Continuità della cura e dell’assistenza: prospettiva generale
di Paola Gobbi
Consigliere
(Relazione presentata al 55° Congresso Società italiana di Gerontologia e Geriatria, Firenze, 3 dicembre
2010)
Introduzione
Le persone con problemi di salute vengono prese
in carico da un numero sempre più elevato di professionisti, presenti in un’ampia varietà di luoghi e
organizzazioni; questo causa la frammentazione
delle cure. La Carta di Lubiana nel 1996, e numerosi report di agenzie governative (tra cui NHS, 2000)
hanno da tempo indicato l’urgenza di concentrare
gli interventi per garantire al paziente la continuità
delle cure, ma gli sforzi per descrivere il problema o
formulare soluzioni sono ulteriormente complicate
dalla mancanza di consenso sulla definizione di continuità. Sono ritenuti sinonimi: continuità dell’assistenza, dimissione pianificata o programmata, case
management, integrazione o rete di servizi.
Alcune review (Haggerty 2003, Bauer 2009, Shepperd 2004) hanno indagato il significato di continuità come base per una valida e realistica misurazione
della cure erogate nei diversi setting.
Continuità e setting di cure
Nel sistema di cure erogato a domicilio (primary
care) la continuità è principalmente vista come relazione tra un singolo professionista ed il proprio
paziente, relazione che va oltre gli specifici episodi
di malattia. La continuità implica un senso di affi-
liazione tra i pazienti ed il loro medico o infermiere
(“il mio dottore”, ma anche “il mio paziente”), spesso
espressa in termini di contratto implicito di fedeltà/
lealtà da parte del paziente, e di responsabilità sui
risultati clinici da parte del professionista.
L’affiliazione, qualche volta, è riferita come una continuità “longitudinale”, “relazionale” o “personale” e
quindi implementa il miglioramento della comunicazione, il dire la verità alla persona e un continuo
senso di responsabilità.
Nella medicina di comunità la continuità si differenzia dal coordinamento delle cure, anche se il coordinamento è una conseguenza della continuità. Al
contrario, l’alternanza tra i professionisti che erogano assistenza e l’accessibilità alle cure è condizione
necessaria.
La letteratura sulla salute mentale enfatizza soprattutto il coordinamento dei servizi e la stabilità del
rapporto tra quel professionista e il paziente. Sfortunatamente, nelle cure a domicilio, la relazione
è tipicamente instaurata più con il team che con
il singolo. Le cure erogate da diversi professionisti
sono coordinate da un progetto comune e condiviso. La pianificazione delle cure è importante per
documentare e congiungere il passato ed il presente delle cure erogate e per rispondere ai bisogni del
futuro. La pianificazione dovrebbe essere flessibile,
per adattarsi ai cambiamenti sia assistenziali che del
contesto in cui vive la persona assistita.
Il coordinamento della cure in questo ambito spesso
si estende anche ai servizi di natura sociale (pulizie e
commissioni varie), e i case manager (professionisti
che garantiscono il coordinamento delle cure lungo un continuum che include la salute, la prevenzione, la fase acuta, la riabilitazione, le cure a lungo
termine, Bristow e Herrick, 2002) facilitano sia i percorsi sanitari che sociali. La caratteristica comune
nei servizi psichiatrici è la continuità degli accessi:
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gli operatori mantengono un contatto stabile con il
paziente, monitorizzano i progressi, facilitano gli accessi a prestazioni e servizi. Di conseguenza l’accesso è una dimensione della continuità, e gli obiettivi
di continuità e accesso sono perseguiti insieme.
La letteratura sul nursing in merito alla continuità
è soprattutto attenta al passaggio di informazioni e
al coordinamento delle cure assistenziali. L’enfasi è
rivolta alla comunicazione tra infermieri.
L’obiettivo è il mantenimento di un approccio costante tra infermieri di contesti diversi che si prendono cura dello stesso paziente, e la personalizzazione dell’assistenza alla persona che modifica
costantemente la natura dei propri bisogni durante
la malattia. Molta letteratura infermieristica è riferita al discharge planning (dimissione programmata
e pianificata) dopo le
cure per un problema
acuto di salute, solitamente tra ospedale e
cure domiciliari o self
care (educazione sanitaria).
Le cure erogate ai pazienti con patologie
croniche (disease management) nascono
negli anni Ottanta per
garantire la continuità
delle cure in contesti di cronicità allora emergenti, come
l’AIDS, il diabete, le patologie cardiovascolari, le affezioni reumatologiche,
i tumori. La continuità è qui vista come la scoperta
di servizi erogati da professionisti diversi, in modo
efficace, coordinato e senza tempi di attesa inutili,
ed è definita come “continuum of care”.
La letteratura specializzata pone l’accento sulla definizione di protocolli clinico-assistenziali e le strategie organizzative, con scarsa attenzione ai processi
necessari per la loro implementazione.
Continuità: caratteristiche e classificazione
La review di Haggerty individua due elementi che
sono sempre presenti nella definizione di continuità
nei diversi setting sopra descritti:
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• le cure che necessitano al singolo paziente.
La continuità non è una caratteristica dei professionisti o dell’organizzazione, come il coordinamento
o l’integrazione dei servizi, ma della persona. L’unità
di misura della continuità è il paziente che necessita
di cure, e questo bisogno trova, nella continuità, il
modo in cui si realizza l’integrazione dei servizi ed il
loro coordinamento;
• la quantità di cure che necessitano nel tempo.
Questo elemento è parte integrante della continuità, sia che il tempo rappresenti una variabile di
breve periodo, come il singolo ricovero in ospedale, o di lungo periodo, come le cure domiciliari al
paziente con malattia cronica. Il tempo distingue la
continuità da altre caratteristiche delle cure, come la
qualità della comunicazione tra operatore e paziente durante un singolo
incontro di natura clinico-assistenziale.
Sono state individuate, per ogni contesto,
tre tipologie di continuità:
1. La continuità delle
informazioni (informational continuity).
L’informazione è la
modalità più utilizzata
in sanità per garantire
la continuità tra un
operatore e l’altro o
tra un evento sanitario
e l’altro.
L’informazione può essere centrata sul paziente, o
sulla malattia, ma la conoscenza delle preferenze e
dei valori della persona, e il contesto in cui la persona vive, sono altrettanto importanti per unire eventi
sanitari tra loro separati e assicurare che le prestazioni rispondano ai bisogni di salute. Questo tipo di
conoscenza è solitamente intrinseca al professionista che interagisce con il paziente.
2. La continuità della gestione (management continuity). È molto importante nei pazienti con malattie croniche o caratterizzate da alta complessità,
che richiedono la gestione ed il coordinamento di
diversi providers. La continuità è raggiunta quando
le prestazioni sono erogate in modo complementa-
re ed al momento del bisogno. La pianificazione e la
stesura condivisa di protocolli assistenziali facilitano
il management continuity, e lo rendono significativo
sotto l’aspetto della prevedibilità e della sicurezza
nel futuro delle cure erogate, sia per il paziente che
per i professionisti.
3. La continuità della relazione (relational continuity). È definita come una relazione terapeutica
continua tra un paziente e uno o più erogatori di
prestazioni.
Il prevalere di un tipo di continuità sulle altre è caratterizzante il contesto entro il quale si erogano le
cure.
La continuità dell’assistenza
Un approfondimento merita la continuità delle cure
infermieristiche tra ospedale e territorio.
I cambiamenti avvenuti in sanità negli ultimi anni,
in particolare la maggior complessità assistenziale,
l’aumento dell’età della popolazione ricoverata e
l’accorciamento dei tempi di degenza, ha costretto
amministratori ed operatori a ripensare al momento
della dimissione. Il fenomeno riguarda tutto il mondo occidentale: negli Stati Uniti la degenza media
è diminuita, per tutti i gruppi di età, da 7.8 giorni
nel 1970 a 5.1 nel 1997; nel gruppo di anziani (> 65
anni) il dato è maggiormente significativo: la degenza media era di 12.6 giorni nel 1970 e si è ridotta
a 6.3 giorni nel 1997 (Naylor, 1999).
A causa della diminuzione dei giorni di ospedalizzazione difficilmente i pazienti più critici vengono
dimessi in condizioni di pieno recupero psico-fisico:
spesso in ospedale viene risolto il problema acuto ma permangono degli esiti che necessitano di
cure e assistenza al domicilio. Come conseguenza
si è avuto uno sviluppo della rete dei servizi offerti a
diversi livelli sul territorio; in particolare al domicilio
possono essere erogate prestazioni specialistiche
ed infermieristiche.
Tierney et al (1994) hanno individuato gli aspetti più
critici al momento della dimissione ospedaliera, che
rendono difficoltosa l’attuazione della continuità assistenziale: poca comunicazione tra ospedale e territorio; scarso accertamento dei problemi o rischi del
paziente al momento della dimissione; mancanza di
pianificazione sui tempi (giornata, ora) della dimissione; inadeguata attivazione (anche educazione)
dei familiari o care giver; carico assistenziale elevato
richiesto a familiari non preparati adeguatamente
e scarsa (o lenta) attivazione dei servizi territoriali;
scarsa attenzione ai bisogni dei gruppi vulnerabili
o fragili.
Anderson e Helms (1993) hanno invece valutato
la tipologia delle informazioni trasmesse dagli infermieri di reparto a quelli del territorio tramite le
schede di continuità. Gli infermieri riportano solo la
metà delle informazioni richieste dai fogli strutturati: in larga parte riferiscono dati di natura medica e
relativi alla patologia del paziente, all’assistenza infermieristica e poco alla dimensione psico-sociale.
Secondo Mc Kenna et al per gli infermieri del territorio sarebbe importante: standardizzare le modalità
e la documentazione di dimissione; informare con
maggior anticipo i servizi territoriali quando è in
programma la dimissione di un paziente difficile o
fragile; introdurre figure ad hoc o costituire dei team
composti da operatori ospedalieri e territoriali che si
riuniscono periodicamente per discutere le dimissioni e scambiarsi le informazioni; informare gli infermieri di reparto sul ruolo di chi lavora nel distretto; sviluppare strategie tra gli operatori, ad esempio
una linea telefonica dedicata; coinvolgere di più le
famiglie nella dimissione.
Accanto a programmi di miglioramento della comunicazione tra operatori di contesti diversi che
prendono in carico la stessa persona, molto si è
investito sul coordinamento dei soggetti coinvolti,
attraverso la formazione di professionisti appositamente dedicati a favorire e garantire la continuità
assistenziale.
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Il discharge planner è un professionista (non necessariamente un infermiere) che dipende dall’ospedale. Fa quindi riferimento alle politiche e alle procedure interne alla struttura ospedaliera. Il discharge
planner deve conoscere bene il territorio e deve coordinare la comunicazione tra i professionisti coinvolti nell’assistenza.
Il liaison nurse funge da collante tra l’ospedale ed i
servizi territoriali, per assicurare l’effettiva continuità
delle cure. È un infermiere che svolge la propria attività all’interno della struttura ospedaliera ma, nella
maggioranza dei casi, lavora alle dipendenze di una
organizzazione territoriale e, in quanto tale, fa riferimento alle procedure e alle politiche di questa.
L’efficacia del discharge professional è stata oggetto
di molteplici studi, anche recenti, che hanno prodotto risultati contrastanti.
Shepperd e collaboratori hanno condotto, a distanza di sei anni (2004 e 2010) due revisioni sistematiche per valutare l’efficacia della dimissioni pianificate (discharge planning) in termini di: riduzione
dei tempi di degenza e delle riammissioni non programmate; miglioramento del coordinamento dei
servizi tra ospedale e territorio.
Nel 2004 sono stati selezionati 11 RCT’s che mettevano a confronto la dimissione pianificata (consistente in un piano individualizzato di dimissione
ospedaliera) vs la dimissione di routine: 6 riguardavano 2368 pazienti ricoverati in medicina; 4 trial
riguardavano 2938 pazienti ricoverati per patologie
sia mediche che chirurgiche. Differenze tra i due
gruppi, a favore del gruppo pazienti con dimissioni
pianificate, sono state riscontrate: nella mortalità di
pazienti anziani con patologie mediche; lunghezza
della degenza; frequenza nella riammissioni non
programmate. Stessi risultati per i pazienti dimessi
con patologie miste. Gli autori hanno concluso che
se vi sono piccole evidenze sulla riduzione della
lunghezza della degenza e delle riammissioni nei
pazienti con dimissioni pianificate, nulla si può dire
sulla riduzione della mortalità e dei costi sanitari.
Nel 2010 sono stati selezionati 21 RCT’s: 14 riguardavano 4509 pazienti ricoverati in medicina; 4 trial
riguardavano 2225 pazienti ricoverati per patologie
sia mediche che chirurgiche. I risultati dimostrano
che il discharge planning strutturato sulle caratteristiche del singolo paziente probabilmente porta
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piccole riduzioni nella lunghezza della degenza e
nella frequenza delle riammissioni in ospedale delle
persone anziane ricoverate per patologie mediche.
Rimane incerto l’impatto sulla riduzione della mortalità, sul miglioramento degli outcome sanitari e
sulla riduzione dei costi.
Una review condotta da Bauer et al nel 2009, volta
a valutare l’efficacia della dimissione pianificata nei
pazienti anziani fragili e nei care giver ha dimostrato
che vi sono miglioramenti rispetto a: educazione
sanitaria ai familiari; comunicazione tra professionisti; supporto a lungo termine dopo la dimissione,
riduzione delle riammissioni. Gli interventi, per essere efficaci, devono iniziare prima della dimissione
ospedaliera.
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