Newsletter n. 19
UNIONE INDUSTRIALE PRATESE
NEWSLETTER RICERCA E INNOVAZIONE N. 19
MONOGRAFIE
MATERIALI A CAMBIAMENTO DI FASE (PCM
Phase Change Material)
Transizione solido-liquido
Supponiamo di essere in grado di controllare la
temperatura di un cubetto di ghiaccio a –30°C
mentre gli forniamo calore.
Il cubetto, in virtù dell’apporto calorico, aumenterà progressivamente la propria temperatura in modo lineare (vedi Figura 1
nella zona A-B del grafico).In questa fase
il ghiaccio è in grado di assorbire 2 J/g per
1°C di aumento di temperatura. In pratica, un cubetto di ghiaccio di massa pari
ad un grammo, per passare dalla temperatura di 30°C a quella di 0°C, necessita
dell’apporto di 60 J.
Appena la temperatura raggiunge a 0°C il
ghiaccio inizia a trasformarsi in acqua e,
cambiando fase fisica, da solido passa a
liquido; la temperatura si stabilizza a 0°C
e si verifica la “convivenza” di ghiaccio ed
acqua (la temperatura rimane a 0°C finché l’ultima molecola di ghiaccio non si è
trasformata in acqua). Questa particolare condizione corrisponde al plateau della curva di Figura 1, ovvero alla zona B-C.
Per completare la transizione di fase ghiaccio
acqua sono necessari 335 J/g e questa quantità di calore è definita calore latente di fusione.
Figura 1
Nel punto C della curva di Figura 1 abbiamo
solamente acqua e, fornendo ulteriormente calore, la temperatura dell’acqua sale al ritmo di 4
J/g per 1°C.
La curva blu di Figura 2, schematizza visivamente la capacità del sistema ghiaccio/acqua
di “assorbire” calore.
Come si può notare la massima capacità di
assorbimento si ha durante la transizione di fase.
Figura 2
Tutto il calore che “speso” per far passare il
cubetto di ghiaccio da –30°C ad una temperatura superiore a 0°C, non è andato perso; esso
si trova immagazzinato nell’acqua.
Se raffreddiamo l’ambiente in cui si trova l’acqua, questa progressivamente perde calore, si
raffredda ed infine, congela, trasformandosi in ghiaccio. Tutto il calore assorbito
in precedenza ed immagazzinato viene
ceduto ora all’ambiente circostante.
L’acqua, in tali condizioni, può essere considerata un Materiale a Cambiamento di
Fase (Phase Change Material cioè PCM).
In natura si contano almeno 500 materiali
PCM ed esistono materiali sintetici PCM.
Essi si differenziano per la temperatura alla
quale avviene il cambiamento di fase e per
la loro capacità di immagazzinare o cedere
calore.
I materiali PCM più usati sono idrocarburi puri
o variamente miscelati fra loro; essi sono in
grado di immagazzinare da 5 a 14 volte più
calore dei più sensibili materiali “stoccanti” tradizionali quali, ad esempio, l’acqua.
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PCM
Un capo può essere immaginato coma una barriera che divide due ambienti: uno esterno e
uno interno, ovvero il microambiente racchiuso fra la pelle dell’utilizzatore e il tessuto.
La temperatura dell’ambiente esterno può variare a causa di eventi naturali (ad esempio
raffiche di vento che si levano improvvise) o
artificiali (pensiamo quando d’inverno usciamo da un rifugio ben riscaldato e andiamo sulla
neve), così come quella del microambiente interno (se iniziamo a fare attività fisica immettiamo nel microambiente una maggiore
quantità di calore che tenderà ad aumentarne la temperatura).
I tessili contenenti PCM hanno la capacità regolare il flusso di calore fra il microambiente
interno e l’ambiente esterno generato dalle
diverse temperature.
La combinazione di questa caratteristica con
la capacità di “immagazzinare” e cedere calore ad una temperatura pressoché costante
attorno al cambiamento di fase, fanno sì che
ci sia ritardo, talvolta anche significativo, nell’aumento della temperatura del microclima interno. In una parola è aumentato il grado di
confort. Sfruttando i PCM è possibile funzionalizzare i tessuti per ottenere un effetto di
termoregolazione attiva. In pratica abbiamo a
che fare con “smart textile”, tessuti intelligenti.
In Figura 3 è riportato un confronto tra un
tessuto, spalmato sulla superficie interna, con
PCM avente temperatura di fusione compresa
fra 26 e 28°C ed uno non funzionalizzato.
I due tessuti, dopo essere stati condizionati
a 23-24°C e 60% di umidità relativa, sono
stati posti in una camera climatica impostata
a 35°C ed una umidità relativa del 60%.
Come si osserva il tessuto funzionalizzato
mantiene la temperatura più bassa rispetto a
quello non trattato.
Figura 3
I PCM più importanti dal punto di vista tessile
sono idrocarburi (ottano, nonano, esadecano, ecc) che non sono tossici, non sono corrosivi, non sono igroscopici e presentano un
comportamento termico stabile nelle normali
condizioni di utilizzo dei capi.
Generalmente si utilizzano sotto forma di miscela in modo da manifestare il cambiamento
di fase a varie temperature adattandosi così
alle diverse temperature naturali delle diverse
parti del corpo: a 34-36,5° nella zona della
testa ad esempio per il rivestimento dei caschi per motociclisti; 27-30°C per le diverse
zone del tronco per giacche, pantaloni, tute,
ecc.; a 25-27°C per le mani e i piedi per guanti, calze e calzature.
In Figura 4 sono sintetizzate alcune caratteristiche dei più comuni PCM.
Figura 4
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Microcapsule PCM
Prima di essere “applicate” ai prodotti tessili i
materiali PCM sono incapsulati in piccole sfere
ovvero microcapsule che possiedono un diametro variabile compreso fra 5 e 60 ìm. Esse
sono resistenti alle azioni meccaniche (abrasione, pressione, ecc), al calore, ai diversi
agenti finissanti, al lavaggio ed all’asciugatura.
In linea puramente teorica, dal momento che
la transizione liquido-gas segue le medesime
dinamiche di quella solido-liquido, si potrebbe
ipotizzare di sfruttarla per i medesimi scopi.
Addirittura la quantità di calore “immagazzinato” durante questa transizione di fase risulta
decisamente maggiore e, di conseguenza, l’effetto positivo del materiale potrebbe essere
enormemente superiore.
Ogni transizione di fase, sia solido-liquido che
liquido-gas, tuttavia, è accompagnata da un
aumento di volume della sostanza; mentre
quello della transizione solido-liquido è trascurabile o comunque tollerabile, quello della transizione liquido-gas è così elevato che rende
tale transizione inutilizzabile, una volta che le
sostanze sono state incapsulate.
Figura 5
Le microcapsule con PCM possono già trovarsi
all’interno delle fibre, essere applicate per spalmatura, immerse in schiuma o per accoppiamento con lamine contenenti le microcapsule.
Per esempio microcapsule contenenti PCM sono
inserite, in fase di estrusione ad umido, in fibre
di origine acrilica. Studi recenti del TITK
(Thûringisches Institut fûr Textile) stanno tentando di ottimizzare il processo di inclusione di
microcapsule con PCM all’interno di fibre cellulosiche artificiali.
Nel caso di applicazioni spalmature le microcapsule vengono disperse in resine (acriliche,
poliuretaniche, ecc.) ed applicate sul tessuto.
Nel caso di applicazioni sotto forma di schiuma,
le microcapsule sono inserite in schiuma poliu-
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retanica dalla quale è successivamente rimossa l’acqua con un processo di essiccazione.
In Figura 5 un’immagine ottenuta con il SEM di
microcapsule di PCM in un TNT di PET.
Applicazioni
Già dalla seconda metà degli anni ’90 è iniziata
la commercializzazione di prodotti contenti PCM.
Una delle aziende più attive sin dai primi momenti è stata la svizzera Schoeller Textil Ag
che, in quel periodo, ha lanciato sul mercato
una linea di prodotti sportwear, quindi prodotti
per alpinisti, per sciatori, motociclisti, per il tempo
libero ecc. con il marchio Shoeller®-Interctive.
Tale linea era stata sviluppata in collaborazione con l’americana Frisby Technology fornitrice delle microcapsule con PCM.
I test circa le performance di questi prodotti
erano stati affidati all’Empa, l’ente federale
svizzero per la ricerca e prova dei materiali
dotato, nei suoi laboratori di San Gallo, di strumenti in grado di misurare, in maniera molto
precisa, il confort degli abiti.
La stessa Empa ha presentato al “International Man-Made Fibres Congress” del 2000, a
Dorbirn, un intervento dal titolo “How effective are PCM? Experience from laboratory measurament and controlled human subjetc test”
che racchiudeva ben 2 anni di lavori e le cui
conclusioni, circa l’efficacia dei PCM, erano piuttosto positive (nel corpo dell’intervento non si
fa alcun riferimento alla Schoeller Textil Ag ma
è forse ragionevole supporre che tali dati fossero estrapolati dal lavoro eseguito per la Schoeller Textil Ag).
Attualmente la Schoeller Textil Ag è proprietaria
un marchio registrato (Schoeller-PCM™) che fa
capo ad una linea di prodotti realizzati con PCM.
In Figura 6 un’immagine al SEM di un tessuto
della Schoeller Textil Ag.
Figura 6
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Il Johnson Space Center della NASA e la U.S.
Air Force hanno commissionato la messa a punto di guanti altamente performanti (Figura 7)
che potessero essere utilizzate dagli astronauti
nelle attività extraveicolari, in modo da proteggere le mani dal freddo estremo. La soluzione trovata dai ricercatori è stata quella di
integrare, all’interno delle fibre, microcapsule
con PCM.
La Gateway Technologies, uno dei soggetti
coinvolti nella ricerca, ha realizzato, sulla scia
di questa ricerca, una linea prodotti sotto il
nome Outlast™ che ha iniziato a commercializzare in tutto il mondo.
Applicazioni con connotazione tessile meno
spiccata, prevedono l’uso di PCM, variamente
PUBBLICAZIONE
Polianilina (PANI)
le fibre di PET possono essere funzionalizzate
in modo da renderle dei “conduttori” elettrici.
Diverse tecniche sono state sviluppate o tentate. Una di queste prevede l’uso di polianilina
(PANI) “drogata” con sali organici.
Figura 1
La polianilina (Figura 1) è un composto organico, un polimero semiconduttore. Come tutti i
semiconduttori presenta la capacità di condurre corrente l’elettricità intermedia fra i conduttori e gli isolanti. Per drogaggio si intende
l’aggiunta alla PANI di piccole percentuali di
altri atomi o composti chimici in modo da aumentare le proprietà elettriche del materiale.
Soluzioni di PANI e acidi organici solforici esaltano le capacità conduttive della PANI e rendono possibile depositare film trasparenti, cioè
fare, dal punto di vista tessile, un coating.
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formulati, per realizzare materiali isolanti per
l’edilizia o, addirittura, pannelli solari in grado
di riscaldare l’acqua.
Figura 7
un rapporto 1:0,5. I campioni di tessuto in
PET sono stati imbevuti nella soluzione e successivamente termotrattati per un periodo
molto breve in modo da fissare permanentemente la PANI drogata sulle fibre di PET.
Le prime valutazioni hanno messo in evidenza
che, dopo il trattamento, i campioni conservavano un’ottima mano, ma erano purtroppo
caratterizzati da una pallida colorazione verde che gli conferiva un colore verdognolo e
traslucido se attraversati da luce.
Fotografie ottenute sia con il microscopio ottico, sia con il SEM, hanno messo in evidenza
che si aveva la formazione, sulla superficie
delle fibre, di un film di PANI non sempre omogeneo (Figura 3), il cui spessore era funzione
delle caratteristiche e del numero dei cicli impregniazione/trattamento termico.
Figura 2
Nel tentativo di ottenere processi industriali
che portassero a tessuti di PET “conduttori”,
è stata preparata una soluzione di PANI e acido dodecilbenzensolfonico (DBSA, Figura 2) con
Figura 3: immagine al microscopio ottico
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La Figura 4 mostra che, anche la resistenza
elettrica, varia in funzione del numero di cicli e
della durata del termotrattamento.Come parametro di riferimento, per valutare le caratteristiche elettriche, possiamo assumere il rame,
utilizzato per produrre i circuiti elettrici, che
ha una resistenza di 9,75*10-2 Ohm.
Figura 4
Nel caso di due o tre cicli impregnazione/trattamento termico, la resistenza non aumenta
in maniera importante così come avviene con
la durata del termotrattamento.Con la prima
impregnazione si ottiene un in film di polianilina
che in parte si degrada in seguito al termotrattamento. Quando si deposita uno strato
più sottile, con un secondo o terzo ciclo, la
degradazione ha un effetto meno importante
sulle resistenza elettrica totale.
Tessuti al limone
L’incapsulazione è un metodo per rendere profumati gli abiti mediante l’uso di microcapsule
che contengono, al loro interno, un’essenza.
Sul tessuto, che in precedenza ha subito una
resinatura, si depositano le microcapsule che,
attraverso un trattamento termico (130-170°C
per 1-10 minuti), si fissano sul tessuto per
effetto della reticolazione della resina.
Il trattamento termico garantisce un’ottima
solidità al lavaggio delle microcapsule, ma le
alte temperature di reticolazione possono volatilizzare parte dell’essenza (racchiusa nelle
microcapsule) o deteriorarla. Talvolta si può
giungere alla rottura l’involucro esterno.
Ne consegue, come si può ben intuire, una
diminuzione dell’efficienza e della durata del
trattamento funzionalizzante.
In alternativa, per evitare danni da trattamenti
termici, è possibile usare resine che reticolano
mediante irraggiamento UV. Tali resine sono
miscele di monomeri e/o oligomeri e di iniziatore fotochimico, ovvero una molecola che, per
azione della luce (in questo casi raggi UV), si
rompe formando radicali che innescano la reazione di reticolazione.
A tessuti di cotone, precedentemente sbiancati e mercerizzati, sono state applicate microcapsule contenenti aroma di limone tramite
l’uso di una resina UV sensibile costituita da
un’emulsione di poliuretano insaturo come oligomero, da TPGDA (tripropilen-glicol-diacrilato) come monomero e da i quattro diversi iniziatori fotochimici (Figura 1).
I campioni sono stati sottoposti a test per
valutare:
- la presenza di aroma, secondo una procedura messa a punto da Lewis et al. presso
il “Institute of Textile Technology” alla North
Carolina State University (USA)
- il grado di bianco, secondo la norma ASTM
E-313 (ASTM 2000)
- la perdita di flessibilità secondo la norma
ASTM D-1388 (ASTM 2000)
Analizzando i dati, si è arrivati a poter affermare che l’efficienza di questa nuova tipologia
di trattamenti è influenzata da:
- la tipologia dell’iniziatore;
- le caratteristiche della lampada UV;
- le condizioni di reticolazione, cioè la velocità di trattamento.
Senza un iniziatore fotochimico il trattamento
non raggiunge una sufficiente solidità al lavaggio (stimata in 20 cicli); con un iniziatore
fotochimico e radiazioni UV emessa da una
lampada a filamento di mercurio o di ferro,
la solidità al lavaggio, indipendentemente
Figura 1
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dall’iniziatore utilizzato, arriva a 50 cicli (mantenimento delle caratteristiche per almeno 50 cicli).
I campioni irradiati con lampada a xenon, invece, mostrano, relativamente alla solidità ai lavaggi, un comportamento “anomalo”: mentre
nel caso degli iniziatori A e B, la solidità raggiunge i 50 cicli, con gli iniziatori C e D arriva
solamente a 30 cicli. Nel caso della lampada a
ferro o mercurio si arriva sempre a 50 cicli.La
perdita di flessibilità è molto maggiore se si usano
Figura 2
Figura 3
RICERCHE
Polimeri e Ciclodestrine
Come anticipato nella Newsletter Ricerca e Innovazione n° 17, le ciclodestrine (CDs) sono
in grado di ospitare al loro interno altre molecole
(ICs) costituendo così composti di inclusione.
E’ possibile realizzarli anche quando le CDs sono
contenute all’interno di matrici polimeriche.
I sistemi che si ottengono (matrice polimerica/
CDs-ICs) sono strutture cristalline contenenti
dei canali realizzati dalle CDs con un diametro
variabile fra 5 e 10 Armstrong (Figura 1).
Una delle caratteristiche più interessanti di tali
sistemi risiede nel fatto che la molecola ospite
è confinata all’interno di questi canali, senza
avere contatti con la matrice polimerica. Inoltre la presenza di un complesso di inclusione,
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lampade a xenon rispetto a quelle a ferro o
mercurio.
Nelle condizioni ottimali di finissaggio e di reticolazione UV sperimentate (successivamente
descritte), la solidità al lavaggio dei campioni
dopo 50 cicli risulta essere migliore di quella a
25 cicli con campioni che hanno subito un tradizionale trattamento termico.
Per raggiungere caratteristiche ottimali di solidità è necessario trattare i tessuti ad una velocità di 124,46 cm/min se si utilizzano lampade
a xenon o mercurio e di 231,14
cm/min se si utilizzano lampade
a ferro.
L’indice di bianco è influenzato
sia dalla tipologia d’iniziatore,
sia dalla diversità di lampada
UV. I campioni trattati con l’iniziatore A sono quelli che danno i peggiori risultati; essi ingialliscono in maniera significativa e il loro indice di bianco,
dopo il trattamento, ha valori
minori di 0.
L’iniziatore con i risultati migliori
è il D se abbinato alla lampada
a xenon, come si può vedere
in Figura 3.
Basandosi su questi studi si può
concludere che la formulazione ottimale per funzionalizzare
tessuti in cotone, con aromi,
prevede l’uso di una emulsione
di poliuretano insatura come oligomero al 40%, di TPGDA come
monomero, con l’Iniziatore fotochimico B ed una velocità di
processo di 231 cm/min.
modifica, anche in modo pesante, le proprietà
di bulk della matrice polimerica.
Quando la matrice polimerica è portata alla
temperatura di rammollimento, è possibile ri-
Figura 1: il blu canale
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muovere sia le CDs, sia la ICs inclusa. Per far
questo possono essere utilizzate due tecniche:
- solubilizzarle le CDs con le molecole incluse
in un solvente che, invece, non è in grado
di solubilizzare la matrice polimerica;
- degradare selettivamente le CDs con un acido o un enzima, per esempio un’amilasi.
Dopo aver cristallizzato nuovamente la matrice polimerica, nelle zone in precedenza occupate dalle CDs, si producono cavità non presenti nel polimero originale.
Se due o più polimeri sono solubilizzati in un
comune solvente e quel solvente è lo stesso
utilizzato per rimuovere le CDs e le ICs, le
“cavità” lasciate dal sistema CDs/ICs sono letteralmente riempite con questi due nuovi polimeri. E’ possibile così creare un miscela molto
intima di polimeri fra loro immiscibili.
E’ possibile inoltre produrre con questa tecnologia copolimeri a blocchi, che tradizionalmente presentano fasi fisicamente separate, in cui
c’è una notevole omogeneità di fase.
Si è scoperto che le strutture generate con
omopolimeri, copolimeri a blocchi e coppie di
omopolimeri sono in genere stabili ai trattamenti termici per lunghi periodi al di sopra o
della temperatura di transizione vetrosa Tg o
di rammollimento Tm. Questo implica che essi
possono essere processati come materiali termoplastici senza che vi sia perdita delle caratteristiche morfologiche ottenute con la rimozione del sistema CDs-ICs.
Gli effetti prodotti per estrazione dei sistemi
CDs-ICs da matrici polimeriche sono:
- aumentano le temperature di fusione e decomposizione per effetto dell’introduzione di
omopolimeri capaci di cristallizzare che aumentano il grado di cristallinità del PET;
- il raggiungimento di miste così intime, fra
polimeri immiscibili, da poter essere definite
miscele molecolari;
- il quasi annullamento della netta separazione di fase che si ha in presenza di blocchi
immiscibili;
- l’aumento della stabilità termica ed agli
agenti atmosferici.
Attualmente alcuni ricercatori statunitensi hanno scoperto un metodo, via precipitazione, che
non richiede l’intervento di CDs, che permette
di ottenere un PET che presenta le caratteristiche di un PET modificato per estrazione di
ã-CDs. I limiti del processo risiedono nel fatto
che non permette di ottenerne quantità sufficienti per essere caratterizzate. La ricerca è
ora finalizzata all’ottenimento di una quantità
sufficiente per poter caratterizzare con esattezza la struttura e la morfologia. Gli stessi
ricercatori stanno anche paragonando le caratteristiche di tale PET a quelle dello stesso
polimero preparato con le tradizionali tecniche
di solubilizzazione o con i tradizionali processi
di fusione.
I ricercatori hanno anche scoperto che il glicole polietilenico (PEG) è in grado di funzionare come molecola da inclusione per le CDs á e
ã miscelando oligomeri liquidi del glicole polietilenico o soluzioni dello stesso con e CDs in
polvere a temperatura ambiente. Le CDs abbandonano la struttura a gabbia per assumere
quella a canale durante il processo di inclusione del PEG. Gli studi sono rivolti alla conoscenza del processo di inclusione del PEG per
ottimizzarlo.
BREVETTI
Cosa sono i brevetti
In questa sezione sono sempre stati presentati, in forma sintetica, brevetti che sembravano, a nostro giudizio, essere degni di interesse.
Nella Newsletter Ricerca e Innovazione n° 3
avevamo dato alcune informazioni sul mondo
della proprietà intellettuale senza però rispondere ad una domanda fondamentale: cosa è
un brevetto.
Un brevetto è lo strumento con cui la legge
garantisce all’autore di un’invenzione un monopolio, temporaneo, di sfruttamento dell’invenzione stessa.
Quando un’invenzione è oggetto di un brevetto nessuno, eccetto l’inventore, può realiz-
zarla, disporne in alcun modo o commercializzarla. E’ vietato ad altri anche di produrla, usarla,
metterla in commercio, venderla o importarla.
Il brevetto, tuttavia, è un monopolio limitato
sia sul territorio, sia nel tempo.
La legge garantisce all’inventore un monopolio, benché limitato, ma lo obbliga, nel brevetto stesso, a rivelare e descrivere l’invenzione
alla comunità. Da questo punto di vista un brevetto si potrebbe configurare come un mezzo
di divulgazione scientifica.
Esistono 5 diverse tipologie di oggetti brevettabili:
- le invenzioni industriali: l’invenzione è una
soluzione nuova ed originale di un problema
tecnico, atta ad essere realizzata ed appli-
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cata in campo industriale. Essa può riguardare un prodotto o un procedimento;
- i modelli di utilità: un trovato che fornisce
a macchine o parti di esse, a strumenti,
utensili od oggetti di uso in genere, particolare efficacia o comodità di applicazione
o d’impiego;
- i modelli ornamentali: un trovato che conferisce ai prodotti industriali uno speciale
ornamento grazie ad una particolare forma
o combinazione di linee, colori o altri elementi;
- le nuove varietà vegetali: una varietà vegetale nuova, omogenea, stabile e diversa
da altre già esistenti;
- le topografie di un prodotto a semiconduzione: una serie di disegni correlati, comunque fissati o codificati, rappresentanti lo
schema tridimensionale degli strati di cui si
compone un prodotto a semiconduttori. In
tale serie ciascuna immagine riproduce in
tutto o in parte una superficie del prodotto
a semiconduttori in uno stadio qualsiasi della
sua fabbricazione.
Il periodo di monopolio è variabile, in quanto
viene a dipendere dal paese in cui vale il brevetto e dall’oggetto del brevetto. In generale
si può dire che il periodo di monopolio viene a
decorre dalla data di presentazione della domanda e dura 20 anni per le invenzioni, 10
anni per i modelli di utilità e da 5 fino a 25 anni
per i modelli ornamentali. Per le nuove varietà
vegetali i diritti esclusivi nascenti dal brevetto
durano 15 anni dalla concessione del brevetto
stesso (30 anni nel caso di piante a fusto legnoso). Per le topografie di prodotti a semiconduttori i diritti esclusivi ottenuti con la registrazione durano 10 anni.
CURIOSITA’
Abiti di luce
Le fibre ottiche (Figura 1) sono dei sottili tubicini (per sottili si intende che hanno un diametro inferiore ad un millimetro) realizzati con un
Figura 1
Newsletter n. 19
Ovviamente perché un “qualcosa” sia brevettabile occorre che siano soddisfatti alcuni requisiti che sono:
- la novità: la scoperta non deve essere già
compreso nello stato della tecnica; per stato
della tecnica si intende tutto ciò che è stato reso accessibile al pubblico, in Italia o
all’estero, prima della data del deposito della
domanda di brevetto mediante descrizione
scritta od orale, una utilizzazione o un qualsiasi altro mezzo;
- l’attività inventiva: il trovato non deve risultare in modo evidente dallo stato della
tecnica per una persona esperta del ramo;
tale requisito è sostituito, nella caso di modello di utilità, dalla “particolare efficacia o
comodità di applicazione” e, nel caso di
modello ornamentale, dallo “speciale ornamento”;
- l’applicazione industriale: il trovato deve
poter essere oggetto di fabbricazione e utilizzo in campo industriale;
- la liceità: il trovato non deve essere contrario all’ordine pubblico e al buon costume.
Non sono brevettabili, perché non sono considerate invenzioni:
- le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi
matematici o per il trattamento chirurgico,
terapeutico o di diagnosi del corpo umano o
animale;
- i piani, i principi e i metodi per attività intellettuale, per gioco o per attività commerciali e i programmi per elaboratori;
- le presentazioni di informazioni;
- le razze animali e i procedimenti essenzialmente biologici per l’ottenimento delle stesse, a meno che non si tratti di procedimenti
microbiologici o di prodotti ottenuti mediante
questi procedimenti.
materiale trasparente alla luce (per esempio
un polimero) all’interno delle quali “scorre” la
luce stessa. I raggi luminosi si propagano all’interno del materiale trasparente, per riflessione sull’interfaccia presente fra il materiale
stesso e un “rivestimento” esterno non trasparente. I raggi luminosi, immessi ad
un’estremità della fibra ottica, fuoriescono all’altra estremità, anche se la fibra è curvata
purché, ovviamente, essa non sia eccessivamente piegata.
Un sistema che emette luce a base di fibre
ottiche si realizza mediante una sorgente di
luce (spesso è utilizzato un laser), una fibra
ottica ed un equipaggiamento per posiziona-
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Newsletter n. 19
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mento delle fibre ottiche stesse ovvero una
sorta di telaio.
Vi è anche una seconda categoria di fibre ottiche: quelle che mettono luce lungo tutto il
loro sviluppo, le cosiddette fibre ad emissione
laterale o “a tutta luce” (Figura 2). A differenza delle precedenti sono rivestite di un materiale trasparente che permette la “fuoriuscita”
della luce. In pratica il loro aspetto assomiglia
a quello dei classici tubi al neon.
Figura 2
E’ possibile usare le fibre “a tutta luce”, eventualmente in combinazione con apparecchi a
luce laser, per “intrappolare” la luce laser in un
conduttore maneggevole, che può anche essere portato ovunque ed, al limite, può essere
posizionato in acqua.
Un gruppo di ricerca in cui era presente anche
STFI di Chemnitz ha sviluppato delle reti luminose che integrano la tecnologia delle fibre
ottiche ad emissione assiale con quella tessile. Le reti luminose sviluppate rispondono alla
norma DE 202 06 398 U1.
In Figura 3, 4 e 5 si riportano esempi delle reti
luminose.
Le reti sono state tessuti con telai ortogonali
opportunamente modificati. Le fibre ottiche
costituiscono l’ordito, mentre la trama è costituito da “tradizionali” fibre sintetiche.
Le fibre ottiche sono estremamente sensibili ai
piegamenti ed agli attriti ma, modificando opportunamente il telaio circolare, è possibile
superare questi inconvenienti.
La struttura a rete ha anche la funzione di
telaio ovvero protegge le fibre ottiche da even-
Figura 3
Figura 4
tuali stress di tipo meccanico.
Alle reti può essere data con una certa facilità
una forma tridimensionale agendo sulle modalità di realizzazione dell’intreccio in tessitura.
Utilizzando sorgenti luminose in grado di emettere più “colori”, è possibile ottenere reti che
si colorano di blu, di verde, di giallo a seconda
del movimento. Combinando quindi proiettori
che sono in grado di mettere luce di più colori
e varie tipologie di movimento è possibile ottenere reti “animate” da molteplici colori.
Possibili impieghi potrebbero essere in arredamento, piscine, saune, così come in giardini e
fontane o anche per mettere in sicurezza zone
in cui si fanno intereventi d’emergenza di notte, come incidenti stradali.
In abbigliamento si può pensare di realizzare
abiti di luce (Figura 6).
Figura 6
I tessili realizzabili con questa tecnologia però
non sono da confondere con i tessuti realizzati con la tecnologia nota come Luminex®. LUMINEX è un nuovo tessuto in grado di emettere luce propria (non riflessa come nel caso delle
reti luminose), può essere realizzato con filati
di ogni tipo e natura ed emettere luce in diverse colorazioni. Le fibre luminose (ottiche/
scintillanti), impiegate nel LUMINEX®, sono delle
particolari fibre utilizzate come “Rivelatori di Particelle Elementari” nelle grandi imprese scientifiche della
Fisica Sub-Nucleare, settore in cui
CAEN spa è leader mondiale per la
produzione di apparecchiature elettroniche.
Figura 5
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Serdia™
Qualche mese fa con una campagna stampa
abbastanza aggressiva è stata utilizzata per
presentare una nuova linea di scarpe (Figura
1) nata da una joint-venture giapponese. A
parte le abbastanza consuete “informazioni”
tecnico-pubblicitarie sul confort, la traspirabilità ecc, ciò che desta l’attenzione sono le
capacità antiodore che, tali calzature, dovrebbero possedere.
Newsletter n. 19
di studio in ambito tessile, si possono fare
tuttavia alcune supposizioni: potrebbe trattarsi del noto biossido di titanio (TiO2) o anche di ossido di zinco (ZnO) ma forse, è più
probabile il primo.
Una precisazione è di rigore: la Kururay non è
detentrice, relativamente ai materiali che possono andare sotto il nome Serdia™, di nessun
brevetto contenuto nelle banche dati non a
pagamento; una ricerca “professionale”, su
banche dati a pagamento, potrebbe anche
portare a risultati diversi.
Figura 1
Leggendo attentamente fra le righe, si scopre che uno dei partner della joint-venture è
la Kururay, una nota multinazionale giapponese. La Kururay produce vari tipi di resine,
ausiliari per il settore tessile e non solo, finta
pelle e anche fibre sintetiche ad uso tessile.
Ha sedi, oltre che in Giappone, negli Stati Uniti
e in Europa (per l’esattezza la sede europea
si trova in Germania ed è stata aperta già nel
1926).
La Kururay è anche proprietaria di marchio
registrato (Serdia™), tutt’ora attivo, che si
riferisce ad un prodotto che, grazie ad un’azione di decomposizione fotocalitica elimina gli
odori. In un primo momento c’è un assorbimento chimico delle sostanze che si originano
con la sudorazione.
Quando è esposto alla luce solare o ad una
lampada fluorescente, si innesca una reazione fotocatalica che degrada le sostanze, eliminando gli odori sgradevoli.
Non è possibile sapere quale sia il catalizzatore in grado di produrre questo effetto dal
momento che la Kururay non ha nessun brevetto su tale tipologia di prodotto bensì solo
un marchio registrato.
Sulla base dei catalizzatori che sono oggetto
UNIONE INDUSTRIALE PRATESE - Newsletter Ricerca e Innovazione n. 19 del 27/02/2006
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