IV Mediterraneo - III Sessione
PROSPETTIVE IN GASTROENTEROLOGIA
(Prof. Pallone, Prof.ssa Ciacci, Prof. Vantini, Prof. Stanghellini)
Terapia delle malattie infiammatorie croniche intestinali
Non si conoscono ancora le cause e i meccanismi patogenetici di malattie infiammatorie croniche
dell’intestino (IBD) come il morbo di Crohn e la colite ulcerosa; di conseguenza, non esistono vere
e proprie terapie, mentre si stanno perseguendo alcuni obiettivi terapeutici – oggi in corso di
ridefinizione – come:
1) rallentare la progressione in termini di contenimento dell’estensione e dell’entità del danno
anatomico
2) prevenire le complicanze
3) prolungare la sopravvivenza
4) verificare l’adesione alle terapie prescritte
5) perseguire obiettivi clinici individuali
6) raggiungere una remissione stabile e duratura nel tempo
L’armamentario terapeutico attuale è composto da farmaci come cortisonici, salicilati e, più
recentemente, farmaci biologici come gli anti-TNF, con i quali si è dimostrato un beneficio
significativo almeno temporaneo.
Non è ancora possibile misurare le malattie, il loro decorso per mancanza di un biomarcatore che
caratterizzi la disciplina medica che si occupa delle IBD, soprattutto per i pazienti più giovani,
quindi non c’è un dato esplorabile e misurabile in modo facile per conoscere l’andamento della
malattia. Viene routinariamente misurata solo VES, proteina C reattiva e, recentemente, si sta
misurando qualche marcatore fecale ma con bassi livelli di specificità e sensibilità. Anche
l’applicazione del genotyping a questi pazienti non è utile per la pratica clinica per l’elevato numero
di geni da testare.
La descrizione del decorso delle IBD sono state oggetto di numerose pubblicazioni. Il morbo di
Crohn è stato suddiviso in tre fasi e il razionale del rallentamento è stato confermato. Si possono
avere pazienti con decorso intermittente e periodi con diversa gravità, l’evoluzione è riproducibile
quindi l’inizio della terapia rispetto al momento della diagnosi è cruciale per la diversa tipologia di
lesione. Nell’arco di 10 anni il quadro anatomico e quindi clinico del morbo di Crohn cambia
completamente, la malattia è più aggressiva nella fase pediatrica rispetto a fasi più tardive (età
oltre i 65 anni), in cui è prevalentemente infiammatoria senza fistole e stenosi; tuttavia, in pazienti
anziani non sono consigliabili le terapie con gli anti-TNF.
Per quanto riguarda la colite ulcerosa l’andamento è intermittente, con una forte eterogeneità delle
fasi, il quadro è più semplice da interpretare per scegliere gli obiettivi terapeutici.
Parte dei pazienti con il morbo di Crohn possono essere curati con placebo. Gli studi di confronto
tra placebo e farmaci biologici hanno inizialmente arruolato paziente gravi, ossia quelli che non
rispondevano a nessuna cura, resistenti al cortisone, e in questo gruppo selezionato la
percentuale di remissione con placebo è stata del 18%.
Identificare un obiettivo, il cosiddetto metodo del ”treat to target”, utilizzato in reumatologia, non è
ancora applicabile a queste malattie; infatti, attualmente il giudizio clinico viene quantificato solo
con indici clinici specifici per queste due malattie.
L’obiettivo desiderabile sarebbe la remissione non solo clinica ma sostanziata da un dato
oggettivo. In queste malattie l’unico dato obiettivo è quello endoscopico; tuttavia, la colonscopia ha
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alcuni problemi: frequenza (si può effettuare al massimo tre volte l’anno), poi bisogna stabilire il
grado di penetrazione dell’endoscopio perché nel 61% dei casi la malattia di Crohn colpisce l’ileo
terminale (30-50 cm).
A livello sperimentale, è stato stabilito che il morbo di Crohn non è sempre la stessa malattia
anche dal punto di vista biologico: per esempio, i livelli di TNF sono elevati nella fase iniziale della
malattia e tendono a diminuire nella fase tardiva, e questo può influire sull’efficacia ottenibile con i
farmaci anti-TNF. Inoltre, oggi è possibile una terapia in grado di effettuare un targeting (come, per
esempio, la IL-12 o IL-6), anche se finora il razionale biologico non si riflette nella risposta clinica.
Come conclusione, è oggi chiaro che la terapia biologica delle IBD dovrebbe essere eseguita in
modo combinato, e questo comporta una serie di problemi legati alle indicazioni, alla gestione e ai
costi elevati delle terapie biologiche.
Celiachia e NCGS: che c’è di nuovo
Tra le novità in tema di celiachia possiamo indicare:
La disponibilità commerciale (al momento, solo in Finlandia) di un enzima che rompe il
glutine, quindi la possibilità di una dieta non completamente libera ma che consente
qualche trasgressione. In uno studio di confronto su pazienti trattati con questo enzima,
rispetto a placebo, è stato osservato che con 2 grammi di glutine rimanevano inalterati gli
indici d’infiammazione della mucosa.
La “pillola” contro la celiachia, a base di larazotide. In uno studio clinico di confronto rispetto
a placebo su 342 pazienti celiaci in dieta senza glutine, con tre dosi il farmaco, con un
trattamento di 12 settimane solo la dose più bassa ha dato un beneficio, con la riduzione o
scomparsa del 50% dei sintomi rispetto al basale un e aumento del 14% dei giorni senza
sintomi.
Larazotide è un anticorpo che blocca l’apertura delle tight junctions, quindi il farmaco è proposto
anche per la NCGS (Non Celiac Gluten Syndrome) così come per tutte le malattie in cui si ipotizza,
come meccanismo di base, l’aumentata permeabilità, presente in numerose patologie come
sindrome del colon irritabile, malattie autoimmuni, etc.
L’allergia al grano (legata a una frazione diversa da quella del glutine) si può esprimere non solo
come respiratoria, soprattutto perché crociata. Il problema diagnostico di questa allergia deriva
dalla mancanza di test attendibili perché non esistono antigeni appropriati. La malattia ha una
prevalenza del 2% nei bambini (prick test), del 0,4% negli adulti come sui sintomi riferiti e del 2%
sulla sensibilità (Boyce et al., 2010).
La NCGS non ha ricevuto ancora un consenso circa la denominazione a livello internazionale,
perché non c’è consenso sull’agente alla base dell’intolleranza, si presenta con un ampio spettro di
sintomi che, comunque, sembrano scomparire a seguito di dieta senza glutine. Dolori addominali,
gonfiori, gonfiore alle dita, confusione mentale, anemia sideropenica sono alcuni sintomi elencati
durante le consensus conference che si sono tenute su questa condizione clinica.
I criteri diagnostici si basano sull’esclusione di marker per la celiachia, allergia al grano,
immunodeficienza, assenza di danno intestinale e scomparsa dei sintomi con dieta senza glutine
(unico parametro positivo) (Sapone et al., 2012). L’incidenza varia dal 6% in un ambulatorio
specializzato allo 0,55% nella popolazione generale, al 30% dei pazienti con colon irritabile. Alcuni
di questi pazienti potrebbero essere anche celiaci in base ai marker specifici, anche i test genetici
potrebbero essere negativi (così come gli anticorpi) per la celiachia, i sintomi potrebbero essere
presenti nonostante la dieta. I primi casi registrati risalgono al 1980, in cui si era riscontarta una
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quantità leggermente superiore di anticorpi antiglutine. E’ stato osservato che la permeabilità
intestinale e la IL-17 è aumentata nei celiaci, la cliadina è aumentata solo nei celiaci, ma non nei
pazienti NGCS, quindi vi è una differente espressione di questi marcatori nelle due situazioni
cliniche. Questi dati supportano l’evidenza di anomalie della componente innata della risposta
immunologica.
Gli studi di Villanacci et al. hanno mostrato infiltrati cellulari di linfociti e neutrofili in tutti i pazienti
con NCGS; tuttavia, uno studio in corso su un gruppo di 16 pazienti con NGCS e 69 pazienti
celiaci non ha evidenziato particolari alterazioni nella mucosa (Bucci et al., 2013). Nell’animale è
stato identificato il ruolo di sostanze denominate ATI (inibitori della alfa-amilasi/tripsina) contenuto
nel grano e la loro possibile funzione è attualmente oggetto di studio.
Uno studio clinico ha dimostrato che in tutte le scale di valutazione dei pazienti con sindrome del
colon irritabile con dieta senza glutine, rispetto a placebo, scompaiono i sintomi, ma è stato poi
osservato che nella fase di run-in erano stati sottratti alimenti con zuccheri non fermentabili,
aspetto che potrebbe aver influito sulla scomparsa dei sintomi (Biesiekierski et al., 2013).
No Effects of Gluten in Patients with Self-Reported Non-Celiac Gluten Sensitiv ity
Following Dietary Reduction of Low-Fermentable, Poorly-Absorbed, Short-Chain
Carbohydrates
Jessica R.Biesiekierski, Gastroenterology
2013
Randomizzati 22
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Inoltre, questi alimenti possono provocare anche dispepsia, sintomo riconosciuto della NGCS.
Uno studio retrospettivo di Carroccio et al. (2012) su quasi 1000 pazienti con varie sensibilità a cui
è stato eliminato il grano ha evidenziato, oltre alla scomparsa dei sintomi, che il 30% di loro era
celiaco occulto e nel 66% vi era diagnosi di allergia vera e propria; tuttavia, nel 4% dei pazienti i
sintomi non erano spiegabili.
Occorre notare che i pazienti classificabili con la NGCS hanno, in genere, vari tipi di restrizioni
alimentari, oltre agli alimenti a base di grano.
In conclusione, la sensibilità indicata come NGCS esiste ma questa sindrome richiede ancora
molte ricerche per la maggior parte dei suoi aspetti, compreso il problema di stabilire se si basa su
glutine/grano/FODMAP, e le possibili complicanze a distanza.
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Carroccio , AJG 2012
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La pancreatite autoimmune
La pancreatite autoimmune (PA) è stata identificata recentemente come entità clinica e si
distinguono due caratteristiche:
- non si comprendono bene i meccanismi immunitari coinvolti nella patogenesi
- risponde drammaticamente alla terapia steroidea
La PA è una malattia rara, riscontrata nel 4% dei pazienti con pancreatite cronica ma, soprattutto,
si stima che il 40% delle pancreatiti croniche non siano classificabili come idiopatiche bensì come
autoimmuni.
Quindi si può assumere, per inquadrare questa malattia, un “sistema duale” in cui sono
distinguibili:
a) due tipi anatamo-patologici
b) due tipi di coinvolgimento di organo
c) due tipi clinico-patologici e di imaging
d) due tipi di presentazione cliniche.
La combinazione di tutte queste dualità può fornire la visione della malattia.
Il tipo 1 (il più frequente) di PA è caratterizzata da intensa flogosi multiorgano (con plasmacellule
IgG4 positive) che interessano il tratto biliare e altri organi. Il tipo 2 è sempre di tipo duttale ma con
infiltrazione granulocitaria periduttale e periacinale ma senza fibrosi, con rotture secondarie dei
dotti pancreatici, associata solo nel 30% dei casi a colite ulcerosa (Zamboni G et at, 2004).
Dal punto di vista della dualità della presentazione clinica, può essere focale e mass forming (con
il 60% di ittero) e diffusa (lieve) (con il 25% di ittero). Soprattutto nella forma focale il 15-20% dei
pazienti viene sottosposto a resezione della testa del pancreas per sospetto di cancro.
Altra caratteristica è la risposta chiara agli steroidi, che può far ridurre significativamente la massa,
aspetto che esclude il cancro.
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Quindi, i pazienti si possono presentare o con ittero con mass forming o diffusa (“atipica”); la
malattia si può associare ad altri disordini o a colite infiammatoria, e la risposta agli steroidi, le
calcificazioni, diabete e steatorrea sono infrequenti. La PA di tipo 1 (70-85% dei casi)) è una
malattia sistemica IgG4 positiva, sclerosante linfo-plasmacitica, con ricorrenze nel 40% dei casi
circa, mentre il tipo 2 (15-30% dei casi) è IgG4 negativa, centrico-duttale idiopatica, non recidiva
(Chari et al., 2012). Tuttavia, la IgG4 non può essere usata come marker diagnostico di PA perché
non ha un ruolo fisiopatologico distintivo (Frulloni et al., 2003).
L’eziologia e la patogenesi della PA è ancora sconosciuta, ma è caratterizzata dalla presenza di
anticorpi e da anomalie delle cellule T, e si ipotizza che il meccanismo sia bifasico: induzione e
progressione (Schweiger et al., 2014).
Nel 2011 sono stati definiti i criteri diagnostici per differenziare i tipi di PA, con due livelli di
probabilità. Per il tipo 1 i criteri si basano sull’imaging parenchimale e duttale, sierologia,
coinvolgimento di altri organi, istologia e risposta agli steroidi; per il tipo 2 i criteri si basano su
quelli indicati per il tipo 1, tranne la sierologia (Shimosegawa et al., 2011). Quindi, il gold standard
per la diagnosi è il pieno spettro delle variazioni patologiche ma il 27% dei casi può non essere
diagnosticato in assenza di biopsia chirurgica.
Oltre alla clinica, l’imaging basato su ecografia con mezzo di contrasto (CEUS), o su
ecoendoscopia con citologia (EUS) - anche se non può escludere la presenza di cancro contribuiscono alla diagnosi differenziale tra PA e cancro (D’Onofrio et al., 2006).
In figura è riportato l’algoritmo internazionale in caso di presentazione di ittero ostruttivo e lesione
focale (PA tipo 1), considerando che deve essere effettuato il trattamento con steroidi.
Diagnosis of Type 1 Autoimmune Pancreatitis
Algorythm in patients with mass or jaundice
Nella figura successiva è riportato l’algoritmo per il tipo 2.
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Per quanto riguarda i trattamenti, per il tipo 1 si distingue una terapia di attacco iniziale, e una di
mantenimento con sospensione degli steroidi, e un’indicazione in caso di recidiva (Gut 2013; 62:
1373-80), tuttavia sono in corso esperienze con azatioprina come terapia di mantenimento,
rituximab in caso di recidiva (Hart et al., 2013) e future prospettive terapeutiche prevedono
l’impiego di rapamicina (Seleznik et al., 2014).
Approccio costo-efficacia al paziente con dispepsia
La dispepsia è un disturbo dello stomaco, viene descritta da alcuni come un dolore o un senso di
peso del cibo ingerito col pasto. Il disturbo interessa dal 10 al 20% della popolazione generale,
escludendo le patologie da reflusso.
Nel 75% dei casi la gastroscopia risulta normale ed è importante avere chiara la definizione di
dispepsia. A tale scopo sono stati indicati i criteri diagnostici di Roma III:
- ripetitive eructations
- post prandial fullness
- epigastrial burning
In alcuni casi può essere riscontrare la presenza di Helicobacter pylori (Hp) che va eradicato. Tutti
i principali studi osservazionali realizzati in varie parti del mondo portano a concludere che
l’anamnesi è fondamentale nella gestione dei pazienti con dispepsia e verificare se:
- i sintomi sono solo postprandiali (la maggior parte dei pazienti)
- i sintomi sono solo epigastrici
- se vi è sovrapposizione tra i due
In base a queste tre possibilità si potrà poi decidere quale farmaco usare, quindi è importante
assumere un atteggiamento molto costo-effettivo.
In circa il 20-60% dei casi i pazienti hanno una malattia non riconoscibile con la gastroscopia, ed è
quindi opportuno procedere con altre indagini. Può essere opportuno fare una antitransglutaminasi
nel work-up del paziente per verificare la presenza di celiachia che si può manifestare a volte con
sintomi gastroduodenali, può essere opportuno indagare per la presenza di diabete, per
neuropatie periferiche, oppure gastroenteriti virali che si protraggono nel tempo, allergie (e non
solo alimentari), soprattutto nei pazienti giovani.
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L’età d’insorgenza della dispepsia è importante, soprattutto dopo 50 anni è fondamentale
effettuare un work-up completo dato l’alto rischio di cancro, una gastroscopia a questa età risulta
“cost-effective”.
A due anni dall’eradicazione dell’Helicobacter pylori generalmente si ha un miglioramento dei
sintomi ma non in tutti i casi.
Come nel colon irritabile (presenza di numerosi mastociti), anche nella dispespia ci sono differenze
istopatologiche nel duodeno (presenza di numerosi eosinofili), indicando una leggera
infiammazione e un’aumentata permeabilità della mucosa e di contatto fra il contenuto acido e il
sistema immunitario e nervoso. Quindi i pazienti devono essere curati con antinfiammatori e
antiallergici, oltre ai PPI o procinetici.
Per distinguere la patologia da reflusso (GERD) dalla dispepsia è fondamentale l’anamnesi, ossia
la possibile localizzazione del dolore epigastrico o il bruciore.
In sintesi, i percorsi fisiopatologici della dispepsia sono diversi e, in base ad una buona anamnesi,
è possibile orientarsi sul trattamento farmacologico più appropriato.
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