Lettera aperta
Cara, vecchia amica,
viviamo in questi tempi di rapido progresso e tutti ci chiediamo come
facessimo prima, come si poteva gestire la vita quotidiana senza
computer, senza internet, senza telefonino e senza tutte le acquisizioni della tecnologia avanzata.
Come potevamo fare prima!
Come si scriveva, quando la nostra scrivania era occupata da
una vecchia macchina da scrivere, quasi sempre nera, ma a volte
verdina, con tasti scuri e lettere bianche. Quella macchina da scrivere
di 60/70 anni fa, oggi relitto preistorico di epoche remote. Epoche
nelle quali si cambiava il nastro sporcandosi le dita di inchiostro, si
scrivevano le parole pigiando forte sui tasti, e invidiando chi riusciva
a farlo con tutte le dita della mano, riservando l’uso del pollice alla
barra spaziatrice.
La macchina occupava gran parte del piano di lavoro e lasciava
poco spazio per la messa in ordine e lo studio degli appunti scritti
con la penna. E ad ogni “tic” la parola sembrava librarsi nell’aria per
ricadere, poi, e andare a stamparsi sul foglio bianco, avvolto attorno
al rullo di gomma. Ad ogni fruscio di “tic” il carrello ondeggiava e
si spostava con movimenti ritmati e armoniosi, come in una danza.
All’inizio del secolo scorso era una vera e propria rivoluzione,
mal digerita dai calligrafi: e già! Perché esisteva una vera professione, quella del calligrafo: una persona seria, colta, capace di scrivere
bene, con la penna da intingere nel calamaio di inchiostro e in grado
di vergare il foglio con caratteri eleganti. Una figura professionale
arrivata direttamente dal Medio Evo e sopravvissuta sino alla metà
del secolo ’900, triste e fantastico nello stesso tempo.
Poi lo sviluppo della meccanica portò, negli uffici e successivamente nelle case, la meravigliosa e utile macchina da scrivere.
Come al solito l’inizio debuttò fra mille difficoltà. Del resto non
mancava chi pronosticava tempi duri, come era stato per
l’automobile nei confronti della carrozza tirata da cavalli.
In seguito le perplessità si trasformarono in resistenza. Il calligrafo aveva intuito la propria fine al ritmo dei tasti della diabolica
macchina da scrivere e, naturalmente, non si rassegnava a farsi da
parte. Non si capacitava ad immaginare un mondo diverso da questo,
in cui la copia era un documento vero e proprio, impossibile da ottenersi, perché egli veniva obbligato a scrivere da capo tutto il documento, premettendo al vecchio testo la dicitura “copia conforme”.
I calligrafi si ritenevano eterni, con le loro mezze maniche, messe lì per limitare il danno sulle camicie bianche delle macchie vaganti di schizzi di inchiostro. Ma il progresso avanzava a colpi di dita sui
tasti e quella professione veniva accantonata negli archivi dei vecchi
mestieri. Un magazzino grande dove finivano le foglie fatte volare
dal vento del progresso. Mi pare di vedere gli scaffali di quel magazzino. Ecco lì abbandonati e trascurati: i calligrafi, gli acquaioli, gli
stradini, le ricamatrici, gli scalpellini, le tessitrici al telaio, i cestai, i
cordai, gli agronomi, gli stagnini.
A questo punto ho ripensato a te, mia cara vecchia Lettera 22
della Olivetti. Ho pensato a te anche se sei finita in cantina, tra vestiti
vecchi e faldoni gonfi di carta.
Ti vedo quando in un caldo pomeriggio del 1959 ti portò da me,
imballata, nuova fiammante, un giovane agente della Olivetti, con il
quale condividevo una camera in affitto, al n. 3 di Piazza Castello, a
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Milano, proprio di fronte alla grandiosa roccaforte Sforzesca. Portavi
in dote, perché acquistata da un dipendente, l’esclusivo e introvabile
disco vinilico a 33 giri Musica Per Parole, che insegnava a scrivere
con tutte le dieci dita, sulle onde di simpatiche e ritmate note musicali, scritte ad hoc: quei motivetti, allegri e divertenti, mi parvero di
buon auspicio per il mio e il tuo futuro.
Eri nuova di fabbrica e fresca, pronta ad affrontare il tuo destino, mentre io ti aspettavo, pervaso da una forte dose di giovanile entusiasmo, perché stavo percorrendo i primi timidi passi verso un
nuovo, interessante e promettente impiego.
Da allora siamo cresciuti insieme. Quante ore ho trascorso con
la schiena curva su di te, fiducioso nel sicuro risultato del nostro impegno congiunto, convinto di potermi costruire con la tua collaborazione un futuro migliore, aiutandoci sempre vicendevolmente, lealmente. Tu ora riposi piena di orgoglio e serenità per aver assolto egregiamente il lavoro per cui eri nata; io, sono qui ad aspettare che
qualcuno valuti con benevolenza il mio operato e che sopraggiungano, anche per me, atti di riconoscenza, come quelli che sto io manifestando nei tuoi confronti.
In attesa che si compia, lentamente, anche il mio destino!
Ma, ahimé, mi sto facendo sopraffare dalla malinconia. Smetto,
perché non voglio proprio ora dispiacerti. Bando, quindi, ai soffocanti fumi della nostalgia.
Voglio sempre ricordarti come eri allora, con il tuo solito piglio
fermo, in ottimo stato, con il tuo carrello lucido, il tuo nastro rosso e
blu, i tuoi tasti luccicanti mossi da lunghe leve di metallo, quasi simili alle zampe di fenicottero, a testimoniare un felice passato, quello
della mia e tua gioventù.
Ho fisso davanti a me il colore verdino pallido della tua carrozzeria, quando racconto ai giovani d’oggi la favola della tua comparsa
come oggetto rivoluzionario nella mia vita e leggo nei loro occhi un
profondo, indescrivibile stupore.
Loro non possono immaginare la carica innovatrice che portasti
tra noi ragazzi, ai tuoi tempi, del piacere che avevamo a battere sui
tuoi morbidi tasti collegati a lunghe leve che si muovevano come le
zampe dell’uccello “dalle ali rosse”. Restano sbigottiti quando tento
di spiegare loro come si facevano le copie con la carta carbone e la
velina.
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Il tempo passa… Alla parola carbone i giovani pensano alle favole sulla Befana, cui contrappongono le forme rotonde delle giovani
veline. Per loro la velina rappresenta oggi una ragazza durante la sua
sensuale esibizione televisiva, proprio antitesi della Befana; per noi
era semplicemente un foglio di carta trasparente, il quinto, sul quale
era possibile ottenere la più evanescente delle copie.
Come è cambiato il tempo! Ma passa e cambia, per tutti.
E anche le veline di carne finiranno, prima o poi, come quelle di
carta, nel magazzino dei mestieri spariti.
Cara Lettera 22, scusami questo sfogo e le inevitabili vene nostalgiche, quando si parla del passato. Tieni presente che anche se sei
finita in un angolo di cantina, per me sei sempre la migliore amica e
collaboratrice preziosa. Certamente anch’io, prima o poi, dovrò mettermi da parte, perché così è l’ineluttabile evoluzione dei tempi.
Però ti garantisco che lotto ancora con le unghie e con i denti e
cerco di resistere.
Tu stai tranquilla! A tramandare il tuo ricordo mi prenderò cura
io!
Assumo un impegno preciso nei tuoi confronti: d’ora in avanti
spenderò il resto della mia vita e tutte le mie forze per fare in modo
che il tempo non affoghi nell’oblio il ricordo di te, del disinteressato
ed esclusivo aiuto che in tanti lunghi anni di lavoro mi hai docilmente donato.
Ti sono sempre riconoscente.
Umberto
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LE ORIGINI DELLA SCRITTURA
Fin dai tempi più antichi l’uomo ha sentito l’esigenza di trasformare un messaggio verbale in segni, da poter essere letti o interpretati dagli altri. Fu questa la spinta che fece nascere la “scrittura”.
L’importanza che i popoli dell’antichità attribuivano alla scrittura era
tale che quasi tutti la considerarono un dono degli dei.
Gli Egizi pensavano che fosse stata data agli uomini da Toth, dio della saggezza, mentre gli Indiani ritenevano che fosse opera di Brahma.
Per i Cinesi, fu il dio Fohi a inventare la scrittura, componendone i
segni con i denti di un drago.
Anche gli Ebrei credevano fermamente che la loro scrittura fosse sacra. Si legge infatti nella Bibbia: “Mosè ritornò e scese dalla montagna, con in mano le due tavole della Testimonianza, tavole scritte sui
due lati, da una parte e dall’altra. Le tavole erano opera di Dio, la
scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole”.
Gli uomini capirono presto i vantaggi della scrittura, perché essa
consentiva:
- di avere un modello di lingua, evitando che le varietà del linguaggio parlato ne distruggessero l’unità, faticosamente raggiunta;
- di conservare il messaggio verbale nel tempo e di poterlo trasmettere a distanza, con la certezza che fosse correttamente
compreso.
Il pensiero umano all’inizio fu fissato col semplice disegno.
I documenti più antichi lasciati dall’uomo sono le incisioni rupestri
trovate in alcune grotte o su ampie lastre rocciose, ispirate quasi
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sempre dalle attività principali dei nostri antenati: la caccia, la pastorizia o i lavori agricoli.
La pittura presso i popoli primitivi sostituisce la scrittura.
Gli antichi abitanti di Valcamonica sapevano leggere solo testi figurati come questa scena di lavoro agricolo (forse del secolo VIII a.c.).
Anche la prima forma di scrittura fu basata sul disegno. Furono i
Sumeri in Asia e gli Egizi in Africa (circa 5000 anni fa) ad usare per
primi la scrittura pittografica.
Essa consisteva nel rappresentare un oggetto disegnandolo.
C’erano però dei problemi. Non tutte le cose, infatti, potevano essere
rappresentate facilmente con un disegno. E, poi, come riprodurre
con un disegno idee e sensazioni? E come rappresentare discorsi
complessi e articolati? Infine, un ultimo inconveniente, forse determinante: quanto tempo occorreva per fare tutti quei disegni!
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Si sviluppò così un’altra forma di scrittura: la scrittura ideografica.
Accanto ai disegni che raffiguravano degli oggetti se ne crearono altri, dal significato simbolico, che si riferiva a idee, azioni, entità astratte: gli ideogrammi.
Più ideogrammi, dunque, potevano combinarsi tra loro e formare
nuovi segni grafici capaci di rappresentare nuovi concetti, anche
molto complessi.
Gli antichi Egizi furono tra i primi ad usare un sistema ideografico,
inventando la scrittura geroglifica. Per il suo valore sacro (geroglifico significa, infatti, “incisione sacra”) e, anche, per la sua complessità, pochissime persone potevano servirsi di questo tipo di scrittura:
i nobili, i sacerdoti e gli scribi.
Esempio di scrittura geroglifica
Quasi contemporaneamente (poco prima o poco dopo: la disputa è
ancora in corso) in Asia furono i Sumeri (che abitavano il paese che
oggi si chiama Iraq) a servirsi di un tipo di scrittura ideografica.
Questa scrittura è detta cuneiforme, perché composta da segni che
hanno appunto la forma di cunei
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Esempi di tavolette di argilla con scrittura cuneiforme
I segni venivano incisi con un bastoncino (lo stilo) su tavolette di argilla cruda, fatte poi asciugare al sole. Questa scrittura fu adottata in
seguito da altri popoli dell’Asia (Accadi, Assiri e Hittiti) e divenne il
sistema più diffuso nella Mesopotamia, la regione compresa tra i
fiumi Tigri e Eufrate.
Ai nostri giorni, alcuni popoli dell’Asia, come i Cinesi, usano ancora
sistemi di scrittura ideografica.
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Dai disegni primitivi agli attuali caratteri cinesi
Circa tremila anni fa, alcune popolazioni del Vicino Oriente introdussero nel sistema di scrittura un’innovazione che lo modificò definitivamente. Non più un gran numero di disegni, ognuno corrispondente a un’idea o a un oggetto, ma una serie di pochi segni essenziali
che rappresentavano ciascuna una sillaba o un suono.
Questi sistemi, chiamati sillabico o alfabetico, permettono di rappresentare, con la combinazione di quei segni, tutte le parole di una lingua.
Furono i Fenici, popolo di navigatori e di commercianti, a diffondere
in tutta l’area del Mediterraneo il loro alfabeto, che tuttavia non conosceva ancora le vocali.
I Greci, a loro volta, derivarono l’alfabeto da quello fenicio, mantenendo quasi immutati nomi e forme delle lettere, ma aggiungendone
di nuove per indicare le vocali.
A quello greco si ispirarono l’alfabeto etrusco e poi quello latino, ancora oggi usato in quasi tutto l’Occidente. Fanno eccezione i Greci,
che conservano il loro antico alfabeto e alcuni popoli slavi (Russi,
Ucraini, Serbi, Bulgari), che usano l’alfabeto cirillico.
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Dai segni ideografici all’alfabeto latino
L’era moderna
Col passare dei millenni, mentre la scrittura si diffondeva tra
tutte le Civiltà, sia pure con sistemi diversi, la capacità di scrivere era
riservata a pochissimi esperti, con l’impiego di mezzi costosi, ingombranti e privi di praticità.
Nel XV secolo l’introduzione in Europa del torchio tipografico, a caratteri mobili, fu uno dei più grandiosi progressi nella comunicazione, perché permise per la prima volta di produrre più copie dei testi.
La prima stampa a caratteri mobili si attribuisce ad un geniale tedesco di Magonza a nome Johann von Gutenberg (1450), seguito pochi
anni dopo da Jacopo da Fivizzano, in una graziosa cittadina sulle colline della Lunigiana.
Grazie alla produzione in massa di libri, giornali e libelli, le idee e le
informazioni incominciarono a circolare, tanto che si può dire che il
torchio tipografico fu il primo strumento della comunicazione di
massa: però non poteva essere utilizzato dai singoli, perché richiedeva un’organizzazione di uomini, di attrezzatura e di mezzi finanziari.
Per questo l’Era Moderna, tra l’altro, spinse l’uomo a impegnarsi
nella ricerca affannosa di uno strumento agile, veloce, snello e acces10
sibile alle masse, azionabile facilmente e singolarmente da parte
dell’emergente flusso di possibili utenti. Solo in questo modo si sarebbe potuto riuscire a superare e velocizzare le insormontabili barriere del tempo e dello spazio.
Come vedremo, la ricerca di un nuovo mezzo di scrittura è stata molto lunga e laboriosa, ma, infine, è riuscita a dare all’umanità un attrezzo sufficientemente comodo e semplice, attraverso il quale ogni
individuo con un minimo di manualità poteva ottenere una scrittura
chiara, elegante e uniforme, “stampata” nelle proprie case e con le
proprie mani.
Era nata l’idea di creare una macchina per scrivere!
La prima vera macchina da scrivere (vera, perché agile, veloce, utilizzabile da tutti ed economica) comparve nel 1867, e negli anni 20
era ormai diffusa negli uffici di vari paesi del mondo.
L’invenzione permise di scrivere in modo non solo chiaro e leggibile, ma anche in modo più veloce della scrittura manuale; infatti con
quest’ultima è difficile superare le 20 parole al minuto, mentre una
dattilografa esperta può agevolmente arrivare fino a 120 parole al
minuto.
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Olivetti M20
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Cenni di storia della macchina da scrivere
I precursori
Si può affermare che il primo vero tentativo, di cui si ha conoscenza, unanimemente riconosciuto, di costruire una macchina per
scrivere, che sostituisse la comune scrittura a mano, risale al 1575 ad
opera del tipografo ed editore italiano, attivo a Venezia, Francesco
Rampazetto, il quale progetta un congegno meccanico con l'intento
di permettere ai ciechi di comunicare tra loro e con altri. Era un meccanismo rudimentale costituito da pezzi di legno a forma di cubo,
portanti caratteri in rilievo, mossi da una serie di asticelle e formati
da puntine metalliche che forando il foglio lasciavano incise le lettere.
Si ha poi notizia che nel 1714 l'ingegnere inglese Henry Mill ottenne dall’ufficio Brevetti Britannico la registrazione di una macchina da scrivere, di cui, però, non si hanno notizie precise.
Nel 1779 Wolfgang von Kempeten, consigliere di corte a Vienna, costruì una macchina per scrivere ad uso del figlioccio cieco
dell’Imperatrice Maria Teresa.
Nella prima metà del secolo successivo gli studi ed i tentativi si
intensificano, da parte di appassionati, particolarmente in Europa, e
principalmente nei territori del nord Italia, ed in quelli occupati
dall’Impero Austro/Ungarico. Citiamo i più noti:
- nel 1808 il nobile Pellegrino Turri di Castelnuovo, in provincia di Reggio Emilia, realizza una macchina che scrive. Il Turri è ricordato principalmente quale inventore della carta carbone.
- nel 1823 Piero Conti di Cilavegna (Pavia), tentò la realizzazione di una macchina capace di scrivere meccanicamente. Non ri13
sulta che portò a compimento la sua opera.
- nel 1829 si ebbe conoscenza del primo interessante tentativo
avvenuto nel Nuovo continente (USA): l’americano William Austin
Burth, aveva ottenuto la registrazione di un brevetto di macchina a
Washington. Era un attrezzo denominato “Typographer” (tipografo) .
Per gli anni successivi, per non tediare il lettore, ci limitiamo ad
una rapida carrellata delle iniziative, in ordine cronologico, anche se
a volte le notizie raccolte sono inevitabilmente vaghe:
- nel 1832 si cimenta nel settore il tedesco Barone Karl von
Drais, un ispettore forestale di Baden-Baden, che inventa una piccola
macchina stenografica. senza fortuna; legò invece il suo nome ad
un’altra invenzione, ben più riuscita, ed esattamente quella della
”Laufmaschine”, il velocipede o bicicletta.
- nel 1833 il marsigliese Xavier Progin, si impegna in questo
settore e viene principalmente ricordato quale inventore della leva
portacaratteri.
- nel 1839 un altro francese, Pierre Foucauld, non vedente, ricevette in dono da un suo amico (il nome è sconosciuto) una macchina per comunicare tra persone menomate nella vista, chiamato “Raphigraphe”. Portava solo dieci leve, disposte a ventaglio, ma non si
conoscono altri elementi.
- nel 1843, un americano Charles Grover Thurber, originario di
Worcester, costruì due modelli ai quali diede i nomi di “Patent
Printer” e “Mechanical Chirographer”.
Negli stessi anni, tra il 1830 e il 1840, uno studioso italiano, Celestino Galli di Carrù, in Piemonte, figlio del farmacista della città,
dà notizia di aver inventato una macchina da scrivere, simile ad un
clavicembalo, che chiamò Potenografo (dal greco (?) potenos, “che
ha le ali”).
I modelli proposti da questi geniali personaggi, aggiungono sempre nuove idee nella ricerca di apparecchi atti a sostituire la scrittura
manuale. Essi però non hanno fortuna e quindi rimangono tutti senza
successo, perché solitamente si tratta di macchinari estremamente
complessi, rumorosi ed a scrittura non visibile da parte dello scrivente.
Si giunge così al 1855. A questo punto merita una trattazione
particolare l'italiano, avvocato e notaio di Novara, Giuseppe Ravizza,
perché il 1° settembre ottiene un attestato di privativa (brevetto) dal
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competente Ufficio di Torino per un modello di macchina a cui dà il
nome di Cembalo scrivano, che, per le sue caratteristiche tecniche e
meccaniche, può essere considerato il prototipo delle moderne macchine da scrivere. Infatti rispondeva ai criteri di praticità e velocità di
scrittura richiesti.
Contemporaneamente, ma in altra zona d’Europa, e precisamente a Parcines, piccolo paese del Sud Tirolo, a quell’epoca in territorio
austriaco, si consuma e naufraga uno dei più seri tentativi di costruire
una macchina per scrivere da parte di Peter Mitterhofer.
Continuiamo nella rapida carrellata di ingegnosi personaggi
dell’epoca impegnati nella ricerca di un nuovo strumento di scrittura.
Nel 1856 l’americano Alfred Ely Beach presenta la “macchina
per scrivere su banda”, derivata dai sistemi telegrafici stampanti.
Nello stesso anno John Cooper, pure americano, inventa una
sua “macchina per scrivere”.
Ormai il problema era diffusissimo sia nel Vecchio che nel
Nuovo continente e perciò molti si cimentavano nel cercare di risolverlo, anche se con risultati deludenti.
L’anno dopo (nel 1857) si buttò nella mischia anche Samuel
Francis, che brevettò una macchina molto simile al “Cembalo scrivano” del Ravizza.
Prima di chiudere la rapida e opportuna nota su i personaggi che
in vario modo hanno speso parte della propria vita per giungere a
realizzare una macchina per scrivere, non possiamo trascurare di parlare di Rasmus Malling-Hansen, pastore danese, direttore
dell’Istituto reale per sordomuti. Egli, dato il suo incarico, aveva notato che con le dita si potevano riprodurre dodici segni fonetici in un
secondo, mentre con la scrittura a mano solamente quattro. Si dedicò
allora alla costruzione di uno strumento meccanico che aumentasse
la velocità di scrittura. Lo chiamò “palle di scrittura” (Skrivekugeln)
e nel 1867 ne fece costruire circa trecento esemplari, venduti in Danimarca, Francia, Germania ed in Austria, qui col nome di Szabel. E’
proprio questa la prima macchina da scrivere prodotta in serie, di cui
si ha notizia. Ma, ahimè, anche la “palle di scrittura” era pesante e
ingombrante, e quindi fu rapidamente superata da iniziative più pratiche.
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La produzione industriale
Più fortunato e più bravo di tutti fu l'americano Christopher Lathan Sholes (nato in Pennsylvania – USA) che nel 1867 costruisce e
brevetta una macchina, prima in legno e poi in metallo, molto simile
a quella di Ravizza, che sottopone a migliorie e perfezionamenti, avvalendosi della collaborazione dei tecnici Samuel W. Soulè, di Carlos Glidden, del finanziatore James Densmore Charles Weller ed infine del finanziere James Densmore che a sua volta associa
nell’impresa il commerciante George Washington Newton Yost. Con
questi validi collaboratori vengono apportate nell’arco di pochi anni
significative e interessanti migliorie al progetto iniziale.
L’anno 1874, viene ceduto l’utilizzo dell’ultimo modello per la
costruzione di mille macchine alla Remington Arms Company di
Ilion, che produceva già armi e macchine per cucire.
Remington Standard, Mod. 10. Anno 1908
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Underwood anno 1901,
dotata di meccanismo Wagner.
E' considerata la meglio
riuscita dell'inizio secolo.
Nel corso della produzione dei mille pezzi (collocata all’interno
del reparto dove venivano costruite macchine per cucire) la società
elimina con i propri tecnici molte imperfezioni ed avvia la produzione su larga scala, dopo avere acquistato dai vecchi soci tutti i diritti.
L’anno dopo la concorrente Underwood rileva il brevetto
dell’americano di origine tedesca Franz Xavier Wagner, che aveva
progettato un “cinematico” a battuta frontale e costruisce la prima
macchina con scrittura visibile, chiamata Calligrafo. Con l’impiego
del nuovo meccanismo del Wagner nasce il primo vero prototipo del17
la moderna macchina da scrivere, rimasto quasi immutato per circa
un secolo.
Nel 1880 comparve sul mercato statunitense il modello Caligraph n. 1 e fu seguito subito dal n. 2, dotato di una doppia tastiera:
una per le lettere maiuscole e l’altra per le minuscole. Non era stato
ancora adottato il tasto per le “maiuscole”. Nel 1884 la Hammond
produsse un modello con tastiera curva e ruota porta-caratteri intercambiabile, per ottenere con la stessa macchina la scrittura di carattere diverso. Nel 1893 la Blickensderfer introdusse un nuovo meccanismo di battitura dotato di cilindro porta-caratteri, anche questo intercambiabile.
Il primo grande scrittore che adottò entusiasta l’uso della scrittura a macchina di cui si ha notizia, fu l’americano Mark Twain, che
durante un viaggio a Boston vide per la prima volta una macchina in
funzione e se ne innamorò.
La donna e la macchina da scrivere
La diffusione della macchina da scrivere negli uffici ebbe un
impatto rilevante nel mondo sviluppato. Beneficiarie impreviste furono le donne perché la dattilografia, in cui l’elemento femminile era
più adatto, costituì un’opportunità di lavoro a tempo parziale in quegli ambienti in cui inizialmente l’uso a tempo pieno delle macchine
da scrivere non era ancora previsto. E’ ben noto che l’inventore americano Christopher Latham Sholes faceva esercitare la figlia Lilly
a scrivere a macchina, con i suoi modelli, nel salotto di casa: fu
senz’altro questa la prima dattilografa in assoluto. Quindi
l’introduzione della dattilografia offrì alle donne un’opportunità di
lavoro impensabile, portandole, finalmente, in una posizione più vicina a quella dell’uomo.
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L'Italia e la Soc. Olivetti
Solo nel 1908 ad opera dell’ing. Camillo Olivetti, viene costituita a Ivrea la Soc. An. Ing. Camillo Olivetti, che nel 1911 produce
le prime macchine denominate M1. Questa società si affermerà rapidamente sul mercato mondiale con i suoi modelli M20 (1920),
M40/1 (1930), M40/2 (1933), M40/3 (1935) e la prima Olivetti Portatile nel 1932, con il nome di “MP1”. A fine Ottocento l’ing. Camillo aveva insegnato per alcuni anni all’università di Stanford (California), dove si era recato al seguito del suo insegnante torinese Galileo
Ferrarsi, e dove era venuto a conoscenza delle tecniche moderne di
produzione industriale
Nel 1911, in occasione dell’Esposizione Universale di Torino,
Camillo Olivetti presenta i primi due esemplari della Olivetti M1.
Nello stesso anno vince la prima importante commessa di 100 macchine per il Ministero della Marina e nel 1912 si assicura anche
un’importante fornitura per il Ministero delle Poste. La pubblicità fu
affidata a Teodoro Wolf Ferrari, che in un grosso cartellone presenta
una severa figura di Dante Alighieri indicante una sobria immagine
della macchina.
La macchina Olivetti M1 fu realizzata in modo solido e stabile,
ogni suo albero era registrabile in parecchi punti, un lusso meccanico
che venne abbandonato negli altri modelli. Per comprendere la complessità e l’onerosità di questo modello va sottolineato che occorrevano 25 giorni di lavoro per produrne un solo esemplare. Di conseguenza dal 1911 al 1920 ne furono prodotti solo 6000 pezzi (il numero di serie inciso nel basamento indicava nelle prime due cifre l’anno
di costruzione). Solo nel 1920 fu prodotta la seconda macchina col
nome di M20, con caratteristiche costruttive in alcune parti innovative.
La Olivetti, pur avendo iniziato la produzione solo nel 1911, in
ritardo rispetto alle ben già affermate case statunitensi Remington e
Underwood, si fece rapidamente apprezzare per la qualità del prodotto ed anche per i prezzi di listino. L’intraprendenza del fondatore
Camillo, prima, e del figlio Adriano, dopo, portarono ben presto la
società al livello delle principali concorrenti. Entrambi ebbero
l’intuizione e l’abilità di avvalersi della collaborazione di valenti pro20
fessionisti.
La Olivetti produrrà in seguito numerosissimi modelli, tra i quali la Lexicon e la Valentine, che rispettivamente negli anni ’50 e negli anni ’70 avranno il privilegio di essere collezionati nel Museo
d'Arte Moderna di New York, soprattutto per il loro “design”. Il disegnatore della Lexicon e di altri modelli Olivetti fu l’ing. Marcello
Nizzola, già noto oltreoceano per avere realizzato nel 1926 il cartellone pubblicitario per il Bitter Campari. La Valentine fu stilizzata da
Ettore Sottsass Jr. che portò in Olivetti una chiara ventata di modernità, sia per i colori (bianco, rosso, verde e blu brillanti), e sia per la
sua nuova forma e il materiale impiegato (plastica invece del metallo).
Olivetti Valentine, prodotta nel 1969, disegnata da Ettore Sottsass Jr.
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Le iniziative minori in Italia
A proposito dell’industria italiana delle macchina da scrivere
è opportuno dare uno spazio, peraltro ampiamente meritato, alla società ANTARES, con sede a Milano in via Serbelloni, 14 e stabilimento a Calò di Besana in Brianza, Milano, agguerrita concorrente
della Olivetti per la produzione esclusiva di portatili. I due modelli in
netto antagonismo furono: la “Antares 20 Efficienc e la Valentie.
Collateralmente si svilupparono altre case italiane, come la Invicta e la SIM di Torino, che entrarono nel mercato nel 1920 e vi rimasero con modesto successo sino alla seconda Guerra Mondiale, la
Lagomarsino, la Singer, la Littoria ed altre di poco rilievo. La fabbrica che invece ebbe molto seguito, per la qualità superiore delle sue
macchine, fu la “Serio” di Crema, con il marchio Everest.
Everest portatile, prodotta dalla Serio di Crema
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Antares 20 Efficiency, anno 1969
Anima di questa iniziativa industriale fu l’ing. Eliseo Restelli,
cremonese di nascita e milanese di adozione, che fu chiamato a dirigere la Serio, avendo già avuto alcuni anni di esperienza nel settore
della progettazione, realizzazione e commercializzazione di macchine da scrivere. Per il suo impegno nel settore e per i favori incontrati
dalle sue macchine, il bravo dirigente della Serio ottenne la Laurea
honoris causa conferitagli nel 1954 dalla Sequoia University di Los
Angeles.
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Ma, ahimè, la forte concorrenza della primaria azienda nazionale e mondiale Olivetti, convinse i soci della Serio a cedere gradualmente la propria produzione; così nel 1969 si operò la fusione delle
due società. La Dirigenza di Ivrea decise, quindi, di affidare allo stabilimento di Crema un ruolo strategico per la produzione di nuovi
modelli.
Il colpo mortale
La fine senza scampo per le macchine da scrivere fu decretato
dall’avvento di Bill Gates, con il suo Personal Computer.
Quindi il colpo mortale per la vecchia macchina da scrivere e il
definitivo passaggio della stessa tra gli oggetti d’archeologia industriale, arrivò proprio dalla diffusione dei sistemi della Microsoft,
che pose gradualmente l’uomo o l’utente al centro dei sistemi informativi. Basta riflettere che nel 1982 il “computer”, com’ è noto, fu
portato sull’altare e definito la “persona dell’anno”.
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Nascita di un Museo della macchina da scrivere
Come nasce la mia passione per la macchina da scrivere è ben
spiegato nel mio libro “Il Tasto Magico”. E’ stato pensando a Gaeta,
a Antronapiana, a Novara, ai vari servizi svolti all’interno della Banca Commerciale Italiana che gradatamente e sempre più intensamente è affiorato, nel mio intimo, un senso di amore e di riconoscenza
per questo strumento.
Il mio istinto di collezionista ha fatto il resto.
Da ragazzo raccoglievo insieme ai miei fratelli, più grandi di
me, il giornalino “L’Intrepido”; per l’ansia di leggerlo, andavamo a
comperarlo direttamente alla Stazione Ferroviaria di Caserta, la domenica pomeriggio, per averlo appena veniva aperto il plico arrivato
da Napoli.
Durante la guerra iniziai a raccogliere monetine lasciate o perse
dalle truppe tedesche che stazionavano a Caserta, mimetizzate sotto i
monumentali e secolari platani del vialone Carlo III. Dopo la guerra
aggiunsi, alla mia minuscola raccolta, le monetine degli alleati, inglesi e americane, e a dieci anni avevo già riempito un astuccio metallico di Formitrol (pasticche per combattere il mal di gola) con monete di varie nazioni, per non parlare della inevitabile raccolta di
francobolli, comune a tutti i giovani di quella generazione.
Da qui il passaggio fu breve.
Dopo le esperienze di Caserta, Gaeta, Antronapiana, Novara e
Milano, acquistai personalmente, nel 1959, la Olivetti Lettera 22, di
colore verdino pallido, che costituì il primo esemplare della mia collezione di macchine.
Da allora, quando capitava di trovare vecchie macchine, le tesorizzavo. Dalla Banca di Sesto San Giovanni, quando le macchine
meccaniche furono rimpiazzate dalle Audit Olivetti e dalle calcolatrici elettriche Multisumma, mi feci autorizzare a tenere per me una
Everest con inserimento automatico, la Facit a manovella, e della Olivetti due calcolatrici a manovella, la Lexicon 80, nonché la Summa
Prima 20 elettrica.
Senza accorgermi, ben presto mi trovai in possesso di una cinquantina di pezzi, tra cui due Olivetti M20, una M40, due Underwood, tre Remington, due Adler, una Royal di inizio secolo ’900, e an25
che una Mignon di fine ’800. Tutte perfettamente funzionanti. Alcune mi venivano regalate da parte di amici, venuti a conoscenza della
mia raccolta.
L’evento che segnò una vera svolta, si verificò nel mese di dicembre dei primi anni Ottanta.
Mi arrivò una telefonata strana, da parte di un uomo che si presentò come Walter, il quale disse di essere venuto a conoscenza della
mia piccola raccolta. Era la vigilia di Natale. Mi chiese di poterla vedere, perché anche egli aveva lavorato molto sulla macchina da scrivere.
Io, anche se ero molto impegnato per gli inevitabili e gradevoli
auguri della vigilia di Natale, fui incuriosito dalla richiesta e mi prestai a fissare con il personaggio un appuntamento presso la mia abitazione, dove nello studio privato avevo allestito una piccola mostra
delle macchine più significative.
Alle 15,30, puntualmente, dal balcone vidi parcheggiare sotto
casa un vetusto furgoncino Ape 50 della Piaggio. Si aprì lo sportellino del guidatore e uscì prima una lunga barba bianca, seguita da un
vecchio, vestito alla buona, con in mano una busta di plastica gialla,
della Esselunga. Si muoveva a fatica, ma aveva un portamento molto
dignitoso e deciso.
Io lo scrutavo dal balcone con incredulità, perché non volevo
credere che fosse quello l’uomo della telefonata. Invece bussò proprio alla mia porta. Era quindi lui.
Lo feci accomodare nello studio con fare circospetto e incuriosito nello stesso tempo. Ci presentammo e lo sconosciuto confermò di
essere Walter. Si fermò come incantato di fronte alle Olivetti, alle
Facit, alle Underwood, alle Royal, alle Remington, alle Adler, e di
tanto in tanto sfiorava qualche tasto, con estrema delicatezza.
Non parlava ed io, per non distrarlo, tacevo a mia volta, seguendo con stupore ogni suo movimento. Egli stringeva sempre nella mano destra la borsa di plastica, come se nascondesse un tesoro. La mia
sorpresa cresceva sempre più ed ero come impietrito davanti a quel
personaggio.
L’uomo guardava e si lisciava la lunga barba bianca, che scendeva sino a sopra le ginocchia, quasi a volere trovare maggiore concentrazione.
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Williams 1 coupé, 1891, prodotta a Brooklyn, NY
Dopo avere passato in rassegna attentamente l’intera collezione,
emise un grosso sospiro, aprendo la bocca rossa e mettendo in evidenza una dentatura sana, ma mal curata, e disse: “Bravo! Non mi
aspettavo tanto! Auguri per il Santo Natale e per il futuro della tua
iniziativa! Sono venuto a portarti un omaggio, spero proprio che tu
voglia accettarlo!”.
Parlava in un chiaro italiano, con inflessione lombarda ed era
molto serio e determinato.
La mia sorpresa diventò irrefrenabile. Cosa mai poteva avermi
portato dalla Esselunga quell’uomo mai visto, mal vestito, che girava
con un furgoncino Ape, ma garbato e sensibile?
A quel punto egli aprì la borsa e ne trasse una macchina da scrivere, rigorosamente antica e nera, che non avevo mai visto prima.
Aveva la forma di una farfalla, con due cestelli di leve a forma di ali
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messe di fronte alla tastiera; e i martelletti, muovendosi come zampe
di cavallette, battevano sul rullo centrale, che rappresentava il corpo
della farfalla. Non era provvista di nastro inchiostrato; i caratteri riuscivano a scrivere perché appoggiati direttamente su un cuscinetto
inzuppato di inchiostro. Il foglio girava intorno al rullo, ma avendo
poco spazio veniva convogliato, accartocciandosi, all’interno di due
avvolgimenti metallici.
Con la sua voce robusta e cavernosa, data la sua avanzata età,
Walter mi spiegò che si trattava di una Williams, costruita a Brooklin, N.Y., nel 1891, in soli 1647 esemplari. E aggiunse di conservarla bene, perché si trattava di un pezzo raro.
Tutto mi sembrava come un fantastico sogno: la sua improvvisa
apparizione, la sua voce forte e decisa, il suo inatteso ed inspiegabile
regalo.
Rimasi come paralizzato con la bocca aperta nel dire qualcosa.
Non feci in tempo a chiedergli niente: chi lo aveva mandato?, come
si chiamava?, come dovevo ricompensarlo? Velocemente aveva già
guadagnato la porta e uscito nella strada, salutandomi con un gesto
affettuoso della mano.
Chi era mai quell’uomo?
Corsi al balcone per fare appena in tempo a vederlo ripartire con
la sua vecchia Ape, di gran carriera come sospinto da un forte alito di
vento.
Quando mi ripresi dallo stupore era già lontano.
Quell’uomo non poteva essere altro che Babbo Natale, venuto a
portarmi il più importante dono da me mai ricevuto.
Non lo vidi mai più, né mi chiamò più al telefono.
Tentai anche una piccola indagine tra parenti ed amici per scoprire se si era trattato di uno scherzo da loro messo in scena per farmi
un regalo tanto gradito.
Ma non approdai a nessun risultato.
Quell’evento, quella persona, quella situazione mi convinsero a
proseguire nella mia raccolta, ed iniziai ad esporre le macchine in un
appartamentino di proprietà, a disposizione di chiunque avesse piacere di vederle.
Era nato il mio Museo.
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Cenni riassuntivi - Associazione Culturale Umberto Di Donato