito al
patrimonio dei singoli titolari (benché, anche dal punto di
vista del contenuto e soprattutto del titolo giuridico, tali singoli diritti siano caratterizzati da “omogeneità”, la quale rappresenta uno degli elementi che rendono possibile l’uso di
uno strumento processuale comune).
Senza entrare in una descrizione del funzionamento dell’azione collettiva in Italia (compito che esulerebbe dai fini di
una relazione ad un convegno, e che si preferisce lasciare
ad altri)2, vale qui la pena concentrarci sulle esigenze economiche fondamentali che hanno spinto il nostro legislatore
39
a introdurla nell’ordinamento nazionale; sulle ragioni di politica del diritto che, in generale, ne giustificano di solito l’introduzione là dove essa avvenga; e infine, sul se tali esigenze e ragioni si atteggino in un modo particolare nel settore che qui ci interessa: i diritti che sorgono dalla produzione e dalla circolazione di alimenti.
L’analisi economica del diritto mette in particolare risalto, fra
i presupposti di uno strumento processuale collettivo di
questo genere, il fatto che “in determinate circostanze
l’azione non coordinata di individui può essere meno efficiente di azioni coordinate”. Utilizzando una categoria assai
cara alle impostazioni di law and economics – il concetto di
“efficienza”3 – è stato, più in generale, evidenziato anche
come l’emergere di fenomeni di “sistematica sotto-protezione delle vittime eserciti effettivamente pressione sui legislatori affinché cerchino una risposta appropriata alle carenze
dei sistemi di responsabilità”4.
Entrando più nello specifico dell’esperienza italiana (ma
senza abbandonare il terreno dei presupposti generali di
politica del diritto), “l’assenza di forme efficaci, e di applicazione tendenzialmente generale, di tutela collettiva ha rappresentato da decenni una delle lacune più gravi nell’attuazione della garanzia costituzionale di cui al 1° comma dell’art. 24 della Costituzione”. Al contrario, in altri sistemi giuridici nazionali (ancora una volta quello degli USA, ad
esempio) nei quali le azioni collettive sono state introdotte
da tempo, ciò è avvenuto proprio con lo scopo di rendere
tutelabili in giudizio diritti, il cui contenuto economico singolarmente considerato sarebbe, altrimenti, così ridotto da
rendere non conveniente l’azione individuale5. Anzi, se si
ipotizzasse, dal punto di vista del danneggiante, un teorico
vantaggio pari alla sommatoria dei singoli (e, singolarmente presi, lievi) danni individuali che si è rinunciato a tutelare
per la non convenienza ad agire mediante gli strumenti processuali ordinari (ma, in realtà, il vantaggio potrebbe essere anche superiore), si potrebbe persino azzardare che, in
un dato ordinamento, la carenza di uno strumento di “class
action” possa, in qualche modo, ottenere un effetto di “auto-
(1) Cosiddetta, poiché in realtà – in termini di teoria generale – vi sarebbero differenze tra i concetti di “azione di classe” e “azione collettiva”, legate soprattutto all’individuazione dei soggetti attori, e dei diritti che si possono far valere: cfr. S. Chiarloni, Il nuovo art. 140
bis del codice del consumo: azione di classe o azione collettiva?, in Giur. it., 2008, p. 7 ss.
(2) Solo perché ciò è già stato fatto ampiamente, e con ben maggiore competenza, da autorevoli civilisti e processualisti, che in pochi
anni hanno già pubblicato saggi di notevolissimo valore, cui si rinvia.
(3) Al concetto di “efficienza” fa un richiamo espresso la legislazione degli USA (Paese che vanta una delle tradizioni più consolidate
nell’uso di questo strumento processuale), le cui Federal Rules of Civil Procedure (Section 23), oltre a fissare requisiti formali e presupposti “estrinseci” di esercizio dell’azione, individuano quale condizione di ammissibilità anche l’esistenza di determinate utilità specifiche collegate all’instaurazione di questo tipo di giudizio: ad esempio, occorre che le azioni individuali provochino un rischio di tali disomogeneità nelle decisioni, da non consentire al convenuto di individuare un uniforme standard di condotta, o un rischio di pregiudizio di
fatto agli interessi di soggetti rimasti esterni all’azione; oppure, che si tratti di tutelarsi contro comportamenti (o rifiuto di comportamento) generalizzati verso una intera “classe”; oppure, che secondo la Corte prevalgano, nella controversia, questioni di fatto o di diritto comuni ai membri della classe, così che l’azione collettiva sia il miglior strumento per assicurare alla controversia una soluzione “corretta
ed efficiente”; ecc.
(4) J. Backhaus, A. Cassone, G.B. Ramello, The law and economics of class actions, in European Journal of Law and Economics,
2011, p. 165 ss.
(5) M. Taruffo, La tutela collettiva: interessi in gioco ed esperienze a confronto, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2007, p. 529.
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rizzazione all’illecito”: risulterebbe, insomma, lasciata scoperta una zona franca6.
La ragione di ciò è presto detta, ed intuitivamente comprensibile: diversamente dall’azione individuale, che concentra
costi e benefici su un unico patrimonio (sicché, nell’incertezza di quale sarà, alla fine, il reale rapporto costi-benefici,
ad essere concentrati su un patrimonio solo sono soprattutto i rischi), l’azione collettiva porta con sé un sicuro frazionamento e riduzione dei costi (particolarmente in quegli
ordinamenti, come in Italia, nei quali viene prevista la possibilità di adesione senza necessità di difensore), una inalterata ricaduta individuale dei benefici, una distribuzione più
omogenea, in ultima analisi, dei rischi (rischi di errori difensivi, di errori giudiziari, rischi connessi alle oggettive difficoltà probatorie del caso concreto, ecc.). In sostanza, e
mutuando ancora il linguaggio dall’analisi economica del
diritto, ne risulta migliorata complessivamente l’efficienza
del sistema.
I benefici dell’introduzione nell’ordinamento processuale di
una azione collettiva non si fermano, tuttavia, al solo piano
privato, al patrimonio dei singoli soggetti interessati ad
avvalersene. Vi sono da considerare, infatti, anche sensibili vantaggi per la collettività, a cominciare dalla sicura riduzione di profili di antieconomicità generale: la “class action”
limita, infatti, il moltiplicarsi incontrollato di giudizi seriali,
con tutto ciò che ordinariamente ne deriva (ad esempio,
evita un impiego irrazionale – leggasi: una sottoutilizzazione, se riferita al singolo giudizio – di risorse del sistema giudiziario, può evitare l’inutile ripetizione di attività istruttorie
sostanzialmente identiche, ecc.).
Il rovescio della medaglia è, naturalmente, costituito dal
potenziale effetto “booster” che, specie se sospinto dai
media o da una particolare numerosity degli aderenti
all’azione, potrebbe invogliare ad agire non solo soggetti
che, altrimenti, vi rinuncerebbero per mere valutazioni di
non convenienza economica, bensì anche soggetti che non
avrebbero alcuna ragione seria per agire, e che, tuttavia, si
sentono incentivati proprio dalla sostanziale assenza di
rischi e costi individuali (tendenti allo zero, o comunque ad
una entità irrilevante), il che può comunque accrescere il
costo complessivo (e collettivo e sociale) dell’uso dello stru-
40
mento in modo inutile e irrazionale, e forse anche condurre
ad una vera e propria inversione, sotto il profilo dell’efficienza7.
Per tentare di comprendere le peculiarità dello strumento
“azione collettiva” nel settore alimentare, sarà opportuno
allora considerarne specificamente tre principali elementi:
- l’oggetto: diritti individuali “omogenei” dei consumatori e
degli utenti;
- i soggetti: chiaramente indicati negli individui, i quali possono agire “anche mediante associazioni o comitati”, sicché
l’associazione, l’ente anche formalmente collettivo, è solo
uno dei possibili strumenti, meramente eventuale e non più
titolare di un monopolio della legittimazione attiva;
- il fine, che può essere costituito (a) dall’accertamento di
responsabilità e/o (b) dalla condanna a risarcimento e a
restituzioni.
2.– L’omogeneità dei diritti da tutelare, fra orientamenti ora
estensivi, ora restrittivi, della giurisprudenza
Prima di tutto, chiediamoci cosa debba intendersi con
l’espressione (relativa all’oggetto dell’azione collettiva)
“diritti individuali omogenei”. Si è già anticipato che il carattere “individuale” del diritto esclude che possa vedersi in
questa azione uno strumento di tutela di interessi collettivi,
diffusi, ecc.8; ma, nel contempo, l’individualità della situazione giuridica tutelata non è in contraddizione col carattere
collettivo-organizzato del soggetto che agisce, per via di
due elementi che connotano in modo affatto particolare tale
diritto individuale: la pluralità (ossia, la coesistenza del diritto individuale con un numero più o meno indefinito, e
comunque elevato, di altri diritti individuali), e la omogeneità fra quei plurimi diritti soggettivi (l’origine dal medesimo
titolo fattuale e/o giuridico, l’analogia di petitum, ecc.: ad
esempio, tutti i diritti risarcitori e/o restitutori che derivano
dal medesimo prodotto, o dagli identici difetti di prodotti
appartenenti alla medesima serie, al medesimo lotto, ecc.,
o dal medesimo disastro).
La norma descrive tale triade “individualità-pluralità-omogeneità” esemplificando:
(6) Così lo stesso M. Taruffo, ibidem. Con riferimento specifico all’applicazione (o, all’inverso, alla violazione) del diritto dell’UE, la Commissione europea sottolinea: “i cittadini e le imprese spesso esitano ad intentare azioni legali a titolo privato contro pratiche illegali, in
particolare se la perdita del singolo è esigua rispetto al costo di un eventuale contenzioso. La conseguenza di ciò è che il perdurare di
pratiche illegali causa, a livello complessivo, considerevoli perdite alle imprese e ai cittadini europei.” (Commissione UE, Verso un approccio europeo coerente in materia di ricorsi collettivi, Documento di lavoro dei servizi della Commissione. Consultazione pubblica,
SEC(2011)173 del 4 febbraio 2011).
(7) Si tratta di un fenomeno alquanto prevedibile, e operante secondo uno schema logico non molto distante dal concetto che Hardin,
nel suo celebre saggio del 1968, chiamò “tragedia dei beni comuni”: G. Hardin, The Tragedy of the Commons, in Science, 13 December 1968 (Vol. 162, no. 3859), pp. 1243-1248.
(8) La costruzione di una class action, in ogni ordinamento, tradizionalmente ruota attorno a due modelli (eventualmente coesistenti):
uno volto alla tutela di situazioni giuridiche plurindividuali omogenee (come nel caso italiano), l’altro alla tutela di situazioni superindividuali (v. A. Carratta, L’abilitazione all’esercizio dell’azione collettiva, in Riv. dir. proc., 2009, 2, p. 315 ss.). Peraltro, al momento della
stesura del presente testo, appaiono imminenti modifiche orientate ad estendere l’utilizzabilità dello strumento italiano anche alla tutela
di interessi di natura collettiva.
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a) diritti contrattuali di una pluralità di consumatori o utenti,
che si trovino verso una stessa impresa in situazione identica (tipicamente, i diritti che derivano dalla violazione di
contratti seriali, conclusi ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c.,
i quali non a caso vengono espressamente contemplati
dalla disposizione: si pensi, sempre a titolo di esempio, a
turisti, clienti di un medesimo tour operator o di un vettore
aereo che, per difficoltà finanziarie dell’impresa, vengono
abbandonati a sé stessi durante un soggiorno all’estero,
oppure ai clienti di una “finanziaria” che non si vedono restituito il denaro investito alla scadenza);
b) diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore (e la precisazione che possa trattarsi di diritti sorti anche in via
extracontrattuale significa chiaramente che la legittimazione prescinde dall’esistenza di rapporti contrattuali diretti fra
il titolare del diritto da proteggere e il produttore9);
c) diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o
da comportamenti anticoncorrenziali.
Il requisito che la teoria generale normalmente chiama
“omogeneità”, pur presente sullo sfondo della disposizione,
è espresso dalla norma utilizzando un concetto, in realtà,
ben più forte e pregnante: quello di “identità”. Deve, secondo il tenore letterale della disposizione, trattarsi di diritti
identici, oppure di diritti (seppur non identici) che sorgono
da “situazioni identiche”, con un’evidente intento restrittivo,
in quanto “identità” è certamente qualcosa di più rigido che
non “omogeneità” (letteralmente: appartenenza allo stesso
genus). E le primissime applicazioni giurisprudenziali rivelano l’intento di sminuire la (forse eccessiva) ristrettezza del
concetto di “identità”. Infatti, a tal proposito è stato precisato che l’“identità dei diritti individuali del proponente [l’azione], rispetto a quelli dei potenziali aderenti, deve essere
intesa come omogeneità, non potendo la diversa entità del
danno eventualmente subita dai consumatori condizionare
l’ammissibilità della domanda, e dovendo invece l’identità
riferirsi solamente alla natura degli elementi oggettivi di
identificazione dell’azione”10. In altre parole, secondo il giudice di merito, benché la legge parli di “identità”, essa intende riferirsi nella sostanza a un concetto di omogeneità.
Per altro verso, e segnatamente sul piano dell’interpretazione
di altri elementi del dettato normativo, non sono invece mancati talora atteggiamenti restrittivi, che mostrano la preoccupazione del giudice di mantenere l’applicazione dell’azione
collettiva nello stretto alveo delle ipotesi testualmente considerate, evitando – forse sin troppo – qualsiasi applicazione
analogica, qualsiasi utilizzo che, pur in presenza di analoghe
esigenze, possa apparire “debordante” dai confini letterali
della norma. Così, ad esempio, è stato escluso che il consu-
41
matore, di fronte a una possibile responsabilità del distributore del prodotto, possa avvalersi dello strumento processuale
collettivo come potrebbe fare nei confronti del produttore:
“L’azione di classe (…) tutela i diritti identici dei consumatori
nei confronti del ‘produttore’; è quindi inammissibile quella
svolta nei confronti del ‘distributore’ del prodotto medesimo”11.
Da questa giurisprudenza emerge palesemente una certa
tendenza contenitiva dell’uso dell’azione collettiva, forse
non del tutto in linea col dato normativo in tema di responsabilità del produttore, e neppure con la realtà economica:
è infatti noto che la disciplina sulla responsabilità da prodotto consente, quanto meno in via suppletiva (laddove non sia
possibile agire contro il produttore), una azione (individuale) nei confronti del “fornitore”, ivi incluso il distributore del
prodotto. Ed è altrettanto prevedibile che, nel mercato globale, non saranno rari i casi di danno provocato da un prodotto difettoso fabbricato fuori dai confini d’Europa: per
essi, potrebbe talvolta essere difficile agire contro il produttore (difficile – se non impossibile – persino reperirlo, se il
prodotto è originario di Paesi in cui non si utilizzano sistemi
di rintracciabilità); mentre, d’altra parte, le norme
dell’Unione europea in materia di product liability consentirebbero di chiamare a rispondere l’importatore (che sovente ne è anche il distributore), nei cui confronti la “class
action” italiana non può però essere utilizzata, almeno stando al tenore testuale dell’art. 140 bis del Codice del consumo, e all’esclusione di ogni applicazione analogica. Più
ragionevole sarebbe certamente, nella disposizione sull’azione collettiva, leggere l’espressione “al produttore”
come se vi fosse sottinteso “e a tutti i soggetti ad esso equiparati ai fini della responsabilità per prodotto difettoso”.
3.– Le diverse tipologie di danno (contrattuale, extracontrattuale, concorrenziale, ecc.): costi e benefici nel settore alimentare, ed effetto espansivo dell’accesso alla tutela giudiziale
Cercando qualche peculiare utilizzo (e utilità) dell’azione
collettiva per il settore alimentare, occorre prima di tutto
considerare che quello alimentare è un prodotto di massa.
Ciò porta con sé conseguenze sul piano della responsabilità sia contrattuale, sia extracontrattuale. La prima, nell’attuale mercato dei prodotti alimentari industriali mediamente
distribuiti su larga o larghissima scala, è normale che si
estenda simultaneamente a un numero elevato di contraenti-acquirenti del prodotto: il vastissimo consumo connaturato all’essenza stessa dell’alimento in quanto tale, unitamente alle modalità distributive tipiche dell’attuale organizzazione del mercato, fondate soprattutto sul sistema della GDO,
portano frequentemente ad una naturale e immediata
(9) Ciò, da un lato, configura l’azione collettiva come strumento ideale per far valere, ad esempio, responsabilità del produttore da prodotto difettoso; dall’altro, attribuendo la legittimazione attiva ai soli “consumatori finali” del medesimo, esclude che possano avvalersene i c.d. bystanders, sicché non c’è strumentalità perfetta.
(10) Così Trib. Roma, 25 marzo 2011.
(11) In questo senso, Trib. Milano, 20 dicembre 2010.
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“amplificazione” del danno contrattuale. In parallelo, strutturandosi il mercato alimentare sempre di più attorno a modalità di produzione e distribuzione di massa, anche il rischio
di danni extracontrattuali di massa – in caso di difettosità –
si amplifica. Per entrambi i tipi di responsabilità, la ripetizione seriale del danno in una pluralità indeterminata di casi
rappresenta un fatto del tutto normale.
Aggiungasi che il prodotto alimentare ha, di per sé, una
diretta incidenza sulla salute umana (caratteristica che permea di sé, come è noto, tutta la disciplina della produzione
e del commercio di alimenti12), sicché – sul piano extracontrattuale – può immaginarsi una frequente ricorrenza di
danni elevati e complessi (c’è da attendersi una non rara
concomitanza di danni biologici, morali e/o esistenziali,
ecc.). Ma quello derivante da difetti di sicurezza del prodotto non è certamente l’unico tipo di danno immaginabile: persino dal punto di vista del danno derivante da pratiche commerciali scorrette o da altri comportamenti anticoncorrenziali, il fatto che tali condotte possano fare ricorso ad un
massiccio uso di tecniche di marketing incentrate su caratteristiche ingannevoli ed effetti inesistenti del prodotto (talora puramente qualitativi-organolettici, ma sempre più spesso attinenti al tema della salute, della forma fisica, del
benessere, ecc.), rende vieppiù probabile la verificazione
persino di danni concorrenziali di massa.
Al contrario, l’entità del singolo danno contrattuale è prevedibile che si presenti, il più delle volte, alquanto modesta (ma
ciò, rappresentando di norma il motivo di dissuasione
all’azione individuale, basterebbe a farne invece un settore di
elezione dell’azione collettiva, secondo i canoni della law and
economics, alla luce di quanto sopra si è detto), mentre la
“polverizzazione” dei contratti (una miriade di contrattazioni
quotidiane aventi ad oggetto beni di valore economico singolo quasi sempre ridottissimo) accentuerà rischi processuali e
difficoltà probatorie di vario tipo con conseguente ulteriore
beneficio in caso di azione collettiva (come tra breve si dirà).
Si ragioni sul piano contrattuale o extracontrattuale, in
un’analisi sociologica del problema è facile immaginare che
un prodotto (e una contrattazione) di massa, destinato a soddisfare bisogni assolutamente generalizzati, estenda il danno
potenziale senza distinzione di condizioni patrimoniali del
danneggiato, e dunque ne renda probabile la verificazione
anche nei confronti di soggetti di limitate possibilità economiche, per i quali la soglia di convenienza di una azione individuale (ossia di accettabilità del rischio di agire in giudizio) è
sovente tanto alta da apparire quasi irraggiungibile. E’ un
dato sociologicamente noto che i timori per le conseguenze di
un esito negativo dell’azione (spese legali, condanna a rifon-
42
dere spese a controparte, soccombenza rispetto a domande
riconvenzionali, responsabilità risarcitorie di vario tipo o per
lite temeraria, ecc.) rappresentano un forte deterrente per
soggetti economicamente deboli, tanto da poter immaginare,
rispetto alla prospettiva di un’azione giudiziaria, grosse difficoltà soggettive non soltanto rispetto a un pregiudizio irrisorio, ma persino in presenza di danno rilevante.
Quanto al danno concorrenziale, la sua caratteristica più
evidente è forse, e mediamente (salvo le dovute eccezioni)
la normale imprevedibilità del quantum (che di solito condurrà a una valutazione equitativa), con la conseguenza
che il “danneggiato medio” sarà dissuaso non tanto da una
valutazione più o meno consapevole di non-convenienza
dell’azione individuale, quanto piuttosto dall’assoluta
impossibilità di compiere qualsiasi valutazione prognostica:
il rischio del “salto nel vuoto”.
Ebbene, il fatto che il danno contrattuale si presenti, nella
maggior parte dei casi, modesto potrebbe costituire – e anzi
costituisce – uno dei motivi per ritenere quanto mai utile, nel
settore alimentare, l’introduzione della “class action”. Sì è
già visto, nelle premesse del nostro discorso, che l’introduzione dell’azione collettiva, in altri ordinamenti, ha avuto
proprio il beneficio di rendere tutelabili in giudizio diritti con
contenuto economico così ridotto da rendere, altrimenti,
non conveniente l’azione individuale13. Per converso, e a
fronte di tale concreta utilità dello strumento processuale, il
temuto “effetto booster” può apparire come un fattore inflattivo del contenzioso (e dunque da valutare negativamente
nei suoi risvolti per la collettività); mentre, d’altro canto,
occorre tener presente che gli effetti più negativi di un simile fenomeno sono ampiamente compensati dalla concentrazione delle più domande giudiziali in un unico processo,
e che l’effetto di indiretta “sollecitazione ad agire” nei confronti di molti soggetti che, individualmente, vi avrebbero
piuttosto rinunciato (per l’entità economica irrisoria del bene
giuridico da tutelare, per il rapporto sbilanciato fra costi e
benefici, per la sproporzione fra certezze e rischi, ecc.) può
rappresentare un potente deterrente, se visto dalla parte
dei responsabili, per la commissione dell’illecito. Un meccanismo capace di incrementare in modo esponenziale il
numero degli attori fa, sì, lievitare enormemente la somma
complessiva dei valori delle singole domande; tuttavia, se in
presenza di un valore economico ridotto del diritto da tutelare il rapporto fra costi (più o meno certi) e benefici (assai
incerti) è sbilanciato verso i primi, ed è di solito deterrente
dell’azione, il frazionamento di costi e rischi che nasce dalla
azione collettiva, rendendo conveniente agire anche per
molti soggetti altrimenti rinunciatari14, produce, dal lato del
(12) E’ sufficiente guardare, a tal proposito, al Regolamento n. 178/2002.
(13) M. Taruffo, op. loc. ult. cit.
(14) Si tratta di quella estensione del contenzioso ai cosiddetti “negative-expected-value litigants”, che è fra gli effetti generalmente riconosciuti alle azioni collettive, laddove “the negative expected value can arise from the fact that the plaintiff’s case is weak (…) or the
costs of litigation (…) are very high or both”: T.S. Ulen, An Introduction to the Law and Economics of Class Action Litigation, in European Journal of Law and Economics, 2011, 32, p. 190. Il tema è affrontato soprattutto da R.G. Bone, The Economics of Civil Procedure,
New York, 2003, p. 261 ss.
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danneggiante, una sommatoria di diritti individuali di cui,
diversamente, il produttore sarebbe responsabile solo in via
teorica: di fatto non sarebbe chiamato a rispondere.
Sempre con riferimento al danno contrattuale, il settore alimentare presenta tipicamente difficoltà probatorie di vario
tipo: in primo luogo, è difficile provare l’acquisto, l’avvenuta
conclusione del contratto (la cui non agevole dimostrazione
può essere particolarmente problematica in caso di danno
contrattuale): un problema connesso a caratteristiche tipiche della contrattazione business-to-consumers nel settore
alimentare, nel quale le modalità consuete con cui si svolgono le operazioni di acquisto sono scarsamente formalizzate, spesso traducendosi solo nel fatto concludente di
afferrare una confezione, inserirla nel carrello e recarsi alla
cassa, mentre d’altro canto la conservazione di una prova
d’acquisto (normalmente lo scontrino) è un fatto più raro,
per gli alimenti, di quanto non accada nel mercato dei beni
durevoli (per i quali tale prova è, invece, necessaria al fine
di potersi avvalere della garanzia di buon funzionamento,
cosicché, in relazione ad essi, è assai più normale che lo
scontrino venga conservato).
4.– (segue): la “numerosity”, e i vantaggi che ne derivano
per l’azione collettiva nella prova del nesso causale (spunti
di riflessione da una giurisprudenza che ancora non c’è)
Vi è poi un’altra difficoltà, tanto in caso di danno contrattuale quanto extracontrattuale, di provare il nesso di causalità
tra fatto lesivo ed evento dannoso. Anche in questo caso, gli
ostacoli all’adempimento dell’onere probatorio sorgono
dalle caratteristiche intrinseche del tipo di danno (che non
sempre si palesa con una consequenzialità immediata al
momento del consumo dell’alimento, lasciando adito a
dubbi, e che inoltre spesso ha bisogno di essere mediata,
ad esempio, da un parere medico che asseveri la plausibilità del collegamento fra danno alla salute e consumo di
quell’alimento). Senza dire della non facile (talvolta impossibile) prova che il consumo di quell’alimento è avvenuto
davvero (il fatto che l’attore in giudizio abbia acquistato non
significa, ovviamente, che abbia anche consumato il prodotto), ed è avvenuto in tempi compatibili con l’esistenza di
un nesso causale adeguato, ecc.
E’ vero che, ove la prova incontri problemi di tal genere,
l’utilità di uno strumento collettivo quale quello in discorso,
ai fini di azionare una responsabilità di tipo contrattuale è
molto limitata, poiché – individuale o collettiva che sia – la
43
carenza di mezzi probatori del titolo di acquisto è sempre il
primo e maggiore ostacolo alla possibilità di far valere giudizialmente ragioni risarcitorie o restitutorie. E’ però altrettanto vero che, se solo l’interessato possa dimostrare,
eventualmente anche per testimoni, l’elemento basilare
costituito dall’acquisto e/o dal consumo del prodotto, la partecipazione ad un’azione collettiva permette, intanto, sotto
ogni altro profilo probatorio di avvantaggiarsi di strumenti e
risultati altrui mentre, nel contempo, i rischi processuali che
possono temersi a seguito di possibili fallimenti probatori
sono comunque frazionati.
Con riguardo alla frequente oggettiva difficoltà di dimostrare il nesso causale tra consumo dell’alimento ed evento
lesivo, non si conoscono precedenti di azioni collettive, ma
sono assai noti precedenti “illustri” di azioni individuali, i
quali si presentano utili comunque anche ai nostri fini.
Anche sul piano individuale, infatti, si evidenziano problemi
di prova tipici del settore alimentare, che potremmo prima o
poi vedere replicati su scala collettiva: mentre ancora non si
è formata (anche per via del poco tempo trascorso dall’entrata in vigore) una giurisprudenza sull’argomento in chiave
di art. 140 bis del Codice del consumo, quei problemi e quei
casi concreti possono comunque rappresentare una “umbra
futurorum” di problematiche della class action. Si può, al
riguardo, menzionare il celebre “caso Saiwa”15, nel quale la
sostanziale impossibilità di dimostrare in modo pieno, con
prova diretta, la consequenzialità fra il danno e il consumo
di un prodotto difettoso è stata risolta assegnando un ruolo
centrale all’apprezzamento del giudice, e al processo logico-deduttivo, squisitamente presuntivo, che egli può seguire per giungere alla ragionevole conclusione dell’esistenza
del nesso: “ben può il giudice di merito, nell’esercizio dei
suoi poteri discrezionali, ricollegare l’avaria, attraverso un
processo logico presuntivo, alla difettosa fabbricazione del
prodotto stesso, quale sua unica possibile causa, cioè praticamente ad una condotta colposa della ditta fabbricante”.
Detta altrimenti: anche “per esclusione” si può arrivare a
ritener provato il legame causale.
A parte il riferimento all’elemento soggettivo (probabilmente
non indispensabile nel caso dell’attuale disciplina della
responsabilità da prodotto, la quale, nei casi di difetto intrinseco – ossia di progettazione, di fabbricazione, ecc. – del
prodotto, può dirsi oggi sostanzialmente concepita come
responsabilità oggettiva16), appaiono evidenti i benefici che
possono derivare da un’azione collettiva sul piano della
prova del nesso di causalità. La lieve forzatura cui fu costretto il giudice, affidando a elementi di mera presunzione nega-
(15) Oggetto di Cass. 25 maggio 1964, n. 1270.
(16) La pronuncia Saiwa nasce in un contesto che ancora non conosceva l’attuale disciplina della product liability, e che pertanto – dovendo ricondurre la responsabilità all’ordinario regime aquiliano – cercava di arrivare alla prova non solo del nesso causale, ma anche di un
elemento colposo. Oggi una simile ricerca della colpa non sarebbe più necessaria; occorre, però, non generalizzare neppure questa impostazione: la responsabilità da prodotto, costruita in termini sostanzialmente oggettivi nel caso di difetti intrinseci del prodotto, torna ad
attribuire rilievo a elementi di natura soggettiva in fattispecie diverse, quali ad esempio la difettosità dell’informativa sulle modalità d’uso.
E’ pertanto impreciso dire tout court – come sovente accade – che la responsabilità del produttore è responsabilità oggettiva: non è sempre così. Sul punto ci si permette di rinviare a P. Borghi, Art. 63 - Responsabilità extracontrattuale per danno da prodotto, in AA. VV., Trattato notarile (diretto da F. Preite), Atti notarili. Diritto comunitario e internazionale, 1. Diritto internazionale privato, Torino, 2011, p. 1205 ss.
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tiva (ragionamento per esclusione) e discrezionali la ricostruzione di una dinamica causale da cui possono derivare
anche conseguenze economiche rilevantissime (il legame
causa-effetto fra consumo di biscotti e danni alla salute fu
desunto da elementi significativi ma indiretti: ad esempio, la
stretta successione temporale fra l’ingestione e i segni di
malessere di chiara origine alimentare) potrebbe trovare un
notevole sostegno nella serialità del danno, se collegata alla
serialità del consumo: la presunzione non sarà più costruita
sulla base di elementi presi dall’esperienza vissuta da un
singolo consumatore, e sulla sola fenomenologia che individualmente lo riguarda; è evidente che, se un numero elevato di consumatori dello stesso prodotto presentasse danni
della stessa natura, la plausibilità della presunzione aumenta, e si avvicina a una vera e propria prova (seppure di tipo
statistico); e, qualora poi si trattasse di prodotti fabbricati in
condizioni produttive omogenee (stesso lotto, partita, ecc.),
gli indici dell’esistenza del nesso aumentano ancora, così
come ne aumenta la gravità, la precisione, la concordanza.
Altrettanto significativo – benché anch’esso riguardante un
caso di danno individuale – perché paradigmatico e, come
tale, trasponibile anche ad ipotetici mass torts è l’esempio
di una azione (individuale) di risarcimento di danni da infezione alimentare, asseritamente contratta durante un soggiorno con trattamento di pensione completa, che il soggetto danneggiato pretendeva di imputare a una struttura
alberghiera. Il danneggiato confidava, evidentemente, nel
valore presuntivo puramente probabilistico del fatto di aver
assunto cibo in prevalenza (o, come egli sosteneva, esclusivamente) presso tale hotel. Al contrario, secondo la S.C.,
“non esiste alcun serio e ragionevole criterio di probabilità
scientifica in virtù del quale possa affermarsi che una persona che trascorre un periodo di vacanze presso un certo
albergo, con la predetta formula, si astenga, in modo assoluto, dall’assumere alimenti in altri esercizi”. In altre parole,
mentre nel caso Saiwa erano emersi elementi di fatto (il
difetto del prodotto, i caratteri specifici del danno lamentato
dall’attore, la successione temporale compatibile con un
nesso, ecc.), ognuno dei quali rendeva sempre meno
improbabile il collegamento (in sé, soltanto possibile) fra
consumo del biscotto e danno alla salute, nel caso dell’hotel – ha ritenuto il Giudice – il fatto che il danneggiato fruisse di un trattamento di pensione completa non escludeva
affatto (anzi, non rendeva né più né meno probabile) l’assunzione di cibi fuori dall’hotel: pertanto, incombe “sul danneggiato la prova rigorosa e specifica che il danno sia stato
conseguenza dell’inadempimento contrattuale del gestore o
della sua attività, conseguendone, in difetto, la declaratoria
di infondatezza della relativa domanda”17.
Ebbene, se a far valere un simile problema fosse stata una
pluralità di persone, che avessero fruito tutte, e nel medesimo periodo, di servizi alimentari analoghi dallo stesso albergo (si pensi ad un grande resort), non solo – a fronte di difficoltà probatorie comportanti un rischio processuale eleva(17) Così testualmente Cass. 5 giugno 2007, n. 13082.
44
to – i danneggiati avrebbero beneficiato del frazionamento
del rischio che si ottiene agendo in via collettiva, ma soprattutto la “numerosity” avrebbe costituito essa stessa un formidabile elemento presuntivo, riducendo gli elementi logici
di segno negativo: non si può escludere – è vero – che il
singolo si sia cibato (oltre che dei pasti canonici serviti dall’hotel) anche di alimenti acquistati per la strada, al bar, in
gelateria, ecc., ma è evidente che, se un certo numero di
clienti della stessa struttura alberghiera presentasse gli
stessi sintomi di malessere, e magari anche con tempistiche comuni o con l’assunzione da parte di tutti di un medesimo alimento, le ragioni di esclusione (ossia la possibilità
astratta di assunzione di cibo avariato fuori dall’albergo)
diventerebbero a loro volta statisticamente più improbabili
(salvo che tutti i danneggiati non si fossero recati nello stesso luogo e avessero tutti mangiato lo stesso cibo fuori dall’albergo: nello stesso bar, chiosco, ecc.). Lungi dal costituire una prova piena, la manifestazione più o meno contemporanea di sintomi patologici analoghi in svariati clienti
sarebbe comunque, e certamente – considerato l’ampio e
inevitabile ricorso al meccanismo delle presunzioni semplici – un dato rilevante. E l’azione collettiva potrebbe senza
dubbio rivelarsi, in concreto, uno strumento fondamentale
per concentrare in un unico processo non solo gli eventi
dannosi, ma la prova presuntiva di essi, e fare così emergere tale dato, destinato altrimenti ad essere oggetto della
cognizione di giudici sparsi sul territorio nazionale, reciprocamente ignari dei fatti che sono oggetto delle rispettive
attività cognitive, e impossibilitati quindi a valersi delle
“coincidenze” presenti in quei fatti.
Infine, e più in generale, per superare le difficoltà probatorie intrinseche alle caratteristiche dell’alimento di per sé e
alle tipiche sue modalità di consumo, sovente non resta al
danneggiato che cercare di dimostrare l’esistenza del difetto nel residuo, sempre che la singola unità di prodotto non
sia stata consumata per intero, e la rimanenza sia stata
conservata (cosa non frequente, anche per via del lasso di
tempo che può talora intercorrere fra consumo del cibo e
manifestarsi del danno: è normale che, all’epoca in cui il
danno si manifesta, si sia già consumato l’intero cibo
“sospettato”, o che eventuali avanzi non più utilizzabili siano
stati gettati). Senza dire del rischio di contaminazioni da
fonti esterne o di mutamento del prodotto, che “inquinerebbero” irrimediabilmente la prova del nesso causale: anche
per questo tipo di difficoltà la numerosity presenta vantaggi,
poiché la probabilità di reperimento di campioni utili alla
prova (rimanenze di cibo da analizzare, confezioni ancora
intatte, ecc.) aumenta. Certamente, può essere di aiuto la
corretta e diligente attuazione di un sistema di rintracciabilità, che consenta di risalire a prodotti realizzati in condizioni produttive il più possibile uniformi, e di rinvenire così la
causa del pregiudizio. Anche in questo caso, però, è facile
immaginare che per lo più si possa addivenire all’individuazione di elementi presuntivi (più che di prove dirette), sicché
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comunque la numerosità degli attori, e l’omogeneità dei
diritti che essi fanno valere (omogeneità del tipo di danno,
identità del soggetto ritenuto responsabile, ecc.), può incrementare il numero e la significatività degli indici.
5.– Altri lati positivi e negativi della “diluizione” del rischio
processuale
Se sul piano sostanziale e sul piano della prova del nesso
causale la numerosity è un elemento denso di significato,
potendo rivelarsi addirittura decisivo nella formazione di
presunzioni semplici, sul piano processuale della prova del
fatto storico, essa non supera il problema. Anzi, talvolta lo
aggrava: centinaia o migliaia di soggetti aderenti alla causa
collettiva hanno comunque l’onere di provare i basic facts a
giustificazione della pretesa: l’effettivo acquisto del bene o
del servizio da cui sorge il diritto risarcitorio, restitutorio ecc.
(nel caso di responsabilità contrattuale); oppure di dimostrare che il prodotto è stato effettivamente ingerito da chi si
afferma danneggiato (nel caso di responsabilità extracontrattuale). Diversamente ragionando, si incontrerebbe un
gravissimo profilo di incostituzionalità della norma che, ove
fosse interpretata come legittimante un’azione senza oneri
probatori, finirebbe per menomare in modo irrimediabile il
diritto di difesa dell’impresa convenuta, nonché per creare
una grave disparità di trattamento processuale fra l’attore
individuale (che gli oneri li sopporta tutti) e quello che aderisce ad una azione collettiva (con riferimento al medesimo
diritto da tutelare). Dunque, sotto questo specifico profilo il
settore alimentare non presenta peculiarità vere e proprie,
condividendo con ogni altro ambito un analogo effetto di
“diluizione” dei rischi processuali di vario tipo che normalmente si collegano a tutte le azioni giudiziali, e tanto più a
quelle azioni che hanno per oggetto fatti scarsamente
caratterizzati, in quanto di assoluta quotidianità: rischi di
errori difensivi e di errori giudiziari, rispetto ai quali il carattere collettivo dell’azione, con la distribuzione di costi che
porta con sé, implica una distribuzione più omogenea
(rispetto a quanto accade con l’azione individuale), nel
senso di una riduzione media dell’incidenza del rischio sul
patrimonio dell’individuo, a fronte di un costo sicuramente
frazionato, ma senza peculiarità del comparto alimentare.
Sotto diversa angolazione, anzi, il fatto – già considerato
sopra – che i prodotti alimentari siano, per lo più e con le
dovute eccezioni, prodotti di massa, non solo estende
(come già rilevato) la possibilità di danno a tutte le categorie sociali senza distinzione, incluse le persone di basso
reddito; e non soltanto rende più conveniente agire in caso
di danno irrisorio (là dove, il più delle volte, il danneggiato
preferisce “lasciar perdere”). Vero è che, quando il pregiudizio è di natura tale (o deriva da un prodotto tale) da non
fare “differenze di censo”, per le fasce di popolazione eco-
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nomicamente più disagiate un vantaggio dalla class action
lo si percepisce anche in caso di danno (es. biologico,
morale, ecc.) di rilevante entità, poiché per i danneggiati di
reddito basso la dissuasione dall’agire non è limitata alle
sole ipotesi di danno lievissimo.
Se, infatti, per le fasce medie di reddito l’incidenza dei costi
e dei rischi, propri del giudizio individuale, rappresenta di
solito un elemento di cernita fra azioni che vale la pena perseguire, e azioni che non meritano il rischio processuale
(sicché la disponibilità di uno strumento processuale collettivo non fa che abbassare la soglia di ingresso alla tutela
giudiziale), viceversa, minori sono le possibilità economiche
del danneggiato, più è probabile che un livello-soglia non vi
sia affatto, e che si presentino situazioni nelle quali il singolo, se dovesse agire con modalità individuali, sarebbe
comunque propenso a non correre il rischio processuale, a
non anticipare i costi del giudizio, ecc., qualunque sia l’entità del danno: per il meno abbiente, i costi e i rischi potrebbero essere quindi dissuasivi senza distinzioni fondate su
tale entità (e, quindi, senza distinzione in base alla natura
del pregiudizio: il danneggiato finirebbe per rinunciare a
tutelare sia il “piccolo” diritto al rimborso degli acquisti effettuati, sia l’ingente diritto al risarcimento di un danno alla
salute grave). I meccanismi appena evidenziati possono
allora risolversi in una facilitazione dell’accesso alla giustizia, estendendo il numero di coloro per i quali l’azione è
economicamente sostenibile (il fenomeno è certamente tipico di tutti i settori relativi a beni di necessità – i farmaci, ad
esempio – ma la diffusione del prodotto alimentare è, in
certi casi, nettamente maggiore).
6.– Una particolare rilevanza in materia alimentare della
tutelabilità del danno concorrenziale: il caso dei claims
Altro profilo per il quale si possono evidenziare vantaggi
dell’azione collettiva, e vantaggi ancor maggiori nel settore
alimentare, è quello del danno concorrenziale, il cui tratto
dominante è – come si diceva poc’anzi – la frequente
imprevedibilità assoluta a priori del risarcimento. Per i consumatori, si tratta di una imprevedibilità legata soprattutto
alla valutazione equitativa cui molte volte la determinazione
del ristoro è affidata (da cui consegue l’impossibilità a priori di stabilire un rapporto costi-rischi-benefici, sicché il frazionamento dei costi, che solitamente abbassa la soglia di
convenienza dell’azione, non è più utile mancando un parametro essenziale di confronto per valutarne l’impatto). Per
le imprese, un certo grado di prevedibilità (quanto meno
teorica) del danno concorrenziale è maggiormente ipotizzabile (es. diminuzione di fatturato, causata dal vantaggio
competitivo illecitamente ottenuto dal concorrente); ma
l’azione collettiva italiana, a differenza di quella statunitense 18, non prevede una legittimazione attiva per le imprese,
(18) Cfr., negli USA, la Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedures, che disciplina questa tipologia processuale senza alcuna limitazione soggettiva sul lato attivo.
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che restano escluse dall’ambito di uno strumento nato e
realizzato solo per i consumatori, con una scelta che – giusta o sbagliata che sia – appare comunque chiara e netta.
Una volta escluse le imprese dalla cerchia dei potenziali
soggetti tutelati, il danno che può essere oggetto di azione
collettiva rimane prevalentemente quello derivante (al consumatore) da pratiche commerciali ingannevoli; tuttavia,
non può essere trascurata neppure l’ipotesi di un danno
provocato dalle “ricadute” sui consumatori di atti di concorrenza sleale: atti considerati lesivi in via prioritaria di situazioni giuridiche fra imprese, ma che potrebbero colpire in
realtà anche il patrimonio di un consumatore19. Si pensi
all’imitazione servile di prodotti, o ad atti confusori sull’identità del prodotto, ad accordi e varie forme di “cartello” tra
imprese (suscettibili di innalzare artificiosamente il prezzo),
ecc.: in primo luogo, a esserne danneggiate sarebbero le
imprese concorrenti – e, in effetti, queste ultime hanno tradizionalmente diritto a tutelarsi con azione individuale in
simili fattispecie – ma anche i consumatori potrebbero
dimostrare di essere stati indotti ad un comportamento
d’acquisto altrimenti non voluto, oppure a pagare un prezzo
maggiore di quello che avrebbero pagato in un mercato
concorrenziale (con quale pregiudizio concreto è tutto da
stabilire: e torniamo al tema dell’imprevedibilità).
L’uso di claims ha sempre rappresentato una delle prassi
commerciali più tipiche e diffuse nel settore alimentare, che
notoriamente ha trovato una disciplina in alcune importanti
previsioni dell’UE20, e che si presenta sempre più frequente
46
sulla scia del vero e proprio fenomeno di mercato costituito
dai “functional foods”21. Ebbene, il loro uso illegittimo rientra
certamente in questo specifico campo di esercizio dell’azione collettiva, dato che le indicazioni (nutrizionali o sulla
salute, poco cambia) sono suscettibili di attrarre l’acquirente verso prodotti in ragione di particolari caratteristiche che,
se non possedute realmente dall’alimento, possono tradursi in un danno; e si va dal pregiudizio meramente economico (per un acquisto altrimenti non voluto, e che – se protratto per anni – potrebbe generare anche un danno cumulativo non del tutto irrisorio, benché non sempre facile da provare) fino al danno alla vita o all’integrità psico-fisica: si
pensi a un prodotto del quale fosse reclamizzata, rispetto
alla prevenzione di determinate patologie, una particolare
compatibilità o funzionalità in realtà assenti, con conseguente induzione di un maggior consumo – potenzialmente
rischioso – grazie al messaggio ingannevole22.
Uno sguardo al contenzioso che si svolge davanti all’Autorità
garante della concorrenza e del mercato, e al numero elevato di sanzioni che quest’ultima continuamente applica a produttori per uso illegittimo di claims, è sufficiente a dare conferma di quanto si sta dicendo. Così come assai istruttivo,
benché abbia natura meramente amministrativa e non contenziosa, è uno sguardo alla quantità di proposte di claims,
sottoposte da produttori alla Commissione europea ai fini
della autorizzazione ai sensi del reg. CE n. 1924/2006, e che
la Commissione ha rigettato come incentrate su proprietà
benefiche inesistenti nell’alimento23.
(19) La previsione è di grande interesse soprattutto perché riconosce che il comportamento “anticoncorrenziale”, tradizionalmente visto
come lesivo soprattutto di obblighi fra imprenditori (e perciò tradizionalmente fonte di responsabilità risarcitoria fra costoro), è in realtà
plurioffensivo, ricadendo anche sui patrimoni di consumatori e utenti, richiedendo tutela anche su questo piano. La previsione di una
utilizzabilità dello strumento collettivo per far valere diritti risarcitori o restitutori anche di questi soggetti, in conseguenza di condotte lesive degli obblighi di fair competition, è in linea, in realtà, con le conclusioni della più avanzata giurisprudenza: per una sintetica e completa rassegna v. M. Guernelli, Class action e competenza antitrust, in Dir. industriale, 2010, p. 249 ss. Peraltro, lo stesso danno potrebbe forse essere tutelato in via collettiva anche senza questa specifica previsione, interpretando estensivamente l’alinea secondo
cui l’azione collettiva tutela diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore.
(20) Reg. (CE) n. 1924/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 dicembre 2006 relativo alle indicazioni nutrizionali e sulla
salute fornite sui prodotti alimentari. Sull’arg. si v., tra i molti, F. Capelli – B. Klaus, Il Regolamento Ce n. 1924/2006 in materia di indicazioni nutrizionali e sulla salute da riportare sulle etichette dei prodotti alimentari, in Dir. com. e scambi intern., 2007, p. 795 ss.; L. Costato, Le indicazioni nutrizionali del reg. n. 1924/2006, in Riv. dir. agr., 2008, II, p. 299 ss.; S. Masini, Prime note sulla disciplina europea delle indicazioni nutrizionali e sulla salute, in Dir. giur. agr., alim. e dell’amb., 2007, p. 73 ss.; L. Petrelli, Le nuove regole comunitarie per l’utilizzo di indicazioni sulla salute fornite sui prodotti alimentari, in Riv. dir. agr., 2009, I, p. 50 ss.
(21) Sul tema v., da ultimo, L. Petrelli, I prodotti alimentari della salute, in Riv. dir. alimentare, 2011, 3, p. 5 ss. Per una interessante panoramica di illeciti in materia concorrenziale nel settore alimentare (sia pure da una prospettiva di violazioni amministrative) v. A. Astazi, Pratiche commerciali scorrette, tutela dei consumatori e nuovi poteri dell’AGCM, ibidem, 2008, 2, p. 42 ss. Più specificamente, con
riguardo a violazioni in materia di claims alimentari sotto il profilo della concorrenza, v. P. Sestini, Nuovi poteri dell’AGCM e primi provvedimenti inibitori in tema di prodotti alimentari, ibidem, 2009, 1, p. 57 ss.; S. Masini, Indicazioni sulla salute e «prodotti salutistici».
L’inganno degli OMEGA 3, in Dir. giur. agr., alim. e dell’amb., 2008, p. 218 ss.; F. Zolla, Riportare sulle etichette alimentari indicazioni
sulla salute false e non accertate scientificamente costituisce una forma di pubblicità ingannevole, in Dir. giur. agr., alim. e dell’amb.,
2009, p. 277.
(22) L’esempio potrebbe essere costituito da una categoria di consumatori – es. diabetici, o cardiopatici – che consumino massicce
quantità di un certo alimento, tranquillizzati da un claim che enuncia il ridotto tenore di zuccheri, o la particolare virtù preventiva di malattie cardiovascolari.
(23) L’Autorità europea per la sicurezza alimentare, cui è demandata la valutazione tecnica della fondatezza scientifica dei claims da autorizzare, si è più volte espressa contro l’esistenza degli effetti benefici (o della semplice particolare compatibilità) declamati – ma talvolta solo subdolamente suggeriti con un messaggio ambiguo – in relazione a prodotti che erano, in realtà, del tutto normali. Si v. il sito
internet dell’EFSA per una rassegna dei casi in questione: www.efsa.europa.eu.
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Anche sotto questo angolo prospettico, il settore dei prodotti alimentari si presenta peculiare – se non nel senso di “differenziato” rispetto all’uso della class action, poiché sul
piano formale non può dirsi che essa si atteggi in modo
diverso – quanto meno confermandosi, nel modo più assoluto, settore di elezione. Ed è facile immaginare che, se
l’azione collettiva in Italia avrà successo, quello dei prodotti alimentari sarà un “laboratorio” fra i più interessanti.
ABSTRACT
The article deals with the role that a s.c. “class action” can
play in the food sector, trying to find out food-related peculia-
47
rities (if any), and starting from its dominant features: its collective nature, the plural nature of the subject involved on the
plaintiff side, and the homogeneity of the rights that can fall
under the application of the action, while – with regard to
their content – those rights continue to refer to individuals.
Rather than deepening the way the class action works from
a case law perspective (since many scholars have already
well done such a research), the author prefers addressing,
with some “law and economics” inputs, the fundamental economic needs that lead legislator to create an “Italian” class
action, based on the needs that are generally perceived in
other legal orders where the class action has a more consolidated tradition, and searching for the particular utilities that,
in the food sector, could result especially for consumers.
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Controlli e certificazioni nel settore agrario: la condizionalità
Luigi Russo
1.- La disciplina comunitaria
Prima di entrare nello specifico del tema assegnatomi, è
opportuno precisare preliminarmente, per evitare possibili
equivoci, che l’istituto della condizionalità, per il suo funzionamento, necessita di una capillare attività di controllo, ma
che i controlli collegati alla condizionalità rappresentano
solo una delle varie attività di verifica cui sono sottoposti gli
agricoltori.
Si pensi, infatti, al Sistema integrato di gestione e di controllo (SIGC), relativo, in sostanza, alla verifica delle condizioni di ammissibilità dei pagamenti diretti e di alcune misure di sviluppo rurale, oltre che afferente alla stessa condizionalità; parimenti rilevanti sono, inoltre, i controlli previsti dal reg. (CE) n. 485/08 aventi ad oggetto la documentazione commerciale ai fini della verifica della regolarità delle
operazioni che rientrano direttamente od indirettamente nel
sistema di finanziamento del FEAGA1.
Né la condizionalità è l’unica causa di potenziali riduzioni
od esclusioni degli aiuti, dal momento che esse possono
derivare anche a seguito di vizi afferenti le condizioni di
ammissibilità delle domande di aiuto.
48
La condizionalità è un istituto oramai maturo: come noto, le
sue origini risalgono al reg. 1259/992, dove per la prima
volta i pagamenti diretti vennero subordinati al rispetto di
requisiti di quelle che all’epoca venivano definite le c.d.
ecocondizionalità; la relativa disciplina, tuttavia, era appena abbozzata. Si prevedeva, semplicemente, che gli Stati
membri dovessero fissare criteri di carattere ambientale
appropriati, cui subordinare la piena erogazione dei sostegni diretti: la materia era regolata dall’art. 3 (rubricato «requisiti in materia di protezione ambientale»), la cui disciplina era, inoltre, assai scarna3.
La condizionalità ha trovato una più adeguata disciplina in
occasione della riforma del 2003 e, segnatamente, con il
successivo reg. 1782/034 e nel conseguente regolamento
applicativo della Commissione, in conseguenza dell’enfasi
che sull’istituto era posta dalla Commissione, secondo cui
la condizionalità doveva considerarsi la sostanziale contropartita ambientale (ma non solo) del sostegno erogato agli
agricoltori europei.
In seguito, l’ambito della condizionalità è stato esteso dal
settore dei pagamenti diretti (i quali, a loro volta, originariamente avevano un campo di applicazione più limitato dell’attuale) ad alcuni aiuti di sviluppo rurale rientranti tra le
misure dell’Asse II del reg. 1698/055 (in particolare, la condizionalità nel 2° pilastro concerne 8 misure su un totale di
42, le quali rappresentano ca. il 40% delle spese per lo sviluppo rurale6) e, infine, ad alcuni aiuti collegati con l’estirpazione o la ristrutturazione dei vigneti, disciplinati nel reg.
n. 1234/07 sull’OCM unica7.
Senza ritornare su concetti già noti, basti in questa sede ricordare che il contenuto della condizionalità8 si sostanzia
(1) Cfr. il regolamento n. 485/2008 del Consiglio del 26 maggio 2008 relativo ai controlli, da parte degli Stati membri, delle operazioni
che rientrano nel sistema di finanziamento del Fondo europeo agricolo di garanzia.
(2) Reg. n. 1259/99 del Consiglio del 17 maggio 1999, che stabilisce norme comuni relative ai regimi di sostegno diretto nell’ambito della politica agricola comune.
(3) L’art. 3 disponeva, testualmente: «1. Per quanto riguarda le attività agricole di cui al presente regolamento, gli Stati membri adottano
le misure che essi ritengono appropriate in materia ambientale tenuto conto della situazione specifica dei terreni agricoli utilizzati o della produzione interessata, nonché dei possibili effetti sull’ambiente. Tali misure possono comprendere: - l’erogazione di aiuti in cambio
di impegni agroambientali, - la fissazione di requisiti ambientali obbligatori di carattere generale, - la fissazione di requisiti ambientali
specifici la cui soddisfazione è condizione per poter beneficiare dei pagamenti diretti. 2. Gli Stati membri definiscono sanzioni appropriate e proporzionali alla gravità delle conseguenze ecologiche risultanti dal mancato rispetto dei requisiti ambientali di cui al paragrafo
1. Essi possono prevedere una riduzione o, se del caso, la soppressione dei benefici derivanti dai regimi di sostegno di cui trattasi se
non sono soddisfatti i suddetti requisiti».
(4) Del 29 settembre 2003, in GUUE L 270, che stabilisce norme comuni relative ai regimi di sostegno diretto nell’ambito della politica
agricola comune e istituisce taluni regimi di sostegno a favore degli agricoltori e che modifica i regolamenti (CEE) n. 2019/93, (CE) n.
1452/2001, (CE) n. 1453/2001, (CE) n. 1454/2001, (CE) n. 1868/94, (CE) n. 1251/1999, (CE) n. 1254/1999, (CE) n. 1673/2000,
(CEE) n. 2358/71 e (CE) n. 2529/2001.
(5) Del Consiglio del 20 settembre 2005, sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale
(FEASR).
(6) Così la Corte dei Conti UE, relazione speciale 8/2008, pag. 23. In essa rientrano anche, per talune misure, requisiti minimi sull’uso
di fertilizzanti e fitofarmaci.
(7) Reg. n. 1234/07 del Consiglio del 22 ottobre 2007, recante organizzazione comune dei mercati agricoli e disposizioni specifiche per
taluni prodotti agricoli (regolamento unico OCM).
(8) Cfr. D. Bianchi, La condizionalità dei pagamenti diretti o della responsabilità dell’agricoltore beneficiario dei pagamenti diretti nell’ambito della PAC, in Dir. giur. agr. amb., 2003, 597 ss.; Id., I nuovi strumenti della PAC: condizionalità, modulazione e disciplina finanziaria, in Il nuovo diritto agrario comunitario, Atti del convegno Ferrara-Rovigo 19-20 novembre 2004, a cura di E. Casadei e G. Sgarbanti,
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nell’imposizione, sui beneficiari degli aiuti diretti, o di determinati aiuti del secondo pilastro o conseguenti a estirpazione o ristrutturazione dei vigneti, di determinati vincoli ed
obblighi consistenti nel rispetto di alcune norme giuridiche
contenute in 18 atti giuridici dell’Unione, individuate in un
apposito allegato al reg. 73/09 (i c.d. criteri di gestione obbligatori: in seguito CGO), e nel rispetto di alcune norme
comportamentali finalizzate al mantenimento dei terreni
abbinati alle domande di pagamento o interessati da misure strutturali in buone condizioni agronomiche ed ambientali (c.d. BCAA); queste ultime, a differenza dei CGO, sono
individuate dagli Stati membri all’interno di una griglia di
opzioni delineate dal legislatore comunitario, nell’allegato II
al reg. 73/09.
Il rispetto dei CGO o delle BCAA evita l’applicazione di riduzioni o anche – nei casi più gravi – l’esclusione degli aiuti percepiti o percipiendi; quanto alla riduzione, che è l’ipotesi senz’altro più frequente – essendo l’esclusione sostanzialmente eccezionale - essa ammonta ad un importo pari
ad una forbice da un minimo dell’1% ad un massimo del
5% (15% in caso di recidiva) in caso infrazione colposa,
ovvero pari a non meno del 20% (preferibilmente del 20%,
secondo il regolamento applicativo) in caso di natura dolosa dell’infrazione.
Corollario del sistema è l’effettuazione di controlli anche in
loco, previsti sia dall’originario reg. 1782/03 sia, ora, dall’art. 22, reg. 73/2009, di cui si dirà tra breve.
L’istituto, così come congegnato, ha sollevato riserve e
perplessità, sia in ordine al contenuto degli impegni richiesti agli agricoltori, sia in ordine alla difficile attività di verifica
e controllo.
Con riferimento al primo aspetto, basti pensare che le
BCAA non sembrano andare molto oltre gli ordinari impegni di coltivazione; è stato opportunamente rilevato che tale non particolare gravosità dei vincoli trova spiegazione
anche nel fatto che i PSR regionali prevedono misure di
sostegno per comportamenti virtuosi da un punto di vista
ambientale, che impongono costi più elevati ai beneficiari,
che ricevono infatti uno specifico sostegno di sviluppo rurale: è evidente, dunque, la volontà di evitare sovrapposizioni
tra i vincoli della condizionalità e quelli di carattere agroambientale disciplinati nel 2° pilastro della PAC.
49
Quanto ai CGO, come già osservato, essi sono rappresentati da norme contenuti in (soli) 18 atti normativi i quali, peraltro, erano già vincolanti; inoltre, non tutti sono da rispettare ma solo quelli pertinenti con la specifica attività svolta
dall’agricoltore. Molti dei CGO sono, poi, costituiti da direttive, che sovente vengono applicate in maniera disomogenea dagli Stati membri, posto che esse lasciano agli Stati la
scelta delle forme e dei metodi da utilizzare per il conseguimento dei risultati da raggiungere; talora, oltre tutto, gli Stati
risultano anche inadempimenti all’obbligo di recepimento,
così tale inadempimento si ripercuote, a cascata, anche
sulla condizionalità, dal momento che le norme da rispettare dai singoli agricoltori sono date non dalle norme direttive
ma dalle norme interne applicative di quelle. Non da ultimo
va evidenziata la complessità del sistema, dal momento
che i CGO sono costituiti da 48 articoli («pescati» tra le varie disposizioni dei ricordati 18 atti normativi) i quali, a loro
volta, nella maggior parte dei casi rinviano ad altri articoli,
ad allegati o ad elenchi, con conseguenti difficoltà ricostruttive dell’esatto contenuto degli impegni e dei vincoli.
Né può dimenticarsi la difficoltà di stabilire quando una infrazione possa dirsi colposa piuttosto che intenzionale; a
questo scopo sono previste, già a livello di normativa europea, delle presunzioni di intenzionalità9.
L’health check del 2008 ha riguardato anche la condizionalità, che è stata sottoposta ad un moderato restyling: relativamente al primo pilastro, la riforma ha comportato la sostituzione del reg. 1782/03 con il reg. 73/0910. Il nuovo regolamento è intervenuto sulla condizionalità, senza stravolgerne il contenuto, ma prevedendo la possibilità per gli
Stati membri di non provvedere a riduzione degli aiuti per
infrazioni di importanza minore o quando l’importo delle riduzioni risulti inferiore a cento euro, e l’ampliamento degli
obiettivi delle norme per il mantenimento dei terreni in buone condizioni, introducendo un 5° obiettivo, relativo alla tutela delle risorse idriche, destinato ad operare dal 2012, introducendo BCAA facoltative (anche se in Italia restano obbligatorie, essendosi previsto che la facoltatività non opera
se le BCAA in questione erano già state previste dagli Stati
membri), aggiornando i CGO a regolamenti o direttive sopravvenute al 2003, e togliendo alcuni impegni siccome
non direttamente pertinenti per l’attività agricola11.
Milano, 2005, 57 ss., spec. 66 s.; sia consentito anche il rinvio a L. Russo, La condizionalità: un impegno per gli agricoltori, in I Georgofili, Quaderni, 2005 – XI, Coltivazioni destinate alla fauna selvatica. Opportunità per la nuova PAC?, Firenze, 2007, 19 ss.; Id., La condizionalità da condizione a fine, in Riv. dir. agr., 2007, I, 231 ss.; Id., La «condizionalità» nella riforma degli aiuti diretti comunitari e nel
settore dello sviluppo rurale, in Il contenzioso sui regimi di pagamento in agricoltura, Jovene, Napoli, 2008, a cura di F. Albisinni e A.
Sciaudone, 117 ss.
(9) Queste possono ritenersi legittime solo perché, nonostante possibili equivoci desumibili dal tenore letterale di talune disposizioni
normative, le riduzioni o l’esclusione degli aiuti non possono configurarsi in termini di sanzioni amministrative; ed invero, se esse fossero da qualificarsi in termini di sanzioni, vi sarebbe da dubitare della legittimità di un dolo solo presunto e non accertato in concreto.
(10) In cui rilevano, ai nostri fini, gli artt. da 4 e 6, e gli allegati II e III; l’art. 22 sui controlli; l’art. 23 sulle riduzioni ed esclusioni; l’art. 24
sulle modalità delle riduzioni o esclusioni; l’art. 25 sulla sorte degli importi risultanti dalla condizionalità, i quali sono da riaccreditare al
FEAGA, con la previsione che gli Stati membri possono, tuttavia, trattenere fino al 25% degli importi risultanti dall’applicazione delle riduzioni o delle esclusioni degli aiuti.
(11) Cfr. la relazione speciale 8/2008 della Corte dei Conti UE, p. 19, che già rilevava come alcuni CGO non si riferissero specificamente
all’attività agricola, quali le norme sulla caccia o sul trasporto del bestiame per la vendita.
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Allo stato i regolamenti applicativi della Commissione, anche se non dedicati in via esclusiva alla condizionalità (riguardando anche la modulazione, o il SIGC), con cui si
specificano le modalità dei controlli e si individuano le percentuali di riduzione collegate alle eventuali infrazioni agli
impegni di condizionalità sono rappresentati dai reg. n.
65/2011, quanto al settore dello sviluppo rurale (composto
di 35 articoli) e n. 1122/09 quanto al settore dei pagamenti
diretti12; quest’ultimo, peraltro, reca le modalità di applicazione anche degli articoli sulla condizionalità contenuti nel
regolamento istitutivo dell’OCM unica.
V’è, peraltro, da dubitare sulla reale portata semplificatrice
di alcune novità, come, ad es., la previsione della possibilità di non sanzionare infrazioni minori o di non applicare le
riduzioni quando esse risultino inferiori ai cento euro: in relazione a tali fattispecie, le norme prevedono, infatti, che
l’anno successivo si debba verificare se l’agricoltore interessato si sia posto in regola, così che, paradossalmente,
per le infrazioni di minore rilevanza, quantitativa e qualitativa, è richiesto un doppio controllo.
Quanto al 2° pilastro, a seguito della verifica dello stato di
salute della PAC è stato adottato il reg. 74/09, destinato ad
integrare le disposizioni del reg. 1698/05. Il reg. 74/09 ha
dato luogo ad una migliore sistematizzazione della disciplina
sulla condizionalità, originariamente assai scarna. In particolare, con l’intervento del 2009 si è ampliata la disciplina della condizionalità nel 2° pilastro e, soprattutto, si è armonizzata con la disciplina dettata sul punto dal reg. 73/09. A seguito di tali innovazioni è stato successivamente adottato –
come già rilevato - un nuovo regolamento applicativo, il n.
65/2011, che, infatti, rinvia in gran parte al reg. 1122/0913.
Come accennato, l’ambito di applicazione della condizionalità è stato, poi, successivamente esteso al settore vitivinicolo, con gli articoli 85 unvicies (per i beneficiari di aiuti
all’estirpazione, per i tre anni successivi) e 103 septvicies
del reg. 1234/07 (per i beneficiari di aiuti alla ristrutturazione, per i 3 anni successivi, e per i beneficiari di aiuti per la
vendemmia verde, per l’anno in cui l’aiuto è stato concesso), introdotti dal reg. 491/0914.
La disciplina comunitaria non è, tuttavia, sufficiente per
rendere pienamente operativa la condizionalità, occorrendo una necessaria implementazione nazionale, e non solo
per la concreta individuazione delle BCAA (la cui determinazione, si ricorderà, è lasciata agli Stati membri).
50
2.- La disciplina interna attuativa
Per quanto concerne l’Italia la relativa disciplina è rappresentata, ora, dal D.M. n. 10125/09 (composto di 28 articoli
e 8 allegati), modificato da ultimo dal D.M. 22 dicembre
201115, e contiene una unica disciplina per 1° e 2° pilastro
(così semplificando rispetto al passato). Esso individua le
norme interne attuative dei CGO, nonché le BCAA (queste
ultime, tuttavia, destinate ad operare solo in difetto di individuazione di norme specifiche da parte delle regioni), e
detta criteri per le riduzioni od esclusioni16, precedentemente, invece, delegate all’AGEA. Quest’ultima, ora, in base al
D.M. vigente, ha il compito di adottare la disciplina sui controlli e sugli indici di verifica17
La particolare disciplina per le infrazioni di importanza minore18 si rinviene nell’art. 5 del D.M., mentre il successivo
art. 9 del D.M. prevede – sulla scorta della facoltà lasciata
agli Stati membri dall’art. 23, par. 2, reg. 73/2009 - che
nessuna riduzione possa essere disposta se la riduzione
risulti inferiore a 100 euro, ferma restando la necessità che
il beneficiario inadempiente adotti le opportune azioni correttive19.
3.- L’attività di verifica e controllo
Come è evidente, il momento della verifica è essenziale al
fine del funzionamento della condizionalità: questi sono demandati agli Stati membri, che applicano poi in concreto le
riduzioni od esclusioni, e trattengono il 25% degli importi.
Come emerge dall’esposizione che precede, l’assetto normativo è multilivello: la disciplina è fornita da regolamenti
di base (ovvero dai regg. 73/09, per i pagamenti diretti; dal
reg. 1698/05 per le misure di sostegno allo sviluppo rurale;
dal reg. 1234/07 per la condizionalità conseguente alla ristrutturazione o all’estirpazione di vigneti).
Dopo questo primo livello normativo, occorre fare i conti
con i regolamenti applicativi della Commissione, anche se
essi non sono esclusivi per la condizionalità (riguardando
anche la modulazione, il SIGC): attraverso essi si specificano le modalità dei controlli e si individuano le percentuali di
riduzione. Al momento, come si è visto, si tratta dei reg
65/2011 (attuativo del reg. 1698/05) e 1122/09 (attuativo del
73/09 e degli articoli sulla condizionalità nell’OCM unica).
(12) Il quale dedica alla condizionalità gli artt. 8,9; da 47 a 54; 55; da 70 a 72; 79, su un totale di 87 articoli.
(13) Il quale dedica alla condizionalità gli articoli da 19 a 21, su un totale di 35 articoli.
(14) Reg. 491/09 del Consiglio del 25 maggio 2009, che modifica il reg. (CE) n. 1234/07.
(15) Pubblicato in GU del 30.12.2011.
(16) Cfr. art. 4, DM 10125/09, che individua anche le percentuali di riduzione e i casi di esclusione.
(17) Così l’art. 12 del D.M. 10125/09.
(18) Ex art. 24, par. 2, reg. 73/09, non è mai qualificabile in termini di infrazione minore quella che può costituire un rischio diretto per la
salute pubblica o degli animali.
(19) Relativamente a tale facoltà, mette conto ricordare che la Corte dei Conti UE (nella sua relazione speciale sulla condizionalità) ha,
tuttavia, rilevato che così facendo si perde gran parte delle riduzioni, dal momento che, ad es., in Finlandia il 65% delle riduzioni esaminate nell’audit era inferiore a 100 euro; in Polonia il 94%; in Olanda la riduzione è in media 100 euro.
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La disciplina della condizionalità è stata attuata in Italia,
come si è visto, attraverso decreti ministeriali; attualmente
è vigente il D.M. 10125/09 il quale, come ricordato poc’anzi, individua i CGO e le BCAA in via residuale, dal momento che nel nostro ordinamento sono le Regioni gli enti deputati ad individuare, per i rispettivi territori, le pratiche destinate ad essere considerate BCAA; solo per il caso di
mancata individuazione delle norme applicabili da parte
delle Regioni, andranno ottemperate le norme stabilite dal
decreto ministeriale.
Quanto all’attività di controllo, l’art. 12 del decreto ministeriale la demanda all’AGEA, quale organismo di coordinamento nazionale ex art. 13, comma 4, d. lgs. n. 99/2004,
conformemente a quanto stabilito dall’art. 20, par. 3, reg.
73/2009, il quale prevede che ogni Stato membro designi
un organismo di coordinamento dei controlli e delle verifiche previste nel capitolo 4 (relativo al Sistema integrato di
gestione e di controllo).
Per assolvere tale compito, AGEA a cadenza annuale ha
adottato proprie circolari; attualmente è applicabile la circolare n. 101/2011 del 16.9.2011, e, perché si possa apprezzare la corposità dell’atto, essa è composta di ben 194 pagine
Tuttavia, ai sensi dell’art. 48, reg. 1122/09 (ovvero dell’attuale regolamento attuativo della condizionalità nel settore
dei pagamenti diretti), i soggetti responsabili dei controlli e
quelli chiamati ad applicare le riduzioni o le esclusioni dagli
aiuti sono gli organismi pagatori: AGEA, invero, oltre alle
funzioni di organismo di coordinamento concentra in sé anche le funzioni di organismo pagatore per tutte quelle regioni che ne sono prive; per tali ipotesi la circolare dell’AGEA risulta, dunque, esaustiva. Non così può dirsi, invece, per quelle regioni in cui esiste un organismo pagatore,
il quale risulta assoggettato alla circolare AGEA per quanto
concerne gli aspetti collegati alla funzione di coordinamento, mentre esso è libero di darsi delle proprie regole per
quanto concerne l’attività di verifica, di controllo, e di applicazione delle riduzioni od esclusioni. In tali casi i singoli organismi pagatori adottano proprie circolari, integrative di
quella dell’AGEA.
Peraltro, secondo quanto previsto già dalla disciplina europea gli organismi pagatori sono sì responsabili dei controlli
e chiamati ad applicare le misure «sanzionatorie», ma l’attività di controllo vera e propria deve essere svolta, di nor-
51
ma e preferibilmente (non avendo gli organismi pagatori il
personale e le relative competenze), da soggetti diversi
quali gli «organismi di controllo specializzati», individuati
dalle circolari adottate dagli organismi pagatori.
Ad esempio, l’organismo pagatore per la regione EmiliaRomagna, AGREA, delega l’attività di controllo dei criteri di
gestione obbligatori alle Province e – quanto all’attività
zootecnica - al Servizio veterinario regionale, mentre, invece, delega l’attività di controllo delle norme per il mantenimento dei terreni in buone condizioni ambientali ed agronomiche alla stessa AGEA20.
La catena della condizionalità risulta, dunque, estremamente complessa, necessitando di una moltitudine di interventi a livello europeo e nazionale, e l’intervento di una
molteplicità di soggetti. Basti pensare che dal «Rapporto di
applicazione della condizionalità in Italia», a cura del Mipaaf, del settembre 2010, è dato desumere che nel 2008 era
assoggettata alla condizionalità una platea di 1.435.000
agricoltori, divenuti nel 2009 1.308.000; nel 2008 sono stati
eseguiti 22.000 controlli, con il 10% di infrazioni rilevate.
Esaminando gli esiti dei controlli nei primi anni di applicazione del sistema, emerge come la percentuale delle infrazioni rilevate risulti in graduale aumento rispetto al 2005,
probabilmente anche a seguito del miglioramento dei controlli stessi. A seguito di indagini statistiche è emerso, inoltre, che risulta più gravosa la conformazione ai CGO rispetto alle BCAA, anche perché queste ultime, come rilevato, corrispondono nella maggior parte a pratiche agricole
già diffuse.
Orbene, di fronte a tale imponente mole di norme, a livello
tanto di Unione europea quanto di ogni singolo Stato membro, e dell’altrettanto imponente numero di controlli, viene
spontaneo chiedersi se questo complesso meccanismo
possa dirsi effettivamente giustificato e, in particolare, idoneo a perseguire gli obiettivi di una PAC particolarmente rispettosa dell’ambiente relativamente ai quali esso è stato
introdotto21.
Proprio in relazione all’efficacia della condizionalità può essere utile richiamare gli esiti di una verifica sull’attuazione
della stessa in alcuni Stati membri operata dalla Corte dei
Conti UE, e riportati con dovizia di particolari nella relazione speciale 8/2008 (La condizionalità costituisce una politica efficace?).
(20) Cfr. il Manuale operativo controlli condizionalità in Regione Emilia-Romagna, campagna 2010, adottato dalla Agenzia Regionale per
le Erogazioni in Agricoltura per l’Emilia-Romagna.
(21) Va osservato che, talora, le stesse pubbliche amministrazioni possono adottare comportamenti virtuosi, e rendere meno gravosi i
controlli che a più vario titolo sono previsti a carico delle imprese agricole: sin pensi, al riguardo, alla recente legge regionale dell’Emilia-Romagna 12 dicembre 2011, n. 19, Istituzione del registro unico dei controlli (RUC) sulle imprese agricole ed agroalimentari regionali e semplificazione degli interventi amministrativi in agricoltura; ai sensi dell’art. 3, comma 3, di detta legge, «nel RUC sono inserite
tutte le attività di verifica tese ad accertare la dimensione e la consistenza del complesso aziendale in termini produttivi e colturali, il rispetto di norme di carattere ambientale e sanitario e l’adempimento di ogni altra prescrizione, impegno o obbligo posto in capo all’impresa per finalità connesse all’applicazione della normativa comunitaria, nazionale e regionale in materia di aiuti, premi e contributi, ovvero per adempiere a discipline di regolazione dei mercati, di certificazione delle produzioni, di profilassi e tutela fitosanitaria, sicurezza
alimentare e protezione ambientale».
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4.- La relazione speciale della Corte dei Conti sulla condizionalità
In tale relazione, adottata a seguito di una verifica in alcuni
Stati membri circa la efficacia dello strumento della condizionalità22, la Corte ha evidenziato non poche criticità della
condizionalità, tra cui la eccessiva complessità della normativa e la difficile verificabilità del rispetto di molti dei requisiti imposti ai beneficiari; rileva, al riguardo, l’organo di
controllo come spesso gli impegni risultino di difficile controllabilità, e segnatamente quelli di carattere ambientale e
in tema di tutela della salute, a differenza di altri che risultano di più agevole verificabilità23. La Corte evidenzia, altresì, l’insussistenza di un chiaro rapporto di proporzionalità
tra la misura delle riduzioni e la gravità dell’infrazione riscontrata24 nonché il non chiaro coordinamento tra la normativa in tema di condizionalità e quella sulle misure agroambientali nel 2° pilastro (anche se a ciò ha posto parziale
rimedio il legislatore dell’UE con il reg. 74/09, adottato in
occasione dell’health check). Relativamente all’attività di
controllo, la relazione speciale ha osservato una scarsa efficacia dei controlli: basti pensare che di norma viene eseguito un solo controllo all’anno per azienda, così che la sua
efficacia dipende grandemente anche da elementi casuali,
come, ad esempio, dal momento dell’anno in cui avviene
l’accesso in loco, posto che talora, rispetto all’impegno oggetto di verifica, risulta imprescindibile operarne la verifica
in un determinato periodo25; similmente, la Corte ha accertato anche lo scarso effetto deterrente delle riduzioni, dal
momento che per molti impegni di condizionalità, i costi
che essi procurano sono maggiori della percentuale del
5% oggetto di possibile riduzione.
Prima ancora, la Corte dei Conti osserva come, a ben vedere, manchi perfino una enunciazione, nei testi normativi,
degli obiettivi che essa intende perseguire, dal momento
che un riferimento agli obiettivi è contenuto solo nei considerando introduttivi del regolamento di base.
Non v’è dubbio che gli articolati rilievi della Corte potessero
fungere da adeguato pungolo alla Commissione per operare, se non un ripensamento dell’istituto, quanto meno un
suo sensibile miglioramento, allo scopo di superare i rilievi
critici operati dall’organo di controllo. Così non è stato, però, come meglio si vedrà parlando delle recenti proposte
52
della Commissione per i nuovi regolamenti chiamati a disciplinare la PAC.
5.- La prossima riforma del 2014
Le proposte di regolamento presentate nell’ottobre 2011
sono state precedute dalla Comunicazione della Commissione del novembre 2010 «La PAC verso il 2020: rispondere alle future sfide dell’alimentazione, delle risorse naturali
e del territorio»26: in tale documento la Commissione anticipava alcune novità, che hanno poi trovato attuazione nei
testi delle diverse proposte dell’anno successivo, tra cui
tanto un nuovo assetto della condizionalità, quanto il c.d.
greening27. Quanto alla prima, il documento rileva come le
norme di condizionalità debbano essere (mantenute, ma)
semplificate, «offrendo agli agricoltori e alle amministrazioni un dispositivo più semplice ed esaustivo, senza tuttavia
snaturare il concetto stesso di condizionalità»; relativamente al greening, si legge nella ricordata Comunicazione che
la PAC dovrà rafforzare la propria efficacia ambientale,
«grazie ad una componente “ecologica” obbligatoria dei
pagamenti diretti a sostegno di misure ambientali applicabili su tutto il territorio dell’UE. La priorità dovrebbe essere
attribuita ad azioni destinate a contribuire al conseguimento di obiettivi di politica climatica e ambientale, che potrebbero tradursi in interventi ambientali semplici, generalizzati,
non contrattuali e annuali, che vadano al di là dei requisiti
della condizionalità e riguardino l’agricoltura (quali pascoli
permanenti, coperture vegetali, la rotazione delle colture e
il set-aside ecologico)».
E’ noto, infatti, che l’orizzonte temporale dei regolamenti
attualmente in vigore è destinato ad esaurirsi alla fine del
2013, in concomitanza con il termine degli assetti di bilancio dell’Unione adottati per il periodo 2007 – 2013; dal
2014 ci attende, dunque, tanto un nuovo bilancio dell’Unione europea, con la prevedibile rivisitazione (al ribasso) degli stanziamenti dedicati al settore agricolo, quanto una revisione degli strumenti attuativi della PAC, e segnatamente
dei regolamenti di base concernenti gli interventi sui due
pilastri della politica agricola. Peraltro, la nuova disciplina
dovrà essere adottata in conformità ai nuovi assetti istituzionali e normativi conseguenti all’entrata in vigore del
(22) Cfr. Corte conti UE, Relazione speciale 8/2008, La condizionalità costituisce una politica efficace?
(23) Quale, ad es., la corretta identificazione degli animali (ovvero la verifica dell’esistenza di un marchio auricolare). Nella relazione si
evidenzia, inoltre, l’anomalia del fatto che in Finlandia, Francia, Grecia, Slovenia negli anni 2005 e 2006 non è stata rilevata alcuna infrazione nei 11.633 controlli sulla applicazione della direttiva uccelli selvatici e nei 14.896 controlli sulla direttiva habitat.
(24) E’ stata, in particolare, accertata una inadeguata applicazione da parte degli Stati membri del principio di proporzionalità delle riduzioni in relazione alla gravità delle infrazioni (p. 30), e una inadeguata applicazione anche al caso di recidiva (si pensi al caso della Finlandia, in cui più del 50% delle azienda autori di infrazione nel 2005 si è resa responsabile di identiche infrazioni anche nel 2006).
(25) Manca, infatti, nella disciplina un qualsivoglia accenno alla rilevanza dell’aspetto temporale ai fini di assicurare efficacia all’attività di
verifica.
(26) Comunicazione COM (2010) 672 del 18 novembre 2010.
(27) Rileva l’incongruenza tra le declaratorie contenute nella Comunicazione e il testo delle proposte successivamente adottate dalla
stessa Commissione, L. Costato, Regime disaccoppiato, Trattato di Lisbona e obiettivi della Pac verso il 2020, in Agricoltura-IstituzioniMercati, 2011, 13 ss.
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Trattato di Lisbona, così che i nuovi regolamenti non saranno più appannaggio esclusivo della dialettica a due tra
Commissione e Consiglio, ma vedranno come nuovo soggetto partecipe del processo decisionale anche il Parlamento europeo, il quale ha già chiarito di voler assumere
un ruolo attivo e di condizionamento sostanziale per l’adozione della nuova normativa.
L’attività preparatoria della Commissione deve, quindi, essere vista con occhi diversi rispetto al passato: se, prima,
con la procedura speciale agraria, le decisioni della Commissione erano destinate, il più delle volte, ad essere trasfuse senza sostanziali variazioni nei testi normativi definitivi adottati dal Consiglio, ora, con l’entrata in campo del
Parlamento – e, dunque, di un soggetto prettamente politico – il ruolo della Commissione è destinato a perdere rilevanza, ed è anzi presumibile che i contenuti di cui alle proposte presentate siano destinati a non pochi cambiamenti
durante il processo decisionale che vedrà coinvolti il Consiglio ed il Parlamento.
Allo stato, tuttavia, ci troviamo a dover fare i conti con le
proposte adottate dalla Commissione, dalle quali si evince
il permanere dell’istituto della condizionalità, la quale, così
come congegnata, resta sostanzialmente immutata, prevedendosi sempre il necessario rispetto tanto dei CGO quanto delle BCAA, salvo qualche intervento semplificatore.
6.- (segue): la condizionalità che verrà
Come anticipato, la riforma dovrebbe comportare per la
«nuova» condizionalità solamente una ulteriore (rispetto a
quella già disposta a seguito dell’health check28) attività di
semplificazione, così che le virgolette per l’aggettivo sono
d’obbligo, sia perché, come rilevato, la condizionalità è istituto già vigente, sia perché di nuovo nella proposta c’è ben
poco, salvo l’infelice utilizzo del termine «sanzione» riferito
alle riduzioni o alle esclusioni conseguenti, prima inesistente29. Nonostante l’uso di tale termine, invero, deve ritenersi
che la configurazione della condizionalità non debba evol-
53
versi ritenendola una sorta di sanzione per gli agricoltori
inadempienti, restando ancora una sorta di condizionamento al pieno percepimento degli aiuti; la differenziazione
rileva sul piano sostanziale dal momento che la qualificazione della condizionalità come istituto sanzionatorio imporrebbe doverose riflessioni sulle modalità con cui essa è
stata implementata nel nostro Paese, posto che per le sanzioni amministrative sono formulate garanzie di legalità
ignote all’attuazione della PAC in Italia, avvenuta, com’è
noto, attraverso il ricorso a decreti ministeriali.
In particolare, la disciplina della condizionalità cessa di essere separata per i due pilastri, ma diviene unica per tutti i
settori cui essa è applicabile, confluendo in un regolamento di carattere orizzontale, recante anche la disciplina dei
controlli30. Nella proposta di regolamento orizzontale, composto di 115 articoli, alcuni (segnatamente, gli articoli da 91
a 100) sono dedicati alla condizionalità31.
Come accennato, il contenuto della condizionalità non
cambia nella sostanza, restando i CGO (13 atti) e le BCAA
(otto), così come immutate appaiono le riduzioni previste.
Una seconda semplificazione è data dalla presenza di un
solo allegato (l’allegato II) che racchiude tanto i CGO
quanto le BCAA32.
Viene mantenuta la facoltà degli Stati membri di non operare riduzioni se inferiori a 100 euro (art. 97, par. 3, della
proposta), però resta l’obbligo di verifica che il beneficiario
abbia posto in essere le opportune azioni correttive; similmente quanto alle infrazioni di portata minore (art. 99, par.
2, della proposta), ovvero quando «in base alla sua gravità, portata e durata, l’inadempienza è da considerarsi di
scarsa rilevanza», fermo restando che le infrazioni che costituiscono un rischio diretto per la salute pubblica o degli
animali non possono mai considerarsi di scarsa rilevanza.
Una vera semplificazione concerne, invece, la categoria, di
nuova introduzione, dei piccoli imprenditori, per i quali viene esclusa tout court l’applicabilità della disciplina in tema
di condizionalità. La nozione di piccolo imprenditore si ricava – mancando una definizione espressa – da alcune norme contenute nella proposta di nuovo regolamento sui pa-
(28) Con la verifica dello stato di salute si è, in effetti, opportunamente armonizzata la disciplina della condizionalità nei due pilastri, la
cui originaria disciplina era priva di coordinamento: con il reg. 74/09 la disciplina della condizionalità nel settore dello sviluppo rurale è
stata sensibilmente ravvicinata a quella operante nel settore dei pagamenti diretti; ravvicinamento proseguito con i successivi regolamenti attuativi: il reg. n. 65/2011 (attuativo del reg. 1698/05) rinvia, infatti, al reg. n. 1122/09 (attuativo del reg. 73/09); quest’ultimo, a
sua volta, contiene la normativa applicativa anche della condizionalità prevista dal reg. 1234/07 sull’OCM unica.
(29) L’art. 91, par. 1, della proposta di regolamento sul finanziamento, sulla gestione e sul monitoraggio della politica agricola comune dispone, infatti, che «al beneficiario di cui all’articolo 92 che non rispetti, nell’azienda, le regole di condizionalità stabilite dall’articolo 93 è
applicata una sanzione».
(30) V. la proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sul finanziamento, sulla gestione e sul monitoraggio della politica agricola comune del 12 ottobre 2011: COM (2011) 628 def.
(31) La proposta prevede, inoltre, l’abrogazione del reg. 485/08 (sui controlli afferenti la documentazione commerciale), di cui si è detto
nel 1° paragrafo, e il confluire della relativa disciplina nel regolamento orizzontale.
(32) L’allegato II prevede tre settori (ambiente, cambiamenti climatici e buone condizioni agronomiche del terreno; sanità pubblica, salute degli animali e delle piante; benessere degli animali) cui sono collegati dei temi principali (acque; suolo e stoccaggio di carbonio; biodiversità; livello minimo di mantenimento dei paesaggi, per il settore ambientale; sicurezza alimentare, identificazione degli animali,
malattie degli animali, prodotti fitosanitari, per il settore sanità pubblica; benessere degli animali, tema coincidente con la denominazione del terzo settore). Le otto norme delle BCAA rientrano tutte nel primo settore.
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gamenti diretti (in particolare del Titolo V: artt. da 47 a 51);
essi sono coloro che hanno diritto di accedere ad un regime semplificato, in cui il valore degli aiuti non è inferiore a
500 euro né superiore a 1.000 euro; devono però rispettare i requisiti minimi ex art. 10, par. 1, e cioè avere diritto ad
un pagamento non inferiore a 100 euro ed avere una superficie ammissibile non inferiore a 1 Ha.; essi sono esonerati anche dal greening). Sono esclusi dagli obblighi di condizionalità anche coloro che beneficiano di aiuti ex art. 29,
par. 933 della proposta di regolamento sullo sviluppo rurale
(art. 92).
Cambia l’importo che può essere trattenuto dagli Stati
membri a seguito dell’applicazione delle riduzioni od esclusioni, che passa dal 25% al 10% (art. 100).
Come meglio si vedrà in seguito, esiste ancora, nelle proposte di regolamento, un non chiaro coordinamento tra alcune BCAA e alcuni vincoli derivanti dal greening, con il rischio di sovrapposizioni.
Sorprende, in conclusione, come, alla luce delle circostanziate considerazioni critiche svolte dalla Corte dei Conti
nella ricordata sua relazione speciale dedicata all’applicazione e all’attuazione della condizionalità, la Commissione
abbia deciso di riproporre l’istituto senza adottare correttivi
di natura sostanziale, idonei a cercare quanto meno di renderla più efficace ai fini del perseguimento degli obiettivi
cui essa, almeno formalmente, pare essere preposta.
7.- (segue): e i difficili rapporti con il greening
Facendo seguito a quanto preconizzato nella Comunicazione del novembre 2010, la proposta di nuovo regolamento sui pagamenti diretti34 innova sensibilmente rispetto al
passato, operando quello che viene usualmente definito lo
«spacchettamento» degli aiuti diretti disaccoppiati.
Accanto ad un pagamento definito di base (di cui agli articoli da 18 a 28 della proposta), una percentuale del 30%
del massimale nazionale viene riservata a quegli agricoltori
che rispettino una serie di vincoli finalizzati alla tutela dell’ambiente e del clima: la relativa disciplina si ritrova nel
Capo 2 (Pagamento per le pratiche agricole benefiche per
il clima e l’ambiente: articoli da 29 a 33) del Titolo III (Regime dei pagamenti di base e pagamenti connessi)35. Tale
54
pagamento supplementare non è, peraltro, l’unico, essendo previsti altri pagamenti (facoltativi od obbligatori, a seconda dei casi), e segnatamente quello (facoltativo) per le
zone soggette a vincoli naturali (artt. 34 e 35), cui viene
destinato al massimo un importo pari al 5% del massimale
nazionale; quello (obbligatorio) in favore dei giovani agricoltori, di cui agli articoli 36 e 37, mediante utilizzo di una
percentuale non superiore al 2% del massimale nazionale.
Oltre a tali pagamenti disaccoppiati, la proposta di regolamento prevede la possibilità per gli Stati membri di erogare
aiuti accoppiati per determinate produzioni, nei limiti, complessivamente, del 5% del massimale nazionale. Come accennato in precedenza, è previsto, inoltre, un regime semplificato per i piccoli agricoltori, i quali hanno la facoltà di
accedervi con il conseguente esonero dagli impegni di
condizionalità e di inverdimento. Come contropartita, l’importo degli aiuti risulta particolarmente modesto: esso, infatti, a scelta dello Stato membro, non può essere superiore al 15% del pagamento medio nazionale per beneficiario
o, in alternativa, non può superare l’importo corrispondente
al pagamento medio nazionale per ettaro moltiplicato per
una cifra corrispondente dal numero di ettari fino ad un
massimo di tre; in ogni caso, l’importo degli aiuti non può
essere inferiore a 500 euro, né superiore a 1.000 euro, fermo restando che l’importo complessivamente erogato da
ogni Stato membro nel regime semplificato per i piccoli
agricoltori non può superare il 10% del massimale nazionale.
Per quanto più interessa in questa sede, il rispetto di quelle
che vengono definite pratiche agricole benefiche per il clima e per l’ambiente condiziona il diritto ad un pagamento
disaccoppiato aggiuntivo rispetto a quello di base pari al
30% del massimale nazionale36.
Si ricorderà, invero, che la Comunicazione della Commissione del novembre 2010 lasciava prevedere, come si è visto, la introduzione di nuove misure di carattere ambientale; nel documento, peraltro, la Commissione si premurava
di spiegare che tali misure sarebbero risultate di semplice
attuazione e di agevole verifica.
Nella successiva proposta i vincoli del greening si sostanziano in tre misure: a) la presenza di almeno 3 colture diverse su superfici a seminativo, qualora queste assommino ad almeno 3 ettari37; b) il mantenimento del prato per-
(33) Che prevede un possibile sostegno alla conservazione delle risorse genetiche in agricoltura per interventi diversi da quelli già contemplati nei precedenti paragrafi dell’art. 29.
(34) Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme sui pagamenti diretti agli agricoltori nell’ambito dei
regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, del 12 ottobre 2011, COM (2011) 625 def.
(35) L’art. 33 della proposta prevede che il pagamento collegato al greening possa essere attuato a livello nazionale o, ma solo in caso
di regionalizzazione del pagamento di base, regionale.
(36) Alcuni commentatori si pongono il quesito se la violazione degli impegni del greening comporti la perdita del solo pagamento supplementare del 30% o anche del pagamento di base; lo spacchettamento dei pagamenti induce a ritenere che vi sia la perdita del solo 30%.
(37) Sempre che la superficie non sia interamente utilizzata per la produzione di erba seminata o spontanea, o non sia interamente lasciata a riposo o interamente investita a colture sommerse per una parte significativa dell’anno; le tre colture, inoltre, devono coprire
ciascuna almeno il 5% e quella principale non deve superare il 70% della superficie a seminativo (così l’art. 30, par. 1, della proposta di
regolamento sui pagamenti diretti).
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manente esistente e dichiarato al momento della presentazione della domanda di pagamento per l’anno 2014; c)
avere un’area di interesse ecologico in azienda (terreni a
riposo, terrazze, fasce tampone, elementi caratteristici del
paesaggio, superfici oggetto di imboschimento).
Relativamente al greening, così come emerge dalla proposta, possono individuarsi almeno sei elementi di criticità.
Un primo profilo bisognoso di chiarimenti concerne il rapporto tra la condizionalità e il greening: si ricorderà, infatti,
che in occasione della riforma del 2003 la condizionalità
venne presentata – ed enfatizzata – dalla Commissione
quale strumento innovativo per rendere più «verde» la
PAC, e per giustificarne la stessa esistenza presso l’opinione pubblica europea, in buona parte restia alla concessione di sostegni al settore primario. In questo modo, la sussistenza di vincoli di carattere ambientale, a tutela della salute e del benessere degli animali veniva visto come adeguata contropartita chiesta al settore agricolo per gli aiuti
pubblici che esso riceve.
L’introduzione delle pratiche benefiche per il clima e per
l’ambiente fa sì, innanzitutto, che la condizionalità perda la
sua caratteristica di essere l’unico elemento finalizzato ad
una eco compatibilità dei sostegni disaccoppiati; nella proposta della Commissione la condizionalità diventa non più
l’unico meccanismo di carattere lato sensu ambientale, ma
una sorta di prerequisito. Mette conto rilevare, poi, che ex
art. 29 della proposta le misure del greening non sono facoltative, lasciandosi così ai singoli la scelta se aderire o
meno al sistema, ma obbligatorie, così che il greening si
configura come una sorta di condizionalità rafforzata38.
Al tempo stesso, però, l’assetto prefigurato dalla Commissione rende evidente la scarsa incidenza degli impegni di
condizionalità, posto che si è sentita la necessità di inserire
norme ulteriori a carico dei beneficiari e di condizionare
l’erogazione di importi ben maggiori non solo di quelli subordinati al rispetto degli impegni di condizionalità, ma anche
degli pagamenti agro ambientali erogati nell’ambito delle misure di sviluppo rurale: stante la destinazione al 1° pilastro
del 75% ca. delle complessive risorse della PAC, il budget
collegato al rispetto del greening è pari a ca. due volte a
55
quello destinato ai pagamenti agroambientali del 2° pilastro.
Al tempo stesso, l’introduzione del greening viene motivata
dalla necessità che l’attività agricola persegua la tutela di
beni pubblici quali, appunto, l’ambiente e il clima, ovvero
sostanzialmente da ragioni simili a quelle che a suo tempo
avevano indotto le Istituzioni europee ad introdurre la condizionalità; quest’ultima, tuttavia, come si è visto, non
scompare ma viene mantenuta, con una inevitabile duplicazione di misure gravanti sui beneficiari. Senza considerare che le misure aggiuntive che si intendono introdurre a
far tempo dal 2014 alimentano i dubbi sulla effettiva utilità
della condizionalità e sulla necessità di prevedere due istituti distinti seppure finalizzati al perseguimento dei medesimi obiettivi, così che la scelta più congrua appariva essere
un potenziamento di un istituto (la condizionalità) già esistente e senz’altro bisognoso di una serie di messe a punto ben più sostanziose di quelle oggetto della proposta della Commissione.
Quanto agli impegni di inverdimento ricordati in precedenza sub b) e c), appare evidente la possibilità di loro sovrapposizioni tanto con le norme in tema di condizionalità,
quanto con le misure di sviluppo rurale di natura agroambientale (le quali vengono mantenute anche nella proposta
di nuovo regolamento sul sostegno allo sviluppo rurale e
vengono ridenominate in pagamenti agro-climatico-ambientali39), basti pensare che l’attività di produzione di prodotti di agricoltura biologica è considerata ipso facto conforme agli impegni del greening ma, al tempo stesso, costituisce anche presupposto per l’ottenimento di pagamento
nel 2° pilastro40.
Non sembra, in conclusione, inutile auspicare che nel corso del procedimento di adozione dei regolamenti, le criticità sottese alle proposte di discipline di istituti affini quanto
agli scopi perseguiti, quali la condizionalità ed il greening,
possano condurre ad un loro ripensamento, sia in termini
di semplicità per i destinatari dei vincoli ivi previsti, sia in
termini di una loro migliore sistematizzazione ed armonizzazione, nel rispetto dei più generali obiettivi di carattere
ambientale che si ritengano di introdurre nello strumentario
della politica agricola comune.
(38) Peraltro, verosimilmente prima ci sarà il pagamento e poi il recupero dell’indebito, sembrando improbabile che i controlli possano
avvenire sostanzialmente in tempo reale e impedire così l’erogazione del pagamento supplementare.
(39) Cfr. l’art. 29 della proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del
Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR), del 12 ottobre 2011, COM (2011) 627.
(40) V. l’art. 30 della proposta di regolamento sullo sviluppo rurale.
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Anno VI, numero 1 • Gennaio-Marzo 2012
Il ruolo di garanzia dei consorzi di
tutela
Riccardo Ricci Curbastro
Le Denominazioni di Origine e le Indicazioni Geografiche
crescono, nella coscienza dei produttori e nel gradimento
dei consumatori, per effetto di una politica di incoraggiamento delle Istituzioni comunitarie e nazionali, e per impegno diretto degli attori della filiera (Consorzi di tutela e Organizzazioni che li rappresentano, in Italia Federdoc), interessati sempre più a promuovere un modello di produzione
vitivinicola quanto più trasparente ed affidabile.
E’ il modello dei vini legati a specifiche aree geografiche
(Vini con Indicazione Geografica), che si portano appresso
particolari condizioni produttive e tradizioni colturali e culturali che incidono profondamente a livello di caratteristiche
del prodotto.
Il documento di identità di ciascun vino a DO è il Disciplinare di produzione, il quale rappresenta il principale strumento di garanzia per il consumatore circa le caratteristiche e
le modalità di ottenimento dello stesso.
La certificazione delle quantità e della qualità (corrispondenza del prodotto al disciplinare) accompagna ogni partita, e questa è data - per il nostro comparto - da strutture di
controllo private o da enti pubblici, ed è controllata anche
nella fase del commercio dall’ Autorità pubblica o dai Consorzi di tutela (vigilanza).
E’ un sistema consolidato nel nostro Paese, voluto dai
Consorzi quando ancora non si parlava di uno specifico
Piano dei controlli per le DO (il reg. CE n. 479/08 era ancora di là da venire, e così anche il DLgs n. 61/10), istituzionalizzato dal Ministero con il DM 29 maggio 2001 - inizialmente con una fase sperimentale e solo per alcune DO - e
successivi decreti.
20 Consorzi di tutela divenuti nel tempo 51 hanno sostenuto la fase sperimentale, accollandosi l’onere dei controlli
sulle 115 Denominazioni di competenza e garantendo la
tracciabilità dei prodotti dal vigneto alla bottiglia sulla base
di uno specifico Piano approvato dall’ICQRF. E’ stato l’inizio di una lunga collaborazione con l’ICQRF, in un momento in cui le deleghe alle garanzie e ai controlli a favore di
soggetti terzi erano espressamente richieste dagli stessi
produttori, avendo necessità di una maggiore tutela delle
Denominazioni e non sentendosi rassicurati dai controlli
delle Autorità competenti, che per forza di cose non potevano essere continui e sistematici.
Da allora controlli e responsabilità hanno acquisito un valore particolare a livello di rapporti tra pubblico e privato, tra
chi autorizzava ad operare e chi doveva garantire a tutti gli
utilizzatori della Denominazione - soci e non soci - imparzialità, garanzie di trasparenza, sopportabilità dei controlli
56
e dei costi, risultati concreti, con in più qualche valore aggiunto del tipo: dati sulla DO in tempo reale, tracciabilità
del prodotto dalla vigna alla bottiglia anche a mezzo SMS,
ecc..
Il Consorzio di tutela del vino, in quanto Organizzazione interprofessionale, ha la responsabilità della Denominazione:
delle regole (disciplinare di produzione) che sono alla base
della sua identità, della sua evoluzione e del suo adattamento ai gusti del consumatore; ha la responsabilità della
gestione della produzione in funzione del mercato, prevedendo anche, in accordo con la Regione competente, misure restrittive nelle rese, nella gestione delle giacenze
(blocage/déblocage), sulle nuove iscrizioni dei vigneti a DO
al catasto; ha la responsabilità della valorizzazione del prodotto e della tutela della Denominazione.
Non poteva prescindere da questa ulteriore responsabilità
di fornire garanzie al comparto - pena la perdita degli altri
valori raggiunti - sia inizialmente quale attore diretto delle
attività di controllo, sia ora che tali competenze sono passate ad altri, per effetto della normativa comunitaria e di
quella nazionale conseguente.
Il Regolamento CE n. 1234/07 - artt.118 sexdecies e 118
septdecies consente l’affidamento delle attività di controllo
a soggetti pubblici o privati, il MIPAAF è l’Autorità nazionale preposta al rilascio delle autorizzazioni delle attività di
controllo e al coordinamento delle stesse di cui ai citati articoli del Reg. 1234, le autorizzazioni devono essere subordinate ad una positiva valutazione delle conformità alla
norma europea EN 45011.
Accredia, nel rispetto del Regolamento CE n. 765/2008, è
l’organismo nazionale designato dall’Italia per accreditare
inizialmente i certificatori privati e per verificare periodicamente, anche più volte all’anno, il rispetto del 45011 da
parte delle strutture di controllo incaricate.
Questo vale per tutti i prodotti dell’agroalimentare europeo,
come confermato anche dal Regolamento CE n. 510/2006.
E qui entrano in gioco le responsabilità tra privato e pubblico, tra chi deve applicare la legge in tema di controlli e certificazioni e chi deve farla applicare nel rispetto della trasparenza, terzietà, della omogeneità dal punto di vista delle procedure e delle tariffe applicabili.
Accredia fornisce l’imprimatur iniziale, garantisce poi che
nel tempo la struttura di controllo sia nelle condizioni di fornire i servizi richiesti, in termini di personale specializzato,
strutture periferiche adeguate, know how, ecc.. Una competenza sostanzialmente tecnica, che costa: anche 50mila
euro /anno (Valoritalia).
L’Autorità competente (ICQRF) ha il compito di vigilare
che le attività di controllo e certificazione siano correttamente applicate nel rispetto dei Piani di controllo, nel modo
più omogeneo possibile da parte di ciascun organismo di
controllo, sia esso pubblico o privato.
Garanzie assicurate? E’ una domanda che i Consorzi si
sono posti, atteso che gli enti pubblici designati non sono
soggetti in Italia all’accreditamento del 45011. Questo, in
un regime di libera concorrenza, provoca quanto meno del-
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le perplessità sui diversi livelli di costo sostenuti nell’applicazione dei Piani tra gli organismi pubblici e quelli privati
(con diverse applicazioni delle tariffe, naturalmente).
I Consorzi, è vero, possono scegliere la struttura di controllo che sia quanto più affidabile possibile soprattutto dal
punto di vista dei costi/garanzie, e sappiamo come i Consorzi hanno scelto, ma non tutte le Denominazioni hanno
un Consorzio!
Questi sono necessari perché le Denominazioni rappresentano un patrimonio; questo va gestito a partire dalla gestione del vigneto fino alla etichettatura del prodotto a DO
finito, e va poi tutelato per le innumerevoli forme di imitazione e frodi possibili.
Il Piano dei controlli termina al momento della certificazione e dell’imbottigliamento, la vigilanza nella fase del commercio è anch’essa necessaria, assicurata dai Consorzi di
tutela, sulla base di un programma di vigilanza concordato
con l’Ispettorato.
“La vigilanza consiste nella verifica che le produzioni tutelate rispondano ai requisiti previsti dai disciplinari di produzione, nella vigilanza sui prodotti similari, prodotti e/o commercializzati sul territorio dell’Unione europea che, con false indicazioni sull’origine, la specie, la natura e la qualità
specifiche dei prodotti medesimi, possano ingenerare confusione nei consumatori e recare danno alle produzioni a
DO” (DM 21 luglio 2011).
I risultati di questa attività sono importanti; per citare le ultime segnalazioni: vino comune Prosecco in Germania, Vino
“Prisecco” e “Consecco” nello stesso Paese, ad imitazione
dell’ ”Italian sounding”, vino con la scritta “Secco”, termine
consentito dalla normativa vigente ma utilizzato senza rispetto delle norme e con un intendimento chiaramente trasgressivo, ad imitazione della DOC nostrana.
Senza parlare del problema della protezione delle nostre
Denominazioni in ambito internazionale (accordi TRIPS del
’94 mai applicati, recenti negoziati ACTA insoddisfacenti,
ecc.), ma questa è un’altra storia. Basti qui ricordare che i
Consorzi hanno denunciato alla Commissione UE i recenti
provvedimenti pubblicati da parte del T.T.B. (Tax and Trade
Bureau of the Department of the Tresaury) che consentono
d’ora in poi di utilizzare, per i vini americani, vitigni protetti
dal ns. Reg. CE 607/09 come ad esempio “Montepulciano”, “Sagrantino”, “Vermentino”, “Erbaluce”, “Nero d’Avola”; hanno segnalato l’importazione nella UE di vini dai
Paesi terzi con vini etichettati come alcune nostre Denominazioni (Sagrantino australiano in Inghilterra, con brochures simili a quelle del Consorzio).
Occorre pertanto vigilare alle nostre frontiere e presso
quelle comunitarie. Bene stanno facendo i Consorzi di affidarsi al “Progetto Falstaff (Fully Automated Logical System
Against Forgery Fraud)” dell’Agenzia delle Dogane per
contrastare anche con i mezzi più moderni (telematici) gli
atti di pirateria.
Ma per tornare al sistema dei controlli e certificazioni in Italia: siamo sempre in un regime di “law in action”, per citare
Ferdinando Albisinni, con le Istituzioni impegnate a miglio-
57
rare quanto più possibile le norme vigenti e qualche Organizzazione di categoria a sostenere lo status quo (IGP) o
richiedere cambiamenti anche sostanziali, non sempre giustificati da una necessità di meglio tutelare le DOP e le
IGP.
Per le DOP riteniamo che il sistema attuale possa funzionare, naturalmente con i dovuti aggiornamenti al DM 2 novembre 2010 che si sta cercando di proporre a seguito di
esperienze e procedure sperimentate, ammesso che le responsabilità di ciascuno siano assicurate e che ci sia un livello di applicazione delle regole assolutamente paritetico
tra tutte le strutture di controllo, pubbliche e private. I nostri
Consorzi, in una linea condivisa di politiche di trasparenza,
garanzie, rispetto delle norme nazionali e comunitarie, si
sono fatti da parte ed hanno scelto i loro enti di controllo
che assicurano affidabilità nei controlli e cercano di dare
valori aggiunti alla filiera (vedi risultati dei controlli comunicati da Valoritalia il 30 novembre u.s.: soprattutto una serie
di dati in tempo reale a disposizione della filiera e dei produttori, per le loro programmazioni).
Tanto per uscire dal domestico, e senza andare nel globale
(il discorso si farebbe troppo complesso, viste le differenti
regole di produzione, vinificazione, etichettatura, protezione tra un Paese terzo e l’altro), diamo uno sguardo ai maggiori Paesi produttori europei:
In Spagna i controlli preventivi e sistematici e la certificazione sono affidati anche ai Consejos reguladores, naturalmente con le dovute garanzie (rispetto 45011), con le
Commissioni di degustazione (“Comité de cata”) all’interno
degli stessi Consejos.
Stesso sistema vige in Portogallo, a valere anche per le
IGP, attuato dalle “Istituzioni della Commissao de Viticoltura”, che corrispondono praticamente ai nostri Consorzi, obbligatori per ciascuna DO.
In Francia il sistema può essere preventivo e sistematico
(dipende dalle scelte dei produttori; è obbligatorio solo per i
vini esportati), con una parte importante dei controlli (controlli interni alla produzione, documentali ed ispettivi) affidati agli “Organismes de Géstion” (come i nostri Consorzi ma
senza l’incarico della promozione, obbligatori, composti dai
produttori delle DO).
Ecco, tutto rientra nell’ambito delle responsabilità delle varie Istituzioni, con interpretazioni ed applicazioni a volte differenziate della normativa comunitaria tra un Paese e l’altro. Il problema è un altro: come le Istituzioni vogliono o se
riescono a garantire un alto livello di copertura ed affidabilità dei controlli.
Teniamo a mente quanto a scritto in questi giorni la Corte
dei Conti Europea nel suo rapporto speciale n. 11/2011 dal
titolo “La concezione e la gestione del sistema delle Indicazioni Geografiche garantiscono la loro efficacia?”:
“(le disposizioni normative sulle IG) non definiscono i requisiti minimi in materia di verifica dei disciplinari da parte degli Stati membri”;
“Il regolamento non definisce in modo chiaro l’obbligo degli
Stati membri di effettuare controlli per prevenire ed indivi-
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duare le pratiche non autorizzate; di conseguenza, la maggior parte delle autorità nazionali controllate non effettua verifiche regolari per identificare e reprimere tali pratiche”;
“La Commissione non svolge un attento monitoraggio su come viene attuato il sistema delle IG negli Stati membri, non
è stato sinora mai effettuato un audit del sistema delle IG”.
La Corte dei Conti formula una serie di raccomandazioni
che a suo avviso possono migliorare l’efficacia del sistema
delle IG: “(La Commissione) dovrebbe definire requisiti minimi in materia di verifica dei disciplinari e fissare norme
chiare per un sistema di controllo che preveda verifiche regolari per individuare e reprimere le pratiche non autorizza-
58
te. La Commissione dovrebbe anche definire una strategia
per sensibilizzare maggiormente al sistema delle IG i potenziali richiedenti e i consumatori e per ricercare mezzi
più efficaci per promuovere il sistema tra gli stessi”.
E’ un auspicio, quest’ultimo, sempre espresso dai Consorzi, fin dall’applicazione del Piano sperimentale dei controlli
in Italia e prima ancora che la Commissione sancisse le
sue regole sui controlli e la certificazione dei prodotti. I
Consorzi lo hanno fatto con i propri limitati mezzi, Valoritalia lo sta comunicando con i mezzi appropriati proprio in
questi giorni.
E’ bene che anche le Istituzioni si diano da fare.
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Alimentare & Globale
a cura di Paolo Borghi e Laura Salvi
Ribadite le preoccupazioni di molti membri con riferimento
alle restrizioni all’esportazione.
Riunione del comitato agricoltura del 23 giugno 2011.
Continua la discussione sulle restrizioni alle esportazioni in
seno al Comitato agricoltura del WTO. Nell’ultima riunione
del 23 giugno 2011 sono state ribadite le preoccupazioni di
diversi membri circa l’applicazione di restrizioni e tasse alle esportazioni a fronte delle notifiche (51 in tutto dalla riunione del marzo 2011) inoltrate da diversi Paesi membri;
tra questi l’Ucraina, che dopo l’annuncio di voler estendere
il suo regime di quote sulle esportazioni (compiuto alla riunione del comitato del marzo 2011), ha comunicato lo
“smantellamento” delle quote di esportazione su grano e
orzo, sostituite da tasse sull’esportazione da applicarsi a
partire da gennaio 2012, e il mantenimento delle attuali
quote relative a segale e grano saraceno. Oggetto di grande attenzione sono state inoltre le notifiche relative alle restrizioni e tasse applicate da Israele, Giappone, Unione
Europea e Svizzera.
L’India ha chiesto agli Stati Uniti chiarimenti in merito alla
riforma del regime di sussidi al mercato del cotone che gli
USA sono chiamati ad attuare a seguito della conclusione
della controversia con il Brasile (DS267); gli Stati Uniti, dal
canto loro, hanno sollecitato l’India a fornire notizie circa
l’interruzione delle restrizioni alle esportazioni di cotone,
sostenendo la responsabilità del Comitato Agricoltura WTO
a conoscere della materia.
Ribadito l’impegno del Costa Rica a rispettare gli impegni
presi in relazione al rispetto dei limiti di ricorso al sostegno
interno, attraverso la revisione del relativo programma e
l’elaborazione di una nuova politica già in discussione.
Il comitato ha inoltre dato conto di come le consultazioni in
merito alla redazione di una nuova lista dei Paesi “esportatori importanti” siano risultate fino a questo momento poco
fruttuose.
Revisione della lista dei “significant exporters” e predisposizone dell’“Agricultural Market Information System”
(AMIS) - Riunione del comitato agricoltura del WTO del 29
e 30 settembre 2011.
Tra le questioni oggetto di intensa discussione nella riunione del comitato agricoltura del WTO di settembre 2011 figura quella relativa alle politiche di sostegno interno attua-
te da alcuni Membri, tra cui India, Costa Rica, Giappone e
Stati Uniti, alla luce delle informazioni da essi recentemente fornite.
Con riguardo, poi, alla revisione da parte della Cina della
sua politica commerciale agricola, Stati Uniti, Unione Europea e Giappone hanno espresso il loro apprezzamento circa i progressi da essa compiuti nell’attuazione degli impegni assunti, pur sottolineando come residuino alcune carenze, anche sotto il profilo della trasparenza nelle informazioni fornite al pubblico.
Il Presidente John Skey ha riferito sullo status delle consultazioni relative alla revisione della lista degli “esportatori
importanti”, sottolineando i benefici che da tale operazione
deriverebbero sulla capacità di vigilanza del Comitato sui
sussidi alle esportazioni, sul potenziale di esportazioni da
sovvenzionare e sugli impegni da adempiere.
Il Segretariato ha infine dato conto dei lavori in corso in seno al WTO, operante in collaborazione con altre organizzazioni internazionali, al fine di predisporre un sistema di informazione dei mercati agro-alimentari (Agricultural Market
Information System – AMIS); il ruolo dell’Organizzazione
mondiale del commercio, viene precisato, si limiterebbe ad
un contributo in termine di condivisione di informazioni sulle politiche commerciali notificate dai membri, senza assunzione di alcun impegno finanziario.
Adottato un report sugli standards privati in materia di sicurezza alimentare e salute degli animali e delle piante. –
Riunione del Comitato SPS del 30-31 marzo 2011
In occasione della riunione del Comitato SPS del 30 e 31
marzo 2011 è stato presentato un Report sulle “azioni” da
intraprendere in materia di standards privati nel settore della sicurezza alimentare e della salute animale e delle piante, elaborato da un apposito gruppo di lavoro composto da
30 membri, tra cui l’UE.
Tra le azioni individuate nel Report figurano innanzitutto lo
sviluppo di una definizione di standards privati relativi a misure SPS e la garanzia di un’informazione regolare reciproca tra SPS Commitee, Codex Alimentarius, International Office of Epizootics (OIE) e Intenational Plant Protection Convention (IPPC) sull’attività svolta nel settore. Nel
documento si prevede inoltre che il Segretariato WTO informi il Comitato degli sviluppi più significativi raggiunti negli altri consigli e comitati WTO, che i governi dei membri
collaborino con gli organi di standardizzazione nazionali
nel settore delle misure SPS, a loro volta chiamati ad operare alla luce delle questioni discusse in seno al Comitato
SPS e degli standards internazionali dei tre sopracitati or-
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gani di standardizzazione internazionali e, infine, che il Comitato promuova una cooperazione con queste tre organizzazioni nella diffusione delle informazioni relative agli standards internazionali SPS.
Diversi membri hanno avanzato alcune perplessità, relative, fra l’altro, alla circostanza per cui gli standards privati
potrebbero non essere basati sui dati scientifici, non essere conformi agli standards internazionali o ai requisiti ufficiali fissati a livello governativo nonché suscettibili di porre
oneri sproporzionati sui produttori più piccoli; per contro,
altri membri hanno sottolineato i vantaggi derivanti dall’applicazione di standards privati, quali, ad esempio, un miglioramento della produttività e una promozione delle pratiche leali e una facilitazione del rispetto di standards nazionali e internazionali laddove disciplinanti le modalità per
l’osservanza degli stessi.
A trovare spazio nell’ambito delle discussioni svoltesi in seno al Comitato sono state inoltre le questioni relative alle
misure adottate dal Giappone per fronteggiare i rischi derivanti dal disastro di Fukushima, e all’entrata in vigore della
nuova legislazione statunitense in materia di sicurezza alimentare (US Food Safety Modernization Act).
Nella riunione è stata infine affrontata la questione riguardante la fissazione di un livello massimo di residuo dell’additivo alimentare ractopamine, utilizzato nei mangimi per
favorire la crescita di maiali e mucche, inibendone nel contempo l’ingrasso.
Tale profilo è stato approfondito nella successiva riunione
tenutasi il 30 giugno-1 luglio in cui i membri si sono dimostrati divisi circa l’opportunità di fissare tale standard: da un
lato Paesi come, ad esempio, Stati Uniti, Canada e Brasile,
secondo i quali la presenza di residui di tale sostanza non
pone problemi di sicurezza, come attestato dagli studi
scientifici del Joint FAO/WHO Expert Committee on Food
Additives, dall’altro UE e Cina, secondo i quali i risultati di
tali studi scientifici non basterebbero a giustificare standards che autorizzassero i suddetti residui, dovendosi
prendere in considerazione anche altri aspetti incidenti sulla salute dei consumatori.
Non discriminatorie, ma neppure necessarie, le misure statunitensi sull’etichettatura “dolphin-safe”.
Pronuncia del Panel WTO nella controversia US- Tuna II
(Mexico).
Il 15 settembre 2011 è stato divulgato il Report del Panel
WTO nella controversia “United States – Measures Concerning the Importation, Marketing and Sale of Tuna and
Tuna Products”, instaurata il 24 Ottobre 2008 a fronte della
richiesta di consultazioni da parte del Messico nei confronti
degli Stati Uniti. Ad essere contestate erano diverse misure
applicate dagli Stati Uniti relative all’impiego per diversi
prodotti a base di tonno dell’etichetta “dolphin-safe” e alle
condizioni da rispettare per siffatto utilizzo, ritenute dal
Messico discriminatorie e non necessarie.
60
Dopo che Unione europea e Australia si erano unite alla richiesta di consultazioni,il 9 marzo 2009 il Messico aveva richiesto la costituzione di un Panel, che è stato in effetti istituito il successivo 20 marzo.
Nel suo Report, il Panel, classificate le misure statunitensi
come regole tecniche ai sensi del TBT Agreement, e perciò
vincolanti secondo quanto stabilito al punto 1 dall’allegato I
dell’Accordo, ha anzitutto respinto l’argomentazione del
Messico secondo cui le stesse misure comporterebbero
una discriminazione nei confronti nei prodotti di tonno messicani, violando l’art. 2.1 dell’Accordo; secondo il Panel, i
prodotti messicani non sarebbero dunque oggetto di un
trattamento meno favorevole di quello accordato ai corrispondenti prodotti statunitensi o di diversa origine in relazione all’applicazione delle disposizioni contestate nella
misura in cui queste condizionano la possibilità di applicare
l’etichetta “Dolphin-safe” alla presentazione di una documentazione che varia a seconda dell’area in cui il tonno è
pescato e del metodo di pesca. Parimenti non violato da
parte degli Stati Uniti, secondo il Panel, la disposizione di
cui all’art. 2.4 dell’Accordo, che sancisce l’obbligo di fondare le misure in questione su standards rilevanti a livello internazionale, dato che lo standard fatto valere come rilevante dal Messico (la definizione di “dolphin-safe” contenuta nel Tuna Tracking System Resolution dell’Accordo sul
Progrsmma internazionale per la Conservazione dei Delfini
– AIDCP) non risulterebbe appropriato ed efficace per il
conseguimento degli obiettivi cui le misure sono tese.
Positivo, invece, il giudizio del Panel con riferimento all’asserita violazione dell’art. 2.2 dell’Accordo TBT; le misure
contestate non risulterebbero, infatti, essere necessarie,
atteso che esse realizzano solo in parte gli obiettivi che si
propongono di perseguire (evitare di ingannare il consumatore circa la circostanza che il tonno sia stato pescato con
metodi che incidono negativamente sui delfini e contribuire
alla protezione di questi ultimi) e che, come dimostrato dal
Messico, esse sarebbero sostituibili da misure alternative
meno restrittive del commercio.
Su richiesta delle parti, l’Organo di risoluzione delle controversie ha esteso il termine per l’adozione del Report o per
l’appello dello stesso, fissandolo al 20 Gennaio 2012.
La questione del “miele Ogm” approda nelle discussioni
del Comitato SPS del WTO. Riunione del Comitato SPS
del 19 e del 20 Ottobre 2011
Tra le discussioni all’ordine del giorno nella riunione degli
scorsi 19 e 20 Ottobre del Comitato SPS compariva la c.d.
questione “GM pollen in honey”, relativa alla pronuncia resa dalla Corte di giustizia dell’UE nell’ormai noto caso Bablok, C-442/09 (si v., in questa Rivista, la rubrica AlimentarEuropeo).
Argentina, Brasile, Uruguay, Messico, Canada e El Salvador hanno sottolineato come, in base agli standard internazionali del Codex Alimentarius, il polline non sia da consi-
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derarsi come un ingrediente e come, in seguito alla statuizione dei Giudici europei, vi sia il serio rischio che si creino
potenziali ostacoli al commercio.
L’Unione europea ha dichiarato il suo impegno nel contenimento dell’eventuale impatto negativo sul commercio, rilevando, comunque, che con riferimento al polline GM il cui
impiego sia stato autorizzato in altri Paesi, ma che non abbia ancora ottenuto tale autorizzazione nell’Unione, sussisterebbe un effettivo problema quanto alla sua importazione.
La discussione è poi peraltro stata ripresa nell’incontro del
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Comitato TBT del 10 e 11 novembre 2011, in cui sono state
ribadite le posizioni di preoccupazione di alcuni Stati membri in relazione ai possibili effetti distorsivi del commercio
derivanti dall’imposizione a livello di UE della procedura di
autorizzazione per l’immissione in commercio del polline
contaminato da mais GM. Anche l’UE ha ribadito quanto
già affermato in seno al Comitato SPS, dando comunque
conto della valutazione positiva di EFSA circa la sicurezza
del polline di mais GM MON810 (Statement del 20 Ottobre
2011, pubblicato l’11 novembre 2011).
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AlimentarEuropeo
Giurisprudenza della Corte di giustizia in materia alimentare
a cura di Paolo Borghi e Laura Salvi
Prodotti alcolici e nomenclatura combinata ai fini dell’applicazione della tariffa doganale comune. (Sentenza della
Corte del 14 luglio 2011, causa C-196/10, Paderborner
Brauerei Haus Cramer KG c. Hauptzollamt Bielefeld)
La Corte di giustizia, pronunciandosi a definizione del caso
C-196/10, è intervenuta a chiarire come debba essere classificato, ai fini dell’applicazione della tariffa doganale comune, un prodotto consistente in un liquido avente un titolo
alcolometrico volumico del 14%, ottenuto da una birra sottoposta a processo di decantazione e ultrafiltrazione, e non
destinato alla consumazione finale, bensì utilizzato quale
prodotto intermedio per la produzione di una diversa bevanda. Il prodotto in questione, la «malt beer base», era stato
acquistato nei Paesi bassi dalla Paderborner Brauerei, che
si era vista applicare dall’ufficio doganale tedesco un’imposta sugli alcolici in linea con la classificazione di tale prodotto nella voce 2208 («Alcole etilico non denaturato con titolo
alcolometrico volumico inferiore a 80% vol.») della NC nomenclatura combinata della tariffa doganale comune - di
cui all’allegato I del Regolamento (CE) n. 2658/1987.
L’impresa - ritenendo che la «malt beer base» dovesse
invece essere classificata sotto la voce 2203 della NC
(«Birra di malto») in quanto prodotto ottenuto per fermentazione e non mediante distillazione o aggiunta di varie
sostanze aromatiche o zuccheri - aveva proposto ricorso
davanti al giudice nazionale, che aveva deciso di chiedere
alla Corte di giustizia di esprimersi sulla questione.
I Giudici, dopo aver ricordato che il criterio decisivo per la
classificazione doganale delle merci è da ricercarsi nelle
loro caratteristiche e proprietà oggettive, quali definite nel
testo della voce della NC, ha osservato che la «malt beer
base» non presenta le caratteristiche e proprietà della birra
di cui alla voce 2203 della NC, bensì quelle dell’alcole etilico di cui alla voce 2208; secondo la Corte, non pregiudicano la sua classificazione in tale voce né il fatto che la «malt
beer base» abbia un odore alcolico e un sapore leggermente amaro (dato che non è richiesta un’assenza completa di
sapore o di aroma affinché un prodotto possa essere classificato come alcole etilico), né la circostanza che si tratti di
prodotto intermedio, ricomprendendo la voce 2208 l’alcole
etilico destinato sia all’alimentazione umana che ad usi indu-
striali. In ogni caso, viene osservato, il prodotto in questione
non è ottenuto mediante fermentazione pura e semplice,
poiché ad essa segue una procedura di ultrafiltrazione che
porta alla perdita delle caratteristiche e proprietà oggettive
proprie della birra, con conseguente impossibilità di una sua
classificazione come “birra” alla voce 2203 della NC.
OGM e contaminazione di alimenti: la commercializzazione
di miele contenente OGM deve essere previamente autorizzata ai sensi del Regolamento (CE) n. 1829/2003.
(Sentenza della Corte del 6 Settembre 2011, causa C442/09, Karl Heinz Bablok e a. c. Freistaat Bayern)
E’ del 6 settembre 2011 la pronuncia della Corte di Giustizia
resa a definizione del procedimento C-442/09, in cui i
Giudici dell’Unione hanno affrontato la dibattuta questione
della coesistenza tra colture geneticamente modificate e
tradizionali. La vicenda all’origine della controversia riguarda la contaminazione accidentale di miele e altri prodotti
apistici da parte di polline di mais geneticamente modificato MON 810.
La Corte, sulle questioni pregiudiziali sottopostele dal
Tribunale amministrativo del Land della Baviera, si è pronunciata in piena conformità con le conclusioni precedentemente rese dall’Avvocato generale Bot. Essa ha innanzitutto statuito che una sostanza, quale il polline di mais geneticamente modificato di cui trattasi nella causa, che abbia
perso la sua capacità riproduttiva e non sia in grado, dunque, di trasferire il materiale genetico in esso contenuto,
non può essere considerata come organismo geneticamente modificato ai sensi dell’art. 2, punto 5, del Reg.
1829/2003. Con riferimento poi alla questione - subordinata alla soluzione negativa della prima - se la mera presenza di materiale proveniente da varietà vegetali geneticamente modificate (polline di mais MON 810) in un alimento
quali miele e integratori a base di polline sia sufficiente per
considerare quest’ultimo come «prodotto a partire da
OGM», la Corte ha risposto in senso positivo. Il polline rientra, infatti, tra quelle sostanze considerate normali componenti del miele ai sensi dell’allegato II della direttiva
2001/110 e trattandosi, dunque, di una sostanza «utilizzata
nella fabbricazione o nella preparazione di un prodotto alimentare ancora presente nel prodotto finito» esso deve
essere qualificato come “ingrediente” del miele (e degli integratori alimentari a base di polline) ai sensi degli artt. 2,
punto 13, del reg. 1829/2003 e 6, n. 4, lett. a), della direttiva 2000/13; il miele e gli integratori a base di polline contenenti polline di mais transgenico MON 810 sono quindi da
considerarsi «alimenti che contengono ingredienti prodotti a
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partire da OGM» ai sensi dell’art. 3, n.1, lett. c) del Reg.
1829/2003, senza che rilevi il carattere intenzionale o accidentale della contaminazione, e devono perciò sottostare al
regime di autorizzazione all’immissione in commercio, etichettatura e monitoraggio previsto dal Regolamento
1829/2003. I Giudici europei hanno altresì sancito che l’obbligo di autorizzazione, etichettatura e vigilanza per tali prodotti vige quale che sia l’entità del materiale geneticamente
modificato in essi contenuto; applicare soglie di tolleranza,
quali quella prevista in materia di etichettatura dallo stesso
Regolamento, all’obbligo di autorizzazione e vigilanza priverebbe di utilità le disposizioni che lo prevedono e contrasterebbe, in definitiva, con lo scopo di garantire un «elevato livello di tutela della vita e della salute umana» su cui si
fonda la normativa in questione.
A seguito della qui sopra descritta sentenza dei Giudici
europei, la Commissione ha chiesto ad EFSA di fornire
assistenza scientifica in merito alla sicurezza del polline
prodotto dal mais MON8101.
Nella dichiarazione adottata dall’Autorità il 20 Ottobre
20112, il gruppo scientifico GMO dell’EFSA è giunto alla
seguente conclusione: «While the EFSA GMO Panel is not
in a position to conclude on the safety of maize pollen in or
as food in general, it concludes that the genetic modification
in MON 810 maize does not constitute and additional health
risk if MON810 maize does not constitute and additional
health risk if MON 810 maize pollen were to replace maize
pollen from non-GM maize in or as food».
Base di partenza dell’analisi condotta dagli esperti del GMO
panel è costituita dal risk assessment già compiuto con riferimento al mais MON810; in precedenza, infatti, nell’ambito
della procedura di rinnovo dell’autorizzazione del prodotto,
il GMO panel aveva concluso che il mais Gm MON810 è
sicuro quanto il mais non geneticamente modificato3, non
identificandosi alcun rischio in relazione alla presenza in
esso della proteina Cry1Ab (determinante la resistenza agli
insetti). Poiché la proteina Cry1Ab è presente nel polline di
mais MON810 – peraltro a livelli minori rispetto alla quantità rinvenibile in altri parti della pianta – le valutazioni e le
conclusioni relative alla sicurezza della stessa sono state
estese dal GMO panel anche con riguardo al polline di mais
MON810: «As no concerns have been identified over the
safety of MON810 maize relative to that of non-GM maize
[…], the EFSA GMO Panel considers it is unlikely that the
replacement of non-GM maize pollen with MON810 maize
pollen would raise additional safety issues».
Nonostante, dunque, la scarsità di dati disponibili in merito
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alle caratteristiche di composizione e sicurezza del polline
di mais in generale, e al polline di mais MON810 in particolare, gli esperti del panel OGM ne hanno affermato – in via
inferenziale e in termini probabilistici – la non rischiosità.
Legittimazione all’adozione di misure di emergenza da parte
degli Stati membri nel settore degli Ogm: condizioni sostanziali e procedurali. (Sentenza della Corte di giustizia dell’8 settembre 2011, cause riunite da C-58/10 a C-68/10, Monsanto
SAS e altri c. Ministre de l’Agriculture et de la Pêche)
A distanza di pochi mesi dalle conclusioni dell’Avvocato
generale Mengozzi è intervenuta la sentenza dei Giudici
europei nel caso Monsanto SAS e altri, in cui la Corte,
riprendendo sostanzialmente il contenuto delle suddette
conclusioni, ha definito la base e la portata dell’esercizio del
potere di adozione di misure d’urgenza da parte degli Stati
membri, nel settore degli Ogm e anche, più in generale, nel
settore alimentare ai sensi degli artt. 53 e 54 del regolamento 178/2002.
Il ministero dell’agricoltura e della pesca francese, con successivi decreti, aveva disposto la sospensione della coltivazione delle sementi di mais Gm MON810; nel notificare il
decreto ministeriale da ultimo emanato (del 13 febbraio
2008, intervenuto a modifica del precedente decreto del 7
febbraio), in particolare, le autorità francesi avevano indicato quale norma europea di riferimento l’art. 23 della dir.
2001/18, che prevede la possibilità da parte di uno Stato di
limitare la vendita o l’uso sul proprio territorio di un Ogm per
il quale si abbiano fondati motivi di ritenere che esso comporti rischi per la salute umana o per l’ambiente (clausola di
salvaguardia).
La Monsanto - che aveva ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio del mais MON810 sotto la vigenza
della direttiva 90/220 ed aveva poi proceduto alla notifica
alla Commissione dell’Ogm come “prodotto esistente” ex
art. 20, n. 1, lett. a) del Reg. 1829/2003 - impugnava davanti al Conseil d’Etat il suddetto provvedimento statale facendo valere l’applicabilità delle sole disposizioni di quest’ultimo regolamento comunitario, posto che, peraltro, del
medesimo prodotto era pendente il procedimento di rinnovo dell’autorizzazione. Il Giudice francese sospendeva il
procedimento investendo la Corte di giustizia di diverse
questioni pregiudiziali.
I Giudici europei, nell’affrontare la questione relativa al fondamento giuridico della misura di sospensione della coltiva-
(1) 4 October 2011, Ref. SANCO/E1/SP/mb Ares (2011) 1144054
(2) EFSA, Statement on the safety of MON810 maize pollen occurring in or as food, EFSA Journal 2011, 9(11): 2434, p. 7 ss. Available
online: www.efsa.europa.eu/efsajournal
(3) Scientific Opinion of the Panel on Genetically Modified Organisms on applications (EFSA-GMORX-MON810) for the renewal of
authorization for the continued marketing of (1) existing food and food ingredients produced from genetically modified insect resistant
maize MON810; (2) feed consisting of and/or containing maize MON810, including the use of seed for cultivation; and of (3) food and
feed additives, and feed materials produced from maize MON810, all under Regulation (EC) No 1829/2003 from Monsanto. The EFSA
Journal (2009) 1149, 1-85, available on line: http://www.efsa.europa.eu/it/efsajournal/doc/1149.pdf
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zione del mais MON810 stabilita dalle autorità francesi, precisano anzitutto l’applicabilità del sopra richiamato art. 20,
n. 1, del reg. 1829/2003 anche a prodotti utilizzati in quanto sementi di Ogm (e non solo in quanto alimenti o mangimi); osservato poi come l’art. 20, n. 5, dello stesso
Regolamento disponga l’applicabilità per analogia ai c.d.
“prodotti esistenti” delle disposizioni di cui agli artt. 21, 22 e
34 dello stesso regolamento, la Corte afferma chiaramente
l’applicabilità alla misura in questione dell’art. 34, relativo
alle “misure d’emergenza”.
Quanto alla portata di tale disposizione, viene precisato
che essa si limita a definire le condizioni sostanziali dell’adozione di “misure di emergenza”, rinviando poi all’art.
54 del Reg. 178/2002 per quanto riguarda le condizioni
procedurali da rispettare in siffatta adozione, condizioni
che vanno interpretate nell’ottica dell’urgenza cui tale previsione (così come, in generale, gli artt. 53 ss. del regolamento) è ispirata, nonché alla luce dello scopo di tutela
della salute perseguito dall’intera normativa, e la cui osservanza deve essere verificata dal giudice nazionale. Gli
Stati, ai sensi dell’art. 54, devono in particolare informare
la Commissione il più rapidamente possibile, comunque
non oltre il momento dell’adozione delle misure urgenti;
oltre all’urgenza, è necessario poi che lo Stato membro
interessato dimostri la sussistenza di una situazione che
possa portare ad un rischio serio e manifesto per la salute o l’ambiente, dovendo tali misure essere fondate su una
valutazione dei rischi quanto più possibile completa e non
essendo, invece, sufficiente un approccio puramente ipotetico del rischio.
Conflitti tra marchi e prova del “serio utilizzo” nella
Comunità del marchio anteriore. (Sentenza del Tribunale
del 22 settembre 2011, causa T-250/09, Cesea Group Srl c.
UAMI)
La pronuncia del Tribunale del 22 settembre scorso arriva a
definizione di una controversia nascente dal conflitto tra un
marchio comunitario e un marchio anteriore usato con riferimento agli stessi beni e servizi, nella specie, prodotti agroalimentari.
In particolare, la Mangini Srl aveva chiesto che fosse dichiarata la nullità del marchio “Mangiami”, di proprietà della
Cesea Group Srl, per via dell’esistenza dell’anteriore registrazione internazionale del marchio denominativo “MANGINI”. La camera di annullamento dell’UAMI aveva tuttavia
respinto la domanda sulla base della motivazione per cui la
richiedente non era riuscita a fornire prova dell’uso del marchio anteriore, con riferimento ai beni e ai servizi interessati, conformemente all’art. 56, nn. 2 e 3, del regolamento
n. 40/94 (divenuto art. 57, nn. 2 e 3, del regolamento
n. 207/2009). La Mangini srl impugnava la decisione davanti alla seconda commissione di ricorso dell’UAMI, la quale,
ritenendo che la documentazione prodotta dalla richiedente
fosse tale da dimostrare l’uso serio del marchio anteriore e
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che il ragionamento che aveva condotto la divisione di
annullamento a ritenerla invece insufficiente costituisse un
elemento nuovo, accoglieva parzialmente la domanda di
dichiarazione di nullità.
La Cesea group Srl, titolare del marchio comunitario contestato, ha proposto impugnazione della suddetta decisione
di fronte al Tribunale. Questo, pur rilevando come la regola
di cui all’art. 22 del reg. 2868/95 relativa alla prova dell’utilizzazione non può essere interpretata nel senso di impedire la considerazione di ulteriori elementi di prova, anche se
forniti dopo il termine fissato dall’UAMI, ha stabilito che il
ragionamento che aveva condotto la divisione di annullamento a ritenere insufficienti le prove fornite dalla richiedente non poteva essere considerato come “elemento nuovo”,
giustificante la presentazione di prove ulteriori per la prima
volta dinanzi alla commissione di ricorso; questa, dunque,
erroneamente aveva ritenuto ammissibili tale ulteriori prove
e annullato parzialmente la registrazione del marchio comunitario.
Alla luce di tali considerazioni il Tribunale ha annullato la
decisione della commissione di ricorso dell’UAMI.
La complessa vicenda dei marchi “Bud” e “Budweiser”: l’interpretazione degli artt. 4, n 1, lett. a) e 9, n. 1, della direttiva 89/104/CE. (Sentenza della Corte del 22 settembre
2011, causa C-289/09, Budějovický Budvar c. AnheuserBusch Inc.)
La vicenda oggetto della pronuncia in epigrafe ha origine
dalla registrazione nel Regno Unito del marchio denominativo “budweiser” per i prodotti «birra, ale e porter» da parte
di due imprese produttrici di birra, la Anheuser Busch, con
sede negli Stati Uniti, e la Budvar, operante nella
Repubblica ceca, e titolare nel Regno Unito anche del marchio “Bud”.
I conflitti in merito alla registrazione del marchio
“Budweiser” tra le due società sono culminati con l’impugnazione davanti alla Court of Appeal, da parte della
Budvar, della decisione della High Court of Justice che
aveva confermato la nullità della registrazione del marchio
d’impresa “Budweiser” (domandata dalla stessa impresa
nel gennaio del 1989) per via del rilevato conflitto con la
precedente registrazione dello stesso marchio avvenuto in
favore della Anheuser Busch. Il giudice inglese ha sospeso
il procedimento sottoponendo alla Corte diverse questioni
pregiudiziali attinenti l’interpretazione degli artt. 4 e 9 della
direttiva 89/104 in materia di marchi d’impresa (oggi sostituita dalla direttiva 2008/95/CE).
Il giudice del rinvio ha chiesto anzitutto ai Giudici europei di
chiarire quale sia il significato del termine “tollerato” di cui
all’art. 9 della direttiva, e se esso, in particolare, possa considerarsi una nozione di diritto comunitario. L’articolo in
questione – ricordiamolo – prevedeva l’impossibilità per Il
titolare di un marchio di impresa anteriore (alla stregua del
precedente art. 4, par. 2) di domandare la dichiarazione di
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nullità del marchio posteriore ed opporsi all’uso dello stesso se durante cinque anni consecutivi esso avesse coscientemente tollerato l’uso in uno Stato membro del marchio
posteriore registrato in detto Stato.
La Corte ha rilevato come il termine “tolleranza”, da qualificarsi come nozione del diritto dell’Unione, denoti un atteggiamento passivo di astensione dall’adozione di contromisure di cui si dispone per rimediare ad una situazione che,
seppur conosciuta, può essere non desiderata; di qui, non
può considerarsi “tollerato”, ex art. 9, dir. 89/104, da parte
del titolare di un marchio anteriore, l’uso in buona fede consolidato e di lunga durata da parte di un terzo di un marchio
posteriore identico a quello di tale titolare qualora quest’ultimo non abbia avuto alcuna possibilità di opporsi a tale
uso. Con riferimento, poi, al profilo relativo al momento dal
quale il suddetto termine di 5 anni decorre, la Corte ha precisato che la registrazione del marchio anteriore nello Stato
membro interessato non costituisce una condizione necessaria per far decorrere il termine di preclusione per tolleranza sancito dall’art. 9, n. 1, della direttiva 89/104, dovendosi
individuare tali condizioni nella registrazione del marchio
posteriore nello Stato interessato, nell’avvenuto deposito di
tale marchio in buona fede e nel suo uso da parte del titolare nello stato in cui è stato registrato e, infine, nella consapevolezza da parte del titolare del marchio anteriore della
registrazione e dell’uso del marchio posteriore. Viene stabilito, infine, che l’art. 4, n.1, lett. a) della direttiva 89/104 deve
essere interpretato nel senso che il titolare di un marchio
anteriore non può ottenere l’annullamento di un marchio
posteriore identico che designa prodotti identici in caso di
uso simultaneo in buona fede e di lunga durata di tali due
marchi d’impresa quando - come nel caso di specie - tale
uso non pregiudica o non sia suscettibile di pregiudicare la
funzione essenziale del marchio d’impresa, consistente nel
garantire ai consumatori l’origine dei prodotti o dei servizi.
Slogan pubblicitari e “carattere distintivo” (Sentenza del
Tribunale del 23 settembre 2011, causa T-251/08, Vion NV
c. Office de l’harmonisation dans le marché intérieur (marques, dessins et modèles – OHMI)
Un segno verbale che si traduca in uno slogan pubblicitario
rivolto ad un certo target di consumatori indicando che i prodotti offerti sono di elevata qualità, e dunque si concreti in
niente più che un’informazione promozionale astratta, non
può dirsi dotato di carattere distintivo e quindi essere qualificato come marchio ai sensi della normativa comunitaria.
Questa è la conclusione cui è giunto, nel caso T-251/08, il
Tribunale di primo grado, davanti al quale era stato proposto ricorso contro la decisione con cui la IV commissione di
ricorso dell’UAMI aveva rigettato la domanda di registrazione come marchio comunitario del segno verbale «PASSION
FOR BETTER FOOD» per le categorie di beni e servizi di
cui alle classi 5, 29 e 30; la commissione dell’UAMI aveva
infatti ritenuto che il suddetto segno verbale si limitasse a
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fornire indicazioni ai consumatori circa la qualità dei prodotti ai quali esso si riferiva, ma non informazioni sulla loro origine commerciale, risultando pertanto privo del «carattere
distintivo» di cui all’art. 7, par.1, lett. b) del reg. 40/94.
I Giudici, ricordando anzitutto che il carattere distintivo di un
marchio deve essere oggetto di una valutazione globale,
sia in relazione ai prodotti e servizi per i quali si chiede la
registrazione, sia in relazione alla percezione che di essi
hanno i consumatori, hanno rigettato il ricorso promosso
dalla Vion NV avverso la suddetta decisione. Essi hanno
affermato che il significato astratto dello slogan «PASSION
FOR BETTER FOOD» - riferendosi esso alla qualità astratta di determinati prodotti - non sarebbe tale da fornire l’indicazione della natura commerciale di tali prodotti al consumatore medio, il quale non sarebbe in grado di memorizzarlo facilmente e in via immediata quale marchio dei prodotti
ai quali si riferisce. Di qui, secondo il Tribunale, la correttezza della valutazione dell’UAMI circa l’assenza di carattere
distintivo del segno verbale in questione e la legittimità del
rigetto della domanda di registrazione come marchio comunitario.
“Rischio di confusione” ed “elemento dominante” nella valutazione sulla similitudine tra marchi. (Sentenza del
Tribunale, 15 novembre 2011, causa T-276/10, El Coto De
Rioja, SA c. Office de l’harmonisation dans le marché intérieur (marques, dessins et modèles – OHMI).
Con la recente pronuncia del 15 novembre 2011, resa nel
caso T-276/10, i Giudici europei sono intervenuti ancora
una volta nella “vivace” materia dei marchi comunitari applicata ai prodotti agro-alimentari.
La vicenda riguardava la registrazione come marchio della
denominazione “COTO DE GOMARIZ”, per un prodotto
classificato quale “vino”, registrazione che successivamente, su richiesta dell’impresa El Coto de Rioja, era stata
annullata sulla base dell’esistenza di un rischio di confusione tra il suddetto marchio e gli anteriori marchi comunitari,
di proprietà della stessa impresa, “EL COTO” e “COTO DE
IMAZ”, noti in Spagna come riferiti alla categoria dei vini.
Tale decisione era stata a sua volta successivamente
annullata dalla IV commissione di ricorso dell’UAMI (28
aprile 2010, R 1020/2008-4), secondo la quale i segni in
conflitto, pur riferendosi ad identici prodotti, erano ben
distinti sul piano visivo e fonetico, atteso, in particolare, che
pur essendo il termine “coto” automaticamente associato
dai consumatori spagnoli al generico prodotto vino, i termini “gomariz” e “imaz”, assumono un carattere fortemente
distintivo, sì da escludere l’esistenza di qualsivoglia rischio
di confusione.
L’impresa titolare dei precedenti marchi “EL COTO” e
“COTO DE IMAZ” ha impugnato tale decisione davanti al
Tribunale di primo grado asserendo la violazione da parte
dell’UAMI degli artt. 53, par. 1, 8, par. 1, lett. b) e 8, par. 5
del Regolamento 207/2009.
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Il Tribunale, richiamando la sua giurisprudenza sul punto,
ha innanzitutto ricordato come il rischio di confusione debba
essere valutato globalmente sulla base della percezione
che il pubblico ha dei beni o servizi in questione e come
l’elemento di un marchio complesso, seppur dotato di un
basso valore distintivo, possa comunque assurgere ad elemento “dominante” nella valutazione della somiglianza tra
marchi. I Giudici, sulla scorta di tali considerazioni, hanno
osservato che il termine “coto” - contrariamente a quanto
ritenuto dalla camera di ricorso dell’UAMI - rappresenta un
fattore di somiglianza significativo tra i marchi in conflitto,
atto ad incidere rilevantemente nella percezione del pubbli-
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co rispetto a tali segni; erroneamente, dunque, la decisione
impugnata aveva ritenuto sussistere delle differenze evidenti tra le espressioni «coto de imaz» e «coto de gomariz», non considerando il peso che il termine “coto” - quale
elemento di similitudine - ha rispetto alla percezione dei
consumatori.
Ritenuto, dunque, l’errore di valutazione dell’UAMI nel
negare l’esistenza di una somiglianza significativa sul piano
fonetico, visivo e concettuale e, di conseguenza, la sussistenza di un rischio di confusione, tra i marchi in conflitto, il
Tribunale ha accolto il ricorso e annullato la decisione
dell’UAMI.
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