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PSICOLOGIA CLINICA DELL’OBESITA’ – HTTP://WWW.OBESITAONLINE.COM
PARTE PRIMA: PSICOLOGIA E OBESITA’
CAPITOLO 2: LE RAPPRESENTAZIONI CORPOREE (pp. 57-82)
E. MOLINARI, G.RIVA
PSICOLOGIA CLINICA DELL’OBESITA’: RICERCHE E INTERVENTI
TORINO: BOLLATI BORINGHIERI, 2004
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1.
Le origini del concetto
L’elaborazione e lo sviluppo delle rappresentazioni corporee rappresentano un campo di
ricerca di grande interesse in ambito scientifico per le numerose implicazioni teoriche, applicative
e cliniche. Tale interesse, che è sempre stato presente nella storia del pensiero occidentale, ha
recentemente assunto una maggiore rilevanza sia per gli attuali approfondimenti all’interno del
dibattito epistemologico sul rapporto mente-corpo, sia per l’enfasi con cui la cultura
contemporanea ha riscoperto la corporeità.
L’origine dell’interessamento scientifico per le rappresentazioni corporee può essere fatto
risalire al XVI secolo (Guaraldi, 1990) con la prima descrizione del fenomeno dell’arto fantasma
(soggetti che, avendo subito l’amputazione di un arto, possono provare dolori e sensazioni in un
punto dello spazio in cui si trovava originariamente l’arto amputato) da parte del chirurgo
Ambroise Parè. Tuttavia è solo dall’inizio di questo secolo che il corpo come rappresentazione ha
incominciato ad essere oggetto di uno studio sistematico. Questo “corpo virtuale” è stato infatti
studiato contemporaneamente da parte di numerose discipline che hanno affrontato il tema in
modo molto diverso tra loro:
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studi neurologici: Bonnier, 1905, Head, 1926, Simmel, 1956;
psichiatrici: Kolb, 1954, Schoenfeld, 1966;
psicodinamici: Federn, 1952; Erikson, 1950; Fischer & Cleveland, 1968;
fenomenologici: Merleau Ponty, 1965; Galimberti, 1983;
clinici: Stunkard & Mendelson, 1961; Casper et al., 1979;
sociologici: Featherstone, 1982; Frank, 1991; Schilling, 1993.
psico-sociali: Garner et al., 1980; Cash & Green, 1986; Kaltenbach, 1991.
Tale elenco, pur senza essere esaustivo, sottolinea chiaramente la diversità degli approcci che
hanno caratterizzato la ricerca. Tuttavia la multidisciplinarietà ha avuto scarse ricadute sullo
sviluppo della teoria. Infatti, l’elemento più evidente che emerge dall’analisi dei diversi studi è la
mancanza di dialogo tra i ricercatori.
Molti studiosi hanno elaborato teorie e concetti che sono, almeno in parte, sovrapponibili:
corpo percepito, corpo rappresentato, corpo situato, corpo identificato, corpo vissuto, percezione
corporea, corpo erogeno, corpo fantasmatico, confini corporei, immagine corporea, immagine
posturale, idea di corpo e schema corporeo.
Guaraldi (1990) commentando l’attuale situazione della ricerca afferma: “Per descrivere
l’esperienza corporea è stata coniata una moltitudine di espressioni [...]. Frequentemente, poi, una
singola espressione è stata utilizzata attribuendole più significati. Tutto ciò, se da un lato ha
portato alla scoperta di sempre nuovi aspetti della corporeità, ha però condotto ad ambiguità e ad
incertezze interpretative solo in parte superabili, considerando termini e definizioni nell’ambito
delle teorie a cui fanno riferimento” (pp. 52-53)
Di segno analogo le considerazioni proposte recentemente da Gallagher (1995): “Negli studi
psicologici i concetti e i termini ‘immagine corporea’ e ‘schema corporeo’ vengono spesso confusi
e ciò genera sia una confusione metodologica e concettuale, sia numerose inconsistenze nei
risultati sperimentali [...]. La confusione può essere fatta risalire all’inizio storico della discussione
psicologica [...] (e) persiste nella letteratura più recente” (p. 227).
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PARTE 1
PSICOLOGIA ED OBESITÀ
Si può ritenere che, ad esempio, la diffusione nell’ultimo decennio dei disturbi del
comportamento alimentare, strettamente legati all’esperienza corporea, abbia spinto i ricercatori
ad una maggiore sistematizzazione della teoria. Il risultato di quest’opera è stata l’inclusione di
tutte le rappresentazioni percettivo-affettivo-cognitive del corpo umano all’interno di due
concetti fondamentali (Gallager, 1986, 1995): lo schema corporeo (body schema) a cui fanno
riferimento tutte le rappresentazioni di tipo percettivo; l’immagine corporea (body image) a cui
fanno riferimento tutte le rappresentazioni di tipo affettivo-cognitivo.
Alcuni autori hanno criticato l’uso di concetti così ampi (per esempio Zazzo, 1990), perché
includono esperienze molto differenti tra loro. Secondo Bruni (1995) i due concetti sono difficili
da definire esattamente perché al loro interno riassumono l’antitesi cartesiana tra “res cogitans” e
“res extensa”, tra il dato “corpo” come entità organica e il termine “schema-immagine” come
espressione di una funzione mentale.
Tuttavia tutti gli studiosi del settore riconoscono la necessità di utilizzare dei riferimenti
convenzionalmente comuni per permettere uno scambio tra discipline differenti (Cash & Pruzinsky,
1990; Guaraldi, 1990; Paillard, 1990; Gallagher, 1995). In questo senso l’utilizzo dei concetti di
immagine corporea e di schema corporeo, vista la loro irriducibilità confermata anche dagli studi
meno recenti, può essere una base di riferimento da cui partire per la ricerca in questo settore.
2.
Schema corporeo
2.1
Definizione
Con schema corporeo si intende la rappresentazione delle caratteristiche spaziali del proprio
corpo che l’individuo ricava a partire dalle informazioni provenienti dagli organi di senso.
La definizione di schema corporeo normalmente accettata dalla letteratura è quella
riconducibile a Head e Holmes (1911): lo schema corporeo è la rappresentazione corporea
ottenuta dalla comparazione ed integrazione a livello corticale delle passate esperienze sensoriali
(posturali, tattili, visive, cinestetiche, vestibolari) con le sensazioni attuali. Il risultato è un modello
di riferimento “plastico”, quasi completamente inconsapevole, che permette di muoversi senza
problemi nello spazio e di riconoscere in tutte le situazioni le parti del proprio corpo.
È a questo tipo di rappresentazione che possono essere ricondotti i risultati degli studi del
premio Nobel George Von Bekesky. Von Bekesky, alla fine degli anni ’60, intraprese una serie di
studi sulla percezione umana, in cui sottoponeva le ginocchia di un soggetto bendato alle
stimolazioni di due vibratori. Quando veniva modificata la velocità di vibrazione, il soggetto
aveva l’illusione che il punto del ginocchio in cui si trovava il vibratore cambiasse e passasse
improvvisamente da un ginocchio all’altro. Era perfino possibile che il soggetto percepisse la
stimolazione del vibratore in un punto dello spazio a metà strada tra le due ginocchia, come se le
due gambe avessero improvvisamente aumentato la loro dimensione (Pribram, 1977).
Qualcosa di simile avviene, come si è detto, durante il noto fenomeno dell’arto fantasma:
soggetti che hanno subito un amputazione possono provare dolori e sensazioni nella zona in cui
si trovava l’arto amputato (Cash e Pruzinsky, 1990). Queste esperienze danno un idea della forte
influenza che lo schema corporeo esercita sulla percezione.
2.2
Evoluzione del concetto
Le prime ricerche sulle rappresentazioni corporee caratterizzate da un approccio scientifico
sono state effettuate in ambito neurologico. Infatti, l’evidenza e la stranezza dei problemi causati
dalle lesioni celebrali alle modalità di percezione del corpo attrassero ben presto l’interesse dei
neurologi. A seguito di gravi lesioni celebrali è infatti possibile riscontrare una serie di disturbi
strettamente legati al modo in cui il corpo viene percepito.
Per esempio, il francese Bonnier (1905) definisce aschematia la sensazione di scomparsa del
corpo sperimentata da alcuni suoi pazienti dopo un trauma cranico. Lesioni dell’emisfero sinistro
possono provocare l’autotopagnosia (Pick, 1922), in cui il paziente non è in grado di distinguere
tra la parte destra e sinistra del corpo. Sono invece provocate da lesioni all’emisfero destro
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l’agnosodiaforia, patologia in cui il malato non si cura di avere un emiplegia (paralisi di metà del
corpo) nonostante ammetta di averla; l’ansoagnosia, in cui il paziente nega l’emiplegia e cerca di
comportarsi come se fosse perfettamente normale; l’emisomatoagnosia, in cui il malato nega
l’esperienza cosciente di metà del corpo; il delirio somatoagnosico, in cui il paziente elabora
fantasie assurde sui suoi arti che personifica con entità animate a lui estranee.
I primi studi sull’argomento, che risalgono al primo decennio del nostro secolo, si limitano a
descrivere dettagliatamente le caratteristiche dei disturbi. Tuttavia, già nel decennio successivo i
ricercatori incominciarono a chiedersi quali fossero le cause di tali patologie. Un primo tentativo
di arrivare ad una spiegazione si trova nei lavori di Pick. Secondo Pick (1922) gli individui durante
lo sviluppo si costruiscono “un’immagine spaziale del corpo” intesa come la percezione interna
del corpo ricavata in base alle informazioni fornite dai sensi. Quando l’immagine viene alterata a
causa di un trauma, la percezione del corpo si modifica di conseguenza.
Più articolata è la spiegazione offerta dal neurologo inglese Henry Head. Secondo Head (1926),
che studiò il problema in relazione alla localizzazione degli stimoli esterni, esiste un modello di corpo
che deriva sia dalle informazioni di tipo sensoriale sia da quelle posturali. Questo modello che Head,
come abbiamo visto, chiama schema corporeo, viene elaborato a livello pre-cosciente ed è il punto di
riferimento con cui sono confrontate le nuove percezioni e sensazioni prima di arrivare alla
coscienza. Come sottolinea Martinelli (1974), lo schema corporeo non viene considerato da Head una
struttura stabile. Esso viene infatti sottoposto ad un continuo rimaneggiamento che permette di
percepire ogni nuova sensazione nel suo rapporto con la posizione e la postura del corpo.
Questo concetto di schema corporeo è rimasto invariato per circa 50 anni. Per esempio
Merleau-Ponty (1965), descrivendo lo schema corporeo, fa riferimento proprio alle idee espresse
da Head: “Con schema corporeo si intendeva... un riassunto della nostra esperienza corporea,
atto a fornire un significato all’enterocettività e alla propriocettività del momento. Esso doveva
darmi il mutamento di posizione delle parti del mio corpo per ogni movimento di una di esse, la
posizione dello stimolo locale nell’insieme del corpo, il bilancio dei movimenti compiuti in ogni
momento da un gesto complesso e infine una perpetua traduzione in linguaggio visivo delle
impressioni cinestetiche e articolari del momento” (p.151).
Tuttavia una serie di nuovi risultati emersi dalle ricerche sperimentali in ambito neuropsicofisiologico a
partire dalla fine degli anni ’60 hanno riaperto la discussione su questo concetto.
Il dato più importante in letteratura è che il concetto di schema corporeo include al suo
interno una serie di processi ed esperienze tra loro molto differenti. Come sottolinea Cumming
(1988) nonostante nessuna patologia sia in grado di distruggere completamente lo schema
corporeo, esistono più patologie, legate a differenti siti anatomici, capaci di alterare alcune
caratteristiche dello schema. Ciò indicherebbe una complessità, sia anatomica che funzionale, ben
più profonda di quella descritta nella definizione canonica di Head e Holmes.
Negli ultimi anni l’aumento della ricerca sperimentale e l’impiego di strumenti di brain
imaging, come la Tomografia Assiale Computerizzata (TAC) e la Risonanza Magnetica Nucleare
(RMN) per gli studi strutturali, e dall’altra parte la Tomografia Computerizzata ad Emissione di
Singolo Fotone (SPECT) e la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) per la realizzazione di
studi in vivo, hanno permesso di individuare alcune aree del cervello funzionalmente collegate
allo schema corporeo. Secondo Trimble (1988) è possibile individuare nei lobi temporali una
delle zone critiche per l’integrazione delle esperienze sensoriali, anche se lesioni localizzate nelle
tre grandi aree associative della corteccia frontale, parietale e temporale compromettono
parzialmente lo schema corporeo. In particolare, le lesioni frontali compromettono la capacità di
discriminazione destra/sinistra di un oggetto rispetto al corpo, le lesioni parietali diminuiscono la
capacità di riferimento esocentrico (tra un oggetto da scegliere e un oggetto di riferimento),
mentre le lesioni temporali, pur preservando i compiti precedenti di discriminazione di posizione,
intaccano la capacità di identificazione di due oggetti di forma diversa a prescindere dalla loro
posizione nello spazio (Pohl, 1973).
Dall’analisi di questi dati emerge come dietro la definizione di schema corporeo proposta da
Head e Holmes si nasconda una struttura molto complessa, risultato del processo di
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PARTE 1
PSICOLOGIA ED OBESITÀ
localizzazione spaziale compiuto dal sistema nervoso. Gli input sensoriali di diversa origine non
sono infatti integrati ad un solo livello ma vengono processati più volte in diverse aree cerebrali.
Lo schema corporeo si formerebbe principalmente nelle aree primarie e secondarie di
proiezione della corteccia sensoriale, in particolare a livello dei lobi parietali. Infatti, negli studi sul
fenomeno dell’arto fantasma, sono emerse diverse prove della correlazione esistente tra la
formazione dello schema corporeo e i processi di integrazione corticale degli stimoli sensoriali.
Tuttavia, pur riconoscendo ai lobi parietali un’importanza prioritaria nella costruzione dello
schema corporeo, ci sono altre componenti dello schema che vengono elaborate in regioni
anatomiche differenti: a livello dei lobi temporali, del talamo e del sistema reticolare
mesencefalico (Trimble, 1988).
Senza entrare nel dettaglio delle numerose ricerche che hanno affrontato lo studio di questi
argomenti, si possono individuare alcuni risultati sperimentali che possono chiarire meglio
l’organizzazione interna dello schema corporeo. Seguendo lo schema proposto da Paillard (1990),
è possibile fare riferimento a tre ordini di fatti sperimentali.
a) L’analisi delle funzioni visive ha permesso di individuare l’esistenza di un duplice sistema di
trattamento delle informazioni sensoriali (Humphrey e Weiskrantz, 1967; Schneider, 1969;
Perenin e Jeannerod, 1978). Il primo, implicato nella definizione delle qualità sensoriali delle
figure o degli oggetti, che comprende le vie di distribuzione retino-geniculo-striate ed interessa
principalmente la visione centrale foveale e iuxtafoveale. Il secondo, implicato nella localizzazione
degli oggetti nello spazio orientato, è formato dal sistema di proiezione retino-collicolare ed
interessa essenzialmente la retina periferica.
b) Gli studi relativi alle funzioni di localizzazione hanno evidenziato due differenti strutture di
riferimento spaziale relative al corpo (Paillard, 1971, 1976; Hayvarinen e Poranen, 1974). La
prima, che ha il compito di stabilizzare il corpo rispetto all’influenza delle forze gravitazionali
riferendo la posizione dei diversi segmenti del corpo in rapporto alla posizione della testa. La
seconda, che invece è una vera e propria carta dello spazio fisico mantenuta invariante rispetto ai
movimenti dell’animale.
c) Le ricerche sullo sviluppo delle coordinazioni visivo-motorie hanno sottolineato il ruolo
fondamentale della motricità attiva degli organismi nell’organizzare le invarianti relazionali e le
coordinate referenziali dello spazio (Held e Hein, 1963; Held e Bauer, 1974; Paillard, 1976): la
motricità attiva permette di costruire i referenti spaziali e di estrarre le invarianti relazionali
indispensabili per la coerenza e l’efficacia delle coordinazioni senso motorie (Paillard, 1990). È
interessante come questo dato sia molto vicino alle intuizioni espresse dal filosofo Merleau-Ponty
trent’anni prima. Secondo Merleau-Ponty (1965) il corpo è il principale strumento esperenziale
dell’uomo, in grado di introdurre ordine e significato nelle nostre interazioni con gli oggetti.
Infatti, nella sua opera “Fenomenologia della percezione” afferma che il corpo, con la sua
capacità di compiere movimento finalizzato “sovrappone allo spazio fisico uno spazio potenziale
o umano” (p. 111). In questo senso il corpo potrebbe essere considerato come un settore di
spazio fortemente organizzato capace di strutturare l’esperienza e di stabilizzare le percezioni
ancorandole a sé.
Proprio per la suo complessità, Paillard (1990) identifica all’interno dello schema corporeo
almeno due sub-strutture tra loro molto diverse. La prima è definita da Paillard corpo referente:
uno schema posturale del corpo costituito essenzialmente da materiali afferenti propriocettivi
(vestibolari, reticolari, muscolari) che riferisce la posizione delle varie parti del corpo in rapporto
alla posizione della testa. La seconda è invece chiamata da Paillard corpo riferito: uno schema
dello spazio fisico mantenuto invariante rispetto ai movimenti dell’animale ed ottenuto mediante
l’esperienza attiva del soggetto nel suo ambiente (motricità attiva).
3.
3.1
Immagine corporea
Definizione
Con immagine corporea si intende il modo in cui il soggetto sperimenta e considera il proprio corpo.
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La definizione di immagine corporea comunemente accettata in letteratura è quella proposta
da Schilder (1950): “il quadro mentale che ci facciamo del nostro corpo, vale a dire il modo in cui
il corpo appare a noi stessi. Noi riceviamo delle sensazioni, vediamo parti della superficie del
nostro corpo, abbiamo impressioni tattili, termiche, dolorose, sensazioni indicanti le
deformazioni del muscolo provenienti dalla muscolatura e dalle guaine muscolari, sensazioni
provenienti dalle innervazioni muscolari [...] e sensazioni di origine viscerale. Ma al di là di tutto
questo vi è l’esperienza immediata dell’esistenza di una unità corporea che, se è vero che viene
percepita, è d’altra parte qualcosa di più di una percezione” (p. 12)
Allamani e colleghi (1990) sviluppando l’idea di Schilder, parlano di immagine corporea come “l’insieme
delle percezioni, affetti e idee che, attraverso la sua storia personale e gli atteggiamenti della collettività, un
individuo attribuisce al suo corpo” (p. 171). Infatti, nell’immagine corporea il corpo assume un duplice
ruolo: è oggetto di rappresentazione e contemporaneamente soggetto che rappresenta.
Se lo schema corporeo può essere considerato un modello del proprio corpo di tipo
percettivo, l’immagine corporea è invece un modello di tipo cognitivo-emozionale. Ad essa
possono infatti essere ricondotti tutti gli elementi di tipo affettivo-cognitivo legati al corpo.
In questo senso l’immagine corporea non è un semplice concetto cognitivo, ma è strettamente
legata al mondo emotivo interno, alle relazioni con le figure significative del mondo esterno e alla
storia personale di ciascuno. Questo perché l’immagine corporea è “l’immagine della propria
esperienza corporea, una realtà sempre presente, ma mutevole nel tempo, che si genera e si organizza
sul piano sensoriale, emotivo, immaginario, ideativo e personale” (Allamani et al., 1990, p. 171).
3.2
Evoluzione del concetto
Anche se il concetto di schema corporeo proposto da Head è ancora oggi valido, non
esaurisce al suo interno la totalità delle rappresentazioni corporee. Infatti lo schema corporeo è,
come abbiamo visto, uno schema percettivo complesso legato al processo di localizzazione
spaziale compiuto dal sistema nervoso. Tuttavia sono stati necessari più di vent’anni dalla
formulazione del concetto di schema corporeo per arrivare ad analizzare anche le componenti
soggettivo-cognitivo-affettive delle rappresentazioni corporee
Un contributo determinante in questo senso viene dalle ricerche di Paul Schilder. Questo
autore, pur riprendendo dagli studi precedenti l’idea di uno schema corporeo, è consapevole dei
limiti di una rappresentazione del corpo ridotta esclusivamente ad una somma di percezioni
sensibili. Per questo pone a fianco dello schema corporeo una seconda rappresentazione, frutto
dell’esperienza soggettiva del corpo. Questa rappresentazione, definita immagine corporea, è da
Schilder descritta come “il quadro mentale che ci facciamo del nostro corpo”, o, in altre parole “il
modo in cui il nostro corpo ci appare” (Schilder, 1950).
La principale caratteristica di questa rappresentazione è quella di includere l’esperienza
personale del proprio corpo. In questo senso l’analisi dell’immagine corporea non è un problema
neurologico, ma psicologico ed implica lo studio della situazione emotiva ed esistenziale, dei
ricordi passati, delle motivazioni personali e dei propositi d’azione del soggetto. Essendo legata
agli stati emotivi ed affettivi del soggetto l’immagine corporea non è una struttura fissa ed
immutabile ma si sviluppa e si modifica costantemente nel corso della vita del soggetto.
Come nota Martinelli (1974), Schilder ha il merito di aver chiarito la distinzione tra l’immagine
corporea intesa come esperienza soggettiva del proprio corpo libera dai dati sensoriali e lo
schema corporeo, struttura di riferimento dei dati sensoriali sostenuta da un dispositivo
anatomico-corticale. Tuttavia non chiarisce a livello teorico come possa avvenire l’incontro tra
una causalità di tipo psicologico con una di tipo fisiologico.
Un approccio differente al problema dell’immagine del corpo viene dagli studi psicanalitici.
Fin dagli studi di Freud gli psicanalisti hanno dedicato molta attenzione alle sensazioni ed
emozioni corporee. Lo stesso Freud in una delle sue opere più importanti, “L’Io e l’Id”, ha
affermato che l’Io è prima di tutto e soprattutto un Io corporeo. D’altra parte in più punti della
sua produzione è possibile trovare dei chiari riferimenti alle rappresentazioni corporee: lo sviluppo
dell’Isteria è legato alla genitalizzazione simbolica di parti del corpo non genitali, la Paranoia
rappresenterebbe la proiezione di impulsi anali, e così via. La stessa teoria freudiana della libido e la
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PARTE 1
PSICOLOGIA ED OBESITÀ
distinzione tra fase orale, anale e fallica, presuppongono che l’attenzione ed il comportamento
individuale siano mediati da pulsioni provenienti da alcune aree corporee ben precise.
Senza entrare nel dettaglio della vastissima letteratura psicanalitica che tratta dell’esperienza
corporea vale la pena sottolineare come la differenza principale tra l’approccio psicanalitico e le
precedenti concezioni è l’abbandono della nozione di schema corporeo (Angelergues, 1973).
L’immagine del corpo non viene infatti riportata ad una particolare struttura nervosa ma si
costituisce inizialmente grazie all’energia libidica e poi attraverso la relazione oggettuale. In questo
senso l’esperienza corporea non è più collegata ad una specifica struttura cerebrale.
Un nuovo sviluppo teorico relativo all’immagine corporea si è avuto con l’aumento delle ricerche
sui disturbi del comportamento alimentare. Queste ricerche, infatti hanno analizzato a fondo le
caratteristiche dell’immagine corporea cercando di chiarire meglio gli elementi che la compongono.
Secondo numerosi studiosi (O’Shaughnessy, 1980, 1995; Lackner, 1988) è possibile
individuare una prima differenza tra “l’immagine corporea di breve periodo” (short-term body image)
e “l’immagine corporea di lungo periodo” (long-term body image). L’immagine corporea di breve
periodo, che si differenzia dallo schema corporeo per il fatto di essere un’immagine consapevole
e non inconsapevole, è l’immagine cosciente della posizione delle diverse parti del corpo in un dato
momento, la particolare postura che il soggetto sta sperimentando. L’immagine corporea di lungo
periodo è invece un’immagine complessiva del corpo che descrive il modo in cui il soggetto è
strutturato (forma, dimensioni, ecc.). Senza l’interazione tra queste due immagini il soggetto non
sarebbe in grado di capire come dalla postura attuale sia possibile passare ad una nuova.
Un’ulteriore differenziazione è quella tra il concetto cognitivo di percezione del corpo e quello
affettivo di atteggiamento mentale o soddisfazione per il proprio corpo. Garner e Garnfinkel
(1981) distinguono due componenti all’interno dell’immagine corporea. La prima, chiamata body
image affect, comprende l’insieme dei sentimenti e delle emozioni suscitate dai pensieri coscienti
relativi al proprio corpo (componente affettiva). La seconda, definita body image attitude, è formata
dall’insieme delle idee e delle regole che organizzano il nostro modo di vedere il corpo.
Non molto diversa è la distinzione proposta da Slade (1988). Anche secondo questo autore è
possibile distinguere all’interno dell’immagine corporea una componente cognitiva, relativa
all’accuratezza nella valutazione della dimensione corporea (body size), ed una componente
emotiva, relativa al corpo o a parti di esso (body dissatisfaction o body shape disparage).
In questo senso il nucleo centrale dell’immagine corporea sarebbe composto da elementi
cognitivi ed affettivi in interazione tra loro: le componenti cognitive, che comprendono idee sulle
dimensioni corporee e sull’aspetto fisico, influenzano le componenti affettive che, in base agli
effetti dell’aspetto fisico nella vita quotidiana e nelle relazioni sociali, intervengono a loro volta
sulle componenti cognitive.
Questa particolare modalità di interazione tra comportamenti, elementi cognitivi ed affettivi
può essere spiegata facendo riferimento al modello razionale-emotivo (Ellis, 1962; Freedman,
1990): X, un evento attivante (per esempio, indossare dopo alcuni mesi un paio di pantaloni),
provoca Y, una riflessione cosciente (“non riesco più ad entrarci...”), che modifica il concetto di
sé (“...per cui sono ingrassato”). Questo a sua volta attiva Z, una risposta emotiva condizionata
(per esempio, rabbia e disgusto) che può portare a C, un nuovo comportamento (per esempio,
mettersi a dieta). In questo modo X, l’evento attivante è in grado sia di modificare il concetto di
sé, sia di attivare nel soggetto nuovi comportamenti.
4.
Le differenze tra le due modalità di rappresentazione corporea
Dopo questa rapida descrizione delle due diverse modalità di rappresentazione del proprio
corpo è possibile evidenziare meglio le differenze che le contraddistinguono. Seguendo lo schema
proposto da Gallagher (1995) è possibile individuare almeno tre grandi differenze.
1) Il grado di intenzionalità. Secondo Gallagher l’immagine corporea è caratterizzata da uno “status
intenzionale”. Infatti, nonostante le componenti percettive, emozionali e concettuali dell’immmagine
corporea non siano sempre presenti a livello cosciente è comunque vero che essa include, all’interno di un
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insieme articolato di atteggiamenti, emozioni e credenze, l’esperienza personale del proprio corpo. Invece
manca del tutto l’intenzionalità nello schema corporeo. Questa rappresentazione, infatti, sebbene abbia una
forte influenza sull’esperienza cosciente, può essere considerata come un sistema di riferimento
subcosciente sviluppato inconsapevolmente attraverso l’esperienza motoria.
2) Il livello di impersonalità. Nell’immagine corporea il corpo viene sempre sperimentato come il
proprio corpo, il corpo cioè che appartiene al soggetto. In contrasto lo schema corporeo viene
sperimentato in maniera impersonale. Questa differenza coinvolge anche la capacità di controllo.
Se il soggetto decide di sollevare una mano deve spostare la propria attenzione su quell’azione: il
controllo sul movimento viene effettuato grazie ad un’esperienza percettiva della propria mano
che è legata all’immagine corporea. Tuttavia, anche durante questa esperienza cosciente vengono
effettuati automaticamente, facendo riferimento allo schema corporeo, una serie di movimenti
posturali che servono per mantenere l’equilibrio. Questi movimenti, che avvengono
inconsapevolmente, non sono direttamente controllabili dal soggetto.
3) il livello di coinvolgimento corporeo. Se l’immagine corporea viene sperimentata dal soggetto sempre
in relazione ad un particolare aspetto o parte del corpo, lo schema corporeo funziona sempre in
modo olistico. Per esempio, un leggero cambiamento della postura implica sempre un
aggiustamento globale che coinvolge un grande numero di muscoli. Infatti, i diversi stimoli
propriocettivi provenienti dalle diverse zone del corpo non funzionano in maniera isolata ma “si
sommano tra loro nel modulare il controllo posturale” (Roll e Roll, 1988, p. 161).
5.
Il legame tra schema corporeo ed immagine corporea
Uno dei maggiori problemi inerenti ai concetti di schema corporeo e di immagine corporea è
la mancanza di una teoria unitaria che ne spieghi le modalità di relazione (Schlundt e Johnson,
1990), nonostante numerose ricerche abbiano indicato la presenza di uno stretto legame tra i due
concetti (per es: Adame et al., 1991; Dasch, 1978; Davis e Cowles, 1991; Fischer, 1986; Myers e
Biocca, 1993; Skrinar et al., 1986; Witkin et al., 1954, 1962).
Per cercare di risolvere questo problema si può partire dall’analisi dei risultati degli studi cognitivi.
Il cervello, per poter memorizzare le informazioni che arrivano continuamente dal mondo esterno,
trasforma gli stimoli in rappresentazioni cognitive (Anderson, 1980). Esse possono essere distinte in
due grandi categorie (Antinucci, 1993): quelle percettivo-motorie e quelle simbolico-ricostruttive.
La forma più semplice di rappresentazione cognitiva è data dalle “immagini percettive”
(perceptual images - perception based knowledge representations). Elemento centrale di queste immagini è
l’elemento percettivo (visivo, tattile, ecc.), spesso strettamente collegato ad elementi di tipo
cinestetico/motorio. È possibile, per esempio, rappresentare un oggetto in relazione ad una
variazione delle proprie percezioni, come quella provocata dalla reazione dell’oggetto in seguito
ad una propria azione motoria. Le immagini percettive, inoltre, possono rappresentare un insieme
instabile e diversificato di informazioni, permettendo l’identificazione di uno stimolo anche
quando si presenta in una forma non consueta.
Ad un livello superiore troviamo le “unità proposizionali” (propositional units - meaning based
knowledge representations) create astraendo le informazioni concettuali dagli elementi percettivi. Le
unità proposizionali, che possono essere considerate la forma più semplice di conoscenza,
contengono la quantità di informazione necessaria per riuscire ad elaborare su di esse un giudizio
di tipo vero/falso. Le rappresentazioni nella memoria di parole, esperienze, avvenimenti sono
formate da una rete organizzata gerarchicamente di queste unità.
Il livello più elevato di rappresentazione è invece dato dagli “schemi” o “contesti” (schemata),
insiemi complessi di informazioni che formano i concetti generali. Gli schemi, oltre a permettere
la realizzazione di inferenze, contengono tutte le informazioni necessarie per riuscire ad
affrontare senza problemi la specificità di ogni nuova situazione. Infatti gli schemi non
determinano soltanto il tipo di informazione che viene ricordata, ma anche quale parte
dell’informazione ricordata è maggiormente rilevante.
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PARTE 1
PSICOLOGIA ED OBESITÀ
Questi tre livelli di rappresentazioni, pur intervenendo in maniera determinante nella
formazione dell’esperienza cosciente, agiscono nella maggior parte delle situazioni senza che il
soggetto ne sia consapevole. L’accesso alla coscienza avviene infatti solamente in corrispondenza
di un nuovo evento o stimolo che mette in discussione le informazioni contenute nelle
rappresentazioni (Underwood, 1982; Baars, 1988).
È possibile pensare che l’insieme delle rappresentazioni relative al proprio corpo si estenda in tutti
e tre i livelli presentati (Schlundt e Johnson, 1990). In questo senso si può parlare di corpo virtuale
come l’insieme delle rappresentazioni relative al proprio corpo e mediato dal sé cosciente, composto
da immagini percettive, unità proposizionali e schemi. Questo concetto è praticamente
sovrapponibile all’idea di sé corporeo proposto da Melzack (1973) nella sua ipotesi di spiegazione del
fenomeno dell’arto fantasma: l’esperienza unitaria dei processi biologici, cognitivi e emozionali relativi
al corpo.
Le immagini percettive sono la base delle rappresentazioni percettivo/senso-motorie presenti
all’interno del corpo virtuale. Queste immagini, sviluppate a partire dalle esperienze sensoriali corporee (in
particolare di tipo posturale, tattile, visivo e cinestetico), vengono organizzate all’interno di uno schema e
nel loro insieme formano quello che Head aveva chiamato schema corporeo, cioè un modello plastico di
tipo percettivo usato per organizzare le posture del corpo e i movimenti nello spazio.
L’altra parte del corpo virtuale è composta da rappresentazioni di tipo concettuale. I diversi
significati associati ad ogni unità proposizionale formano più reti semantiche ciascuna delle quali
è organizzata all’interno di uno schema.
Questi schemi, che Markus (1977) chiama “schemi-di-sé” (self-schemata) sono “generalizzazioni
cognitive riguardanti il sé che organizzano e guidano l’analisi delle informazioni relative alla propria
persona contenute nell’esperienza sociale dell’individuo” (p. 64). In questo senso gli schemi-di-sè
possono essere considerati dei meccanismi selettivi che influenzano sia la percezione di nuove
informazioni, sia i comportamenti che sono emessi sulla base di quelle informazioni.
I diversi schemi-di-sè, pur essendo legati a contesti specifici come possono essere, per
esempio, il “me-grasso” o il “me-sportivo”, sono a loro volta inseriti in uno schema di livello
superiore. Questo schema, che corrisponde all’immagine corporea di Schilder, ha il duplice
compito di mantenere coerenti fra loro i diversi schemi-di-sè e di decidere quale attivare
all’interno delle diverse situazioni in cui il soggetto si trova. Lautenbacher e colleghi (1993)
ritengono che l’integrazione di multipli schemi-di-sé nell’immagine corporea sia anche influenzata
dal grado di corrispondenza e di compatibilità esistente tra i vari schemi. L’area cerebrale
implicata in questo processo di confronto sarebbe quella dei lobi temporali.
Qual’è, però, il rapporto esistente tra schema corporeo ed immagine corporea?
Anche se gli studi cognitivi e neurofisiologici hanno dimostrato la mancanza di una continuità
anatomica e funzionale tra le rappresentazioni di tipo percettivo-motorio e quelle di tipo simbolicoricostruttivo (Antinucci, 1993), è possibile supporre che una modalità rappresentativa possa
intervenire sull’altra e viceversa attraverso l’accesso delle proprie informazioni a livello cosciente.
Normalmente schema corporeo ed immagine corporea sono fra loro trasparenti e si
strutturano in modo indipendente. Tuttavia, se un evento od uno stimolo particolare viola le
informazioni presenti nell’immagine corporea o nello schema corporeo, i loro contenuti
diventano accessibili a livello cosciente (Anderson, 1982) e attraverso la mediazione del sé, che
cerca di integrare e mantenere coerenti le diverse rappresentazioni dell’individuo (Baars,1988),
possono influenzare i contenuti dell’altra modalità rappresentativa.
Un esempio di questo tipo di influenza viene da una lunga serie di studi relativi allo stretto legame
esistente tra le pratiche sportive che influenzano la motilità e lo schema posturale e l’immagine del
corpo (Adame et al., 1991; Dasch, 1978; Davis e Cowles, 1991; Skrinar et al., 1986). In questi studi, i
soggetti che attraverso la danza o l’esercizio fisico migliorano la coordinazione neuro-muscolare o il
livello di agilità e di forza, sperimentano una sensazione di maggiore competenza corporea che porta
ad un maggiore livello di soddisfazione nei confronti del proprio corpo.
6.
Lo sviluppo delle rappresentazioni corporee
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IN
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6.1
L’esperienza corporea nel bambino
Il problema dell’elaborazione e dello sviluppo dell’esperienza corporea è un tema che è stato
affrontato da molti autori di diverso orientamento. Come ricordano Lis e colleghi (1988) nella
letteratura sull’argomento ci sono una grande varietà di ricerche differenti rispetto alla definizione del
problema e alle metodologie utilizzate, che variano da tipi diversi di osservazione “libera” (per
esempio Lezine, 1951), all’uso di test (per esempio Brunet e Lezine, 1955), allo studio di
comportamenti di fronte allo specchio (Boulanger-Balleyguier, 1967; Mahler e McDevitt, 1982;
Zazzo, 1948, 1977).
In questo paragrafo cercheremo di presentare un quadro sintetico della produzione teorica
esistente, confrontando sia i diversi approcci teorici allo studio dello sviluppo dell’esperienza
corporea, sia le diverse metodologie utilizzate.
6.1.1 Piaget e la psicologia genetica
Il punto di partenza della nostra analisi sono gli studi sullo sviluppo degli aspetti cognitivi
dell’esperienza corporea. A questo proposito faremo riferimento ad un primo gruppo di autori
comprendente Wallon (1967), Piaget (1936, 1967) e la psicologia genetica piagetiana (Bergès e
Lezine, 1963; Tabary, 1966).
Anche se Piaget non si è mai preoccupato di analizzare la complessa nozione di schema
corporeo, nella sua opera cerca di chiarire se lo sviluppo dell’immagine corporea sia simile a
quello di ogni immagine mentale e se, nella loro formazione, abbiano un ruolo prevalente gli
aspetti figurativi oppure quelli operatori delle rappresentazioni mentali. Secondo Piaget e la sua
scuola, lo sviluppo di tutte le immagini mentali, comprese quelle corporee, è strettamente legato
allo sviluppo cognitivo. Come ogni altro aspetto del funzionamento cognitivo, l’immagine
mentale si sviluppa infatti a diversi livelli che corrispondono a stadi evolutivi progressivamente
più differenziati e complessi.
A livello preoperatorio le immagini mentali sono soprattutto statiche e non trasformabili.
Piaget parla infatti di immagini riproduttrici poiché il movimento non può essere riprodotto
attraverso esse, né è possibile anticipare il risultato di una trasformazione (Piaget, 1966). Solo nel
periodo delle operazioni concrete si hanno le immagini anticipatrici, capaci di evocare figure in
movimento, rappresentare delle trasformazioni o anticiparne categorie corrispondenti
Parallelamente allo sviluppo dei processi rappresentativi, anche il proprio corpo viene
concepito come un oggetto tra gli altri e la sua permanenza non dipende più dall’azione propria,
ma obbedisce ad un insieme di leggi spaziali e cinestetiche indipendenti dall’Io. In particolare,
attraverso l’imitazione differita, il bambino è in grado di rappresentarsi il proprio corpo in
analogia con quello degli altri. L’imitazione differita, infatti, utilizzando nuove facoltà, quali la
memoria d’evocazione, la rappresentazione mentale, ecc., è associata alla immagine mentale o
immagine-ricordo, cioè alla evocazione di realtà assenti.
Tra gli allievi della scuola piagetiana Bergès e Lézine (1963), in particolare, hanno indicato
l’esordio dell’immagine corporea nell’imitazione dei gesti, primo nucleo dell’immagine mentale.
Tabary (1966) ha invece evidenziato il rapporto tra sviluppo dello schema corporeo e sviluppo
della spazialità. Secondo questo autore, la capacità del bambino di rappresentarsi l’oggetto corpo
come indipendente e permanente, diventa acquisizione di una geometria corporea prima
puramente topologica, poi proiettiva e infine metrica.
In Ajuriaguerra (1974) troviamo una descrizione precisa del possibile sviluppo dell’immagine
corporea. Nel periodo preoperatorio, come ogni immagine mentale o rappresentazione figurativa,
l’immagine corporea si struttura attraverso l’imitazione e, in particolare, attraverso l’imitazione
differita e il gioco simbolico. In questo periodo prevale cioè l’aspetto figurativo della conoscenza
corporea: il bambino riesce a rappresentarsi figurativamente il corpo proprio o altrui, ma non
riesce a intuire ed anticipare le trasformazioni del corpo nello spazio, secondo una geometria non
solo topografica. Solo nel periodo dell’intelligenza operatoria, il controllo visivo e percettivo in
generale perde il suo ruolo strumentale per la conoscenza del corpo in funzione dello sviluppo
del pensiero operatorio stesso. In questo fase il bambino è capace sia di imitazioni complesse e
65
PARTE 1
PSICOLOGIA ED OBESITÀ
reversibili, sia di intuire o anticipare rappresentazioni prospettiche e metriche del corpo
(distinzione di destra e sinistra nell’adulto posto di fronte a lui).
6.1.2 La scuola psicanalitica
Un approccio differente al problema viene seguito dai ricercatori appartenenti alla scuola
psicoanalitica.
Questa scuola concorda nel ritenere che i confini stabili tra le rappresentazioni del Sé e degli
oggetti, descritti come confini dell’io, separano l’individuo dal mondo esterno. Un importante
punto di riferimento a questo proposito è dato dalla teoria della separazione-individuazione
(Mahler, 1975) che permette di spiegare il processo di acquisizione dell’immagine di sé e
dell’esperienza corporea (Mahler e McDevitt, 1982).
La formazione dei confini corporei è infatti legata alle prime pratiche di socializzazione del
bambino, cioè ai primi contatti a livello corporeo, con la madre e ai processi di identificazione
con le figure parentali (Fisher e Cleveland, 1968). Secondo Gaddini (1976) è l’insieme delle
sensazioni periferiche di contatto pelle a pelle o di impatto del corpo nello spazio, che serve al
bambino nei primi mesi di vita per costituire il suo senso di Sé. Rileva inoltre: “nel Sé vi è un
contributo innato del bambino e un contributo della madre che si occupa di lui”. Una
rappresentazione del Sé è pertanto quella corporea.
Secondo Auteri e colleghi (1979) è la fusione di due esperienze, quella del “fuori”, cioè della
Gestalt ovale-occhi che è la prima esperienza mentalizzata, con quella del “dentro”, cioè del
corpo-orale che è la prima esperienza corporea, a dare inizio nel bambino alla formazione di una
primordiale immagine corporea.
6.1.3 Gli studi sul riconoscimento dell’immagine di sé
Il terzo gruppo di autori che abbiamo preso in considerazione è costituito da BoulangerBalleyguier (1967) e Zazzo (1948, 1977) come rappresentanti di teorie del riconoscimento
dell’immagine di sé e dell’immagine corporea derivate dallo studio dei comportamenti di fronte allo
specchio.
Secondo i due autori, il riconoscimento della propria immagine è strettamente legato allo
sviluppo della socializzazione e allo sviluppo cognitivo. Infatti, non trattandosi di un
riconoscimento in senso stretto per l’impossibilità di un confronto diretto tra la propria immagine
reale e la propria immagine riflessa dallo specchio, richiede la capacità di compiere operazioni
mentali piuttosto complesse. Secondo Zazzo (1973, 1975, 1977), perché ciò sia possibile è
necessario che il bambino sia contemporaneamente in grado di esteriorizzarsi in un’immagine e di
vedersi dall’esterno come soggetto distinto dagli altri oggetti.
Zazzo iniziò a studiare la capacità del bambino di distinguere tra spazio reale ed immaginario,
in base all’ipotesi che la rappresentazione dello spazio fosse condizionale rispetto alla
rappresentazione di sé. Per verificarla, sottopose 18 coppie di gemelli omozigoti e 10 coppie di
gemelli eterozigoti ad una prova sperimentale. Alle spalle di ogni bambino, posto davanti ad uno
specchio veniva accesa una luce intermittente: se ad ogni accensione il bambino si voltava verso
la luce, mostrava di aver compreso che ciò che vedeva apparteneva allo spazio reale alle sue
spalle. I dati ottenuti indicavano che i bambini erano in grado di operare questa distinzione solo
qualche mese dopo aver dimostrato di riconoscere la propria immagine allo specchio.
Proprio perché questi risultati falsificavano l’ipotesi della costruzione del concetto di spazio
reale/spazio virtuale, come condizione per l’autoriconoscimento, Zazzo ha replicato queste
osservazioni, sostituendo la luce intermittente con la comparsa della figura della madre, seduta in
una cabina buia, illuminata ad intermittenza irregolare. I risultati sono stati del tutto simili ai
precedenti: il bambino si riconosceva allo specchio 4 o 5 mesi prima.
Sulla base di questi risultati Zazzo conclude che l’immagine speculare, quando viene
riconosciuta, non sia ancora integrata con il senso del proprio corpo collocato in un unico spazio
e si tratti di un’esperienza cognitiva, prevalentemente percettivo-visiva. L’immagine speculare
sarebbe cioè una proiezione dell’immagine di sé, inizialmente separata dalla consapevolezza di
poter occupare un unico punto nello spazio.
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IN
PSICOLOGIA CLINICA DELL’OBESITA’ – HTTP://WWW.OBESITAONLINE.COM
Molto interessanti sono anche gli studi compiuti per analizzare il processo di
autoriconoscimento del bambino davanti allo specchio. Il criterio adottato attualmente da quasi
tutti gli autori, per lo meno nell’ambito della letteratura sperimentale, è quello messo a punto per
la prima volta da Amsterdam (1972) sui bambini. Esso consiste nel disegnare una macchia
colorata sul viso, all’insaputa del soggetto e poi nell’osservarne la risposta davanti allo specchio:
se il bambino porterà immediatamente la mano sul proprio viso nel punto in cui è colorato,
mostrerà di collegare l’immagine visiva all’immagine del proprio corpo; se toccherà l’immagine
allo specchio nello stesso punto, coglierà semplicemente l’incongruenza percettiva (il colore sul
viso), ma attribuendola ad un altro volto che gli sta di fronte; in casi di evoluzione cognitiva
inferiore, non avrà alcuna reazione specifica.
Il fattore determinante sembra essere la sorpresa nel vedere che l’immagine, percepita ancora
come appartenente ad un altro bambino, non si comporta secondo le aspettative, che a
quest’epoca il bambino è già in grado di avere nei confronti del coetaneo. Questo passaggio
presuppone il raffinamento dei processi diacritici e non solo nel senso della capacità di
discriminare fra oggetti, ma anche della capacità di costruire sistemi differenziati di aspettative
circa il comportamento degli oggetti.
La prova della macchia di colore (generalmente sul naso) è stata utilizzata come indice cruciale
di autoriconoscimento visivo oltre che nelle ricerche di Amsterdam, anche in quelle di Zazzo
(1973, 1975, 1977), di Lewis e Brooks-Gunn (1974, 1979) e Bertenthal e Fisher (1978). Tutti
questi autori hanno riscontrato un’analoga genesi del processo di autoriconoscimento e un
analogo succedersi di fasi fondamentali. Le differenze individuali dei bambini, circa l’epoca di tale
sviluppo, sono piuttosto rilevanti, e questo spiega la ragione di alcune leggere differenze nei
risultati dei diversi autori, che pur hanno utilizzato tecniche osservative simili.
7.
Le fasi di sviluppo delle rappresentazioni corporee
Un elemento che accomuna i diversi approcci presentati è la consapevolezza che l’esperienza
corporea vada considerata in una prospettiva evolutiva, strettamente collegata allo sviluppo
neurologico, affettivo e sociale.
Per questo i diversi autori sottolineano, pur con differenti punti di vista, la presenza di
passaggi importanti nell’acquisizione dell’esperienza corporea. Cerchiamo di ripercorrerli, anche se in
maniera molto sintetica, facendo riferimento all’impostazione seguita da Lis e colleghi (1990).
La nascita: il neonato ha del proprio corpo una percezione estremamente vaga, globale,
indifferenziata. La sua sensibilità è di tipo esclusivamente entero e propriocettivo (sensibilità
viscerale, senso dell’equilibrio ecc.). Tuttavia, come notano Meltzoff e Moore esiste già nel neonato
un primitivo schema corporeo che gli consente di riconoscere gli altri uomini e di imitarli.
Il terzo mese: Wallon, Piaget e Mahler sono concordi nell’attribuire all’inizio del terzo mese un
primo interesse del bambino per l’esterno e per il proprio corpo, anche se non è ancora in grado
di distinguere se stesso dal mondo circostante. È l’attività boccale ad essere intermediaria tra i
bisogni dell’organismo e il mondo esterno: in questo periodo si differenziano e progrediscono le
reazioni esterocettive: il bambino sorride alla nutrice o interrompe la poppata se disturbato da
una leggera stimolazione uditiva o visuale. Per ciò che riguarda le reazioni alle immagini speculari,
Zazzo mette in rilievo come proprio a partire da quest’età si verifichino le prime risposte del
bambino ai “riflessi”.
Il sesto mese: tutti gli autori considerati, in modo più o meno esplicito e con modalità differenti,
fanno risalire a questo periodo l’inizio della differenziazione nel bambino fra sé e il mondo
esterno. A segnalare chiaramente l’avvenuta differenziazione è il comportamento del bambino nel
“gioco del guanto”. Il bambino contempla alternativamente il guanto e le dita che lo tengono: la
sua perplessità mostra che egli ha realizzato la differenza tra ciò che può essere sede di sensazioni
e ciò che non lo è. Per quanto riguarda l’immagine allo specchio, Boulanger-Balleyguier osserva
una serie di confronti tra l’immagine e la realtà, ulteriore conferma del processo di
differenziazione. Lo stesso significato riveste il riconoscimento del riflesso dell’altro, che Zazzo
colloca proprio ad iniziare dai sei mesi.
67
PARTE 1
PSICOLOGIA ED OBESITÀ
Dal sesto al dodicesimo mese: in primo luogo, si segnala la comparsa dei primi comportamenti
intelligenti e l’inizio della sperimentazione ad un tempo sul corpo e sul mondo esterno.
L’intuizione del corpo è però ancora molto primitiva: a 8 mesi il bambino considera ancora come
oggetti estranei, anche se non del tutto indifferenti, le gambe che si drizzano verticalmente
davanti a lui quando è in posizione dorsale. Inoltre non è ancora in grado di integrare le diverse
parti del suo corpo nell’unità della personalità fisica. Sembra anzi che le forme corporee siano
dapprima meglio identificate dal bambino sugli altri che su lui stesso. Per quanto riguarda le
immagini speculari sia Boulanger-Balleyguier che Zazzo riscontrano un grande interessamento del
bambino, evidenziato da una esplorazione sia visiva che tattile del riflesso e della sua fonte.
Dal dodicesimo al ventiquattresimo mese: gli autori presi in considerazione mettono in risalto come in
questo periodo il bambino scopra realmente il mondo oggettuale. Piaget pone verso i diciotto
mesi la comparsa della rappresentazione, che secondo Wallon è strettamente collegata allo
sviluppo dell’attività motoria. Per ciò che concerne le reazioni alle immagini speculari non esiste
una posizione univoca tra i vari autori. Se Zazzo focalizza la sua attenzione sui segni di
riconoscimento non verbale, Boulanger-Balleyguier invece prende in considerazione, in modo
specifico, il linguaggio. Anche a questo proposito manca una concordanza tra gli autori: se per
Mahler fin dai 18 mesi i bambini riescono a denominarsi guardandosi allo specchio, per
Boulanger questa acquisizione è più tardiva (21 mesi).
Dal terzo anno di vita all’adolescenza: tutti gli autori citati concordano sul fatto che in questo periodo
il bambino raggiunge la coscienza di sé. Durante il terzo anno di vita il bambino termina infatti il
processo che gradualmente l’ha portato alla coscienza di sé ed è in questo periodo che riesce a
riconoscere la propria immagine allo specchio. L’unificazione delle parti del corpo è ancora,
tuttavia, incompleta e transitoria (Martinelli, 1974). Solo dopo i 5 anni il bambino comprende che
gli altri possiedono le stesse parti del corpo che ha lui mentre è a 6-7 anni che si precisa
l’orientamento spazio-temporale. Una svolta nel rapporto con il corpo si ha nell’adolescenza. In
questo periodo, si hanno infatti una serie di trasformazioni nello sviluppo fisico, fisiologico,
biochimico e della personalità, che trasformano il bambino in un adulto capace di riprodursi.
Ovviamente in questa trasformazione sia il corpo che le sue rappresentazioni vengono coinvolte
direttamente. Facendo riferimento in particolare all’analisi compiuta da Schonfeld (1963, 1966),
da Martinelli (1974) e dagli studi più recenti legati ai disturbi del comportamento alimentare
(Levine, 1987; Levine e Smolak, 1992; Levine et al. 1994) cercheremo di descrivere brevemente
l’insieme di elementi psico-socio-fisiologici che influenzano lo sviluppo delle rappresentazioni
corporee nell’adolescente:
a) Fattori psico-sociali. È importante, nella costruzione della rappresentazione del corpo
dell’adolescente, come l’ambiente sociale circostante reagisce ai mutamenti a livello corporeo e
come il ragazzo interpreta queste reazioni. Non solo i genitori ma anche il gruppo dei pari (amici,
compagni di classe, ecc.) esercita una forte influenza in questo senso: il ragazzo, in un momento
in cui è particolarmente vulnerabile, tende infatti ad accettare la valutazione che il gruppo dà di lui
come reale. L’adolescente costruisce infatti un’immagine ideale del corpo osservando il corpo
degli altri, identificandosi con persone che egli fisicamente ammira, e recependo le indicazioni
provenienti dai media e dal suo ambiente culturale relativamente alla bellezza e alla prestanza
fisica. Nell’immagine di sé rientra il confronto tra la propria struttura fisica e quest’immagine
ideale, confronto non diretto, ma mediato da fattori sociali (dal fatto, per esempio, che
l’adolescente si senta più o meno accettato a livello di ambiente familiare o di coetanei).
b) Fattori psicologici interni. L’adolescenza è un periodo in cui si ha una ristrutturazione della
personalità a tutti i livelli (aspirazioni, capacità di sopportare la frustrazione, stima di sé, bisogno
di gratificazione, ecc.) di cui la ristrutturazione dell’immagine fisica non è che un momento. La
sicurezza di sé, da questo punto di vista, gioca un ruolo importante al momento della ricerca del
“nuovo se stesso”; per questo distorsioni della rappresentazione del corpo spesso riflettono
problemi e difficoltà di ordine diverso (emotivi, di comportamento...).
c) consapevolezza del proprio sviluppo fisico. Nell’adolescente esiste una certa difficoltà a percepire e ad
accettare il proprio corpo. In molti casi questo viene vissuto come poco familiare a causa dei
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rapidi cambiamenti che lo coinvolgono. In questa situazione fenomeni transitori dello sviluppo
fisico (come acne, sovrappeso, ecc.) possono acquistare una forte risonanza psicologica e
generare uno stato di ansia e di disagio personale.
La rappresentazione del corpo nell’adolescente è dunque una costruzione psico-sociale: il reale
aspetto del corpo viene infatti mediato da fattori di ordine sociale, psicologico ed emotivo che ne
condizionano l’interpretazione.
7.1
Gli studi sull’imitazione nel bambino
Anche se non molto conosciuto in Europa, il lavoro di Andrew Meltzoff e del suo gruppo di
ricerca è importante per la comprensione dello sviluppo dell’esperienza corporea nel bambino. In
particolare questo autore ha analizzato lo sviluppo dei processi imitativi nel neonato (Meltzoff,
1990, 1993; Meltzoff e Moore, 1994, 1995) arrivando ad una serie di interessanti conclusioni.
Innanzitutto la capacità di imitare è una capacità innata ed intenzionale: è presente anche in
bambini nati da meno di un’ora (Meltzoff e Moore, 1989) e non può essere considerata
semplicemente un riflesso perché avviene anche in modo temporalmente differito rispetto allo
stimolo (Meltzoff e Moore, 1995). Ma la parte più interessante delle ricerche del gruppo di
Meltzoff è legata all’analisi delle modalità con cui avviene l’imitazione.
Non essendo un semplice riflesso, la capacità di imitazione richiede la presenza di un sistema
di rappresentazione che consenta al bambino una seppur minima interpretazione di ciò che vede.
In base ai dati emersi da una lunga serie di esperimenti (Meltzoff e Moore, 1989, 1994, 1995) i
due autori ritengono che ciò sia possibile perché i neonati rappresentano le caratteristiche dei
movimenti umani che vedono utilizzando lo stesso codice mentale che usano per rappresentare le
caratteristiche dei propri movimenti. Ciò significa che esiste fin dai primi giorni di vita una specie
di primitivo schema corporeo che consente al bambino di unificare le informazioni visive con
quelle motorie/propriocettive senza però confonderle tra loro. Questo schema potrebbe essere la
base su cui si sviluppa la capacità del soggetto di considerare sé stesso come oggetto di pensiero.
Approfondendo la loro analisi Meltzoff e Moore (1995) concludono che i neonati
sperimentano gli altri soggetti in termini di atti umani, dove per atto umano si intende la
“trasformazione di un organo umano con lo scopo di raggiungere un obiettivo” (goal directed organ
transformation).
Gli atti umani rappresenterebbero la prima esperienza del mondo esterno che il neonato è in
grado di interpretare e di riprodurre. In questo senso la prima distinzione compiuta dal neonato
non è quella tra animato e non animato o tra persone e cose, ma piuttosto tra atti umani e tutti gli
altri eventi. Come conseguenza di questa spiegazione emerge anche un altro elemento
interessante: l’esistenza di una primordiale connessione tra Sé e gli altri espressa dall’esperienza
corporea. Dato che gli atti umani visti negli altri soggetti possono essere imitati dal neonato,
questo incomincia ad intuire che gli altri umani sono in qualche modo simili a lui: gli altri
agiscono come me e io posso agire come loro.
Contemporaneamente allo studio dell’imitazione Meltzoff e Moore hanno analizzato il
problema della sviluppo della rappresentazione oggettuale nel bambino. A differenza da quanto
affermato da Piaget (1967), che ritiene che nel bambino manchi un concetto dell’oggetto simile a
quello dell’adulto, e da Spelke e colleghi (1992, 1993), che ritengono che il neonato abbia fin dalla
nascita gli elementi base del concetto di oggetto presente nell’adulto, secondo Meltzoff e Moore
(1995) il bambino ha una primitiva concezione degli oggetti, definita dagli autori “proto-oggetti”
(proto-objects) che cambia progressivamente le proprie caratteristiche con lo sviluppo.
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LE RAPPRESENTAZIONI CORPOREE