SIMMETRIA E FUNZIONE NELL’ARCHITETTURA Giovanni Boncinelli prefazione di Fabrizio Schiaffonati postfazione di Giulio Giorello Collana “Studi e Progetti” - 20 Maggioli Editore Santarcangelo di Romagna 2009 ISBN 978-88-3874-427-0 1. Zevi e l’architettura moderna 2. Il linguaggio “moderno” della simmetria 3. Simmetria e funzione La simmetria è stata per secoli associata all’idea di ordine e di bellezza; poi, con la modernità, nel secolo della rivoluzione scientifica che ha sovvertito molti saperi e punti di vista del pensiero epistemologico, è mutata la prospettiva del giudizio estetico e del linguaggio figurativo. È Bruno Zevi, ne Il linguaggio moderno dell’architettura a interpretare e formalizzare queste rotture: le sue “sette invarianti” innescano una critica radicale e autentica alla simmetria, nella convinzione che rappresenti una riduzione all’ordine della complessità delle forme naturali e della libera espressione del linguaggio architettonico; una critica fondata anche sulla convinzione - in estrema sintesi - di un esplicito rapporto con ogni idolatria del potere. Ma oggi, di fronte alle acquisizioni del pensiero scientifico - in primis matematico, ma anche e più estesamente geometrico, fisico e biologico - il pensiero di Zevi esprime ancora una “critica operante”? A partire da questo interrogativo il testo si apre alla esplorazione di un fertile terreno interdisciplinare, tra principi teorici, algoritmi matematici e regole della costruzione architettonica, laddove la simmetria permane con nuove prospettive della conoscenza e dell’agire progettuale con ben altri strumenti di analisi e di interpretazione, in un arricchimento di ulteriori punti di vista che trovano oggi però ancora stimoli dialettici nelle molte proposizioni zeviane. Politecnico di Milano . Dipartimento BEST . UdR “Governance, progetto e valorizzazione dell’ambiente costruito” Collana STUDI E PROGETTI direzione Fabrizio Schiaffonati redazione Elena Mussinelli Unità di ricerca “Governance, progetto e valorizzazione dell’ambiente costruito” Dipartimento BEST - Scienza e Tecnologie dell’Ambiente Costruito Fabrizio Schiaffonati, Adriana Baglioni, Corrado Baldi, Oscar Bellini, Roberto Bolici, Giovanni Boncinelli, Maddalena Buffoli, Stefano Capolongo, Giorgio Casoni, Laura Daglio, Daniele Fanzini, Emilio Faroldi, Matteo Gambaro, Elisabetta Ginelli, Cristina Marchegiani, Luca Marescotti, Elena Mussinelli, Lorenzo Mussone, Massimiliano Nastri, Ilaria Oberti, Diletta Pellecchia, Francesca Plantamura, Andrea Poltronieri, Raffaella Riva, Andrea Tartaglia. Politecnico di Milano Facoltà di Architettura e Società Dipartimento di Scienza e Tecnologie dell’Ambiente Costruito Building Environment Science & Technology - BEST DIDATTICA PROGETTI RICERCHE SAGGI ISBN 978-88-387-4427-0 Pubblicato a cura di Maggioli Editore Maggioli Editore è un marchio Maggioli S.p.A. Azienda con sistema qualità certificato ISO 9001:2000 47822 Santarcangelo di Romagna (RN) • Via del Carpino, 8 Tel. 0541/628111 • Fax 0541/622020 www.maggioli.it/servizioclienti e-mail: [email protected] In copertina: Scultura A, Fausto Melotti, 1968 Per gentile concessione della Fondazione Melotti. Diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. Finito di stampare nel mese di dicembre 2009 da Digitalprint Service Via Torricelli, 9 20090 Segrate (MI) Simmetria e funzione nell’architettura iovanni B G oncinelli rPefazione di F ab rizio Schiaffonati P ostfazione di G iulio G iorello INDICE Prefazione di Fabrizio Schiaffonati 7 Introduzione 15 1. Zevi e l’architettura moderna 1.1 Il linguaggio moderno dell’architettura 1.2 La simmetria nella storia dell’architettura e del pensiero scientifico 1.3 Le sette invarianti 21 21 2. Il linguaggio “moderno” della simmetria 2.1 Sette invarianti un’invariante 2.2 Nozione moderna di simmetria 2.3 Simmetria come uguaglianza e indifferenza 57 57 74 86 36 45 3. Simmetria e funzione 3.1 Simmetria e matematica 3.2 Natura gruppale della simmetria 3.3 Simmetria e geometria 3.4 Simmetria e funzione 93 93 102 110 116 Postfazione di Giulio Giorello 121 Riferimenti bibliografici 127 5 PREFAZIONE Fabrizio Schiaffonati Uno spettro aleggia alto nel cielo delle città italiane, in attesa di planare dove si sta mettendo mano ai progetti di rinnovo e di sviluppo urbano: il grattacielo. Un tipo edilizio che non ha mai goduto di grande fortuna in Italia. Per le sue cento città con le loro preesistenze ambientali già turrite. Per un paesaggio addensato da innumerevoli borghi, di emergenze naturali che senza soluzione di continuità si susseguono con la velocità di una sequenza filmica, senza pause. Un paesaggio già fortemente strutturato dalla variabilità dei fenomeni naturali e da antropizzazioni tra le più antiche, sì da indurre una diffusa idiosincrasia per lo sviluppo verticale della città, anche dove particolari condizioni potrebbero indurre ad un ragionevole accesso a tale forma dell’edificare. Bisogna risalire nel tempo per rintracciare i pochi e unici episodi significativi, milanesi, Pirelli e Galfa, il grattacielo di piazza della Repubblica, la Torre Velasca, che ancora il clima della ricostruzione ha reso possibili, purché non avanzassero la sommità del Duomo. Milano era anche città industriale, la più europea, al centro della sola pianura dagli orizzonti relativamente vasti, la città con vocazione di metropoli che già aveva messo mano al cambiamento, con quelle dinamiche economiche che inducono, di necessità, la trasformazione e la sostituzione dei tessuti urbani. 7 Poi tutto si è arrestato, e non solo a Milano, per le crisi e lo svilupparsi di un dibattito dai toni concitati e non sempre aperti ad un sereno confronto con le prospettive e le dinamiche della città europea. Salvo il procedere, qua e là, di velleitarie aspirazioni provinciali, deturpando sì lo skyline delle città intermedie con l’ingiustificata emergenza di un “grattacielino” sullo sfondo di rilievi alpini o di cieli marini. Gli anni settanta si sono caratterizzati per lo sviluppo di un dibattito regressivo che ha finito per imporre scelte di morfologia urbana frammentate e indirizzate a recuperare le logiche dell’isolato urbano, anche in chiara controtendenza all’edilizia aperta razionalista, con tipologie tradizionali poco attente alla nuova domanda, senza alcuna propensione a scelte tecnologiche innovative. Segnando quindi un notevole arretramento rispetto alle politiche, pubbliche e private, dei due precedenti cicli edilizi, che avevano conseguito, invece, esiti significativi anche a livello figurativo, ai quali è possibile ritornare ancor oggi, attraverso autori e opere, per rintracciavi stimoli. E’ sufficiente andare all’impostazione dei progetti, tra gli altri, di Albini, BBPR, Quaroni, Ridolfi, Caccia Dominioni, con quella attenzione allo stretto rapporto con la tecnologia che, Tafuri, troppo sbrigativamente, ascrive al “manuale della piccola tecnica”. Una linea, invece, quella degli anni settanta, che ha irrigidito la proposta a logiche e schemi ripetitivi, nel malinteso recupero della tradizione, anche nelle periferie di nuova espansione; con tipi edilizi che palesemente contraddicevano lo stesso assunto di base, per dimensione e organizzazione sociale, come ad esempio nella riproposizione del ballatoio o della corte. Esiste un nesso tra questa fase - attestata su esiti riduttivi mutuati stancamente dal Movimento Modermo, ma contravvenendone nel contempo il portato metodologico e sperimentale - e il successivo periodo postmodermista. Che si caratterizza come reazione ai presunti “proibizionismi” del razionalismo e del funzionalismo architettonico; per la volontà di liberare nuovi spunti creativi, attingendo linfa dalla storia e agli stilemi, senza alcun complesso d’inferiorità. Il passaggio è brusco e repentino, dal “proibizionismo” al diffuso “arbitrio”, senza soluzione di continuità, con l’abbandono della qualità e del rigore metodologico alla base del progetto razionalista. L’apparente libertà postmodernista si traduce nella liberazione sì di forze, professionali e produttive, ma incolte e velleitarie, prevaricatrici di una sapiente professionalità maturata 8 pazientemente in lunghi anni di lavoro e di studio nel lento perfezionamento della proposta progettuale, nell’accumulo sociale di soluzioni conformi sempre sottoposte ad un lento miglioramento. Con la presunzione che tutti possano accedere alla professione (solo formalmente “protetta”), all’arduo e responsabile compito di costruire, trasformare, manutenere la città, che è un bene sociale per eccellenza nella storia della civiltà. In Italia possiamo certamente parlare di vere e proprie “invasioni barbariche”, alle quali un malinteso demagogico diritto allo studio ha aperto le porte della professione; con la conseguente devastante capacità di far danno proprio per l’insussistenza, nei più, dei requisiti culturali di base per un esercizio così delicato. Il ragionamento, seppur complesso nella sua dimensione politica e sociologica, si riduce all’inconciliabile rapporto tra qualità e quantità nella formazione. Via via nel tempo è andata sempre più aumentando la divaricazione tra quantità della domanda e qualità dell’offerta, in relazione ad una crescita fisiologica del sistema universitario, che in alcuni ambiti formativi ha raggiunto soglie critiche (anche con risvolti patologici), in assenza di una adeguata programmazione degli sbocchi e delle figure professionali. La didattica del progetto presenta peculiarità che non possono essere surrogate da una generica didattica frontale per il grande numero. Comporta invece un’elevata personalizzazione del rapporto tra studente e docente, la trasmissione dell’esperienza e del mestiere; in definitiva, una attività di tipo laboratoriale, gestibile unicamente per piccoli aggregati; comporta la consapevolezza che si può esprimere il ruolo di maestro se si è in grado di trasferire nell’insegnamento un visione del progetto integrato, maturata nel contempo attraverso la riflessione teorica e una qualificata esperienza professionale. Questo vale per tanti maestri ed anche per molti dei docenti che oggi insegnano nelle scuole di architettura; ma certamente il grande numero (non motivato da una adeguata domanda di produzione di progetto) ha visto scendere in campo anche figure con diversa formazione, non sempre caratterizzate da una adeguata esperienza nella progettazione e produzione delle opere di architettura. Il progetto si connota come attività di tipo esperienziale che non può prescindere da una adeguata conoscenza e consapevolezza critica delle ragioni della produzione, nonché delle logiche istituzionali che regolano la fattibilità degli interventi. Questa dimensione esperienziale del progetto necessita di continue relazioni con un ampio sistema di referenti esterni, portatori di specifiche 9 conoscenze e soprattutto della domanda di trasformazione del reale che il progetto è chiamato a interpretare. Si tratta di un problema complesso, che richiede certamente capacità critiche, ma che non può essere ignorato né espunto, pena un’astratta autoreferenzialità della ricerca e della didattica. Gli anni novanta hanno poi rapidamente superato l’approccio modernista confinandolo in seconda linea, senza che per altro non continuasse a far ampio danno a macchia d’olio per mano dei suoi provinciali esegeti “geometrali”, immemori delle loro circoscritte ma antiche e solide conoscenze. Con un’ulteriore accelerazione. La legittimazione, cioè, ancor più lata, di ogni linguaggio figurativo, la perdita dei confini di uno specifico morfologico dell’architettura, fino a prima sostenuto da ragioni funzionali e tecnologiche, motivato da necessità e esigenze precise; da criteri utilitaristici che l’affranchino da pura attività artistica, sovrastrutturale e gratuita, per ascriverla, invece, ad una complessità strutturale che l’assimila alla vita, ai bisogni, pur integrandovi quanto di emozionale e pulsionale comporta la definizione e la percezione dello spazio architettonico. La spogliazione del prodotto d’architettura di questa significatività, che non è solo quindi semantica ma più in generale contenutistica, determina il suo repentino slittamento nell’area del design, della moda, della grafica, trasformandola in oggetto di consumo, come sostiene Gregotti, deprivandola dunque del dato significante della permanenza, con il lento accumulo della conoscenza attraverso il valore d’uso della fruizione e nella sedimentazione del suo stesso messaggio. Zevi aveva intuito per tempo questo progressivo slittamento della teoria e della pratica architettonica, ingaggiando un serrato contraddittorio, in controtendenza con quanto andava maturando nel contesto italiano, per muoversi verso un rinnovamento della cultura architettonica interrelata con le questioni sociali; a partire dalla sua vastissima cultura di storico e di critico militante, affidandosi il compito di veicolare le conoscenze maturate nel periodo bellico alla scuola di Walter Gropius e con l’assimilazione del pensiero wrightiano. Quella che è stata letta nel secondo dopoguerra come una “sterile radicalizzazione” polemica tra architettura “organica” e “razionalista” (Tafuri) può ora apparire, anche nel suo schematismo provocatorio, il portato di una visione civile “antiburocratica e antiufficiale” (Portoghesi), con una profonda adesione ai temi morali e democratici del rinnovamento del Paese che doveva passare anche attraverso i valori dell’architettura e dell’urbanistica. 10 La vis polemica contro il movimento moderno internazionale, ormai lontano dalle origini, trovava alimento nell’incapacità della cultura architettonica nazionale di tenere alti gli obiettivi riformatori che si erano espressi nell’immediato dopoguerra, e si ampliava poi nella vasta militanza intellettuale e politica in molti ambiti della vita accademica, istituzionale e culturale, con un notevole compito, anche divulgativo, delle tematiche civili e sociali dell’architettura. Che, in una semplificazione non priva d’efficacia, si traduce in opposizione al riduttivismo dell’architettura a disegno, al “complesso nevrotico dell’architettura ‘disegnata’ anziché costruita”, sbocco accademico e conformistico non più creativo, a partire e dovuto allo Zuccari, fondatore dell’Accademia di San Luca in pieno classicismo. Il rifiuto riduttivistico (secondo l’accezione zuccariana che Zevi sintetizza criticamente in “l’asserzione che architettura, scultura e pittura sono sorelle in quanto figlie di un unico padre, il disegno”) nasce da una visione dinamica dell’architettura, una vera e propria svolta copernicana nel “saper vedere l’architettura”, la geniale lettura dell’essenzialità e della spazialità dell’architettura, in opposizione ad ogni valore autonomo del disegno. E di conseguenza la riduzione schematica dello spazio architettonico alla simmetria, alla ripetitività assiale, alla scenografia prospettica, alla decorazione, corrisponde ad una limitazione dei contenuti e delle potenzialità dell’architettura, nella negazione dell’imprevedibilità di una libera fruizione per tramite della scoperta dell’ambiente. “Adottando le colonne, i frontoni, la simmetria e il punto di vista, gli stati autoritari dispongono di una regola comodissima che non offre resistenze e non offre sorprese, che serve quindi egregiamente ad imprimere un carattere conosciuto in partenza all’edilizia e all’urbanistica di Stato”. Il metodo zeviano appare quindi, oggi, oltremodo moderno e attuale, e porta ad interrogarci sul rapporto che intercorre tra architettura e scienza, tra modelli, algoritmi e regole scientifiche che in ogni branca del sapere consentono di indagare le ragioni del fare, del pensiero e dell’azione umana, oltre ogni approccio puramente intuitivo o schematicamente deduttivo, in campi poi, come quello dell’architettura, ancora lontani da indagini sperimentali in grado di meglio orientare la comprensione degli spazi dove viviamo, dei già costruiti e di quelli a venire. Come non mai, il cambiamento della prospettiva spazio-tempo che governa il nostro presente e ci proietta nel futuro, necessita di andare oltre ogni consolatorio superficiale approccio al fenomeno 11 architettonico: con un salto nell’approfondimento della conoscenza dei diversi aspetti che ne configurano la multidimensionalità disciplinare. Lo studio di Giovanni Boncinelli si addentra su questa strada, riprendendo un percorso tra architettura e pensiero scientifico già aperto negli anni sessanta, ma rintracciando in Zevi una ricchezza di spunti ancora oggi molto attuali e stimolanti, che possono suggerire nuove esplorazioni anche alla luce di più recenti prospezioni epistemologiche. Nello specifico l’analisi delle invarianti zeviane diventa basilare per comprendere l’evoluzione e il cambiamento del linguaggio architettonico. La IX edizione della Biennale di Architettura di Venezia del 2004 ha avuto come tema ispiratore quello delle “Metamorfosi”, quasi a suggellare con l’arte una nuova progettualità di mutamento che investe la città nel suo insieme. Edifici mutanti in pesci, collage costruttivisti, curve d’acciaio come membrane viventi, iper-progetti in evoluzione, strutture inglobate nello spazio, superfici piegate e incurvate. L’arte grida al cambiamento progressivo, emblema di una tensione ri-creativa che sfida il presente incerto della contemporaneità a colpi di futuro, previsto, progettato, evocato. Se la Biennale di Kurt Forster ha rappresentato un primo tentativo di sistematizzazione del cambiamento dello scenario della morfogenesi dell’architettura, quella successiva, di Burdett del 2006 “Città. Architettura e società”, ne ha proseguito la contestualizzazione sullo sfondo delle magalopoli mondiali. Immagini inquietanti, complessità, gigantismo, sovvertimento di tutti i tranquillizzanti valori fino a ieri incarnati dalle scale urbane ed edilizie nelle quali siamo cresciuti. Fino a ieri l’architettura si era fatta carico di rappresentare, sotto ogni latitudine, la narrazione progressiva delle trasformazioni antropiche. Problemi di sostenibilità ambientale, incrementi demografici, migrazioni continue verso le galassie metropolitane, richiamano risposte alla scala tecnologica, urbanistica ed edilizia, che non ci consentono più l’utilizzo delle consolidate categorie tipologiche; a fronte della densità, della complessità e della multifunzionalità, con la trasformabilità dello spazio e la sua fluidificazione in immensi contenitori dove artificio e natura si intrecciano e confondono. Geometrie euclidee, fisica newtoniana sembrano non venirci più in soccorso nel percepire, comprendere e interpretare il nuovo spazio della città e le conformazioni degli edifici, con il sovvertimento, ad esempio, degli approcci tradizionali, della verticalità gravitazionale, del controllo degli involucri, in una 12 fantasmagoria di forme dove tutto appare possibile ed ogni orizzonte formale perseguibile, come se, anche per l’architettura, il virtuale potesse sovrapporsi al reale. Il grattacielo va all’assalto del cielo come una Torre di Babele rovesciata, in grado di contravvenire ad ogni regola. Si attorciglia, si ripiega su se stesso come quelli milanesi di City Life, e ogni giorno uno nuovo spunta all’orizzonte planetario, sempre più alto, bizzarro, gratuito, curioso, come una performance destinata ad estinguersi nel gesto. Ma l’architettura non è un gesto. In questa entropica fantasmagoria, l’architettura sembra volerci dire che non è morta, con un urlo assimilabile al gesto creativo e anticonvenzionale del disegno infantile, per catturare l’attenzione di un nuovo e diverso ascolto, secondo l’interpretazione psico-sociale che Herbert Read applicò all’informale delle avanguardie figurative nel primo novecento. Una prospezione e una proiezione per indagare e impadronirsi di nuovo del progetto dell’architettura, con strumenti disciplinari sempre più complessi e sofisticati. Ritornare oggi a Zevi, seppur in maniera critica, è utile non solo perchè la sua lezione, pur con le molte contraddizioni, conserva ancora una sua pregnante attualità, ma anche perchè il suo approccio all’interpretazione del fenomeno architettonico era già orientato all’apertura al pensiero scientifico, anche nel solco di quel pragmatismo gnoseologico deweyano in cui l’esperienza estetica non è distinguibile dall’impegno sociale nell’ambito di una pianificazione democratica decentrata e partecipata. Problemi e concetti della conoscenza, e non solo, e di grande attualità per l’architettura. 13 INTRODUZIONE “Ho detto che l’anima ama la varietà; cionondimeno, nella maggior parte delle cose, le piace notare una specie di simmetria. Sembra che ciò racchiuda una qualche contraddizione; ecco come la spiego io. Una delle cause principali di piacere della nostra anima, quand’essa scorge degli oggetti, è la facilità con cui li percepisce, e la ragione che fa si che la simmetria piaccia all’anima è che quella le risparmia dalla fatica, che le dà sollievo, che, per così dire, le dimezza il lavoro. Segue di qui una regola generale. Ovunque la simmetria sia utile all’anima, e possa giovare alle sue funzioni, essa le è gradevole; ma ovunque le sia invece inutile, diventa ispida, perché elimina la varietà. Ora, le cose che vediamo in successione devono avere una certa varietà; perché la nostra anima non ha alcuna difficoltà a vederle. Al contrario, quelle che percepiamo in un sol colpo d’occhio devono avere una certa simmetria; così, poiché percepiamo in un sol colpo d’occhio la facciata di un edificio, un pavimento, un tempio, allora ci si mette della simmetria, che piace all’anima perché le facilita la percezione dall’inizio di tutto l’oggetto. Poiché è necessario che l’oggetto che si deve poter vedere d’un colpo d’occhio sia semplice, occorre che sia unico e che le varie parti siano tutte in relazione all’oggetto principale: è anche per questo che si ama la simmetria; essa mette insieme un tutto. È nella natura che tutto sia completato, e l’anima che vede questo tutto, desidera che non ve ne sia alcuna parte imperfetta. È anche per questo che si ama la 15 simmetria: occorre una specie di ponderazione, di bilanciamento; e un edificio con un’ala sola, o con un’ala più corta dell’altra, è tanto poco finito quanto un corpo con un sol braccio, o con un braccio troppo corto.” (C. Montesquieu Dei piaceri della simmetria) Questo passo di Montesquieu nel suo Saggio sul gusto, più precisamente in un paragrafo intitolato Dei piaceri della simmetria, esprime un concetto fondamentale annoverando la simmetria tra le varie cause del piacere. È proprio questo sentimento suscitato dalla simmetria che mi ha spinto ad indagarne approfonditamente le radici e gli sviluppi. Non sarebbe stato giusto parlare solo della simmetria e così ho voluto analizzare in parte anche il suo “contrario” l’asimmetria, anche se come vedremo non è proprio l’esatto opposto. In particolare questo lavoro si propone di analizzare nello specifico il ruolo della simmetria nell’architettura moderna. Per fare ciò innanzi tutto mi sono posto il problema di cosa significhi linguaggio architettonico e soprattutto se l’architettura sia o meno un linguaggio. Tanto per cominciare bisogna osservare che il linguaggio dell’architettura non è mai immediato; per comprenderlo siamo costretti a cercare indizi, metterli insieme, fare ipotesi e per scoprire il senso di un’opera ci vogliono intuito e intelligenza, ma anche mestiere. È un linguaggio sui generis perché non si sono mai trovate regole che permettano di affermare che la tal “parola” architettonica abbia un significato univoco, mentre nel linguaggio scritto o verbale che usiamo tutti i giorni tale univocità è, in linea di massima, garantita. Non vi è nulla in architettura che rassomigli alla grammatica o alla sintassi del linguaggio comune anche se, secondo alcuni studiosi, questo ruolo di sintassi lo hanno avuto gli ordini classici. L’architettura è un linguaggio che non ammette errori di grammatica, quali i pilastri collocati in una posizione infelice, ma soprattutto, non tollera copie pur accogliendo di buon grado le citazioni. Mi sono allora posto la domanda: se l’architettura è un linguaggio, in che modo si può interpretarne il messaggio? Secondo molti studiosi una buona conoscenza storica e un’attenta comparazione tra le architetture sono gli strumenti privilegiati per questo scopo. 16 Diventa quindi cruciale il ruolo dello storico il cui obiettivo è interpretare la storia, costruendola in forma di racconto, senza l’ossessione di sapere come le cose si sono effettivamente svolte in passato ma con il desiderio di trovare strumenti per costruire il futuro. A questo punto il nodo diventa la genesi dell’architettura moderna. Gli storici indicano quattro ordini di motivi che riflettono premesse concettuali diverse per spiegare il perché essa sia sorta: l’evoluzione naturale del gusto, il progresso scientifico e tecnico nelle costruzioni, il risultato di nuove tecniche della visione estetica e infine la radicale trasformazione sociale. Una volta chiariti questi concetti mi sono dedicato ad analizzare la nascita e lo sviluppo della simmetria. Già civiltà molto antiche quali quella babilonese e egizia facevano largo uso della simmetria per svariati motivi. Sicuramente, come vedremo, le sensazioni suscitate dalla più semplici operazioni di simmetria, quali la riflessione ma soprattutto la ripetizione, sono piacevoli, potremmo dire che ispirano sensazioni positive; molti studi anche moderni di psicologia hanno dimostrato come a questo concetto siano associati quello di serenità, di tranquillità, ma soprattutto di ordine. Proprio con questa accezione troviamo il concetto di simmetria nel mondo greco prima e in quello latino poi. Il perché la simmetria abbia avuto così larga diffusione è facilmente comprensibile; innanzitutto veniva considerata una cosa naturale. Il corpo umano era apparentemente simmetrico e quindi, perché ciò che l’uomo costruiva o faceva non avrebbe dovuto esserlo? Nel corso dei decenni la simmetria è stata via via rapportata a concetti diversi; inizialmente si parlò di simmetria e natura, poi di simmetria e potere, fino ad arrivare a concepirla non più come concetto positivo, per i suoi rapporti con l’indifferenza e addirittura con il disordine. Fino alla fine del Settecento circa la considerazione della simmetria rimane quasi invariata: essa viene costantemente adoperata in tutti i campi, artistici e non. All’improvviso, qualcosa cambia; la simmetria non viene più associata solo all’ordine e alla bellezza e comincia ad avere valenze matematiche. Avrà infatti un ruolo importantissimo nella geometria, e per la risoluzione di problemi fino a quel momento insolubili. Si comincia così a parlare della simmetria come invarianza rispetto a un gruppo di trasformazioni. È facilmente comprensibile che un oggetto simmetrico sottoposto a precise operazioni rimane tale; un oggetto è simmetrico 17 quando rimane immutato. Se io guardo un oggetto, poi chiudo gli occhi e qualcuno lo ruota, lo trasla o fa altro e io riaprendo gli occhi non percepisco alcun cambiamento, allora quell’oggetto viene definito simmetrico. Questa è solo una banalizzazione del concetto che assume invece valenze sempre più importanti. E proprio mentre cresce la sua importanza nasce anche quella che potremmo definire la sua valenza più negativa; innanzi tutto l’idea di indifferenza racchiude in sé un’accezione non proprio positiva legata alla mancanza di informazioni ma soprattutto all’immobilità, alla “non scelta”. Si è poi cercato di mettere il concetto di simmetria sotto una luce negativa, cercando di valorizzare l’asimmetria, o meglio la rottura di simmetria, con svariate motivazioni. L’asimmetria era alla base della rottura con il passato ed era necessaria per il progresso e per l’evoluzione; successivamente le motivazioni divennero sempre più forti e ragionevoli. Nel secolo scorso si è occupato di simmetria Bruno Zevi, un architetto che per tutta la vita si battè contro la simmetria aprendo un lungo dibattito su un problema che ancora oggi è senza soluzione. Per Zevi la modernità deve partire da alcuni concetti che si devono staccare completamente da quelli su cui si era basata la cultura precedente; proprio con questo intento pubblica un libro nel quale descrive sette punti che chiama invarianti del linguaggio architettonico moderno. Cercherò nel corso del secondo capitolo di dimostrare come in ognuna di esse si celi un unico concetto che ho definito dicotomico; nella discussione di ogni invariante compaiono infatti due concetti fondamentali messi in opposizione tra loro. Uno descritto come obiettivo da perseguire, la funzionalità, l’altro da evitare, la geometria; i concetti di prospettiva o di simmetria in realtà sono usati come epitome della geometria stessa. Una di queste invarianti è proprio l’asimmetria e vedremo nelle prossime pagine quali siano le argomentazioni; quello che mi preme qui sottolineare è la foga con la quale Zevi vuole screditare la simmetria arrivando anche ad associare simmetria e omosessualità, usando qualunque mezzo pur di vincere la battaglia. Le idee di Zevi, recepite da alcuni e criticate da altri, hanno sicuramente il merito di aprire un interessantissimo dibattito che durerà per molti decenni. Quello contro cui Zevi si batte è la simmetria ad ogni costo, anche a rischio di mettere in secondo piano la funzionalità; per Zevi è inammissibile. 18 Nel corso del mio lavoro cercherò di dimostrare come l’idea zeviana di una netta distinzione tra simmetria e funzione possa difficilmente sussistere oggi e come quella che per lui rappresenta una dicotomia in realtà non lo è. Non lo è se si analizza quella natura gruppale della simmetria precedentemente accennata; non lo è se si ragiona in termini dinamici, considerando la simmetria un principio di comprensione e non solo semplicemente un rivestimento di uno spazio puramente estetico. Si vedrà nelle prossime pagine come dal concetto di simmetria come sinonimo di ordine e bellezza si arrivi a parlare di simmetria come spreco e come malattia incurabile. Il rapporto-scontro tra simmetria e funzione non nasce da Zevi ma ha radici più antiche; già infatti Leopardi nello Zibaldone nel 1820 diceva: “Ora io domando perché noi vedendo una campagna, un paesaggio dipinto o reale ecc. d’un colpo d’occhio come un parterre, e gli oggetti di quella e di questa vista, essendo i medesimi, noi vogliamo in quella la varietà, e in questa la simmetria. E perché ne’ giardini inglesi parimente la varietà ci piaccia in luogo della simmetria. La ragion vera è questa. I detti piaceri, e gran parte di quelli che derivano dalla vista, e tutti quelli che derivano dalla simmetria, appartengono al bello. Il bello dipende dalla convenienza. La simmetria non è tutt’uno colla convenienza ma solamente una parte o specie di essa, dipendente essa pure dalle opinioni gusti ecc. che determinano l’idea delle proporzioni, corrispondenze ecc. La convenienza relativa dipende dalle stesse opinioni gusti ecc. Così che dove il nostro gusto indipendentemente da nessuna cagione innata e generale, giudica conveniente la simmetria, quivi la richiede, e se giudica conveniente la varietà, richiede la varietà. E questo è tanto vero, che quantunque si dica comunemente che la varietà è il primo pregio di una prospettiva campestre, contuttociò essendo relativo anche questo gusto, si troveranno di quelli che anche nella prospettiva campestre amino una certa simmetria, come i toscani che sono avvezzi a veder nella campagna tanti giardini. E così noi per l’assuefazione amiamo la regolarità dei vigneti, filari d’alberi, piantagioni solchi ecc. ecc. e ci dorremmo della regolarità di una catena di montagne ecc. Che ha che far qui l’utile o l’inutile? Perché quando sì, quando no negli oggetti della stessa natura? Perché in queste persone sì, in quelle no? Di più quegli stessi alberi che ci piacciono collocati regolarmente in una piantagione, ci piaceranno ancora 19 collocati senz’ordine in una selva, boschetto ecc. La simmetria e la varietà, gli effetti dell’arte e quelli della natura, sono due generi di bellezza. Tutti e due ci piacciono ma purché non sieno fuori luogo. Perciò l’irregolarità in un’opera d’arte ci choque ordinariamente (eccetto quando sia pura imitazione della natura, come ne’ giardini inglesi) perché quivi si aspetta il contrario; e la regolarità ci dispiace in quelle cose che si vorrebbero naturali, non parendo ch’ella convenga alla natura, quando però non ci siamo assuefatti come i toscani.” (G. Leopardi Zibaldone) 20 POSTFAZIONE Giulio Giorello Hermann Weyl, in quel capolavoro che è La simmetria, ci ha mostrato come la simmetria non sia iscritta soltanto nella nostra biologia bensì nell’ambiente, nel mondo che ci circonda, sicché sembra piuttosto naturale per l’uomo cercare di riprodurla nei suoi artefatti. Questo spiegherebbe, per esempio, la larga diffusione, se non addirittura il culto, della simmetria nelle civiltà più antiche. Ma anche il ruolo centrale che la simmetria ha avuto e ha tutt’ora nelle scienze naturali: essa appare un principio euristico irrinunciabile, tale da caratterizzare la forma stessa delle leggi. È in virtù di esso che abbiamo cominciato a comprendere quanto importante sia, oltre e più che la simmetria, la rottura della simmetria, che è il processo in cui la simmetria viene meno, ed è significativo vedere come. Un esempio semplicissimo: a tutti sarà capitato di sedersi a un tavolo rotondo apparecchiato secondo tutti i crismi, e di trovarsi un piattino con del pane a sinistra e uno a destra. Quale prendere? Se non si conoscono a fondo le regole del galateo, la cosa migliore è aspettare che qualcuno “rompa” la simmetria, e comportarsi di conseguenza. Questa banale rottura di simmetria ci permette di cominciare la cena, di avviare la conversazione, ecc. Se dal nostro tavolo passiamo al mondo della fisica e della biologia vediamo come le rotture di simmetria siano ancora più importanti. Le stesse separazioni delle forze fondamentali vanno pensate in questi termini. E così l’origine della vita, le grandi 121 trasformazioni evolutive, e forse l’emergere della coscienza e delle prime forme di intelligenza. Le rotture di simmetria rappresentano un momento di diversificazione decisivo nelle evoluzioni che costellano la storia dell’Universo. Oggi è per noi abbastanza abituale parlare di evoluzione non solo del vivente ma anche del mondo fisco. Lo storico delle idee sa che l’idea di un’evoluzione del cosmo ha preceduto quella delle specie: la troviamo già in Immanuel Kant, in Pierre-Simon de Laplace1 e nella famiglia Herschel2. La rottura di simmetria quindi è un fattore di per sé creativo. Il grande logico e matematico Alan Turing3 aveva compreso alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso come le “derive esponenziali” - la locuzione è sua - indotte dalle rotture di simmetria fossero all’origine della molteplicità delle forme del vivente. Al di là della bontà del suo tentativo di chiarire le basi fisiche e chimiche della morfogenesi, non c’è dubbio che l’intuizione di Turing si sia rivelata giusta. Del resto, anche dal punto di vista estetico la Modernità, ben prima del Novecento, ha sottolineato l’importanza della rottura di simmetria. Pensiamo, per esempio, a Francis Bacon4 che dichiarava che la bellezza delle donne non dipendeva dalla perfetta simmetria del loro volto, bensì dal fatto che questo presentasse qualche imperfezione, qualche difetto di simmetria. E se non vado errato, un grande maestro della Roma barocca come il Borromini deve molta della sua arte all’aver operato sottili rotture di simmetria. E’ proprio partendo dal tema della rottura di simmetria che nel corso del tempo si è cominciato a riflettere sul rapporto tra simmetria e indifferenza. La tradizione attribuisce al filosofo Buridano un famoso caso. Un asino, trovatosi di fronte a due mucchi di biada ugualmente appetitosi e posti alla stessa distanza, non sa quale scegliere. Per il suo desiderio di mangiare un mucchio vale l’altro. Tuttavia, se non sceglie, l’asino rischia di morire di fame. Come uscire dall’impasse? Come rompere la simmetria? L’argomento è stato ripresa da Baruch Spinoza5 nella sua Etica: se ogni cosa necessita per accadere di una ragione sua propria, in base 1 2 3 4 5 122 Pierre-Simon de Laplace (1749-1827) astronomo e matematico francese. Herschel famiglia di astronomi britannici, di origine tedesca. Alan Turino (Londra 1912-1954) matematico e logico inglese. Francis Bacon (1516-1626) teorico inglese dell’approccio empiristico e del “progresso del sapere”. Baruch Spinosa (Amsterdam 1632-Aia 1667) filosofo olandese. a quale ragione l’asino dovrebbe scegliere un mucchio piuttosto che l’altro? Qualcuno potrebbe suggerire di ricorrere a una moneta - cosa che già si faceva ai tempi di Spinoza. Ma per quale ragione associare, per esempio, Testa a un mucchio e Croce all’altro, e non viceversa? La rottura di simmetria, la rottura dell’indifferenza, rappresenta un grande problema anche il per calcolo della probabilità. Si consideri, per un momento, il celebre argomento sull’esistenza di Dio di Blaise Pascal: se scommettiamo sull’esistenza o meno di Dio, potremmo assumere che a priori la probabilità è la stessa: ½ che Dio esista e ½ che Dio non esista. Esattamente come se lanciassimo una moneta e scommettessimo a priori su Testa o Croce. Ma abbiamo davvero bisogno di essere a priori indifferenti rispetto ai due possibili esiti alternativi? Pascal e il già citato Laplace ritenevano di sì. Ma il grande matematico italiano Bruno de Finetti6 ha mostrato negli anni Venti e Trenta del Novecento che non c’è nessuna ragione a priori per esserlo, che possiamo pure far valere le nostre credenze soggettive, e comportarci razionalmente in base a esse, a patto di essere coerenti, ovvero di stimare le nostre probabilità, i nostri quozienti di scommessa in modo che la somma delle alternative non sia diversa da 1. Posso a priori assumere che l’esistenza di Dio sia maggiore di ½ - ma devo essere pronto a modificare la mia credenza qualora l’esperienza mi porti a rivedere la mia stima iniziale. Tutto ciò vale anche per situazioni “teologicamente” meno elevate: gran parte delle nostre decisioni sono prese in contesti che a priori non ci offrono ragioni per ritenere una strategia preferibile a un’altra. E tuttavia, scegliere bisogna. A questo proposito, le neuroscienze ci dicono che in molte di tali scelte il nostro cervello è guidato dalle emozioni e dagli affetti, che grazie a questi esso è in grado di codificare immediatamente pericoli od opportunità, facendoci propendere per una delle alternative in gioco. Di tale propensione non dobbiamo aver timore. Se impariamo a pesarla e a modularla come ci ha insegnato de Finetti, ovvero in termini di probabilità e di utilità soggettive, non avremo difficoltà a scegliere e a rivedere le nostre scelte ogni volta che l’esperienza ci indurrà a farlo. L’analisi del concetto di rottura di simmetria ci porta poi ad analizzare la natura più matematica della simmetria stessa ovvero quella legata alla teoria dei gruppi. 6 Bruno de Finetti (Innsbruck 1906-Roma 1985) matematico e statistico italiano. 123 È difficile dire quando nasce la teoria dei gruppi, poiché per certi versi la nozione di gruppo di trasformazioni è antica almeno quanto la geometria. Dopo tutto, già negli Elementi di Euclide abbiamo un uso implicito del concetto di gruppo di trasformazioni: la geometria euclidea ha a che fare con traslazione e rotazioni, e studia le proprietà invarianti delle figure rispetto appunto a traslazioni e/o rotazioni. Si potrebbe dimostrare che l’idea di gruppo è antica anche in aritmetica: si pensi a qualcosa come l’idea di una legge di composizione di due operazioni che dà ancora un’operazione dello stesso tipo. Ma da un punto di vista più sistematico, cioè di una consapevolezza del matematico, la teoria dei gruppi nasce in un contesto ben preciso: quello della risolubilità delle equazioni algebriche, della spiegazione del perché le equazioni algebriche fino al quarto grado sono risolubili in un certo modo, mentre quelle di quinto grado non lo sono, in quanto non si possono esprimere le soluzioni mediante operazioni elementari ed estrazioni di radici a partire dai coefficienti dati dell’equazione. Questo problema è stato sostanzialmente esplorato da due grandissimi matematici, di cui non a caso gli storici anche oggi continuano a occuparsi: Abel e Galois. Dobbiamo a loro la nozione di gruppo di permutazioni su una famiglia finita di oggetti che sta alla base della teoria dei gruppi finiti; e dobbiamo ancora a loro, in particolare a Galois, l’estensione ai gruppi infiniti. È grazie ai loro lavori che l’idea di simmetria si lega profondamente alla teoria dei gruppi, diventando così decisiva per i matematici, e non solo. Tornando al tema della simmetria legata più specificamente all’architettura è difficile non fare riferimento al rapporto che essa ha con il potere; ho l’impressione che l’uso della simmetria nelle opere d’arte, e in particolare in quelle architettoniche, non dispiaccia al potere. Dopo tutto, il potere politico si accompagna spesso all’immagine di ordine, e la simmetria suggerisce una tale immagine. Per questo non mi stupisce che le grandi civiltà del passato che hanno avuto un forte senso del potere abbiano cercato di sfruttare le simmetrie. Penso, per esempio, ai bassorilievi dell’arte assira o alle decorazioni dei palazzi di Persepoli7, in cui si susseguivano arcieri tutti uguali. Ordine e iterazione sono sempre stati i segni del potere, anche perché danno insieme un senso di dilatazione. In questo caso, la 7 124 Persepoli (Iran) antica città della Persia fondata da Dario nel 518 a.C. simmetria non è solo spaziale, ma anche temporale: indica non solo l’ubiquità del potere, ma anche la sua eternità, la sua invarianza (ovvero, resistenza) al mutare del tempo. È il segno di un potere che si perpetua o, forse meglio, che pretende di perpetuarsi, contro qualsiasi anomalia, contro qualsiasi eventuale rottura di simmetria. Vale la pena di notare come in molte forme di potere altamente simmetriche il popolo venga ridotto a un tutt’uno. Erodoto8 racconta che nell’antica città di Dioce9 gli abitanti non sapevano mai dove si trovavano: ogni luogo era identico agli altri, eccetto quello occupato dal potere. Questo era il luogo per eccellenza, da cui il sovrano poteva esibire la propria magnificenza ed esercitare il proprio controllo, tenendo ogni suddito a debita distanza. Ecco una delle ragioni per cui Zevi si è sempre battuto contro la simmetria; ha sempre detestato l’ordine precostituito, la noia, il conformismo, e ai suoi occhi la simmetria in architettura incarnava tutto questo. Certo, egli non voleva semplicemente l’asimmetria, ovvero la distruzione di qualsiasi vincolo. Semmai voleva rompere il dominio indiscusso della simmetria e l’assuefazione a essa. Anche perché questo comportava il riconoscimento o ancor peggio l’esplicita negazione di qualsiasi funzionalità architettonica in nome di una facile, se non banale, estetica della simmetria. In questo credo che la sua battaglia fosse largamente condivisibile. Meno, mi sembra, lo era quando Zevi insisteva sulla dicotomia geometria (simmetria)-funzione. In primo luogo, l’identificazione simmetria-geometria mi pare troppo semplicistica. Come abbiamo accennato, la geometria tratta intere famiglie di simmetrie, ma in qualche modo cattura anche l’idea di rottura di simmetria. Da questo punto di vista, essa non è più soltanto una descrizione statica delle forme, ma rappresenta semmai un potente strumento per comprenderne la dinamica interna, per cogliere i processi responsabili della morfogenesi. Talvolta ho l’impressione che Zevi sia rimasto affezionato a un’idea della geometria che non esiste più da tempo. La stessa dicotomia simmetria/funzione mi sembra non sempre ben posta: non solo la fisica, ma anche la biologia ci hanno mostrato come, da una parte, la forma crei la funzione e come, dall’altra, la funzione retroagisca sulla forma. Questo complesso intreccio tra forma e funzione era al centro di un’opera spesso dimenticata: Crescita e 8 9 Erodoto (Alicarnasso 484-Atene 425 a.C.) storico greco. Dioce (Iran) antica città. 125 forma di D’Arcy Thompson10. Uno dei miei maestri, René Thom, ha speso molto del proprio talento per elaborare una teoria (la cosiddetta teoria delle catastrofi) in grado di interpretare in un linguaggio matematico (in particolare, geometrico) la dinamica delle forme, fisiche, biologiche, semiotiche o artistiche che fossero. Simmetria e funzione cesserebbero in tal modo di essere dicotomicamente contrapposte, rivelandosi invece legate da un rapporto di complementarità. Verrebbe da chiedersi per quale motivo Zevi non ha tenuto conto delle complesse implicazioni legate alla riformulazione matematica che la nozione di simmetria ha subito dalla seconda metà dell’Ottocento. Credo che Zevi avesse un’idea della simmetria e della geometria alquanto ristretta – anche se va detto che questa era quella prevalente, in architettura e non solo. La matematica ci ha insegnato, almeno dai tempi di Jules-Henri Poincaré11, a estendere l’ambito della geometria ai sistemi dinamici, a concentrarci nello studio qualitativo dell’evoluzione di tali sistemi sulle “singolarità”, sulle rotture di simmetria, ecc. La potenza euristica e lo straordinario sviluppo di questi metodi di indagine mostrano quello che Thom diceva già a proposito della geometria euclidea e del suo impiego nella descrizione mondo fisico, e cioè che comprendere è geometrizzare. Da questo punto di vista, la polemica di Zevi non mi pare cogliere nel segno. Più che contro la geometria in generale, la battaglia andava combattuta contro un uso stereotipato delle forme geometriche, contro quella che oggi ci appare come la vera negazione della geometria. E lo stesso vale per la simmetria: la sua banalizzazione a orpello decorativo nasconde la sua vera funzione conoscitiva, quella che si rivela nella rottura della simmetria. In altri termini, si tratta di capire come la simmetria sia una competenza, mentre la rottura della simmetria un’esecuzione, per adottare il linguaggio della linguistica più attuale. D’altra parte, non bisogna dimenticare che quando si rompe una simmetria, non si rompono tutte le forme di simmetria presenti. Se ne rompe una, quella sulla quale si è momentaneamente concentrata l’attenzione. Non si può parlare quindi di rottura di simmetria in generale, che sarebbe uguale al disordine caotico, ma della riduzione dei gradi di simmetria. Uno è perduto, gli altri restano. 10 11 126 Sir D’Arcy Wentworth Thompson (Edimburgo 1860-Saint-Andrews 1948) naturalista inglese. Jules-Henri Poincaré (Nancy 1854-Parigi 1912) matematico fisico e filosofo francese. RIFERIMENTI BIBIOGRAFICI Evandro Agazzi, La simmetria, Il Mulino, Bologna 1973. Peter W. Atkins, Il dito di Galileo: le dieci grandi idee della scienza, Cortina Editore, Milano 2004. 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