porthos24 (56-85) B-N 19-05-2007 17:52 Pagina 58 Opus One Winery mónon tò kalòn ?gaqón (“solo ciò che è bello è buono”) san Paolo: Panta dokimazete, to kalon katechete, o ti kalòn fìlon aeì: “bello è ciò che ci è caro”. Il meglio accade di rado. Jeffrey Eughenides, Middlesex. 58 Milano ha le sue belle giornate, che sanno sorprendere chi la visita raramente. Dalle rannicchiate finestre del ristorante filtra una luce trasparente, nitida, che sottolinea i contorni delle poltrone e dei tavoli. I camerieri si aggirano cauti, tengono le bottiglie come fossero di fine cristallo, dosano accuratamente il vino nei bicchieri, s’inginocchiano per controllare i livelli. Le signore dell’organizzazione, eleganti e cortesi, sorvegliano tutto, ci siamo quasi. Su alcuni piedistalli, defilati rispetto alla platea, troneggia il protagonista della giornata, materializzato in diversi formati e annate. Lentamente prendono posto gli invitati, mentre al tavolo centrale si schierano gli uomini di Opus One. Inappuntabili nei loro completi scuri, chiacchierano sottovoce e sorvegliano tutto, anche loro. Nel tentativo di rompere il ghiaccio, David Pearson, gran capo dell’azienda, saluta i giornalisti convenuti, aggiungendo che alla fine della giornata potranno acquistare tutto il vino che vorranno, si accettano carte di credito. Il ghiaccio, invece di rompersi, gocciola nelle schiene dei presenti, qualcuno sorride imbarazzato, eppure la renitenza dei giornalisti all’acquisto dei vini dovrebbe essere nota anche negli USA. Alla fine della giornata, per fortuna, nessuno si ricorderà più della battuta, i portafogli sono salvi. Uno dei tormentoni dell’Italia del vino è il marketing applicato al liquido odoroso. Il ritornello è sempre lo stesso: molti Italiani sanno fare buoni vini, pochi sanno venderli. E giù con i pareri degli esperti, dei consulenti, di quelli che ce l’hanno fatta, di quelli che vorrebbero. La storia di Opus One sembra tratta dai manuali di marketing. Gli ingredienti ci sono tutti: gli illustri padri fondatori, la visione della qualità, il matrimonio tra vecchio e nuovo, il prodotto unico e lussuoso, la ricerca dell’equilibrio, l’attenzione ossessiva per il look. Infine, il cobranding che diventa mito, grazie ad una pubblicistica accorta e mai volgare. Chi sentisse parlare, in un corso di strategia d’impresa o nel bar sotto casa, di “creazione di un’immagine culturale del vino”, avrebbe nel caso Opus One l’esempio più chiaro. Conoscerlo è un punto d’arrivo, perché dietro c’è una storia. Recente quanto si vuole, ma ci sono i luoghi, i fatti e le persone. E la capacità di raccontare il tutto, con sobria grandeur francocaliforniana. Oggi la proprietà di Opus One Winery è divisa equamente fra la bordolese BPHR (Baron Philippe Rothschild) S.A. e l’americana Constellation Brands Inc., che ha acquisito la Robert Mondavi Corporation nel 2003. Le tormentate vicende delle aziende facenti capo a Robert Mondavi, fondatore di Opus One W. con Philippe De Rothschild nel 1979, sembravano aver messo in forse la continuazione dell’esperienza, anche perché l’accordo di vendita fra Mondavi e Constellation B. prevedeva che le controparti delle Joint-Venture del gruppo Mondavi, fra cui appunto i De Rothschild, potessero esercitare un’opzione di acquisto del restante 50%. Da qui le ipotesi formulate all’epoca sul futuro di Opus One: tutto agli americani, tutto come prima, tutto ai francesi. In quest’ultima variante, c’era chi ipotizzava porthos24 (56-85) B-N 19-05-2007 17:52 Pagina 59 porthos24 (56-85) B-N 60 19-05-2007 17:52 Pagina 60 addirittura un restyling dell’etichetta, con la cancellazione del profilo di Robert Mondavi. In realtà, nel settembre del 2005, quando ormai il gruppo Robert Mondavi ha un posto stabile nella struttura di Constellation B., la baronessa Philippine, erede e continuatrice del papà, il barone De Rothschild, dice sì alla continuazione della partnership. Ci sono subito alcune novità. La prima è la scelta di un unico responsabile per la cantina e i vigneti, a sostituire la gestione condivisa di Tim Mondavi, figlio di Robert, e Patrick Leon, enologo di Château MoutonRothschild. La seconda è che la vendita di Opus One fuori degli USA è affidata a negociant bordolesi. Il perché lo spiega il responsabile delle pierre, Roger Asleson: «Questo sistema è stato usato da Château Mouton-Rothschild per diverse generazioni e ha funzionato bene per praticamente tutti i migliori châteaux del Medoc. Opus One ha una tradizione di innovazione, così ci tenevamo molto a continuare a essere pionieri, la prima azienda vinicola californiana a essere distribuita così su tutti i mercati fuori degli USA». In altre parole, distinguersi per vendere sempre meglio. A proposito di vendite, alla Opus One W. fanno 300.000 bottiglie l’anno di un solo vino e le vendono tutte, ad un prezzo che, secondo Jarue Manning, professore all’Università di Davis in California, «is outrageous at $129 to 169 for the current release». Fatte le dovute moltiplicazioni e sottrazioni, si può avere una stima dei ricavi di un’azienda ostinatamente monoprodotto, che orgogliosamente non diversifica. Segno ulteriore che l’idea avuta dai due fondatori è ritenuta ancora valida. Si narra che Robert Mondavi e Philippe De Rothschild non abbiano faticato ad intendersi, pur nelle tante differenze: l’italo-americano rampante, alfiere di una California in crescita tumultuosa, il colto e raffinato francese, campione dell’aristocrazia vinicola bordolese. Quest’ultimo, solo qualche anno prima della nascita della JV, sembrava distante dal concepire un vino made in USA. Intervistato dalla rivista Time nel 1972, il Barone affermò, in sintesi, che i grandi vini, per sviluppare il carattere, devono vedersela brutta, passando attraverso difficoltà come la neve, le tempeste e la siccità. Un calvario difficile da vivere in California, dove il suolo e il clima sono così favorevoli, dove «tutto è troppo perfetto». Il risultato era un vino «industrially uniform, like Coca-Cola». Da qui a Opus One la distanza non è breve, ma le logiche del business sembrano averla colmata. Al di là dell’aneddotica, la sostanza è innegabile: un vino progettato a tavolino, di grandi ambizioni, voluto fortemente come il risultato dell’incontro fra due realtà ritenute complementari. Nel corso della giornata, i manager di Opus One torneranno spesso su questo incontro fra nuovo e vecchio mondo, a rimarcare con forza il radicamento dell’identità aziendale. Basata, ancora oggi, sulle intuizioni dei due fondatori, che avevano pensato proprio a tutto. A cominciare dal nome, che presenta caratteristiche distintive dei brand più efficaci: inconfondibile, non necessita di traduzioni, evoca scenari di grandiosità e di unicità. Un nome dal suono così altero e magnificente aveva bisogno di un tempio, che i due fondatori si sono premurati di erigere, qualche anno dopo la nascita della Joint-Venture. A Oakville, California, sorge la cantina di Opus One, sebbene il termine cantina sia un tantino fuori posto. A metà fra un mausoleo e un’astronave, ricorda tanta architettura monumentale del passato, ti aspetteresti di vederne uscire delle vestali, o dei guerrieri aztechi, o Russel Crowe in costume da gladiatore. La ricercata eleganza degli interni non è slegata dalla funzione: la sala degustazione, ad esempio, è affacciata sulla Grand Chai, una barricaia sotterranea dove sono disposte, ad anfiteatro, centinaia di botti tutte uguali. Curiosamente, un commentatore statunitense definisce “understated” proprio la sala di degustazione, perché fruibile da pochi eletti. In più, aggiunge lo stupito giornalista, probabilmente abituato ai ben diversi flussi di visitatori in altre aziende della zona, i posti auto sono solo 28. L’etichetta merita un discorso a parte. Proprio a Philippe De Rothschild è attribuita l’intuizione di trasformare l’etichetta di una bottiglia di vino in un’opera d’arte. Oggi anche l’ultima delle cantine affida le proprie etichette all’ispirazione di artisti e affini, ma il Barone era un precursore: nel 1924 incaricò Jean Carlu di realizzare uno speciale design per l’etichetta del vino Château Mouton-Rothschild di quell’anno, il primo ad essere imbottigliato direttamente dallo chateau, anche questa una piccola rivoluzione. Dal 1946 ad oggi, le etichette d’artista sono diventate una tradizione dello Château, che vanta la collaborazione di firme illustri: Dalì, Mirò, Chagall, Picasso, Bacon, Cocteau. L’etichetta di Opus One, attribuibile con tutta porthos24 (56-85) B-N 19-05-2007 17:52 Pagina 61 probabilità a uno schizzo dello stesso De Rothschild, ritrae i profili stilizzati dei due fondatori, una vera e propria griffe, facilmente replicabile persino sulle spillette. Non è quindi un caso che l’incontro odierno si svolga da Marino alla Scala, locale dove si respira Trussardi prima ancora di entrare. Questione di stile e di vicinanza, la moda produce lusso e immagine e Opus One non è da meno. Nell’America del fatto a macchina, i manager di Opus One esaltano l’handpicking1 ed il lavoro manuale in genere. Ci spiegano, ad esempio, che le stesse persone che potano fanno poi la vendemmia. Un modo per responsabilizzare, aumentare il focus sul prodotto e sulla qualità. E’ ovvio che tanta attenzione si paga, ma qui di crisi non si parla. Neanche per sbaglio, come conferma Asleson: «Noi siamo fortunati a essere nella stessa fascia di quei produttori di vini di lusso internazionali per i quali inventari in eccesso non sono un problema. In anni specialmente forti, le nostre allocazioni (scorte?) si vendono totalmente in poche settimane dall’uscita. In anni meno forti, finiamo per dire di no a un minor numero di persone, ma ancora dobbiamo dire di no più spesso di quanto vorremmo». E’ il sogno di tutti i venditori, i rapporti di forza si ribaltano, altro che clienti da blandire e convincere. Si capisce quindi perché i padroni di Opus One abbiano deciso di lasciare la briglia sciolta. E’ ancora Asleson che parla: “Riconoscendo il bisogno per Opus One di rimanere unico, Constellation ha convenuto con BPHR che l’azienda opererà in indipendenza in tre aree chiave: amministrazione, vendite e gestione dei vigneti/produzione del vino.” Un’indipendenza che “Scotty” Barbour, responsabile delle vendite, ci spiegherà essere importantissima, poiché non si può vendere Opus One a chiunque. I padri fondatori, nel loro progetto, avevano ovviamente pensato anche ai vigneti. L’affabile Pearson se la cava con poche parole, fidando probabilmente nella sontuosa cartella stampa. Le uve che danno vita a Opus One vengono da tre vigneti; il primo fu un appezzamento di 14 ettari chiamato To-Kalon (Block Q), venduto da Robert Mondavi alla nascente Joint Venture nel 1981. Quasi una dote, non fosse per i soldi. To-Kalon. Il Bello. L’ambizione comincia dal nome. La storia invece comincia intorno al 1870, quando Hamilton Walker Crabb fonda la To-Kalon Winery a Rutherford, in quella che oggi è la Oakville & Rutherford Area, California. Negli anni a seguire la cantina di Crabb si espande, acquista fama e guadagna premi. Famoso per le sue sperimentazioni, sia varietali, sia anti-fillossera, Crabb produce un Cabernet rinomato e uno strano “Black Burgundy”, che altro non era se non Refosco. E si lascia andare a inneggianti profezie: “Whoever lives a half a century hence, will find the grapes of California in every city of the Union; her raisins supplying the whole Western hemisphere; her wines in every mart of the globe, and then, with her golden shores, her sunny clime, her vine-clad hills and plains, will California, indeed, be the Vineland of the world.2” Alla sua morte, nel 1899, la proprietà va ad un banchiere di nome Churchill, che nel 1902, un anno prima di morire, ne cede 20 acri3 al Department of Agriculture, a scopi scientifici. Oggi quei terreni sono la Oakville Field Station dell’Università di Davis. Prima la moglie e poi il figlio di Churchill continuarono ad occuparsi dell’azienda, ma sulla loro strada incontrarono il Proibizionismo, tante vicissitudini e qualche truffatore. Nel 1937 la parabola dell’azienda era ormai al termine e l’incendio che, nel 1939, distrusse gli edifici, è definito “anticlimactic”. Nel 1943 la famiglia Mondavi, che già produce fiumi di vino, pur senza possedere vigneti, compra la Charles Krug Winery, avviando una strategia espansiva che porterà lontano. Nello stesso anno la famiglia Churchill vende To-Kalon ad un dinamico quarantenne di nome Martin Stelling. Membro del Bohemian Club, è ritenuto un precursore del “varietal”, uno che fece da esempio ai viticultori californiani dell’epoca, perché credeva nell’uso di varietà qualitativamente superiori, a discapito di quelle maggiormente in uso. Nella California del tempo, dove le cantine sembravano fare a gara per dimensioni e volumi di produzione, fare vino “varietal”, cioè ottenuto da un solo vitigno, che fosse Chardonnay piuttosto che Cabernet o Zinfandel, significava tentare di affrancarsi dalla schiavitù del bulk-wine imperante, ottenuto spesso da un mix dei vitigni più disparati. Gli ambiziosi progetti di Stelling furono fermati da un incidente d’auto, che lo uccise nel 1947. To-Kalon passò nuovamente di mano nel 1951, acquistata dalla Italian Swiss Colony, che la rivendé poco tempo dopo a Ivan Schoch. Per 61 porthos24 (56-85) B-N 62 19-05-2007 17:52 Pagina 62 qualche anno i vigneti di To-Kalon forniscono uva a Beaulieu Vineyards, una delle aziende storiche della Napa Valley. Il bordolese che la fondò, ai primi del Novecento, si chiamava Georges Latour ed aveva fatto fortuna importando dalla Francia alla California portainnesti resistenti alla fillossera. Passata indenne attraverso il Proibizionismo, anzi rafforzata dalla leadership nella produzione di vini da messa, la Beaulieu V. era cresciuta parecchio, ma, alla fine degli anni cinquanta, il contratto a lungo termine fra Schoch e Beaulieu per la vendita di uva entrò in crisi: da un lato, To-Kalon stava producendo più di quanto Beaulieu potesse usare; dall’altro Beaulieu insisteva per dividere con Schoch la differenza fra il prezzo da lui ottenuto vendendo uva sul mercato e quello pattuito nel contratto. Lo scontro finì quando Schoch, nel 1962, vendette alla Charles Krug Winery, proprietà della famiglia Mondavi. Cos’ha di particolare To-Kalon? Il vigneto era definito “one of the best premium wine growing locations in California”. Genevieve Janssens, responsabile dei vini della Robert Mondavi Winery e per alcuni anni ufficiale di collegamento fra Mondavi e Chateau Mouton in Opus One, già allieva di Emile Peynaud, in una recente intervista ha rilevato che To-Kalon ha un “incredibile terroir”. In origine includeva 500 acri di Cabernet, con significativi appezzamenti di Sylvaner, Riesling, Pinot nero, Sauvignon blanc, Chenin blanc, Semillon e Gamay. Una babele, da cui i Mondavi stimavano di ricavare un addizionale quarto di milione di galloni4 di vino “varietale”, migliorando così la gamma dei loro prodotti. Erano passati quasi vent’anni dall’acquisto di Krug, quindi si può affermare che comprare ToKalon fu la prima importante acquisizione di vigneti da parte dei Mondavi. E’ noto che, alla morte del patriarca Cesare Mondavi, nel 1965, le redini delle aziende di famiglia furono affidate a Peter Mondavi e non al fratello Robert, che, pur restando socio di Krug, nel 1966 fondò la Robert Mondavi Winery, avviando la costruzione del suo gruppo. Nel 1973 Robert fa causa alla C. Mondavi & Sons, accusando la società di famiglia di praticare politiche di bilancio a lui dannose. Alla fine dell’iter giudiziario, che vede contrapposti i due fratelli, la C. Krug Winery resterà a Peter, mentre To-Kalon andrà a Robert, che ne farà un uso sapiente nella costruzione dell’immagine del proprio gruppo. To-Kalon ha anche originato problemi legali: nel 2002 la Robert Mondavi Winery entrò in lite con due aziende di Oakville, Schrader Cellars e Beckstoffer Vineyards, fornitore di uva di Schrader, ree di aver utilizzato la dicitura ToKalon, marchio registrato da Mondavi nel 1987, su un Cabernet da loro prodotto. Dal canto suo, Andy Beckstoffer, che affermava di possedere 89 ettari della To-Kalon storica, accusava Mondavi di monopolizzarne indebitamente il nome, pur possedendo solo una parte della To-Kalon originaria. E’ finita, manco a dirlo, a tarallucci e vino, giacché entrambe le aziende possono ora fregiare del marchio To-Kalon le loro bottiglie, purché siano, a loro giudizio, eccellenti. Come si vede, non è solo un problema di catasto, ma di veri e propri quarti di nobiltà, traducibili, ovviamente, in margini economici. Fra i tavoli del ristorante la degustazione va avanti, lenta e misurata. Per la verità, quelli sotto esame, più che i vini, sembrano i giornalisti, mentre i manager della Winery ostentano disinvoltura, abituati probabilmente a road-show ben più impegnativi. E stanno attenti anche alla forma: nessuno risponde al cellulare, concentrati come al tavolo del poker. Sono in tre, a rappresentare le anime dell’azienda: il capo supremo (David Pearson, CEO), l’uomo della comunicazione (Roger Asleson) e il responsabile delle vendite (Kenneth “Scotty” Barbour). Manca solo Michael Silacci, il nuovo responsabile della produzione, il primo a occuparsi del vino da solo dopo anni di gestione condivisa franco-americana. Una bella responsabilità, tanto è vero che è rimasto in California a badare alla cantina. In realtà, più ancora della sua assenza, colpisce lo sforzo di comunicazione della Winery. Sebbene Pearson, che assomiglia a Sutherland padre, assicuri che l’Italia per Opus One è importante, sembra più un atto di cortesia che una considerazione strategica. A sentire i numeri, per loro contiamo quanto un sobborgo di Tokyo, sarà che abbiamo tanti giornalisti. Una possibilità ulteriore è che Constellation B. voglia lentamente costruirsi un’immagine positiva, in un paese nel quale mira ad espandersi nel lungo termine. In tal caso, non lo danno a vedere, perché qui si parla solo di Opus One e buona parte dei presenti crede che Constellation sia un modello della Ford. porthos24 (56-85) B-N 19-05-2007 17:52 Pagina 63 Ancora una volta, meglio approfondire. Il nome Constellation risale al 2000, ma quello che vi è dietro ha radici ben più lontane. Anche qui, come vedremo, c’è di mezzo una famiglia. Fra le zone vinicole degli Stati Uniti, la Finger Lakes Area, situata nel nord-ovest dello stato di New York, non è certo la più famosa, ma è proprio qui che, nel 1945, Marvin Sands, fondatore di ciò che oggi chiamiamo Constellation, acquistò la Canandaigua Industries Company, un’azienda che produceva bulk-wine per imbottigliatori. Della vita di Sands prima di allora non è dato sapere nulla, idem per le ragioni che lo spinsero all’acquisto. E’ possibile che Marvin Sands abbia seguito le orme dei Gallo, che nel 1940 avevano acquistato proceduto a simili acquisizioni a Los Angeles e New Orleans, ma è certo è che quasi subito lo affianca il padre, Mordecai “Mack” Sands, uomo d’esperienza, il quale nel 1951 fonda la Richard’s Wine Cellars, in Virginia, chiamandola così in onore del nipotino. Lo scatto di crescita di Canandaigua avvenne nel 1954, grazie ad un prodotto dal nome suggestivo: Richards Wild Irish Rose, conosciuto anche come “Wild I”. Tuttora in commercio, disponibile anche al ginseng, “Wild I” non è certo un luxury wine: addizionato di alcol e basato sul vitigno Concord, nella palette aziendale è classificato fra i vini da dessert, ma la sua collocazione vera è il fondo scala degli alcolici. Al pari del cugino Cisco, anch’esso aromatizzato e carico d’alcool, “Wild I” ubriaca a poco prezzo e a lungo, tanto che qualcuno lo 63 porthos24 (56-85) B-N 64 19-05-2007 17:52 Pagina 64 definisce un crack liquido, la cui immagine è legata ai ghetti neri e agli alcolisti, non certo ai calici di cristallo in cui, davanti ai nostri occhi, Opus One lentamente si ossigena, mandando riflessi scarlatti sulle tovaglie immacolate. Nel 1989 la vendita di Wild I e Cisco, insieme a prodotti simili della E. J. Gallo (anche qui nomi evocativi, come Thunderbird e Night Train Express), fu sospesa per sei mesi in una ristretta area di San Francisco, il Tenderloin District, allo scopo di limitare il dilagante alcolismo ed i crimini ad esso collegati. Vi fu addirittura chi propose, senza successo, che Canandaigua e Gallo ritirassero dal commercio i prodotti in questione su scala nazionale. A proposito del Cisco, vale la pena di citare un “agreement” tra Canandaigua e la Federal Trade Commission statunitense, che, nel 1991, accusò l’azienda di aver strutturato il packaging, il marketing e le pubblicità di Cisco come se si fosse trattato di una bevanda a basso contenuto di alcol, in confezioni “single-serving”, analogamente ai wine-cooler5. Rispetto ai quali, tuttavia, Cisco aveva un contenuto alcolico da tre a cinque volte superiore. Secondo la FTC era quindi ingannevole presentare Cisco in una bottiglietta come un wine-cooler, esponendo i consumatori ad una fruizione inadeguata ed alle relative conseguenze, anche ospedaliere. Dopo qualche schermaglia, FTC e Canandaigua trovarono un accordo: niente azioni legali, a patto che Canandaigua rivedesse le politiche di vendita di Cisco. E allungasse il collo alle bottiglie, a scanso di equivoci. Per decenni le vendite di “Wild I” hanno costituito la spina dorsale dei ricavi di Canandaigua, rendendo possibile l’aggressiva strategia di crescita per acquisizioni del colosso statunitense, guidato oggi da Robert e Richard Sands, figli di Marvin e nipoti di Mordecai. Dopo anni di crescita silente ma continua, la quotazione in borsa, avvenuta nel 1973, dopo essere divenuta Canandaigua Wine Company Inc., fornì nuove risorse alla dinamica espansiva. Nel 1986 Canandaigua comprò persino Widmer, l’azienda dei Finger Lakes da cui Marvin Sands aveva comprato la stessa Canandaigua. L’espansione obbliga le aziende a strutturarsi adeguatamente. Persino nel nome, che in questo caso diventa, gradualmente, lo specchio delle cose: nel 1997 nasce, infatti, Canandaigua Brands, società destinata a gestire la molteplicità delle acquisizioni. E’ evidente come Canandaigua abbia saputo approfittare della tendenza al consolidamento propria del settore, focalizzando sia sulle attività produttive, sia sulla distribuzione, vera e propria catena di trasmissione fra produttori e mercato. Nel 1999 i tempi sono maturi per la creazione della divisione Fine Wines, mentre nel 2000 Canandaigua Brands cambia nome in Constellation Brands, che rende benissimo l’idea di cosa sia diventata: un enorme arcipelago di aziende e di marchi, presente ovunque e in tutte le fasce di mercato. Canandaigua è ormai un nome fra gli altri, la ribalta è riservata alle grandi acquisizioni in tutto il mondo, Italia compresa. Infatti, dal dicembre 2004 Constellation B. ha una zampa in Ruffino, avendo rilevato per 89 milioni di dollari la quota che fu di Investindustrial, la società di private equity che fa capo a Andrea Bonomi e Alessandro Benetton. Nel carniere di Constellation B. oggi c’è di tutto: birra, distillati, sidro, vino da poveri e vino da ricchi, non manca neppure il vino alla frutta. Creato nel 1998, si chiama Arbor Mist ed è un campione di vendite, meglio dei Beatles. Pare che nei primi 100 giorni di distribuzione ne abbiano spedite 100 milioni di casse. Insomma, il gigante americano può vendervi qualunque alcolico vogliate bere, perché, se non lo produce direttamente, di certo lo distribuisce. La lista delle aziende inglobate vede nomi noti del vino statunitense come Mondavi, Italian Swiss Colony, Inglenook, Taylor, Almaden e Simi, accanto ad australiani come BRL Hardy’s. Nel caso di Mondavi, l’integrazione in Constellation B. ha comportato ristrutturazioni e licenziamenti, ma pare aver lasciato intatta la fisionomia produttiva. In altri casi, le aziende acquisite dallo juggernaut di Fairport, quando non erano già dei puri marchi, svuotati di ogni contenuto originario, lo sono diventate. Inglenook, Widmer e Almaden, per esempio, consegnano una realtà lontana dal valore che i marchi si portano dietro. Almaden produce vino Bag-in Boxes, mentre Inglenook, una delle cantine californiane con la più radicata tradizione qualitativa, oggi è associata a vini da tavola di basso costo. Alla luce di questo, è comprensibile che le trattative fra i Sands e la baronessa De Rothschild siano state laboriose. Ad ogni modo, Asleson ci rassicura: “Sebbene noi non possiamo parlare per Madame, siamo stati testimoni che lei ha stabilito un rapporto cordiale con Richard porthos24 (56-85) B-N 19-05-2007 17:52 Pagina 65 e Robert Sands. La baronessa Philippine ammira l’ambizione e l’espansione di un’azienda che una volta era un pulcino e che è diventata la maggiore entità vinicola del mondo.” Passata l’era Mondavi, sembra quindi prospettarsi un nuovo modello di complementarietà: se Mouton-Rothschild e Bordeaux si propongono apparentemente come l’ancoraggio alla tradizione europea, Constellation B. è già oggi il probabile futuro del vino in chiave mondiale e finanziaria. La quotazione in borsa, secondo alcuni, fu per Robert Mondavi l’inizio della fine. La pressione esercitata da Wall Street esacerbò le difficoltà distributive, le interferenze fra le logiche della famiglia e quelle gestionali, gli errori strategici; in altre parole, emergerebbe la difficoltà di contemperare le caratteristiche di ciclicità del vino con le aspettative borsistiche. Per Constellation B., al contrario, la quotazione è stata ad un tempo consacrazione e trampolino di una irresistibile ascesa, da outsider a leader di mercato, realizzata puntando sulla strategicità dei marchi, prima ancora che dei prodotti, piegando, all’occorrenza, i retaggi delle singole aziende alle più ampie esigenze produttive del gruppo. Ci sono ovviamente notevoli differenze: il gruppo Mondavi era interamente focalizzato sul vino e dipendeva in gran parte dal mercato domestico, mentre Constellation B. ha saputo diversificare le proprie attività, nel tentativo sia di ottimizzare i ricavi, sia di attutire eventuali difficoltà locali o di prodotto. Resta da capire il ruolo di Opus One in questo scenario, oggi ancora più globale di quando i due fondatori avviarono l’iniziativa. E’ evidente che i due pilastri su cui si regge Opus One sono la capacità di produrre reddito e la forza iconica dell’immagine, caratteristiche tutt’altro che sgradite a entrambi i soci. Il numero di ricchi in giro per il mondo aumenta: russi, cinesi, indiani, saranno in molti a volere Opus One sulle loro tavole. Tutto questo, aldilà della retorica d’occasione, dovrebbe garantire una certa indipendenza, in mancanza della quale rischiano di diluirsi i caratteri distintivi del vino e del marchio. Ecco perché non stupisce la risposta del solito Asleson, a proposito di biodinamica: “Sebbene alcuni dei suoi precetti siano percepiti forse come superstizione, il forte vantaggio dell’agricoltura biodinamica è che richiede alle persone che curano i vigneti di focalizzare ancora più intensamente e puntualmente su ogni aspetto delle loro pratiche colturali. Noi stiamo quindi studiando quali elementi di agricoltura biodinamica possa aiutarci a raggiungere una ancora maggiore attenzione al dettaglio nei nostri vigneti.” Alla fine dei conti, non diversamente un vino che per alcuni è un marketing miracle deve contare sulla propria identità e rafforzare la propria unicità, per continuare ad esistere. Leviamo i calici una volta ancora, poi tutti a casa, sognando California. Si fa tardi, è l’ora delle foto ricordo. 1 La raccolta a mano 2 “Chiunque viva per mezzo secolo da questo momento in poi, troverà le uve della California in ogni città dell’Unione; la sua uva passa rifornire l’intero emisfero occidentale: i suoi vini in ogni negozio del globo, e quindi, con le sue spiagge dorate, il suo clima soleggiato, le sue colline e le sue pianure ornate di vigne, la California sarà davvero la vigna del mondo”. (citato da T. Pinney, “A History of wine in America – from Prohibition to the present”, UCPRESS. 3 1 acro=0,40 ha 4 1 gallone=4,546 litri 5 Bevande alcoliche a base di vino e frutta, confezionate in bottigliette monoporzione, da bere fredde. 65