Alla mensa del Signore.
Capolavori dell'arte europea da Raffaello a Tiepolo
Ancona, Mole Vanvitelliana, 2 settembre 2011 – 8 gennaio 2012
A cura di Giovanni Morello
TESTI IN CATALOGO (ad esclusivo uso stampa)
Arte cristiana e Eucaristia
Timothy Verdon
Di loro stessa natura, l‘architettura e l‘arte della Chiesa hanno un rapporto privilegiato con l‘Eucaristia, nascendo e
sviluppandosi al servizio di comunità che celebrano i sacramenti cristiani, di cui il principale – fons et culmen di tutta la vita
ecclesiale – è quello del corpo e sangue di Cristo. Gli edifici di culto costruite da queste comunità servono in primo luogo ad
accogliere assemblee eucaristiche, e gli arredi interni similmente rimandano all‘Eucaristica, con programmi d‘immagini
concentrati nelle aree celebrative - intorno a, o sopra, gli altari cioè -, che non di rado esplicitano il rapporto col sacramento
mediante soggetti quali l‘Ultima Cena o la Cena d‘Emmaus, chiaramente allusivi all‘Eucaristia. Ma l‘impatto visivo dello stesso
sacramento è forte – nelle Messe di rito latino il pane e il vino consacrati vengono mostrati ai credenti, innalzati perché tutti li
possano vedere -, così che, avvicinato all‘altare dove si celebra, quasi ogni soggetto sacro assume connotati eucaristici: la
Madonna col Bambino, che invita a meditare la corporeità assunta da Dio all‘interno della relazionalità umana; i santi cristiani, la
cui rappresentazione evoca la comunione tra persone creata dal sacrificio del corpo di Cristo e che diventa suo ‗corpo mistico‘; e
eventi dell‘antica historia salutis quali il sacrificio d‘Isacco o la manna scesa per il popolo d‘Israele nel deserto, che la Chiesa
‗rilegge‘ alla luce dell‘Eucaristia.
Dagli inizi a Ravenna
La centrale importanza della celebrazione eucaristica nella vita della primitiva comunità cristiana, testimoniata da
Giustino Martire già nel II secolo, trova eloquenti riflessi nell‘arte catacombale del III secolo—in scene agapiche e in codificate
formulazioni simboliche come Il pesce eucaristico con una cesta di pani nelle Catacombe di san Callisto, a Roma (fig. 1). Simili
immagini alludono al mistero senza però tentarne l‘esegesi, ed è solo nei secoli successivi – nei secoli dei concili cristologici, per
intendersi, e della mistagogia patristica – che l‘arte cristiana inventa meccanismi atti a introdurre nel mistero del sacramento del
corpus Christi. Un passo in questo senso si riscontra in un riquadro musivo del V secolo in Sant‘Apollinare Nuovo a Ravenna, la
Moltiplicazione dei pani e dei pesci , dove l‘evento viene raccontato così da far vedere il senso ultimo dell‘alimentazione che
Gesù diede a coloro che l‘avevano seguito nel deserto, il significato ‗eucaristico‘ della compassione che egli sentì per loro (fig.
2).
Al centro della composizione, nella veste purpurea che simboleggia la sua gloria futura, il Salvatore estende le braccia a
destra e a sinistra per dare i pani e i pesci agli apostoli: è l‘evento che, nel sesto capitolo del Vangelo di Giovanni precede il
grande discorso di Gesù sul suo corpo come vero cibo e il suo sangue come vera bevanda, e qui, non a caso, egli è raffigurato
nella posa che avrebbe poi assunto sulla croce, come se l‘artista avesse intuito che, nel Nuovo Testamento, ogni racconto di un
pasto in qualche modo prepara il lettore a comprendere il senso del pasto decisivo in cui, la notte prima di morire, Cristo offrì il
proprio corpo nel segno del pane, e il sangue nel vino, per soddisfare la fame spirituale dell‘umanità. Qui l‘evento storico (la
moltiplicazione di pani e pesci) viene ‗spiegato‘ dal mistero salvifico (la croce, Pascha Domini), e tale spiegazione è infine
visualizzata in modo ‗sacramentale‘ nel corpo di Cristo, cruciforme, glorioso e chiaramente ‗dato‘, perché mentre i pesci nella sua
sinistra sono i due di cui parlano i vangeli, i pani nella destra del Salvatore sono quattro, non i canonici cinque, così che lo
spettatore deve capire che la stessa mano benedicente di Cristo sta per il quinto pane. Croce, gloria, benedizione e corpo donato si
compenetrano qui in un‘immagine di singolare duttilità semantica—un‘immagine simbolica, mistagogica, sacramentale.
La più esplicita ‗esegesi eucaristica‘ di questo periodo è offerta dal programma realizzato in un‘altra chiesa ravennate,
San Vitale, dove nella profondità dell‘abside due mosaici raffigurano un‘ideale processione offertoriale, con gli uomini da una
parte, le donne dall‘altra: l‘Imperatore Giustiniano e l‘Imperatrice Teodora con le rispettive scorte di dignitari—tra cui, alla
sinistra dell‘Imperatore, il vescovo che ultimò San Vitale nel 547, Massimiano. Questi personaggi contemporanei dovevano essere
visti (come i ministri sacri che si sarebbero seduti sotto i mosaici) in rapporto al principale segno dell‘area liturgica, l‘altare,
collocato in un alto vano antistante l‘abside, così che i doni che Giustiniano e Teodora portano su grandi vassoi sono chiaramente
da intendere come quelli per il sacrificio celebrato all‘altare, l‘Eucaristia.
Nel vano dell‘altare stesso, nei timpani degli archi a destra e sinistra della mensa, troviamo sacrifici veterotestamentari
che collegano il ‗presente‘ di Giustinaiano e Teodora al ‗passato‘ della storia della salvezza. Dalla parte di Giustiniano (a sinistra
per chi entra, ma alla destra del celebrante quando questi è alla sedia), vediamo l‘incontro di Abramo con tre misteriosi viaggiatori
a Mamre, quando gli venne promessa la nascita di Isacco, e poi il suo ‗sacrificio‘ d‘Isacco su Monte Moria. Dalla parte opposta,
sono raffigurati i rispettivi sacrifici di Abele e Melchisedek (fig. 3). Così la liturgia in cui l‘Imperatore e l‘Imperatrice recano doni
all‘altare è rivelata come continuazione nel presente di un lontano passato in cui le offerte di alcuni uomini erano graditi a Dio, il
quale – proprio nel contesto liturgico-sacrificale – benedice e dà la vita.
Abramo che, servendo Dio a tavola a Mamre ricevette la promessa di un figlio, e che, pronto ad offrire quel figlio
sull‘altare, si sentì dire ―perché tu hai fatto questo […] io ti benedirò‖; Abele che, offrendo un agnello diventa figura della Chiesa
che offre l‘Agnello Cristo; e Melchisedek che offriva pane e vino: sono tutti personaggi ed eventi segnici riferiti all‘Eucaristia.
Non è perciò un caso che in ambo questi mosaici troviamo anche mense che sembrano altari eucaristici: il tavolo di Mamre
imbandito con tre pani segnati dalla croce, e l‘altare splendidamente rivestito su cui Melchisedek praticamente ‗canta Messa‘, con
l‘ostia grande e il calice! Il vero soggetto dell‘intero programma, in un certo senso, è la liturgia eucaristica celebrata all‘altare
posto tra i due mosaici, ed è altamente significativo che, in questo periodo che vide la redazione quasi definitiva di molti testi
liturgici, troviamo qui raffigurati precisamente i personaggi biblici ricordati nel ‗Canone Romano‘, quando la Chiesa chiede al
Padre di volgere ―sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare i doni di Abele il giusto, il
sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l‘oblazione pura e santa di Melchisedek, tuo sommo sacerdote‖. 1
Nel Canone Romano, questa preghiera segue immediatamente una descrizione dell‘azione liturgica stessa - ―In questo
sacrificio, o Padre, noi tuoi ministri e il tuo popolo santo offriamo alla tua maestà divina […] la vittima pura, santa e immacolata,
pane santo della vita eterna e calice dell‘eterna salvezza‖ – e quindi, oltre a collocare la comunità che prega in rapporto ai
personaggi veterotestamentari, la colloca – soprattutto - in rapporto a Cristo. Non sorprende perciò vedere a San Vitale, nel catino
dell‘abside, in linea con l‘altare e sopra la sedia del vescovo, l‘immagine del Salvatore risorto, vestito della porpora imperiale e
assiso su una sfera celeste, che porge una corona gemmata al martire Vitale. Visto nel contesto della Messa, nella ‗prospettiva‘
del passato (Abele, Abramo e Melchisedek) e del presente (Giustiniano e Teodora), questa immagine rivela il futuro, il ritorno
alla fine dei tempi di Colui che, nell‘Eucaristia, è già in mezzo alla sua Chiesa. Sopra l‘ostia innalzata all‘altare di San Vitale
come pignus futurae gloriae (è una delle tradizionali caratterizzazioni dell‘Eucaristia: ‗pegno di futura gloria‘), contempliamo
precisamente quella gloria, Cristo che ‗porta con se il premio‘.
Verso l’arte sacra medievale
Cinquant‘anni dopo i mosaici di San Vitale a Ravenna, a Roma viene operato un significativo cambiamento architettonico in una
delle maggiori chiese della Cristianità, la Basilica di San Pietro in Vaticano, eretta dall‘Imperatore Costantino nel primo IV
secolo e quindi già vecchia di duecento anni all‘epoca che c‘interessa. L‘intervento, voluto dal papa a cui la tradizione attribuisce
una prima riforma del canto ecclesiastico, nonché il riordino e la codificazione dei riti, san Gregorio Magno (590-604), conferma
la tendenza a drammatizzare l‘esperienza visiva della Messa, ingrandendo il presbiterio di San Pietro e innalzandolo di c. 1,45
metri.2 Laddove il presbiterio originale non invadeva il transetto, ad eccezione del ciborio della Memoria (monumento tombale)
dell‘Apostolo Pietro, ora l‘intera area celebrativa fu portata avanti di 4 metri, creando uno spazio rituale molto più ampio; e
mentre prima la visuale era dominata dalla Memoria nel suo casamento marmoreo, ora emergevano solo i 90cm superiori della
Memoria, trasformati in altare. Lo scopo dell‘intervento, infatti, era di permettere al papa di celebrare la Messa direttamente sulla
Memoria – sulla tomba di Pietro -, nella logica devozionale più tardi espresso da san Massimo di Torino: ―Giustamente e per una
certa somiglianza è stato stabilito di collocare il sepolcro dei martiri nel luogo dove si celebra la morte del Signore […]; coloro
che sono morti a causa della sua morte riposano nel suo sacramento‖. 3 La sola differenza era che, a San Pietro, fu l‘altare ad essere
‗collocato‘, non il sepolcro, già in posizione sin dal I secolo!
Questo intervento, pensato certamente in funzione della nuova articolazione rituale della liturgia eucaristica, ebbe anche
l‘effetto di creare un nuovo clima di mistero intorno sia all‘altare papale che alla tomba dell‘Apostolo, ormai praticamente
assorbito dall‘altare. Nel medesimo spirito era poi la sistemazione di colonne vitinee di marmo - quelle successivamente replicate
in bronzo e in grande scala dal Bernini - davanti alla piattaforma presbiteriale, dove, distanziate dall‘altare, con la loro
trabeazione configuravano un divisorio successivamente chiamata ‗perghula‘ che teneva i fedeli lontani dall‘altare. Quando poi,
alla metà del VIII secolo, papa Gregorio III collocò altre sei colonne vitinee davanti all‘altare – un regalo dall‘esarca di Ravenna
Eutichio4 -, l‘effetto ‗barriera‘ era completo, grazie anche all‘aggiunta di alti cancelli.
Questo pontefice, Gregorio III, intrepido difensore dell‘arte al servizio della fede, inviò un rappresentante a
Costantinopoli nel 731 con lettere per l‘imperatore, per indurlo a revocare l‘ingiurioso editto contro le sacre immagini, e nel
novembre di quell‘anno convocò nella basilica di San Pietro un sinodo per condannare il movimento iconoclasta. Nella logica di
questa sua presa di posizione, poi, abbellì la perghula davanti all‘altare papale con icone, trasformandola in vera e propria
iconostasi bizantina e, in quel modo, esaltando il ruolo delle immagini nell‘esperienza percettiva dei fedeli che partecipavano alla
liturgia eucaristica.5
Fu l‘inizio di un graduale processo di ‗ierofanizzazione‘ dell‘area presbiteriale in Occidente: un processo che, in San
Pietro, riceverà nuovo impulso mezzo secolo dopo, sotto Adriano I (772-795), il quale fa ricoprire il pavimento dell‘area
celebrativa con lastre d‘argento del peso di 150 libbre, ne riveste le pareti con lastre d‘oro e cinge il tutto con una balaustra d‘oro
del peso di 1328 libbre! Adriano I rifà anche i cancelli del presbiterio in argento, appendendo al loro esterno sei nuove immagini
d‘argento raffigurando Cristo, Maria, gli arcangeli Gabriele e Michele, i santi Andrea e Giovanni. Inoltre, perché tanto splendore
1
Conferenza Episcopale Italiana, Messale romano, Città del Vaticano 1983, pp. 382-92; Righetti, op. cit., vol. 3, pp. 363-91; J.A.
Jungmann, S.I., The Early Liturgy To the Time of Gregory the Great, trad. F.A. Brunner, Notre Dame, Indiana 1959, pp 298-307
2
M. Cecchelli, Il complesso cultuale vaticano dalla fondazione costantiniana ai lavori eseguiti fino al pontificato di Gregorio
Magno (anno 604), in AA.VV., La Basilica di San Pietro, a cura di C. Pietrangeli, Firenze, 1989, 45.
3
Sermo 77. PL 57,690.
4
L. Duchesne, curatore, Liber pontificalis, Parigi (1886-92) 1955, I, 170-201 e 415-425.
5
La Basilica di San Pietro (=BPS. Notiziario mensile pubblicato dalla Fabbrica di San Pietro), IV,4 (1992), 3.
fosse pienamente visibile, donò un candelabro cruciforme capace di portare 1365 candele: prima indicazione di una passione per
effetti d‘illuminotecnica che sarà caratteristica delle celebrazioni vaticanensi nei secoli successivi. 6
Tutte queste opere d‘oreficieria massiccia – la balaustra, le lastre parietali e pavimentali, il candelabro – finirono in mano
ai saraceni che invasero Roma nel 846, e non sono più. Ma l‘immagine che la sola loro catalogazione proietta, dal sapore
decisamente orientale, suggerisce una ‗estetica eucaristica‘ destinata a durare in Occidente fino al Medioevo avanzato, di cui
l‘opera superstite esemplare è la Pala d‘Oro della basilica marciana di Venezia (fig. 4), il cui nucleo più antico risale al ‗dogado‘
di Pietro Orseolo negli anni 976-78, am che verrà ultimata solo nel 1345.7 Larga 3,48 metri e alta 1,40, è un assemblaggio di 83
lastre d‘oro con immagini in smalto cloisonné e 38 piccoli tondi in smalto raffiguranti angeli. La superficie è tempestata di 1300
perle, 400 granati, 300 smeraldi, 90 ametiste, 15 rubini e 4 topazi.
Vista alla luce delle lampade nella luminosità diffusa dell‘interno mosaicato di San Marco, la Pala d‘Oro ―sfavilla di
miriadi di scintille, ora qui ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste‖, per usare una frase di
Pavel Florenskij.8 E‘ un effetto, questo, vicino alla spiritualità esicasta: la corrente mistica ed estatica che si sviluppa nel mondo
bizantino dal XI al XIV secolo e che riceve eloquente articolazione negli scritti di Gregorio Palamas. Tra gli obiettivi
dell‘esicasmo c‘era quello di contemplare l‘increata, eterna luce di Dio, accecante per occhi mortali 9 —traguardo, questo, che
entrerà a far parte della spiritualità eucaristica occidentale dal Medioevo in avanti. Alla Messa celebrata davanti alla Pala d‘Oro,
come nell‘esposizione del Santissimo in ostensori gemmati nei secoli successivi, i fedeli vedevano l‘ostia avvicinata a materiali
preziosi e a brillanti colori cavati dai luoghi segreti della terra. Il Dio che si è fatto uomo, l‘Uomo che si è dato nel pane, il pane
fatto di chicchi germogliati nella terra da cui nascono oro e gemme, sono contemplate nell‘inebriante varietà di un creato che
rivela il Creatore, e che viene così ricapitolato, unificato, esaltato. Il cosmo intero in un disco di pane, vino che riflette lo sfavillio
di rari metalli e gemme, il tutto nella luce di mille candele: ecco al servizio dell‘Eucaristia materiali e forme d‘arte che proiettano
l‘attenzione verso l‘al di là.
Dal romanico al Rinascimento
L‘indole tipica della spiritualità occidentale preferirà tuttavia un approccio più storico, meno contemplativo, come è suggerito da
uno dei capolavori dell‘arte eucaristica del periodo romanico, la Deposizione di Cristo scolpita da Benedetto Antelami nell‘1178
per la balaustra del presbiterio rialzato della cattedrale di Parma (fig. 5), che invitava i fedeli a vedere il pane e vino della Messa
in diretto rapporto all‘Uomo che sulla croce aveva dato il suo corpo e sangue per amore; ancora più eloquente in questo senso il
pontile scolpito sei anni dopo, da maestri campionesi per il Duomo di Modena, in cui vediamo spiegarsi davanti ai nostri occhi,
scena dopo scena, La lavanda dei piedi, L’ultima Cena con la comunione di Giuda, Il Bacio di Giuda, Cristo davanti a Pilato e
legato alla colonna; Cristo che porta la sua croce. Nell‘una e nell‘altra opera riscontriamo la volontà di enfatizzare, e in modo
drammatico, il contenuto umano del sacramento, legandolo al dispiegarsi storico della Passio Christi, come negli scritti di
liturgisti medievali quali Amalario di Metz e Onorio di Autun.10 Lo sviluppo di un culto eucaristico popolare nella Chiesa latina
nel XIII secolo, e l‘istituzione della festa del Corpus Domini nel XIII secolo, favoriranno – paradossalmente - tale indirizzo
storico—basti pensare a come Tommaso insista, nel sublime e mistico Adoro Te devote, proprio sui rimandi storici: ―In cruce
latebat sola Deitas‖; ―peto quod petivit latro poenitens‖; ―Plagas, sicut Thomas, non intueor…‖, ecc.
Tra istanze visive mature di ‗contestualizzazione storica‘ dell‘Eucaristia, ricordiamo la splendida Cappella Minutolo del
Duomo di Napoli, della seconda metà del XIV secolo (fig. 6), dove l‘altare, su cui vediamo scolpite le figure sacerdotali
veterotestamentarie Aronne e Melchisedek, è circondato da affreschi narranti l‘intera Passione, dall‘Ultima Cena fino alla
Crocifissione e Risurrezione di Cristo, mentre davanti al celebrante – nella pala propriamente ‗d‘altare‘ – è raffigurata la Natività,
col corpicciuolo del Bambino direttamente sopra il punto della mensa dove il sacerdote consacra. Sopra l‘immagine natalizia poi,
e sotto un Calvario scolpito, viene collocata la sepoltura del mecenate, il cardinale Enrico Minutolo, la cui effigie appare quindi
‗inserita‘ nel mistero eucaristico del corpo di un Cristo nato, morto e risorto nel tempo della storia.
Dai primi decenni del Quattrocento in avanti, soprattutto in Italia, l‘interesse umanistico per il corpo e gli affetti
permetterà di esaltare ulteriormente l‘indole storica dell‘arte eucaristica, come suggeriscono celebri opere realizzate per altari,
quali La Santissima Trinità del Masaccio (fig. 7) e il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca (fig. 8), in cui la credibile
raffigurazione del corpo storico di Cristo diventa lo sfondo su cui il sacramento viene elevato alla consacrazione. In queste e altre
simili opere poi, grazie alla nuova prospettiva lineare e paesaggistica, il sacramento della ‗reale presenza‘ viene visto in contesti
altrettanto reali—in spazi architettonici e naturali estensivi con la realtà di tutti i giorni, cioè.
Nella pittura fiamminga nel medesimo periodo analoghi sviluppi stilistici producono due straordinarie opere
eucaristiche: l‘enorme polittico dei fratelli Van Eyck per una cappella della cattedrale di Gand (fig. 9), dove appena sopra la
mensa si vedeva, su un altare dipinto, l‘Agnello dell‘Apocalisse sgozzato e vittorioso con angeli inginocchiati attorno che lo
adorano; e il Trittico dei Sette Sacramenti, di Rogier Van der Weyden (fig. 10), dove – all‘interno di una grande chiesa gotica
rappresentata in perfetta prospettiva vediamo, nelle cappelle laterali, celebrazioni del Battesimo, della Cresima, del Sacramento
della Riconciliazione, dell‘Ordine Sacro, del Matrimonio e dell‘Estrema Unzione, mentre al centro - all‘altare in fondo alla navata
maggiore – un sacerdote celebra l‘Eucaristia. In primo piano di questa tavola centrale del Trittico, in linea con l‘altare in fondo
alla navata, l‘artista fa vedere Cristo in croce circondato da Maria, Giovanni e le pie donne.
6
Ibid, 54-55
S. Bettini, ―Venezia, la Pala d‘Oro e Costantinopoli‖, in AA.VV., Il Tesoro di San Marco (catalogo della mostra), Milano 1986,
pp. 43-72, con ampia bibliografia
8
Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, Roma 1984, 63.
9
Cfr. T. Spidlik, ―Esicasmo nel monachesimo occidentale‖, in Dizionario degli istituti di perfezione, a cura di G. Pelicia e G.
Rocca, vol. 3, 1306-12, Roma 1974-presente)
10
T. Verdon, Vedere il mistero. Il genio artistico della liturgia cattolica, Milano 2003, 122-123
7
Come attestano queste opere fiamminghe, il naturalismo dell‘arte quattrocentesca perfezionò l‘orientamento medievale a
favore di rapporto emotivo del credente con l‘Eucaristia, nello spirito intimistico della coeva Devotio moderna. Importante in
questo rispetto fu l‘indagine psicologica tipica di molte opere rinascimentali, il cui carattere ‗scientifico‘ diventò un contrassegno
del nuovo umanesimo cristiano, come suggerisce la nostra discussione del Cenacolo di Leonardo da Vinci nel presente catalogo
(cf. pp. xx-xx). E‘ in questo contesto, poi, che vengono pensati alcuni dei primi importanti tabernacoli eucaristici: quello
marmoreo di Desiderio da Settignano per la Basilica di San Lorenzo a Firenze, degli anni 1450, ad esempio (fig. 11), con angeli
non solo adoranti ma visibilmente commossi; e il tabernacolo in bronzo di Lorenzo Vecchietta, realizzato nel 1467-72 per
l‘Ospedale della Scala a Siena ma trasferito nel 1505-06 all‘altar maggiore del duomo, con, ai lati, una serie di figure di angeli
adoranti. Ecco, ormai l‘Eucaristia era vissuta come potente forza d‘attrazione emotiva, anche se ciò non escludeva ma, anzi,
esaltava l‘analisi degli aspetti teologici del mistero; nei personaggi raffigurati da Raffaello nella Disputa del Sacramento da lui
dipinta a partire dal 1509 nella ‗bibliotheca segreta‘ di Giulio II, vediamo insieme profonda commozione dibattito vivace (cf. il
saggio di Antonio Paolucci in questo volume, alle pp. xx-xx).
Dal Barocco a oggi
A questa articolata tradizione artistico-eucaristica, il secondo Cinquecento aggiungerà elementi di enfasi polemica intesi a
controbattere il ‗declassamernto‘ del culto eucaristico in ambito protestante. Per insistere sulla centralità del sacramento nella vita
cattolica viene accolta l‘idea del Vescovo di Verona, Matteo Giberti, di collocare sempre il tabernacolo al centro dell‘altar
maggiore delle chiese, tamquam cor in pectore et mens in anima. I tabernacoli diventavano poi più imponenti—si pensi a quello
realizzato da Giorgio Vasari per la chiesa fiorentina dei Francescani, Santa Croce, alto quasi 5 metri e posto in una struttura
contenitrice ancora più colossale! I programmi eucaristici avevano spesso un‘enfasi dottrinale: si pensi a quello realizzato nel
Duomo fiorentino durante gli anni del Concilio di Trento e subito dopo, che poneva una figura di Cristo morto lunga tre metri
direttamente sulla mensa eucaristica, come per insistere sul carattere della Messa come sacrificio e sulla reale presenza del suo
corpo fisico nel pane e vino consacrati; poi, nella cupola che sovrasta l‘altare, questo programma fa vedere Cristo risorto come
giudice, il suo corpo piagato e glorioso presentato in una raggiera solare che sembra un ostensorio (fig. 12) !
Il periodo post-Tridentino insisterà, con esuberanza barocca, sull‘Eucaristia come luogo di mistica intimità ma anche di
plateale partecipazione al trionfo del Salvatore. Sopra l‘altare di una cappella in Santa Maria della Vittoria, a Roma, tra il 1645-52
Gianlorenzo Bernini evoca in marmo l‘estasi spirituale di Santa Teresa d‘Avila, ma ritrae i committenti dell‘opera in palchi a
destra e a sinistra come se fossero spettatori al teatro(fig. 13) ! E nel 1658 lo stesso maestro, per la chiesa del noviziato dei
Gesuiti a Roma, Sant‘Andrea al Quirinale, fa dipingere il martirio dell‘apostolo sopra la mensa, incorniciando l‘immagine di raggi
dorati, e più su ancora, sul timpano dell‘edicola dell‘altare, colloca una scultura del santo portato in cielo. Le stupefacenti
scenografie dipinte e scolpite sugli altari corrispondevano poi alla coeva spettacolarizzazione del culto eucaristico, illustrata in
una stampa di Carlo Rainaldi a ricordo del fantasmagorico ‗teatro‘ eretto nella chiesa del Gesù a Roma per le Quarantore del
1650. Usando ogni astuzia scenica del tempo, un grande tabernacolo appariva 20 metri sopra i fedeli, in un ‗cielo‘ affollato di
angeli adoranti, sopra una titanica prospettiva arcitettonica allusiva al tempio salomonico, al cui centro si vedeva l‘antico altare
degli olocausti (fig. 14).
Né la fine del Sette né l‘inizio dell‘Ottocento modificherà sostanzialmente la teatralità dell‘arte barocca, anche se
l‘arcaica sobrietà del neoclassico smorza l‘aspetto emotivo; ormai però l‘esperienza visiva dell‘Eucaristia è ridotta a un arazzo di
emozioni di seconda mano. A questo arazzo poi gli stili nostalgici del secondo Ottocento, che riformulavano il messaggio
cristiano in termini neo-medievali e neo-rinascimentali, aggiungono solo un odore di stantio, così che le chiese del periodo, gli
altari, le suppellettili e i paramenti sembrano rimandare solo al passato.
Ma l‘Eucaristia non è l‘erudita evocazione di eventi lontani bensì il memoriale vivente di Uno che è presente, Cristo: è
pane di vita nutriente e forte, non un insipido brodo di ricordi. Così lo sforzo di molti architetti e artisti del Novecento, dagli anni
‘20 e ‘30 in avanti, è stato precisamente quello di configurare spazi e immagini capaci di trasmettere la vitalità di Colui che, morto
e risorto, nelle chiese e sugli altari dei cristiani si dona ai suoi come viatico per la vita reale. Dal Concilio Vaticano II in poi - e
soprattutto oggi, quando una cultura ‗globale‘ esige linguaggi universali e una nuova sensibilità verso i simboli fa riscoprire
possibilità per troppo tempo dimenticate -, gli artisti cercano mezzi per visualizzare ciò che il cuore crede ma l‘occhio non vede
ancora, se non nei segni - nel pane e nel vino - che Cristo ci ha lasciato.
Cercano, e, come promette il Vangelo, troveranno. Qualcuno allora continuerà questo racconto.
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Nella celebrazione degli ultimi Congressi