RIVISTA INTERNAZIONALE DI STUDI E RICERCHE
numeri 1 e 2 - anno 2011
Edizione digitale integrale
(non in distribuzione)
Editrice Montefeltro
RIVISTA INTERNAZIONALE DI STUDI E RICERCHE
n. 1 - anno 2011
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Risorse e internazionalizzazione nelle PMI
Organizational Attitudes in Family vs
Non-Family Firms
La successione padre-figlia nella cultura
italiana
Capacità, strategia e performance nelle
PMI del Mezzogiorno
Editrice Montefeltro
Editrice Montefeltro
1
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Sommario n. 1, 2011
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Saggi
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle PMI
di subfornitura. Un’analisi esplorativa nel comparto
plasto-meccanico
di Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
pag. 11
Contingent Work and Organizational Attitudes in Family
versus Non-Family Firms. An Analysis of the Hospitality
Industry in Campania Region
by Marcello Russo
pag. 41
I family business e la successione padre-figlia
nella cultura italiana: un caso di studio
di Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
pag. 65
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche,
risorse finanziarie e performance: un’analisi multivariata su un
campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
di Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
pag. 91
Osservatorio sulla piccola e media impresa
Case Study
Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una
strada nuova? L’esperienza di Novellini Giovanni srl
di Angelo Bonfanti e Valentina Novellini
4
pag. 129
Focus Fiscale
“Piccola impresa” societaria ed accertamenti bancari
di Thomas Tassani
pag. 149
Recensioni e segnalazioni
pag. 159
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1988 2008
RIVISTA INTERNAZIONALE DI STUDI E RICERCHE
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L’internazionalizzazione delle imprese di
macchine utensili
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dopo Basilea 2
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Il “sistema” vino in Campania
CALL FOR PAPERS
L’acquisto dell’olio d’oliva nel mercato
Giapponese
3rd Workshop “SMEs Innovation Process”
Challenges beyond the crisis
Urbino, Università degli Studi “Carlo Bo”, Facoltà di Economia
16-17 September 2011
Case study: un’impresa nata dalla Ricerca
Editrice Montefeltro
The International Journal “Piccola Impresa/Small Business” and the “Associazione per lo Studio della Piccola Impresa” (ASPI) are very pleased to invite
you to the “SMEs Innovation Process 3rd Workshop” on the theme of
Challenges beyond the crisis, which will be hosted by the University of Urbino “Carlo Bo”, Faculty of Economics in Urbino (Italy) during the period
of 16-17 September 2011. KEYNOTE SPEAKERS
We are pleased to announce the keynote speakers:
Robert Blackburn, Kingston Business School
Editor in Chief International Small Business Journal
Thomas M. Cooney, Dublin Institute of Technology
President of the European Council for Small Business
KEY DATES:
Deadline for Abstract Submission:
Abstract Notification of Acceptance by:
Full paper submission:
Reviewers comments by:
Final paper submission (for inclusion in CD rom) :
Workshop Dates:
30 March 2011
05 April
20 Giugno
20 Luglio
05 September
16 – 17 September 2011
For further information see www.rivistapiccolaimpresa.it
prof. Giancarlo Ferrero and prof. Massimo Ciambotti
Co-Chairs of SMEs Innovation Process 3rd Workshop
ECSB supported event
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Saggi
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RISORSE, COMPETENZE E INTERNAZIONALIZZAZIONE
NELLE PMI DI SUBFORNITURA. UN’ANALISI ESPLORATIVA
NEL COMPARTO PLASTO-MECCANICO.
di Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
1. Introduzione
La letteratura di international business evidenzia oggi livelli di estensione
e di articolazione interna davvero notevoli. Ciò nonostante, essa sconta anche di un altrettanto notevole sbilanciamento relativo all’oggetto di studio.
Se da un lato possiamo, infatti, dire di conoscere tutto (o quasi) in merito
alle strategie internazionali (Cooper e Kleinschmidt, 1985; Chetty e Campbell-Hunt, 2004), agli stimoli e alle barriere all’internazionalizzazione
(Cavusgil e Nevin, 1981; Leonidau, 1995a, 1995b; Crick e Chaundry, 1997;
Morgan, 1997) delle imprese operanti a contatto con i mercati di consumo
- o perlomeno visibili ai consumatori finali -, la nostra conoscenza relativa
all’universo del business-to-business - che per numerosità e per rilevanza
economica non è seconda al precedente - può contare su un volume di studi significativamente inferiore.
Questo nostro contributo di ricerca muove da una premessa: i processi di internazionalizzazione delle imprese, nelle più diverse modalità di
loro espletamento, interessano in misura crescente anche le PMI operanti
in subfornitura (Subfornet, 2007). Tali processi vengono prevalentemente descritti dalla letteratura come “trainati” dalla committenza. Ciò nonostante, si ritiene che anche all’interno di processi di internazionalizzazione
trainata (o assistita), il ruolo dell’impresa di subfornitura possa risultare
tutt’altro che passivo. E che, in particolare, il possesso di determinate risorse e competenze nella PMI di subfornitura possa agevolarne in maniera
significativa la crescita internazionale.
L’obiettivo generale della ricerca è pertanto individuabile nell’esplorazione delle relazioni esistenti tra il possesso di determinate risorse e competenze aziendali e il profilo internazionale delle PMI di subfornitura.
Il lavoro si articola come segue: il secondo paragrafo offre una rassegna
dei principali contributi che nel tempo si sono dedicati allo studio delle
imprese di subfornitura e in particolare ai loro processi di internazionalizzazione. Il terzo affronta il tema del legame tra risorse e competenze azienRivista Piccola Impresa/Small Business - n. 1, anno 2011
11
Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
dali e performance internazionali delle PMI giungendo alla definizione di
uno schema interpretativo complessivo. Nel quarto paragrafo si delineano
metodologia e metodo della ricerca empirica oltre ad esplicitare il processo
di operativizzazione delle variabili. Nel quinto paragrafo si presentano i risultati dell’indagine che vengono ulteriormente commentati nel paragrafo
sesto e conclusivo.
2. I processi di internazionalizzazione delle imprese di subfornitura
Le radici del dibattito scientifico attorno alle imprese e alle relazioni
di subfornitura affondano in una letteratura italo-francese che precede di
qualche anno lo sviluppo del paradigma dei costi di transazione al quale
viene talvolta inappropriatamente attribuito (Sallez e Schlegel, 1963; Perroux, 1966; Chaillou, 1977; Panati, 1974; Lorenzoni, 1976; Varaldo, 1979;
Silvestrelli, 1979).
In ambito nazionale, l’interesse nei confronti del fenomeno della subfornitura cresce al seguito della letteratura distrettualista che proprio nelle
caratteristiche dei sistemi locali di (sub)fornitura (flessibilità operativa ed
efficienza, in primis) identifica le principali fonti del vantaggio competitivo
dei distretti industriali (Becattini, 1979).
Da allora numerosi sono stati i tentativi di tipizzare il fenomeno in
funzione, ad esempio, della complessità delle lavorazioni svolte (Zanoni,
1984) oppure del grado di autonomia del subfornitore rispetto al committente industriale (Silvestrelli, 1989).
A partire dai primi anni Ottanta lo studio delle relazioni di subfornitura
inizia ad inglobare crescenti contenuti strategici. Ci si rende, infatti, conto le
imprese committenti possono utilmente giovarsi della collaborazione con i
loro fornitori e subfornitori al fine di ridurre significativamente i tempi di
sviluppo dei nuovi prodotti o di incrementare gli standard qualitativi di
prodotti e processi (Kraljic, 1983; Secchi, 1997; De Toni e Nassimbeni, 1998).
La crescente tendenza da parte delle imprese committenti ad adottare
modelli di vendor rating selettivi (Teng e Jaramillo, 2005; Hsu et al., 2006) fa
da specchio all’evoluzione in senso qualitativo di una parte del comparto
di subfornitura e alla contestuale emarginazione di quelle imprese incapaci
di evolvere (Tracogna, 1995 e 1999; Nassimbeni, De Toni e Tonchia, 1999;
Grandinetti e Bortoluzzi, 2004).
Il concetto di “subfornitura” che riemerge al termine di questo percorso
evolutivo è assai diverso da quello descritto da Lorenzoni (1976) non più di
due decenni prima. E’ un concetto che si stacca nettamente da una visione
puramente mercantile per appropriarsi di contenuti relazionali (fiducia, collaborazione) e proiettarsi prevalentemente nel medio-lungo termine (Sako,
1992; Sako e Helper, 1998; Kimura, 2002; Grossman e Helpman, 2005).
12
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle pmi di subfornitura.
Un’analisi esplorativa nel comparto plasto-meccanico.
L’evoluzione di una parte delle imprese di subfornitura si affianca molto
spesso ad un notevole sviluppo in senso internazionale del loro business.
Oltre all’export - modalità di ingresso tradizionale per le PMI - i subfornitori italiani hanno mostrato negli ultimi anni un ricorso crescente a
modalità di ingresso complesse come il global sourcing e, anche se in minor
misura, la delocalizzazione della produzione. In tutti i casi, l’ambito geografico dei processi di internazionalizzazione si è ampliato notevolmente
(Bortoluzzi, Furlan e Grandinetti, 2006; Subfornet, 2007).
All’interno del dibattito scientifico, lo studio dei processi di internazionalizzazione delle imprese di fornitura e di subfornitura ha condotto al
riconoscimento di precisi elementi di distintività delle seconde rispetto alle
prime. Come Andersen et al. (1997: p239) fanno notare: “in their process
of internationalization industrial subcontractors are usually very close related to their customer […] therefore, industrial subcontractors primarily
dedicate their activities to specific contractors, in such a way it suggests a
collaborative process of internationalization”.
In modo del tutto speculare, per i fornitori vale invece la regola che più
elevata è la complessità delle relazioni di business con i loro clienti (espressa in funzione del grado di personalizzazione dell’offerta) minori risultano
le probabilità di internazionalizzarsi, perché diventa difficile la replicabilità
delle componenti “soft” dell’offerta (es.: servizi logistici) su mercati lontani.
Per quei fornitori in grado di trasformare la maggior parte del loro know-how
in componenti ed attributi “hard” di prodotto, o comunque in esso incorporati, i processi di crescita internazionale si caratterizzano per una maggiore
autonomia rispetto a quelli delle imprese subfornitrici (Andersson, 2002).
I processi “trainati” dalla committenza, nelle loro forme più diverse,
non esauriscono evidentemente il ventaglio delle opzioni di crescita internazionale a disposizione delle imprese di subfornitura. Essi costituiscono,
comunque, la modalità più tipica sia per quanto concerne l’internazionalizzazione commerciale che per quella produttiva. Diversi studiosi hanno espresso il loro punto di vista in merito (Winkelmann, 1996; Andersen,
1999; Andersson, 2002; Andersen e Christensen, 2005) ma il tentativo forse
più completo di giungere ad una tipizzazione esaustiva lo si deve ad Andersen et al. (1997) che individuano i seguenti percorsi:
- internazionalizzazione guidata da un cliente nazionale che si internazionalizza;
- internazionalizzazione attraverso integrazione nella supply chain di
una multinazionale;
- internazionalizzazione in collaborazione con subfornitori di sistemi
complessi, siano essi nazionali o internazionali;
- internazionalizzazione indipendente.
Il primo percorso può essere raffigurato come segue: l’impresa di subfornitura stringe con un committente locale dei legami che si rafforzano
13
Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
nel tempo. Quando il committente locale si internazionalizza (ad esempio, aprendo un nuovo stabilimento produttivo in un mercato estero) il
subfornitore ne segue la scia indirizzando parte della propria produzione
al nuovo stabilimento del committente o attuando, a propria volta, una
delocalizzazione produttiva di tipo next-to. Si tratta con tutta evidenza di
un processo nel quale il subfornitore ha un ruolo solo marginale se non
nell’edificazione delle sue premesse.
Nel secondo percorso la rilevanza delle risorse e delle competenze del
subfornitore risulta più evidente. Questo perché quando la PMI di subfornitura si confronta con un’impresa multinazionale (ed assumendo che sia
quest’ultima a godere di maggior potere contrattuale, come nella maggior
parte dei casi in effetti accade) entrano inevitabilmente in gioco i sistemi
di selezione e di valutazione da questa utilizzati. Ciò implica che al fine
di incrementare le proprie speranze di internazionalizzarsi “per mezzo”
di un’impresa multinazionale, il subfornitore sia spinto ad investire nel
continuo rinnovamento delle proprie risorse e competenze interne e di interfaccia (Furlan e Grandinetti, 2009).
Il terzo percorso chiama in causa i sistemi di divisione del lavoro (le
cosiddette piramidi di subfornitura) tipici della supply-side. Il ruolo dei “system supplier” (che potremo tradurre come fornitori di assiemaggi o di
sistemi) all’interno dei sistemi di fornitura è stato delineato con chiarezza
dalla letteratura di genere (Lorenzoni, 1990; Helander e Möller, 2007). Ciò
che qui rileva è l’importanza che tali soggetti possono rivestire nell’ambito
delle strategie di internazionalizzazione delle imprese di subfornitura. Tra
l’altro, tale importanza è duplice. Da un lato il system-supplier si presta a
fare da traino rispetto ai subfornitori di livello inferiore da esso coordinati.
E’ questa l’accezione che viene implicitamente accolta da Andersen et al.
(1997). Dall’altro lato, il system-supplier può incrementare, a propria volta
e in maniera significativa, le proprie speranze di internazionalizzarsi proprio grazie al fatto di farsi coordinatore di un ampio network di subfornitura. Attraverso tale attività di coordinamento il system-supplier è infatti
in grado di:
- ampliare il proprio portafoglio-prodotti e servizi evitando di effettuare
degli investimenti in nuovi asset produttivi;
- guadagnare margini di flessibilità operativa gestendo più processi in
parallelo;
- incamerare maggior valore aggiunto dai propri clienti grazie al fatto di
coordinare delle parti rilevanti dei loro processi produttivi;
- semplificare la gestione delle relazioni di subfornitura per il proprio
cliente.
Il coordinamento di un sistema di subfornitura può pertanto divenire funzionale al rafforzamento del profilo competitivo del system-supplier stesso
e, per tale via, all’aumento delle sue probabilità di internazionalizzarsi.
14
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle pmi di subfornitura.
Un’analisi esplorativa nel comparto plasto-meccanico.
Infine, non è possibile escludere che il subfornitore si internazionalizzi
in maniera del tutto autonoma (quarto percorso). Si tratta comunque di
un’opzione normalmente riservata alle modalità di internazionalizzazione
più semplici (importazione di beni finiti, esportazione indiretta).
L’internazionalizzazione autonoma attuata attraverso modalità di ingresso più complesse (come nel caso degli investimenti diretti esteri) risulta infatti appannaggio dei soli subfornitori di maggiori dimensioni,
che attraverso insediamenti produttivi e/o commerciali sono in grado di
assecondare le decisioni di investimeto dei loro clienti nei mercati extradomestici (Kuo e Li, 2003)1.
3. Il ruolo delle risorse e competenze nello sviluppo internazionale delle
piccole e medie imprese di subfornitura
La particolarità dei processi di internazionalizzazione delle imprese di
subfornitura ci porta automaticamente a riflettere sul ruolo che specifiche
risorse e competenze del subfornitore possono esercitare nell’attivarli e/o
sostenerli.
Il fatto che buona parte dei percorsi risultino trainati da altri soggetti pone, infatti, in agenda almeno due ordini di questioni. Il primo: quali risorse e competenze interne risultano maggiormente critiche al fine di
incrementare le chance di internazionalizzare (Westhead et al., 2001). Il secondo: quali abilità relazionali agiscono da fluidificante in tale processo di
fuoriuscita autonoma o assistita dai mercati nazionali (Ling-yee e Ogunmokun, 2001).
L’incremento del grado di internazionalizzazione delle imprese di subfornitura si presta ad essere interpretato come il risultato congiunto della
capacità di utilizzare e combinare risorse e competenze sviluppate internamente (Westhead et al., 2001; Lipparini, 2002) con altre acquisite all’esterno
e, nello specifico, nello spazio relazionale che interconnette le imprese di
subfornitura con gli altri attori del sistema del valore (Zaheer e Bell, 2005).
Pertanto, in questo lavoro l’approccio network related all’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese (Johansson e Mattson,1988; Coviello
e Munro, 1997) si combina con il paradigma resource-based che individua
nella dotazione di risorse e competenze interne la fonte delle strategie di
sviluppo internazionale dell’impresa2 (Hamel and Prahalad, 1990; Barney
1991; Teece and Pisano, 1994).
Si tratta di una prospettiva tra l’altro condivisa anche da Johanson e
1
Dalla survey “Osservatorio della Subfornitura 2007” (Subfornet, 2007), su un campione di 610
imprese subfornitrici italiane è emerso come l’1% del campione intervistato abbia effettuato investimenti diretti all’estero di tipo commerciale e/o produttivo.
15
Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
Vahlne (2009) che nel rivedere il loro modello di internazionalizzazione
di tipo incrementale (Johanson e Vahlne, 1977) riconoscono la rilevanza
delle relazioni di business quali catalizzatori dello sviluppo internazionale
dell’impresa a fianco della “experential knowledge” che rimane, tuttora, la
risorsa principale a disposizione della stessa.
Due categorie di risorse e competenze (anche solo R&C d’ora in avanti)
sono state considerate in questo lavoro: funzionali e relazionali (EspinoRodriguez e Rodriguez-Diaz, 2008; Furlan e Grandinetti, 2009). La classificazione non riflette alcuna distinzione legata alla natura della competenza,
visto che i due tipi possono evidenziare dei punti di contatto. Essa trova invece fondamento nella loro origine che può essere totalmente interna - ed è
il caso delle R&C funzionali - oppure solo parzialmente interna ma prevedere uno sviluppo che è tipicamente relazionale in quanto coinvolge attori
esterni (Dyer e Singh, 1998; Lorenzoni e Lipparini, 1999; Capaldo, 2007).
In questo studio ci focalizziamo su tre categorie di R&C funzionali: tecnologiche, di progettazione e di innovazione.
La competitività di un subfornitore deriva primariamente dalla sua dotazione di risorse e competenze tecnologiche per motivi facilmente comprensibili. Fatto salvo il fattore costo, i subfornitori sono, infatti, scelti dai
loro committenti soprattutto sulla base del loro profilo tecnologico, una
variabile che ingloba gli asset materiali (impianti e attrezzature) ed immateriali (competenze tecnologiche) (De Toni e Nassimbeni, 2001; Hsu et al.,
2006; Kocabasoglu e Suresh, 2006).
La relazione tra profilo tecnologico e grado di internazionalizzazione è
stata approfondita, tra gli altri, da Flor e Oltra (2005) secondo i quali le capacità di innovazione tecnologica delle imprese impattano direttamente sul
loro livello di internazionalizzazione. Anche Karagozoglu e Lindell (1998) riconoscono che le imprese maggiormente internazionalizzate mostrano generalmente una maggiore chiarezza strategica nel loro percorso di sviluppo tecnologico oltre che un profilo (sempre tecnologico) mediamente più evoluto.
Per quanto concerne l’universo della subfornitura, il possesso di R&C
tecnologiche consente da un lato all’impresa di ampliare il proprio orizzonte di mercato in modo autonomo rispetto alla committenza attuale
(l’impresa si specializza e poi cerca nuove nicchie internazionali di mercato) e dall’altro di rafforzare le relazioni di business esistenti e pertanto di
incrementare le probabilità di internazionalizzazione trainata da terzi. Per
tali ragioni ipotizziamo che:
2
L’adozione di una prospettiva basata sulle risorse ci restituisce l’immagine di un’impresa formata da un lato da un bundle sostanzialmente unico di risorse tangibili, intangibili, finanziarie ed
umane sulle quali far leva nel definire le proprie strategie di presidio dei mercati esteri (Barney,
1991; Westheaed et al., 2001). E dall’altro dalla capacità di organizzare in senso dinamico tali
risorse al fine di costruire delle competenze distintive in grado di generare e sostenere un vantaggio differenziale rispetto ai concorrenti (Hamel and Prahalad, 1994; Lipparini, 2002).
16
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle pmi di subfornitura.
Un’analisi esplorativa nel comparto plasto-meccanico.
Hp_1a: esista una correlazione positiva e statisticamente significativa
tra la dotazione di risorse e competenze tecnologiche di un’impresa
di subfornitura ed il suo profilo internazionale.
Come discusso nella precedente sezione, soprattutto a partire dai primi
anni Novanta molte imprese di subfornitura hanno cominciato a sviluppare delle competenze aggiuntive rispetto a quelle meramente tecnologiche
nell’intento di offrire ai loro clienti un pacchetto di servizi più ampio rispetto alla sola esecuzione di lavorazioni, anche se di elevata complessità.
La co-progettazione dei componenti e la partecipazione alle attività di
sviluppo dei nuovi prodotti e dei processi produttivi del committenti (ovvero, lo sviluppo di competenze di innovazione) costituiscono validi esempi in tal senso.
Esiste una consapevolezza condivisa in relazione all’importanza che le
competenze progettuali dei subfornitori hanno per i loro clienti industriali
(De Toni e Nassimbeni, 2001).
La variabile co-progettuale assume un’importanza ancora più critica
all’interno del comparto plasto-meccanico che è caratterizzato da un ampio ricorso alla subfornitura specializzata di componenti e assiemaggi, i
quali debbono rispondere a specifiche di prodotto estremamente precise.
Per tale ragione ipotizziamo che:
Hp_1b: esista una correlazione positiva e statisticamente significativa
tra la dotazione di risorse e competenze di progettazione di un’impresa
di subfornitura ed il suo profilo internazionale.
Introduciamo, quindi, le R&C di innovazione che fanno riferimento alla
capacità della PMI di subfornitura di sviluppare nuovi prodotti o di migliorare i processi produttivi esistenti.
Esse vengono distinte dalle R&C tecnologiche poiché mettono in gioco
ulteriori capacità che vanno aldilà dell’aspetto tecnologico “puro” (Wynstra
et al., 1999; Hurmelinna et al., 2002). Coerentemente con quanto proposto
da Dervistiotis (2010), le R&C di innovazione coinvolgono (a) la dotazione
di facilitating technologies per i nuovi processi produttivi, (b) la capacità di
garantire efficienza ed efficacia al processo in termini di accorciamento dei
tempi di sviluppo e di riduzione degli errori in fase produttiva e (c) l’incremento dell’affidabilità e/o qualità complessiva degli output produttivi.
Il supposto meccanismo di supporto ai processi di internazionalizzazione delle imprese è comunque speculare ai precedenti in quanto si ipotizza
che all’aumentare delle risorse e delle competenze di innovazione aumentino nei subfornitori le possibilità di sostenere con successo una strategia
di internazionalizzazione.
Per tali ragioni ipotizziamo che:
17
Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
Hp_1c: esista una correlazione positiva e statisticamente significativa
tra la dotazione di risorse e competenze di innovazione di un’impresa
di subfornitura ed il suo profilo internazionale.
Data la natura collaborativa che contraddistingue l’attività di subfornitura, è immediato assumere che proprio il possesso di risorse e competenze
relazionali possa contribuire a sostenere i percorsi di crescita internazionale di queste imprese (Lorenzoni e Lipparini, 1999; Dyer e Kale, 2007).
In questo lavoro le competenze relazionali dei subfornitori sono esplicitate sia a valle (Customer Relationship Management R&C) che a monte
(Supply Management R&C) della filiera produttiva. Inoltre, esse vengono
ulteriormente declinate in relazione ad una tipologia specifica di clientela, quali imprese multinazionali e grandi imprese, ubicata localmente. Tali
soggetti rappresentano, a tutti gli effetti, nodi locali di network internazionali la cui rilevanza nel fungere da “trampolino” per i mercati esteri è stata
ampiamente documentata in letteratura (Raines et al., 2001; Bradley et al.,
2006; Di Guardo e Valentini, 2007). In questo paper, la capacità della PMI
di subfornitura di interconnettersi a tali hub locali di network internazionalizzati viene etichettata come capacità di networking (o Networking R&C).
E si ipotizza pertanto che:
Hp_2a: esista una correlazione positiva e statisticamente significativa
tra la dotazione di risorse e competenze di networking di un’impresa
di subfornitura ed il suo profilo internazionale.
Sempre attraverso le relazioni di business si realizza tra committenti e
subfornitori un trasferimento di conoscenze che va soprattutto a vantaggio
di questi ultimi (Kotabe et al., 2003; Jacob, 2006; Smirnova et al., 2010). Tali
conoscenze spaziano idealmente da questioni a maggior contenuto strategico - la scelta dei mercati target o delle modalità di ingresso più opportune
- finanche a questioni più prettamente operative ma centrali per la piccola
impresa che si affaccia sui mercati internazionali. Si pensi, ad esempio, alla
gestione dei termini di resa, della logistica, della burocrazia doganale o dei
mezzi di pagamento tipici del commercio internazionale. Su queste basi
riconosciamo l’esistenza di un potenziale legame tra le risorse e le competenze dedicate alla collaborazione con i propri clienti (definite Customer Relationship Management, o semplicemente CRM) nei più vari aspetti
dell’attività caratteristica svolta dal subfornitore (progettazione, produzione, gestione della qualità e della logistica) e il suo grado di internazionalizzazione. Detto formalmente ipotizziamo che:
Hp_2b: esista una correlazione positiva e statisticamente significativa
tra la dotazione di risorse e competenze di CRM di un’impresa
di subfornitura ed il suo profilo internazionale.
18
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle pmi di subfornitura.
Un’analisi esplorativa nel comparto plasto-meccanico.
Infine, in forza di quanto discusso al termine della seconda sezione di
questo paper si ritiene che anche la capacità di gestire un network di fornitori di livello inferiore (Supply Management, o SM, R&C) possa contribuire
a rafforzare la competitività di un’impresa di subfornitura e di supportarne
lo sviluppo in senso internazionale (Karagozoglu e Lindell, 1998; Andersen
e Christensen, 2005).
Le SM R&C riflettono, pertanto, la capacità dell’impresa di mantenere
e coordinare nel lungo periodo un sistema di fornitura di livello inferiore
(e non singole relazioni) che rafforza la flessibilità operativa e la capacità
di risposta ai clienti (Shin et al., 2000; Chen et al., 2004). Ciò ci porta ad
ipotizzare che:
Hp_2c: esista una correlazione positiva e statisticamente significativa
tra la dotazione di risorse e competenze di SM di un’impresa
di subfornitura ed il suo profilo internazionale.
Completa il quadro delle domande di ricerca un’ulteriore ipotesi relativa al diverso impatto dei due tipi di risorse e competenze sul profilo internazionale dei subfornitori al variare della loro dimensione.
Il dibattito accademico sul rapporto tra dimensione e internazionalizzazione è stato particolarmente acceso e prolifico. Se da un lato si riscontra
un ampio consenso attorno al fatto che all’aumentare della dimensione
dell’impresa aumenti anche la probabilità ch’essa risulti internazionalizzata, una minore convergenza è emersa in merito alla direzione della relazione (Cavusgil e Nevin, 1981; Miesenbock, 1988; Bonaccorsi, 1992; Majocchi e Zucchella, 2003). Il potenziale ruolo intervenente delle risorse e
delle competenze aziendali è rimasto sostanzialmente ai margini di una
discussione che ha assunto talvolta dei risvolti puramente meccanicistici
(“cosa causi cosa”).
All’interno del nostro disegno di ricerca teorizziamo, invece, un ruolo
diverso per le risorse e le competenze aziendali. In particolare, ipotizziamo
che mentre i subfornitori di maggiori dimensioni possano contare su un
volume di risorse e competenze funzionali più significativo (asset tecnologici, reparti di progettazione e sviluppo, maggiori competenze del personale) finalizzabili al perseguimento di percorsi di internazionalizzazione
maggiormente autonomi, le imprese minori facciano maggiore affidamento sulle risorse e competenze relazionali (finanziariamente meno costose)
per crescere sui mercati internazionali.
Per tali ragioni ipotizziamo che:
Hp_3a: esista nei subfornitori di minori dimensioni una correlazione
più forte tra la dotazione di R&C relazionali e il loro profilo internazionale
rispetto a quella evidenziabile nei subfornitori di dimensioni maggiori; e che
19
Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
Hp_3b: esista nei subfornitori di maggiori dimensioni una correlazione
più forte tra la dotazione di R&C funzionali e il loro profilo internazionale
rispetto a quella evidenziabile nei subfornitori di dimensioni minori.
Allo scopo di distinguere tra subfornitori di minori e maggiori dimensioni viene introdotta una soglia di discriminazione in corrispondenza dei
20 addetti. L’esistenza di tale effetto-soglia è stato, tra l’altro, già discusso
in letteratura in relazione sia ai processi di crescita dimensionale delle piccole imprese (Schivardi e Torrini, 2004) sia a quelli di internazionalizzazione (Mittelstaedt, Harben e Ward, 2003).
4. Metodologia, metodo ed operazionalizzazione delle variabili
Grazie al supporto fornito da SubforNet - un comitato costituito da 7
Camere di Commercio italiane che fino a Giugno 2009 ha operato al sostegno delle imprese di subfornitura operanti su tutto il territorio nazionale
- è stata condotta una survey su un campione nazionale di piccoli e medi
subfornitori.
Nel dettaglio, si è chiesto a SubforNet di inoltrare una mail di invito alla
compilazione di un questionario on-line a tutti i loro contatti. Conformemente alle indicazioni fornite da Couper (2000) e Kaplowitz et al. (2004)
per questo tipo di ricerche, si è chiesto di ripetere l’invito a distanza di 15
giorni. In entrambi i casi il team di ricerca ha provveduto a fornire una
breve spiegazione degli obiettivi della ricerca ed a chiarire in quali modi i
risultati sarebbero poi stati rielaborati e pubblicati.
Al fine di separare i subfornitori dai “semplici” fornitori è stato chiesto a ciascun rispondente di qualificare il proprio fatturato distinguendo
tra attività di fornitura standard e di subfornitura (di componenti, semifiniti, finiti). Le PMI sono state invece separate dalle imprese di maggiori
dimensioni sulla base del numero di addetti. In aderenza alle raccomandazioni fornite in sede europea (European Council Recommendation No.
2003/361) la soglia di demarcazione è stata fissata a 250 addetti.
Per quanto riguarda la misurazione del grado di internazionalizzazione è bene premettere che si tratta di un tema sul quale la letteratura si è
già ampiamente confrontata. La percentuale di export ha assunto nel corso
tempo un ruolo predominante rispetto ad altre misure per comprensibili
motivi: si tratta di una misura semplice e altamente comparabile nel tempo
e nello spazio (Reid, 1981; Cavusgil, 1993).
Recentemente, però, diversi studi hanno testimoniato una tendenza
crescente da parte delle imprese minori ad utilizzare anche modalità di
ingresso più complesse rispetto all’export oltre ad allargare anche significativamente il raggio della loro azione internazionale (es: Kuo e Li, 2003). A
20
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle pmi di subfornitura.
Un’analisi esplorativa nel comparto plasto-meccanico.
questo trend non fanno eccezione le imprese italiane operanti in subfornitura le cui dinamiche di internazionalizzazione evidenziano un’esposizione crescente verso mercati non tradizionali (SubforNet, 2007).
Di conseguenza, l’utilizzo di misure multiple del concetto di internazionalizzazione appare oggi un’esigenza dettata dall’evoluzione stessa dei
comportamenti internazionali delle imprese (anche minori) più che una
mera scelta metodologica.
Tra i tentativi di definire dei misuratori appropriati ricordiamo Cerrato
(2009) la cui proposta metodologica si articola in ben sei dimensioni, o quello di Ruzzier et al. (2007) che sviluppano una misura quadri-dimensionale.
Ulteriori tentativi possono essere rintracciati in Manolova et al. (2002) e
Hollenstein (2005) in relazione alla varietà delle modalità di ingresso utilizzate dalle imprese, mentre Brush et al. (2002) e Mol et al. (2004) muovono
dal concetto di “psychic distance” di Johanson e Vahlne’s (1977) per elaborare misure alternative riferite alla sola ampiezza del processo di internazionalizzazione.
Date queste premesse all’interno del presente disegno di ricerca si è
optato per l’adozione di una definizione operativa particolarmente ampia della variabile “livello di internazionalizzazione”. Una definizione che
mette assieme:
• l’intensità dell’export, misurata come quota del fatturato estero sul fatturato complessivo;
• il grado di complessità del processo di internazionalizzazione, approssimato in funzione delle modalità di ingresso utilizzate;
• l’ampiezza geografica del processo, approssimata dalla distanza delle
aree geografiche servite.
L’export è tenuto distinto dalle altre modalità proprio in virtù della sua
rilevanza nei percorsi di internazionalizzazione delle imprese minori. Inoltre sempre in relazione a tale variabile, si è chiesto ai rispondenti di qualificare la propria attività di exporting distinguendo tra attività occasionale e
sistematica (vedasi “appendice 1” al termine del paper).
Vista la natura esplorativa di questo studio non si è provveduto né alla
costruzione di una misura unica del grado di internazionalizzazione né alla
formalizzazione di un sistema di relazioni causali tra variabili dipendenti
e indipendenti. Risulta comunque implicita, nel ragionamento generale,
l’aspettativa che il possesso di determinate risorse e competenze sostenga
il processo di internazionalizzazione della PMI di subfornitura.
Per quanto concerne le R&C funzionali e relazionali, si riportano per
comodità in appendice statistica (tabella “appendice 2”) tutte le informazioni concernenti l’operativizzazione delle scale multi-item utilizzate per
la misurazione dei vari costrutti, la loro origine e l’analisi della coerenza
interna (Alpha test).
L’analisi di correlazione tra i vari costrutti è stata sviluppata conside21
Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle pmi di subfornitura.
Un’analisi esplorativa nel comparto plasto-meccanico.
rando per ognuna delle variabili il vettore costituito dalla media degli item
utilizzati nella misurazione.
Tre ulteriori variabili con funzioni di controllo sono state tenute in considerazione. Si tratta (a) della dimensione dell’impresa, approssimata dal
numero degli addetti, (b) dell’esperienza internazionale dell’impresa, approssimata dalla sua età e (c) della dotazione di risorse finanziarie per la
cui misurazione si è ricorsi ad un costrutto già validato in letteratura (Ruzzier et al., 2007).
5. Risultati
Tab. 1: profilo internazionale del campione
TOTALE
(N=89)
GRUPPO A
(N=56)
GRUPPO B
(N=33)
N
%
N
%
N
%
Europa Centro-Occidentale
48
53.9%
23
41.1
25
75.8
Nord America
10
11.2%
4
7.1
6
AMPIEZZA
INTERNAZIONALIZZAZIONE
Est Europa
Far East Asiatico
Altri mercati
MODALITÀ
INTERNAZIONALIZZAZIONE
Import non in subfornitura
Import in subfornitura
22
7
7.9%
4
7.1
3
9.1
IDE
6
6.7%
0
0.0
6
18.2
Joint venture
Nessuna
26
29.2%
11
19.6
10
11.2%
4
7.1
17
19.1%
7
12.5
7
17
7.9%
19.1%
2
8
3.6
14.3
15
45.5
18.2
6
18.2
10
30.3
5
9
15.2
27.3
0
0.0%
0
0.0
0
6
0.0
34
38.2%
28
50.0
18.2
15.5%
-
9.1%
-
26.4%
-
29.4%
-
22.2%
-
36.2%
-
Esportatori occasionali
21
23.6%
14
25.0
7
21.2
Non esportatori
37
41.6%
31
55.4
6
18.2
INTENSITÀ DI EXPORT
% di export sul fatturato
(totale campione/gruppo)
% di export sul fatturato
(solo esportatori)
Esportatori sistematici
Complessivamente sono stati raccolti 125 questionari correttamente
compilati. Di questi, 19 sono stati esclusi a causa della violazione dei vincoli dimensionali (imprese con più di 250 addetti) e/o relativi all’attività
economica prevalente (imprese che realizzano meno del 50% del fatturato
in subfornitura).
Visto che 89 dei 106 rimanenti questionari si riferivano ad imprese meccaniche o del settore plastico si è ritenuto conveniente restringere l’analisi
solamente a questi settori. Il comparto plastico e quello meccanico evidenziano diverse similarità strutturali: scontano, in genere, elevati costi fissi
(rispetto ai costi della manodopera), presentano un elevato grado di automazione ed operano in mercati di sbocco similari (elettrodomestico e automotive, tra questi). Inoltre, i due settori si sovrappongono in relazione a
talune attività di meccanica strumentale (vedi, ad esempio, la produzione
di stampi ed altre attrezzature per l’iniezione plastica).
PROFILO INTERNAZIONALE
Alleanze strategiche
31
34.8%
11
19.6
20
60.6
Le imprese rispondenti evidenziano in generale un buon profilo internazionale (tabella 1). Circa il 60% delle stesse esporta beni e servizi e più
della metà degli esportatori dichiara di farlo in modo sistematico. La percentuale media di fatturato realizzato sui mercati esteri dalle imprese del
campione ammonta complessivamente al 15% ma raddoppia se dal computo si scorporano i non esportatori.
In relazione alle altre strategie di ingresso utilizzate, dall’analisi emerge
che ben un quinto delle imprese gestisce delle relazioni internazionali di
fornitura (finalizzate all’acquisizione di beni standardizzati), ma ciò che
più colpisce è il dato relativo alla gestione di relazioni internazionali di
subfornitura (global sourcing) anch’esso pari al 20%. Il dato è interessante
perché indicatore di una crescente apertura alle catene globali di divisione
del lavoro da parte delle PMI italiane operanti nelle fasi intermedie delle
filiere produttive. Si tratta di una tendenza già rilevata con riferimento alle
PMI del Made in Italy (ad es., Chiarvesio et al., 2006).
Per quanto concerne le modalità di ingresso più complesse, segnaliamo
il dato relativo agli IDE che interessano circa il 7% del campione (6 imprese). Si tratta di un dato che non poteva attendersi molto elevato in senso assoluto, stante le oggettive difficoltà (finanziarie e manageriali in primis) connesse all’espletamento di tale modalità di ingresso, ma che risulta
ugualmente rilevante. In linea con quanto espresso da autorevoli studiosi
di international business (vedasi, ad esempio, Oviatt e McDougall, 1995; Kuo
e Li, 2003) esso conferma, infatti, che la dimensione aziendale non costituisce di per sé un limite invalicabile alla penetrazione di un mercato estero
tramite investimento diretto.
Altrettanto significativa risulta la percentuale di imprese che ha concluso accordi strategici a livello internazionale (l’8%) mentre non si segnala
alcun accordo di joint venture.
Per quanto concerne l’ampiezza dell’attività internazionale, il centro
Europa si conferma quale mercato di riferimento per il 50% delle imprese
23
INTERO CAMPIONE
GRUPPO A
(ADD < 20)
24
FUN - TEC
.193*
0.108
.261**
REL - CRM
REL - SCM
0.152
CONT - FIN
0.151
0.128
CONT - FIN
CONT - FIN
CONT - ETA
CONT - DIM
REL - SCM
REL - NET
REL - CRM
FUN - INN
FUN - PRO
FUN - TEC
0.022
-0.143
.382*
0.294
0.094
0.255
.349*
0.047
.543**
0.09
-0.201
CONT - ETA
CONT - DIM
REL - NET
0.147
REL - SCM
-0.058
-0.036
-0.274
.422**
0.105
0.253
0.077
0.18
.317*
.309*
-0.164
0.203
-0.018
.416**
.275*
0.198
0.051
0.019
-0.074
REL - CRM
FUN - INN
-0.120
-0.060
0.033
-.329*
.577**
0.047
-0.023
0.048
0.073
0.156
0.117
-0.001
-.387**
-0.114
0.03
-0.013
0.148
0.046
0.122
0.13
-0.044
-0.27
.650**
-0.033
0.2
0.103
0.048
0.144
0.063
0.007
-0.043
-0.154
-0.031
.272*
.245*
0.061
.277*
0.206
0.017
0.121
-0.093
.505**
0.173
-0.119
0.066
0.192
0.195
.326*
0.128
0
0.042
-0.006
-0.085
0.133
0.022
0.027
-0.007
0.139
-0.123
-.208
0.038
-.387
**
*
**
.425
0.119
-0.059
0.146
0.145
0.153
0.150
**
.421
0.006
.251**
.218*
0.105
*
.246
.182*
**
0.088
.391
**
.351**
.382
0.147
0.010
-0.174
0.048
.178
0.105
.290**
.220*
0.108
.216
*
*
-0.003
-0.120
FUN - PRO
FUN - TEC
CONT - ETA
**
.345
0.171
CONT - DIM
REL - NET
.202*
0.140
FUN - INN
FUN - PRO
0.153
0.043
AMPIEZZA INTERNAZIONALIZZAZIONE
R&C E
EUR.
FAR
NORD
VAR. DI CONTROLLO CENTRO EUR.
EAST
ALTRI
EST
AMER.
ASIA
OCC.
0.038
-0.071
0.115
0.022
0.138
-0.091
-0.207
0.11
0.126
0.07
0.11
-0.017
0.109
-0.043
0.123
0.016
0.114
-0.063
0.089
-0.061
.211
*
0.128
0.062
0.106
0.021
0.160
0.055
-0.002
-0.03
0.29
-0.09
-0.27
-0.125
0.051
0.071
0.105
-0.018
0.015
0.138
.232*
0.04
0.147
0.037
.229*
0.041
0.014
-0.063
**
.267
0.152
-0.050
0.098
0.090
*
.196
0.096
-0.15
-0.224
.327*
-0.062
0.232
0.143
0.083
0.162
0.186
0.007
0.188
-0.087
0.187
-0.031
0.041
-0.125
-0.067
-0.099
-0.034
-0.010
0.152
0.110
0.068
0.077
-0.046
0.025
-0.013
.230
0.187
-0.157
.365*
0.151
-0.038
-0.025
.349*
0.266
0.251
ND
ND
ND
ND
ND
ND
ND
ND
ND
0.136
*
-.220
.480
**
0.162
0.033
0.093
.256**
*
.182*
IDE
-.274
0.135
-0.039
-.359*
0.148
0.046
0.122
-0.128
-0.185
-.499**
0.071
-0.12
0.1
-.268*
-.288*
-0.203
0.016
-0.215
-0.088
0.023
0.034
**
-.328
-.246*
-.241*
-.209*
-0.120
**
-.239*
.219
*
0.171
-0.06
.488**
-0.115
-0.101
0.159
0.26
0.211
.324*
-0.169
-0.095
-0.115
.281*
0.143
0.052
0.065
0.064
0.099
0.035
-.190
.480
**
.180*
0.079
.180*
.230*
*
.234*
-0.06
0.037
.382*
0.148
0.184
.300*
0.217
0.058
.382*
-0.03
-0.048
-0.098
.247*
.223*
-0.004
-0.031
-0.035
0.045
0.045
-0.165
.438**
.303**
.250**
.197*
.177*
0.118
.223*
EXP SIST
EXPORT
NESSUNA % EXP
MODALITA’ INTERNAZIONALIZZAZIONE
IMPORT
IMPORT ACCORDI.
NONSUBFOR. STRAT.
SUBFOR.
rispondenti. L’aspetto maggiormente sorprendente riguarda, comunque, il
dato di presenza nei mercati dell’est Europa che si aggira sul 30%. Si tratta spesso di mercati che rivestono funzioni di approvvigionamento per il
comparto della componentistica meccanica e talvolta di delocalizzazione
della produzione.
Il campione mette in mostra notevoli livelli di esposizione anche in relazione ai mercati geograficamente più distanti: l’11% delle imprese intrattiene relazioni di business nel nord America e una pari percentuale nel far
east asiatico.
Il profilo internazionale delle imprese cambia in modo significativo al
variare della loro dimensione. Come attendibile, sono soprattutto le imprese con più di venti addetti (cluster B) a risultare maggiormente internazionalizzate. Ma il risultato paradossalmente più interessante è quello relativo alle imprese minori (cluster A) che risultano comunque mediamente
radicate sui mercati esteri. Il 20% di queste intrattiene, infatti, relazioni di
business nei mercati dell’est Europa e il 7% nel far east asiatico. Comprensibilmente, nessuna impresa minore ha effettuato investimenti diretti esteri
ma circa il 14% di esse gestisce comunque relazioni internazionali di subfornitura mentre il 7% ha concluso degli accordi strategici a livello internazionale.
In sintesi, ci sembra che l’analisi descrittiva restituisca il fermo-immagine nitido di un comparto in rapida evoluzione e il cui profilo internazionale poco si sposa con lo stereotipo della piccola impresa di subfornitura
“ingabbiata” in relazioni esclusivamente locali, magari intra-distrettuali.
Venendo all’analisi delle relazioni tra le risorse e le competenze delle
imprese ed il loro profilo internazionale, la tabella 2 mette in evidenza un
quadro complesso e di non immediata interpretabilità.
GRUPPO B
(ADD > 20)
Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle pmi di subfornitura.
Un’analisi esplorativa nel comparto plasto-meccanico.
Tab. 2: matrice di correlazione
25
Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
Procedendo con ordine, per quanto concerne il primo raggruppamento
di ipotesi (1a, 1b e 1c), l’analisi empirica rivela l’esistenza di relazioni complessivamente positive tra il possesso di R&C funzionali e i vari aspetti
dell’internazionalizzazione presi in considerazione. Le relazioni risultano
particolarmente forti e significative in relazione all’export, che è anche la
modalità di internazionalizzazione maggiormente utilizzata dalle imprese
del campione. Qualcosa di simile accade anche per gli IDE mentre apparentemente deboli risultano i legami con le altre modalità di ingresso sui
mercati esteri. Tale fatto è comunque compensato dalla presenza di legami
significativamente negativi tra il possesso di R&C funzionali e l’assenza
di qualsiasi modalità di internazionalizzazione nelle imprese. Come a dire
che a una minor dotazione di R&C funzionali corrisponde anche una minor proiezione internazionale delle imprese esaminate.
Relativamente all’ampiezza dei processi di internazionalizzazione, i
legami con le R&C funzionali risultano nel complesso positivi, spesso significativi. Il linea generale, la fondatezza del primo raggruppamento di
ipotesi appare sufficientemente corroborata dai dati. Ciò vale soprattutto
per le R&C tecnologiche e di design, limitatamente invece per quelle di
innovazione.
Per quanto concerne il secondo raggruppamento di ipotesi (2a, 2b e 2c),
l’analisi mette nuovamente in evidenza la presenza di legami molto stretti con la dimensione dell’export, e in particolare con l’export sistematico,
mentre appare nel complesso debole la forza della connessione con le altre
modalità di internazionalizzazione (ancora una volta, però, con l’importante eccezione della variabile “nessuna modalità di internazionalizzazione”).
Incrociando tali informazioni con quelle relative all’ampiezza dei processi di internazionalizzazione, il possesso di risorse e competenze relazionali, e in particolare di competenze di networking a livello locale, pare
fornire un supporto decisivo all’avvio di processi di internazionalizzazione commerciale soprattutto nei mercati più distanti dell’est Europa e del
far east asiatico.
E’ probabile che in corrispondenza di tali mercati si verifichino soprattutto dei processi di internazionalizzazione trainata dalla committenza
come documentato in Grandinetti e Bortoluzzi (2004) in relazione ai processi di internazionalizzazione di alcune PMI di subfornitura friulane.
In generale, la forza delle relazioni evidenziate in tabella 2 appare sufficiente a sostenere la validità anche del secondo raggruppamento di ipotesi,
nonostante i legami sembrino questa volta agire in maniera più selettiva
rispetto a quanto evidenziato per le R&C di natura funzionale.
Infine, con l’ipotesi 3a si ipotizzava l’esistenza di un legame maggiormente significativo tra le R&C relazionali ed il profilo internazionale nei
subfornitori di minori dimensioni (gruppo A). Ciò effettivamente accade.
Benché l’ampiezza del sub-campione non consenta interpretazioni partico26
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle pmi di subfornitura.
Un’analisi esplorativa nel comparto plasto-meccanico.
larmente ardite, il differenziale con le imprese maggiori emerge piuttosto
chiaramente dalla lettura degli indici di correlazione. L’inverso accade per
i subfornitori di maggiori dimensioni (ipoptesi 3b) per i quali si registrano
quasi esclusivamente dei legami significativi con il possesso di R&C di tipo
funzionale. In relazione al comportamento delle variabili di controllo, si registrano trend marcatamente differenti: mentre nelle imprese di maggiori
dimensioni (cluster B) la dimensione aziendale risulta sempre correlata in
modo significativo a tutti gli aspetti dell’internazionalizzazione, ciò non
accade mai tra le imprese minori (cluster A). Ciò sembrerebbe corroborare
ulteriormente l’esistenza di un modello di internazionalizzazione realmente alternativo che caratterizza i subfornitori minori.
Infine, mentre la dotazione di risorse e competenze finanziarie non appare mai connessa all’espletamento di strategie di internazionalizzazione,
l’età dell’impresa sembra esercitare una funzione di deterrenza: più giovane l’impresa, maggiori le probabilità ch’essa risulti internazionalizzata in
più mercati e con diverse modalità.
6. Commenti, limiti ed imlicazioni della ricerca
L’analisi empirica restituisce un quadro non uniforme ma ricco di spunti
interpretativi. Il rapporto tra risorse, competenze ed internazionalizzazione
appare talvolta molto forte, soprattutto in corrispondenza delle modalità di
internazionalizzazione più diffuse come l’export, altre volte più sfumato.
Sono diversi gli aspetti messi in luce dall’indagine che meriterebbero un
ulteriore approfondimento. Tuttavia ci sembra che il rapporto emergente tra
dimensione aziendale, risorse (e competenze) e grado di internazionalizzazione costituisca lo snodo interpretativo principale dell’intero contributo.
Benchè dall’analisi empirica risulti sostanzialmente confermata la presenza di una relazione positiva tra la dimensione delle imprese e il loro
profilo internazionale (la significatività della variabile di controllo “dimensione” lascia pochi dubbi al riguardo) sembra emergere contestualmente
un ruolo di mediazione esercitato dalle risorse e competenze aziendali.
Tale mediazione sembra agire in modo selettivo: se nelle imprese maggiori sono soprattutto le risorse e le competenze funzionali a supportare i
processi di internazionalizzazione dei subfornitori, in quelle minori emerge un ruolo più rilevante delle risorse e delle competenze relazionali.
Questo risultato appare significativo nella misura in cui riconosciamo
all’impresa di maggiori dimensioni anche una superiore autonomia strategica nel definire il proprio portafoglio-prodotti, nel cercare proattivamente
nuovi clienti, nello stabilire le proprie traiettorie tecnologiche di sviluppo e
anche nel gestire in modo autonomo i propri percorsi di crescita sui mercati
internazionali.
27
Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
In generale, le risultanze emergenti dalla ricerca sembrano suggerire che
le risorse e le competenze atte a supportare i processi di internazionalizzazione delle PMI di subfornitura abbiano fondamentalmente natura funzionale. Sono proprio le R&C funzionali che supportano, infatti, la componente maggiormente internazionalizzata del campione. Ciò detto, un modello
di internazionalizzazione “alternativo” appare comunque possibile. Ed è
quello evidenziato dalle imprese minori che poggiano i loro processi di crescita internazionale sullo sviluppo di risorse e competenze di relazione: dal
co-design alla collaborazione nei processi di sviluppo di nuovi prodotti e
di nuovi processi dei committenti, dalla co-gestione delle problematiche di
qualità all’integrazione logistico-produttiva. Attraverso lo sviluppo di tali
risorse e competenze l’impresa minore rafforza il proprio posizionamento
all’interno di quei network locali/globali che possono fungere da “trampolino” verso i mercati esteri.
Tra i risultati più apprezzabili che crediamo di aver raggiunto con questa prima ricerca di natura esplorativa, c’è la consapevolezza che i subfornitori, benché trainati dalla committenza, non siano costretti ad ad una
posizione di passività all’interno dei processi di internazionalizzazione che
li riguardano.
Al contrario, sta a loro generare le precondizioni perché tali processi
accadano. In un’ottica manageriale questo si riflette sulla pro-attività delle piccole imprese subfornitrici, e degli imprenditori che le guidano, nel
connettersi a clienti già internazionalizzati, garantendo loro piena collaborazione in relazione alle attività di progettazione (se possibile), gestione della qualità e della logistica. I piccoli subfornitori rifiutano talvolta di
fornire tali servizi a causa dei costi aggiuntivi che questi comportano. Una
prospettiva strategica suggerirebbe, invece, di arricchire la componente di
servizio della loro offerta in modo selettivo, concentrando gli sforzi su quei
clienti in grado di supportare lo sviluppo, anche in senso internazionale,
della loro impresa.
Per le imprese di maggiori dimensioni, vale invece il suggerimento di
rafforzare con opportuni investimenti la propria specializzazione tecnologica al fine di creare le precondizioni per poter entrare con maggiore facilità
in nicchie internazionali di mercato. Inoltre, sarebbe opportuno che tali subfornitori non rifiutino di accompagnare i processi di delocalizzazione dei
propri committenti (cosa che purtroppo accade di frequente) assurgendo a
giustificazione la mancanza di personale e di tempo da dedicare al processo. Talvolta alcuni imprenditori si contraddistinguono per interpretazioni
piuttosto naif dei processi di evoluzione degli scenari economici internazionali interpretandoli alla stregua di “mode passeggere” (come nel caso della
massiccia delocalizzazione delle produzioni nei mercati emergenti) anziché
cambiamenti strutturali. Il presente studio sconta, ovviamente, di diversi
limiti, primo tra tutti la dimensione del campione sondato. Inoltre la ricerca
28
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle pmi di subfornitura.
Un’analisi esplorativa nel comparto plasto-meccanico.
si focalizza su un numero sostanzialmente limitato di risorse e competenze
che non esauriscono la globalità delle “leve” a disposizione delle PMI di
subfornitura. Ulteriori approfondimenti consentiranno di chiarire meglio
il contributo di altre risorse e competenze sia di natura funzionale (organizzative e di marketing, ad esempio) che relazionale (assistenza tecnica e
logistica tra queste).
Inoltre l’ausilio di tecniche di analisi multivariata maggiormente raffinate consentiranno nei futuri step di ricerca di definire in modo più esauriente il differente contributo delle diverse tipologie di R&C considerate
allo sviluppo internazionale della PMI di subfornitura.
Guido Bortoluzzi
Università degli Studi di Trieste
[email protected]
Bernardo Balboni
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
[email protected]
29
Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle pmi di subfornitura.
Un’analisi esplorativa nel comparto plasto-meccanico.
APPENDICE STATISTICA
Allegato 1: operativizzazione del profilo internazionale
ASPETTO INTERNAZIONALIZZAZIONE
DESCRIZIONE ITEM
Ampiezza dell’
internazionalizzazione
L’azienda intrattiene regolari relazioni di
business con fornitori o clienti nelle seguenti aree
(SI = 1; NO = 0)
Allegato 2: operativizzazione delle R&C relazionali e funzionali, delle
R&C finanziarie e analisi di tenuta dei costrutti
R&C tipo e nome
Tecnologia
- Import di prodotti non in subfornitura
- Import di prodotti in subfornitura
- Alleanze strategiche
- Joint venture
- Investimenti diretti esteri
- Nessuno dei precedenti
Intensità di export
- % di export (0–100%)
- tipologia di export
(occasionale = 1; sistematico = 2)
FUN
Quali delle seguente modalità di
internazionalizzazione vengono utilizzate
dall’impresa? (SI = 1; NO = 0):
Saarenketo
In azienda possediamo una conoscenza approfondita et al. (2004)
ed aggiornata in merito agli avanzamenti tecnologici
in corso nel settore di appartenenza
.895
L’azienda dispone di un set avanzato di risorse tecnologiche (sistemi CAD e affini) per le attività di disegno/progettazione dei prodotti
- Nord America
Modalità di
internazionalizzazione
In azienda possediamo una conoscenza approfondita
in merito alle tecnologie installate al nostro interno
Alpha di
Cronbach
Siamo in grado di recepire rapidamente gli avanzamenti tecnologici in corso nel nostro settore di appartenenza
- Est Europa
- Altre aree
Riferimenti
L’azienda possiede un parco macchine tecnologicamente avanzato rispetto alla media del settore;
- Europa Centro-Occidentale
- Far East Asiatico
Descrizione item (Scala Likert da 1 a 7)
L’azienda dispone di un numero di addetti adeguato
(per le caratteristiche dell’attività produttiva svolta) De Toni e
Progettazione per le attività di disegno/progettazione dei prodotti
Nassimbeni,
2001
L’azienda dispone di personale molto competente per
lo svolgimento delle attività di disegno/progettazione
dei prodotti
.864
L’azienda collabora attivamente nella progettazione
dei prodotti con i propri principali clienti
L’azienda dispone di un numero di addetti adeguato
per lo svolgimento di attività legate ai processi di innovazione
Nassimbeni,
L’azienda dispone di strutture ed attrezzature adegua2001;
Innovazione
te per lo svolgimento di attività legate ai processi di Dervitsiotis,
innovazione;
2010
.861
L’azienda è in grado di sviluppare al proprio interno
nuove soluzioni tecnologiche
continua...
30
31
Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle pmi di subfornitura.
Un’analisi esplorativa nel comparto plasto-meccanico.
Riassunto
...continua
L’azienda collabora attivamente in fase progettuale
con i principali clienti
CRM
L’azienda collabora attivamente nella gestione logistico/produttiva (es: just in time) con i principali clienti Jacob, 2006;
Smirnova et
L’azienda collabora attivamente con i clienti nei proal., 2010
cessi di sviluppo dei nuovi prodotti
.847
L’azienda collabora attivamente con i clienti nella gestione delle problematiche inerenti la qualità
REL
L’azienda dispone di una consolidata rete di relazioni di
fornitori o subfornitori ai quali fa ricorso in maniera non
occasionale per l’esecuzione di specifiche lavorazioni
SM
L’azienda dispone di una rete molto affidabile di fornitori o subfornitori ai quali fa ricorso in maniera non
occasionale per l’esecuzione di specifiche lavorazioni
L’azienda è in grado di gestire in modo efficiente (economico) la propria rete di subfornitori
Shin et al.,
2000; Chen
et al., 2004
Abstract
.927
L’azienda è in grado di gestire in modo efficace (conformità ai propri obiettivi) la propria rete di subfornitori
L’azienda ha realizzato o realizza una quota rilevante
del proprio fatturato con grandi imprese/multinazionali o gruppi localizzati nel mercato locale (entro 150 km)
Networking
L’azienda può vantare relazioni di lunga durata con
grandi imprese/multinazionali o gruppi localizzati Di Guardo
nel mercato locale (entro 150 km)
e Valentini,
2007
L’azienda ha realizzato o realizza una quota rilevante
del proprio fatturato con imprese operanti prevalentemente sui mercati internazionali
.797
CON
Finanziarie
Se necessario, l’azienda avrebbe una buona facilità di
accesso a nuovo capitale di debito (prestiti bancari,
scoperto di c/c, altre forme di finanziamento)
Ruzzier et
al., 2007
With the aim of exploring the strength of the existing relationships between small and
medium-sized subcontractors’ resources and capabilities and their international profile
a web-based survey has been carried out on a sample of 89 Italian subcontracting SMEs
belonging to the plastic and to the mechanical industries.
The results confirm the existence of positive and significant relationships between firms’
resources and capabilities and their international profile. Further, they also show that the
role of resources and capabilities taken into consideration change as subcontractors grow.
Classificazione Jel: F230, L230, L250, M160
Parole chiave (Keywords): internazionalizzazione, subfornitori, PMI, resource-based
Il Network in cui è inserito l’azienda è fortemente internazionalizzato
Se necessario, l’azienda avrebbe una buona facilità di
accesso a nuovo capitale di rischio (apporto di nuovo
capitale da vecchi o nuovi soci, ricorso a società di venture capital, ecc.)
Con l’obiettivo di esplorare la forza delle relazioni esistenti tra le risorse e le competenze
delle PMI di subfornitura ed il loro profilo internazionale, in questo paper viene condotta
una survey on-line su un campione di 89 PMI di subfornitura nazionali appartenenti ai
settori della plastica e della meccanica.
I risultati evidenziano l’esistenza di correlazioni significativamente positive tra il
possesso di specifiche risorse e competenze ed il profilo internazionale delle imprese.
Inoltre, essi mostrano ancora che il ruolo delle risorse e competenze prese in considerazione
varia al variare della dimensione delle imprese.
view (internationalization, subcontractors, sme, resource-based view)
.801
Se necessario, l’azienda avrebbe buone capacità di autofinanziamento dei propri progetti di investimento
32
33
Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
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Libri, Milano
Nel numero precedente
n. 3 - anno 2010
Saggi
Internazionalizzazione e competitività delle imprese produttrici di
macchine utensili: alcune evidenze empiriche
di Daniele Cerrato, Donatella Depperu
Garanzie personali e servizi dei confidi alle banche “dopo” Basilea 2
di Alberto Lanzavecchia
Competitività e localizzazione.
Analisi del sistema del vino in Campania
di Matteo Rossi
Immagine e determinanti d’acquisto di un olio d’oliva locale nel
mercato giapponese: un caso di studio
di Gianluigi Guido, Alessandro M. Peluso, Giovanni Pino e Ilaria Bruno
Osservatorio sulla piccola e media impresa
Case Study
Dalla ricerca universitaria alla creazione d’impresa: il caso EryDel SpA
di Selena Aureli
Focus Fiscale
La fiscalita’ della vendita della azienda tra valore di mercato e
corrispettivo contrattuale
di Thomas Tassani
Recensioni e segnalazioni
38
39
Contingent Work and Organizational Attitudes in
Family versus Non-Family Firms. An Analysis of THE
Hospitality Industry in CAMPANIA REGION123
by Marcello Russo
Introduction
The adoption of contingent work arrangements has currently become
a common practice. The changes in labor market, the increasing flexibility
and globalization have shaped the adoption of temporary forms of work
arrangements in almost every branch of economic activity and even for
traditional long-term positions (Felfe, Schmook, Schyns, & Six, 2008). The
present study analyzes the issue of contingent workers’ organizational attitudes in the Italian hospitality industry through a comparison between
family and nonfamily hotels. An analysis on hospitality industry might
be of high relevance because of the traditional adoption of flexible work
arrangements in hotels that may become a case of study even for firms of
other industries. Existing research has shown that a great amount of hotels,
both family and nonfamily, regularly employ contingent or seasonal workers for strategic tasks for customer satisfaction (Johnson & Ashforth, 2008;
Thomas, 1995). Among Italian hotels, for instance, there is a general tendency to hire continuously contingent workers for a long period of time, even
years, for relevant and strategic positions. To this end, Rousseau (1998) argues that contingent workers might actually be considered as “core” members of these organizations. Nevertheless, the literature on this topic is underdeveloped. For example, there is no wide consensus on the definition of
contingent work and scholars use different labels, often interchangeably, to
indicate a non-standard employment characterized by discontinuity that
typically occurs when a firm must face an increasing and unexpected demand (De Cuyper, Bernhard-Oettel, Berntson, De Witte, & Alarco, 2008;
1
Portions of this article have been presented at 4th EIASM Workshop on Family Firms Management
Research (2008) in Naples, Italy.
2
Author would like to thank Filomena Buonocore, Loriann Roberson, Luisa Varriale and
Domenico Salvatore for comments on early drafts of this paper.
3
Author would like to thank two anonymous reviewers for the useful comments received that
allowed to deeply improve the manuscript.
40
Rivista Piccola Impresa/Small Business - n. 1, anno 2011
41
Marcello Russo
Freedman, 1985). The most used definition of contingent work refers to
U.S. Bureau of Labor Statistics that define contingent work as “any job in
which an individual doesn’t have an explicit or implicit contract for long-term employment or one in which the minimum hours worked can vary in a nonsystematic
manner” (Polivka & Nardone, 1989 p.11). Ferrara (2008) provided a further distinction by introducing the concept of ‘duration contingency’ and
‘working-time contingency’. Duration contingency refers to fixed length of
the employment relationship (e.g. fixed-term contract, seasonal contract,
stage) whereas working-time contingency refers to the limited amount of
hours worked (e.g. part-time, job-on-call) (Buonocore, 2010). Duration contingent work is typically different from traditional regular employment,
which is performed full-time, will continue indefinitely, and is performed
under the employer’s supervision (Connelly & Gallagher, 2004; Kalleberg,
2000). The focus of this research is on employment relations characterized by ‘duration contingency’ mainly based on contracts with a fixed-term
end (Ferrara, 2008). This choice derives from two reasons. First, contingent
workers employed on seasonal contracts form a large proportion of the
total number of workers employed in services industries and, specifically,
in the hospitality industry (Krakover, 2000). Second, seasonal workers are
rarely identified as the subjects of empirical investigations in the research
on contingent work, reflecting a general lack of interest, while many more
surveys have been conducted on part-time employment (Buonocore, 2010).
Another limitation of actual research concerns the lack of studies that
analyze the issue of contingent workers’ organizational attitudes in the
family context. For example, researchers have not adequately addressed
the question whether the family’s influence over the business may impact,
positively or negatively, on contingent workers’ attitudes and behaviors at
work. This is serious concern because there is a compelling evidence that
organizational identification, organizational commitment and job satisfaction significantly influence workers’ performance (Gallagher & McLean
Parks, 2001; Mathieu & Zajac, 1990). In addition, contingent workers’ productivity is crucial for ensuring higher level of firm’s performance (Barnett
& Kellermans, 2006). To date, the only studies that analyze the issue of
contingent work in family firms focused on the question whether the characteristics of family firms4 might help or not the adoption of flexible work
practices. Nevertheless even on this aspect, results are mixed. Gulbrandsen
(2005), argued that family firms could be more likely to adopt flexible work
practices in virtue of specific characteristics of family firms such as the presence of the owner-manager, the spontaneous relationships, the trust, and
Habbershon, Williams and McMillan (2003) coined the term familiness to refer to family distinctiveness evidencing the idiosyncratic linkage that exists among family, individuals and business
and that contribute to produce a competitive advantage.
4
42
Contingent Work and Organizational Attitudes in Family versus Non-Family Firms.
An Analysis of the Hospitality Industry in Campania Region
the friendly climate, that favored flexible work practices. In particular, the
author argued that because flexible work practices require a higher level of
trust and loyalty, the characteristics of family firms could foster appropriate conditions for their adoption (Guldbrandsen, 2005). On an opposite line,
scholars argued that because family firms are characterized by a paternalistic and patriarchal culture (Kets de Vries, 1993) they could be less likely
to adopt flexible work practices. According to the paternalistic perspective,
family owners are more hesitant to adopt flexible work practices in order
to protect their employees from the negative consequences associated to
flexible work arrangements, such as job insecurity and layoffs (Donckles &
Frohlich, 1991; Ram & Holliday, 1993; Ward & Mendoza, 1996). According
to the patriarchal perspective, family owners are more hesitant to adopt
flexible work practices in order to avoid the loss of control and power that
automatically derive from the adoption of flexible work practices (Tagiuri
& Davis, 1992).
These arguments suggest the need to conduct finer-grained analyses on
contingent work in family context investigating more relevant topics for
individuals’ and firms’ performance. In the current paper I attempt to do
this by investigating organizational features that might influence contingent workers’ organizational attitudes. In particular, the study proposes
a comparison between family and nonfamily hotels in order to highlight
whether and how the characteristic of the governance of the company affect the magnitude of individuals’ attitudes at work. Using data from a
survey of Italian contingent workers employed in hotels situated in the
Campania region, the study aims at investigating if contingent workers’
organizational identification, organizational commitment and job satisfaction significantly vary because of the governance (family versus nonfamily) of the company.
Contingent Workers’ Organizational Attitudes in Family Firms
Contingent workers in family firms often represent nonfamily employees that work side-by-side with the owner and other relatives (Chrisman, Chua, & Litz, 2003). As nonfamily employees, they are involved in
the business but not in the family (Mitchell, Morse, & Sharma, 2003). As
a consequence, their organizational attitudes at work might be affected
by the perception of justice and fairness within the workplace (Barnett &
Kellermanns, 2006). In family firms, in fact, the boundaries between the
family and the business often become blurred (Gersick, Davis, Hampton,
& Lansberg, 1997), and this might foster the perception of an environment
encouraging bias and favoritism to the detriment of nonfamily members
(Barnett & Kellermanns, 2006; Kets de Vries, 1993; Lubatkin, Schulze, Ling,
& Dino, 2005; Schulze, Lubatkin, & Dino, 2003). This represents a serious
concern within family firms since nonfamily employees contribute in a de43
Marcello Russo
terminant way in the performance of the company over and above family
members (Barnett & Kellermanns, 2006).
The organizational attitudes included in this research are organizational identification, organizational commitment and job satisfaction. The
choice to include these variables stems from several considerations. First,
strengthening the commitment and the loyalty of nonfamily employees represents a priority for family business owners (Chua et al., 1999). Second,
these variables have been frequently considered in organizational behavior
literature as valid indicators of the strength of the relationship between
a worker and his or her organization. Finally, job satisfaction, organizational commitment and organizational identification have been found to
influence contingent workers’ intentional turnover and absenteeism (e.g.
not showing up for work, quitting before contract ends), job engagement,
work-related behaviors, job performance, insecurity and even well-being
(Galais & Moser, 2009; Teo & Waters, 2002). For instance, a higher level
of commitment and identification in the organization might help contingent workers to perceive less stress due to their temporary employment
condition,also providing psychological persistence to react to frequent
changes in the job position.
In the following sections an integrate approach that combine the most
used theoretical framework in contingent work literature (i.e. social exchange theory and social comparison theory) with relevant arguments in
family business research (i.e. organizational justice and the conflict between family and nonfamily members) will be used to provide adequate rationale for the pattern of hypotheses.
Organizational identification
Organizational identification has been defined as the sense of oneness
that an individual has with his or her organization and reflects the extent
to which the individual conceives himself or herself and the organization
as a shared identity (Ashfort & Mael, 1989). Organizational identification
implies a strong psychological attachment that occurs when individuals define themselves by the same attributes as those of the organization
(Buonocore, 2010). Simon (1947) and March and Simon (1958) introduced
organizational identification for the first time in ‘50, focusing on its impact
the construct of on organizational processes and firm performance. Earlier
research did not distinguish the construct of organizational identification
from organizational commitment (Ashfort & Mael, 1989). Only in the late
’80 other scholars, such as Ashfort and Mael (1989), Dutton, Dukeruch and
Harquail (1994) and Mael and Ashforth (1992), started to conduct deeper
analyses on this subject founding that even though organizational identification and organizational commitment are two organizational attitudes
that apparently overlap (Van Knippenberg & Sleebos, 2006), they are unre44
Contingent Work and Organizational Attitudes in Family versus Non-Family Firms.
An Analysis of the Hospitality Industry in Campania Region
lated concepts (Meyer, Becker, & Van Dick, 2006). Organizational identification reflects the extent to which an individual conceives the organization
as a part of self, whereas organizational commitment reflects an attitude
toward the organization and derives from an objective evaluation of job
characteristics and inducements received from it.
Much of existing research has shown that organizational identification
is mainly influenced by perceived external image (Buonocore, 2010; Dutton
et al., 1994). A perceived external image is a constructed employees’ image
of what outsiders think about the organization and reflects organizational
reputation and social opinion. According to Dutton and colleagues (1994),
perceived or constructed external image acts as “a potentially powerful mirror” (p. 249) on employees’ organizational identification. In fact, the more
the perceived external image is positive, the more employees’ organizational identification is strengthened (Dutton et al., 1994).
Relying on this argument, in the current paper it is hypothesized that
contingent workers may result in lower levels of organizational identification in family hotels in comparison with nonfamily hotels. In particular,
I assume that organizational identification is stronger among contingent
workers in nonfamily hotels because of a more positive external image.
Nonfamily hotels often represent international and national brand chains
where the reputation and prestige of the organization is more widespread
because of extensive press or other media attention (Buonocore, 2010).
Family hotels typically operate within local tour operators with a niche of
customers. Consequently, even if they have a good reputation, it does not
easily cross over regional or national borders. Hence in nonfamily hotels
employees are more likely to perceive the external organizational image
as more favorable and attractive. Employees believe that outsiders have a
positive opinion of their work organization and they feel proud to belong
to an organization like that. In fact, if members believe their work organization receives a positive assessment, due to competence, power, prestige
or moral worth, their membership gives them the opportunity to see themselves with these positive qualities, strengthening self-esteem and, consequently, organizational identification (Buonocore, 2010). In brief, perceived
external image is more likely to trigger ongoing feelings of pride and oneness among contingent workers in nonfamily hotels in comparison with
family hotels. Accordingly:
H1: Contingent workers in nonfamily hotels have higher levels of organizational identification compared to contingent workers in family hotels.
Organizational Commitment and Job Satisfaction.
Organizational commitment represents a sense of belonging that ties
employees to their organization (Meyer & Allen, 1997). Organizational
commitment has been conceptualized as a construct composed of three
45
Marcello Russo
dimensions: affective, continuance and normative commitment (Meyer &
Allen, 1990). Affective commitment reflects the psychological attachment
of an individual toward the organization (Meyer & Allen, 1997). This dimension of commitment is attributed to intrinsic factors and it is related
to an individual’s emotional state. Continuance commitment has been defined as a calculated commitment because it results from the evaluation of
potential losses and benefits resulting from leaving the organization such
as the recognition of limited employment alternatives in the labour market (Allen & Meyer, 1990; Becker, 1960; Johnson & Chang, 2006). Finally,
normative commitment refers to the perceived obligation to remain in the
organization. It is mainly based on employees’ feeling of gratitude toward
the organization for the inducements received in terms of professional
growth, training and incentives (Bergman, 2006; Iverson & Buttigieg, 1999;
Meyer, Stanley, Herscovitch, & Topolnytsky, 2002). In family business research, commitment has been usually treated as a one-dimensional construct primarily conceptualized in terms of affective commitment (Sharma
& Irving, 2005). Sharma and Irving (2005) highlighted that there is a feeling
of “wanting to” (p.17), it a strong desire to contribute to family firms’ cause,
underlying the affective commitment of family workers5.
Job satisfaction is another organizational attitude frequently analyzed
in studies on contingent work as well as on family business (see Connelly
& Gallagher, 2004; Lee, 2006). Job satisfaction represents an attitude that an
individual shows toward his/her job or particular facets of it; a worker, in
fact, can be satisfied of some aspects of his/her job and at the same time be
dissatisfied by other aspects (Spector, 1985). Studies on job satisfaction can
be classified in two main streams; the first stream focuses on antecedents
(e.g. Glick, Douglas, & Gupta, 1986) whereas the second focuses on consequences (e.g. Blegen, 1993). With regard to antecedents, family business
literature found that job satisfaction might be influenced by the perception
of family cohesion, family adaptability, and conflicts between work and
family domain (Lee, 2006). With regard to consequences, job satisfaction
has been frequently associated to absenteeism, intentional turnover and
performance (e.g. Blegen, 1993; Hom & Kinicki, 2001; Schleicher, Watt, &
Greguras, 2004).
5
Sharma and Irving (2005) described another form of commitment that usually occurs within
family firms that defined imperative commitment (p. 18). Imperative commitment refers to a feeling of self-doubt and little self-efficacy experienced by family workers in relation to alternative careers outside the protected environment of the family (Handler, 1989). Workers with high
level of imperative commitment are more likely to perceive a sense of “need to” (p.19) and of
incapability to work outside the family company that forces them to not look for other employment alternatives (Sharma & Irving, 2005). The rationale underlying imperative commitment is
in somehow similar to rationale underlying the construct of continuance commitment since both
the constructs are based on a feeling of ‘no escape’ that force employees to remain with their
organization.
46
Contingent Work and Organizational Attitudes in Family versus Non-Family Firms.
An Analysis of the Hospitality Industry in Campania Region
Much of family business research on organizational attitudes has attempted to solve the question whether the influence of the family over the
business might affect the magnitude of workers’ organizational attitudes.
Nevertheless the question is still unresolved. Some scholars found that
family distinctiveness, such as the leadership of family owner or the familiar and friendly climate enhance the loyalty and commitment of employees
(Handler, 1989; Rowden, 2002). Conversely, other scholars found that the
influence of the family over the business has detrimental consequences on
employees’ organizational attitudes because of perception of bias and favoritism toward family memebrs (Barnett & Kellermanns, 2006).
In the current research, drawing theoretical arguments from social comparison theory (Festinger, 1954) and social exchange theory (Blau, 1964), it
is hypothesized that contingent workers engage in higher levels of organizational commitment and job satisfaction in nonfamily hotels in comparison with family hotels. In particular, social comparison theory (Festinger,
1954) suggests that workers’ organizational attitudes are affected by the
perception of fairness within the organization with regard to distribution
of resources among employees and procedures used to distribute such resources (De Cuyper et al., 2008). Similarly, social exchange theory (Blau,
1964) assumes that employees’ attitudes at work may depend on the quality of the socio-emotional relationship with their organization that is mostly influenced by the perception of inducements received by employees in
terms of career, professional growth, fair treatment, etc. (Moorman, 1991).
To this end, research has shown that fairness and perception of equity assume a great relevance in socio-emotional relationship of contingent workers since due to their temporary employment relationships are more likely
to perceive asymmetries between contributions provided and inducements
received (Masterson, Lewis, Goldman, & Taylor, 2000).Relying on these arguments, I hypothesize that in nonfamily hotels contingent workers may
perceive higher levels of organizational commitment and job satisfaction
in comparison with family hotels because of a more profitable social exchange relationship with their organization characterized from a higher
perception of fairness. For example, in nonfamily hotels contingent workers are more likely to be provided with a formalized and clear pathway of
human resource practices, including socialization, training, and appraisals procedures, with an increasing perception of fairness of organizational
procedures. Research in social justice has widely shown that the perception
of fair procedures (i.e. procedural justice) accounts as much, if not more, as
distributive justice in the overall perception of fairness (Jost & Kay, 2010).
In family hotels, contingent workers are less likely to be provided with a
specific and formalized pathway in term of human resource practices thus
nurturing the perception of lower procedural justice with detrimental consequences on the quality of socio-emotional relationship with the organi47
Marcello Russo
zation (Reid & Adams, 2001). In addition, contingent workers’ nonfamily
status may nurture an ongoing feeling of resentment because of the worst
treatment received in comparison with family members. As a consequences, contingent workers in family firms might be less satisfied and less committed toward their organization. Accordingly:
H2: Contingent workers in nonfamily firms have a higher level of organizational commitment than contingent workers in family firms.
H3: Contingent workers in nonfamily firms have a higher level of job
satisfaction than contingent workers in family firms.
Method
Sample
Data were collected during April and June 2007 in 14 high rank hotels
(4 stars) with a yearlong productivity cycle situated in Campania Region,
Southern Italy. For the purpose of this study, I relied on the definition of
family firms provided by Barry (1975) and Handler (1989) that depicts a
family firm such as “a firm owned and managed by members of one or
more families that represent the dominant coalition of the company and
that control the governance”. This definition suggests focusing on the governance of the company, and not only on ownership to establish whether
or not a company could be classified as a family firm. A telephone inquiry
was used to establish whether or not the hotels met these criteria (Astrachan & Kolenko, 1994). The definitive sample was composed of 7 family hotels and 7 nonfamily hotels. Family hotels sub-group included hotels where
the family had both the ownership and the governance of the organization;
whereas nonfamily hotels subgroup included hotels affiliated with national
or international brand chains and not directly managed by the family (also
including hotels owned but not-managed by family members).
Data were collected using the traditional paper-and-pencil survey that
was filled out by 105 contingent workers in normal working hours. A research assistant helped us with the collection of the data. Questionnaires
were hand-deliver to employer (when not possible to front-desk employees after authorization of employer or hotel manager) of each hotel and
collected back after two weeks. I followed this procedure to collect data
from all employees that had different work shifts and were not present at
the moment of questionnaire handling out.
48
Contingent Work and Organizational Attitudes in Family versus Non-Family Firms.
An Analysis of the Hospitality Industry in Campania Region
Tab. 1 - Characteristics of the contingent workers in family and nonfamily firms
Contingent workers
Family Firms
Contingent workers
Non family Firms
Age (mean)
32,04
32,95
Gender (% of women)
34,9%
57,1
Tenure (years) (mean)
6,24
4,94
Types of contract.
i . Fixed-term contract
43,8%
86,8%
ii. Occasional contract
31,3%
1,9%
iii. Stage or training
2,1%
3,8%
-
3,8%
22,9%
3,7%
49 (46,7%)
56 (53,3%)
iv. Collaboration contract
(co.co.pro.; co.co.co)
v. Other (non specified)
N (105)
To compare contingent workers’ organizational attitudes between family and nonfamily hotels, the sample was divided in two subgroups: contingent workers in family hotels and contingent workers in nonfamily hotels. Descriptive statistics for the two subgroups are summarized in table
1. The number of contingent workers is substantially equal in nonfamily
(56%) and in family hotels (49%). About the respondents, 46% of contingent workers were women (57,1% for nonfamily hotels; 34,9 for family hotels); average age was 33 (32,04 for family hotels and 32,94 for non family
hotels). Education level was medium/low and no significant differences
existed across the two subsamples (27% of contingent workers completed
primary school, 78% completed secondary school and 10% had a degree).
An interesting difference across the subsamples was related to the tenure
and type of contingent work contract. Tenure was on average higher for
family hotels than nonfamily hotels (6,24 years vs 4,94 years). This data
corroborate the thesis arguing that family hotels, especially in the South of
Italy, tend to hire continuously the same employees and always with a temporary work arrangement. With regard to contracts, the majority of contingent workers in nonfamily hotels (about 86%) had a fixed-term contract
whereas this percentage decreased to 43,8% for family hotels. Interestingly,
a higher percentage of contingent workers in family hotels (31,3% vs 1,9%)
had an occasional contract such as job on call. These data seem to corroborate the rationale underlying the hypotheses arguing that in nonfamily
hotels the pattern of human resource practices, even contractual system, is
more defined in comparison with family hotels. To this end, a preliminary
interview with hotel employers revealed that use of these non-standard
49
Marcello Russo
employees satisfied organizational needs in regard to scheduling and staffing strategies. In particular, contingent workers were engaged in front and
back office positions, including receptionist, hotel accountant, chef, guest
service assistant, and conference & event assistant, according to specific
organizational events that might even include a single wedding ceremony
or a crowded holyday.
Measurement
Organizational identification. Organizational identification was measured
using Mael and Ashforth’s (1992) 6-item scale. Sample items include “When
somebody criticizes (name of organization), it feels like a personal insult”;
“When I talk about (name of organization), I usually say “we” rather than
“They”. In this study average alpha coefficient of the scale was .71.
Organizational commitment. Organizational commitment was measured using Meyer and Allen’s (1997) 18-item scale that measures the three
dimensions of organizational commitment, affective, normative and continuance commitment. Sample items include “I would be very happy to
spend the rest of my career with this organization” (affective commitment);
“If I got another offer for a better job elsewhere I would not feel it was right
to leave my organization” (normative commitment); “One of the few serious consequences of leaving this organization would be the scarcity of
available alternatives” (continuance commitment). The alpha coefficient of
the scale was .78.
Job satisfaction. Job satisfaction was measured using Taylor and Bowers’
7-item scale (1974). Workers were asked to express their level of satisfaction with regard to the content of their work, the relations with supervisor,
co-workers, the pay and their career opportunities. Sample items include
“How satisfied are you with the persons in your work group?”; “Considering your skills and the effort you put into your work, how satisfied are
you with your pay?”. Responses were assessed on 5-points scales ranging
from 1 (completely disagree) to 5 (completely agree). Higher scores on the
composite measures indicate higher level of job satisfaction. Authors reported a threshold for the reliability of the scale that ranges from .67 to .71;
the α alpha coefficent.79 .
Control variables. A broad array of demographic variables was included
into the model since previous research has demonstrated that attitudes of
individuals at work may be affected by demographic factors (Mowday,
Porter, & Steels, 1982). Control variables included in the model were age
(measured as a continuous variable), gender (male = 0, female = 1), education (primary school = 1; secondary school = 2; degree = 3; specialization
course = 4; postgraduate course = 5), tenure (expressed in years), type of
contingent contract (fixed-term contract = 1; occasional contract = 2; stage
or training contract = 3; collaboration contract = 4; others = 5).
50
Contingent Work and Organizational Attitudes in Family versus Non-Family Firms.
An Analysis of the Hospitality Industry in Campania Region
Results
The primary analysis of correlations showed that the pattern of hypotheses proceeded in the expected directions (see Table 2). On average contingent workers reported higher level of organizational identification,
organizational commitment and job satisfaction in nonfamily hotels. In
addition, organizational commitment and job satisfaction were negatively
correlated to family governance whereas organizational identification was
not significantly related to family governance.
Tab. 2 - Means, standard deviations and correlations
Family
Hotels
Variables
Nonfamily
Hotels
Mean
s.d.
Mean
s.d.
1.
Organizational 3.01
Identification
.55
2.93
.63
.67
2.23
.66
.44
1.81
.66
(.79)
32.04 9.46 32.95 10.6
n.a.
2.
Organizational 1.91
Commitment
3.
1.46
Job Satisfaction
4.
Age
5.
Gender
6.
Tenure
7.
Education
8.
Type of
contract
9.
Family
Governance
n.a.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
.10
.13
-.40
.14
.19*
.03
.06
.02
.30**
-.16
.08
-.23*
.22*
.11
.08
-.18
.21*
-.28**
1
-.08
.66**
-.16
-.10
-.04
1
-.22*
.11
.24*
-.18
(.78)a .46**
(.71) .47** .35**
6.24
6.8
4.94
5.7
1
-.16
.08
.10
2.82
1.59
2.26
1.4
1
-.03
.18
n.a.
n.a.
1
-.22*
n.a.
n.a.
1
a
Cronbach coefficients are reported in brackets
*p<0,05
**p<0,01
Descriptive statistics showed that the means of organizational commitment and job satisfaction were higher for contingent workers in nonfamily
hotels; whereas the mean value of organizational identification was lightly higher for contingent workers in family hotels. A paired comparison t
test was used to verify if these differences in the means were statistically
significant.
51
Marcello Russo
Contingent Work and Organizational Attitudes in Family versus Non-Family Firms.
An Analysis of the Hospitality Industry in Campania Region
Tab. 3 - Independent sample t test
Levene’s Test
for Equality
of Variances
F
Organizational
Commimtment
Organizational
Identification
Job Satisfaction
Sig.
t-test for Equality of Means
t
df
Sig.
(2code)
Mean
Difference
Std.
Error
Difference
95% Confidence
Interval of the
Difference
Lower
Upper
.991
.322
-2.461
102
.016
-.324
.132
-.585
-.063
1.503
.223
.650
102
.517
.076
.117
-.157
.309
3.771
.055
-3.048
102
.003
-.347
.114
-.572
-.121
The t test revealed that the differences in the means of the calculated
variables were statistically significant, with the exception of organizational
identification (see Table 3). Data concerning organizational identification
were not statistically significant (t = 0.650; p > .05). Therefore, the hypothesis H1 was not supported since the t test indicates that contingent workers
in family and nonfamily hotels show on average no differences in their
levels of organizational identification. With regard to hypotheses H2 and
H3, the t test indicates that the levels of organizational commitment and
job satisfaction means significantly differ across the two groups of workers (mean difference was equal to .324 for organizational commitment
and .347 for job satisfaction)6. Finally, to support initial findings from t test,
which predicted a higher level of organizational commitment and job satisfaction for contingent workers in nonfamily hotels, an OSL regression
analysis was performed. Regression analysis was performed in two steps
6
A series of post-hoc analyses were performed to support the strength of these findings. In particular, the post-hoc analyses aimed at investigating if employees’ difference in organizational
attitudes were due, as hypothesized, to the presence of family/non family governance or to
other variables, such as work status. To this end, two further t test analyses were performed. In
the first one, data collected from both regular and contingent employees were included in the
model (N= 361). This was possible since a similar questionnaire addressed to regular employees of family and nonfamily hotels was submitted as part of a wider research project lead in
University of Naples Parthenope on the theme of contingent work (see for instance Buonocore,
2010; Buonocore, Cozza, Ferrara, Russo, 2010). The analysis revealed that mean values for organizational attitudes were higher in nonfamily hotels than in family hotels and the differences
were statistically significant with regard to organizational commitment (mean difference -0.135;
p < 0.05) and job satisfaction (mean differences -0.300; p < 0.01). Results confirmed that mean difference for organizational identification was not statistically significant between family and nonfamily hotels. A second analysis included only data collected from regular employees (N=256).
In this case, the findings confirmed that mean values of organizational attitudes were higher for
regular employees employed in nonfamily hotels but that the mean difference was statistically
significant only for job satisfaction (mean difference -0.250; p < 0.05). To sum up, the results of
both main and post-hoc analyses confirmed that the presence of family or nonfamily governance
has a significant role in predicting employees’ organizational attitudes.
52
in order to highlight the variation in explained percentage of variance. In
the first step the control variables were entered in the model; in the second
step the variable of interest, specifically the variable revealing the presence
of family governance was added to the model. The governance of the hotel
was computed as a dummy variable and it was coded as 0 = nonfamily
hotels and 1 = family hotels. The change in R2 (ΔR2) indicates how of the
explained variance depends upon the type of the firm.
Tab. 4 - Regression Standardized Coefficients for Organizational Commitment, Job Satisfaction and
Organizational Identification
Organizational
Commitment
Job Satifaction
Organizational
Identification
Model 1
Model 2
Model 1
Model 2
Model 1
Model 2
Age
.226
.168
.290
.254
.030
.009
Gender
.064
.037
.109
.060
-.119
-.128
Tenure
.128
.175
-.092
-.054
.232
.263
Education
-.076
-.048
-.152
-.107
.190
.200*
Types of
contingent
contract
.050
-.013
.019
-.061
.057
.034
Family
Governance
F
R
2
ΔR
-.257*
-.094
3.497*
4.376**
.562
1.868*
1.916
1.703
.164
.230
.083
.137
.108
.116
.052
.048
.066*
2
adj R2
-.326*
.117
.177
.055*
.031
.078
.008
Note N = 105
* p <.05
** p <.001
As shown in Table 4, the hypotheses H2 and H3 were supported by
data since the variable indicating the family governance of the hotel was
significantly and negatively associated with the variables of interest. Additionally, with the introduction of this variable into model 2, the variance
explained by the model increased by 6.6% for organizational commitment
and by 5.5% for job satisfaction. The findings reveal a negative correlation
between the family governance of the hotel and organizational commitment and job satisfaction. Hence, as predicted, contingent workers show
higher levels of organizational commitment and job satisfaction in nonfamily hotels. Finally, in order to confirm the results of t test, a regression
53
Marcello Russo
analysis was also performed with organizational identification as criteria.
Findings reveal that the family governance of the company did not significantly affected the level of organizational identification.
Discussion
Family business literature on contingent work is at an early-stage and
there is a lack of studies that consider the issue of contingent workers’ organizational attitudes in the context of small and family firms. This is a
contentious issue that deserves more attention from scholars at least for
two following reasons. First, the presence of contingent workers in family
firms is tremendously increasing. Hence scholars are called to offer their
contribution in order to define situational and organizational characteristics that may favor an easy adoption and utilization of flexible work practices. Second, contingent workers have a central role in shaping the level of
performance of companies since they are usually hired for strategic job positions (Barnett & Kellermanns, 2006; Rousseau, 1998). Hence, it becomes
extremely important for scholars and practitioners to stress out which individual and contextual factors might influence contingent workers’ productivity and engagement. To this end, this paper addresses this issue by
focusing on contingent workers’ organizational attitudes that have been
found to significantly influence employees’ level of performance as well as
their engagement, productive work behaviors and even individual’s well
being (Galais & Moser, 2009). The results of this study show partial support
for the hypothesized model in which contingent workers’ organizational
attitudes, specifically organizational identification, organizational commitment and job satisfaction, were hypothesized to be more positive in nonfamily firms in comparison with family firms. In particular, the results show
support for the hypotheses concerning the higher levels of organizational
commitment and job satisfaction among contingent workers when they are
employed in nonfamily hotels than in family hotels. Conversely, the findings do not support the hypothesis concerning the organizational identification since contingent workers in family hotels and nonfamily hotels did
not report significant differences in terms of organizational identification.
The contribution of these findings is twofold. First, the current study
contributes to advance family business research by providing an organizational behavioral perspective in the analysis of contingent work in the
family context. In particular, the present study highlights that, if not properly managed, the influence of the family over the business may be detrimental for contincent workers’ attitudes. This study might be considered
a pilot study in the context of Italian family firms, arguing that working
in a family firm might have in some circumstances a dark side (see Lu54
Contingent Work and Organizational Attitudes in Family versus Non-Family Firms.
An Analysis of the Hospitality Industry in Campania Region
batkin et al., 2005 for a deep understanding of the issue of dark side in
family business), especially for contingent workers that due to their shortterm relationships and often for their nonfamily status might perceive a
low fairness in organizational procedures. Second, the study contributes
to advance the research on contingent work by proposing a comparison of
organizational attitudes among contingent workers engaged in different
organizational settings. Contingent workers’ organizational attitudes have
been traditionally studied through a comparison between contingent and
regular employees, and work status has been mainly considered as cause
of differences in organizational attitudes and behavior among the two categories of workers (e.g. Connelly & Gallagher, 2004; De Cuyper et al., 2008;
Galup, Saunders, Nelson, & Cerveny, 1997; Kalleberg, 2000; Van Dyne &
Ang, 1998). The present study extends the traditional analysis by focusing
only on category of contingent workers and showing that differences in
organizational attitudes might also depend on characteristics of the company, such as the governance. This is a significant contribution since De
Gilder (2003) argued that there is the need to conduct further analysis focused exclusively on the category of contingent workers because contingent
workers’ organizational attitudes in real organizational contexts tend to be
affected from a comparison between inducements or benefits personally
received and inducements or benefits received, by other contingent workers employed in different contexts or in different departments.
The following considerations might provide meaningful explanations
to the lower levels of organizational attitudes in the context of family firms.
First, contingent workers often belong to the category of nonfamily employees since they are part of the business but not of the family (Mitchell
et al., 2003). To this end, research has widely shown that the different treatment and fewer inducements provided to nonfamily members nurture a feeling of inequality and frustration with detrimental consequences
on individuals’ organizational attitudes and performance (Mitchell et al.,
2003). Second, family firms are frequently characterized by a lower level
of formalization of managerial practices (Reid & Adams, 2001). Hall and
Nordqvist (2008) showed that there is a common opinion among scholars
that “professional management and family management are seen as mutually
exclusive” (p.52).
Generally speaking, family firms, especially the small ones, are less
bureaucratic organizations where relations are informal and procedures
and coordination processes are spontaneous. Indeed, family-owners often argue that human resource or professional practices are not necessary
because of familiar climate and spontaneous and straightforward relationships that ensure high levels of employees’ loyalty and commitment
(Rowden, 2002). Confuting these assumptions, recent research has found
that the lack of formal professional practices arise significant concerns on
55
Marcello Russo
the fairness and transparency of internal procedures, including appraisals
and promotion procedures considered arbitrary and not merit-based (De
Kok, Uhlaner, & Thurik, 2006). Nonfamily organizations are more bureaucratic and are more likely to adopt formalized and well-defined procedures. Consequently, contingent workers are more likely to be provided with
a specific organizational pathway including socialization, training, career
and performance appraisals. This might imply that although contingent
workers receive on average less inducements and a worse treatment in
comparison with regular employees (Cappelli, 1995; Chew & Chew, 1996;
Rousseau, 1997; Sherer, 1996; Van Dyne & Ang, 1998), they might still
perceive a higher fairness in the organizational procedures in comparison with family firms. Finally, the lower levels of organizational attitudes
among contingent workers in family hotels may also depend upon a common practice in hospitality industry of Campania region. Family hotels in
Campania region usually hire the same workers (if possible) for repeated
periods of time, even for years, and always with a temporary work arrangement.
The data about tenure confirmed this tendency showing that paradoxically contingent work, even if their temporary work status, have on average a longer tenure. This practice is beneficial to the hotels because they
can meet periods of peak of demand with a limited use of resources and
short periods of training, since the worker is familiar to organizational culture and hotel procedures (Buonocore, 2010). However, it may be highly
detrimental for workers’ attitudes since the ongoing status of contingency
might nurture a feeling of rage and resentment toward the ownership that
is considered responsible to never meet the individual expectation of job
security. As a consequence, a collapse of levels of organizational commitment and job satisfaction is more likely to occur among contingent workers
in family hotels.
To sum up, a fateful convergence of status occurs among contingent
workers in the family context that negatively influences their attitudes at
work. First, the contingent worker status occurs with the resulting negative
consequences in terms of job insecurity and fewer inducements. Second,
the nonfamily worker status occurs with the resulting negative consequences in terms of unfair treatment and fewer career opportunities.
Regarding organizational identification, the findings show no differences between contingent workers in family hotels and contingent workers in nonfamily hotels. A possible argument related to the characteristics
of the sampled hotels might explain this unexpected finding. The hotels
included in the sample are all high rank hotels (4 stars), well known and
with positive external ratings on the most used online booking services.
Consequently, it has been possible that contingent workers’ organizational
identification was strengthened in both family and nonfamily sampled ho56
Contingent Work and Organizational Attitudes in Family versus Non-Family Firms.
An Analysis of the Hospitality Industry in Campania Region
tels in virtue of a more positive external image due to good reputation and
an international echo (Dutton et al., 1994).
The results have interesting implications for management. The study
has provided theoretical speculations on the importance of fair human resource practices in the context of small family business. In particular, the
study argues the need to develop more formal and fairer human resource
practices even in the context of small business where they are traditionally
underdeveloped. Implementing fair and equal human resource practices
may, in fact, provide nonfamily employees a strong sense of psychological ownership toward the organization and the family even reducing the
perception of unfair treatment (Corbetta & Salvato, 2004; Pierce, Kostova,
& Dirks, 2001). Barnett and Kellermanns (2006) found that human resource
practices assume a mediating role between the influence of the family over
the business and the perception of fairness with implications for overall
level of performance. Earlier research has widely emphasized the importance for family and small business to have high committed and well-motivated employees to enhance firms’ performance (Barnett & Kellermans,
2006; Chua, Chrisman, & Sharma, 2003).
Management of small and family business is therefore called to important roles. First, employers need to develop a higher awareness of the potential dark sides that for some categories of workers, might derive from
working in family business. Second, managers need to acquire an higher
knowledge of contextual features that might contribute to enhance organizational attitudes among workers in order to properly intervene on them.
To this end, a series of professional tools, such as ongoing internal surveys,
might be useful to systematically evaluate the perception of the organizational climate as well as the level of organizational attitudes within the
workforce. This is a simple and powerful intervention that was included in
the list of top priorities for organizations aimed at becoming learning organizations (Garvin, Edmondson, & Gino, 2008). Finally, employers should
address specific managerial interventions to develop professional human
resource practices even in the context of small family business.
By developing clear and well-formalized human resource practices such
as formal employees’ review process, compensation plans, written manual, job description, clear job requirements, and succession plans might
represent an appropriate intervention to strength employees’ level of organizational commitment and job satisfaction among family and nonfamily
employees.
The present study has several limitations. First, the study relies on
cross-sectional data and self-report measures. Even though self-reported
measures are widely credited for attitudes detection at work, self-assessment judgments might be easily prone to bias and they are not completely
reliable since workers are afraid to be identified and judged by the man57
Marcello Russo
agement (Goffin & Gellatly, 2001). Future studies that include other types
of research designs based on longitudinal data collection will establish
more firmly the causal relations implied in the present study. Nevertheless,
the temporary nature of contingent workers’ employment contract may
hamper this kind of research design. Another limitation stems from the
sample, which is small and drawn on a very specific geographic location,
Campania region. Campania region presents some peculiarities in comparison with the rest of the country such as a higher rate of unemployment
and a very extensive use of temporary work arrangements that limit the
generalizability of the results. It might be, for instance, that a certain level
of job insecurity is accepted among southern workers because temporary
work arrangements are often conceived as the only chance to get a job. As
a consequence, contingent workers’ organizational attitudes might result
more positive in southern firms in comparison with northern firms because
of the feeling of gratitude toward the employer that offered a job opportunity. Future research on other populations in different organizational settings or cultures is needed in order to support the general applicability of
the results.
The variables included in the model have been chosen according to the
evidence resulting from the most significant literature on these issues; however, variables related to the workers’ cultural background (ethnicity) have
been neglected, whereas many studies pointed out its influence on the attitude to create social network within firms and thus to promote a sense of
belonging to the organization and to adopt cooperative behavior (Stamper & Masterson, 2002). I excluded these variables on account of the very
low percentage of non-Italians workers in the sample. Nevertheless, the
inclusion of these variables may lead to the definition of a more complete
model for future research. In addition, the sample included only fixed-term
workers without considering different types of temporary arrangements,
different job positions or different responsibilities. Future research should
concern itself with these classifications in order to deal with more homogeneous groups; moreover, to extend the study to other contexts besides hospitality industry would be useful as well. More accurate indications and
more reliable findings could be produced when a further analysis concerns
with more homogeneous workers categories, with regard to arrangements,
tasks and responsibility levels. Finally, with regard to organizational characteristics, the size of the firm and the generation of the owners should
be also considered among the control variables in order to analyze results
for these features. Despite these limitations, this study contributes to the
existing knowledge of contingent work in family business literature and it
may turn out to be useful from a theoretical and managerial point of view.
The results have shed light on the importance to carefully consider the
introduction of formal and less arbitrary practices in the context of small
58
Contingent Work and Organizational Attitudes in Family versus Non-Family Firms.
An Analysis of the Hospitality Industry in Campania Region
family hotels since the influence of the family over the business whether
not appropriately managed it may results in an enhanced perception of
unfairness and in decreased attitudes at work.
Marcello Russo
Università degli Studi di Napoli Parthenope
[email protected]
59
Marcello Russo
Contingent Work and Organizational Attitudes in Family versus Non-Family Firms.
An Analysis of the Hospitality Industry in Campania Region
Abstract
References
The purpose of the research is to compare contingent workers’ organizational attitudes
in family firms and nonfamily firms. In the current study, I propose and test a model in
which contingent workers’ organizational identification, organizational commitment and
job satisfaction are hypothesized to vary in family and nonfamily firms. The hypotheses
were tested among high rank hotels in the Campania region. The empirical findings show
that contingent workers in nonfamily hotels have higher levels of organizational commitment and job satisfaction than contingent workers in family hotels. Contingent workers
show no differences with regard to organizational identification. Implication for theory and
practice are discussed.
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Riassunto
Il presente articolo si propone di affrontare il tema degli atteggiamenti sul lavoro dei
lavoratori flessibili all’interno delle imprese familiari. In particolare, lo studio propone un
confronto tra gli atteggiamenti sul lavoro dei lavoratori flessibili impiegati rispettivamente
in aziende a conduzione familiare ed in aziende non familiari. Gli atteggiamenti sul lavoro esaminati sono l’identificazione con l’organizzazione, il commitment organizzativo e la
soddisfazione sul lavoro. Il modello di ricerca ipotizzato assume che gli atteggiamenti sul
lavoro da parte dei lavoratori flessibili possano variare a seconda del modello di governance
dell’azienda, rispettivamente familiare e non familiare. Le ipotesi di ricerca sono state testate in Campania nel settore dell’ospitalità che rappresenta un settore di particolare rilevanza
per l’obiettivo della ricerca vista la numerosa presenza di lavoratori stagionali e alberghi a
conduzione familiare. I risultati dell’analisi empirica dimostrano che i lavoratori flessibili nelle imprese non familiari riportano più elevati livelli di commitment organizzativo e
soddisfazione sul lavoro rispetto alle imprese familiari mentre non sono emerse differenze
significative con riguardo all’identificazione organizzativa.
Jel Classification: M54
Keywords (Parole chiave): contingent work; family firms; nonfamily firms; organizational commitment; job satisfaction (lavoro flessibile, imprese familiari, imprese non
familiari, commitment organizzativo, soddisfazione sul lavoro).
60
61
Marcello Russo
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64
I FAMILY BUSINESS E LA SUCCESSIONE PADRE-FIGLIA
NELLA CULTURA ITALIANA: UN CASO DI STUDIO
di Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
1. Introduzione
La presenza dei family business nei Paesi europei risulta estremamente
rilevante. L’Italia non fa eccezione, infatti, da uno studio condotto da Aidaf (Associazione Italiana delle Aziende Familiari) e Banca d’Italia (2004)
risulta che le imprese familiari rappresentano il 93% delle aziende italiane
ed impiegano il 98% della forza lavoro occupata nelle imprese con meno
di 50 lavoratori (European Commission, 2008). Tale evidenza risulta essere
strettamente legata al fatto che le imprese familiari sono, nella maggior
parte dei casi, imprese di piccole e medie dimensioni; le realtà aziendali di
tali dimensioni, infatti, sono molto diffuse nel tessuto economico italiano,
ove le PMI rappresentano il 99% delle imprese (Istat, 2008).
Garantire la successione e la continuità delle imprese familiari contribuisce a determinare il livello d’imprenditorialità di una nazione (Ampò
e Tracogna, 2008). Mantenere buoni livelli di imprenditorialità grazie alla
successione risulta particolarmente importante in Italia, dato il basso livello di “early-stage entrepreneurial activity”, indice calcolato dal Global Entre­
preneurship Monitor (Bosma e Levie, 2009), che rappresenta il numero di
individui coinvolti in nuove iniziative imprenditoriali in un anno. Gestire
i processi di successione e aiutare le imprese esistenti a sopravvivere a tali
successioni rappresenta, quindi, una questione cruciale per l’economia italiana al fine di mantenere un buon livello d’imprenditorialità nazionale.
In particolare, l’analisi che segue si concentra sullo studio del passaggio
generazionale nel caso di una particolare tipologia di successione padrefiglia, focalizzando l’attenzione sulle relazioni esistenti tra gli attori coinvolti, sulle modalità di sviluppo del processo successorio e sulle difficoltà
riscontrate. Lo studio assume una prospettiva particolare, ossia si focalizza
su successioni caratterizzate dall’avere una donna come successore di un
leader maschile, poiché tale fenomeno ha goduto di poca attenzione da
parte della letteratura, in particolare nell’ambito del contesto italiano.
L’obiettivo del lavoro è individuare la presenza di elementi culturali tiRivista Piccola Impresa/Small Business - n. 1, anno 2011
65
Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
pici del contesto italiano che possano influenzare tale accadimento, tramite
l’analisi del processo successorio di un’impresa italiana, la Nuova Termostampi S.p.A. Tale obiettivo corrisponde alla seguente domanda di ricerca:
quali sono gli elementi culturali tipici del contesto italiano che possono
influenzare il passaggio generazionale nel caso di una particolare tipologia
di successione padre-figlia?
2. Analisi della letteratura nel contesto italiano
2.1 La cultura e le imprese familiari in Italia
Le modalità secondo cui le imprese nazionali vengono organizzate e
gestite sono influenzate da aspetti sociali e culturali del Paese in cui sono
localizzate. Secondo Masino (2008) è possibile individuare alcune principali peculiarità della cultura italiana che hanno significativamente influenzato l’economia nazionale: in primo luogo, l’influenza dello Stato,
che ha contribuito al mantenimento di un ambiente protetto per le imprese nazionali, difendendole in alcuni casi dalla concorrenza di aziende
internazionali e favorendo, in tal modo, la diffusione e la persistenza del
modello delle imprese familiari; secondariamente, l’importanza della famiglia nella cultura italiana; infine, l’influenza delle comunità locali che
rappresentano il background sociale e culturale che determina la nascita e
la crescita delle imprese.
Castagnoli (2006), invece, individua nell’influenza della cultura cattolica il principale elemento culturale determinante nella definizione della
struttura imprenditoriale italiana. In particolare, egli sottolinea il ruolo
simbolico e reale che la famiglia ha nel contesto italiano, tanto da individuarla come la principale ragione della diffusione delle aziende familiari
in Italia. La persistenza del capitalismo familiare potrebbe essere spiegata,
secondo Casson (1999), dalla riduzione dei costi di transazione determinata dal rapporto di fiducia che esiste tra i membri della stessa famiglia. Al
fine di mantenere questo vantaggio, è importante, quindi, garantire la continuità dinastica nella gestione dell’impresa. Tale necessità influenza anche
la posizione delle donne all’interno delle imprese: generalmente le donne
occupano nei family business un ruolo informale (Dumas 1992), ma la necessità di garantire la continuità dinastica dell’impresa può contribuire alla
nascita di imprenditorialità femminile (Castagnoli 2006).
Gestire la successione è, quindi, una delle principali problematiche per
le imprese familiari (Handler and Kram, 1988; Bauer, 1993; Chua et al., 2003;
De Massis et al., 2008); tale aspetto è critico anche nel contesto italiano, poiché è un problema che coinvolge una parte consistente dell’economia nazionale, visto che l’incidenza dei family businesses sul PIL totale è stimata
66
I family business e la successione padre-figlia nella cultura italiana: un caso di studio
intorno al 70% (CERIF, 2008).
Corbetta e Montemerlo (1999), inoltre, hanno individuato come il problema successorio risulti più complesso nel contesto italiano rispetto a
quello degli Stati Uniti per quattro motivi: le imprese familiari italiane risultano caratterizzate da una proprietà rigida, in cui i beni di famiglia sono
concentrati nel patrimonio netto dell’impresa; i consigli di amministrazione sono spesso poco aperti a soggetti non appartenenti alla famiglia, mentre la presenza di membri esterni potrebbe essere utile nel corso di un processo di successione nella valutazione e formazione di potenziali membri
della famiglia o nella promozione della comunicazione tra genitore e figli;
i gruppi di decisione strategici non sono aperti a membri esterni; infine,
nei family business italiani si preferisce non anticipare le tematiche relative
alla pianificazione della successione.
Il basso livello di pianificazione della successione nelle imprese familiari
è stato registrato anche da Davis e Harveston (1998), mentre l’importanza
della capacità della famiglia di separare la pianificazione delle proprietà
familiari e la pianificazione dei fattori finanziari legati al business è considerata da alcuni autori una determinante della longevità delle imprese familiari e una caratteristica tipicamente presente nelle transizioni generazionali
di successo (Corbetta e Dematté, 1993; Tomaselli, 1996; Gubitta, 1999).
2.2 L’imprenditorialità femminile in Italia
Le imprese guidate da donne imprenditrici sono presenti in Italia soprattutto nelle regioni settentrionali e operano prevalentemente in campo
manifatturiero (48,4%) e nei servizi alla persona (32,1%) (Centro Studi
Sintesi, 2006).
Tra le motivazioni principali che inducono le donne italiane a intraprendere un’attività imprenditoriale vi è la necessità o la volontà di proseguire
l’attività di un parente. Da alcune ricerche sull’imprenditorialità femminile
(Centro Studi Sintesi, 2006) emerge come a diverse modalità d’ingresso in
azienda corrispondano diverse motivazioni delle imprenditrici: la maggior
parte delle donne che succedono ad un parente nella guida del business individua come motivazione principale la volontà di garantire la continuità
del business familiare; al contrario, le donne che avviano una nuova attività imprenditoriale sono motivate principalmente dal desiderio di autonomia e dalla volontà di raggiungere un livello di reddito elevato.
Per quanto riguarda i problemi affrontati dalle donne imprenditrici, essi
tendono a concentrarsi nelle prime fasi di assunzione della leadership e
le problematiche più rilevanti sono la difficoltà nell’ottenere il riconoscimento della propria autorità da parte dei diversi stakeholder dell’impresa,
nel conciliare la famiglia e il lavoro e nell’acquisire i clienti (Centro Studi
Sintesi, 2006). Bruni, Gherardi e Poggio (2004) sostengono che l’imprendi67
Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
I family business e la successione padre-figlia nella cultura italiana: un caso di studio
torialità femminile risulta essere più complessa e può generare maggiori conflitti rispetto a quella maschile. Nel contesto italiano, le principali
problematiche riscontrate dalle donne che subentrano nella leadership di
un’impresa a seguito di un processo successorio sono (CNA Impresa Donna Lombardia, 2008): affrontare l’identificazione del ruolo imprenditoriale con il ruolo produttivo (fenomeno diffuso nella microimprenditoria) e
superare l’autoesclusione delle donne da business tipicamente “a conduzione maschile”; scontrarsi con la minore familiarità e consapevolezza del
ruolo di leadership ed esercizio del potere anche all’interno del business familiare (consuetudine delle donne al ruolo di “gregario”); vincere la maggiore difficoltà di accesso al credito, le minori “aspettative sociali” relative
al loro successo imprenditoriale e tutti gli “ostacoli di genere” tipici in fase
di start-up.
Infine, Songini (2009) ha individuato che le piccole e medie imprese familiari sembrano essere un contesto favorevole per la rimozione del cosiddetto “tetto di cristallo1” (Hymomowitz e Schellhardt, 1986) non in ogni
caso, ma solamente quando la donna occupa il ruolo di membro del Consiglio di Amministrazione o di direttore di funzione.
figlio/figlia. Risulta, quindi, che il sesso del successore può in alcuni casi
influenzare in modo rilevante le scelte riguardanti i processi di successione
delle imprese italiane.
Todd (1983), invece, ha individuato quattro tipologie di nuclei familiari
differenziati su due dimensioni: il livello di libertà/autorità, che descrive
la natura della relazione tra genitori e figli, e il grado di uguaglianza/disuguaglianza, che individua l’atteggiamento più o meno egalitario con cui i
genitori trattano i diversi figli e viene misurato osservando le modalità di
successione adottate. Dallo studio emerge come le famiglie italiane siano
caratterizzate soprattutto da un elevato livello di uguaglianza e da differenti livelli di autorità. In base a tali risultati si potrebbe, dunque, ipotizzare che i processi successori dei family business italiani siano caratterizzati
da un senso di sostanziale uguaglianza nella valutazione dei figli e non
sembrerebbero pertanto emergere particolari diversità di trattamento tra
eredi di sesso maschile e femminile.
2.3 La successione padre-figlia nel contesto italiano
Questo lavoro analizza un particolare processo di successione padre-figlia avvenuto in un’impresa familiare italiana, la Nuova Termostampi Spa.
Infatti, una delle modalità più adatte per comprendere e studiare aspetti
intrinseci alla successione è l’analisi del processo che ha portato alla successione stessa (Davis e Harveston, 1998). La metodologia di ricerca adottata è
stata quella dei casi di studio poiché essa è considerata una delle metodologie di ricerca più adatte per studiare un fenomeno complesso che evolve
nel tempo (Eisenhardt, 1989; Yin, 2003), quale quello oggetto d’indagine di
questo studio. I punti di forza dei casi di studio sono riconducibili al fatto
che essi si rivelano una metodologia estremamente appropriata per esplorare processi (Van Maanen, 1983) e rispondere a domande sul “come” e il
“perché” dei fenomeni empirici. Essi permettono di ottenere spiegazioni
approfondite dei fenomeni piuttosto che informazioni statistiche, la causalità può essere investigata e la teoria può essere generata e testata (Eisenhardt, 1989; Wolcott, 1994), sebbene sia possibile la sola “generalizzazione
analitica” (e non statistica) del fenomeno studiato (Becker, 1990; Yin, 2003).
L’evidenza empirica è stata raccolta nel mese di aprile 2010 attraverso
un’intervista personale con l’attuale Amministratore Delegato dell’impresa, la sig.ra Marinella Manzoni, e con il nipote e potenziale futuro successore, Marco Manzoni. L’intervista è durata quattro ore ed è stata condotta
seguendo lo stile narrativo (Soderberg e Vaara, 2003), i.e. chiedendo all’imprenditrice di descrivere la storia dell’impresa e, in particolar modo, i fenomeni successori. L’intervista è stata di natura semi-strutturata e basata
su una check-list di linee guida appositamente progettata per raccogliere
Un tema importante che influenza il successo della transizione generazionale riguarda la qualità della relazione tra il predecessore e il successore
(Dyer, 1986; Ward, 1987; Lansberg, 1988; Goldberg, 1996; Fox et al., 1996;
Davis e Harveston, 1998; Cabrera-Suárez et al., 2001; Dunemann e Barrett,
2004; Chiesa et al., 2007). Per quanto riguarda la specifica analisi dei processi di successione padre-figlia, la letteratura presenta una carenza di studi relativi alle peculiarità del contesto italiano. Inoltre, emergono risultati
contrastanti da alcuni dei lavori che trattano, seppur in modo marginale,
tale tematica.
Infatti, da uno studio di Ampò e Tracogna (2008) con oggetto 358 imprese di piccole e medie dimensioni della provincia di Trieste, emerge
come l’impatto del sesso del possibile successore sia in alcuni casi rilevante
nella gestione dei processi successori delle imprese familiari: il 6,7% degli
imprenditori che ritiene di non essere in grado di portare a buon fine la
successione della propria impresa ha citato come motivazione principale
il fatto che l’attività di cui si occupano non è adatta al sesso del proprio
1*
La definizione “tetto di cristallo” traduce l’inglese “Glass Ceiling”, il cui primo uso è attribuito
a due giornalisti, Carol Hymowitz e Timothy Schellhardt, sul Wall Street Journal nel marzo del
1986. Si tratta di un fenomeno di segregazione verticale non esplicita: le donne, nel corso della
loro carriera, sperimentano una discriminazione, spesso non detta e non riconosciuta, che impedisce loro di essere presenti ai livelli decisionali e di godere degli stessi diritti e trattamenti
riservati agli uomini per pari mansioni.
68
3. Metodologia di ricerca
69
Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
informazioni dettagliate sulla storia dell’impresa, sui fenomeni successori
che hanno portato alla leadership della figlia del fondatore e su una serie
di aspetti culturali legati alla nuova leadership femminile. In funzione della
risposta e delle caratteristiche personali dell’intervistato, sono state poi fatte
ulteriori domande, laddove necessarie per ottenere altre informazioni utili.
Le informazioni raccolte con l’intervista sono state successivamente
integrate con quelle ottenute attraverso fonti informative secondarie sia
esterne sia interne al family business: (i) documenti (bilanci, report e altra documentazione pubblica reperita su Internet, presso la Camera di
Commercio locale e il sito Web dell’impresa); (ii) archivi aziendali (organigrammi o altro carteggio interno all’impresa). L’utilizzo di molteplici fonti
informative ha reso possibile la “triangolazione” dell’evidenza empirica
(Patton, 1987; Yin, 2003), assicurando la validità dei costrutti e l’obiettività
del processo di raccolta dati.
4. L’azienda, il processo di successione e l’imprenditrice
I family business e la successione padre-figlia nella cultura italiana: un caso di studio
entrato nell’impresa nel 1974 con una quota del 25% e poi succeduto al
padre prematuramente scomparso nel 1976, all’età di 25 anni. Gianrenzo
ha guidato l’espansione dell’azienda, ma purtroppo anch’egli è venuto
prematuramente a mancare nel 1996. Alla guida della società si è insediata
Marinella, figlia del fondatore e sorella di Gianrenzo; nel segno della continuità, ha proseguito il consolidamento e la crescita dell’impresa culminata
con l’apertura di un nuovo impianto industriale.
A partire dal 2005 la Nuova Termostampi dispone di una seconda unità
produttiva in Romania, dove vengono svolte le attività maggiormente labour intensive.
L’albero genealogico della famiglia Manzoni e le principali tappe storiche nello sviluppo del family business sono riportati, rispettivamente,
nelle Figure 1 e 2.
Fig. 1 - Albero genealogico e successioni
4.1 Breve storia dell’azienda e della famiglia
La Nuova Termostampi SpA è un’impresa di medie dimensioni in
provincia di Bergamo, operante nella filiera della plastica e attiva nella
costruzione di stampi e nello stampaggio di materie plastiche per conto
terzi. La società conta ad oggi 83 addetti con un fatturato di 13 milioni di
Euro nel 2009.
L’azienda originariamente annoverava nel proprio portafoglio clienti
società operanti per lo più nel settore elettrico e, nel corso degli anni, ha
ampliato il proprio business fornendo anche clienti nei settori automotive,
meccanico, elettronica di consumo e design, occupandosi sia degli aspetti
progettuali, sia della produzione e gestione degli stampi, oltre allo stampaggio e all’assemblaggio di componenti.
L’impresa è stata fondata nel 1962 da Alessandro Manzoni, un operaio
addetto alle attività di costruzione stampi presso un’azienda preesistente
(SAIBI). Già dopo pochi anni l’azienda, inizialmente denominata Manzoni
Alessandro, si configurava come una piccola officina con una decina di
addetti, specializzati nella costruzione artigianale di stampi.
A partire dalla prima metà degli anni ’70, l’azienda ha innovato progressivamente il proprio processo produttivo avviando anche l’attività di stampaggio a compressione di materiali termoindurenti; negli anni ’80, grazie
alla continua innovazione e ricerca nel campo delle plastiche, l’impresa si
è specializzata nello stampaggio di materiali termoplastici e ha avviato lo
stampaggio ad iniezione di resine in poliestere. Queste innovazioni tecnologiche avevano come promotore Gianrenzo Manzoni, figlio del fondatore,
70
71
Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
Fig. 2 - Principali tappe storiche nello sviluppo del family business
Data
Avvenimento
1962
Fondazione dell’azienda – attività di costruzione stampi per materie
plastiche
1974
Inizio stampaggio termoindurente a compressione – Gianrenzo acquisisce il 25% dell’azienda
1976
1980
1982
1990
1993
1996
1997
2005
I family business e la successione padre-figlia nella cultura italiana: un caso di studio
Fig. 3 - Organigramma dell’azienda
Morte di Alessandro Manzoni e successione del figlio Gianrenzo
Ampliamento dell’officina e trasferimento a Dalmine
Integrazione con attività di stampaggio termoplastico
Avvio stampaggio ad iniezione di materiali termoindurenti (nuova
tecnologia)
Nuova Unità Produttiva a Treviolo
Morte di Gianrenzo e successione di Marinella
Ampliamento della sede di Dalmine
Trasferimento degli stabilimenti nella nuova sede a Lallio (BG) e
apertura dell’Unità Produttiva in Romania
L’attuale organigramma dell’azienda è riportato in Figura 3.
72
73
Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
4.2 Il processo di successione
Il caso della Termostampi è un esempio di successione padre-figlia che
presenta alcune caratteristiche particolari; infatti, alla morte del padre la figlia minore Marinella, oggi alla guida dell’impresa, era adolescente e l’erede designato alla guida del family business era il fratello Gianrenzo. Per
tale ragione il padre lo aveva indirizzato ad un percorso di studi di natura
tecnica, atto a sviluppare principalmente competenze tecnologico-produttive, importanti per operare nell’azienda di famiglia. Il padre Alessandro
vedeva nel figlio il proprio erede sia per affinità caratteriali, che per la
condivisione delle medesime competenze tecniche. Gianrenzo era inoltre
l’unico figlio maschio e nella cultura familiare l’unico candidato possibile
alla successione del padre; infatti, nel 1974 il suo ingresso in azienda era
stato accompagnato dalla donazione di una quota del 25% dell’impresa.
La sorella maggiore, invece, pur occupandosi nell’impresa familiare degli aspetti di natura contabile e amministrativa, non era stata presa in considerazione come possibile erede probabilmente proprio in quanto donna e
con competenze differenti rispetto a quelle di natura tecnologica.
Nonostante il figlio Gianrenzo fosse l’erede designato, la scomparsa
prematura e improvvisa del padre non aveva permesso di programmare per tempo il processo successorio. Nella prima parte del suo periodo
alla guida dell’azienda, Gianrenzo si era trovato a gestire una situazione
complessa, in quanto l’impresa aveva sostenuto in quegli anni ingenti investimenti per ampliare l’attività e assecondare i processi di innovazione
tecnologica. Gianrenzo era stato allora affiancato dalle sorelle Rosanna e
Marinella: mentre Gianrenzo si occupava delle linee guida strategiche di
gestione dell’impresa e degli aspetti tecnici e di gestione della produzione,
Marinella iniziò ad occuparsi della gestione dei clienti e delle attività di
pianificazione e programmazione operativa, mentre Rosanna manteneva
la responsabilità dell’area amministrativa e finanziaria.
Alla morte improvvisa di Gianrenzo nel 1996 il problema successorio si
ripresenta ancora una volta in modo inaspettato e in un periodo di cambiamento per l’impresa. In quegli anni, infatti, l’impresa aveva affrontato
degli importanti investimenti per sostenere l’ampliamento dei propri impianti produttivi. Anche questo secondo processo di successione non era
stato pianificato e, di fronte alla necessità di garantire la continuità dell’impresa, la scelta cadde su Marinella, che aveva dimostrato il committment e
la disponibilità ad assumere la gestione dell’impresa.
I family business e la successione padre-figlia nella cultura italiana: un caso di studio
Il suo ingresso all’interno dell’impresa familiare era avvenuto in età adolescenziale, poiché fin da ragazza operava insieme alla madre in officina.
L’ambiente in cui è cresciuta è stato influenzato dalla presenza dell’impresa familiare: in particolare, l’imprenditrice sottolinea come sin dagli inizi
della propria attività, il rapporto con il padre era influenzato dall’impresa
familiare e dal ruolo di sua madre: “Mia madre diceva che non dovevamo dare
preoccupazioni a papà perché lui era impegnato con il lavoro” e, ancora, “Mia
madre mi ha sempre esortato a considerare l’azienda di famiglia come la cosa più
importante e prioritaria nella vita”.
Marinella, oltre a lavorare nell’impresa familiare, aveva proseguito gli
studi e ottenuto il diploma in ragioneria; l’inclinazione personale l’avrebbe spinta ad intraprendere la carriera di interprete anche perché, alla luce
della predilezione del padre per il figlio maschio come naturale successore,
non si sentiva destinata alla gestione dell’impresa di famiglia e non intravedeva sostanziali possibilità di crescita e di carriera rimanendo nell’impresa del padre.
Dopo il diploma, nell’attesa di potersi iscrivere ad un corso per diventare interprete e fortemente influenzata dalla madre, Marinella svolgeva un
lavoro di natura contabile nell’impresa familiare; aveva iniziato, inoltre, ad
interessarsi anche ad altre problematiche, tra cui l’attività di categorizzazione e codifica dei progetti e la programmazione della produzione, dimostrando un’accentuata curiosità e la volontà di capire le dinamiche interne
all’impresa anche relative ad ambiti a lei fino ad allora sconosciuti. L’interesse maturato nei primi mesi di attività in azienda, ha convinto Marinella a continuare l’attività nell’azienda di famiglia dividendo con i fratelli i
compiti di gestione ed occupandosi nello specifico della produzione, della
definizione dei prezzi, della gestione di clienti e dei fornitori, della pianificazione e della programmazione operativa.
Il rapporto con il fratello in quegli anni era di complementarietà e collaborazione. Riferendosi a quel periodo l’imprenditrice dice di sé: “Mi sentivo debole ma non influenzabile da mio fratello, ragionavo con la mia testa e volevo
capire a fondo le cose”. Sottolinea, inoltre, che il rapporto con la famiglia era
diventato più difficile in occasione della nascita della figlia poiché Gianrenzo accettava con difficoltà un impegno parziale connesso alle nuove
esigenze familiari, tant’è che poco prima della morte del fratello Marinella
aveva valutato l’opzione di abbandonare l’impresa di famiglia, sia perché
sentiva l’esigenza di dedicarsi maggiormente alla propria famiglia, sia perché i rapporti con Gianrenzo erano diventati piuttosto tesi.
4.3 La figlia del fondatore al timone dell’azienda
L’imprenditrice attualmente alla guida dell’impresa è Marinella Manzoni, figlia minore del fondatore Alessandro.
74
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Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
5. Le dimensioni culturali e il ruolo nella Successione Padre-Figlia
La presente sezione è articolata in modo da presentare diversi aspetti culturali che possono influenzare il processo successorio, derivati dalla letteratura a partire dagli studi di Dumas (1989). Per ogni aspetto individuato sono
stati valutati l’impatto e le peculiarità emersi dal caso di studio analizzato.
5.1 Motivazioni per la successione alla guida dell’impresa
Alla morte del fratello le motivazioni principali che hanno spinto la figlia del fondatore a farsi carico della guida dell’impresa di famiglia sono la
coscienza sociale e la consapevolezza che dalle sorti dell’impresa dipendevano più di 40 nuclei familiari. L’obiettivo principale che Marinella ha perseguito con le sue scelte è il “mantenimento del buon nome della famiglia” che
s’identifica, secondo l’imprenditrice, nel mantenimento di un’etica comportamentale, nell’offerta di una qualità reale, nell’attenzione ai prodotti e
ai clienti e nella continuità intergenerazionale dell’azienda. Con comprensibile orgoglio afferma: “Quello che ci muove non è il denaro”, sottolineando
come le motivazioni alla base dello sviluppo di un’impresa familiare non
siano solo quelle economiche, ma anche l’attenzione al territorio e al tessuto sociale in cui l’impresa e la famiglia si trovano inserite. Anche il padre Alessandro Manzoni, secondo la figlia, aveva deciso, a suo tempo, di
intraprendere un’attività imprenditoriale non già per una mera questione
economica, ma, in questo caso, spinto dal desiderio di autonomia. Tra le
motivazioni considerate da Marinella non emergono la volontà di autoaffermazione o il desiderio personale di realizzazione. Inoltre, la figlia aveva
iniziato a lavorare come impiegata e ha scelto di assumere la guida dell’impresa solo in seguito al manifestarsi di accadimenti dolorosi ed inattesi; ciò
è in linea con le principali evidenze della letteratura (Dumas, 1989), secondo cui le possibilità di considerare la figlia come erede del padre aumentano a seguito di eventi critici. Inoltre, l’ingresso di Marinella alla guida
dell’azienda è stato fortemente determinato dall’assenza di eredi maschi
pronti a succedere al fratello Gianrenzo al momento della sua improvvisa e
prematura scomparsa. L’assunzione della leadership di un’impresa da parte di una donna per garantirne la sopravvivenza in assenza di altri possibili
successori maschi, è un fenomeno che interessa diverse donne imprenditrici italiane (un esempio è Irene Rubini con Falk) (Colli et al., 2003).
5.2 Relazione tra il predecessore maschile e il successore femminile
La figlia descrive il padre come una persona “buona e tranquilla”, ma con
il quale non aveva sviluppato un rapporto profondo, in quanto il genitore era spesso impegnato con il lavoro; la presenza dell’impresa familiare
76
I family business e la successione padre-figlia nella cultura italiana: un caso di studio
appare come un ostacolo nei rapporti padre-figlia soprattutto in quanto
la figura del padre sembra sovrapporsi ed essere un tutt’uno con quella
dell’impresa, nella quale però le figlie non sono coinvolte.
Per quanto riguarda nello specifico il rapporto tra Marinella e il padre,
non si può dire molto poiché Alessandro è venuto a mancare quando la
figlia aveva solo 14 anni. Secondo Dumas (1989) nel rapporto padre-figlia
accade spesso che il padre si aspetti dalla figlia, da un lato, un comportamento adatto a una businesswoman; dall’altro, che continui ad essere la sua
“daddy’s little girl”. Alcune tracce di tale comportamento sono individuabili
in questo caso nel rapporto tra fratello e sorella: Marinella racconta che il
fratello Gianrenzo si infastidiva se lei si comportava in modo indipendente e cercava di inserirsi in modo critico nel processo decisionale relativo
all’impresa. All’interno dell’azienda, quindi, il fratello tendeva a comportarsi come il leader indiscusso e considerava la sorella una sua subordinata; Marinella, invece, pur rispettando il ruolo del fratello, cercava talvolta
di esprimere la propria opinione e di assumere un punto di vista critico e
indipendente nelle questioni legate alla gestione dell’impresa.
5.3 Invisibilità delle donne e possibilità di diventare successore
Barnes (1988) sostiene che spesso i figli maschi, benché più giovani,
siano scelti come successori al posto della sorella maggiore. In effetti, alla
morte del padre Alessandro, la sorella maggiore non era stata presa in considerazione come possibile successore. Analogamente, Gianrenzo non aveva mai identificato come suo possibile successore una delle sorelle, ma la
sua morte improvvisa e soprattutto la mancanza di un altro possibile erede
(il primogenito Alessandro era ancora giovane e non pareva interessato a
succedere al padre e il secondogenito Marco era ancora adolescente) hanno
portato la sorella Marinella ad accettare tale ruolo. La predilezione dei figli
maschi come successori alla guida del business è emersa, quindi, sia nelle
volontà legate alla successione del padre che in quelle di Gianrenzo.
In nessuna fase della successione, inoltre, è stato rispettato il principio
di primigenia per diversi motivi: nella successione tra padre e figlio per
motivi legati al sesso della primogenita (Stavrou, 1999), nella successione
tra fratello e sorella perché il primogenito non dimostrava di essere interessato alla guida dell’azienda.
5.4 Discriminazione e stereotipi
Vera e Dean (2005) hanno individuato come il fenomeno di discriminazione legata al sesso sia percepita dalle donne in misura maggiore in
presenza di attori esterni al business piuttosto che in presenza di persone
interne all’azienda. Effettivamente, l’imprenditrice ha individuato come
77
Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
principali momenti di discriminazione quelli in cui ha avuto contatti con
i clienti, mentre l’atteggiamento discriminatorio ha riguardato in misura
minore il personale interno all’impresa. Marinella ha dichiarato di essersi
sentita spesso a disagio, in quanto donna, quando affrontava riunioni con
clienti e concorrenti dell’altro sesso, o in cui le poche donne presenti erano
le segretarie dei propri interlocutori; relativamente a ciò ha fatto notare
come in Italia i ruoli tecnici siano ricoperti quasi esclusivamente da uomini, al contrario di quanto avviene in altri Paesi. L’atteggiamento degli
stakeholder esterni all’impresa al momento della successione ha assunto
toni discriminatori; in particolare alcuni clienti hanno espresso diffidenza:
“Si ricordi che noi non crediamo nelle donne” e hanno prospettato la possibilità
di interrompere i propri rapporti con l’impresa poiché non credevano nella
capacità di una donna di gestire un business così tipicamente maschile.
L’imprenditrice ha riconosciuto ciò: “Non so se questo sarebbe successo se mi
fossi chiamata Mario” e ha sottolineato come tale atteggiamento da parte di
alcuni clienti continui ad esistere in forma latente, nonostante le sue capacità di gestione dell’impresa siano state ampiamente dimostrate.
5.5 Il problema del “glass ceiling”
Diversi autori (e.g., Nelton, 1986; Rodriquez-Cameron, 1989; Gillis-Donovan e Moynihan-Bradt, 1990; Hollander e Bukowitz, 1990) affermano che
spesso le donne che entrano nell’impresa familiare non hanno la stessa importanza e le stesse opportunità di crescita degli uomini. Marinella Manzoni ha sostenuto esplicitamente di non avere mai avuto particolare interesse
ad entrare nel business familiare poiché non individuava delle possibilità di
crescita e di realizzazione, in quanto la gestione dell’impresa era da sempre
stata chiaramente destinata al fratello e, dopo di lui, ai suoi figli. Per di più,
quando dimostrava particolare interesse nei confronti dell’attività familiare
e chiedeva di poter comprendere meglio le dinamiche interne dell’impresa,
Marinella si scontrava con il fratello e i suoi collaboratori, mentre i tentativi
della donna di introdurre migliorie in azienda non le erano riconosciuti o
venivano considerati di entità marginale. Il fenomeno del “glass ceiling”,
dunque, emerge come una problematica che interessa anche le donne delle
imprese italiane (Bombelli, 2000).
5.6 Difficoltà del predecessore ad abbandonare l’impresa
Viste le peculiarità del caso analizzato non emergono significativi elementi relativi a questa tematica: a causa della morte prematura sia del padre Alessandro che del figlio Gianrenzo, non è possibile individuare se il
problema connesso alle difficoltà del predecessore ad abbandonare l’impresa (De Massis et al., 2008) sarebbe emerso in età avanzata. E’ interessante,
78
I family business e la successione padre-figlia nella cultura italiana: un caso di studio
tuttavia, sottolineare come durante l’intervista la figlia del fondatore abbia
espresso la sua totale disponibilità a cedere il proprio posto al nipote Marco,
non appena egli sarà ritenuto pronto. L’imprenditrice sostiene, inoltre, di
ricorrere spesso alla delega e ha affermato che le donne sono, a suo giudizio, più portate a delegare in quanto “La psicologia femminile è diversa: per le
donne è più facile capire le persone e capire a chi delegare”. Non a caso Marinella,
a partire dal 2004, ha individuato un suo collaboratore, Fabio Daminelli, e lo
ha nominato assistente alla direzione; tale nomina risponde, secondo l’imprenditrice, alla necessità di essere affiancata nello svolgimento del proprio
ruolo e alla assoluta consapevolezza di non essere in grado di eseguire tutte
le attività legate alla conduzione e gestione dell’impresa da sola. L’imprenditrice rimprovera a molti dei suoi colleghi uomini capi d’azienda di voler
accentrare troppo il business su di sé e di non ricorrere adeguatamente alla
delega, favorendo così l’affermarsi dell’“impresa padronale”.
5.7 Differenze di leadership tra uomo e donna
Dumas (1989) sostiene che esistono differenze comportamentali tra
uomo e donna all’interno del family business. Su questa tematica Marinella dichiara: “La successione ha determinato fin da subito il passaggio evidente ad
uno stile di leadership diverso; è stato uno shock per i dipendenti: mio fratello era
un leader carismatico ed un accentratore; io, invece, adotto uno stile diverso, meno
imperativo e spiego le ragioni per le quali i collaboratori devono svolgere i compiti
che assegno loro”. Questi diversi approcci potrebbero essere determinati da
differenze intrinseche tra le donne, naturalmente caratterizzate da un bisogno di interazione e collaborazione, e gli uomini, maggiormente orientati
ad un comportamento indipendente (Dumas, 1989).
Marinella ha anche affermato che con la morte del fratello era venuto
meno un punto di riferimento, che lei non ha sostituito: “Non mi reputo
un’imprenditrice, ma una manager. Mio fratello era un imprenditore: aveva idee
innovative ed era il creativo; la mia abilità sta, invece, nel trovare la persona giusta
nel posto giusto e nel motivare le persone”. Secondo l’imprenditrice l’aspetto
cruciale nella gestione dell’impresa è rappresentato dal far convivere e guidare le persone; l’importanza della collaborazione e dell’interazione con i
dipendenti emerge anche dalla propensione di Marinella nei confronti della
delega: “Mi fa piacere se qualcuno mi dà una mano nelle decisioni, probabilmente
non ce l’avrei fatta da sola in questi anni”. L’imprenditrice, quindi, ha dimostrato di saper riconoscere ed ammettere la necessità di supporto nella propria leadership per sopperire ad eventuali carenze probabilmente relative
ad alcune competenze tecniche non sviluppate, come nel caso del fratello,
fin da giovane. Tali osservazioni sono in accordo con quanto sostenuto da
Cook e Rothewell (2000), secondo cui uomini e donne scelgono di condurre
e di seguire gli altri secondo modalità differenti.
79
Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
5.8 Rivalità con i membri esterni alla famiglia
Dumas (1989) sostiene che spesso l’inserimento di una figlia nell’impresa
familiare sia ostacolato dai lavoratori esterni alla famiglia ancora più fortemente di quanto avvenga per un figlio maschio perché spesso tale ingresso
è inaspettato. Al momento della successione Marinella sottolinea di aver
lavorato molto per assicurarsi la collaborazione degli stakeholder interni
all’impresa chiedendo una serie di incontri con i collaboratori e i tecnici che
avevano affiancato il fratello e ricercando esplicitamente il loro supporto in
quanto consapevole della necessità del loro sostegno. Marinella ha affermato che molto probabilmente i suoi dipendenti non credevano che lei fosse la
persona giusta per succedere al fratello poiché donna, ma non avevano alternative e quindi le hanno accordato la loro fiducia. Inoltre, l’imprenditrice
riconosce che ancora oggi, a 14 anni dalla morte del fratello, in alcuni reparti
dell’impresa i dipendenti rievocano lo stile di leadership di Gianrenzo, richiamandone il ricordo di fronte a decisioni che non condividono.
5.9 Trasferimento patrimoniale e rivalità tra i membri della famiglia
I trasferimenti della leadership e del patrimonio dell’impresa sono avvenuti, in entrambe le successioni, in contemporanea, poiché entrambe
sono state determinate dalla morte prematura e inattesa del predecessore.
Per quanto riguarda l’assetto proprietario, le figlie di Alessandro possiedono una quota di minoranza, mentre la quota del figlio Gianrenzo,
di maggiore entità già al momento della morte del padre, è stata ulteriormente incrementata dal lascito materno unicamente a suo favore. Questo differente trattamento è stato fonte di disappunto. Tale situazione, in
accordo con quanto sostenuto da Friedman (1991), sembra essere dovuta
alla palese preferenza dimostrata dai genitori nei confronti del figlio maschio; appare evidente che i principali effetti siano rilevabili dalla sorella
maggiore di Marinella: “Mia sorella si è sempre sentita esclusa, più di me, perché era la primogenita”. A seguito della morte di Gianrenzo la sua quota è
stata suddivisa tra la moglie e i due figli ed il Consiglio di Amministrazione è stato aperto a due membri non familiari garanti della moglie e dei figli
all’epoca minorenni.
5.10 Gestione dei conflitti tra lavoro e famiglia
Per quanto riguarda la gestione di conflitti tra la famiglia dell’imprenditrice e il proprio ruolo, è emerso come il desiderio di diventare madre
si sia scontrato con la propria posizione (Cole 1997): Marinella, infatti, ha
rinunciato ad avere altri figli quando ha accettato di succedere al fratello.
L’imprenditrice ha sottolineato di non essere stata ostacolata o influenzata
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I family business e la successione padre-figlia nella cultura italiana: un caso di studio
in nessun modo dal marito durante il suo processo decisionale; in generale, tuttavia, ha individuato nella presenza di una cultura sessista il motivo
principale per cui il ruolo della madre e dell’imprenditrice sono difficilmente compatibili: secondo tale cultura il compito di accudire e crescere
i figli ricade molto più pesantemente sulla madre che sul padre e questo
genera diversi problemi per le donne che devono affrontare una maternità
(Chiesi et al., 2002). L’imprenditrice, tuttavia, si è detta convinta che l’essere
madre rappresenti comunque un vantaggio, perché permette di avere una
maggiore sensibilità ed empatia nella gestione delle risorse umane. Tali
caratteristiche si sono rivelate a suo avviso estremamente utili anche nella
gestione del family business. E’ emerso, inoltre, un altro problema, identificato in letteratura da Cole (1997) con il nome di “double message”, per cui,
da un lato, la donna è spinta dalla famiglia a diventare madre; dall’altro,
le viene richiesto di non ridurre il proprio impegno in azienda: in questo
caso tale fenomeno si è verificato con il fratello Gianrenzo. L’imprenditrice
ha sottolineato come, a suo parere, una differenza importante tra uomo e
donna risieda nel fatto che le donne non facciano coincidere la propria realizzazione personale con l’impresa: “La mia realizzazione personale non coincide solamente con l’andamento dell’azienda, non so se è perché sono donna, ma
io non sono solo l’azienda”. Tale atteggiamento potrebbe essere un ulteriore
motivo di mancata sintonia tra il ruolo della donna imprenditrice e il suo
ruolo come madre, moglie e donna nella società, in quanto una donna sembrerebbe meno disposta a trascurare questi ultimi aspetti, importanti per la
propria realizzazione personale, per dedicarsi esclusivamente all’impresa.
6. Sintesi e conclusioni
Il caso analizzato, riguardante un’azienda condotta con continuità e con
successo da un imprenditore donna, permette di individuare la presenza
di alcuni elementi tipici della cultura italiana che hanno influenzato il processo successorio e lo sviluppo del family business oggetto del presente
studio. In primo luogo, è possibile rilevare come il fondatore dell’impresa
e tutta la sua famiglia siano stati significativamente coinvolti nel family
business, tanto che la figura paterna risultava quasi sovrapposta a quella dell’impresa stessa. Inoltre, i rapporti e le relazioni familiari sembrano
essere subordinati alle prerogative connesse all’attività familiare. Tale predominanza dell’impresa sugli individui risulta evidente, ad esempio, nel
fatto che l’imprenditrice abbia abbandonato le proprie aspirazioni di carriera esterne all’impresa per supportare i familiari nella gestione della stessa. La funzione cruciale dell’impresa nella vita degli individui potrebbe in
apparenza scontrarsi con il ruolo centrale della famiglia tradizionalmente
riconosciuto dalla cultura italiana; tale contraddittorietà viene, però, supe81
Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
rata se si considera il fatto che probabilmente è proprio la natura familiare
dell’azienda che ne legittima e ne determina la predominanza nella vita
degli individui del nucleo familiare.
Per questo motivo garantire la continuità aziendale e familiare rappresenta una motivazione preponderante e decisiva per i successori; in particolare, tale necessità è prioritaria e facilita il successore nel suo insediamento
al timone dell’azienda anche nel caso in cui si tratti di una donna che deve
operare all’interno di un settore tradizionalmente riservato agli uomini,
come nel caso di studio analizzato. L’assunzione della leadership da parte
di una donna, infatti, è ritenuta maggiormente critica anche in virtù della
propensione dei genitori ad educare diversamente i figli di sesso maschile
e femminile; in particolare l’erede maschio viene tipicamente cresciuto con
l’obiettivo di sviluppare capacità e competenze atte a succedere al padre
nella guida dell’impresa, mentre le figlie vengono generalmente coinvolte
nel business in ruoli di secondo piano. Nel caso analizzato, infatti, è stata
l’assenza di altri eredi maschi a determinare l’assunzione della leadership
da parte di una donna. Visti gli aspetti emersi nel corso dell’analisi, si potrebbe affermare che nella cultura italiana sia diffusa l’idea che esistano
attività e settori produttivi più adatti a uno o all’altro sesso, così come la
convinzione che le modalità di approccio al business, lo stile di leadership
e le capacità mostrate da una persona dipendano non solo dalla propria
individualità ma anche, ed in modo rilevante, dal sesso. In particolare, le
donne sembrano mostrare una maggiore attenzione agli aspetti relazionali
e un’accentuata propensione al ricorso alla delega; al contrario, gli uomini
sono caratterizzati da uno stile di leadership maggiormente accentratore e
autoritario. Emergono, quindi, alcuni aspetti tipici di una cultura mascolina, caratteristica non solo dell’Italia (Marchini, 2000).
Un ulteriore elemento da segnalare è la figura della donna-madre all’interno dell’ambiente lavorativo: la cultura italiana, pur riconoscendo il ruolo cruciale della famiglia nella vita degli individui, ne delega la gestione in
modo quasi esclusivo alle donne; inoltre, anche la cura e la crescita della
prole viene delegata in maggior parte alla madre. Per tale motivo, le discriminazioni nei confronti del successore sono ancora più accentuate quando
si tratta di una donna che è anche madre, tanto che spesso viene posta di
fronte alla scelta esclusiva di dedicarsi al lavoro o alla famiglia. Tale problema sembra non emergere se l’imprenditore è uomo; anzi, dal caso di studio
è emerso come sia più probabile che, in tali circostanze, sia la famiglia ad
adattarsi alle esigenze lavorative del marito/padre piuttosto che l’opposto.
Probabilmente, in riferimento al fatto che alla donna viene richiesto soprattutto di governare la famiglia e che le figlie femmine non vengono cresciute con l’idea di dover succedere al padre nella gestione del business,
spesso la donna-imprenditrice non si riconosce completamente in questo
ruolo o non si sente del tutto adeguata a svolgerlo in modo autonomo; da
82
I family business e la successione padre-figlia nella cultura italiana: un caso di studio
ciò potrebbe, quindi, essere originata la propensione femminile alla delega
e alla necessità di essere affiancata da un’altra figura nella gestione dell’impresa, che sono elementi peculiari dello stile di leadership di una donna.
7. Limiti e indicazioni per ricerche future
Il caso di studio analizzato può essere considerato come uno dei primi tentativi di colmare la carenza di dati e studi incentrati sul fenomeno
della successione padre-figlia nel contesto italiano, in modo particolare per
quanto riguarda le variabili culturali che lo influenzano. Poiché il lavoro
si è focalizzato solamente su un’impresa e in relazione alla letteratura non
ancora sufficiente sul tema, risulta necessario svolgere ulteriori investigazioni, in modo da individuare, tra le variabili che influenzano il processo di
successione padre-figlia, quali sono quelle effettivamente determinate dalle peculiarità della cultura nazionale e quali, invece, rappresentano aspetti
propri del singolo caso analizzato. Infatti, come già sottolineato, la metodologia d’indagine del caso di studio permette unicamente la “generalizzazione analitica” del fenomeno investigato (Becker, 1990; Yin, 2003), ossia
la possibilità di estendere i risultati emersi dallo studio solo a quei casi che
analiticamente presentano caratteristiche nelle variabili rilevanti simili a
quelle riscontrate nel caso analizzato, ma non la generalizzazione statistica.
Inoltre, potrebbero essere identificati ulteriori aspetti non emersi dal presente lavoro a causa delle peculiarità del fenomeno successorio considerato.
Studi futuri potrebbero essere anche volti a individuare se l’impatto di
tali variabili culturali sul processo di successione padre-figlia sia influenzato da altre variabili, quali, ad esempio, la dimensione dell’impresa familiare in questione, la localizzazione in altre regioni italiane o l’appartenenza
dell’impresa a settori diversi da quello analizzato nel caso di studio.
Future ricerche sul tema della successione padre-figlia, non solo di natura qualitativa ma anche quantitativa al fine di favorire la possibilità di
generalizzazione statistica dei risultati, sono pertanto fortemente incoraggiate dagli autori.
Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
Università degli Studi di Bergamo
[email protected]
[email protected]
[email protected]
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Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
I family business e la successione padre-figlia nella cultura italiana: un caso di studio
Riassunto
Bibliografia
L’analisi presentata si propone di individuare la presenza di elementi culturali tipici del
contesto italiano che possano influenzare una successione padre-figlia, tramite l’analisi del
processo successorio di un’impresa italiana, la Nuova Termostampi S.p.A. Tale obiettivo
corrisponde alla seguente domanda di ricerca: quali sono gli elementi culturali tipici
del contesto italiano che possono influenzare il passaggio generazionale nel caso di una
particolare tipologia di successione padre-figlia?
Dallo studio è emerso che il ruolo centrale riconosciuto dalla cultura italiana alla
famiglia determina l’importanza di garantire la continuità dell’impresa familiare; in
particolare, tale necessità è prioritaria e facilita il successore nel suo insediamento al timone
dell’azienda anche nel caso in cui si tratti di una donna che deve operare all’interno di
un settore tradizionalmente riservato agli uomini. L’assunzione della leadership da parte
di una donna, infatti, è risultata essere critica in virtù della propensione dei genitori ad
educare diversamente i figli di sesso maschile e femminile; inoltre, dall’analisi è emerso
che nella cultura italiana è diffusa l’idea che esistano attività e settori produttivi più adatti
a uno o all’altro sesso, così come la convinzione che le modalità di approccio al business, lo
stile di leadership e le capacità mostrate da una persona dipendano non solo dalla propria
individualità ma anche, ed in modo rilevante, dal sesso. In particolare, le donne sembrano
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Abstract
The case-study investigates the succession process characterized by the transition of
leadership from father to daughter, focusing on the relationships among the actors involved, the
way the succession process takes place and the main issues emerged. The aim is to detect the
presence of cultural elements specific to the Italian context that may influence this process.
The central role traditionally played by the family in the Italian culture justifies and
determines the preponderance of the family business on the lives of family members.
This is the reason why the intention of successors to ensure the continuity of the family
business is an overwhelming and decisive motivation to join the company; this motivation
has driven the successor to take the helm of the firm even if she is a woman entering an
industry traditionally reserved to men. The take over of the leadership is even more critical
for women, because of the propensity of parents to educate sons and daughters in different
ways. The emerged empirical evidence seems therefore to suggest that in the Italian culture
there are activities and industries best suited to one sex more than to the other, and there
is diffused conviction that the business approach, the leadership style and the skills of an
individual depend not only on his or her own individuality, but also, significantly, on his or
her gender. In particular, according to the exploratory findings of this case-study, it seems
that women pay more attention to relational aspects and show high propensity to delegate
tasks and activities, while men are characterized by a more centralized and authoritarian
leadership style.
Jel Classification: M1 – Business Administration
Parole chiave (Keywords): successione padre-figlia, impresa familiare, cultura italiana (father-daughter succession, fds, family business, italian culture).
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87
88
89
LIBRI DELLA COLLANA PICCOLA IMPRESA/SMALL BUSINESS
LLIIBBRRII D
L
DEELLLLA
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OLLLLA
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A PPIIC
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L’INTERAZIONE FRA CAPACITÀ D’IMPRESA, OPPORTUNITÀ
RRIIC
IIEESSTTA
CH
H
A FINANZIARIE E PERFORMANCE:
STRATEGICHE,
RISORSE
UN’ANALISI MULTIVARIATA
SU UN CAMPIONE DI PICCOLE E
RRIIC
CH
HIIEESSTTA
A MEDIE IMPRESE OPERANTI NEL MEZZOGIORNO
Da: nome e cognome________________________________________________________________________ _____________________________________________________________________________________ Da: nome e cognome________________________________________________________________________ di Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
qualifica ______________________________________________________________________________ _____________________________________________________________________________________ tel. ________________________ e‐mail ____________________________________________________ qualifica ______________________________________________________________________________ via e numero __________________________________________________________________________ tel. ________________________ e‐mail ____________________________________________________ cap ____________________ città _________________________________________________________ via e numero __________________________________________________________________________ cap ____________________ città _________________________________________________________ A: Editrice Montefeltro srl ‐ Rivista Piccola Impresa/Small
Business CP 122 ‐ 61029 Urbino A: Editrice Montefeltro srl ‐ Rivista Piccola Impresa/Small
Business 1. Introduzione
tel. 335 231378 fax 0722 2800 e‐mail [email protected] CP 122 ‐ 61029 Urbino Sono interessato a: tel. 335 231378 faxstudi
e‐mail
0722 2800 [email protected] Negli
di strategia
d’impresa
l’approfondimento delle ricerche sul ricevere le seguenti informazioni: le capacità ha condotto alla formazione di un vasto corpo teorico, il quale
Sono interessato a: _________________________________________________________________________ tuttavia ignora in buona parte il ruolo che l’ambiente esterno all’impresa
ricevere le seguenti informazioni: _________________________________________________________________________ gioca nel conseguimento di un vantaggio competitivo sostenibile (Barney,
_________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 1991; Peteraf, 1993). Tali considerazioni chiamano in causa la necessità di
_________________________________________________________________________ investigare le modalità secondo le quali le capacità possono essere impie_________________________________________________________________________ pubblicare sulla Rivista PI/SB
un articolo dal titolo gate e sfruttate in relazione all’ambiente esterno. La proliferazione di nu-
_________________________________________________________________
merosi termini e caratterizzazioni dei fattori endogeni all’impresa è stata
pubblicare sulla Rivista PI/SB un articolo dal titolo _________________________________________________________________
peraltro solo di recente adeguatamente accompagnata da una corrispon_________________________________________________________________
_________________________________________________________________ dente attenzione per la verifica empirica delle teorie formulate (Volberda,
_________________________________________________________________
pregandovi di inoltrare questa mia proposta al Comitato di Redazione; 1994). Questa situazione dischiude interessanti spazi per l’applicazione di
_________________________________________________________________ modelli econometrici che sono stati tradizionalmente tipici delle indagini
pregandovi di inoltrare questa mia proposta al Comitato di Redazione; sottoscrivere l’abbonamento per il 2008 (tre numeri) al prezzo di €
40,00; empiriche applicate1.
del processo strategico
che,
prendendo
in
considerazione
l’interazione
fra
capacità, oppor_______/____; _______/____; _______/____; _______/____; _______/____; ricevere i seguenti numeri arretrati
(indicare anno/numero)
tunità
e
risorse
finanziarie
dell’impresa,
accoglie
in
sé
sia
aspetti esogeni
al prezzo di € 15,00 per numero; _______/____; _______/____; _______/____; _______/____; _______/____; sia aspetti endogeni all’impresa. Una volta individuati tali aspetti, si proal prezzo di €
15,00 per numero; cederà
con la determinazione delle variabili indipendenti
acquistare i seguenti volumi della Collana di Piccola Impresa/Small
Business, al ed esplicative e
si effettuerà
un’analisi econometrica : multivariata.
(indicato a pagina 2 di questa brochure)
prezzo di copertina acquistare i seguenti volumi della Collana di Piccola Impresa/Small
Business, al alla domanda:
In particolare, l’obiettivo di questo lavoro è di rispondere
n.____ titolo ________________________________________________ € _____/ ____ (indicato a pagina 2 di questa brochure)
: prezzo di copertina “La strategia
d’impresa che consente di conseguire
un vantaggio competitivo è il
n.____ titolo ________________________________________________ € _____/ ____ risultato dello sfruttamento di fattori endogeni all’impresa,
di fattori esogeni, o
n.____ titolo ________________________________________________ €
_____/ ____ n. ____ titolo ________________________________________________ € _____/ ____ della combinazione di entrambi i fattori? Nel terzo caso,
quali
evidenze empiriche
n.____ titolo ________________________________________________ €
_____/
____ si
possono
portare
a
supporto?”
n. ____ titolo
________________________________________________ €
_____/
____ Allegando alla presente richiesta la copia del tagliando del versamento effettuato sul Per tali motivi si proporrà
uno schema interpretativo
ricevere i seguenti numeri arretrati
(indicare anno/numero) sottoscrivere l’abbonamento per il 2008 (tre numeri) al prezzo di €
40,00; C/C
postale n. 68606425, intestato a Editrice Montefeltro srl ‐ Rivista Piccola Impresa, 1
Esiste ad esempio una vasta letteratura sull’imprenditorialità (Journal of Business Venturing,
Allegando alla presente richiesta la copia del tagliando del versamento effettuato sul le spese di spedizione dei fascicoli ordinati saranno a carico dell’Editore. Entrepreneurship Theory and Practice; Small Business Economics e Strategic Entrepreneurship Journal)
C/C postale n. 68606425, intestato a Editrice Montefeltro srl ‐ Rivista Piccola Impresa, e sull’innovazione (Research Policy, Journal of Management Studies, Management Science e Strategic
le spese di spedizione dei fascicoli ordinati saranno a carico dell’Editore. Management Journal)
che
fornisce interessanti spunti per l’operazionalizzazione delle categorie
Data ____________________ Firma
___________________________________________ logiche in discorso.
Data ____________________ Firma ___________________________________________ Rivista Piccola Impresa/Small Business - n. 1, anno 2011
91
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
Per rispondere a tali quesiti bisogna innanzitutto definire cosa s’intende
per strategia d’impresa. In questo articolo, si definisce la strategia d’impresa come il “processo intenzionale e coerente continuamente volto alla
combinazione delle capacità dell’impresa con le opportunità che ad essa
si presentano” (Dagnino, 2005, pag.58). Tale processo rappresenta altresì
l’oggetto d’indagine di questa ricerca orientata a definire le componenti
che lo caratterizzano. Affinché tale processo si realizzi, non soltanto è necessario che determinate opportunità esistano, ma anche che l’impresa sia
dotata delle risorse finanziarie adeguate per coglierle. Le risorse finanziarie
rappresentano infatti un corridoio privilegiato per l’accesso allo spazio delle opportunità. Esse peraltro influiscono sull’estensione dello spazio delle
opportunità: quanto maggiore (minore) sarà la disponibilità di risorse, tanto maggiore (minore) sarà l’estensione dello spazio delle opportunità.
Prendendo in considerazione un’impresa inserita nell’ambiente in cui
opera, in competizione diretta o indiretta con altre imprese, può essere utile valutare il livello di competitività raggiunto rispetto ai concorrenti e utilizzare tale misura in maniera strumentale per analizzare il processo strategico. A tal riguardo, è possibile definire la competitività dell’impresa come
“la misura dell’abilità che essa possiede nel ridurre il differenziale strategico tra capacità ed opportunità rispetto ai propri concorrenti” (Dagnino,
2005, pag.64). Si desidera così mostrare come i risultati di un’impresa siano
strettamente dipendenti dal livello di competitività che essa raggiunge.
La competitività di un’impresa è infatti influenzata da tre aspetti fondamentali: i fattori interni all’impresa, l’ambiente esterno e le caratteristiche
dell’imprenditore (Man et al., 2002).
In questo scritto, per poter spiegare l’influsso dei fattori interni sulla
competitività e dunque sulle performance delle imprese, si farà riferimento alla teoria sulle capacità dell’impresa (Helfat, 2000, 2003) e all’approccio evolutivo (Nelson, Winter, 1982, 2002). Inoltre, per esplicitare il ruolo
dell’imprenditore e la sua interazione con l’ambiente esterno nel processo
di identificazione e di sfruttamento delle opportunità, si farà riferimento agli studi della scuola economica austriaca (Jacobson, 1992; O’ Driscoll,
Rizzo, 1996). Il ruolo di cerniera fra capacità e opportunità viene pertanto
assunto dall’imprenditore. La motivazione di tale scelta è duplice: in primo
luogo, viene dato rilievo all’imprenditore nei processi creativi di formulazione e implementazione della strategia. L’imprenditore è infatti individuabile come il soggetto creativo (O’Driscoll, Rizzo, 1986) in grado di guidare lo sviluppo dell’impresa e delle sue capacità in armonia con l’evoluzione del contesto esterno, allo scopo di rinnovare continuamente le fonti
del vantaggio competitivo, ossia di cogliere nuove opportunità tramite lo
sfruttamento delle capacità in essere o in divenire dell’impresa. In secondo
luogo, il campione di imprese preso in esame è costituito da piccole e medie imprese, fortemente caratterizzate dalla figura dell’imprenditore (o dal
92
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
gruppo imprenditoriale) che le fonda e le gestisce (entrepreneurial firms). Si
procede dunque all’indagine empirica multivariata su un campione di 120
piccole e medie imprese, operanti nel territorio del Mezzogiorno d’Italia
partecipanti al bando della legge 488/92, al fine di verificare la validità
delle ipotesi che vengono formulate.
L’articolo presenta pertanto due momenti principali fra loro fortemente interconnessi: il primo momento, di natura teorico-interpretativa, relativo
alla definizione del processo strategico che accoglie, integrandoli, aspetti
esogeni ed endogeni all’impresa. Il secondo momento, di natura empiricoquantitativa, teso a costruire un modello econometrico utile per esaminare il
risultato del comportamento di uno specifico campione di imprese.
Si dà conto della struttura dello studio. Nel secondo paragrafo si procede a una classificazione del termine capacità per sistematizzare i numerosi
contributi emersi in letteratura e identificare la definizione più appropriata
per il modello teorico che si vuole presentare soprattutto in relazione alle
PMI. Nel terzo paragrafo s’illustra il processo strategico costituito da fattori esogeni ed endogeni all’impresa mentre, nel quarto paragrafo, viene
presentato il modello econometrico per l’analisi multivariata delle modalità per ridurre il differenziale strategico fra gli elementi che costituiscono il
processo in analisi e si formulano le ipotesi. Nel quinto paragrafo vengono
presentati e discussi i risultati ottenuti dall’analisi multivariata del campione di imprese di piccola e media dimensione operanti nel Mezzogiorno.
Nella sesta e ultima sezione si propongono le conclusioni e si discutono le
limitazioni e i possibili sviluppi dello studio.
2. La classificazione e la definizione di capacità d’impresa accolta in
questo studio
L’interesse che l’indagine sulle capacità ha suscitato in ambito accademico e il sorgere di differenti specificazioni ha condotto ad una proliferazione di definizioni. Tale circostanza ha contribuito a dare origine a un
numero assai vario di categorie logiche da applicare a vari tipi d’impresa
e tuttavia ha generato, al contempo, una sorta di torre di babele terminologica (si veda la Tabella 1). Al fine di sistematizzare le varie definizioni del
termine capacità presenti in letteratura, si costruiranno due classificazioni
che rispondono a chiavi di lettura predefinite. Tali classificazioni consentono di raggruppare definizioni differenti per gruppi omogenei secondo una
logica che tiene conto, da un lato, del grado di intenzionalità che i soggetti
coinvolti nei processi di sviluppo e sfruttamento delle capacità mostrano
e, dall’altro, della fase di sviluppo della capacità e del livello individuale
o organizzativo interessato a tale fase. Si propongono due tabelle che raggruppano tali categorie logiche secondo l’ordine indicato.
93
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
Il concetto di serendipità è un neologismo ispirato al racconto dei “Tre prìncipi di Serendippo”
e si ricollega al processo di scoperta di qualcosa non cercata e imprevista (Merton, Barber, 2006)
2
94
Tab. 1 - Classificazione del concetto di capacità in relazione alla sua fase di sviluppo esplorazione, sfruttamento ) e all’intenzionalità dei soggetti che partecipano a tale fase
Intenzionale
Esplorazione
Non Intenzionale
Considerando il comportamento delle imprese in relazione alle dinamiche competitive, è possibile distinguere differenti fasi nelle quali si
sviluppano e si sfruttano determinate capacità. In particolare, possono
identificarsi una fase iniziale di esplorazione e una fase successiva di sfruttamento. Nella prima fase, l’impresa cerca nuove modalità per competere che le consentano di raggiungere un vantaggio competitivo rispetto ai
concorrenti. Tale processo può essere intenzionale e dunque diretto ad un
risultato specifico, o altresì casuale, ovvero governato da un certo grado di
serendipità2, che conduce dunque a risultati non attesi e non ricercati. La
fase successiva all’esplorazione è la fase dello sfruttamento, durante la quale
il comportamento dell’impresa è diretto all’utilizzazione e al miglioramento della “ricetta competitiva” individuata (Huygens et al., 2001). Anche
in questa fase è possibile riconoscere un’intenzionalità maggiore o minore
nell’impiego delle capacità. Quando tale sfruttamento è infatti finalizzato
per il raggiungimento di certi livelli di efficacia ed efficienza nello svolgimento di determinate attività, il comportamento dei soggetti che mettono
in atto tali attività è intenzionale e controllato. Quando invece tale processo di sfruttamento diviene automatico e routinizzato, il comportamento
dei soggetti che costituiscono l’impresa nell’espletamento di tali attività
è caratterizzato dall’assenza di intenzionalità e dalla ripetizione quasi inconscia di determinate routine. Tenendo conto del fattore “intenzionalità”
nel comportamento dei soggetti in relazione alle differenti fasi di sviluppo
delle capacità, è possibile distinguere quattro differenti approcci al concetto di capacità che si caratterizzano per una maggiore o minore incidenza
del fattore suddetto e quindi per una maggiore o minore controllabilità dei
processi che generano e sfruttano le capacità dell’impresa.
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
- Capacità come attività specializzate, strumentali
al raggiungimento del vantaggio competitivo
(Richardson, 1972)
- Abilità necessarie per competere nel mercato
ipercompetitivo (D’Aveni, 1994)
- Capacità come abilità dinamiche che consentono all’impresa di creare nuovi prodotti e
processi in risposta a mutamenti dell’ambiente competitivo (Teece et al., 1997)
Sfruttamento
- Capacità come punti di forza che l’impresa ha
sviluppato e possiede (Andrews, 1971)
- Capacità come abilità organizzativa (Nelson,
1991)
- Capacità come risultato del comportamento competitivo dell’impresa (Henderson,
Mitchell, 1997)
- Capacità come best practices
(Eisenhardt, Martin, 2000)
- Capacità come abilità dell’impresa a generare - Capacità come abilità dell’impresa a creare
nuove combinazioni di conoscenza e a sfrut- valore attraverso la trasformazione di input
tare tale conoscenza in nuove modalità tecno- in output, fondata sulla produzione e sullo
sfruttamento della conoscenza (Grant, 1996)
logiche (Kogut, Zander, 1992)
- Capacità come attività per la combinazione - Capacità come modelli cognitivi stabili di atdelle risorse attraverso processi organizzativi tività collettive attraverso le quali l’impresa
organizza e modifica le proprie routine ope(Amit, Schoemaker, 1993)
- Capacità come piattaforme che creano un rative (Zollo, Winter, 2002)
set di risorse generiche, che rappresentano - Capacità organizzative come routine di ordiinvestimenti in opportunità future (Kogut, ne superiore, necessarie per la combinazione
Kulatilaka, 2001)
delle risorse e per l’identificazione delle possibili opzioni per produrre determinati output (Winter , 2003)
Nei due quadranti posti nella parte superiore della Tabella 1, è possibile
individuare le definizioni di capacità che sottintendono ad un ruolo attivo
dei soggetti che creano, sviluppano e sfruttano le stesse. Nella parte inferiore della Tabella 1, si collocano invece le definizioni di capacità come il
risultato di processi di esplorazione e sfruttamento non intenzionali, caratterizzati da percorsi di creazione e sviluppo path dependent difficilmente decodificabili. In particolare, tali definizioni considerano le capacità come attività
fondate sulla conoscenza tacita e sull’esperienza, che vengono messe in
atto a livello quasi inconscio e automatico. Facendo riferimento ad altre
definizioni di capacità presenti in letteratura e confrontandole con quelle
appena classificate, è possibile identificare una distinzione fra individui
ed organizzazioni coinvolti nel processo di sfruttamento delle capacità
che inseriamo in Tabella 2. Nella Tabella 2 utilizziamo tale distinzione e
la giustapponiamo alla distinzione fra attività intenzionale e attività non
intenzionale. Tale classificazione pone dunque in rilievo il coinvolgimento
individuale o organizzativo nei processi di utilizzazione delle capacità, e
la tipologia di tale coinvolgimento. Come palesa la Tabella 2, è possibile
identificare, nei quadranti superiori, le definizioni di capacità che presuppongono un coinvolgimento intenzionale degli individui e delle organizzazioni. Nella parte inferiore è invece possibile individuare le definizioni
di capacità, utilizzate a livello individuale e organizzativo, in maniera non
intenzionale.
95
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
Tab. 2 - Classificazione del concetto di capacità in relazione ai soggetti coinvolti nel processo di sfruttamento della capacità (livello individuale, livello organizzativo) e all’internazionalità che tali soggetti mostrano
nell’utilizzo di tali capacità
Non Intenzionale
Intenzionale
Livello individuale
- Capacità come attività specializzate, strumentali al raggiungimento del vantaggio competitivo
(Richardson, 1972)
- Processi che i manager mettono in atto per combinare le loro abilità al fine di creare prodotti e servizi redditizi (Clark, Fujimoto,1991)
- Capacità come abilità dinamiche che consentono
all’impresa di creare nuovi prodotti e processi in
risposta a mutamenti dell’ambiente competitivo
(Teece et al. 1997)
- Processi con i quali i manager ricombinano varie
parti dell’impresa al fine di generare nuove combinazioni di risorse tra i vari business (Eisenhardt,
Galunic, 2000)
Livello organizzativo
- Capacità come punti di forza che l’impresa ha sviluppato e possiede (Andrews, 1971)
- Capacità come abilità organizzativa (Nelson, 1991)
- Abilità necessarie per competere nel mercato ipercompetitivo (D’Aveni, 1994)
- Capacità come best practices (Eisenhardt, Martin, 2000)
- Capacità come attività per la combinazione delle
risorse attraverso processi organizzativi (Amit,
Schoemaker, 1993)
- Abilità organizzative utilizzate per mettere in atto
determinati compiti coordinati, utilizzando risorse organizzative per l’ottenimento di determinati
obiettivi (Helfat, 2003)
- Capacità come apprendimento dagli errori commessi (Finkelstein, 2003)
- Capacità intese come abilità a rilevare e modellare
opportunità e minacce. (Teece, 2007)
- Capacità come abilità dell’impresa a generare - Capacità come modelli cognitivi stabili di attività
nuove combinazioni di conoscenza e a sfruttare collettive attraverso le quali l’impresa organizza
tale conoscenza in nuove modalità tecnologiche e modifica le proprie routine operative (Zollo,
(Kogut, Zander, 1992)
Winter, 2002)
- Capacità come abilità dell’impresa di creare valo- - Capacità organizzative come routine di ordine sure attraverso la trasformazione di input in output, periore, necessarie per la combinazione delle risorfondata sulla produzione e sullo sfruttamento del- se e per l’identificazione delle possibili opzioni per
la conoscenza (Grant, 1996)
produrre determinati output (Winter , 2003)
Come accennato nella sezione introduttiva, la teoria delle capacità
dell’impresa conferisce a questo studio il veicolo teorico adatto per analizzare i fattori endogeni che risultano determinanti nel raggiungimento
di un vantaggio competitivo. Sulla scorta di quanto discusso, viene accolta
in particolare la definizione di capacità organizzativa, intesa quale “know
how che permette all’impresa di sviluppare determinate attività, e cioè la
creazione di prodotti tangibili, l’offerta di servizi, e lo sviluppo di nuovi
prodotti e servizi” (Dosi et al., 2000). È utile tuttavia aggiungere a tale definizione il ruolo intenzionale giocato dal soggetto (o dai soggetti) che pone
(pongono) in essere tali attività, che è di cruciale importanza nel caso delle
PMI. Diviene in tal modo possibile distinguere le capacità dalle routines organizzative intese, come la teoria evolutiva addita, quali azioni compiute inconsciamente senza un obiettivo stabilito e consapevole (Dosi et al., 2000).
Con riferimento al modello empirico che si utilizzerà nella quarta parte
di questo lavoro, torna oltremodo utile la definizione di “capacità organizzativa” (Helfat, 2000, 2003), poiché si analizzeranno in buona misura PMI
operanti in settori di attività relativamente stabili quali il settore manifatturiero e quello dei servizi. Dal momento che il campione prende in esame
imprese di dimensione media e piccola, è inoltre opportuno far riferimento
al ruolo delle capacità organizzative in relazione alle strategie delle piccole
imprese (Marchini, 2005; pp.176 e segg.). Esse, non potendo giocare sulla
96
dimensione e sulle economie di scala, come di norma avviene per le imprese di dimensione maggiore hanno la necessità vitale di scegliere il mix
più equilibrato fra capacità organizzative di cui sono già dotate e di quelle
potenzialmente accessibili all’esterno (Romijn, Albaladejo, 2002).
3. Il processo strategico quale allineamento continuo fra spazio delle
capacità e spazio delle opportunità per ridurre il differenziale strategico
3.1 I fattori endogeni all’impresa nella definizione dello spazio delle capacità
Uno dei principali problemi di ricerca negli studi di strategia d’impresa riguarda la spiegazione dell’eterogeneità rilevabile tra le performance
delle imprese. Le fonti di tale eterogeneità sono state variamente spiegate
facendo riferimento alle condizioni iniziali di un’impresa, e in particolare
alle allocazioni iniziali di risorse e capacità (Cockburn et al., 2000). In altri
termini, sono i fattori endogeni all’impresa, in particolare le risorse e le
capacità, a spiegare le differenze fra le performance delle imprese. Così,
analizzando le componenti endogene dell’impresa, è possibile rilevare che
essa è un insieme di fattori tangibili e intangibili (Galende, De La Fuente, 2003). Tali fattori sono ulteriormente identificabili in risorse e capacità
combinate e sfruttate per conseguire un vantaggio competitivo. Le capacità
sono particolari abilità dell’impresa ad impiegare risorse, generalmente in
combinazione, utilizzando processi organizzativi per ottenere un determinato risultato (Amit, Schoemaker, 1993).
Secondo l’approccio alle capacità dell’impresa, la competitività è di conseguenza il risultato delle risorse e delle capacità di cui l’impresa dispone
e delle modalità mediante le quali esse vengono impiegate e sfruttate. Nel
caso delle PMI, a una comprensibile minor dotazione iniziale di risorse e
capacità rispetto alle grandi imprese, la letteratura di norma contrappone il
corredo positivo di talune capacità “uniche” potenzialmente alla base dello
sviluppo di vantaggi competitivi: il capitale umano, il capitale relazionale, il capitale paziente e infine gli elementi idiosincratici della struttura di
governo non di rado family-based (per un’applicazione della teoria delle risorse e delle capacità alle PMI, si vedano rispettivamente Rangone, 1999 e
Sirmon, Hitt, 2003).
La prospettiva delle capacità, pur evidenziando l’importanza dei fattori
endogeni all’impresa, ignora l’esistenza dell’influsso che l’ambiente esterno genera sull’impresa e sui risultati che essa consegue. L’impresa non opera infatti in un ambiente isolato, ma si trova ad interagire con un ambiente
fortemente dinamico, tecnologicamente complesso ed integrato, soggetto
a continue evoluzioni ed in grado di influenzare i comportamenti che essa
può mettere in atto. Gli studi di strategia d’impresa sono stati caratterizzati
97
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
da un altro approccio, complementare al primo, in grado di comprendere adeguatamente l’influsso dei fattori esogeni all’impresa sui risultati che
essa può ottenere. L’approccio alternativo a quello delle capacità, ovvero
il paradigma Struttura-Comportamento-Performance (d’ora in poi SCP), si
concentra essenzialmente sull’analisi dei fattori esogeni all’impresa (Porter, 1980, 1981). Com’è noto, secondo tale prospettiva la competitività di
un’impresa è il risultato soprattutto della combinazione di fattori esogeni
ad essa, ovvero dipende dalle caratteristiche della struttura del settore nel
quale l’impresa opera.
Si può facilmente intuire come ambedue gli approcci appena citati non
possano considerarsi né completi né definitivi, in quanto forniscono strumenti limitati per spiegare la competitività e la performance di un’impresa.
È possibile allora proporre un terzo approccio integrativo che si posiziona
sull’intersezione fra le due prospettive. In tal senso, la competitività dell’impresa è definibile come il risultato di fattori endogeni, di fattori esogeni e
delle caratteristiche dell’imprenditore (Man et al., 2002). Sotto tale luce, la
strategia competitiva dell’impresa può essere definita in termini di “continua creazione di possibilità per colmare il differenziale strategico fra lo
spazio delle capacità e lo spazio delle opportunità” (Dagnino, 2005, pag.58),
intendendo lo spazio delle capacità come l’ambito nel quale sono compresi
i fattori endogeni all’impresa e, specularmente, lo spazio delle opportunità
come l’ambito nel quale sono compresi i fattori esogeni all’impresa.
In particolare, la strategia viene definita come processo teso a ridurre
il differenziale strategico fra lo spazio delle capacità e lo spazio delle opportunità, si propongono i concetti di spazio delle capacità e spazio delle opportunità e si contraddistingue il ruolo che l’imprenditore gioca nel
combinare i fattori che costituiscono tali ambiti. Lo spazio delle capacità è definibile come “uno spazio complesso, fluido, evolutivo, nel quale
sono presenti tutte le possibili capacità strategiche accessibili da parte di
una data impresa in un certo punto dello spazio-tempo” (Dagnino, 2005,
pag. 59). Esso comprende tutte le capacità, sia interne sia esterne, alle quali
un’impresa può accedere in un momento definito. Essendo composto da
un numero “n” di capacità e variando da un periodo di tempo all’altro, lo
spazio di capacità può essere rappresentato come un spazio n-dimensionale (Dagnino, 2003; 2005). Può essere rappresentato metaforicamente come
una scatola trasparente composta da capacità di vario tipo, suddivisibile
inoltre in sottospazi di capacità.
L’impresa che ha accesso a tale “scatola delle capacità” può operare secondo tre specifiche attività di apprendimento: la ricerca delle capacità;
l’acquisizione delle capacità; e l’applicazione, la combinazione o la ricombinazione delle capacità. Tale spazio è inoltre rappresentabile secondo un
ordine preciso che può seguire due differenti logiche. Si può fare infatti riferimento all’architettura stessa delle capacità (Grant, 1991) suddividendo
98
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
lo spazio delle capacità in sub-spazi dove sono presenti le capacità secondo
un ordine gerarchico, dalla più elementare alla più complessa. Oppure lo
spazio delle capacità può essere suddiviso in sub-spazi nel cui alveo sono
raggruppate le capacità in determinate fasi del loro stadio evolutivo secondo il cosiddetto capability life cycle (Helfat, Peteraf, 2003). In tal modo,
all’interno di ciascun sub-spazio, saranno raggruppate le capacità che attraversano un determinato stadio del loro ciclo evolutivo; si potranno identificare così sub-spazi che accolgono capacità nel loro stadio di fondazione,
di maturità, di sviluppo o nelle fasi successive di ritiro, riduzione, rinnovo,
replicazione, reimpiego o ricombinazione.
3.2 I fattori esogeni all’impresa nella definizione dello spazio delle opportunità
Alcuni studi pionieristici di strategia d’impresa proponevano un modello di analisi che conduceva a identificare le opportunità e le minacce
presenti nell’ambiente e a collegare le opportunità individuate con i punti
di forza dell’impresa minimizzando i punti di debolezza (analisi SWOT).
In tale prospettiva, è di primaria importanza per chi dirige l’impresa analizzare l’ambiente in cui essa opera per identificare le opportunità, che costituiscono i principali incentivi all’azione imprenditoriale, e possono essere definite in vario modo secondo le proprie caratteristiche (Andrews,
1971; Mintzberg et al., 1998). Le opportunità possono costituire finestre strategiche, che si aprono e si chiudono regolando le attività imprenditoriali3.
Peraltro, secondo l’approccio “strutturalista” del paradigma SCP prima
ricordato (Porter, 1981), le azioni che un’impresa intraprende scaturiscono da eventi esterni che la orientano verso specifiche direzioni. Tali eventi
esterni possono essere di varia natura e possono influire in vario modo sui
percorsi imprenditoriali. In siffatta prospettiva, l’ambiente esogeno all’impresa esercita un influsso determinante sui comportamenti che essa può
adottare e, per tale motivo, diviene fondamentale conoscere e analizzare
costantemente l’ambito in cui l’impresa opera.
Al pari dello spazio delle capacità, è possibile pensare che tutte le opportunità percepibili da un’impresa siano raggruppabili in un determinato
spazio delle opportunità. Anch’esso, come lo spazio delle capacità, è uno
spazio complesso, fluido evolutivo, nel quale sono presenti tutte le possibili opportunità strategiche accessibili da parte di una data impresa in un
certo punto dello spazio-tempo” (Dagnino, 2005, pag. 62). Atteso che esso
è composto da un numero n di opportunità e cambia da un periodo all’al3
In particolare, le attività di investimento devono coincidere quando tali finestre si aprono, mentre i disinvestimenti devono essere attuati quando le stesse si chiudono. Esse sono anche possibilità per l’impiego di risorse (Penrose, 1959), o ancora situazioni in cui un soggetto può creare un
nuovo modello di mezzi-fini per ricombinare risorse al fine di ottenere un profitto (Shane, 2003).
99
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
tro, lo spazio delle opportunità può essere raffigurato anch’esso come uno
spazio a n-dimensioni. Tale spazio è inoltre suddivisibile in sub-spazi, nei
quali si raccolgono opportunità di diverso tipo.
È inoltre possibile proporre una suddivisione delle opportunità all’interno dello spazio stabilito, secondo una logica ordinata. Utilizzando la
struttura del percorso evolutivo seguito dalle capacità e la suddivisione in
stadi differenti, lo spazio delle opportunità, al pari di quello delle capacità,
è suddivisibile in sub-spazi relativi a differenti stadi. Il primo stadio è identificabile con la scoperta ed è speculare alla fase della fondazione rilevata
per le capacità. In questo stadio, le opportunità vengono percepite grazie
all’alertness kirzneriana (Kirzner, 1973, 1979) e giudicate sfruttabili o meno.
L’imprenditore in tale fase entra in possesso di informazioni superiori o è
in grado di produrre nuove informazioni capaci di creare una nuova opportunità (Keh, Foo, Lim, 2002, Alvarez, Barney, 2010). La fase successiva
corrisponde alla fase dello sviluppo, durante la quale un’opportunità viene
colta e sfruttata. Segue la fase della maturità in cui un’opportunità si avvicina al suo esaurimento e corrisponde ad una fase di pieno sfruttamento
dell’opportunità. Dopo il succedersi di tali fasi, il ciclo di vita delle opportunità, al pari di quello delle capacità, può intraprendere nuove strade. La
fase della maturità di un’opportunità può esaurirsi o rinnovarsi grazie al
sopraggiungere di nuove informazioni. Tali informazioni possono infatti
concedere all’imprenditore la possibilità di identificare nuove opportunità creando nuovi spazi per agire, di riutilizzare l’opportunità ponendo in
essere azioni diverse (impiegando capacità differenti), di sfruttare nuovamente l’opportunità replicando le azioni già effettuate, e, infine, di riutilizzare l’opportunità ricombinando l’informazione già ottenuta (Alvarez,
Barney, 2007). La suddivisione dello spazio di opportunità in sub-spazi
speculari a quelli identificati nello spazio delle capacità facilita la combinazione che può essere attuata tra lo spazio delle capacità e lo spazio delle
opportunità, che è alla base del processo strategico.
3.3 La strategia d’impresa come continua creazione di possibilità tese a ridurre il
divario strategico e la funzione dell’imprenditore
È a tal punto utile richiamare in breve e qualificare il concetto di strategia d’impresa accolto in questo lavoro e presentare gli elementi che lo
costituiscono. La strategia d’impresa è stata definita come un processo
guidato dall’azione dell’imprenditore; tale processo viene inteso come lo
svolgimento di un insieme di fatti o fenomeni che hanno una connessione
tra loro e che danno luogo ad un’evoluzione organica. Essa è dunque raffigurabile attraverso uno schema interpretativo processuale (Pettigrew, 1992),
composto da una successione di fasi, che si susseguono grazie all’azione
dell’imprenditore, rivolta alla continua creazione di possibilità per colma100
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
re il citato differenziale strategico. In tal prospettiva la strategia d’impresa
viene osservata quale “momento di continua generazione di possibilità di
gap-bridging è può essere definita idonea allorquando riesce continuamente e adattivamente a porre le imprese nelle condizioni di colmare il differenziale strategico fra capacità e opportunità” (Dagnino, 2005, pag. 58).
L’imprenditore pone in atto percorsi di sviluppo strategico delle imprese
tramite il mantenimento di congruenza eso-endogena nella sua superficie
competitiva. È possibile rilevare come il processo strategico manifesti tre
fasi principali: (a) la prima fase nel quale l’imprenditore acquisisce informazioni sull’ambiente esterno per identificare le opportunità e il relativo
spazio che le contiene; (b) la seconda fase in cui l’imprenditore, mediante
l’analisi dello spazio delle capacità, identifica le capacità necessarie al fine
di cogliere le opportunità identificate; (c) la terza fase, nella quale l’imprenditore procede alla combinazione tra capacità e opportunità al fine di
ridurre il differenziale strategico esistente fra lo spazio delle capacità e lo
spazio delle opportunità.
È a tal punto opportuno singolarizzare tre caratteristiche nodali degli
spazi delle capacità e delle opportunità che influiscono direttamente sul
processo strategico conferendogli determinate peculiarità. Si è consapevoli
che l’analisi empirica contenuta nei successivi paragrafi 4 e 5 non potrà
cogliere nella loro pienezza tutti i risvolti, e in specie quelli che concernono
le caratteristiche coevolutive, degli spazi delle capacità e delle opportunità.
Si considera al contempo che è utile prenderli in esame nel seguito per conferire robustezza e comprensività al framework teorico proposto. Gli spazi
delle capacità e delle opportunità manifestano infatti:
(a) interazione strategica o complessità. Essi sono elementi di un sistema
complesso che presenta la duplice proprietà d’interazione spaziale e
temporale. L’interazione spaziale implica che una parte di un sistema
influisce sulle altre parti. Dal momento che lo spostamento di un elemento è strettamente associato nel tempo con la risposta dell’altro elemento e così via, l’interazione fra spazi delle capacità e delle opportunità è altresì temporale. Osservati in un contesto dinamico, i processi
di coevoluzione fra capacità e opportunità mostrano interrelazione sia
spaziale sia temporale;
(b) natura coevolutiva. Dal momento che evolvono nell’ambito di un processo che comprende condizioni di evoluzione simultanea che possono
persistere anche per lunghi periodi di tempo, essi mostrano proprietà
coevolutive (Lewin, Volberda, 1999). Il processo coevolutivo rende preziosa per l’imprenditore la possibilità di gestire la completa combinazione dello spazio delle capacità con lo spazio delle opportunità dando
luogo ad una situazione che risulta di massima corrispondenza, in cui il
differenziale strategico è ridotto a zero, o di massima dissonanza in cui
il differenziale strategico è massimo o tendente a infinito;
101
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
(c) meccanismi di retroazione positivi o di feedforward. Lo spazio delle capacità influenza sistematicamente lo spazio delle opportunità e che questo, a sua volta, influenza lo spazio delle capacità. Tali meccanismi di retroazione positivi si verificano anche all’interno di ciascuno spazio, nel
senso che ogni capacità influenza e viene influenzata dalle altre capacità
e, specularmente, ogni opportunità influenza e viene influenzata dalle
altre opportunità. L’interazione tra lo spazio delle capacità e lo spazio
delle opportunità “porta di norma con sé un processo di apprendimento
cumulativo nel quale gli attori coinvolti apprendono l’uno dall’altro, si
adattano alle circostanze mutevoli, sviluppano ed evolvono specifiche
routine ed euristiche organizzative, e cumulano memoria delle situazioni delle loro azioni passate” (Dagnino 2005, pag. 66).
3.4 La disponibilità di risorse finanziarie quale vincolo per accedere allo spazio
delle opportunità
Lo sfruttamento di una determinata opportunità imprenditoriale richiede l’acquisizione e la ricombinazione di risorse prima della vendita
dell’output ottenibile da tale ricombinazione (Shane, 2003). In altri termini,
per sfruttare un’opportunità è necessario finanziarne l’utilizzazione. Gli
imprenditori devono dunque possedere risorse finanziarie adeguate per
realizzare le loro opportunità (Alvarez, Barney, 2007). Tale requisito conduce a introdurre la distinzione fra possibilità e opportunità. In particolare, i
concetti di possibilità produttiva e delle risorse a essa necessarie vengono
introdotti da Edith Penrose (1959). Secondo la Penrose: “Le attività produttive di un’impresa sono governate dalle opportunità produttive, che comprendono tutte le possibilità produttive che gli imprenditori vedono e dalle
quali possono trarre vantaggio”. Le opportunità produttive sono dunque
“quelle possibilità di impiego di risorse che gli imprenditori e i manager di
un’impresa possono vedere e che vogliono o possono cogliere”. L’impiego
di una determinata risorsa dipende altresì da tre fattori (Moran, Ghoshal,
1999):
- deve essere possibile l’accesso a quella determinata risorsa;
- deve essere motivato, cioè deve esservi un soggetto che ne trae vantaggio;
- deve essere percepito come possibile o realizzabile.
L’impresa opera in contesti nei quali acquisisce informazioni su possibili impieghi di risorse. Tali impieghi divengono opportunità da cogliere
quando l’impresa ha accesso alle risorse, può trarre vantaggio dallo sfruttamento di quel tipo di risorse, ed infine il loro impiego è realizzabile.
In ultima analisi, le opportunità corrispondono a quella parte più vasta
di possibilità che gli imprenditori percepiscono, sono in grado di sfruttare in quanto le risorse e le competenze necessarie alla realizzazione delle
102
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
nuove combinazioni produttive sono accessibili e per le quali vi sia la motivazione da parte dell’imprenditore a coglierle (Mocciaro Li Destri, 2005).
È dunque possibile affermare che l’acquisizione di risorse rappresenta
un requisito fondamentale per lo sfruttamento di un’opportunità. Nella
logica dell’approccio teorico-integrativo proposto, questo significa che, per
accedere allo spazio delle opportunità, l’impresa e l’imprenditore devono
altresì poter accedere alle risorse finanziarie necessarie per effettuare l’investimento, e che tali risorse influiscono direttamente sull’estensione dello
spazio di opportunità. In altri termini, quanto maggiore è la disponibilità
di risorse, tanto maggiore sarà lo spazio di opportunità al quale si avrà
accesso. Di conseguenza, quanto minore è la disponibilità di risorse, tanto
minore sarà lo spazio di opportunità al quale si avrà accesso. La disponibilità di risorse finanziarie si riflette quindi sul processo strategico da mettere
in atto, rendendo possibile (o meno) lo sfruttamento di determinate opportunità attraverso le capacità che l’impresa possiede.
È stato dimostrato in letteratura (Shane, 2003) che le nuove imprese con
maggior disponibilità di capitale hanno più possibilità di sopravvivere,
crescere e divenire profittevoli in quanto il capitale rappresenta una risorsa
fondamentale da sfruttare in circostanze avverse. La disponibilità di capitale consente peraltro di superare le restrizioni generate dalla poca liquidità che gli imprenditori possono incontrare nel cogliere le opportunità.
L’evidenza empirica conferma infatti l’affermazione che un’adeguata
dotazione di risorse è importante per lo sfruttamento di opportunità imprenditoriali. Scott Shane (2003) propone numerosi esempi che mostrano
come la disponibilità di capitale consenta l’accesso alle opportunità imprenditoriali: le imprese che hanno più facile accesso al capitale mostrano
infatti una crescita maggiore e più veloce per la possibilità di effettuare
investimenti più elevati che garantiscono uno sviluppo consistente. Le
nuove imprese che posseggono maggiori risorse finanziarie manifestano
inoltre tassi di profitto più elevati rispetto alle imprese con dotazione inferiore. Quanto maggiori sono le opportunità da cogliere in base alle risorse
e alle capacità disponibili all’impresa, tanto maggiori saranno i risultati
ottenibili in termini competitivi. Esiste inoltre un’ampia letteratura che affronta il tema della natura delle risorse finanziarie e delle modalità con cui
esse influenzano le capacità di cogliere opportunità di crescita (Audretsch,
Elston, 2002; Cleary, 2006; Fazzari, Hubbard, Petersen, 2000; Kaplan, Zingales, 1997). Tale ambito di ricerca inerente all’influsso dei vincoli finanziari sulle decisioni di investimento e di conseguenza sulla crescita e sullo
sviluppo delle imprese ha evidenziato la rilevanza, per la realizzazione di
strategie orientate verso l’accrescimento del valore, della disponibilità per
le imprese di mezzi finanziari, in termini di fonti interne/esterne. Allo stesso modo è estremamente rilevante l’effetto del differenziale di costo delle
stesse fonti di finanziamento.
103
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
La presenza di asimmetrie informative, costi di agenzia e costi di transazione, rendendo problematico l’accesso al mercato, produce sistematicamente un aumento del costo del finanziamento esterno, rendendolo
meno conveniente rispetto alle risorse finanziarie generate internamente.
L’imperfetta sostituibilità delle fonti di finanziamento rende rilevante l’interrelazione tra investimenti e fattori finanziari; un aumento delle risorse
interne autogenerate, diminuendo la porzione di growth opportunity da finanziare con fondi esterni, agevola la realizzazione di investimenti senza
dover ricorrere a fonti di finanziamento costose. Allo stesso modo, un’impresa, non disponendo di sufficienti disponibilità finanziarie interne, potrebbe essere costretta ad abbandonare progetti d’investimento profittevoli
a causa del maggiore costo delle risorse finanziarie esterne, trovandosi, di
conseguenza, in una situazione di capital rationing (La Rocca, 2007).
Nel paragrafo che segue si proverà a operazionalizzare l’azione delle
variabili proposte e comprenderne gli effetti mediante l’analisi multivariata di un campione di PMI operanti nel Mezzogiorno.
4. Evidenze empiriche del processo strategico attraverso l’analisi multivariata di un campione di piccole e medie imprese operanti nel Mezzogiorno d’Italia
In questo paragrafo e nel prossimo, in armonia con le premesse teoriche
dell’analisi sin qui svolta, si procede alla verifica empirica del framework interpretativo presentato nelle precedenti parti dell’articolo. In primo luogo,
si presenta il campione di analisi e la modalità di raccolta dei dati, viene
poi descritto il modello econometrico utilizzato per l’analisi multivariata
cross-sectional del campione di imprese operanti nel Mezzogiorno. Infine,
si espongono e si discutono i risultati ottenuti. Tale impostazione risulta
logicamente coerente con i principi degli studi di metodologia della ricerca
economico-aziendale applicata alle imprese di piccola e media dimensione
(Fayolle, 2004; Ferraris Franceschi, 1993).
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
vamente nelle aree di Pozzuoli, Manfredonia, Gioia Tauro, Crotone, Taranto, Brindisi, Gela e Siracusa. Il campione prescelto è composto da 120 unità,
di cui 60 ammesse all’agevolazione e 60 non ammesse. Di queste 120, le
imprese che hanno risposto al questionario sono il 58,33%, ossia 70, di cui
30 ammesse e 40 non ammesse al finanziamento. Le 30 imprese ammesse
all’agevolazione rappresentano in particolare il campione di osservazione,
mentre le 40 imprese non ammesse costituiscono il campione di controllo.
Il campione è apparso coerente con gli obiettivi dell’analisi dal momento che le imprese prese in esame sono tutte accomunate dall’aver fatto domanda di finanziamento agevolato per ottenere “risorse fresche” al fine
di effettuare nuovi investimenti e dall’essere localizzate nel Mezzogiorno
d’Italia. Peraltro, le PMI indagate vengono definite tali in quanto rientrano
nei parametri di classificazione dell’Unione Europea4. Peraltro, il tessuto
economico del Mezzogiorno, ancorché frammentato, è tradizionalmente
caratterizzato da imprese di dimensione medio-piccola e micro. In particolare, le imprese beneficiarie del contributo sono considerate le imprese
che mettono in atto il processo strategico teso a ridurre il differenziale strategico tra lo spazio delle capacità e lo spazio delle opportunità. Esse sono
in grado di identificare determinate opportunità, posseggono un livello
adeguato di capacità per sfruttarle potenzialmente e le risorse finanziarie
necessarie per sfruttarle concretamente. L’accesso alle risorse finanziarie
e il loro costo influiscono infatti sulle scelte imprenditoriali dei soggetti
economici (Boháček, 2003). Le imprese non beneficiarie sono invece considerate un gruppo di controllo per verificare la validità di ciascuna variabile
esplicativa del processo strategico definito in questo articolo. La Tabella 3
mostra la ripartizione territoriale delle imprese rispondenti al questionario.
Tab. 3 - Ripartizione territoriale delle imprese rispondenti all’analisi
Area di Crisi
Pozzuoli
Taranto
Manfredonia
Brindisi
Gioia Tauro
Crotone
Gela
Siracusa
4.1 Selezione e descrizione del campione e modalità di raccolta dei dati
Al fine di raccogliere i dati attraverso la somministrazione di un questionario, è stato selezionato un campione di piccole e medie imprese costruito attraverso l’utilizzazione delle graduatorie pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 54 del 06/03/1999, concernenti
le iniziative ammissibili alle agevolazioni previste per le aree di crisi del
programma operativo multiregionale “Industria, artigianato e servizi alle
imprese”, 1994/1999, relativo al quarto bando di attuazione della legge
488/92. L’universo delle imprese è costituito da 241 unità operanti rispetti104
Ammesse
Non Ammesse
Totale
Universo
7
4
2
3
4
5
2
3
8
6
4
3
5
5
2
7
15
10
6
6
9
10
4
10
60
23
18
26
27
34
18
35
30
40
70
241
Secondo la definizione europea di PMI, si definiscono medie imprese, quelle che occupano 250
effettivi e che hanno un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro; si definiscono invece
piccole imprese, quelle che occupano meno di 50 effettivi e hanno un fatturato non superiore ai
10 milioni di euro
4
105
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
L’errore di stima nella scelta campionaria è stato quantificato al 5%. La
raccolta dei dati è stata effettuata attraverso la somministrazione, su un
apposito sito web on line, di un questionario strutturato a risposta chiusa
articolato in 21 domande. In particolare, il questionario è stato realizzato in
una pagina web attraverso l’ausilio di un sito internet specializzato nella
realizzazione di questionari on line e nell’elaborazione dei dati.
Il questionario è stato suddiviso in otto sezioni, riguardanti rispettivamente:
- informazioni di carattere generale sull’imprenditore;
- informazioni specifiche sull’attività svolta;
- l’effettuazione di investimenti a prescindere dall’ottenimento dell’agevolazione richiesta;
- la realizzazione di investimenti in seguito all’ottenimento dell’agevolazione richiesta;
- gli investimenti effettuati;
- la domanda di agevolazione;
- gli obiettivi ottenuti grazie agli investimenti effettuati.
La somministrazione on line del questionario ha permesso la raccolta
dei dati necessari attraverso la strutturazione del questionario secondo una
logica rigorosa: per accedere alle domande proposte è stata infatti resa obbligatoria la compilazione completa della domanda, che, in base alla risposta, conduce ad una parte del questionario piuttosto che a un’altra.
In altre parole, si è data una logica alla disposizione delle domande in
modo tale da suddividere il questionario in due parti: la prima parte, destinata alle imprese che hanno ottenuto il contributo richiesto e dalle quali si
attendeva la compilazione-risposta completa degli spazi dedicati a tutte le
domande; la seconda parte, destinata alle imprese che non hanno ottenuto
il contributo richiesto e alle quali si richiedeva la compilazione-risposta
soltanto di una parte definita delle domande. La somministrazione on line
del questionario è stata inoltre anticipata da un contatto telefonico, rivolto
alla presentazione della ricerca e alla spiegazione del contenuto del questionario. In alcuni casi, si è resa necessaria l’intervista telefonica e la compilazione del questionario presentando le domande nel corso della discussione. I dati raccolti sono infine cross-sectional, ovvero sono costituiti da più
osservazioni rilevate in un unico istante temporale.
raggiunge rispetto ai concorrenti e utilizzare tale misura in maniera strumentale per analizzare il processo strategico. A tal riguardo, si è definita la
competitività di un’impresa come la misura dell’abilità che essa possiede
nel ridurre il differenziale strategico tra capacità e opportunità rispetto ai
propri concorrenti. Si vuol dimostrare come i risultati di un’impresa siano
strettamente dipendenti dal livello di competitività che essa raggiunge. La
competitività di un’impresa è infatti influenzata da tre aspetti fondamentali: i fattori interni all’impresa, l’ambiente esterno e le caratteristiche dell’imprenditore (Man et al. 2002). Una volta definito il legame tra competitività e
strategia d’impresa, è dunque possibile verificare indirettamente se i risultati ottenuti dalle imprese rispetto ai concorrenti nel lungo periodo dipendono dalla strategia messa in atto. In prima approssimazione, può dirsi che
il fenomeno in indagine può essere espresso dalle seguenti relazioni:
4.2 Scelta e descrizione delle variabili esplicative e formulazione delle ipotesi
Come si può rilevare, la variabile indipendente è rappresentata dalla
competitività dell’impresa. In quanto funzione della perfomance, essa può
essere misurata indirettamente da un indicatore di risultato. Si è scelto di
utilizzare come indicatore l’utile d’esercizio conseguito nel 2001, ovvero
due anni dopo la concessione del contributo relativo alla domanda di agevolazione della legge 488/92, in modo tale da dare il tempo per catturare
gli effetti dell’agevolazione.
Per poter valutare gli elementi che compongono il processo strategico
preso in esame, è necessario identificare le sue parti costitutive e individuare le variabili che lo spiegano. Prendendo in considerazione l’impresa inserita nell’ambiente in cui opera, in concorrenza diretta o indiretta con altre
imprese, può essere utile valutare il livello di competitività che l’impresa
106
Pi = f (Ctvs);
Ctvs = g (OC, SO, EC, RA)
dove:
Pi = performance dell’impresa;
Ctvs = competitività dell’impresa;
OC = organizational capabilities;
SO = strategic opportunities;
EC = entrepreneurial competences;
RA = resource availability.
Con riguardo a tali variabili, è possibile formulare le prime tre ipotesi:
Ho1: I risultati dell’impresa dipendono positivamente
dal suo livello di competitività;
Ho2: La competitività di un’impresa dipende positivamente
dal risultato del processo di combinazione fra capacità
dell’impresa e opportunità che ad essa si presentano;
Ho3: La disponibilità di risorse influenza positivamente le
possibili combinazioni fra capacità e opportunità.
107
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
Come sopra riportato, le variabili dipendenti ed esplicative scelte sono:
- le capacità organizzative;
- le opportunità strategiche;
- le competenze dell’imprenditore;
- la disponibilità di risorse.
Secondo quanto suggerito da Man et al. (2002), le capacità organizzative
di un’impresa possono essere generalizzate considerandole come:
- innovative ability (Ia), la capacità di innovare prodotti, processi e servizi;
- quality (Q), l’abilità a mantenere o a conseguire livelli elevati di qualità
in prodotti e servizi, e che viene facilmente manifestata dall’immagine
e dalla reputazione di cui l’impresa gode;
- cost effectiveness (Ce), l’abilità di ottenere, in modo sistematico, costi
inferiori rispetto ai concorrenti e quindi prezzi più competitivi;
- organicity (Or), l’abilità a creare e mantenere una struttura organizzativa flessibile in modo tale da reagire velocemente ai cambiamenti ambientali.
Tali categorie logiche possono essere espresse attraverso variabili quantitative. In particolare, l’innovative ability può essere espressa in termini di
nuovi prodotti lanciati sul mercato, in termini di brevetti registrati o ancora
in termini di nuovi processi produttivi.
La quality, può essere espressa in termini di notorietà rispetto ai propri
clienti (variabile binaria: conosciuta = 1; non conosciuta = 0).
La cost effectiveness può essere espressa in termini di riduzione dei costi
in relazione all’output prodotto nel corso degli anni.
Infine, l’organicity, può essere espressa in termini positivi o nulli di reazione al cambiamento ambientale (cambiamento sì =1; cambiamento no = 0).
Le capacità organizzative, che vanno a costituire lo spazio di capacità,
parte costituente del processo strategico qui indagato, sono dunque rappresentate dalle seguenti variabili:
CS = Ia, Q, Ce, Or
dove: CS è lo spazio delle capacità.
Secondo la definizione di processo strategico accolta, esso non si risolve
nella ricerca, creazione e sfruttamento di capacità idiosincratiche ma, in
misura equivalente, il processo strategico ricomprende altresì la ricerca, la
creazione e lo sfruttamento delle opportunità che si presentano. Tali opportunità sono identificabili grazie al possesso di informazioni esclusive.
Gli economisti austriaci affermano che i mercati sono composti da individui che posseggono informazioni differenti e asimmetriche (Hayek,
1945). Gli individui che posseggono informazioni idiosincratiche sono in
grado di individuare opportunità che altri individui invece non possono
cogliere (Shane, 2000; 2001). Tale affermazione consente di affermare che,
108
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
per cogliere o creare nuove opportunità, gli individui hanno bisogno di
informazioni esclusive, alle quali altri individui non possono accedere. Tali
informazioni esclusive possono ragionevolmente assimilarsi alla conoscenza che l’imprenditore ha maturato nel corso del tempo. Tale conoscenza è
altresì esprimibile tramite tre rilevanti variabili:
- l’età anagrafica dell’imprenditore;
- la formazione dell’imprenditore (anni di studio scolastico, universitario, post-laurea);
- l’attività lavorativa precedente dell’imprenditore (pertinente o non
pertinente con il suo nuovo business).
Poiché lo sfruttamento di una determinata opportunità richiede l’acquisizione e la ricombinazione di risorse, esso deve essere innanzitutto finanziato (Penrose, 1959; Shane, 2003). Lo sfruttamento di un’opportunità deve
essere infatti possibile, ovvero deve esservi un soggetto che possiede le
risorse necessarie (o può avervi accesso) (Moran, Ghoshal, 1999). Lo spazio
delle opportunità è dunque costituito da categorie logiche ravvisabili in
funzione delle capacità cognitive (età, formazione ed esperienza pregressa)
e delle risorse finanziarie che l’imprenditore possiede.
OS = f (ETA; EDU; EXP; RA)
Riguardo a quanto sin qui discusso è possibile formulare la quarta ipotesi.
Ho4: Le imprese non sono tutte egualmente in grado di identificare o creare
nuove opportunità. Perché questo avvenga, è necessario che le imprese
posseggano informazioni esclusive, conoscenza non diffusa,
capacità cognitive superiori, risorse finanziarie adeguate.
La disponibilità di risorse viene espressa utilizzando il valore del contributo concesso e riportato nella graduatoria della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana n.54 del 06/03/1999 dalla quale il campione è
stato estratto. Riguardo alle informazioni esclusive che sono state maturate in precedenza e che influenzano il processo di scoperta delle opportunità, esse si riferiscono soprattutto alla conoscenza dei mercati, ai modi in
cui servirli, e alla conoscenza delle esigenze e delle problematiche dei consumatori. Tali informazioni possono provenire dallo svolgimento di ruoli
differenti da quello dell’imprenditore.
Qualsiasi fruitore che ben conosca le caratteristiche del mercato di riferimento può identificare un’opportunità imprenditoriale in base alle
proprie conoscenze e decidere dunque di entrare nel mercato come impresa. La conoscenza maturata dall’impresa rappresenta pertanto un
“corridoio privilegiato” che permette di individuare ed accedere a determinate opportunità.
109
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
Secondo tale prospettiva, è possibile formulare la quinta ipotesi:
Ho5: La conoscenza maturata in precedenza su un mercato influenza
la capacità di un’impresa di decidere in quale mercato entrare per
cogliere una determinata opportunità.
Collegando fra loro le cinque ipotesi prima enunciate, è possibile formulare la sesta ipotesi:
Ho6: La competitività (e quindi la performance dell’impresa) dipende
dall’abilità dell’imprenditore di ridurre il gap strategico tra lo spazio
di capacità dell’impresa e lo spazio di opportunità al quale egli ha accesso.
4.3 Rappresentazione del modello econometrico
Una volta presentate e descritte le variabili, e formulate le ipotesi è possibile passare alla descrizione del modello econometrico scelto. Nel modello econometrico utilizzato, la variabile dipendente y è rappresentata da un
indicatore di performance, l’utile di esercizio, mentre le variabili esplicative sono rappresentate rispettivamente:
- dalle capacità organizzative espresse dalle variabili Ia, Q, Ce, Or, ossia:
dall’innovative ability, espressa in termini di nuovi prodotti lanciati sul mercato o in termini di brevetti registrati, dalla quality, espressa in termini di
notorietà rispetto ai propri clienti (conosciuta = 1; non conosciuta = 0), dalla cost effectiveness, espressa in termini di contrazione dei costi in relazione
all’output prodotto nel corso degli anni e, infine, dall’organicity, espressa
in termini positivi o nulli di reazione al cambiamento ambientale (cambiamento sì =1; cambiamento no = 0);
- dalle opportunità strategiche, espresse indirettamente dall’età dell’imprenditore (ETA), dagli anni di formazione (EDU) e dagli anni maturati nello svolgimento dell’attività considerata (EXP);
- dalla disponibilità di risorse finanziarie (RA), espresse in valori economici.
L’equazione che viene presa in esame è dunque, in forma analitica:
Pi=β1 Ia+β2 Q+β3 Ce+ β4 Or+β5 ETA+β6 EDU+β7 EXP+ β8 RA+ e
dove e è il termine di errore e β è il parametro da stimare con il metodo
OLS.
Nel caso del modello econometrico prescelto, si assumono le ipotesi del
teorema di Gauss-Markov per verificare che gli stimatori ottenuti siano
BLUE.
110
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
5. Analisi e discussione dei risultati ottenuti dall’analisi multivariata del
campione di PMI operanti nel Mezzogiorno
Come si è in precedenza affermato, sono 70 le imprese che hanno risposto al questionario. Di queste 30 hanno beneficiato del contributo della
legge 488/92, mentre 40 non ne hanno beneficiato. Il campione selezionato
è dunque rappresentato da piccole e medie imprese, in particolare da società di capitali operanti nel Mezzogiorno d’Italia. La veste giuridica che tali
imprese presentano in prevalenza è del tipo Srl nel 75% dei casi. Nell’8,3%
dei casi le imprese assumono invece la forma di Snc, in un altro 8,3% assumono la forma di Sas, e ancora nel restante 8,3% dei casi assumono la
forma di soc. coop. a responsabilità limitata.
Per quanto concerne i settori di appartenenza delle attività delle imprese indagate, è stata rilevata una certa eterogeneità nella distribuzione, con
una predominanza del 50% di imprese che svolgono attività in altri settori
rispetto a quelli indicati nel questionario (meccanico, poligrafico, estrattivo). Segue una distribuzione del 33,33% di imprese che operano nel settore
meccanico, una distribuzione dell’8,3% di imprese che operano nel settore
poligrafico, e infine una distribuzione del restante 8,3% di imprese che operano nel settore estrattivo. Nel campione selezionato, il 42,8% delle imprese ha ricevuto il contributo richiesto, effettuando investimenti nel biennio
successivo, mentre il 57,2% delle imprese non ha ricevuto il contributo e, di
conseguenza, non ha effettuato investimenti.
Lo schema teorico proposto ipotizza che le imprese che hanno ricevuto
l’agevolazione pongano in essere un processo strategico teso a ridurre il
differenziale strategico tra lo spazio delle capacità e lo spazio delle opportunità. In altri termini, in ragione dell’accesso a risorse finanziarie fresche e
a basso costo l’imprenditore combina le opportunità esterne con le capacità
della propria impresa giungendo a determinati risultati che verranno di
seguito esplicitati. Le imprese che non hanno ricevuto l’agevolazione sono
invece considerate imprese che non pongono in essere il processo strategico predefinito, e le cui performance sono il risultato, non già della combinazione continua dello spazio delle capacità con lo spazio delle opportunità, ma soltanto di una combinazione occasionale dei due elementi o sono il
frutto di combinazioni fortunate (Barney, 1986).
Con riferimento ai dati riguardanti le imprese che hanno ricevuto l’agevolazione, attraverso l’ausilio di un programma econometrico (Stata 9) è
stato possibile effettuare la regressione della funzione lineare che segue:
Pi=β1 Ia+β2 Q+β3 Ce+ β4 Or+β5 ETA+β6 EDU+β7 EXP+ β8 RA+ e
Si presentano di seguito le statistiche descrittive riguardanti la variabile
indipendente e le variabili esplicative (si veda la Tabella 4).
111
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
66766.67
41977.57
12000
125000
Ia
30
.6333333
.4901325
0
1
Q
30
.6333333
.4901325
0
1
Cc
30
.1983333
.1647795
0
.5
O
30
.8
.4068381
0
1
ETA
30
56.23333
6.956433
44
65
EDU
30
16.7
5.246674
8
22
EXP
30
24.4
8.173127
10
35
RA
30
279138.6
329709.3
58060
1012715
Nella prima colonna della Tabella 4 figurano i nomi delle variabili, nella
seconda colonna viene invece riportato il numero delle osservazioni. Nella
terza colonna vengono riportati i valori della media di ciascuna variabile, mentre nella quarta colonna vengono riportati i valori delle deviazioni
standard, ovvero gli scarti per ciascuna variabile, del valore osservato dalla
media. Infine, le ultime due colonne riportano i valori massimi e minimi
che le variabili hanno assunto nell’intervallo d’osservazione.
Con riguardo alla funzione lineare Pi prima descritta, si riportano di
seguito nella Tabella 5 i risultati della regressione lineare.
Tab. 5 - Risultati della regressione lineare
Pi
Ia
Q
Cc
O
ETA
EDU
EXP
RA
_cons
Source
Model
Residual
Total
112
Coef.
-134195.3
19881.82
324973.7
-144843.2
566.9071
-4689.185
7826.847
-.0302453
54484.51
SS df
F( 8, 21)
5.0745e+10
356801883
Adj R-squared
5.1101e+10
Std. Err. T
8784.703 -15.28
3585.652 5.54
16133.08 20.14
4994.259 -29.00
333.3418 1.70
306.6913 -15.29
309.1003 25.32
.0040551 -7.46
16210.34 3.36
MS
= 373.33
8 6.3431e+09
21 16990565.9
= 0.9904
29 1.7621e+09
P>t [95% Conf.
0.000 -152464.1
0.000 12425.04
0.000 291423.2
0.000 -155229.3
0.104 -126.315
0.000 -5326.984
0.000 7184.037
0.000 -.0386783
0.003 20773.27
Number of obs =
Interval]
-115926.5
27338.59
358524.3
-134457
1260.129
-4051.385
8469.656
-.0218123
88195.75
30
Prob > F
R-squared
= 0.0000
= 0.9930
Root MSE
= 4122
Fig. 1 - Visualizzazione della variabile dipendente su ciascuna variabile esplicativa
-.2
-.1
0
.1
e( Ia | X )
.2
e( Pi | X )
30
-.4
coef = -134195.31, se = 8784.7034, t = -15.28
-.2
0
.2
e( Q | X )
.4
-.2
-.1
0
.1
e( O | X )
.2
-.1
coef = 19881.815, se = 3585.6519, t = 5.54
.3
-4
coef = -144843.16, se = 4994.2589, t = -29
-.05
0
.05
e( Cc | X )
.1
coef = 324973.73, se = 16133.081, t = 20.14
e( Pi | X )
Pi
e( Pi | X )
Max
e( Pi | X )
Min
-2
0
2
e( ETA | X )
4
coef = 566.90714, se = 333.34177, t = 1.7
-5
0
e( EDU | X )
5
coef = -4689.1849, se = 306.69127, t = -15.29
e( Pi | X )
Std. Dev.
-6
-4
-2
0
e( EXP | X )
2
coef = 7826.8468, se = 309.10032, t = 25.32
-400000-200000 0 200000400000
e( RA | X )
-
Mean
e( Pi | X )
Obs
e( Pi | X )
Variable
Nella parte superiore della Tabella 5, vengono descritti i valori dei coefficienti calcolati tramite la regressione. Come si può vedere, osservando
il p value, i valori dei coefficienti sono significativi per tutte le variabili
ad eccezione dell’età che, dunque, non influisce sul processo strategico e
sull’accesso allo spazio delle opportunità. La significatività dei coefficienti
può essere rilevata altresì regredendo la variabile dipendente per ciascuna
variabile in maniera separata. Si regredisce cioè la performance su ogni
variabile, in momenti differenti. I risultati di tale operazione sono descritti
nei grafici presentati (Figura 1). Osservando questi ultimi è possibile individuare una relazione lineare tra la variabile dipendente e ciascuna delle
variabili esplicative, ad eccezione dell’età. I punti relativi alle osservazioni
si posizionano infatti tutti lungo le rette di regressione.
e( Pi | X )
Tab. 4 - Statistiche descrittive delle variabili
coef = -.03024534, se = .00405508, t = -7.46
I risultati della regressione riportano anche il valore del test di Fisher
(Stock, Watson, 2005). Tale test ipotizza che i coefficienti siano nulli. Essendo nulla la probabilità che tali coefficienti siano pari a zero, ciò vuol
dire che i coefficienti sono consistenti e significativi. Una volta stabilito
che i coefficienti sono tutti significativi, ad eccezione della variabile ETA
(età dell’imprenditore), è possibile verificare la prima ipotesi, ovvero che
113
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
i risultati dell’impresa dipendono positivamente dal suo livello di competitività.
Essendo i coefficienti tutti significativi e consistenti, ed essendo quindi verificata la prima ipotesi, è possibile affermare che anche la seconda ipotesi
è verificata, ovvero che la competitività di un’impresa dipende positivamente dal
risultato del processo di combinazione tra capacità dell’impresa e opportunità che
ad essa si presentano. Posto che il coefficiente della variabile che esprime la
disponibilità di risorse è significativo, è possibile verificare anche la terza
ipotesi, ossia che la disponibilità di risorse influenza positivamente le possibili
combinazioni tra capacità e opportunità.
Riguardo alla quarta ipotesi, essa prescrive che non tutte le imprese sono
in grado di identificare o creare nuove opportunità. Perché questo avvenga, è necessario che le imprese posseggano informazioni esclusive, conoscenza non diffusa,
capacità cognitive superiori, risorse finanziarie adeguate. Tale ipotesi è verificata
poiché le variabili EDU (anni di istruzione) ed EXP (anni di esperienza
lavorativa) influenzano positivamente la competitività e la performance
delle imprese. Attraverso l’istruzione e l’esperienza maturata sul mercato,
l’imprenditore è infatti in grado di identificare nuove opportunità e può
avere accesso ad esse grazie alla disponibilità di risorse finanziarie.
Vi è da rilevare inoltre, come già evidenziato attraverso la Figura 1,
come l’età dell’imprenditore non influenza il processo strategico e quindi
non influisce positivamente sulla competitività dell’impresa.
Dalla verifica della quarta ipotesi discende anche la verifica della quinta
per cui la conoscenza maturata in precedenza su un mercato influenza la capacità
di un’impresa di decidere in quale mercato entrare per cogliere una determinata opportunità. L’esperienza maturata e la formazione, che sono variabili esplicative significative, influiscono infatti positivamente sul processo strategico.
Dalla verifica congiunta delle ipotesi sin qui riportate, è infine possibile verificare positivamente anche la sesta ipotesi per cui la competitività (e
quindi la performance dell’impresa) dipende dall’abilità dell’imprenditore di ridurre il gap strategico tra lo spazio di capacità dell’impresa e lo spazio di opportunità
al quale ha accesso.
Si può inoltre rilevare che la verifica delle ipotesi citate è avvalorata dal
fatto che la regressione delle medesime variabili effettuata con i dati riferiti
al campione di controllo, costituito dalle imprese che non hanno ricevuto
l’agevolazione, è inconsistente. Si può infatti rilevare nella Tabella 6 che i
valori dei coefficienti non vengono calcolati.
114
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
Tab. 6 - Regressione della variabile dipendente sulle variabili esplicative nel campione di controllo
Ia
(dropped)
Cc
(dropped)
Q
O
ETA
(dropped)
(dropped)
1073.529
EDU
-4988.562
RA
(dropped)
Source
SS
EXP
_cons
-2235.294
99380.72
Model
1.0600e+09
Total
1.0600e+09
Pi
Coef.
Residual
0
..
..
.
..
..
.
..
..
..
..
df
MS
3
353333333
F( 3, 36)
36
=.
.
.
Number of obs =
Prob > F
40
=.
0
R-squared
= 1.0000
39
27179487.2
Root MSE
=0
Std.
Err. T
P>t [95% Conf.
Interval]
Adj R-squared
= 1.0000
Com’è agevole dedurre, la regressione lineare è inconsistente in quanto
sia il test di Fisher sia il p value non riportano valori. Il valore di R quadro
è pari a 1. Tale risultato evidenzia un’elevata correlazione fra le variabili,
che impedisce di ottenere risultati significativi. Tale limite potrebbe essere
superato conducendo la ricerca su un campione più vasto di quello preso
in esame. È tuttavia rilevabile un’interessante informazione: i valori dei
coefficienti relativi alle variabili che spiegano le capacità organizzative non
risultano quale output dell’analisi della regressione lineare; vengono invece stimati solo i coefficienti relativi all’età dell’imprenditore, all’esperienza
e alla formazione. Di conseguenza si può ipotizzare che, almeno in prima
approssimazione, il processo strategico di tali imprese sia rivolto all’individuazione di opportunità esterne, che tuttavia non vengono combinate
con le capacità possedute. Oppure, è possibile ancora che i risultati di tali
imprese siano raggiunti in virtù di un mero colpo di fortuna (Barney, 1986;
Kirzner, 1979).
Analizzando ulteriormente i dati raccolti, è interessante notare che il 50%
degli imprenditori intervistati ha conseguito una laurea, nel 28,6% dei casi
in discipline economiche, nel 14,3% in discipline giuridiche e nel 57,1% dei
casi in altre discipline. Alle imprese e agli imprenditori che hanno ricevuto
il contributo, sono state altresì somministrate domande relative ai risultati
ottenuti in seguito all’investimento effettuato. Nella logica di questo lavoro,
tali risultati si riferiscono dunque al processo strategico messo in atto.
Tali risultati sono evidenziati nella Tabella 7. Si è rilevato in particolare
che, nel 28,57% dei casi, vi è stato un aumento del fatturato, in media del
115
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
40%, mentre nel 42,8% dei casi si è registrato un aumento della capacità
produttiva. Nell’85,71% dei casi si è rilevato un miglioramento dei costi di
produzione in media del 42,5%, mentre nel 14,28% dei casi sono stati rilevati incrementi nell’attività di ricerca e sviluppo del 10%.
Tab.7 - Risultati del processo strategico
Percentuale delle
imprese
Risultato ottenuto
Incremento
percentuale
28,57%
Aumento fatturato
42,85%
Aumento capacità produttiva
25,66%
85,71%
Miglioramento costi di produzione
42,5%
42,85%
Miglioramento qualificazione mano d’opera
38,33%
14,28%
Investimenti in ricerca e sviluppo
10%
14,28%
Miglioramento del ROI
20%
14,28%
Miglioramento del ROE
20%
14,28%
Miglioramento del ROS
20%
28,57%
Miglioramento delle condizioni di competitività
rispetto all’ambiente esterno
37,5%
42,85%
Aumento della notorietà rispetto ai concorrenti
28,33%
14,28%
Miglioramento della conoscenza del mercato
servito
28,57%
Miglioramento della conoscenza della concorrenza
14,28%
Avvio nuove attività
40%
15%
12,5%
si
Il 14,28% delle imprese ha inoltre rilevato un miglioramento degli indici di bilancio ROI, ROE e ROS del 20%, mentre il 28,57% delle imprese
ha registrato un miglioramento delle condizioni di competitività rispetto
all’ambiente esterno del 37,5%. Il 42,85% delle imprese del campione di
osservazione ha rilevato un aumento della notorietà rispetto ai concorrenti pari al 28,33%, mentre il 14,58% delle imprese ha registrato un miglioramento della conoscenza del mercato servito pari al 15%. Il 28,57% delle
imprese ha dichiarato un miglioramento della conoscenza della concorrenza pari al 12,5%, e infine il 14,58% delle imprese intervistate ha avviato
nuove attività.
Nel questionario somministrato alle imprese che hanno ricevuto l’agevolazione richiesta è stata inserita altresì una domanda riguardante la destinazione degli investimenti. In particolare, si è rilevato che il 28,57% delle
imprese ha destinato in media il 47,5% delle somme ricevute al rinnovamento delle proprie attività, mentre il 29,6% ha destinato in media l’80%
del contributo ottenuto all’ampliamento delle stesse. Il 22,5% dell’agevolazione è stato ancora destinato all’ammodernamento (nel 28,57% dei casi)
116
mentre il 14,58% delle imprese ha destinato rispettivamente il 25% della
somma per ristrutturare la propria attività ed un altro 25% per trasferire
l’attività in locali nuovi.
Sono stati inoltre rilevati i risultati raggiunti in relazione agli investimenti effettuati. Il 42,85% delle imprese ha conseguito un miglioramento
nella qualità del prodotto e ha innovato i propri processi. Il 28,57% delle
imprese ha innovato i propri prodotti mentre il 57,14% delle imprese ha ottenuto un incremento della produzione. Il 28,57% delle imprese ha inoltre
rilevato un incremento delle vendite mentre il 14,28% delle imprese ha conseguito una maggiore tutela ambientale. Il 57,14% delle imprese ha ancora
adeguato alle norme le proprie attività, mentre il 71,72% ha conseguito una
migliore qualificazione del proprio personale. Il 42,85% ha effettuato un
migliore impiego della manodopera in seguito agli investimenti mentre
il 57,14% ha migliorato la propria efficienza produttiva. Tali risultati sono
sintetizzati nella Tabella 8.
Tab. 8 - Obiettivi raggiunti in relazione agli investimenti effettuati
Percentuale delle imprese
Risultato ottenuto
42,85%
Miglioramento qualità del prodotto
42,85%
Innovazione di processo
28,57%
Innovazione di prodotto
57,14%
Incremento produzione
28,57%
Incremento vendite
14,28%
Tutela ambientale
57,14%
Adeguamenti alle norme
71,72%
Qualificazione/aggiornamento personale
42,85%
Migliore impiego di mano d’opera
57,14%
Efficienza produttiva
L’ultima domanda del questionario concerneva la possibilità di non
aver raggiunto alcun obiettivo in seguito al ricevimento dell’agevolazione;
in questo caso il 100% delle imprese intervistate non ha dato alcuna risposta. Ne consegue che non sono stati rilevati eventi sfavorevoli che hanno
reso impossibile il raggiungimento di obiettivi aziendali predeterminati a
seguito del conferimento dell’agevolazione ex Legge 488/92.
117
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
6. Considerazioni conclusive e limitazioni dello studio
In questo lavoro la strategia d’impresa è stata osservata quale risultato
del processo di sfruttamento della combinazione di fattori esogeni ed endogeni all’impresa. In particolare, l’analisi ha fatto perno sull’interazione
strategica fra capacità, opportunità e risorse finanziarie e sulle implicazioni
che tale interazione ha sulle performance delle imprese. A tal scopo, sono
stati presi in considerazione contributi provenienti da una triade di prospettive convergenti. La teoria delle capacità dell’impresa è stata d’ausilio
per identificare gli aspetti endogeni all’impresa, rilevanti nella determinazione degli elementi del processo strategico alla base del conseguimento
del vantaggio competitivo. La teoria evolutiva ha conferito gli strumenti
per analizzare il comportamento dell’impresa in relazione al proprio contesto ambientale. Gli studi della scuola economica austriaca sono stati infine
utili per definire il ruolo dell’imprenditore e identificare le caratteristiche
di tale soggetto creativo in grado di guidare lo sviluppo dell’impresa e di
cogliere nuove opportunità grazie all’utilizzo delle capacità dell’impresa.
Dal punto di vista teorico, in primo luogo il lavoro intende contribuire a dimostrare come, in linea con l’approccio del campo di studi denominato “strategic entrepreneurship” (Hitt et al. 2002), è possibile proporre
il ravvicinamento e la ricongiunzione delle prospettive di studio provenienti
rispettivamente dagli alvei della strategia d’impresa e dell’imprenditorialità e delle PMI, che si sono tradizionalmente sviluppate in modo separato
e talora anche parallelo. In tal senso, viene evidenziato molto chiaramente
il ruolo dell’imprenditore (o del gruppo imprenditoriale) quale attrattore
sistematico di risorse finanziarie per le PMI (in questo caso dei fondi della
Legge 488/92) e altresì di ri-combinatore creativo degli spazi delle capacità e
delle opportunità per conseguire e/o mantenere il vantaggio competitivo.
Dal punto di vista della conferma empirica della validità della concezione di processo strategico proposta, è stato utilizzato un modello econometrico di analisi multivariata. Attraverso il calcolo della regressione lineare
con il metodo dei minimi quadrati ordinari si è giunti all’identificazione
dei coefficienti delle variabili esplicative. I risultati ottenuti mostrano in generale una consistente relazione positiva fra la performance delle imprese,
indicatore del livello di competitività, e le variabili esplicative rappresentate dall’innovative ability, dalla quality, dalla cost effectiveness e dall’organicity. Sono state inoltre prese in considerazione le variabili che esprimono
la capacità dell’imprenditore di identificare opportunità strategiche, (l’età,
l’esperienza maturata e la formazione, e infine la variabile che esprime la
disponibilità di risorse finanziarie). In particolare, i coefficienti calcolati si
sono rivelati tutti significativi ad eccezione dell’età, indicando dunque che
tale variabile non ha alcun influsso sulla performance dell’impresa. La significatività di tali coefficienti, osservata mediante un valore del “p value”
118
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
quasi nullo e il test di Fisher, ha contribuito alla verifica delle ipotesi.
Si è dunque confermato empiricamente come la competitività (e quindi la performance dell’impresa) dipenda dall’abilità dell’imprenditore di
ridurre il gap strategico tra spazio delle capacità dell’impresa e spazio delle opportunità al quale egli ha accesso (Dagnino, Mariani, 2007, Mariani,
Dagnino, 2007). Pertanto la competitività di un’impresa dipende positivamente dal risultato del processo di combinazione tra capacità dell’impresa
e opportunità che ad essa si presentano, mentre la disponibilità di risorse
influenza positivamente le combinazioni possibili fra capacità e opportunità. Tale verifica ha permesso di confermare come il processo strategico
sia costituito da due elementi principali, lo spazio delle capacità e lo spazio
delle opportunità, e che la possibilità tangibile di accesso allo spazio delle
opportunità, nel caso del campione di PMI in esame, è in buona misura
vincolato alla disponibilità di risorse finanziarie adeguate.
Tale risultato è comprovato dal calcolo dei coefficienti delle variabili riferite al gruppo di controllo preso in analisi, costituito dalle imprese che non
hanno ricevuto il contributo richiesto. In tal caso, il risultato della regressione si è mostrato inconsistente, rilevando l’assenza di relazione fra la performance e le variabili considerate. Questo risultato permette di affermare
che le imprese nel campione di controllo hanno posto in essere un processo
strategico differente da quello, per così dire “fisiologico”, delle imprese finanziate. In assenza di risorse finanziarie adeguate, le PMI del Mezzogiorno non hanno avuto accesso allo spazio delle opportunità e pertanto non
hanno potuto combinare tali opportunità con le proprie capacità5.
Il terzo contributo fondamentale della visione interattiva del processo
strategico che si è proposta risiede dunque nella possibilità che esso consente di considerare simultaneamente gli effetti delle combinazione di capacità, opportunità e risorse finanziarie. La qual cosa viene a colmare il
gap che tradizionalmente emerge dalla considerazione di uno soltanto dei
due aspetti prevalenti negli studi manageriali: la prospettiva delle capacità
d’impresa o quella del settore industriale.
Si è consapevoli del fatto che lo studio in discorso mostra alcune di limitazioni che potrebbero essere colmate in successive ricerche. Anzitutto,
esso ha preso in esame un campione limitato di PMI dai punti di vista
quantitativo e geografico. Com’è stato rilevato, i risultati ottenuti hanno
validità limitata a motivo della possibile correlazione fra le variabili. La
relativa limitatezza del campione ha anche influito sulla significatività dei
risultati, in particolare per la regressione dell’equazione lineare riferita al
campione di controllo Ciò induce a ritenere che, nel futuro, potrà essere
In questo caso del campione di controllo si può ipotizzare che sia verificata la situazione in cui
esiste massima dissonanza fra spazio delle capacità e spazio delle opportunità, e in cui il differenziale strategico tenda all’infinito.
5
119
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse finanziarie e performance:
un’analisi multivariata su un campione di piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
utile estendere la ricerca ad un campione di imprese più vasto per ottenere evidenze empiriche più significative. Inoltre, il campione delle imprese
indagate presenta un’accentuata caratterizzazione territoriale, giacché esso
si riferisce ad attori che operano nello spazio economico del Mezzogiorno
d’Italia, un territorio in cui l’attività imprenditoriale presenta, com’è noto,
numerosi svantaggi e ostacoli. Un’estensione del campione delle imprese indagate ad un territorio più ampio, come ad esempio quello italiano
in generale e, in particolare, di regioni caratterizzate dalla presenza di un
tessuto diffuso di imprenditorialità (come per esempio, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna), potrebbe contribuire a verificare se le ipotesi
formulate siano valide con riguardo a universo più grande, in cui l’influsso
del fattore territoriale sia minore. Il secondo limite è di aver indagato soltanto alcune delle parti costitutive del processo strategico e del comportamento dell’imprenditore nell’identificazione e nello sfruttamento delle
opportunità strategiche. Il processo strategico è stato indagato utilizzando un numero limitato di variabili, che non contemplano altri fattori che
possono influire sul processo strategico e sulla performance dell’impresa:
è dunque possibile che aspetti interessanti del fenomeno siano sfuggiti.
Una variabile che potrebbe contribuire a spiegare il fenomeno indagato è,
ad esempio, la familiarità, ovvero la provenienza dell’imprenditore intervistato da una famiglia di imprenditori. Ulteriori indagini effettuate con un
numero superiore di variabili esplicative potranno condurre a risultati più
generalizzabili e rappresentativi del fenomeno osservato. Inoltre, attraverso un’indagine qualitativa sul campo, prediligendo lo studio di uno o più
casi particolari, potrà risultare possibile estrapolare un maggior numero di
informazioni relative all’imprenditore, alla sua cultura, ai suoi valori, verificando così se (e in qual misura) tali elementi hanno influsso ulteriore sul
processo indagato. Il terzo limite della ricerca è, infine, di non aver rilevato
l’influsso che la struttura finanziaria esercita sulle scelte di investimento
dell’imprenditore. A riguardo, si potrebbe far riferimento alla letteratura
in tema di scelte di investimento sotto il vincolo delle risorse finanziarie,
evidenziando il ruolo che la struttura finanziaria gioca nelle decisioni che
riguardano lo sviluppo e la crescita dell’impresa (Modigliani, Miller, 1958;
Kaplan, Zingales, 2000). Anche in tal caso, per superare tali limiti e cogliere
aspetti che la ricerca condotta non ha rilevato, sarebbe utile condurre indagini empiriche su un campione più numeroso, geograficamente più vasto,
mediante l’uso di un numero superiore di variabili esplicative.
Riassunto
Sulla base di un’indagine empirica multivariata effettuata su un campione di 120
piccole e medie imprese operanti nel Mezzogiorno d’Italia e partecipanti al bando della
legge 488 del 1992, questo lavoro indaga il ruolo che gli elementi endogeni ed esogeni
giocano, assieme, sulla performance dell’impresa. Si propone uno schema interpretativo del
processo strategico che accoglie ambedue gli aspetti, combinando le capacità dell’impresa
con le opportunità che a essa si presentano e considerando le risorse finanziarie come
corridoio privilegiato per l’accesso alle opportunità che l’impresa può individuare. Lo
studio dà rilievo al ruolo dell’imprenditore inteso quale soggetto creativo in grado di guidare
lo sviluppo dell’impresa e delle sue capacità con riferimento all’evoluzione del contesto
esterno e di cogliere nuove opportunità tramite lo sfruttamento delle capacità dell’impresa.
Abstract
On the ground of an empirical multivariate analysis performed on a sample of 120
small and medium sized firms operating in Italy’s Midday that participating to the tender
offer issued according to Law 488/1992, this article scrutinizes the role that endogenous
and exogenous elements play jointly on firm performance. We propose an interpretive
framework of the strategy process that allows for both aspects (i.e., exogenous and
endogenous), combining firm capabilities with strategic opportunities thath are accessible,
and considering financial resources as a privileged conduit to gain acces to opportunities the
firm is able to recognize. The study emphasizes the role of the entrepreneur, observed as a
creative subject capable to guide the firm’s development path and its capabilities as regards
the evolution of the external context, as well as to seize new opportunities by means of the
exploitation of the firm’s capabilities.
JEL Classification: M13, L21, L25, L26
Parole Chiave (Keywords) : indagine empirica multivariata, capacità dell’impresa,
opportunità, processo strategico, imprenditore (multivariate analysis, firm capabilities,
opportunities, strategic process, entrepreneur).
Giovanni Battista Dagnino
Università degli Studi di Catania
[email protected]
Paola Merendino
Università degli Studi di Catania
[email protected]
120
121
Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
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REVUE INTERNATIONALE
P.M.E.
Vol 23 N° 1/2010
Presses de l’Université du Quebec
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ro
to
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Osservatorio sulla piccola
e media impresa
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ECSB NEWS
CASE STUDY
ECSB EVENTS
“CERTI TESORI ESISTONO SOLTANTO
PER CHI BATTE PER PRIMO UNA STRADA NUOVA?”1:
L’ESPERIENZA DI NOVELLINI GIOVANNI SRL2
The International Conference for Entrepreneurship and Innovation PODIM - 20-21 April 2011
The topic for the conference is “Driving forces of creating global ventures”.
Time: 20-21 April 2011
Place: Maribor, Slovenia
http://en.podim.org/
The 4th International Conference on Entrepreneurship, Innovation and
regional Development - 5-7 May 2011
The theme for the conference is “From Entrepreneurail Learning to
Innovations And Regional Development”
Time: 5-7 May 2011
Place: Ohrid, Macedonia
http://www.iceird.org/2011
ICSB World Conference - 15-18 June 2011
Time: 15-18 June 2011
Place: Stockolm
Web Page: http://www.icsb2011.or
First Annual Corporate Entrepreneurship Workshop - 20-21 June 2011
Time: 20-21 June 2011
Place: Lyon, France
The theme for the conference is “CE research, where are we, and where can we
go from here?”
Contact person: Kathleen Randerson [email protected]
The 3rd Workshop on SME Innovation Processes: Challeges Beyond the
Crisis - 16-17 September 2011
Time: 16-17 September 2011
Place: University of Urbino “Carlo Bo”, Urbino, Italy
Web page: http://rivistapiccolaimpresa.it
di Angelo Bonfanti e Valentina Novellini
1. La storia di una PMI familiare fondata su lungimiranza, propensione
al rischio e innovazione
È il 1973 quando Giovanni, appena diciassettenne, perde il padre in un
incidente stradale. Il giovane affronta il dolore e le difficoltà decidendo
di continuare a provvedere al sostegno dell’intera famiglia attraverso la
gestione del macello, l’attività aziendale ereditata. Il duro lavoro e i molti
sacrifici non fermano la volontà del ragazzo di portare a termine gli studi e
conseguire il diploma di geometra.
Nel 1977 sceglie di chiudere il mattatoio di famiglia e dedicarsi interamente alla sola commercializzazione delle carni. Dalla ristrutturazione di
una stalla in disuso riesce a ricavare un piccolo laboratorio con due celle
frigorifere, dove prende avvio l’anno successivo, a Marmirolo, in provincia
di Mantova, l’attività imprenditoriale della Novellini Giovanni. Si tratta di
un’impresa specializzata nella lavorazione delle carni, gestita a carattere
artigianale e a livello familiare, in grado di rispondere alle precise esigenze
di ristoranti, strutture alberghiere, mense scolastiche e istituti religiosi. Tale
clientela, con la quale sviluppa soprattutto rapporti di fiducia, in alcuni
casi anche di amicizia, è affidabile e fidelizzata.
Col passare degli anni però tutto cambia. Il mercato si amplia e muta: si
mostra da un lato più esigente e attento al momento dell’acquisto, anche
a seguito del diffondersi una decina di anni fa del fenomeno del “morbo
The webinars will be held on the last Thursday of every month and will
begin at 3pm Central European Time. The webinars for this series are FREE
and you can register at http://www.ecsb.org
• March 31st: Entrepreneurship Policy by Prof David Smallbone
• April 28th: Entrepreneurship Educationby Dr Cristina Bettinelli
• May 26th: Open Innovation by Prof Luca Iandoli
La citazione è tratta dalla favola “La strada che non andava in nessun posto” di Gianni Rodari
(2003, 90).
2
Nonostante il lavoro sia il risultato di riflessioni svolte congiuntamente dagli Autori, ai fini della
stesura finale il paragrafo 1 è da attribuire a Valentina Novellini, i paragrafi 2, 3 e 4 ad Angelo
Bonfanti. Desideriamo porgere un particolare ringraziamento al Sig. Giovanni Novellini per la
disponibilità e il tempo offerti nel farci conoscere questa realtà industriale e aver arricchito, con
la sua testimonianza, alcune parti del lavoro. Inoltre, un sincero grazie al Prof. Claudio Baccarani
e al Prof. Federico Brunetti per i preziosi suggerimenti e le significative osservazioni critiche
emerse durante i vari momenti di confronto. Naturalmente, la responsabilità di eventuali errori
e inesattezze è da attribuire esclusivamente agli Autori.
128
Rivista Piccola Impresa/Small Business - n. 1, anno 2011
SPRING 2011 WEBINAR SERIES - FROM MARCH TO MAY 2011
1
129
Angelo Bonfanti e Valentina Novellini
della mucca pazza” (propriamente detta “encefalopatia spongiforme bovina”), e dall’altro richiede una maggiore affidabilità e sicurezza all’azienda stessa. Tali ragioni inducono l’impresa a non concentrarsi su un’unica
attività, ma ad intraprendere la via della diversificazione, spostando alcune risorse produttive verso altri mercati. Inoltre, con la globalizzazione
dell’economia e l’apertura dei mercati mondiali Novellini Giovanni si adegua all’osservanza delle prassi HACCP, legate all’individuazione dei punti
critici presenti nei processi produttivi aziendali, e alle leggi sul corretto
mantenimento di igiene e sicurezza in impresa. A questo proposito, l’azienda ottiene importanti certificazioni di qualità, come la certificazione per la
rintracciabilità nelle filiere agroalimentari UNI ISO EN 220053, la sicurezza
degli alimenti grazie alle certificazioni Global Standard Food Safety (GSFS)
e International Food Standard (IFS)4.
A fronte di questi mutamenti, Novellini Giovanni, investendo in ricerca
e innovazione, amplia negli anni la propria offerta con una sempre più ricca proposta commerciale: oltre a surgelati, congelati e freschi, offre anche
prodotti per la ristorazione.
In particolare, “Carni & Catering” è la divisione aziendale che si occupa
di proporre alla clientela del settore della ristorazione carni bovine, suine
ed equine, di vitello, di polleria e di selvaggina sia fresche che congelate,
oltre ad altre referenze (come formaggi, latticini, pane, prima colazione,
snack, pizze, specialità salate, pasta, primi piatti, ittico, verdure, frutta e
dessert) attraverso un servizio di consegna puntuale, effettuato con mezzi
propri a temperatura controllata.
Con il “Servizio Logistico Gelo”, invece, l’impresa mette a disposizione
di terzi nella propria struttura uno spazio adibito al mantenimento della
catena del freddo (“spazio gelo”) con oltre 1500 posti pallet. E grazie agli
investimenti in ambito informatico, attraverso appositi scanner, è in grado
di verificare in qualsiasi momento le giacenze di magazzino per procedere
poi agli acquisti.
Ampio e profondo è divenuto l’assortimento legato alla terza divisione
di Novellini Giovanni, “La Cucina dei Sapori”, che offre diversi prodotti
con i differenti marchi illustrati in Tab. I.
In particolare, Novellini Giovanni a livello europeo acquisisce le certificazioni I 729 S, I 729 F, 9-988
L, I 729 P, 9-988 LOA, conglobate recentemente nell’autorizzazione sanitaria unificata I 729 CE.
4
Lo standard BRC, creato nel 1998, garantisce che i prodotti a marchio siano ottenuti secondo
specifiche di qualità ben definite e nel rispetto dei requisiti minimi. L’IFS, suo corrispettivo per
i Paesi dell’area centro europea (Austria, Svizzera, Francia e Germania), favorisce l’efficace selezione dei fornitori food a marchio della GDO, sulla base della loro capacità di offrire prodotti
sicuri, conformi alle specifiche contrattuali e ai requisiti di legge.
3
130
“Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova?”:
l’esperienza di novellini giovanni srl
Tab. 1- L’offerta de “La Cucina dei Sapori” di Novellini Giovanni srl (anno 2010)
Divisione
aziendale
Marchio
industriale
Assortimento
Ampiezza
Profondità
Sughi freschi
Ragù di carne
Pesto al basilico
Crema ai quattro formaggi Sugo alla
boscaiola, all’amatriciana, ai funghi
e panna, pomodoro e basilico,
all’arrabbiata, del montanaro, alla
marinara
Semilavorati
Verdurine
Panna, prosciutto e piselli Brasato
Carne tradizionale
Carni bianche - Formaggi Funghi e
panna
Funghi e tartufo
Pesto e ricotta
Tofu
Tacchino
Sughi biologici
Pesto alla ligure
Sugo campagnolo
Ragù alla bolognese
Sugo all’arrabbiata
Brodo pronto
all’uso
Carne biologico
Verdure biologico
Fumetto di pesce
Pasta pronta
Pomodoro e basilico
Pesto al basilico
Vellutate già
pronte
Vellutata agli asparagi
Vellutata ai funghi porcini
Vellutata alle verdure
Fonte: documentazione aziendale
Nello specifico, l’azienda è specializzata nella preparazione dei sughi,
venduti agli inizi con il marchio “La Buona Cucina”: l’offerta comprende
prodotti sia freschi che congelati e spazia dai sughi ai quattro formaggi, ai
funghi, alle verdure, al pesto alla genovese, al ragù alla bolognese fino ai
sughi alla selvaggina (lepre e cinghiale). Tale linea produttiva si estende
nel tempo a livello di vendita con prodotti a nome proprio e private label. E
per rispondere alle diverse esigenze del mercato e per differenziarsi dalla
concorrenza, l’impresa crea il nuovo marchio “Condifreschi”, che include
anche ulteriori prodotti, come i semilavorati (di carne e verdure, ripieni per
pasta e farciture per gastronomie e ristorazione) e i sughi biologici.
131
Angelo Bonfanti e Valentina Novellini
Sul finire degli anni Novanta si sviluppa da parte dei consumatori la
tendenza da un lato, la necessità dall’altro, di ridurre il tempo di preparazione dei cibi (Sfogliarini, 2000) e allo stesso tempo di mangiare in modo
genuino e secondo tradizione.
A fronte di questa evoluzione in ambito alimentare, Giovanni Novellini
decide di ampliare la gamma di specialità fresche, naturali e veloci da cucinare, ispirate alla cultura gastronomica italiana: inizialmente crea “Brodoè”,
il brodo già pronto all’uso, seguito dai primi piatti pronti della linea “Bravo
Giovanni” e recentemente propone le vellutate con il marchio “Ognidì”.
Sono tutti prodotti pronti da usare da parte sia di chi ha poco tempo da dedicare alla cucina sia di chi ama personalizzare il proprio piatto.
Nel seguito del lavoro si analizza in chiave strategica Brodoè, che rappresenta un’opportunità per l’impresa, in quanto, affacciandosi per prima
sul mercato, può godere dei vantaggi tipici dei pionieri (Schilling, 2005,
103 e ss.).
2. Novellini Giovanni: first mover con Brodoè
A fronte di uno scenario competitivo sempre più difficile, caratterizzato
da una saturazione dei mercati di sbocco e da un eccesso di offerta, nel
1998 l’impresa mantovana decide di investire nella produzione di Brodoè,
il brodo di carne e verdure subito pronto per essere scaldato e gustato insieme ai tortellini, per mantecare risotti, aggiungere gusto agli arrosti e intingoli, preparare salse, sughi, zuppe e vellutate.
Il time to market del nuovo prodotto è pari a circa due anni. Durante
tale periodo sono condotte alcune attività di testing e ricerche di mercato sulla bontà e durabilità dell’alimento, sugli impianti più adatti alla sua
produzione, sulla tecnologia da implementare in azienda per dosare gli
ingredienti della ricetta5 e sul packaging più adeguato per la conservazione
e il trasporto del bene6. Nel 2000 viene presentato in occasione di “Cibus,
il Salone Internazionale dell’alimentazione” presso il polo fieristico di Parma, evento durante il quale ogni anno vengono promosse e valorizzate le
nuove tendenze del mercato made in Italy.
Come molte altre idee imprenditoriali, anche questa nasce da una strategia non programmata, quanto piuttosto occasionale, si potrebbe dire da
5
Le analisi di mercato hanno permesso di equilibrare la quantità di sale in base ai gusti dei consumatori. Inoltre, nella ricetta iniziale venivano utilizzate carni convenzionali, sostituite, a seguito
del diffondersi del problema “mucca pazza”, con carni esclusivamente biologiche.
6
In particolare, Novellini Giovanni ha affidato a un’agenzia specializzata di Milano l’organizzazione di un focus group, durato circa un anno, di clienti donne, in prevalenza casalinghe-madri di
famiglia, per raccogliere utili suggerimenti al fine di correggere e migliorare il packaging iniziale
del prodotto.
132
“Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova?”:
l’esperienza di novellini giovanni srl
una semplice ma geniale intuizione: “Ero stanco di vedere mia moglie trascorrere diverse ore in cucina per preparare un buon brodo di carne - dice Giovanni
Novellini - per non parlare del vederla poi a sgrassare i fornelli, il vapore nella
stanza e le pentole da lavare. Ho riflettuto sul fatto che la donna dei nostri giorni
non ha più molto tempo da dedicare all’arte culinaria e che per questo era giunto il
momento di creare un prodotto tradizionale e allo stesso tempo innovativo, come il
brodo disponibile in Tetra Pak, sempre pronto in cucina”.
Del resto, se le PMI vogliono continuare a sopravvivere e svilupparsi nel
tempo devono cercare di puntare sulla leva strategica dell’innovazione, finalizzata a rispondere a bisogni e desideri nuovi, verso i quali la domanda
si sta indirizzando. Per agire in tale direzione, occorre ascoltare, e analizzare, i mercati, valutando quelli già saturi, ossia già ampiamente soddisfatti
da altre offerte in termini di esigenze primarie, come pure puntare sulla
differenziazione, oltre che sul rapporto qualità-prezzo, per stimolare l’acquisto. Con il lancio di Brodoè l’imprenditore ha posto le basi per creare:
- una nuova categoria di prodotto, offrendo un bene allo stesso tempo
pratico e funzionale,
- un nuovo mercato, avendo individuato quella necessità, integrabile
nella vita di ciascun individuo o nucleo familiare, che ogni cliente ancora non sapeva di avere, ma a cui difficilmente avrebbe rinunciato
una volta scoperta.
Tale innovazione si proponeva, e si propone tuttora, come la risposta al
bisogno di consumo di brodo da parte di un segmento di mercato che nel
tempo è divenuto sempre più ampio in Italia7, comprendente tutti coloro
che, pur avendo poco tempo da dedicare alla cucina, non vogliono rinunciare alla tradizione e al gusto della cultura culinaria italiana. In particolare, intende soddisfare le seguenti esigenze:
- ridurre la fatica in cucina in relazione alla preparazione del brodo, soprattutto quando serve solo per soddisfare una o due persone,
- gustare un prodotto di qualità, fedele alla tradizione,
- avere in casa, ogni volta che lo si desidera, il brodo pronto, facile da
conservare (in luogo asciutto e non necessariamente in frigorifero) e
pratico da usare con la confezione in brick,
- usufruirne pur non essendo in grado di prepararlo,
- risparmiare tempo (time saving) ai fornelli, sia per chi non ne ha a disposizione, sia per chi preferisce impiegarlo in altro modo,
- acquistare un bene di qualità a un prezzo contenuto8,
Il mercato dei brodi è uguale per dimensioni e importanza solo a quello del latte fresco e Uht.
“Recenti ricerche dimostrano, infatti, come quasi 9 famiglie su 10 preparino e consumino brodo
fatto in casa e come il consumo di brodo da parte delle famiglie italiane, stimato in 17 porzioni al
mese, si avvicini molto a quello del latte e al piatto simbolo della cucina mediterranea, la pasta al
pomodoro” (U&A CRA 2007 - Base, 2009; Fontana, 2009).
8
“Oggi, infatti, il consumatore è più attento e razionale e ricompensa le aziende che sanno coniu7
133
Angelo Bonfanti e Valentina Novellini
- mangiare in modo salutare e biologico, senza glutammato e conservanti, essendo il cliente sempre più alla ricerca di uno stile di vita sano,
naturale, genuino e attento al mondo che lo circonda9.
Al riguardo, Brodoè ha ricevuto la certificazione di conformità di prodotto biologico al 98%.
Ognuna di queste necessità, presa in esame singolarmente, ha poca rilevanza in termini innovativi, ma la loro combinazione permette al cliente di
percepire il prodotto come nuovo e diverso dagli altri esistenti sul mercato
(Collesei, Collesei, 2006, 422). In tal senso, si potrebbe affermare che il prodotto innovativo risponde a un bisogno latente, e non soddisfatto, del consumatore, mentre l’innovazione contribuisce a far emergere il bisogno stesso.
L’intraprendere un percorso innovativo ha posto l’impresa di fronte alla
decisione strategica di make or buy. Optando per la via della produzione
interna, nel 2006 amplia lo stabilimento produttivo con la costruzione di
un edificio adiacente al precedente, passando da 2.500 a 7.500 m2 di superficie coperta, adibita a reparti produttivi dotati di nuove macchine e linee
produttive ad alta tecnologia.
Questi investimenti hanno permesso all’impresa non solo di mantenere
presso la medesima struttura l’intera catena produttiva, limitando al massimo le collaborazioni con imprese terze e abbattendo i costi di produzione e di trasferimento dei beni da uno stabilimento all’altro, ma anche di
esprimere maggiore efficacia in termini di capacità e flessibilità produttiva,
avendo sviluppato internamente un valido know how di carattere tecnicoindustriale. L’evoluzione della struttura ha richiesto un congruo impegno
progettuale, sostegno finanziario e periodo di sperimentazione per ottenere miglioramenti in termini di processo (sviluppo di nuove conoscenze e
competenze in materia di direttive comunitarie, al fine di assicurare sempre maggiori garanzie dal punto di vista dell’igiene e del mantenimento
della catena del freddo) e di prodotto (impiego delle materie prime e scelta
dei migliori packaging da adottare a livello di grammatura e formato10).
Per far fronte a tutte le innovazioni inerenti il percorso produttivo e distributivo, l’impresa ha beneficiato delle esperienze e competenze distintive interne, ma ha avviato anche rapporti di collaborazione con diverse imprese, andando a riconfigurare nel tempo la catena del valore. Tra le attività
decentrate figurano quelle relative all’approvvigionamento, sia di materie
gare prezzo, relazione con il cliente e qualità sia di prodotto sia dei valori che animano l’impresa”
(Bertolini, 2010, 19; Bertolini, 2009).
9
Questa è la tendenza registrata recentemente in relazione all’acquisto di prodotti innovativi
(Bertolini, 2008, 32).
10
Quando è nata l’idea del prodotto la confezione era in Tetra Pak da un litro. A seguito di alcune
ricerche di mercato, si è optato per un packaging da mezzo litro, risultato molto più pratico e ideale sia per la famiglia che per i single, oltre che più funzionale in termini di quantità per insaporire
primi o secondi piatti.
134
“Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova?”:
l’esperienza di novellini giovanni srl
prime biologiche, sia di macchinari e impianti adatti alla produzione del
brodo, sia del materiale per l’imballaggio del brodo stesso (carta Tetra Pak
e cartoni per porre al loro interno dodici confezioni di prodotto).
Dal punto di vista distributivo, significativa è la partnership con l’azienda Dispensa di Milano, che, attraverso un’avanzata dotazione tecnologica
e informatica, permette a Novellini Giovanni di conoscere in tempo reale le
quantità ancora da stoccare presenti presso l’impresa milanese, fungendo
in tal modo da magazzino esterno. Inoltre, effettuando consegne day by day,
riesce a soddisfare le varie richieste dei clienti, rispettando giorni e ore di
consegna.
Per quanto concerne il mercato di riferimento, il portafoglio clienti ha
raggiunto una dimensione sia interregionale sia internazionale. In Italia
Novellini Giovanni fornisce diverse imprese commerciali del Nord Italia,
diffuse soprattutto tra Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e
Liguria, oltre a molte forme distributive appartenenti alla GDO nazionale,
come Gruppo Brendolan, Tosano, Martinelli, Conad, Bennet, Dial, IperGalassia, Rossetto e Pam, e internazionale come Leclerc. Inoltre, a partire dal
gennaio 2010 rafforza lo sviluppo all’estero cooperando con la Corporaciòn
Alimentaria Guissona S.A., che ha permesso la vendita di brodo di pesce
in gran parte della penisola spagnola attraverso il marchio “BonArea”. Ulteriori progetti sono in corso per avviare accordi con imprese del territorio
mantovano, al fine di affacciarsi sui mercati asiatici e africani.
Come ogni innovazione industriale, data la sua appetibilità e attrattività, non è rimasta però per lungo tempo ignorata dalla concorrenza.
3. “I Brodi” di Star: un lancio inaspettato con un forte impatto sul mercato
italiano
Sviluppare la capacità di innovare rappresenta per le PMI una sfida
pressoché imprescindibile, ma per conseguire vantaggi competitivi durevoli nel tempo diviene opportuno, se non necessario, anche investire nel
valore del marketing e della comunicazione.
Del resto, avere l’idea e precorrere i tempi, rispondendo alle necessità
del mercato, non è sufficiente: occorre anche cercare di promuovere adeguatamente il prodotto e l’idea innovativa di fondo, ponendosi al riparo
dai competitor, magari ricorrendo all’uso di brevetti11. Tuttavia, spesso il
costo della ricerca e il notevole esborso finanziario per attivare una pratica di brevettazione, oltre a fattori strutturali e culturali, rappresentano le
principali motivazioni che precludono questa strada alle PMI (Di Maria,
Micelli, 2007). Qualora l’impresa non sia in grado di proteggere la propria
11
Brodoè è brevettato esclusivamente come marchio (30 dicembre 1999).
135
Angelo Bonfanti e Valentina Novellini
“Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova?”:
l’esperienza di novellini giovanni srl
innovazione, essa diventa accessibile ai concorrenti che, se dotati di competenze distintive e potenzialità dinamiche (Teece et al., 1997; Eisenhardt,
Martin, 2000), possono proporsi sul mercato con maggiore successo.
È ad esempio quanto sta accadendo con “I Brodi”, il “nuovo” prodotto
lanciato dall’autunno 2009 da Star, l’azienda fondata dalla famiglia Fossati
ad Agrate Brianza, in provincia di Milano, presente sul mercato dei beni
di largo consumo alimentare dal 1948, sviluppando nel tempo posizioni di
leadership nel mercato del dado da brodo, degli insaporitori e delle conserve di pomodoro. Dal 2006 viene traghettata in un contesto manageriale e
internazionale più ampio attraverso la fusione con la società spagnola Gallina Blanca (Chierchia, 2006, 15; Gervasio, 2009, 25; Brugnoli, 2010, 78-81),
che presenta un portafoglio prodotti complementare a quello di Star e di
pari dimensione di business, vantando “nell’ambito del segmento liquido
sia know how sia vantaggio competitivo, con una quota di mercato specifica
del 60%” (Fontana, Rubinelli, 2010). In tal modo, il nuovo gruppo multinazionale Gallina Blanca-Star ha potenziato tutte le aree strategiche aziendali, tra cui il marketing, la comunicazione, le vendite, le relazioni con il
trade, la R&S e le risorse umane, ampliando così la propria presenza sia in
Italia con i marchi Star, Pummarò, Sogni d’Oro, GranRagù ed Olita, sia sui
mercati spagnoli, olandesi, africani, russi e del Middle East.
Con tale prodotto, sostiene il Direttore Generale Fabio Cairoli12, le linee
guida strategiche sono quattro: “una forte collaborazione con il marketing e il costante riferimento al consumatore finale, un’attenzione specifica all’aspetto nutrizionale dei prodotti, lo sviluppo di tecnologie idonee
a sostenere in termini produttivi le innovazioni sia di prodotto sia di pack
e infine una rete di collaborazioni esterne” (Soressi, 2010, 43). La linea dei
brodi pronti in brick si rivolge a “un segmento di mercato inesplorato che
Iri Group13 quantifica in 5 milioni e un target di un milione di famiglie”
(Scarci, 2010, 27).
Sia Brodoè di Novellini Giovanni sia I Brodi del gruppo Star si presentano come una rivoluzione nella preparazione del brodo. Appaiono agli occhi del consumatore come simili, essendo subito pronti, preparati secondo
la tradizione e realizzati in modo genuino con carni e verdure, ma volendo
puntualizzare i due prodotti non sono proprio uguali a livello di contenuto: da un’analisi comparativa degli ingredienti dichiarati sulle confezioni
risulta che I Brodi sono preparati utilizzando prodotti derivanti da agricoltura convenzionale (Tab. II)14, mentre Brodoè è certificato come biologico,
essendo le materie prime agricole impiegate per la sua preparazione provenienti da coltivazioni che rispettano i regolamenti europei di produzione biologica (ad esempio, la fertilizzazione del terreno avviene solo con
concimi organici naturali, l’uso di OGM è proibito ed è vietato l’impiego
di tutte quelle sostanze chimiche usate comunemente nell’agricoltura tradizionale).
12
Dopo tre anni Fabio Cairoli lascia Star e da novembre 2010 ai vertice del Gruppo siede Jordi
Franch, manager spagnolo.
13
Divenuta nel 2010 SymphonyIRI Group, l’impresa offre alle aziende (produttive e distributrici)
informazioni di mercato in tempo reale, modelli di analisi avanzati, software per la gestione della
performance aziendale e servizi professionali (http://www.symphonyiri.it/).
14
Con riferimento agli ingredienti de I Brodi di manzo è stato rilevato che: “la carne di manzo
è solo lo 0,04%. L’estratto di carne è pari allo 0,07%. Quindi a dar sapore ci pensano l’estratto
di lievito, gli aromi naturali e il sale, mentre per dare il colore tipico del brodo c’è il caramello
naturale. Nel brodo Star l’unico ingrediente “grasso” è olio extravergine d’oliva, ma è l’ultimo
della lista, quindi ce ne è pochino”. Si consulti l’articolo online all’indirizzo http://www.altroconsumo.it/salse-e-condimenti/brodi-star-e-knorr-gia-pronti-di-carne-ce-n-e-poca-s266563.htm, pubblicato
il 10/02/2010.
136
Tab. 2 - Un confronto tra la composizione di Brodoè e de I Brodi (anno 2010)
Ingredienti
acqua
verdure
Brodoè
Brodo vegetale
I Brodi
Brodo di verdure
presente
presente
8%
0,95%
di cui:
carote
2%
0,01%
patate
1,5%
0,01%
cipolle
1,5%
0,01%
sedano
1,5%
0,01%
zucchine
1,5%
assente
prezzemolo
presente
assente
porro
presente
0,9%
cavolo
assente
presente
aglio
assente
presente
spinaci
assente
presente
pomodoro
assente
0,01%
estratto di lievito
presente
presente
aromi naturali
presente
presente
sale
presente
presente
estratti vegetali
assente
0,02%
olio extra vergine di oliva
assente
presente
Fonte: singole confezioni di prodotto
Mentre la funzione d’uso risulta essere la medesima, differente è il loro
contenuto nutrizionale, essendo l’apporto energetico medio di Brodoè per
137
Angelo Bonfanti e Valentina Novellini
100 ml di prodotto doppio (6 kcal/25 kj) rispetto a quello de I Brodi (3
kcal/12 kj). A differenziare e valorizzare il prodotto agli occhi del consumatore incide probabilmente con maggior peso l’attività di marketing e
comunicazione retrostante, analizzabile in termini di packaging e di promozione dei rispettivi beni sul mercato.
3.1. Il packaging di Brodoè e de I Brodi
Nell’esaminare la confezione, si fa ricorso all’uso di un modello concettuale presente in letteratura (Collesei, Ravà, 2004, 164-178), in grado di
consentire, attraverso un approccio qualitativo soggettivo, la valutazione
del ruolo sia funzionale (contenimento, protezione, frammentazione, trasporto, conservazione) sia comunicativo del contenitore.
Gli elementi della confezione rilevanti al riguardo si riferiscono sia
all’abbigliaggio (elementi verbali e iconici) sia al contenitore (forma e materiale), come risulta dalla Tab. III.
Gli elementi verbali dell’abbigliaggio
Per quanto concerne il naming del prodotto, mentre Brodoè risulta simpatico, orecchiabile e allo stesso tempo creativo, utile perciò a costruire la
storia stessa del prodotto e della sua azienda, I Brodi ispirano maggiore
tradizionalismo e minore ricercatezza, ma sicuramente risultano un prodotto dal nome facile da ricordare. Del resto, esprime una certa continuità
con i nomi degli altri prodotti offerti sempre dal gruppo Star (I Dadi, I
Sughi, I Risotti, ecc.). Inoltre, sia Brodoè sia I Brodi si prestano a (e forse
sono nati da) valutazioni di natura strategica di breve, ma anche di mediolungo periodo: suggeriscono al cliente i diversi gusti/tipi di brodo possibili (carne e verdure), prevedendo così eventuali allargamenti della gamma
in relazione all’evoluzione del mercato, senza per questo dover ricorrere a
un’attività di re-naming.
Fungendo anche da “venditore muto”, sono cruciali gli elementi di comunicazione presenti sulla confezione15, per far sì che il consumatore acquisisca da solo tutte le informazioni e i benefit tangibili di cui ha bisogno
durante i suoi acquisti. Conferendo il packaging identità al prodotto, risulta
importante per ogni impresa (di piccole, medie o grandi dimensioni) individuare e trasferire alla confezione alcuni tratti distintivi, in termini di
funzionalità ed estetica, che rendano il bene riconoscibile tra la folla di prodotti che animano gli scaffali dei vari punti vendita.
15
Il packaging è metaforicamente paragonabile a un Giano Bifronte. “Da un lato esso guarda al
prodotto. Cerca di proteggerlo, ma anche di esaltarne le caratteristiche e di mostrarlo nella sua
luce migliore. […] Dall’altro, esso si rivolge al consumatore e comunica con lui” (Ferraresi, 1999,
16). Sul tema si veda anche Bucchetti, 1999.
138
“Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova?”:
l’esperienza di novellini giovanni srl
Per agire in questa prospettiva, occorre comunicare attraverso il linguaggio del cliente in modo chiaro e semplice, come pure puntare su aspetti grafici (colori, immagini e frasi) che incuriosiscano, attraggano e richiamino
la sua attenzione, non puntando quindi esclusivamente sul brand. È quello
che hanno fatto, e stanno tuttora facendo, Novellini Giovanni con Brodoè e
Star con I Brodi, che comunicano il gusto e l’italianità del prodotto insieme
a naturalità e autenticità (Fig. I).
Fig. 1 - Il packaging di “Brodoè” e de “I Brodi”
Fonte: http://www.giovanninovellini.it e http://www.star.it
A differenza di Brodoè, Star può contare su un corporate brand conosciuto
e affermato, fonte di garanzia e sinonimo di rispetto della tradizione, credibilità e sicurezza culinaria italiana, richiamato sulla confezione de I Brodi
dal marchio aziendale e dal colore verde, divenuto ormai il colore istituzionale che rende tali prodotti immediatamente riconoscibili a scaffale.
Il layout grafico riferito alla parte informativa è differente per i vari prodotti: le indicazioni sono abbondanti in I Brodi, non tanto sul facing principale quanto sul retro, ove viene riportata anche una ricetta. Brodoè, invece,
inserisce più elementi di comunicazione (due loghi tra loro differenti e la
scritta “brodo da agricoltura biologica”) per evidenziare la preparazione
del brodo in modo biologico.
139
Angelo Bonfanti e Valentina Novellini
Gli elementi iconici dell’abbigliaggio
In entrambi i prodotti il lettering è chiaro e moderno. Le immagini conferiscono a ciascun package un forte food appeal, al fine di attirare la curiosità
del cliente e trasmettere la qualità del gusto. Del resto, il packaging di un
brodo non può non raccontare le qualità dell’alimento: il cliente ha bisogno
di percepirle senza vedere, gustare o annusare il contenuto.
Per tale motivo, hanno optato per un packaging simbolo (Pastore, Vernuccio, 2004), avendo le immagini come scopo non tanto quello di rappresentare il contenuto della confezione, quanto piuttosto di tradurre visivamente la sua utilità.
Infatti, le figure presenti sul facing principale sono fortemente evocative:
oltre all’esplicitazione degli ingredienti del prodotto e della loro origine,
utili per comunicare la naturalità del brodo, vengono presentate con immagini sia le materie prime utilizzate (carne e verdure) sia la pietanza a
preparazione ultimata, con l’intento di fornire chiaramente al cliente l’idea
della funzione d’uso del bene e stimolarne l’acquisto.
La forma e il materiale del contenitore
Vengono entrambi venduti in brick maneggevoli e facilmente accessibili,
secondo diverse quantità e formati: mentre Brodoè (di carne, di verdure e
di pesce) è distribuito in Tetra Pak da 500 ml, Star offre i suoi brodi nelle
tre varianti (carne di manzo, verdure e carne mista) in una confezione da
750 ml richiudibile. La scelta di queste grammature sono funzionali alle
esigenze del cliente, che vuole acquistare il bene a un prezzo modico, avere
un prodotto pratico e da consumare in una, al massimo, due volte, e che
occupi poco spazio nella dispensa di casa o in frigorifero.
In tal modo, mentre il primo prodotto è adatto per un consumo di due
persone, l’altro è ideale per una piccola famiglia composta mediamente da
tre soggetti. E se così non fosse, Star offre al single, all’anziano o all’impiegato che vuole fare una pausa pranzo leggera ed equilibrata la possibilità di richiudere con l’apposito tappo la confezione, conservando il gusto
e la qualità del prodotto rimasto all’interno per quattro giorni, qualora il
prodotto venga conservato in frigorifero. Alla funzionalità del tappo per il
cliente, si contrappone però la minore praticità dal punto di vista logistico
ed estetico (Fontana, Rubinelli, 2010).
L’uso del “cartone” come involucro comunica da un lato l’impegno
aziendale verso una maggiore eco-compatibilità, dall’altro la facilità d’uso
e di smaltimento del prodotto da parte del cliente. Brodoè, in particolare, è costituito da un Tetra Pak riciclabile, composto da carta, polietilene
e alluminio, che protegge il prodotto da quegli agenti esterni, come aria e
luce, che potrebbero deteriorarlo. A differenza de I Brodi è stato per diverso tempo rivestito da una pellicola plastificata lucida che attribuisce una
maggiore lucentezza e brillantezza ai colori e alle immagini raffigurate, tra140
“Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova?”:
l’esperienza di novellini giovanni srl
smettendo al prodotto un maggiore senso di modernità16. Nonostante ciò,
a partire dal 2010 non è più ricoperto dallo sleeve, e quindi si presenta con
una confezione più semplice e basica, simile nel materiale usato a quella di
Star. Tale soluzione permette all’impresa di essere più efficiente dal punto
di vista economico, produttivo, organizzativo ed ecosostenibile, come pure
di rispondere all’esigenza di maggiore funzionalità e praticità da parte del
cliente, che quindi non è più costretto a perdere tempo nel dotarsi di forbici
per tagliare la pellicola avvolgente il cartone.
3.2. L’attività di comunicazione relativa a Brodoè e I Brodi
Gli investimenti in comunicazione effettuati da Novellini Giovanni riguardano:
- le pubblicità su giornali e riviste di settore (benessere e cucina), come
“Cucina Naturale”, che promuove soprattutto prodotti biologici, oppure “Il Gusto”, dedicato alla gastronomia alimentare ed “Eurocarni”,
mensile delle carni di tutte le specie animali, delle tecniche di lavorazione, trasformazione e conservazione;
- la predisposizione di stand all’interno di supermercati con diffusione
di brochure e folder informativi;
- la recente creazione del sito web aziendale che si presenta con i caratteri tipici di un sito vetrina (grafica semplice e “artigianale” e assenza
di interattività), proponendo la storia dell’impresa, dei vari prodotti e
alcune utili ricette.
Inoltre, particolarmente significative sono le partecipazioni annuali alle
varie manifestazioni fieristiche nazionali e internazionali, come “Cibus”
(Parma), “Anuga” (Colonia - Germania), “PLMA” (Amsterdam), “Marca”
(Bologna) e “La Fiera del Riso” (Isola della Scala in provincia di Verona),
occasioni per far conoscere il prodotto, farlo assaggiare, creare curiosità
intorno ad esso da parte sia del consumatore sia dei mass media, che in tal
modo diffondono informazioni sull’esistenza del prodotto e dell’azienda.
In questa direzione, l’imprenditore ha deciso di sponsorizzare alcuni
eventi sportivi, tra cui ad esempio la Marcialonga, la gara di sci che ogni
anno si tiene a Cavalese in Trentino Alto Adige.
Le difficoltà insite nella scelta di investire in comunicazione sono sostanzialmente legate ai costi molto elevati delle varie possibili attività,
come pure assumono un peso determinante le criticità nel riuscire a valutare l’efficacia delle iniziative intraprese.
Agli inizi le confezioni di Brodoè erano molto più semplici, meno attraenti e più tradizionali, sia
nei colori (tutto giallo per il brodo di carne e tutto verde per quello vegetale) sia nelle raffigurazioni, che proponevano solo l’immagine (peraltro non molto invitante) del brodo.
16
141
Angelo Bonfanti e Valentina Novellini
Problemi che non riguardano, almeno non così pesantemente, il budget
delle grandi aziende: in effetti, per le maggiori risorse finanziarie e manageriali a disposizione, ma anche per la consolidata e coinvolgente capacità
comunicativa a fondamento del suo successo17, il Gruppo Star ha intrapreso
un’aggressiva campagna pubblicitaria per promuovere I Brodi su tutto il
territorio nazionale. Si stima che solo per il flight di lancio del nuovo prodotto in tv, l’impresa abbia investito 2,5 milioni di euro: il messaggio diffonde
la presenza sul mercato italiano di un prodotto unico e destinato a cambiare
le abitudini di consumo di molti. Ecco alcuni dei diversi slogan promossi
attraverso i vari media, come televisione, web, giornali e pubblicistica:
- “I brodi Star, il gusto italiano per eccellenza direttamente in tavola”,
- “Tutta la bontà del brodo fatto in casa, pronto ogni volta che vuoi!”,
- “La bontà del buon brodo come fatto in casa. Per la prima volta già pronto”.
Il lancio di questo prodotto è stato affiancato, nonché rafforzato a livello
di immagine e di notorietà, anche da Milly Carlucci quale testimonial, come
si legge dal comunicato stampa che ha preceduto la campagna promozionale in tv (Box I).
Box 1 - Comunicato stampa relativo al lancio in tv de “I Brodi” di Star
[…] Il nuovo spot tv, realizzato da Leo Burnett e on air dal 17 gennaio 2010, conferma di posizionamento della storica azienda che, ispirandosi al claim “Ti adoro gusto italiano”, esprime tutto il proprio
amore verso la cultura e la tradizione culinaria del nostro Paese”.
Da sempre in grado di anticipare i gusti e le abitudini degli Italiani, Star apre un segmento di mercato
ancora inesplorato con una grande innovazione: un brodo già pronto per essere gustato e preparato
secondo la ricetta tradizionale.
Protagonista del nuovo spot è Milly Carlucci, un’icona televisiva popolare e cara alle donne e alle
famiglie di tutta Italia. Del resto, la hall of fame di Star vanta nella storia celebri personaggi del calibro
di Totò, Aldo Fabrizi e Rachel.
La creatività dello spot è semplice e immediata: Milly Carlucci fa incursione nelle nostre case, facendo
provare “in diretta” il nuovo brodo Star.
Mettendosi ai fornelli accanto a una donna italiana, la nostra beniamina prepara con le sue mani
squisiti tortellini per lei e per la sua famiglia, ovviamente utilizzando il brodo pronto Star.
La padrona di casa, inizialmente dubbiosa ma, allo stesso tempo incuriosita, mostra di essere pienamente soddisfatta dell’ottimo risultato.
Intrusa gradevole e vivace, Milly Carlucci rappresenta un personaggio immediato e familiare, che
ha saputo conciliare il successo con la famiglia, e con al quale tutte le generazioni di donne italiane
possono identificarsi.
Fonte: http://www.barabino.it/upload/documenti/STAR15_1nuovospot.pdf
17
“Pochi prodotti sono presenti nella storia italiana da così tanto tempo e con una tale continuità. E pochi marchi, come alcuni capostipite dell’assortimento Star, sono stati protagonisti in
comunicazione così a lungo. Seguendo l’evoluzione dei costumi e dei linguaggi, Star ha cercato
142
“Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova?”:
l’esperienza di novellini giovanni srl
3.3. Alcune considerazioni di sintesi sulle strategie adottate per promuovere i brodi pronti
A chiusura di questa analisi prettamente qualitativa, è possibile constatare come la PMI prediliga il canale della stampa, con particolare interesse
per le riviste di settore, e inoltre sia consapevole dell’impossibilità, almeno
attuale, di usufruire in maniera diretta dei mezzi di comunicazione di massa, come la tv e la stampa nazionale.
Meno costosa, ma pur sempre efficace per farsi conoscere dal cliente finale, è l’adozione di forme di comunicazione below the line, in grado di stabilire un filo diretto con i consumatori all’interno del punto vendita, come
pure puntare sulla partecipazione a fiere per rivolgersi al mercato di primo
livello e migliorare la comunicazione veicolata tramite l’web.
Entrambe le aziende sono orientate alla comunicazione di prodotto,
tramite la quale evidenziano le peculiarità di alimento rivoluzionario in
cucina, naturale, made in Italy e di qualità, tanto quanto alla comunicazione
di servizio, investendo, attraverso il packaging, sulla possibilità di offrire al
cliente un prodotto in modo pratico e funzionale.
Ovviamente il Gruppo Star, potendo contare su un brand forte e vitale,
associa anche un ulteriore tipo di comunicazione di servizio: garantisce
il prodotto attraverso la propria esperienza e competenza in ambito alimentare e riesce a valorizzare l’innovazione agli occhi del consumatore,
usufruendo per di più delle sinergie create tra i vari media di advertising
(come stampa, televisione, radio e internet) e gli eventi di comunicazione.
Del resto, attraverso colori, immagini, dimensioni, forme e parole l’impresa può comunicare con i consumatori prima, durante e dopo l’esperienza
d’acquisto e consumo, pubblicizzando il prodotto sulle pagine di una rivista, in tv, nelle vetrine di un negozio e all’interno dei vari punti vendita.
Apparirà forse scontato rilevarlo, ma con ogni probabilità Star non teme
la concorrenza né avverte la necessità di differenziare I Brodi da Brodoè,
in quanto le potenzialità di diffusione di questo piccolo e poco conosciuto
marchio sono allo stato attuale limitate.
Nella fase di lancio del nuovo prodotto, il principale competitor de I Brodi appare più che altro il Dado Star: in effetti, non è immediato far capire la
differenza ai clienti, portati ad “immaginarlo per quello che non è: il dado
nel tempo di adattare l’offerta dei propri prodotti ai cambiamenti delle abitudini alimentari e di
essere sempre vicina ai consumatori attraverso comunicazioni coinvolgenti e di successo. Non
solo. Se si guarda indietro alla storia della pubblicità Star, si nota la ricorrenza puntuale di alcuni
temi base, sintetizzati in slogan solidi e duraturi, che ancora tutti ricordano. Con questa coerenza,
Star si è ritagliata un posto unico nella memoria collettiva dei consumatori e nella cultura alimentare del nostro Paese. Non è un caso se diciamo che oggi nove famiglie su dieci usano prodotti
Star perché in essi trovano una garanzia di successo. La storia più recente della comunicazione
Star è sintetizzabile in tre slogan: “Tutto il sapore di casa mia” […]; “Star è sempre con me” […];
“Star. Il tuo segreto in cucina” […]”. Al riguardo, si veda il sito aziendale: http://www.star.it/default.aspx?idPage=187.
143
Angelo Bonfanti e Valentina Novellini
Star già disciolto in acqua. Un’operazione che a casa porta via esattamente
lo stesso tempo che serve per portare in temperatura il nuovo brodo pronto”. In realtà, Star intende con I Brodi “avvicinare una parte importante
di quei responsabili di cucina che quotidianamente rinunciano all’utilizzo
del dado nella preparazione del brodo, per farselo direttamente” (Fontana,
Rubinelli, 2010, 49).
Chi teme, invece, l’espansione di questo colosso sul mercato è indubbiamente Novellini Giovanni.
A fronte di questi problemi e della minaccia rappresentata dalla pressione competitiva esercitata da questa grande azienda, che presumibilmente
si andrà sempre più consolidando sul mercato anche con questo nuovo
prodotto, sorge spontaneo chiedersi se ci saranno e, quali saranno, le possibilità di crescita future, quali risorse alimentare per intravvedere in questa
minaccia qualche opportunità.
Le risposte a questi interrogativi sono connesse alla storia dell’impresa,
nata e cresciuta, in termini dimensionali, relazionali e qualitativi (Grandinetti, Nassimbeni, 2007) per la volontà e la passione in particolare dell’imprenditore, da sempre motore dello sviluppo di questa azienda.
4. Il futuro di un imprenditore innovatore? … continuare a innovare
Brodoè nasce e si sviluppa come innovazione di prodotto e di processo, ma non solo. Può anche definirsi innovazione strategica, in quanto attraverso essa l’impresa è riuscita a “trovare un nuovo modo di stare sul
mercato” (Collesei, Collesei, 2006, 419), sfruttando la creatività in funzione della domanda e dell’ambiente che continuamente mutano, al fine di
sviluppare nuove idee che, introdotte sul mercato, possano soddisfare le
esigenze e i problemi emergenti della clientela.
In questo, è possibile intravedere la capacità di Giovanni Novellini di
aver saputo leggere i cambiamenti in atto, ponendosi nell’ottica di offrire
ai clienti un elevato contenuto di servizio time saving.
Del resto, agli inizi di Brodoè non esisteva nulla: c’erano solo tanta passione e motivazione per creare qualcosa di nuovo e di utile per preparare
un brodo come fatto in casa pur venendo fatto in un’industria. Nessuno in
impresa, dall’imprenditore ai suoi collaboratori (interni ed esterni), conosceva esattamente gli ingredienti e le dosi giuste per giungere all’attuale
ricetta, nessuno sapeva quali fossero le tecnologie e gli impianti più adatti
da implementare in azienda, e, ancora, nessuno pensava all’importanza
del packaging e a quello più idoneo da usare.
Il percorso dell’innovazione è stato intrapreso grazie ai tratti imprenditoriali (lungimiranza e coraggio, voglia di innovare e sperimentare, tenacia
e determinazione, curiosità e apertura mentale e relazionale) e alle doti
144
“Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova?”:
l’esperienza di novellini giovanni srl
manageriali (costanza e metodo nella gestione dei processi d’impresa) di
Giovanni Novellini, supportato dalle diciotto persone del suo team, alle
quali ha sempre dato ampio spazio per esprimere opinioni e suggerimenti
(abilità di leader) (Gennaro, 1997; Vergani, 1998; Baccarani, Brunetti, 2003).
Di fronte a ogni minaccia l’imprenditore ha sempre reagito riflettendo
con ottimismo, pensando che “i problemi sono solo opportunità in abiti da
lavoro” (Henry J. Kaiser) e che “in mezzo alle difficoltà abitano le opportunità” (Albert Einstein).
Anche di fronte al posizionamento de I Brodi sul mercato, che è senza
dubbio una minaccia, “è possibile cogliere qualche opportunità”, sostiene il Sig.
Novellini: “non siamo in grado di sostenere elevati investimenti in comunicazione, ma possiamo trarre vantaggi dalla pubblicità promossa da Star a livello nazionale sul suo nuovo prodotto”. In effetti, sfruttando la concorrente, Novellini
Giovanni può rivolgersi, a costo zero e in maniera indiretta, a un mercato
ben più ampio, che per di più già conosce il prodotto e che potrebbe acquistare anche Brodoè per curiosità, per valutarne le differenze con il prodotto
concorrente o anche solo porsi come veicolo di diffusione della sua esistenza attraverso il passaparola.
L’imitazione pertanto non ha solo una valenza negativa: come aveva già
rilevato Schumpeter (1971), essa svolge un ruolo significativo per lo sviluppo dell’intera società, perché da un lato consente ai vantaggi dell’innovazione di non rimanere concentrati in un’unica impresa, dall’altro spinge
l’imprenditore-innovatore a non bloccare il processo innovativo, quanto
piuttosto a stimolare in lui il desiderio di continuare a innovare.
Al riguardo, Novellini Giovanni non è un’impresa paralizzata dalla quotidianità, ma anzi è proiettata all’ampliamento delle linee produttive (attualmente quella relativa alla preparazione del brodo di pollo) e
all’estensione a segmenti di mercato diversi da quelli finora serviti, ma pur
sempre interessati all’acquisto del prodotto, come quello dei celiaci.
Quindi, un imprenditore innovatore deve sì soddisfare il proprio bisogno di introdurre sul mercato innovazioni, ma per mantenere un duraturo vantaggio competitivo è, in un certo qual modo, anche costretto, paradossalmente condannato, a innovare continuamente, a guardare oltre lo
short-termism e a pensare al futuro, solcando strade ancora poco, se non per
niente, esplorate.
Angelo Bonfanti
Università degli Studi di Verona
[email protected]
Valentina Novellini
Università degli Studi di Verona
[email protected]
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Angelo Bonfanti e Valentina Novellini
“Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova?”:
l’esperienza di novellini giovanni srl
Riassunto
Bibliografia
Il case study propone la storia di Novellini Giovanni srl, PMI alimentare del Nord Est
italiano, fondata nel 1978 dall’omonimo imprenditore.
In particolare, mette in luce come tale impresa abbia creato una nuova categoria di
prodotto, il brodo già pronto all’uso per quanti desiderano mangiare sano e genuino, ma
non hanno tempo da dedicare ai fornelli (Brodoè). Inoltre, presenta come la presenza di
multinazionali (Gruppo Gallina Blanca-Star) che offrono il medesimo bene (I Brodi) possa
rappresentare sia una minaccia dalla quale difendersi, sia un’opportunità da sfruttare.
L’esame è condotto attraverso un approccio qualitativo con un confronto esplorativo di
iniziative di marketing e comunicazione adottate dalle due imprese per diffondere il valore
dei rispettivi prodotti sul mercato, consentendo di delineare in chiave strategica i punti di
forza e i possibili ambiti di miglioramento dell’azione della PMI.
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Abstract
The case study proposes the history of Novellini Giovanni srl, food SME of the Italian
East North, founded in 1978 by the homonym entrepreneur.
The work shows that this enterprise has created a new category of product, a ready
broth to use for the customers that desire to eat healthy and genuine, but don’t have time
to devote to the kitchen stoves (Brodoè). Moreover, it examines the emergent threats and
opportunity from the presence of multinationals (Gallina Blanca-Star Group), that they
offer the same product (I Brodi). The analysis is conducted through a qualitative approach
with an exploratory comparison of marketing and communication initiatives, adopted by
the two enterprises to spread the value of the respective products on the market, allowing
to delineate in strategic key the points of strength and the possible improvements of SME’s
action.
Jel Classification: M13 - entrepreneurship; m31 - marketing
Parole chiave (Key words):
PMI, imprenditore, innovazione di prodotto, packaging, comunicazione d’impresa, gestione strategica (SME, entrepreneur, product innovation,
packaging, business communication, strategic management)
Siti web
http://www.altroconsumo.it/
http://www.barabino.it/web/
http://www.giovanninovellini.it/
146
http://www.largoconsumo.info/
http://www.star.it/
http://www.symphonyiri.it/
147
FOCUS FISCALE
Rubrica di novità legislative e giurisprudenziali
riguardanti le piccole e medie imprese
“PICCOLA IMPRESA” SOCIETARIA ED ACCERTAMENTI BANCARI
di Thomas Tassani
1. Premessa
Una recente sentenza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione
(n. 19493 del 13/9/2010) ha posto nuovamente al centro della attenzione
del dibattito scientifico e professionale il tema degli accertamenti bancari e,
in particolare, dell’utilizzo dei conti e dei rapporti intestati a soggetti terzi.
Tale profilo risulta particolarmente importante soprattutto in relazione
alle “piccole imprese” societarie, ossia alle società di persone oppure alle
società di capitali a ristretta base proprietaria, in cui i rapporti tra i soggetti
a vario titolo coinvolti (soci, amministratori, familiari) nella gestione delle
impresa risultano particolarmente “fluidi”.
Il caso oggetto della sentenza era quello di un accertamento (ai fini delle
imposte dirette), operato dall’Amministrazione finanziaria nei confronti di
una società di capitali a ristretta base familiare (composta da due soci, tra
loro cugini) e fondato sulle movimentazioni rinvenute sul conto della suocera del socio amministratore unico della medesima società.
2. Il funzionamento della presunzione legale
La sentenza n. 19493/2010 si sofferma, in primo luogo, sul funzionamento della presunzione legale contenuta negli articoli 32, primo comma,
n. 2, D.p.r. 600/73 e 51, secondo comma, n. 2, D.p.r. 633/72, che consente
all’Amministrazione finanziaria di imputare gli elementi risultanti dai conti1 direttamente a ricavi dell’attività svolta, senza che “risulti necessario
1
Si parla comunemente di accertamento “bancario” e di “conti”, tuttavia occorre sottolineare che,
ai sensi dell’art. 32, n. 7, D.p.r. 600/73 (e dell’art. 51, n. 7 del D.p.r. 633/72), l’Amministrazione
ha la facoltà di richiedere a banche, Poste, intermediari finanziari, imprese ed organismi di investimento, società di gestione del risparmio e società fiduciarie, “dati, notizie e documenti relativi
Rivista Piccola Impresa/Small Business - n. 1, anno 2011
149
“Piccola Impresa” Societaria ed accertamenti bancari
Thomas Tassani
procedere all’analisi delle singole operazioni, la quale è posta a carico del
contribuente, in virtù dell’inversione dell’onere della prova”.
E’ questa una affermazione ormai consolidata nella giurisprudenza di
legittimità2, nonostante in dottrina si sia dubitato della natura legale e
quindi della automaticità della presunzione3, peraltro giudicata ragionevole dalla Corte Costituzionale4.
Ragionevolezza che pare fondarsi sia sul carattere “oggettivo” dei dati
bancari, sia sulla effettiva possibilità, per il contribuente, di dare la prova
contraria, in sede amministrativa e giurisdizionale.
E’ però da notare come, per un verso, simile “ragionevolezza” sia più
difficilmente affermabile in relazione alla presunzione di “ricavi e compensi” collegata, dall’art. 32, primo comma, lett. b), D.p.r. 600/73, ai prelevamenti e non solo ai versamenti, benché anche per questo aspetto la Corte
Costituzionale abbia confermato la legittimità della disciplina 5.
Non solo, ma la Corte di Cassazione ha giudicato applicabile la presunzione legale alle ipotesi dei prelevamenti (e non solo dei versamenti) anche
nel settore dell’Iva, nonostante l’art. 51 Dpr 633/72 non contenga una chiara disposizione in questo senso, presente invece nell’art. 32, Dpr 633/72.
E’ stato quindi ritenuto che i movimenti bancari siano in questo modo
riferiti all’attività svolta in regime Iva, in modo tale da “qualificare gli accrediti come ricavi e gli addebiti come corrispettivi degli acquisti” (sent.
n. 1064 del 11/5/2009); che l’omessa fatturazione Iva può essere provata
anche attraverso prelevamenti, “di cui il contribuente non dimostri la contabilizzazione, cosicché li si possa configurare come ricavi non dichiarati”
(sent. n. 1034 del 6/5/2009); che l’emissione di assegni da parte dell’ama qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata, ivi compresi i servizi prestati” e le
“garanzie prestate da terzi” relativamente ai loro clienti. L’art. 33, commi 2 e 3, D.p.r. 600/73 (e
così l’art. 63, D.p.r. 633/72) prevede poi la facoltà, per gli Uffici dell’Agenzia e per la Guardia di
Finanza, di rilevare direttamente gli elementi di cui sopra tramite accesso.
2
Tra le tante, sentenze nn. 7766/2008; 2821/2008; 7329/2003; 430/2008; 3115/2006.
3
TOSI, Segreto bancario: irretroattività e portata dell’art. 18 della legge n. 413/1991, in Rass. Trib., 1995,
1383 ss.; PORCARO, Accertamenti bancari tra violazione di legge e giudizio sul fatto, in Corr.trib.,
1999, 3180; CONSOLO, Segreto bancario e sua permeabilità al fisco: recenti evoluzioni normative, in
Boll.trib., 1992, 492; MULEO, L’istruzione, in Giurispr.sist.dir.trib., diretta da Tesauro, Torino, 2001,
529; COMELLI, Gli accertamenti bancari nei confronti di terzi rispetto al soggetto verificato, in Corr.
trib., 2003, 1163.
4
CORTE COST., ord. n. 260 del 3/7/2000.
5
CORTE COST., sent. n. 225 del 6/6/2005. Sul tema, MULEO, “Dati”, “dabili” ed “acquisibili” nelle
indagini bancarie tra prove ed indizi (cenni minimi sulla abrogazione delle c.d. sanzioni improprie), in Riv.
dir.trib., II, 1999, 605 ss.; FRANSONI, La presunzione di ricavi fondata sui prelevamenti bancari nell’interpretazione della Corte Costituzionale, in Riv.dir.trib., 2005, 967 ss.; MENTI, L’equiparazione ai ricavi
dei prelevamenti bancari di somme non annotate nelle scritture contabili, in Dir.prat.trib., 2005, 991 ss.
Sulla estensione della disposizione anche ai professionisti, per effetto della legge Finanziaria per
il 2005, sia consentito rinviare a TASSANI-BULGARELLI, Riforma dell’Irpef e modifiche al sistema
tributario: osservazioni in merito alle principali novità fiscali introdotte dalla legge finanziaria 2005, in
Studium Iuris, 2005, 584-5.
150
ministratore, in assenza di documentazione commerciale, determini la presunzione che la società abbia effettuato operazioni non fatturate di acquisto e rivendita di beni (sent. n. 7813 del 31/3/2010).
Anche una seconda affermazione della recente sentenza n. 19493/2010
riproduce un indirizzo giurisprudenziale pacifico, relativamente alla necessità o meno per l’Ufficio di attivare il contraddittorio con il contribuente, invitandolo a fornire chiarimenti.
Secondo la Corte, infatti, tale invito non costituirebbe un obbligo per
l’Amministrazione finanziaria, ma solo una facoltà, di cui può avvalersi in
piena discrezionalità. Ne consegue che “il mancato esercizio di tale facoltà
non può quindi determinare l’illegittimità della verifica operata, né comporta la trasformazione della presunzione legale in presunzione semplice”.
Sebbene la dottrina prevalente sostenga una interpretazione diametralmente opposta, ritenendo l’attivazione del contraddittorio quale pre-condizione per potere utilizzare il meccanismo della presunzione legale, fino
ad ora la Corte di Cassazione non ha mostrato alcuna apertura rispetto a
questo diverso orientamento6, nonostante la stessa prassi dell’Amministrazione finanziaria sia nel senso di invitare gli uffici e gli organi periferici ad
instaurare il contraddittorio, nelle ipotesi di accertamenti bancari 7.
3. La riferibilità al contribuente di conti intestati a terzi
L’aspetto più interessante della recente sentenza della Corte, è pero rappresentato dal profilo della riferibilità al contribuente accertato del conto
bancario.
La lettura giurisprudenziale condivisa è, infatti, nel senso di non ritenere limitata l’attività di indagine ed il potere di accertamento ai soli conti e
depositi “formalmente intestati” al contribuente accertato, essendo consentito all’Amministrazione finanziaria di provare la “natura fittizia” dell’intestazione o, “comunque, la sostanziale riferibilità … dei conti medesimi o
di singoli dati od elementi di essi” 8.
CORTE CASS., Sez. Trib., sent. N. 14847 del 5/6/2008; ID., sent. n. 22179 del 17/6/2008; ID.,
sent. n. 2821 del 6/11/2007; ID., sent. n. 144675 del 23 giugno 2006; ID., sent. n. 13808 del 27 giugno 2005; ID., sent. n. 8422 del 8/1/2002; ID., sent. n. 7267 del 17 maggio 2002: ID., sent. n. 4601
del 29 marzo 2002; ID., sent. n. 2814 del 26 febbraio 2002: ID., sent. n. 518 del18 gennaio 2002.
In termini critici rispetto a simile orientamento, SERRANO’, Sulla opportunità del contraddittorio
nelle indagini bancarie, in Boll.trib., 2008, 533 ss. Sul tema, CORDEIRO GUERRA, Questioni aperte
in tema di accertamenti basati su dati estrapolati da conti correnti bancari, in Rass.trib., 1998, 560 ss.;
MICELI, Il diritto del contribuente al contraddittorio nella fase istruttoria, in Riv. dir. trib., II, 2001, 371
ss.; PICCARDO, Utilizzo presuntivo dei dati bancari: sul contraddittorio preventivo e sull’applicabilità
al lavoro autonomo, in Dir. prat. trib., II, 2000, 398 ss
7
Circ. AE, n. 32/E/2006; Circ. GdF, n. 1/2008.
8
Tra le altre, CORTE CASS., Sez.trib., sent. n. 2980 del 14/12/2001; ID., sent. n. 13391 del
21/2/2003; ID., sent. n. 17243 del 22/5/2003; ID., sent. n. 20268 del 23/7/2008; ID., sent. n. 23652
6
151
Thomas Tassani
Ciò che deve essere provato è la circostanza che il conto, nonostante la
formale intestazione, è utilizzato per i rapporti e per l’attività del soggetto
terzo, essendo quindi nella concreta ed effettiva disponibilità di quest’ultimo. Si tratta di una circostanza di fatto, che, nella interpretazione giurisprudenziale, è in grado di integrare i requisiti legislativi del “rapporto
intrattenuto” e della “operazione effettuata”, in quanto sostanzialmente
riferibili ad un soggetto diverso dal titolare.
Ed appare altrettanto pacifico che tale prova possa essere fornita, da
parte dell’Amministrazione, anche tramite presunzioni semplici, purché
gravi, precise e concordanti.
Uno schema presuntivo tipicamente utilizzato dagli Uffici è quello in
base al quale la presenza di “particolari legami” tra il terzo intestatario ed
il contribuente sarebbero in grado di provare la riferibilità a quest’ultimo
del conto bancario.
Può trattarsi di legami di ordine personale, con riferimento ai familiari della persona fisica accertata. Oppure di legami societari, come nel caso
di soci ed amministratori della società oggetto di accertamento; oppure di
legami allo stesso tempo societari e personali, per i familiari di soci ed amministratori della società accertata.
Appurati simili legami, l’Ufficio presume che i conti intestati ad uno di
questi soggetti siano utilizzati dal contribuente per i propri rapporti e le
proprie attività. Il fatto noto è costituito dal rapporto tra contribuente e
soggetto terzo; il fatto ignoto, che si assume provato, è quello della riferibilità al contribuente del conto.
In termini generali la giurisprudenza accetta tale tipologia di presunzione, anche se negli ultimi anni si sono creati due orientamenti per quanto attiene la valutazione delle condizioni di gravità, precisione e concordanza,
di cui all’art. 2729 c.c., della presunzione medesima.
Un primo filone giurisprudenziale ritiene pienamente legittima la presunzione in esame, quando la stessa si riferisca a società di persone o a
società “a ristretta base proprietaria” oppure, in generale, per i rapporti
familiari “stretti” delle persone fisiche.
La “ristretta base proprietaria” di una società di capitali, è stata ritenuta
sufficiente per presumere la riferibilità alla società dei conti intestati a soci,
amministratori ed ai loro familiari9.
Alla stessa conclusione si è giunti in una ipotesi di controllo quasi totalitario di una S.r.l., per quanto attiene ai conti del socio titolare del 90% del
del 10/7/2008. In questo modo, come rileva LUPI, Indagini bancarie e soggetti terzi: la necessità di
una valutazione amministrativa, in Rass.trib., 2002, 2089, si presuppone che il potere di indagine
possa essere rivolto al “contribuente”, inteso come ogni “soggetto nei cui confronti si svolgono
le indagini, anche a prescindere da quello cui si dovrà indirizzare l’atto impositivo”.
9
CORTE CASS., Sez.trib., sent. n. 6743 del 1/3/2007; ID., sent. n. 13391 del 21/2/2003; ID. sent.
n. 5 del 14/1/2008.
152
“Piccola Impresa” Societaria ed accertamenti bancari
capitale sociale, utilizzati per l’accertamento nei confronti della società10.
Con riferimento alle società di persone, è stata affermata la identificazione
tra soci ed amministratori, da una parte, e società dall’altra, al fine della
utilizzabilità dei conti11.
In caso di attività esercitata da una persona fisica (imprenditore o lavoratore autonomo), è stato ritenuto sufficiente il rapporto tra genitore e
figlio oppure quello tra marito e moglie12.
Secondo un diverso orientamento, invece, l’Amministrazione avrebbe
anche l’onere di dimostrare la puntuale riferibilità delle movimentazioni bancarie al soggetto non intestatario, non potendosi di per sé ritenere
sufficiente, per qualificare la presunzione, la prova dei “vincoli familiari o
commerciali”13.
Affermazione che può essere letta nel senso che la presunzione basata
genericamente sui “particolari rapporti” prima esaminati non potrebbe essere considerata di per sé come grave, precisa e concordante, divenendo
quindi inidoneo strumento di prova, come tale non in grado di sorreggere
l’accertamento bancario e, quindi, la conseguente presunzione legale.
Come si legge nella ordinanza della Sezione Tributaria della Corte di
Cassazione n. 27186/200814, per cui la riferibilità al contribuente dei conti
intestati a soggetti legati a questo da un rapporto “organico o familiare”
sarebbe una “semplice possibilità, sia pure avvalorata dalla concreta osservazione del fenomeno” e non, invece, una “regola di comune esperienza
rispondente al canone dell’id quod plerumque accidit”.
In assenza di una presunzione legale di riferibilità all’attività fiscalmente rilevante del contribuente delle movimentazioni dei conti di terzi, collegati al contribuente in virtù dei “particolari rapporti” di cui si è detto,
ciò comporta l’onere per l’Amministrazione finanziaria di dare la prova di
quegli “elementi concreti, diversi dalla semplice relazione con l’intestatario, che collegano il conto al contribuente”.
Esaminando le sentenze più recenti della Corte di Cassazione, in particolare dal 2008 in poi, è possibile considerare questo secondo orientamento
come quello attualmente prevalente15.
CORTE CASS., Sez.trib., sent. n. 2980 del 14/12/2001.
CORTE CASS., Sez.trib., sent. n. 2738 del 3/11/2000; ID., sent. n. 4987 del 9/10/2002.
12
CORTE CASS., Sez.trib., sent. n. 8683 del 14/1/2002; ID., sent. n. 18868 del 28/6/2007. In
quest’ultima sentenza, la Corte ha altresì affermato che la considerazione dei rapporti personali
o societari assume di per sé rilievo a maggior ragione in caso di accertamento di ufficio, essendo
legittimo, ex art. 41, D.p.r. 600/73, anche l’utilizzo di presunzioni c.d. “semplicissime”, ossia
prive dei requisiti della gravità, della precisione, della concordanza
13
CORTE CASS., Sez.trib., sent. n. 17243 del 22/5/2003; ID., sent. n. 19213 del 6/7/2007; ID., sent.
n. 13819 del 7/3/2003; ID., sent. n. 1728 del 27/11/1998; ID., sent. n. 8826 del 9/4/2001; ID., sent.
n. 6073 del 10/10/2002.
14
Del 8/10/2008.
15
Sentenze nn. 27186/2008; 23652/2008; 3300/2009; n. 19362/2008; 21454/2009; 25632/2009;
17387/2010.
10
11
153
Thomas Tassani
Circa gli elementi probatori ulteriori rispetto al solo legame personale/societario in grado di fondare la presunzione, nelle diverse sentenze si è attribuito valore a circostanze quali:
• il fatto che i versamenti venivano effettuati nei libretti in concomitanza
con la riscossione di assegni provenienti dai clienti della società;
• la circostanza che il socio non svolgesse attività tali da motivare la titolarità di così cospicue somme di denaro;
• che i libretti (al portatore) erano nel possesso del socio ma intestati a nomi
di fantasia;
• l’acquisizione di dichiarazioni di terzi (nella specie, dell’amministratore
della società accertata) che affermavano l’utilizzo da parte della società
del conto a terzi intestato;
• la mancata partecipazione al contraddittorio del contribuente, invitato
dall’Ufficio, quale indice per avvalorare la presunzione.
4. Segue: la recente sentenza della Corte di Cassazione
Se si considera l’evoluzione della giurisprudenza di cui si è dato conto
nel paragrafo precedente, le motivazioni di diritto contenute nella sentenza
n. 19493/2010 possono, a prima vista, apparire come un “ritorno indietro”
rispetto ad una soluzione interpretativa meno garantista per il contribuente.
La Corte, infatti, afferma che “l’estensione delle indagini bancarie anche
a soggetti terzi rispetto alla società non può ritenersi illegittima in quanto
tutti detti soggetti hanno riferimento nella società o quale amministratore e
soci o quale congiunto di questi e, quindi, in una società, come nella specie,
la cui compagine sociale e la cui amministrazione è riferibile ad un unico
ristretto gruppo familiare ben si può ritenere che l’esistenza di tali vincoli sia sufficiente a giustificare la riferibilità al contribuente accertato delle
operazioni riscontrate sui conti correnti bancari intestati a tali soggetti”.
Inoltre, la verifica “può estendersi anche ai conti dei congiunti degli amministratori della società contribuente, essendo il rapporto familiare sufficiente a giustificare, salvo prova contraria, la riferibilità del contribuente accertato delle operazioni riscontrate sui conti bancari degli indicati soggetti”.
Si tratta di affermazioni nette, in base alle quali sembra che la mera sussistenza di vincoli di tipo familiare/societario sia in grado di giustificare la
presunzione in esame.
Tuttavia la lettura della sentenza, così come di ogni sentenza, non può
limitarsi ad estrapolare alcuni passaggi delle motivazioni di diritto, essendo invece necessario calare tali principi nel caso concreto oggetto dei diversi gradi di giudizio.
Orbene, nel caso di specie, si trattava di una società composta da due
soci, tra loro cugini, di cui uno era anche amministratore unico ed entram154
“Piccola Impresa” Societaria ed accertamenti bancari
bi i soci erano delegati ad operare sul conto bancario del soggetto terzo, che
era la suocera dell’amministratore.
Lo scenario fattuale su cui i giudici di merito si sono espressi, ed in relazione ai quali la Cassazione ha fornito il proprio parere di legittimità, era
cioè molto chiaro nel prospettare un quadro di forte contiguità, non solo tra
i soci, ma anche tra il soggetto terzo ed i soci stessi. La circostanza della delega ad operare sui conti del terzo, non può non rivestire un peso determinante nelle valutazioni di merito, come tali giudicate in sede di legittimità.
Ciò non significa che la delega costituisca di per sé la prova della riferibilità di un conto formalmente intestato ad un terzo 16.
Appare invece importante valutare il complesso degli elementi probatori addotti dalla Amministrazione finanziaria come in grado, oppure no, di
qualificare la presunzione legale.
Non sembra quindi che la sentenza più recente della Corte di Cassazione valga a costituire un revirement giurisprudenziale, quanto a confermare
la necessità che la valutazione della presunzione legale sia svolta caso per
caso, alla luce del concreto quadro indiziario.
Thomas Tassani
Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
[email protected]
In passato, in una ipotesi di conto corrente intestato al figlio, la Cassazione ha ritenuto raggiunta la prova della riferibilità al padre del conto, sulla base della delega rilasciata (CORTE CASS.,
Sez.trib., sent. n. 7957 del 15/3/2007). Diversamente, in un caso analogo, la Suprema Corte ha
però sostenuto l’insufficienza di simile prova, sostenendo che il potere di delega potrebbe esprimere “compimenti di atti in nome e nell’interesse del destinatario, non ascrivibili ad operazioni
proprie del rappresentante” (CORTE CASS., Sez.trib., sent. n. 8826 del 9/4/2001). Sul tema si
veda LOVISOLO, Condizioni e limiti di applicabilità delle presunzioni di imponibilità alle operazioni bancarie desunte da rapporti formalmente intestati a soggetti terzi rispetto al contribuente
accertato, in Corr.trib., 2007, 763 ss.
16
155
Recensioni e segnalazioni
157
R.O. Hanson, «The Small Business Controller» Business Expert
Press, NY, USA, 2009
Il libro descrive il ruolo del controller nelle piccole imprese non
quotate, fornendo al lettore una
dettagliata analisi dei compiti e
delle responsabilità che vengono
solitamente attribuiti a questa figura professionale. I dati esposti derivano dall’esperienza quasi trentennale accumulata dall’autore durante la sua attività di consulente negli
Stati Uniti.
I compiti che si ritiene normalmente svolti dal controller, non
sono presentati in base al loro legame con le diverse attività – ed
i rispettivi livelli gerarchici - di
pianificazione, programmazione,
controllo direzionale e controllo
operativo, bensì in base alla natura dell’oggetto che si desidera controllare. Ciò perché nelle piccole
imprese il controller contribuisce
direttamente sia alla formulazione di decisioni strategiche che alla
guida delle attività più quotidiane.
In dettaglio, viene descritta la funzione del controller e gli strumenti
da esso utilizzati in relazione alla
gestione della tesoreria, dei crediti,
del magazzino, delle immobilizzazioni, dei finanziamenti aziendali e
delle tasse da pagare. Per ognuna
di queste aree di intervento, inoltre, vengono presentati esempi
di tabelle e report utilizzabili sia
a fini di controllo interno che allo
scopo di comunicare informazioni
economico-finanziarie ad interlocutori esterni. Mediante tali esem-
pi è possibile comprendere quali
informazioni è opportuno fornire,
quante informazioni includere in
un report e come presentarle sì che
la comunicazione risulti efficace.
Un’importante distinzione è effettuata tra l’attività di preparazione dei dati di bilancio (external financial statements) e quella di raccolta, elaborazione e condivisione
interna delle informazioni utili alla
gestione aziendale (internal financial information). Quest’ultima, infatti, richiede competenze e capacità differenti da quelle di “semplice
contabile”, attento alla precisione
dei dati forniti ed al rispetto della legge, poiché per dialogare con
il personale aziendale e guidarlo
verso il raggiungimento di certi
obiettivi è necessario possedere
capacità organizzative, di relazione interpersonale e di leadership.
Inoltre, essa rappresenta l’area in
cui il controller può maggiormente
contribuire a fare la differenza per
la piccola azienda, che non ha particolari problemi di rendicontazione esterna, aiutandola a prendere
decisioni razionali ed a tenere sotto
controllo tutti gli aspetti della gestione aziendale.
Rispetto alla grande azienda
quotata dove, secondo l’autore, i
controller hanno un ambito di operatività prevalentemente limitato
agli aspetti amministrativo-contabili, nella piccola impresa questi
professionisti partecipano attivamente alle scelte riguardanti il business (scelte di make or buy, scelte
di investimento, di finanziamento,
ecc.), dialogano con le banche ed i
159
finanziatori, con i fornitori di information technology ed i consulenti
esterni. A fronte di tali maggiori
responsabilità, però, non sempre i
controllers sono preparati, né possono contare su uno staff di colleghi con cui confrontarsi. Per tale
motivo, l’autore ritiene che nella
piccola impresa, è utile il ricorso a
consulenti e professionisti esterni.
Nonostante la descrizione abbastanza puntuale fornita dall’autore sui compiti del controller, egli
stesso riconosce che non sempre è
possibile riscontrare le medesime
responsabilità o il medesimo ruolo
nelle imprese di minore dimensione. Le funzioni attribuite possono
cambiare in modo anche significativo in base ad una molteplicità
di fattori (la dimensione, dunque,
non è un fattore esaustivo). Inoltre,
spesso, il ruolo del controller non
è neanche formalizzato, né esiste
una vera e propria job description
o, se esistente, non sempre coincide con quanto realmente svolto da
questo soggetto.
Selena Aureli
Regoliosi C., «L’impresa agrituristica: status e possibilità di sviluppo», FAngeli, Milano, 2008.
Il turismo rappresenta per alcuni paesi uno dei settori economici
trainanti in termini di fatturato,
spesa e occupazione. Alcuni dati
aggregati (World Travel&Tourism
Council 2008, Touring Club Italiano 2009) aiutano a comprendere la
dimensione economica del fenome160
no turistico a livello internazionale:
l’industria dei viaggi e del turismo
(che considera solo i dati direttamente legati ai consumi dei turisti)
pesa per il 3,4% del PIL mondiale, il
3,7% del PIL dell’Unione Europea,
il 4% del PIL italiano.
Tuttavia l’Italia, in questo contesto, soffre di perdita di competitività rispetto alle principali
destinazioni internazionali, nonostante abbia sviluppato una
importantissima tradizione turistica e disponga di un formidabile giacimento di risorse naturali, paesaggistiche e culturali.
La nozione di turismo sostenibile
deriva dall’applicazione del più
ampio concetto di sviluppo sostenibile, definito nel 1987 dalla World
Commission on Economic Development (WCED) nel rapporto Our
Common Future (più noto come
Rapporto Brundtland), come quello “sviluppo che incontra i bisogni
del presente senza compromettere
la capacità delle future generazioni di soddisfare le loro esigenze”.
Secondo il Rapporto, “le attività
turistiche sono sostenibili quando
si sviluppano in modo tale da mantenersi vitali in un’area turistica
per un tempo illimitato, non alterano l’ambiente (naturale, sociale ed
artistico) e non ostacolano o inibiscono lo sviluppo di altre attività
sociali ed economiche. Lo sviluppo
sostenibile del turismo pone alla
base del proprio sviluppo un piano
mirato a garantire la redditività del
territorio di una località turistica in
una prospettiva di lungo periodo
con obiettivi di compatibilità ecolo-
gica, socio-culturale ed economica.
La sostenibilità ha anche un valore
di immediato interesse economico,
infatti le località turistiche devono
la loro popolarità all’integrità delle
bellezze naturali, e se questa si degrada oltre una certa soglia i flussi
turistici sono destinati al declino.”
L’oggetto del lavoro di Carlo
Regoliosi, che si caratterizza per la
capacità di coniugare i temi classici dell’economia aziendale con
l’attualità della tematica da affrontare, è quello di fornire un’analisi
dello status delle imprese agrituristiche nel territorio nazionale, con
particolare dettaglio per quelle
operanti nella Regione Lazio, al
fine di individuarne – ove possibile – i punti di debolezza e le possibilità di sviluppo.
Nell’attuale contesto economico del nostro Paese, infatti, stanno
guadagnando ampio rilievo sistemi di impresa che – nel settore dei
servizi turistici – abbinano in modo
esplicito la necessaria postulazione
di adeguati livelli di surplus a sensibilità più propriamente ambientali.
Nell’ambito di questa realtà – assai
estesa – il faro dell’attenzione nel
presente lavoro è rivolto in modo
specifico al segmento agrituristico.
Il nesso di interrelazione tra
l’impresa e l’ambiente, nel settore
turismo si presenta come elemento
caratterizzante in modo assai pregnante e con un rilievo assai maggiore che non nelle altre tipologie
d’impresa.
L’impatto che un’impresa turistica produce nei confronti dell’ambiente socio-economico circostante,
infatti, nel breve o nel medio andare determina conseguenze dirette
sulla stessa sopravvivenza dell’istituto, giacché la principale fonte di
reddito di questa impresa è costituita proprio dall’ambiente in cui essa
è inserita. In altre parole, la possibilità di incidere in maniera negativa sull’ambiente determina in ogni
impresa l’insorgere di potenziali
diseconomie future, ma nell’impresa turistica questa possibilità si
presenta come potenzialmente assai più pregnante per la sua stessa
economicità.
Da quanto detto, consegue che
l’attenzione che il settore turistico
profonde nei confronti dell’ambiente (ecologico, ma non solo)
deve necessariamente essere assai
più decisa rispetto al complesso
delle altre imprese, le quali, molto
spesso, hanno introdotto le tematiche ambientali nelle strategie di
sviluppo solo in virtù dei progressi
delle legislazioni, avvenuti negli ultimi decenni, e meno per una maturata consapevolezza dell’incidenza
delle istanze sociali ed ambientali
nell’economia dell’impresa.
Paola Demartini
G.Tyge Payne, Kevin H. Kennedy, Justin L. Davis «Competitive
Dynamics among Service SMEs»,
in Journal of Small Management’,
2009, 47(4), 421-442 .
L’articolo presenta i risultati
di una ricerca svolta su piccole e
medie aziende service-intensive e
analizza le relazioni tra le variabi161
Ahlstrom D., Bruton G.D., “Rapid Institutional Shifts and the
Co-Evolution of Entrepreneurial
Firms in Transition Economies”,
in Journal of Entrepreneurship,
Theory and Practice, Volume n. 34
Anno 2010
li competitive. Lo studio esamina
come tre decisioni primarie, quali le caratteristiche economiche
dell’ambiente in cui opera l’azienda, il numero e il tipo di prodotto/servizio offerto dall’azienda e
la rivalità con i concorrenti, siano
correlate e interagiscano tra loro.
Nella letteratura precedente non è
stato analizzato l’effetto combinato
sulle performance di entrambe le
tre variabili.
Gli autori hanno analizzato il
fenomeno nelle PM industrie service-intensive nelle quali la competizione è generalmente localizzata e
i servizi molto spesso devono essere forniti presso il consumatore
finale. Specificatamente l’industria
analizzata in questa ricerca è quella
medica composta da piccole medie imprese non diversificate ma
specializzate, dove i limiti della
dimensione determinano forte presenza regionale che aumenta la rivalità tra concorrenti nel medesimo
ambiente competitivo.
In conclusione lo studio evidenzia una relazione positiva tra
la specializzazione di servizio e
la performance dell’impresa ma
non evidenzia effetti positivi tra
la specializzazione e la rivalità dei
concorrenti. Tuttavia l’interazione
delle tre variabili competitive ( specializzazione del servizio, ambiente caratterizzato da disponibilità di
risorse e rivalità tra concorrenti) ha
un impatto positivo sulle performance delle imprese.
Mutamenti nel contesto istituzionale in cui operano le imprese sono
di norma rari e molto lenti. Tuttavia,
esistono Paesi come la Russia e la
Cina che stanno rapidamente passando da economie centralizzate a
sistemi di scambio basati sul libero
mercato, privi però di regole codificate ed istituti che ne possano garantire il funzionamento.
Di conseguenza, il presente lavoro si pone l’obiettivo di comprendere come le imprese operanti in
Russia evolvono, o meglio co-evolvono, al mutare del contesto istituzionale. Oggetto di indagine sono
le new ventures ad alta intensità
tecnologica, che oltre all’incertezza
associata all’intrapresa e al mutare
della tecnologia devono adattarsi
all’instabilità generale del contesto.
Considerata l’assenza di conoscenze pregresse o teorie che possano spiegare le relazioni di causaeffetto tra imprese e contesto istituzionale delle economie in transizione, gli autori adottano un approccio di ricerca di tipo grounded
theory. I dati raccolti provengono
da interviste e documenti raccolti
in due diversi momenti temporali:
1999 e 2004.
(s.v.)
(s.a.)
162
N. Kobeissi, “Impact of the Community Reinvestment Act on New
Business Start Ups and Economic Growth in Local Markets”,
Journal of Small Business Management, vol.47, n.4, 2009
Molte comunità negli Stati Uniti sono afflitte da disoccupazione,
manodopera non qualificata ed
un elevato tasso di criminalità che
hanno avuto un forte effetto negativo sulla loro crescita economica.
Per porre rimedio a questa preoccupante situazione il Governo
statunitense ha introdotto nel 1977
l’Atto Comunitario di Reinvestimento allo scopo di indurre le banche e gli istituti finanziari a diventare più responsabili socialmente
ed a soddisfare maggiormente le
necessità di credito delle comunità locali in cui si trovano, in modo
tale da migliorare, così, il benessere
delle comunità stesse.
Partendo da questi presupposti
e considerando la mancanza di una
ricerca empirica volta a valutare
l’impatto dell’atto in questione e la
sua reale capacità di rivitalizzare
le comunità a basso reddito, il presente documento mira ad esaminare l’Atto Comunitario di Reinvestimento concentrandosi sull’impatto
delle banche sulle comunità locali
ed, in particolare, sul rapporto tra
credito bancario, nascita di nuovi
business e crescita economica.
In sostanza l’obiettivo di questo
articolo è quello di analizzare le potenziali relazioni esistenti tra attività finanziarie delle banche, nascita
di nuove imprese, nonché il loro
effetto sulla crescita economica ed
il ruolo dell’atto comunitario come
fonte di credito nelle comunità a
basso reddito.
Dopo aver evidenziato le numerose variabili che potrebbero
avere un impatto significativo sulla nascita di nuovi business e sugli
sviluppi delle comunità locali, lo
studio ha evidenziato una relazione positiva tra l’attività di prestito
delle banche e la nascita di nuove
imprese, con conseguenti effetti
anche sull’occupazione e la crescita
delle comunità locali.
(e.d.r.)
F. Grazzini, J.P. Boissin, B. Malsch,
«Le role du repreneur dans le processus de formation de la stratégie de l’entrprise acquise», Revue
International PME, Vol. 22, n. 3-4
2009.
L’articolo analizza i processi di
acquisizione di piccole imprese realizzati da persone fisiche. Gli studiosi rilevano come tale fenomeno
negli ultimi dieci anni abbia riguardato un numero stimato di circa
700.000 piccole imprese, anche si il
tasso di fallimento di queste operazioni risulta essere molto elevato.
L’attenzione sul processo di
acquisizione si concentra normalmente sull’analisi di aspetti tecnici,
ossia giuridici, finanziari e fiscali.
Gli autori nell’articolo intendono,
invece rilevare, come ci siano variabili che hanno un’influenza ancora
maggiore. Sono gli aspetti socio
economici che sottendono il pro163
cesso di formulazione della strategia che inizia a delinearsi nel momento in cui l’imprenditore prende
in mano l’impresa acquisita.
Le analisi dei casi hanno permesso di rilevare come la personalità dell’imprenditore, il suo sistema di valori, la sua esperienza e
le sue motivazioni influenzano notevolmente la percezione dell’imprenditore riguardo la situazione
aziendale e dunque conseguentemente influenzano le azioni e le decisioni, le opportunità che intende
cogliere e dunque la formazione
della strategia d’impresa. Tuttavia
esistono due tipi di ostacoli che
possono generarsi legati al processo di socializzazione organizzativa
e alla costruzione di una visione
strategica.
L’imprenditore, infatti, inserendosi in una nuova realtà imprenditoriale non è socialmente integrato
e quindi spesso si trova a doversi
scontrare con il retaggio culturale
dell’impresa acquisita e quindi si
trova ad affrontare forti resistenze
al cambiamento; inoltre la scarsa
conoscenza dell’impresa, della sua
struttura e del suo funzionamento
può portare l’imprenditore a costruire una visione strategica non
pertinente con le caratteristiche
dell’impresa stessa.
Dalle considerazioni sopra effettuate, si evince come il lavoro
svolto non ha l’obiettivo di formulare una teoria generalizzata, ma di
comprendere meglio il processo di
acquisizione delle imprese facendo particolare attenzione al ruolo
dell’imprenditore e al processo di
164
formulazione della strategia, al
fine di fornire degli utili strumenti
di supporto a coloro che decidono
di intraprendere tale percorso.
(e.s.)
J. J. Liao, J. R. Kickul, H. Ma, “Organizational Dynamic Capability and Innovation: An Empirical
Examination of Internet Firms”,
Journal of Small Business Management, vol. 47, n. 3, 2009.
Questo studio, che si colloca
nell’ambito della resource-based view
e della dynamic capability perspective,
analizza l’influenza che il resource
stock e la integrative capacity dell’impresa hanno sui processi innovativi. In particolare: per resource stock
si intende l’insieme delle risorse e
delle capacità peculiari dell’impresa, che possono generare un ritorno
economico e garantire un vantaggio competitivo; la integrative capacity si riferisce, invece, alla capacità dell’azienda di riconoscere le
opportunità e configurare e riconfigurare all’uopo il resource stock,
ovvero di sviluppare e risviluppare
le proprie risorse e capacità al fine
di cogliere e sfruttare le condizioni
propizie offerte dal mercato.
Il modello sviluppato, testato su un campione di 120 aziende
internet-based, evidenzia che sia il
resource stock che la integrative capacity influenzano positivamente l’innovazione dell’impresa. Lo studio
suggerisce, tuttavia, che la disponibilità di risorse è un fattore necessario ma di per sé non sufficiente ad
innescare processi innovativi. A tal
fine, infatti, risulta fondamentale lo
sviluppo della capacità di mobilitare, adeguare ed rinnovare le proprie risorse e capacità, nonché l’abilità di orientare in modo dinamico
lo sforzo innovativo verso le opportunità prospettate dall’ambiente. Tali fattori risultano di vitale importanza per l’azienda, così come
la tensione innovativa e la capacità
di creare un vantaggio competitivo
rispetto alle altre imprese. Questi
aspetti si rivelano ancor più determinanti nel mondo dell’e-commerce,
caratterizzato da ipercompetitività
e rapidi cambiamenti.
(a.s.)
165
AVVERTENZE PER AUTORI E COLLABORATORI
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All’Autore verrà fatto omaggio di 10 copie del numero della rivista, elevabile ad un massimo di 15
copie in caso di piu Autori.
167
Piccola Impresa | Small Business
Nel numero 2 - 2011 della rivista
compariranno i seguenti saggi:
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a
sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
Luca Ferrucci e Andrea Runfola
Il centro fieristico come polo di sviluppo locale:
un’ indagine esplorativa nel contesto umbro
Federica Palazzi
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari
italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
Lara Penco
Il processo di formazione della strategia nelle
medie imprese: un’analisi per casi
s 15,00
RIVISTA INTERNAZIONALE DI STUDI E RICERCHE
n. 2 - anno 2011
■
■
■
■
Diffusione della conoscenza e sviluppo locale
Un polo per lo sviluppo locale:
il centro fieristico
Sviluppo e capitali per le Medie Imprese
La formazione delle strategie nelle Medie
Imprese
Editrice Montefeltro
Editrice Montefeltro
1
Editrice Montefeltro s.r.l.
Via Puccinotti, 23
Urbino – Italy
Tel. e fax 0722 2800
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Rivista Piccola Impresa/Small Business®
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Piccola Impresa/Small Business è una rivista quadrimestrale interamente dedicata alla
pubblicazione di studi e ricerche sulla piccola e media impresa. È stata fondata nel 1987 dall’
Associazione per lo Studio della Piccola e media Impresa (A.S.P.I.), Università degli Studi di
Urbino “Carlo Bo”, via Saffi 42, Urbino.
Piccola Impresa/Small Business is published every four months and is entirely devoted to the
problems of small and medium-sized firms. lt was started in 1987 by the Associazione per lo studio
della piccola e media impresa (Aspi), Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, via Saffi 42, Urbino.
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“Carlo Bo”.
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Università degli Studi Roma TRE.
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(Italy); Robert Blackburn, Kingston University (UK); Roberto Cafferata, Università degli Studi
Roma Tor Vergata (Italy); Poul Rind Christensen, University of Southern Denmark (Denmark);
Guido Corbetta, Università L. Bocconi (Italy); Giancarlo Corò, Università degli studi Cà Foscari
di Venezia (Italy); Hans Crijns, Vlerick Leuven Management School (Belgium); Emilio Esposito,
Università degli studi di Napoli Federico II (Italy); Alain Fayolle, INP Grenoble Management and
Social Sciences, (France); Simone Guercini, Università degli Studi di Firenze (Italy); Brian Gibson,
Murdoch University (Australia); Roberto Grandinetti, Università degli Studi di Padova (Italy);
Romeo Ionescu, Dunarea de Ios University (Romania); Bengt Johannisson, Vaxjo University
(Sweden); Dylan Jones-Evans, Cardiff University (UK); Pierre-André Julien, Université du
Québec à Trois-Rivières (Canada); Hans Landstrom, Lund University (Sweden); Isa Marchini,
Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” (Italy); Gerardino Metallo, Università degli Studi
di Salerno (Italy); Asko Miettinen, Tampere University of Technology (Finland); Josef Mugler,
Vienna University of Economics and Business Administration (Austria); Antti Paasio, Turku
School of Economics and Business Administration (Finland); Cosetta Pepe, Università degli
Studi Roma Tor Vergata (Italy); Emeritus J. Hanns Pichler, Vienna University of Economics and
Business Administration (Austria); Roberta Rinaldi, Università degli Studi di Bologna (Italy);
Roberto Schiattarella, Università degli Studi di Camerino (Italy); Sergio Silvestrelli, Università
Politecnica delle Marche (Italy); David Smallbone, Kingston University (UK); John Stanworth,
Westminster University (UK); Emeritus José M. Veciana, Universitat Autònoma de Barcelona
(Spain); Harold P. Welsch, DePaul University (Usa);
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e Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
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2
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Cesaroni, Massimo Ciambotti, Paola Demartini, Catherine Farwell, IIario Favaretto, Fabio
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3
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Sommario n. 2, 2011
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e presso l’Editore.
Saggi
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza
a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
di Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
pag. 11
Il centro fieristico come polo di sviluppo locale:
un’indagine esplorativa nel contesto umbro
di Luca Ferrucci e Andrea Runfola
pag. 45
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane
i casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
di Federica Palazzi
pag. 65
Il processo di formazione delle strategie aziendali
nelle medie imprese: un’analisi per casi
di Lara Penco
pag. 95
Osservatorio sulla piccola e media impresa
Case Study
La formazione imprenditoriale in Liguria: opinioni
a confronto. Il punto di vista degli attori istituzionali
di Stefania Testa e Silvana Frascheri
Focus Fiscale
La (controversa) questione della deducibilità
dei compensi erogati agli amministratori
di Thomas Tassani
Recensioni e segnalazioni
4
pag. 125
pag. 143
pag. 151
5
University of Urbino “Carlo Bo”
Faculty of Economics, Via Saffi,42
16-17 September 2011
3rd International Workshop
SMES INNOVATION PROCESS.
CHALLENGES BEYOND THE CRISIS
DRAFT- PROGRAMME
16.9.11, Friday
13.00 – 14.00 Registration delegates
14.30 – 15,15 Institutional greetings
15.15 – 16.30 Plenary session. Key-note speakers:
Robert Blackburn, Kingston Business School, Editor in Chief International Small Business Journal
Thomas M. Cooney, Dublin Institute of Technology, President of the European Council for Small
Business (ECSB)
16.30 – 18.00 4 Parallel Sessions
20.00 Gala Dinner
17.9.11, Saturday
8.30 – 10.00 4 Parallel Sessions
10.00 – 11.30 4 Parallel Sessions
11.30 – 13.30 Conclusive Plenary Session.
Topic: “Smes innovation process. Challenges beyond the crisis”. Chair: Roberto Cafferata, President
of the Workshop Scientific Committee. Speakers: Leading Academics and Experts.
7
Saggi
8
9
CREAZIONE, SVILUPPO E DIFFUSIONE DELLA CONOSCENZA A
SOSTEGNO DELLO SVILUPPO LOCALE. IL CASO GALYDHÀ1
di Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
1. Introduzione
Nel corso degli ultimi anni, nell’ambito degli studi di Economia d’Impresa, è stata riposta crescente attenzione sul ruolo esercitato dal Knowledge management per il raggiungimento ed il sostenimento di vantaggi competitivi strategici e duraturi (Civi, 2000; Davenport, Prusak 1998;
Nonaka, 1994). In particolare, è stata sottolineata l’importanza critica, per
ogni categoria di organizzazione, della condivisione della conoscenza con
i propri clienti, fornitori e competitors (Holloways, 2000; Weiss 1999; De
Long, 1996). La letteratura economica (Lopez-Bazo et al., 2002; Fahr, Sunde, 2002a, 2002b; Smith, Zenou, 2003; Gobillonet al., 2003) ha esteso l’importanza della conoscenza per il sostenimento di vantaggi competitivi duraturi dall’ambito dell’impresa all’ambito territoriale, consolidando l’idea
che la dimensione locale dei fenomeni economici risulti profondamente
influenzata dalla presenza e dalla tipologia delle conoscenze che, a seconda delle condizioni, operano in ciascun territorio.
In particolare, la letteratura sullo sviluppo locale ha posto l’accento
sull’importanza dell’interazione fra agenti economici e ambiente circostante per lo sviluppo di know how produttivi specifici. Più in dettaglio, la
dottrina ha rilevato che la capacità degli agenti economici di acquisire e
sviluppare le conoscenze tacite diffuse nel territorio può avere un ruolo decisivo per lo sviluppo della competitività della struttura produttiva locale
(Becattini 1987; Maskell, Malberg 1997).
Nella letteratura più recente, lo stesso concetto di territorio ha assunto
un significato diverso rispetto al passato. Il territorio rappresenta sempre
più un sistema di opportunità strategiche e di vantaggi competitivi esclusivi e difficilmente imitabili che affianca e supporta le imprese nell’arena
competitiva. Esso è definito come il contesto in cui le imprese definiscono
1
Nonostante il presente contributo sia frutto del lavoro congiunto di entrambi gli Autori i paragrafi 1, 2, 2.1, 2.2., 3, 4 sono attribuibili a Francesca Cabiddu, mentre i paragrafi 5, 5.1., 5.2, 5.2.1.,
5.2.2., 5.3, 6 e 7 sono attribuibili a Daniela Pettinao.
Rivista Piccola Impresa/Small Business - n. 2, anno 2011
11
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
le loro relazioni prioritarie ed il luogo in cui esse apprendono come competere per assicurarsi la sopravvivenza e la crescita (Porter, 1991). Nella stessa
ottica, “l’attrattività di un territorio” è considerata fortemente influenzata
dalla capacità relazionale (Lipparini, Lorenzoni, 1995) delle imprese, delle
altre organizzazioni e dei soggetti umani in essa presenti nonché dai conseguenti processi di accumulazione e condivisione delle conoscenze che tali
interazioni generano e favoriscono. Il territorio, dunque, “non è (solo) una
risorsa in più di cui tener conto, ma un modo diverso di guardare al processo economico. Un modo che considera l’apporto della società locale e delle
istituzioni locali alla produzione di valore economico e di vantaggi competitivi” (Rullani, 2003: 96). Così concepito il territorio offre, soprattutto per le
imprese di minori dimensioni, gli strumenti per ridurre la complessità del
processo produttivo, abbassando le barriere all’ingresso nell’attività economica. Dal punto di vista delle conoscenze, il territorio diviene il luogo
dove esse si accumulano, si sedimentano, si riproducono e si rinnovano,
trasformandosi e moltiplicandosi grazie al continuo interscambio tra fattori storici e innovazioni mediante i soggetti che li abitano (Rullani 2003).
Le imprese, di conseguenza, distribuiscono le proprie attività, oltre che in
funzione delle tradizionali convenienze allocative, anche in relazione alle
occasioni di apprendimento di cui possono usufruire le attività situate in
luoghi caratterizzati da conoscenze specifiche e distintive (Rullani, 2000;
Rispoli, 1998; Valdani, Ancarani, 2000; Vaccà, 1997; Grandinetti 2002).
Nonostante l’attenzione riservata dalla dottrina all’importanza delle conoscenze generate e diffuse a livello locale per favorire lo sviluppo di un
territorio e delle imprese in esso operanti, non esiste ancora in letteratura
una precisa formulazione teorica in merito alla possibilità, per territori caratterizzati da un forte livello di inerzia imprenditoriale, di riattivare la
spirale della conoscenza (Nonaka, Takeuchi, 1997) attraverso l’internalizzazione di conoscenza esterna. La conoscenza esterna può essere definita
come quell’insieme di conoscenze sviluppate al di fuori dei confini organizzativi (o territoriali), di cui si riconosce il valore e per l’assimilazione
delle quali si è disposti ad attivare un processo di apprendimento che consenta la loro applicazione per finalità commerciali (Cohen, Levinthal 1990).
Essa può rappresentare, pertanto, uno stimolo in grado di consentire la
ripresa dei processi di apprendimento locali attraverso la combinazione e
ricombinazione di conoscenze nuove e tradizionali. In quest’ambito, a partire dai contributi più recenti che si sono focalizzati sui processi di apprendimento e di accumulazione della conoscenza nell’ambito dei network territoriali (Cappellin, Nijkamp, 1990; Lundvalle, Johonson 1994; Audrestch,
Feldman, 1996; Cooke, Morgan, 1998; Gordon, McCann, 2000; Cappellin,
2000), l’obiettivo del presente lavoro è duplice. Da un lato, ci si propone di
colmare il gap della letteratura economico-manageriale sopra evidenziato
focalizzando l’attenzione sui processi tramite i quali le conoscenze tacite,
12
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
storiche e culturali di un territorio possono essere valorizzate da conoscenze esterne al fine di divenire la base dello sviluppo di un’area. Dall’altro
lato, si vuole, con l’analisi di un caso concreto, evidenziare le modalità operative ed i processi attraverso i quali è possibile, grazie alla conoscenza
esterna, attivare la spirale della conoscenza passando da una condizione
di semplice socializzazione delle conoscenze a quella di internalizzazione
delle stesse.
Al fine di perseguire gli obiettivi di ricerca qui esposti, nel presente lavoro si focalizza l’attenzione su un territorio particolarmente svantaggiato
della Sardegna: l’Ogliastra. Più esattamente, per supportare il framework
teorico costruito attraverso un’attenta analisi della letteratura in tema di
Knowledge management (Nonaka, 1994), si fa ricorso all’approfondimento di un single case study (Yin, 1994; Eisenhardt, 1989), l’impresa consortile
Galydhà Scarl. L’analisi del rapporto evolutivo tra la l’impresa e il territorio circostante, infatti, sollecita importanti riflessioni in tema di sviluppo
delle conoscenze e del legame potenzialmente esistente tra l’apprendimento organizzativo e la diffusione delle conoscenze sul territorio. La metodologia d’analisi prescelta risulta, in questo senso, particolarmente adatta allo
sviluppo di uno studio di tipo esplorativo come quello qui proposto.
2. Inquadramento teorico
Dalla breve analisi svolta nel paragrafo precedente emerge come i cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni richiedano non solo la rivisitazione di alcuni aspetti delle teorie sulla localizzazione ma anche la loro
integrazione con altri aspetti propri delle teorie manageriali più recenti. In
particolare, in tale contesto appare evidente come le imprese che vogliano competere con successo debbano abbandonare una visione meramente
tradizionale delle scelte di ubicazione delle imprese e adottare, invece, un
comportamento orientato alla costruzione di relazioni di natura collaborativa tra gli attori del contesto di riferimento (Franch et al., 2006). Nel prossimo paragrafo si richiama brevemente il passaggio teorico dalla tradizionale teoria della localizzazione alle più recenti teorie basate sulla diffusione e
valorizzazione delle conoscenze tacite ed esplicite di un territorio.
2.1. Alcuni elementi teorici in tema di localizzazione delle imprese
La teoria della localizzazione, quale risposta tradizionale alle scelte di
ubicazione delle imprese, è stata per lungo tempo la principale teoria di
riferimento per spiegare le fonti dei vantaggi competitivi di un’impresa
rispetto alle altre. Tale teoria parte dal presupposto che le imprese, per potersi distinguere positivamente rispetto ai concorrenti nella percezione dei
13
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
clienti, devono offrire gli stessi prodotti a costi inferiori rispetto alle rivali. Affinché questo risultato possa essere raggiunto è necessario allocare
le attività d’impresa in un determinato territorio nel modo più efficiente
possibile. In altri termini, secondo queste teorie è necessario scegliere l’ubicazione geografica che garantisce alle imprese il sostenimento di minori
costi di trasporto e di produzione, in quanto questi ultimi si presentavano
differenti nello spazio e nel tempo, per via della diversità dei costi del lavoro, del capitale e della tecnologia (Lloyd, Dicken, 1986). In particolare,
l’economista tedesco A. Weber (1909), sostiene che la scelta del sito deve
ricadere nel cosiddetto triangolo locazionale, cioè in un luogo intermedio
tra la sede di reperimento delle materie prime e il mercato in cui i prodotti
finiti possono essere venduti.
Se Weber partiva dal presupposto della riduzione dei costi, altri studiosi
dopo di lui si sono piuttosto concentrati sull’incremento dei profitti (Lösch,
1954; Christaller, 1933).
Nelle loro teorie non assume più centrale importanza la scelta localizzativa della singola impresa, bensì il miglioramento e l’efficienza dell’intero sistema economico. Secondo tali teorie, beni e servizi sono prodotti in
determinati centri e offerti con un corrispettivo di prezzo, perché sono influenzati dall’incontro della domanda e dell’offerta. I consumatori, infatti,
sono distribuiti uniformemente sul territorio e si spostano nella cosiddetta
area di mercato o di gravitazione per acquistare i beni. Secondo tale teoria, al
dilatarsi della distanza, il consumatore dovrà destinare una quota maggiore del proprio reddito al pagamento delle spese di trasporto, che assorbono
parte della cifra destinata all’acquisto, facendo diminuire progressivamente la domanda e il guadagno dell’impresa.
Gli studi neoclassici successivi a quelli sopra citati, continuano a realizzare analisi sul rapporto tra sviluppo industriale e caratteristiche territoriali che, di norma, fanno riferimento a motivazioni di tipo generale che
determinano le scelte di insediamento da parte delle imprese, mentre non
prendono in considerazione le motivazioni specifiche che, insieme alle ragioni di tipo generale, determinano la scelta di localizzazione da parte di
imprese operanti in uno specifico comparto.
I cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni comportano l’esigenza,
di riformulare alcuni aspetti delle teorie neoclassiche sulla localizzazione
le quali, pur mantenendo la loro validità, richiedono di essere adeguate ed
aggiornate per tenere conto dei principali mutamenti che si sono verificati
nel contesto nel quale le imprese si trovano ad operare. Alcune tra le più
importanti componenti che inducono a rivedere la teoria citata sono da
intravedere nelle innovazioni che hanno favorito gli scambi attenuando le
differenze tra aree connesse con la loro distanza dai centri di fornitura delle
materie prime. A tal proposito, è significativo l’esempio della siderurgia
italiana dove “Da una situazione in cui la localizzazione di tale industria
14
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
dipendeva in modo determinante dalla presenza di giacimenti minerari, in
loco, alla fine del secolo scorso si sono create le condizioni per l’annullamento o quasi di questo vincolo, grazie alla comparsa di sistemi di trasporto via mare che hanno aperto la strada a modelli alternativi di localizzazione centrati sulla presenza di infrastrutture portuali” (Varaldo, 1994: 46).
Un’altra componente di innovazione per la teoria della localizzazione
è rappresentata dall’avvento della così detta “era di Internet”, che ha consentito di affiancare allo spazio fisico uno spazio virtuale che convive con il
primo, assorbendo parte delle funzioni e dei ruoli tradizionalmente svolti
da quello fisico. In questa situazione, gli ambienti di primo riferimento e di
riferimento generale di ogni singola impresa (Usai, 2000) vengono affiancati da un ambiente virtuale. Gli ambienti in cui l’impresa si trova ad operare non sono esclusivamente gli ambiti spaziali tradizionali all’interno dei
quali si producono e si distribuiscono beni e servizi, ma sono da intendere
anche come “nodi” dai quali si diramano le fitte reti di relazioni che legano
ogni singolo territorio con le diverse aree del mondo. In altri termini, il concetto tradizionale di territorio statico e indefinito perde significatività per
lasciare spazio, attraverso il web, ad un reticolo denso e articolato di flussi
di comunicazione che avvolgono gli operatori del sistema medesimo e lo
connettono ad altri sistemi prossimi o remoti (Tagliagambe, Usai, 1999).
Un ulteriore elemento su cui pare opportuno soffermarsi, e a cui si dedicherà il paragrafo successivo, è il crescente rilievo assunto dalle conoscenze - e dalle risorse immateriali in generale - come nuova fonte di vantaggio
competitivo (Porter, 1991).
2.2. La conoscenza come fattore localizzativo
Un ulteriore elemento su cui pare opportuno soffermarsi per integrare
le teorie localizzative più sopra richiamate è il crescente rilievo assunto
dalle conoscenze - e dalle risorse immateriali in generale - come nuova
fonte di vantaggio competitivo (Porter, 1991).
Nello scenario economico attuale, infatti, le imprese decidono di distribuire le proprie attività, oltreché in funzione delle tradizionali convenienze
allocative, anche in relazione alle occasioni di apprendimento di cui possono usufruire le attività situate in luoghi caratterizzati da conoscenze specifiche e distintive (Rullani, 2000).
L’attrattività di un’area è, oggi, fortemente influenzata, oltre che dagli
altri fattori generali considerati dalle teorie tradizionali della localizzazione, sia dalla sua capacità di generare nuove conoscenze, sia dalla sua capacità di replicazione e assimilazione di conoscenze prodotte all’esterno
del territorio considerato (Gambardella, Rullani, 1999). In altri termini, i
meccanismi di creazione e trasmissione delle conoscenze hanno assunto
un ruolo cruciale nella spiegazione del successo di alcune aree e del decli15
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
no o della stagnazione di altre in quanto la competitività delle imprese è
sempre più associata alla presenza di risorse critiche di tipo immateriale
(Vaccà, 1997) poiché territori provvisti di conoscenze specifiche e di adeguate absortive capacity (Cohen, Levinthal, 1990), cioè dotati di abilità che
gli consentono di riconoscere la conoscenza esterna e di assimilarla al proprio interno, appaiono particolarmente interessanti per la localizzazione di
specifiche attività produttive.
La letteratura sullo sviluppo locale ha, inoltre, sottolineato l’importanza
dell’interazione fra agenti economici e ambiente di riferimento delle imprese nello sviluppo di know how produttivi derivanti da un corpus di
conoscenze diffuse nel territorio, e capaci di influenzare in modo decisivo, grazie alla loro specificità, la competitività della struttura produttiva
locale su mercati molto ampi (Becattini 1987; Bagnasco 1988; Brusco 1989;
Maskell, Malberg 1997; Maskell et al. 1998). Nella stessa direzione la più recente letteratura manageriale (Giuliani, 2007; Giuliani, Bell, 2005; KauffeldMonz, Fritsch, 2007; Morrison, 2008) ha evidenziato che lo sviluppo di un
territorio può essere garantito solo se si sviluppa una “relazione di rete” in
grado di favorire il ricorso alla conoscenza esterna alla singola organizzazione o al singolo territorio, cioè “una relazione di interdipendenza auto
organizzata, che lega dialogicamente le persone, le imprese ed i territori
coinvolti[…].
La rete sta, infatti, diventando la forma normale” della produzione e del
consumo di conoscenza, che ha bisogno di legami ma al tempo stesso richiede flessibilità, creatività, apertura” (Rullani, 2008: 71-73). In questo ricco e articolato contesto i processi di apprendimento collettivo radicati nel
know how locale ma, nello stesso tempo, alimentati dall’apporto di conoscenze di provenienza esterna, rappresentano un importante fattore per la
crescita delle imprese locali. Come evidenziato da Rullani “la conoscenza
ha, infatti, bisogno di reti estese ed efficaci per poter essere prodotta, scambiata, condivisa e moltiplicata negli usi” (Rullani, 2008: 72).
La rete, in altri termini, è un tipo di relazione che favorisce l’acquisizione di conoscenza proveniente da altri territori o da altri organizzazioni,
così come facilita lo sviluppo di forme di condivisione e di scambio della
conoscenza destinata a usi produttivi (Rullani, 2008).
3. La spirale della conoscenza applicata al territorio
Le considerazioni avanzate nel precedente paragrafo consentono di affermare che i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato negli ultimi decenni i sistemi economici, hanno imposto di considerare con maggiore attenzione le specificità dei contesti locali e di individuare nuovi fattori localizzativi, come l’esistenza di conoscenze specifiche e contestuali, la capacità
16
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
di assorbimento e applicazione di conoscenze esterne e, infine, l’esistenza
di reti che, propagando la conoscenza e consentendo a più persone ed a più
imprese la possibilità di lavorare insieme, in grado di favorire la produzione di valore e la costruzione di vantaggi competitivi. In questa prospettiva,
appare, opportuno definire il concetto di territorio cui si fa riferimento nel
presente lavoro. Il territorio può essere definito come “un insieme di valori
tangibili e intangibili, quali gli abitanti, la cultura, il retaggio storico, il patrimonio urbanistico e artistico, le infrastrutture, la localizzazione e ogni altro
genere di situazione tale da accrescere il valore complessivo dei vari elementi” (Kotler, et al., 1993). Studi recenti (Boschma, Frenken, 2006; Capello,
Faggian, 2005; Malmberg, Maskell, 2002) hanno esaminato i diversi flussi di conoscenze che possono caratterizzare una specifica area territoriale,
evidenziando la simultanea presenza di conoscenza tacita e di conoscenza
esplicita (Nonaka, Takeuchi, 1995; Polayi, 1966). La prima fa riferimento alle
conoscenze detenute da ogni singolo soggetto ma non rappresentabili in un
documento o in un altro supporto fisico e, quindi, difficilmente trasferibili.
Le seconde, per contro, fanno riferimento alla conoscenza trasferibile da un
individuo ad altri tramite un supporto fisico, quale può essere un libro o un
filmato o anche attraverso una conversazione o una lezione. La conoscenza
umana, asseriscono Nonaka and Takeuchi (1995), si crea attraverso l’interazione tra conoscenza tacita ed esplicita. La creazione della conoscenza inizia
a livello individuale e viene diffusa e amplificata a livello organizzativo attraverso quattro modalità di conversione della conoscenza: socializzazione,
esternalizzazione, combinazione e internalizzazione. La socializzazione, fa
riferimento ad uno scambio di conoscenze tacite tra individui che si realizza
attraverso una condivisione di esperienze.
L’esternalizzazione fa riferimento al passaggio dalla conoscenza tacita
alla conoscenza esplicita. In questa fase, infatti, le esperienze tacite degli
individui vengono esplicitate attraverso l’uso di linguaggi formali o di supporti che ne consentono il trasferimento. La terza fase, la combinazione,
fa riferimento al fatto che le conoscenze esplicite possono circolare anche
all’esterno del gruppo originario e integrarsi con altre conoscenze esplicite.
Infine, nella fase di internalizzazione le conoscenze esplicite possono venire
nuovamente inserite all’interno dell’organizzazione attraverso processi di
learning by doing, trasformandosi nuovamente in conoscenze tacite.
Sulla base dei precedenti studi teorici che evidenziano e analizzano le
diverse fasi attraverso le quali procede lo sviluppo di conoscenza all’interno delle organizzazioni, il presente lavoro si propone di verificare se
la dinamica delle conoscenze procede attraverso le medesime fasi anche
all’interno di un territorio. In particolare, con questo studio si propongono
e si verificano, con riferimento a ciascuna fase della spirale della conoscenza, le seguenti ipotesi di ricerca utili per il raggiungimento dell’obiettivo
generale del lavoro:
17
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
• la fase di socializzazione è caratterizzata dalla condivisione di usi e
costumi tipici di un territorio ed è strettamente legata alla storia delle popolazioni ivi residenti e alle loro caratteristiche culturali e antropologiche;
• la fase di esternalizzazione è caratterizzata dalla trasformazione della
conoscenza tacita in supporti come libri, quadri, filmati, ma anche attività
imprenditoriali che racchiudono e rendono in qualche modo veicolabile e
condivisibile la conoscenza tacita di un popolo;
• la fase di esternalizzazione se non alimentata, da un lato, dal tramandarsi delle conoscenze tacite di generazione in generazione che garantiscano lo svolgimento di attivate legate a saperi contestuali, o, dall’altro lato,
dall’assimilazione di conoscenze esterne, determina l’inerzia di un territorio, cioè il progressivo declino delle attività imprenditoriali esistenti (fig. 1);
• la fase di combinazione è, invece, l’integrazione delle conoscenze
esplicite con altre conoscenze dello stesso genere proprie di altri territori;
• la fase dell’internalizzazione è la trasformazione delle conoscenze
esplicite in nuove conoscenze tacite.
Affinché ciò sia possibile, è necessario che persone, territorio e agenti
economici coinvolti realizzino investimenti convergenti in “comunicazione (linguaggi, codici, canali ecc.); logistica (sistemi di trasferimento delle
persone, delle merci e delle informazioni nello spazio e nel tempo), in sistemi di autoregolazione e di governance per creare le premesse di fiducia e di
garanzia necessarie all’uso condiviso della conoscenza” (Rullani, 2008: 71).
Le conoscenze di provenienza esterna devono, quindi, essere contestualizzate e incorporate nelle routines dell’impresa e nel territorio riacquistando, attraverso questa fusione, un carattere specifico e difficilmente imitabile che costituisce un importante fattore di competitività (Storper, 1997).
Fig. 1 - Circolo virtuoso tra conoscenze esterne e saperi locali
Conoscenze esterne
+
Socializzazione
Esternalizzazione
Combinazione
Internalizzazione
Inerzia territoriale
Fonte: Nostra elaborazione sui quattro stadi della creazione di Conoscenza di Nonanaka e Takeuchi
18
Nei paragrafi successivi, si testa il framework teorico sopra ipotizzando
facendo riferimento ad un caso concreto: l’ingresso di Amalattea S.p.A.,
leader nel settore caprino sul mercato nazionale, nel mercato ogliastrino.
In particolare, si analizzano le principali azioni poste in essere da tale società che hanno consentito di recuperare i saperi incorporati in un territorio
fortemente svantaggiato e di passare da una fase di “inerzia territoriale”,
cioè di assenza di qualsiasi iniziativa imprenditoriale, ad una fase di attivazione, di esternalizzazione, combinazione ed internalizzazione delle
conoscenze nell’area geografica indagata.
4. La metodologia di ricerca
La metodologia di ricerca prescelta per il conseguimento degli obiettivi
sopra indicati è quella qualitativa. In particolare, si è deciso di impiegare la tecnica del single case study (Yin, 1994; Dubois, Gadde, 2002), adatta
a sviluppare teorie relative a fenomeni ancora poco noti nel contesto in
cui essi hanno luogo. L’uso dei casi ha, inoltre, il vantaggio di consentire
l’approfondimento di aspetti concernenti il “come” e il “perché” di eventi
contemporanei e recenti, sui quali il ricercatore abbia un controllo limitato
(Yin, 1994).
In questo studio, l’obiettivo era quello di verificare, da un lato, l’applicabilità della spirale della conoscenza al territorio e, dall’altro lato, il ruolo
della conoscenza esterna nell’attivazione (o riattivazione) della suddetta
spirale. L’oggetto dell’analisi, proprio per le sue caratteristiche di processo
ha suggerito l’uso del caso singolo.
Per la scelta del territorio da analizzare al fine di applicare il framework
teorico sopra ipotizzato, si è inizialmente proceduto all’analisi della letteratura in tema di conoscenza e sviluppo territoriale (Lopez-Bazo et al.,
2002; Fahr, Sunde, 2002a, 2002b; Smith, Zenou, 2003; Gobillon et al., 2003).
Dall’analisi di questa letteratura, si è potuto rilevare che soprattutto le
aree marginali (cioè quelle maggiormente gravate da problemi di natura
ambientale e sociale), sono dotate di un grande patrimonio di conoscenze
locali (Dematteis, 1983; Corason, 2004-2007), che però risultano spesso ingessate e statiche, ma degne di essere recuperate, mobilitate e valorizzate.
Una successiva analisi dei dati statistici sulla natalità e mortalità delle
imprese in Italia, ha consentito, inoltre, di evidenziare che le aree del Mezzogiorno, pur essendo dotate di un buon patrimonio di conoscenze tacite,
sono le aree caratterizzate dal minor tasso di crescita delle imprese (0,32%),
mentre il Centro e il Nord-Ovest mostrano tassi di crescita (1,18% e 0,88%)
superiori alla media nazionale (0,59%) (Svimez, 2010).
Alla luce dell’analisi della letteratura e delle fonti statistiche, il Mezzogiorno è apparso un’area adeguata allo studio del fenomeno da indagare.
19
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
All’interno di tale area, in base ai criteri per la scelta del caso da analizzare
indicati da Pettigrew (1997)2, si è deciso di selezionare un contesto – l’Ogliastra - ed una società - Galydhà - che consentissero un facile accesso per la
raccolta dei dati e che rappresentassero una situazione estrema dal punto
di vista degli elementi da indagare. In Sardegna, la provincia dell’Ogliasta
rappresenta, infatti, uno dei territori socialmente ed economicamente più
svantaggiati. Partendo da questo presupposto e seguendo l’iter indicato da
Van de Ven (2007)3 per l’avvio dei programmi di ricerca, si è organizzato un
workshop con dirigenti di organizzazioni operanti in Ogliastra (imprese
ed enti pubblici) potenzialmente interessate al tema oggetto di indagine
per evidenziare, attraverso il confronto delle prospettive dei diversi stakeholders, gli aspetti cruciali del fenomeno da indagare.
Tale modalità operativa ha consentito di entrare in relazione con le imprese operanti nel territorio e definire in modo puntuale il problema da
indagare, nonché il protocollo da utilizzare per le interviste in profondità.
I dati primari sono stati raccolti, essenzialmente, attraverso quattro
strumenti:
• osservazione sul campo;
• interviste in profondità ai manager che rivestono ruoli chiave nel
gruppo Amalattea-Galydhà e, segnatamente, ad Andrea Prato, socio, consigliere delegato e direttore di produzione del Gruppo, attualmente Assessore all’Agricoltura; Maurizio Sperati, socio e amministratore delegato del
gruppo Amalattea-Galydhà e, infine, Maria Antonietta Luciani, direttore
marketing e comunicazione del gruppo Amalattea-Galydhà;
• interviste in profondità ai responsabili di talune Istituzioni che stanno portando avanti progetti di sviluppo inerenti il territorio interessato. In
Secondo Pettigrew è possibile costruire un case study rispettando cinque proprietà fondamentali che, analizzate in una dimensione processuale, volgono a differenziarlo dal case history, attribuendogli maggiore valenza esplicativa. Secondo le indicazioni fornite da Pettigrew per la costruzione di un caso di studio è necessario, innanzitutto, individuare il filo conduttore e i meccanismi che guidano la sequenzialità del processo da analizzare. L’analisi di tali aspetti deve essere
condotta con riferimento ad una molteplicità di livelli e non può essere fatta seguendo un punto
di vista esclusivamente interno. È, infatti, di fondamentale importanza prendere in considerazione anche il contesto di riferimento (economico, sociale, politico e competitivo) dell’impresa. Oltre
allo studio del contesto, particolare rilievo nella costruzione del case study deve essere attribuito
anche al tempo: lo studio del processo deve avvenire con riferimento agli elementi passati, a
quelli presenti e ai possibili sviluppi futuri. È, inoltre, necessario, nell’esposizione del caso, legare
tra loro i vari livelli d’analisi individuati con gli elementi contestuali e temporali selezionati per la
costruzione del caso stesso. Infine, è necessario legare l’analisi del caso così costruito agli obiettivi
generali della ricerca condotta e ai risultati attesi.
3
Van de Ven indica quattro passaggi utili al fine di coinvolgere gli stakeholder nella stesura e
nell’implementazione di un progetto di ricerca: definire il problema e le ipotesi di ricerca che si
vogliono indagare nel mondo reale, sviluppare teorie interpretative alternative alle quali ricondurre le ipotesi di ricerca, progettare la ricerca in modo tale da poter valutare empiricamente i
modelli interpretativi alternativi, applicare i risultati della ricerca al fine di rispondere alle ipotesi
formulate.
2
20
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
particolare sono stati intervistati i referenti delle agenzie Laore, agenzia per
l’attuazione dei programmi regionali in campo agricolo e per lo sviluppo
rurale, Agris, agenzia della Regione Sardegna per la ricerca scientifica, la
sperimentazione e l’innovazione tecnologica nei settori agricolo, agroindustriale e forestale e Argea, agenzia per la gestione e l’erogazione degli aiuti
in agricoltura della Regione Sardegna;
• analisi dei documenti contabili e di riviste specializzate di settore.
Le interviste sono state realizzate nell’arco temporale di un anno (20082009) ed hanno avuto una lunghezza media di due ore ciascuna. Ogni intervista è stata, inoltre, registrata, trascritta e sottoposta a successiva analisi
da parte degli intervistati.
La ricerca condotta è di tipo descrittivo (Selltiz et al., 1976) ed è stata
realizzata seguendo il metodo deduttivo che prevede la formulazione di
un’ipotesi, in merito ad alcuni concetti chiave da sottoporre, solo in un momento successivo, a verifica mediante l’applicazione ad un caso specifico.
5. Il caso di studio: la società consortile Galydhà
La possibilità di applicare il modello della spirale della conoscenza al
territorio comporta l’esigenza di indagare aspetti diversi dello stesso fenomeno. In questa prospettiva, l’analisi del caso è suddivisa in modo da
evidenziare l’esistenza, da un lato, di conoscenze tacite diffuse all’interno
di una specifica area territoriale e soggette ad un processo di logoramento
che ne stava decretando il progressivo declino e, dall’altro, di conoscenze
esplicite possedute o ricreate dall’impresa Galydhà nel suo processo di sviluppo e di assimilazione di conoscenze esterne.
Conseguentemente, la presentazione del caso parte dall’analisi delle conoscenze che definiscono la struttura del settore caprino e che consentono
di evidenziare come l’area oggetto d’indagine costituisca una delle regioni
italiane a più alto valore di conoscenze tacite detenute. Successivamente, la
presentazione del percorso evolutivo seguito dalla società Galydhà, ed in
particolare il suo ingresso a far parte del gruppo Amalattea, consentono di
mettere in evidenza come la combinazione tra conoscenza tacita territoriale e conoscenza organizzativa possa essere considerata uno dei fattori che
consentono all’impresa il raggiungimento di performance competitive di
rilievo (si vedano la tabella 3 e il grafico 2).
Infine, l’analisi congiunta di questi elementi consente di evidenziare
come un territorio ricco di conoscenza tacita soggetta ad un processo di
depauperamento dovuto ad un elevato livello di inerzia territoriale sia in
grado, grazie all’ingresso di conoscenza esterna dovuto all’azione di Amalattea su una specifica impresa locale (Galydhà), di riattivare la spirale della conoscenza consentendo all’impresa il raggiungimento di risultati sod21
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
disfacenti e al territorio la riattivazione di attività legate al contesto agropastorale che andavano via via perdendosi.
Campania
5.1. Struttura e caratteristiche del settore caprino in Italia e in Sardegna
Lombardia
I dati dell’ultimo censimento Istat del 2000 mostrano come, in Italia,
l’allevamento caprino sia praticato da oltre 60 mila imprese pur avendo registrato una contrazione pari a circa il 35% rispetto agli anni novanta. Contestualmente alla riduzione del numero di imprese dedite a questo tipo di
allevamento, si è assistito ad un incremento dei capi allevati da ogni singola realtà aziendale essendo passati da 14 a 23 capi per impresa. Nonostante
questo trend, in Italia continuano a permanere due condizioni profondamente diverse che, per il tipo di allevamento e per le relative conoscenze
che esso incorpora, consento di dividere il Paese in due macro aree: il nord
con imprese di piccole dimensioni contraddistinte da un allevamento di
tipo stanziale e da alte rese produttive; il centro-sud, più importante per
consistenza numerica degli allevamenti, caratterizzato da imprese con allevamenti estensivi, una minore diffusione delle applicazioni tecnologiche
e una maggiore prevalenza di conoscenze tacite legate alle modalità di allevamento tradizionale.
Tra le regioni italiane, la Sardegna è quella in cui il patrimonio caprino
risulta più numeroso per quantità di capi allevati e, conseguentemente,
si configura come il più importante produttore nazionale di latte caprino.
In essa viene allevato il 24% del patrimonio caprino nazionale (tabella 1) e
viene prodotto ben il 52% del latte caprino italiano.
Tab. 1 - Consistenza e distribuzione del bestiame caprino in Italia
Regioni
Valle d’Aosta
2.858
Friuli-Venezia Giulia
5.223
Trento
6.702
Liguria
8.295
Marche
Umbria
6.647
7.099
Di cui capre
2.397
4.554
7.974
Basilicata
100.897
Calabria
157.606
Sicilia
Sardegna
ITALIA
124.489
234.296
957.248
46.335
86.734
103.808
127.158
198.769
801.938
Fonte: nostra elaborazione su dati Istat al 1 dicembre 2008
All’interno della Regione, tuttavia, la distribuzione degli allevamenti
non è uniforme ma essi appaiono concentrati quasi esclusivamente nella provincia dell’Ogliastra nella quale è presente il maggior numero di
allevamenti caprini di tutto il territorio nazionale. In tale contesto la filiera caprina è composta da oltre 40.000 capi allevati e più di 450 piccole
o piccolissime imprese, il cui latte alimenta, prioritariamente, un’industria di trasformazione dislocata in tutta la Provincia. Nonostante il gran
numero di imprese e di capi allevati, si tratta soprattutto di allevamenti
di capre da carne piuttosto che da latte. Nel loro complesso, infatti, le
imprese presenti nella Provincia producono una quantità di latte (pari a
circa 1.400.700 litri l’anno) considerevolmente inferiore rispetto a quella
richiesta dai trasformatori locali, i quali, a loro volta, si vedono costretti a
fare ampio ricorso all’importazione da paesi quali la Francia (che produce circa 600 milioni di litri l’anno), la Spagna e la Grecia (con circa 500),
l’Olanda (160) e la Germania.
Comune
Arzana
Baunei
Elini
N. di imprese dedite
all’allevamento caprino
N. di capi
23
3.068
55
5.012
6
77
15
12
796
637
2.374
Ilbono
12
171
10.232
Lanusei
24
20.314
Lotzorai
10.693
Bolzano
18.231
14.233
38.182
53.953
41.350
28
12.588
Lazio
47.879
Gairo
7.569
Abruzzo
24.933
41.660
Cardedu
6.762
9.681
Trentino Alto Adige
47.992
5.681
6.081
Molise
12.967
Puglia
Barisardo
6.908
Toscana
36.622
4.872
8.759
9.551
43.353
Tab. 2 - Consistenza e distribuzione dell’allevamento caprino in Sardegna
Emilia-Romagna
Veneto
22
Caprini
Totale capi allevati
Piemonte
31.546
Girasole
Jerzu
Loceri
Osini
7
51
17
1.773
20
517
4
15
685
79
344
23
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
Perdasdefogu
Seui
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
21
2550
23
4.276
Tertenia
33
2.683
Triei
23
Urzulei
42
Talana
Tortolì
Ulassai
Ussassai
Villagrande Strisaili
Totale
30
8
22
3
29
469
4.684
76
466
1.460
3.359
348
5.669
41.155
Fonte: nostra elaborazione su dati Laore Sardegna (Agenzia per l’attuazione dei programmi e lo sviluppo
rurale in agricoltura)
Coerentemente con la tendenza rilevata a livello nazionale, il sistema
di allevamento più diffuso è quello estensivo, con utilizzazione diretta dei
pascoli naturali, scarsi investimenti tecnologici e mungitura effettuata con
i metodi tradizionali. Un seppur modesto impulso all’ammodernamento
del settore è stato dato grazie ai finanziamenti erogati sulla base dall’applicazione dei regolamenti comunitari in materia di sviluppo rurale. Tuttavia,
la ridotta dimensione degli allevamenti e la scarsa propensione agli investimenti e all’innovazione non costituiscono gli unici punti di debolezza
che impediscono la crescita e lo sviluppo del settore. Ad essi si aggiungono
anche la diffusa senilizzazione degli allevatori accompagnata dall’assenza
di turnover generazionale; una forte propensione all’abbandono dell’attività; la mancanza di intese di filiera e di accordi interprofessionali per la
fissazione dei prezzi; lo scarso ricorso all’associazionismo e alla cooperazione. Queste caratteristiche fanno si che il settore caprino in Sardegna si
presenti poco incline all’innovazione, con una moltitudine di imprese in
cui l’esigenza di cambiamento è avvertita ma non soddisfatta e con un basso grado di concorrenza interna. Ragionando in un’ottica di filiera emergono ulteriori fattori di criticità legati alla mancanza di adeguate strategie di
marketing a supporto di produzioni casearie tipiche e di qualità e all’eccessiva dipendenza dalle importazioni di latte. All’esistenza di queste carenze
strutturali e organizzative fa da contrappeso la presenza di alcuni elementi
potenzialmente in grado di rivitalizzare il settore quali, per esempio, la
crescente attenzione dei consumatori verso le produzioni tipiche e tradizionali qualitativamente riconosciute e legate al territorio di produzione; la
rilevanza economica e sociale delle attività volte a perpetrarle; le esternalità positive legate a questo tipo di allevamento.
24
5.2. Dalla Galydhà Scarl al gruppo Amalattea-Galydhà: storia evolutiva di un’impresa e del suo legame col territorio
La Società Consortile Galydhà S.c.a.r.l. è stata costituita alla fine del 1997
su iniziativa di un gruppo di operatori economici (allevatori e cooperative
di produzione casearia) con lo specifico obiettivo di realizzare, a Villagrande Strisaili, piccolo comune dell’Ogliastra, un importante impianto produttivo per la valorizzazione del latte di capra prodotto dagli allevamenti
presenti in tutta la Provincia.
A partire dal 2003, Galydhà S.c.a.r.l. ha cercato di collocare la propria
produzione di latte di capra UHT, inizialmente venduto nel solo contesto regionale, anche sul mercato nazionale. Lo sviluppo del core business,
però, ha ben presto incontrato alcune difficoltà connesse alla mancanza
di un’idonea organizzazione commerciale, di una rete logistica efficace
per assicurare l’immissione del prodotto nei canali distributivi, all’inadeguatezza degli strumenti di marketing e comunicazione. A tali difficoltà si
sono aggiunte quelle inerenti le elevate spese per la commercializzazione
e le campagne di promozione dei propri prodotti nel canale della Grande
Distribuzione Organizzata, individuata quale partner principale, nonché i
costi inerenti la diffusione della cultura del consumo di latte caprino presso il consumatore finale. Il 2003 ha segnato anche il vero anno di avvio
dell’attività aziendale, con un fatturato iniziale di 72.000 €. L’attività si è
sviluppata in autonomia fino al 2006 (in cui è stato conseguito un volume
d’affari pari a 800.681 €), anno caratterizzato da performance negative (sia
sotto il profilo delle performance aziendali, sia per quanto riguarda il clima
organizzativo) che hanno portato all’interruzione della linea produttiva e
alla conseguente chiusura dello stabilimento.
Nonostante Galydhà avesse iniziato il processo di sviluppo della conoscenza tacita verso una conoscenza esplicita, passando dalla fase di socializzazione alla successiva fase di esternalizzazione che avrebbero dovuto
portare ad un’alimentazione continua della conoscenza, gli alti costi che
caratterizzavano i processi produttivi hanno portato alla chiusura dell’attività. L’abbandono dei saperi e delle competenze tipiche dell’attività di
lavorazione del latte caprino ha contribuito ad un impoverimento del territorio in cui tali saperi erano radicati sia perché ha rappresentato un depauperamento dell’identità storica e culturale dell’area ma anche, e soprattutto, perché ha rallentato lo sviluppo economico dell’area stessa strettamente
legato ad attività connesse alla pastorizia.
A sua volta la dismissione di quei saperi locali ha determinato una sorta di “inerzia territoriale” che ha impedito l’attivazione di nuove iniziative imprenditoriali legate alla pastorizia per un lungo triennio. L’inerzia, in altri termini, ha interrotto il circolo virtuoso che si era ottenuto nel
tempo con l’impegno e l’investimento da parte dei partner coinvolti nella
25
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
Società e ha esposto le conoscenze tradizionali in ambito agro-pastorale
ad un processo di erosione ulteriormente aggravato dalla marginalizzazione della comunità locale nello sviluppo economico. In tale contesto le
conoscenze hanno smesso di evolversi, divenendo, col passare del tempo,
una base inadeguata per consentire alle imprese di affrontare situazioni
e problemi nuovi in un mercato globalizzato. Tuttavia, in tale circostanza
è stato possibile interrompere il circolo virtuoso dell’inerzia territoriale
grazie all’ingresso di nuove conoscenze che hanno riattivato il passaggio
dalla conoscenza tacita alla conoscenza esplicita, fino quasi ad arrivare al
processo di internalizzazione.
In particolare, nel 2006 la Sardacaprini S.r.l. acquista la maggioranza
del capitale della Galydhà S.c.a.r.l. divenendone la nuova controllante. A
sua volta, la Amalattea S.p.a., leader nel settore caprino sul mercato nazionale, diviene proprietaria del 50% della nuova controllante. La Amalattea
S.p.a., che ha iniziato la propria attività nel 1998, rafforza, in questo modo,
la propria leadership nazionale integrando le proprie potenzialità commerciali con quelle industriali della Galydhà Scarl. Con il proprio know
how scientifico e tecnologico e la grande competenza commerciale maturata, la Amalattea S.p.a. imposta nuove linee di sviluppo strategico per
consentire alla Società consortile di superare la crisi in atto. In particolare,
nel biennio 2008/2009 attua un piano di sviluppo dello stabilimento, sia
sotto il profilo dimensionale (la superficie occupata ora è pari a 18.000
mq), che sotto quello tecnologico, ponendo le basi per il consolidarsi del
primo polo caprino italiano.
Con l’ingresso di Amalattea, Galydhà ha potuto colmare alcuni dei punti di debolezza che caratterizzano le imprese del settore in Sardegna. In
particolare l’impresa ha potuto compiere un salto dimensionale che le ha
permesso, da un lato, di affinare le proprie conoscenze e le proprie capacità
di fare produzione e commercializzazione e, dall’altro, di implementare il
proprio patrimonio tecnologico diventando, in seno al gruppo Amalattea,
il più grande polo produttivo di latte di capra in Italia. L’ingresso di Amalattea, ha fatto si che Galydhà colmasse le proprie carenze grazie alla possibilità di contare su una base logistica integrata e su un asset commerciale
ben collaudato proiettando le proprie strategie in un’ottica di filiera. Oggi
Galydhà S.c.a.r.l. rappresenta il polo produttivo del Gruppo Amalattea ed
è in grado di offrire una gamma di prodotti al mercato nazionale ed internazionale estremamente variegato (latte, formaggi, gelati, biscotti ecc.)4.
4
Oltre a quello italiano, il gruppo ha come riferimento molti mercati esteri. Esporta, infatti, i propri prodotti in Canada, Germania, Regno Unito, Austria, Stati Uniti, Slovacchia e, recentemente,
anche in Cina.
26
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
5.2.1. La situazione finanziaria
La risoluzione dei problemi di produzione e distribuzione, seguita all’ingresso di Galydhà nel gruppo Amalattea, è il chiaro segno della rinnovata
capacità dell’impresa di acquisire e utilizzare un patrimonio di conoscenze
volte alla valorizzazione delle risorse specifiche del contesto in cui essa
opera. Tale capacità si è conseguentemente tradotta nel miglioramento dei
principali indici economici e finanziari.
Tab. 3 - Alcuni dati di bilancio della Galydhà Scarl
2003
2004
2005
2006
2007
2008
73.390
512.291
580.232
800.681
1.182.250
1.958.235
Ebitda
-15.145
-353.326
179.321
-113.220
2.256
-321.236
ROI
-
-
-14,71
-22,99
-14,46
-10,05
Volume
d’affari
ROA
ROE
-2,55
0,84
-9,71
0,19
-2,44
23,54
-4,52
13,66
-2,83
6,39
-2,01
15,83
Fonte: nostra elaborazione su dati della Società
In particolare, il volume d’affari evidenzia una crescita costante a partire dal 2003, primo anno di attività, seppur in presenza di un ebtida tendenzialmente negativo a causa, prioritariamente, dell’impossibilità di ottenere
economie di scala nell’acquisto e nella trasformazione della materia prima
(che ha raggiunto un’incidenza mediamente del 63% sul volume d’affari
conseguito) nonché da altre diseconomie di vario genere. Il cambio di gestione avvenuto nel 2006 con l’intervento della controllante AMALATTEA
S.p.A ha consentito, oltre ad un incremento del volume d’affari (+ 47% rispetto all’esercizio 2006 con un incremento della quantità di prodotto allocata sul mercato pari al 29%), all’Ebitda di ritornare in ambito positivo
sia attraverso una razionalizzazione degli acquisti del latte, effettuati in sinergia con la controllante e miscelando latte reperito in Sardegna con latte
importato dall’estero, sia grazie all’introduzione di importanti innovazioni
di processo in ambito produttivo, amministrativo e di marketing.
L’analisi congiunta del ROE e del ROI evidenzia un aumento del capitale
investito (peraltro considerevolmente finanziato facendo ricorso ad apporti della controllante) che, al 2007, non aveva ancora avuto modo di mostrare i ritorni economici legati all’incremento dell’attività operativa. A questo
proposito è da notare come al 31/12/2008 il fatturato sia pari a 1.958.235
euro, evidenziando una crescita alla fine dell’anno del 65,47% rispetto
all’esercizio precedente, a dimostrazione della migliore capacità produttiva derivante alla sinergia con AMALATTEA S.p.a. Il bilancio al 31.12.2008
di fatto rappresenta l’ultimo effettivamente rappresentativo della gestione
27
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
autonoma della società alla luce del progetto di fusione in AMALATTEA
S.p.a. avviato nel 2009 e perfezionato nel mese di aprile 2010.
5.2.2. Il posizionamento del gruppo Amalattea-Galydhà nel mercato del latte di
capra in Italia
Con l’intento di cogliere le opportunità e le potenzialità del settore e forte del proprio patrimonio di conoscenze, il gruppo Amalattea-Galydhà si è
specializzato nella produzione e distribuzione di prodotti esclusivamente
a base di latte di capra. Come accennato in precedenza, infatti, negli ultimi
anni la produzione di latte caprino ha presentato una crescita significativa
e, pur essendo meno diffusa di quella vaccina5, è sempre più apprezzata dai
consumatori. In questi stessi anni, uno degli obiettivi dell’industria casearia italiana è stato quello di svincolare la produzione del latte di capra da
un’immagine arcaica che lega il comparto al suo passato pastorale introducendo innovazioni sia sul fronte della qualità e della sicurezza degli allevamenti e delle produzioni, sia sulla possibilità di trovare una più adeguata
collocazione al latte di capra e ai suoi derivati. Il settore si presenta, dunque,
caratterizzato per una duplice tendenza che porta, da un lato, alla volontà
di mantenere uno stretto legame con l’ambiente rurale nel quale tale tipo
di produzione si sviluppa e, dall’altro, dall’impegno di innovare pur nel
rispetto e nella salvaguardia delle tradizioni. Contraddistinto da questi presupposti strutturali, il mercato del latte di capra è un mercato di nicchia.
Grafico 1 - Composizione del mercato del Latte Uht - Settembre 2007
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
Nel 20076 esso rappresenta solo l’1,1% del mercato del latte UHT in Italia, contro il 79,4% del latte normale, il 2,8% del latte per l’infanzia e il
16,7% di latte UHT specializzato.
Andando ad analizzare la composizione del mercato, si nota come esso
sia costituito da un valore pari a 10.455.776 € per un totale di 4.088.973 litri
di latte che vengono distribuiti attraverso diversi canali: il 14,8% tramite il
“libero servizio”, il 19,7% negli ipermercati e il 65,5% nei supermercati (con
1.200 metri quadrati di superficie).
Tab. 4 - Commercializzazione del latte per canali di distribuzione
Tipologie di esercizi
commerciali
Valori
percentuali
Valori relativi (in litri di latte)
Ipermercati
19,7
805.528
Libero servizio
Supermercati (≥ 1200 mq
superficie)
Totale
14,8
605.168
65,5
2.678.277
100
4.088.973
Fonte: nostra elaborazione su analisi di settore
In termini di volumi, il consumo si ripartisce tra Nord Ovest (34,5%),
Nord Est (24,8%), Sud (18,1%) e Centro + Isole (22,6%9). Tuttavia, negli ultimi anni, la domanda di latte di capra e dei suoi derivati è in costante aumento soprattutto per effetto dei cambiamenti strutturali nella dieta alimentare
e per il progressivo aumento di allergie ed intolleranze al latte vaccino.
Sempre nel settembre 2007 i principali operatori sul mercato sono, con
le relative quote, Lactalis Locatelli (46,5% del mercato), Amalattea (27,6%),
Candia (9,4%), Galydhà (4,7%) e altri operatori minori.
Grafico 2 - Principali competitors nel mercato del latte di Capra UHT - Settembre 2007
Fonte: nostra elaborazione su analisi di settore
5
Secondo i dati Istat, nel 2004 su un totale di 106.548.289 quintali di latte prodotto in Italia
99.692.021sono di latte vaccino, 4.938.709di pecora, 247.030 di capra e 1.670.529 di bufala. Già
dal 2004 il latte di capra rappresentava una quota minima del complesso raccolto (0,2%), ed era
localizzato prevalentemente nel Mezzogiorno con 153.001 quintali prodotti pari al 61,9% della
produzione nazionale.
28
Fonte: nostra elaborazione su analisi di settore
6
IRI InfoScan Census – Latte Uht – Settembre 2007
29
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
La volontà di specializzarsi esclusivamente nelle produzioni caprine è
senza dubbio uno degli elementi che hanno consentito al Gruppo di imporsi come leader nel settore caprino sviluppando il mercato con tecnologie
e prodotti innovativi, rafforzando il peso dei propri marchi, aumentando
il livello di visibilità e ampliando il portafoglio della propria clientela. La
specializzazione ha, infatti, consentito lo sviluppo di una forte capacità di
lettura del mercato, anticipando, interpretando e soddisfando i bisogni della clientela in modo più efficace rispetto ai concorrenti e garantendo sempre un alto livello di qualità. Allo stesso tempo la specializzazione in un
unico tipo di produzione ha consentito all’impresa di perseguire economie
di esperienza che l’hanno portata a detenere una quota di mercato che si
aggira intorno al 50% (50.1% al febbraio 2009) con una crescita del 30% nel
corso dell’ultimo anno e oltre cinquemila clienti attivi serviti dal Gruppo
nella grande distribuzione organizzata. Un’importante scelta strategica del
Gruppo è stata quella di mantenere, accanto al marchio Amalattea, anche
quello Galydhà che, percepito e affermatosi per i suoi valori di genuinità
e tradizione, detiene, da solo, il 5% del mercato. Le analisi di mercato e le
ricerche effettuate dalla Società portano a considerare ancora importanti
spazi da conquistare. Obbiettivo del Gruppo è quello di rilanciare i prodotti di capra della Sardegna (regione che da sola, raccoglie presso i suoi
allevamenti 1/3 di tutto il latte di capra italiano), favorendo la loro commercializzazione in Italia ed esportandoli in tutto il mondo.
5.3. Le basi del vantaggio competitivo di Galydhà: localizzazione e generazione di
conoscenza
Dall’analisi delle interviste effettuate e dei documenti aziendali visionati, emerge come il nucleo centrale del vantaggio competitivo del gruppo
Amalattea e, nello specifico, di Galydhà, risieda nel patrimonio di conoscenze che le due Società sono riuscite ad attivare e a condividere con i propri
partner. Più esattamente, il vantaggio competitivo di Galydhà si basa sulla
possibilità di creare e condividere conoscenze in merito alla cultura caprina.
In particolare, il knowledge management dell’impresa è riuscito ad attivare
nel territorio il ciclo della conoscenza passando da una fase caratterizzata
dalla semplice socializzazione delle conoscenze fino ad arrivare a porre le
basi per la fase di internalizzazione delle stesse trasformando la conoscenza
esplicita in nuova conoscenza tacita e difficilmente imitabile. Inoltre, ciò che
fa del modello Galydhà un fattore distintivo non è solo la semplice attenzione che il management ha alla creazione e condivisione delle conoscenze
quanto la condivisione delle stesse con i fornitori, i partner istituzionali, il
territorio nel suo complesso e, non ultimo, i consumatori.
Il concetto di integrazione esterna, è dunque, ciò che differenzia e caratterizza il sistema di apprendimento del gruppo Amalattea-Galydhà. Il
30
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
sistema di apprendimento a cui il gruppo Amalattea cerca di dare vita è,
infatti, un sistema basato sulla costante ricerca delle condizioni per cui, al
di là della differenziazione di obiettivi e di interessi dei vari soggetti che
intervengono nella relazione, si realizza una comunione di intenti, di volontà e di impegni per il conseguimento degli obiettivi per cui è stata posta
in essere la relazione stessa. In altri termini, il management di Galydhà,
riconoscendo come fattore critico di successo l’insieme delle conoscenze
diffuse nel territorio e possedute dai diversi partner con cui porta avanti
il proprio progetto imprenditoriale, vede la possibilità di generare nuove
conoscenze non solo con riferimento all’interno dell’impresa quanto, piuttosto, in rapporto a tutta la rete di relazioni che il management è stato in
grado di attivare. L’adozione di questo punto di vista da parte del management ha consentito, da un lato di formulare le ipotesi di applicazione della
spirale della conoscenza al territorio e, dall’altro, di comprendere come le
conoscenze tacite e sedimentate dello stesso potessero entrare a far parte
del patrimonio organizzativo dell’impresa.
A partire dalla sua specifica missione di valorizzare il latte di capra,
Galydhà sta ponendo in essere un sistema di crescita del settore basato
sulla conoscenza e sullo stretto legame col territorio. In tale percorso gioca
sicuramente un ruolo chiave il core business della società: il tipo di prodotto,
infatti, consente di coniugare con facilità gli aspetti culturali tradizionali,
quindi le conoscenze tacite ed esplicite, con tecnologie all’avanguardia in
campo produttivo e moderne tecniche di marketing. Il vantaggio competitivo di Galydhà si fonda oggi su duplice elemento che trova la sua espressione nel modello di apprendimento sperimentato dalla Società: la scelta
localizzativa e le modalità di generazione delle conoscenze. Per quanto
concerne il primo aspetto, l’analisi delle caratteristiche del settore caprino
ha consentito di evidenziare che se, da un lato, la capra costituisce uno degli animali tipici dell’allevamento sardo, dall’altro, il suo “uso” è destinato
soprattutto alla produzione di carne e non a quella del latte. La presenza di
questo elemento fa si che le competenze esistenti sul territorio si traducano
in un modello di allevamento poco idoneo all’ottenimento di grandi quantitativi di latte con le giuste qualità organolettiche. Questa caratteristica
rende di fatto inesistente il know-how legato all’allevamento di capre da
latte, pur lasciando intatti alcuni aspetti significativi come la disponibilità
e la tenacia, anche dei più giovani, a perpetrare le lavorazioni tradizionali.
Dal punto di vista delle conoscenze tacite presenti nel territorio, dunque,
nel momento della scelta localizzativa, si trattava di far emergere un sapere
cognitivo ed un saper fare legati alla cura degli animali, alla tutela del patrimonio culturale e ambientale, alla salvaguardia delle tradizioni e di “riconvertirli” al fine di allevare capre da latte piuttosto che da carne. A detta
del management di Galydhà, mancavano, però, alcuni elementi essenziali
in grado di far affiorare queste competenze quali, per esempio, la capacità
31
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
di passare da un sistema di allevamento rurale ad uno imprenditoriale e
l’attitudine ad operare in rete creando partnership stabili con altri attori del
sistema per superare i vincoli che pure esistono dal fare impresa in territori
svantaggiati.
Alcuni di questi aspetti sono stati in parte colmati grazie all’attenzione
che il management ha verso la formazione del proprio personale. A tale
proposito è da sottolineare come il personale sia sempre stato selezionato
tra i giovani (i dipendenti di Galydhà hanno un’età media di 32 anni) che
risiedono nella provincia Ogliastrina, spesso senza nessuna esperienza di
lavorazione industriale del latte. “Questa scelta”, ha spiegato Andrea Prato,
“ha la duplice finalità di assicurare la salvaguardia della cultura locale in merito
all’allevamento della capra e, contemporaneamente, di arricchire l’impresa di competenze che altrimenti non sarebbero trasmissibili. La scelta di giovani residenti ci è sembrata l’unica via per permettere all’impresa di acquisire le conoscenze
tacite presenti nel territorio permettendoci di tramutarle in patrimonio di conoscenze utili per l’impresa”. In merito alla possibilità di condividere queste
conoscenze col territorio favorendone il ritorno allo stesso, management
Andrea Prato ha tenuto a sottolineare come, “sebbene non sia ancora accaduto, per noi sarebbe un grande valore aggiunto la possibilità che qualche
nostro dipendente riuscisse, in modo diretto o indiretto, a creare un proprio allevamento di capre con il quale impegnarsi in rapporti di fornitura”.
Alle caratteristiche culturali ora evidenziate si combinano altri fattori
che hanno determinato la scelta localizzativa e che, con il passare del tempo, hanno costituito il punto di forza su cui il management di Galydhà ha
deciso di puntare. Tra questi la presenza di Istituzioni pronte e disponibili
a credere nel settore caprino, a tutelare gli interessi dei numerosi allevatori
della zona e a porre le basi dello sviluppo economico della zona puntando
su un piano di sviluppo articolato ed incentrato sulla salvaguardia e la
valorizzazione del settore primario. L’esistenza di questi fattori ha evidenziato al management di Galydhà la presenza di una “volontà relazionale”
latente in attori chiave che possono garantire lo sviluppo di un’area e che,
se opportunamente coltivata può divenire un sapere relazionale condiviso
da tutti gli imprenditori dell’area stessa. Si tratta, dunque, da un lato di creare le condizioni affinché questa “volontà relazionale” delle Istituzioni si
trasformi in sapere relazionale che le porti a creare le condizioni operative
più idonee per lo sviluppo e la crescita delle imprese del settore e, dall’altro, di favorire un modello di sviluppo basato sull’operare in rete.
In queste condizioni, il management di Galydhà si rende subito conto che la propria impresa non può essere vincente se non lega il proprio
sviluppo a quello della filiera caprina e, più in generale, allo sviluppo del
territorio nel quale sono insediati e delle conoscenze tacite in esso presenti. A costituire il vantaggio competitivo di Galydhà si aggiunge, dunque,
un secondo elemento, inedito per il settore lattiero caseario caprino: un
32
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
progetto di filiera che comporta un costante lavoro di ricerca, controllo e
aggiornamento tra i diversi attori coinvolti. Un progetto che costituisce la
cornice all’interno della quale vengono create, sistematizzate e condivise le
conoscenze sulla produzione, la lavorazione e la commercializzazione del
latte di capra, un progetto che, tratteggiando le linee di sviluppo del settore
attraverso l’azione strategica di una Società, consente l’integrazione delle
conoscenze tacite, storiche e culturali di un territorio con le competenze
esplicite della cultura imprenditoriale. La Società, infatti, si rende conto
di possedere alcune capacità, manageriali e relazionali in primis, utili al
fine di far emergere e valorizzare le conoscenze presenti sul territorio. Per
favorire la compenetrazione dei diversi saperi cui si è accennato sino ad
ora serviva, però, un progetto in grado di favorire lo scambio di conoscenze tra gli attori del sistema portando alla condivisione delle conoscenze
esplicite e all’emersione delle conoscenze tacite presenti nel territorio. Un
progetto che consentisse, a ciascuno degli attori coinvolti, di specializzarsi
nella sua specifica funzione seppure in modo funzionale al perseguimento
degli obiettivi del sistema di attori. Gli elementi cardine del percorso evolutivo che Galydhà decide di intraprendere col territorio di appartenenza
si basano su due fattori chiave: l’affermazione del concetto di multifunzionalità dell’agricoltura e la valorizzazione della filiera caprina. Per quanto
riguarda il primo aspetto, è evidente come l’attuale contesto di mercato, accompagnato da inefficienze strutturali del settore primario, determini l’ottenimento di livelli di redditività molto bassi e possa favorire la migrazione
delle popolazioni più giovani verso territori e attività alternativi. Il progressivo abbandono dell’allevamento della capra può rappresentare un serio
problema per la salvaguardia del territorio in quanto tale capo animale, per
le sue caratteristiche e le modalità tecniche di pascolo allo stato brado, rappresenta da sempre un importante anello della catena ambientale. Da ciò
deriva un ulteriore rischio legato alla possibilità di perdere un patrimonio
culturale millenario legato all’allevamento caprino nella Provincia. In questo senso, l’impegno del management di Galydhà diviene quello di favorire
i contatti tra i diversi attori del sistema attivando dei Tavoli di discussione,
concertazione e confronto tra i diversi attori al fine di individuare un modello di sviluppo locale basato sul concetto di rete che eviti lo spopolamento
delle campagne e, al contrario, favorisca l’impiego di nuova forza lavoro nel
settore primario attivando un “circuito virtuoso” di attività collaterali che
assicurino uno standard di vita dignitoso per coloro che intendono vivere
sul territorio e permanere nell’attività agricola. In merito al secondo aspetto, a chi obietta che in realtà il gruppo Amalattea ha solamente rilevato
uno stabilimento produttivo, Maurizio Sperati risponde che “noi abbiamo
rilevato un’idea. Una buona idea, e ci abbiamo creduto. Il nostro progetto, pertanto
non è più solo un progetto aziendale ma un Progetto del territorio, condiviso con
le organizzazioni di categoria e con le amministrazioni. In Sardegna” prosegue
33
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
Sperati “nel territorio e nelle istituzioni, abbiamo trovato un sistema che ci aiuta.
Le cose che stiamo facendo qua abbiamo provato a farle anche altrove senza riuscirci. Qui invece, a tutti i livelli, ci hanno dato una mano. E siamo riusciti a fare
impresa. Prima avevamo un’azienda italiana ma con latte prodotto in Francia, ora
lo stiamo sostituendo con quello sardo”. Galydhà si è fatta, dunque, promotrice di un “progetto filiera” per la valorizzazione del latte di capra che,
promosso e portato avanti dal gruppo, vede come partner circa 60 imprese,
30 enti pubblici tra cui la Provincia, la Camera di Commercio, il Gal Ogliastra e le due Università isolane. Esso coinvolge tutti gli anelli della catena,
dagli allevamenti e le strutture di trasformazione e confezionamento presenti in Sardegna, all’apparato commerciale e marketing che opera al fine
di distribuire e valorizzare i prodotti di capra sul mercato nazionale ed
estero. Il gruppo Amalattea-Galydhà partecipa direttamente e fornisce il
proprio supporto strategico e funzionale a tutte le fasi fondamentali della
filiera caprina. A tal fine ha costituito una società (Galaxia agricola) dove
si sta progettando una nuova caprinicoltura con caratteristiche innovative
rispetto agli allevamenti tradizionali, finalizzata a far crescere il comparto e
a dare un esempio agli agricoltori sia mediante la diffusione di buone pratiche, sia attraverso la costruzione di una rete di operatori che si presenti
sul mercato non più come un insieme di singoli attori ma come una filiera.
Proprio con questi ultimi sono stati siglati importanti accordi, anche economici, affinché i loro sforzi siano diretti all’ottenimento di un latte di qualità
superiore grazie alla cura dell’alimentazione, allo stato sanitario, ai sistemi
di allevamento e di mungitura, al rispetto delle norme igieniche. Afferma
l’Amministratore delegato del Gruppo Maurizio Sperati, “Il progetto per la
valorizzazione di una filiera caprina è un’importante e ambiziosa iniziativa, sono
tante le idee e le motivazioni che hanno generato questo progetto ma, prima fra
tutte, è la convinzione che il settore caprino italiano occuperà una parte importante
della competitività economica del paese. È vero che in Italia il settore è in difficoltà,
ma non per scarsa capacità delle persone. In molti paesi Europei e negli USA la
ricerca è strettamente legata all’industria e ciò va a vantaggio dell’una e dell’altra, ed è a questo modello che il “sistema di filiera caprina” proposta dal Gruppo
Amalattea fa riferimento: creare un collegamento stretto e vitale fra mondo della
ricerca e mondo produttivo”, collegamento che non può che passare per un
altrettanto stretto legame col territorio.
6. Analisi del caso: un primo bilancio del modello di combinazione delle
conoscenze territorio-impresa
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
la possibilità che essa venga riattivata grazie all’immissione in esso di conoscenze esterne in grado di dare l’avvio a nuovi processi di apprendimento. In particolare, si è voluto verificare il contributo che una nuova soluzione organizzativa (l’ingresso di Amalattea nella compagine di Galydhà)
ha apportato in termini di riallineamento delle competenze organizzative
con quelle presenti nel territorio. L’analisi dei dati raccolti consente di osservare come il successo del gruppo Amalattea-Galydhà poggi su un mix
di innovazione, tradizione e marketing che, fornendo un valore aggiunto ai prodotti del gruppo, gli ha permesso di raggiungere una posizione
di leadership nel mercato lattiero caseario caprino, divenendo anche un
benchmark di riferimento per tutte quelle imprese che cominciano ad affacciarsi nel settore. La strategia del Gruppo è quella di legare i propri marchi ad una forte immagine di garanzia e qualità dei prodotti (100% latte
di capra), rivitalizzando tradizioni gastronomiche di antichissima origine.
Per raggiungere questi risultati il gruppo ha sperimentato un modello di
apprendimento che si basa sui concetti di rete e di partnership e che si
snoda lungo due direttrici cardine: il radicamento nel territorio ed il rapporto continuo e diretto con la propria clientela. Con specifico riferimento
al modello di apprendimento del gruppo Amalattea-Galydhà, il management ha sottolineato come il processo che l’impresa sta portando avanti,
con specifico riferimento agli aspetti legati all’emersione e alla valorizzazione delle competenze tacite presenti nel territorio, sia ancora agli inizi
e sia pertanto difficile valutarne compiutamente gli effetti. Il modello che
loro stanno sperimentando, infatti, necessita, per poter dare appieno i suoi
effetti di ulteriori e più stretti legami con le Istituzioni presenti sul territorio. Tuttavia, il rispetto e la considerazione che essi hanno sempre avuto
per i loro dipendenti e il dialogo costante con le associazioni di categoria ha
contribuito ad arricchire e diffondere nella Provincia la cultura industriale,
favorendo un lento passaggio da un sistema rurale di allevamento di capre
da carne basato su attori isolati ad un sistema industriale di allevamento di
capre da latte incentrato sui concetti di rete e di partnership. Dallo schema
sotto riportato (Tabella 5) appare evidente come la creazione di una relazione forte con il territorio da parte di Almalattea abbia portato all’attivazione
del ciclo di conoscenza di Nonaka, passando dalla fase di socializzazione,
a quella di esternalizzazione, fino ad arrivare a quella di condivisione. Il ciclo non può essere considerato ancora completo perché non si è giunti alla
fase di internalizzazione. Quest’ultima, infatti, riferendosi all’incremento
della conoscenza tacita del territorio, richiede per potersi manifestare e per
potersene apprezzare gli effetti, un lasso di tempo più lungo.
Scopo prioritario dell’analisi del caso è quello di indagare circa l’opportunità di applicare la spirale della conoscenza teorizzata per lo sviluppo
delle conoscenze organizzative ad un territorio nonché quello di verificare
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Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
Creazione di una rete
di relazioni che integri
i diversi attori coinvolti
nel processo produttivo
Attuazione del progetto filiera per la valorizzazione del latte di
capra
ha incrementato il suo livello di dinamismo e di apertura all’innovazione
sia con la nascita di alcuni stabilimenti di recente costruzione che trasformano esclusivamente latte caprino, e che producono formaggi di moderna
concezione in armonia con le richieste del mercato, sia con la presenza, unica in Sardegna, di un distributore automatico per la commercializzazione
del prodotto sfuso presso un supermercato di Lanusei.
Per ciò che concerne, invece, gli altri settori, a testimonianza delle ricadute positive che il processo di ricombinazione delle conoscenze territorio-impresa sta avendo sul territorio, è da notare come gli effetti della
diffusione della cultura industriale e l’incremento della managerialità nella gestione aziendale non siano rimasti confinati al solo settore caprino.
Il management di Galydhà, infatti, ha deciso di rivolgersi, per le forniture di servizi, ad imprese residenti nella Provincia ogliastrina a patto che
garantissero determinati standard di qualità del servizio sia in termini di
assistenza tecnica che di tempestività nell’erogazione. Tale scelta, in parte
dettata dalla localizzazione impervia che rende difficile l’approvvigionamento tempestivo da contesti esterni, ha “obbligato” le imprese fornitrici di servizi ad un costante aggiornamento professionale e strutturale sul
quale ha investito lo stesso management di Galydhà garantendo contratti
esclusivi con gli stessi.
Trasformazione
del
senso dell’ospitalità in
attenzione al cliente
nella gestione aziendale
Diffusione di una maggiore cultura del servizio
7. Considerazioni conclusive
Modello di allevamento industriale delle capre da latte
Incrementare gli allevamenti di capre da
latte sia nella Provincia
ogliastrina che in tutto il territorio isolano
al fine di ridurre la
dipendenza
dell’approvvigionamento
dall’estero
Tab. 5 - Primo schema di sintesi per la valutazione del processo di combinazione delle competenze tra territorio ogliastrino e Galydhà Scarl
Socializzazione
Esternalizzazione
Cultura rurale votata
all’allevamento animale e alla salvaguardia
ambientale
Gestione dell’impresa
di tipo manageriale coadiuvata dalla volontà
dei giovani di perpetrare le lavorazioni tradizionali
Forte volontà dei giovani di perpetrare le lavorazioni tradizionali
Forte volontà delle
Istituzioni di creare un
dialogo per lo sviluppo del territorio
Combinazione tra
conoscenze territoriali
e patrimonio di
conoscenze di
Amalattea
Sviluppo delle attitudini
professionali
sia dei dipendenti di
Galydà che degli altri
attori del territorio
Attività imprenditoriale di tipo agropastorale
basata sulla cultura rurale dell’Ogliasta
Senso dell’ospitalità
Modello arcaico di
allevamento caprino
legato alle capre da
carne
Internalizzazione
Incremento e diffusione di conoscenze
legate alla moderna
gestione d’impresa sia
nel settore caprino che
nei settori dei servizi
industriali
Fonte: Nostra elaborazione
A ciò si aggiunga che maggiore è il livello di inerzia del territorio, minore è la possibilità che l’avvento di conoscenza esterna porti alla combinazione tra conoscenza tacita e conoscenza esplicita (figura 1). L’assenza di
iniziative imprenditoriali anche in settori diversi da quello di pertinenza
dell’impresa, infatti, rende il territorio ed il tessuto imprenditoriale esistente meno ricettivo alle opportunità derivanti dall’ambiente di primo riferimento e dall’ambiente di riferimento generale. Una dimostrazione di questa correlazione si ottiene riflettendo sul fatto che, per quanto riguarda il
settore caprino, a seguito all’ingresso di Amalattea in Galydhà, il comparto
36
La conoscenza è considerata oggi la risorsa più importante nello sviluppo economico tanto che, per il contesto europeo, si è cercato di farne un
elemento distintivo tramite la strategia di Lisbona. In questo processo poca
importanza è stata attribuita alla conoscenza locale nelle sue varie forme
ed espressioni. La volontà di approfondire il ruolo che le conoscenze tacite
del territorio possono avere per lo sviluppo competitivo delle imprese in
esso operanti è l’elemento che ha dato origine a questo studio, il cui obiettivo prioritario è, proprio quello di indagare circa la possibilità di applicare
la spirale della conoscenza ad un territorio specifico. In particolare, ci si è
proposti di verificare, attraverso l’applicazione ad un caso concreto, la possibilità che l’immissione di conoscenza esterna all’interno di uno specifico
territorio potesse contribuire a spezzare l’inerzia territoriale cui sono spesso soggette le conoscenze tradizionali conferendo all’area stessa importanti
fattori di attrazione localizzativa e all’impresa che consente la riattivazione
della spirale della conoscenza importanti vantaggi competitivi.
Lo schema interpretativo proposto e l’analisi del caso hanno permesso
di esplorare la possibilità di estrapolare le conoscenze tacite e potenziali sedimentate nel territorio, ma non adeguatamente espresse, per trasformarle
in fattori di sviluppo e di competitività sia per l’impresa che le utilizza che
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Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
per il territorio in cui essa opera. Se tale possibilità sembra, a livello teorico,
valida per ogni situazione concretamente esistente, essa appare ancora più
significativa per quei territori, come quello qui esaminato, che si presentano in forte ritardo di sviluppo e per i quali i fattori culturali e socio-economici possono costituire elementi di attrattività allorquando divengono
sinonimo di possibilità di attivazione di circuiti di apprendimento.
Un primo risultato dello studio è costituito dalla conferma che soluzioni organizzative specifiche possono modificare e migliorare i processi di
assorbimento della conoscenza territoriale. Tale possibilità influisce direttamente sulla capacità delle imprese locali di inibire l’effetto dell’inerzia
territoriale sulle conoscenze tacite presenti nel territorio contribuendo alla
riattivazione della spirale della conoscenza. I risultati ottenuti da Galydhà
nel periodo successivo al cambiamento organizzativo dovuto all’ingresso
nell’assetto societario di Amalattea indicano una maggiore efficacia sia nel
monitoraggio delle conoscenze esistenti, sia nella capacità dell’impresa di
selezionare e assimilare le conoscenze esistenti. Tale mutamento si traduce
in una peculiare combinazione di conoscenza esterna e conoscenza organizzativa che viene veicolata tramite partnership locali su progetti condivisi ed incorporata nei prodotti commercializzati con successo.
Un secondo gruppo di risultati attiene all’importanza che investimenti
intenzionali e dedicati a livello organizzativo hanno per lo sfruttamento
della conoscenza esterna e come questo abbia un risultato nel momento in
cui l’investimento organizzativo è volto a rafforzare e a far emergere capacita tradizionali di supporto e di rinforzo all’attività manageriale.
Infine, dallo studio emerge e si rafforza l’ipotesi di poter considerare il
contesto locale come una matrice di relazioni territoriali e, attraverso queste, come un generatore di matrici produttive che a loro volta generano matrici di conoscenze. L’aspetto relazionale, infatti, risulta un elemento chiave
affinché l’impresa possa beneficiare delle conoscenze disperse nel territorio
trasformandole in fattori competitivi di successo (Cabiddu, Pettinao, 2008).
Dal punto di vista dell’impresa, l’analisi del caso ha permesso di rilevare come alcune produzioni si prestino, più di altre, a mettere in moto il
processo di combinazione delle conoscenze territorio-impresa. In questo
senso, particolarmente adatte all’attivazione di questo processo sembrano
essere quelle produzioni fortemente legate alle tradizioni e alle culture del
luogo prescelto per la localizzazione produttiva. A questo proposito, una
recente ricerca (Corason 2004-2007), condotta in dodici paesi europei sul
ruolo della conoscenza nello sviluppo rurale, ha evidenziato come nei paesi “marginali” (i paesi mediterranei o anche alcuni dei paesi ex-socialisti) e
nelle aree marginali di alcuni paesi considerati centrali (quali, per esempio,
la Norvegia), esista un grande patrimonio di conoscenze locali, degne di
essere recuperate, mobilitate e valorizzate quali elementi importanti per lo
sviluppo economico delle aree stesse. La medesima ricerca mostra come,
38
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
nei paesi dove tale patrimonio di conoscenze locali in campo agroalimentare non esiste più, sia diffusa l’esigenza di una ricostruzione della conoscenza locale, necessaria per accompagnare le iniziative di ri-localizzazione dei
sistemi agro-alimentari in funzione di obiettivi di sviluppo rurale sostenibile. In un’ottica di coevoluzione impresa-ambiente, infine, emerge come
l’importanza attribuita alla salvaguardia delle conoscenze tradizionali appaia con maggiore evidenza nel momento in cui alcune imprese entrano a
far parte di reti imprenditoriali che superano i confini territoriali locali. In
tali circostanze, infatti, le imprese hanno maggiori possibilità di sviluppare circuiti di apprendimento che si alimentano su più fronti evidenziando
la possibilità di recupero, sviluppo e inserimento delle conoscenze tradizionali in un quadro economico maggiormente articolato. L’inserimento
di territorio nel sistema delle relazioni extralocali e, segnatamente, in più
ampi network cognitivi, sembra configurarsi come un importante fattore
per la valorizzazione, la riproduzione e la combinazione delle conoscenze
tacite di un territorio e come uno degli elementi in grado di contrastare
l’interzia territoriale. Tuttavia, quanto del patrimonio locale di conoscenza
costituirà effettivamente fonte di sviluppo socio-economico dell’area dipende da numerose condizioni che riguardano sia le imprese trainanti, che
il potenziale evolutivo delle imprese trainate e delle istituzioni locali.
Francesca Cabiddu
Università degli Studi di Cagliari, Facoltà di Economia
[email protected]
Daniela Pettinao
Università degli Studi di Cagliari, Facoltà di Economia
[email protected]
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Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
Creazione, sviluppo e diffusione della conoscenza a sostegno dello sviluppo locale. Il caso Galydhà
Riassunto
Bibliografia
Nonostante l’attenzione della dottrina per l’importanza delle conoscenze nello sviluppo
locale, non esiste ancora in letteratura una precisa formulazione teorica in merito alla
possibilità, per territori caratterizzati da forte livello di inerzia, di riattivare la spirale della
conoscenza attraverso l’internalizzazione di conoscenza esterna. A partire dai contributi
più recenti sui processi di apprendimento e di accumulazione della conoscenza nell’ambito
delle reti territoriali (Cooke e Morgan, 1998; Gordon e McCann, 2000; Cappellin, 2000),
l’obiettivo del presente lavoro è duplice: colmare il gap della letteratura economicomanageriale sopra evidenziato e applicare i concetti teorici in tema di riattivazione della
spirale della conoscenza ad un territorio caratterizzato da inerzia ed alle imprese in esso
operanti. Nel territorio selezionato l’attenzione si concentra su un’ impresa, la Galydhà,
dedita alla trasformazione del latte caprino. L’applicazione dei concetti teorici al caso
concreto consente di individuare i principali processi che favoriscono il superamento
dell’inerzia territoriale attraverso il ricorso a conoscenze esterne in grado di valorizzare le
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Abstract
Although recent literature has focused on the importance of knowledge in local
development, there is not yet a precise theoretical formulation regarding the possibility,
especially for territories characterised by a strong level of inertia, of reactivating the spiral
of knowledge through the internalization of external knowledge. This paper has two aims:
to bridge the above mentioned gap, and to put into practice such theoretical framework
regarding the reactivation of the spiral of knowledge both in an area characterised by
inertia, and in the companies that operate in such territory. Within the chosen territory, we
have focused our attention on one company, Galydhà, specialised in the production of goat
milk dairies. The adopted framework allows to determine the main processes which favour
the overcoming of territorial inertia, by using external knowledge in order to improve tacit,
historical and cultural knowledge.
Classificazione JEL: L1
Parole chiave (Keywords): inerzia territoriale, spirale della conoscenza, relazioni territoriali (market structure, firm strategy and market performance)
40
41
Francesca Cabiddu e Daniela Pettinao
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Yin R. (1994), Case study research, 2nd edition, Thousand Oaks, Sage.
Nel numero precedente
n. 1 - anno 2011
Saggi
Risorse, competenze e internazionalizzazione nelle PMI
di subfornitura. Un’analisi esplorativa nel comparto plasto-meccanico
di Guido Bortoluzzi e Bernardo Balboni
Contingent Work and Organizational Attitudes in Family versus
Non-Family Firms. An Analysis of the Hospitality Industry in
Campania Region
by Marcello Russo
I family business e la successione padre-figlia nella cultura italiana:
un caso di studio
di Lucio Cassia, Alfredo De Massis, e Federica Giudici
L’interazione fra capacità d’impresa, opportunità strategiche, risorse
finanziarie e performance: un’analisi multivariata su un campione di
piccole e medie imprese operanti nel mezzogiorno
di Giovanni Battista Dagnino e Paola Merendino
Osservatorio sulla piccola e media impresa
Case Study
Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada
nuova? L’esperienza di Novellini Giovanni srl
di Angelo Bonfanti e Valentina Novellini
Focus Fiscale
“Piccola impresa” societaria ed accertamenti bancari
di Thomas Tassani
Recensioni e segnalazioni
42
43
IL CENTRO FIERISTICO COME POLO DI SVILUPPO LOCALE:
UN’INDAGINE ESPLORATIVA NEL CONTESTO UMBRO1
di Luca Ferrucci e Andrea Runfola
1. I centri fieristici come poli di sviluppo locale
1.1. Alcune tendenze nel sistema fieristico nazionale: grandi strutture e poli minori
Nel nostro Paese, i poli fieristici hanno registrato, negli ultimi trenta
anni, una trasformazione rilevante della loro identità di governance e strategica, andando verso una crescente bi-polarizzazione.
Da un lato, vi è stata un’affermazione delle grandi strutture fieristiche
nazionali con configurazioni rilevanti al servizio della competitività di
territori economici oramai quantomeno nazionali. Società come Fiera di
Milano SpA, Bologna Fiere SpA, Ente Autonomo Fiere di Verona, Rimini
Fiera SpA, Ente Autonomo Fiera del Levante di Bari e Fiera di Roma SpA
costituiscono le istituzioni principali a livello nazionale. Questi poli fieristici dispongono di elevate superfici espositive e sono localizzati in città
o aree metropolitane facilmente accessibili sul piano infrastrutturale (sia
viario che aeroportuale e ferroviario), dense di servizi logistici, di marketing, legali di supporto all’organizzazione di specifiche mostre. Molte delle
loro manifestazioni sono capaci di attrarre sia espositori che visitatori da
ambiti nazionali e, talvolta, anche da circuiti internazionali, specialmente
europei. Tali poli fieristici sono divenuti, nel corso del tempo, degli hub per
l’attrattività sia della domanda che dell’offerta in particolari ambiti merceologici, con implicazioni molto forti sullo sviluppo economico locale. Essi
generano uno sviluppo turistico locale, tramite l’attrattività di segmenti
business composti da operatori (imprenditori, manager, professionisti,
agenti e rappresentanti, ecc.) (Bonini e Dall’Ara, 1993), che sono espressione di significative capacità di spesa (Simoni, 2009). Questo modello di sviluppo, fondato sulla presenza di grandi poli fieristici, è stato adottato nel
nostro Paese con un certo ritardo temporale rispetto a quanto, da decenni,
Le idee contenute in questo scritto sono state elaborate di comune accordo dagli autori. Sono
comunque da attribuire a Luca Ferrucci il paragrafo 1 e ad Andrea Runfola i paragrafi 2 e 3. Il
paragrafo 4 è attribuibile congiuntamente ai due autori.
1
44
Rivista Piccola Impresa/Small Business - n. 2, anno 2011
45
Luca Ferrucci e Andrea Runfola
si riscontra in Europa, in particolare in Germania (Golfetto, 1985; Golfetto,
1988). Oggi, esso è sottoposto a diverse tensioni competitive. Infatti, tali
strutture non solo risentono di una competizione con altri grandi poli fieristici europei, spesso dotati di maggiore disponibilità di grandi superfici
espositive e di una eccellente accessibilità di location, ma anche di quella
proveniente dall’emergere di nuove fiere internazionali, di grande prestigio, organizzate in mercati emergenti. Questo crowding out competitivo
di tipo spaziale, espressione anche, ma non solo, del cambiamento geoeconomico della domanda mondiale in molti settori, induce le istituzioni
proprietarie di poli espositivi a perseguire una strategia di internazionalizzazione verso mercati emergenti, con l’obiettivo di valorizzare la loro
capacità nell’organizzare e gestire le manifestazioni fieristiche portando,
in tali mercati, un’eccellenza imprenditoriale nazionale. La “frontiera”
dell’internazionalizzazione delle istituzioni fieristiche cambia, pertanto,
sebbene con gradualità, la natura del modello locale di sviluppo, da soggetto attrattore del turismo business a soggetto che promuove e sostiene
l’internazionalizzazione delle imprese.
Dall’altro lato, il nostro Paese è disseminato di molti poli fieristici minori.
Nella sola Lombardia vi sono ben 15 quartieri espositivi, seguita dall’Emilia Romagna con 11 e dalla Toscana e il Veneto con 5. Ancora, nel Sud, in
Puglia, Sicilia, Sardegna e Campania vi sono 4 poli espositivi. Questa distribuzione localizzativa è espressione di un percorso storico che ha trovato nel localismo manifatturiero, artigianale o agricolo la spinta alla realizzazione di tali strutture. In particolare, nelle aree ad elevata concentrazione
di piccole imprese, spesso specializzate in una o poche filiere manifatturiere, come quelle dei distretti industriali, vi è stata un’esigenza storica, avvertita dalle istituzioni pubbliche locali e dalle associazioni dei produttori,
a dare avvio a manifestazioni fieristiche monosettoriali. Il loro obiettivo era
quello di valorizzare e promuovere le produzioni locali, mostrando uno
scarso interesse a farvi partecipare espositori esteri, ritenuti alla stregua
di meri competitors, e mirando invece ad attrarre buyers internazionali.
Oggi, al contrario, si tende a dare una reputazione e notorietà alle singole fiere, sollecitando la partecipazione anche di attori imprenditoriali non
locali (Bellini, 1988; Rosson e Seringhaus, 1998; Golfetto, 1993). Da questo
punto di vista, tali fiere monosettoriali hanno perseguito strategie di creazione del valore, divenendo, in taluni casi, punti di riferimento nazionali e,
qualche volta, internazionali, per la ricerca sulle tendenze, anche in termini
di design, nei mercati di riferimento (Golfetto, 1991). Gli effetti economici
di questi poli fieristici minori sono di tutta evidenza nel modello locale
di sviluppo: l’obiettivo è quello di promuovere, sul piano commerciale,
i prodotti locali, unitamente all’attrazione di flussi turistici del segmento
business interessati a tali categorie merceologiche.
In linea generale, negli ultimi anni, i poli fieristici, a prescindere dalle
46
Il centro fieristico come polo di sviluppo locale: un’indagine esplorativa nel contesto umbro
loro dimensioni, hanno beneficiato di significative risorse finanziarie pubbliche, in molti casi anche con l’apporto di capitali provenienti da soggetti
privati locali. Queste risorse non sono semplicemente state utilizzate per
ripianare eventuali situazioni di perdita economica nei bilanci di esercizio,
ma anche per assecondare nuovi investimenti di rinnovo o di ampliamento delle superfici coperte, oltreché tramite la predisposizione di soluzioni
tecnologiche innovative, in linea con tendenze emergenti in ambito internazionale (Geigenmüller, 2010). In queste circostanze, gli elevati investimenti infrastrutturali e gli oneri gestionali per la loro funzionalità hanno
imposto, al fine di saturare gli spazi, un orientamento all’organizzazione e
promozione di fiere, anche di minore importanza, durante tutto l’anno, e
non, come in passato, nelle originarie fiere campionarie, solamente in due
o tre periodi temporali (Golfetto e Uslenghi, 1999). I numerosi enti fieristici hanno perseguito l’organizzazione di nuove manifestazioni, in taluni
casi in sovrapposizione tematica con eventi già realizzati da altri. In molti
altri casi, gli enti fieristici hanno lanciato manifestazioni su temi innovativi, quali quelli legati al benessere nell’alimentazione, ad una sporting life
oppure alle abitazioni fondate su criteri eco-sostenibili. Si tratta di ambiti rilevanti che tendono ad attrarre non solo gli operatori del settore, sia
come espositori che visitatori, ma anche il segmento consumer, con effetti
evidenti in termini di turismo per il sistema economico locale (Rosson e
Seringhaus, 1995; Kirchgeorg et al., 2010). Tuttavia, il lancio di nuove manifestazioni fieristiche appare un’iniziativa di marketing che richiede alcuni
anni per verificarne gli effetti economici positivi, sia in termini di reputazione che di attrattività. Di conseguenza, questa strategia induce, nel breve
termine, un assorbimento di risorse finanziarie, a carico degli enti fieristici
organizzatori, senza particolari ritorni economici immediati (Penati, 1993).
Nel complesso, tutte queste decisioni hanno determinato un aumento della concorrenza tra i diversi poli espositivi rispetto all’organizzazione di
manifestazioni. L’eccesso di localismo di alcuni enti fieristici ha portato,
conseguentemente, ad una minore produttività delle risorse finanziarie
pubbliche, investite spesso per coprire le perdite conseguite nei bilanci di
esercizio, oltreché ad una diminuita attrattività di molte singole manifestazioni. Si pone, pertanto, il problema di stimare l’impatto dei poli fieristici
nell’economia locale, al fine di verificare se e in che misura le risorse finanziarie pubbliche investite generano e trovano adeguata corrispondenza
nelle esternalità economiche positive, come peraltro evidenziato da studi e
ricerche empiriche specificatamente dedicate a tale tema anche nel nostro
paese (Fiera di Rimini – Trademark Italia, 1991; Fondazione Fiera Milano,
2001; Caramelli et al., 2005; Folini, 2001; Censis, 2003; Prometeia, 1996).
47
Luca Ferrucci e Andrea Runfola
1.2. Il centro fieristico come veicolo di sviluppo: spunti di riflessione e quesiti di ricerca
Sul piano teorico, i poli fieristici possono rappresentare dei “veicoli” per
lo sviluppo economico locale, sebbene in termini diversi a seconda delle
loro strategie. I poli fieristici minori, caratterizzati da manifestazioni mirate
a valorizzare i prodotti dell’economia locale, dovrebbero generare soprattutto esternalità a favore delle imprese locali, operanti nei settori manifatturieri, artigianali o agricoli. Al contrario, i poli fieristici di dimensioni
maggiori – viste la natura di manifestazioni nazionali o internazionali che
organizzano – dovrebbero generare soprattutto effetti economici positivi
connessi all’attrattività di flussi turistici, con esternalità a favore delle imprese locali operanti nel settore alberghiero, ristorativo e del commercio
al dettaglio, in senso lato. Ovviamente, la distinzione non è assoluta, nel
senso che, in entrambe le circostanze, possono essere presenti gli effetti di
induzione allo sviluppo economico locale attribuiti all’uno o all’altro.
Sul piano metodologico, occorre opportunamente distinguere gli effetti
diretti da quelli indiretti e indotti (Golfetto, 1991). Infatti, a fianco degli effetti economici diretti, quale ad esempio l’occupazione impiegata nell’ente
fiera, ci sono quelli indiretti e indotti generati da due diversi circuiti della
spesa sostenuta dall’istituzione organizzatrice: da un lato, quella relativa
agli acquisti di beni e servizi a favore di fornitori locali per l’organizzazione della manifestazione, dall’allestimento degli stand sino ad arrivare ai
servizi di pulizia degli spazi; dall’altro lato, la spesa sostenuta dagli espositori e dai visitatori, provenienti da ambiti spaziali non locali, per l’acquisto sia di beni da imprese espositrici locali che per il soggiorno durante
la manifestazione. Ovviamente, questo schema concettuale non esaurisce
i possibili effetti – anche economici – dei poli fieristici a livello locale. E’
sufficiente evidenziare le conseguenze di lungo periodo che possono derivare dal ricordo e dall’immagine, oltreché dal livello di soddisfazione,
che i visitatori e gli espositori, hanno tratto non solo dalla manifestazione,
ma anche dall’immagine del territorio locale, in senso lato (Golfetto, 2002;
Mastromo, 2002; Rinallo et al 2010). Da questo punto di vista, i poli fieristici
possono divenire, nel corso del tempo, veri e propri “locomotori” dello
sviluppo economico locale, grazie sia alle filiere di beni e servizi di cui si
approvvigionano che all’attrattività esercitata nei confronti dei visitatori
e espositori (Munuera e Ruiz 1999). E’ per questo motivo che, sempre più
frequentemente, le fiere vengono concepite come strumenti di marketing
territoriale (Golfetto, 2004; Blythe 2010, Kirchgeorg et al 2010). I quartieri
fieristici, infatti, al pari di altre infrastrutture, sono motori primari dello
sviluppo, in quanto generano ricadute economiche consistenti coinvolgendo nella loro attività il tessuto economico locale (Ferriani, 2004, Cercola et
al 2010). Tali ricadute hanno un’intensità e un’estensione correlate all’ampiezza del bacino d’utenza delle manifestazioni e alla capacità di risposta
48
Il centro fieristico come polo di sviluppo locale: un’indagine esplorativa nel contesto umbro
del sistema economico locale. In questa logica, investimenti in aeroporti,
ferrovie, metropolitane, autostrade, parcheggi e altri investimenti infrastrutturali in genere sono necessari per rendere agevole l’accessibilità di
espositori e visitatori alle fiere e per migliorare l’integrazione con il territorio su cui hanno luogo (Mastromo, 2002). Interventi urbanistici il cui costo,
ovviamente rilevante, non può ricadere tutto e solo sulle spalle del polo
fieristico, ma è necessaria una strategia integrata tra pubblico e privato.
L’onere di investimenti infrastrutturali ricade anche sul potere pubblico
e sulle pubbliche amministrazioni nella “consapevolezza che i benefici e
i ritorni economici di una fiera di successo non sono importanti solo per
gli azionisti della società fieristica e per gli investitori finanziari, ma per
la città e il distretto sede della fiera, per l’intera regione, per l’economia
nazionale nel suo complesso” (Mastromo, 2002). I poli fieristici non rappresentano più solo strumenti di commercializzazione dei prodotti per le
aziende espositrici, ma veri e propri strumenti di comunicazione, anche
in una chiave turistica, del territorio. Essi realizzano veri e propri network
di imprese, che includono una vasta gamma di relazioni che coinvolgono
sia la dimensione orizzontale (associazioni, istituzioni pubbliche, istituti di
credito, ecc.) che quella verticale (clienti, fornitori) della catena del valore
(Belussi et al, 2007).
Fig. 1 - Il centro fieristico come veicolo di sviluppo: un possibile circolo virtuoso
Effetti economici
Centro
fieristico
Politiche
integrate di
supporto
Territorio
Effetti non economici
La figura 1 cerca di sintetizzare le precedenti riflessioni, attraverso la
rappresentazione di un possibile circolo virtuoso di sviluppo locale del territorio, attivato dalla presenza di un polo fieristico. Come già sottolineato,
il polo fieristico può generare effetti economici (diretti, indiretti ed indotti)
ed effetti non economici (ad esempio contribuendo all’immagine del territorio, aumentando la soddisfazione del visitatore ed il livello di esperienzialità, o attivando processi di internazionalizzazione). Tali effetti possono
essere amplificati dalla messa in atto, da parte di attori pubblici e privati,
di politiche integrate di marketing territoriale tese a facilitare l’operare del
centro espositivo.
49
Luca Ferrucci e Andrea Runfola
Nell’ambito di tale concettualizzazione, l’articolo approfondisce e cerca di chiarire il ruolo che il polo fieristico può assumere con riferimento
alla spesa indiretta generata dai visitatori di un centro fieristico minore.
La complessità dell’architettura teorica in merito all’indotto per il territorio, rende infatti difficile una completa analisi degli effetti economici e non
economici, a causa sia della numerosità di tali effetti che delle diverse metodologie quali-quantitative implementabili per darne una stima (Connell
e Page, 2005; Getz, 2008). E’ di tutta evidenza, tuttavia, che il modello del
polo espositivo quale puller del sistema economico locale si basa su una
visione strategica complessiva che include un’analisi delle manifestazioni
fieristiche offerte e dei relativi visitatori. I visitatori infatti rappresentano i
principali attivatori delle esternalità generate da un polo fieristico, sia perché contribuiscono in parte a generare effetti economici e non economici,
sia perché, come target delle manifestazioni, contribuiscono al loro successo ed ad aumentare l’indotto generato da altri attori (dallo stesso polo
espositivo, dagli espositori) .
Ne discende che, senza una attenta ed approfondita conoscenza delle
caratteristiche dei visitatori e dei loro comportamenti di spesa, appare difficile poter determinare la validità o meno di specifiche iniziative e quantificare, in relazione a tale dimensione, l’entità delle esternalità a favore
dell’area locale. Obiettivo dell’articolo è, dunque, quello di contribuire a
migliorare la conoscenza dei visitatori non locali ed, in particolare, dei loro
processi di acquisto. In questo senso, non è possibile parlare di una vera e
propria valutazione di impatto economico a livello locale, vista la mancata
analisi di altre variabili rilevanti di spesa, obiettivo peraltro che trascende le finalità dell’articolo. Piuttosto, sul piano di management, è rilevante
evidenziare il contributo conoscitivo che l’articolo si propone nell’analisi
micro delle determinanti degli acquisti compiuti da visitatori non locali
a specifici eventi. In questo senso la nostra analisi si caratterizza per un
prevalente orientamento di marketing, piuttosto che di taglio prettamente
economico, e cerca di rispondere a tre principali quesiti di ricerca: (a) Quale
profilo hanno i visitatori non locali di un centro fieristico minore? (b) Quali
sono le principali determinanti del loro comportamento di spesa? (c) Quali
direttrici di sviluppo, potenzialmente implementabili da un polo fieristico
minore, ne discendono?
2. La ricerca empirica: obiettivi e note metodologiche
Con lo scopo di rispondere ai quesiti di ricerca posti nel precedente paragrafo, l’articolo presenta i risultati di una ricerca empirica che ha riguardato l’analisi del comportamento di spesa dei visitatori non locali delle principali manifestazioni fieristiche organizzate presso Umbriafiere, principale
polo fieristico umbro. La società Umbriafiere S.p.a., con sede a Bastia Um50
Il centro fieristico come polo di sviluppo locale: un’indagine esplorativa nel contesto umbro
bra in provincia di Perugia, opera da anni come centro fieristico, organizzatore diretto di eventi di rilievo per il territorio ed in rapporto con terze parti
che ne utilizzano le strutture per l’organizzazione di fiere od altri eventi
(convegni, prove concorsuali, ecc..). Sul piano metodologico, l’analisi degli
utenti delle manifestazioni di Umbriafiere è stata condotta facendo ricorso
ad un approccio metodologico che si è concretizzato nella realizzazione di
una indagine campionaria (survey) rivolta alla domanda finale, rappresentata dagli utenti-visitatori delle manifestazioni fieristiche.L’indagine si è
svolta attraverso un contatto “sul campo” (field) ed ha avuto come obiettivo
generale quello di fornire indicazioni in merito alla struttura della spesa
dei visitatori di Umbriafiere. Le evidenze che seguono sono il risultato
dell’indagine field. Attraverso la somministrazione di un questionario predisposto ad hoc in modalità face to face, si è voluto rilevare sia la spesa
diretta interna alla manifestazione fieristica (rilevando anche quella spesa
sostenuta dai visitatori a favore di espositori provenienti dalla Provincia di
Perugia) sia la spesa diretta esterna (ossia sostenuta in seguito alla visita
alla manifestazione fieristica ma all’esterno di essa a favore, ad esempio,
di strutture ricettive o commercianti locali). Le interviste hanno riguardato le manifestazioni realizzate all’interno del polo fieristico di Umbriafiere
nel periodo compreso tra dicembre 2008 ed aprile 2009. Nello specifico le
manifestazioni che sono state oggetto di rilevazione sono quelle indicate in
tabella 1, dove vengono indicate per ciascuna manifestazione il periodo di
svolgimento, una breve descrizione della manifestazione stessa ed il totale
di visitatori (paganti e non paganti) rilevati nei borderò SIAE per tutte le
manifestazioni, con l’unica eccezione di una manifestazione, peraltro l’unica manifestazione con ingresso gratuito, per la quale i dati provengono dal
contapersone posto agli ingressi del polo espositivo.
Tab. 1 - Le manifestazioni oggetto di rilevazione
Manifestazione
Periodo di
svolgimento
Descrizione
Exporegalo
28 novembre- 8
dicembre 2008
Mostra mercato
nazionale del regalo
Expotecnocom
1-5 febbraio 2009
Expocasa
7-15 marzo 2009
Rassegna nazionale
tecnologie, prodotti
ed arredi per pubblici
esercizi ed arte bianca
Mostra mercato
nazionale
dell’arredamento e
dell’edilizia
Totale
visitatori
(gratuiti e
paganti)
Totale
espositori
107.000*
261
3.436
125
51.845
218
51
Luca Ferrucci e Andrea Runfola
Expoelettronica
Il centro fieristico come polo di sviluppo locale: un’indagine esplorativa nel contesto umbro
21-22 marzo 2009
Agriumbria
27-29 marzo 2009
Asssisi Antiquariato
24 aprile-3 maggio
2009
Mostra di elettronica,
computer,
radiantismo, telefonia,
radio d’epoca, dischi
e cd
Mostra mercato
nazionale agricoltura,
zootecnia,
alimentazione
Mostra mercato
nazionale
dell’antiquariato
3. I risultati della ricerca empirica
9.988
97
47.557
459
7.258
80
* dati da contapersone
Sono state condotte 1263 interviste, rispetto ad un totale visitatori contattati di 4132. Le interviste, ciascuna della durata media di circa 15 minuti,
sono state condotte in modalità face to face nei pressi dell’uscita ed all’interno del polo fieristico. La selezione degli individui da intervistare è avvenuta senza l’intento di costituire un campione statisticamente significativo
dell’universo dei visitatori alle manifestazioni fieristiche, ma comunque
rappresentativo dell’indotto generato dal plesso fieristico. Sulla base delle
presenze rilevate dal polo espositivo in precedenti edizioni delle manifestazioni oggetto di rilevazione e delle valutazioni qualitative dei referenti del
polo fieristico, si è pertanto proceduto ad un campionamento che tenesse
conto della diversa affluenza giornaliera alle fiere, intervistando visitatori
in diversi giorni ed orari per ogni manifestazione. Si è cercato in questo
modo di tener conto dell’eventuale diversa dinamica in termini di profilo
del visitatore e spesa alla fiera. L’unico vincolo sugli intervistati considerato
in sede di campionamento è stato quello di non coinvolgere nella rilevazione persone residenti o domiciliate all’interno della provincia di Perugia.
Tale scelta è discesa dalla volontà di non includere nell’indotto economico
generato dal polo fieristico capacità di spesa comunque presente sul territorio. La tabella 2 dà conto del numero totale dei visitatori contattati.
Tab. 2 - Numero totale dei visitatori contattati nella survey
Utenti-Visitatori
Interviste effettuate
(visitatori non PG)
Agriumbria
Assisi Antiquariato
Totale visitatori
contattati
750
1182
115
285
Expocasa
324
791
1115
Exporegalo
177
705
882
Totale
1263
Expoelettronica
Expotecnocom
52
432
170
Interviste non
effettuate
(visitatori PG)
71
89
280
228
2869
351
317
4132
3.1. Il profilo socio-demografico e le motivazioni di presenza dei visitatori
Con riferimento al profilo socio-demografico, l’analisi mostra una maggiore incidenza del genere maschile nel campione osservato (il 70% del
totale), con un profilo di età prevalentemente concentrato nelle fasce di
età comprese tra i 30 ed i 50 anni (oltre il 50% del totale). L’analisi del dato
conferma una prevalente provenienza intraregionale (la provincia di Terni
rappresenta la prima provincia con il 18.6% delle presenze) ed una forte
incidenza di visitatori da regioni limitrofe, dato che tra le prime regioni
risultano provenienze da Toscana, Lazio e Marche. L’incidenza di visitatori
esteri è invece marginale.
Tab. 3 - Il profilo socio-demografico del campione rilevato
Genere
Maschio
Femmina
Fino a 29
Classe di età
Numero di individui
884
30,0
266
21,6
326
Da 50 a 59
214
60 e oltre
70,0
379
Da 30 a 39
Da 40 a 49
Frequenza in percentuale
297
26,5
24,1
17,4
127
10,3
Resto Umbria (Terni e Provincia)
235
18,8
Lazio
276
22,1
Altre Regione Italia
125
Totale
1230
Provenienza
Toscana
Marche
Estero
340
239
15
27,2
19,2
10,2
1,2
100,0
La tabella 4 che segue mostra alcuni riferimenti con riguardo a motivo
della presenza, persone con cui ci si è recati alla fiera e livelli di fedeltà alla
manifestazione. In merito alla motivazione la quasi totalità degli intervistati dichiara di essere venuto espressamente per la manifestazione.
Questo dato rappresenta già un elemento rilevante, dato che dimostra la
capacità del polo fieristico di attivare effetti economici sul territorio direttamente, rappresentando di fatto un attrattore rilevante. La maggior parte
degli intervistati evidenzia poi la motivazione ‘Svago e tempo libero’ come
principale motivo di presenza. Percentuali comunque elevate sono rappre53
Luca Ferrucci e Andrea Runfola
Il centro fieristico come polo di sviluppo locale: un’indagine esplorativa nel contesto umbro
sentati da coloro che si dichiarano appassionati del settore (circa il 27% del
totale) o operatori del settore (poco più del 23%). Decisamente inferiore
invece la percentuale di coloro che si recano per motivi di studio/gita scolastica. La maggioranza dei visitatori che visita la manifestazione lo fa con
altre persone (circa il 53,7%), di cui circa il 38% è rappresentato da soggetti
appartenenti alla famiglia. Solo una percentuale ridotta dichiara la presenza da solo (poco più dell’8%).
Un ultimo dato interessante riguarda i livelli di fedeltà, che sembrano
essere più connessi alla manifestazione (dato che solo il 38,9% è rappresentato da persone nuove per la manifestazione) rispetto al polo fieristico
(dato che solo il 30% dichiara di avere visitato altre manifestazioni presso
il polo espositivo negli ultimi due anni).
Tab. 4 - Motivazione e fedeltà alla manifestazione
Numero di individui
Fiera come motivazione di presenza a Perugia
Non residenti presenti a Perugia per la fiera
1090
86,3
Operatore del settore
296
23,4
Svago/Tempo libero
472
37,4
Non residenti presenti a Perugia per altri motivi
Motivo prevalente di presenza
Appassionato del settore
Altro
66
Persone con cui è venuto
Da solo
Con la famiglia
173
340
Istruzione/gita scolastica
89
103
482
Con altre persone
678
Numero di volte alla manifestazione
Mai
Una
Tre
26,9
5,2
7,0
8,2
38,2
53,7
38,9
149
11,8
83
Quattro
13,7
491
260
Due
56
20,6
6,6
In merito alla struttura della spesa, si è proceduto con l’analisi del paniere di spesa suddividendo la spesa effettuata all’interno del polo fieristico, rispetto a quella all’esterno del polo fieristico.
Tra le spese all’interno del polo fieristico sono state considerate in particolare tre categorie: l’ingesso al polo espositivo, che tiene conto delle diverse
politiche di pricing delle singole manifestazioni fieristiche, sia in termini di
bigliettazione che di politiche di scontistica; le spese all’interno degli stand,
per le quali si è proceduto a rilevare l’ammontare speso presso espositori con
sede legale nella provincia di Perugia rispetto a quello speso presso espositori
con sede legale al di fuori della provincia di Perugia, per comprendere il diverso impatto sul tessuto economico locale; le spese per bevande ed altro presso
pubblici esercizi interni, in prevalenza rappresentati dal bar/punto di ristoro
interno al polo espositivo. Con riferimento invece alle spese all’esterno del
polo fieristico, l’indagine ha rilevato l’ammontare giornaliero speso presso
operatori della provincia di Perugia, con riferimento alle seguenti categorie: pernottamento; ristorazione; bevande ed altro presso pubblici esercizi esterni;
ingressi a musei ed altre attività culturali; acquisto di prodotti enogastronomici;
acquisto di artigianato tipico umbro, acquisto di abbigliamento, calzature, bigiotteria e cosmesi.
La tabella 5 che segue evidenzia oltre al numero dei rispondenti la spesa
media per ogni categoria di spesa e la deviazione standard. I dati mostrano
un rilevante impatto generato dagli utenti visitatori che spendono in media, nelle sei manifestazioni rilevate, poco più di 2000 euro a testa all’interno degli stand. Di questa cifra una quota rilevante è destinata ad imprese
localizzate nella provincia di Perugia.
Occorre sottolineare che il dato medio evidenziato in tabella con riferimento alla spesa presso gli stand è frutto di un diverso contributo generato
dalle manifestazioni oggetto di rilevazione (tabella 6), ma rappresenta già
un dato estremamente significativo dell’indotto economico generato da
Umbriafiere. Per le altre categorie di spesa invece vi è minore dispersione
rispetto al valore medio con riferimento alle diverse manifestazioni.
4,4
Cinque o più
224
17,7
Si
366
29,0
1263
100,0
No
54
Frequenza in
percentuale
3.2. Il comportamento di spesa degli utenti dei visitatori
Ha visitato altre manifestazioni presso Umbriafiere (negli ultimi due anni)
Totale
897
71,0
55
Luca Ferrucci e Andrea Runfola
Il centro fieristico come polo di sviluppo locale: un’indagine esplorativa nel contesto umbro
Tab. 5 - Spesa media individuale per categoria (all’interno ed all’esterno del polo fieristico)
Tab. 7 - Le variabili che influenzano le principali categorie di spesa
Numero*
Media
Deviazione
std.
Ingresso alla fiera
835
7,27
3,092
Localizzazione provincia di Perugia
558
Spesa media individuale per categoria (all’interno del polo fieristico)
Spesa presso gli stand
Localizzazione in altre province
Bevande e altro presso pubblici esercizi interni
558
2146,98
9486,835
558
741,31
6259,558
1405,67
889
Spesa media individuale per categoria (all’esterno del polo fieristico)
Pernottamento
7,82
100
Ristoranti, pizzerie
56,64
386
Bevande ed altro presso pubblici esercizi esterni
317
Ingressi a musei e altre attività culturali
23
Prodotti enogastronomici
209
Artigianato tipico umbro
Abbigliamento, calzature, bigiotteria, cosmesi
33,33
28,548
30,55
80
26
117,62
Agriumbria
Assisi Antiquariato
Expocasa
Expoelettronica
Exporegalo
Expotecnocom
243
Media
3561,69
14527,19
70
89,29
82,77
162
7
1091,59
71,12
1012,86
3015,44
109,31
1039,88
*Il numero di rispondenti si riferisce alle persone che dichiarano di spendere per la specifica
categoria di spesa individuata.
Per comprendere le variabili esplicative delle spese da parte dei visitatori della manifestazione è stata condotta, in via esplorativa, una analisi di
regressione lineare, in cui è stato considerata di volta in volta la categoria
di spesa come variabile dipendente ed alcuni item rilevati come variabili
esplicative. La procedura utilizzata è quella backward elimination, che in
assenza di un modello teorico di riferimento da testare e di una definita
indicazione delle variabili esplicative ex-ante, è stata considerata la procedura con maggior livello di affidabilità (Bracalente et al, 2009). Per l’analisi
di regressione è stato utilizzato il pacchetto statistico SPSS (release 17) ed i
risultati vengono evidenziati nella successiva tabella 7.
56
Enogastronomia
0,483**
0,223*
R2
0,244
R2 corretto
0,219
F
9,807
-0,211*
Motivazione Operatore del settore
0,569**
Numero di volte alla manifestazione
0,265*
Visita ad altre manifestazioni negli ultimi due anni
R2
0,512
F
14,349
R2 corretto
13111,02
10.454,17
52
9,135
-0,221+
0,307
Visita ad altre manifestazioni negli ultimi due anni
Deviazione std.
24
F
Motivazione Operatore del settore
105,149
Tab. 6 - Spesa media presso gli stand per manifestazione
0,345
Motivazione Appassionato del settore
22,643
*Il numero di rispondenti si riferisce alle persone che dichiarano di spendere per la specifica categoria
di spesa individuata.
Numero*
Pernottamento
6,646
13,956
0,278*
0,504**
R2
R2 coretto
5,321
8,42
Beta
Partecipazione ad AgriUmbria
Presente con altre persone
12,935
8,91
Predittori
Motivazione Operatore del settore
7255,436
22,554
25,84
Variabile dipendente
Spesa presso gli stand
0,244+
0,476
Note: + p<0.1; *p<0.05; **p<0.01. ***p<0.001
Dall’analisi di regressione emerge quindi come le variabili esplicative di
alcune delle spese all’interno o all’esterno del polo fieristico possano essere
raggruppate nelle seguenti aree di riferimento:
• tipologia di manifestazione fieristica, che considera la differenza sostanziale tra la partecipazione ad Agriumbria piuttosto che la partecipazione ad altre manifestazioni;
• livello di fedeltà, che comprende la visita ad altre manifestazioni presso il polo fieristico ed il numero di volte alla manifestazione;
• motivazione, che tiene conto principalmente delle motivazioni operatore del settore ed appassionato rispetto ad altre motivazioni;
• persone con cui si è presenti in fiera, ovvero la presenza con famigliari
e/o amici.
57
Luca Ferrucci e Andrea Runfola
Il centro fieristico come polo di sviluppo locale: un’indagine esplorativa nel contesto umbro
Fig. 2 - Le relazioni tra alcune categoria di spesa e le determinanti
Tipologia di manifestazione
+
_
Presenza di altre persone
Spese presso gli stand
Motivazione Operatore
+
Motivazione Oper./App
+
_
Fedeltà manifestazione/polo
Motivazione Operatore
Spese all’interno del polo
Spese all’esterno del polo
Pernottamento
+
+
Enogastronomia
Fedeltà manifestazione/polo
Le quattro aree di riferimento influiscono in maniera differente sulle spese dei visitatori. La figura 2 cerca di evidenziare tali legami. Con
riferimento alle spese presso gli stand, emerge come la tipologia della
manifestazione ed in particolare la partecipazione ad Agriumbria sia uno
dei fattori esplicativi dell’entità di tale spesa. Altro fattore che incide positivamente è la motivazione. Nello specifico l’essere appassionati o operatori del settore incide fortemente, dato che si evidenzia una incidenza
positiva tra queste variabili e l’entità della spesa presso gli stand. E’ interessante notare, altresì, che al contempo la partecipazione alla manifestazione con altre persone sembra incidere negativamente sull’ammontare
speso presso gli stand.
Per quanto riguarda le spese al di fuori del polo espositivo emergono
ulteriori ed interessanti evidenze. Pernottamento ed enogastronomia sembrano essere influenzati dalle stesse variabili motivazione e tasso di fedeltà.
In particolare, per entrambe l’ammontare di spesa è correlato positivamente alla motivazione, e nello specifico alla presenza in fiera di operatori del
settore. Il tasso di fedeltà invece incide in senso inverso. Con riferimento al
pernottamento, infatti, l’aver partecipato ad altre manifestazioni del centro espositivo in passato incide negativamente sull’entità della spesa. Con
riguardo invece all’acquisto di prodotti enogastronomici, aver partecipato
ad altre manifestazioni in passato o essere stati presenti alla stessa manifestazione più volte, incide positivamente sull’ammontare speso per questa
tipologia di prodotti. Per quanto riguarda le altre categorie di spesa i risultati dell’analisi di regressione non hanno fornito elementi significativi. Si
sottolinea comunque un correlazione significativa, ancorché debole, (Pear58
son 0,158; p<0,05) tra la l’entità della spesa in ristorazione e l’essere operatore del settore. In sintesi, i dati emergenti dall’analisi del comportamento
di spesa nel caso Umbriafiere e limitatamente alle manifestazioni oggetto
di verifica empirica, sembrano evidenziare come le fiere maggiormente
orientate ad un pubblico di operatori/appassionati del settore comportano livelli di spesa più elevati. Le fiere invece connesse allo svago/tempo
libero non sembrano creare significativi livelli di indotto, sebbene possano
essere inquadrate nel più ampio tema connesso alla vivacità/vivibilità di
un territorio. In questo senso tali manifestazioni sembrano comunque avere effetti positivi per l’immagine territoriale.
4. Considerazioni finali: alcuni elementi di sintesi emergenti dall’analisi
del contesto umbro
I poli fieristici costituiscono attori fondamentali per lo sviluppo economico regionale. Storicamente, essi hanno assolto ad un ruolo di valorizzazione e promozione delle imprese e dei prodotti locali, anche se oggi la loro
dimensione operativa e strategica li colloca su ambiti spaziali decisamente
più ampi. In questo contesto, nel quadro nazionale, emerge la necessità di
operare secondo logiche di maggior coordinamento tra queste strutture,
per evitare di generare ridondanze e stimolare complementarità. Si stima,
ad esempio, che nel 2010 vi siano state in Italia circa 210 manifestazioni internazionali distribuite in tutte le regioni e dedicate a ben 28 differenti campi merceologici. La governance di questi poli fieristici, in questo contesto,
ha subito decisi cambiamenti. Nella loro compagine azionaria vi è non solo
la presenza di associazioni imprenditoriali, camere di commercio, istituti
di credito e istituzioni pubbliche regionali, ma in qualche caso di capitalisti francesi (come nel caso del Lingotto di Torino o della Fiera di Padova
o di quella di Bologna). Questi investitori esteri sono portatori, tra l’altro,
anche di competenze relazionali e di capacità di assecondare i processi di
internazionalizzazione di questi poli fieristici, sia in termini di attrattività
di visitatori che di imprese espositrici. In questo contesto, quale ruolo può
svolgere un polo fieristico di dimensioni intermedie, quale quello di Umbriafiere? Il presente lavoro mette in evidenza come, nell’ambito di una
tradizione storica consolidata, questo polo fieristico ha una capacità di generare un valore aggiunto per l’economia del territorio regionale, grazie ad
una significativa attrattività di visitatori non locali che hanno una capacità
di spesa piuttosto significativa. Ciò è particolarmente vero nel caso di manifestazioni legate al business to business, con particolare riferimento ad
una tra quelle analizzate, ossia Agriumbria.
In particolare, dall’analisi del profilo dei visitatori e delle determinanti
del loro comportamento di spesa, sembrano emergere tre principali impli59
Luca Ferrucci e Andrea Runfola
cazioni per i manager di un centro fieristico minore, come Umbriafiere. Tali
implicazioni sono riconducibili a tre direttrici di sviluppo potenzialmente
implementabili:
• una direttrice di focalizzazione: dalla nostra analisi emerge come un polo
fieristico minore dovrebbe ricercare una focalizzazione maggiore su fiere
destinate a particolari categorie di utenti, in particolare di tipo business
in grado di generare un capacità di spesa significativa. Da ciò discende
che l’analisi del profilo dei visitatori non locali rappresenta un attività
cruciale per il polo fieristico;
• una direttrice di mantenimento selettivo: dalla nostra analisi emerge come
un polo fieristico minore, come quello oggetto di analisi, dovrebbe avere
come obiettivo il mantenimento di quelle manifestazioni in grado di generare una capacità di spesa significativa, cercando di ridurre il proprio
impegno in termini di risorse per quelle manifestazioni non in grado di
generare tale indotto. L’analisi, infatti, mostra come gli utenti fedeli alla
manifestazione ed al polo siano in grado di generare, per molte categorie
di spesa un indotto crescente;
• una direttrice di rinnovamento: l’analisi mostra come la capacità di un
polo fieristico minore di generare indotto per alcune categorie di spesa,
nello specifico per quelle legate al pernottamento, necessita anche di un
rinnovamento della gamma di fiere gestite. In questo senso, una costante
attività di scouting e di intercettazione di nuove fiere, seppur limitata in
termini di numero di nuove fiere inserite, può avere un impatto significativo per il tessuto economico locale.
Nel nostro caso, quindi, Umbriafiere – opportunamente sostenuta da adeguate iniziative di politica industriale e infrastrutturale pubblica – può
davvero potenziare il suo ruolo di attore al servizio dello sviluppo economico regionale.
Occorre comunque evidenziare i principali limiti della nostra analisi, che
ha avuto come prevalente obiettivo quello di analizzare il profilo e le determinanti del comportamento di spesa degli utenti visitatori delle principali manifestazioni fieristiche di un polo espositivo minore. Tali limiti,
rappresentano al contempo ulteriori aree di ricerca da sviluppare al fine
di valutare il più generale ruolo di un centro fieristico minore in termini
di indotto sul tessuto economico locale. Tali aree di sviluppo futuro sono
riconducibili almeno alle seguenti:
• l’analisi dell’indotto economico generato dalla spesa degli espositori sia per
quanto attiene la preparazione degli stand, che per quanto riguarda le
spese sostenute nei giorni di fiera (es. pernottamento, ristorazione, ecc..);
• l’analisi dei costi-benefici a livello di singola fiera, in termini di investimenti necessari su di una manifestazione in rapporto all’indotto economico
complessivo da essa generata;
• lo studio dell’indotto in termini cognitivi, ovvero il ruolo che la singola
60
Il centro fieristico come polo di sviluppo locale: un’indagine esplorativa nel contesto umbro
manifestazione ha non solo in termini di impatto economico sul tessuto
locale, per effetto della spesa di visitatori ed espositori e degli effetti moltiplicatori, ma anche con riferimento alla dimensione di esperenzialità
del territorio da parte dell’utente (espositore/visitatore della fiera), con
le conseguenti ripercussioni in termini di immagine nel medio-lungo periodo.
In termini generali, quindi, l’analisi mostra come nonostante i processi in atto nel sistema fieristico nazionale ed internazionale, propongano
dinamiche competitive particolarmente sfidanti per i poli di dimensioni
intermedie, questi ultimi possono comunque continuare a rappresentare
poli di rilievo per lo sviluppo dell’economia locale.
Luca Ferrucci
Università degli Studi di Perugia
[email protected]
Andrea Runfola,
Università degli Studi di Perugia
[email protected]
61
Luca Ferrucci e Andrea Runfola
Il centro fieristico come polo di sviluppo locale: un’indagine esplorativa nel contesto umbro
Riassunto
Bibliografia
L’articolo, che ha prevalente natura empirica, prende in esame il tema dei centri fieristici
come poli di sviluppo per l’economia locale. Dopo un inquadramento sui caratteri e sulle
tendenze in atto nel sistema fieristico nazionale, nell’articolo si discutono i principali
risultati di un processo di ricerca realizzato nel contesto umbro. In particolare, viene ad
essere evidenziato il contributo, in termini di esternalità sull’economia locale, generato dalla
presenza di un polo fieristico attraverso l’analisi della spesa generata dagli utenti visitatori,
di cui se ne discutono anche alcuni elementi di profilo. La metodologia impiegata consiste in
un’indagine campionaria realizzata presso il principale polo fieristico umbro, Umbriafiere,
di cui sono state monitorare sei manifestazioni di rilievo. La ricerca effettuata consente di
identificare le principali categorie di spesa, il loro contributo nonché le principali variabili
esplicative. Dai risultati di questa analisi di tipo quantitativo ed esplorativo emergono
alcune evidenze di ricerca ed implicazioni manageriali di interesse per gli operatori.
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Abstract
The paper, mainly empirical, investigates on exhibition centres and their role in
contributing to local economy. In particular, after some preliminary evidence on trends and
current issues, the paper provides the results of an empirical investigation within a local
context in Italy. The paper points out the main role of an exhibition centre in generating
additional expenditure to be spent in the local context. To address this topic, in terms of
methodology, the paper proposes the main findings of a survey research of the visitors of
six fairs organized within Umbriafiere, the major exhibition centre in Umbria. The research
highlights the main expenditure categories and the main determinants. The paper ends
with some implications useful for the management of exhibition centres
Classificazione JEL: M20 - general; M21 - business economics; M31 - martketing
Parole chiave (Keywords): fiere, impatto economico, comportamento del visitatore
62
63
Luca Ferrucci e Andrea Runfola
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Sviluppo e capitali delle
Medie imprese familiari italiane
I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro1
di Federica Palazzi
1. Un fenomeno dai confini sfumati
Nel nostro sistema industriale, da sempre definito dicotomico, in quanto suddiviso tra piccole e grandi imprese, assumono oggi visibilità le Medie Imprese (MI), i cui confini definitori sono difficili da stabilire. Sono “le
imprese del quarto capitalismo italiano”, quel capitalismo che giunge cronologicamente quarto nella storia d’Italia, dopo il capitalismo pubblico e privato della grande impresa, e dopo il capitalismo dei distretti industriali e
delle piccole imprese (Colli, 2002).
Un punto di riferimento per gli studiosi è la definizione data dall’Unione Europea, che fissa i seguenti parametri quantitativi per la media impresa manifatturiera: 50-249 dipendenti, fatturato non superiore a 50 milioni
di euro, totale attività non superiore a 43 milioni di euro. Tale definizione,
che fa riferimento unicamente a parametri quantitativi, rappresenta solo
la base di partenza per poter sviluppare la conoscenza delle caratteristiche
che contraddistinguono questa classe di imprese. Infatti, una definizione
che impiega parametri quantitativi è indispensabile per condurre analisi
statistiche e per promuovere programmi a sostegno delle imprese, ma non
riesce a catturare l’essenza della media impresa. Se la media impresa fosse individuabile solo con parametri quantitativi, ciò significherebbe allora,
che per definirla qualitativamente, occorrerebbe riallocarla tra le grandi o
tra le piccole imprese.
Così “il sistema delle imprese non sarebbe un continuum in cui taluni caratteri
qualitativi sono posseduti dalle singole unità componenti con una graduazione di
intensità che ne renda possibile una chiara distinzione per classi dimensionali, ma in
esso esisterebbe una frattura che consente solo di differenziare in modo soddisfacente
le piccole dalle grandi, mentre le medie, ora, hanno distintamente i caratteri delle
prime oppure hanno perso quei caratteri e qualitativamente, se non quantitativamente, sono, piuttosto, da annoverare nella categoria maggiore” (Marchini, 1987).
1
Una precedente versione dell’articolo è stata presentata al Convegno SIDREA 2010, “I risultati
aziendali: significato, misurazione, comunicazione”, Napoli, Università Federico II, 1-2 dicembre.
64
Rivista Piccola Impresa/Small Business - n. 2, anno 2011
65
Federica Palazzi
Nell’ultimo decennio, nel nostro Paese, la categoria media impresa ha
intrapreso un interessante percorso di sviluppo e di consolidamento che ha
posto in luce come il suo contributo all’economia italiana sia decisamente
rilevante in termini di PIL e di export e che ha attirato l’attenzione degli
studiosi e dei centri di ricerca2.
In base ai dati raccolti nell’indagine condotta dal Centro Studi di
Unioncamere e dall’Ufficio Studi di Mediobanca3, edizione 2010, si osserva che le medie imprese manifatturiere, su cui concentreremo la nostra
analisi, operano prevalentemente nei settori del made in Italy4 e sono localizzate in maggior numero nel Nord-est, nel Nord-ovest e nel centro del
nostro Paese.
La consistenza numerica delle imprese del comparto, censita nel 2007,
è pari a 4.483 unità ed è il risultato di un processo dinamico che vede protagoniste piccole, medie e grandi imprese; talune attuano strategie di crescita operativa o strutturale e talune altre perseguono strategie di downsizing, ma con l’obiettivo comune di ricercare quell’equilibrio che garantisca
il successo competitivo nel loro contesto di riferimento. La turbolenza si
manifesta fortemente in prossimità della soglia inferiore: nel periodo 19982007 ben 3.758 piccole imprese sono divenute medie mentre 1.843 medie
sono tornate piccole.
Come emerge da una recente indagine (Varaldo et al., 2009), il punto di
forza delle medie imprese italiane risiede nella capacità di porre in relazione virtuosa le caratteristiche della grande e della piccola impresa, godendo
dei vantaggi dell’una e dell’altra.
Infatti coniugano imprenditorialità e managerialità; creano il giusto
equilibrio tra le esigenze familiari ed aziendali.
L’impresa familiare5 è estremamente diffusa nel comparto delle medie
A testimonianza della rilevanza del fenomeno si noti che è stato avviato, negli ultimi mesi del
2009, un interessante progetto di ricerca a lungo termine che coinvolge Confindustria, R&S di
Mediobanca e Unioncamere, Institut für Mittelstandsforschung di Bonn, il Departamento de Economìa
Financiera y Contabilidad III dell’Universidad Complutense de Madrid e che ha l’obiettivo di analizzare le dinamiche economiche e finanziarie delle medie imprese manifatturiere nei principali Paesi
europei. La prima edizione dell’indagine è stata pubblicata a novembre 2010 ed analizza le medie
imprese industriali site in Germania, Italia e Spagna; l’indagine sarà successivamente estesa a
Francia e Regno Unito (www.mbres.it).
3
Il Centro Studi di Unioncamere dell’Ufficio Studi di Mediobanca definisce medie imprese industriali le società di capitali con un numero di addetti compreso tra 50 e 499 e un volume di vendite
annuo tra 13 e 290 milioni di euro. L’edizione 2010 copre il periodo 1998-2007.
4
Alimentare; legno, mobili, piastrelle; prodotti in metallo; macchine, attrezzature ed elettrodomestici; imbarcazioni, moto, bici e articoli sportivi; tessile, abbigliamento e moda. Per la classificazione, si veda Fondazione Edison, 2009.
5
Accogliamo la seguente definizione di impresa familiare: «Un’impresa si definisce familiare
quando una o poche famiglie, collegate da vincoli di parentela, di affinità o da solide alleanze,
detengono una quota del capitale di rischio sufficiente ad assicurare il controllo dell’impresa»
(Demattè, Corbetta, 1993, p. 5).
2
66
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
imprese italiane6 anche se all’aumentare della dimensione, ossia passando
dalla piccola alla media dimensione e oltre, il controllo familiare, è spesso
esercitato attraverso un’impresa capogruppo (Corbetta, 1995; Montemerlo,
2005). La continuità del gruppo imprenditoriale è così garanzia di qualità
ed affidabilità, ed è alla base di percorsi di crescita rapidi.
Dal punto di vista strategico, la focalizzazione su segmenti specifici di
mercato si accompagna a scelte di internazionalizzazione; la tradizione del
made in Italy si combina a modelli di ricerca ed innovazione strutturati; la
ricerca di economie di varietà non fa perdere di vista gli obiettivi di efficienza e redditività.
La conservazione del forte legame con il tessuto industriale e distrettuale di origine si combina allo sviluppo di reti internazionali, aperte a monte
e a valle; infatti frequentemente implementano processi di internazionalizzazione produttiva (reti materiali) e contemporaneamente attivano reti di
relazioni immateriali, alla ricerca di creazione e condivisione di conoscenze
più avanzate.
A fronte della rilevanza del fenomeno qui brevemente delineato, il nostro interesse di studiosi si è concentrato sulle specificità dello sviluppo che
caratterizza le medie imprese familiari italiane e sulle modalità di reperimento delle risorse finanziarie strumentali al processo di consolidamento
e di crescita. Abbiamo ritenuto che il punto critico da approfondire fosse la
relazione esistente tra le motivazioni e gli interessi del soggetto economico
(il gruppo familiare) e gli obiettivi di sviluppo aziendali.
La nostra convinzione è che ci si trovi di fronte ad un modello di impresa che presenta talune specificità sia rispetto alle grandi imprese-multinazionali, governate dai manager, sia rispetto alle piccole e micro imprese,
in cui assume un ruolo centrale la figura dell’imprenditore-manager, che
permea di sé tutte le manifestazioni dell’impresa.
Nel paragrafo 2 approfondiremo l’interrogativo da cui è partita la ricerca; nel paragrafo 3 descriveremo il quadro teorico di riferimento con particolare riferimento ai concetti di crescita/sviluppo e finanza imprenditoriale;
mentre nel paragrafo 4 si illustreranno i risultati dell’indagine qualitativa
condotta su due casi paradigmatici di medie imprese di successo (The Bridge e Piquadro). Seguiranno alcune considerazioni conclusive.
6
Anche a livello internazionale, il modello d’impresa a proprietà e controllo familiare è quello
dominante, raggiungendo la quota del 45% per il comparto medie imprese (La Porta, Lopez-deSilanes, Shleifer, 1999).
67
Federica Palazzi
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
2. L’interrogativo della nostra indagine
fondi spese
L’interesse sui rapporti esistenti tra processi di sviluppo delle medie
imprese e modalità di finanziamento intraprese nasce dalla disamina delle fonti statistiche disponibili che delineano la rilevanza in termini quantitativi delle medie imprese nel contesto Europeo, laddove a prima vista
emergono delle omogeneità tra i vari Paesi per quanto attiene alla struttura produttiva, mentre emergono interessanti specificità italiane per quanto
concerne la struttura finanziaria delle medie imprese (vedi tab. 1).
Il sistema produttivo europeo, infatti, presenta la seguente articolazione
dell’attività economica7 per classi d’impresa: le micro e le piccole imprese
rappresentano ben il 98,8% del totale imprese, le medie imprese rappresentano l’1,1% e le grandi solamente lo 0,2%.
Focalizzando l’attenzione sui settori dell’industria, il numero delle medie imprese raggiunge la quota del 3,8%. La numerosità delle medie imprese in Europa è esigua, come del resto si verifica anche per l’Italia, tuttavia
il loro contributo al valore aggiunto complessivo è significativo, essendo
pari al 21,2% sul totale.
Come innanzi detto, è interessante confrontare la struttura finanziaria
delle imprese di media dimensione nel contesto europeo.
ATTIVO CORRENTE
Spagna
Portogallo
Belgio
Paesi Bassi
Germania
Austria
Polonia
ATTIVO
IMMOBILIZZATO
Francia
2007
Italia
Tab. 1 – Struttura finanziaria delle medie imprese* manifatturiere in Italia, Francia, Spagna, Portogallo,
Belgio, Paesi Bassi, Germania, Austria, Polonia (2007)
29
28
39
40
41
52
33
40
47
71
72
61
60
59
48
67
60
53
TOTALE ATTIVO
100
100
100
100
100
100
100
100
100
debiti a breve
52,8
40,7
38,9
39,4
36,7
30,4
39,5
34
35,2
17,8
3,2
11,5
- 5,2
-
8
- -
di cui debiti commerciali
25,8
22,9
19,1
17,3
16,7
n/a
10,4
8
17,1
PASSIVO CORRENTE
53,7
15,5
39
11,8
44,2
15,3
38
15,3
30,4
39,6
34
37,9
di cui prestiti
obbligazionari
11,7
42
0,8
0,1
0
1,2
8,3
6,2
6,8
- di cui debiti v/istituti di
credito
ratei e risconti
debiti a lungo termine
di cui debiti v/istituti di
credito
0,9
1,3
0,1
4,8
1,3
0,1
n/a
18,2
12,6
14,1
0
n/a
0,4
0,5
0,1
5,5
-
8,7
-
- n/a
2,7
10,3
7
I dati sono riferiti ai settori d’attività non finanziari (the non-financial business economy). Fonte
Eurostat 2010.
68
PASSIVO
CONSOLIDATO
capitale e riserve
PATRIMONIO NETTO
TOTALE PASSIVITA’
5,6
3
1,1
0,8
3,1
2,6
14,2
14,3
2,1
17,3
18,5
12,9
16,1
18,4
20,8
26,8
28,4
12,4
29
29
100
39,5
39,5
100
48,1
48,1
100
39,7
39,7
100
43,6
43,6
100
48,8
48,8
100
33,6
33,6
100
37,6
37,6
100
49,7
49,7
100
* Sono definite medie, le imprese con un fatturato complessivo compreso tra i 10 e i 50 milioni di euro.
Fonte: elaborazioni su dati Bach – Commissione Europea, 2007
Il confronto tra alcuni Paesi europei consente di evidenziare delle interessanti differenze tra un Paese e l’altro nelle scelte di finanziamento compiute dalle medie imprese manifatturiere. Innanzitutto il capitale d’impresa
risulta essere prevalentemente investito in attivo circolante, fatta eccezione
per i Paesi Bassi la cui quota di attivo immobilizzato ammonta al 51,6%.
L’Italia presenta il più basso grado di patrimonializzazione a confronto con
gli altri Paesi europei. I Paesi, le cui medie imprese hanno un livello di
patrimonio netto alto che si avvicina al 50% del capitale di finanziamento,
sono Polonia, Paesi Bassi, Spagna e Belgio. Le risorse finanziarie esterne
prevalentemente impiegate sono di tipo corrente, ossia hanno scadenza a
breve termine, coerentemente con la struttura del capitale investito caratterizzato dalla prevalenza dell’attivo circolante.
I debiti di funzionamento rappresentano la principale risorsa di finanziamento tra le passività correnti. L’Italia ha il primato sia in termini di
ricorso ai debiti commerciali (25,8%) sia in termini di utilizzo di prestiti
bancari a breve termine (17,8%). Le passività consolidate sono, al contrario, la risorsa finanziaria meno utilizzata. Gli unici due Paesi che ne fanno
un ricorso significativo a confronto con gli altri sono Germania (26,8%) e
Austria (28,4%).
Le specificità della struttura finanziaria delle medie imprese italiane
sono in parte da ricondurre ad alcune variabili country specific: le imprese italiane operano in settori tradizionali e frammentati, con un grado di
intensità capitalistica mediamente basso; il sistema bancario italiano è da
sempre disponibile a sostenere le politiche di indebitamento delle imprese minori; il sistema tributario ha avvantaggiato il ricorso a strumenti di
debito piuttosto che a strumenti del capitale di rischio; inoltre il sistema
finanziario italiano presenta anomalie in termini di strumenti, intermediari
e mercati, tali da rendere difficile il ricorso al pubblico dei risparmiatori per
reperire risorse finanziarie senza perdere il controllo aziendale (Metallo,
Pencarelli, 1995).
L’analisi dei dati aggregati consente di affermare che complessivamente
le medie imprese manifatturiere in Europa hanno strutture patrimoniali
equilibrate, con differenze significative tra un Paese e l’altro, espressione di
69
Federica Palazzi
contesti istituzionali e socio-economici completamente diversi tra loro nei
quali le medie imprese svolgono la propria attività.
Alla luce di queste differenze, che i dati evidenziano ma non sono in
grado di spiegare nella loro dinamica, il presente lavoro si propone di indagare le relazioni esistenti tra i processi di crescita delle medie imprese familiari
italiane e le modalità di reperimento delle risorse finanziarie.
In particolare ci si chiede:
i) Quali sono le logiche che guidano il soggetto economico nelle scelte
di finanziamento?
ii) Qual è la struttura finanziaria idonea a sostenere i processi di sviluppo delle medie imprese italiane? Le “tradizionali” risorse finanziarie (autofinanziamento, debiti di funzionamento, debiti bancari a breve) dovrebbero essere sostituite da modalità di approvvigionamento dei capitali più
“evolute” (private equity, quotazione sul mercato azionario)?
3. Il quadro teorico di riferimento
3.1. I processi di crescita dimensionale/sviluppo qualitativo. Alcune definizioni
La crescita è un fenomeno che riceve da sempre l’attenzione degli studiosi di tutto il mondo8; i sistemi economici, infatti, sono dominati dalla
presenza di micro e piccole imprese, le quali, per la maggior parte, conservano la piccola dimensione durante il loro ciclo di vita9 senza intraprendere
percorsi di sviluppo che avrebbero, invece, un forte impatto in termini di
crescita complessiva del sistema Paese (aumento del PIL, aumento dell’occupazione, incremento delle esportazioni) (Rajan, Zingales, 1998).
La media impresa, invece, è il risultato di un percorso di crescita dimensionale e di sviluppo, avviato e realizzato con successo da una piccola
impresa. E’ opportuno chiarire, in via preliminare, i concetti di crescita dimensionale e di sviluppo qualitativo10 prima di addentrarsi nelle dinamiche
evolutive che coinvolgono le aziende di media dimensione.
La crescita dimensionale, qui intesa come sviluppo quantitativo (che si può
manifestare sia nella forma di crescita operativa, con conseguente incremento del fatturato, sia nella forma di crescita strutturale, con aumento
della forza lavoro impiegata, definita in ambito internazionale internal or
organic growth), ha due particolari determinanti:
- il vantaggio competitivo ottenuto da una strategia competitiva di successo
che mantiene invariata la combinazione prodotto/mercato/tecnologia;
«Growth is a subject of all times» Philipsen, Kemp, 2003.
Il fenomeno di stabilizzazione nella piccola dimensione riguarda anche le piccole imprese degli
Stati Uniti, come risulta da una recente ricerca condotta da Headd e Kirchhoff, 2009.
10
Per un approfondimento si veda Marchini, 2005, pp. 207 e ss.
8
9
70
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
- lo sviluppo perseguito mediante la modifica delle variabili prodotto/
mercato/tecnologia.
La specificità delle strategie di sviluppo qualitativo, invece, è quella di
produrre fenomeni evolutivi atti a rimuovere cause di vulnerabilità e massimizzare le possibilità di sopravvivenza dell’impresa. Tali strategie si realizzano attraverso le relazioni interpersonali, che promuovono network formali e informali11, e/o mediante i rapporti che si sviluppano tra aziende,
creando network esterni ed interni.
Ai nostri fini è importante sottolineare che accogliamo il suggerimento
di alcuni ricercatori che hanno recentemente ribadito l’importanza di concentrare l’attenzione sui processi e sulle modalità della crescita piuttosto
che sui risultati quantitativi che le aziende riescono a raggiungere in termini di sviluppo: «…the “how” aspect of growth is a necessary and fundamental
question that needs to be better understood before we can turn our attention to how
much a firm grows.» (McKelvie, Wiklund, 2010, pag. 261). Concentreremo ora l’attenzione sui processi di crescita che hanno caratterizzato le medie imprese italiane e, in particolare, sulla transizione dalla
piccola alla media dimensione, avvalendoci, a tal fine, dei risultati di alcune significative ricerche empiriche.
Quali condizioni favoriscono i processi di crescita aziendale?
Interessante è quanto emerso da un’analisi empirica condotta su un
campione di imprese italiane medie e medio-grandi da Corbetta (200512).
Nelle aziende del campione, il processo di crescita aziendale di successo
fonda le sue radici in un contesto interno e in un contesto esterno favorevoli allo sviluppo. Secondo lo studioso, le condizioni interne agevolatrici
sono numerose:
- la famiglia proprietaria ha un atteggiamento favorevole alla crescita, la
quale dovrebbe essere vissuta come opportunità e non come minaccia;
- l’impresa ha una buona redditività e un basso grado di indebitamento;
- l’impresa è presente sui mercati internazionali.
Il contesto esterno è rappresentato da condizioni di mercato o di settore
che sono interpretate dall’imprenditore e dai suoi collaboratori come opportunità da sfruttare per intraprendere il percorso di sviluppo.
Con particolare riferimento alle imprese familiari si noti che le relazioni parentali e sociali che
circondano l’attività imprenditoriale diventano relazioni di comunicazione che garantiscono
scambi di conoscenze e informazioni tra una pluralità di soggetti. Tali network informali di relazioni interpersonali sono esterni all’impresa e si sviluppano secondo la dimensione orizzontale.
Essi sono fondamentali anche per la formazione di accordi interaziendali (network esterni).
12
Il campione è formato da 18 imprese familiari con le seguenti caratteristiche: imprese con più
di 50 dipendenti, con un tasso di crescita superiore al 50% nel periodo 1997-2001 (eccetto tre
aziende che presentano un tasso medio di crescita pari al 30,8%), un ROI positivo nel 2000 e nel
2001, operanti nei settori alimentare, tessile, abbigliamento, arredamento, chimico-farmaceutico
e meccanico.
11
71
Federica Palazzi
Verificata l’esistenza delle condizioni di contesto, interne ed esterne
all’azienda, l’elemento discriminatore nel processo di crescita è rappresentato dalla volontà dell’imprenditore di “lasciare un segno nella storia della
propria azienda”, attraverso il contributo diretto al salto dimensionale.
Grandinetti (2007), attraverso l’analisi empirica di alcune medie imprese venete13, inquadra il fenomeno della crescita aziendale nell’ambito di un
modello evolutivo pluridimensionale. L’assunto fondamentale del modello è il seguente: la crescita dimensionale rappresenta solo una delle dimensioni della crescita aziendale, le altre con cui entra in combinazione sono la
crescita relazionale e la crescita qualitativa. Le tre dimensioni della crescita
si combinano creando una pluralità di percorsi evolutivi, per i quali non è
possibile ipotizzare una sequenza di stadi idealtipici.
Infine, una recente analisi empirica condotta sul territorio marchigiano14
(Iacobucci, 2008) dimostra che, mentre le piccole imprese sono a favore di
una crescita dimensionale interna, all’aumentare della dimensione aziendale diventa sempre più importante la crescita per vie esterne, attraverso
la costituzione di nuove entità o mediante l’acquisizione di imprese già esistenti. Il risultato di tale processo di crescita è proprio la costituzione di un
gruppo, il quale soddisfa prevalentemente le esigenze di differenziazione
(entrata in segmenti diversi dello stesso settore) e di integrazione verticale
lungo la filiera, avvertite dalle medie imprese.
Conclusa questa breve rassegna, concentriamo ora la nostra attenzione
sulla letteratura in ambito finanziario utile ai fini della nostra indagine
conoscitiva.
3.2. I contributi della finanza imprenditoriale. Una rassegna della letteratura
Le teorie finanziarie neoclassiche, sviluppate a partire dagli anni ’5015,
sono state elaborate, anche se non esplicitamente, con riferimento alla
grande impresa, tipicamente la public company anglosassone: la società di
capitali a proprietà diffusa, generalmente quotata sui mercati finanziari e
gestita da team manageriali.
A partire dagli anni ’80, gli anni in cui nei paesi anglosassoni si sviluppano gli studi sullo small business sector16, si diffondono i contributi diretti a
Sono analizzati sei casi di aziende venete di successo, interessanti per il percorso di crescita
intrapreso negli ultimi dieci anni.
14
Le informazioni utilizzate provengono dall’Osservatorio sulle principali imprese marchigiane promosso dalla Fondazione Aristide Merloni di Fabriano e dall’Università Politecnica delle
Marche, il quale consente di ricostruire la dinamica delle imprese e dei gruppi in un arco decennale (1995-2005).
15
Teoria dell’ottima struttura finanziaria (Modigliani-Miller 1958; 1965; Miller 1977); Teoria
dell’agenzia (Jensen-Meckling 1976); Teoria del trade-off; Teoria dell’ordine di scelta (MyersMajluf 1984); teoria dei segnali (Leland, Pyle, 1977; Ross, 1977).
16
In ambito internazionale, lo small business sector comprende aziende con meno di 500 addetti.
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
verificare la possibilità di applicazione delle teorie finanziarie neoclassiche
al comparto delle PMI (McConnel, Petit 1983; Brophy, Schulman 1992; Ang
1991-2; Petty, Bygrave 1993).
Tuttavia, le difficoltà riscontrate nell’applicazione di tali teorie al comparto piccole imprese, spinge diversi studiosi a sviluppare delle teorie finanziarie dedicate esclusivamente alle PMI, che focalizzano l’attenzione
sulle caratteristiche dell’imprenditore e del processo imprenditoriale per
comprendere le scelte relative alla struttura del capitale.
Tali contributi si annoverano tra quelli di finanza imprenditoriale. Alcuni
sono incentrati sul «“processo imprenditoriale” (Colot, Michel 1996; Gibson 1992, 1993), ossia il meccanismo di percezione delle opportunità e l’attuazione dei compiti che danno contenuto specifico all’imprenditorialità»
(Marchini, 2000, p. 9).
Altri, invece, pongono al centro dell’analisi le preferenze individuali degli imprenditori e l’influenza delle stesse sulle decisioni finanziarie (tab. 2).
Tab. 2 – Le preferenze individuali degli imprenditori e le decisioni finanziarie
Autori
Anno
Barton, Matthews
1989
Hutchinson
1995
Cressy
1995
Merikas, Bruton,
Vozikis
1993
McMahon, Stanger
1995
Cressy, Olofsson
1997
Contenuto
Le decisioni finanziarie sono influenzate dalle decisioni strategiche, determinate dai fattori personali dell’imprenditore.
L’avversione al rischio e alla perdita del controllo da parte
dell’imprenditore rendono le politiche di investimento e le
politiche di finanziamento tra loro interdipendenti.
Il modello evidenzia le interconnessioni tra la scelta di indebitamento e l’avversione, da parte dell’imprenditore, al controllo esercitato sull’impresa dai finanziatori esterni.
Il modello proposto evidenzia il legame esistente, nelle piccole
imprese, tra le decisioni finanziarie e le decisioni strategiche.
Nelle scelte di finanziamento, l’utilità del piccolo imprenditore è funzione, in primis, dei risultati economico-finanziari, del
rischio sistematico ma anche del rischio non sistematico e dei
risultati non economico-finanziari.
I risultati dell’indagine empirica confermano l’avversione alla
diluizione del controllo da parte del piccolo imprenditore, il
quale non è affatto propenso all’ingresso di nuovi soci nella
compagine societaria.
Fonte: Elaborazione propria
13
72
Più recenti sono gli studi dedicati alle PMI familiari e alle specificità delle decisioni finanziarie prese in seno a tali realtà aziendali (tab. 3).
Nel nostro studio non è stato possibile individuare dei contributi scientifici internazionali dedicati
esclusivamente alle medie imprese, poiché questa tipologia è ricompresa nello small business sector.
73
Federica Palazzi
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
Tab. 3 – La finanza delle piccole e medie imprese familiari
Autori
Anno
Romano, Tanewski,
Smyrnios
2000
Gallo, Tàpies,
Cappuyns
2004
Wu, Chua, Chrisman
2007
Contenuto
Il modello elaborato e verificato empiricamente dimostra che la
dimensione d’impresa, il settore industriale, l’età dell’azienda e
quella del direttore generale, la misura del controllo familiare, la
pianificazione aziendale, gli obiettivi del proprietario e i piani di
crescita influenzano le decisioni finanziarie prese dai proprietari
in seno alle imprese familiari.
I risultati dell’indagine consentono di affermare che le imprese
familiari si caratterizzano per una “logica finanziaria speciale”,
le cui peculiarità sono determinate dalle preferenze personali
dei familiari che gestiscono l’impresa, relative alla crescita, al
rischio e al controllo della proprietà.
Il coinvolgimento familiare riduce indirettamente l’utilizzo del
capitale di rischio attraverso l’influenza esercitata sulla scelta
dei meccanismi di controllo dei costi di agenzia.
Fonte: Elaborazione propria
In Italia, è possibile rintracciare dei contributi di finanza dedicati esclusivamente alle medie imprese italiane già a partire dal 1977 ( Massari M.).
Coloro che si sono occupati del rapporto tra finanza e media impresa, hanno analizzato la struttura finanziaria delle medie imprese al fine di
comprendere come eventuali o necessarie evoluzioni della stessa potessero
incidere positivamente sul loro percorso di sviluppo. È possibile delineare
due filoni di studio. Il primo (Massari M., 1977, 2007; Morelli, Monarca,
2005; Ruozi, Ferrari, 2007), che si ispira ai principi della finanza neoclassica, parte dalla constatazione che la struttura finanziaria delle medie imprese italiane non è equilibrata poiché è sottopatrimonializzata e sbilanciata
sui debiti bancari a breve termine e sostiene la necessità dell’apertura del
capitale di rischio a soggetti terzi al fine di recuperare risorse finanziarie
mancanti e ripristinare un giusto rapporto tra debiti e capitale proprio
(Franzosi e Pellizzoni, 2005; Del Giudice e Bollazzi 2007). Il secondo filone
di studi (Corbetta, 2000, 2005; Caselli, 2005; Coltorti, 2004, 2008; Rullani,
1999; Bonomi, Rullani, 2005), partendo dalla convinzione che le medie imprese italiane si caratterizzano per strutture finanziarie in realtà equilibrate,
sostiene la possibilità di percorsi finanziari alternativi, l’uno che prevede
l’impiego degli strumenti di finanziamento “tradizionali” (autofinanziamento, debiti commerciali, debiti a breve termine), l’altro che prevede il
ricorso a mezzi di finanziamento più “evoluti” (private equity, business angels, mercato azionario e obbligazionario, strumenti innovativi debt/equity,
ecc.). Entrambi, infatti, possono sostenere adeguatamente lo sviluppo delle
medie imprese. Un’indagine empirica condotta su diciotto medie imprese
italiane17 consente a Caselli (2005) di proporre, quale prima ipotesi inter17
Per la definizione del campione vedi Corbetta (a cura di) 2005, p. 2 e ss.
74
pretativa, l’esistenza di percorsi di crescita finanziariamente differenti a
sostegno dello sviluppo di questa specifica categoria di aziende18.
Nello specifico, l’autore identifica due percorsi di crescita sulla base
delle logiche di comportamento finanziario adottate dalle medie imprese:
percorso di crescita «finance based» e percorso di crescita «firm based». I due
percorsi si differenziano per la configurazione di due parametri: l’apporto
quantitativo di risorse finanziarie da parte degli intermediari finanziari e il
coinvolgimento degli intermediari nella funzione finanziaria dell’impresa.
Alle imprese che realizzano un percorso di crescita «finance based», gli
intermediari finanziari forniscono le risorse finanziarie nella forma di capitale di debito e capitale di rischio; le risorse esterne sono dunque impiegate
«quale volano indispensabile per l’innesco e il mantenimento della traiettoria di crescita tracciata dall’impresa» (p. 92).
Le imprese che realizzano percorsi di crescita «firm based» si contraddistinguono per un prevalente uso delle fonti interne di finanziamento,
con scarso ricorso a prestiti bancari, e per un rapporto con gli intermediari finanziari di tipo occasionale e finalizzato alla risoluzione di problemi
specifici, privo di qualunque forma di coinvolgimento più intenso. In tal
caso, il percorso di crescita è sostenuto dalle risorse generate internamente
e da eventuali apporti finanziari da parte del nucleo imprenditoriale, nella
forma di risorse monetarie vere e proprie o di garanzie prestate a favore
dell’azienda. In sintesi, la scelta di uno specifico percorso di crescita finanziario trova le sue origini nella storia dell’azienda e del suo imprenditore e
può essere ricondotta ad una molteplicità di fattori:
- il fabbisogno finanziario esterno e i tempi di copertura dello stesso;
- l’intensità di capitale del settore;
- la cultura finanziaria del fondatore;
- l’integrazione dell’imprenditore nella comunità finanziaria di appartenenza;
- la natura e la struttura del capitale circolante.
Tutto ciò non fa altro che confermare quanto avanzato da Bonomi e Rullani (2005) i quali parlano di un capitalismo personale in Italia che ha la capacità di intraprendere nuove strade di crescita e di sviluppo, le quali non
implicano necessariamente la spersonalizzazione dell’impresa, un approccio
capital consuming ed una normalizzazione finanziaria. «Il capitalismo personale è una forma originale e non transitoria di capitalismo, in cui le singole
persone, facendo appello alla loro intelligenza e cultura di uomini, costruiscono sistemi di business in cui la rete economica complementa quella
sociale.» (Rullani, 1999).
18
Grandinetti (2007), il quale sostiene la necessità dello sviluppo della dimensione finanziaria nei
processi di crescita delle medie imprese, riconosce al riscontro empirico di Caselli di imprese di
successo prive di qualunque forma evolutiva della funzione finanziaria un’indubbia importanza.
75
Federica Palazzi
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
4. La ricerca
italiane di successo che presentano modalità antitetiche per quanto attiene
alle scelte di corporate finance. I metodi di ricerca impiegati sono l’intervista
semistrutturata e l’analisi documentale.
Particolare attenzione è stata posta alla selezione del settore industriale e
dei due casi aziendali. In questo progetto di ricerca l’attenzione è posta su
uno dei quattro settori cardine dell’industria manifatturiera italiana22: il
settore Abbigliamento-moda e, in particolare, il comparto cuoio-pelletteria-calzature.
Il valore aggiunto dell’industria italiana dell’Abbigliamento-moda è
stato, nel 2006, di 26 miliardi di euro (cifra superiore al valore aggiunto
complessivo delle industrie aerospaziali di Francia, Germania e Regno
Unito) mentre il numero di occupati è stato pari a 719 mila; nel 2008, il
surplus commerciale con l’estero ha raggiunto i 22 miliardi di euro.
Inoltre, per il 2006, l’Italia è risultata al primo posto nel settore cuoiopelletteria-calzature secondo la classifica del Trade Performance Index UNCTAD/WTO23. Nel settore cuoio-calzature sono stati impiegati 167 mila
addetti; Toscana, Marche e Veneto hanno ciascuna in questo comparto
più occupati di Francia e Germania. La rilevanza economica del settore
cuoio-pelletteria in Italia giustifica dunque la scelta del settore industriale
da indagare.
All’interno dello specifico settore, sono state selezionate due aziende
“idealtipo”, che avessero la dimensione di media impresa, operassero con
successo nel contesto italiano e internazionale ma utilizzassero strumenti di finanziamento differenti: l’una (The Bridge) strumenti finanziari “tradizionali” (autofinanziamento, debiti di funzionamento, debiti bancari a
breve termine) e l’altra (Piquadro) strumenti di finanziamento più “evoluti” (ricorso al private equity, quotazione in Borsa). Per ognuno dei due casi
aziendali selezionati, le informazioni raccolte sono di seguito riportate in
base alla seguente griglia di analisi: il profilo aziendale, il processo di crescita, la struttura finanziaria e le fonti di finanziamento.
4.1. Prospettiva teorico-filosofica, metodologia e metodi adottati
La domanda di ricerca19, attorno alla quale si sviluppa il nostro processo
di investigazione, è orientata a conoscere il rapporto esistente tra i processi
di crescita e di consolidamento delle medie imprese familiari italiane e le modalità di finanziamento degli stessi. In particolare l’interrogativo che alimenta la
ricerca è il seguente: qual è la logica sottostante la scelta delle modalità di
finanziamento nelle medie imprese familiari italiane?
Per la piena comprensione del processo di ricerca, è indispensabile chiarire la prospettiva teorico-filosofica di riferimento, che rappresenta «qualche cosa di più ampio e anche di più generale di una teoria: è una visione
del mondo, una finestra mentale, una griglia di lettura che precede l’elaborazione teorica» (Corbetta, 1999, p. 18) e orienta il modo di fare ricerca. Il
paradigma teorico-filosofico che fa da sfondo al presente progetto di ricerca è il paradigma interpretativista20.
La metodologia di ricerca del presente studio deriva necessariamente
dalla prospettiva teorico-filosofica adottata ed è basata sul multiple field case
study21. Lo studio del caso aziendale consiste nell’analisi prolungata di un
sistema delimitato nel tempo e nello spazio, attraverso la raccolta dettagliata di dati e informazioni, che descrivono le condizioni storiche, sociali
ed economiche dell’ambiente di riferimento.
In particolare, allo scopo di interpretare il rapporto esistente tra i processi di crescita delle medie imprese italiane e le modalità di finanziamento adottate, si analizzano due casi aziendali di medie imprese operanti nel
comparto cuoio-pelletteria, in quanto casi emblematici di medie imprese
«Defining the research questions is, probably, the most important step to be taken in a research study, so
you should allow patience and sufficient time for this task. The key is to understand that research questions
have both substance (e.g. What is my study about?) and form (e.g. Am I asking a “who”, “what”, “where”,
“why”, or “how” questions?)» (Yin, 2003, p. 7).
20
Il termine interpretativismo fa riferimento a tutte le visioni teoriche per le quali la realtà non
può essere semplicemente osservata, ma deve essere interpretata. Nell’ambito di tale paradigma,
la questione ontologica, quella epistemologica e quella metodologica assumono peculiari configurazioni (Corbetta, 1999, p. 38-39).
Secondo la logica del costruttivismo, il mondo conoscibile è quello del significato attribuito dagli
individui. Quindi non esiste una realtà sociale universale valida per tutti gli uomini (realtà assoluta), ma esistono molteplici realtà (realtà multiple) secondo le diverse prospettive con cui gli
uomini vedono ed interpretano i fatti sociali.
Sotto il profilo epistemologico non c’è separazione tra studioso e oggetto di studio. La scienza sociale, nel perseguire l’obiettivo di comprensione del comportamento individuale, può utilizzare
astrazioni e generalizzazioni, ossia tipi ideali ed enunciati di possibilità.
Le tecniche di ricerca, infine, sono qualitative e soggettive, poiché lo scopo principale della ricerca è quello di comprendere il significato attribuito dal soggetto alla propria azione.
21
«An empirical inquiry that investigates a contemporary phenomenon within its real-life context, especially when the boundaries between phenomenon and context are not clearly evident» (Yin, 2003, p. 13).
19
76
I settori cardine dell’industria manifatturiera italiana, quelli in cui l’Italia è più specializzata
e presenta un surplus commerciale rilevante con l’estero, si possono raggruppare nelle “4A”
del made in Italy: Alimentari-vini; Abbigliamento-moda; Arredo-casa; Automazione-meccanicagomma-plastica (Fondazione Edison, 2009).
23
Il Trade Performance Index (TPI) è un nuovo indicatore elaborato congiuntamente da UNCTAD
e da WTO attraverso il loro International Trade. Il TPI è stato elaborato per 14 macrosettori in cui è
stato suddiviso il commercio internazionale. Per ogni macrosettore di ciascun Paese è stato costruito un indice composito basato su 5 sottoindicatori: il saldo commerciale, l’export pro-capite, la
quota nell’export mondiale, il livello di diversificazione di ogni macrosettore in termini di numero
di prodotti, il livello di diversificazione dei mercati. Per maggiori dettagli si veda International
Trade Centre UNCTAD/WTO, The Trade Performance Index. Technical Notes, maggio 2007.
22
77
Federica Palazzi
4.2. Il caso aziendale “The Bridge”24
4.2.1. Il profilo aziendale
Il Ponte Pelletteria s.p.a. nasce per volontà di cinque ragazzi nel 1969
a Scandicci (Firenze). In origine, era un grande laboratorio artigiano, situato nella frazione di Ponte a Greve (da qui deriva il nome “The Bridge”),
nel quale le competenze e le abilità specifiche di ciascun socio fondatore si
amalgamavano, dando vita a borse e accessori di alta qualità, realizzati con
materiali pregiati. Da allora, le materie prime italiane e la lavorazione artigianale della tipica bottega fiorentina si combinano ad una estetica “English
style”, realizzando un originale stile Anglo-Toscano.
L’attività produttiva è realizzata presso unità dislocate sul territorio nazionale e presso stabilimenti situati nell’Est Europa. La delocalizzazione
produttiva, scelta necessaria, ha avuto inizio negli anni ’90 per ridurre gli
elevati costi di produzione. L’alta qualità del prodotto è garantita dall’impiego di materie prime totalmente made in Italy.
I principali mercati internazionali sono Germania e Regno Unito, ma
l’azienda è presente in tutti i continenti, prevalentemente in boutique wholesale (all’ingrosso), realizzando all’estero circa il 22% del proprio fatturato.
Oggi il Ponte Pelletteria s.p.a. serve egregiamente il segmento del lusso
accessibile utilizzando i due marchi riconosciuti a livello internazionale:
“The Bridge” nato nel 1975 e “Wayfarer The Bridge” più recente (entrambi di
proprietà della holding del gruppo, il Ponte Finanziaria s.p.a.). Dal 2001 è
stato avviato un progetto di espansione capillare sul territorio e l’applicazione di uno stile architettonico uniforme a tutti i negozi, che identifichi
il mondo “The Bridge”. L’azienda è giuridicamente un gruppo aziendale
la cui holding capogruppo è “Il Ponte Finanziaria S.p.a.”. è un gruppo a
proprietà familiare che fa capo a tre dei cinque soci fondatori (Benvenuti F.,
Ferri A., Biagioni F.). Il gruppo imprenditoriale è così formato dalla prima e
dalla seconda generazione. Gli imprenditori della prima generazione sono
artigiani, hanno maturato le proprie competenze nelle botteghe artigiane
fiorentine, ed hanno preferito dedicarsi agli aspetti produttivi ed operativi della gestione aziendale. Questi imprenditori rientrano perfettamente
nella tipologia di “imprenditore artigiano” individuata da Smith (1967)25:
I dati e le informazioni raccolte provengono da una lunga intervista semistrutturata con la
dott.ssa Novella Ferri (figlia di uno dei soci fondatori, oggi Responsabile delle risorse umane)
realizzata nel 2009, dallo scambio di mail con il Sig. Marco Barzini (responsabile area contabile),
e dall’analisi di documenti aziendali (bilanci di esercizio, bilanci consolidati e relazioni sulla gestione degli anni 2006-2007-2008, materiale pubblicitario, sito web, giornali).
25
In Marchini, 2000, vol. I, p. 95. L’“imprenditore artigiano” si differenzia dall’“imprenditore
opportunista”; infatti quest’ultimo non si lascia coinvolgere nelle attività esecutive, preferisce
dedicarsi ad attività strategiche e il suo orientamento è di lungo periodo, inoltre attua processi
di delega.
24
78
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
l’“imprenditore artigiano” è colui che si coinvolge nelle attività esecutive,
privilegia l’accentramento del potere ed ha un orientamento strategico di
breve periodo. Ma la gestione di un’azienda di successo per quarant’anni
ha sicuramente stimolato quell’evoluzione nello stile di direzione di ciascun socio, indispensabile per creare la necessaria consonanza tra le fasi di
sviluppo e crescita dell’impresa e il «ciclo di vita dell’imprenditore» (Marchini, 2000, p. 121).
Oggi il gruppo “The Bridge” presenta una struttura organizzativa formalizzata, con ruoli ben definiti, con due manager professionisti (direttore
commerciale e direttore di produzione) ai quali sono state delegate le decisioni operative, affinché gli imprenditori possano concentrarsi sull’attività
strategica, di coordinamento e di controllo.
I quattro giovani imprenditori della seconda generazione si sono ritrovati a lavorare nell’impresa di famiglia, fianco a fianco, senza essersi scelti
reciprocamente, come avevano fatto i loro genitori quando giovani ragazzi avevano costituito l’azienda, e hanno cercato di ritagliarsi il ruolo più
appropriato all’interno dell’organizzazione (brand director, retail manager,
responsabile sviluppo prodotto, responsabile risorse umane). Nessuno dei
quattro ha una formazione specifica in campo aziendalistico, economico
e/o ingegneristico. Ma sono accomunati da un’esperienza comune: fin dalla nascita hanno respirano quell’atmosfera aziendale, trapelata dalle parole, dai gesti, dalle emozioni e dalle preoccupazioni dei loro genitori, i quali
hanno dedicato tutta la loro vita all’esperienza imprenditoriale.
L’obiettivo del gruppo imprenditoriale è da sempre quello di realizzare un prodotto di qualità distintiva, contraddistinto da «artigianalità,
informalità e durevolezza, trasformati oggi in trasversalità, edonismo ed eco sostenibilità» (Ferri N.).
4.2.2. Il processo di crescita
Oggi “The Bridge” è un gruppo aziendale di media dimensione: nel 2008
ha conseguito un fatturato pari a 37 milioni di euro, con un capitale investito di 34 milioni di euro, impiegando circa 90 dipendenti negli stabilimenti
italiani.
La dimensione attuale è il risultato di un percorso di crescita avviato fin
dal 1975 per sfruttare la congiuntura economica favorevole degli anni del
boom economico italiano.
Nei quarant’anni di storia, lo sviluppo quantitativo si è coniugato allo
sviluppo qualitativo. Le strategie competitive di penetrazione del mercato,
di sviluppo del prodotto e di sviluppo dei mercati (strategia di internazionalizzazione) hanno prodotto una crescita operativa e strutturale interna
che si è combinata allo sviluppo di relazioni interaziendali e intraziendali. Le relazioni cooperative (network esterni) intessute con i partner della
79
Federica Palazzi
supply chain hanno garantito i benefici dell’integrazione verticale senza i
vincoli della stessa: minor fabbisogno di risorse finanziarie proprie, maggiore flessibilità con sostituzione di costi variabili a costi fissi, sviluppo di
sinergie combinando risorse e competenze, maggiore efficienza produttiva
e maggior stimolo all’innovazione tecnologica.
La crescita ha trovato espressione anche nella creazione di un gruppo aziendale, attraverso il quale gestire opportunamente i diversi stili di
produzione e di commercializzazione legati ai due differenti marchi (“The
Bridge” e “Wayfarer The Bridge”), isolare il rischio associato alle due iniziative produttive, gestire autonomamente i clienti e i fornitori, e infine valutare efficacemente le performance delle due iniziative.
L’attuale obiettivo strategico è il potenziamento del marchio nel mondo,
valorizzando la tradizione artigiana fiorentina che incorpora. La Responsabile delle risorse umane (Ferri N.) ha avviato un progetto di recupero e
salvaguardia della cultura artigiana fiorentina nella pelletteria. Attraverso
le interviste ai tecnici impiegati presso l’azienda, Ferri sta recuperando le
procedure e le tecniche di produzione dei prodotti in pelle per far sopravvivere e dare valore alle abilità artigiane che purtroppo si stanno perdendo.
La cultura artigiana fiorentina dovrà essere comunicata alla clientela, per
il tramite dei manager dei punti vendita, i quali dovranno essere adeguatamente formati. L’obiettivo prioritario è diffondere la cultura artigiana di
cui l’azienda è custode, incorporata nei suoi prodotti, e trasformarla in un
vantaggio competitivo duraturo.
4.2.3. La struttura finanziaria e le fonti di finanziamento
Il capitale è prevalentemente investito nell’attivo circolante (nel 2008
esso rappresenta l’84% del totale attivo); la quota residua, pari al 16%, è
investita nell’attivo immobilizzato. Il ridotto investimento in attivo fisso è
spiegato principalmente dalla delocalizzazione produttiva e dall’esternalizzazione in Cina, praticata ormai da quasi due decenni. Le voci che assorbono maggiori risorse finanziarie sono le rimanenze di magazzino (25%) e
i crediti verso la clientela (43%).
Il capitale investito risulta essere finanziato, in egual misura, dal patrimonio netto (46%) e dal passivo corrente (45%). Tra le passività correnti,
la voce dominante è rappresentata dai debiti commerciali che ammontano al 30%. Solo per il 13%, il gruppo ricorre all’indebitamento bancario. Il
passivo consolidato è una voce residua, ed accoglie le passività per spese
future (fondi rischi e oneri). Non sono evidenziati debiti finanziari a lungo
termine. In realtà, l’azienda fa ricorso a finanziamenti a lungo termine nella
forma di debiti per contratti di leasing, che non sono però evidenziati in
stato patrimoniale, essendo il bilancio redatto secondo i principi contabili
nazionali. I debiti residui per leasing sono iscritti tra i conti d’ordine, ma se
80
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
fossero inseriti nello stato patrimoniale, secondo il metodo finanziario di
contabilizzazione, il passivo consolidato raggiungerebbe la percentuale del
15% (mentre l’attivo fisso sarebbe pari circa al 25%, se il valore dei beni in
leasing fosse iscritto tra le immobilizzazioni materiali). La struttura finanziaria è sostanzialmente equilibrata: il patrimonio netto finanzia totalmente l’attivo immobilizzato e una parte dell’attivo circolante; la quota residua
dell’attivo circolante è coperta dal passivo corrente e consolidato.
Nei quarant’anni di storia del gruppo “The Bridge”, la principale
fonte di finanziamento è stata l’autofinanziamento. Il cash flow generato
dalla gestione corrente ha finanziato adeguatamente i processi di crescita
e di sviluppo dell’impresa. L’azienda ha scarsamente fatto ricorso alle risorse finanziarie esterne, sia nella forma di debito sia nella forma di equity,
perché, da un lato, non ne ha avuto bisogno grazie all’abbondante flusso di
autofinanziamento, e dall’altro per timore del gruppo imprenditoriale che
i costi e i rischi connessi al reperimento esterno delle risorse fossero maggiori dei benefici derivanti. Gli imprenditori di prima generazione sono
a tutt’oggi restii a dover rendere conto del proprio operato ad eventuali
finanziatori esterni o ad altri soci esterni (operatori di private equity o mercato dei capitali), e restii a dover soddisfare gli obiettivi a breve termine di
soggetti terzi, a discapito degli obiettivi aziendali a lungo termine.
4.2.4. Prime considerazioni di razionalità limitata sul caso “The Bridge”
“The Bridge” è un gruppo di media dimensione, a proprietà familiare,
che opera con successo da quarant’anni nel made in Italy (comparto cuoiopelletteria). Da laboratorio artigiano fondato da cinque giovani fiorentini
nel 1969, si è trasformato in una importante realtà industriale del distretto
produttivo di Scandicci che opera nel contesto nazionale e internazionale,
servendo con prodotti di alta qualità il segmento del lusso accessibile.
Il percorso di sviluppo è stato sostenuto efficacemente dagli strumenti
finanziari “tradizionali” (autofinanziamento e debiti di funzionamento)
senza necessità di ricorrere a fonti di finanziamento esterne (debiti finanziari, private equity, quotazione sul mercato dei capitali). In particolare,
le strategie di crescita sono state sviluppate nel rispetto degli obiettivi
del gruppo imprenditoriale, ossia mantenere la proprietà e il controllo
dell’azienda ed evitare il controllo esercitato da eventuali finanziatori a
titolo di capitale di rischio e/o capitale di credito, e coerentemente alla
disponibilità di risorse finanziarie.
Per il futuro, gli imprenditori di seconda generazione non escludono
la possibilità di ricorrere a risorse finanziarie esterne per sostenere gli ingenti investimenti che le future strategie di valorizzazione del marchio, di
espansione capillare sul mercato nazionale e sui mercati internazionali e di
estensione della gamma produttiva richiedono.
81
Federica Palazzi
4.3. Il caso aziendale “Piquadro”26
4.3.1. Il profilo aziendale27
L’azienda “Piquadro” è fondata da Marco Palmieri con alcuni soci a Riola di Vergato (Bo) nel 1987. Nei primi dieci anni di vita, l’impresa si occupa
della produzione in conto terzi di articoli di pelletteria servendo i principali brand di lusso italiani. Solo successivamente, grazie all’esperienza acquisita, alla conoscenza del mercato e alla capacità di individuare una nicchia
di mercato nella quale inserirsi, l’azienda fa il salto di qualità iniziando a
produrre borse professionali, valigeria e articoli di piccola pelletteria con
marchio proprio. Il marchio Piquadro nasce dunque nel 1998 per volontà
dei due fratelli Marco e Pierpaolo Palmieri, attualmente soci della Piquadro s.p.a., di cui il primo è Presidente e Amministratore delegato, mentre
il secondo è Direttore commerciale nonché Amministratore di Piquadro
Holding.
I due fratelli imprenditori detengono la maggioranza del capitale sociale delle imprese del gruppo, spesso per il tramite di altre società, ed esercitano il potere di controllo sull’intero gruppo aziendale. A tutti gli effetti si
può parlare di family business.
Il processo di delocalizzazione produttiva ha avuto inizio negli anni ’90,
e oggi l’attività produttiva è totalmente delocalizzata in Cina, dove i partner, rigorosamente selezionati, garantiscono il rispetto di elevati standard
qualitativi ed etici. Le materie prime impiegate nei processi produttivi
sono acquistate prevalentemente sul mercato italiano.
In Italia, presso il nuovo stabilimento di Gaggio Montano (Bo) inaugurato nel 2006, si svolgono l’attività logistica e di riassortimento, l’attività
di ricerca e sviluppo, design, ingegnerizzazione, pianificazione degli acquisti, controllo qualità, marketing e comunicazione, e infine l’attività di
distribuzione.
4.3.2. Il processo di crescita
Il gruppo “Piquadro” ha raggiunto, in ventidue anni, la media dimensione con un fatturato di 50 milioni di euro, un capitale investito pari a 49
milioni di euro, impiegando complessivamente 570 dipendenti28.
Per la disamina approfondita del caso studio si veda Palazzi F., “Case Study – La finanza come
volano per la crescita aziendale. Il caso Piquadro”, Rivista Piccola Impresa/Small Business, n. 2,
anno 2010, pagg. 129-136.
27
I dati e le informazioni raccolte provengono dall’analisi dei documenti aziendali (bilanci consolidati al 31/3/2009-31/3/2008 e relazioni allegate, sito web, giornali, materiale pubblicitario)
nonché delle pagine dedicate a Piquadro s.p.a. in Peveraro, 2007.
28
Dati aggiornati al 31 marzo 2009.
26
82
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
Il processo di crescita è stato repentino, ma l’accelerazione si è verificata
a partire dal 1998, anno in cui è cambiata radicalmente la strategia aziendale: inizia la produzione con marchio proprio, si procede con l’apertura dei
primi negozi, e i fratelli Palmieri sbarcano in Cina per delocalizzare l’attività produttiva. La crescita ha assunto la forma sia di sviluppo quantitativo
sia di sviluppo qualitativo, mediante relazioni cooperative con selezionati
partner della filiera produttiva internazionale e attraverso la costituzione
di un gruppo aziendale.
La crescita è un obiettivo consapevolmente perseguito dal gruppo imprenditoriale, affiancato a tal fine da partner finanziari specializzati, le cui
competenze specifiche, la cui professionalità nonché la disponibilità di ingenti risorse finanziarie sostengono efficacemente il percorso di sviluppo
aziendale.
4.3.3. La struttura finanziaria e le fonti di finanziamento
Il capitale aziendale è prevalentemente investito nell’attivo circolante
(che in media ammonta al 70%) e solo un terzo nell’attivo fisso. I crediti
commerciali rappresentano ben il 40% del capitale investito. Le rimanenze
di magazzino ammontano in media al 18% e soddisfano le esigenze di flessibilità e tempestività di risposta al mercato.
Il capitale investito è finanziato in egual misura dal patrimonio netto
(34%), dal passivo consolidato (32%) e dal passivo corrente (34%). Il patrimonio netto finanzia totalmente l’attivo immobilizzato; le passività consolidate e correnti finanziano l’attivo circolante. Tra le passività consolidate,
le due voci rilevanti sono i debiti verso istituti bancari (17%) e i debiti per
leasing29 (13%). L’azienda fa ricorso all’indebitamento bancario esclusivamente nella forma di debiti a lungo termine. La voce rilevante delle passività correnti è costituita dai debiti di funzionamento.
Complessivamente l’azienda presenta una struttura patrimoniale equilibrata, con un indice di indebitamento che è progressivamente migliorato
negli ultimi tre esercizi passando da un 3,52 a 1,92.
L’attuale struttura del capitale è il risultato di un percorso finanziario
evoluto, contraddistinto dalla significativa presenza di partner finanziari
specializzati, entrati in azienda per volontà dell’imprenditore Marco Palmieri, il quale desiderava confrontarsi con professionisti che avessero un
approccio finanziario al business e le competenze finanziarie a lui mancanti. E così nel 2002 il fondo di Fineco Capital sottoscrive interamente
l’aumento di capitale pari a 2,5 milioni di euro, arrivando a possedere il
25% della società. Nel luglio del 2005, il fondo BNL acquisisce il 35% del
29
Risultano iscritti in stato patrimoniale in quanto previsto dai Principi Contabili Internazionali
(IAS/IFRS).
83
Federica Palazzi
capitale sociale della Piquadro Holding, sostituendo il precedente socio finanziario. La stessa BNL eroga un debito di 10 milioni di euro. Nel 2007 si
arriva alla quotazione in Borsa, segmento Expandi; l’azienda è stata collocata sul mercato a 110 milioni di euro. Oggi il mercato detiene una quota
di minoranza del capitale sociale di Piquadro s.p.a. che ammonta al 13%.
L’apertura del capitale a terzi è vissuta dagli imprenditori come strumento indispensabile per lo sviluppo aziendale, in quanto garantisce risorse finanziarie ingenti, che il flusso di autofinanziamento non sarebbe stato
comunque in grado di generare, e soprattutto, competenze e professionalità specialistiche. I partner finanziari sono stati attratti da un modello di
business lungimirante e da figure imprenditoriali determinate a lasciare un
segno nella storia della propria azienda.
4.3.4. Prime considerazioni di razionalità limitata
Il gruppo “Piquadro” è l’esempio di azienda familiare che ha percorso la
via del rapido sviluppo, collocando con successo il made in Italy nel mondo.
In essa si coniugano perfettamente l’imprenditorialità dei fratelli Palmieri
alla managerialità e alle competenze specifiche dei professionisti che prestano la loro attività in azienda, realizzando quel modello di imprenditorialità manageriale30 fatto di comportamenti, a volte, più imprenditivi e, a
volte, più amministrativi a seconda delle spinte provenienti dall’ambiente
esterno o dai fattori interni all’organizzazione.
La finanza aziendale è considerata uno strumento indispensabile per lo
sviluppo dell’impresa. L’intervento degli operatori di private equity, attratti
da progetti di sviluppo interessanti, ha dato forte impulso al processo di
crescita, attraverso le cospicue risorse finanziarie e le elevate competenze
apportate in azienda. Gli strumenti finanziari “tradizionali” (autofinanziamento e debiti commerciali) si sono combinati efficacemente agli strumenti, per così dire, più “evoluti” (intervento del private equity, quotazione
in Borsa) creando una struttura finanziaria equilibrata, capace di sostenere l’importante percorso di sviluppo, senza tuttavia modificare la natura
dell’azienda che resta familiare.
5. Riflessioni conclusive
Nell’ultimo decennio, le Medie Imprese Italiane sono state le promotrici
di un’interessante evoluzione che ha riguardato il sistema produttivo nazionale. Sono rimaste nell’ombra fino ad oggi, accomunate da sempre alle
piccole imprese e differenti da queste ultime, secondo l’opinione prevalente, esclusivamente per il valore dei parametri quantitativi (numero addetti,
30
In Marchini, 2000, vol. I, pag. 87.
84
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
fatturato, totale attivo) comunemente impiegati per classificare le imprese.
Tuttavia l’essenza della media impresa va oltre il valore di eventuali
standard quantitativi, e si ritrova nelle caratteristiche qualitative che la
contraddistinguono dalle altre categorie di imprese. E la sfida, per gli studiosi, consiste proprio nel identificare le peculiarità di queste imprese.
Da più parti si auspica che il numero delle medie imprese aumenti progressivamente, poiché il loro impatto sul sistema economico è significativo
in termini di occupazione, valore aggiunto, esportazioni. Per questo motivo è interessante analizzare le dinamiche di sviluppo poste in essere dalle
attuali medie imprese di successo, per conoscerne i percorsi evolutivi che
hanno consentito la transizione dalla piccola alla media dimensione e il
consolidamento della posizione raggiunta.
Il progetto di ricerca indaga il rapporto esistente tra i processi di crescita
e sviluppo delle medie imprese familiari italiane e le relative modalità di
finanziamento.
Il processo di crescita che ha condotto alla media dimensione, per le due
aziende familiari oggetto di studio, è il risultato sia di uno sviluppo quantitativo sia di uno sviluppo qualitativo. La crescita dimensionale, nella forma di crescita operativa e crescita strutturale, è stata conseguita attraverso
adeguate strategie di penetrazione del mercato, strategie di sviluppo del
prodotto, nonché di espansione sui mercati internazionali. Il contemporaneo sviluppo qualitativo, fatto di relazioni interpersonali e relazioni intessute con altre aziende, anche in ambito internazionale, non ha fatto altro
che consolidare il percorso di sviluppo intrapreso.
Entrambe le aziende presentano strutture finanziarie equilibrate con un
basso livello di indebitamento, ma sono il risultato di politiche finanziarie
profondamente differenti tra loro. Infatti il gruppo “The Bridge”, nella sua
storia quarantennale, ha impiegato, come principali strumenti di finanziamento, il flusso di autofinanziamento e i debiti di funzionamento, e, solo
in via residuale, l’indebitamento bancario a breve termine, in accordo alla
Pecking Order Theory (Myers, 1984; Myers and Majluf, 1984). Tali strumenti finanziari “tradizionali” hanno adeguatamente sostenuto il processo di
crescita aziendale, che è stato promosso e realizzato step by step coerentemente alla disponibilità di risorse finanziarie, e, secondariamente, tali strumenti hanno assecondato la volontà del gruppo imprenditoriale, restio a
fare ricorso alle risorse finanziarie esterne per timore di dover sottomettere
gli obiettivi aziendali agli obiettivi di finanziatori o investitori esterni e per
paura di perdere il controllo dell’impresa familiare.
Per il gruppo “Piquadro”, il flusso di autofinanziamento ha contribuito
a coprire le esigenze finanziarie contemporaneamente alle risorse messe a
disposizione dagli investitori istituzionali (operatori di private equity) nella
forma di capitale di rischio e di capitale di debito a lunga scadenza e alle risorse erogate dal mercato azionario. Il flusso di risorse finanziarie, nonché
85
Federica Palazzi
le competenze finanziarie fornite dagli investitori istituzionali, attratti da
progetti di sviluppo lungimiranti, hanno sostenuto efficacemente il rapido
percorso di crescita avviato alla fine degli anni ’90 e ancora in corso. L’apertura verso l’esterno, in particolare nei confronti degli investitori istituzionali, è stata la risposta all’esigenza e al desiderio dell’imprenditore di farsi
affiancare, nel percorso di sviluppo, da persone con elevate competenze finanziarie specifiche e molta esperienza. Il forte ricorso al capitale di rischio
esterno trova giustificazione nella disponibilità di un flusso di autofinanziamento e di insider equity non sufficiente a coprire le importanti esigenze finanziarie derivanti dagli ambiziosi progetti di sviluppo, nonché nella
volontà di inviare segnali positivi al mercato attraverso la patrimonializzazione aziendale, in linea con la teoria dei segnali (Leland, Pyle, 1977).
Ma per poter comprendere pienamente la logica finanziaria di queste
due medie imprese, non si può prescindere dagli obiettivi, dalle competenze, dalle esperienze precedenti, dalle motivazioni e dalle preferenze individuali degli imprenditori (o dei componenti della famiglia imprenditoriale),
in quanto questi sono i fattori che hanno influenzato le decisioni finanziarie, dando vita ad un percorso finanziario che ha i connotati di unicità e
che non può essere standardizzato, coerentemente a quanto evidenziato
nei numerosi contributi teorici appartenenti al filone della finanza imprenditoriale (Colot, Michel, 1996; Gibson, 1992-1993; Barton, Matthews, 1989;
Hutchinson, 1995; Cressy, 1995; McMahon, Stanger, 1995; Cressy, Olofsson,
1997; Gregory, Rutherford, Oswald, Gardiner, 2005; Gallo, Tàpies, Cappuyns, 2004).
Nei due casi specifici, le imprese hanno realizzato percorsi finanziari alternativi (come ipotizzato e verificato empiricamente già da Caselli, 2005):
“The Bridge” ha intrapreso un percorso «firm based», contraddistinto dal
prevalente uso delle fonti interne di finanziamento, con scarso ricorso a
prestiti bancari, e relazioni occasionali con gli intermediari finanziari; “Piquadro” ha intrapreso un percorso «finance based», caratterizzato dall’ampio
ricorso a risorse finanziarie esterne nella forma di capitale di debito e capitale di rischio e dalla collaborazione intensa con gli intermediati finanziari
i quali apportano significative competenze.
Il principale limite del presente lavoro, insito nell’approccio teoricofilosofico interpretativista, emerge dalla metodologia di ricerca adottata,
basata sul multiple field case study, la quale non consente la generalizzazione
dei risultati raggiunti.
Però l’indagine condotta consente alcune importanti considerazioni:
- contrariamente a quanto sostenuto dai numerosi fautori dello squilibrio
finanziario delle piccole e medie imprese, i dati statistici evidenziano
chiaramente che le medie imprese manifatturiere italiane hanno una
struttura del capitale equilibrata, nonostante un grado di patrimonializzazione contenuto rispetto alle medie imprese europee ma comunque
86
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
sufficiente a finanziare totalmente l’attivo immobilizzato; il capitale risulta essere investito prevalentemente in attivo circolante, coerentemente ai settori produttivi in cui operano le medie imprese italiane (i settori
del made in Italy) e alle strategie di esternalizzazione a monte e a valle;
- i casi aziendali mostrano due approcci finanziari alternativi, intrapresi
con successo da parte di due medie imprese familiari italiane.
Scaturiscono interessanti interrogativi ai quali si cercherà di dare una
risposta nel prosieguo del progetto di ricerca:
- quanto incidono gli obiettivi, le preferenze personali, le esperienze precedenti, la cultura finanziaria dell’imprenditore o del gruppo imprenditoriale sulla scelta delle modalità di finanziamento più opportune a
sostegno dei processi di crescita delle MI?
- quanto incide la variabile tempo necessario a realizzare il processo di
crescita nella scelta degli strumenti finanziari più idonei?
- sono le caratteristiche del progetto di sviluppo a richiedere l’impiego di
taluni strumenti finanziari piuttosto che altri?
Federica Palazzi
Assegnista Fondazione Isa Marchini
Facoltà di Economia
Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
[email protected]
87
Federica Palazzi
Sviluppo e capitali delle medie imprese familiari italiane. I casi paradigmatici di The Bridge e Piquadro
Riassunto
Bibliografia
Il presente lavoro di ricerca si propone di indagare la relazione esistente tra i processi
di crescita e di consolidamento delle medie imprese familiari italiane e le corrispondenti
politiche di finanziamento adottate. Lo studio di due casi di medie imprese le quali operano nel
settore del made in Italy ed hanno intrapreso percorsi finanziari alternativi, l’una impiegando
strumenti finanziari “tradizionali” (autofinanziamento, debiti di funzionamento, debiti
bancari a breve termine) l’altra ricorrendo anche a strumenti finanziari “evoluti” (private
equity e quotazione sul mercato azionario), consente di evidenziare alcune variabili che
potrebbero spiegare il comportamento finanziario delle MI: obiettivi, preferenze, precedenti
esperienze, cultura finanziaria dell’imprenditore o del gruppo imprenditoriale, tempo di
realizzazione e caratteristiche del progetto di sviluppo. Il peso di ciascuna variabile sarà
valutato nel prosieguo del progetto di ricerca.
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Abstract
This research project does investigate the existing relation between the growth processes
of Italian family medium-sized firms and the corresponding financing policies adopted.
Two medium-sized firms, operating in the “made in Italy” sector, have been analysed,
showing different financial approaches to promote the development process: one firm does
use traditional financing tools (self-financing, commercial debts, short-term bank debts)
and the other one does employ more developed financing tools (like private equity operator
support or stock exchange quotation). The survey does allow to show some interesting
variables that could explain the financial behaviour of medium-sized enterprises: objectives,
preferences, past experiences, financial culture of the entrepreneur or entrepreneurial group,
time and characteristics of the development project. The importance of each variables will
be estimate in the future research project.
Classificazione JEL: G 3 – Corporate Finance and Governance
Parole chiave (Key words): medie imprese familiari, politiche di finanziamento,
strategie di crescita (family medium-sized enterprises, financing policies, growth strategies).
88
89
Federica Palazzi
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91
92
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LIBRI DELLA COLLANA PICCOLA IMPRESA/SMALL BUSINESS
LLIIBBRRII D
L
DEELLLLA
A C
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A PPIIC
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12,91 M. PAOLONI ‐ P. DEMARTINI PICCOLA IMPRESA 228 pagine; €uro 12,91 IL BILANCIO DELLA PICCOLA IMPRESA M. CIOPPI ‐ E. SAVELLI M. PAOLONI ‐ P. DEMARTINI IN EUROPA ICT e PMI M. CIOPPI ‐ E. SAVELLI IL BILANCIO DELLA PICCOLA IMPRESA 436 pagine; €uro 23,24 L’impatto delle nuove tecnologie sulla IN EUROPA ICT e PMI gestione aziendale delle Piccole Imprese 436 pagine; €uro 23,24 L’impatto delle nuove tecnologie sulla G. FERRERO (a cura di) 200 pagine; €uro
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IL PROCESSO DI FORMAZIONE DELLE STRATEGIE AZIENDALI
RIIC
TTA
CH
HIIEESSIMPRESE:
A NELLE R
MEDIE
UN’ANALISI PER CASI1
RRIIC
CH
HIIEESSTTA
A di Lara Penco
Da: nome e cognome________________________________________________________________________ _____________________________________________________________________________________ Da: nome e cognome________________________________________________________________________ qualifica ______________________________________________________________________________ _____________________________________________________________________________________ tel. ________________________ e‐mail ____________________________________________________ qualifica ______________________________________________________________________________ via e numero __________________________________________________________________________ tel. ________________________ e‐mail ____________________________________________________ cap ____________________ città _________________________________________________________ via e numero __________________________________________________________________________ cap ____________________ città _________________________________________________________ A: Editrice Montefeltro srl ‐ Rivista Piccola Impresa/Small
Business 1.
Introduzione
CP 122 ‐ 61029 Urbino A: Editrice Montefeltro srl ‐ Rivista Piccola Impresa/Small Business tel. 335 231378 fax 0722 2800 e‐mail [email protected] CP 122 ‐ 61029 Urbino Il tema delle medie imprese è diventato assai attuale nel dibattito relaSono interessato a: tel. 335 231378 fax 0722 2800 [email protected] tivo all’evoluzione
dellae‐mail
struttura
socio-economica del nostro Paese giac ricevere le seguenti informazioni: chè indagini condotte sistematicamente hanno evidenziato il contributo
Sono interessato a: _________________________________________________________________________ che esse forniscono nel processo di creazione di ricchezza e di sviluppo
ricevere le seguenti informazioni: _________________________________________________________________________ dell’occupazione (Mediobanca-Unioncamere, 2010; Unioncamere-Taglia _________________________________________________________________________ carne, 2005). La rilevanza delle imprese di media dimensione ha pertanto
_________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ sollecitato il crescente interesse degli studiosi aziendalisti, i quali hanno
_________________________________________________________________________ provveduto ad analizzare
le specificità di natura strategica, l’originalità
pubblicare sulla Rivista PI/SB
un articolo dal titolo del business model adottato e del posizionamento competitivo di questa
_________________________________________________________________
pubblicare sulla Rivista PI/SB
un articolo dal titolo tipologia aziendale
(cfr. Butera, 2008; Dalli e Tunisini, 2007; Varaldo, 2009).
_________________________________________________________________
_________________________________________________________________
Il presente contributo intende rispondere ad una specifica domanda
_________________________________________________________________ _________________________________________________________________
di ricerca, ovvero come si formano le strategie nella media impresa. Per
pregandovi di inoltrare questa mia proposta al Comitato di Redazione; _________________________________________________________________ rispondere alla research question, il paper utilizza la metodologia dei casi
pregandovi di inoltrare questa mia proposta al Comitato di Redazione; multipli, analizzando congiuntamente la struttura
e
sottoscrivere l’abbonamento per il 2008 (tre numeri) al prezzo di €
40,00; l’organizzazione del
processo di formazione della strategia di quattro imprese liguri di media
ricevere i seguenti numeri arretrati
(indicare anno/numero) sottoscrivere l’abbonamento per il 2008 (tre numeri) al prezzo di €
40,00; dimensione.
_______/____; _______/____; _______/____; _______/____; _______/____; Il paper è articolato (indicare anno/numero)
in tre parti.
ricevere i seguenti numeri arretrati
al prezzo di €
15,00 per numero; Nella prima, si definiscono alcune delle caratteristiche principali delle
_______/____; _______/____; _______/____; _______/____; _______/____; medie
imprese. Successivamente, è tratteggiato il contesto teorico di rifeal prezzo di €
15,00 per numero; acquistare i seguenti volumi della Collana di Piccola Impresa/Small
Business, al rimento.
Occorre precisare che lo studio dei possibili approcci al processo
prezzo di copertina (indicato a pagina 2 di questa brochure): di formazione della strategia nelle imprese di media
dimensione è stato
acquistare i seguenti volumi della Collana di Piccola Impresa/Small
Business, al n.____ titolo ________________________________________________ € _____/ ____ ricostruito (indicato a pagina 2 di questa brochure)
ricorrendo all’ampia produzione
scientifica che ha affrontato il
: prezzo di copertina n.____ titolo ________________________________________________ € _____/ ____ tema
della
strategia
con
riferimento
all’ampio
aggregato
PMI; dall’analisi
n.____ titolo ________________________________________________ €
_____/ ____ n. ____ titolo ________________________________________________ € _____/ ____ della
letteratura
si
individuano
i
presupposti
e
gli
strumenti
n.____ titolo ________________________________________________ € _____/ ____ concettuali sui
cui è stato impostato lo studio specifico.
n. ____ titolo ________________________________________________ € _____/ ____ Allegando alla presente richiesta la copia del tagliando del versamento effettuato sul C/C
postale n. 68606425, intestato a Editrice Montefeltro srl ‐ Rivista Piccola Impresa, 1
Il lavoro rientra nel Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale (Bando 2007) “La valutazio Allegando alla presente richiesta la copia del tagliando del versamento effettuato sul le spese di spedizione dei fascicoli ordinati saranno a carico dell’Editore. ne della consonanza/dissonanza intersistemica nella media impresa”, UO di Genova, R.S. Prof.
C/C postale n. 68606425, intestato a Editrice Montefeltro srl ‐ Rivista Piccola Impresa, Genco, nell’ambito del Progetto coordinato dal Prof. Corrado Gatti “Metodologie e strumenti per
le spese di spedizione dei fascicoli ordinati saranno a carico dell’Editore. la valutazione della consonanza nell’ambito delle decisioni strategiche d’impresa”e nella ricerca
Data ____________________ Firma ___________________________________________ “La Media Impresa”, finanziata dalla fondazione Carige.
Data ____________________ Firma ___________________________________________ Rivista Piccola Impresa/Small Business - n. 2, anno 2011
95
Lara Penco
Nella terza parte, si è proceduto ad evidenziare alcune caratteristiche
del processo strategico nelle imprese di medie dimensioni, mediante l’analisi di alcuni casi aziendali. L’analisi dei casi aziendali contribuisce a validare le ipotesi sottostanti al presente studio e consente di realizzare alcune
riflessioni di carattere generale sull’applicazione di strumenti di formalizzazione della strategia. Infine, si evidenziano le considerazioni conclusive.
2. Il problema della definizione delle medie imprese
Un primo problema consiste nel chiarire quali siano le caratteristiche
che sotto il profilo dimensionale consentono di enucleare le peculiarità delle medie imprese nell’ambito del macroaggregato delle “Piccole e medie
imprese” (PMI) e di quello delle “Grandi imprese” (GI). Lo studio del fenomeno “media impresa” impone, pertanto, la scelta di adottare opportuni
parametri, di natura quantitativa, qualitativa o ibrida, che consentano di
circoscrivere il campo di analisi, al fine di impostare analisi conoscitive
sulle caratteristiche di questa tipologia aziendale. Le fonti economiche-statistiche e la letteratura fanno ricorso a due classi di parametri definitori, gli
uni di carattere prettamente quantitativo, gli altri di carattere qualitativo,
che verranno esplicati di seguito. Sotto un profilo quantitativo, i parametri
a cui ricorrono gli studi incentrati sulle analisi delle diverse classi dimensionali sono costituiti dall’ammontare dei ricavi e dal numero di dipendenti; talvolta vengono utilizzati anche altri criteri quali l’attivo di bilancio, il
valore aggiunto e l’ammontare dei mezzi propri, nonostante la loro adozione sia rara e di difficile applicazione giacché non si sono individuate,
universalmente e inequivocabilmente, soglie minime e massime per la definizione delle diverse classi dimensionali. Lo studio relativo alle medie
imprese industriali italiane, realizzato congiuntamente da Mediobanca e
Unioncamere, considera come medie imprese industriali “le società di capitale aventi forza lavoro compresa nella classe 50-499 dipendenti che nel
contempo hanno realizzato un fatturato tra 13 e 290 milioni di euro” e che
siano indipendenti, ovvero non controllate da grandi gruppi o da società
estere. Le soglie di fatturato sono state poi successivamente innalzate a 15
milioni di euro e a 330.
Nella produzione scientifica, alcuni autori che hanno studiato le specificità delle diverse classi dimensionali, si sono posti il problema della definizione del proprio campo di indagine, proponendo pertanto parametri e
soglie discriminanti alquanto differenziati. La Tab. 1 illustra in un quadro
sinottico i diversi parametri quantitativi adottati dagli autori prevalenti
che hanno studiato il fenomeno delle medie imprese.
Tra di essi, Simon e Zatta non utilizzano limiti quantitativi univoci, ma
dipendenti dalla struttura di ciascun business, ovvero la dimensione della
96
Il processo di formazione delle strategie aziendali nelle medie imprese: un’analisi per casi
“media” impresa viene relativizzata. L’orientamento verso una “relativizzazione” dei parametri quantitativi permane negli studi recentemente coordinati da Varaldo, Dalli, Tunisini e Resciniti (2009), i quali – presentando
molteplici casi di medie imprese – spesso prescindono dai limiti proposti
da Mediobanca (che viene tuttavia considerato un riferimento essenziale
per definire il campo di indagine), andando a considerare come middle class
realtà aziendali molto più grandi o che non rispondono talvolta al requisito dell’indipendenza, essendo società inserite in grandi gruppi aziendali,
spesso internazionali.
Tab.1 - Classificazione delle classi dimensionali delle imprese proposte dalla letteratura in tema di “medie imprese”
fonte
anno
Mediobanca Unioncamere
Corbetta
1999
Numero addetti
da
a
2010
50
499
Butera
1998
100
Bruni
1987
200
Guerci
1998
Iacobucci
2007
Coltorti
2004
Colacurcio e Stanca
2007
Simon e Zatta
2007
Dalli e Tunisini
2009
500
251
1000
50
499
499
Fatturato (mil. di €)
da
a
13
(15)
290
(330)
25,8
516
25,8
206
50 mld £
1000 mld £
6-7 mld €
100 mln €;
300
500
13
260
Dimensione relativa al settore o alla porzione di settore
Mediobanca + Dimensione relativa al settore o alla porzione di
settore
Le definizioni di ordine quantitativo, come è noto, possiedono il pregio
di essere facilmente applicabili, e permettono una distinzione immediata
fra imprese, senza richiedere un elevato livello di conoscenza delle attività
e delle caratteristiche delle singole aziende (Dubini, 1995). Pur tuttavia, discriminare fra tipologie di imprese utilizzando solo parametri quantitativi
di prima approssimazione e molto sintetici costituisce un limite giacchè
non consente di evidenziare alcuni connotati distintivi della middle class,
sia in rapporto alla grande impresa, sia all’interno dell’universo delle Pmi
fra diverse tipologie di imprese minori.
La letteratura - prevalentemente di matrice economico-aziendale – si è
pertanto posta il problema dell’individuazione dei caratteri qualitativi prevalenti di questa tipologia di impresa (Lago e Minoja, 1998). Sebbene larga
parte della dottrina si riferisca spesso genericamente alle PMI, alcuni contributi consentono di delineare alcuni aspetti distintivi della media impresa rispetto alla piccola. Le caratteristiche prevalenti della tipologia media
impresa (Corbetta, 1999; Marini, 2008; Butera, 1998; Tunisini, 2006; Simon
e Zatta, 2007; Dalli e Tunisini, 2007; Tunisini, 2009) riguardano, tra le altre:
97
Lara Penco
a) l’orientamento strategico alla focalizzazione su segmenti di mercato,
spesso internazionali, in cui l’impresa ricerca un posizionamento di
leadership e alla crescita;
b) l’importanza dell’imprenditore e il ruolo delle famiglia proprietaria
nella gestione dell’impresa che convive con l’allargamento del team
di vertice verso una crescente managerializzazione;
c) la “doppia posizione” di impresa leader rispetto al comparto industriale di riferimento e di impresa piccola rispetto al più generale settore di appartenenza.
d) la flessibilità organizzativa e l’importanza del fattore umano;
e) l’adozione di un modello organizzativo a rete e l’appartenenza a network di imprese;
f) il radicamento territoriale, spesso in sistemi locali;
Ai fini del presente lavoro, particolarmente interessanti sono le peculiarità relative ai contenuti strategici (a) e alla struttura di governo (b) giacché
tali fattori incidono direttamente sul processo di formazione delle strategie
aziendali.
2. La formazione delle strategie nelle imprese minori:
approcci teorici a confronto
In termini generali, il momento della formazione della strategia è considerato un momento cruciale per le imprese giacché coincidente con il
momento in cui l’impresa elabora il proprio Strategic Thinking (Heracleus,
1998) da cui scaturiscono le fonti del vantaggio competitivo e i comportamenti strategici. A motivo della sua rilevanza, la problematica inerente al
come si forma la strategia aziendale è stato oggetto di una copiosa produzione
scientifica di matrice manageriale; produzione che, come è noto, assume
come punto di riferimento la realtà delle grandi imprese e in particolare di
quelle statunitensi.
Ripercorrendo sinteticamente i passi essenziali della teoria, rispetto
alle modalità con cui viene formata la strategie nelle imprese, sono generalmente individuati due approcci prevalenti; l’uno di tipo razionalistico,
l’altro di tipo comportamentale, basato sull’apprendimento e sulla valorizzazione della conoscenza. All’approccio razionalistico, può ricondursi
la vasta letteratura che ha teorizzato e analizzato il processo di pianificazione strategica, ovvero il processo strutturato e formalizzato di elaborazione dei piani aziendali (Mazzola, 2003) che diventano uno strumento di
governo essenziale, soprattutto, per le esigenze proprie delle grandi imprese (Ansoff, 1965; Chandler, 1962; Lorange, 1980). Secondo l’approccio
comportamentale, la strategia è emergente, ovvero è frutto dell’apprendimento maturato, a livello individuale e collettivo, dalle persone impegnate
a vario titolo nella gestione operativa aziendale; è l’intuito e la creatività
98
Il processo di formazione delle strategie aziendali nelle medie imprese: un’analisi per casi
del decisore che contribuisce effettivamente alla definizione dei percorsi
strategici (Mintzberg, 1985) e non quindi le procedure e i piani formalizzati. La recente letteratura ha cercato di “mediare” tra queste posizioni contrapposte, proponendo l’utilità di adozione di procedure formalizzate ma
rese maggiormente flessibili e reattive rispetto alla turbolenza ambientale.
Per rispondere alle domande di ricerca (come si formano le strategie le
medie imprese? esistono eventuali specificità delle stesse rispetto alle imprese di grandi dimensioni e piccole?) occorre precisare che non esiste una
letteratura specifica sul tema per le imprese di media dimensione.
Alcuni presupposti teorici relativi al processo di formazione delle strategie nella media impresa possono essere pertanto rinvenuti nella letteratura elaborata per la genericità dell’aggregato PMI. Peraltro, gli studi
relativi alla generalità delle PMI pervengono a conclusioni che possono
essere adattate per il segmento “medie imprese”, giacché essi assumono
come riferimento realtà aziendali più grandi e strutturate sotto il profilo
organizzativo in cui il problema delle modalità attraverso cui si formano
le strategie aziendali (per es. adozione di strumenti formalizzati; ruolo dei
diversi soggetti decisori, ecc.) assume una certa rilevanza.
Il tema della formazione della strategia nelle imprese minori può essere
ricondotto ad alcuni filoni interpretativi, quali: l’approccio dell’imprenditorialità; l’approccio family business; l’approccio strategico alle small business. Il primo filone si sviluppa nel corpus di studi legati all’imprenditorialità, riferita alle imprese minori (Casson, 1990; Zanni, 1995; Zampi e Zanni,
1994)2. Nelle imprese “imprenditoriali”, si riscontrano alcune peculiarità
circa il contenuto delle strategie e circa il processo di formazione delle
strategie. Con riferimento al contenuto, nelle imprese “imprenditoriali” le
scelte strategiche a livello business e corporate coincidono, realizzandosi
di fatto una sovrapposizione tra i due livelli decisionali (Kraus, Kauranen,
2009); in altre parole, la presenza di un soggetto che esercita una funzione
“di guida” porta a centralizzare tutte le decisioni di natura strategica e a
considerarle in modo unitario. Con riferimento al processo, nelle imprese
imprenditoriali le decisioni strategiche sono assunte in modo accentrato da
colui che esercita la funzione imprenditoriale; da questo soggetto – e dalla
sua cultura - discendono la visione, la missione e i comportamenti strategici. Per sostenere il processo decisionale, sono talvolta adottati strumenti di
strategic management finalizzati soprattutto a valutare nuove opportunità
di mercato, quali per esempio il business plan, la SWOT analysis, il ciclo di
vita del prodotto/settore, ecc.
2
Il connotato di imprenditorialità non è solo riconducibile alle imprese minori. Infatti, se è riscontrato che la prevalenza delle imprese minori sono governate da un imprenditore-proprietario che
esercita anche una funzione imprenditoriale, spesso l’imprenditorialità si può altresì individuare
in imprese più strutturale e manageriali, in cui un manager (o un gruppo di manager) assume
una funzione di direzione e di spinta verso percorsi di sviluppo e di innovazione (Demattè, 1991).
99
Lara Penco
Un secondo filone si inserisce nell’alveo di studi riconducibili al family
business3. Le imprese familiari non necessariamente si configurano come
imprese di piccola e media dimensione (Gennaro, 1985). Vero è, tuttavia,
che le imprese minori tendono a coincidere con imprese familiari (Cafferata, 1988). Nel dibattito sul Quarto Capitalismo, Colli evidenzia come le
medie imprese siano imprese prettamente a carattere familiare (2003). In
queste imprese, i membri della famiglia assumono o ispirano le decisioni
strategiche (Marchini, 1995). Se orientate alla crescita, trovano applicazione
alcuni strumenti dello strategic management e sono utilizzati “rudimentali” piani strategici. Il piano diventa uno strumento utile per definire in
modo chiaro gli obiettivi e i contenuti della strategia; costituisce un mezzo
di comunicazione e di sollecitazione del commitment a tutti i livelli dell’organigramma aziendale. L’utilità di un piano strategico si avverte, altresì,
nel momento della successione poiché in esso viene definito l’orientamento strategico aziendale che dovrà essere assunto dalle nuove generazioni
(Mazzola, Marchisio, Astrachan, 2008, p. 255). Un terzo approccio alla formazione della strategia nelle imprese minori si inserisce negli studi focalizzati sulle problematiche strategiche delle small business, intendendo con
questo termine ancora un aggregato indistinto in cui confluiscono imprese
piccole e imprese medie, familiari o manageriali (Robinson e Pearce, 1984;
Lyles et al. 1993; Gibson e Cassar, 2002). Nell’ambito di questo approccio, si
possono riscontrare contributi volti a dimostrare (Rangone, 1999):
a) la presenza o l’assenza di strumenti di analisi e di pratiche di pianificazione nelle imprese minori;
b) l’utilità degli strumenti di formalizzazione della strategia e l’efficacia
di tali strumenti sulla performance aziendale.
Pochi studi, invece, si focalizzano – con un approccio normativo - sugli
strumenti più opportuni per sostenere i processi decisionali delle imprese minori. Con riferimento al primo punto (a), le ricerche sul tema hanno
evidenziato come l’adozione di strumenti di pianificazione formale nelle
imprese minori appaia molto scarsa (Sexon, e Van Auken, 1985); ciò sembra essere riconducibile alla coincidenza tra proprietario-manager e alla
gestione accentrata ed imprenditoriale (Gibb, e Scott, 1985). Nonostante
non possa essere sancito un rapporto di tipo deterministico tra ciclo di
vita e livello di formalizzazione (spesso confutato anche da casi empirici), l’importanza dell’adozione di strumenti di pianificazione strategica
aumenta considerevolmente con la crescita e con l’avvicinarsi alle fasi di
maturità dell’impresa, allorquando inizia a profilarsi una maggiore sepa3
Esiste uno stretto rapporto tra impresa familiare e impresa imprenditoriale; Marchini (1995,
p. 128) sostiene che “l’impresa imprenditoriale può essere considerata anche come un’impresa
“prefamiliare”: la grande diffusione dell’impresa familiare pone in evidenza che colui che la fonda è propenso a darvi continuità attraverso i figli o altri stretti familiari”.
100
Il processo di formazione delle strategie aziendali nelle medie imprese: un’analisi per casi
razione tra proprietà e controllo e/o una maggiore managerializzazione
della gestione aziendale (Scott e Bruce, 1988; Churchill e Lewis, 1983). La
crescita, inoltre, aumenta considerevolmente la complessità organizzativa
e pertanto stimola l’adozione di procedure formalizzate (non a caso, infatti,
la pianificazione strategica è stata elaborata per fare fronte alla esigenze
proprie delle grandi corporation)4. Con riferimento al secondo punto (b), la
letteratura identifica come l’adozione di strumenti di formalizzazione del
processo di creazione della strategia debba considerarsi a “small business
necessity, not a large firm luxury” (White, 1998). La pianificazione strategica
facilita il processo di apprendimento interno ed esterno; aiuta a potenziare
le risorse aziendali; promuove la conoscenza e l’interpretazione di variabili
esterne critiche per la comprensione del contesto in cui l’impresa si muove. Agevolando processi di interscambio e dialogo nell’impresa, l’adozione
di procedure maggiormente formalizzate crea un contesto ottimale in cui
si possono assumere le decisioni strategiche. Dal versante relazionale, la
pianificazione crea una maggior legittimazione dell’impresa presso i diversi stakeholder, giacchè agevola una disclosure di informazioni ritenute
rilevanti e fa convergere le risorse interne verso i medesimi obiettivi. Infine, stimola lo sforzo di quantificare gli obiettivi, in termini di target di
natura finanziaria e operativa. Formalizzare la strategia può essere utile
nelle situazioni di turbolenza, che spesso per le imprese minori divengono
critiche (Peel e Bridge,1998, p. 849); nelle fasi di intensa crescita aziendale
(Upton, Teal Felan, 2001); nella gestione dello sviluppo di imprese ad alta
tecnologia (O’Regan e Ghobadian, 2005). Alcuni contributi si sono soffermati sulle relazioni tra la formalizzazione della strategia e le performance
aziendali. Nonostante il processo di pianificazione sia scarsamente applicato nelle imprese minori, alcuni studi sono pervenuti alla conclusione che le
imprese di successo possiedono un sistematico processo di pianificazione
(rispetto a quelle “fallimentari”), facendo così configurare una correlazione
positiva tra formalizzazione della strategia e performance (Perry 2001; Schwenk e Scharder, 1993). Il processo di formazione della strategia - secondo
un processo di pianificazione - assume, tuttavia, connotati profondamente
diversi rispetto a quello delle grandi imprese. Le grandi imprese utilizzano
il piano per integrare gli obiettivi e le attività dei diversi business rispetto
ad una prospettiva di corporate (il sistema di pianificazione inizia al livello
Le indagini empiriche confermano queste ipotesi: una ricerca condotta su 65 imprese familiari di
piccola e media dimensione e in forte crescita (Upton N., Teal E.J., Felan J.T., 2001) ha dimostrato
che la prevalenza di queste imprese redige un piano strategico scritto il cui orizzonte temporale
è prevalentemente triennale (50%)Considerato che la crescita richiede un forte commitment, nel
processo di stesura del piano viene coinvolto il consiglio di amministrazione e il contenuto in termini di strategie e di performance viene condiviso con i lavoratori a tutti i livelli, anche con una
frequenza molto alta (il 53% mensile): la condivisione della vision e dei piani diventa un fattore
di successo per le imprese in forte crescita (Upton et al., 2001).
4
101
Lara Penco
Il processo di formazione delle strategie aziendali nelle medie imprese: un’analisi per casi
corporate e poi viene ribaltato a livello dei singoli business). Nelle imprese
minori, invece, il sistema di pianificazione riguarda essenzialmente il livello business, che coincide spesso con l’intera impresa. Inoltre, nelle imprese
minori, il piano, che è il risultato di un processo continuo, è destinato a
cambiare con grande rapidità e costituisce uno strumento di condivisione
- tra tutti i livelli dell’organizzazione - dei percorsi di sviluppo strategico
(Peel e Bridge, 1998, p. 849). Con riferimento poi agli strumenti impiegati,
la scarna la letteratura sul tema identifica come essi varino a seconda delle
condizioni in cui si trovano le imprese minori; possono a questo proposito
essere individuate imprese “statiche”, ovvero orientate al mantenimento
del posizionamento e alla stabilità dimensionale, e imprese “dinamiche”,
orientate, invece alla crescita (Gandolfi, 2009; Marchini, 1995). Per le imprese statiche, strumenti di pianificazione possono limitarsi all’adozione
di una checklist, destinata ad individuare i cambiamenti più significativi
che possono avere un riflesso sulla gestione aziendale (Nagel, 1981). Per le
imprese dinamiche, invece, la formalizzazione della strategia è funzionale
non tanto ad un controllo dello staus quo quanto piuttosto ad una gestione
dello sviluppo (Upton, Teal, Fean, 2001); l’analisi ambientale diviene così
il punto di partenza necessario per impostare i comportamenti aziendali
(Marchini, 1995). Il modello di Gibb a Scott (1985) viene ancora considerato
attuale; in questo modello si suggerisce di adottare sistemi di gestione ad
hoc per alcune decisioni di impatto strategico. Come osservato da Gandolfi
(2009), questa impostazione appare applicabile per le medie imprese, operanti in settori nuovi o che si caratterizzano per rapidi cambiamenti. La gestione per progetti diventa infatti una valida alternativa alla pianificazione
integrale, poiché impone alle imprese di acquisire informazioni ambientali
adeguate e riferibili alle singole problematiche strategiche che di volta in
volta devono essere affrontate.
La Tab. 2 analizza i tratti salienti di ciascun filone.
... continua
Comportamentale
Prospettiva
Spesso non esistente
Sintetico
Contenuti e
caratteristiche del piano
Comportamentale
Comportamentale/
razionale
Finalizzato ad
ottimizzare il rapporto
impresa/ambiente
Spesso non esistente
Sintetico
Scritto
Basato sulla definizione
Flessibile
di una mission e vision
Importanza dell’analisi
ispirata alla cultura
ambientale
della famiglia
Utile nella successione
Fonte: Ns elaborazione
Il contributo in questione, attingendo ai sopraccitati filoni interpretativi, intende analizzare il processo di formazione della strategia nelle medie
imprese, andando altresì a verificare se esse presentino un orientamento ad
utilizzare piani e strumenti formalizzati di strategic management. Occorre
precisare che il contributo non considera la fase di controllo della strategia, sebbene sia risultato - dai colloqui condotti nella fase empirica - che le
imprese oggetto dell’indagine si limitino al controllo budgetario, condotto
mensilmente o trimestralmente. La figura visualizza il percorso di ricerca
e in particolare come i diversi approcci allo studio strategico delle imprese
minori siano funzionali all’elaborazione delle ipotesi necessarie per rispondere alle ipotesi di ricerca (Fig. 1).
Fig. 1 - Il disegno della ricerca
Approccio
strategico
Small Business
Approccio Imprenditorialità
+
ApproccioFamily Business
Che cosa si decide?
Contenuti delle decisioni strategiche
Chi decide?
Imprenditore
Famiglia
Tab. 2 - Quadro sinottico dei prevalenti approcci al processo strategico delle imprese minori
Soggetto decisore
Fattori condizionanti il
processo strategico
Approccio
imprenditorialità
Approccio
Family business
Imprenditore
Famiglia
Visione
dell’imprenditore
Cultura
dell’imprenditore
Cultura della famiglia
Problemi di successione
Approccio
Strategico /small business
Manager/
Imprenditore/Famiglia
Dimensioni aziendali
Ciclo di vita
Complessità del
business
Settore
continua ...
102
( + crescita, complessità strategica)
Apertura verso manager
esterni alla famiglia
Formulazione delle ipotesi per rispondere alla
research question: Come viene elaborata la strategia nelle medie imprese?
103
Lara Penco
Le ipotesi di ricerca delineate sono le seguenti:
• ipotesi 1: coerentemente a quanto postulato dagli studi strategici sulle
small business, il contenuto della strategia (il cosa si decide?) assume una
rilevanza particolare in termini di modalità di formazione della strategia; nonostante non possa delinearsi meccanicisticamente una corrispondenza tra complessità e livello di formalizzazione, la crescente
complessità delle decisioni strategiche perseguite dalle imprese di media dimensione (rispetto alle piccole) stimola l’adozione di meccanismi di formazione della strategia maggiormente formalizzati (Upton,
Teale, Fean, 2001; Gibbons e 0’Connor, 2005; Corbetta, 2000);
• ipotesi 2: attingendo altresì alla letteratura sull’imprenditorialità e sulle family business, i connotati di tipo soggettivo delle imprese medie,
ovvero la coesistenza tra imprenditorialità/familiarità e l’allargamento ad un team di manager necessario per gestire le complessità della
crescita, si pongono altresì come aspetti condizionanti il processo di
formazione della strategia; ovvero, più ampio è il team che partecipa
al processo decisionale, maggiore è il livello di formalizzazione che
assume la strategia (Burke e Jaratt, 2004; Corbetta, 2000).
Considerare congiuntamente le specificità circa l’aspetto oggettivo e
quello soggettivo delle medie imprese consente di pervenire ad una migliore conoscenza delle modalità di gestione del processo decisionale strategico in questa tipologia di impresa.
3. La metodologia di indagine e l’individuazione dei casi
La verifica empirica delle ipotesi che guidano l’intero lavoro è stata condotta mediante l’impiego della metodologia dei casi multipli. La scelta di
adottare lo studio di casi multipli discende da due motivazioni, connesse
essenzialmente all’oggetto della ricerca (il processo di formazione della
strategia) e alla tipologia aziendale inserita nel campo di indagine (la media impresa).
Sotto il primo profilo, il metodo dei casi aziendali appare appropriato
per approfondire la conoscenza del processo di formazione della strategia
e, quindi, per rispondere ad una research question improntata sul “come”
(come si forma la strategia nelle medie imprese?). La conoscenza delle modalità con cui si svolge il processo di formazione della strategia richiede
inoltre la disponibilità di dati difficilmente reperibili mediante il ricorso a
documenti informativi ufficiali; in altri termini, occorre disporre di informazioni sull’organizzazione interna, sui meccanismi di corporate governance, sulle procedure adottate per la preparazione delle strategie; informazioni che possono essere acquisite solo grazie ad un contatto diretto con
l’impresa.
104
Il processo di formazione delle strategie aziendali nelle medie imprese: un’analisi per casi
Sotto il secondo profilo, le medie imprese sono realtà ancora poco strutturate e non sempre presentano una continuità di produzione di documenti strategici e raramente essi sono pubblicati; talvolta, non fanno neppure
ricorso a procedure formalizzate e a documenti scritti.
E’ indispensabile, quindi, il contatto diretto con le singole imprese al
fine di estrapolare adeguate informazioni circa il contesto in cui si forma
la strategia.
Al fine di verificare le ipotesi circa il processo di formazione della strategia, sono stati selezionati, partendo dal data-base AIDA (Analisi Informatizzata Delle Aziende) pubblicata da Bureau Van Dijck Electronic Publising, quattro imprese. Le imprese selezionate rispondono ai parametri
quantitativi dello studio di Mediobanca, sotto il profilo degli addetti, del
fatturato e dell’indipendenza (Mediobanca, 2010) e presentano i seguenti
requisiti:
• fanno riferimento all’industria alimentare, che costituisce uno dei comparti in cui si articola il Made in Italy (Fortis, 2004; Esposito De Falco,
2008);
• sono collocate in Liguria, una regione in cui la media impresa rappresenta una rarità poiché il tessuto regionale è storicamente connotato
da una struttura “bipolare”, di grandi e piccolissime imprese (Caselli,
1983; Genco, 2007);
• hanno un ambito di operatività nazionale e internazionale (Marini,
2008);
• non sono quotate e quindi non hanno obblighi stringenti in termini di
informativa societaria;
• presentano un connotato di imprenditorialità familiare molto forte, rinvenibile nella composizione dell’azionariato e degli organi di governo.
Si tratta peraltro di imprese che sono state contraddistinte da processi
espansivi piuttosto importanti (rilevabili sotto il profilo del fatturato e di
altri dati di bilancio), pur tenendo in considerazione gli effetti depressivi
della crisi economica dell’ultimo biennio. L’analisi si è basata sulla raccolta
di informazioni acquisite in occasione di diverse interviste al vertice imprenditoriale/manageriale, sull’osservazione diretta durante le visite in
azienda, sull’analisi delle fonti documentali reperibili5. Le imprese appaiono molto differenziate, sotto il profilo dimensionale e storico (Tabella 3).
5
La scarsità e la disomogeneità di fonti documentali tra le imprese ha di fatto impedito la conduzione di una content analysis strutturata e quindi ci si è limitati a raccogliere informazioni
provenienti da fonti differenziate e in particolare da colloqui condotti con il soggetto economico.
105
Lara Penco
Il processo di formazione delle strategie aziendali nelle medie imprese: un’analisi per casi
Tab. 3 - Un quadro delle imprese
Impresa
Fatturato
2009
Fratelli
Carli
143.252
Noberasco
61,890 Dipendenti
2009
Attività
289
Olio
Specialità alimentari
Cosmetica
1911
90
Frutta secca
confezionata
1908
Gianbenedetto
Noberasco (AD)
1990
Marcello Mucedero
(Direttore Generale)
1948
Alberto Alberti
(AD)
Appetais
25,218 84
Latte
Alberti
Lavorazione e
conservazione di
prodotti ittici mediante
surgelamento
Prodotti da forno
surgelati
15.209 50
Latte e derivati
Anno di
costituzione
Persona di contatto
Lucio Carli
(consigliere e
responsabile dello
sviluppo cosmeticaMediterranea)
Fonte: Ns elaborazione: da banca dati Aida e da fonti aziendali
Noberasco e Fratelli Carli costituiscono realtà più strutturate e sono state selezionate proprio giacchè corrispondono pienamente – sotto il profilo
quantitativo e qualitativo – ai requisiti della middle class, definiti anche dagli studi sul cd Quarto Capitalismo. Sono state anche connotate da processi
espansivi rilevanti, nonostante gli effetti depressivi della crisi del 2008.
Le altre due – Latte Alberti e Appetais – seppure presentino i requisiti
quantitativi propri delle medie imprese, si collocano nel limite inferiore.
Più in particolare, Alberti si configura come un’impresa matura, i cui margini di sviluppo sono piuttosto limitati dalla tipologia del prodotto e dalle
caratteristiche strutturali del settore (ha ridotto anche la dimensione in termini di addetti, andando al limite inferiore rispetto ai criteri Mediobanca),
mentre Appetais rappresenta un caso di un’impresa in fase di sviluppo,
con prodotti sempre nuovi, discendenti da puntuali ricerche delle tendenze della domanda, e con un business model improntato alla partnership
con la GDO.
Per ciascuna delle imprese, sono state indagati i contenuti delle strategie, (aspetto oggettivo), la responsabilità delle decisioni strategiche (aspetto soggettivo), al fine di verificare se la maggiore complessità delle opzioni
strategiche perseguite (aspetto oggettivo) imponga la partecipazione di
competenze esterne alla famiglia (aspetto soggettivo) e ciò abbia implicazioni sul processo strategico e sulla predisposizione ad utilizzare procedu-
106
re più formalizzate e strumenti di formalizzazione della strategia.
4. I risultati dell’analisi sui casi aziendali
4.2. L’aspetto oggettivo: i contenuti della strategia aziendale
Nonostante le profonde differenze intercorrenti tra i casi esaminati, le
imprese contattate sono tutte a carattere familiare, sotto il profilo della
proprietà e della presenza dei membri della famiglia nella gestione aziendale. Esse individuano nell’intuizione dell’imprenditore-fondatore l’origine della business idea che permane, seppure con adattamenti, come il
presupposto dell’attività aziendale e pertanto delinea la direttrice delle
scelte strategiche6.
Dalle interviste effettuate, emerge come in tutte le imprese le decisioni
considerate di natura strategica (Panati e Golinelli, 1991; Gandolfi, 2003;
Sciarelli 2005; Cafferata, 2009) riguardino, essenzialmente, le scelte di prodotto (nel senso di innovazione nella linea, in termini di approfondimento,
di ampliamento o di inserimento di nuovi prodotti) e le scelte relative allo
sviluppo dei mercati (espansione geografica e nuove categorie di consumatori). Pur tuttavia, decisioni che tipicamente nelle imprese più grandi
sono considerate di area “gestionale/organizzativa/operativa” (e quindi
oggetto di delega), assumono una rilevanza strategica e, pertanto, sono assunte dal vertice aziendale7. Scelte relative al Customer Relationship Management per la F.lli Carli o relative ai processi produttivi per la Noberasco
e per la Alberti sono considerate strategiche e quindi non sono oggetto di
delega manageriale ma permangono nella sfera decisionale apicale.
Come è noto, le medie imprese seguono una strategia composita, con
un orientamento alla focalizzazione spinta su segmenti anche molto ristretti, assumendo un posizionamento da “campioni nascosti” (Simon, 2001);
ciò costituisce un’opzione finalizzata sia a limitare significativamente la
concorrenza diretta proveniente dalle grandi imprese, sia ad agevolare il
Tutte le imprese hanno una storia legata ad una famiglia. Nel 1908, l’impresa della famiglia
Noberasco, nata come attività commerciale dei prodotti ortofrutticoli freschi coltivati nella Piana
di Albenga, ha affiancato alla commercializzazione dei “freschi” quella dei prodotti “secchi” (in
primis i datteri, poi noci, pinoli, nocciole, mandorle, ecc.), al fine di sfuggire alla stagionalità.
Nel 1911, la famiglia Carli ottiene da un proprio oliveto un raccolto particolarmente abbondante e di ottima qualità. L’intuizione consiste nel non vendere l’olio mediante la distribuzione in
sede fissa, ma nel consegnarlo a domicilio. Latte Alberti nasce nel 1948 ad Imperia; il fondatore,
seguendo la crescita dei consumi e l’attenzione verso la qualità, l’impresa si dà una struttura “industriale”. Appetais Italia S.p.A., fondata e diretta da Alessandro Palau, uno dei fratelli fondatori
della Palmera (tonno in scatola) ha intrapreso l’attività di produzione di prodotti ittici surgelati;
successivamente, seguendo le tendenze evolutive della domanda sempre più orientata a consumare prodotti alimentati già pronti, l’impresa ha intrapreso la produzione di specialità a base di
pesce, di pasta e poi prodotti da forno surgelati, soprattutto per il private label.
7
Di tale avviso è Guerci, 1998, p. 76.
6
107
Lara Penco
processo di apprendimento connesso alla conoscenza profonda del mercato e delle tecnologie. Trattasi di un approccio tipico delle medie imprese
operanti nei settori maturi e specialmente in quelli caratteristici del Made
in Italy (Fortis, 2004).
Le imprese selezionate, pur nella loro diversità, hanno perseguito strategie di focalizzazione, tipicamente basate sulla differenziazione. Noberasco si è focalizzata sulla produzione e sul confezionamento di frutta secca
ed ha oggi raggiunto in questa nicchia una posizione di leadership in Italia, ma anche di primario rilievo a livello internazionale. Nel perseguire
la propria strategia di focalizzazione, l’impresa addotta un nuovo sistema
di lavorazione, applicando tecnologie che consentono di conferire ai frutti
lunghi periodi di conservazione senza l’impiego di additivi chimici, configurandosi quindi come leader nel mercato del “biologico”8. L’orientamento alla differenziazione è alquanto elevato.
La Fratelli Carli ha perseguito una strategia di focalizzazione, segmentando il mercato rispetto alla forma distributiva, basata esclusivamente sulla consegna a domicilio. Nel business dell’olio, Carli ha condotto scelte di
profondità della gamma attraverso l’offerta di un numero considerevole di
varianti. L’impresa ricerca un vantaggio di differenziazione, essenzialmente basato sulla qualità del prodotto e sul servizio al cliente (Penco, 2009).
Appetais Italia si è focalizzata sui prodotti surgelati, in particolare sul
pesce e sui piatti pronti già preparati; la qualità del prodotto e l’innovazione sono fonti di differenziazione.
La Alberti si è focalizzata su una limitata gamma di prodotti lattierocaseari e in particolare sulla panna, che costituisce il prodotto di forza
dell’impresa, per l’elevata qualità intrinseca; la focalizzazione è anche geografica cosicché il livello di penetrazione nell’area del Ponente ligure e del
Basso Piemonte è elevato.
Talvolta, sui segmenti prescelti sono state impostate strategie di integrazione verticale, internazionalizzazione e spesso di diversificazione concentrica, identificando pertanto un modello di crescita per adiacenze (Zook,
2004) o di focalizzazione dinamica (Resciniti, 2009). L’estensione di Appetais e Alberti9 in nuovi business è stata motivata dalla necessità di sfruttare
le economie di scopo discendenti dall’utilizzo congiunto della catena del
freddo e della catena logistica per beni/business diversi (Penrose, 1959). Ai
“I nuovi processi di lavorazione ci permettono di presentare al mercato una linea di prodotti che comprende prugne, albicocche, fichi ed altri frutti, anche meno tradizionali, totalmente
innovativa - afferma Gian Benedetto Noberasco, - una linea completa dedicata ai consumatori
che richiedono, sempre più numerosi, un prodotto sano e senza aggiunta di conservanti. Stiamo
conquistando soprattutto i giovani”.
9
Per Alberti, l’ampliamento della gamma e la diversificazione nei prodotti caseari di formaggio
è stata dettata dall’esigenza di saturare “una catena logistica che deve essere funzionante tutti i
giorni: ricercare nuovi prodotti è funzionale alle economie di scopo. Produrre un solo prodotto o
un prodotto di nicchia non consente infatti di saturare gli impianti”.
8
108
Il processo di formazione delle strategie aziendali nelle medie imprese: un’analisi per casi
prodotti surgelatiti ittici, Appetais ha, pertanto, affiancato la produzione
di piatti pronti a base di pesce e poi di prodotti da forno; in questo caso, la
diversificazione è stata seguita anche per individuare business più profittevoli e in fase espansiva10.
Nell’ambito del business della frutta essiccata confezionata, Noberasco
ha seguito una strategia di approfondimento della gamma, mediante la
creazione di prodotti finalizzati a soddisfare bisogni diversi ed emergenti
(aperitivo, salute, supporto alla cucina, ecc.). Al fine di presidiare le innovative tecniche di conservazione e confezionamento della frutta secca
(si pensi all’innovazione di processo della “pastorizzazione in continuo”
che consente di confezionare il prodotto senza conservanti), l’impresa ha
integrato verticalmente l’attività manifatturiera mediante l’investimento
nello stabilimento produttivo di Vado (Società Agri Food). L’integrazione
verticale a monte ha consentito di rafforzare la competitività aziendale nel
core business.
Molto articolate sono state le strategie espansive della Carli. Analizzando la composizione del portafoglio aziendale, l’impresa è attualmente impegnata in due macro-business principali, fortemente correlati tra loro: il
business dell’olio e del tonno (core business) e il connesso business delle
specialità alimentari; il business della cosmetica. L’espansione nella cosmetica (con il marchio “Mediterranea”) costituisce una vera strategia di diversificazione; il business della cosmetica viene oggi gestito in modo sempre più “autonomo” e indipendente rispetto al core business e costituisce
l’area d’affari connotata da ritmi di crescita più sostenuti. Analogamente
a numerosi casi della middle class, tutte le imprese oggetto della ricerca si
sono avviate verso l’internazionalizzazione (Resciniti e Tunisini, 2009)11.
Le motivazioni sono connesse alla ricerca di nuove opportunità e alla necessità di superare la progressiva saturazione dei mercati domestici. Particolarmente interessanti sono le diverse modalità di attuazione. Noberasco
penetra i mercati esteri esportando i prodotti e operando in partnership con
i maggiori operatori della GDO europei. Occorre precisare, tuttavia, che
l’impresa è da sempre internazionalizzata sotto il profilo degli acquisti: le
materie prime (la frutta secca o la frutta tropicale da sottoporre a processo
di lavorazione/conservazione) provengono infatti da Paesi esteri dell’area
mediterranea o del Sud America. Complesso è il recente processo di internazionalizzazione della Fratelli Carli. La crescita sui mercati esteri è stata
perseguita non solo attraverso la modalità mercantile, anche mediante gli
10
Per Appetais: “il business del pesce è infatti un business povero, in cui il prodotto è scarsamente differenziabile. Inoltre, per motivazioni socio-demografiche si è verificato un aumento considerevole della domanda di piatti pronti”; opportunità seguita dall’imprese sfruttando risorse e
competenze interne.
11
Con riferimento al 2008, le imprese presentano la seguente proiezione all’export: Noberasco:
5%; Alberti: 2%; Carli: 11%; Appetais appena intrapreso.
109
Lara Penco
Il processo di formazione delle strategie aziendali nelle medie imprese: un’analisi per casi
Investimenti Diretti all’Estero. Nel 2007, la Carli ha acquisito una società
francese – la Newsol - per la produzione e la distribuzione di prodotti alimentari in strutture della GDO. Inoltre la Fratelli Carli ha penetrato il mercato USA, mediante la costituzione di una società - la Carli USA - finalizzata a svolgere attività di natura logistico-distributiva, ma destinata tuttavia
ad assumere ruoli anche commerciali.Le altre due imprese presentano un
posizionamento internazionale modesto e alquanto recente. In Appetais, le
esportazioni, sebbene presentino volumi ancora limitati, sono contraddistinte da ritmi di crescita molto rapida. L’impresa ha infatti superato alcuni
vincoli all’internazionalizzazione di natura normativa. Da dicembre 2008,
l’impresa ha ottenuto le certificazioni BRC e IFS, che definiscono gli standard per la sicurezza degli alimenti nella GDO a livello internazionale. La
strategia di internazionalizzazione segue comunque la modalità esportativa di prodotti private label12, operando in partnership con big retailer esteri.
I modesti percorsi di internazionalizzazione perseguiti dalla Alberti sono
frutto di relazioni pressoché casuali. La panna, per esempio, veicolata da
un produttore di gelato internazionale potrebbe diventare un prodotto per
l’esportazione e su questo l’impresa intende puntare. La tipologia di prodotto (fresco e con quindi con tempi di conservazione ridotti) limita le possibilità di espansione internazionale. La seguente Tab. 4 identifica alcuni
connotati relativi ai contenuti delle decisioni strategiche nei casi analizzati.
Tab. 4 - Un quadro sintetico delle imprese intervistate
Impresa
Fratelli Carli
Noberasco
Cosa si intende per scelte
“strategiche”?
Scelte di prodotto e
mercato
Scelte di marketing
Scelte di prodotto e
mercato
Decisioni sulla
produzione
Quali sono le strategie
seguite dall’impresa?
Focalizzazione sulla
distribuzione e sul
prodotto/differenziazione
Diversificazione
(cosmetica)
Internazionalizzazione
mediante export e
mediante Ide
Focalizzazione sul
prodotto/differenziazione
Integrazione verticale a
monte
Internazionalizzazione
mercantile (a monte e a
valle) e partnership con
big retailer
Orientamento alla
crescita
Forte
110
Appetais
Scelte prodotto e mercato
Programmazione della
produzione
Latte Alberti
Tutte le scelte aziendali
Focalizzazione
Divesificazione in
business correlati
Inizio di
internazionalizzazione
(mercantile), in
partnership con big
retailer
Focalizzazione/
differenziazione sul
prodotto e sul territorio
Forte
Impresa emergente/
sviluppo
Modesto
4.3. L’aspetto soggettivo: chi assume le decisioni strategiche?
La letteratura in tema di imprese minori riconosce come l’aspetto soggettivo (il chi decide?) impatti sulle modalità di gestione del processo decisionale strategico (Burke e Jaratt, 2004). Nonostante non possa configurarsi
perfettamente una modello di sviluppo dell’impresa di tipo deterministico
in cui alla fase di maturità si accosti una netta separazione tra proprietà
e controllo, nella middle class permane la rilevanza dell’imprenditorialità
e della famiglia nella gestione aziendale ma la crescita e la conseguente
complessità di natura organizzativa e strategica impongono un maggior
ricorso alla delega manageriale (Dalli, 2009; Corbetta, 2000).
La coesistenza tra imprenditorialità familiare e managerialità provoca
impatti sulla strutturazione del processo strategico; l’ipotesi è infatti che
maggiore è l’allargamento del team che partecipa al processo decisionale
strategico, maggiore è la tendenza a gestire il processo di creazione della
strategia in modo formalizzato e con una prospettiva di pianificazione.
Nelle realtà aziendali indagate, i membri della famiglia permangono
nella gestione aziendale, fornendo competenze manageriali e svolgendo
ruoli di governo (Tab. 5).
Tab. 5 - I decisori
Chi assume le decisioni?
Forte
F.lli Carli
continua ...
Secondo, il Direttore Generale, l’internazionalizzazione diventa una scelta obbligata poiché i
canali nazionali sono saturi; i prodotti italiani pronti sono invece ancora in una fase emergente
e sviluppo negli altri Paesi. Attualmente, l’internazionalizzazione per i piatti pronti avviene su
Paesi del Nord Ue (Norvegia e Finlandia); la scelta dei Paesi è stata casuale e determinata da relazioni personali, determinata da conoscenze dalla famiglia. Per la Spagna, produce per Carrefour
tre prodotti: tagliatelle, spaghetti e penne condite con sughi di pesce.
12
... continua
Noberasco
Appetais
Alberti
Soggetti di supporto
Famiglia proprietaria con ausilio mana- Consulenti esterni per raccolta informager esterni
zioni e analisi di mercato
Famiglia proprietaria con ausilio mana- Consulenti esterni per raccolta informager esterni
zioni e analisi di mercato
Imprenditore + Direttore Generale, che è
No
manager esterno alla famiglia e socio
Imprenditore proprietario
No
Nelle imprese che toccano una dimensione più grande e che assumono
un livello di strutturazione maggiore, ovvero nella F.lli Carli e nella Nobe111
Lara Penco
Il processo di formazione delle strategie aziendali nelle medie imprese: un’analisi per casi
rasco, le scelte sono assunte in modo compartecipativo tra i membri della famiglia impegnati nell’impresa e i manager di line, i quali apportano
le proprie competenze specialistiche a supporto del processo decisionale
strategico.
Il ricorso alla consulenza, quale fonte di competenze strategiche non
rinvenibili all’interno dell’impresa, è limitato alla mera risoluzione di problemi di natura tecnico-specialistica, oppure al reperimento di dati derivanti da analisi di mercato.
Nell’Alberti, che è l’impresa più piccola, il modello è “imprenditoriale
puro”; ovvero, il proprietario assume tutte le decisioni in modo assolutamente centralizzato. In Appetais, invece, il Direttore Generale, esterno al
nucleo familiare e socio, partecipa al processo di generazione delle scelte
strategiche assieme al fondatore e ai membri della sua famiglia; i manager
di line forniscono un mero supporto informativo al processo decisionale
strategico.
4.4. Le implicazioni sul processo di formulazione della strategia:
verso la formalizzazione?
Per tutte le imprese oggetto della ricerca, la strategia è un processo continuo e poco formalizzato e, pertanto, riconducibile al modello della ““strategia emergente” di Mintzberg. La presenza di componenti della famiglia
nel governo aziendale (che facilita processi informali di comunicazione e
di diffusione degli obiettivi strategici) e la tendenza all’accentramento decisionale riducono, in teoria, la necessità di formalizzare.
Pur tuttavia, nell’ambito dei casi analizzati, le imprese più grandi e/o
che assumono decisioni maggiormente complesse adottano processi embrionali di pianificazione, ovvero utilizzano documenti scritti che raccolgono i risultati delle analisi ambientali, gli obiettivi strategici e, l’indicazione
delle principali linee di comportamento (variabili organizzative, investimenti, ecc.). In queste imprese, si tenta di adottare procedure organizzative maggiormente standardizzate per la definizione delle scelte strategiche
(Tab. 6).
Tab. 6 - Caratterizzazione del processo strategico
Esistenza di piani definibili
strategici
F.lli Carli
112
Sì. Piani triennali e
articolati per business
Esistenza di un processo
di formalizzazione
delle decisioni aziendali
stratergiche
Si, sistematico per ogni
business
Caratterizzazione del
processo di formazione
delle decisioni
Processo strategico
(vision, mission,
pianificazione business,
controllo)
Noberasco
Appetais
Alberti
Sì. Piani annuali, solo per
nuovi prodotti
(definizione di un
piano industriale per la
successione)
No.
Sistema di budget mensili
Piani di produzione
No. Documenti solo
descrittivi interni
Si, in occasione di
innovazioni nella linea di
prodotti
Si, sistematico ma in ottica
di breve
No
Processo guidato
dall’innovazione e dal
marketing
Processo guidato dal
controllo amministrativoproduttivo
Processo imprenditoriale
puro
Nella Noberasco le decisioni strategiche sono assunte dalla famiglia. La
strategia è un processo continuo e imprenditoriale che prevede però la partecipazione di manager aziendali; la delega decisionale ai manager viene
realizzata completamente solo per scelte di natura organizzativa afferenti
alle attività “vendite e marketing”.
Piani scritti e formalizzati sono realizzati esclusivamente per nuovi
prodotti. Tutte le nuove idee circa la gamma dei prodotti sono generate
da discussioni interne al gruppo familiare. L’innovazione, frutto dell’idea
dell’imprenditore e dei fratelli coinvolti nella gestione aziendale, viene
presentata al Direttore Commerciale e al Direttore Marketing. Consulenti esterni sono eventualmente impiegati per fornire dati di mercato e
sull’evoluzione dei consumi finali. Viene redatto dai manager un piano,
nuovamente discusso con la proprietà. Il piano contiene gli obiettivi declinati in termini quantitativi; viene impostato un sistema di budget su cui
viene improntato il processo di monitoraggio che si ripete mensilmente.
I piani sono articolati per linee di prodotto; pertanto è possibile individuare le strategie relative al business e ai singoli segmenti di mercato. Gli
obiettivi di espansione sono comunicati a tutta l’organizzazione. Occorre
precisare che in questo momento, la famiglia Noberasco si sta ponendo
il problema della futura successione. Oltre alla stesura di una “lettera di
intenti” necessaria per definire le qualità che dovranno avere gli eredi che
avranno compiti di governo dell’impresa, si sta predisponendo un piano
industriale (realizzato mediante l’apporto di consulenti esterni) funzionale
a “comprendere la direzione di marcia” che le nuove generazioni dovranno assumere, secondo la prospettiva educativa proposta da Mazzola, Marchisio, Astrachan, (Cfr. 2008, p. 255).
La spinta alla diversificazione e all’internazionalizzazione hanno imposto alla Carli l’adozione di un processo di assunzione delle decisioni strategiche più strutturato e formalizzato. Il board direttivo, composto dai membri della famiglia e da alcuni manager, redige piani triennali, supportati
da un sistema di budget annuale. Esiste un sistema di controllo, basato su
budget mensili, monitorati al fine di verificare il raggiungimento progressivo degli obiettivi a medio/lungo termine. La strategia diventa un punto
di coesione e pertanto viene diffusa ampiamente a tutta l’organizzazione.
113
Lara Penco
Attualmente non si redigono separatamente un piano corporate e piani business; il Consiglio di Amministrazione si pone obiettivi decisionali riguardanti l’allocazione delle risorse finanziarie e umane rispetto ai diversi business aziendali (livello corporate). Sono invece redatti documenti relativi ai
due macro-ambiti produttivi in cui opera la Società; il piano per l’alimentare (olio e specialità) e quello per la cosmetica. In ciascun documento, sono
individuate le principali criticità relative al vantaggio competitivo e alla
configurazione del business model aziendale, nonché un set di obiettivi,
espressi in termini quantitativi sui cui è impostato il controllo del raggiungimento degli stessi. In Appetais, l’attività complessiva viene gestita attraverso una procedura che si articola in riunioni giornaliere e riunioni alla
fine di ogni mese con l’ufficio delle vendite per la programmazione della
produzione. In questa impresa, la strategia è guidata essenzialmente dagli
aspetti organizzativi-amministrativi. Il budget e i programmi di produzione sono gli strumenti di gestione strategica. Le opportunità di business
sono colte con una prospettiva imprenditoriale, ovvero facendo ricorso alla
creatività della famiglia e del Direttore Generale e raramente sono frutto di
un processo decisionale formalizzato.
Nell’Alberti, sono utilizzati documenti descrittivi (tipicamente sul prodotto e sul processo produttivo) in cui l’imprenditore delinea obiettivi
quantitativi che hanno solo una valenza per il controllo ex-post. Si riconosce, comunque, l’importanza dell’assunzione di procedure maggiormente
formalizzate e di un processo di pianificazione che attualmente non sono
applicati. La dimensione ancora esigua dell’impresa, la semplicità della
strategia, la forte centralizzazione decisionale rendono meno stringente la
necessità di formalizzazione.
5. Un quadro di sintesi
I casi analizzati mostrano alcuni tratti comuni.
In primis, alcune decisioni assumono una valenza strategica pur essendo comunemente ascrivibili a decisioni di tipo operativo o organizzativo;
di conseguenza, a motivo della loro “non ricorrenza” ed eccezionalità e
dell’accentramento dei processi decisionali, sono oggetto di attente valutazioni e vengono assunte da chi si trova al vertice dell’impresa. Pertanto,
nelle medie imprese analizzate, l’imprenditore assume un controllo molto
accentuato sulle decisioni aziendali, non solo su quelle di natura strategica
ma anche su quelle più operative, nel caso in cui esse si profilino come non
routinarie; e ciò poiché “la gestione operativa costituisce un terreno fertile
da cui muove la riflessione strategica ed entro cui si svolgono processi di
apprendimento organizzativo di tipo incrementale o radicale” (Corbetta,
2000, p.117).
114
Il processo di formazione delle strategie aziendali nelle medie imprese: un’analisi per casi
Si evidenzia la stretta interrelazione tra le strategie di business e di corporate, con particolare riferimento a quelle di crescita. Le imprese analizzate presentano un’elevata proiezione verso la focalizzazione, nonostante
alcune di esse abbiano implementato percorsi di espansione in business
“adiacenti” che tuttavia sono strettamente correlati a quello core e originario dell’attività aziendale. La stretta interrelazione tra strategie di business
e di crescita in “adiacenze” comporta – a livello di gestione del processo di
formazione della strategia – l’adozione di processi decisionali unitari, non
articolati per business. Trattasi di un connotato tipico delle imprese minori
e individuato dagli studi strategici incentrati sulle small business.
Sotto un profilo soggettivo, la rilevanza dell’imprenditore/famiglia fa sì
che queste imprese si configurino come un ottimo campo di applicazione
dell’approccio della strategia emergente sviluppato da Mintzberg. La natura familiare della corporate governance e la presenza dell’imprenditore
sul luogo di lavoro fanno sì che la strategia pianificata ex-ante sia soggetta a
continui aggiustamenti sulla base dell’intuito e della creatività dello stesso
soggetto che individua gli obiettivi da perseguire.
Pur tuttavia, con il progressivo aumento dimensionale dell’impresa e/o
della complessità delle scelte strategiche (aumentano i mercati serviti, i
prodotti offerti e le tecnologie impiegate e conseguentemente i dati e le informazioni che devono essere raccolti ed elaborati), il modello di gestione
basato sulle capacità intuitive e sulla genialità dell’imprenditore è in parte
superato, attraverso il progressivo coinvolgimento di un numero più ampio di persone nel processo di formulazione della strategia. L’imprenditore
continua ad avere un ruolo molto rilevante nella direzione dell’impresa
ma viene affiancato da uno o più manager professionisti. I casi di imprese maggiormente strutturate (Noberasco e Carli) evidenziano la tendenza
verso un maggiore ricorso a competenze manageriali nel processo di formulazione della strategia; anche la Appetais, che invece è un’impresa in
fase di intenso sviluppo, seppure più piccola, coinvolge manager, soprattutto afferenti all’amministrazione e al controllo, nei processi decisionali
strategici.
Questi aspetti – relativi alla tipologia dei percorsi strategici e al nucleo
decisionale - incidono sulle modalità attraverso cui viene gestito il processo
strategico e, in particolare, sulla predisposizione verso la formalizzazione.
Le imprese maggiormente orientate alla crescita iniziano a fare ricorso
a documenti formali (definibili come piani), seppure sintetici, che contengono in taluni casi la vision, l’enunciazione della mission e dei valori espressivi della cultura aziendale e imprenditoriale, oltre alla delineazione delle
principali direttrici strategiche e degli obiettivi strategici di medio termine
(Carli e Noberasco, in particolare). L’indagine conferma, pertanto, quanto
postulato dalla letteratura nazionale e internazionale, ovvero il tendenziale
maggior ricorso a strumenti di gestione strategica formalizzata da parte
115
Lara Penco
Il processo di formazione delle strategie aziendali nelle medie imprese: un’analisi per casi
delle imprese minori orientate alla crescita (tra gli altri, vedasi, Marchini,
1995; Gandolfi, 2009; Upton, Teal and Felan, 2001).
L’adozione di strategie più complesse, legate per esempio all’internazionalizzazione, alla diversificazione e all’innovazione del prodotto o della
linea, sospingono le imprese a seguire processi decisionali maggiormente
formalizzati e a definire documenti in cui sono individuati obiettivi (tipicamente espressi in termini economico-finanziari o di mercato e articolati su
orizzonti temporali di medio periodo), le modalità di conseguimento degli
stessi, le eventuali implicazioni organizzative.
Gli obiettivi, generalmente ideati da un nucleo decisionale ristretto, formato dall’imprenditore, dai membri della famiglia e, in taluni casi, da un
gruppo di manager (coinvolto, appunto, poiché la complessità organizzativa e strategica si è innalzata), sono trasmessi a tutti i membri dell’impresa
per conferire un maggiore commitment organizzativo (Simon 2001, Simon e
Zatta, 2007). Riprendendo lo schema di Hart (1992) - che analizza i possibili
approcci alla formazione della strategia - nelle medie imprese la strategia
può assumere uno stile di tipo “symbolic”, in cui l’aspetto relativo alla cultura e alla visione dell’imprenditore assume un ruolo molto rilevante (Cfr.
Carli e Noberasco). I piani presentano anche numerosi connotati tecnici
e sono intrinsecamente legati a lanci di nuovi prodotti e di mercati (Cfr.
Noberasco).
In conclusione, nelle medie imprese analizzate si verifica una tendenza alla formalizzazione della strategia in piani, tanto maggiore è l’orientamento alla crescita e alla complessità delle strategie e tanto maggiore è il
coinvolgimento di manager, confermando così le ipotesi iniziali, costruite
sulla base della letteratura.
I risultati di queste interviste non sono ovviamente generalizzabili poiché l’indagine è stata effettuata su 4 casi e quindi su un campo di applicazione alquanto limitato. Per questo motivo, questo studio rappresenta una
prima indagine-pilota che verrà estesa ad altri casi di imprese. E ciò poiché
si ritiene che una ricerca sulle modalità di formazione delle strategie nelle
medie imprese possa contribuire a fare avanzare le conoscenze di una tipologia di impresa, studiata solo recentemente nelle sue specificità di natura
strategica e di governance; inoltre, i risultati dell’indagine empirica potranno fornire utili indicazioni per comprendere quali siano gli strumenti di
gestione strategica più appropriati rispetto alle caratteristiche e alle problematiche tipiche dell’impresa di media dimensione, al fine di agevolare lo
sviluppo e il rafforzamento di questa tipologia aziendale che si è dimostrata
così importante per la struttura e la competitività del nostro Paese.
Riassunto
Lo studio intende indagare come viene formata la strategia nelle media imprese,
cogliendone eventuali specificità rispetto alle imprese più piccole e alle grandi. Per
rispondere alla research question, il paper utilizza la metodologia dei casi multipli,
analizzando congiuntamente le problematiche di definizione del processo di formazione
della strategia di quattro imprese liguri operanti nel settore alimentare. Il paper è articolato
in tre parti. Nella prima si definiscono le medie imprese. Nella seconda è tratteggiato il
contesto teorico di riferimento; dall’analisi della letteratura si individuano i presupposti
e gli strumenti concettuali sui cui impostare allo studio specifico sulle medie imprese con
riferimento al processo di formazione della strategia. Nella terza parte, si è proceduto
ad illustrare la metodologia ad evidenziare alcune specificità del processo strategico
nelle imprese di medie dimensioni, mediante l’analisi di alcuni casi aziendali. Infine, si
evidenziano le considerazioni conclusive.
Abstract
The aim of this work is to study the strategy formation process in the medium sized
firms, focusing attention on their specificities respect to small and big firms. The paper
describes the findings that have emerged from a investigation focused on a selected cases
of firms belonging to the Ligurian region and operating in the food industry. The paper is
articulated in three sections. The first section defines the tipology “medium sized firms”.
The second presents theoretical framework. The literature review helps to individuate the
fundamentals and tools necessary to analyse the strategy formation process in the mediumsized firms. The third describes the methodology and shows the principal results of the case
study research. The last section is focused on the concluding remarks.
Classificazione JEL: L1; L21; L25; M21.
Parole chiave (Keyword): medie imprese, family business, strategie di sviluppo, processo di formazione della strategia, piani strategici (medium-sized enterprises, family business, development strategies, strategic formulation, strategic plan)
Lara Penco
Dipartimento di Tecnica ed Economia delle Aziende
[email protected]
116
117
Lara Penco
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REVUE INTERNATIONALE
P.M.E.
Vol 23 N° 2/2010
Presses de l’Université du Quebec
120
121
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Osservatorio sulla piccola
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ECSB NEWS
CASE STUDY
ECSB EVENTS
LA FORMAZIONE IMPRENDITORIALE IN LIGURIA:
OPINIONI A CONFRONTO
Il punto di vista degli attori istituzionali
To Choose One’s Way: Nordic Women about Entrepreneurship, Leadership and
Development
12-13 (14) August 2011
di Stefania Testa e Silvana Frascheri
Joint Summer School: Exploring Entrepreneurship in Universities
19-25 & 26-30 August 201
The 3rd Workshop on SME Innovation Processes: Challeges Beyond the Crisis
16-17 September 201
ECSB Autumn Webinar Series
ECSB Career Mentoring Programme - apply now!
Deadline for applications 1st October 2011
X Seminar Professor José Mª Veciana: Entrepreneurship & Business Angels
25 October 2011
Call for Papers: Redete conference “Researching Economic Development and
Entrepreneurship in Transition Economies”
27-29 October 2011
ECSB Doctoral Seminar on Entrepreneurship and Small Business Management
16 November 2011
ECSB Collaborative Research Roundtable at RENT XXV: “Building post-doc
networking in entrepreneurship and small business management research”
16 November 2011
RENT XXV
16-18 November 2011
Open Workshop Series in Business and Management Studies
14 December 2011
17th Nordic Conference on Small Business Research
23-25 May 2012
1. Introduzione
Come sottolineato da molti autori (si veda ad es. Pontarollo, 2007), il declino di molte zone è attribuibile all’essiccarsi di risorse imprenditoriali, un
tempo diffuse in quelle aree. Una società incapace di generare imprenditori
o nella quale il flusso di nuova imprenditoria tende a rallentare, si impoverisce e si avvia alla decadenza. Tale consapevolezza ha condotto le istituzioni pubbliche ad occuparsi sempre più frequentemente di promozione imprenditoriale con l’intento di creare un clima propizio all’impresa e,
quindi, allo sviluppo economico e sociale. In questo contesto, la formazione imprenditoriale (FI) risulta spesso indicata come una strategia possibile
e potenzialmente molto efficace (Drucker, 1985; Ronstadt, 1987; Gorman et
al., 1997; Charney e Libecap, 2000; Kirby, 2004; Liñán, 2004; Kuratko, 2005;
Rasmussen e Sørheim, 2006). Le definizione di FI fornite in letteratura
sono molte e vanno da definizioni restrittive come quelle che includono la
sola formazione mirata alla creazione di impresa a definizioni più ampie
che invece comprendono tutte le attività di formazione volte a sviluppare
l’intenzione ad agire in maniera imprenditoriale (Liñán, 2004). Altrettanto
varie risultano essere le iniziative messe in atto dagli attori istituzionali.
Al fine di ridurre l’ambiguità sull’argomento, la conferenza internazionale
IntEnt1 del 2007 ha sottolineato l’importanza di cinque domande alle quali
occorre rispondere in maniera chiara e coerente quando si affronta il tema
della FI (le cosiddette big five): chi dovrebbe imparare, chi dovrebbe insegnare, cosa dovrebbe essere insegnato, come si dovrebbe insegnare e quale
dovrebbe essere il risultato, domanda alla quale è legato indissolubilmente
il problema della misurazione dei risultati. Le cinque domande sono, in
realtà, interdipendenti e, spesso, il cercare di rispondere ad una di esse
coinvolge ed implica argomenti e risposte inerenti alle altre quattro.
Obiettivo del presente lavoro è indagare le opinioni sulle big five dei
diversi attori istituzionali coinvolti in iniziative di FI nel contesto ligure
For further details see: http://www.ecsb.org
1
124
Rivista Piccola Impresa/Small Business - n. 2, anno 2011
Internationalizing Entrepreneurship Education and Training
125
Stefania Testa e Silvana Frascheri
-con particolare riferimento alla provincia di Genova- sottolineandone gli
aspetti di maggior contrasto e gli eventuali punti di contatto, al fine di fornire nuovi spunti di riflessione sul tema. Data la vastità dell’argomento,
verrà tralasciato al momento il tema della FI nelle scuole superiori e nelle
università, a cui verrà dedicato un approfondimento in un altro lavoro. La
scelta della Liguria è motivata dal fatto che la regione si trova in questi ultimi anni in una situazione critica e quindi risulta particolarmente delicato
ed urgente individuare iniziative efficaci. In Liguria, infatti, il tasso di mortalità imprenditoriale (7,7% nel 2005) non solo è superiore a quello dell’area
Nord-Ovest (7,2%) e alla media nazionale (7,5%), ma è anche superiore al
tasso di natalità (7,6%), minacciando così uno sviluppo socio-economico
equilibrato e sostenibile (Cepollina, 2008). Inoltre, la Regione Liguria è caratterizzata dalla presenza massiccia di imprese di micro dimensioni; dati
Infocamere (2003) mostrano come più del 96% delle aziende presenti sul
territorio abbia meno di dieci dipendenti e la forma giuridica prevalente
sia la ditta individuale, rendendo ancora più critica la situazione. La provincia di Genova, se possibile, presenta un quadro ancor più difficile rispetto ad altre province liguri. Infatti, un’indagine del Centro Studi Sintesi
(2006), ponendo in relazione i dati dell’imponibile Irpef per abitante con il
tasso di imprenditorialità (imprese su 1000 abitanti), classifica la provincia
di Genova come un’area a bassa vivacità imprenditoriale diversamente da
Savona ed Imperia che presentano invece una spiccata propensione all’attività imprenditoriale.
L’articolo è strutturato come segue: nel paragrafo due, organizzato secondo le big five, viene brevemente esaminato come il tema della FI viene
affrontato in letteratura; nel paragrafo tre vengono descritte le principali
iniziative di FI in Liguria; il paragrafo quattro introduce la metodologia di
ricerca insieme ad alcuni dettagli sulla raccolta dei dati; nel paragrafo cinque vengono riportate e discusse le opinioni degli intervistati; infine, nel
paragrafo sei, si traggono alcune considerazioni e conclusioni.
2. La letteratura sulla FI
Negli ultimi anni la letteratura e gli studi inerenti alla FI sono aumentati
notevolmente. Come anticipato in introduzione, cinque sono le domande
a cui occorre rispondere in maniera chiara e coerente quando si affronta
questo tema.
Chi dovrebbe imparare?
Il dibattito sul tema è aperto e, secondo Lüthje e Franke (2002) è anche la
dimensione della FI che necessita più di altre di miglioramento. Spesso la
FI si rivolge a coloro che desiderano avviare nuove imprese (Alberti, 1999)
e, non a caso, la selezione tende a privilegiare -in modo eccessivo secondo
126
La formazione imprenditoriale in liguria: opinioni a confronto. Il punto di vista degli attori istituzionali
alcuni autori (Liñán, 2004)- coloro che hanno un’idea di business fattibile.
In realtà, considerando la FI nell’accezione più ampia del termine, i suoi
potenziali destinatari costituiscono un insieme molto più numeroso. Alcuni autori (Lüthje e Franke, 2002) sottolineano come il target della FI dovrebbe essere costituito da quegli individui che posseggono la cosiddetta
“personalità imprenditoriale”. Identificare cosa sia la “personalità imprenditoriale” è tuttavia operazione ardua. In letteratura, infatti, esistono innumerevoli contributi, che di volta in volta, enfatizzano diverse caratteristiche personali, comportamentali e motivazionali. A titolo di esempio, tra le
caratteristiche personali vengono annoverate la perseveranza, la capacità
di perseguire i risultati preposti, la capacità di relazionarsi con gli altri, la
propensione al rischio etc. (Markman e Baron, 2003), mentre tra le motivazioni spesso vengono citate motivazioni di tipo “push” quali l’insoddisfazione per il lavoro che si sta svolgendo o la difficoltà a trovare un lavoro
(Haynes, 2003; Manniche et al., 2006) e motivazioni di tipo “pull” quali il
desiderio d’indipendenza o un maggior benessere (Segal et al., 2005; Manniche et al., 2006).
Chi dovrebbe insegnare?
Secondo alcuni autori (Seikkula-Leino et al., 2010), l’insegnante è la dimensione chiave della FI e i documenti stessi della Comunità Europea ne
sottolineano l’importanza (Commissione delle Comunità Europee 2002,
2006; GEM2, 2010). La maggior parte degli studi relativi alla FI parla di prevalenza di insegnanti provenienti dal mondo accademico. Tuttavia alcuni
autori (Hytti e O’Gorman, 2004; Jack e Anderson, 1999) sembrano avanzare
dubbi sulla loro efficacia. Ad esempio, Jack e Anderson (1999) sottolineano
come, molto spesso, i docenti universitari manchino di esperienze dirette
in ambito imprenditoriale, e questo li porterebbe ad una focalizzazione su
aspetti puramente teorici. A difesa invece del mondo accademico si esprime Fiet (2001), sottolineando come il fatto che gli insegnanti in genere non
abbiano esperienza pratica nel campo dell’imprenditorialità non sia determinante. Ad esempio, molti istruttori sportivi non sono stati campioni
nello sport che insegnano, così come insegnanti di criminologia non sono
stati, a loro volta, criminali (Hindle, 2007). Wei e Guo (2010) sottolineano
come l’ottimo sarebbe costituito da insegnanti che abbiano sì conoscenze
teoriche ma anche esperienze pratiche nel campo imprenditoriale e denunciano la carenza di tali figure che chiamano efficacemente double teachers.
2
Global Entrepreneurship Monitor
127
Stefania Testa e Silvana Frascheri
Cosa dovrebbe essere insegnato?
Secondo alcuni autori (Ronstadt, 1987; Bechard e Grégoire, 2005) questa
dovrebbe essere la prima domanda da porsi. I contenuti dei corsi riportati
in letteratura sono talmente vari da lasciare sgomenti (Fiet, 2001). Essi vanno dal marketing alla finanza, da elementi di organizzazione alla gestione
del rischio, dalla negoziazione allo sviluppo di nuovi prodotti, dal pensiero creativo alla leadership (si vedano ad es. McMullan e Long, 1987; Vesper e
McMullen, 1988; Kuratko, 2004; Mwasalwiba, 2010). Secondo alcuni autori
questa varietà riflette il fatto che gli argomenti da trattare nella FI devono
essere ampi e variegati (e.g. Plummer e Taylor, 2004) mentre secondo altri
autori (e.g. Bennett, 2006) tale varietà evidenzia la mancanza di una definizione comune di FI e l’assenza di un framework teorico condiviso.
Come si dovrebbe insegnare?
Secondo Alberti et al. (2004), scarso accordo si riscontra in letteratura
per quanto concerne i metodi della FI così come poco si conosce riguardo a quelli più efficaci (Brockhaus et al., 2001). Seppur numerosi, i metodi
d’insegnamento nell’ambito della FI si possono suddividere in due macrotipologie: metodi attivi e metodi passivi o tradizionali (Mwasalwiba, 2010).
Rispetto ai metodi passivi, quelli attivi dovrebbero facilitare l’apprendimento e condurre i partecipanti a scoprire le loro capacità. Nei corsi che
utilizzano i metodi attivi i partecipanti sono coinvolti direttamente nello
sviluppo di business reali o virtuali (Hytti e O’Gorman, 2004; Canavacciuolo et al., 2003). In tale contesto, gli insegnanti dovrebbero riuscire a
bilanciare il ruolo di allenatore con quello di insegnante inteso in senso
classico. Se, da un lato, è auspicabile che i partecipanti alla FI siano liberi
di lavorare in modo indipendente, con il monitoraggio da parte degli insegnanti ridotto al minimo, dall’altro, se i partecipanti non ricevono feedback
e non sono seguiti, i progressi possono essere molto lenti, con conseguenti
frustrazioni. Alla tipologia dei metodi passivi appartengono le letture, gli
studi di caso, i gruppi di discussione etc; alla tipologia dei metodi attivi
appartengono la realizzazione di business plan, l’utilizzo di video e di simulazioni, interventi esterni di imprenditori, partecipazione a project work etc.
I metodi passivi vengono in generale ritenuti meno efficaci di quelli attivi
(Bennett, 2006; Pittaway, 2009) e, secondo Davies e Gibb (1991), usare tali
metodi è come insegnare a guidare utilizzando lo specchietto retrovisore.
Tuttavia, ad oggi, in molti contesti, prevalgono i metodi di insegnamento
tradizionali (Testa, 2010).
Un altro dibattito aperto e in parte legato al dibattito “metodi attivi-metodi passivi” è quello relativo al giusto mix di formazione teorica e pratica.
Fiet (2001), per esempio, sostiene la superiorità della teoria e degli approcci
128
La formazione imprenditoriale in liguria: opinioni a confronto. Il punto di vista degli attori istituzionali
deduttivi -in opposizione a quelli induttivi- al fine di sviluppare le abilità
cognitive dei partecipanti alla FI e prepararli ad assumere le decisioni migliori. Di contro, numerosi autori sostengono l’importanza e la necessità
dell’approccio esperienziale e della formazione di tipo “learning by doing”
(si vedano, per esempio, Gorman et al., 1997; Laukkanen, 2000; Gibb, 2002;
Sogunro, 2004; Heinonen e Poikkijoki, 2006; Rasmussen e Sørheim, 2006).
Infine, alcuni autori (si vedano, per esempio, Kuratko, 2005; Redford,
2006; Solomon, 2007) mettono in evidenza l’importanza della tecnologia
nella FI. Kuratko (2005) scrive a pag. 588: “Entrepreneurship cannot be a
field that succumbs to stagnation. It must recognize and apply technologies in the educational setting”. Tuttavia Solomon et al. (2002) evidenziano
un trend negativo nell’utilizzo di tecnologie nella FI.
Quale dovrebbe essere il risultato?
Secondo diversi autori (Hytti e O’Gorman,2004; Cheung, 2008; Mwasalwiba, 2010), i risultati possibili della FI potrebbero essere ricondotti a
tre: far conoscere e comprendere l’imprenditorialità (formazione about entrepreneurship); incoraggiare l’avvio di un’attività in proprio (formazione
for entrepreneurship); far acquisire e sviluppare uno spirito imprenditoriale
in senso lato (formazione in entrepreneurship). Al momento sembrano prevalere i corsi about entrepreneurship rispetto alle altre due tipologie, sebbene
Hytti e O’Gorman (2004) non escludano che i tre obiettivi possano anche
essere perseguiti in un unico corso di FI. Braukmann (2004), assegna obiettivi diversi ad istituzioni diverse: compito delle università e del sistema
scolastico ordinario dovrebbe essere quello di diffondere lo spirito imprenditoriale, mentre le istituzioni esterne a questo contesto dovrebbero insegnare la pratica imprenditoriale.
Gli obiettivi della FI possono naturalmente anche cambiare in contesti
storico/economici differenti. A titolo di esempio si riporta il caso della Danimarca, analizzato da Dreisler et al. (2003), i quali mettono a confronto le
politiche danesi in merito alla FI avviate dal 1970 al 2000. Negli anni ‘70 e
’80 la società danese era caratterizzata da alti tassi di disoccupazione. Le
azioni governative erano quindi orientate a ridurre il tasso di disoccupazione; in particolare, nel periodo compreso tra il 1985 e il 1989, l’obiettivo
fu quello di dare la possibilità a persone disoccupate di diventare lavoratori autonomi. Il Ministero che si occupò di attivare le politiche di FI
fu quello del Social Welfare. Nel periodo successivo, quello compreso tra
il 1989 e il 1997, l’obiettivo divenne quello di dare dignità e prestigio alla
figura dell’imprenditore ormai quasi identificato come un ex-disoccupato,
beneficiato da politiche legate al social welfare. In questo periodo, si misero
in atto politiche volte a creare imprenditorialità attraverso la diffusione e
il miglioramento della cultura d’impresa con iniziative proposte, questa
129
Stefania Testa e Silvana Frascheri
volta, dal Ministero del Commercio e dell’Industria. In quegli anni anche
il target si spostò; le iniziative si rivolsero a studenti e la FI entrò nelle università supportata da finanziamenti governativi.
La misurazione del risultato
Qualunque siano gli obiettivi della FI, una volta stabiliti, è necessario
sviluppare metodi specifici per poterne valutare il loro raggiungimento
(Bechard e Toulose, 1998; McMullan e Gillin, 2001; Hytti e Kuopusjärvi,
2004), secondo alcuni autori non solo sul breve ma anche sul lungo periodo
(Falkäng e Alberti, 2000; Alberti et al., 2004; Rasmussen e Sørheim, 2006).
Tuttavia valutare le performance della FI risulta un compito non semplice
(McMullan e Gillin, 1998, 2001; Fayolle e Degeorge, 2006). A tal proposito
occorre distinguere tra la misurazione degli effetti (Block e Stumpf, 1992;
Bechard e Toulose, 1998; Alberti, 1999; Falkäng e Alberti, 2000; Alberti et
al., 2004; Weber et al., 2009; Mwasalwiba, 2010) e quella del processo (Block
e Stumpf, 1992;Vesper e Gartner, 1997; Fayolle e Degeorge, 2006). Per quanto riguarda la misurazione degli effetti, se, ad esempio, la FI si pone come
obiettivo la creazione di nuove imprese e nuovi posti di lavoro, Block e
Stumpf (1992) suggeriscono l’utilizzo di indicatori diversi per periodi temporali differenti: il numero di aziende avviate nel periodo compreso tra
zero e cinque anni dalla fine dei corsi, la sostenibilità e la reputazione delle
aziende nel periodo compreso tra i tre e i dieci anni dalla fine dei corsi, il
contributo dato alla società e all’economia in periodi temporali superiori ai
dieci anni dal termine dei corsi. Secondo alcuni autori, inoltre, occorre tenere conto del fatto che, subito dopo un corso di FI, solo un ristretto numero di partecipanti intraprenderà un’attività imprenditoriale, ma un numero
maggiore potrà essere influenzato positivamente nell’avviare un’impresa
in anni successivi (Hytti e Kuopusjärvi, 2004). Questo implica che sarebbero
importanti studi di follow-up, al fine di esaminare se qualcuno abbia avviato un’impresa in un secondo tempo (Hytti e Kuopusjärvi, 2004). Per quanto
riguarda la misurazione del processo, si possono considerare, ad esempio,
il numero di studenti coinvolti, il tasso di frequenza e il numero di corsi
offerti (Block e Stumpf, 1992; Vesper e Gartner, 1997; Fayolle e Degeorge,
2006). Hytti e Kuopusjärvi (2004) ricordano inoltre l’importanza delle valutazioni ex ante (realizzate prima dell’erogazione dei corsi) e in itinere (sviluppate all’interno del processo, cioè in corso d’opera), a completamento
di quelle ex-post (realizzate al termine dei corsi). Come si può osservare da
quanto precedentemente riportato, tali misurazioni sono prevalentemente
incentrate su dati quantitativi, anche se da più parti viene rimarcata l’esigenza di raccogliere misure anche di tipo qualitativo, ad esempio basate sul livello di soddisfazione dei partecipanti (Hytti e Kuopusjärvi, 2004;
Commissione Europea, 2005). Infine, le valutazioni possono essere sia in130
La formazione imprenditoriale in liguria: opinioni a confronto. Il punto di vista degli attori istituzionali
terne che esterne. Nel primo caso sono commissionate o realizzate da chi
promuove la FI, nel secondo caso la valutazione viene effettuata da terzi.
Purtroppo, però, Hytti e Kuopusjärvi (2004) sottolineano che spesso, per
mancanza di tempo, tali misurazioni spariscono nei cassetti senza neppure
essere state lette e, a causa di un’insufficiente divulgazione, sono di fatto
inaccessibili anche a coloro che sarebbero interessati a studiarle.
3. La FI in Liguria
Il contesto oggetto di studio ha visto, negli ultimi anni, il moltiplicarsi di
iniziative da parte di diversi attori istituzionali: Province, Camere di Commercio, BIC Liguria, etc. La Regione non si occupa direttamente di FI ma
eroga finanziamenti ai vari enti che organizzano e gestiscono servizi volti
alla creazione d’impresa; anche il Comune di Genova non si occupa di FI
pur gestendo diversi incubatori. Una parte consistente dei finanziamenti che la Regione eroga a sostegno della formazione proviene dal Fondo
Sociale Europeo (FSE); gli investimenti vengono stanziati in base al Piano
operativo regionale (Por), con atto approvato dalla Giunta regionale e ulteriormente vagliato e approvato dalla Commissione europea. In merito alla
FI si possono evidenziare alcune iniziative, elencate di seguito, promosse
da BIC Liguria, dalle quattro province liguri e dalle Camere di Commercio.
Le iniziative di FI citate rientrano tutte nella categoria for entreprenurship,
così come definite del paragrafo 2.5. BIC Liguria, dal 2001, gestisce piani di
sviluppo locale (con contributi europei FESR3 e FSE4 emanati dalla Regione) con l’obiettivo, tra gli altri, di sostenere l’imprenditorialità, realizzando percorsi formativi volti alla creazione d’impresa e favorendo la nascita
di nuove imprese che assicurino prospettive di crescita e di integrazione
con il territorio. Questa formazione è rivolta principalmente ai giovani e
a start-up ad elevato contenuto tecnologico e a basso impatto ambientale.
Nell’ambito dei fondi nazionali, BIC Liguria, in collaborazione con Invitalia5, gestisce il titolo 1 e il titolo 2 del decreto legge 185: misure urgenti per
il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in
funzione anticrisi il quadro strategico nazionale. Tra le misure a sostegno
dell’imprenditorialità il titolo 1 sottolinea il ricorso alla FI. Inoltre, nell’ambito dei bandi erogati dal Ministero dello Sviluppo Economico, BIC Liguria, insieme all’Università degli Studi di Genova, è coinvolto nel progetto
UNI.T.I. (UNIversità, Trasferimento tecnologico, Imprese), finalizzato al
supporto di spin-off accademici sull’intero territorio ligure.
Fondo Europeo di Sviluppo Regionale
Fondo Sociale Europeo
5
Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti esteri e lo sviluppo di impresa SpA
3
4
131
Stefania Testa e Silvana Frascheri
La Provincia di Genova ha sviluppato, con il supporto del CLP (Centro Ligure per la Produttività- Agenzia di formazione della Camera di
Commercio di Genova) e delle Associazioni di Categoria, il Circuito Crea
Impresa, nato nel 2008. Esso offre un insieme di servizi personalizzati e
gratuiti indirizzati a coloro che intendono avviare una nuova impresa e a
coloro che hanno avviato un’attività imprenditoriale da non oltre 18 mesi.
Il progetto prevede seminari tematici, formazione, consulenze individuali,
elaborazione di business plan nella fase pre-avvio dell’impresa e consulenze
individuali nella fase post-avvio d’impresa.
La provincia di Savona, dal 2004, offre uno sportello per la creazione
d’impresa denominato CRE.So (Creazione di impresa a sportello), con contributi FSE, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e della Regione Liguria. A questo servizio possono accedere persone non occupate
e occupate che intendono realizzare una nuova idea imprenditoriale nella
provincia di Savona e sono interessate a valutarne preventivamente la fattibilità. Tra i servizi offerti anche la consulenza e la formazione individuali.
La provincia di Imperia ha finanziato nel 2010 attività di FI per un totale di € 107.200 e per un totale di 2140 ore. I corsi trattano tematiche diverse:
dal marketing alla sicurezza, dalla leadership all’informatica, solo per citarne alcune. La provincia di Imperia non è nuova ad interventi formativi
volti alla creazione d’impresa poiché negli anni precedenti ha sviluppato
iniziative come i progetti “Creazione d’impresa - autoimprenditorialità e
lavoro autonomo” e “Creazione d’impresa settore servizi” nel 2006, il progetto “Creazione d’impresa agricola per la valorizzazione e promozione
del territorio” nel 2007 e il progetto “Creazione d’impresa agenzia immobiliare”, nel 2008.
La provincia di La Spezia, con la Camera di Commercio, ha promosso
per il 2010- per il quinto anno consecutivo- il progetto Starter per la creazione d’impresa (con contributi FSE). Il progetto si propone di coadiuvare,
attraverso percorsi personalizzati, la creazione e il sostegno di nuove imprese appartenenti a tutti i settori economici, aventi sede legale e operativa
sul territorio spezzino. La FI è parte integrante dei diversi servizi offerti
dal progetto.
4. Metodologia di ricerca
Come indicato in introduzione, obiettivo del presente lavoro è indagare
le opinioni sulle big five dei diversi attori istituzionali che svolgono iniziative di FI nel contesto ligure. A questo scopo sono state coinvolte le Province, le Camere di Commercio e il BIC Liguria intervistando più persone per
ogni ente. Le interviste della durata di circa un’ora e mezza e raccolte in un
periodo di tre mesi, sono state realizzate con l’ausilio di una check list di ri132
La formazione imprenditoriale in liguria: opinioni a confronto. Il punto di vista degli attori istituzionali
ferimento riportata nella tabella 1. La check list è stata redatta tenendo conto
degli spunti emersi dalla revisione della letteratura, sinteticamente riportata nel paragrafo due. Al fine di arricchire il quadro oggetto di indagine
sono stati raccolti anche dati secondari (materiale pubblicato su siti web,
materiale rilasciato dagli intervistati, depliant esplicativi etc). L’approccio
qualitativo utilizzato ha permesso, a fronte di un limitato insieme di dati,
di catturare prospettive ed interpretazioni diverse attraverso l’interazione
diretta con gli intervistati.
Tab. 1 - Check-list per le interviste
Le domande poste agli intervistati
 Chi dovrebbe imparare?
 Chi dovrebbe insegnare?
 Cosa dovrebbe essere
insegnato?
 Come si dovrebbe insegnare?
 Quale dovrebbe essere il
risultato?
 Come vengono misurati i
risultati della FI?
 Esistono requisiti base per coloro che iniziano un percorso
formativo? Quali sono le competenze, le caratteristiche
personali, le motivazioni che vi aspettate da un
partecipante al corso?
 Quali sono le figure più indicate per trasmettere
conoscenze e competenze? Perché?
 Quali dovrebbero essere i contenuti di un percorso di FI?
Perché?
 Quali sono gli strumenti pedagogici per insegnare
l’imprenditorialità? Esistono metodi e strumenti più
efficaci rispetto ad altri? Perché?
 Qual è l’appropriato mix di teoria e pratica in un percorso
di FI?
 Con quali obiettivi mettete in atto programmi di FI?
 Esistono feed back sui risultati dei programmi attuati?
 Se sì, vi risulta che i vostri programmi abbiano raggiunto
l’obiettivo o gli obiettivi prefissati?
 Nel caso in cui l’obiettivo o gli obiettivi non siano
stati pienamente raggiunti, quali sono state le cause
principali?
5. Le opinioni degli intervistati
Chi dovrebbe imparare?
Secondo gli intervistati i requisiti di base che dovrebbero possedere coloro che partecipano ad un corso di FI for entrepreneurship sono un mix di
caratteristiche personali e competenze tecnico-professionali. Per alcuni,
occorrono competenze tecniche “forti” (per esempio una laurea), competenze maturate nel mondo del lavoro, capacità di problem solving, capacità organizzative e relazionali, capacità di gestire i rapporti interpersonali.
Per altri, sono necessari un buon livello di autostima, spirito di sacrificio,
volontà di sviluppare competenze con continuità, tenacia, propensione al
rischio, creatività e un forte impegno. Gli intervistati della Provincia di Ge133
Stefania Testa e Silvana Frascheri
nova sembrano dare particolare risalto alle motivazioni. Nonostante tra gli
intervistati siano chiari i requisiti che dovrebbe possedere un partecipante
ad un corso di FI, nella realtà non viene effettuata alcuna selezione. Un
intervistato sottolinea come spesso la FI si tramuti in una forma di assistenza fornita a chiunque sia in cerca di un lavoro, non trovandolo come
dipendente.
Ciò appare in contrasto con quanto sostenuto da una parte della letteratura sul tema, già citata nel paragrafo 2.1, secondo cui un fattore critico per
il successo di un programma di FI for entrepreneurship è dato dalla selezione
dei partecipanti.
Chi dovrebbe insegnare?
Dalle interviste è emerso che nella maggior parte delle iniziative di FI
realizzate, la figura prevalente è quella del professionista o del consulente:
commercialisti, consulenti del lavoro, esperti di marketing e comunicazione aziendale, esperti di diritto societario e legale etc. Sono presenti, inoltre,
esperti delle diverse Associazioni di Categoria che forniscono consulenze
su tematiche legate a specifiche aree di attività.
Per un intervistato sarebbe auspicabile “una presenza maggiore di imprenditori in modo da attuare un confronto tra l’aspirante imprenditore
e chi ha già affrontato e risolto determinate tematiche”. Ciò è in linea con
quanto sostenuto da numerosi autori in merito all’importanza della presenza degli imprenditori nell’ambito della FI (Klatt, 1988; Solomon et al.,
1994; Cooper et al., 2004; Kuratko, 2005).
Nessun intervistato ha sottolineato la necessità e l’importanza degli insegnanti di estrazione accademica, in contrasto con quanto invece sostenuto ad es. da Fiet (2001).
Cosa dovrebbe essere insegnato?
I contenuti principalmente citati dagli intervistati riguardano le seguenti
macro aree: competenze manageriali e relazionali, conoscenze del mercato
economico locale, marketing, bilancio e contabilità, informatica ed utilizzo
delle nuove tecnologie, finanza, diritto societario e legale, organizzazione
e programmazione della produzione. Ciò è in linea con coloro che sostengono che i corsi di FI devono essere mirati e centrati sugli aspetti pratici
(Curran e Stanworth, 1989, Liñán, 2004) ed è coerente con il fatto che sono
state indagate esperienze di FI for entreprenurship.
Temi quali la negoziazione, la leadership, il problem solving e lo sviluppo del pensiero creativo non sono emersi dalle interviste, in contrasto con
buona parte della letteratura che li reputa importanti nell’ambito della FI
(Vesper e Mc Mullen, 1988; Hamidi et al., 2008; La Bella, 2009).
134
La formazione imprenditoriale in liguria: opinioni a confronto. Il punto di vista degli attori istituzionali
Come si dovrebbe insegnare?
È convinzione di tutti gli intervistati che i corsi di FI, per essere efficaci,
dovrebbero essere individuali; ad oggi alcuni percorsi sono personalizzati,
con esperienze dirette in realtà aziendali, ma è opinione diffusa che debba
crescere sempre più il numero di corsi one-to-one. Il concetto di percorsi individuali ricorre spesso in letteratura ed è sottolineato da autori quali Sexton e Upton (1984) e Kuratko (2005). Per alcuni intervistati ciò che conta è
esclusivamente la pratica, per altri è necessaria la teoria ma portata in aula
da chi “vive l’impresa” (cioè l’imprenditore). Secondo un intervistato una
sfida per il futuro sarà quella di creare percorsi e servizi di durata molto
breve (“qualche decina di ore”), accanto a percorsi che si possono articolare
anche nell’arco temporale di un anno. Il metodo ad oggi più utilizzato è
quello dei seminari che trattano sia tematiche generali sia tematiche specifiche atte ad approfondire le caratteristiche dei singoli settori. Tutti gli
intervistati sono concordi nell’indicare nel business plan uno strumento essenziale d’insegnamento e non solo un mezzo per consentire agli aspiranti
imprenditori di valutare con oggettività la sostenibilità economica della
propria idea imprenditoriale. Ciò sembra essere in accordo con buona parte della letteratura. Un solo intervistato sottolinea l’importanza della tecnologia come strumento didattico per offrire, per esempio, corsi on line.
Quale dovrebbe essere il risultato?
Per la quasi totalità degli intervistati il risultato primario della FI è “fare
in modo che le persone intraprendano attività che abbiano una continuità
nel tempo, creando lavoro autonomo solido”. È, inoltre, opinione di tutti
gli intervistati che l’obiettivo venga raggiunto nel momento in cui si elimini un nominativo dalle liste di disoccupazione, anche con l’apertura di una
ditta individuale. Alcuni autori tuttavia (si vedano ad es. Carree et al.,2002;
Van Stel e Storey, 2004) mettono in guardia sul fatto che nuovi start-up garantiscono impiego per coloro che avviano l’attività ma non generano necessariamente crescita e sviluppo economico. L’obiettivo descritto dagli intervistati sembrerebbe essere quindi legato a politiche di social welfare e non
necessariamente di sviluppo economico (si veda il lavoro di Dreisler et al.,
2003). Uno solo tra gli intervistati sottolinea l’importanza della FI volta alla
creazione di imprese innovative; non stupisce il fatto che tale contributo
provenga da un responsabile di BIC Liguria la cui mission prevede la promozione dell’innovazione. Un altro risultato spesso menzionato consiste
nello scoraggiare l’avvio di imprese che non riuscirebbero a sopravvivere
sul mercato. Un intervistato afferma: “la riduzione significativa tra i partecipanti in ingresso alla FI e coloro che alla fine del percorso formativo
avviano un’impresa dovrebbe essere un indicatore di qualità e di efficacia
135
Stefania Testa e Silvana Frascheri
del servizio reso e non assumere, come spesso accade, una connotazione
negativa”. Tale affermazione è in linea con quanto sottolineato da Holmgren e From (2005), per i quali è possibile che a seguito di un percorso
formativo alcuni individui non si riconoscano nel ruolo di imprenditore e
scelgano un lavoro dipendente.
6. Considerazioni finali
Il presente lavoro si è posto l’obiettivo di indagare le opinioni sulle big
five dei diversi attori istituzionali coinvolti in iniziative di FI nel contesto
ligure. Esso non intende dare un giudizio di merito sulle opinioni raccolte
quanto piuttosto identificare gli aspetti eventualmente in contrasto con la
letteratura e tra i diversi attori istituzionali, al fine di stimolare nuove riflessioni sull’argomento.
Alcune considerazioni riguardano la domanda “Chi dovrebbe imparare?”. Non sono emersi criteri di selezione che permettano ad alcuni, e non
ad altri, di accedere a corsi di FI. Alcuni intervistati sottolineano l’importanza di requisiti base ma, nella realtà, non sembra siano tenuti in considerazione. La FI rischia così di diventare, come sottolineato da un intervistato, una forma di assistenzialismo e non uno strumento per creare
nuove imprese che non solo sopravvivano ma creino posti di lavoro ed uno
sviluppo economico e sociale.
Altre considerazioni riguardano la domanda “Quale dovrebbe essere il
risultato?”. La quasi totalità degli intervistati non fa riferimento ad aziende con buone prestazioni; alcuni parlano di continuità nel tempo ma non
necessariamente di crescita e sviluppo. Come sostenuto da diversi intervistati non si hanno informazioni di lungo termine sul numero delle aziende
presenti sul mercato nate da imprenditori che hanno seguito percorsi di FI,
né sul numero di dipendenti, né sul loro posizionamento competitivo. Tale
mancanza di valutazioni ex-post non permette inoltre di ridefinire obiettivi, contenuti e metodi della FI. Non sorprende più di tanto che non venga
quasi mai fatto riferimento alla creazione di imprese innovative. Questa
scarsa attenzione all’innovazione sembrerebbe in linea con il trend negativo della regione in termini di prestazioni innovative. La Liguria, infatti,
occupava nella classifica nazionale dell’innovazione la quinta posizione
nel 2005, la settima posizione nel 2006 e la nona nel 2007 (Cepollina, 2008).
Un’ultima considerazione riguarda il fatto che l’“imprenditore di successo” (colui che ha avviato un’azienda in crescita e solida sul mercato)
non sembra passare attraverso i canali istituzionali, come affermato da diversi intervistati. Tale criticità è presumibilmente legata ad un problema di
immagine e di percezione nei confronti delle istituzioni pubbliche; questo
tema, indicato in letteratura con il termine self-selection, è trattato da diver136
La formazione imprenditoriale in liguria: opinioni a confronto. Il punto di vista degli attori istituzionali
si autori nell’ambito della letteratura relativa agli incentivi pubblici alle
imprese e ai programmi governativi (si vedano ad es. Heckman e Smith,
2004; Bannò e Piscitello, 2008; Bannò e Sgobbi, 2009). Sarebbe interessante
approfondire l’argomento in ricerche future e capire le motivazioni per cui
gli imprenditori di successo non tengono opportunamente in considerazione quanto messo a disposizione dalle istituzioni e dagli enti pubblici.
A fronte delle considerazioni fatte, gli attori istituzionali sembrerebbero
avere numerose opportunità da cogliere e realizzare per far sì che la FI
diventi uno strumento per promuovere lo sviluppo economico regionale.
Una soluzione potrebbe essere un’accurata segmentazione di questo particolare tipo di mercato fatto di potenziali imprenditori (che la letteratura anglosassone indica con l’efficace termine di would-be entrepreneurs) in modo
da proporre una FI con obiettivi diversi. Da un lato, aiutare eventualmente
i disoccupati ad avviare un’attività autonoma (sebbene sia paradossale che
si richieda proprio ad un disoccupato, spesso con un back-ground formativo
e sociale molto debole, di svolgere un’attività molto complessa e difficile
quale quella di creare e gestire una propria impresa) e dall’altro, stimolare la nascita di imprese innovative, tenendo conto delle caratteristiche
personali, comportamentali e motivazionali che spingono gli individui ad
avviare un’attività autonoma.
“Ringraziamo tutti coloro che hanno messo a disposizione il loro prezioso tempo per la realizzazione della presente ricerca”
Stefania Testa
Ricercatrice Università degli Studi di Genova
[email protected] [email protected]
Silvana Frascheri
Collaboratrice Università degli Studi di Genova
[email protected]
137
Stefania Testa e Silvana Frascheri
La formazione imprenditoriale in liguria: opinioni a confronto. Il punto di vista degli attori istituzionali
Riassunto
Bibliografia
Lo scopo dell’articolo è quello di indagare le opinioni sulla formazione imprenditoriale
dei diversi attori istituzionali coinvolti in tale attività nel contesto ligure -con particolare
riferimento alla provincia di Genova- sottolineandone gli aspetti di maggior contrasto e
gli eventuali punti di contatto, al fine di fornire nuovi spunti di riflessione sul tema. La
metodologia utilizzata è di tipo qualitativo; la tecnica usata quelle delle interviste. Le
conclusioni evidenziano alcune criticità ed opportunità che potrebbero essere colte da
coloro che, a livello istituzionale, promuovono la formazione imprenditoriale.
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Abstract
Notwithstanding the largely shared view on the importance of entrepreneurship
education and training (EE&T), or maybe also for this reason, a plethora of definitions
and goals have been developed, resulting in an ambiguity in the term. The aim of this
paper is to investigate the different perspectives on EE&T held by the stakeholders
involved in these initiatives at local level, highlighting the points of major contrast together
with similarities in order to provide new insights into the topic. Perspectives have been
collected by means of a qualitative research. The paper is organized as follows: first,
literature about EE&T is briefly reviewed. Second, the research setting is described. Third,
the methodology is introduced. Fourth, the results are discussed. Finally, some conclusions
are provided.
Classificazione JEL: M13
Parole chiave (Keywords): formazione imprenditoriale, attori istituzionali, analisi
qualitativa, Liguria (entrepreneurship teaching; institutional actors; qualitative research;
Liguria Region)
138
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Stefania Testa e Silvana Frascheri
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142
FOCUS FISCALE
Rubrica di novità legislative e giurisprudenziali
riguardanti le piccole e medie imprese
LA (CONTROVERSA) QUESTIONE DELLA DEDUCIBILITA’ DEI
COMPENSI EROGATI AGLI AMMINISTRATORI
di Thomas Tassani
1. Premessa
Lo scorso anno, la Corte di Cassazione è intervenuta sul tema della deducibilità del compenso spettante agli amministratori, con una soluzione
che ha destato viva preoccupazione tra gli operatori, perché particolarmente negativa per i contribuenti. Nella controversia risolta con la ordinanza n. 18702 del 13/8/2010, le parti dibattevano circa la possibilità di
dedurre i compensi degli amministratori di una società di capitali in un periodo diverso rispetto a quello di erogazione. La Commissione Tributaria
Regionale aveva sostenuto tale deducibilità, respingendo la tesi dell’Amministrazione finanziaria che riteneva simili compensi deducibili solo nel
periodo di erogazione, stante il disposto di cui all’art. 62, comma 3, Tuir
(nel testo ante Riforma Ires, che prevedeva che i compensi spettanti agli
amministratori delle società di persone fossero deducibili “nell’esercizio
in cui sono corrisposti”). La Corte di Cassazione ha superato del tutto la
problematica della deducibilità nell’anno di erogazione oppure in quello
di competenza, ritenendo che dalla norma in questione, la quale fa[ceva]
esplicito riferimento ai soli amministratori di società di persone, deriverebbe il principio della indeducibilità tout court del compenso spettante agli
amministratori di società di capitali. Ad avviso della Corte, tale soluzione
interpretativa sarebbe da accogliere in quanto la posizione dell’amministratore di società di capitali è “equiparabile, sotto il profilo giuridico, a
quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua
attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da
quella della società e non ricorrendo quindi l’assoggettamento all’altrui
potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico
della subordinazione”. Così come, dunque, non sono deducibili i compensi
per l’opera prestata dall’imprenditore individuale (e dei familiari partecipanti all’impresa familiare), principio cristallizzato nell’attuale art. 60 Tuir,
Rivista Piccola Impresa/Small Business - n. 2, anno 2011
143
Thomas Tassani
neppure sono deducibili, da parte della società di capitali erogante, i compensi spettanti agli amministratori.
La vicenda interpretativa della deducibilità dei compensi agli amministratori ha però fortunatamente trovato una diversa risposta nella più
recente sentenza n. 24957 del 10/12/2010 della Sezione Tributaria della
Corte di Cassazione, che ha completamente ribaltato la posizione precedentemente espressa dalla stessa Corte nella ordinanza n. n. 18702 del
13/8/2010, con cui era stato affermato, in modo tranchant, il principio della assoluta indeducibilità dei compensi degli amministratori di società di
capitali.
2. La deducibilità dei compensi agli amministratori di società di persone
e di capitali ed il sistema del Testo Unico delle Imposte sui Redditi.
La norma di riferimento, per quanto attiene la deducibilità dal reddito
di impresa dei compensi erogati agli amministratori è, nel sistema vigente, l’art. 95, comma 5, Dpr 917/86, secondo cui “i compensi spettanti agli
amministratori dalle società ed enti di cui all’art. 73, comma 1,” (soggetti
Ires), “sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti; quelli erogati
sotto forma di partecipazione agli utili, anche spettanti ai promotori e soci
fondatori, sono deducibili anche se non imputati al conto economico”.
Tralasciando il profilo della partecipazione agli utili, la disposizione
prevede la deducibilità dei compensi agli amministratori di società di capitali, introducendo la regola della deducibilità “per cassa”.
La disposizione deve ritenersi riferibile anche alle società di persone,
perché inserita tra le disposizioni generali in tema di determinazione del
reddito di impresa, applicabili anche ad imprenditori individuali e società
di persone, come risulta dal rinvio di cui all’art. 56 Tuir.
Nel sistema anteriore alla riforma Ires, vigente fino al 31/12/2003, la
stessa norma attualmente contenuta nell’art. 95, comma 5, Tuir era prevista
dall’art. 62, comma 3, Tuir e faceva riferimento agli amministratori di società di persone. La situazione normativa era però del tutto speculare a quella
attuale, visto che per effetto del rinvio di cui al (previgente) art. 95, comma
1, Tuir, tale disposizione doveva applicarsi anche alle società di capitali.
L’evoluzione normativa conferma che la volontà del legislatore era (ed
è) quella di prevedere la regola della deducibilità secondo il principio di
cassa e quindi di derogare a quello di competenza, per i compensi spettanti
agli amministratori di società, siano esse di persone oppure di capitali.
Il fatto che l’art. 62 prima e l’art. 95 oggi menzionino solo una categoria
di amministratori deriva esclusivamente da una ragione di tecnica normativa, ossia per l’inserimento della norma tra le disposizioni dedicate al reddito di impresa tassato ai fini Irpef (prima) oppure ai fini Ires (oggi).
144
La (controversa) questione della deducibilita’ dei compensi erogati agli amministratori.
Tanto una interpretazione letterale dell’art. 62, comma 3, Tuir (ed oggi
dell’art. 95, comma 5, Tuir) quanto una lettura evolutiva della norma in
esso contenuta, confermano dunque che il sistema del Testo Unico presuppone la ordinaria deducibilità dei compensi erogati a qualunque tipo di amministratori, da parte della società erogante.
E’ quindi possibile affermare che sia prima sia dopo la riforma Ires, il
Tuir n. 917/1986 conteneva la regola codificata nell’attuale art. 95, comma
5, secondo cui i compensi agli amministratori, tanto di società di capitali
quanto di società di persone, erano legittimamente deducibili, seguendo
il criterio della cassa. Questa conclusione era stata invero stata messa in
discussione dalla ordinanza della Corte di Cassazione n. 18702/2010 che,
esaminando il problema in applicazione delle disposizioni ante riforma
Ires, aveva concluso nel senso della assoluta indeducibilità dei compensi
agli amministratori di società di capitali, perché l’art. 62, comma 3, Tuir
(previgente) fa[ceva] esplicito riferimento ai soli amministratori di società
di persone. Per avvalorare simile [originalissima] interpretazione, la Corte
aveva aggiunto che la posizione dell’amministratore di società di capitali
è “equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore, non
essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione
di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società e non ricorrendo quindi l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di controllo e
disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione”.
Tale soluzione, come accennato, è stata sconfessata dalla sentenza della
Corte di Cassazione n. 24957/2010.
Con quest’ultima sentenza, la Corte afferma in modo estremamente chiaro che la norma di cui al previgente art. 62, comma 3, era applicabile anche
alle società di capitali e non solo a quelle di persone e lo stesso, se questo è
vero, deve affermarsi con riferimento all’attuale art. 95, comma 5, Tuir.
Alla luce di quest’ultima sentenza possiamo quindi ribadire che la deducibilità dei compensi agli amministratori di ogni tipo di società è oggi
disciplinata dalla disposizione di cui all’art. 95, comma 5, Tuir.
Il problema della deducibilità dei compensi agli amministratori è tradizionalmente stato quello della possibile individuazione di un limite di ordine quantitativo dei compensi deducibili. Detto in altre parole, prima della
(ora superata) ordinanza n. 18702/10, l’Amministrazione finanziaria non
metteva in discussione la deducibilità in sé, ma il quantum di deducibilità.
In base al principio di inerenza (art. 109, comma 5, Tuir) sono infatti
deducibili tutte le spese sostenute dall’imprenditore (individuale o collettivo) che siano in rapporto di strumentalità, secondo un criterio di ordine
oggettivo, con l’attività di impresa; risultando per contro indeducibili solo
quelle spese che rispondono ad interessi personali o familiari o, in genere,
estranei alla attività di impresa. Da questo punto di vista risulta indubbio
che la tipologia di costi di cui si discute (compensi agli amministratori)
145
Thomas Tassani
La (controversa) questione della deducibilita’ dei compensi erogati agli amministratori.
abbia un normale ed oggettivo rapporto di strumentalità con l’attività imprenditoriale, essendo in via teorica pienamente deducibili.
Secondo una lettura fornita dalla prassi amministrativa e da parte della
giurisprudenza, però, il principio di inerenza esprimerebbe anche la necessità di una valutazione di ordine quantitativo nel rapporto tra spesa ed
attività economica.
Nel senso che una spesa, seppur astrattamente inerente, potrebbe non
esserlo più nel momento in cui supera determinati limiti standard di normalità. Vi è poi una seconda argomentazione a sostegno di simile posizione; quella, cioè, di evitare forme di elusione in quei casi in cui la corresponsione di compensi sproporzionati nasconde, in realtà, una fittizia
distribuzione di utili.
Probabilmente per risolvere a monte tali problemi, nella disciplina anteriore al Tuir n. 917/1986, l’art. 59, comma 3, Dpr 597/73, nell’ammettere
la deducibilità dei compensi agli amministratori soci, la limitava “nei limiti
delle misure correnti per gli amministratori non soci”.
Tale limite di ordine quantitativo non è stato però riproposto nel Tuir n.
917/1986, ed in particolare negli articoli 62, comma 3 (ante riforma Ires) e
95, comma 5 (attualmente vigente), che si limitano ad ammettere la deducibilità in termini generali e a disciplinare il profilo temporale della stessa.
Sono quindi individuabili due filoni nella giurisprudenza degli ultimi
anni. Il primo, secondo cui l’inerenza può essere negata quando l’ammontare dei compensi appare eccessivo rispetto a criteri oggettivi, comparando
cioè il compenso stesso con il valore normale degli stessi, oppure il volume
di affari o il risultato imponibile della società della società o gli utili riconosciuti ai soci (sentenze nn. 20748/2006; 12813/2000; 13478/2001 della Corte
di Cassazione).
Il secondo, in base al quale il compenso agli amministratori sarebbe sempre pienamente deducibile e mai sindacabile in termini quantitativi, vista
l’assenza, nell’attuale sistema, di una norma quale quella di cui all’art. 59,
Dpr 597/73 (sentenze Corte Cassazione, n. 28595/2008, sent. n. 5278/2009,
in passato sentt. nn. 6599/2002, 21155/2005).
tazione di questo tipo l’entità dei compensi agli amministratori.
Detto altrimenti, l’Amministrazione finanziaria non ha “il potere di
ricondurre ai prezzi di mercato previsti per gli amministratori non soci
(prezzi facilmente individuabili) i compensi sproporzionati”.
Non solo ma, nella propria sentenza, la Corte assesta un duro colpo alla
idea di un limite quantitativo insito nel principio di inerenza, affermando
che si deve fare riferimento al profilo della “qualità” del costo piuttosto che
a quello della “quantità”, “proprio perché l’ordinamento riconosce all’imprenditore la libertà di impostare la sua strategia di impresa”.
Il costo è inerente, sostiene la Corte, “se serve a produrre ricavi: una
volta accettata questa qualità del costo, risulta difficile dire in quale misura
esso è deducibile o meno, a mano che non vi sia una indicazione normativa
specifica, che ponga un tetto alle spese: non sussistente allo stato attuale
della legislazione”.
La Corte affronta solo marginalmente la questione della possibile elusività di comportamenti volti a “mascherare” sotto forma di compensi quelli
che in realtà sono utili fittiziamente distribuiti, limitandosi ad affermare
che l’Amministrazione ed il giudice potrebbero, in tali ipotesi, avvalersi
degli strumenti della simulazione e dei negozi in frode alla legge.
E’ senza dubbio apprezzabile che la Suprema Corte non richiami il principio del divieto dell’abuso del diritto e non affermi quindi la indeducibilità, salvo la prova contraria della ragionevolezza economica da parte del
contribuente.
Anzi, nel caso specifico la Corte afferma la non ricorrenza di uno scopo
fraudolento e della fittizia distribuzione.
E’ però possibile che la questione dell’applicabilità del divieto dell’abuso del diritto ad ipotesi come quella in oggetto possa essere il prossimo
fronte su cui si concentrerà l’azione dell’Amministrazione finanziaria, almeno nei casi di soci-amministratori.
Allo stato attuale, tuttavia, la soluzione che emerge dalla più recente
giurisprudenza è senza dubbio favorevole al contribuente, nel senso di una
piena ed incondizionata deducibilità dei compensi corrisposti ad ogni tipo
di amministratori.
3. Il pieno riconoscimento fiscale delle scelte imprenditoriali e contabili
dell’imprenditore
Thomas Tassani
Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
[email protected]
L’ultima posizione della Corte di Cassazione, espressa nella sentenza n.
24957/2010, accoglie l’orientamento della piena deducibilità dei compensi
agli amministratori, peraltro prevalente nella giurisprudenza più recente.
In primo luogo, la Corte rileva la portata innovativa della eliminazione
del limite “quantitativo” contenuto nell’art. 59, Dpr 597/73, da intendersi
nel senso della chiara volontà legislativa di non sottoporre a nessuna valu146
147
Recensioni e segnalazioni
149
Confindustria, Ricerche e Studi – R&S, Unioncamere – Centro
Studi, Medium-Sized Enterprises
in Europe, Capriolo Venturini, Milano, 2010.
The authors present the results
of the first annual survey about
medium-sized European industrial
companies. The interest for medium-sized enterprises derives from
the transformations that have taken place in manufacturing industry
since the 1980s. In particular, more
efficient production techniques
have led to the gradual break-up of
large businesses and the growing
demand for differentiated goods
has promoted flexible production
processes, favouring the development of small and medium-sized
enterprises.
The purpose of the survey
is to gather economic and financial
statistics in order to analyse and to
compare medium-sized firms with
the legal status of limited companies, operating in the main European countries.
This first edition of the survey
covers Italy, Germany and Spain
and is based on 2006 statistics. The
total number of Italian manufacturing MSEs (employees between 50
and 499 and annual sales between
€13m and €290m) is 4,322 firms,
whereas the number of manufacturing firms analysed is 1,472 for
Germany (firms with employees
between 50 and 749 and annual
sales between €13m and €290m)
and 616 for Spain (companies with
employees between 50 and 499 and
annual sales between €13m and
€290m). Interesting similarities
between MSEs in Europe are highlighted in the following: the relative weight of MSEs in the aggregate national economy is high; MSEs
are more oriented towards exports;
the organisational structure of these firms is characterized by the increasing division of labour and the
introduction of the lean production
strategy; they are concentrated in
the most industrialized regions; the
financial structure of these companies shows a relatively high value
of tangible net worth and a small
level of borrowings.
The productive specialization
of MSEs in the three countries is
characterized by some differences:
in Germany 46% of total MSEs’
turnover is produced by mechanical engineering sector; in Italy the
“Italian style” sectors cover 62% of
total MSEs’ sales; in Spain mechanical engineering provides 27% of
total sales and the food and drinks sector generates 24% of MSEs’
turnover. Although there are some
similarities in MSEs’ financial
structure of the three countries,
German and Spanish MSEs are
characterized by a higher degree
of capitalization than the Italian
firms, whereas the share of shortterm borrowings is higher in Italy
than other two countries. The tax
rate is much higher in Italy than in
other two countries: 48.3% in Italy,
against 25.8% in Germany and
25.6% in Spain.
In Germany, MSEs are not equally distributed across the territory;
151
there is clear concentration in the
South and in the West. Almost two
third of German MSEs have between 50 and 249 employees. German
MSEs mainly operate in mechanical
engineering (46%), food and drinks
(13%), personal and household goods (12%), chemical and pharmaceuticals (11,6%). The analysis of
MSEs’ earnings results shows a regional differentiation: MSEs in the
West operate most efficiently with
regard to three profitability indicators (net operating margin per value added, value added per capital
invested, return on investment),
while the counterparts in the North
East realize the lowest profitability.
German MSEs’ tangible capital invested is chiefly financed by
tangible net worth (61.8%), borrowings account for the remaining
38.2%. More than half (55.2%) of total borrowings are short-term debts. The financial capital is invested
for the most part in working assets
(71.4%); fixed assets represent only
29.6% of total tangible assets.
The number of MSEs listed on
the stock market is very low, 7% of
the total. However, Germany has a
higher number of listed MSEs than
Italy (0.4% of the total) and Spain
(2%). Of German MSEs, 402 (27.3%)
are located in large enterprise (LE)
areas, benefitting from business relations with large firms.
In Italy MSEs are mostly located in the North West, North East
and Centre NEC. The majority of
companies (80%) has less than 200
employees. MSEs primarily produce Italian style goods (food and
152
drinks; wood, furniture and tiles;
metal products; machinery and
equipment, domestic appliances;
boats, motor bikes, bicycles and
sports equipment; textiles, clothing
and fashion), accounting for 62.1%
of total sales and 67.4% of non domestic sales.
North West firms appear more
profitable than North East and
Centre NEC companies (in terms
of return on investment, net operating margin per value added, value
added per capital invested). The
highest profitability indicators (net
operating margin per value added)
are recorded by metallurgy and
mechanical engineering firms.
Italian MSEs’ tangible capital
invested is principally financed by
borrowings (57.2%), mostly from
banks. Short-term debts represent
34.6% of total tangible capital invested, while medium-long term borrowings represent 22.6% of total.
Tangible capital is mainly invested
in working assets (63.7%), fixed assets represent 36.3% of total.
2,947 Italian MSEs (66% of total) are located in industrial district
areas, 659 firms (15%) are situated
in large enterprise areas and 847
companies (19%) in other areas.
MSEs operating in ID areas and LE
areas show higher profitability indicators than other firms.
Spanish MSEs are concentrated
in the North-North East area of
Spain. These firms principally operate in the following economic sectors: mechanical engineering, personal and household goods, food
and drinks.
MSEs with better profitability
indicators are the smaller companies (between 50 and 99 employees) and those that operate in Centre, Centre North West and South
East of Spain. More profitable
business sectors are personal and
household goods, chemicals and
pharmaceutical.
Spanish MSEs’ tangible capital
invested is mainly financed by net
worth (59.7%), the remaining part
by short-term borrowings (22.8%)
and medium-long term borrowings
(17.5%). Tangible capital is equally
invested in fixed assets (51.8%) and
working assets (48.2%).
250 Spanish MSEs (41% of total)
are situated in industrial district
areas, 97 firms (16%) operate in
large enterprise areas and 269 companies (44%) in other areas. But
MSEs operating in other areas have
higher profitability indicators than
companies in IDs and LE areas.
Federica Palazzi
153
Ciaràn mac an Bhaird –Brian Lucey ‘Determinants of capital stricture in Irish SMEs’ Small Business
Economics, vol. 35, 2010.
Questo articolo esamina i risultati di una indagine effettuata su
299 piccole e medie imprese irlandesi. Lo studio empirico analizza
le determinanti della struttura finanziaria delle imprese oggetto del
campione.
I risultati dimostrano che alcune
variabili quali l’età e la dimensione dell’azienda, il tipo di proprietà
e le attività intangibili, oltre che le
garanzie collaterali sono importanti determinanti della struttura
finanziaria di queste imprese. Infatti si enfatizza: 1) il crescente uso
di capitale interno come sviluppo
dell’impresa; 2) l’importanza della
disponibilità di garanzie nell’alleviare le asimmetrie informative e
nell’assicurare i debiti finanziari; 3)
il contributo significativo del proprietario dell’impresa attraverso
l’apporto di capitale proprio e nel
garantire con beni propri i prestiti
aziendali.
Dall’ analisi emerge una relazione positiva tra i profitti reinvestiti
e l’età e dimensione dell’impresa a
dimostrare come le imprese fanno
affidamento al capitale proprio nel
loro percorso di vita e sottolinea la
tendenza a evitare l’intrusione nel
proprio business da parte di terzi.
Inoltre il proprietario dell’impresa investe propri fondi personali
o prestiti di amici soprattutto nelle imprese di piccole dimensione
154
e con basso fatturato o è disposto
a prestare garanzie personali per i
prestiti concessi all’impresa.
Un’altra relazione positiva è tra
l’utilizzo di debiti a lungo termine
e la dimensione aziendale. Con la
maturità dell’azienda i beni immobili di proprietà vengono utilizzati
per diminuire le asimmetrie informative attraverso la fornitura di
garanzie nell’assicurare i debiti agli
istituti finanziari.
Si riscontra infine una relazione
negativa tra imprese con un elevato
investimento in Ricerca & Sviluppo
e capitale proprio. Tali imprese, che
crescono velocemente, non hanno
sufficienti risorse finanziarie interne per i lori investimenti e i loro
proprietari sono meno riluttanti
nel cedere il controllo e fare entrare
altri finanziatori nel business, pur
di crescere.
(s.v.)
D. Czarnitzki, H. Hottenrott,
“R&D investment and financing
constraints of small and mediumsized firms”, Small Business Economics, vol. 36, 2010.
Questo lavoro, dopo aver analizzato le difficoltà che le piccole
e medie imprese (pmi) devono affrontare nel reperire fondi interni
ed esterni da destinare ad investimenti in ricerca e sviluppo, propone un modello econometrico con
cui spiegare i diversi fattori che si
frappongono ad un pieno e soddisfacente finanziamento di investi-
menti tradizionali ed investimenti
in R&S. Il modello viene testato su
un panel di pmi tedesche. I risultati indicano che nel caso di investimenti in R&S, la mancanza di liquidità interna rappresenta un forte
limite perché i progetti di R&S difficilmente riescono ad ottenere fondi esterni da investitori e banche (i
quali preferiscono investimenti di
tipo tradizionale, con più garanzie
e meno asimmetrie informative).
A ciò si aggiunge la minore dimensione, che viene associata a
maggiori difficoltà di accesso al credito. Viceversa, il numero di anni
di vita dell’impresa non ha alcuna
influenza sulla sua capacità di realizzare investimenti soddisfacenti,
benché studi precedenti avevano
sostenuto che aziende più giovani
potessero contare su minori risorse
interne ed esterne a causa, rispettivamente, della scarsità di profitti
accumulati in passato e della mancanza di relazioni di lungo corso
con gli operatori finanziari.
(s.a.)
D. Cumming, S. Johan, “The Differential Impact of the Internet on
Spurring Regional Entrepreneurship”, Entrepreneurship Theory
and Practice, September, 2010
Com’è noto ormai a tutti, Internet ha fortemente contribuito a
facilitare la trasmissione di informazioni, la diffusione di cultura
e gli scambi economici. Nel corso
del tempo, inoltre, esso è diventato
sempre più penetrante nelle economie rurali, spesso anche grazie
all’erogazione di sussidi governativi da parte dei vari Stati.
Finora, però, c’è stata una forte
carenza di ricerche in questo campo
e, a tale scopo, il presente articolo si
pone l’obiettivo di studiare proprio
le conseguenze prodotte sull’imprenditorialità regionale dall’ introduzione di Internet.
In particolare ci si chiede quali
sono gli effetti prodotti dall’avvento di Internet nelle comunità rurali
e se si riscontra un impatto differente tra le varie comunità a seconda
della loro dimensione e lontananza. Per dare risposte a questi interrogativi il presente lavoro sviluppa
nuove ipotesi e fornisce diverse
prove empiriche a testimonianza di
come ci siano differenze sostanziali a seconda delle dimensioni della
comunità e delle distanze.
In considerazione di ciò, i risultati della ricerca condotta dimostrano come nelle piccole comunità Internet, geograficamente
remote, si assisterebbe ad un calo
di imprenditorialità, in quanto le
imprese locali si troverebbero a do155
ver affrontare nuovi concorrenti a
livello mondiale e non sarebbero
sufficienti le preesistenti attività
imprenditoriali per poter competere efficacemente; mentre, al contrario, nelle comunità più grandi
l’introduzione di Internet porterebbe ad un forte aumento di imprenditorialità.
della cultura organizzativa per la
competitività delle imprese familiari, specialmente in relazione alla
sopravvivenza e alla redditività
delle stesse.
(f.p.)
M. C. Vallejo, “A Model to Study
the Organizational Culture of the
Family Firm”, Small Business Economics, vol. 36, 2011.
M. H. Morris, J. A. Allen, D. F. Kuratko, D. Brannon, “Experiencing
Family Business Creation: Differences Between Founders, Nonfamily Managers, and Founders of
Nonfamily Firms”, Entrepreneurship Theory and Practice, November 2010.
L’Autore propone un modello
teorico attraverso il quale analizzare la cultura dell’impresa familiare.
I valori specifici e distintivi dell’impresa familiare (commitment, harmony, long-term orientation, customer service), i quali definiscono il
secondo livello della cultura organizzativa, rappresentano il punto
di partenza per il modello teorico
proposto, da impiegarsi al fine di
analizzare e confermare il valore
della cultura organizzativa per generare vantaggi competitivi.
Per la costruzione e la definizione del modello teorico sono state
utilizzate le seguenti teorie: general
systems theory, neoinstitutional theory, transformational leadership theory,
field theory, learning theory, group dynamics theory.
Secondo l’Autore, verificata
la validità empirica, tale modello
rappresenterebbe un efficace strumento per dimostrare l’importanza
Questo lavoro si concentra
sul primo stadio del ciclo di vita
dell’impresa familiare – la creazione del business, fase peraltro poco
indagata dagli studi sul family business – adottando una prospettiva basata sull’esperienza. L’idea è
quella di individuare ed indagare
sul campo quali sono le dimensioni che possono caratterizzare
l’esperienza della creazione d’impresa, nella convinzione che queste
dimensioni possano influenzare i
futuri processi decisionali del fondatore e quindi gli stadi successivi
del ciclo di vita dell’impresa stessa (crescita, successione, gestione
delle dinamiche familiari, ecc.). La
ricerca si propone, infine, di identificare possibili differenze tra le diverse esperienze di fondatori, manager non familiari e fondatori di
aziende non familiari.
Il framework teorico è quello
dell’impresa familiare, ma si ap-
(e.d.r..)
156
profondisce anche il concetto di
esperienza in relazione alla creazione d’impresa e la teoria del capitale sociale.
L’indagine empirica si articola
in 3 fasi. Nella prima, gli Autori,
mediante un lungo lavoro di analisi della letteratura e 650 interviste
rivolte a neo-imprenditori, hanno
individuato 48 espressioni descrittive (aggettivi, frasi o vocaboli)
associabili al concetto di “imprenditorialità come esperienza” (es.
vuoto, divertimento, noia, gioia,
ecc.).Successivamente, è stata condotta una survey su 1500 imprese
familiari per verificare l’applicabilità dei descrittori all’esperienza
degli intervistati (fondatori e manager non familiari). Infine, l’analisi sui fondatori di imprese non
familiari (92 questionari), ha permesso di completare l’indagine.
I risultati dell’analisi fattoriale hanno confermato la possibilità
di caratterizzare l’esperienza della
creazione dell’impresa (familiare e
non) e, in particolare, sono emerse
due dimensioni prevalenti: valenza
positiva/negativa dell’esperienza
e carattere stimolante/impegnativo della stessa. Ulteriori ed approfondite considerazioni suggeriscono come i vari descrittori possono
essere associati alle diverse esperienze e come le due dimensioni
individuate possono produrre effetti, a loro volta positivi o negativi,
sull’impresa, sulla propensione al
cambiamento, sulla soddisfazione
personale.
(a.s.)
157
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All’Autore verrà fatto omaggio di 10 copie del numero della rivista, elevabile ad un massimo di 15
copie in caso di piu Autori.
159
Piccola Impresa | Small Business
Nel numero 3 - 2011 della rivista
compariranno i seguenti saggi:
Cristian Carini
Costs and Benefits of IFRS Adoption in Italian
medium size Entities
Federica Balluchi, Katia Furlotti, Anna Petruzziello
PMI e responsabilità sociale: un’analisi empirica nel
contesto italiano
Piero Mella, Matteo Navaroni, Carlotta Meo Colombo
Apprezzare performance e fitness con l’indice M:
un nuovo framework per le analisi di bilancio
Josée St-Pierre
Influence de la propension au risque des décideurs
sur leurs décisions de gestion
Conti Emanuela
La valutazione della performance strategica
di una piccola impresa: il caso Bartolucci Francesco s.r.l.
s 15,00
Piccola Impresa | Small Business
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c/o Facoltà di Economia
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