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Anno LXI-Trimestrale-Poste Italiane Spa-Spedizione in abbonamento postale-d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2-DCB Roma
Aprile-Giugno 2008
Articoli di
Caterina Brignone, Francesco Antonio Cancilla, Angelo Caputo, Mario Chiavario, Vania
Contrafatto, Luca De Matteis, Marco Formentin, Ennio Fortuna, Fulvia Fratantonio,
Luigi Levita, Rosario Minna, Stefano Montoneri, Antonio Mura, Lucio Napolitano,
Gioacchino Natoli, Giacomo Oberto, Livio
Pepino, Luigi Petrucci, Daniela Piana, Antonello Racanelli, Michele Ruvolo, Armando
Spataro, Rosario Spina, Francesco Viganò.
Organo dell’Associazione Nazionale Magistrati
Organo dell’Associazione Nazionale Magistrati
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Aprile-Giugno 2008
Sommario
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Le opinioni
espresse
in ciascun articolo
sono proprie
dell’autore
e possono
non coincidere
con quelle della
redazione o della
direzione o con
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e Amministrazione
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Nazionale Magistrati
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n.259 del 23
giugno 1948
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Nicola Di Grazia
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AD
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Illustrazioni
Fabiano Spera
Finito di stampare
nella Litotipografia
Fratelli Begliomini
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Adorno, 55
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Fax 06/5139959
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EDITORIALE di Antonio Balsamo e Nicola Di Grazia
Riforme necessarie e riforme minacciate
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LE IDEE
Giustizia europea e processo penale: nuovi scenari e nuovi problemi di Mario Chiavario
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GIUSTIZIA E TERRORISMO
La magistratura italiana di fronte al terrorismo interno ed internazionale
dagli anni di piombo alla war on terror di Armando Spataro
Dati sulle sentenze di condanna pronunciate in Italia successivamente
all’11 settembre 2001, per reati di terrorismo internazionale
o per reati collegati al terrorismo internazionale
20
44
IL GIUDICE E LA BIOETICA
Decisioni mediche di fine vita e “attivismo giudiziale” di Francesco Viganò
Il rifiuto di cure da parte di soggetti adulti capaci: esperienza inglese
e diritto italiano a confronto di Caterina Brignone
Bioetica e principio del consenso informato nell’esperienza
dei procedimenti civili a tutela della persona di Luigi Petrucci
112
IL DIBATTITO SULLA GIUSTIZIA
Il mestiere del giudice e i tornelli di Ennio Fortuna
Riformare il processo e non i magistrati. di Antonello Racanelli
130
132
GIUSTIZIA ITALIANA E STANDARD EUROPEI
Questioni di legittimità costituzionale nella prospettiva europea:
il processo, gli interessi e i diritti fondamentali di Francesco Antonio Cancilla
Quale ragionevole durata? Una prospettiva europea di Luca De Matteis
Un codice per l’Europa di Rosario Minna
Analyse et propositions sur la méthode de collecte des donnéès
par la CEPEJ di Gioacchino Natoli
La professione del magistrato nella costruzione dello spazio
giudiziario europeo di Daniela Piana
GLI STRUMENTI DELLA LOTTA ALLA MAFIA
Poteri violenti e mafie di Livio Pepino
IL DIBATTITO SULLE RIFORME
Una riforma necessaria e urgente: i reati collegati all’espulsione di Angelo Caputo
Il nuovo testo unico in materia di sicurezza sui luoghi del lavoro:
prime osservazioni di Vania Contrafatto e Marco Formentin
Riflessioni sulla Riforma del diritto di famiglia e dei Tribunali per i minorenni
di Fulvia Fratantonio
Un nuovo giudice per la persona, la famiglia ed i minori di Lucio Napolitano
Il processo veloce, il processo giusto. La riforma dei tempi della giustizia civile
di Michele Ruvolo e Luigi Petrucci
Le difficoltà di accertamento del reato di usura: proposta di modifiche normative
di Rosario Spina
Sulle scuole di specializzazione per le professioni legali: una proposta di riforma
per il loro effettivo rilancio di Luigi Levita
56
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206
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240
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MAGISTRATURA GIOVANE
Diario semiserio di un uditore con funzioni di Stefano Montoneri
266
CRONACHE DELL’UNIONE INTERNAZIONALE DEI MAGISTRATI
L’associazionismo giudiziario al di là delle frontiere nazionali
di Antonio Mura e Giacomo Oberto
280
CRONACHE DELL’ANM
La composizione della Giunta
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Riforme necessarie
e riforme minacciate
Editoriale
di Antonio Balsamo e Nicola Di Grazia
N
on è un momento facile per chi vuole affrontare i problemi della
giustizia in Italia da una prospettiva concreta, che tenga conto
dei reali interessi dei cittadini e del sistema-paese.
La necessità urgente di riforme è da tutti condivisa e non è in
discussione.
Ma è la prospettiva del processo riformatore da avviare, appunto, che
appare controversa nelle intenzioni del mondo politico.
L’Associazione Nazionale Magistrati si è espressa con chiarezza per
un’ampia serie di interventi diretti ad assicurare funzionalità ed efficacia
al sistema giudiziario, perché i cittadini italiani hanno in primo luogo
diritto ad ottenere decisioni in tempi ragionevoli.
Perché nel leggere i dati statistici tremendi sui ritardi e sul numero dei
processi pendenti, non bisogna mai dimenticarsi che dietro ad ogni
numero c’è un cittadino, e che questo fallimentare rapporto del singolo
con il sistema-giustizia finirà con l’essere la “cifra” del grado di fiducia
della intera collettività nei confronti dello Stato.
Interventi urgenti, dunque; anche per ridurre i costi economici connessi alla lentezza delle controversie giurisdizionali civili e quelli derivanti dalla violazione dei termini di ragionevole durata del processo di
cui lo Stato italiano risponde avanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Per questo, sin dal 28 maggio 2008, abbiamo proposto, con apposite
schede programmatiche presentate al Ministro della giustizia, la revisione delle circoscrizioni giudiziarie con la soppressione degli uffici giudiziari minori, la riforma del processo civile, con la semplificazione dei riti
ed il processo telematico, la depenalizzazione dei reati minori, la introduzione di pene alternative alla pena carceraria, la riforma del processo
penale, con la eliminazione di tutti quei formalismi che di fatto impediscono di arrivare ad una sentenza in tempi ragionevoli, l’introduzione
generalizzata della posta elettronica certificata nel processo penale e nel
processo civile.
Per questo abbiamo contestato con forza l’impatto straordinariamente negativo dei tagli alle risorse di organico ed economiche del comparto giustizia operati con l’ultima legislazione finanziaria ed abbiamo
richiamato il Ministro ai suoi doveri, secondo le competenze affidategli
dalla Costituzione, in materia di organizzazione dei servizi.
Per questo abbiamo denunciato la situazione ancora più drammatica
in cui si troveranno a breve i più esposti uffici giudiziari del meridione,
per le scoperture di organico non risolvibili con gli ultimi provvedimenti di legge sulla mobilità dei magistrati verso le sedi disagiate, e abbiamo
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proposto interventi correttivi per evitare la paralisi.
Ma la riflessione della magistratura associata ed il suo contributo propositivo al dibattito in corso non si sono limitati a questo.
L’ANM non trascura l’esigenza che viene da più parti ribadita di assicurare equilibrio e responsabilità nei rapporti con gli altri poteri dello
Stato, con la politica e con la stampa, perché anche tale aspirazione corrisponde al bisogno di rinsaldare il rapporto di fiducia con i cittadini.
Abbiamo perciò sottolineato l’impegno della magistratura, in tutte le
sue articolazioni, nella attuazione delle importanti innovazioni introdotte con la recente riforma dell’ordinamento giudiziario in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, di periodiche valutazioni di professionalità, di temporaneità degli incarichi direttivi e di selezione degli
aspiranti in base a criteri solo attitudinali.
Perché siamo convinti che l’attuazione della riforma costituisca una
occasione per un ampio rinnovamento dell’organizzazione giudiziaria
che consentirà anche il superamento di difetti e ritardi che si sono registrati nel passato.
E abbiamo affermato che è compito e dovere anche dell’ANM sostenere questo sforzo di rinnovamento interno, riempiendo di contenuti concreti i principi introdotti dalle nuove norme ordinamentali per assicurare
ai cittadini una magistratura capace, motivata, responsabile e professionalmente adeguata, così come disegnata dalla Costituzione.
Una magistratura, insomma, in grado di fare appieno la propria parte.
Ma è proprio questo il punto
Le riforme necessarie ed urgenti sono quelle che servono a garantire
l’efficacia e la qualità della giurisdizione, per ripristinarne la credibilità
nella cornice dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura
come delineata nel sistema costituzionale.
Su questi temi registriamo iniziative isolate e addirittura interventi
negativi.
Le riforme minacciate nel dibattito politico sembrano orientate,
invece, verso una nuova riforma dell’assetto della magistratura che
risponde ad ideologismi pregiudiziali e che non serve ai cittadini e al
paese.
Non servono la separazione delle carriere del giudice e del pubblico
ministero e la creazione di un CSM separato per i pubblici ministeri, in
quanto ne discenderebbe inevitabilmente la perdita di autonomia e di
indipendenza del pubblico ministero.
Non serve cambiare la composizione del CSM e sottrargli la competenza disciplinare, perché il sistema di autogoverno non è certamente
immune da difetti e disfunzioni, ma aumentare il peso della politica nell’organo di autogoverno e in sede di giudizio disciplinare non servirà a
risolvere i problemi reali, servirà solo a dare maggiore potere alla politica sui giudici e a ridurre e mortificare la indipendenza e l’autonomia
della magistratura.
I cittadini non possono avere interesse a soluzioni che finiscono col
rafforzare i legami con la politica e che non incidono sulle cause delle
disfunzioni nell’amministrazione della giustizia.
Alle prerogative dell’autonomia e dell’indipendenza, assegnate alla
magistratura dalla Costituzione, corrispondono, ne siamo consapevoli,
doveri e responsabilità
A queste responsabilità non intendiamo sottrarci.
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Giustizia europea
e processo penale:
nuovi scenari
e nuovi problemi
*Ordinario di Diritto
Processuale Penale
nell’Università
di Torino,
già Presidente
dell’Associazione
tra gli studiosi
del processo penale
Le idee
di Mario Chiavario*
1. Premessa1.
Il riferimento alla “giustizia
europea” contiene una espressione, a dire il vero, polisenso. Basti
pensare che è Europa l’Unione
europea, che ha una sua Corte di
giustizia, ma è anche Europa il
Consiglio d’Europa, che comprende un’area più larga e nel cui
ambito opera la Corte europea
dei diritti umani. E poi, giustizia
europea non è solo quella delle
Corti: è giustizia europea anche
la collaborazione investigativa e
giudiziaria su scala continentale
tra organi di diversi Stati europei.
I frammenti di contributo alla
riflessione comune che vorrei
offrire sono in larga parte, per
così dire, “trasversali”. Ho cercato di raccoglierli attorno ad un
paio di interrogativi, che prospetto a voi nello stesso modo in cui
mi sono venuti alla mente.
Primo interrogativo: che cosa
è cambiato e che cosa sta cambiando, nel nostro processo
penale, con il procedere, sia pure
in modo tortuoso, della costruzione dell’unità europea? E poi,
secondo interrogativo, quali e
quanti, i problemi nuovi? E come
affrontarli?
2. Un nuovo sistema di fonti.
Dunque, che cosa è cambiato
e sta cambiando.
Anzitutto, è cambiato e sta
cambiando il quadro delle fonti
6
normative di riferimento. Qualcuno, a dire il vero, può osservare con ragione che da sempre lo
studioso e l’operatore della giustizia penale avrebbero dovuto
tenere in gran conto i profili di
rapporto con il diritto internazionale. E non si può dire che sempre lo si sia fatto, sebbene rogatorie ed estradizioni non siano
invenzioni degli ultimi decenni...
Non c’è dubbio, tuttavia, che
dal dopoguerra in avanti il quadro si sia arricchito come forse
mai prima di allora, da questo
punto di vista: beninteso, non
solo per quanto è accaduto e sta
accadendo in Europa, ma anche
per quanto è accaduto e sta accadendo in un panorama planetario. È però altrettanto vero che lo
scenario europeo ha contribuito
parecchio a cambiare le cose.
Parlo anzitutto della Convenzione europea dei diritti umani,
che vive ormai da più di cinquant’anni e che da subito avrebbe dovuto essere avvertita, più di
quanto non sia accaduto, come
qualcosa di non assimilabile,
puramente e semplicemente, alle
classiche convenzioni internazionali, per la cui immissione
nell’ordinamento poteva essere
sufficiente l’altrettanto classica
formuletta dell’ordine di esecuzione («piena e intera esecuzione
è data alle norme contenute nella
Convenzione...»). Il carattere
paracostituzionale dei contenuti
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Giustizia europea
e processo penale:
nuovi scenari
e nuovi problemi
della Convenzione avrebbe forse
potuto e dovuto essere riconosciuto già all’epoca della ratifica,
adottandosi una legge costituzionale come strumento idoneo ad
assicurare una loro inserzione
nell’ordinamento a un livello
effettivamente adeguato. Non è
andata così (e non è questa la
sede per approfondirne i motivi):
la legge del 1955, di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione
della Convenzione di Roma, è
una semplice legge ordinaria, e
la Corte costituzionale ha dovuto
prenderne atto, respingendo sempre – se non in un’isolata sentenza del 1993 – i tentativi di far
leva su questa o quella norma
costituzionale di contesto per
attribuirle una forza superiore a
quella delle leggi ordinarie. E
neppure è stata accolta, ai tempi
della Commissione bicamerale e
poi ancora all’epoca della legge
cosiddetta di costituzionalizzazione del “giusto processo”, una
proposta che mi ero permesso di
avanzare, suggerendo di integrare l’art. 10 della Costituzione, e
cioè di agganciare esplicitamente, al riferimento alle norme del
diritto internazionale generale
cui l’ordinamento italiano «si
conforma», quello, appunto, alle
convenzioni internazionali di
tutela dei diritti umani.
Oggi, peraltro, in virtù della
modifica apportata all’art. 117
della Costituzione, alle norme
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della Convenzione il carattere
paracostituzionale è stato riconosciuto – e sia pur entro certi limiti – da due importanti sentenze
della Corte costituzionale (la 348
e la n. 349 del 2007), che vi
hanno individuato i connotati
delle cosiddette “norme interposte”, dichiarandole idonee, dunque, a fungere da parametri di
legittimità rispetto alle norme
ordinarie, anche quando queste
siano entrate in vigore successivamente alla legge esecutiva
della Convenzione. Ciò, sia pur
con la riserva di un controllo –
così come per altre “norme interposte” quali quelle delle leggi di
delegazione – della loro non contrarietà a norme costituzionali di
fonte “interna”.
La Convenzione di Roma,
come è noto, è fonte che trova la
sua origine e la sua area applicativa, sul piano transnazionale,
nell’ambito del Consiglio d’Europa; e però, oggi, va espandendo un’efficacia vieppiù stringente anche in rapporto all’ordinamento comunitario, a sviluppo di
un processo che dovrebbe trovare il suo sbocco con l’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona, il
cui art. 6 non si limita più, come
anteriormente, a richiamare la
Convenzione sui diritti umani
come una delle fonti il cui rispetto deve esser assicurato all’interno dell’Unione, ma giunge ad
esplicitare una forma di “adesio7
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ne” formale alla convenzione
stessa, sia pur precisando che
«tale adesione non modifica le
competenze dell’Unione definite
nei trattati».
D’altronde, anche in via autonoma il diritto dell’Unione europea contribuisce a quell’arricchimento di fonti cui si alludeva: e
la sfera del processo penale non è
affatto immune da questa incidenza. Sono ormai numerose le
decisioni – quadro adottate al
riguardo, a cominciare da quella
sul mandato di arresto europeo: e
si tratta di fonti, appunto, specifiche dell’ordinamento comunitario vigente, che vincolano gli
Stati membri quanto alle finalità
perseguite, anche se lasciano agli
Stati margini di apprezzamento
discrezionale quanto alla scelta
dei mezzi e dei modi con cui perseguire le finalità medesime, e
che hanno bisogno non di una
ratifica ma di leggi attuative, la
cui conformità alla fonte comunitaria non è esente da controlli e
sanzioni di competenza degli
organi dell’Unione.
E, soprattutto, non si può
dimenticare che anche per quanto concerne i diritti umani l’Europa comunitaria dispone ormai
di una “sua” Carta, la cosiddetta
“Carta di Nizza” del 2000, di cui
l’art. 6 del Trattato di Lisbona
afferma «che ha lo stesso valore
giuridico dei trattati»europei.
8
3. Un nuovo scenario
di soggetti: un ruolo sempre
più rilevante della Corte
europea dei diritti
dell’uomo.
D’altronde, un arricchimento
– o se si preferisce una maggiore
complessità rispetto al passato –
si riscontra pure quanto ai soggetti che figurano come protagonisti o come comprimari sulla
scena della giustizia penale.
Anche a questo proposito non
si può non partire dalla Convenzione europea dei diritti umani.,
e perciò non si può non cominciare con il richiamare l’attività
della Corte omonima, che giudica su doglianze per violazioni di
diritti garantiti dalla Convenzione stessa. E di fronte a un uditorio come questo non ho bisogno
di ricordare quanta parte, nella
giurisprudenza della Corte europea, abbiano in particolare le
pronunce attinenti al processo
penale.
Tuttavia, non può negarsi che
fino a qualche tempo fa l’attenzione per le pronunce della Corte
europea era fortemente condizionata in negativo dalla diffusa
sensazione di un’efficacia molto
limitata delle sue pronunce. Al
riguardo, la preoccupazione più
forte, per i nostri governanti (e
non voglio dire che fosse una
preoccupazione da poco) era
quella dell’accantonamento di
riserve monetarie, per adempie-
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Giustizia europea
e processo penale:
nuovi scenari
e nuovi problemi
re, in caso di sentenze che accertassero la violazione della Convenzione, alle frequenti condanne consequenziali, a danni e
spese.
E i principi affermati dalla
Corte in sede interpretativa e
applicativa della Convenzione?
A questo proposito, bisogna
ammettere che anche la maggior
parte di coloro che qualche attenzione, a questa giurisprudenza, la
davano, finivano per lo più col
comportarsi come si fa con un
ospite di riguardo a un banchetto
di prestigio, che si ascolta e
magari si cita con rispetto (anche
quando parla di specialità prelibate) ma che non vale poi la pena
di tenere realmente in conto perché si presume che non si sporchi
mai le mani in cucina.
Ebbene, oggi non può più
essere così.
Intanto, sappiamo che, nelle
citate sentenze del 2007, la
nostra Corte costituzionale ha
fatto riferimento alla giurisprudenza di Strasburgo come al
”diritto vivente” della Convenzione, che non può essere trascurato neppure quando della Convenzione si fa un uso “interno”,
compreso quello, al massimo
livello, tipico del controllo di
costituzionalità delle leggi
nostrane.
Per altro verso, dobbiamo
constatare che sono sempre più
numerose e significative le sen-
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tenze della Corte europea, le
quali non si limitano ad accertare
una violazione della Convenzione e a farne conseguire una condanna di carattere pecuniario: ci
sono quelle che io chiamerei sentenze “inibitorie” (tipiche quelle
in tema di estradizione, che
impongono allo Stato di non
estradare una persona verso un
determinato Paese (per quanto
quest’ultimo non sia parte della
Convenzione), se vi è il fondato
timore che, una volta estradata,
la persona possa subire lesioni di
diritti fondamentali. E vi è il
caso, per certi versi clamoroso,
della sentenza-diktat (mi riferisco all’”affare Sejdovic”), ossia
a una pronuncia che nel suo stesso dispositivo contiene una formula che impone allo Stato una
modifica legislativa, al di là di
quanto potrebbe occorrere per la
soddisfazione del ricorrente del
caso di specie, e perciò a tutela di
tutti quanti si trovino o possano
venire a trovarsi in identica
situazione.
E ancora. Come dimenticare
che ormai, non solo la stessa
Corte europea ma gli organi
“politici” del Consiglio d’Europa
rivolgono sempre più pressanti
moniti per ricordare agli Stati – e
in primis allo Stato italiano –
l’obbligo di dare seguito concreto alle decisioni della Corte, il
che vuole talvolta comportare
qualcosa che va al di là della (o
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che prescinde dalla) “soddisfazione” pecuniaria, in particolare
richiedendo l’adozione di strumenti che pongano rimedio,
anche superando l’ostacolo di
un’avvenuta formazione del giudicato interno, allo svolgimento
di “processi non equi”, come tale
accertato dai giudici di Strasburgo.
4. ... e la crescente
“presenza” di organi
dell’Unione europea.
Meno intensa è stata, ed è tuttora, la “presenza”, con pronunce
attinenti al processo penale, della
Corte di giustizia dell’Unione
europea, dati i limiti alle sue possibilità d’intervento, sino ad ora
particolarmente notevoli in relazione a materie rientranti nel
cosiddetto “terzo pilastro” della
costruzione comunitaria.
Negli ultimi tempi, tuttavia,
questa presenza si è fatta a sua
volta sentire, anche se con modalità diverse da quelle in cui si
esplica la giurisprudenza Corte
dei diritti umani. Il leading case
in materia può essere considerato
l’“affare Pupino”, in relazione al
quale la Corte del Lussemburgo
ha statuito l’obbligo del giudice
italiano, di interpretare la normativa interna (nella specie, quella
riguardante l’incidente probatorio avente come protagonista un
minorenne) alla luce della decisione-quadro sulla tutela delle
10
vittime del reato. Né si può
dimenticare il cospicuo apporto
che la Corte di giustizia è poi
stata ed è chiamata a dare in
materia di mandato di arresto
europeo, in quanto a sua volta
disciplinato da una decisionequadro.
Ma il diritto comunitario ha
fatto irrompere sulla scena anche
altri soggetti, come i Magistrati
di collegamento, la Rete giudiziaria europea, Europol, Eurojust: tutte realtà che, sia pur con
più o meno forti limitazioni di
attribuzioni, svolgono ruoli di
non trascurabile rilevanza sotto
vari aspetti della cooperazione
investigativa e giudiziaria.
5. Novità nei modi
di esplicarsi della
cooperazione giudiziaria.
Sensibili mutamenti si avvertono anche per quanto concerne i
modi di esplicarsi della cooperazione.
Mi limiterò, a questo riguardo, a pochi aspetti, ben consapevole che parecchi altri se ne
potrebbero individuare.
Da parecchi punti di vista si
coglie, intanto, una parziale, ma
non trascurabile, erosione del
dogma della sovranità nazionale
come impedimento a certe forme
di collaborazione a fini di giustizia. È un’erosione parziale e non
porta a una cancellazione di prerogative importanti, che conti-
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Giustizia europea
e processo penale:
nuovi scenari
e nuovi problemi
nuano ad essere riservate agli
Stati nazionali, i quali, in particolare, non cedono nulla all’Europa quanto ad esercizio della
giurisdizione in materia penale:
non ci sono e presumibilmente
non ci saranno, almeno a breve e
medio termine, giudici penali
europei. Però, l’apertura alla
creazione di squadre investigative comuni è un fatto di non scarso rilievo, così come lo sono i
potenziamenti che il Trattato di
Lisbona configura per l’attività
di Europol e soprattutto di
Eurojust, rendendola comprensiva del vero e proprio avvio di
indagini penali. Maggiore significato potrebbe avere quella che
l’art. 86 della versione consolidata del Trattato per il funzionamento dell’Unione, secondo il
testo di Lisbona continua a prospettare come creazione di una
“Procura europea”, sia pur ridimensionandola alquanto rispetto
a più ambiziosi progetti del passato, perché la confina negli
stretti limiti della tutela penale
degli interessi finanziari dell’Unione e la circonda di tanti
“paletti” procedurali.
Non meno significativi certi
capovolgimenti di principio che
si configurano nelle procedure di
assistenza giudiziaria. Due tendenze mi sembrano in particolare
da rimarcare: la tendenza a non
scorgere più, nella presenza di
autorità dello Stato richiedente
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all’esecuzione degli atti richiesti,
un evento eccezionale; e soprattutto la tendenza ad erigere a
regola l’adozione, ai fini di quell’esecuzione, delle forme e delle
procedure indicate dallo Stato
richiedente, salva l’osservanza
dei principi fondamentali di
diritto dello Stato richiesto
(come si esprime l’art. 4 della
Convenzione di assistenza giudiziaria, adottata a Bruxelles nel
2000, e destinata sotto tanti profili a sostituire, nell’ambito dell’Unione europea, quella di Strasburgo del 1959, a suo tempo
elaborata dal Consiglio d’Europa).
Anche da un altro punto di
vista si può notare un capovolgimento di principio. È nella definizione dei rapporti tra autorità
giudiziarie (o investigative) e
autorità politiche nella dinamica
della cooperazione. Si tratti di
consegna di persone (mandato di
arresto europeo) o di altre forme
di assistenza giudiziaria, si tende
ormai, sempre di più, a favorire il
rapporto diretto tra i soggetti
direttamente investiti di compiti
investigativi
o
giudiziari,
lasciando alla politica e all’amministrazione soltanto un ruolo
di supporto organizzativo e di
controllo “in extremis”. Può trattarsi di una delle espressioni di
una volontà di semplificazione,
che a sua volta emerge anche
sotto parecchi altri punti di vista;
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ma direi che c’è soprattutto una
robusta scelta di principio.
6. Improcrastinabile il dare
un seguito tangibile
alle sentenze della Corte
europea in tema
di “processo non equo”.
Quali e quanti, i problemi
nuovi? E come affrontarli?
Urgente problema è certo
quello di dare finalmente risposta alla pressante richiesta che ci
viene da Strasburgo, per non
lasciare senza seguito concreto e
tangibile le sentenze della Corte
europea, particolarmente in tema
di “processo equo”.
Negli ultimi anni abbiamo
assistito a parecchi interventi giurisprudenziali, sia da parte della
giurisdizioni di merito sia di
quella di legittimità. È stata ed è
una sorta di supplenza all’inerzia
legislativa: supplenza spinta sino
al punto di dichiarare cessata l’esecuzione di sentenze passate in
giudicato, come conseguenza che
si vorrebbe trarre hic et nunc dal
riconoscimento europeo che un
processo penale si è svolto in
modo “non equo”. Altri giudici
hanno invece portato davanti alla
Corte costituzionale la questione
della lacuna legislativa, chiedendo ai giudici di Palazzo della
Consulta una pronuncia additiva
con cui si venisse a legittimare, in
casi del genere, la revisione del
giudicato.
12
A questa richiesta, la Corte
costituzionale ha risposto di no,
dichiarando infondate le questioni prospettate in rapporto agli
articoli 3, 10 e 27 della Costituzione. Le argomentazioni della
sentenza 129 di quest’anno mi
sembrano, nel complesso, convincenti, ma non escluderei un
ripensamento della Corte se la
questione dovesse ripresentarsi
sotto l’angolo dell’art. 117.
La stessa sentenza appena
citata auspica comunque – e su
ciò non si può non esser d’accordo – che finalmente sia il legislatore a stabilire un rimedio efficace, che a mio modo di vedere
potrebbe proprio essere una revisione, sia pur sui generis. So che
si sono frapposte resistenze alle
iniziative già avviate in tal senso,
già nelle legislature precedenti, e
va detto che le resistenze sono
venute anche da associazioni
altamente meritorie per il loro
impegno civile nella lotta contro
la mafia. Vi è il timore che di
questo nuovo tipo di revisione
possano profittare gli esponenti
della peggiore criminalità. Ma
nel bilanciamento delle esigenze
non se ne può esasperare soltanto una. D’altronde, questo timore
dovrebbe poter essere esorcizzato con adeguate cautele nella
strutturazione del nuovo istituto,
senza dimenticare che proprio la
Corte europea ha più volte precisato che l’accertamento della
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Giustizia europea
e processo penale:
nuovi scenari
e nuovi problemi
“non equità” del processo non
significa di per sé che la condanna eventualmente inflitta sia
ingiusta: orbene, proprio questa
osservazione dovrebbe anche
spingere la giurisprudenza ad
evitare ulteriori “fughe in avanti”
come quella cui ho accennato,
della cessazione dell’esecuzione
come effetto automatico della
pronuncia della Corte europea
che abbia accertato la violazione
della norma convenzionale.
7. Collaborazione
istituzionale per prevenire
conflitti tra Corti.
Problemi spinosi – e, questi,
non facilmente risolubili nemmeno con opportune iniziative
legislative – si prospettano, più
in generale, in conseguenza dell’accavallarsi di fonti e di competenze circa la tutela dei diritti
umani, tra Costituzioni interne
(per noi, tra la Costituzione italiana), la Convenzione europea
dei diritti umani, la Carta di
Nizza, e, correlativamente, tra
Corti costituzionali, Corte di
Strasburgo, Corte del Lussemburgo.
Senza entrare sul terreno dei
rapporti tra i due ambiti “europei”, particolarmente complesso
e forse destinato a diventarlo
ancor di più con la versione dei
trattati europei adottata a Lisbona mi limito a un cenno quanto
alle relazioni tra Corte costitu-
La
Magistratura
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della
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Magistrati
zionale e Corte europea dei diritti umani, per dirmi dubbioso sul
fatto che ogni difficoltà possa
considerarsi risolta a seguito
delle pur apprezzabilissime aperture della nostra Corte, circa il
rango delle norme ricavabili
dalle convenzioni internazionali
di tutela dei diritti umani, e in
primo luogo delle norme desumibili dalle clausole della Convenzione europea.
Qui, lo sforzo di una collaborazione istituzionale mi pare
essenziale, per prevenire potenziali conflitti ed eventualmente
per risolverli pianamente. Collaborazione che si deve affidare
anzitutto alla sensibilità dei giudici delle rispettive Corti, sebbene abbia forse bisogno anche di
qualche strumento normativo.
Un primo profilo da
approfondire dovrebbe essere
quello dei possibili contrasti tra
norme costituzionali “interne” e
norme della Convenzione, così
come risultanti dal “diritto
vivente” applicato dai giudici di
Strasburgo. Qui, i giudici di
Palazzo della Consulta hanno
detto che deve prevalere la
norma costituzionale interna, e lo
si può comprendere; ma quando
un quel contrasto vi fosse, e si
dichiarasse incostituzionale (e
dunque non applicabile in Italia)
la norma ricavabile dalla Convenzione, non si configurerebbe
un illecito internazionale? È pur
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Le idee
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vero che, per lo più, il profilarsi
di conflitti dovrebbe essere scongiurato dalla clausola di riserva,
che la Convenzione stessa pone
in favore di eventuali maggiori
garanzie del diritto statale; ma
non è escluso che in qualche
interstizio delle rispettive normative (tanto più se viste alla luce
del ”diritto vivente”, come ritiene necessario la stessa Corte
costituzionale) potrebbero pur
rimanere contrasti non risolubili:
e penso specialmente alle ipotesi
di garanzie fondamentali in
potenziale conflitto tra loro (ad
esempio, pubblicità delle udienze e riservatezza dei singoli).
In ogni caso, proprio per la
ricognizione del “diritto vivente”
europeo, mi sembra che si ponga
un problema: chi deve garantire,
in ultima analisi, l’autenticità
della rilevazione, dal momento
che la giurisprudenza, anche dei
giudici di Strasburgo, non è definita una volta per tutte ma risulta
da un susseguirsi di pronunce su
singoli casi concreti? Sarebbe
allora inimmaginabile l’instaurazione di un meccanismo costruito sulla falsariga di quella “pregiudiziale comunitaria”, in forza
della quale una risposta della
Corte di giustizia è sollecitata dal
giudice interno al fine di sapere
come interpretare questa o quella
clausola della normativa dell’Unione? Insomma, è troppo ardito
pensare a una specie di ”pregiu14
diziale human rights”, da
costruire in favore della Corte
europea dei diritti umani per non
lasciare ai giudici interni (Corte
costituzionale compresa) la
responsabilità di fraintendimenti?
8. “No” a eccessi
di “patriottismo giuridico”.
È, quello appena evocato, un
settore della problematica in
relazione al quale sarebbe probabilmente eccessivo agitare come
attuale un rischio, che pure può
intravedersi sullo sfondo: è il
rischio di un patriottismo fuori
luogo, costruito sulla presunzione che sotto ogni profilo le soluzioni normative (tanto più se
costituzionali) raggiunte nell’ordinamento italiano siano il non
plus ultra in tema di garanzie
individuali e di loro armonizzazione con le esigenze di tutela
della collettività.
Questo rischio mi pare semmai essersi fatto tangibile in rapporto ad altri aspetti della problematica che si va ad affrontare in
questo nostro convegno.
Penso soprattutto a quanto è
spesso emerso a proposito del
mandato di arresto europeo.
Intendiamoci. Certe perplessità
sulle soluzioni adottate nella formulazione della decisione-quadro possono anche essere condivise, soprattutto (ma non solo)
per quanto riguarda la genericità
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Giustizia europea
e processo penale:
nuovi scenari
e nuovi problemi
di alcune delle categorie di fattispecie inserite nella lista dei reati
“a consegna obbligatoria” a prescindere da accertamenti circa la
“doppia incriminazione” da parte
dello Stato emittente e da parte
dello Stato richiesto.
Quella che mi è parsa sempre
inaccettabile è stata la pretesa di
imporre agli altri Stati, come
condizione per la consegna,
garanzie del tutto identiche a
quelle previste nel nostro ordinamento. Pensiamo ai limiti temporali alla custodia cautelare. Non
esito a dire che ho trovato sconcertante l’idea di escludere l’esecuzione del mandato di arresto
europeo, quando la richiesta provenisse da uno Stato come il
Regno unito, solo perché non vi
è prevista una normativa come
quella dei nostri articoli 303 e
seguenti del codice di procedura
penale, anche se in quel Paese è
notorio che, se si prescinde dalle
recenti e a loro volta sconcertanti leggi antiterrorismo, le persone
sono largamente più tutelate che
in Italia contro eccessive durate
delle carcerazioni in attesa di
giudizio; e, questo, non soltanto
per un diverso costume giudiziario, ma anche in virtù di sistemi
alternativi di tutela, ben più efficaci dei nostri, a partire da quello imperniato sul controllo periodico a brevi intervalli circa la
“tenuta” delle ragioni per cui una
persona è stata imprigionata ...
La
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Fortunatamente le Sezioni unite
della Cassazione hanno optato
per un’interpretazione “ortopedica” della legge italiana di attuazione del mandato, che depotenzia la condizione ostativa stabilita dalla legge stessa all’esecuzione del mandato: non necessariamente – ha sottolineatola Corte
di legittimità – i ”limiti” della
custodia cautelare devono essere
stabiliti, nell’ordinamento dello
Stato emittente, secondo lo schema dei termini massimi legislativamente fissati in giorni, mesi e
anni, ma possono ben risultare
dal funzionamento, appunto, di
meccanismi diversi, e in particolare dalla efficace messa in opera
di controlli giudiziari periodici.
9. Fiducia reciproca
tra gli Stati europei
e armonizzazione legislativa:
non contrapposizione,
ma interazione.
L’opporsi a quella sorta di
patriottismo giuridico fuori
luogo non equivale a liquidare
ogni problema – tra quelli che
sorgono per la diversità delle
legislazioni nazionali d’Europa –
con un semplice richiamo, a mo’
di passe-par-tout, alla reciproca
fiducia tra gli Stati europei,
anche se essa è posta, e doveva
essere posta, alla base dello sviluppo, in termini anche assolutamente inediti, della cooperazione
nell’ambito dell’Unione.
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Soprattutto non mi sembra
che quel richiamo possa tramutarsi in un troppo facile slogan
per eludere l’esigenza perdurante
(e direi, sempre più pressante) di
un’armonizzazione tra le legislazioni europee, che a mio modo di
vedere può e deve ancora essere
portata alquanto avanti, sebbene
non sia pensabile, nel breve e nel
medio periodo, l’adozione di
codici uniformi di procedura.
Insomma, tra fiducia e armonizzazione ci deve essere interazione, non contrapposizione o
sovrapposizione dell’una sull’altra.
Mi auguro che a tal fine possa
svolgere un ruolo importante la
stessa legislazione comunitaria,
secondo quanto previsto dall’art.
82 della versione consolidata del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (mi riferisco al
testo di Lisbona), secondo cui,
«laddove necessario per facilitare il riconoscimento reciproco
delle sentenze e delle decisioni
giudiziarie e la cooperazioni di
polizia e giudiziaria nelle materie penali aventi dimensione
transnazionale», gli organi legislativi europei (Parlamento e
Consiglio) «possono stabilire
norme minime deliberando
mediante direttive»che «tengono
conto delle differenze tra le tradizioni giuridiche e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri«»;
e mi sembra importante che al
16
riguardo si indichino, quali possibili oggetti di disciplina, materie
come quella dell’«ammissibilità
reciproca delle prove tra gli Stati
membri», ma altresì quelle dei
«diritti delle persone nella procedura penale» e «delle vittime
della criminalità», lasciando poi
ancora aperta la porta per l’individuazione, sia pur attraverso
procedure di normazione molto
rigorose, di «altri elementi specifici della procedura penale».
In proposito spero mi si permetta di ribadire un’idea già
espressa nella Relazione generale
affidatami nel 2004 a Dublino
nell’ambito XXI Congresso della
Federazione Internazionale del
Diritto Europeo, e cioè che ci
sono qui le premesse per la
costruzione di una sorta di “regole intermedie”, tra i grandi princìpi (che, soprattutto per quanto
concerne i diritti dell’accusato,
già troviamo fissati – e forse persino con una sovrabbondanza e
un accavallamento di fonti –
nelle diverse “Carte” dei diritti
fondamentali della persona
umana) e le regole procedurali di
maggior dettaglio, giustamente
da lasciare alle legislazioni
nazionali. Sono le “regole intermedie”, quelle senza le quali mi
sembra rimanere un miraggio
quel livello adeguato di armonizzazione che è indispensabile per
una reciproca fiducia non solo di
facciata.
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Giustizia europea
e processo penale:
nuovi scenari
e nuovi problemi
Tante altre considerazioni
potrebbero ancora farsi, ma,
naturalmente, non pretendevo di
offrire nulla di esaustivo né, tantomeno, di risolutivo, cercando
soltanto di presentare congetture
e convinzioni come mi sono
venute più spontanee in occasione di questo appuntamento,
anche se in qualche caso sono
tratte da elucubrazioni di più
lunga data.
Un cenno, semmai, mi pare
ancora opportuno alla linea di
tendenza che – come ho detto –
emerge dalla più recente evoluzione della normativa europea,
nel senso di spostare in via di
principio sulle relazioni dirette
tra autorità giudiziarie la responsabilità maggiore delle iniziative
volte a sollecitare e ad attuare la
cooperazione. È una scelta che
mi pare del tutto positiva, per
liberare la cooperazione di giustizia dai condizionamenti, spesso pesanti, che la politica è in
grado di esercitare a fini non
sempre di interesse pubblico.
Questo va detto con forza, ma mi
sembra opportuno aggiungere
che rimane un’esigenza di tempestiva informazione verso chi
ha il compito di curare il quadro
generale delle relazioni europee
e internazionali del Paese, affinché possa, se del caso, quantomeno illuminare le autorità straniere sulle eventuali perplessità
che potrebbero far sorgere inizia-
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Magistratura
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della
Associazione
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tive giudiziarie non sufficientemente attente a quel quadro.
10. “Libertà, sicurezza
e giustizia”:
tre obiettivi inscindibili
per la costruzione dello
“spazio giuridico europeo”.
Non vorrei però terminare
senza una riflessione d’insieme,
come mi viene suggerita dalla
qualificazione che si è voluta
dare allo “spazio” in cui si concentra lo sforzo dell’Unione
europea per un comune impegno
nel settore penale ad opera dell’Unione stessa e degli Stati che
ne fanno parte.
Vuol essere – lo ribadiscono i
trattati europei anche nella loro
ultima versione – uno spazio «di
libertà, sicurezza e giustizia».
Ora, le tre specificazioni, se si
vogliono mantenere e potenziare
adeguati livelli di civiltà giuridica, sono inscindibili. Come giuristi e come cittadini europei
dobbiamo sottolinearlo con
forza.
In tempi non remoti, si è forse
avuta troppa indulgenza da parte
di molti – e ancora oggi la tendenza non si è del tutto spenta –
per visioni unilaterali delle
garanzie processuali, come se
l’attaccamento alle libertà civili
dovesse farsi a scapito della sicurezza e della giustizia e come se,
accanto alle garanzie dei singoli,
non ci fossero le garanzie per la
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collettività o come se, accanto ai
diritti dell’accusato, non dovesse
aversi riguardo per i diritti della
vittima (o della potenziale vittima) del reato.
Oggi, però, il rischio è tornato
ad essere soprattutto quello di
esasperazioni unilaterali delle
esigenze di sicurezza: esigenze
di per sé sacrosante, intendiamoci, specialmente quando toccano
la vita dei poveri e degli umili,
che più sentono sulla loro pelle i
problemi della sopravvivenza
contro i prepotenti di ogni genere e della difesa contro gli attacchi di una criminalità brutale. Ma
esigenze, intanto, da non strumentalizzare al servizio di interessi contingenti di parte, a scapito di un’autentica attenzione
per la giustizia; ed esigenze,
comunque, da coordinare con
un’adeguata tutela di diritti e di
libertà fondamentali.
Tutto ciò, anche per non fare
il gioco di chi, attentando alla
sicurezza dei cittadini, vuole in
realtà colpire al cuore i livelli di
civiltà giuridica che la parte
migliore dell’umanità ci ha trasmesso in una faticosa lotta contro barbarie di ogni genere, di
generazione in generazione. E
quando dico parte migliore dell’umanità non penso assolutamente all’appartenenza a questa
o quella parte del mondo, geograficamente o politicamente
intesa, anche se certamente, nel18
l’elaborazione del concetto di
diritti umani e nella predisposizione di strumenti per la loro
tutela, molti figli dell’Occidente
e in particolare dell’Europa
hanno dato un apporto determinante, forse anche per reazione al
fatto che proprio in Europa sono
nate ed hanno dato i loro perversi frutti alcune tra le peggiori
aberrazioni antiumanitarie.
Espressione massima di
civiltà giuridica è l’idea della
preminenza di una serie di diritti
umani, al di là delle controversie
e delle oscillazioni storiche sui
contenuti della categoria e sulle
loro modulazioni concrete. Guai
se ce lo dimenticassimo.
Note:
1. Il presente scritto riproduce la parte centrale della relazione introduttiva del XX Convegno Nazionale dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale “Gian Domenico Pisapia”, svoltosi a Torino nei giorni 26-27 settembre 2008.
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La magistratura italiana di
fronte al terrorismo interno
ed internazionale dagli anni
di piombo alla war on terror1
*Procuratore
della Repubblica
Aggiunto in Milano
Coordinatore
Dipartimento
Eversione
ed Antiterrorismo
Giustizia e terrorismo
Intervento di Armando Spataro*
Il ruolo della magistratura italiana nel contrasto del terrorismo
interno e di quello internazionale
è stato – ed è ancora – oggetto di
analisi e commenti di fonti diverse e di segno opposto. Taluni giudizi critici, però, sono stati spesso formulati senza il necessario
approfondimento storico: ci si
intende riferire, in particolare, a
quanti hanno sostenuto, da un
lato, che tra la fine degli anni ’70
e l’inizio degli ’80, i magistrati
italiani avrebbero in qualche
modo assecondato la logica delle
cd. leggi dell’emergenza, prestando poca attenzione alla lesione dei diritti e delle garanzie
degli imputati che di quelle leggi
sarebbe stata la naturale conseguenza e, dall’altro, che pubblici
ministeri e giudici non sarebbero
oggi in grado di affrontare con la
necessaria professionalità e fermezza il tragico fenomeno del
terrorismo internazionale, eccedendo in garantismo e non rendendosi conto che “questo terrorismo non si può certo contrastare con il codice in mano”. Per il
passato, quindi, un’accusa di
insensibilità ai principi su cui si
regge ogni democrazia; per l’attualità, quella opposta, di ignorare, cioè, che le regole sono ormai
cambiate e che, più del processo
e della risposta giudiziaria, conta
oggi l’intelligence.
Vediamo come stanno veramente le cose, partendo da una
20
ricostruzione, dedicata soprattutto ai magistrati più giovani, di
quanto avvenne tra la fine degli
anni ’70 e gli anni ’80: proprio in
quegli anni, infatti, i magistrati
italiani dimostrarono l’importanza di una elevata specializzazione professionale ed “inventarono” il lavoro di gruppo ed il
coordinamento spontaneo tra
uffici impegnati in indagini collegate.
La magistratura italiana
negli “anni di piombo”.
La situazione della Polizia
Giudiziaria, prima del sequestro
Moro (16 marzo 1978), era
sostanzialmente la seguente: nel
1974, dopo il sequestro Sossi e la
strage di Piazza della Loggia
erano stati, sì, costituiti l’Ispettorato per l’azione contro il terrorismo (affidato al Vice Capo della
Polizia, Emilio Santillo) ed il
Nucleo Speciale di P.G. dei CC.
(diretto dal Generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa), entrambi
finalizzati, nella sostanza, a dare
supporto all’A.G. di Torino nelle
prime indagini sulle BR, ma
entrambi tali reparti, nonostante
gli ottimi risultati conseguiti,
erano stati sciolti o trasformati.
Tale scelta, secondo alcuni commentatori dovuta all’erroneo
convincimento che le BR fossero
state definitivamente sconfitte
con l’arresto di Curcio e di altri
storici esponenti di quell’orga-
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La magistratura italiana
di fronte al terrorismo
interno ed internazionale
dagli anni di piombo
alla war on terror
nizzazione, non aveva però
determinato un effettivo indebolimento degli apparati di investigazione: ne aveva piuttosto
determinato una diversa strutturazione, con perdita della guida
centralizzata e della capacità di
muoversi agilmente su tutto il
territorio dello Stato senza
vischiosità burocratiche. Tutti gli
uomini di quel primo Nucleo di
Dalla Chiesa, ad esempio, erano
stati trasferiti nelle sezioni specializzate antiterrorismo di Milano, Torino, Genova, Padova,
Bologna, Firenze, Roma, Napoli,
Taranto e Catania, costituite a
seguito dell’espandersi del terrorismo in varie zone d’Italia.
Erano reparti esentati da qualsiasi altro tipo di indagini ed impiego. Mancava, certo, una guida
unica, ma la loro dipendenza dai
tre Comandi di Divisione di
Milano, Roma e Napoli ne assicurava comunque un buon coordinamento. Ai “veterani” furono
affiancati giovani e promettenti
ufficiali e sottufficiali e le loro
dotazioni, in termini di materiali
e mezzi, furono certamente di
qualità. Anche la Polizia di Stato
si strutturò più o meno allo stesso modo: l’Ispettorato generale
di Santillo era articolato anche in
alcuni nuclei regionali istituiti
presso le sedi più importanti, le
cui competenze talvolta si
sovrapponevano a quelle degli
Uffici politici allora esistenti
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Magistratura
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della
Associazione
Nazionale
Magistrati
presso le Questure. Ma, dopo la
riforma dei Servizi di informazione del 1977, cioè all’inizio del
1978, i nuclei regionali e gli uffici politici furono sostituiti dalle
Digos (Direzioni Investigazioni
Generali e Operazioni Speciali)
– costituite nelle Questure capoluoghi di Regione nonché a
Padova, Trento e Catania – cui fu
attribuita la competenza per le
indagini in materia di terrorismo.
Ma mentre le forze di polizia
giudiziaria avevano già intrapreso il cammino verso una più diffusa specializzazione in questa
materia, la magistratura, salvo
che a Torino, era decisamente
indietro: mancavano la cultura
del coordinamento reciproco tra
uffici giudiziari e la capacità di
coordinare gli uffici di polizia
giudiziaria. Si spiega, allora, perché il sequestro dell’on. Moro
colse le istituzioni impreparate:
indagini frammentate, talvolta
approssimative e comunque
prive di coordinamento, costituivano la normalità quasi dappertutto.
Proprio nel ’78, però, in particolare nel periodo post Moro, la
situazione registrò un’evoluzione positiva grazie all’iniziativa
autonoma di PM e Giudici Istruttori, che diedero vita ad un coordinamento spontaneo tra gli uffici giudiziari interessati dal fenomeno ed alla creazione, al loro
interno, di gruppi specializzati
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nel settore del terrorismo. Il
sistema di legge non prevedeva
allora né Direzioni Nazionali né
alcuna norma in tema di coordinamento, anzi conosceva barriere formali che ostacolavano lo
scambio di notizie. Ciononostante, a partire dalla metà del ‘78,
quei magistrati, superando ogni
logica formalistica ed ogni possibile diversità di estrazione culturale, cominciarono ad incontrarsi
spontaneamente, con periodicità
molto ravvicinata, sempre con
modalità riservate e, talvolta,
persino presso sedi ubicate in
località decentrate.
Quel gruppo di magistrati
investigatori non superava il
numero di venti-venticinque
unità: nei loro incontri, si scambiavano in tempo reale notizie
sulle indagini ed elaboravano
indirizzi giurisprudenziali applicati uniformemente (in quegli
anni, ad esempio, fu elaborata la
teoria del concorso morale, poi
confermata dalla Cassazione,
secondo cui vennero chiamati a
rispondere degli attentati rivendicati dalle organizzazioni coloro che, pur in assenza di prove
sulla loro partecipazione materiale ad omicidi e ferimenti, rivestivano funzioni di capi ed organizzatori nel periodo e nelle aree
territoriali ove quei delitti venivano commessi e rivendicati).
Quando poi si manifestarono i
primi “pentiti”, tra la fine del ‘79
22
e l’inizio ‘80, ne facevano immediatamente circolare i verbali,
accordandosi sulla ripartizione di
competenze “a fare” e su tempi e
modalità di eventuali e conseguenti sbocchi operativi (perquisizioni ed arresti).
Anche l’evoluzione delle strategie dei gruppi armati, le loro
“risoluzioni strategiche” e i
volantini di rivendicazione venivano analizzati dai magistrati
che indagavano sul fenomeno,
alcuni dei quali avevano il compito di confrontare e sintetizzare
i documenti d’interesse: in
assenza di computer e banche
dati, essi divennero la memoria
storica della produzione ideologica dei gruppi terroristi.
Questo tipo di specializzazione e di auto-organizzazione –
non è superfluo ricordarlo – vide
protagonisti solo i pubblici ministeri ed i giudici istruttori, senza
che alcuno invocasse la crezione
di tribunali speciali o di un’unica
Corte o di una Procura competenti su tutto il territorio nazionale per quel tipo di reati.
In breve, a quelle riunioni,
presero a partecipare anche i
responsabili locali, e talvolta
nazionali, degli organismi investigativi della P.G. che andavano
a loro volta recuperando la loro
specializzazione (il nuovo
nucleo
speciale
interforze
comandato dal gen. Dalla Chiesa
venne costituito il 10.8.78): pro-
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di fronte al terrorismo
interno ed internazionale
dagli anni di piombo
alla war on terror
prio per effetto di questo stretto
rapporto tra magistrati e polizia
giudiziaria fu possibile non solo
dare attuazione piena al principio
della sottoposizione della P.G.
alle direttive del Pubblico Ministero (ed, all’epoca, anche dei
Giudici Istruttori), ma anche,
attraverso il leale confronto tra le
rispettive esperienze ed impostazioni di lavoro, favorire reciprocamente una consistente crescita
di professionalità e la capacità di
coordinamento di tutte istituzioni
impegnate nelle indagini giudiziarie sul terrorismo.
Risale a quel periodo, dunque, la creazione di una sorta di
task force composta da magistrati e poliziotti, capace di valutare
congiuntamente le modalità ed i
tempi degli sviluppi investigativi
con l’attenzione rivolta alle regole e alle necessità del futuro
dibattimento, prudente nell’analizzare la reale pertinenza o
meno dei fenomeni di cd. antagonismo sociale (fisiologici in
qualsiasi democrazia avanzata)
alla pratica del terrorismo vero e
proprio: insomma, nulla a che
vedere con la deleteria prassi
delle “deleghe in bianco” per le
indagini (“...per indagini e rapporto”), o con la pretesa di alcuni corpi di P.G. – purtroppo oggi
riaffiorante – di arrogarsi la funzione di coordinamento propria
degli uffici del P.M.
Si è già ricordato in premessa
La
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della
Associazione
Nazionale
Magistrati
che, secondo alcuni commentatori, quegli anni furono pure caratterizzati dalla produzione di una
legislazione emergenziale in
nome della quale sarebbero stati
sacrificati diritti e garanzie degli
imputati. Si fa spesso riferimento, a tal proposito, alla legge
“Reale”, cioè alla L. n. 152/’75
(Disposizioni a tutela dell’ ordine
pubblico) che introdusse, tra l’altro, divieti alla concessione della
libertà provvisoria, una nuova
disciplina del fermo di P.G., nonchè possibilità di un più ampio
ricorso a perquisizioni personali
“sul posto” senza autorizzazione
dell’A.G., ma si omette di ricordare che questa legge risale ad un
periodo in cui il terrorismo non si
era ancora manifestato nelle sue
forme più cruente: si trattava di
una normativa che cercava di
fronteggiare soprattutto gli effetti
delle manifestazioni violente di
piazza dei primi anni ‘70. Era,
dunque, una legge sull’ordine
pubblico, non sul terrorismo, proprio per questo poco utilizzata
per il contrasto di questo fenomeno. Del tutto inutilizzati furono
anche altri nuovi strumenti introdotti in quegli anni, come ad
esempio, la possibilità, in presenza di determinati requisiti, della
perquisizione per blocchi di edifici (introdotta con il D.L. n. 59/78,
conv. nella L. n. 191/78): nessun
serio investigatore, infatti,
potrebbe preferire uno strumento
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di questo genere al paziente lavoro di osservazione e pedinamento
indispensabile nelle indagini contro ogni tipo di criminalità organizzata. Magari fu utile, invece,
l’obbligo imposto ai proprietari
di immobili di denunciare i contratti di locazione dei medesimi,
una norma che disorientò almeno
Prima Linea, i cui capi – come
poi si seppe – decisero di abbandonare molti appartamenti che
usavano come basi dell’organizzazione. Ma gli strumenti “emergenziali” effettivamente utili contro il terrorismo, invece, sono
stati altri, sostanzialmente due: in
primo luogo, l’aggravante dell’avere commesso il fatto per finalità di terrorismo con divieto di
giudizio di comparazione con le
possibili attenuanti. Questa
norma venne introdotta con il
D.L. n. 625/79 (conv. nella L. n.
15/80), dopo il tragico episodio
di Via Ventimiglia a Torino, dove
in una scuola di formazione
aziendale, un nucleo di terroristi
di Prima Linea scelse a caso dieci
persone che la frequentavano, le
fece allineare contro un muro,
“gambizzandole” tutte. L’aumento della pena, naturalmente, produsse conseguenze sulla durata
della custodia cautelare. L’altra
utile innovazione, introdotta con
lo stesso D.L., fu la normativa
premiale in favore dei cd. “pentiti”. La legge n. 15/80 è tuttora in
vigore e non è dunque una legge
24
eccezionale, ma uno strumento
ordinario introdotto nel sistema.
Si tratta di una legge che si rivelò
talmente utile da essere stata poi
estesa al contrasto di molti altri
fenomeni criminali, come la
mafia, il traffico di stupefacenti,
la tratta delle persone etc.. Meccanismi analoghi – come si sa –
sono conosciuti in molti altri
sistemi e sono caratterizzati,
peraltro, da un tasso minore di
rispetto per le garanzie degli
“accusati”. I magistrati, peraltro,
alla luce dei risultati conseguiti
grazie a quella legge, formularono precise osservazioni tecniche
che servirono da base per un successivo intervento normativo,
preceduto da un vasto dibattito
nel Paese ed approvato in Parlamento praticamente all’unanimità: la legge n. 304/82, che,
all’indomani dell’omicidio di
Roberto Peci (3.8.81), fratello del
primo pentito delle BR, introdusse benefici ancora maggiori (possibilità di più incisive riduzioni di
pena e di libertà provvisoria, nonché casi di non punibilità per i
responsabili di alcuni delitti) per i
terroristi che avessero scelto la
strada della piena collaborazione
processuale entro il breve termine previsto dalla legge. Ma gli
stessi magistrati, consci dell’eccezionalità di questo ulteriore
strumento, che aveva senso solo
in quel contesto storico, si pronunciarono compatti contro la
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di fronte al terrorismo
interno ed internazionale
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proroga della sua validità. Furono
questi, dunque, gli “strumenti
eccezionali” utilizzati contro il
terrorismo: è facile constatare
come essi non si collocassero in
alcun modo al di fuori di un sistema di leggi che, salvaguardando
le libertà dei singoli, si proponeva solo di rendere più efficace il
contrasto di quel tragico fenomeno criminale. Tanto più ove si
consideri che i benefici premiali
previsti dalle leggi citate, diversamente da quanto avviene in
altri sistemi, potevano – e possono – essere concessi solo dal giudice competente a seguito del
vaglio dibattimentale.
Va anche doverosamente sottolineato che pubblici ministeri e
giudici istruttori, in quegli anni,
non intrattennero – salvo che in
un caso riguardante lo stragismo
di destra, da cui scaturirono polemiche ed un processo penale –
rapporti funzionali con i Servizi
d’Informazione ma solo con la
polizia giudiziaria: non certo per
preconcetta ed ingiustificata diffidenza nei confronti dei primi,
ma per la precisa consapevolezza
della diversità di ruoli e competenze tra P.G. e Servizi stessi.
Non a caso per i servizi, riformati nel ’77, fu previsto l’obbligo di
riferire le notizie di reato alla
polizia giudiziaria, tramite i
rispettivi vertici: un obbligo che
permane con la recente riforma
del 2007.2
La
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della
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È giusto ricordare, infine, che
maturò proprio in quegli anni la
convinzione dei magistrati italiani di dovere “uscire” dai loro
palazzi per discutere di legalità
in scuole ed università, in circoli
di quartiere e nelle fabbriche, in
sedi di associazioni culturali ed
ovunque fosse possibile : allora
per diffondere la conoscenza
della perversa ideologia terroristica e così contrastare con fermezza il verbo di chi teorizzava
la neutralità (“né con lo Stato, né
con le Brigate Rosse”), negli
anni seguenti – ed ancora oggi –
contro la logica mafiosa, la corruzione ed a difesa dei principi
costituzionali.
Il terrorismo interno del
periodo storico, sia di destra che
di sinistra, fu dunque definitivamente sconfitto nell’88 proprio
grazie a questi strumenti, alcuni
dei quali vennero poi “codificati” solo negli anni seguenti: tra
l’ultimo omicidio consumato in
quegli anni, quello del senatore
della DC Roberto Ruffilli (Forlì,
16.4.88), e quello del prof. Massimo D’Antona (Roma, 20.5.99),
che ruppe il lungo silenzio delle
BR, trascorsero infatti undici
anni. Certo, le B.R. hanno ucciso
ancora: il 19.3.2002, a Bologna,
hanno colpito il giuslavorista
Marco Biagi ed il 2.3.2003, a
Castiglion Fiorentino, il Sovr.te
Emanuele Petri, ma più di cinque
anni sono trascorsi da quest’ulti25
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ma tragedia e di nuovo le B.R.
(anche quelle definite le “nuove
B.R.”), paiono scompaginate
grazie all’efficacia dell’azione
delle forze di polizia e della
magistratura italiana. Non è possibile abbassare la guardia neppure ora, ma non vi è dubbio che
i vecchi metodi di indagine, il
proficuo rapporto tra PG e PM
(all’interno della descritta task
force investigativa) e la professionalità degli investigatori specializzati sono risultati ancora
indispensabili contro il terrorismo interno, rafforzati, anzi,
dalla capacità di utilizzo delle
moderne tecnologie.
Si tratta, a ben vedere, esattamente dello stesso “armamentario”, fatto di esperienza e cultura
giuridica, messo utilmente in
campo, da qualche anno, anche
contro la nuova emergenza costituita dal terrorismo internazionale. Vediamo come ciò sia stato
possibile, pur in un contesto
internazionale che sembra favorire il ricorso a strumenti e logiche
incompatibili con le nostre tradizioni culturali e con i principi su
cui si regge ogni democrazia.
L’“11 settembre”
e la “war on terror”
Sono passati più di vent’anni
da quando l’allora Capo dello
Stato, Sandro Pertini, affermò,
riferendosi alle B.R. ormai
scompaginate, che il nostro
26
Paese poteva vantarsi di avere
sconfitto il terrorismo con gli
strumenti previsti dalla Legge,
dunque nelle aule di giustizia e
non negli stadi. Né mai alcuna
voce si levò in quegli anni a teorizzare l’utilizzo di pratiche illegali o di “modiche quantità” di
tortura per contrastare quel fenomeno criminale che così duramente aveva colpito le istituzioni
ed i cittadini italiani. Ma anche
nel resto d’Europa (in Germania
e Francia contro altri terrorismi
“interni” di matrice politicoideologica; in Spagna, Gran Bretagna ed Irlanda contro i terrorismi separatisti), il contrasto del
terrorismo degli anni ’70 ed ’80
fu condotto in un contesto che,
pur caratterizzato da non marginali differenze ordinamentali e
procedurali, appariva generalmente rispettoso delle regole del
processo. Oggi la situazione a
livello internazionale è purtoppo
diversa: la condivisa ed orgogliosa rivendicazione del Presidente
Pertini, il cui fondamento si è fin
qui cercato di dimostrare, sembra
ormai lontana un secolo o più,
ove si considerino il sistema
Guantanamo introdotto dall’Amministrazione Bush, o tante
“autorevoli” parole di esperti e
governanti, cariche di significative allusioni, tra cui quelle di
Tony Blair (“The rules of the
game are changing”) e del Presidente pro tempore del Consiglio
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del Ministri italiano, pronunciate
nel dicembre del 2005 (“non ci si
puo’ aspettare che i governi combattano il terrorismo con il codice in mano”). Persino in ambienti accademici d’oltreoceano si
diffonde il pensiero di quanti teorizzano la flessibilità dei principi
e l’esistenza di zone grigie in cui
sarebbero ammissibili, in nome
della sicurezza, attività normalmente considerate contra legem:
teorizzazioni che, senza concessione alcuna, devono semplicemente essere respinte.
Il terrorismo, infatti, quando si
manifesta al di fuori dei contesti
di guerra, non è una modalità bellica, ma, persino quando determina tragedie di immani proporzioni, è una forma di criminalità
organizzata, sia pure con caratteristiche e motivazioni ben diverse
da quelle note al tempo dei citati
“terrorismi interni”.
Ovviamente, atti di terrorismo vengono realizzati anche in
tempo ed in zone di guerra, ed in
questo caso l’intervento del giurista non può che esaurirsi nel
richiamo al diritto bellico, all’invocazione del rispetto assoluto
della Convenzione di Ginevra,
dei suoi protocolli addizionali e,
più in generale, del diritto umanitario. Ma anche queste regole
vengono spesso violate, a partire,
ad esempio, dalla stessa creazione della categoria dei cd. enemy
combatants, che deve la sua
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ragion d’essere proprio al disegno di sottrarre i sospetti terroristi “catturati” in ogni parte del
mondo alle regole del diritto
umanitario e persino alla giurisdizione dei Tribunali Militari
ordinari : seguendo questa logica, però, si corre il rischio di
vanificare, attraverso atti amministrativi e politici unilaterali,
decenni di elaborazione sul
rispetto dei diritti umani e delle
norme pattizie intervenute in
materia.
Proprio avvocati statunitensi,
civili e militari, infatti, hanno più
volte denunciato che la segretezza sulle fonti di prova a carico
degli accusati ed i metodi utilizzati per l’acquisizione delle
prove stesse, hanno reso i processi ai detenuti di Guantanamo,
assolutamente incompatibili persino con le regole dei processi
che si celebrano dinanzi alle
Corti marziali. Quelli che seguono sono alcuni dati su quanto
avviene a Guantanamo forniti da
un avvocato di Boston, Willet P.
Sabin, specialista in difese
dinanzi alle Commissioni militari, in un meeting internazionale
tenutosi
a
Stoccolma
il
19.11.2007:
- periodo di detenzione media
per i prigionieri di Guantanamo:
6 anni;
- percentuale catturati in guerra: 5%;
- percentuale persone detenu27
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te non accusate di atti di violenza: 55%;
- numero di persone formalmente accusate: 10.
- condannati tra 2002 e 2007: 1.
Il fallimento del sistema in
questione – che, come è noto,
ormai imbarazza le Autorità
USA – è già dimostrato da questi
dati, ma anche dalle recenti
dimissioni dell’ ex Chief Prosecutor di Guantanamo, il col.
Morris DAVIS dell’U.S. Air
Force ed, ancor più, dalla storica
sentenza della Corte Suprema
degli Stati Uniti del 12.6.2008
nei casi Boumediene vs. Bush –
Al Odah vs. United States. Il col.
Davis ha prima formalmente
denunciato le pressioni del Pentagono in relazione ai casi che
dovevano essere giudicati a
Guantanamo dinanzi alla Commissioni Militari e, dopo essersi
rifiutato di utilizzare prove
acquisite attraverso sistemi illegali, quali tortura e waterboarding, si è dimesso dall’incarico.
Successivamente, nell’aprile del
2008, in uno dei primi processi
celebrati a Guantanamo dopo
l’entrata in vigore del Military
Commission Act del 2006, ha
testimoniato a favore di Salim
Ahmed Ahmed Hamdan, accusato di essere stato l’autista di
Osama bin Laden, riferendo
delle pressioni subite e delle
ragioni che lo avevano indotto a
dimettesi. La storica sentenza
28
della Corte Suprema nei casi
Boumediene-Al Odah, invece, ha
inferto un durissimo colpo al
Military Commission Act, affermando il diritto dei prigionieri di
Guantanamo a ricorrere alla giustizia ordinaria “...perché le leggi
e la Costituzione sono state definite proprio per sopravvivere e
non piegarsi in tempi straordinari. Perché libertà e sicurezza
possono essere riconciliate nella
cornice dello Stato di diritto”.
Ma, al di là di qualche infastidito
commento, non sono ancora note
le iniziative che, dopo la sentenza, saranno eventualmente
assunte dalla Amministrazione
USA, già fortemente critica nei
confronti della Convenzione di
Ginevra, al punto da auspicarne
la revisione.
Il delicato equilibrio tra esigenze di sicurezza e rispetto dei
diritti e delle garanzie degli
imputati sembra comunque a
rischio: una sommaria ricognizione dei contenuti essenziali
delle scelte legislative e di politica criminale attuate nel mondo
occidentale dopo l’11 settembre
sembra portare a concludere che,
soprattutto nei Paesi di tradizione giuridica anglossassone, stia
prevalendo una filosofia che
sembra negare in radice ogni
conflitto teorico fra sicurezza e
libertà, essendo vista la prima
soltanto come un mezzo – anzi il
mezzo privilegiato – per difende-
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re e garantire la seconda. L’11
giugno 2008, ad esempio, appena un giorno prima della citata
decisione della Corte Suprema
americana, l’House of Commons
aveva approvato la norma, fortemente voluta dal Primo Ministro
Gordon Brown, che avrebbe permesso alla polizia britannica di
sottoporre a fermo per ben 42
giorni (ma attualmente sono pur
sempre 28) i sospetti terroristi
senza formalizzazione dell’accusa. Certo, la norma era passata
per soli sei voti ed è stata poi
severamente bocciata in ottobre
dall’House of Lords (309 voti a
118), ma si tratta in ogni caso di
una scelta che deve far riflettere
l’intera comunità internazionale.
La “filosofia” di certi interventi è ormai nota: interessano le
“informazioni”, non i processi e
si pensa che, sacrificando i diritti,
sia più facile ottenerle e così prevenire i rischi per la sicurezza
della collettività. E si aggiunge
che questa sarebbe la conseguenza accettabile della difficoltà di
ottenere condanne in sede giudiziaria. L’una e l’altra osservazione sono prive di fondamento. È
falso, innanzitutto, che, sottratta
una persona ad una procedura
legale e trasportata in una prigione “dura” o segreta, sia più facile
ottenere dalla medesima informazioni su complici e progetti illegali: sono gli stessi esperti, non
più sottovoce e non solo di scuo-
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la europea, a dire che mai una
sola informazione veramente
utile è stata ottenuta per questa
via.3 Chi è sotto tortura, infatti, è
portato a dire ciò che il torturatore si aspetta, non certo la verità
(anche se è ovvio che, seppur
fosse vero il contrario, ciò non
basterebbe a giustificare alcuna
forma di illegalità). Soprattutto,
però, si ignora che tali forme di
illegalità “istituzionali” costituiscono fattore di moltiplicazione
di potenziali terroristi: ai gruppi
estremisti, cioè, vengono in tal
modo elargite nuove ragioni di
proselitismo. Quanto alle difficoltà di ottenere una condanna in
sede giudiziaria, si tratta, da un
lato, di un’affermazione anch’essa falsa4, dall’altro di un rilievo
ovvio in democrazia, ove ci si
riferisca al fatto che le condanne
possono fare seguito solo all’acquisizione di prove certe e rassicuranti, “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Non si comprende
perché mai per una certa categoria di reati e – peggio – per certe
categorie di imputati, per lo più
stranieri, le democrazie occidentali dovrebbero adottare regole
diverse, fondate su una sorta di
“depersonalizzazione del terrorista”, cioè sulla collocazione nella
categoria dei terroristi di qualsiasi persona sospetta rispondente
ad un determinato tipo di autore.
Ed, in ogni caso, anche in presenza di molteplici sospetti a carico
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di una persona, possono le democrazie occidentali accettare che
questa venga, per ciò solo, sottratta alle ordinarie procedure
legali e ad un giusto processo in
un’aula di giustizia?
Tutto ciò – come si può facilmente intuire – rimanda al controllo di legalità che, in ogni
democrazia, spetta al potere giudiziario.
Certo nei Paesi dell’Europa
continentale, – anche in quelli
colpiti da gravissimi attacchi terroristici, come la Spagna – la
tendenza prima descritta è meno
accentuata e le scelte fondamentali sono state improntate a criteri assai diversi, quasi ovunque
compatibili con i principi dello
Stato di diritto e gli standards
normativi internazionali. Tuttavia, anche in Europa, si estendono deroghe, strappi, lesioni più o
meno profonde del principio di
legalità .
L’affievolirsi dei controlli
giurisdizionali, ad esempio, sta
diventando persino eclatante
nelle norme in materia di espulsioni degli stranieri per motivi di
prevenzione del terrorismo che si
diffondono in ogni parte d’Europa. Non si può negare che esistono problemi rilevanti per i Paesi
occidentali relativi a quanti vi si
trasferiscono con il deliberato
proposito di delinquere ed è
chiaro che in tali casi il discorso
chiama in discussione altre logi30
che di risposta, preventive e
repressive. Ma non possono
accettarsi soluzioni generalizzate, uguali ed applicabili per ogni
tipologia di migranti, nè è accettabile l’equazione, falsa in fatto,
secondo cui gli immigrati clandestini o irregolari sono tutti, od
in buona parte, delinquenti
comuni o terroristi, quando invece sono spesso vittime di un
sistema criminale che prospera
sul loro sfruttamento.
Questo terrorismo – è ovvio –
va combattuto al livello più alto
di capacità e determinazione, ma
nessuna esigenza di prevenzione,
pur comprensibile, può spingere
le democrazie occidentali verso
la adozione di scorciatoie per
bypassare i procedimenti giudiziari ed il loro carico di “scomode” regole per trasformarli da
luogo di accertamento delle
responsabilità personali in strumento di ratifica di scelte, non
rispettose dei diritti individuali,
operate altrove. La comunità
internazionale, infatti, non ha
bisogno, neppure nei confronti di
chi si dichiara nemico irriducibile dell’Occidente, di simili insopportabili “strappi”, ma solo di
strategie condivise fondate sull’adozione di una legislazione
specialistica intelligente, sul
rafforzamento della cooperazione
internazionale e sull’affinamento
delle tecniche investigative.
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ed il terrorismo
internazionale.
In questo contesto, la polizia
giudiziaria e la magistratura italiana – sia consentito affermarlo
– sono ancora una volta in prima
linea, opponendosi alla deriva
“barbarica” sin qui descritta e
dimostrando la necessità e l’efficacia del rispetto delle regole
anche nel contrasto di questo
nuovo tragico terrorismo.
Sin dalla metà degli anni
novanta, infatti, si sono sviluppate in Italia le prime inchieste sul
terrorismo internazionale con i
primi arresti e le condanne dei
militanti dei gruppi indagati. Alle
soglie del 2000 ed anche prima
dell’11 settembre tali indagini si
sono estese ed hanno interessato
numerose sedi giudiziarie, nel
Nord, Centro e Sud d’Italia.
Sono stati numerosi gli aderenti ad organizzazioni terroristiche di cd. matrice islamica condannati in questi ultimi anni in
Italia, in molti casi anche in via
definitiva, pur se, fino al 2004, le
loro condanne riguardavano prevalentemente reati di associazione per delinquere (art. 416 cp)
finalizzate al favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina,
ed al traffico di documenti di
identità falsi. Ciò è dipeso – è
chiaro – dal fatto che il reato di
associazione per delinquere con
finalità di terrorismo anche inter-
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nazionale è stato inserito nell’art.
270 bis cp solo con il D.L.
n.374/2001, convertito nella L.
n.438/2001, mentre le condotte
giudicate in quei primi processi
erano temporalmente anteriori
all’autunno 2001. Tuttavia, nelle
motivazioni delle sentenze di
condanna per condotte così temporalmente collocate, viene
esplicitamente riconosciuto che
le attività dei condannati rientravano nel programma criminale di
associazione agenti con finalità
di terrorismo internazionale. A
partire dal 2004, invece, sono
intervenute numerose condanne
anche per violazione dell’art.
270 bis cp, che smentiscono l’erroneo assunto (alimentato in Italia da alcune pronunce del 2005
che hanno suscitato polemiche e
che, a seguito delle impugnazioni proposte, sono state annullate
e definitivamente ribaltate)
secondo cui questo terrorismo
non potrebbe essere affrontato e
sanzionato nelle aule giudiziarie.
Si tratta di risultati resi possibili non solo grazie alla professionalità della nostra polizia giudiziaria, ma anche grazie al ritorno alle virtuose esperienze del
passato: ancora una volta, cioè, i
magistrati italiani hanno dato
prova di capacità di auto-organizzazione e di coordinamento
spontaneo, pur nella perdurante
assenza di una Procura Nazionale Antiterrorismo e della correla31
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ta Banca dati.
Le Procure Distrettuali competenti in materia di terrorismo
ed eversione ex art. 51 c. quater
cpp, infatti, sin dai primi mesi
del 2003, hanno assunto la decisione di organizzare spontaneamente – come già avvenne nel
1978 – il loro coordinamento.
Conseguentemente, ogni tre
mesi circa, magistrati appartenenti alle 26 Procure in questione si incontrano per scambiarsi
aggiornamenti sulle indagini in
corso in ciascuna sede, per elaborare indirizzi strategici e giurisprudenziali in materia, per
intensificare i rapporti di coordinamento e fare il punto del non
sempre soddisfacente livello
della cooperazione internazionale. A tale ultimo fine, il membro
italiano di Eurojust partecipa agli
incontri cui, talvolta, sono stati
invitati anche i magistrati di collegamento di Spagna, Francia e
Gran Bretagna operanti in Italia.
Gli incontri si svolgono ormai
stabilmente presso il Consiglio
Superiore della Magistratura che
ha messo a disposizione un’aula
attrezzata. I partecipanti alle riunioni in questione spesso realizzano supporti informatici per i
colleghi delle altre Procure al
fine di un più agevole scambio di
informazioni: niente di diverso
rispetto a quanto, nella fine degli
anni ’70 ed inizio anni ’80, veniva realizzato con lo scambio di
32
fotocopie. In questo caso, però,
lo scambio di informazioni su
supporto informatico serve
anche ad alimentare il sistema di
banche dati che, sempre spontaneamente, le 26 Procure Distrettuali stanno mettendo a punto e
che si trova già in uno stato di
avanzata realizzazione.
È doveroso ricordare, a questo punto, che anche nel settore
del cd. terrorismo islamico, così
come avvenne tra il ’78 e l’82, si
sono succeduti interventi legislativi, ovviamente utilizzabili
anche contro il terrorismo interno. È qui impossibile analizzarli
in dettaglio o anche solo elencarli5, ma ne vanno citati almeno
due: il primo, quello decisamente più rilevante, intervenuto subito dopo l’ “11 settembre”, costituito dal citato D.L. n. 374/2001,
convertito nella L. n. 438/2001
(“Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale”), è caratterizzato da una
precisa scelta di estensione ai
procedimenti in materia di terrorismo di istituti nati per il contrasto della criminalità organizzata
mafiosa. Sono stati così introdotti non solo il reato di Associazione con finalità di terrorismo
anche internazionale” (con
riformulazione dell’articolo 270
bis del Codice Penale), ma, in
analogia con quanto previsto per
il contrasto della mafia, anche la
competenza delle 26 Procure
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della Repubblica presso le sedi
di distretto in ordine alle indagini in materia di terrorismo, al
fine di garantire la concentrazione del sapere investigativo; la
possibilità di effettuare intercettazioni telefoniche, ambientali e
di flussi informatici in presenza
di sufficienti (e non gravi) indizi
di reato e di necessità (non assoluta indispensabilità) delle intercettazioni; l’estensione al settore
del terrorismo internazionale
delle misure di prevenzione personali e reali, originariamente
previste per il settore della mafia
etc..
Il secondo intervento legislativo, immediatamente successivo
agli attentati di Londra del luglio
del 2005, è il D.L. n. 144/2005
(cd. Decreto Pisanu), recante
“Misure urgenti per il contrasto
del terrorismo internazionale”,
convertito con L. n. 155/2005.
presenta, tra l’altro, alcuni aspetti sicuramente innovativi, come
l’introduzione di nuovi reati nel
Codice Penale e l’attesa definizione giuridica delle “condotte
con finalità di terrorismo” (attraverso formule che richiamano il
testo dell’art.1 della Decisione
Quadro del Consiglio dell’Unione Europea del 13.6.2002). Ma si
tratta di un intervento sicuramente caratterizzato, diversamente
da quelli del 2001, da una manifesta logica di enfatizzazione del
tendenziale primato – rispetto ad
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ogni altra istanza – delle funzioni di prevenzione dei rischi per la
sicurezza dello Stato tipicamente
proprie degli apparati di polizia e
di intelligence e, in generale,
delle connesse responsabilità
dell’autorità politica. Si spiega,
così, la tendenza che obiettivamente emerge dal nuovo “pacchetto” a svincolare l’azione
antiterrorismo dalla direzione e
dal controllo degli uffici del Pubblico Ministero: si vedano, a tal
proposito, le nuove norme in
materia di espulsioni degli stranieri per motivi di prevenzione
del terrorismo, che rivelano la
pericolosa tendenza del nuovo
“pacchetto” ad affievolire la tutela dei diritti delle persone; o la
possibilità per i direttori dei servizi di informazione di richiedere di essere autorizzati dalle Procure Generali presso le Corti
d’Appello allo svolgimento di
intercettazioni preventive.
Resta inspiegabile, invece, la
mancanza di un intervento diretto a favorire il coordinamento
giudiziario delle indagini in
materia di terrorismo, attraverso
l’istituzione della Procura Nazionale Antiterrorismo. Al di là
delle variegate giustificazioni
date nel dibattito politico alla
perdurante assenza nel sistema di
una siffatta disciplina, appare
chiaro che l’attribuzione ad un
ufficio giudiziario centrale delle
funzioni che, con riferimento alla
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criminalità organizzata mafiosa
ovvero a questa assimilata, dal
1993 effettivamente svolge la
Direzione nazionale antimafia,
consentirebbe
elaborazione
razionale delle strategie di intervento giudiziario, concentrazione e circolazione delle conoscenze da realizzarsi anche attraverso
un efficace sistema di banca dati,
nonché l’adeguamento del nostro
sistema alla logica della cooperazione internazionale, che espressamente esige l’individuazione
di riferimenti nazionali unitari
per lo scambio delle informazioni e il coordinamento delle iniziative investigative.6
La pur sommaria menzione
delle caratteristiche principali di
questi due più rilevanti interventi legislativi ha in questa sede
una precisa ragione: dimostrare
che, come già avvenuto all’epoca
del terrorismo interno degli anni
settanta ed ottanta, il Legislatore
ha adottato strumenti che, in
alcuni casi, sono effettivamente
utili per un più incisivo contrasto
del terrorismo internazionale ed
in altri poco significativi. Ma esiste una parte residua e fortunatamente non prevalente, di dubbia
compatibilità con il sistema delle
regole conosciute nel nostro
ordinamento, quale conseguenza
della descritta tendenza internazionale a considerare il processo
un ingombrante ostacolo sulla
strada della sicurezza e della pre34
venzione dei rischi.
Ecco perché, ancora oggi,
come trenta e venti anni fa, tocca
alla magistratura un ruolo equilibratore del sistema, capace, da
un lato, di valorizzare, anche in
questo settore, gli strumenti efficaci che non determinano lesioni
delle garanzie individuali e, dall’altro, di “contenere” derive
pericolose per la stessa credibilità della nostra democrazia.
Si spiega lo sforzo di pubblici
ministeri e della polizia giudiziaria nella direzione del recupero
ed affinamento delle tecniche
investigative conosciute, oggi
arricchite dal sapiente governo
delle tecnologie disponibili.
Spetta ad una moderna magistratura “investigante” la conoscenza e l’uso mirato delle nuove
tecniche di intercettazione telefonica e delle comunicazioni tra
presenti (pur se le possibilità di
proficuo sfruttamento di queste
ultime potrebbero essere seriamente compromesse dalla annunciata modifica del c. 2 dell’art.
266 Cpp7), come spetta ai giudici
l’obbligo di un rigoroso controllo
giurisdizionale della ricorrenza
dei presupposti autorizzativi dei
provvedimenti in questione e la
loro motivazione effettiva (il che
determina una situazione ben
diversa da quella conosciuta in
altri ordinamenti, ove siffatte
valutazioni sono affidate ad
Autorità politiche o di Polizia).
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di fronte al terrorismo
interno ed internazionale
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alla war on terror
Spetta ai Pubblici Ministeri
l’amministrazione oculata dei
propri poteri autorizzativi delle
intercettazioni preventive ad
opera della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del
Corpo della Guardia di Finanza,
in modo da evitare che il loro
abuso determini un aggiramento
sostanziale delle norme che presidiano le intercettazioni giudiziarie. E le Procure Generali, dal
canto loro, pur non disponendo
del know-how necessario per
valutare la potenziale interferenza delle attività informative dei
servizi di sicurezza nelle ordinarie attività di investigazione,
sono chiamate a gestire con prudenza le autorizzazioni delle
intercettazioni preventive dei
Servizi di Informazione (che, per
la verità, le hanno fino a questo
momento richieste in quantità
molto modeste), onde scongiurare quel rischio di sovrapposizione di competenze di cui si tratterrà appresso.
Ma se il tema dei limiti legali
per le intercettazioni telefoniche,
specie in chiave preventiva, si
presta a rappresentare l’esempio
concreto di come uno strumento
di indiscutibile necessità ed utilità investigativa possa essere
utilizzato in violazione dei diritti
fondamentali dei cittadini, sono
molti altri i moderni strumenti
che la magistratura italiana e la
nostra polizia giudiziaria sanno
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
sapientemente utilizzare nelle
indagini contro il terrorismo
internazionale: dall’analisi delle
tracce degli apparati telefonici
mobili (che così eclatanti risultati hanno consentito di conseguire
anche nei confronti delle BR)
alle indagini scientifiche, le cui
potenzialità sono innegabili pur
in presenza del pericolo di atteggiamenti troppo fideistici in relazione ai risultati che esse permettono; dalle possibilità di disporre
il ritardato arresto, il differimento di perquisizioni e sequestri
etc. offerte dalla L. 146/2006
(Ratifica ed esecuzione della
Convenzione e dei Protocolli
delle N.U. contro il crimine
organizzato
transnazionale,
adottati dall’Assemblea Generale il 15.11. 2000 ed il 31.5.2001)
alla valutazione ed oculata selezione dei tanti, forse troppi, dati
personali cui la modernità ci
consente di accedere, con il
rischio – però – che il loro accumulo generi difficoltà nel distinguere quelli utili da quelli inutili
ed amplifichi a dismisura l’area
dei potenziali sospetti.
Gli strumenti tradizionali,
d’altro lato, non sono meno
importanti, ai fini dell’ accertamento della verità, delle moderne tecnologie. Quanto alle tecniche di interrogatorio, ad esempio, mentre altrove si discute
incredibilmente della legittimità
del waterboarding8, i magistrati
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Nazionale
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italiani ben sanno quanto sia preferibile la strada del rispetto della
identità di indagati ed imputati
che può persino favorire, anche
in relazione al cd. terrorismo
islamico, la scelta della collaborazione processuale.
Anche su altri “terreni”, però,
si sta manifestando la “tenuta”
costituzionale e la correttezza
dell’agire della magistratura italiana: ci si intende riferire al
sistema delle cd. black list, al
tema della collaborazione internazionale ed ai rapporti con i
Servizi di informazione.
Il sistema delle “black list”,
come è noto, risponde alla giusta
esigenza di contrastare il finanziamento del terrorismo internazionale, dando luogo a procedure
di cd. congelamento dei fondi,
delle risorse economiche e dei
beni delle persone o delle associazioni inserite nelle liste stesse,
in quanto sospettate di attività
terroristiche o a sostegno di
gruppi terroristici. Ma l’inserimento nelle black list (che vengono periodicamente aggiornate)
avviene, a livello di organismi
sia delle N.U. che dell’E.U.,
all’interno di una procedura che
muove da opzioni e proposte
politiche (fondate, soprattutto, su
fonti di polizia e di intelligence)
senza, cioè, che sia richiesto
alcun definitivo accertamento
giudiziario preliminare: ne deriva che tanto più forte è il peso
36
politico dello Stato proponente,
tanto più alte saranno le probabilità di accoglimento delle sue
proposte. Il sistema, però, appare
complessivamente inaccettabile
sul piano della tutela delle garanzie non tanto per l’assenza di
preliminari statuizioni giudiziarie circa le responsabilità penali
dei titolari di risorse e beni congelati (non essendo la sentenza
definitiva una condizione dell’azione preventiva), quanto per
l’assenza di efficaci rimedi giuridici che consentano a queste persone di far valere le proprie
ragioni, ad es. attraverso un
ricorso contro i provvedimenti
che le riguardano, e richiedere,
così, la cancellazione dalle liste.
Vari altri problemi, di cui è qui
possibile solo la citazione, si
ricollegano peraltro a questo
sistema: quelli delle modalità di
conservazione dei beni oggetto
del freezing, della tutela dei diritti dei terzi in buona fede, degli
errori derivanti dalla mancanza
di precisi dati anagrafici o dalle
omonimie dei soggetti inseriti
nelle liste etc.. La normativa italiana è stata ovviamente adeguata a quella internazionale, determinando, nella pratica investigativa, un interrogativo di non
secondaria importanza: può ritenersi, cioè, che il mero inserimento del nominativo di una persona (o di un’associazione) nelle
cd. black list costituisca elemen-
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interno ed internazionale
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to di prova a suo carico, penalmente rilevante ?
Dopo isolate incertezze iniziali, la risposta fornita dalla
magistratura italiana, compresa
la Corte di Cassazione, è stata
assolutamente negativa, essendosi correttamente affermato
che, dati i suoi presupposti, il
mero inserimento nelle liste può
costituire, quando non accompagnato da esiti di accertamenti
giudiziariamente utilizzabili,
solo uno spunto per avviare o
arricchire le indagini, ma non
certo un elemento di prova. Ed in
un caso clamoroso – conclusosi
con l’archiviazione di un procedimento per violazione dell’art.
270 bis cp, originariamente
iscritto sulla sola base dell’inserimento nelle black list dei nomi
di quattro indagati– le pertinenti
valutazioni critiche dei P.M. italiani sono risultate perfettamente
in linea con la evoluzione della
giurisprudenza
comunitaria,
secondo cui le misure dell’Unione Europea in questa materia
devono salvaguardare i diritti
fondamentali dei soggetti (persone ed entità) coinvolti in tali procedure, tra cui il diritto ad un
giusto processo con contraddittorio, il diritto ad un’effettiva tutela giurisdizionale ed a conoscere
le ragioni delle decisioni adottate.9 Nella stessa direzione – ed,
anzi, con ulteriori passi in avanti
– la fondamentale sentenza
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Magistratura
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Magistrati
“Kadi-Al Barakaat” del 3 settembre 2008 della Corte di Giustizia delle Comunità europee
(Grande sezione).10 La Corte di
Giustizia ha infatti esplicitamente affermato che la Comunità
europea, in ragione di quanto
dispongono gli articoli 60, 301 e
308 del Trattato comunitario, è
competente ad adottare regolamenti sul congelamento di fondi
e altre risorse economiche per
contrastare il terrorismo internazionale adottati in attuazione di
risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Ma anche questi regolamenti, come tutti gli atti
comunitari, devono rispettare i
diritti fondamentali tutelati dalla
Comunità europea, in particolare
i diritti della difesa e il diritto di
proprietà. I diritti fondamentali –
ha scritto la Corte – sono principi costituzionali del Trattato
comunitario, aventi una forza
giuridica superiore rispetto agli
atti del diritto comunitario derivato, nei cui confronti si pongono quale condizione di legittimità.
Il Consiglio d’Europa a Strasburgo, peraltro, ha già esaminato la compatibilità tra il sistema
delle black list ed i principi della
Convenzione per la salvaguardia
dei Diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali : dopo il
rapporto fortemente critico del
16.11.2007 del sen. Dick Marty,
Relatore della Commissione
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Affari Legali e Diritti Umani,
l’Assemblea Parlamentare del
Consiglio ha approvato il
23.1.2008 la Risoluzione n. 1597
e la Raccomandazione n. 1824 in
cui sono stati accolti tutti i rilievi
formulati dal Sen. Marty rispetto
al sistema delle Black List. Gli
Stati membri dell’Unione Europea sono stati invitati, tra l’altro,
ad adottare i provvedimenti
necessari a rendere effettivo il
principio dell’habeas corpus e
garantita la procedura di freezing
nei confronti di coloro che vi
sono di volta in volta sottoposti,
mentre la Commissione dei
Ministri è stata invitata a rivolgersi allo stesso scopo alle
Nazioni Unite e ad verificare in
futuro se gli Stati membri del
Consiglio di Europa adotteranno
le misure auspicate “nell’interesse della credibilità della lotta
internazionale contro il terrorismo. Può affermarsi, insomma,
che almeno l’Europa si muove
nel solco delle valutazioni proprie dei magistrati italiani che se
ne sono occupati: il sistema delle
black list, in sostanza, sta al contrasto del finanziamento del terrorismo come il sistema Guantanamo sta alla “punizione” senza
regole dei terroristi, almeno finchè non saranno possibili un’efficace difesa ed il ricorso giurisdizionale di persone ed entità
avverso i provvedimenti di freezing che le riguardino.
38
Quanto alla cooperazione
internazionale, i dati desumibili
dall’esperienza concreta consentono di affermare che in alcuni
casi i rapporti di cooperazione tra
organi di p.g. e magistrature di
Stati diversi hanno funzionato e
determinato ottimi risultati (tra
Italia, Spagna e Germania,
innanzitutto). In altri, invece, la
cooperazione è stata soltanto
declamata senza alcun effettivo
risultato pratico. Ma sempre la
magistratura e le forze di polizia
italiane, forti dell’esperienza
conseguita in passato anche nel
campo dell’antimafia, hanno
sostenuto con forza – e nei fatti
attuato – il principio secondo cui,
in particolare nel contrasto del
terrorismo, nessuno è il proprietario esclusivo della notizia e la
circolazione delle informazioni
deve essere invece immediata e
spontanea, anche in assenza di
formali richieste di assistenza
giudiziaria (pur dovendosi
ovviamente concordare obblighi
di reciproco rispetto di eventuali
esigenze di riservatezza).
Certo esistono problemi giuridici da risolvere a livello internazionale (quelli, ad es., della definizione, non ancora condivisa, di
“atto di terrorismo” e di “associazione terroristica”, dell’ammissibilità del processo in absentia, dell’effettivo riconoscimento
del principio del ne bis in idem e
dell’utilizzabilità delle prove
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raccolte secondo la lex loci, salva
l’ovvia eccezione delle prove
acquisite in violazione dei diritti
umani e dei principi fondamentali di ciascuno Stato) ma, al di là
della creazione di nuove istituzioni preposte al contrasto del
terrorismo internazionale o dell’approvazione di nuove convenzioni e risoluzioni, di cui non si
avverte l’urgente bisogno, occorre far vivere ed operare effettivamente quelle già esistenti, secondo mentalità e convinzioni che
purtroppo non sono, come in Italia ed in altri pochi Stati, patrimonio diffuso in Europa, né tra
gli investigatori statunitensi.
Strettamente connesso a queste considerazioni è il tema
dell’uso improprio dei Servizi
di informazione. Secondo alcuni governi l’utilizzo prioritario
dei Servizi contro il terrorismo
internazionale sarebbe indispensabile sia per consentire un’azione preventiva in nome della sicurezza attraverso metodi border
line o più semplicemente illegali
(ma di questa opzione, richiamando quando precisato in precedenza, non è più il caso di
occuparsi), sia perché solo gli
appartenenti ai medesimi sarebbero in grado di comprendere ed
analizzare ideologia, proclami e
programmi dei terroristi cd. islamici. Tale affermazione appare
risibile in relazione al sistema
italiano, vista la ben nota e rico-
La
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della
Associazione
Nazionale
Magistrati
nosciuta capacità di ciascun
appartenente ai reparti antiterrorismo della Polizia Giudiziaria
ordinaria di compiere efficacemente tali analisi. È più utile,
invece, una riflessione sugli
equivoci che ancora animano la
comunità internazionale circa il
ruolo dei Servizi nel contrasto
del terrorismo, un ruolo certamente essenziale che però non
può essere confuso con quello
proprio della polizia giudiziaria:
tali equivoci riguardano il tema
della provenienza e della effettiva utilizzabilità delle informazioni all’interno dei processi.
Occorre sul punto chiarezza:
l’attività degli organi di polizia
giudiziaria è direttamente mirata
all’individuazione ed acquisizione di prove destinate ad essere
utilizzate nei processi e valutate
nelle sentenze dei giudici, mentre quella dei cd. servizi di informazione è funzionale a compiti
di prevenzione da perseguire
anche attraverso la raccolta di
notizie con modalità diverse da
quelle previste nel campo giudiziario. Ovviamente, i servizi di
informazione e le forze di polizia
giudiziaria dovranno sapersi tra
loro coordinare e le notizie che
dagli uni perverranno alle altre
ben potranno essere sviluppate
ed assumere eventualmente
forma legale nel corso delle indagini; ma va evitato che, da un
lato, polizia e magistratura tra39
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sferiscano nei processi, senza
alcuna attività di riscontro investigativo, dati e notizie di fonte
meramente informativa; dall’altro, che i servizi di informazione
si ritengano titolari di funzioni
investigative in senso proprio,
assimilabili a quelle della polizia. Se ciò è ammesso in altri
sistemi, non lo è in Italia.
Queste valutazioni devono
essere ribadite pur dopo l’approvazione della Legge di riforma
dei Servizi di informazione
3.8.2007, n. 124 (“Sistema di
informazione per la sicurezza
della Repubblica e nuova disciplina del segreto”), approvata in
tempi rapidissimi ed a larghissima maggioranza anche nel
dichiarato intento di impedire
l’insorgere di contrasti tra magistratura e Presidenza del Consiglio in tema di opposizione di
segreto di Stato. Non è questa la
sede per un più articolato commento su questa legge ed, in particolare, per una valutazione
delle procedure autorizzative e
dell’ambito di operatività delle
garanzie funzionali di cui all’art.
17, ma è certo che queste sono
finalizzate a conferire maggiore
efficacia all’attività di prevenzione dei Servizi e non ad attribuire
loro le competenze tipiche della
polizia giudiziaria. Ne è prova
l’immutato obbligo dei direttori
dei servizi di riferire alla P.G. (a
sua volta obbligata dal codice di
40
rito a fare altrettanto, nel più
breve tempo possibile, nei confronti del PM competente) ogni
notizia di reato di cui vengano a
conoscenza a seguito delle attività svolte dal personale dipendente (art. 23, commi 6,7 ed 8
della Legge). Certo, non si può
ignorare che in alcuni ordinamenti (ad es., in quello britannico e francese), i servizi ivi operanti rivestono anche compiti di
polizia in senso proprio, ma – in
una dimensione di cooperazione
europea – occorre che, ove ciò si
verifichi, i servizi si attengano ai
protocolli propri dell’attività di
polizia giudiziaria, innanzitutto
facendo circolare le notizie nella
loro pienezza e con le forme
legali richieste (in modo che le
notizie stesse e le relative fonti
siano pienamente conoscibili dai
difensori di indagati ed imputati). Diversamente, quelle notizie
devono restare fuori dai processi
e costituire mero spunto per le
indagini della P.G., sotto la direzione del P.M. .
La guerra per la conquista
dei cuori e delle menti.
Ancora una volta, insomma,
sia i pubblici ministeri che i giudici italiani si ritrovano a costituire – come sin qui è stato – un
argine invalicabile contro la
generale assuefazione all’idea
che le regole della giurisdizione
siano un inutile impaccio del
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quale liberarsi, anche per contrastare – in futuro – fenomeni criminali ben meno gravi del terrorismo: si tratta di una tendenza
che preoccupa anche il Parlamento Europeo ed il Consiglio
d’Europa che sul tema sono
intervenuti più volte con solenni
risoluzioni.
Le affermazioni che precedono potrebbero far nascere il
sospetto che chi scrive attribuisca all’azione della magistratura
e delle collegate forze di polizia
giudiziaria ruoli e competenze da
sé sufficienti a sconfiggere questo terrorismo. Non è così, poiché nessuno può seriamente pensare che il successo sperato possa
essere raggiunto solo con le
indagini, con i processi, così
come con la cosiddetta attività di
intelligence, e neppure con la
guerra. Occorre all’evidenza
anche la piena e convinta collaborazione delle comunità da cui i
terroristi provengono. Sarebbe
facile, a tal proposito, invocare la
necessità di favorire la integrazione delle comunità degli immigrati nel nostro tessuto sociale,
ma occorre anche altro, qualcosa
di diverso e più specifico. Se è
vero, infatti, che non si può fingere una integrazione che non
c’è e che spesso è anzi rifiutata in
nome di una incrollabile fedeltà
ai canoni più rigidi della propria
identità religiosa e culturale, è
La
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pur vero che nelle nostre democrazie è ben praticabile la strada
del confronto con i musulmani,
attraverso la rottura della incomunicabilità ed al fine di stabilire le basi di un rispetto reciproco.
Il vero universalismo dei diritti,
come è stato scritto, sta proprio
in questo, nel rispetto – ovunque
– delle persone come sono, evitando ogni tendenza a trasferire
su tutti i componenti di una
comunità le responsabilità di
pochi o di una parte della medesima. Diversamente, non riusciremo ad impedire che nelle
comunità islamiche si diffonda
l’odio contro le democrazie occidentali che tradiscono se stesse.
L’ex Presidente della Corte
Suprema d’Israele, Ahron Barak,
ha scritto in una storica e pluricitata sentenza del 2004 che le
democrazie sono costrette a
combattere il terrorismo con una
mano legata dietro la schiena, ma
che proprio questo apparente fattore di debolezza si rivela alla
fine la ragione della tenuta e del
successo dei sistemi democratici.
Non c’è immagine più efficace
per spiegare i nostri doveri ed è
un’immagine bellissima ed a noi
cara anche perchè proviene dalla
penna di un giudice.
È giusto esigere che le regole
della nostra società siano osservate fino in fondo anche da parte
di chi, proveniente da Paesi lontani, solo da poco le ha conosciu41
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te, ma perché ciò avvenga occorre che vi siano innanzitutto sottoposti coloro che hanno istituzionalmente il dovere di farle rispettare. Ecco, in poche parole, il
ruolo della magistratura : assicurare la sottoposizione alla legge
di tutti, in posizione di eguaglianza, anche in presenza di
emergenze tragiche. Ciò conferisce autorità morale a chi intende
dissuadere gli altri dal terrorismo, convincendoli che esistono
– e sono praticabili – alternative
efficaci per il miglioramento
delle condizioni di vita proprie e
della comunità di appartenenza.
Ma ogni volta che si usa la forza
si finisce con il fornire all’avversario nuove prove dello scontro
di civiltà su cui egli fonda il suo
sforzo di radicalizzazione.
Per questo credo che proprio
l’azione della magistratura e
delle forze di polizia giudiziaria
italiane costituisca un modello
per le democrazie occidentali e
tracci la strada per vincere la battaglia in corso tra l’Occidente ed
il terrorismo, che “non è una
battaglia per la supremazia globale. È una battaglia per la conquista dei cuori e delle menti”.11
42
Note
1. Quest’articolo utilizza anche riflessioni
già oggetto di precedenti relazioni ed interventi
dell’autore
2. Il tema delle diverse competenze di P.G.
e Servizi d’informazione verrà comunque trattato più avanti, con riferimento all’attualità.
3. A tale proposito, Malcolm W. Nance ,
consigliere dell’Antiterrorismo statunitense
(U.S. government’s Special Operations Homeland Security) ha efficacemente ricordato: “On
a Mekong River trip, I met a..man..In torture,
he confessed to being a hermaphrodite, a CIA
spy, a Buddhist Monk, a Catholic Bishop and
the son of the King of Cambodia. He was
actually just a schoolteacher whose crime was
that he once spoke French.”
4. Sul punto, si rimanda all’allegato prospetto, aggiornato a novembre del 2008, delle
numerose condanne intervenute in Italia, per
reati di terrorismo internazionale, dopo l’11 settembre 2001.
5. Sia consentito, sul punto, il richiamo alla
relazione su “Le forme attuali di manifestazione del terrorismo nella esperienza giudiziaria:
implicazioni etniche, religiose e tutela dei
diritti umani” (pagg. 48-55) di A. Spataro,
tenuta in occasione dell’Incontro di Studi del
CSM su “Terrorismo e crimine transnazionale:
aspetti giuridici e premesse socio organizzative
del fenomeno” (Roma, 5/7.3.2007), consultabile sul sito del CSM.
6. Con risoluzione adottata dall’Assemblea
Plenaria del 12.7.2006, anche il Consiglio
Superiore della Magistratura, dopo un
approfondito esame della normativa e delle
prassi internazionali, nonché delle esigenze
concretamente imposte dal fenomeno del terrorismo internazionale, si è categoricamente
espresso sul punto: “ In conclusione, la costituzione di un organismo di coordinamento (ndr.:
definito nel documento “D.N.A.T.”, cioè “Direzione Nazionale Anti Terrorismo”) è ormai
necessaria. Essa è anzi urgente, in quanto
occorre dare risposta alle esigenze derivanti
dal contrasto del terrorismo internazionale”
7. Secondo l’art. 3 del Disegno di Legge
governativo recante “Norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali.
Modifica della disciplina in materia di astensione del giudice, degli atti di indagine e integrazione della disciplina sulla responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche”,
infatti, il c. 2 dell’art. 266 cpp dovrebbe essere
così modificato : “Negli stessi casi è consentita
l’intercettazione di comunicazioni tra presenti
solo se vi è fondato motivo di ritenere che nei
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luoghi ove è disposta si stia svolgendo l’attività
criminosa.” (ci si riferisce al testo della bozza
del suddetto DDL diffusa il 13.6.2008).
8. Dopo le dimissioni dell’ Attorney General Alberto Gonzales, il Presidente Bush ha
designato alla carica il giudice federale in pensione Michael Mukasey . Presentatosi il 18
ottobre 2007 dinanzi alla Commissione Giustizia del Senato USA, egli ha sostanzialmente
rifiutato di rispondere alla domanda di un senatore democratico che gli chiedeva se considerasse il “waterboarding” una forma di tortura,
evasivamente affermando che “se il waterboarding equivale ad una tortura, allora esso non è
costituzionale”. Il Presidente Bush, continuando a sostenere la candidatura di Mukasey, ha
detto che “i cittadini americani devono sapere
che qualsiasi tecnica noi usiamo essa è dentro
la legge “. E poi, richiesto di precisare se consideri il waterboarding legale, il Presidente
Bush ha aggiunto “Io non parlo delle tecniche.
C’è il nemico fuori di qui”.
9. Ci si intende riferire alle due sentenze
emesse dal Tribunale di prima istanza – Second
Chamber (Corte di giustizia): la T-47\2003
(nella causa promossa dal cittadino filippino
Josè Maria Sison, residente in Olanda, contro il
Consiglio dell’Unione Europea, sostenuto dai
governi olandese e britannico) e la T-327\2003
(nella causa promossa dalla fondazione filopalestinese Stichting Al Aqsa, avente sede legale
in Olanda, contro il Consiglio dell’Unione
Europea, sostenuto dal governo olandese),
entrambe pubblicate l’11.7.07. Con queste due
sentenze, i giudici comunitari hanno accolto i
ricorsi, annullando la decisione del Consiglio
dell’Unione Europea 2006/379/CE del 29 maggio 2006 e sbloccato, almeno a livello comunitario, i fondi congelati delle persone ed entità
ricorrenti.
10. La sentenza è stata emessa, su conforme parere del 16.1.2008 dell’Avvocato Generale Poiares Maduro, nelle cause riunite C-402/05
P e 415/05 P (Iassin Abdullah Kadi e Al
Barakaat Internazional Fundation) promosse
contro il Consiglio dell’Unione Europea e la
Commissione delle Comunità Europee. La
Corte di secondo grado ha annullato il regolamento contenente le sanzioni individuali nella
parte relativa ai ricorrenti, peraltro dando alle
istituzioni comunitarie tre mesi di tempo per
adottare un nuovo atto conforme alla sua pronuncia.
11. Jason Burke (“Al Qaeda, la vera storia”, pag. 288), il quale conclude: “Ed è una
battaglia che noi e i nostri alleati del mondo
musulmano stiamo perdendo
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Dati sulle sentenze di condanna
pronunciate in Italia,
successivamente all’11 settembre
2001, per reati di terrorismo
internazionale o per reati collegati
al terrorismo internazionale1
*Procuratore
della Repubblica
Aggiunto in Milano
Coordinatore
Dipartimento
Eversione
ed Antiterrorismo
Dati aggiornati al 9-5-2008, raccolti, elaborati
e presentati dadi Armando Spataro*
I dati che seguono sono relativi alle sole sentenze di condanna emesse dai giudici italiani in data successiva all’ 11 settembre 2001 nell’ambito di
procedimenti per reati connessi al terrorismo cosiddetto islamico.
Vanno però fatte alcune
precisazioni:
1) molte sentenze non sono
ancora definitive e, comunque,
mancano i numeri relativi alle
assoluzioni pure pronunciate,
anche se si tratte di una percentuale marginale rispetto al numero degli imputati complessivamente tratti a giudizio;
2) Le pene a cui gli imputati
sono stati condannati possono
apparire in qualche caso di
modesta entità, ma vanno tenute
presenti due circostanze. La
prima è che, fortunatamente, mai
in Italia si sono verificati attentati o sono stati sequestrati esplosivi ed armi: ciò indubbiamente
induce ad una graduazione delle
pene inflitte. La seconda è che un
certo numero di condanne risultano inflitte dai giudici a seguito
di giudizio con rito abbreviato o
su richiesta congiunta di applicazione della pena, cioè procedure
che sono risultate sin qui sfruttate frequentemente e che consentono consistenti riduzioni di
pena. In due casi, peraltro, è stata
44
applicata una consistente riduzione di pena conseguente al
riconoscimento della speciale
attenuante prevista per i collaboratori processuali;
3) solo con l’art.1 del Decreto
Legge 18.10.2001 n. 374, convertito con modificazioni nella
Legge 15.12.2001, n. 438, è stato
introdotto in Italia il reato di
“associazione con finalità di terrorismo internazionale” (articolo 270 bis del Codice Penale). In
precedenza, dunque, il reato
associativo per finalità di terrorismo internazionale è stato
contestato agli imputati sotto
forma di associazione per
delinquere semplice ai sensi
dell’art. 416 cp (ma sono stati
contestati spesso agli imputati
anche altri reati come favoreggiamento
dell’immigrazione
clandestina, ricettazione e falsificazione di documenti). Ciò è
avvenuto anche nell’ambito di
procedimenti iscritti dopo l’ottobre del 2001, ma relativi a condotte criminose anteriori a tale
periodo. Pertanto, in molte delle
sentenze indicate nel prospetto,
essendo le condotte degli imputati condannati anteriori al
Decreto Legge 18.10.2001 n.
374, il reato associativo contestato è, appunto, quello di associazione per delinquere “semplice”.
Nella motivazione delle sentenze
elencate, tuttavia, si può spesso
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Dati sulle sentenze
di condanna
pronunciate in Italia
leggere che i giudici hanno esplicitamente descritto quelle associazioni come finalizzate al terrorismo internazionale e riconducibili, in gran parte, a sigle terroristiche conosciute (ad es.,
G.S.P.C., G.I.A. etc.). Ciò anche
quando i pubblici ministeri avevano ritenuto di non dovere contestare l’aggravante prevista dall’art.1 della L. 6.2.80 n. 15, certamente applicabile a quei reati
(e, difatti, ritenuta sussistente in
alcune recenti sentenze dei giudici milanesi con condanne
ormai definitive degli imputati
prima assolti). Per questa ragione, dunque, la citazione delle
sentenze elencate è corretta in
relazione alla raccolta di dati
sulle sentenze per terrorismo
internazionale di cosiddetta
“matrice islamica”, pur se esse
non risultano emesse per violazione dell’art. 270 bis C.P.. Si
può quindi rilevare che, in Italia,
sono ormai intervenute molte
condanne per reati associativi in
materia di terrorismo internazionale e ne stanno intervenendo
anche per il reato previsto dall’art. 270 bis cp.: vista la già
ricordata epoca di introduzione
nell’ordinamento di questo reato,
era evidente che solo parallelamente al progredire dei più
recenti procedimenti, si sarebbero registrate condanne per violazione di tale norma (altri dibattimenti sono peraltro in corso in
varie sede giudiziarie e la loro
prossima definizione renderà
possibile un ulteriore aggiornamento dei dati).
Questo rilievo consente di
definire non condivisibili le posizioni di quanti, fondandosi su
alcune criticate decisioni (peraltro, annullate nell’ottobre del
2006 dalla Corte di Cassazione e
tutte riformate in grado di appello in accoglimento della impugnazione del PM di Milano),
avevano ipotizzato una inadeguatezza del sistema giudiziario
italiano a fronteggiare questo
nuovo fenomeno; sarà necessario, certo, attendere le definitività di alcune sentenze di condanna, ma sin d’ora è possibile
affermare che la risposta giudiziaria italiana al terrorismo è certamente efficace, pur in un quadro di evidenti difficoltà investigative legate non solo alla tipologia e transnazionalità di questo
fenomeno criminale ed alla perdurante assenza di una definizione “universalmente” condivisa
dell’atto di terrorismo, ma anche
al modo in cui esso si è sin qui
manifestato nel nostro paese.
Va dunque riaffermata la centralità della risposta giudiziaria
al terrorismo, pur con il suo irrinunciabile fardello di regole
poste a tutela dei diritti dei cittadini, anche di quelli stranieri,
45
Giustizia e terrorismo
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
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18-12-2008
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Pagina 46
Giustizia e terrorismo
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
imputati di reati gravissimi.
Il dato numerico appresso
riportato, infine, è confortante
anche in relazione al numero
delle pronunce intervenute in
altri Stati, in particolare nei paesi
di common law (U.S.A. e Gran
Bretagna, soprattutto), ove il
contrasto del terrorismo è fondato su opzioni differenti rispetto a
quelle adottate nella gran parte
dell’Europa continentale.
Dalle pagine seguenti, dunque, il prospetto dei dati che riguardano tutte le sentenze di condanna pronunciate in Italia dopo l’11
settembre 2001 (nel settore del terrorismo internazionale di cd.
matrice islamica)
Dati che riguardano tutte le sentenze di condanna pronunciate in Italia dopo l'11 settembre 2001
(nel settore del terrorismo internazionale di cd. matrice islamica)
Distretto, Giudice
e data sentenza
Generalità
dei condannati
Reati oggetto
della accusa
Reati oggetto
della condanna
Pena irrogata
BOLOGNA
I Sezione Tribunale,
13 gennaio 2003
AKLI Mohamed Amine
Associazione per delinquere
(partecipe), falsificazione
documenti identità, uso
pubblici sigilli falsi,
ricettazione documenti di
identità rubati, false
dichiarazioni su proprie
generalità, riciclaggio
autovettura rubata
Associazione per delinquere
(partecipe), falsificazione
documenti identità, uso
pubblici sigilli falsi,
ricettazione documenti di
identità rubati, false
dichiarazioni su proprie
generalità
Anni 4 di reclusione,
2.000,00 euro
di multa
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione e
spendita banconote false,
falsificazione documenti
identità, uso pubblici sigilli
falsi, ricettazione documenti
di identità rubati
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione e
spendita banconote false
Anni 2 di reclusione,
500,00 euro di multa
(alias: Elias, Ali, Kali
Sami, Killech Shamir)
(Non impugnata)
DEFINITIVA
Nato a Abordj El Kiffani
(Algeria), 30.3.1972
IDEM
Essadi Moussa Ben Amor
(Non impugnata)
(alias: Dah Dah)
DEFINITIVA
Nato a Tabarka (Tunisia),
4.12.1964
IDEM
Baazaoui Mondher
DEFINITIVA
IDEM
Memo: dopo la sentenza
di I grado il Dumont è
stato arrestato in Francia
dove e'è ancora detenuto
per reati ivi commessi
Associazione per delinquere, Ricettazione autovetture
Ricettazione autovetture
rubate
Nato a Kairouan (Tunisia), rubate
18.3.1967
Dumont Lionel
Nato a Roubaix (Francia),
il 29.1.1971
Fettar Rachid
Associazione per delinquere,
Falsificazione e ricettazione
di passaporti francesi e
italiani, uso pubblici sigilli
falsi, introduzione nello Stato
detenzione e porto di 2 pistole
da guerra semiautomatiche e
relative munizioni
Falsificazione e ricettazione Anni 5 di reclusione,
di passaporti francesi e italiani, 2.000,00 euro
uso pubblici sigilli falsi,
di multa
introduzione nello Stato,
detenzione e porto di 2 pistole
da guerra semiautomatiche
e relative munizioni
Associazione per delinquere, Falsificazione permesso di
spendita banconote false,
soggiorno ed uso sigilli
Nato a Boulogin (Algeria). ricettazione passaporti,
pubblici falsi
il 16.4.1969
falsificazione permesso di
soggiorno ed uso sigilli
pubblici falsi
46
Anni 2, mesi 6 d
reclusione e 1.000,00
euro di multa
Anni 1, mesi 2 di
reclusione e euro
120,00 di multa
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16:05
Pagina 47
Distretto, Giudice
e data sentenza
Generalità
dei condannati
Reati oggetto
della accusa
Reati oggetto
della condanna
Pena irrogata
BOLOGNA
I Sezione Corte di
Appello,
10 maggio 2004
Jarraya Mounir
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione e
spendita banconote false,
falsificazione passaporto
bosniaco ed altri documenti
identità, uso pubblici sigilli
falsi, ricettazione documenti
di identità rubati, ricettazione
altri beni
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione e
spendita banconote false,
falsificazione passaporto
bosniaco ed altri documenti
identità, uso pubblici sigilli
falsi, ricettazione documenti
di identità rubati
Anni 3, mesi 6 di
reclusione e 1.700
euro di multa
Associazione per delinquere
(organizzatore), detenzione
e spendita banconote false,
falsificazione passaporto
bosniaco ed altri documenti
identità, uso pubblici sigilli
falsi, ricettazione documenti
di identità rubati
Associazione per delinquere
(organizzatore), detenzione
e spendita banconote false,
falsificazione passaporto
bosniaco ed altri documenti
identità, uso pubblici sigilli
falsi, ricettazione documenti
di identità rubati
Anni 4, mesi 6 di
reclusione, 2.700,00
euro di multa
Associazione per delinquere
(partecipe)
Associazione per delinquere
(partecipe)
Anni 2 di reclusione
Associazione per delinquere
(partecipe), riciclaggio
autovetture rubate
Associazione per delinquere
(partecipe)
Anni 2 di reclusione
Associazione per delinquere,
Falsificazione di passaporto
bosniaco, riciclaggio
autovetture rubate
Falsificazione di passaporto
bosniaco
Mesi 8 di reclusione
Riciclaggio autovetture
rubate
Anni 3 di reclusione,
1.500,00 euro di
multa
Nato a Sfax (Tunisia),
25.10.1963
DEFINITIVA
IDEM
Jarraya Khalil
DEFINITIVA
Nato a Sfax (Tunisia),
8.2.1969
BOLOGNA
I Sezione Corte di
Appello,
17 maggio 2004
Jendoubi Faouzi
La pena così
determinata è frutto
di patteggiamento
tra le parti intervenuto
in grado di appello
La pena cosìi'
determinata è frutto
di patteggiamento tra
le parti intervenuto
in grado di appello
Nato a Beja (Tunisia),
30.1.1966
DEFINITIVA
IDEM
Saleh Nedal
DEFINITIVA
Nato a Taiz (Yemen),
1.3.1970
IDEM
Mnasri Fethi Ben Rebai
DEFINITIVA
(alias: Amor, Amar, Abu
Omar, Alic Fethi)
IDEM
DEFINITIVA
Hamami Brahim Ben Hedili Associazione per delinquere,
riciclaggio autovetture
Nato a Goubellat (Tunisia), rubate
il 20.11.1971
IDEM
Aouni Bachir
DEFINITIVA
Nato a Ouenza (Algeria),
21.1.69
Nato a Nefza (Tunisia)
Associazione per delinquere Associazione per delinquere
organizzatore), detenzione e (organizzatore), detenzione
spendita banconote false,
e spendita banconote false
falsificazione documenti
identità, uso pubblici sigilli
falsi, ricettazione documenti
di identità rubati
Anni 6 di reclusione
e1.000,00 euro
di multa
(la pena è stata
unificata, ex articolo
81 codice penale, con
quella oggetto della
sentenza del 22.4.99
del Tribunale di
Milano)
IDEM
Amdouni Mehrez
DEFINITIVA
Nato a Tunisi (Tunisia),
18.12.1969
IDEM
Rarrbo Ahmed Hosni
Associazione per delinquere,
Falsificazione e ricettazione
Nato a Bologhine (Algeria) di una carta di identità
12.9.1974
francese
Falsificazione di una carta di
identità francese
Mesi 8 di reclusione
IDEM
Ouaz Najib
Nato a Hekaima (Tunisia),
12.4.1960
Esercizio arbitrario delle
proprie ragioni con violenza
sulle persone
Mesi 6 di reclusione
DEFINITIVA
BRESCIA
Corte Assise Appello,
Rafik Mohamed
DEFINITIVA
16 giugno 2005
Nato a Casablanca
(Marocco), 3.1.1965
Associazione per delinquere, Falsificazione e ricettazione Anni 2, mesi 6 di
Falsificazione e ricettazione
di documenti di identità, uso reclusione, 1.200,00
di documenti di identità, uso di sigilli pubblici falsi
euro di multa
di sigilli pubblici falsi
Associazione per delinquere,
Estorsione e falsificazione di
visti marocchini
Associazione con finalità di
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P (organizzatore) art. 270 bis C.P (partecipe)
immigrazione ed emigrazione
illegali a scopo di terrorismo
Anni 4, mesi 8 di
reclusione
Associazione con finalità di
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P (organizzatore) art. 270 bis C.P (partecipe)
immigrazione ed emigrazione
illegali a scopo di terrorismo
Anni 3, mesi 8 di
reclusione
Associazione con finalità di
Incitamento a commettere
terrorismo internazionale ex atti di violenza per motivi
art. 270 bis C.P (organizzatore) religiosi
immigrazione ed emigrazione
illegali a scopo di terrorismo
Anni 1, mesi 4 di
reclusione
Associazione con finalità di
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P (organizzatore) art. 270 bis C.P (partecipe)
immigrazione ed emigrazione
illegali a scopo di terrorismo
Anni 7 di reclusione
Associazione con finalità di
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P (organizzatore) art. 270 bis C.P (partecipe)
immigrazione ed emigrazione
illegali a scopo di terrorismo
Anni 6 di reclusione
Associazione con finalità di
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P (organizzatore) art. 270 bis C.P (partecipe)
Anni 5, mesi 6 di
reclusione
DEFINITIVA
IDEM
Hamraoui Kamel Ben
Mouldi
DEFINITIVA
nato a Beja (Tunisia),
21.10.1977
IDEM
RouassNajib
DEFINITIVA
Nato in Marocco
il 13.11.1966
BRESCIA
Corte Assise Appello
29.6.2007
Trabelsi Mourad
nato Menzel Temine
(Tunisia), il 20.05.1969
(I grado: sentenza C.
Ass. Cremona del
15.7.2006)
DEFINITIVA
IDEM
Drissi Nourredine
DEFINITIVA
nato il 30.5.1964 a Tunisi
(Tunisia)
IDEM
Khamlich Khalid
DEFINITIVA
nato a Casablanca
(Marocco) il 16/07/1965
(pena ridotta per rito
abbreviato)
(pena ridotta per rito
abbreviato)
(pena ridotta per rito
abbreviato)
(con concessione
attenuanti generiche)
47
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
Giustizia e terrorismo
Impaginato 2-2008
Impaginato 2-2008
18-12-2008
16:05
Pagina 48
Distretto, Giudice
e data sentenza
Generalità
dei condannati
BRESCIA
Corte Assise Appello
Boughanemi Faical
29.6.2007
Reati oggetto
della accusa
Reati oggetto
della condanna
Associazione con finalità di
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex terrorismo internazionale ex
nato il 28.10.1966 a Tunisi art. 270 bis C.P (organizzatore) art. 270 bis C.P (partecipe)
(Tunisia)
immigrazione ed emigrazione
illegali a scopo di terrorismo
Anni 7 di reclusione
Kishk Samir
(alias Hammada)
DEFINITIVA
Giustizia e terrorismo
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
MILANO
Giudice Udienza
Preliminare,
8 maggio 2002
(patteggiamento della
pena)
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di documenti d'identità falsi,
uso e falsificazione di
documenti immigrazione
illegale
Anni 1, mesi 11 e
giorni 15 di reclusione
ESSID SAMI BEN KHEMAIS, Associazione per delinquere
alias Saber
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
n. Menzel (Tunisia )
d' identità falsi, uso e
il 10.2.68
falsificazione di documenti di
identità, immigrazione
illegale
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità falsi, falsificazione
di documenti di identità,
immigrazione illegale
Anni 4, mesi 6 di
reclusione, 9810,00
euro di multa
BOUCHOUCHA MOKHTAR, Associazione per delinquere
alias Farid,
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
n. a Tunisi il 13.10.69
d' identità falsi, uso e
falsificazione di documenti di
identità, immigrazione
illegale
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità falsi, falsificazione
di documenti di identità,
immigrazione illegale
Anni 4, mesi 6 di
reclusione, 9810,00
euro di multa
CHARAABI TAREK,
alias "Frank", "Haroun" o
"Tarek"
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità falsi, uso e
falsificazione di documenti di
identità, immigrazione
illegale
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità falsi, falsificazione
di documenti di identità,
immigrazione illegale
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità falsi, uso e
falsificazione di documenti di
identità, immigrazione
illegale
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità falsi, falsificazione
di documenti di identità,
immigrazione illegale
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità falsi, uso e
falsificazione di documenti di
identità, immigrazione
illegale
Delinquere (organizzatore), Anni 4, mesi 10 di
ricettazione di passaporti e
reclusione, 4.700,00
documenti d' identità falsi,
euro di multa
falsificazione di documenti di
identità, immigrazione
illegale
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità falsi, uso e
falsificazione di documenti di
identità, immigrazione
illegale
Delinquere (organizzatore), Anni 3, mesi 6 di
ricettazione di passaporti e
reclusione, 3.600,00
documenti d' identità falsi,
euro di multa
falsificazione di documenti di
identità, immigrazione
illegale
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità falsi, uso e
falsificazione di documenti di
identità, immigrazione
illegale
Delinquere (organizzatore), Anni 3, mesi 6 di
ricettazione di passaporti e
reclusione, 3.600,00
documenti d' identità falsi,
euro di multa
falsificazione di documenti di
identità, immigrazione
illegale
Ricettazione di passaporti e
documenti d' identità falsi,
uso e falsificazione di
documenti di identità,
immigrazione illegale
Ricettazione di passaporti e
documenti d' identità falsi,
uso e falsificazione di
documenti di identità,
immigrazione illegale
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
falsificazione e ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
immigrazione illegale
Nato a Gharbia (Egitto),
il 14.5.55
DEFINITIVA
IDEM
DEFINITIVA
IDEM
DEFINITIVA
n. a Tunisi, il 31.3.70
IDEM
AOUDI MOHAMED BEN
BELGACEM
DEFINITIVA
n. a Tunisi, il 22.2.2002
MILANO
4^ Sezione Corte
d'Appello
Kammoun Mehdi,
alias Khaled
n. Tunisi il 3.4.68
23 aprile 2003
DEFINITIVA
IDEM
Ben Soltane Adel
alias Zakaria
DEFINITIVA
n. Tunisi il 17.5.2002
IDEM
Jelassi Riadh
alias Abu Obeida
DEFINITIVA
n. Tunisi il 15.12.70
ora collaboratore
processuale
MILANO
Giudice Udienza
Preliminare
8 maggio 2002
Bouyahia Hamadi Ben
Abdlaziz
alias Gamel Mohamed
n. in Tunisia il 29.5.1966
(patteggiamento della
pena)
DEFINITIVA
MILANO
II CORTE D'ASSISE
D'APPELLO
13 novembre 2007
(rito abbreviato in
1° grado)
48
(pena cosiì'
determinata a seguito
di patteggiamento
intervenuto in
II grado)
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di documenti d' identità falsi,
uso e falsificazione di
documenti di identità,
immigrazione illegale
DEFINITIVA
MILANO
4^ Sezione Corte
d'Appello,
11 dicembre 2002
(patteggiamento pena
dopo giudizio di I grado
celebrato con rito
abbreviato)
Pena irrogata
Zarkaoui Imed Ben Mekki
Nato a Tunisi (Tunisia),
il 15.1.1973
(pena ridotta per il
patteggiamento
intervenuto tra
pubblico ministero e
imputato)
(pena ridotta per il
patteggiamento
intervenuto in grado
di appello tra pubblico
ministero e imputato)
(pena ridotta per il
patteggiamento
intervenuto in grado
di appello tra pubblico
ministero e imputato)
Anni 3, mesi 6 di
reclusione, 8519,00
euro di multa
(pena ridotta per il
patteggiamento
intervenuto in grado
di appello tra pubblico
ministero e imputato)
Anni 3, mesi 6 di
reclusione, 8519,00
euro di multa
(pena ridotta per il
patteggiamento
intervenuto in grado
di appello tra pubblico
ministero e imputato)
Anni 1, mesi 11 di
reclusione, 400,00
euro di multa
(pena ridotta per il
patteggiamento
intervenuto tra
pubblico ministero e
imputato)
Anni 4, mesi 6 di
reclusione
(pena ridotta per il
rito abbreviato)
Memo: condanna per
270 bis in accoglimento
appello del PM avverso
sent. 8.5.2002 Gup
Milano che aveva
assolto l'imputato
per quel reato
condannandolo per
immigrazione illegale
aggravata
18-12-2008
16:05
Pagina 49
Distretto, Giudice
e data sentenza
Generalità
dei condannati
Reati oggetto
della accusa
Reati oggetto
della condanna
Milano
Quarta Sezione Corte
d'Appello
El Mahfoudi Mohamed
Associazione per delinquere
(organizzatore),
favoreggiamento
immigrazione illegale
Associazione per delinquere, Anni 1, mesi 4 di
favoreggiamento
reclusione
immigrazione illegale
(pena ridotta per il
rito abbreviato
adottato in I grado:
sent. GUP Milano
22.1.2004)
Nato in Marocco,
il 24.9.1964
12 dicembre 2007
MILANO
Giudice Udienza
Preliminare,
19 aprile 2004
(patteggiamento della
pena)
Mohammed Thari
Hammid
Nato a Pohok (Iraq),
1.11.1974
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
ricettazione di documenti di
identità, immigrazione ed
emigrazione illegali
aggravate
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
ricettazione di documenti di
identità, immigrazione ed
emigrazione illegali
aggravate
DEFINITIVA
MILANO
VIII^ Sezione Tribunale
2 febbraio 2004
DEFINITIVA
Ben Heni Lased
alias Mohamed Ben
Belgacem Awani, o
Mohamed il tedesco,
o Abu Obeida,
Pena irrogata
Anni 1, mesi 11 di
reclusione
(pena così ridotta per
il patteggiamento
intervenuto tra
pubblico ministero
ed imputato)
Associazione per delinquere Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione (organizzatore)
di documenti d' identità falsi,
immigrazione illegale
Anni 6 di reclusione
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di documenti d' identità,
immigrazione illegale
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di documenti d' identità,
immigrazione illegale
Anni 8, mesi 4 di
reclusione
Remadna Abdelhalim
Associazione per delinquere
Hafed
(organizzatore), ricettazione
alias Abdelfattah o Jalloul di documenti d' identità
immigrazione illegale
Nato il 2.4.1966 a Biskra
(Algeria)
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di documenti d' identità,
immigrazione illegale
Anni 7, mesi 9 di
reclusione
Benattia Nabil
alias Abu Salim
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di documenti d' identità
immigrazione illegale
Associazione per delinquere
(partecipe), immigrazione
illegale
Anni 5, mesi 3 di
reclusione
Associazione per delinquere
(organizzatore), ricettazione
di documenti d' identità,
immigrazione illegale
associazione per delinquere
(partecipe), immigrazione
illegale
Anni 4, mesi 3 di
reclusione
Associazione per delinquere
(organizzatore), favoreggiamento immigrazione illegale,
falsificazioni scritture contabili attraverso fatturazioni
fiscali per operazioni
inesistenti, appropriazione
indebita e simulazione di
reato, ricettazione di
autovettura
Associazione per delinquere
(organizzatore), favoreggia- Anni 4, mesi 1 d
mento immigrazione illegale, reclusione
falsificazioni scritture contabili attraverso fatturazioni
fiscali per operazioni
inesistenti, appropriazione
indebita e simulazione di
reato
Associazione per delinquere
(organizzatore), favoreggiamento immigrazione illegale,
appropriazione indebita e
simulazione di reato,
ricettazione di autovettura
Associazione per delinquere Anni 3, mesi 4 di
(organizzatore), favoreggia- reclusione, 1.700,00
mento immigrazione illegale, euro di multa
indebita e simulazione di
reato e ricettazione di
autovettura
Associazione per delinquere
(organizzatore),
favoreggiamento
immigrazione illegale
Associazione per delinquere
(organizzatore),
favoreggiamento
immigrazione illegale
Associazione per delinquere
(organizzatore), favoreggiamento immigrazione illegale,
falsificazioni scritture contabili attraverso fatturazioni
fiscali per operazioni inesistenti, ricettazione documenti falsi, appropriazione
indebita e simulazione di
reato, ricettazione di patente
e di autovettura
Associazione per delinquere Anni 4, mesi 1 di
(organizzatore), favoreggia- reclusione
mento immigrazione illegale,
falsificazioni scritture contabili attraverso fatturazioni
fiscali per operazioni inesistenti, appropriazione
indebita e simulazione di
reato
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione e
porto d'armi e esplosivi,
spaccio banconote false
Associazione per delinquere
(partecipe), spaccio
banconote false
Anni 3 di reclusione
Associazione per delinquere
(partecipe), spaccio
banconote false
Anni 1, mesi 9 di
reclusione ed euro
1.200,00 di multa
Nato il 5.2.69 a Tripoli
(Libia)
MILANO
1^ Sezione Corte
d'Appello,
7 ottobre 2004
DEFINITIVA
IDEM
DEFINITIVA
IDEM
DEFINITIVA
Es Sayed Abdelkader
Mahmoud
alias Abu Saleh
Nato a El Minia (Egitto),
il 2.2.04
Nato a Tunisi, l'11.5.66
IDEM
Chekkouri Yassine
DEFINITIVA
Nato il 06.10.1966 a Safi
(Marocco)
MILANO
I^ Sezione Corte
d'Appello
29 settembre 2005
Abdaoui Youssef
Nato a Kairouan (Tunisia),
il 4.9.66
DEFINITIVA
IDEM
DEFINITIVA
Abdelhedi Mohamed
Ben Mohamed
Nato a Sfax (Tunisia),
il 10.8.1965
IDEM
Darraji Kamel
DEFINITIVA
Nato in Tunisia,
il 22.7.1967
(dal 10.11.2006)
IDEM
Loubiri Habib Ben Ahmed
DEFINITIVA
Nato a Menzel Tenine
(Tunisia), il 17.11.1961
MILANO
5^ Sezione Tribunale,
28 maggio 2003
Senoussaoui Houcine
Alias: Brahim
DEFINITIVA
Nato a Sidi Bel Abbes
(Algeria), 1.10.1968
MILANO
4^ Sezione Corte
d'Appello,
22 febbraio 2005
Boughagha Lakhdar
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione e
Nato in Algeria, il 2.3.1964 porto d'armi e esplosivi,
spaccio banconote false
Anni 3, mesi 7 di
reclusione
DEFINITIVA
(dal 4.6.2005)
49
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
Giustizia e terrorismo
Impaginato 2-2008
Impaginato 2-2008
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
18-12-2008
Pagina 50
Distretto, Giudice
e data sentenza
Generalità
dei condannati
Reati oggetto
della accusa
IDEM
Fettar Rachid
Alias: Amin, Djafar
4^ Sezione Corte
d'Appello,
22 febbraio 2005
Nato in Algeria,
il 16.4.1969
Associazione per delinquere Associazione per delinquere
(promotore), detenzione e
(partecipe), spaccio
porto d'armi e esplosivi, uso banconote false
di pubblici sigilli falsi, spaccio
banconote false, falsificazioni
certificati amministrativi e
favoreggiamento immigrazione illegale
Anni 1, mesi 9 di
reclusione ed euro
1.200,00 di multa
Associazione per delinquere Associazione per delinquere
(promotore), detenzione e
(partecipe), spaccio
porto d'armi e esplosivi, uso banconote false
di pubblici sigilli falsi, spaccio
banconote false, falsificazioni
certificati amministrativi e
favoreggiamento immigrazione illegale
Anni 1, mesi 9 di
reclusione ed euro
1.200,00 di multa
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
falsificazione e ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale aggravata
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
falsificazione e ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale aggravata
Anni 8, mesi 10 di
reclusione
Memo: condanna per
270 bis in accoglimento appello del PM avverso assoluzione da
questo reato del
9.5.05 della I^ Corte
Assise di Milano che
aveva ritenuto il reato
di cui all'art. 416 cp
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
falsificazione e ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale aggravata
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
falsificazione e ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale aggravata
Anni 6, mesi 10 di
reclusione
Memo: condanna per
270 bis in accoglimento appello del PM avverso assoluzione da
questo reato del
9.5.05 della I^ Corte
Assise di Milano che
aveva ritenuto il reato
di cui all'art. 416 cp
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
falsificazione e ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale aggravata
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
falsificazione e ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale aggravata
Anni 8, mesi 10 di
reclusione
Memo: condanna per
270 bis in accoglimento appello del PM avverso assoluzione da
questo reato del
9.5.05 della I^ Corte
Assise di Milano che
aveva ritenuto il reato
di cui all'art. 416 cp
Nato ad Haidra (Tunisia)
il 28.7.79
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
falsificazione e ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale aggravata
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
falsificazione e ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale aggravata
Anni 8, mesi 6 di
reclusione
Memo: condanna per
270 bis in accoglimento appello del PM avverso assoluzione da
questo reato del
9.5.05 della I^ Corte
Assise di Milano che
aveva ritenuto il reato
di cui all'art. 416 cp
Bouyahia Hamadi Ben
Abdlaziz
alias Gamel Mohamed
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe)
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe)
Anni 6 di reclusione
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (organizzaNato in Libia, il 28.11.1980 tore) ; falsificazione di documenti personali vari, tra cui
conosciuto anche come
passaporti; ricettazione di
Mohamed Abdullah Imad moduli per documenti falsi;
nato a Gaza il 28.11.1980
tentativo di procurare la
immigrazione illegale in Italia
di altre persone
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (organizzatore) ; falsificazione di documenti personali vari, tra cui
passaporti; ricettazione di
moduli per documenti falsi;
tentativo di procurare la
immigrazione illegale in Italia
di altre persone
Anni 5, mesi 10 di
reclusione ed euro
5.000 di multa
(con concessione
attenuanti generiche)
MILANO
Giudice Udienza
Preliminare
18 ottobre 2005
Jelassi Riadh
alias Abu Obeida
(patteggiamento della
pena)
ora collaboratore
processuale
Furti e ricettazioni di autovetture, lesioni personali,
spendita banconote false e
reati minori, tutti con
l'aggravante della finalità di
terrorismo
Furti e ricettazioni di autovetture, lesioni personali,
spendita banconote false e
reati minori, tutti con
l'aggravante della finalità di
terrorismo
Mesi 8 di reclusione
in aumento sulla
precedente sentenza
del Tribunale di
Milano del 17.5.02
(la pena cosìi' determinata è frutto dell'intervenuto patteggiamento e della concessioni
delle speciali attenuanti previste per i
collaboratori
processuali)
Associazione per delinquere
ex art. 416 cp, ritenuta
operante all'interno delle
strutture religiose islamiche
milanesi;
Estorsione continuata
aggravata
Memo: i fatti oggetto del
procedimento sono risalenti
al 1995
Estorsione continuata
aggravata
Anni 6 di reclusione e
1.000,00 euro di
multa
Definitiva dal 28.6.06
IDEM
4^ Sezione Corte
d'Appello
22 febbraio 2005
Tanout Youcef
Alias: Jafala, Danouta
Youcef
Nato a Bab El Oved
(Algeria), il 16.1.1964
Definitiva dal 28.6.06
MILANO
1^ Corte d'Assise
di Appello
7 febbraio 2008
Giustizia e terrorismo
16:05
Cherif Said Ben
Abdelhakim
Alias: Djallal, Youssef,
Abu Salman
Nato a Menzel (Tunisia)
il 25.1.1970
IDEM
Lazher Ben Khalifa Ben
Ahmed Rouine
Alias: Salmane Lahzar
Nato a Sfax (Tunisia)
il 20.11.75
IDEM
Saadi Nassim
Nato ad Haidra (Tunisia)
il 30.11.1974
IDEM
IDEM
Saadi Fadhal
alias Moussab
Reati oggetto
della condanna
Nato in Tunisia il 29.5.1966
IDEM
Faraj Faraj Hassan
alias Hamza il libico
Nato in Tunisia il 15.12.70
DEFINITIVA
MILANO
VIII Sezione
Tribunale
28 maggio 2007
50
Hussein El Sayed El
Harmil Yousry
Nato a Beheira (Egitto),
il 17.1.55
Pena irrogata
Memo: condanna per
270 bis in accoglimento appello del PM
avverso assoluzione
da questo reato del
9.5.05 della I^ Corte
Assise di Milano
Memo: condanna per
270 bis in accoglimento appello del PM
avverso assoluzione
da questo reato del
18.12.06 della I^ Corte
Assise di Milano che
aveva ritenuto il reato
di cui all'art. 416 cp
(previa concessione
attenuanti generiche,
ritenute equivalenti
alle aggravanti)
18-12-2008
16:05
Pagina 51
Distretto, Giudice
e data sentenza
Generalità
dei condannati
Reati oggetto
della accusa
IDEM
Omar Makram Essam
Mohamed
Associazione per delinquere Tentata estorsione aggravata
ex art. 416 cp, ritenuta
operante all'interno delle
strutture religiose islamiche
milanesi;
Tentata estorsione aggravata
Memo: i fatti oggetto del
procedimento sono risalenti
al 1995
Anni 4 di reclusione
e 800,00 euro
di multa
Associazione per delinquere
ex art. 416 cp, ritenuta
operante all'interno delle
strutture religiose islamiche
milanesi;
Rapina e Tentata estorsione
continuata aggravate
Memo: i fatti oggetto del
procedimento sono risalenti
al 1995
Rapina e Tentata estorsione
continuata aggravate
Anni 4 di reclusione
e 1.200,00 euro
di multa
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
ricettazione di passaporti e
documenti d' identità
falsificati, emigrazione ed
immigrazione illegali
aggravata
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P.
Memo: condanna per 270 bis
in accoglimento appello del
PM avverso assoluzione da
questo reato del 24.01.05 del
GUP di Milano (che aveva
suscitato numerose polemiche
nel 2005), parzialmente
confermata il 28.11.05 dalla
I^ Corte Assise Appello di
Milano, che aveva ritenuto
il reato di cui all'art. 416 cp
(Sentenza annullata con
rinvio dalla Corte di
Cassazione l'11.10.2006)
Anni 4 di reclusione
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
ricettazione di passaporti e
documenti d' identità
falsificati, emigrazione ed
immigrazione illegali
aggravata
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. emigrazione
ed immigrazione illegali
aggravata
Memo: condanna per 270 bis
in accoglimento appello del
PM avverso assoluzione da
questo reato del 24.01.05 del
GUP di Milano (che aveva
suscitato numerose polemiche
nel 2005), parzialmente
confermata il 28.11.05 dalla
I^ Corte Assise Appello di
Milano, che aveva ritenuto
il reato di cui all'art. 416 cp
(Sentenza annullata con
rinvio dalla Corte di
Cassazione l'11.10.2006)
Anni 6 di reclusione
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
ricettazione di passaporti e
documenti d' identità
falsificati
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P.
Memo: condanna per 270 bis
in accoglimento appello del
PM avverso assoluzione da
questo reato del 24.01.05 del
GUP di Milano (che aveva
suscitato numerose polemiche
nel 2005), parzialmente
confermata il 28.11.05 dalla
I^ Corte Assise Appello di
Milano, che aveva ritenuto
il reato di cui all'art. 416 cp
(Sentenza annullata con
rinvio dalla Corte di
Cassazione l'11.10.2006)
Anni 4 di reclusione
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
rapine, detenzione e porto
d'armi, detenzione e vendita
di stupefacenti, spendita
banconote false, tutti con
l'aggravante della finalità di
terrorismo
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
rapine, detenzione e porto
d'armi, detenzione e vendita
di stupefacenti, spendita
banconote false, tutti con
l'aggravante della finalità di
terrorismo
Anni 1, mesi 8 di
reclusione, euro 7.000
di multa
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
ricettazione di passaporti e
documenti d' identità,
immigrazione illegale, reati
tutti aggravati dalla finalità
di terrorismo
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
ricettazione di passaporti e
documenti d' identità,
immigrazione illegale, reati
tutti aggravati dalla finalità
di terrorismo
Anni 5, mesi 6 di
reclusione
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P.
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale, reati tutti aggravati
dalla finalità di terrorismo
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P.
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale, reati tutti aggravati
dalla finalità di terrorismo
Anni 10 di reclusione
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
ricettazione di passaporti e
documenti d' identità,
immigrazione illegale, reati
tutti aggravati dalla finalità
di terrorismo
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
ricettazione di passaporti e
documenti d' identità,
immigrazione illegale, reati
tutti aggravati dalla finalità
di terrorismo
Anni 7 di reclusione
Nato a a Beheira (Egitto),
il 17.1.55
IDEM
Mohamed Mohamed
Omar Makram Alaa
Nato a Beheira (Egitto),
il 17.10.69
MILANO
Seconda Corte d'Assise
d'Appello
23 ottobre 2007
Bouyahia Maher Ben
Abdelaziz
Nato a Tunisi (Tunisia)
il 30.4.1964
DEFINITIVA
dall'11.6.2008
IDEM
DEFINITIVA
dall'11.6.2008
IDEM
DEFINITIVA
dall'11.6.2008
Toumi Alìi' Ben Sassi
Nato a Tunisi (Tunisia)
il 24.12.1965
DAKI Mohamed
Nato a Casablanca
(Marocco), il 29.3.1965
MILANO
Giudice Udienza
Preliminare,
9 maggio 2006
Zouaoui Chokri
(patteggiamento della
pena)
ora collaboratore
processuale
Nato in Keliba (Tunisia),
il 31.3.75
DEFINITIVA
MILANO
1^ Corte d'Assise
Appello
Ciise Maxamed Cabdullah
Nato in Somalia,
l'8.10.1974
17 luglio 2007
IDEM
El Ayashi Radi Abd El
Samie Abou El Yazid
(alias Merai)
Nato a El Gharbia (Egitto),
il 2.1.1972
IDEM
Housni Jamal
(alias Jamal Al Maghrebi)
nato in Marocco,
il 22..2.1983
Reati oggetto
della condanna
Pena irrogata
(previa concessione
attenuanti generiche,
ritenute equivalenti
alle aggravanti)
(previa concessione
attenuanti generiche,
ritenute equivalenti
alle aggravanti)
(la riduzione della
pena èe' anche frutto
dell'adozione del rito
abbreviato in primo
grado)
(la riduzione della
pena è anche frutto
dell'adozione del rito
abbreviato in primo
grado)
(la riduzione della
pena è anche frutto
dell'adozione del rito
abbreviato in primo
grado)
(la pena cosi' determinata è frutto
dell'intervenuto
patteggiamento e
della concessioni delle
speciali attenuanti
previste per i collaboratori processuali)
51
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
Giustizia e terrorismo
Impaginato 2-2008
Impaginato 2-2008
Magistratura Onoraria
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
18-12-2008
16:05
Pagina 52
Distretto, Giudice
e data sentenza
Generalità
dei condannati
IDEM
IDEM
Reati oggetto
della condanna
Pena irrogata
Mohemmed Amin Mostafa Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
nato a Karkuk (Iraq),
ricettazione di passaporti e
l'11.10.1975
documenti díi dentità,
immigrazione illegale, reati
tutti aggravati dalla finalità
di terrorismo
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
ricettazione di passaporti e
documenti d' identità,
immigrazione illegale, reati
tutti aggravati dalla finalità
di terrorismo
Anni 7 di reclusione
Muhamad Majid
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P.
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale, reati tutti aggravati
dalla finalità di terrorismo
Associazione con finalità di
Anni 10 di reclusione
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P.
(organizzatore), ricettazione
di passaporti e documenti
d' identità, immigrazione
illegale, reati tutti aggravati
dalla finalità di terrorismo
Associazione per delinquere,
con l'aggravante della
finalità di terrorismo
(organizzatore), furti di
autovettura con la stessa
aggravante
Associazione per delinquere
con l'aggravante della
finalità di terrorismo
(organizzatore), furti di
autovettura con la stessa
aggravante
Anni 6 di reclusione
Ricettazione e falsificazione
di patenti di guida e
documenti di identità,
contraffazione di pubblici
sigilli e di strumenti di
pubblica certificazione
Ricettazione e falsificazione
di patenti di guida e
documenti di identità,
contraffazione di pubblici
sigilli e di strumenti di
pubblica certificazione
Anni 2 di reclusione,
euro 3.000,00 di multa
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
ricettazione e falsificazione
di documenti di identità, con
la aggravante della finalità
di terrorismo
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P. (partecipe),
ricettazione e falsificazion
di documenti di identità,
con la aggravante della
finalità di terrorismo
Anni 5, mesi 4 di
reclusione
nato a Baghdad (Iraq),
l'1.12.1970
MILANO
Seconda Corte d'Assise
d'Appello
11 ottobre 2007
Cherif Said Ben
Abdelhakim
Nato a Menzel (Tunisia).
Il 25.1.1970
(la sentenza di I grado
era stata emessa il
5.10.06 a seguito di
giudizio abbreviato)
IDEM
El Kaissi M'hamed
Nato ad Ouled Arif
(Marocco), il 28.1.1973
Seconda Corte d'Assise
d'Appello
13 novembre 2007
Mannai Mohamed Ben
Mohamed
(alias "Djabri" o "Gassi")
(la sentenza di I grado
era stata emessa il
5.10.06 a seguito di
giudizio abbreviato)
Nato ad El Guettar
(Tunisia), il 7.2.1978
Reati oggetto
della accusa
(la pena così determinata è anche frutto
della riduzione
conseguente
all'adozione del rito
abbreviato in I grado)
(la pena così determinata è e' anche frutto
della riduzione
conseguente
all'adozione del rito
abbreviato in I grado
e del patteggiamento
in II grado)
(la pena così
determinata è anche
frutto della riduzione
conseguente
all'adozione del rito
abbreviato)
DEFINITIVA dal 18.09.2008
MILANO
Terza Corte d'Assise
d'Appello
27 ottobre 2007
DEFINITIVA
Rabei Osman El Sayed
Ahmed
Associazione con finalità di
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P.
art. 270 bis C.P. (partecipe)
(organizzatore)
Anni 8 di reclusione
IDEM
Associazione con finalità di
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P.
art. 270 bis C.P. (partecipe)
Nato a Samanoud (Egitto), (partecipe)
il 17.05.1983
Anni 4 di reclusione
DEFINITIVA
Yahia Mawad
Mohammed Rajeh
MILANO
Prima Corte d'Assise
d’Appello di Milano
Arman Ahmed
El Missini Helmy
alias Abu Imad
20 novembre 2008
nato a Qena (Egitto),
il 14.01.1961
IDEM
Bouchoucha Mokhtar
alias Farid
Nato a Gherbia (Egitto),
il 22.07.1971
Nato a Tunisi (Tunisia),
il 13.10.1969
IDEM
Maaoui Lofti Ben Sadok
alias Abu Hodeifa
Nato a Tunisi (Tunisia),
il 28.02.1966
IDEM
Riabi Zied Ben Abdallah
alias Tarek o Dhirar
Nato a Tunisi (Tunisia),
il 9.04.1970
IDEM
Riabi Zouheir Ben
Abdallah
Nato a Tunisi (Tunisia),
il 26.09.1971
52
con concessione
attenuanti generiche
Associazione per delinquere
semplice (416 cp) con
l'aggravante della finalità di
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80):
organizzatore
Associazione per delinquere
semplice (416 cp) con
l'aggravante della finalità di
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80):
organizzatore
Anni 3, mesi 8 di
reclusione
Lesioni personali aggravate,
porto illegale di coltello
aggravato e spaccio di
banconote false, reati tutti
aggravati dalla finalità di
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80)
Lesioni personali aggravate,
porto illegale di coltello
aggravato e spaccio di
banconote false, reati tutti
aggravati dalla finalità di
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80)
Aumento fino
ad anni 7 di
reclusione ed euro
2.000,00 di multa
della pena inflitta
con sentenza
dell'11.12.2002 della
corte Appello di
Milano
Associazione per delinquere
semplice (416 cp) con
l'aggravante della finalità di
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80):
partecipe
Associazione per delinquere Anni 2 di reclusione
semplice (416 cp) con
l'aggravante della finalità di con concessione
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80): attenuanti generiche
partecipe
Associazione per delinquere
semplice (416 c.p.) con
l'aggravante della finalità di
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80):
partecipe; spaccio di
banconote false, porto di
coltello, reati pure aggravati
dalla finalità di terrorismo
(art. 1 L. n. 15/80)
Associazione per delinquere Anni 6, mesi 6 di
semplice (416 c.p.) con
reclusione ed euro
l'aggravante della finalità di 1.200,00 di multa
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80):
partecipe; spaccio di
banconote false, porto di
coltello, reati pure aggravati
dalla finalità di terrorismo
(art. 1 L. n. 15/80)
Associazione per delinquere
semplice (416 c.p.) con
l'aggravante della finalità di
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80):
partecipe; spaccio di
banconote false, aggravato
dalla finalità di terrorismo
(art. 1 L. n. 15/80)
Associazione per delinquere Anni 6
semplice (416 c.p.) con
di reclusione ed euro
l'aggravante della finalità di 1.000,00 di multa
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80):
partecipe; spaccio di
banconote false, aggravato
dalla finalità di terrorismo
(art. 1 L. n. 15/80)
con concessione
attenuanti generiche
18-12-2008
16:05
Pagina 53
Distretto, Giudice
e data sentenza
Generalità
dei condannati
IDEM
Sassi Lassad Ben Mohamed Associazione per delinquere
alias Abu Hashem
semplice (416 c.p.) con
l'aggravante della finalità di
Nato a Cartaghena
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80):
(Tunisia), il 10.12.1969
partecipe; furto aggravato anche - dalla finalità di
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80)
Associazione per delinquere Anni 5 di reclusione
semplice (416 c.p.) con
l'aggravante della finalità di
terrorismo (art. 1 L. n. 15/80):
partecipe; spaccio di
banconote false, aggravato
dalla finalità di terrorismo
(art. 1 L. n. 15/80)
Ben Yahia Mouldi
Ben Rachid
alias Kamel Mahbouba o
Assalam Ulikum,
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale
(270 bis c.p.): organizzatore;
ricettazione e falsificazione
di documenti d'identità falsi,
immigrazione/emigraz.
clandestina; detenzione e
porto di armi comuni e da
guerra; rapine; detenzione e
vendita di stupefacenti
(hashish ed eroina); compra/
vendita di banconote false;
reati tutti aggravati - anche dalla finalità di terrorismo
(art. 1 L. n. 15/80)
Associazione con finalità di
Anni 10 di reclusione
terrorismo internazionale
(270 bis c.p.): organizzatore;
ricettazione e falsificazione
di documenti d'identità falsi,
immigrazione/emigrazione
clandestina; compravendita
di banconote false; detenzione e vendita di stupefacenti
(eroina); reati tutti aggravat
- anche - dalla finalità di terrorismo (art. 1 L. n. 15/80)
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale
(270 bis c.p.): partecipe;
detenzione e vendita di
stupefacenti (hashish ed
eroina); compravendita di
banconote false; reati tutti
aggravati - anche - dalla
finalità di terrorismo
(art. 1 L. n. 15/80)
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale
(270 bis c.p.): partecipe
Anni 5, mesi 6 di
reclusione
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale
(270 bis c.p.): partecipe
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale
(270 bis c.p.): partecipe
Anni 5 di reclusione
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale
(270 bis c.p.): partecipe;
ricettazione e falsificazione
di documenti d'identità falsi,
reati tutti aggravati dalla
finalità di terrorismo
(art. 1 L. n. 15/80)
Associazione con finalità di
Anni 6 di reclusione
terrorismo internazionale
(270 bis c.p.): partecipe;
ricettazione e falsificazione
di documenti d'identità falsi,
reati tutti aggravati dalla
finalità di terrorismo
(art. 1 L. n. 15/80)
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale
(270 bis c.p.): partecipe;
ricettazione e falsificazione
di documenti d'identità falsi,
reati tutti aggravati dalla
finalità di terrorismo
(art. 1 L. n. 15/80)
Associazione con finalità di
Anni 6 di reclusione
terrorismo internazionale
(270 bis c.p.): partecipe;
ricettazione e falsificazione
di documenti d'identità falsi,
reati tutti aggravati dalla
finalità di terrorismo
(art. 1 L. n. 15/80)
Associazione per delinquere
(organizzatore e dirigente),
detenzione e porto di armi
comuni da sparo, falsificazioni di certificazioni
amministrative
Associazione per delinquere Anni 8 di reclusione
(organizzatore e dirigente),
detenzione e porto di armi
comuni da sparo, falsificazioni di certificazioni
amministrative
Associazione per delinquere
(organizzatore e dirigente),
detenzione e porto di armi
comuni da sparo, falsificazioni di certificazioni
amministrative
Associazione per delinquere Anni 8 di reclusione
(organizzatore e dirigente),
detenzione e porto di armi
comuni da sparo, falsificazioni di certificazioni
amministrative
Associazione per delinquere
(organizzatore), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Associazione per delinquere
(organizzatore), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Anni 8 di reclusione
Associazione per delinquere
(organizzatore), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Associazione per delinquere
(organizzatore), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Anni 8 di reclusione
IDEM
Nato a Tunisi (Tunisia),
l' 11.04.1971
IDEM
Hekiri Hichem Ben
Mohamed
Nato a Tunisi (Tunisia),
il 18.03.1969
IDEM
Kneni Kamel
Nato a Aroussa (Tunisia),
il 7.05.1969
IDEM
Sahraoui Nessim Ben
Romdhane
alias Daas
Nato a Bizerta (Tunisia),
il 3.08.1973
IDEM
Zoghbai Merai
alias F-radj il Libico o
Jaffar il Libico
Nato in Libia il 4.04.1960
NAPOLI
6^ Sezione Corte
d'Appello,
Lounici Dijamel
Nato ad Algeri l'1.02.1962
16 marzo 2004
Reati oggetto
della accusa
Reati oggetto
della condanna
Pena irrogata
Definitiva
IDEM
Deramchi Othman
Definitiva
Nato a Tigheniff
il 7.06.1954
IDEM
Aider Farid
Definitiva
Nato a Algeri il 12.10.1964
IDEM
Bendebka L'Hadi
Definitiva
Nato a Algeri il 17.11.1963
IDEM
Ahmed Nacer Yacine
Nato ad Annata
il 2.12.1967
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Anni 5 di reclusione
Definitiva
IDEM
El Heit Alììi'
(alias Kamel Mohamed)
ì
Nato ad Algeri
il 30.01.1971
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Anni 5 di reclusione
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
Nato ad Algeri il 30.01.1971 certificazioni amministrative
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Anni 5 di reclusione
Definitiva
IDEM
Maoel Kamel
Nato a Bologhine (Algeria)
il 2.07.1969
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Anni 5 di reclusione
Definitiva
Definitiva
IDEM
Abd Al Hafiz Abd Al
Wahab
(alias Ferdjani Moulaudì)
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
53
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
Magistratura Onoraria
Impaginato 2-2008
Impaginato 2-2008
18-12-2008
Distretto, Giudice
e data sentenza
Magistratura Onoraria
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
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Pagina 54
Generalità
dei condannati
IDEM
Haddad Fethi Ben Assen
Definitiva
Nato a Tataouine
il 28.03.1963
IDEM
Boughera Azzedine
Definitiva
Nato ad Algeri
il 31.07.1962
IDEM
Youcef Belhady
Definitiva
Nato ad Algeri
il 14.10.1957
IDEM
Abbes Moustafa
Definitiva
Nato a Osniers il 5.02.1962
IDEM
Abbes Youcef
Definitiva
Nato a Bal Al Wad
il 5.01.1965
NAPOLI
Corte d'Assise d'Appello
Tartag Samir
13 novembre 2007
Nato a Baraki (Algeria),
il 10.4.1972
(la sentenza di I grado
era stata emessa a
seguito di giudizio
abbreviato il 30.11.06)
IDEM
Achour Rabah
Nato a Meftha (Algeria),
il 12.10.1975
IDEM
Achour Rabah
Nato a Meftha (Algeria),
il 12.10.1975
NAPOLI
Quarta Sezione Corte
d'Assise
Bouhrama Yamine
Nato a Hussein Dey
(Algeria), il 9.7.1973
10 gennaio 2008
IDEM
Larbi Mohamed
Nato in Algeria l'8.7.1974
IDEM
Serai Khaled
Nato in Algeria il 3.8.1970
PERUGIA
Corte d'Assise d'Appello
23 gennaio 2008
Eravi
Nato ad Aksaray (Turchia),
il 10.7.1971
Reati oggetto
della accusa
Reati oggetto
della condanna
Pena irrogata
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Anni 5 di reclusione
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Anni 4, mesi 6
di reclusione
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Anni 3, mesi 6
di reclusione
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Anni 3, mesi 6
di reclusione
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Associazione per delinquere
(partecipe), detenzione
e porto di armi comuni da
sparo, falsificazioni di
certificazioni amministrative
Anni 3, mesi 6
di reclusione
Associazione con finalità di
idem
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P., ricettazione
e falsificazione di documenti
d' identità, favoreggiamento
immigrazione clandestina
Anni 6 di reclusione
(la pena così determinata è anche frutto
della riduzione conseguente all'adozione
del rito abbreviato in
I grado)
idem
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P., ricettazione
e falsificazione di documenti
d' identità, favoreggiamento
immigrazione clandestina
Anni 6 di reclusione
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P., ricettazione
e falsificazione di documenti
d' identità, favoreggiamento
immigrazione clandestina
Anni 6 di reclusione
(la pena così determinata è anche frutto
della riduzione conseguente all'adozione
del rito abbreviato in
I grado)
(la pena così determinata è anche frutto
della riduzione conseguente all'adozione
del rito abbreviato in
I grado)
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P., (promotore),
ricettazione e falsificazione
di documenti d' identità,
favoreggiamento
immigrazione clandestina
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P., (partecipe)
ricettazione e falsificazione
di documenti d' identità,
favoreggiamento
immigrazione clandestina
Anni 6 di reclusione
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P., ricettazione
e falsificazione di documenti
d' identità, favoreggiamento
immigrazione clandestina
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P., (partecipe)
ricettazione e falsificazione
di documenti d' identità,
favoreggiamento
immigrazione clandestina
Anni 6 di reclusione
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P., ricettazione
e falsificazione di documenti
d' identità, favoreggiamento
immigrazione clandestina
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P., (partecipe)
ricettazione e falsificazione
di documenti d' identità,
favoreggiamento
immigrazione clandestina
Anni 6 di reclusione
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P.,:
organizzatore
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P.,:
organizzatore
Anni 7 di reclusione
Associazione con finalità di
Associazione con finalità di
terrorismo internazionale ex terrorismo internazionale ex
art. 270 bis C.P.,:
art. 270 bis C.P.,: partecipe
organizzatore
Anni 5 di reclusione
Favoreggiamento di immigrazione clandestina e di
illegale permanenza in Italia
attraverso false dichiarazioni
per regolarizzazione del
lavoro utili al rilascio di
permessi di soggiorno
Anni 2 di reclusione
e 33.000,00 euro
di multa
(Sent. I grado del 10
gennaio 2008)
IDEM
Ercan Nazan
alias Kilic Zeynep
Nato a Konia (Turchia),
il 5.7.1969
TORINO
Giudice Udienza
Preliminare,
8 novembre 2005
(patteggiamento della
pena)
definitiva
54
Ben Ali' Mohamed
Nato a Tunisi (Tunisia),
il 4.3.1963
Favoreggiamento di immigrazione clandestina e di
illegale permanenza in Italia
attraverso false dichiarazioni
per regolarizzazione del
lavoro utili al rilascio di
permessi di soggiorno
(la pena così determinata è frutto
dell'intervenuto
patteggiamento
tra pubblicoministero
ed imputato)
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Decisioni mediche
di fine vita e
“attivismo giudiziale”
*Ordinario di Diritto Penale
all’Università di Milano
Il giudice e la bioetica
di Francesco Viganò*
1. Il problema.
Le recenti vicende giurisprudenziali relative ai casi Welby ed
Englaro hanno posto all’ordine
del giorno, tra l’altro, la questione se i giudici italiani abbiano
‘sconfinato’ dai loro poteri istituzionali di applicatori ed interpreti del diritto positivo, ed abbiano
così arbitrariamente invaso terreni riservati al legislatore democraticamente eletto; al punto che,
in relazione al caso Englaro, le
camere hanno addirittura ritenuto di sollevare, l’estate scorsa, un
conflitto di attribuzioni tra poteri
dello Stato avanti alla Corte
costituzionale, invero prontamente giudicato inammissibile
dalla Consulta1.
A molti esponenti politici, ma
anche a qualche autorevole professore universitario, è parso —
in effetti — che almeno alcuni
dei giudici che si sono occupati
di tali vicende abbiano scavalcato il Parlamento nell’affermare la
legittimità di pratiche eutanasiche, in assenza di qualsiasi legge
che consentisse di pervenire a
tale risultato, e in presenza anzi
di dati normativi orientati in
senso diametralmente opposto.
Con il risultato, per utilizzare
un’espressione familiare nel lessico giuridico nordamericano, di
un anomalo ‘attivismo giudiziale’, che si risolverebbe in un
frontale attacco al principio della
separazione dei poteri e al suo
56
corollario della soggezione del
giudice alla legge.
Il carattere indubbiamente
innovativo delle soluzioni cui la
giurisprudenza è pervenuta nei
due casi suscita, del resto, un diffuso allarme in relazione alla
natura particolarmente ‘sensibile’ della materia delle decisioni
mediche di fine vita. Da un lato,
la creatività interpretativa dei
giudici è da sempre guardata con
sospetto dai giuristi quando,
come nei casi di specie, abbia ad
oggetto (diretto o indiretto) l’applicazione del diritto penale, e
cioè di quel settore dell’ordinamento che più è informato ad esigenze di legalità formale e di certezza nell’applicazione della
legge. Dall’altro, e soprattutto, la
materia qui in discussione tocca
nientemeno che il valore della
vita umana, e della sua ‘sacralità’: tema politicamente assai
caldo, non solo in Italia, e che
costituisce da vari decenni un
acuto terreno di scontro tra posizioni liberal e visioni religiosamente orientate del mondo, delle
quali in particolare la Chiesa cattolica è indiscussa portavoce nel
nostro Paese.
Di qui l’istanza a che ad assumere decisioni in una materia
così delicata sia il Parlamento, in
esito a un procedimento trasparente nel quale si canalizzi la
volontà della maggioranza della
popolazione — non già di giudi-
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Decisioni mediche
di fine vita e
“attivismo giudiziale”
ci sprovvisti di una (diretta)
legittimazione democratica.
Una simile istanza viene formulata, è inutile nasconderlo, in
un momento di acuta tensione tra
potere politico e giudici in Italia;
e rischia pertanto di assumere sin
da subito connotazioni che trascendono, e di gran lunga, il
merito della specifica questione
controversa. In discussione è, in
generale, la questione del rapporto tra legislatore democratico e
potere giudiziario: da una parte
invocandosi l’idea di uno stretto
vincolo del giudice alla volontà
sovrana della legge, e dall’altra
rivendicandosi il potere-dovere
del giudice di interpretare le singole norme di legge alla luce del
quadro complessivo dei principi
su cui l’intero ordinamento si
fonda, con conseguente possibilità per il giudice di pervenire
autonomamente a risultati innovativi rispetto alla tradizione,
senza necessariamente passare
per una previa presa di posizione
da parte del legislatore.
Questo intervento vorrebbe
costituire un piccolo contributo
ad una pacata impostazione della
questione, con specifico riferimento al tema delle decisioni
mediche di fine vita: al riparo,
per quanto possibile, dalle suggestioni immediate provenienti
dal dibattito politico, e dalle tensioni istituzionali in atto.
2. Un breve sguardo al di là
dei confini nazionali.
Uno sguardo anche solo cursorio all’esperienza giuridica di
altri Paesi mostra, per cominciare, come il ruolo fortemente
proattivo dei giudici in questa
materia non sia una peculiarità
soltanto italiana.
2.1. — Illuminante, in proposito, è l’esperienza degli Stati
Uniti: del Paese, cioè, dove questi temi sono stati per primi estesamente affrontati, ormai da più
di tre decenni.
Il quadro normativo di partenza era, in tutti gli ordinamenti
statunitensi, in buona parte
sovrapponibile a quello italiano.
Anche lì costituiva, e tuttora
costituisce reato cagionare la
morte di un uomo, ancorché con
il suo consenso; e pressoché in
ogni Stato erano e sono tuttora in
vigore norme che incriminano
l’istigazione e l’assistenza all’altrui suicidio.
A partire dalla metà degli anni
settanta, tuttavia, le giurisprudenze statali — e poi la stessa
Corte Suprema federale2 —
hanno preso a riconoscere un
diritto fondamentale, di rango
costituzionale, a rifiutare il trattamento medico, affermando la
regolare prevalenza di tale diritto
rispetto alle istanze di tutela
della stessa vita umana, alla
quale pure si attribuisce pacifica57
Il giudice e la bioetica
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
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Il giudice e la bioetica
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
mente un connotato di ‘sacralità’. Con il risultato di legittimare, per questa via, le condotte
strumentali all’esercizio di tale
diritto da parte del paziente, e in
particolare l’interruzione di trattamenti medici di sostegno vitale
come la respirazione assistita.
Chiave di volta in questo sviluppo giurisprudenziale è stata la
valorizzazione del diritto costituzionale alla privacy: diritto, invero, non espressamente menzionato dalla Costituzione federale né
dalla più parte delle Costituzioni
statali, ma elaborato da una giurisprudenza fortemente ‘creativa’ della Corte Suprema federale
tra gli anni sessanta e l’inizio
degli anni settanta, e culminata
nel 1973 con la celebre Roe v.
Wade in materia di aborto3. In
queste pronunce, la Corte gradatamente enuclea e sviluppa la
prospettiva di un diritto fondamentale alla privacy, dotato di
rango costituzionale e inteso —
con l’inevitabile approssimazione che è inevitabile in ogni formula di sintesi — come il diritto
di ciascuno a essere lasciato solo
nelle decisioni che più intimamente concernono la propria esistenza, e a non subire conseguentemente intrusioni da parte della
collettività in questa sfera personale.
Tale diritto comprende, in
particolare, le decisioni concernenti la propria vita sessuale, l’e58
ducazione dei figli, la scelta se
portare avanti una gravidanza,
nonché — per l’appunto — la
decisione se sottoporsi, o non
sottoporsi, a un trattamento
medico. Con conseguente riconoscimento, per l’appunto, di un
diritto ‘fondamentale’ — come
tale tutelabile dalla giurisprudenza a prescindere da ogni mediazione legislativa, ed anzi resistente a qualsiasi eventuale scelta di segno contrario da parte del
legislatore federale o statale — a
rifiutare trattamenti medici.
Tale diritto soggiace, invero,
a possibili bilanciamenti con altri
diritti o valori fondamentali nell’assetto costituzionale, primo
fra tutti il valore della vita
umana. Ma, nella quasi totalità
dei casi affrontati dalle corti statali negli ultimi trent’anni, la giurisprudenza statunitense ha sempre coerentemente negato che le
istanze di tutela della vita in
quanto tali possano tradursi in
una (legittima) limitazione del
diritto a rifiutare trattamenti
medici, anche nell’ipotesi in questi ultimi siano necessari per
assicurare la sopravvivenza del
paziente medesimo. Il quale,
dunque, ha un vero e proprio
diritto costituzionale a non essere sottoposto a trattamenti di
sostegno vitale contro la propria
volontà (ad es., emotrasfusioni
necessarie quoad vitam)4, ovvero
ad ottenere dal medico la loro
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Decisioni mediche
di fine vita e
“attivismo giudiziale”
interruzione nell’ipotesi in cui
siano già in atto (ad es., la respirazione assistita) — corollario,
quest’ultimo,
costantemente
affermato dalle corti americane a
partire dalla fine degli anni settanta, in relazione a casi di specie
in tutto e per tutto sovrapponibili
al caso Welby5.
In relazione poi ai casi concernenti pazienti incapaci, le
giurisprudenze statali si sono
assai precocemente orientate —
a partire dal seminal case Quinlan, deciso nel 1976 dalla Corte
Suprema del New Jersey6 — a
ritenere che il diritto fondamentale a rifiutare trattamenti medici, in quanto espressivo di un’idea di sovranità dell’individuo
sulle scelte che più intimamente
attengono alla propria persona,
debba essere in linea di principio
riconosciuto anche al paziente
incapace, il quale potrà esercitarlo tramite il proprio legale
rappresentante, che ha istituzionalmente il compito di tutelare la
globalità degli interessi del rappresentato. Il legale rappresentante sarà chiamato, più in particolare, a vagliare se il trattamento medico (anche di sostegno
vitale) sia davvero rispondente
agli interessi soggettivi dell’incapace, ovvero se si risolva soltanto in una inutile e/o dannosa
intrusione nel suo corpo, contraria ai suoi reali interessi; e ad
esprimere, così, in sua vece il
consenso o — all’opposto — il
dissenso rispetto all’intervento
medesimo, in esito a quello che
le corti statunitense chiamano
‘giudizio sostitutivo’ della
volontà dell’incapace.
Compito delle corti sarà, a
questo punto, soltanto la verifica
della correttezza dell’iter che ha
condotto il legale rappresentante
alla eventuale decisione di negare il consenso al trattamento,
assicurandosi in particolare che
il rappresentante sia davvero pervenuto alla decisione calandosi
nei panni del paziente — nel suo
mondo di valori, nella sua personalità, nei suoi reali interessi —,
e non già sovrapponendo indebitamente a tutto ciò i propri personali convincimenti o, peggio, i
propri personali interessi (economici o di altra natura).
Un esito, come è evidente,
identico a quello cui è pervenuta
la Cassazione nella sua sentenza
sul caso Englaro.
2.2. — Di notevole interesse
appare anche l’esperienza dell’ordinamento inglese, caratterizzato da un sistema normativo
assai diverso da quello statunitense — stante, in particolare,
l’assenza di una carta costituzionale.
Anche qui, i referenti normativi immediati sono assai simili a
quelli italiani: pacifica la responsabilità penale di chi cagioni la
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Il giudice e la bioetica
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
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Pagina 60
Il giudice e la bioetica
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
morte di un uomo con il suo consenso; e anche qui le condotte di
aiuto e assistenza al suicidio
sono penalmente rilevanti in
forza di una incriminazione ad
hoc. Eppure, seppur con qualche
ritardo rispetto agli Stati Uniti,
nemmeno le corti inglesi hanno
avuto dubbi nell’affermare l’inapplicabilità di tali norme
penali nel caso in cui il medico si
limiti ad aderire alla richiesta del
paziente di omettere o interrompere un trattamento medico indesiderato7.
L’argomentazione che consente di giungere a tale conclusioni si muove qui sul piano delle
regole tradizionali di common
law. Ogni trattamento medico, si
afferma, costituisce un’invasione
del corpo del paziente, che integra come tale l’elemento oggettivo del reato (e del corrispondente illecito civile) di battery. Ogni
trattamento necessita dunque di
una specifica ragione giustificativa per essere considerato lecito.
Ora, rispetto al paziente
cosciente e capace, la sola ragione giustificativa che può venire
in considerazione — a parte i
marginalissimi casi di trattamento obbligatorio per legge, in vista
della tutela di interessi collettivi
— è rappresentata dal consenso
informato del paziente, in difetto
del quale il trattamento resta illecito: produttivo, assieme, di
responsabilità civile e penale a
60
carico del sanitario che lo abbia
praticato.
Ciò vale, come le corti inglesi
hanno ormai ampiamente riconosciuto, anche nell’ipotesi in cui il
trattamento sia necessario ad
assicurare la sopravvivenza del
paziente (come nel caso paradigmatico dell’assistenza respiratoria): le istanze di tutela della
‘scaralità della vita’ cedono qui il
passo di fronte alla tutela della
inviolabilità del corpo del
paziente assicurata dalla dottrina
del consenso informato.
La questione della liceità
della interruzione di un trattamento di sostegno vitale nei confronti di un paziente incapace, e
segnatamente nei confronti di un
paziente in stato vegetativo permanente, è invece venuta in considerazione nel caso Bland, deciso dalla House of Lords nel 1993.
In quell’occasione, i supremi
giudici inglesi si discostarono
dalle cadenze argomentative
della giurisprudenza americana,
evitando di percorrere la strada
del giudizio sostitutivo sulla presumibile volontà dell’incapace.
Piuttosto, essi argomentarono
direttamente dalla futilità di un
trattamento di sostegno vitale
(come l’alimentazione e l’idratazione artificiale) nei confronti di
un paziente ormai irreversibilimente incosciente rispetto a
qualsiasi pensabile scopo della
medicina — terapeutico, o anche
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di fine vita e
“attivismo giudiziale”
solo palliativo —, per dedurne la
non doverosità della sua prosecuzione a oltranza. La mancata
prosecuzione di tale trattamento
deve pertanto, secondo la House
of Lords, considerarsi penalmente irrilevante, in difetto di qualsiasi obbligo in capo ai sanitari di
continuare a praticare il trattamento medesimo8.
2.3. — Si potrebbe a questo
punto pensare che l’attivismo
giudiziale sia fisiologico, anche
in una materia così delicata come
quella delle decisioni di fine vita,
in ordinamenti di common law
come quelli sin qui considerati;
ma che le cose stiano diversamente in ordinamenti di civil
law, nei quali non si riconosce —
almeno formalmente — alla giurisprudenza il ruolo di autentica
fonte del diritto. Uno sguardo
all’esperienza tedesca in materia
smentisce tuttavia radicalmente
questa ipotesi.
In presenza, anche qui, di un
quadro normativo di partenza in
larga misura sovrapponibile a
quello italiano (con la presenza,
in particolare, di una norma che
incrimina l’omicidio del consenziente), la giurisprudenza tedesca
— preceduta da una vasta elaborazione dottrinale — è giunta
negli ultimi decenni ai medesimi
esiti pratici cui si è pervenuti
negli Stati Uniti e in Inghilterra:
liceità (e anzi, doverosità) dell’o-
missione o interruzione di cure,
anche di sostegno vitale, rifiutate
dal paziente; possibile liceità
dell’interruzione di trattamenti di
sostegno vitale a pazienti incoscienti, in particolare in stato
vegetativo permanente.
Quanto ai pazienti capaci, il
fondamento del diritto al rifiuto
di ogni trattamento medico,
anche se necessario per la
sopravvivenza, viene concordemente ravvisato nell’art. 2 co. 2
della Costituzione federale, che
tutela il diritto fondamentale alla
inviolabilità corporea9. Poiché
ogni trattamento implica una
invasione della sfera corporea,
esso necessita di una speciale
legittimazione dal punto di vista
costituzionale. Tale legittimazione è normalmente costituita, nel
caso del paziente capace, dal suo
consenso informato, al quale è
possibile dergoare soltanto nei
casi particolarissimi in cui il trattamento sia imposto per legge
per soddisfare preminenti interessi pubblici. In assenza di una
specifica legge autorizzativa,
dunque, nessun trattamento
medico potrà essere legittimamente compiuto su di un paziente capace che lo rifiuti; e, laddove un trattamento sia già in atto,
esso dovrà essere interrotto alloché il paziente lo richieda.
Ciò vale anche nel caso,
intensamente discusso da almeno
quarant’anni in Germania, dello
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spegnimento del respiratore:
qualunque sia, infatti, la soluzione adottata dai diversi autori
circa la natura attiva od omissiva
della condotta del medico che, su
richiesta del paziente, spenga il
pulsante del respiratore10, vi è
ormai assoluta concordia sulla
valutazione finale di liceità (dal
punto di vista non solo del diritto
penale, ma dell’intero ordinamento) di una simile condotta,
necessaria ad assicurare il rispetto del diritto costituzionale del
paziente a non essere sottoposto
a un trattamento medico indesiderato.
Quanto poi ai pazienti incapaci, e in particolare a quelli in
stato vegetativo permanente, il
Tribunale Supremo Federale
affermò per la prima volta nel
1994 la possibile liceità dell’interruzione dell’alimentazione e
idratazione artificiale, in presenza di una diagnosi medica di irreversibilità di quella condizione
patologica e allorché possa evincersi una volontà presunta del
paziente in tal senso11. La successiva giurisprudenza civile ha poi
precisato che la decisione di
interrompere il trattamento deve
essere assunta — una volta che
consti la diagnosi medica di irreversibilità — dal legale rappresentante del paziente, al metro di
ciò che il paziente medesimo
avrebbe desiderato se avesse
avuto la possibilità di esprimersi,
62
e tenendo conto di eventuali sue
reali manifestazioni di volontà
anticipate; salvo il controllo di
ultima istanza del giudice tutelare, il quale dovrà fornire l’autorizzazione finale all’interruzione
del trattamento12.
Nonostante qualche controversia di dettaglio, la soluzione
di fondo riscuote un larghissimo
consenso anche presso la dottrina, la quale rileva in sostanza
come essa si fondi sul principio
secondo cui anche il trattamento
compiuto nei confronti di un
paziente incapace, in quanto
invasivo della sua sfera corporea,
necessita di una positiva legittimazione al metro del diritto
costituzionale; positiva legittimazione che è normalmente fornita dalla volontà presunta del
paziente di sottoporsi al trattamento, così come interpretata e
espressa dal suo legale rappresentante. Con l’ovvio corollario
che, laddove risulti invece una
volontà (presunta) contraria alla
prosecuzione del trattamento,
potendosi fondatamente ritenere
che quel concreto paziente non
avrebbe desiderato continuare a
essere sostenuto in vita in quelle
condizioni, il trattamento ben
potrà (e a rigore dovrà) essere
interrotto.
2.4. — Tirando le somme: in
ognuno degli ordinamenti ora
esaminati sono stati i giudici ad
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avere, di fatto, modificato lo
stato del diritto vigente, affermando in via pretoria principi e
regole prima inesistenti nel sistema. Le ragioni sono intuibili: i
giudici non temono di perdere
voti con decisioni magari sgradite a una parte del loro elettorato,
e si trovano d’altra parte ad
affrontare i drammi dell’esistenza umana in maniera assai più
diretta di quanto non faccia il
parlamento — i giudici devono
dare una risposta immediata alle
persone in carne ed ossa che a
loro si rivolgono, e non possono
sottrarsi alla responsabilità di
una decisione qui ed ora.
Diverse, invero, le vie seguite
dalle diverse giurisprudenze, in
relazione alle peculiarità di ciascun ordinamento; e qualche
volta diverse le stesse rationes
decidendi, come nell’ipotesi dell’interruzione del sostegno vitale
nei confronti del paziente in stato
vegetativo permanente, dove al
criterio della ricostruzione della
sua volontà presunta adottato
negli Stati Uniti e in Germania fa
da contraltare la soluzione inglese, che prescinde del tutto da tale
volontà presunta e afferma la
liceità dell’interruzione del trattamento sulla base di un mero
giudizio medico di futilità della
terapia. Ma del tutto analoghi gli
esiti pratici cui tali elaborazioni
giurisprudenzali conducono, e
segnatamente:
— diritto del paziente di rifiutare ogni trattamento medico,
anche se di sostegno vitale, e
anche se già in corso di esecuzione, con conseguente liceità
dal punto di vista giuridico-penale dell’omissione o interruzione
delle terapie rifiutate dal paziente;
— possibile liceità (dal punto
di vista dell’intero ordinamento,
e dunque anche dal punto di vista
del diritto penale) della interruzione di trattamenti di sostegno
vitale nei confronti di pazienti in
stato vegetativo permanente.
3. Vincoli normativi
e libertà interpretativa
del giudice italiano:
a) il caso Welby
Si obietterà: tutto ciò varrà
pure per gli Stati Uniti, per l’Inghilterra, per la Germania; ma,
nell’ordinamento italiano, il giudice è soggetto alla legge (art.
101 Cost.), e a quella deve attenersi. Interpretandola e applicandola al caso concreto: non creando una nuova disciplina, a prescindere da, e magari contro, la
stessa volontà del legislatore.
Proprio questo sarebbe invece
accaduto, si sostiene, in relazione ai casi Welby e — soprattutto
— Englaro. I giudici che di tali
vicende si sono occupati avrebbero deliberatamente ignorato i
dati normativi, i quali avrebbero
invece indicato loro una soluzio63
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ne univoca: quella, cioè, dell’illiceità, e anzi della rilevanza
penale, di condotte interruttive di
trattamenti di sostegno vitale.
Cominciando dal caso Welby,
alcuni dei giudici che si erano
occupati del caso avevano fatto
leva sulla presenza, nell’ordinamento penale, di una norma
incriminatrice dell’omicidio del
consenziente (art. 579 c.p.), considerata applicabile al caso dello
spegnimento del respiratore, che
non pareva loro lasciar spazio ad
un giudizio di liceità della condotta13. D’altra parte, da tale
norma e da altre presenti nell’ordinamento (in particolare, l’art.
580 c.p. e l’art. 5 c.c.) si evincerebbe un generale principio di
indisponibilità della vita umana,
che si opporrebbe frontalmente
all’idea secondo cui un paziente
possa rifiutare o addirittura chiedere l’interruzione di un trattamento di sostegno vitale, esponendosi così volontariamente
alla prospettiva di una morte
certa e disponendo, dunque,
della propria vita.
L’argomento, insomma, è
duplice, fondandosi da un lato
sull’ostacolo rappresentato dalla
singola norma di legge di cui
all’art. 579 c.p.; dall’altro, su di
un principio di indisponibilità
della vita umana che si assume
sotteso all’ordinamento positivo
nel suo complesso, che il giudice
non potrebbe disattendere in via
64
di interpretazione.
3.1. — L’idea, tuttavia, che
l’art. 579 c.p. in quanto tale
opponga un ostacolo insuperabile alla soluzione della liceità
della interruzione del sostegno
respiratorio è quanto meno ingenua. Chiunque abbia una qualche
familiarità con il diritto penale sa
che la verifica della corrispondenza di un fatto concreto al
paradigma astratto disegnato da
una norma incriminatrice è soltato il primo passo verso l’affermazione della responsabilità
penale di un individuo, essendo
ben possibile che la commissione di quel fatto risulti in realtà
facoltizzata o imposta da un’altra
norma dell’ordinamento, prevalente sulla norma incriminatrice
ex art. 51 c.p. Senza contare poi
che, laddove l’interruzione del
trattamento venisse categorizzata
come omissione della prosecuzione del trattamento, la rilevanza penale della condotta verrebbe a dipendere dalla questione
preliminare se sussita un obbligo
giuridico, rilevante ex art. 40 co.
2 c.p., di continuare a praticare il
trattamento medesimo nonostante il dissenso manifestato dal
paziente.
L’una e l’altra verifica impongono naturalmente al giudice
penale — come si legge su qualsiasi manuale — di allargare il
proprio sguardo all’intero ordi-
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namento, al di là degli angusti
confini segnati dalle norme incriminatrici, abbracciando anche le
norme costituzionali su cui l’intero ordinamento si fonda.
Norme, queste ultime, la cui
immediata precettività è da
decennni affermata dalla nostra
giurisprudenza, che utilizza
costantemente tali norme quali
diretti parametri di decisione del
caso concreto.
Del tutto ovvio, allora, che
nella decisione del caso Welby
abbia fatto irruzione l’art. 32 co.
2 Cost.: che viene qui in rilievo,
si noti, non tanto come normaprincipio dai contenuti vaghi e
generici, come a volte si sostiene; bensì come regola, dal contenuto chiaro e preciso, che lapidariamente sancisce il diritto di
ciascuno a non essere sottoposto
a trattamenti sanitari “obbligatori”, a meno che il trattamento
non sia previsto come tale da una
legge rispettosa della persona
umana. Diritto, quest’ultimo,
ulteriormente ribadito (e ivi circondato da ulteriori garanzie:
predeterminazione legislativa di
“casi e modi” della sua possibile
limitazione; riserva giurisdizionale) dall’art. 13 Cost., che
secondo l’interpretazione ormai
costantemente accolta dalla
Corte costituzionale tutela l’individuo contro ogni diretta coercizione sul corpo.
Come sciogliere, a questo
punto, l’antinomia tra l’art. 579
c.p., da un lato, e gli artt. 13 e 32
co. 2 Cost., dall’altro, in relazione al caso Welby?
Posta la sicura prevalenza, sul
piano della gerarchia delle fonti,
delle norme costituzionali sulla
norma ordinaria, il giudice
avrebbe teoricamente potuto sollevare questione di legittimità
costituzionale dell’art. 579 c.p.,
nella parte in cui vieta di cagionare la morte di una persona con
il suo consenso anche nell’ipotesi in cui la condotta consista nell’interruzione di un trattamento
da quest’ultima rifiutata. Ma il
rinvio degli atti alla Corte non
era a ben guardare necessario nel
caso di specie, l’antinomia
potendo essere qui pianamente
sciolta con gli ordinari strumenti
interpretativi di cui il giudice
penale dispone: sul piano del
giudizio di antigiuridicità della
condotta, ovvero sul piano della
determinazione del contenuto
dell’obbligo giuridio di impedire
l’evento di cui all’art. 40 co. 2
c.p.
La strada prescelta dal g.u.p.
di Roma è stata, come è noto, la
prima. Se dall’art. 32 co. 2 (e
dallo stesso art. 13) Cost. discende in capo a ciascun individuo un
diritto fondamentale a rifiutare
trattamenti medici indesiderati,
eventuali trattamenti già in atto
nei confronti di un paziente dissenziente dovranno essere giudi65
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cati lesivi di tale diritto fondamentale, e come tali dovranno
essere interrotti. Il medico che
interrompa il trattamento, allora,
starà semplicemente adempiendo
un proprio dovere, che è necessario pendant al diritto del paziente di rifiutare di trattamenti
medici riconosciutogli dalla
Costituzione; con conseguente
esclusione dell’illiceità della
condotta ai sensi dell’art. 51
c.p.14
Una strada alternativa —
adottata dalla dottrina prevalente
in Germania — era quella che io
stesso avevo ipotizzato in un
contributo ‘a caldo’ sul caso
Welby, prima che intervenisse la
pronuncia esaminata del g.u.p. di
Roma. Interrompere un trattamento di sostegno respiratorio
significa, in definitiva, omettere
l’ulteriore trattamento necessario
a mantenere in vita il paziente (a
poco rilevando la circostanza
che, naturalisticamente, tale
interruzione di cure debba passare per una condotta positiva
come lo spegnimento di un bottone, la sostanza della condotta
riducendosi pur sempre alla
rinuncia ad ulteriori sforzi terapeutici, e a lasciar morire in
pace — anziché ad uccidere! —
il paziente). Ma un’omissione è
penalmente rilevante soltanto
allorché contravvenga ad un
dovere di agire che trovi la sua
fonte nell’intero ordinamento
66
(art. 40 co. 2 c.p.). E tale dovere
di agire non sussiste allorché un
paziente capace di autodeterminarsi rifiuti il trattamento, esercitando così il proprio diritto costituzionale ex artt. 13 e 32 co. 2
Cost. — il dissenso del paziente
operando qui come limite alla
stessa posizione di garanzia del
medico nei confronti del paziente15.
L’una e l’altra strada convergono, comunque, verso il medesimo risultato: la condotta del
medico che interrompa un trattamento di sostegno vitale nei confronti di un paziente che tale trattamento rifiuti deve essere considerata lecita (e, a ben guardare,
doverosa), e comunque penalmente irrilevante, nonostante la
presenza nell’ordinamento dell’art. 579 c.p. Norma, quest’ultima, che continuerà ad applicarsi
in una quantità di altre ipotesi (si
pensi al caso del paziente che
chieda e ottenga la somministrazione di una sostanza letale): ma
non al caso in cui la condotta
(attiva od omissiva che sia) dalla
quale deriva la morte del paziente consista soltanto nel far venir
meno un trattamento, invasivo
del suo corpo, e rifiutato dal
paziente medesimo.
3.2. — Superato così l’ostacolo rappresentato dall’art. 579
c.p., resta a questo punto l’obiezione legata al principio di indi-
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sponibilità della vita umana, che
si vorrebbe desumere in via
induttiva, oltre che dallo stesso
art. 579 c.p., dagli artt. 580 c.p. e
5 c.c., e che si opporrebbe alla
soluzione della liceità dell’interruzione di trattementi di sostegno vitale su richiesta del
paziente.
Al riguardo, non v’è dubbio
che l’idea dell’indisponibilità
della vita (e della stessa integrità
fisica oltre i limiti segnati dall’art. 5 c.c.) fosse sottesa a quelle norme, secondo le intenzioni
del legislatore storico del 1930 e
del 1942. Ma il problema è, evidentemente, se quella idea — e
le ragioni che ne costituivano
allora il fondamento — abbia
oggi una copertura costituzionale
tale da consentirle di prevalere
sullo stesso diritto (questo sì di
rango certamente costituzionale,
ex art.. 13 e 32 co. 2 Cost.) di
rifiutare trattamenti medici, nell’ipotesi in cui il rifiuto equivalga nei fatti ad un atto dispositivo
della propria vita da parte del
paziente.
Il mero richiamo al diritto alla
vita, tutelato dall’art. 2 Cost. in
quanto ‘diritto inviolabile’ della
persona, si rivela qui inconferente: perché l’‘inviolabilità’ allude
in primo luogo ad una tutela del
diritto contro aggressioni da
parte di terzi, e non si estende
necessariamente anche ad una
tutela contro aggressioni prove-
nienti dallo stesso titolare del
diritto, cui fa riferimento invece
il concetto di ‘indisponibilità’.
Il rango costituzionale del
principio di ‘indisponibilità’, in
effetti, è in genere postulato ma
non dimostrato, in difetto di
qualsiasi base testuale nella
Costituzione; il principale argomento in suo favore essendo, in
definitiva, quello fondato sulla
tradizione giuridica precedente
all’avvento alla Costituzione,
che si assume implicitamente
richiamata ed avallata dai costituenti in difetto di una specifica
presa di posizione in senso contraria. Davvero un po’ poco, per
fondare in questo modo limitazioni al diritto costituzionale
all’inviolabilità del proprio essere fisico (sotteso al diritto al
rifiuto dei trattamenti medici) in
assenza di qualsiasi legge che —
nel rispetto delle riserve di legge
e di giurisdizione poste dagli artt.
13 e 32 co. 2 Cost. — definisca
‘casi e modi’ della possibile limitazione, prevedendo i necessari
controlli giurisdizionali per l’eventuale uso di una ‘coazione
terapeutica’.
3.3. — In conclusione: la
soluzione cui è pervenuto il
g.u.p. di Roma appare non solo
sostenibile al metro del diritto
positivo italiano; ma, lungi dal
costituire una anomala forma di
‘supplenza giudiziale’ di suppo67
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ste lacune legislative, appare a
ben guardare come l’unica compatibile con il diritto (in primis
costituzionale) vigente. L’assenza di una legge ordinaria che
disciplini il rifiuto di trattamenti
di sostegno vitale non significa
affatto, come da molte parti
superficialmente si ritiene, che si
sia di fronte ad una lacuna, giacché ben due norme costituzionali
risultano applicabili al caso, vietando l’esecuzione di trattamenti
coattivi nei confronti del paziente
a meno che il legislatore non
abbia previsto espressamente la
possibilità di eseguire il trattamento nonostante il dissenso del
paziente. Il silenzio del legislatore ordinario significa dunque che
quel divieto non tollera, allo
stato, eccezioni; e che, laddove
sia in atto un trattamento coattivo
(id est, un trattamento imposto ad
un paziente nonostante la sua
contraria volontà), esso dovrà
essere interrotto, per un’elementare esigenza di rispetto dei diritti fondamentali del paziente.
4. (Segue):
b) il caso Englaro
Quanto al caso Englaro, la
soluzione era certamente più
complessa, e meno univocamente desumibile dal diritto positivo.
4.1. — Anche in questo caso
v’era, tuttavia, un dato dal quale
partire, e che da poche parti è
68
stato messa in adeguata luce: la
legittimità della prosecuzione di
un trattamento invasivo del
corpo della paziente, come l’alimentazione e l’idratazione artificiale, non può essere data per
scontata, giacché ogni invasione
del corpo richiede una specifica
giustificazione al metro del diritto costituzionale. Il problema
non è qui dunque solo quello di
valutare la legittimità di una
eventuale interruzione del trattamento che tiene in vita il paziente; quanto, ancor prima, di accertare la stessa legittimità del trattamento che attualmente gli
viene praticato16.
Nella nota sentenza dell’ottobre 200717, che tante critiche ha
attirato da parte dell’attuale maggioranza parlamentare, la Cassazione aveva in effetti assunto
questo (implicito) punto di partenza, interrogandosi anzitutto
sulle possibili condizioni di legittimazione del trattamento medico. Lungi dal rappresentare —
come pure si è da taluno sostenuto — un lungo obiter dictum, le
considerazioni sul punto della
sentenza sono essenziali nell’iter
motivazionale che conduce alla
decisione del caso di specie, e si
muovono sulla base di principi di
ormai universale accoglimento
in ambito nazionale e internazionale, tanto da essere stati codificati nella Convenzione di Oviedo: e cioè nello strumento inter-
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nazionale elaborato in seno al
Consiglio d’Europa che si propone di declinare i diritti fondamentali dell’uomo nella materia
della medicina e della sperimentazione clinica.
Il normale presupposto di
liceità del trattamento medico,
osserva la Cassazione, è rappresentato dal consenso informato
del paziente (art. 5 Conv. Oviedo). Laddove non sia possibile
acquisire un tale consenso,
segnatamente nel caso in cui il
paziente sia incapace, la regola
suppletiva posta dall’art. 6 Conv.
Oviedo è quella che attribuisce la
responsabilità della decisione al
legale
rappresentante
del
paziente medesimo: regola, questa, perfettamente in linea con il
diritto di famiglia italiano, che
conferisce al legale rappresentante il potere-dovere della “cura
della persona” dell’incapace,
oltre che dei suoi interessi partrimoniali (artt. 357 e 424 c.c.).
Un trattamento effettuato nei
confronti di un paziente incapace
sarà dunque lecito soltanto a
condizione che venga effettuato
sulla base del consenso informato del legale rappresentante, salvi
i casi di urgenza terapeutica nei
quali non vi sia il tempo di acquisire tale consenso (per irreperibilità o mancata nomina del legale
rappresentante), nei quali il
medico sarà senz’altro legittimato ad agire nell’interesse del
paziente (art. 8 Conv. Oviedo, e
art. 54 c.p. nell’ordinamento italiano), e salvi i casi di trattamento legittimato da apposite disposizioni di legge (ad es. nei confronti dei pazienti psichiatrici:
art. 7 Conv. Oviedo, e art. 33 ss.
l. 833/1978 nell’ordinamento italiano). Al di fuori di queste particolari ipotesi, il dissenso del
legale rappresentante esclude di
regola che il trattamento possa
ritenersi legittimo.
Ciò posto, il problema che più
specificamente era posto all’attenzione della Cassazione concerneva i criteri decisionali ai
quali il legale rappresentante è
tenuto ad attenersi nell’esprimere la propria volontà in ordine al
trattamento da praticare all’incapace. Poiché, in effetti, le decisioni del legale rappresentante
devono comunque essere funzionali agli interessi del rappresentato, potendo altrimenti il tribunale sostituirsi alla sua valutazione per assicurare la salvaguardia
di tali interessi, il nodo reale del
contendere era se potesse considerarsi legittima la decisione di
un tutore (nel caso di specie, il
padre di Eluana) di negare il consenso alla prosecuzione dell’alimentazione e idratazione artificiale che attualmente tiene in
vita la ragazza.
Per quanto prima facie la
risposta negativa potesse apparire come la più plausibile (come
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può essere considerata nell’interesse di un incapace una decisione che ha per effetto la morte
dell’incapace medesimo?), la
Cassazione osserva — sulla
scorta dei precedenti americani e
tedeschi ricordati poc’anzi —
come il criterio decisionale cui il
legale rappresentante deve sempre attenersi sia quello della
volontà presunta dell’incapace:
della volontà, cioè, che il paziente ora incapace avrebbe verosimilmente formato ove fosse stato
in condizione di prevedere,
allorché ancora era capace, di
trovarsi in futuro in una simile
situazione di incapacità. Né tale
criterio decisionale appare il
frutto di una acritica importazione di modelli elaborati nell’ambito di ordinamenti stranieri,
posto che è lo stesso legislatore
italiano ad avere già utilizzato il
criterio medesimo nell’ambito
della normativa in tema di sperimentazione clinica su incapaci
(l.lgs. 211/2003): in un settore,
dunque, estremamente sensibile
e delicato, nel quale massime
sono le esigenze di salvaguardia
dei diritti fondamentali dei soggetti ‘deboli’ e non in grado di
far sentire direttamente la propria voce.
Un tale delicato giudizio può
compiersi, osserva ancora la
Cassazione, soltanto calandosi
nei panni del paziente: nel suo
mondo personalissimo di interes70
si, di valori, di convincimenti
etici, e nella sua generale visione
del mondo; in maniera tale,
comunque, che la decisione
appaia il più possibile quella che
dà voce al paziente medesimo,
anziché quella che altri (poco
importa se i medici, i giudici o il
legale rappresentante) ritengono
la più opportuna per il paziente.
Se questo è il test, allora —
conclude la Cassazione — non
può darsi per scontato che il
paziente avrebbe senz’altro deciso di sottoporsi ad un trattamento in grado di prolungare la sua
sopravvivenza. Esistono situazioni cliniche in presenza delle
quali è del tutto plausibile che il
paziente non avrebbe mai desiderato essere tenuto in vita indefinitamente; e lo stato vegetativo
permanente è probabilmente una
di esse. Il mero prolungamento
dell’esistenza biologica, in
assenza di qualsiasi processo psichico che consenta al paziente di
percepire ed apprezzare la propria stessa esistenza, potrebbe
essere fondatamente essere giudicato come una situazione indesiderabile, non foss’altro che
perché una tale situazione finisce
per prolungare ad infinitum una
scomparsa a tutti gli effetti già
avvenuta, impedendo a tutte le
persone che amavano il paziente
di risolvere ed elaborare il lutto
legato a quella scomparsa.
Di qui il principio di diritto
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tanto contestato, e frainteso,
della Cassazione: spetta al legale
rappresentante, una volta che i
medici abbiano espresso un giudizio (ragionevolmente certo)
sulla irreversibilità dello stato
vegetativo, valutare se quel concreto paziente avrebbe desiderato essere mantenuto in vita indefinitamente in quella condizione,
ovvero avrebbe — all’opposto
— desiderato essere lasciato
morire in pace. Laddove dunque
il legale rappresentante concluda
in questo secondo senso, con un
giudizio condiviso dall’eventuale curatore speciale e passato al
vaglio dal tribunale affinché sia
escluso ogni vizio nel processo
decisionale (quale quello che
potrebbe derivare da un eventuale conflitto di interessi con il
paziente incapace), il trattamento
ben potrà — e fors’anche dovrà
— essere interrotto.
Non ostano, ancora una volta,
a tale conclusione le vigenti
norme penali in tema di omicidio: perché, laddove si convenga
almeno in questo caso con la
categorizzazione in termini
omissivi della condotta del sanitario che, su istruzione del legale
rappresentante, non sostituisca le
sacche di liquidi e di sostanze
nutritive esaturitesi, l’omissione
non potrebbe dirsi penalmente
rilevante ex art. 40 co. 2 c.p. in
difetto di un corrispondente
obbligo giuridico di proseguire
con la somministrazione di liquidi e sostanze nutritive.
4.2. — La decisione della
Cassazione rimane, con tutto ciò,
aperta a possibili critiche e dissensi su una quantità di profili
problematici: a cominciare dalla
controversa qualificazione dell’alimentazione e idratazione
artificiale come autentico ‘trattamento medico’ ovvero come
assistenza di base (basic care)
che non potrebbe mai essere pretermessa — questione, peraltro,
che personalmente ritengo essere
sopravvalutata, a fronte della
natura indubitabilmente invasiva
di tali pratiche e della conseguente necessità di una loro
legittimazione al metro della
volontà reale o presunta del
paziente, alla pari dei trattamenti
medici stricto sensu —; per
giungere sino alla questione cruciale relativa all’affidabilità di
una ricostruzione della volontà
presunta demandata al tutore
sulla base di indizi tratti dalla
vita precedente del paziente,
spesso di non univoca interpretazione e di limitato valore probatorio rispetto alla scelta di vita o
di morte che ci si trova, anni
dopo, a dover compiere.
Un dato, però, è certo: la Cassazione non si è affatto ‘inventata’ una soluzione avulsa dal diritto positivo, ma ha argomentato
rigorosamente a partire dal dato
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centrale del bisogno di legittimazione, dal punto di vista dell’ordinamento positivo, di ogni trattamento invasivo del corpo del
paziente, interrogandosi conseguemente sulle condizioni di
liceità del trattamento medesimo, alla luce di dati normativi
presenti nel nostro ordinamento,
e di principi sui quali converge
ormai l’unanime consenso internazionale.
L’assenza di una specifica
normativa di rango ordinario che
disciplini la possibile interruzione dell’alimentazione e idratazione artificiale a pazienti nelle
condizioni di Eluana Englaro
non significa affatto, in questo
quadro, che l’interruzione non
sia mai consentita; restando piuttosto tutto da dimostrare, a
monte, se la prosecuzione a
oltranza del trattamento – invasivo del corpo della paziente –
debba ritenersi sempre legittima
e doverosa in nome della salvaguardia della vita del paziente;
ovvero se l’obbligo di mantenere
in vita un paziente possa ragionevolmente arrestarsi a un certo
punto, anche con l’effetto di far
venir meno l’obbligo giuridico di
impedire la morte del paziente
evocato dall’art. 40 co. 2 c.p. Il
richiamo al generale divieto di
uccidere posto dall’art. 575 c.p.
non basta a risolvere il problema:
perché il problema qui in discussione è, ripeto, quella dell’even72
tuale sussistenza di un limite al
dovere di cura, la cui violazione
soltanto potrebbe legittimare un
addebito di responsabilità penale
a carico del medico che si sia
semplicemente astenuto (con
una condotta omissiva!) dal proseguire un trattamento di sostegno vitale.
Anche in questo caso, dunque, nessuna indebita violazione
da parte della Cassazione del
dato normativo. Il dovere del
giudice è anche quello di decidere anche i casi difficili, non
essendogli mai consentito pronunciare un non liquet; e la Cassazione lo ha fatto individuando
una soluzione magari opinabile,
ma certamente non arbitraria e
illogica, bensì coerente con il
sistema e in linea, come si è
visto, con analoghi precedenti di
altre giurisprudenze straniere che
si sono trovate ad affrontare il
medesimo dilemma.
5. Per concludere:
qualche spunto
di riflessione
su un luogo comune
Benissimo, si potrebbe ancora
obiettare: ma non sarebbe
comunque il caso che, ad evitare
tutte queste discussioni, il legislatore si decidesse ad assumersi
le proprie responsabilità, emanando una organica disciplina
della materia delle decisioni di
fine vita, e ponendo così fine a
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di fine vita e
“attivismo giudiziale”
questa anomala supplenza giudiziaria?
La doglianza realtiva alla latitanza del legislatore sul punto è,
in effetti, divenuta ormai un
luogo comune. Ho, tuttavia,
l’impressione che le cose siano
un po’ più complesse di quanto
non appaia a prima vista, e che
l’invito al legislatore ad intervenire sia viziato da alcuni non trascurabili fraintendimenti.
Due, mi pare, sono le ragioni
forti che si invocano a sostegno
della necessità di una soluzione
‘legislativa’ della materia dell’omissione e/o interruzione di trattamenti di sostegno vitale. Da un
lato, una chiara presa di posizione da parte del legislatore sarebbe preferibile rispetto alla situazione attuale, in quanto garantirebbe la conoscibilità per i consociati delle norme di condotta e
la conseguente prevedibilità
delle sanzioni ricollegate alla
loro inosservanza: valori, questi,
non garantiti dall’attuale stato di
cose, come la tormentata vicenda
del dottor Riccio in relazione al
caso Welby parrebbe dimostrare.
Dall’altro, bilanciamenti così
delicati come quelli che devono
essere compiuti nella materia in
esame dovrebbero passare per
una diretta assunzione di responsabilità da parte del legislatore,
che è organo avente una legittimazione democratica di cui il
potere giudiziario è, invece,
carente.
Vorrei allora, prima di concludere, spendere qualche breve
riflessione su entrambi questi
profili: anche perché, lo dico sin
d’ora, sono fermamente convinto
che una soluzione giurisprudenziale di hard cases come quelli
sin qui discussi possa essere, a
conti fatti, preferibile rispetto a
una cattiva soluzione legislativa,
sul modello di quelle che paiono
profilarsi all’orizzonte sulla base
dei disegni di legge attualmente
in discussione alle camere.
5.1. — Quanto al primo profilo, non v’è alcun dubbio che il
legislatore sia sulla carta in una
posizione migliore rispetto alla
giurisprudenza per dettare ai
consociati regole di condotta
chiare e precise, e per indicare
sanzioni prevedibili per il caso di
inosservanza. A questo fine però
occorre che il legislatore per
primo abbia le idee chiare, e sappia dettare regole puntuali e ritagliate su quelli che attualmente
sono ‘casi difficili’ per la giurisprudenza. Ciò purtoppo non
accade quando la legge sia frutto
di complicati equilibrismi e compromessi tra differenti posizioni
politiche e ideologiche, che sfociano in genere in formulazioni
generiche e ambigue, quando
non addirittura in norme tra loro
contraddittorie o comunque non
coordinate (come è accaduto
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recentemente nella l. 40/2004 in
materia di fecondazione assistita).
D’altra parte, vi è una buona
dose di esagerazione nell’affermazione secondo cui la giurisprudenza non sarebbe in grado
di assicurare la prevedibilità
delle proprie decisioni. Anche in
materie così difficili come quelle
di cui stiamo ora discutendo, la
soluzione non è mai individuata
dal singolo giudice in esito a un
personale bilanciamento tra
principi, valori e interessi, condotto secondo la propria individuale visione del mondo; ma è –
e deve sempre essere – rigorosamente motivata alla stregua di
principi immanenti al sistema, e
generalmente condivisi dalla
comunità degli interpreti. Ciò al
fine di garantire che le decisioni
dell’hard case in discussione non
si presentino come il frutto della
personale creatività interpretativa del singolo giudice, ma piuttosto come il prodotto di una elaborazione collettiva di principi e
di argomenti sui quali si è già
convogliato un ampio consenso,
e che facciano apparire la decisione in armonia con il sistema e
con la tradizione giuridica, anziché come un momento di rottura.
Una decisione come quella
del g.u.p. di Roma nel caso
Welby sarebbe stata, in effetti,
impensabile senza il trentennio e
oltre di riflessione dottrinale e
74
giurisprudenziale che l’ha preceduta sull’art. 32 co. 2 Cost., e
senza la progressiva valorizzazione di questa norma da parte
della recente giurisprudenza
della Corte costituzionale: tanto
che l’estensore di tale sentenza,
in un convegno al quale anch’io
ebbi la fortuna di partecipare,
parlò di quella giurisprudenza
come di un’“autostrada” che le si
era spalancata dinnanzi in direzione del risultato finale (la pronuncia di non doversi procedere): risultato sul quale, incidentalmente, del tutto isolate sono
state le espressioni di dissenso da
parte della dottrina. Vero è che il
dottor Riccio si assunse un non
trascurabile rischio personale nel
momento in cui decise di spegnere il respiratore a Piergiorgio
Welby in assenza di un provvedimento autorizzativo da parte del
giudice civile; eppure, oggi ben
pochi potrebbero avere ancora
dubbi sulla piena liceità della sua
condotta, alla luce delle reiterate
affermazioni da parte della più
recente giurisprudenza di legittimità sull’esistenza di un diritto
del paziente a rifiutare anche
trattamenti necessari per la sua
sopravvivenza18.
Ma nemmeno può sostenersi
che la ben più controversa decisione della Cassazione sul caso
Englaro sia piombata come un
fulmine a ciel sereno nel panorama giursprudenziale italiano. Nel
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di fine vita e
“attivismo giudiziale”
corso di quella lunghissima
vicenda giudiziaria, la Corte
d’Appello di Milano era più
volte – tra l’indifferenza generale dei media – giunta a un passo
dall’accogliere il ricorso del
padre di Eluana, affermando sin
dal 1999 che “la perdita irreversibile della coscienza non può
non costituire il limite di ogni
trattamento medico” (salvo poi
arrestarsi di fronte al dubbio se
l’alimentazione e l’idratazione
artificiale costituissero un autentico trattamento medico)19, e
avendo da ultimo ammesso le
testimonianze di numerosi conoscenti e amici della ragazza sulla
circostanza, dedotta dal tutore,
relativa alla effettiva volontà
della ragazza — che ella avrebbe
espresso in passato — di non
essere mantenuta in vita in simili
condizioni20 (evidentemente sulla
base del presupposto che, laddove una tale volontà reale fosse
stata provata, l’idratazione e l’alimentazione artificiali avrebbero potuto essere lecitamente
interrotte). Si era in tal modo a
poco a poco scardinata l’idea che
la prosecuzione del trattamento
dovesse considerarsi sempre e
comunque doverosa per il solo
fatto di essere necessaria a garantire la sopravvivenza fisica della
paziente, e si era assieme preparato il terreno all’ulteriore passaggio compiuto ora dalla Cassazione, che ha riconosciuto la pos-
sibile liceità dell’interruzione del
trattamento sulla base della sua
volontà anche solo presunta.
Né è senza significato che la
Cassazione nel caso Englaro
abbia sentito il bisogno di citare
gli autorevoli precedenti stranieri che avevano adottato quella
medesima soluzione (o soluzioni
analoghe nell’esito, come quella
della House of Lords nel caso
Bland). Il richiamo ad altre giurisprudenze, pur se criticato da
qualche commentatore italiano,
rappresenta a mio avviso una
novità da salutare con favore,
specie in una materia come in
quella all’esame in cui le soluzioni non sono normativamente
‘chiuse’, ma necessitano di essere elaborate sulla base di principi
ed argomenti di portata tendenzialmente universale, che hanno
come tali una naturale vocazione
a circolare tra le giurisprudenze
dei diversi Paesi. La materia
delle decisioni di fine vita è
densa di diritti fondamentali; e i
diritti fondamentali, rettamente
intesi, non sono né italiani né
inglesi né tedeschi, ma sono
diritti dell’uomo tout court, al di
là di ogni barriera nazionale.
Tutto ciò implica che decisioni come quelle assunte dalla giurisprudenza italiana nei casi
Welby e Englaro, lungi dal porsi
come arbitrarie e imprevedibili,
rappresentano a ben guardare lo
sviluppo di principi ed argomen75
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ti da tempo familiari alla comunità degli interpreti, e destinati
pertanto a radicarsi stabilmente
nella nostra giurisprudenza: fissando, così, un quadro di regole
coerenti, in grado di orientare la
condotta dei consociati anche in
assenza di una mediazione legislativa.
5.2. — Ma – ed ecco il secondo profilo di criticità – hanno i
giudici la necessaria legittimazione politica per compiere scelte così delicate, e per costruire –
di fatto – le regole di condotta
alle quali i consociati dovranno
poi conformarsi?
Al riguardo, un primo punto è
fuori discussione: il giudice – a
differenza del legislatore – non
può sottrarsi alla responsabilità
di decisioni difficili, di fronte ad
un’istanza di tutela di un diritto
proveniente da un privato ovvero
a una richiesta della pubblica
accusa. E dunque, in assenza di
una regola ad hoc già predisposta dal legislatore, non c’è alternativa a che sia il giudice a stabilire la regola di giudizio del caso
concreto, la cui tenuta sarà poi
vagliata nei succesivi gradi di
giudizio sino in Cassazione.
Ma il profilo che viene spesso
trascurato, anche nelle riflessioni
dottrinali, è che anche laddove il
legislatore si decidesse a intervenire nella materia, fissando autoritativamente le regole cui i giu76
dici dovranno poi attenersi, la
sua discrezionalità non sarebbe
affatto illimitata. Le esigenze di
rispetto dei diritti fondamentali
dell’individuo che entrano in
gioco nella materia delle decisioni di fine vita si impongono,
infatti, come un dato indisponibile allo stesso legislatore: del
tutto coerentemente con la funzione dei diritti fondamentali,
che è quella di tutelare l’individuo anche contro le decisioni
della maggioranza politica di
turno. E in un moderno sistema
costituzionale, la tutela dei diritti
fondamentali è ancora una volta
affidata alla magistratura, costituzionale ma anche ordinaria
(spettando proprio a quest’ultima
la rilevazione del conflitto e la
sua possibile eliminazione in via
ermeneutica ovvero mediante
rimessione degli atti alla Corte
costituzionale).
Ogni futura decisione da parte
del legislatore nella materia in
esame sarà, dunque, vincolata
dal rispetto dei diritti fondamentali della persona e dall’insieme
dei principi consacrati nella
Costituzione, nella fisionomia
loro conferita da una pluridecennale elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale; tenendo conto
altresì, alla luce delle indicazioni
più recenti della Corte costituzionale21, dei vincoli provenienti
dal diritto internazionale, e
segnatamente dalla CEDU e
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dalla Convenzione di Oviedo.
Pena l’illegittimità costituzionale
delle scelte compiute dal legislatore, che certo la Corte costituzionale non mancherebbe di rilevare e sanzionare.
La legittimazione politica dei
giudici nel prendere decisioni, e
nel costruire regole, in materia di
decisioni di fine vita sta dunque
nelle cose, e assieme nella logica
di un sistema costituzionale che
affida, per l’appunto, in primo
luogo ai giudici il compito di
tutelare i diritti fondamentali dell’individuo. Coerentemente con
quanto è accaduto e accade in
molti altri ordinamenti al nostro
culturalmente affini.
Note.
1 Cfr. C. cost. 334/2008.
2 Dapprima, più timidamente, in Cruzan v.
Director Missouri Dept. of Health, 497 U.S.
261 (1990), e poi con maggiore decisione in
Washington v. Glucksberg, 117 SCt 2258
(1997).
3 Roe v. Wade, 410 US 113 (1973).
4 Cfr. ad es. St. Mary’s Hospital v. Ramsey,
465 So.2d 666 (Court of App. of Florida, 4
Distr., 1985); Public Health Tr. of Dade County
v. Wons, 541 So.2d 96 (Supreme Court of Florida, 1989), Fosmire v. Nicoleau, 551 N.E.2d, p.
81 (New York Court of Appeal, 1990);
Norwood Hospital v. Munoz, 564 N.E.2d 1017
(Supr. Court Mass., 1991).
5 Cfr. ad es. Satz v. Perlmutter, 379 So.2d
359 (Supreme Court of Florida, 1978); Bartling
v. Superior Court, 209 Cal Rptr 220 (Superior
Court, County of Los Angeles, 1984); Bouvia v.
Superior Court, 225 Cal. Rptr. 297 (Cal. App. 2
Dist., 1986); McKay v. Bergstedt, 801 P.2d 617
(Supreme Court of Nevada, 1990).
6 Quinlan, 355 A.2d 647 (Supreme Court
of New Jersey,1976).
7 Cfr. in questo senso le perentorie affermazioni di Lord Keith (p. 860), di Lord Goff (p.
866), di Lord Browne-Wilkinson (p. 882) e di
Lord Mustill (p. 889) in Airedale NHS Trust v.
Bland, [1993] 1 All ER 858.
8 Così Lord Keith (p. 861), Lord Goff (p.
867 ss., 870), Lord Browne-Wilkinson (p. 881
ss.), Lord Mustill (p. 894 s.) nella fondamentale decisione citata alla nota precedente.
9 Cfr. sul punto la presa di posizione della
Corte costituzionale tedesca in BVerfGE 52,
175 e, in dottrina, Murswiek Art. 2, in Sax (a
cura di), Grundgesetz. Kommentar, IV ed.,
2007, n. 206; Jarass, Art. 2, in Jarass, Pieroth,
Grundgesetz für die Bundesrepublik Deutschland, IX ed., 2007, n. 83; Di Fabio, Art. 2 Abs.
2, in Maunz/Dürig Kommentar zum GG, 2004,
n. 61 e 69 ss.; Lorenz, Recht auf Leben und körperliche Unversehrtheit, in Isensee, Kirchhof (a
cura di), Handbuch des Staatsrechts der Bundesrepublik Deutschland, vol. VI, II ed., 2001, n.
64; Correll, Art. 2 Abs. 2, in AK-Kommentar
zum GG, III ed., 2001, n. 111; Kunig, Art. 2, in
von Münch-Kunig (hrsg.), Grundgesetz-Kommentar, V ed., 2000, n. 62.
10 Su questo dibattito, cfr. ampiamente,
anche per gli innumerevoli ulteriori riferimenti,
Eser, § 223, in Schönke/Schröder Strafgesetzbuch Kommentar, XXLII ed., 2006, n. 32; H.
Schneider Vor § 211, in Münchener Kommentar
zum StGB, 2003, n. 109; Lackner/Kühl, Kommentar zum StGB, XXVI ed., 2007, n. 8a.
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11 BGHSt 40, 257.
12 Cfr. in particolare, in questo senso, la
presa di posizione delle sezioni civili in NJW
2003, 1588 ss.
13 Così, in particolare, Trib. Roma, sez. I
civ., ord. 15 dicembre 2006 (est. Savio), in
Giur. mer. 2007, p. 996 ss. con nota di Iadecola.
14 Trib. Roma 23 luglio 2007 (est. Secchi),
in F. it., 2008, II, c. 105 ss. Nello stesso senso
cfr., in dottrina, M. Donini, Il caso Welby e le
tentazioni pericolose di uno “spazio libero dal
diritto”, in Cass. pen., 2007, 909 ss.; D. Pulitanò, Doveri del medico, dignità del morire,
diritto penale, in Riv. it. med. leg., 2007, 1217
ss.; A. Taruffo, Rifiuto di cure e doveri del
medico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 467; A.
Vallini, Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla
più recente giurisprudenza, in Dir. pen. proc.,
2008, 71 s.
15 F. Viganò, Esiste un diritto a essere
lasciati morire in pace”? Considerazioni in
margine al caso Welby, in Dir. pen. e proc.,
2007, p. 7 ss. Nello stesso senso C. Cupelli, Il
diritto del paziente (di rifiutare) e il dovere del
medico (di non perseverare). Un tentativo di
lettura ‘giuridica’ del caso Welby, in Cass. pen.,
2008, p. 1825 ss.
78
16 L’importanza della corretta formulazione della domanda è sottolineata dalla dottrina
tedesca più recente: cfr., per tutti, la relazione
introduttiva di T. Verrel, Patientenautonomie
und Strafrecht bei der Sterbebegleitung, in
DJT, 2006, C 37 alla sessione penalistica del
LXI congresso dei giuristi tedeschi del 2006
dedicata ai temi qui in discussione.
17 Cass., sez. I civ., 16 ottobre 2007, in F.
it., 2007, I, 3025 ss.
18 A cominciare da Cass., sez. I civ., 16
ottobre 2007, cit., c. 3036 (“deve escludersi che
il diritto alla autodeterminazione terapeutica
incontri un limite allorché da esso consegua il
sacrificio del bene della vita”). Nello stesso
senso, cfr. anche Cass., sez. III civ., 22 maggio
2008, n. 23676, che riafferma il “generale principio [...] in forza del quale va riconosciuto al
paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio
stesso della vita”.
19 C. App. Milano, 31 dicembre 1999, in F.
it., 2000, I, c. 2022 ss.
20 Nella decisione poi annullata da Cass.,
sez. I civ., 16 ottobre 2007, cit.
21 Cfr. le fondamentali C. cost. 348 e
349/2007.
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Il rifiuto di cure da parte
di soggetti adulti capaci:
esperienza inglese e diritto
italiano a confronto
Giudice
del Tribunale
di Trapani
*
di Caterina Brignone*
1. Introduzione
L’ineffabile fluire di pensieri
e parole, speranze ed affanni,
fatti minuti ed epiche gesta, che
rende unica ed irripetibile l’esperienza di vita di ciascuno, è reso
possibile attraverso quel corpo
che, nei diversi momenti e situazioni, può essere avvertito come
abile ed agile strumento per tradurre la potenza in atto o come la
più temibile delle prigioni. Il
corpo esaurisce o manifesta –
dipende dal quadro assiologico
prescelto – la dimensione intima
dell’uomo, il quale se ne serve,
con diversa consapevolezza ma
senza soluzione di continuità, dal
primo vagito all’ultimo respiro,
scontando inevitabilmente le
barriere di natura e rispettando
confini autoimposti in nome di
un’etica laica o religiosa o per il
perseguimento di dati obiettivi.
Gli ulteriori limiti si apprezzano
una volta calato l’essere umano
nella dimensione sociale: poiché
certe condotte possono offendere
altri consociati e lo stesso disponente, i vari ordinamenti si sono
storicamente premurati e continuano a premurarsi di porre specifici divieti con riguardo a fatti
stimati disfunzionali per la conservazione e lo sviluppo del
corpo sociale. Tali divieti, quindi, possono colpire sia atti che
incidono su terzi – ciò che esula
dalla presente trattazione – sia
atti che esauriscono gli effetti
80
nella sfera privata dell’agente.
Le restrizioni poste in quest’ultima direzione varcano la sfera
intima dell’individuo e realizzano frontiere mobili, che avanzano o arretrano a seconda delle
epoche storiche, della sensibilità
sociale e del contesto culturale.
Tanto dà ragione del motivo per
cui siffatti limiti non possono
essere espressi da un’unica
disposizione normativa né compresi del tutto senza estendere
l’indagine ad un piano inevitabilmente metagiuridico.
Sotto questo profilo, è emblematico – per restare in ambito
europeo – il diritto inglese, laddove apertamente si fanno
discendere le soluzioni giuridiche da quelle premesse etiche
che costituiscono la banda di
oscillazione del pendolo del
diritto. Il giurista continentale,
dal canto suo, non deve sobbalzare innanzi a quanto s’è detto
sia perché la riflessione bioetica
si è sviluppata negli ultimi anni
sia perché, da sempre, la varietà
ed irriducibilità delle posizioni
espresse – a parità di dato normativo – su temi capitali è rappresentativa di quanto sia irraggiungibile il mito dell’obiettività
dell’interprete. Ed allora, il
metodo della comparazione può
valere per far affiorare la tavola
dei valori troppo spesso adombrata da un tecnicismo esasperato e mistificatore e per uscire
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Il rifiuto di cure da parte
di soggetti adulti capaci:
esperienza inglese e diritto
italiano a confronto
dalla spirale chiusa di circuiti
argomentativi consunti.
L’auspicio è di offrire un ulteriore contributo sul rifiuto di
cure contestuale al trattamento e
proveniente da soggetti capaci1.
Si tratta di tema da sempre controverso in Italia e rispetto al
quale la società civile ha più
volte sollevato l’esigenza di
regole chiare per scongiurare il
rischio di degradare l’uomo –
autonomo, pensante e decidente
– ad infermo, in balia non solo
della malattia ma anche dell’altrui volere e di un dispotismo
ordinamentale con la pretesa di
marchiare a fuoco la propria
etica sulla pelle dell’individuo. A
tal fine, può essere utile volgere
lo sguardo Oltremanica – e talora anche Oltreoceano – ove da
tempo si sono consolidate regole
chiare, che vale la pena di considerare per valutare se un risultato equivalente in termini di certezza sia raggiungibile nel nostro
ordinamento attraverso l’armamentario dell’interprete.
2. Gli atti di disposizione
del corpo nel diritto inglese:
premesse etiche
e conseguenze giuridiche
Il rifiuto di cure si inserisce
nella vasta gamma degli atti di
disposizione del corpo sicché,
ponendosi rispetto a questi in un
rapporto di species a genus, ne
ripete l’estensione e ne sconta i
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limiti.
Il diritto inglese non ha avuto
la pretesa di esaurire una questione tanto complessa – che involge
aspirazioni individuali e pretese
politiche e sociali – attraverso la
positivizzazione di un precetto
normativo ed ha lasciato alla giurisprudenza il compito di elaborare principi e regole operative in
grado di concretizzare, nei diversi settori ed aree di intervento, la
nozione di public policy come
storicamente avvertita. Nell’assolvere tale incarico, la scienza
giuridica ha scelto di dialogare
con le altre scienze umane, avendo come interlocutore privilegiato l’etica. Così, la riflessione dell’ultimo mezzo secolo ha cercato
di coniugare l’ascesa dei valori
autonomistici di matrice kantiana con il tradizionale paternalismo provvidenzialistico, rinverdito e riconfermato dalle formulazioni più aggiornate della filosofia utilitaristica. Si è proceduto
– in un contesto mai dimentico
della necessità di fare i conti con
la scarsità delle risorse disponibili2 – col metodo del bilanciamento in concreto, per contemperare il riconosciuto diritto di
decidere del proprio corpo e
della propria vita con eventuali
confliggenti ragioni di pubblico
interesse. Del resto, ogni Stato
suole tracciare confini oltre i
quali i valori autonomistici devono cedere il passo alla tutela di
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altre istanze e finisce per presidiare quei confini con sanzioni
penali non solo per evitare offese
a terzi, ma anche per impedire a
soggetti adulti e sani di mente di
cagionare a sé stessi un harm in
favore di altri o con la collaborazione di altri3. Ed ecco che le
decisioni delle corti inglesi sulla
validità del consenso ad atti di
disposizione del corpo sono
basate on public policy e passano
attraverso la considerazione di
tre questioni cardine: quale
degree of harm è causato; quale
livello di offesa era stato previsto
o voluto; se l’attività considerata
rientra in una delle categorie nell’ambito delle quali il consenso
può eccedere i limiti ordinari.
Quanto al primo punto, il consenso della vittima non scrimina
un actual bodily harm che non
sia passeggero o insignificante, a
meno che non si versi in uno dei
settori di intervento meritevoli di
tutela.
In ordine al secondo passaggio, non è possibile prestare consenso alle offese con esito letale,
come si desume dall’art. 2 del
Suicide Act 1961 – che punisce
con una pena detentiva fino a
quattordici anni chi aiuti altri a
togliersi la vita – e dall’art. 4 dell’Homicide Act 1957, che punisce il survivor killer of a suicide
pact. La definizione del limite
alle non-fatal offences si ricava,
invece, dalla common law e
82
segnatamente dalle eccezioni che
l’Attorney-General’s Reference
n. 1 del 19804 ha previsto al
divieto di consentire menomazioni significative dell’integrità
fisica. Nel novero di tali eccezioni dettate per ragioni di pubblico
interesse5 si pone l’esercizio dell’attività medica, per la quale,
dunque, il consenso dell’interessato può varcare gli ordinari
limiti di disponibilità del diritto.
Emerge che non è stato sposato un hard-line libertarian
approach, ma la linea di tendenza è quella di circoscrivere la
regolamentazione giuridica ai
casi in cui si debbano regolare
confini ed aree di interferenza tra
più libertà od occorra un contemperamento degli interessi. Per il
resto, il rispetto per la persona e
le garanzie che circondano la privacy sono di ostacolo a forme di
controllo su come un soggetto
gestisce il proprio corpo e, quindi, vive; il pensiero liberale e le
Carte dei diritti fondamentali
rappresentano lo scudo di difesa
da un paternalismo esasperato
che voglia tradursi in totalizzante.
Tale assetto non è così dissimile da quello ricavato dalla
visione sinergica delle norme
ordinamentali e tracciato in Italia
da quella dottrina che ha voluto
impostare il tema degli atti di
disposizione del corpo in una
prospettiva costituzionalmente
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Il rifiuto di cure da parte
di soggetti adulti capaci:
esperienza inglese e diritto
italiano a confronto
orientata e convenzionalmente
conforme, ossia in armonia, oltre
che col dato costituzionale, con
le indicazioni provenienti dalle
Carte dei Diritti sottoscritte dal
nostro Paese6. Non è necessario
spendere molte parole per evidenziare come sia in atto, per tramite della circolazione dei
modelli culturali e sotto la spinta
delle Convenzioni internazionali, un progressivo – sebbene
ancora incompiuto – avvicinamento dei modelli occidentali di
riconoscimento e tutela del diritto di autodeterminazione. È innegabile che nel nostro ordinamento perdurino sacche di resistenza
e sia ancora molto forte il retaggio di una tradizione panpubblicistica od influenzata dall’etica
religiosa, ma è anche vero che la
direzione di marcia sembra
ormai tracciata in senso personalistico, specie in forza dell’adesione alla CEDU e dell’avvenuta
ratifica della Convenzione di
Oviedo.
3. Consenso e rifiuto di cure
nei sistemi anglo-americani
Tornando al diritto inglese, è
incontroverso che il trattamento
medico trovi la propria legittimazione – necessaria ma non sufficiente7 – nel consenso, che è
chiamato a svolgere diverse funzioni: legale, perché rende lecito
quel che altrimenti non lo sarebbe e pone il professionista al
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riparo da responsabilità civile
per trespass o penale per criminal assault; filosofico-morale, in
quanto concretizza il principle of
bodily inviolability, radicato
nella libertarian philosophy di
John Stuart Mill e nel pensiero
kantiano; clinica, dal momento
che la cooperazione del paziente
favorisce la buona riuscita del
percorso di cura. È, quindi, sempre più marcato il passaggio dal
tradizionale doctor knows the
best verso un modulo autonomistico, in base al quale – a tutela
sia della libertà di determinarsi
sia dell’inviolabilità fisica –
viene riconosciuto al paziente
capace, libero e previamente
informato il diritto di decidere
sulle cure.
La più celebre ed icastica traduzione giuridica di un tale
enunciato risale al 1914 e si deve
al giudice americano Benjamin
Cardozo il quale, nel caso Schloendorff v New York Hospitals,
ha affermato che «ogni essere
umano di età adulta e sano di
mente ha il diritto di decidere ciò
che sarà fatto sul suo corpo; ogni
chirurgo che esegue un’operazione senza in consenso del
paziente commette assault»8.
Nei fatti, tuttavia, la regola
subisce una serie di limitazioni.
Anzitutto, si accorda indulgenza
sul piano sanzionatorio al professionista che, in buona fede, anteponga i best interests del pazien83
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te al principle of autonomy. In
secondo luogo, non sussiste un
diritto pieno a ottenere i trattamenti richiesti, potendo essere
l’accesso precluso dalla scarsità
delle risorse, dalle valutazioni
del medico o da sbarramenti giurisprudenziali o normativi, come
tipicamente accade per la clonazione umana o per le mutilazioni
genitali femminili. Infine – e qui
si riscontra l’influenza dell’utilitarianism – persino per i soggetti adulti capaci sono previsti casi
in cui il rifiuto di determinati
trattamenti può essere superato
per la salvaguardia da parte dello
Stato di interessi più ampi, quali
la tutela della vita, la prevenzione del suicidio, la salvaguardia
dell’integrità della professione
medica e la protezione di terzi
innocenti9. Bisogna, però, intendersi sull’effettiva operatività di
tali interessi, che è meno invasiva di quanto prima facie potrebbe sembrare.
Ed infatti, la preservation of
life legittima politiche e misure
di promozione della salute pubblica e giustifica l’imposizione
di trattamenti sanitari obbligatori, quando questi siano finalizzati a tutelare la collettività e non il
solo destinatario. Non si dubita,
però, che la sacralità della vita
quale affermazione di principio
debba arretrare a fronte della
volontà del paziente concreto di
rifiutare trattamenti salvavita
84
(salve le ipotesi – tuttora discusse – della donna incinta che si
oppone al taglio cesareo e del
minore maturo)10. La stessa British Medical Association afferma
che il diritto del paziente capace
di rifiutare un trattamento prevale sul dovere del medico di preservare la vita; il margine di
manovra che residua al sanitario
è quello della persuasione attraverso l’informazione e il dialogo,
ma senza forzature11.
Il riconoscimento dell’autonomia decisionale del paziente
non contrasta neppure con la prevention of suicide, posto che il
non ostacolare il decorso patologico non corrisponde ad agire
deliberatamente allo scopo di
togliersi la vita. Significativo il
caso che ha avuto per protagonista Elizabeth Bouvia. La donna –
quadriplegica e afflitta da dolori
incessanti, ma cosciente e consapevole – aveva chiesto all’autorità giurisdizionale un order che
le riconoscesse la possibilità di
rifiutare la sonda nasogastrica,
che le era stata applicata per l’alimentazione artificiale. La corte
nel 1986 ha sostenuto il diritto di
autodeterminazione sul presupposto, appunto, che permettere
alla malattia di fare il suo corso
non equivalga alla scelta volontaria di suicidarsi12. La prevention of suicide, da una parte, non
è di ostacolo alla possibilità di
rifiutare le cure e, dall’altra, dà
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Il rifiuto di cure da parte
di soggetti adulti capaci:
esperienza inglese e diritto
italiano a confronto
facoltà o impone13 al medico di
praticare trattamenti life-saving a
chi abbia cercato di uccidersi. La
sanctity of life – la quale non si
ribella alle leggi di natura che
segnano i tempi della vita e della
morte – si oppone, però, all’atto
autolesionistico estremo, anche
se posto in essere da soggetti
capaci14. Le corti hanno puntellato un tal modo di vedere richiamando l’art. 2 CEDU, interpretato nel senso che lo Stato non ha
l’obbligo di costringere a vivere
chi non vuole ma, nello stesso
tempo, non è tenuto a restare
inerte innanzi a tentativi di suicidio15.
Neppure il rispetto dovuto
all’integrity of the medical profession può prevalere sulla
volontà dell’ammalato di non
essere curato. Tuttavia, la giurisprudenza opera una distinzione
con riguardo all’interruzione di
procedura già iniziata e prevede
che il medico non possa essere
obbligato a far cessare il trattamento, determinando in tal modo
la morte del proprio assistito16.
Lo scopo è quello di conciliare la
libertà di coscienza del professionista con l’autonomia decisionale dell’ammalato, che può
rivolgersi ad altro medico per
richiedere la prestazione.
Infine, nel diritto inglese l’interesse alla protection of innocent third parties è inteso in termini decisamente meno pregnan-
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ti di quanto non accada nella giurisprudenza statunitense e non
arriva a legittimare, ad esempio,
l’imposizione di trattamenti
obbligatori o la trasfusione coatta di sangue a genitori che,
rischiando la vita, verrebbero
meno al loro dovere di prendersi
cura dei figli17. In realtà, taluni
autori inglesi dubitano della stessa configurabilità di un tale controfattore alla libertà individuale,
salvi i casi in cui ricorrano
espresse previsioni di legge a
tutela della salute pubblica18.
Il quadro complessivo è tale
per cui le esigenze della comunità statuale possono limitare i
diritti individuali ove ci siano
controinteressati da proteggere.
Non si dubita, quindi, della possibilità di opporre un diniego –
indipendentemente dalle insindacabili motivazioni della scelta –
anche rispetto a cure che potrebbero rivelarsi risolutivamente
salvifiche. Ciò cui si dà risalto è
piuttosto che la decisione sia
adottata da persona effettivamente capace19, adeguatamente
informata20 ed il cui consenso si
sia liberamente formato21. L’attenzione rivolta a questi temi –
con ben altro approfondimento
rispetto a quello ad essi dedicato
nei sistemi continentali – è funzionale alla realizzazione dei
valori autonomistici e la miglior
garanzia di una vera autodeterminazione responsabile.
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4. Profili di criminal liability
del medico
L’assetto tracciato si riverbera
sulla posizione del medico, il
quale è tenuto a rispettare il rifiuto di cure, nonostante possa
discenderne la morte e pure ove
la volontà dell’ammalato sia
rivolta proprio ad anticipare
l’exitus vitae. Ciò, comunque,
non si traduce nel riconoscimento del diritto a uccidersi, perché
si ritiene che possa parlarsi di
suicidio solo nel caso di comportamenti positivi finalizzati ad
anticipare il termine naturale
della vita22. In caso di decesso del
paziente, quindi, non può essere
chiamato a rispondere delle condotte di aiuto incriminate dal
Suicide Act 1961 il professionista
che si sia limitato a interrompere
o non intraprendere un trattamento nel rispetto della volontà
del diretto interessato23.
Tanto più va scartata un’eventuale responsabilità penale per
murder, soluzione questa cui si
perviene sulla base di percorsi
differenti.
Una prima impostazione
interpreta la cessazione delle
cure come mera omissione piuttosto che come azione ed esclude
per questa via l’esistenza di un
nesso di derivazione causale giuridicamente rilevante. In tal
modo, però, si trascura che talvolta l’interruzione della procedura terapeutica deve passare
86
attraverso fatti commissivi,
quali, ad esempio, la disconnessione del macchinario per la
respirazione meccanica o il
disinserimento del tubo di alimentazione e idratazione. Inoltre, il sistema inglese ammette la
configurabilità dell’omicidio
mediante omissione laddove sussista un duty of care, qual è certamente quello che grava sul professionista rispetto al proprio
assistito24.
È, allora, più persuasivo il
ragionamento che non punta
sulla qualificazione del fatto
come commissivo od omissivo,
ma evidenzia che il rifiuto del
paziente sospende il professionista dal duty of care e fa sorgere il
dovere di rispettare le decisioni
dell’assistito, fatto salvo il diritto
all’obiezione di coscienza25. In
tal modo l’esenzione da responsabilità per omicidio è basata
non sul semplice distinguo tra
killing e letting die, ma sulla
volontà dell’ammalato e sulla
qualifica del destinatario della
richiesta. In proposito è illuminante l’esemplificazione prospettata da autorevole dottrina26:
si fa il caso di una donna colpita
da grave malattia degenerativa in
fase terminale e dipendente da un
macchinario per la respirazione
artificiale, la quale abbia espresso ferma volontà di essere distaccata dal respiratore e lasciata
morire; si ipotizza, quindi, che il
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Il rifiuto di cure da parte
di soggetti adulti capaci:
esperienza inglese e diritto
italiano a confronto
figlio della paziente – avido e
desideroso di entrare in possesso
dell’eredità – proceda all’estubazione e adduca poi a propria difesa di non aver ucciso la madre
ma di aver permesso alla malattia di far il suo corso. In realtà,
quello che sarebbe stato il comportamento del medico e l’agire
concreto del figlio non differiscono per il nucleo materiale del
fatto né per l’evento risultante. A
fare la differenza sono i motivi
della condotta e soprattutto il
fatto che il professionista si comporta secondo quel ruolo legale e
sociale che gli impone di rispettare la volontà del curato contraria alla prosecuzione del trattamento. Aderendo a siffatta impostazione, si costruisce una scriminante complessa, incentrata
sulla qualifica soggettiva dell’agente, sull’esistenza di un processo patologico, sull’apprezzabilità o almeno non indegnità dei
motivi e sul consenso dell’ammalato.
A ben vedere – e per quanto la
distinzione non sia stata compiutamente articolata nel pensiero
giuridico inglese – il rifiuto che
preclude l’inizio e la prosecuzione delle terapie si impone a
chiunque ed esclude la causalità
fattuale e giuridica tra omesso
intervento e morte; la richiesta di
interruzione di cure che passi
attraverso condotte positive, da
qualificare atti medici, può esse-
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re rivolta solo al sanitario e non
elide il nesso eziologico tra azione ed evento, ma giustifica il
fatto.
La distinzione tra uccidere e
non ostacolare la malattia torna,
invece, centrale quando si tratti
di ponderare la richiesta del
paziente che chieda al medico di
accelerare il decorso patologico.
In tali casi, non si tratta semplicemente di sospendere il duty of
care, ma di agire positivamente
per anticipare l’evento letale.
L’ammalato ha diritto a veder
rispettata l’inviolabilità fisica,
ma non alla realizzazione di ogni
volere. Non solo non c’è un diritto a morire – come chiaramente
enunciato nel caso Pretty27 –, ma
vi è uno sbarramento di legge per
l’omicidio da chiunque e comunque perpetrato. Pertanto, si rientra nell’ambito di applicazione
del murder e la condotta non è
scriminata dal consenso dell’ammalato, se il medico agisce allo
scopo di provocare – o meglio
anticipare – la morte28.
Resta da esaminare l’ipotesi
in cui il medico tratti il paziente
in assenza, in difformità o contro
la volontà di questi. I sistemi
angloamericani prevedono come
reato – segnatamente battery29 –
il touching without consent and
without lawful excuse, cioè il
mero contatto non consentito o
non giustificato secondo il diritto. Tuttavia, in quegli ordina87
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menti, caratterizzati dalla discrezionalità dell’azione penale, vi è
scarsa propensione ad incriminare per una simile fattispecie o per
altre più gravi – ivi comprese
quelle di omicidio – il professionista che abbia agito a scopo
benefico e nel rispetto delle regole tecniche. È evidente che ragioni di public policy – e forse una
tradizionale vicinanza tra la classe dei giudici e quella dei medici
– vengono ritenute prevalenti
sulla coerenza dei principi col
risultato di far trionfare il paternalismo sull’autonomia30.
L’assetto tracciato può essere
giudicato più o meno condivisibile, ma si è consolidato nel
tempo ed ha quantomeno il pregio di assicurare certezza al diritto, sicuro orientamento al professionista e libertà al paziente.
5. Il fondamento di liceità
del trattamento medico
alla luce del diritto italiano
e delle Convenzioni
internazionali
Di ritorno dall’indagine
Oltremanica il quadro non è
altrettanto nitido, poiché nel
nostro ordinamento continuano a
formare oggetto di discussione i
punti capitali, dalla collocazione
sistematica del consenso al valore del rifiuto, dai doveri del
medico ai profili di responsabilità penale.
Eppure, allargando il punto di
88
osservazione dalla singola norma
all’intero sistema – inserito, a
sua volta, nel più ampio contesto
internazionale, europeo ed occidentale in genere – è possibile
trovare dei punti fermi e tracciare un percorso lineare. Può dirsi
riconosciuta la centralità della
persona come unicum inscindibile di materialità e idealità, che
merita considerazione in quanto
tale senza distinzioni né discriminazioni di sorta; se ciascuno
deve essere libero di vivere
secondo le proprie convinzioni,
allora è al diretto interessato che
spetta decidere quel che deve
essere della propria esistenza, col
limite assiologico del rispetto per
gli altri e col vincolo contingente
della fattibilità giuridica e materiale della pretesa. Per gli incapaci, i quali per definizione non
sono in grado di statuire per sé, il
rispetto per la dignità umana si
traduce in spinta solidaristica, da
conformare nel suo concreto
atteggiarsi alle volontà precedentemente espresse dal soggetto
quando era capace oppure – in
assenza di indicazioni in questo
senso – ai valori recepiti dall’ordinamento. È quanto si ricava
dalla lettera e dallo spirito della
Costituzione, che riconosce e
tutela i diritti fondamentali – pur
assoggettandoli a bilanciamento
secondo criteri di ragionevolezza
–, promuove la solidarietà, antepone il diritto individuale alla
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di soggetti adulti capaci:
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salute al relativo interesse pubblico e riconosce carattere di
eccezionalità ai trattamenti coattivi, che possono essere praticati
nei soli casi espressamente previsti dalla legge. Nella stessa
direzione sono orientati le decisioni delle Corte costituzionale31,
la legislazione ordinaria32, talune
sentenze di legittimità33 e persino
i codici deontologici medici34: si
riconosce l’autonomia, pur con
taluni limiti e con la previsione
di criteri sussidiari solidaristici
laddove essa non possa esplicarsi. Non avrebbe potuto essere più
esplicita la recente pronuncia
della Suprema Corte, che ha ravvisato nel consenso informato
«legittimazione e fondamento
del trattamento sanitario» nonché «forma di rispetto per la
libertà dell’individuo e mezzo
per il perseguimento dei suoi
migliori interessi», derivandone
l’illiceità dell’intervento medico
eseguito in assenza di consenso
pur se animato da finalità benefiche35.
L’evoluzione in senso personalistico, poi, è sorretta e sospinta dal quadro internazionale, che
segna ormai in modo marcato il
passaggio dall’eteroprotezione
all’autodeterminazione. Così,
l’art. 12 della Dichiarazione dei
Diritti dell’Uomo pone al riparo
ogni individuo da «interferenze
arbitrarie nella sua vita privata» e
l’art. 8 CEDU è interpretato nel
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senso dell’illegittimità di forme
di ingerenza dei pubblici poteri
diverse da quelle a tutela della
salute collettiva e nel senso del
connesso potenziamento dell’elemento volontaristico ai fini
delle scelte terapeutiche36. Più di
recente, è intervenuta la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (c.d. Convenzione di
Oviedo) la quale ha complessivamente delineato un sistema di
autonomia temperata, riconoscendo il valore fondamentale
del consenso e prevedendo, al
contempo, regole suppletive per
salvaguardare la posizione di chi
non sia in grado di decidere per
sé stesso37. Ancora, l’art. 3 della
Carta dei Diritti Fondamentali
dell’Unione Europea stabilisce
che «ogni individuo ha diritto
alla propria integrità fisica e psichica. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere
in particolare rispettati: il consenso libero e informato della
persona interessata, secondo le
modalità definite dalla legge»38.
È, dunque, la determinazione
del soggetto della cura a legittimare il dispiegarsi in concreto
dell’attività medica, a meno che
una volontà non possa essere formata e manifestata. Le fonti
internazionali più recenti ribadiscono la validità del principio del
consenso informato, enunciato
nell’ormai lontano 1914 dal giudice Cardozo ed affermato nelle
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successive Dichiarazioni internazionali in materia. Tale approdo
ermeneutico – che giustifica il
trattamento medico sulla base del
consenso informato e, in via residuale, sul necessity principle –
costituisce oggi patrimonio condiviso delle società evolute. Alla
luce di quanto detto, anche nell’ordinamento italiano il principale fondamento di liceità dell’attività medica va ravvisato nel consenso del soggetto della cura,
esattamente come accade nel
diritto inglese che non si interroga
più di tanto sulla collocazione
dogmatica della manifestazione
di volontà. Comunque – a voler
seguire la nostra tradizione sistematica39 – sembra coerente ricondurre il consenso alla scriminante
di cui all’art. 50 c.p. Ed infatti –
sgombrato il campo dalla visione
paternalistica, che pretende di
difendere l’uomo da sé stesso, e
dall’impostazione panpubblicistica, che ravvisa nella conservazione della vita un obbligo funzionale all’adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà sociale
– la giustificazione etica e giuridica del trattamento sanitario non
può che essere vista nella libera
scelta di chi voglia essere curato
ed autorizzi un soggetto qualificato, cioè il terapeuta, a varcare la
propria sfera più riservata per eseguire, nel rispetto dei limiti giuridici e materiali, gli interventi previamente concordati.
90
6. Il rifiuto di cure
nel diritto italiano:
profili generali
L’approdo ermeneutico che si
è descritto non ha spazzato del
tutto antichi retaggi. Il fatto che
ancora si continui a parlare di
consenso alle cure piuttosto che di
decisione sulle cure tradisce il
permanere di una visione antica,
in cui il paziente non è visto come
soggetto realmente autonomo
bensì come colui che, al più, può
esprimere adesione rispetto a
quanto venga proposto ‘per il suo
bene. In quest’ottica, il rifiuto del
trattamento appare un’incomprensibile e intollerabile ribellione al paternalismo, il gesto sconsiderato di chi non sa scegliere il
meglio per sé e va, dunque, tutelato.
Gli ordinamenti angloamericani si sono in gran parte affrancati
dalle suggestioni sottese alla terminologia impiegata (consent)
per valorizzare la libertà di scelta
di chi sia capace. Mentre la vocazione più individualistica di quei
sistemi rende incontroverso che
nessun interesse pubblico può
imporre la coercibilità del vivere,
nel nostro Paese la difesa a oltranza della sacralità della vita ha portato, in più di una occasione, a
negare al paziente capace il diritto di rifiutare le cure. Quasi per
contrappasso, per perseguire tale
scopo trascendente sono stati
impiegati gli strumenti prosaici
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di soggetti adulti capaci:
esperienza inglese e
diritto italiano a confronto
che modellano la disciplina degli
atti di disposizione del corpo sulla
logica proprietaria, con il connesso limite dell’utilità sociale. Ed
ecco che la tesi tradizionale attribuisce portata generale dell’art. 5
c.c. e ne fa discendere l’invalidità
di una manifestazione di volontà
che metta a rischio la vita o la
salute, con conseguente obbligo
per il medico di attivarsi penalmente rilevante ex art. 40 cpv.
c.p.40.
Di fatto, la questione si è posta
e si pone principalmente per l’opposizione all’emotrasfusione da
parte di testimoni di Geova, per la
rinuncia a terapie salvifiche in
generale, per le richieste di cessazione delle cure provenienti da
malati terminali. In tali casi, il
dibattito sul rifiuto delle cure
intercetta quello sull’ammissibilità della c.d. eutanasia passiva,
ma non si tratta qui di stabilire
cosa sia eticamente giusto o sbagliato bensì di tener fermo il fuoco
dell’indagine sull’affermato diritto dell’adulto capace e consapevole di decidere per sé stesso. Coerenza vuole, riconosciuta l’autonomia, che essa non subisca restrizioni o aggiustamenti per le conseguenze che possano derivare
all’interessato dal suo esercizio.
7. Responsabilità
del medico
In base alla disamina svolta
alla luce dei principi costituziona-
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li e convenzionali deve ritenersi
che, nei casi di rifiuto delle cure,
non va posta la questione della
responsabilità penale del medico
per omesso impedimento dell’evento, giacché non solo non scatta la posizione di garanzia, ma il
professionista ha l’opposto dovere di non intervenire e di non
invadere la sfera privata dell’ammalato. Allora, l’evento lesivo o
mortale eventualmente prodottosi
in conseguenza del rifiuto iniziale di cure non può essere imputato al medico ex art. 40 cpv. c.p. e
non si versa nell’area di tipicità
del reato omissivo improprio.
D’altra parte, l’ordinamento non
predispone strumenti giuridici
che permettano di fare ricorso a
mezzi di contenzione per praticare trattamenti sanitari su soggetti
dissenzienti41. Al contrario, il professionista che non rispetti la
volontà espressamente manifestata42 dal paziente ne viola la sfera
fisica e morale e tale condotta
integra violenza privata, eventualmente in concorso con altri reati
quali lesioni, sequestro di persona, stato di incapacità procurato
mediante violenza o altro. Ed
infatti, la lettura coordinata degli
artt. 13 e 32 Cost. attribuisce prevalenza alla libertà sulla costrizione, «una prevalenza che consente
di allontanare lo scenario indubbiamente inquietante di una medicina istituzionale che interviene
coercitivamente sul paziente,
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imponendogli ciò che essa ritiene
essere necessario»43.
Così impostati i termini della
questione, sfuma – con riguardo
all’interruzione delle terapie – il
profilo problematico della distinzione tra l’agire e l’omettere, che
di regola segna il discrimen tra
c.d. eutanasia passiva, non incriminabile, ed eutanasia attiva, integrante reato. Ed infatti, l’interruzione delle cure voluta dal
paziente – anche quando passi
attraverso atti positivi quali la
disconnessione o lo spegnimento
del macchinario per la respirazione artificiale – resta lecita in
quanto doverosa per il medico,
che è tenuto a far cessare una condotta invasiva della sfera personale dell’ammalato ed avvertita da
questi come non più intollerabile44. Se l’evento letale si produce
in conseguenza del rapporto di
causalità materiale tra distacco
della macchina ed evento morte,
il fatto deve ritenersi tipico ma
scriminato dall’adempimento del
dovere. L’esimente – lo si segnala
– può giovare non a chiunque, ma
solo chi sia abilitato e tenuto allo
svolgimento degli specifici atti
medici necessari per l’interruzione delle procedure: ciò è garanzia
della riuscita tecnica dell’operazione, ma anche della neutralità
dell’agente rispetto a interessi
ulteriori eventualmente collegati
alla permanenza in vita o meno
dell’assistito. Non vi è necessità,
92
allora, di costruire una causa di
giustificazione ad hoc, bastando
la corretta individuazione della
categoria di soggetti gravati dall’obbligo di attuare la volontà del
paziente.
Diversi i termini della discussione per quanto attiene all’eventuale richiesta dell’ammalato di
accelerare il decorso patologico.
Il diritto a morire non è, infatti,
espressamente riconosciuto né
appare facilmente sostenibile alla
stregua dei principi generali; d’altra parte, le norme di legge ordinaria (artt. 579 e 580 c.p.) e il
codice deontologico medico
fanno divieto di agevolare il suicidio o procurare la morte, anche se
col consenso o su richiesta. Il professionista che agisca in violazione di detto divieto non può, dunque, beneficiare di alcuna esimente, ma, al più, di attenuanti, ove il
giudice ritenga di riconoscerle o
concederle.
7. Dilemmi etici
nello specchio
della giurisprudenza:
il caso Welby
Quello tracciato è il quadro
teorico, ma il vero travaglio
emerge quando si passa dall’area
speculativa ai casi concreti,
come è accaduto – per ricordare
una vicenda di ampia risonanza
mediatica e paradigmatica dei
diversi orientamenti giurisprudenziali – a Piergiorgio Welby,
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Il rifiuto di cure da parte
di soggetti adulti capaci:
esperienza inglese e diritto
italiano a confronto
che ha dovuto spendere le ultime
risorse di tempo e di energia per
cercare far rispettare la propria
volontà.
L’uomo – affetto da distrofia
fascioscapolomerale in fase terminale – versava in uno stato
irreversibile di immobilità pressoché totale dal 1997, quando era
stato collegato a un respiratore
artificiale che lo teneva in vita.
Egli conservava, però, integre le
facoltà mentali e riusciva a
comunicare con l’ausilio di un
computer. Dal 2002, conscio del
decorso ineluttabile della malattia, aveva iniziato a battersi pubblicamente per l’affermazione
del diritto di rifiutare le cure e
nell’autunno del 2006, giunto
allo stremo delle forze, aveva
rivolto accorati appelli ai vertici
istituzionali perché fosse consentito il distacco del respiratore.
L’animato dibattito che ne era
seguito sui mezzi di informazione, nelle case e nelle coscienze
conferiva al dramma individuale
respiro universale e significato
sociale, ma non aiutava concretamente quell’uomo straziato dalla
malattia. Nel novembre dello
stesso anno, quindi, Welby aveva
promosso ricorso ex art. 700
c.p.c. nei confronti del medico
che l’aveva in cura, affinché
fosse accertato il diritto di autodeterminazione e fatta cessare la
ventilazione artificiale con contestuale sedazione terminale. Il
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terapeuta, peraltro, non aveva
contestato il diritto del paziente a
rifiutare le cure, ma affermato il
proprio obbligo di agire pro vita
una volta subentrata la situazione
di incapacità ad esprimere un
consenso attuale.
Nonostante anche il pubblico
ministero si fosse pronunciato in
senso favorevole al riconoscimento del diritto vantato da
Welby, il giudice adito si è pronunciato per l’inammissibilità
della domanda con una motivazione non convincente per le
ragioni di seguito illustrate45.
Anzitutto, il principio di autodeterminazione e consenso informato è affermato in astratto, col
sostegno degli opportuni richiami normativi e giurisprudenziali,
ma smentito in concreto: in contraddizione col riconosciuto
«diritto soggettivo perfetto a
rifiutare liberamente e consapevolmente la terapia, anche nel
caso in cui quest’ultima consentirebbe di salvare la vita al
paziente», si individua un vuoto
di disciplina del rapporto medico-paziente sulle scelte di fine
vita e si desume dagli artt. 5 c.c.,
579 e 580 c.p. nonché dalle prescrizioni del codice deontologico
medico l’indisponibilità della
vita e il permanere della posizione di garanzia del sanitario – con
connesso obbligo di intervento –
a fronte del rifiuto che possa
mettere a repentaglio il bene
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supremo. Il vizio logico è evidente, perchè delle due l’una: o
c’è un vuoto normativo sulla
dinamica della relazione terapeutica per la gestione della fase terminale della vita o il sistema
consente di estrapolare le regole
di risoluzione dei conflitti. In
quest’ultima direzione depongono – oltre al principio di completezza del diritto civile, da realizzare eventualmente attraverso il
ricorso all’analogia – i numerosi
riferimenti normativi contenuti
nella stessa ordinanza. Si ha
l’impressione che l’indecisodecidente inizialmente non abbia
voluto operare una scelta di
campo tra autonomia e paternalismo per poi orientarsi verso quest’ultimo. E qui l’inversione
metodologica, atteso che – pur
radicato il consenso informato al
livello supremo della gerarchia
delle fonti – si dà prevalenza a
norme di legge ordinaria non
interpretate in chiave costituzionalmente orientata e convenzionalmente corretta.
Le ambiguità del provvedimento, peraltro, non si fermano
qui, perché – sovrapponendo il
piano della libertà del decidere
con quello della medical futility e
dell’uso spropositato dei mezzi
curativi – si passa a considerare
il concetto di accanimento terapeutico e si attribuisce fondamento costituzionale al relativo
divieto, la cui concreta attuazio94
ne, però, è rimessa alla assoluta
discrezionalità del medico in un
campo non giuridicamente regolato e «non suscettibile di essere
riempito da un intervento del
giudice, nemmeno utilizzando i
criteri interpretativi che consentono il ricorso all’analogia o ai
principi generali dell’ordinamento». L’avvilente epilogo è che, il
diritto del ricorrente esiste ma
non è tutelato, perché quanto
richiesto – in assenza di definizione normativa dell’accanimento terapeutico e per l’inesistenza
di una «forma di tutela tipica dell’azione da far valere nel giudizio di merito» – è rimesso alla
totale discrezionalità del professionista. A ben vedere, appare
superfluo e fuorviante il riferimento alla controversa nozione
di accanimento terapeutico46, che
rileva per valutare quando l’operato del medico a favore del
paziente incapace cessi di essere
benefico. Piergiorgio Welby,
però, non era affatto incapace ed
aveva stimato nel proprio interesse l’interruzione delle cure. E
comunque, anche a voler aderire
all’impostazione del giudicante –
che collega il diritto di rifiutare
le cure ai soli casi di accanimento terapeutico – è un non-senso
giuridico affermare che il diritto
esiste ma non è tutelato47. Ancora
una volta, delle due l’una: o il
diritto non esiste ed allora non
v’è alcuna pretesa da far valere
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Il rifiuto di cure da parte
di soggetti adulti capaci:
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italiano a confronto
innanzi agli organi di giustizia o,
se esiste, esso – in un sistema
processuale non basato sulla
regola di tipicità – è azionabile e
tutelabile, anche soltanto attraverso una mera azione di accertamento48.
Uno sviluppo logico e lineare
della disamina iniziata nella
prima parte dell’ordinanza
avrebbe dovuto condurre ad
affermare il diritto del ricorrente
ad ottenere l’interruzione delle
cure49.
In realtà, i veri nodi giuridici
del procedimento erano altri.
Sotto il profilo processuale,
l’ostacolo avrebbe potuto essere
ravvisato
nell’irreversibilità
della statuizione di accoglimento
delle richieste del ricorrente, poiché, secondo l’orientamento più
accreditato, nel giudizio ex art.
700 c.p.c. non è consentita l’adozione di misure preclusive del
successivo giudizio di merito50.
In seno a tale indirizzo, comunque, si registrano aperture volte
ad ammettere l’accoglimento del
ricorso quando sia questo l’unico
mezzo per scongiurare un pregiudizio irreparabile per il diritto
azionato51. Sul punto l’ordinanza
tace del tutto nonostante la disamina condotta dal pubblico ministero nell’atto di intervento,
mentre sarebbe stato possibile,
anche aderendo alla tesi più rigoristica che avrebbe portato al
rigetto del ricorso, affermare –
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almeno in forma di obiter dictum
– il diritto di rifiutare le cure del
paziente concreto.
Guardando al caso da altra
prospettiva, merita attenzione
l’eventualità che il terapeuta
avverta un insanabile contrasto
tra la funzione istituzionale di
cura dell’ammalato e il lasciare
che la malattia faccia il suo
corso. In proposito, appare utile
il distinguo – operato da tempo
dalla giurisprudenza anglo-americana – tra rifiuto iniziale delle
cure e rifiuto sopravvenuto che
debba passare attraverso specifiche azioni mediche. Nel primo
caso, la volontà del paziente preclude a chiunque di superare la
soglia di inviolabilità fisica, con
la conseguenza che il mancato
rispetto del divieto integra quantomeno il reato di violenza privata. Considerato che al medico si
richiede semplicemente la non
ingerenza nel corso naturale
degli eventi, le ragioni del
paziente devono prevalere e non
vanno bilanciate. Nella seconda
ipotesi, invece, non è difficile
comprendere che la sensibilità
del sanitario possa ribellarsi ad
atti che si inseriscono nella
sequenza causale che produce
quella morte o quello specifico
evento lesivo. Qui i sistemi
anglo-americani non hanno difficoltà a dare spazio all’obiezione
di coscienza, ma la questione
non è altrettanto pacifica in Ita95
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lia. Nel nostro ordinamento,
infatti, alla posizione di chi
fonda la libertà di coscienza
sugli artt. 2, 3 e 19 Cost. e sull’interpretazione analogica delle
ipotesi legislativamente previste52, si contrappone quella di chi
ritiene che tale libertà possa
«essere legittimamente esercitata
solo in presenza di una disciplina
legislativa che traduca positivamente i termini di componimento di quel conflitto» che può
instaurarsi tra detta libertà e altri
diritti costituzionali53. Le conseguenze dei due orientamenti
sono diametralmente opposte,
perché nell’un caso le ragioni di
coscienza pongono il medico al
riparo da ogni conseguenza sanzionatoria, mentre nell’altro – in
mancanza di regolamentazione
ad hoc – si profila una incriminazione per omissione di atti d’ufficio, ove il medico rivesta la
necessaria qualifica soggettiva, e
persino per lesioni personali.
L’evento di danno di quest’ultimo reato risiede nell’ulteriore
protrazione dello stato patologico, restando irrilevante che alla
fine del trattamento possa far
seguito la morte, la quale è l’inevitabile conseguenza di un atto
lecito ed anzi dovuto. Inoltre,
opera la responsabilità aquiliana,
posto che il fatto doloso del
curante è causa del danno contra
jus consistente nel prolungamento delle sofferenze; il concorrere
96
dell’illecito civile con quello
penale aggrava l’obbligo risarcitorio, estendendolo ai danni
morali. Una regolamentazione
dei casi e modi di esercizio dell’obiezione di coscienza in quest’ambito risulta, allora, opportuna per conciliare il rispetto per
gli imperativi morali del professionista con la salvaguardia dei
diritti del paziente, al quale va
garantita la possibilità di individuare agevolmente e prontamente altro soggetto qualificato
disposto a interrompere trattamenti indesiderati. Di tali aspetti
non ha tenuto conto l’ordinanza
in esame, che, invece, ha dato
spazio più ancora che alla discrezionalità o alla coscienza del
terapeuta all’arbitrio di questi,
rimettendogli addirittura il compito – ritenuto precluso finanche
al giudice – di delineare la nozione di accanimento terapeutico.
Insomma, le falle logiche dell’ordinanza sono talmente numerose ed evidenti da far ritenere
che essa sia emblematica non
tanto della logica del giurista
quanto piuttosto dell’incertezza e
della titubanza dell’uomo che si
confronta con i temi supremi del
vivere e del morire. Non è stato
comunque tale provvedimento a
mettere la parola fine a questa
vicenda, perchè il dott. Mario
Riccio – nonostante il Consiglio
superiore di Sanità non avesse
ravvisato nel caso un accanimen-
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Il rifiuto di cure da parte
di soggetti adulti capaci:
esperienza inglese e diritto
italiano a confronto
to terapeutico54 – ha accolto la
richiesta dell’ammalato di
disconnettere il respiratore sotto
sedazione. Piergiorgio Welby è
spirato il 21 dicembre 2006,
dopo aver combattuto la sua ultima coraggiosa battaglia per i
diritti della persona.
Si sono, quindi, messi in moto
nei confronti del medico procedimenti volti ad accertare eventuali responsabilità disciplinari e
penali. Sotto il primo profilo, è
bastato poco tempo alla Commissione disciplinare dell’Ordine dei medici di Cremona per
giudicare l’operato del professionista conforme alle norme deontologiche e chiudere l’istruttoria
preliminare con declaratoria di
insussistenza dei presupposti di
apertura del procedimento55.
Sul fronte penalistico, la Procura – in coerenza con la posizione precedentemente assunta –
aveva chiesto l’archiviazione,
rigettata, però, dal G.I.P. con
imposizione dell’imputazione
coattiva. L’instaurato rito abbreviato si è poi concluso con il non
luogo a procedere per il reato di
omicidio del consenziente56. Il
giudice dell’udienza preliminare
ha criticato – per ragioni non dissimili da quelle sopra illustrate –
l’ordinanza ex art. 700 c.p.c.,
rimarcando che la disposizione
di cui all’art. 32 Cost. implica «il
riconoscimento anche della
facoltà di rifiutare le cure o di
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interromperle, che, a sua volta,
non può voler significare l’implicito riconoscimento di un diritto
al suicidio, bensì soltanto l’inesistenza di un obbligo di curarsi a
carico del soggetto». Il decidente
ha coerentemente ascritto il diritto di rifiutare le cure al novero
dei diritti fondamentali della persona ex art. 2 Cost. in collegamento con la libertà di autodeterminazione riconducibile all’art.
13 Cost. ed ha puntellato tale
ricostruzione col richiamo alle
enunciazioni d’interesse contenute nella Convenzione di Oviedo ed in una serie di pronunce
della Consulta e della Corte di
Cassazione. Se ne è desunto che
il rifiuto di una terapia, ancorché
già iniziata, costituisce un diritto
costituzionalmente garantito,
«rispetto al quale sul medico
incombe (...) il dovere giuridico
di consentirne l’esercizio, con la
conseguenza che, se il medico in
ottemperanza a tale dovere, contribuisse a determinare la morte
del paziente per l’interruzione di
una terapia salvavita, egli non
risponderebbe del delitto di omicidio del consenziente, in quanto
avrebbe operato alla presenza di
una causa di esclusione del reato
e segnatamente quella prevista
dall’art. 51 c.p.». Pertanto, si è
ritenuto che la condotta dell’imputato avesse integrato la tipicità
del delitto di omicidio del consenziente, ma fosse scriminata
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dall’adempimento del dovere di
rispettare la volontà consapevole
del soggetto della cura.
La pronuncia è apprezzabile
per aver sviscerato con rigore
motivazionale il tema dell’applicabilità della fattispecie di cui
all’art. 579 c.p. con riguardo
all’ipotesi di morte derivante da
rifiuto di cure o da richiesta di
interruzione di cure già in atto.
Non può che concordarsi con la
soluzione cui è addivenuto il
G.U.P. di Roma, perché – riconosciuto il principio del consenso
informato – la condotta del medico si pone nella sfera di liceità e
non può essere penalmente rilevante. A livello assiologico, poi,
vanno equiparate le due situazioni, quella del rifiuto iniziale delle
cure e quella del rifiuto sopravvenuto, il quale ultimo può passare
attraverso condotte positive del
medico necessarie per interrompere il trattamento. In entrambe
le ipotesi, infatti, è la volontà del
paziente a dettare la dirittura da
seguire, anche se il percorso tecnico che fa escludere la punibilità
del medico è diverso: in caso di
morte derivante dal rifiuto di cure
opposto ab initio è esclusa la tipicità del fatto, perché non opera la
posizione di garanzia e quindi
non si delinea l’equivalente normativo della causalità; in caso di
morte seguente all’interruzione
delle terapie che passi attraverso
una condotta attiva, invece, è
98
integrata la materialità dell’omicidio, che, però, è scriminato dall’adempimento del dovere57.
8. Segue: il caso Nuvoli
Problematiche del medesimo
tenore di quelle sollevate dal
caso Welby si sono affacciate
nella vicenda che ha avuto per
protagonista Giovanni Nuvoli,
affetto da sclerosi laterale amiotrofica in stadio avanzato, immobilizzato a letto e tenuto in vita
tramite ventilazione artificiale,
ma perfettamente lucido ed in
grado di comunicare le proprie
volontà.
Nel gennaio 2007 l’uomo
aveva rifiutato le cure antibiotiche necessarie per combattere un
grave stato infettivo e la sua
volontà era stata rispettata. La
circostanza, tuttavia, era stata
iscritta nel registro delle notizie
non costituenti reato, a conferma
del fatto che non si trattava di un
dato neutro bensì meritevole di
speciale attenzione in quanto
suscettibile di ingenerare conseguenze penalmente rilevanti.
Superata la fase acuta del processo settico, il paziente aveva
manifestato dissenso rispetto ai
trattamenti rianimatori da praticare in caso di perdita di coscienza e domandato al primario del
reparto di interrompere sotto
sedazione la somministrazione di
aria nei polmoni. A fronte del
diniego opposto dal responsabile
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di soggetti adulti capaci:
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italiano a confronto
della struttura, l’ammalato si era
rivolto al pubblico ministero
affinché consentisse ad altro
medico di fare ingresso nel
reparto per interrompere le terapie. Analogamente a quanto era
accaduto per Welby, l’autorità
giudiziaria ha affermato in astratto il diritto di rifiutare le cure, ma
ha dichiarato inammissibile la
specifica richiesta per l’inesistenza di una norma che attribuisse all’organo adito il relativo
potere58. Proseguendo, quindi,
sulla strada segnata dall’ordinanza del Tribunale di Roma ex art.
700 c.p.c., quel pubblico ministero ha ravvisato un’insanabile
contraddizione sistemica tra il
diritto riconosciuto e l’assenza di
strumenti giuridici che ne assicurino l’effettività ed ha ritenuto
che solo il legislatore possa
approntare l’antidoto per porvi
rimedio. Si argomenta che l’Ufficio della Procura non solo non
ha il potere di nominare un commissario ad acta per l’attuazione
della volontà del paziente, ma
non può far leva neppure su strumenti di coazione indiretta. Ed
infatti, il personale medico che
non interrompa le cure non può
essere perseguito né in sede
penale, non sussistendo i presupposti di tipicità della violenza
privata, né in sede disciplinare,
non potendosi costringere il soggetto istituzionalmente deputato
a preservare la vita a porre in
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essere un atto dal quale deriverebbe certamente la morte.
Si conviene sul fatto che la
mancata interruzione delle cure
non integra la fattispecie di cui
all’art. 610 c.p. per difetto degli
elementi strutturali della violenza o della minaccia e si può convenire sull’inopportunità di
intentare l’azione disciplinare –
che è discrezionale – per una
condotta così eticamente controversa. La trappola logico-giuridica risiede, però, in quel che il
provvedimento non dice; proprio
nel non detto si coglie l’impostazione paternalistica di chi ha
deciso. Il pubblico ministero,
infatti, non vaglia la rilevanza o
irrilevanza penale della condotta
eventualmente posta in essere da
un sanitario che accolga la
richiesta dell’ammalato; argomenta che il professionista non
può essere forzato a quanto ritiene contrario alla propria deontologia, ma tace sulla liceità del
comportamento spontaneamente
realizzato da chi giudichi conforme all’etica medica dare attuazione al diritto di non continuare
a subire trattamenti indesiderati.
V’è di più, perché surrettiziamente si rafforza un discrimen
che non avrebbe motivo di esistere sul piano assiologico, ossia
quello tra rifiuto di cure non
ancora iniziate – che è sospetto
ma non illecito – e richiesta di
interruzione di terapie già in
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essere, che sembra aleggiare in
una sorta di limbo coperto dal
silenzio. Il risultato raggiunto è
razionalmente illogico e giuridicamente contestabile, perché il
diritto di autodeterminazione è
reso claudicante – valendo pienamente per il consenso ma non
anche per il rifiuto – e perché si
trascura l’indicazione fondamentale contenuta nell’art. 5 della
Convezione di Oviedo, che riconosce la libera revocabilità del
consenso in ogni momento. Se la
volontà adesiva al trattamento è
sempre revocabile ad nutum, ciò
vuol dire che esiste il diritto di
far cessare terapie indesiderate;
se all’interruzione consegue uno
stato di sofferenza, è dovere del
medico cercare di alleviarla con
gli strumenti che la scienza gli
mette a disposizione, ivi compresi i farmaci sedativi.
Non potendosi rassegnare ad
essere vittima dei sofismi giuridici oltre che delle leggi di natura, nel luglio 2007 Giovanni
Nuvoli si è lasciato morire di inedia per por fine al calvario cui
era costretto.
9. Segue: l’intervento
chiarificatore
della Suprema Corte
dell’ottobre 2007
(caso Englaro)
Il succedersi in rapida
sequenza dei drammi umani e
delle vicissitudini giudiziarie dei
100
quali s’è dato conto è stato certamente tenuto presente dalla
Suprema Corte nell’ottobre
2007, quando è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi sulla
vicenda della giovane in stato
vegetativo permanente dal 1992
per la quale il padre-tutore ha più
volte chiesto l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione forzata, sul presupposto che la
figlia non avrebbe voluto trascinare quel tipo di esistenza59. Qui
vengono in considerazione problematiche ulteriori rispetto a
quelle esaminate, perché la condizione di incapacità irreversibile della paziente ha reso necessario dettagliare i criteri dell’agire
per conto altrui. La Corte regolatrice ha colto l’occasione per una
pronuncia di ampio respiro volta
a fare il punto sulle questioni
problematiche, dal ruolo del consenso e del rifiuto di cure al
discrimen tra quest’ultimo e
l’eutanasia, dall’ambito di operatività dei trattamenti coatti agli
obblighi del medico, dai poteri
del legale rappresentante dell’incapace al valore della volontà
ipotetica del soggetto della cura.
E così – superando tesi dottrinali e orientamenti giurisprudenziali di segno contrario60 e valorizzando le indicazioni provenienti dalle norme costituzionali,
convenzionali, legislative e
deontologiche – «legittimazione
e fondamento del trattamento
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di soggetti adulti capaci:
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sanitario» sono stati riconosciuti
nel consenso informato, senza il
quale «l’intervento del medico è
sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente».
È il logico corollario del principio personalistico – dal quale
discende «la facoltà non solo di
scegliere tra le diverse possibilità
di trattamento medico, ma anche
di eventualmente rifiutare la
terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte
le fasi della vita, anche in quella
terminale» – ed è un assetto coerente con «la nuova dimensione
che ha assunto la salute, non più
intesa come semplice assenza di
malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico,
e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno
ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza». La libertà di autodeterminazione acquista, dunque,
valore fondante la liceità del trattamento medico indipendentemente dal contenuto della decisione adottata e la salute individuale non è più intesa in una
accezione eminentemente oggettiva misurabile in termini di
durata della vita. Non potrebbe
essere più chiara la presa di
distanza sia dall’impostazione
panpubblicistica, che ammette la
funzionalizzazione dell’individuo all’utilità sociale, sia da
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visioni eticizzanti di stampo religioso, che esaltano la sacralità
della vita come valore astratto a
prescindere da come la qualità di
essa sia percepita dal diretto interessato.
Con sensibilità, oltre che con
limpida coerenza, il Collegio
segnala che, «di fronte al rifiuto
della cura da parte del diretto
interessato, c’è spazio – nel quadro dell’ «alleanza terapeutica»
che tiene uniti il malato e il
medico nella ricerca, insieme, di
ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per
una strategia della persuasione,
perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il
supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di
debolezza e sofferenza; e c’è,
prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati
non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Lo si ricava dallo stesso
testo dell’art. 32 della Costituzione, per il quale i trattamenti
sanitari sono obbligatori nei soli
casi espressamente previsti dalla
legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad
impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l’intervento
previsto non danneggi, ma sia
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anzi utile alla salute di chi vi è
sottoposto (Corte cost., sentenze
n. 258 del 1994 e n. 118 del
1996). Soltanto in questi limiti è
costituzionalmente
corretto
ammettere limitazioni al diritto
del singolo alla salute, il quale,
come tutti i diritti di libertà,
implica la tutela del suo risvolto
negativo: il diritto di perdere la
salute, di ammalarsi, di non
curarsi, di vivere le fasi finali
della propria esistenza secondo
canoni di dignità umana propri
dell’interessato, finanche di
lasciarsi morire». Resta fermo,
però, il limite delle pratiche eutanasiche, ravvisate nelle sole ipotesi di positiva causazione dell’evento letale61.
Non si fatica a riconoscere
nelle parole della Corte la presa
d’atto del mutamento di prospettiva che negli ultimi decenni ha
interessato il mondo occidentale
e l’avvicinamento al modulo dell’informed consent, che sottolinea la necessità di adottare le
decisioni cliniche sulla base di
uno schema di rapporto tra medico e paziente che sia collaborativo e rispettoso dell’autonomia
del soggetto della cura. In tale
cornice, si risolvono agevolmente anche le questioni relative
all’eventuale responsabilità del
professionista per omesso intervento a fronte del rifiuto di cure.
Ed infatti, tale responsabilità
«sussiste in quanto esista... l’ob102
bligo giuridico di praticare o
continuare la terapia e cessa
quando tale obbligo viene meno:
l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa – insorgendo il dovere giuridico del
medico di rispettare la volontà
del paziente contraria alle cure –
quando il consenso viene meno
in seguito al rifiuto delle terapie
da parte di costui». La sentenza
in commento avalla, quindi, indirettamente la soluzione adottata
dal G.U.P. di Roma nel caso
Welby, sgombra il campo dai
retaggi del passato e segna la
direzione di marcia per il futuro.
10. Considerazioni
conclusive
Le sentenze da ultimo citate
hanno segnato un punto di svolta. Diversi fattori hanno concorso a far raggiungere tale traguardo, da tempo agognato dalla dottrina più sensibile ai valori autonomistici: la diffusione di tecniche di sostegno vitale atte a prolungare indefinitamente esistenze che – in passato o altrove –
sarebbero già state risolte dalle
leggi di natura; la maggiore laicizzazione dell’opinione pubblica e della classe dei giudici; la
circolazione dei modelli culturali
e la graduale costruzione di un
sostrato comune occidentale
consolidato dalle convenzioni
internazionali; la forza mediatica
di fatti e protagonisti che hanno
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Il rifiuto di cure da parte
di soggetti adulti capaci:
esperienza inglese e
diritto italiano a confronto
saputo toccare le coscienze nel
profondo. Quei drammi individuali – connotati dal respiro universale della tragedia e dall’impatto scioccante della vita reale –
non sono riusciti a smuovere
l’immobilismo legislativo, ma
hanno forzato i giudici a pronunciarsi. Ciò spiega perché queste
pagine non hanno voluto trascurare il vissuto di ineffabile dolore e grande coraggio di taluni
protagonisti di celebri casi giudiziari, i quali hanno accettato di
subire fino all’estremo la luce
accecante dei riflettori. Sarebbe
stato più semplice e più rapido
trovare soluzioni private e silenziose e, invece, Welby, Nuvoli ed
altri come loro hanno voluto
attribuire un senso forte alla sofferenza, sensibilizzando l’opinione pubblica e stimolando il
cambiamento giuridico e culturale. Nel farlo hanno osservato
socraticamente le regole dell’ordinamento, studiandone le dinamiche e sfruttandone gli strumenti, per poi arrendersi solo
innanzi a prese di posizione
tiranniche più che paternalistiche. Il loro sacrificio non è stato
inutile, perché la Suprema Corte
ha, infine, riconosciuto la fondatezza del diritto di rifiutare le
cure, ancorandolo alle libertà
fondamentali della persona.
L’avvenuto chiarimento della
normativa ad opera della giurisprudenza sgombra ora il campo
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dalla tentazione di ravvisare nel
rifiuto di cure uno «spazio libero
dal diritto» o l’inespugnabile
colonia del paternalismo e rende,
invece, palese che si tratta di un
territorio integrato, sottoposto
alle regole generali da applicare
con logica e coerenza. L’auspicio
è, dunque, che nessun paziente
debba tornare ad ingaggiare lotte
estenuanti per veder riconosciuta
la legittimità della scelta autonoma e consapevole di rifiutare o
far interrompere un trattamento
indesiderato.
Dopo i passi importanti già
compiuti, è facile pronostico che
ulteriori innovazioni – ad esempio in tema di standard informativo, direttive anticipate, diritti
dei minori e degli incapaci –
saranno veicolate da pronunce
giurisprudenziali. I giudici, infatti, non possono rimandare indefinitamente né traslare ad altri il
fardello della scelta e devono
comporre le antinomie del sistema; d’altro canto, la forza suggestiva dei casi concreti muove,
commuove e orienta l’opinione
pubblica ben più di quanto possa
fare una discussione parlamentare. Non è un caso se anche negli
ordinamenti anglo-americani
molti interventi legislativi sono
stati anticipati e segnati nel contenuto da storiche sentenze62.
Non si tratta di invocare una
sorta di governo dei giudici in
violazione del principio di divi103
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sione dei poteri63, ma di prendere
atto, da una parte, che il sistema
consente già di risolvere senza
forzature molte questioni pugnacemente dibattute e, dall’altra,
che il legislatore non riesce a
superare la situazione di stallo da
lungo tempo perdurante64. Il giudice che risolva un conflitto ordinando il materiale normativo a
sua disposizione non fa che svolgere il proprio compito; se la
decisione non è condivisa a livello assiologico, ciò non vuol dire
che sia sbagliato il metodo o la
soluzione; il legislatore domina
altre leve e può intervenire per
correggere o modificare – nei
limiti imposti dal rispetto delle
norme costituzionali e convenzionali – le note stonate.
Del resto, c’è ancora tanto da
fare e sono chiamati a intervenire il potere legislativo e l’esecutivo.
Sul fronte delle politiche
sociali, non vanno trascurati gli
appelli di molti malati e delle
rispettive famiglie, che chiedono
allo Stato di investire nella ricerca scientifica e di fornire a chi
soffre adeguati ausili, supporti e
contributi di assistenza. Perché la
scelta di non vivere possa realmente considerarsi libera, infatti,
occorre predisporre le condizioni
perché sia possibile scegliere di
vivere. È un aspetto che la stessa
Corte regolatrice non ha mancato
di sottolineare, chiarendo che
104
anche la tragicità estrema degli
stati patologici più gravi – quali
lo stato vegetativo permanente –
«non giustifica in alcun modo un
affievolimento delle cure e del
sostegno solidale, che il Servizio
sanitario deve continuare a offrire e che il malato, al pari di ogni
altro appartenente al consorzio
umano, ha diritto di pretendere
fino al sopraggiungere della
morte. La comunità deve mettere
a disposizione di chi ne ha bisogno e lo richiede tutte le migliori
cure e i presidi che la scienza
medica è in grado di apprestare
per affrontare la lotta per restare
in vita, a prescindere da quanto
la vita sia precaria e da quanta
speranza vi sia di recuperare le
funzioni cognitive. Lo reclamano
tanto l’idea di una universale
eguaglianza tra gli esseri umani
quanto l’altrettanto universale
dovere di solidarietà nei confronti di coloro che, tra di essi, sono i
soggetti più fragili». Sono affermazioni di grande civiltà, che
scongiurano il rischio di derive
utilitaristiche e della reificazione
della persona; sono anche il
riflesso di una sensibilità cristiana profondamente radicata, che
va oltre l’autonomismo kantiano
ed assegna valore all’individuo
anche quando non sia più
cosciente e pensante. Quest’ultimo tratto fa la differenza rispetto
agli ordinamenti anglo-americani, laddove la ricostruzione dei
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Il rifiuto di cure da parte
di soggetti adulti capaci:
esperienza inglese e diritto
italiano a confronto
best interests del soggetto della
cura finisce per essere influenzata anche da dati di contesto esterni all’ammalato ed attinenti
all’efficiente ripartizione delle
risorse ed alla massimizzazione
dell’utilità di sistema.
Una volta riconosciuta la
libertà di rifiutare persino le terapie life-sustaining o life-saving,
va considerata l’opportunità di
dare spazio – laddove l’interruzione debba passare attraverso
azioni mediche e non mere omissioni – all’eventuale obiezione di
coscienza del personale sanitario, come accade, ad esempio,
per le pratiche abortive65. Se il
tema delle ragioni di coscienza
del professionista si pone all’attenzione solo ora è perché sono
stati gli interventi giurisprudenziali più recenti ad instaurare la
corretta corrispondenza tra principi normativi e regole operative,
affermando perentoriamente il
dovere giuridico e deontologico
del medico di rispettare la
volontà contraria alle cure. Il
rovescio della medaglia – se si
aderisce all’impostazione classica che subordina l’esercizio dell’obiezione di coscienza ad
espressa previsione di legge – è
che il non dar corso al volere del
paziente si traduce nella violazione di un preciso obbligo ed
espone il medico ad imputazione
per lesioni personali volontarie e
omissione di atti d’ufficio non-
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ché a procedimento disciplinare
per violazione dell’art. 35 del
codice deontologico. La linea
difensiva potrebbe essere incentrata, seppur con difficoltà, sulla
possibilità – non pacifica, come
si è visto – di fondare l’esercizio
della libertà di coscienza in ogni
settore sui principi generali. Tuttavia, appare condivisibile l’opinione che nega la generale prevalenza dell’imperativo morale su
quello giuridico e rimette al legislatore ordinario – non all’interprete – la funzione di previsione
e composizione, perché l’assenza
di limiti e regole di contemperamento potrebbe pregiudicare la
posizione dei controinteressati.
Basti pensare alle difficoltà cui
andrebbe incontro l’ammalato
che si veda opporre l’obiezione
di coscienza e non abbia mezzi
adeguati in termini di denaro,
capacità di ricerca e abilità di
movimento per individuare altro
professionista disposto ad assecondarne il volere. Un ordinamento democratico deve farsi
carico di rispettare quegli imperativi della coscienza individuale
che si fondino «su convinzioni
che (...) possono (...) essere
accettate e condivise dai consociati, tra i quali l’obiettore
vive»66; ciò è opportuno che
avvenga attraverso un intervento
espresso e puntuale del legislatore, che individui soggetti legittimati, casi, modi e limiti di eser105
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cizio dell’obiezione di coscienza
e che abbia cura di blindare la
posizione del paziente con la predisposizione di meccanismi che
permettano di individuare rapidamente e tempestivamente altro
professionista disposto a dar
corso alla richiesta cessazione
delle terapie.
Insomma, per ciò che attiene
ai rapporti tra autonomia, medicina e salute la cornice è pronta,
ma la tela – ancora abbozzata –
necessita di essere rifinita.
Note
1. Si è scelto di non trattare delle dichiarazioni anticipate, che meritano un taglio specifico per la disamina di problematiche ulteriori
rispetto a quelle affrontate in questa sede.
2. Il tema dell’allocazione ottimale delle
risorse economiche ed umane è centrale nell’ordinamento inglese e viene avvertito come
pressante da economisti, medici e giuristi. In
argomento: C. Newdick, Who Should We Treat,
Oxford, 1995.
3. Cfr.: G. Williams, Consent and Public
Policy [1962] Crim LR 74 e 154; J. Feinberg,
The Moral Limits of the Criminal Law, vol I
Harm to Others, Oxford, 1984.
4. Attorney.General’s Reference (No 1 of
1980) [1981] QB 715.
5. Vi troviamo giochi ed attività sportive
adeguatamente praticati, castighi e punizioni
espressione di jus corrigendi, esibizioni pericolose. Per una disamina dottrinale: R. Card-R.
Cross-P.A. Jones, Criminal Law, London, 1995,
174 e ss.; D. Ormerod, Criminal Law, Oxford,
2005, 534 e ss.
6. Si rinvia – anche per la disamina storica,
l’esposizione delle tesi avverse e l’ampia
bibliografia – a R. Romboli, Delle persone fisiche. Sub art. 5 c.c., in Commentario del Codice
Civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988,
225 e ss. Nella dottrina penalistica: F. Albeggiani, Profili problematici del consenso dell’avente diritto, Milano, 1995, 66 e ss.; F. Dassano, Il consenso informato al trattamento terapeutico tra valori costituzionali, tipicità del
fatto di reato e limiti scriminanti, in Aa.Vv.,
106
Studi in onore di Marcello Gallo, Torino, 2004,
340 e ss.; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2007, 263; M.B.
Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino,
2001, 61 e ss.
7. Così E. Jackson, Medical Law, Oxford,
2006, 181, la quale giustamente evidenzia che,
se la volontà del diretto interessato fosse l’unica ragione giustificatrice del trattamento medico, non vi dovrebbero essere ostacoli ad
ammettere, ad esempio, la liceità dell’amputazione volontaria di arti sani o delle mutilazioni
genitali femminili, procedure che, invece, sono
vietate per ragioni di public policy. Il limite
ordinario di disponibilità del diritto, infatti, può
essere valicato solo in presenza di una good
reason, che viene ravvisata, in caso di atto
medico, nella «reasonable surgical inteference... as needed in the public interest» (Attorney
General’s Reference, cit.).
8. Schloendorff v New York Hospitals
(1914) 105 NE 92.
9. La sentenza di riferimento per il diritto
inglese è Secretary of State v Robb [1995] 1 All
ER 677, ma sono state le corti americane ad
evidenziare per prime l’esigenza di salvaguardia dei citati interessi in un caso del New Jersey: In the Matter of Claire Conroy 486 A 2d
1209 (1985).
10. Quanto alla partoriente, in Re T (An
Adult: Medical Treatment) [1992] 4 All ER 649
è stata sostenuta ma è rimasta minoritaria l’opinione che questa sia la sola evenienza in cui dar
prevalenza al feto rispetto alla madre. L’ordinamento inglese, infatti, non riconosce autonomi
diritti ed interessi a chi non è ancora nato (cfr.:
Re F (in utero) [1988] Fam 122; Re MB (medical treatment) [1997] 2 FLR 426; AttorneyGeneral’s Reference (No 3 of 1994) [1997] 3
All ER 936, HL) tanto che, laddove il taglio
cesareo è stato autorizzato, le corti hanno motivato sul presupposto dell’incapacità della
gestante, unico fattore in grado di legittimare
una decisione ab externo rispondente al migliore interesse della donna (Rochdale Healthcare
(NHS) Trust v C [1997] 1 FCR 274). Il sistema
esprime un forte individualismo, mitigato solo
da una prassi incline a ravvisare profili di incapacità in colei che rifiuti procedure mediche
consolidate atte a salvare il feto (Re MB (Medical Treatment), cit.). Per il mature minor, cioè il
minore con un grado di maturità che consenta
scelte autonome e consapevoli, la giurisprudenza ammette che questi possa esprimere valido
consenso al trattamento, ma non rifiutare cure
che scongiurino un grave pericolo per la vita o
la salute (cfr.: Re W (A Minor) (Medical Treat-
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Il rifiuto di cure da parte
di soggetti adulti capaci:
esperienza inglese e diritto
italiano a confronto
ment) [1992] 4 All ER 627; Re E (A Minor)
(Wardship: Medical Treatment) [1993] 1 FLR
386). È un netto favor vitae che fa giudicare il
minore all’altezza di bilanciare i propri interessi solo se sceglie di curarsi.
11. British Medical Association, Withholding and withdrawing life prolonging medical
treatment: guidance for decision making, (2nd
ed. 2001), §§ 9.1-9.3.
12. Bouvia v Superior Court 179 Cal App
3d 1127 (1986).
13. La giurisprudenza ha configurato, in
certi casi, una mera facoltà di intervento, che
pone il medico al riparo da un’eventuale accusa
per battery; in altri, un dovere il cui inadempimento è sanzionabile per negligence (Selfe v
Ilford and District Hospital Managment Committee (1990) 114 SJ 935; Kirkham v Chief
Constable of Greater Manchester Police [1990]
2 WLR 987).
14. Cfr. anche Reeves v Commissioner of
Police of the Metropolis [1999] 3 All ER 897.
15. Cfr. R (On the Application of Pretty) v
Director of Public Prosecutions (2001) 151
NLJ 1572.
16. Ad esempio, in Ms B v An NHS Trust
Hospital [2002] EWHC Fam 429 la paziente
aveva chiesto di interrompere la respirazione
artificiale che la manteneva in vita, ma il personale sanitario che l’aveva in cura non era disposto assecondarne il volere, essendo legato alla
donna da sentimenti di affetto e stima. La corte
ha stabilito che l’ammalata dovesse essere trasferita presso altra struttura disponibile ad accoglierne la richiesta.
17. Per l’opposta soluzione adottata dai
giudici statunitensi si vedano: Jacobson v Massachussetts 197 US 11 (1905); Holmes v Silver
Cross Hospital 340 F Supp 125, 130 (NDIII
1972).
18. Ex plurimis: M. Stauch-K. Wheat-J.
Tingle, Text, Cases and Materials on Medical
Ethics, Abingdon, 2006, 111.
19. Per fare il punto sui diversi metodi di
accertamento della capacità – status, outcome e
functional approach – si veda Law Commission, Mental Incapacity, Report No 231, London, 1995, HMSO. La presa di posizione legislativa per il functional approach, già in uso
presso le corti, si è avuta con il Mental Capacity
Act 2005, che individua anche i parametri di
accertamento.
20. Per una carrellata dei modelli informativi con esposizione critica dei vantaggi e svantaggi di ciascuno, si rinvia alla celebre pronuncia del 1972 della Court of Appeal del District
of Columbia nel caso Canterbury v Spence, 464
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F 2d 772 (1972). Per il diritto inglese si segnala Sidaway v Board of Governors of the Bethlehem Royal Hospital and the Maudsley Hospital [1985] AC 871.
21. La libertà del volere si reputa esclusa –
oltre che da violenza, errore, dolo – anche dalla
undue influence, espressione che si può tradurre come «influenza indebita» e per la cui nozione si rinvia a Re T [1993] Fam 95 CA.
22. In questo senso House of Lords Select
Committee, Assisted Dying for the Terminally
Ill Bill – First Report (2005), § 15. Di diverso
avviso M. Otlowski, Voluntary Euthanasian
and the Common Law, Oxford, 2000, 69, la
quale ritiene che sia la considerazione sociale a
far ritagliare una definizione di suicidio tale da
escludere quanto è comunemente ritenuto
accettabile.
23. Infatti, «accade semplicemente che il
paziente ha, come è suo diritto fare, declinato il
consenso a un trattamento che potrebbe prolungare o prolungherebbe la sua vita, e il medico,
come suo dovere, si è conformato alle volontà
del paziente» (Airedale NHS Trust v Bland,
cit.). Concorde House of Lords Select Committee, op. loc. cit.
24. Invero, gli stessi autori che puntano su
tale approccio riconoscono che esso è dettato da
pragmatismo piuttosto che dalla logica (cfr.: I.
Kennedy, Treat Me Right, Oxford, 1992, 351;
M. Otlowski, op. cit., 163).
25. Così General Medical Council,
Withholding and Withdrawing Life-prolonging
Treatments: Good Practice in decision-making,
2002, § 28. Per un riconoscimento giudiziale
del diritto del sanitario all’obiezione di coscienza, cfr. Bouvia v Superior Court, cit.
26. D.W. Brock, Voluntary Active Euthanasia, Hastings Center Report 22 Mar.-Apr. 1992,
10 e ss.
27. Pretty v UK, cit.
28. Cfr. Cox (1992) 12 BLMR 38.
29. Si veda la section 39 del Criminal
Justice Act 1988; per una definizione nella
common law: Rolfe (1952) 36 Cr App R 4.
30. Pur nell’ambito dell’orientamento
generale di cui s’è detto, comunque, negli Stati
Uniti si riscontra minore resistenza a valorizzare i diritti del paziente, anche a costo di sanzionare penalmente il professionista, come comprovato dal maggior numero di condanne per
battery o assault. Ad esempio, la responsabilità
del professionista è stata ravvisata per l’effettuazione di un intervento in spregio a una
volontà contraria espressamente manifestata
(Allan v New Mount Sinai Hospital, cit.) e per il
mancato rispetto della revoca del consenso ini-
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zialmente prestato (Ciarlariello v Schactr
(1993) 100 DLR (4th) 609 (SCC)).
31. Cfr.: Corte cost., 22 ottobre 1990, n.
471, in Foro it., 114, I, 21, 1991, con nota di R.
Romboli, I limiti alla libertà di disporre del
proprio corpo nel suo aspetto «attivo» ed in
quello «passivo»; Corte cost., 27 giugno 1996,
n. 238, ivi., 1997, I, 58.
32. La necessità del previo consenso è ribadita dalla legge istitutiva del servizio sanitario
nazionale (art. 33, legge n. 833/1978) nonché
da quelle sul trapianto del rene (legge n.
458/1957), sulla raccolta del sangue umano
(legge n. 219/2005), in tema di sperimentazioni
cliniche (art.1, d.l. 16 giugno 1998, n. 186 convertito nella legge 30 luglio 1998, n. 257) ed in
campo oncologico (art. 1, d.l. 17 febbraio 1998,
n. 23, convertito nella legge 8 aprile 1998, n.
94), sull’interruzione volontaria di gravidanza
(legge n. 194/1978), sugli interventi urgenti per
la prevenzione e la lotta contro l’AIDS (legge n.
135/1990).
33. In ambito civilistico, si vedano: Cass.,
14 marzo 2006, n. 544, AUSL Imperiese, in
Giur. it., 2007, 343, con nota M. Petri, La corretta prestazione medica in assenza di informazione non esonera da responsabilità; Cass., 15
gennaio 1997, n. 364, Scarpetta c. USL n. 12
Ancona in Foro it., 1997, I, 772, con nota di A.
Palmieri, Relazione medico-paziente tra consenso «globale» e responsabilità del professionista; Cass., 25 novembre 1994, n. 10014, Sforza M.P. c. Milesi O., in Foro it., 1995, I, 2913 e
ss., con nota di E. Scoditti, Chirurgia estetica e
responsabilità contrattuale, in Nuova giur. civ.
comm., 1995, I, 937 e ss., con nota di G. Ferrando, Chirurgia estetica, «consenso informato» del paziente e responsabilità del medico. In
ambito penalistico, basti citare Cass., 21 aprile
1992, Massimo, in Cass. pen., 1993, 63 e ss.,
con nota di G. Melillo, Condotta medica arbitraria e responsabilità penale.
34. Dal 1995 il codice deontologico medico lega la legittimità dell’intervento al «consenso informato» e l’art. 35 del codice vigente stabilisce che «il medico non deve intraprendere
attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato
del paziente».
35. Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, E.B.
c. E.E., in Corr. giur., 2007, 1676 e ss., con nota
di E. Calò, La Cassazione «vara» il testamento
biologico.
36. Così A. Princigalli, La responsabilità
del medico, Napoli, 1983, 196.
37. In particolare, l’art. 5 pone la regola
generale per cui «un intervento sanitario non
108
può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia prestato il suo consenso
libero ed informato», previa adeguata informazione «sulla finalità e sulla natura dell’intervento nonché sulle sue conseguenze e i suoi rischi»
e ferma restando la libera revocabilità in qualsiasi momento della volontà manifestata. A
tutela di coloro che non siano in grado di autodeterminarsi l’art. 6 stabilisce che «un trattamento può essere praticato su una persona incapace di prestare il consenso solo se gliene derivi un beneficio diretto» e prevede altresì l’autorizzazione del legale rappresentante ed il coinvolgimento, nei limiti del possibile, dell’interessato al procedimento di autorizzazione.
L’art. 9 apre la strada al riconoscimento giuridico delle volontà a futura memoria, stabilendo
che «i desiderata espressi anteriormente in
ordine ad un trattamento sanitario da un paziente che, al momento del trattamento, non è in
grado di manifestare la sua volontà saranno
presi in considerazione». Non si attribuisce,
quindi, valore vincolante ai voleri pregressi, ma
si assicura quantomeno che essi vadano indagati e considerati. Il consenso svolge così un ruolo
centrale ed il criterio oggettivo del «trattamento indispensabile dal punto di vista sanitario per
il benessere della persona interessata» – simile
al nostro stato di necessità ma di portata più lata
– soccorre solo «quando a causa di una situazione di urgenza non è possibile ottenere il consenso appropriato» (art. 8).
38. Per un commento A. Santosuosso, Integrità della persona, medicina e biologia: art. 3
della Carta di Nizza, in Danno e resp., 2002,
809 e ss.
39. Per una disamina delle diverse tesi – e
delle relative obiezioni – sul fondamento di
liceità dell’attività medica, per tutti: M. Benincasa, Liceità e fondamento dell’attività medico
chirurgica a scopo terapeutico, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1980, 713 e ss.; R. Fresa, La responsabilità penale in ambito sanitario, in Aa.Vv., I
reati contro la persona, vol. I, I reati contro la
vita e l’incolumità individuale, trattato diretto
da A. Cadoppi-S. Canestrari-M. Papa, Torino,
2006, 628 e ss.; F. Viganò, Profili penali del
trattamento chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, in Riv. it.dir. proc. pen,
2004, 141 e ss.
40. Cfr.: G. Barbuto, Alcune considerazioni in tema di consenso dell’avente diritto e trattamento medico chirurgico, in Cass. pen., 2003,
329; L. Eusebi, Sul mancato consenso al trattamento terapeutico: profili giuridico-penali, in
Riv. it. med. leg., 1995, 734 e s.; G. Iadecola,
Potestà di curare e consenso del paziente,
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Il rifiuto di cure da parte
di soggetti adulti capaci:
esperienza inglese e diritto
italiano a confronto
Padova, 1998, 113, per i quali l’intervento del
medico nelle ipotesi di rifiuto di trattamenti salvavita è giustificato dallo stato di necessità o
dall’adempimento del dovere connesso alla
posizione di garanzia del professionista. Per
una rassegna critica delle applicazioni giurisprudenziali di tale orientamento F. Vigano, op.
cit.
41. Si veda R. Blaiotta, op. cit., 3620, il
quale argomenta sulla base di Corte cost., 9
luglio 1996, n. 238, in Cass. pen., 1996, 3597,
che ha dichiarato l’illegittimità per contrarietà
con l’art. 13 Cost. dell’art. 224 c.p.c nella parte
in cui consentiva al giudice, nell’ambito delle
operazioni peritali, di disporre misure – nella
specie il prelievo ematico – che incidevano
sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori dei casi e modi previsti dalla legge. Se neppure con provvedimento dell’autorità giudiziaria possono essere
imposti interventi coattivi al di fuori delle
espresse previsioni di legge, a fortiori il medico non può intervenire su soggetti dissenzienti.
42. Condivisibile il rilievo mosso da F.
Viganò, op. cit., 163 ss., a parere del quale la
fattispecie di cui all’art. 610 c.p. non si adatta –
per difetto del requisito della violenza e la mancata previsione legislativa di un suo equivalente normativo – ai casi in cui il medico abbia
‘approfittato’ dello stato di incoscienza per praticare cure non previamente prospettate. A fortiori la medesima fattispecie non si presta a colpire la condotta di chi resti inerte innanzi alla
richiesta di far cessare cure già in essere e capaci di procedere in modo automatico, come nel
caso del collegamento a respiratore artificiale
(così A. Vallini, nota a G.U.P. Roma, 23 luglio
2007, n. 2049, in Dir. pen. e proc., n. 1, 2008,
77 e s.).
43. R. Blaiotta, op. loc. cit.
44. In termini analoghi: F. Giunta, Diritto
di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1997, 95; L. Stortoni, Riflessioni in tema di
eutanasia, in AA.VV., La tutela penale della
persona: nuove frontiere, difficili equilibri, a
cura di L. Fioravanti, Milano, 2001, 151; A.
Vallini, op. cit., 68 e ss. Avanza riserve circa
l’esistenza di un vero e proprio dovere del
medico S. Seminara, Le sentenze sul caso
Englaro e sul caso Welby: una prima lettura, in
Dir. pen. e proc., 2007, 1563 e s.
45. Trib. Roma, ord. 15 dicembre 2006, in
Guida al Dir., n. 1/2007, 32 e ss. e in Nuova
giur. civ. comm., 2007, I, 844 e ss.
46. Nello stesso senso vedi pure S. Rodotà,
Su Welby l’occasione mancata dai giudici, in
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La Repubblica, 18 dicembre 2006, 20.
47. Dello stesso avviso G.M. Salerno, Un
rinvio della questione alla Consulta poteva
essere la soluzione appropriata, in Guida al
dir., n. 1/2007, 49. L’argomento, peraltro, è
stato sviluppato dal p.m. nel reclamo avverso
l’ordinanza del tribunale di Roma.
48. In termini analoghi M. Azzalini, Il
rifiuto di cure. Riflessioni a margine del caso
Welby, in Nuova giur. civ. comm., 2007, II, 319.
49. Analogamente S. Rodotà, op. cit., 1.
50. Cfr. in dottrina C. Mandrioli, Diritto
processuale civile, III, Torino, 2002, 413 e s.,
nota 22. Per la giurisprudenza: Trib. Modena,
11 giugno 1999, in Giur. merito, 2000, 1645,
con nota di E. Canavese; App. Torino, 9 giugno
2000, in D. ind., 2002, 276; App. Torino, 29
novembre 2000, in Corr. giur., 2001, 371.
51. In questo senso in giurisprudenza: Trib.
Milano, 14 agosto 1995, in Giur. it., 1996, I, 2,
354.
52. Cfr. C. Casonato, Il malato preso sul
serio: consenso e rifiuto delle cure in una
recente sentenza della Corte di Cassazione, in
corso di pubblicazione in Quad. cost., 2008, n.
3.
53. F. Palazzo, voce Obiezione di coscienza, in Enc. dir., vol. XXIX, Milano, 1979, 543.
54. Ministero della Salute – Consiglio
superiore di Sanità – Sessione XLVI, Parere 20
dicembre 2006, in Guida al dir., n. 1/2006, 37 e
s.
55. La decisione è intervenuta in data 1
febbraio 2007.
56. G.U.P. Roma, 23 luglio 2007, n. 2049,
in Dir. pen. e proc., n. 1, 2008, 59 e ss., con nota
A. Vallini, cit..
57. Così, tra gli altri, M. Donini, Il caso
Welby e le tentazioni pericolose di uno «spazio
libero dal diritto», in Cass. pen., 2007, 902 ss.
58. Proc. Sassari, provv. 13 febbraio 2007,
in Guida al dir., 2007, n. 16, 92 e ss., con nota
G.M. Salerno, A questo punto diventa indispensabile avviare una «conversione costituzionale».
59. Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, cit.
Per una ricostruzione del caso nei vari passaggi
si rimanda a: App. Milano, decr. 31 dicembre
1999, in Foro it., 2000, I, 2022, con note di G.
Ponzanelli, Eutanasia passiva: sì, se c’è accanimento terapeutico, e A. Santosuosso, Novità e
remore sullo «stato vegetativo permanente»;
M. Fusco, Eluana vivrà. Per una questione di
rito gli ermellini decidono di non decidere, in
Dir. e giust., 2005, n. 19, 12 e ss.; App. Milano,
decr. 15 novembre-16 dicembre 2006, in Guida
al dir., 2007, n. 1, 39 e ss.
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60. Per una rassegna critica si rinvia a F.
Viganò, op. cit.
61. Sui confini – per vero incerti – tra rifiuto di cure ed eutanasia attiva in dottrina si vedano significativamente: S. Canestrari, Le diverse
tipologie di eutanasia, in Aa.Vv., I reati contro
la persona e l’incolumità individuale, cit., 129
e ss.; C. Casonato, op. cit.,.
62. Il rischio, invero, è stato paventato a
seguito della sentenza della Cassazione che ha
riconosciuto espressamente e pienamente il
diritto di rifiutare le cure, dettagliandone pure i
modi di esercizio con riguardo ai soggetti incapaci (Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, cit.). Ed
infatti, dopo il decreto della Corte d’Appello di
Milano – emesso in sede di giudizio di rinvio –
che ha autorizzato l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale alla giovane in
stato vegetativo permanente, le Camere hanno
deciso di sollevare innanzi alla Corte costituzionale conflitto di attribuzione avverso la sentenza della Corte regolatrice. Significativamente nella Relazione della Commissione Affari
costituzionali del Senato – preso atto della
carenza di «una organica disciplina normativa
destinata espressamente a regolamentare la
materia della “interruzione volontaria della
vita”» e volutamente sovrapposta tale questione
a quella dell’ammissibilità del mero rifiuto di
cure – si critica la soluzione prescelta dalla
Suprema Corte di demandare al giudice l’opera
di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali, sul presupposto
dell’indubbia operatività degli artt. 579 e 580
c.p. La Commissione ravvisa, quindi, una
«potenzialità offensiva» del provvedimento
dell’autorità giudiziaria per avvenuta «usurpazione» dell’attribuzione costituzionale di produzione normativa riservata esclusivamente al
potere legislativo (il testo integrale della Relazione può leggersi in:
www.senato.it/service/PDF/PDFServer?tip
o=BGT&id=307796).
63. Basti ricordare i numerosi progetti presentati e non approvati in materia di direttive
anticipate e consenso informato. Per una disamina: L. Eusebi, Note sui disegni di legge concernenti il consenso informato e le dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari,
in Criminalia, 2006, 251 e ss.; D. Tassinari, Gli
attuali progetti di legge sul così detto «testamento biologico»: un breve sguardo d’insieme,
ivi, 2006, 265 e ss.
64. Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, cit.
65. La questione attiene – non è superfluo
ribadirlo – al solo caso in cui sia chiesta la cessazione delle cure e non anche la somministra-
110
zione di dati farmaci o terapie: è riconosciuto al
paziente, a tutela dell’inviolabilità fisica prima
ancora che della salute, il diritto di opporsi a
pratiche indesiderate, ma non di servirsi del
medico quale mero strumento; a tale ultimo
risultato si oppongono, infatti, quella che gli
inglesi chiamerebbero integrity of the medical
profession, le prescrizioni del codice deontologico e gli specifici divieti posti dall’ordinamento per gli atti finalizzati ad arrecare danno o a
provocare la morte.
66. R. Bertolino, Obiezione di coscienza, I)
Profili teorici, in Enc. Treccani, Roma, 1990, 2.
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Bioetica e principio
del consenso informato
nell’esperienza
dei procedimenti civili
a tutela della persona
*Giudice
del Tribunale
di Palermo
Luigi Petrucci*
Queste riflessioni si fondano
esclusivamente sulla mia personale esperienza di lavoro e,
soprattutto, sui numerosi colloqui
con i colleghi avuti in questi anni,
che sono, credo, la vera “causa”
delle presenti considerazioni.
Non so cosa condividerete e cosa
invece non vi convincerà affatto:
vi auguro, però, di avere sempre
accanto a voi persone sagge nel
momento di affrontare decisioni
così difficili, come è stato per me
in questi anni, e – possibilmente
– che ciascuno di noi possa essere per il collega della stanza
accanto che si trova in difficoltà
un valido sostegno.
A) L’IMPATTO
DELLE QUESTIONI DI BIOETICA
NEL LAVORO GIUDICE CIVILE.
1. Alcuni casi giudiziari.
Ripescando nella memoria i
casi affrontati in questi primi anni
di lavoro professionale mi vengono, ovviamente, in mente le esperienze “comuni” a tutti i giudici
del Tribunale per i Minorenni,
come la richiesta dei medici che
devono operare un figlio di testimoni di Geova, che non vogliono
prestare il consenso alle trasfusioni di sangue o quello dei genitori che rifiutano di sottoporre il
figlio al vaccino obbligatorio.
Altri casi sono stati forse più
curiosi: la richiesta di emissione
di un provvedimento a tutela del
112
concepito avanzata dal Servizio
sociale per impedire ad una tossicodipendente di mettere a repentaglio la gravidanza (che pure
voleva portare avanti) con il suo
stile di vita pericoloso.
O quella di un padre che chiedeva l’intervento del Tribunale
per sapere dove e quando la
madre avrebbe partorito, allo
scopo di effettuare il riconoscimento del figlio nei 10 giorni ed
evitare così il ricorso al procedimento previsto dall’art. 250 c.c..
Addirittura una volta venne un
signore straniero venne per chiedere un provvedimento di decadenza dalla potestà genitoriale
della moglie italiana, perché questa non voleva sottoporsi a fecondazioni artificiali in modo da
concepire un figlio che potesse
essere donatore compatibile del
midollo osseo necessario per
curare un altro loro figlio.
Siamo stati anche alle prese
con dei genitori che avevano
deciso di far nascere i loro figli in
un reparto di neonatologia chiuso
a seguito della “razionalizzazione” delle strutture mediche ovvero alla necessità di interdire una
minore che, a causa di una rarissima ed incurabile patologia psichiatrica, aveva atteggiamenti
violenti nei confronti dei genitori
e dei fratelli, tanto da rendere
loro la vita impossibile.
Il ricordo per me più indelebile (e drammatico) è, però, quello
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Bioetica e principio
del consenso informato
nell’esperienza
dei procedimenti civili
a tutela della persona
del “consenso informato” per un
intervento a cuore aperto da praticarsi su una bambina allontanata dai genitori con un provvedimento di urgenza – al momento
dell’intervento solamente sospesi
dalla potestà genitoriale con
reclamo in Corte di Appello pendente – che non ne volevano
sapere di questa operazione (per
fortuna tutto è andato bene!).
Nella Sezione del Tribunale di
Palermo, dove lavoro attualmente, ci siamo occupati a più riprese
dei trattamenti medici di malati di
mente e di interdizioni con finalità “sanitarie”, anche qui sempre
con nuove varianti di problemi
che conosciamo tutti: dalla
richiesta del tutore di autorizzare
un intervento chirurgico agli
organi genitali per eliminare un
tumore (ma anche gli organi stessi!), alla richiesta del tutore di
ricoverare in istituto di cura dell’interdetto, che però non voleva
essere ricoverato.
Immagino che tutti hanno in
mente le enormi questioni che
solleva al giudice civile la necessità del consenso informato a
qualunque trattamento medico e
che sempre di più solleverà la
valutazione che ci viene richiesta
dell’adeguatezza dell’informazione dovuta. Nessun modulo,
infatti, potrà mai del tutto “sterilizzare” il problema, che coinvolge delle scelte di vita importantissime: penso al caso di una madre,
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con 4 figli piccoli, trattenuta in
Ospedale per sei mesi con la
“promessa” di risolvere in via
chirurgica la sua incontinenza e
che ha preteso di uscire senza
avere più il “problema”, nonostante i ripetuti interventi non
avessero avuto, purtroppo, alcun
esito, aggravando anzi in modo
irreparabile le sue condizioni.
Vorrei anche accennare ai
numerosi processi (che stavolta
vedono impegnati anche i giudici
amministrativi) in tema di fecondazione artificiale o ai problemi
che hanno attraversato le nostre
mailing list: penso soprattutto al
tema dell’obiezione di coscienza
del magistrato davanti al procedimento di autorizzazione all’interruzione volontaria della gravidanza (che era stato discusso nel
maggio 2005 sulla mailing di
Unicost ed è, poi, tornato alla
ribalta nazionale nel 2007, con un
prezioso intervento, fra gli altri,
di Nello Rossi, e che fu anche
oggetto di discussione in una
Giunta Centrale) o, ancora, alle
tante perplessità dei giudici tutelari che circolano sulla mailing
“persone e famiglia”.
2. Tema da studiare.
Un’occasione importante per
riflettere sull’impatto della Bioetica su questi problemi ci è stata
data dalla formazione decentrata
del distretto di Palermo che, con
l’occasione
dell’anniversario
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Il giudice e la bioetica
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della morte del collega Livatino,
ha organizzato ad Agrigento una
giornata di studio sul tema, prendendo spunto dal caso Welby e
dal caso Nuvoli (abbiamo avuto
l’opportunità di ascoltare i colleghi che se ne sono occupati) e
nella quale anche Piergiorgio
Morosini (che leggete pure in
questo numero) è intervenuto con
una relazione molto stimolante
sui profili penali dell’eutanasia.
Chi c’era ad Agrigento avrà
letto con (maggior) soddisfazione
la sentenza n. 21748/07 della
Cassazione (ultimo arresto, per
ora, sulla drammatica vicenda
della giovane Englaro), in cui si
sente l’eco dei profili comunitari,
internazionali e comparatistici
del problema, che nella giornata
di studio avevano tenuto banco,
grazie alla lungimiranza degli
organizzatori (e penso soprattutto
a Roberto Conti, che sta mettendo al servizio dei colleghi i suoi
studi scientifici sul tema) ed alla
preparazione dei vari relatori.
Che sia un tema da approfondire non lo dice tanto la statistica
(i casi non sono molti), quanto la
nostra professionalità e la nostra
coscienza, che vengono messe a
dura (durissima: chi c’è passato
lo sa) prova.
La professionalità, perché in
queste occasioni siamo chiamati
– come sempre – a decidere in
nome del popolo italiano, spesso
senza il conforto di una normati114
va di riferimento, nella piena
consapevolezza che la pluralità di
opinioni etiche espone a facili
critiche qualsiasi soluzione venga
presa.
La coscienza, perché abbiamo
in mano la vita e la morte delle
persone, un potere che paradossalmente – con sollievo di tutti! –
la Costituzione aveva tolto per
sempre al giudice penale.
Per questo ad Agrigento si è
giustamente detto che un più
ampio ricorso all’esperienza
delle Alte Corti Europee, delle
altre tradizioni costituzionali, ai
principi sanciti dai trattati internazionali, è necessario per dare
maggiore spessore alle “decisioni
difficili”, che da sempre misurano l’efficacia della Magistratura
nella soluzione delle questioni
che l’evoluzione sociale necessariamente porta con sé.
Nell’orizzonte più vasto che la
Suprema Corte e la Formazione
ci propongono vorrei chiedermi,
allora, quale può essere il contributo della Bioetica al nostro lavoro e, specialmente, nella motivazione dei provvedimenti e nella
conduzione del procedimento.
3. Cenni sulla Bioetica.
La parola bioetica è stata utilizzata per la prima volta da Van
Renselaer Potter, un oncologo
olandese che lavorava negli Stati
Uniti, in suo articolo del 1970 (V.
R. POTTER, Bioethics. The
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Bioetica e principio
del consenso informato
nell’esperienza
dei procedimenti civili
a tutela della persona
Science of Survival, in “Perspectives in Biology and Medicine”,
14/1970, pp.127-153). In questo
e nei successivi scritti proponeva
la bioetica come scienza della
sopravvivenza ed anche ponte
verso il futuro, quando scienze
sperimentali ed etica.
Una prima lezione della Bioetica viene, dunque, dal metodo
multi ed inter disciplinare, che è
comune a tutte le impostazioni o
modelli.
Una seconda lezione viene,
poi, dai quattro principi “classici”
della Bioetica:
di autonomia o, più propriamente, di rispetto dell’autonomia
del paziente, che conosciamo
nella nostra esperienza giudiziaria sotto il nome di “consenso
informato”, con tutte le caratteristiche che sono state precisate
anche dalla dottrina e dalla giurisprudenza;
di non maleficenza, che consiste nell’obbligo di non arrecare
intenzionalmente danno al
paziente;
di beneficità, parola che vuole
esprimere l’obbligo per il medico
di avere sempre di mira il bene
del paziente (istanza che è alla
base della visione “paternalistica” del rapporto medico paziente
ormai superata);
di giustizia ovvero di distribuzione delle risorse, posto che tutti
i cittadini hanno diritto alla cura
della salute nello Stato sociale.
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Questi sono senz’altro i principi che tutti abbiamo applicato
nella soluzione dei problemi che
ci ha posto la pratica.
Ma proprio alcuni dei casi dai
quali sono partito ne evidenziano
le (insanabili?) contrapposizioni:
come conciliare autonomia e
maleficienza per la signora che
vuole assolutamente operarsi per
non dover girare con il sacchetto
o con i pannoloni? Ed autonomia
e giustizia nel caso dei genitori
che vogliono far nascere il loro
bambino nel reparto di neonatologia del loro paese in via di chiusura per la razionalizzazione
delle strutture sanitarie? Ancora,
quale principio prevale fra autonomia e beneficità per i casi dei
malati di mente che devono essere curati e non lo vogliono?
Non posso, poi, fare a meno di
notare che sono proprio autonomia, beneficità e maleficenza il
combustibile delle accese discussioni sulla tutela del concepito, a
seconda che si guardi alla madre,
come è doveroso fare, ma tentando di rispettare la tutela della vita
del concepito, pur prevista dalla
legge, ovvero la stessa posizione
del padre (almeno nel caso di chi
vuole conoscere se e dove partorisce la madre).
4. Paradigmi di riferimento.
Come è noto, ogni sistema
completo contiene almeno una
proposizione indecidibile: il
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sistema formato dai quattro principi sembra contenerne parecchie! Visto che si tratta di una
branca del sapere nata poco più di
30 anni fa è stato detto che “Non
sorprende perciò che il fatto non
esista una definizione condivisa
di bioetica, e che sono molte le
discussioni sul suo statuto epistemologico” (L. CICCONE, Bioetica. Storia, principi, questioni,
Milano, Ares, 2003, p. 9).
A questo punto della discussione il rischio è quello di dividere il campo fra chi crede nella
sacralità della vita e chi, invece,
nella qualità della vita, sterilizzando ogni tipo di discussione
ulteriore.
Personalmente appartengo
senz’altro alla prima categoria,
ma sono convinto che, così come
accade per i bioeticisti, anche fra
i giuristi (e fra di noi!) ci sono
molte sfumature, che vale la pena
di riassumere, ognuna con i suoi
lati positivi.
Senza pretese scientifiche
penso che le principali pre-comprensioni dell’approccio alla
decisione giudiziaria possono
essere divise in tre categorie e
pure in tre categorie si possono
dividere i bioeticisti.
La prima è quella contrattualistica o procedurale: per J.
RALWS (Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 8^ ed., p.
43) questa posizione viene icasticamente espressa dalla formula
116
per cui viene prima la Giustizia,
cioè le procedure per mettersi
d’accordo, e poi il Bene, cioè
quello che utile per il singolo o
per la comunità.
In Bioetica1 uno dei rappresentanti di questo approccio ha
opportunamente notato che “poiché non ci sono argomenti [...]
decisivi capaci di provare che
una concreta visione della vita
morale è migliore delle visioni
alternative, e poiché non è avvenuta una conversione di tutti a un
unico punto di vista morale, allora l’autorità morale [...] è l’autorità del consenso. L’autorità non è
né quella del potere coercitivo, né
quella della volontà di Dio, né
quella della ragione, ma semplicemente l’autorità delle persone
che decidono di collaborare” (H.
T. ENGELHARDT, The Foundations of Bioethics, Oxford University Press, New York 1986; tr.
it. Manuale di bioetica, a cura di
M. Meroni, Il Saggiatore, Milano
1991, pp. 98-99). Una variante di
questa impostazione, che si viene
definita “clinica”, ancora più
pragmatica, rinuncia a dare risposte generali ed affronta i problemi
caso per caso, cercando la soluzione più ragionevole.
Nel mondo giuridico credo
che questa impostazione procedurale rappresenti l’evoluzione
più consapevole del positivismo,
poiché cerca la soluzione nelle
norme e, ancora meglio, nel pro-
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Bioetica e principio
del consenso informato
nell’esperienza
dei procedimenti civili
a tutela della persona
cesso quale forma di realizzazione del diritto al contraddittorio e
di controllo delle decisioni. Un
ruolo centrale in questa visione lo
ha senz’altro la motivazione delle
decisioni, quale strumento di persuasione circa la ragionevolezza
della scelta fatta dal giudice.
Mi sembra che questa sia la
via attualmente più accreditata:
ne sono espressione il riferimento
al concetto di azione socialmente
adeguata (Piergiorgio Morosini)
o anche l’ampiezza della motivazione che fa ricorso a tradizioni
giuridiche diverse da quelle italiana (come ha fatto la Suprema
Corte nella decisione citata).
Sicuramente è una risposta coerente alla necessità di assicurare
la massima professionalità in
queste decisioni.
La seconda impostazione
prende le mosse dalla grande
famiglia dell’etica utilitaristica,
in base alla quale occorre massimizzare il benessere e minimizzare la sofferenza.
Questa è la grande tradizione
del mondo anglossassone, che
non a caso si riverbera in molte
decisioni delle Corti di common
law, fino alle applicazioni più
spinte dell’analisi economica del
diritto, che da noi non hanno, per
la verità, mai avuto troppo seguito e sulla quale non mi soffermo,
se non per notare che il contributo di questo modo di pensare è
quello di giudicare la bontà di
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una decisione in base ai suoi
effetti (un tema, mi sembra, pure
molto trascurato). Da questo
punto di vista vale la pena ricordare quali difficoltà enormi vi
siano nell’eseguire un trattamento medico su persona non consenziente, pur quando vi sia una
decisione giudiziaria che lo
dispone, così come è tutt’ora irrisolto il nodo dell’esecuzione dei
provvedimenti civili di natura
personale riguardanti i minori.
Vi è, infine, l’approccio personalistico nel quale l’uomo – in
quanto persona – viene ritenuto
portatore di un compito e di valori sempre ed in ogni caso2. Mi
piace pensare che questo approccio porti ad approfondire le ragioni di ogni situazione, a cercare di
comprendere perché alcune persone possono decidere di fare
scelte irreversibili, a vedere l’umano che sprigiona in ogni conflitto di interessi o di principi, di
persone. Per cercare di trovare la
soluzione che renda ragione, nella
situazione concreta, del compito e
dei valori espressi dalle persone
coinvolte. Che non sono (quasi)
mai una sola persona: nell’eutanasia c’è il paziente terminale che
esprime il desiderio di morire, ma
c’è il medico che deve assecondare questo suo desiderio e, forse,
un giudice che lo deve autorizzare preventivamente, così per l’interruzione volontaria della gravidanza, per il trattamento medico
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irreversibile, etc.
Restando nel “recinto” del
processo civile, l’effetto pratico
si ha non tanto sulla motivazione,
quanto sull’istruttoria, che deve
essere aperta all’ascolto (del
minore, dei genitori, del tutore e
dei parenti: in questo senso l’istituto dell’amministrazione di
sostegno offre una visione del
processo a tutela degli incapaci
davvero molto attenta alla conoscenza del caso concreto, cfr. in
particolare gli artt. 406 e 407
c.c.), ai saperi diversi da quelli
giuridici (in primo luogo una
c.t.u. medica con quesiti ben
strutturati, forse un giorno sarà il
counselling o, addirittura, un
approfondimento di bioetica, di
cui molti ospedali sentono già il
bisogno attraverso la costituzione
di comitati di bioetica), alla fattiva collaborazione dei soggetti
coinvolti nella decisione (non vi
potrebbero essere conflitti mediabili o decisioni causate dalla
mancanza di una speranza di
sostegno concreto?).
Questo modo di procedere
parte, come dire, dal basso e va
maturando la decisione nel contributo di conoscenze e di esperienze.
Uno dei provvedimenti a cui
si accompagnano queste riflessioni è una possibile applicazione
di quest’ultimo approccio. Credo
che risponda anche alle domande
che pone la coscienza, perché
118
rappresenta ciò che umanamente
si può chiedere ad un giudice,
ovvero a colui che alla fine deve
decidere, cioè tagliare, la controversia.
Un lavoro ben fatto che lascia
la coscienza tranquilla, a condizione, però, che tutti abbiano
fatto bene il loro lavoro.
Anzitutto chi deve darci i
mezzi e la possibilità di svolgere
bene il nostro lavoro (un caso difficile sconvolge il fitto programma di lavoro di un qualsiasi giudice civile, ma chi ci pensa a riequilibrare i carichi, le sentenze
già poste in decisione?).
La stessa società, che troppo
spesso scarica sul giudice delle
responsabilità che, forse, con una
cura più affettuosa delle persone
potrebbe evitare alla radice di
giungere a scelte irreversibili.
La categoria dei tutori, degli
amministratori di sostegno, dei
curatori speciali, delle stesse
famiglie affidatarie, quei soggetti
che rispondono quotidianamente
ai bisogni della persona da proteggere, e il cui reperimento è
quasi sempre lasciato all’inventiva degli operatori del settore e,
spesso, al giudice, senza la previsione del benché minimo
capitolo di spesa nel bilancio
pubblico.
B) IL CONSENSO INFORMATO
IN ALCUNE ESPERIENZE
DI PROCEDIMENTI CIVILI
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Bioetica e principio
del consenso informato
nell’esperienza
dei procedimenti civili
a tutela della persona
A TUTELA DELLA PERSONA.
1. Il caso del minore.
Vorrei soffermarmi, ora, sulle
questioni interpretative che pone
il consenso informato del soggetto incapace e, quindi, del minore
(in senso stretto ovvero il bambino che non è in grado di esprimere in modo consapevole un consenso al trattamento medico) e
della persona bisognosa di protezione, sia esso un c.d. grande
minore (cioè un soggetto incapace di agire per legge, ma “che
abbia compiuto gli anni dodici e
anche di età inferiore ove capace
di discernimento”, così l’art. 155
sexies c.c.) oppure un maggiorenne (per il quale sussistano le
condizioni indicate per la nomina
di un amministratore di sostegno
o per la sua interdizione).
L’ammissibilità dell’autorizzazione all’espletamento di ogni
terapia atta a salvaguardare la
vita e l’integrità fisica del minore
(i.e. il consenso informato sostitutivo di quello dei genitori) da
parte del Tribunale per i Minorenni è ormai da anni pacifica
nella giurisprudenza (a partire da
Pret. Arezzo 24 aprile 1963).
È interessante, però, esaminare in base a quali presupposti normativi e fattuali sia giustificabile
questo intervento, anche per
inquadrare la (parzialmente)
diversa tematica del consenso
informato al trattamento medico
per i soggetti maggiorenni biso-
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gnosi di protezione.
L’art. 33, 1° comma, l. 833/78
afferma che gli interventi sanitari
“sono di norma volontari”, mentre le eccezioni a tale principio
sono fissate dalla legge: sulla
base di tale riferimento normativo si ritiene che ogni intervento
medico debba essere espressamente consentito dal paziente,
che in caso di soggetti minori
viene dato dai genitori (v. ora
anche l’art. 5, 1° comma, l.
184/83 come riformato nel 2001).
In caso di mancato consenso
viene, poi, in gioco il principio
stabilito dall’art. 32 Cost. che
“tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, quale
valore fondamentale da proteggere ed in base al quale valutare
eventuali situazioni di conflitto
con altri principi costituzionali
(come ad es. l’art. 13 o l’art. 30
Cost.).
In base a tali essenziali riferimenti la problematica in esame è
stata in modo convincente ed
autorevole risolta dalla Corte
Costituzionale con la sent. n. 132
del 1992, la quale – pronunziandosi sulla legittimità costituzionale delle vaccinazioni obbligatorie – ha individuato negli artt.
333 e 336 c.c. il fondamento normativo dell’intervento del giudice, riconducendo al corretto esercizio dell’ufficio privato affidato
ai genitori la ratio ed il limite di
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questi provvedimenti. L’esatta
configurazione degli interessi
costituzionali in gioco operata
dalla Corte delle Leggi consente
facilmente l’individuazione delle
predette norme applicabili, quantomeno, in via analogica: la stessa ampia latitudine lessicale utilizzata dal legislatore, del resto,
ben si attaglia alle più diverse
situazioni di pregiudizio per il
minore che possono in concreto
determinarsi (cfr. T.M. Venezia 2
giugno 1998).
La Corte ha, infatti, affermato:
<<Tanto meno può ipotizzarsi
che in queste ultime ipotesi si
abbia una restrizione della
libertà personale dei genitori,
come invece sembra presupporre
il giudice a quo. La potestà dei
genitori nei confronti del bambino é, infatti, riconosciuta dall’art. 30, primo e secondo
comma, della Costituzione non
come loro libertà personale, ma
come diritto-dovere che trova
nell’interesse del figlio la sua
funzione ed il suo limite. E la
Costituzione ha rovesciato le
concezioni che assoggettavano i
figli ad un potere assoluto ed
incontrollato, affermando il diritto del minore ad un pieno sviluppo della sua personalità e collegando funzionalmente a tale interesse i doveri che ineriscono,
prima ancora dei diritti, all’esercizio della potestà genitoriale. É
appunto questo il fondamento
120
costituzionale degli artt. 330 e
333 cod. civ., che consentono al
giudice – allorquando i genitori,
venendo meno ai loro obblighi,
pregiudicano beni fondamentali
del minore, quali la salute e l’istruzione – di intervenire affinché
a tali obblighi si provveda in
sostituzione di chi non adempie>>.
Mi sembra che le altre ricostruzioni proposte non siano
altrettanto convincenti.
L’intervento del sindaco sulla
base dell’art. 33, 2° comma e ss.,
l. 833/78 non dovrebbe essere
giustificato, perché la norma presuppone l’effettuazione di un
intervento ritenuto obbligatorio
dalla legge, mentre il trattamento
medico non è per definizione
obbligatorio. Qui l’obbligo da far
rispettare è quello dei genitori
rispetto al dovere di prestare il
consenso per cure necessarie per
il figlio (così T.A.R. Lazio 8
luglio 1985).
Né credo si possa dire che il
medico possa procedere direttamente, senza richiedere l’autorizzazione al giudice: il medico,
infatti, non ha il potere di accertare lo scorretto esercizio della
potestà genitoriale (diversamente
nel caso di c.d. grandi minori, per
i quali, però, la problematica è
analoga a quella dei maggiorenni
bisognosi di protezione).
Neppure la proposta di fare
ricorso all’art. 10 l. 184/83 per
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Bioetica e principio
del consenso informato
nell’esperienza
dei procedimenti civili
a tutela della persona
fondare il potere di intervento del
giudice è del tutto convincente,
perché manca evidentemente il
presupposto dei provvedimenti
previsti dalla legge speciale, consistente nello stato di abbandono.
Un’ulteriore opzione prospettata ravvisa negli artt. 320-321
c.c. le norme di riferimento, ma
anche in questo caso difetta il
presupposto di intervento previsto dalle norme, che si riferiscono
a problematiche di tipo patrimoniale e nulla hanno a che vedere
con il consenso informato, né in
via di interpretazione estensiva,
né in via interpretazione analogica. Un argomento contrario a
questa tesi viene anche dal diritto
processuale, poiché in questo
caso il giudice competente sarebbe il giudice tutelare, al quale non
è però affidato il potere di limitare la potestà genitoriale (il caso
dell’autorizzazione all’interruzione alla gravidanza della minorenne è molto particolare: sia per
l’età della minore, sia per la ricostruzione giuridica dell’intervento, sia per la eguale possibilità di
considerare tale norma come
eccezionale ovvero espressiva di
un principio generale, valido però
per i c.d. grandi minori).
In base all’inquadramento
suggerito dalla Corte delle Leggi
è facile individuare i limiti e le
conseguenze del provvedimento
autorizzativo del giudice: soccorre al riguardo il consolidato
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orientamento per cui il provvedimento camerale minorile non
deve interferire con le legittime
scelte educative dei genitori,
dovendosi intendere come non
legittime quelle scelte oggettivamente dannose ovvero quei genitori che si dimostrano incapaci di
provvedere ai bisogni più elementari del figlio (cfr. A.C.
MORO, Manuale di diritto minorile, 2^ ed., Bologna, Zanichelli,
2000, p. 161).
In casi di questo tipo l’istruttoria dovrebbe tendere ad evidenziare se la scelta dei genitori sia
oggettivamente pregiudizievole
ed andrebbe valutata caso per
caso senza pregiudizi: per esempio per i Testimoni di Geova va
considerato se sia possibile fare
ricorso all’autoemotrasfusione,
che non pone problemi per la loro
religione e viene utilizzata in
alcuni centri medici come prassi,
per i ridotti rischi che comporta.
2. Il caso del maggiorenne
bisognoso di protezione.
Per il maggiorenne bisognoso
di protezione bisogna, anzitutto,
esaminare il caso dell’intervento
necessario proprio perché la persona rifiuta le cure del caso.
È possibile, anzitutto, escludere che una condizione di abituale
infermità di mente debba necessariamente portare ad una pronunzia di interdizione, poiché
non ricorre la condizione della
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necessità per la sua adeguata protezione, prevista dall’art. 414 c.c.
nuova formulazione.
Se, infatti, l’interesse alla protezione dell’integrità del patrimonio non è rilevante per la sua
scarsa consistenza, l’esigenza di
avere una figura in grado di
imporre il ricovero in occasione
degli scompensi, cui il malato di
mente si oppone, può essere
risolto con la nomina di un
amministratore di sostegno, poiché può realizzare le due necessità sopra menzionate, pur salvaguardando un’adeguata ampiezza
della capacità d’agire del beneficiario, attraverso l’opportuna
perimetrazione degli atti da compiere e della struttura giuridica da
prevedere per la loro validità.
In via generale va detto che la
principale differenza fra l’amministrazione di sostegno e le pronunzie di interdizione e di inabilitazione risiede proprio nel contenuto del provvedimento giudiziario che, nel primo caso, viene
disegnato caso per caso dal giudice (come avviene ormai anche
nel caso dei poteri del rappresentante legale dei minori in caso di
scissione delle responsabilità
genitoriali, cfr. artt. 4, 3° comma,
5, 1° comma, l. 184/83 per l’affidamento familiare; artt. 155, 2° e
3° comma, c.c. nel caso di separazione fra i coniugi), nel secondo caso, invece, è predeterminato
ex lege tanto negli atti (previsti
122
per l’interdizione dagli artt. 372 e
ss., per l’inabilitazione dall’art.
394 c.c., pur con la possibilità di
eccezioni nominate dal giudice,
oggi prevista dall’art. 427, 1°
comma, c.c.), quanto nella struttura (si fa qui riferimento soprattutto alla necessaria concertazione fra curatore e inabilitato di cui
agli artt. 394 e 395, che è ben
diversa tanto dall’autonomo
potere del tutore, quanto dal parere del beneficiario dell’amministrazione previsto dall’art. 410
c.c.).
Sul piano degli effetti giuridici, infatti, l’amministrazione può
avere quasi la stessa ampiezza
dell’interdizione (e, a fortiori,
dell’inabilitazione), tanto che la
Suprema Corte ha precisato che,
in tali ipotesi, il procedimento
deve svolgersi secondo il rito
contenzioso, con tutte la conseguente necessità di conferire
mandato ad un difensore (cfr.
Cass. sez. 1, 29.11.06, n. 25366,
Cass.sez. 1. 2012.06, n. 27268).
Proprio per l’impossibilità di
operare una distinzione in base al
criterio qualitativo (o soggettivo,
fondato cioè sul grado di incapacità dell’infermo di mente), la
Corte Costituzionale e la Corte di
Cassazione che sono intervenute
sul tema (Corte Cost. 440/2005 e
Cass. n. 13584/2006) hanno individuato il criterio quantitativo (o
oggettivo, costituito cioè dalla
tipologia di atti da compiere) l’e-
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Bioetica e principio
del consenso informato
nell’esperienza
dei procedimenti civili
a tutela della persona
lemento più idoneo a discriminare i due istituti. Queste stesse pronunzie ricordano come tale criterio (quantitativo o oggettivo) sia
quello più confacente all’obiettivo prioritario del legislatore, rappresentato dall’armonizzazione
fra la minimizzazione delle limitazioni della capacità e l’effettiva
protezione dell’incapace.
Seguendo questo ragionamento non è consentito il ricorso
all’amministrazione di sostegno
quando si vuole impedire al
beneficiario qualsiasi atto di
disposizione patrimoniale (così
Corte Cost. cit.), mentre al di
fuori di questo limite massimo è
comunque inopportuno che gli
atti di competenza esclusiva dell’amministratore siano tali e tanti,
da rendere l’amministrazione una
vuota figura (tra l’altro priva in
buona misura della garanzia dell’intervento giurisdizionale preventivo e, in qualche misura, successivo del giudice tutelare e del
Tribunale).
Nella stessa linea può anche
ragionevolmente affermarsi che
sia poco coerente con l’introduzione del principio di necessità
dell’interdizione (e inabilitazione) posto 414 c.c. ritenere che un
soggetto debba essere interdetto
sol perché occorra provvedere al
ritiro della sua pensione (argomento sviluppato da tutte le decisioni della Suprema Corte sul
punto).
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Se questo è il quadro relativo
alla misure di carattere patrimoniale, meno tranquillanti sono gli
approdi giurisprudenziali in
merito agli atti relativi dispositivi
della persona dell’incapace.
Certamente nessun potere di
questo genere è attribuito al curatore, sicché sotto questo punto di
vista la misura dell’inabilitazione
è inutile.
Alcuni ritengono che il tutore
possa prestare il consenso ai trattamenti medici in luogo dell’interdetto, poiché interpretano la
norma sulla necessità del consenso (art. 33 l. 833/78, attuativo del
disposto dell’art. 32, 2° comma,
cost.) come un potere esercitabile
dal rappresentante legale (fenomeno delle c.d. interdizioni sanitarie).
Né la suddetta norma, né quella successiva in realtà prevedono
una tale possibilità e, anzi, altri
argomentano proprio dall’art. 34
(e analogamente gli artt. 1 e ss.
della coeva legge n. 180), che
prevede un vero e proprio procedimento per disporre trattamenti
sanitari su persone malate di
mente non consenzienti, per
escludere che il potere di disposizione del corpo sia commesso al
rappresentante legale (così come
si è detto in precedenza a proposito dei minori).
Per quanto si è detto dei minori, sembra da escludere che il
fenomeno possa essere inquadra123
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to nel fenomeno della rappresentanza e, dunque, anche della rappresentanza legale. La conclusione è stata, però, che quando sia
accertata la necessità dell’intervento il giudice può e deve intervenire, pur con alcuni limiti.
Vi è analoga possibilità anche
per i maggiorenni bisognosi di
cure? E qual è la norma di legge
che fonda tale possibilità?
Per la disciplina sul consenso
informato attualmente occorre
necessariamente fare riferimento
alla Convenzione di Oviedo sulla
“la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere
umano riguardo all’applicazione
della biologia e della medicina”,
ratificata con legge 145/2001.
La Cassazione n. 21748/07 ha
affrontato il tema dell’efficacia
della legge, dal momento che non
è stato depositato dal Governo lo
strumento di attuazione in sede
internazionale, in ogni caso le
disposizioni del trattato possono
senz’altro essere utilizzate per
l’interpretazione
adeguatrice
delle norme interne.
L’art. 5, titolato “regola generale”, prevede che la persona dia
il proprio consenso libero e chiaro (sempre revocabile), dopo aver
ricevuto un adeguata informazione sulla natura dell’intervento,
sulle sue conseguenze ed i rischi
connessi.
L’art. 6, titolato proprio «
protezione delle persone che non
124
sono capaci di prestare il consenso», prevede che nel caso di maggiore di età incapace di prestare il
consenso, questo debba essere
dato dal suo rappresentate legale,
dall’autorità a ciò preposta ovvero dalla persona o istituzione
designata dalla legge.
Il successivo art. 7 è sostanzialmente riproduttivo dei principi espressi dalla nostra legislazione in tema di malati di mente,
mentre gli artt. 8 e 9 prevedono
che l’intervento medico sia consentito in situazioni di urgenza e
che, disposizione del tutto innovativa rispetto al tessuto normativo previgente, si debba tenere
conto della volontà del paziente
espressa prima che intervenisse
lo stato di incapacità (art. 9).
Infine vanno ricordati i ricordati articoli da 17 a 20, che peraltro riguardano la specifica materia del consenso per le ricerche
mediche e per il prelievo di organi, nei quali sono previsti casi e
motivi in cui può essere dato il
consenso nei modi previsti dall’art. 6 già citato.
A seguito dell’entrata in vigore dell’amministrazione di sostegno dottrina e giurisprudenza si
sono divise circa la possibilità
che l’amministratore possa prestare il consenso ai trattamenti
medici in luogo del beneficiario
(in senso positivo, comunque, nel
merito vi sono alcune pronunzie
edite del Tribunale di Modena,
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del consenso informato
nell’esperienza
dei procedimenti civili
a tutela della persona
del Tribunale di Torino sezione
staccata di Pinerolo, del Tribunale di Cosenza, del Tribunale di
Palmi, del Tribunale di Messina).
La questione, infatti, riguarda
oggi l’individuazione del rappresentante dell’incapace, così come
previsto dall’art. 6 della Convenzione di Oviedo, ratificata con
legge 145/01.
Anzitutto va escluso che il
poter di consentire ai trattamenti
medici sia un carattere proprio
del tutore e non dell’amministratore, piuttosto v’è da dire che i
dubbi sulla possibilità che il tutore abbia tale potere sono esattamente gli stessi che si devono
avere per attribuirli all’amministratore, facendo entrambi riferimento alla possibilità di configurare un’ipotesi di rappresentanza
in questi casi.
In secondo luogo va ricordato
che non vi è differenza dal punto
di vista qualitativo fra la tutela e
l’amministrazione di sostegno,
per cui soggetti con lo stesso tipo
di infermità mentale possono
essere soggetti all’una o all’altra
forma di protezione giuridica.
Possono essere, infine, ricordati alcuni dati testuali in base ai
quali si può dedurre che l’intento
del legislatore era proprio quello
di consentire (anche) all’amministratore di sostegno di compiere
tali atti, con l’opportuno intervento del beneficiario (senza,
quindi, escludere ovviamente che
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il tutore possa prestare il consenso ai trattamenti medici in luogo
dell’interdetto).
E così non sarà inutile ricordare la stessa finalità della legge,
secondo cui: “La presente legge
ha la finalità di tutelare, con la
minore limitazione possibile
della capacità di agire, le persone
prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle
funzioni della vita quotidiana,
mediante interventi di sostegno
temporaneo o permanente” (art.
1), funzioni che ben possono
essere quelle di ricevere cure
mediche.
L’art. 407, 2° comma, c.c. per
cui “Il giudice tutelare deve sentire personalmente la persona cui
il procedimento si riferisce recandosi, ove occorra, nel luogo in cui
questa si trova e deve tener conto,
compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione
della persona, dei bisogni e delle
richieste di questa.”, inciso che
va ben oltre la finalità di protezione del patrimonio (pure evincibile dall’elenco fornito dall’art.
405 c.c. in relazione al contenuto
del provvedimento di nomina
dell’amministratore).
Analogo inciso è contenuto
anche all’art. 410, 1° comma,
c.c..
Ancora l’art. 408, 1° comma,
c.c. a mente del quale “La scelta
dell’amministratore di sostegno
avviene con esclusivo riguardo
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alla cura ed agli interessi della
persona del beneficiario. L’amministratore di sostegno può
essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o
scrittura privata autenticata”, che
utilizza non solo la stessa formula dell’articolo appena citato, ma
nella seconda parte riprende
quasi testualmente l’espressione
utilizzata dall’art. 9 della Convenzione di Oviedo (qui si parla
di designazione della persona, lì
degli atti di disposizione del
corpo).
È pure significativa l’incompatibilità degli operatori dei servizi pubblici o privati che hanno
in cura o in carico il beneficiario
prevista dal successivo terzo
comma, a testimoniare una situazione di potenziale conflitto di
interessi, che sussiste in modo
particolare se le stesse persone
che curano possono assentire alle
cure.
Infine si può ricordare che
nessun rilievo può spiegare la
clausola di salvaguardia prevista
dall’art. 409 c.c. (“Effetti dell’amministrazione di sostegno. Il
beneficiario conserva la capacità
di agire per tutti gli atti che non
richiedono la rappresentanza
esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno”), poiché se la possibilità di
dare il consenso agli interventi
126
medici è espressamente prevista
nel decreto, l’inclusione generale
dell’atto fra quelli riservati solo
al beneficiario non può ovviamente operare.
Anche aderendo alla tesi che il
tutore sia il soggetto “istituzionalmente” previsto per dare il
consenso agli atti medici è opportuno rilevare che, proprio in funzione dei canoni ermeneutici
indicati dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione, la
previsione che l’amministratore
debba sempre e comunque consultare il beneficiario (anche
quando l’atto sia riservato
all’amministratore, ciò senza dire
della possibilità per il giudice
tutelare di strutturare diversamente questo specifico atto) tutela maggiormente lo scopo di sentire l’opinione del paziente, completamente frustrata dalla normativa sul tutore, che non prevede
alcuna forma di coinvolgimento
dell’interdetto.
Infine, proprio sul piano della
struttura della rappresentanza
legale (che poi era il piano di
indagine individuato all’inizio
del ragionamento), va ricordato
che l’art. 411, 1° comma, c.c.
richiama gli artt. 374 e ss., la cui
unica differenza, rispetto alle
norme sulla tutela dell’incapace,
risiede nella concentrazione di
tutti i poteri in capo al giudice
tutelare.
Sembra, pertanto, potersi con-
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Bioetica e principio
del consenso informato
nell’esperienza
dei procedimenti civili
a tutela della persona
cludere che la misura dell’amministrazione di sostegno non solo
consenta tale intervento, ma forse
sia anche quella più indicata nel
caso che stiamo ipotizzando.
Se, infatti, non vi sono numerosi atti di disposizione patrimoniale da indicare, per i poteri pertinenti agli interventi di carattere
medico l’amministratore può
essere autorizzato a prestare il
consenso al ricovero in una struttura sanitaria quando il beneficiario sia in stato di scompenso,
senza bisogno del consenso di
questo, che resterebbe pienamente capace di dare tutti gli altri
consensi medici necessari, senza
neppure il bisogno di sentire
l’amministratore.
Per un maggior scrupolo è
anche possibile che il decreto
renda necessario l’intervento
caso per caso del giudice.
Che fare quando l’interdizione
sia già stata pronunziata ovvero
debba essere pronunziata per la
necessità di amministrare un
patrimonio rilevante?
È chiaro che tale compito graverà sul tutore, ma – come bene
evidenzia il provvedimento commentato – con le stesse cautele
“partecipative” e “conoscitive”
del beneficiario3.
Secondo quanto recentemente
affermato dalla giurisprudenza
della Suprema Corte di Cassazione con la nota sentenza n. 21748
dei 4-16 ottobre 2007, in caso di
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incapacità del paziente, «l’istanza personalistica alla base del
principio del consenso informato
ed il principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità,
impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di
elaborazione della decisione
medica: tra medico che deve
informare in ordine alla diagnosi
e alle possibilità terapeutiche, e
paziente che, attraverso il legale
rappresentante, possa accettare o
rifiutare
i
trattamenti
prospettati».
La Suprema Corte ha ritenuto
di fondare tale conclusione sull’esame della disposizione dell’art. 357 cod. civ., la quale – letta
in connessione con l’art. 424 cod.
civ. – prevede che “Il tutore ha la
cura della persona” dell’interdetto, così investendo il tutore della
legittima posizione di soggetto
interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da
praticare in favore dell’incapace.
Tale principio è stato, peraltro,
già affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 5652 del
18 dicembre 1989, che ha espressamente riconosciuto l’applicabilità dell’istituto dell’interdizione
anche in assenza di patrimoni da
proteggere, a salvaguardia di soli
interessi di natura personale e,
specificamente, di natura sanitaria, ed in particolare nel caso di
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soggetti “la cui sopravvivenza è
messa in pericolo da un suo rifiuto (determinato da infermità psichica) ad interventi esterni di
assistenza quali il ricovero in
luogo sicuro e salubre od anche il
ricovero in ospedale” per trattamenti sanitari.
L’estensione delle facoltà di
rappresentanza sostanziale del
tutore alla tematica dell’espressione del consenso ai trattamenti
sanitari trova conferma:
nelle norme in materia di sperimentazione di medicinali per
uso clinico dettate dal D.Lgs. 24
giugno 2003, n. 211, art. 4, che
ammette la sperimentazione su
adulti incapaci che non hanno
dato o non hanno rifiutato il loro
consenso informato prima che
insorgesse l’incapacità, a condizione, tra l’altro, che “sia stato
ottenuto il consenso informato
del legale rappresentante”, consenso che “deve rappresentare la
presunta volontà del soggetto”;
nell’art. 13 della legge sulla
tutela sociale della maternità e
sull’interruzione volontaria della
gravidanza, L. 22 maggio 1978,
n. 194, che prevede che la richiesta di interruzione volontaria
della gravidanza della donna
interdetta per infermità di mente
possa essere presentata, oltre che
dalla donna personalmente,
anche dal tutore, che nel caso di
richiesta avanzata dall’interdetta
debba essere sentito il parere del
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tutore e che la richiesta formulata
dal tutore debba essere confermata dalla donna;
dal citato art. 6 della Convenzione di Oviedo, rubricato «Protezione delle persone che non
hanno la capacità di dare consenso», che prevede, al comma
III, che «Allorquando, secondo la
legge, un maggiorenne, a causa
di un handicap mentale, di una
malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare
consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato
senza l’autorizzazione del suo
rappresentante, di un’autorità o
di una persona o di un organo
designato dalla legge. La persona interessata deve nei limiti del
possibile essere associata alla
procedura di autorizzazione.» e
dal successivo articolo 7, rubricato «Tutela delle persone che soffrono di un disturbo mentale»,
che, con specifico riferimento al
trattamento di patologie di natura
psichiatrica prevede che «La persona che soffre di un disturbo
mentale grave non può essere
sottoposta, senza il proprio consenso, a un intervento avente per
oggetto il trattamento di questo
disturbo se non quando l’assenza
di un tale trattamento rischia di
essere gravemente pregiudizievole alla sua salute e sotto riserva
delle condizioni di protezione
previste dalla legge comprendenti le procedure di sorveglianza e
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Bioetica e principio
del consenso informato
nell’esperienza
dei procedimenti civili
a tutela della persona
di controllo e le vie di ricorso».
Può, dunque, ritenersi che i
doveri di cura della persona in
capo al tutore si sostanziano nel
prestare il consenso informato al
trattamento medico avente come
destinatario la persona in stato di
incapacità, ma in considerazione
della natura di diritto personalissimo del diritto alla salute, secondo quanto affermato dalla pronunzia di legittimità testè citata,
non può ritenersi che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale trasferisca sul tutore, il
quale è investito di una funzione
di diritto privato, un potere
incondizionato di disporre della
salute della persona in stato di
totale e permanente incapacità di
intendere e di volere.
Secondo quanto affermato
dalla Suprema Corte di Cassazione, «nel consentire al trattamento
medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un
duplice ordine di vincoli: egli
deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace;
e, nella ricerca del best interest,
deve decidere non “al posto”
dell’incapace nè “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi,
ricostruendo la presunta volontà
del paziente incosciente, già
adulto prima di cadere in tale
stato, tenendo conto dei desideri
da lui espressi prima della perdi-
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della
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Nazionale
Magistrati
ta della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua
personalità, dal suo stile di vita,
dalle sue inclinazioni, dai suoi
valori di riferimento e dalle sue
convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.»
Alla luce di quanto sin qui
rilevato occorre, pertanto, valutare se ricorrano le predette condizioni per il ricovero in una struttura, tramite gli opportuni
approfondimenti istruttori e “partecipativi”, così come avviene nel
caso dei bambini i cui genitori si
rifiutino di prestare il consenso
per cure dovute.
Note
1. Per completezza segnalo che questo
Autore ha anche precisato che la bioetica riguarda solo le persone ovvero “esseri coscienti,
razionali (...). I feti, i neonati, gli handicappati
mentali gravi e i malati in stato vegetativo persistente sono altrettanti casi di esseri che, per
quanto umani, non sono persone” (H.T.
Engelhardt jr., Manuale di Bioetica, Milano, Il
Saggiatore, 1991, p. 58).
2. Questa viene spesso considerata la posizione cattolica, forse per l’umano desiderio di
etichettare e, dunque, pre-giudicare (nel senso di
valutare in anticipo a prescindere da ciò che
dice): certamente molti cattolici si riconoscono
in questa posizione, ma non dipende necessariamente dall’appartenenza religiosa (in un’intervista sul Corriere della Sera dil Giulio Nascimbeni sul Corriere della Sera del 8/5/81, alla vigilia
del referendum sull’aborto nel maggio 1981,
Norberto Bobbio disse: « ...mi stupisco che i
laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di
affermare che non si deve uccidere»).
3. Le riflessioni che seguono le devo parola
per parola al collega Angelo Piraino.
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Il giudice e la bioetica
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Il mestiere del giudice
e i tornelli
*Procuratore
Generale della
Repubblica
di Venezia
Il dibattito sulla giustizia
Ennio Fortuna*
Non amo le polemiche in
generale, e ancora meno amo le
polemiche in materia di giustizia.
Credo però doveroso chiarire
alcuni punti oggetto di particolare contrasto dopo l’uscita del
Ministro Brunetta a proposito dei
cosiddetti tornelli a Palazzo di
Giustizia. I tornelli nei nostri
palazzi ci sono da molti anni,
non riguardano però i magistrati,
e non certo per un particolare
rispetto della loro funzione. La
realtà è che i tornelli sarebbero
del tutto inutili in molti casi,
spesso sarebbero assolutamente
dannosi.
Mentre scrivevo questo articolo, il pensiero mi è andato più
volte al giudice di Perugia in
camera di consiglio da molte ore
per decidere la sorte dei tre
imputati dell’omicidio della studentessa inglese. Che cosa
avrebbe dovuto fare, lasciare la
camera di consiglio, tornare a
casa perché l’orario di lavoro era
scaduto, e ricominciare daccapo
il mattino successivo, dopo avere
superato il tornello? Ma non c’è
un orario per la camera di consiglio. Il giudice, proprio per
legge, deve deliberare in piena
serenità, prendersi tutto il tempo
necessario per non sbagliare (se
riesce, e non sempre riesce). È
nell’interesse dell’imputato, dell’offeso, della collettività, non
nel suo personale. E il giudice
civile monocratico quando deve
130
decidere una controversia, non
può timbrare un cartellino marcatempo. La soluzione gli viene
in mente dopo ore di studio degli
atti, in base alla propria preparazione giuridica e al proprio intuito. Magari stando a casa o in
autobus. Non avrebbe alcun vantaggio, stando in ufficio, tanto
più se costretto. Il tornello non
aiuta a riflettere. Se si tratta di un
giudice collegiale al tempo dello
studio e della meditazione occorre aggiungere quello del dibattito
in camera di consiglio. Se qualcuno vi assistesse anche una sola
volta si renderebbe conto subito
che i tornelli o gli orologi marcatempo non servirebbero a nulla.
È la discussione che facilita o
rende possibile la decisione. Non
c’è, non può esservi un tempo
prestabilito per esaminare un
problema giuridico o di prova, e
definirlo. Come non c’è un
tempo definito per interrogare un
testimone o un imputato.
Da pubblico ministero ho
aspettato anche 20 ore che il giudice uscisse dalla camera di consiglio con la sentenza, e a volte è
uscito solo con un’ordinanza di
richiamo in istruttoria. Si ricominciava daccapo, insomma, la
decisione, secondo lui, non era
matura, occorreva ancora qualche atto, qualche ulteriore indagine.
Secondo Brunetta invece il
tornello è un atto di giustizia nei
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Il mestiere del giudice
e i tornelli
confronti di tutti, l’orario di lavoro vale per tutti; non c’è ragione
di trattare il giudice diversamente dagli altri dipendenti dello
Stato. Sarei molto soddisfatto
che il Ministro avesse ragione.
Temo però che si sia infilato in
una strada senza uscita. Forse ha
inteso solo fare una battuta, e ora
trova poco dignitoso fare marcia
indietro. Ma non dubito che si
convincerà dell’insostenibilità
della sua posizione. Il mestiere
del giudice è assolutamente
diverso dagli altri, non migliore,
non più difficile, ma certamente
diverso, assai diverso. Non conta
dove lavora, conta solo che lavori e come lavora. Il giudice decide la sorte di terzi, a volte per
sempre, e non sempre decide
esattamente. Ma credo sia interesse di tutti, anche del Ministro
Brunetta, che abbia la possibilità
di meditare, prima di decidere,
tutto il tempo necessario. Indipendentemente da dove. Altrimenti sbaglia di più.
È vero, c’è il rischio che qualcuno approfitti della situazione,
ma difficilmente tale atteggiamento sfugge ai colleghi o ai
dirigenti. Nel nostro ambiente i
pochi che ci “marciano” sono
ben noti a tutti. Senza tornelli o
orologi marcatempo. Non voglio
neppure parlare delle nostre difficoltà logistiche, della mancanza di mezzi e di locali. Se tutti
fossimo presenti in ufficio con-
temporaneamente, il palazzo non
terrebbe, le stanze e le sedie non
basterebbero, ma è un problema
secondario. Quello vero, quello
essenziale per noi, ma soprattutto per gli utenti è che il giudice
possa decidere serenamente, esaminando, meditando, discutendo, se serve, con i colleghi.
Senza orari e senza marcatempo,
il che non significa in meno
tempo, anzi. A casa, in ufficio o
altrove. Purtroppo la sentenza
non ci cade dal cielo come la
manna. È spesso frutto di dibattito accanito, di successive eliminazioni di ipotesi di soluzione
esaminate, e poi scartate in favore di un’altra migliore, almeno
apparentemente (e che non sempre si rivela tale).
Se la politica conosce un altro
modo di fare il giudice (o il pubblico ministero) ce lo faccia
sapere. Ci adegueremo subito,
senza polemiche e senza rancore.
Magari con i tornelli. Tanto più
che, e ne sono sicuro, il tempo
definito e controllato, va tutto a
nostro vantaggio personale,
anche se a detrimento della giustizia.
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Riformare il processo
e non i magistrati
Il dibattito sulla giustizia
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*Sostituto
procuratore
della Repubblica
presso
il Tribunale
di Roma
Intervento di Antonello Racanelli*
Svolgo le funzioni di pubblico ministero da oltre 17 anni e
devo purtroppo con grande amarezza confessare che il senso di
frustrazione è sempre maggiore.
Sempre più si ha non solo la sensazione ma la certezza di un
lavoro inutile, di un girare di
carte a vuoto.
Il nostro processo penale è
diventato un meccanismo costoso in tutti i sensi ma privo di una
reale utilità per una molteplicità
di ragioni.
Con una battuta si potrebbe
dire che si è cercato di realizzare
il “giusto processo” ma il problema è che per molti il “giusto processo” è il processo che non si
deve mai fare e che se si celebra
deve portare all’assoluzione dell’imputato o comunque alla prescrizione del reato. Pur prescindendo dalla considerazione personale dell’inutilità dell’aggettivo “giusto” (forse in precedenza
il processo non era giusto?) evidenzio che “processo giusto”
significa che il processo deve
fare giustizia e cioè che deve pervenire ad una decisione nel merito, nel rispetto delle norme processuali e del principio, riconosciuto a livello costituzionale,
della ragionevole durata.
Ancora una volta sento parlare di proposte di modifica ordinamentale (tipo separazione
delle carriere tra giudici e p.m.,
etc...): l’inefficienza e la durata
132
irragionevole del processo penale non dipendono certo dall’attuale assetto ordinamentale
(peraltro, la separazione delle
funzioni è già una realtà e si sono
introdotti limiti tali da arrivare
già, di fatto, a un certo grado di
separazione delle carriere ovviamente non in senso tecnico, cioè
nel senso stretto e proprio del termine).
Le soluzioni per il superamento dell’attuale crisi della giustizia e del processo penale
(attualmente siamo alla paralisi,
con il rischio di una vera e propria implosione) vanno cercate
in interventi di più basso, ma non
meno importante, profilo e cioè
sul fronte di modifiche/integrazioni al codice di rito e alle
norme sostanziali.
Ma prima di affrontare in
maniera più specifica proposte
concrete di modifiche o integrazioni è necessario anche prendere atto che la crisi del processo
penale è ormai strutturale: vi è
una differenza sempre più marcata tra domanda ed offerta di
giustizia, tra il numero dei procedimenti e la capacità di risposta
da parte dell’organizzazione giudiziaria. Bisogna prendere atto
che l’attuale struttura, con le
attuali normative sostanziali e
processuali, non è assolutamente
in grado di far fronte alla domanda di giustizia, né si può pensare
di risolvere tale situazione con
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Riformare il processo
e non i magistrati
un aumento indiscriminato del
numero dei magistrati (molteplici sono le motivazioni che rendono non percorribile questa strada).
Appare ovvio premettere che
sono necessarie maggiori risorse
finanziarie da destinare al settore
giustizia (le riforme a costo zero
sono una mera illusione, come le
esperienze passate ci devono
avere ormai insegnato) per interventi sul piano dei mezzi e delle
strutture. Accenno brevemente ai
numerosi casi nei quali le udienze vengono interrotte e non possono proseguire nelle ore pomeridiane per la mancanza di personale amministrativo. È inutile
illudersi: un miglior funzionamento della giustizia penale
richiede necessariamente maggiori stanziamenti.
Appaiono
indispensabili
immediati interventi in termini di
riqualificazione del personale
amministrativo e di istituzione
dell’ufficio per il processo che io
personalmente preferirei chiamare ufficio del giudice o del pubblico ministero. È necessario,
altresì, prevedere interventi in
punto di risorse materiali (si insiste tanto e giustamente sui temi
della professionalità e della
responsabilità dei magistrati ma
in quale paese civile l’amministrazione non fornisce periodicamente agli stessi i necessari strumenti di aggiornamento profes-
sionale (in primis i codici? nonché proseguire sulla strada già
intrapresa dei processi di informatizzazione.
Il presente articolo si propone
di indicare, sulla base dell’esperienza quotidiana di lavoro, alcuni punti problematici sul piano
processuale e meritevoli di interventi che, è doveroso sottolineare, hanno solo scopo esemplificativo e non certamente esaustivo.
Sul piano del diritto sostanziale mi limito solo ad evidenziare che bisogna continuare nel
processo di depenalizzazione di
alcune fattispecie, anche se sul
punto si osservano segnali contraddittori. Tutti sono d’accordo
con la volontà di depenalizzare
ma si susseguono leggi nonché
progetti di legge che introducono
o propongono di introdurre continuamente nuove ipotesi di reato
(nel recente passato il legislatore
italiano spesso, dando attuazione
alle direttive dell’Unione Europea, ha fatto ricorso alle sanzioni
penali anche nei casi nei quali le
direttive non le prevedevano): ad
esempio era proprio necessario
prevedere come reato la condotta
dell’elettore che introduce all’interno della cabina elettorale un
telefono cellulare in grado di
fotografare? Osservo che trattasi
di contravvenzione che punisce
anche chi soltanto per dimenticanza o negligenza ha con sé il
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telefono: non sarebbe stato sufficiente introdurre una sanzione
amministrativa? Ed ancora: era
proprio necessario reintrodurre
sanzioni penali per la guida
senza patente? (l’esperienza
dimostra che non è certamente
questa la causa dei numerosi
incidenti stradali). Si ipotizza di
rendere penalmente rilevante la
guida di autoveicoli privi di
copertura assicurativa e così via
dicendo. L’area del penalmente
rilevante è già molto estesa:
occorre procedere ad una riduzione (il codice del 1930, per
molti aspetti, specie in relazione
ai beni da tutelare, appare superato dall’attuale assetto costituzionale) per consentire poi l’introduzione, eventuale, di nuove
fattispecie in relazioni a nuovi
fenomeni meritevoli di sanzione
sotto il profilo penale.
Altri interventi potrebbero
essere fatti per realizzare quella
che i processualisti chiamano
deprocessualizzazione: si tratta
di introdurre o incrementare istituti con scopi deflattivi del processo e che possano consentire,
ricorrendo determinati presupposti, al pubblico ministero di essere esentato dal dovere di promuovere l’azione penale. Si può
pensare ad allargare l’area dei
reati procedibili a querela nonché prevedere forme di archiviazione condizionata ad esempio
alla circostanza che l’indagato si
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astenga in futuro dal commettere
ulteriori reati, in relazione ovviamente alla scarsa offensività del
fatto posto in essere ovvero ad
avvenute condotte di riparazione
o di risarcimento realizzate dall’autore del fatto.
Decisamente utile sarebbe
un’estensione dell’attuale istituto
dell’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità
del fatto, di occasionalità dello
stesso, del grado ridotto di colpevolezza, oggi limitata ai reati di
competenza del giudice di pace.
Un cenno non può non essere
fatto alla necessità di un intervento in materia di prescrizione
per restituire razionalità ad un
sistema che rischia di vanificare
il lavoro di molti operatori del
settore. Evidenzio solo un dato:
con l’attuale disciplina credo sia
diventato quasi impossibile riuscire ad ottenere una sentenza
definitiva di condanna per il
reato di corruzione. L’attuale
sistema processuale rende, di
fatto, poco probabile che in 7
anni e mezzo siano svolte le
indagini preliminari, l’udienza
preliminare ed i tre gradi di giudizio. Lo stesso discorso vale
anche per molti altri reati. Appare necessario riconsiderare in
maniera approfondita l’istituto
della prescrizione: come già suggerito da alcuni, la sentenza di
primo grado, se di condanna,
potrebbe rappresentare il punto
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finale per il decorso della prescrizione. Ciò consentirebbe di
ridurre enormemente il numero
delle impugnazioni presentate
solo per motivi dilatori ma sul
punto altre soluzioni potrebbero
essere avanzate e discusse: l’importante è evitare che l’obiettivo
finale di alcuni imputati sia quello non di vedere riconosciute le
proprie ragioni ma di raggiungere la prescrizione.
Fallimentare appare essere
stata anche la recente scelta di
adottare un provvedimento di
indulto senza una contestuale
amnistia: noi p.m. continuiamo a
svolgere indagini per reati oggetto di indulto, i giudici continuano
a celebrare processi per reati
coperti da indulto e nel frattempo
i procedimenti pendenti crescono
con buone possibilità di chiudersi per prescrizione. Peraltro, non
può non osservarsi che quello
che era stato indicato come l’obiettivo principale del provvedimento di indulto (e cioè il
sovraffollamento delle carceri) è
divenuto nuovamente, sulla base
degli ultimi dati diffusi dal
D.A.P., un problema destinato ad
aggravarsi nei prossimi mesi.
D’altronde il bisogno di sicurezza e soprattutto l’emergere di
sempre più diffuse forme di criminalità impongono interventi di
più ampio respiro. Senza giustizia non può esserci sicurezza e
non c’è giustizia se i processi
hanno una durata irragionevole.
In tale ottica, se pure sono
necessari interventi in materia di
edilizia penitenziaria, occorre
anche riflettere sull’opportunità
di mantenere il carcere al centro
del sistema sanzionatorio, pensando ad una maggiore articolazione del predetto sistema prevedendo, in particolare per certi
reati, sanzioni prescrittive, ablative e interdittive che appaiono
sicuramente più adeguate.
Occorre anche rendere effettive
le c.d. pene alternative alla
detenzione: la fuga dal carcere
non può essere intesa come fuga
dalla pena. L’attuale disciplina
normativa è sotto molteplici
aspetti lacunosa e deve anche
fare i conti con una debolezza
strutturale della magistratura di
sorveglianza.
Venendo allo stato del nostro
processo penale, non si può non
iniziare da una constatazione:
negli ultimi anni gli interventi
legislativi, evidentemente diretti
alla tutela di “interessi particolari” (impedire o comunque ostacolare la celebrazione di certi
processi) hanno, di fatto, aggravato la già difficile situazione in
relazione a tutti i processi, ma
evito in questa sede di analizzare
quest’aspetto del problema.
Sul piano processuale il punto
più problematico è costituito
dalla durata del processo: è possibile incidere su tale durata del
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processo senza eliminare le giuste garanzie previste. Occorre
semplificare le procedure e
razionalizzare le garanzie.
Settore privilegiato di intervento è rappresentato dalla disciplina in tema di notificazioni.
L’esperienza quotidiana di chi
frequenta le aule porta ad individuare nella complessa e farraginosa disciplina delle notificazioni una delle principali cause
della lunga durata dei procedimenti e dei processi penali.
Una recente ricerca svolta
dalla Camera Penale di Roma in
collaborazione con l’Istituto
Eurispes, realizzata attraverso il
monitoraggio di oltre 1600 processi celebrati innanzi ai giudici
monocratici e collegiali del Tribunale di Roma tra l’aprile ed il
maggio 2007, ha evidenziato
come i dati relativi ai rinvii
determinati dalla irregolarità
delle notifiche all’imputato, alla
persona offesa e al difensore
nonchè delle notifiche ai testi
rappresenti una delle reali patologie del processo penale. Lo
studio in oggetto, a dire il vero,
arriva alla seguente conclusione:
“il processo penale è paralizzato
dalla catastrofica condizione
della struttura amministrativa
deputata a gestirlo”: ciò è solo in
parte vero, perché, ad avviso di
chi scrive, anche alcuni meccanismi processuali ed alcune garanzie, solo formali e non sostanzia136
li, influiscono in maniera significativa sui tempi di svolgimento
del processo penale.
Sul punto specifico delle notificazioni, anche le recenti modifiche normative (introdotte con
la legge 155/2005 c.d. legge antiterrorismo) che hanno eliminato
o quantomeno drasticamente
ridotto la possibilità di avvalersi
della polizia giudiziaria per l’attività di notificazione, hanno
reso sempre più difficile la situazione, in mancanza di un potenziamento del personale amministrativo destinato a tale attività.
Se da una parte appare comprensibile la necessità di evitare
di distogliere dalle attività ordinarie il personale di polizia giudiziaria non si comprende (e sul
punto sarebbe sufficiente un
limitato ma decisivo intervento
normativo) perché non possa
essere utilizzato in tale attività il
personale inserito nelle sezioni
di polizia giudiziaria istituite
presso le Procure della Repubblica: non è inutile evidenziare che
trattasi di personale alle dipendenze dei Procuratori della
Repubblica e che non ha certamente compiti di controllo del
territorio.
Si potrebbe pensare, ad esempio, anche ad eliminare la possibilità per il difensore di fiducia di
non accettare la notificazione di
cui all’art. 157 c. 8 bis c.p.p.
Specie in presenza di un difenso-
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re di fiducia, non appare irragionevole semplificare le regole in
materia di notifica di atti all’indagato o all’imputato. Perché
non prevedere ex lege l’elezione
di domicilio dell’indagato presso
il difensore di fiducia sin dalla
fase delle indagini? (sulla base,
ad esempio, di quanto previsto
dall’art. 33 disp. att. c.p.p. con
riferimento al domicilio della
persona offesa). Così come in
caso di indagato o imputato assistito da due difensori di fiducia
non si vede perché non possa
ritenersi sufficiente la notifica
fatta ad uno solo dei due difensori o deve ritenersi che i co-difensori non si parlino?
Altra modifica potrebbe
riguardare anche il numero di
copie di atti da notificare ad
esempio al difensore che sia
anche domiciliatario del suo
assistito: perché non può ritenersi sufficiente la notificazione di
una sola copia dell’atto?
Proprio nel settore delle notifiche i processi di innovazione
tecnologica potrebbero essere di
rilevante aiuto nel ripensare in
maniera sistematica la relativa
disciplina, prevedendo un largo
uso delle comunicazioni mediante mezzi informatici o telematici.
Altro intervento potrebbe
riguardare il settore dell’inutilizzabilità che oggi ex art. 191 c.2
c.p.p. è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del pro-
cedimento: non è infrequente il
caso dell’avvocato che, pur consapevole di un vizio di inutilizzabilità come anche di un vizio di
nullità assoluta, evita di eccepirlo subito e attende il giudizio di
legittimità per farlo rilevare ed
ottenere così la prescrizione del
reato.
Notevoli problemi causa
anche l’attuale disciplina sulla
c.d. inutilizzabilità relativa solo a
determinati soggetti: vi sono cioè
prove utilizzabili per un imputato, ad esempio e non per i suoi
coimputati. Non si è ancora
riflettuto a sufficienza sulle conseguenze di questa situazione sui
percorsi motivazionali e decisionali del giudice.
Strettamente collegato a questi temi è il c.d. problema dell’abuso del diritto e del processo:
tematica che non può essere
affrontata solo sotto l’aspetto
deontologico ma che richiede
precisi interventi normativi diretti ad impedire il verificarsi di
casi di abuso, oggi spesso frequenti. È necessario intervenire,
a livello normativo, per impedire
non solo l’uso illecito degli strumenti processuali ma anche per
impedirne
l’uso
dilatorio:
entrambi gli usi devono ritenersi
contrari alla lealtà e regolarità
del processo (ovviamente, il
discorso vale sia per gli avvocati
sia per i magistrati).
È necessario, inoltre, rendersi
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conto che finchè il procedimento
ordinario ha una durata irragionevole, con la quasi sicura prospettiva della prescrizione, non
ci sarà nessun reale interesse a
preferire i procedimenti speciali
che pur rappresentano dei
modelli interessanti ed utili di
definizione processuale (anche
se alcune perplessità suscita il
c.d. patteggiamento in appello
che appare un istituto inutile dal
punto di vista deflattivo e che
spesso consente di cumulare i
benefici previsti dai riti alternativi).
Altro settore di intervento è
rappresentato dai processi celebrati nei confronti dei c.d. imputati irreperibili: assistiamo quotidianamente ad uno spreco di
risorse materiali e temporali per
processi “inutili” a soggetti “irreperibili” e che quasi sempre non
saranno mai rintracciati. Sarebbe
opportuno pensare a forme di
sospensione del processo e della
prescrizione fino a quando non si
raggiunga la certezza della conoscenza del processo da parte del
soggetto interessato, anche per
evitare poi di dover rinnovare
giudizi (vedi sul punto le numerose sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nei
confronti dell’Italia).
In materia di competenza
appare indispensabile modificare
l’attuale normativa, prevedendo
un intervento definitivo e risolu138
tivo della Corte di Cassazione
sin dalla fase degli atti preliminari al dibattimento per evitare
che in sede di terzo grado di giudizio si arrivi ad una dichiarazione di incompetenza dopo la celebrazione di ben due gradi di giudizio e che quindi il processo
debba ricominciare ab initio
(tutti ricordano un recente clamoroso caso).
Altro settore meritevole di
intervento è l’istituto dell’avviso
ex art. 415 bis c.p.p.: l’esperienza dei nostri uffici dimostra sempre di più l’inutilità di un simile
istituto, specie nei procedimenti
con reati per i quali è prevista
l’udienza preliminare nonché nei
procedimenti nei quali siano
state emesse misure cautelari,
personali o reali, o comunque nei
procedimenti nei quali l’indagato
sia stato interrogato od abbia
comunque avuto cognizione
degli elementi di accusa.
Ancora non ho ben capito
quale sia l’esigenza di garanzia
posta alla base della norma che
prevede (art. 406 c.3 c.p.p.) la
necessità di notificare all’indagato la richiesta di proroga del termine per le indagini preliminari,
almeno nel caso di prima richiesta di proroga che può aversi per
giusta causa (termine generico e
omnicomprensivo). Finora nella
mia esperienza professionale
solo in un caso l’avviso previsto
dall’art. 406 c.p.p. ha avuto
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come conseguenza la presentazione di una memoria da parte
dell’indagato, ma anche sulla
base di informazioni avute da
altri colleghi ritengo di poter dire
che trattasi di avviso sostanzialmente inutile, come priva di utilità appare anche la previsione di
udienza in camera di consiglio
(con conseguenti oneri di avvisi
a carico della cancelleria del giudice) nel caso il giudice ritenga
di non dover concedere la proroga.
Occorre intervenire anche sul
sistema delle incompatibilità
che, come attualmente previsto,
determina numerosi ritardi e rallentamenti nell’attività giurisdizionale: è necessario riesaminare
l’intero settore, circoscrivendo
l’incompatibilità alle sole situazioni che effettivamente possono
mettere in pericolo la libertà e la
serenità del giudice.
Altra modifica che si potrebbe introdurre, ad esempio nei
procedimenti per ricettazione (in
relazione ad oggetti provento di
furto), è considerare documenti
le denunce dei reati presupposti,
prevedendo solo che il giudice
possa discrezionalmente, sulla
base di richiesta motivata delle
parti, disporre la citazione come
teste del denunciante. Tutti assistiamo nei procedimenti per
ricettazione alla quasi sempre
inutile citazione di testi che spesso provengono da città distanti
centinaia e centinaia di chilometri dal luogo di celebrazione del
processo e che poi, quando vengono sentiti, non sono assolutamente in grado di apportare al
processo elementi differenti o
ulteriori rispetto al contenuto
della denuncia già presentata: si
assiste, spesso, al caso di avvocati, difensori dell’imputato, che
si oppongono alla produzione
della denuncia ed insistono per
l’audizione del denunciante e
che poi, quando il denunciante
viene sentito, dichiarano di non
aver alcuna domanda da fargli: è
possibile continuare così? Quali
sono le garanzie che si vogliono
tutelare con le norme oggi esistenti?
E veniamo ora alla norma che
considero tra le più rilevanti nel
determinare la durata irragionevole dei processi: l’art. 525 c.p.p.
che, in combinato disposto con
gli articoli dedicati alle letture,
nell’interpretazione giurisprudenziale ormai prevalente non
consente che, nel caso di mutamento totale o parziale dell’organo giudicante, le dichiarazioni
assunte innanzi al giudice, totalmente o parzialmente diverso,
siano utilizzabili per la decisione
mediante lettura. Trattasi di
interpretazione che, a modesto
parere di chi scrive, contrasta,
peraltro, con i principi di conservazione degli atti processuali,
dell’efficace esercizio dell’azio139
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ne penale e dell’efficienza e della
durata ragionevole del processo.
Trattasi di norma che, specie
in relazione alle ultime disposizioni in materia ordinamentale
(vedi limite di permanenza
decennale nelle funzioni, ovvero
limite di permanenza per i semidirettivi) rischia veramente di
allungare la durata dei processi
senza alcun valido motivo. Non è
dato realmente comprendere
quali siano le reali esigenze di
garanzia che impongano la
necessità di dover rinnovare il
dibattimento in caso di semplice
mutamento, ad esempio, di uno
dei componenti del collegio. Non
si può parlare di lesione del principio del contraddittorio perché
la prova si è formata nel pieno
contraddittorio sia pure innanzi a
giudice, parzialmente o totalmente diverso. Quanto alla lesione del principio di immediatezza
(principio che richiede il contatto
diretto tra giudice e fonti di
prova e che comporta conseguentemente l’immutabilità del
giudice dal momento dell’ammissione delle prove fino alla
decisione) l’esperienza quotidiana di chi frequenta le aule di giustizia ci dimostra che quasi sempre i processi durano alcuni mesi
se non anni e quindi anche in
caso di medesima composizione
del collegio tra l’inizio e la fine
del processo, è impossibile per
l’organo giudicante fare affida140
mento solo sul ricordo della
prova formatasi in sua presenza
ma necessariamente ricorre alla
lettura dei verbali di udienza o,
rectius, delle trascrizioni delle
udienze. Peraltro, anche in
appello, salvo casi eccezionali di
rinnovazione, totale o parziale,
del dibattimento, i giudici decidono leggendo le carte e quindi
senza aver partecipato direttamente alla formazione della
prova (certo occorre riflettere
sull’attuale configurazione del
nostro giudizio di appello – la
possibilità di essere assolti in
primo grado e poi di essere condannati in secondo grado solo
sulla base dell’esame documentale degli atti pone indubbiamente un problema meritevole di
valutazione – ma il legislatore,
anziché intervenire su questo
aspetto, ha invece ritenuto necessario eliminare il potere di appello del pubblico ministero, poi
reintrodotto dalla Corte Costituzionale che negli ultimi anni in
maniera sempre più frequente e
puntuale ha impedito “derive”
pericolose per l’assetto complessivo del sistema processuale
penale). Ora nessuno mette in
dubbio che in determinati processi possa essere utile se non
necessario che, in caso di mutamento totale o parziale del giudice, si proceda anche a rinnovare
le prove già formatesi ma per
fare questo sarebbe sufficiente
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Riformare il processo
e non i magistrati
affidare ogni decisione sull’eventuale necessità di rinnovazione alla discrezionalità del giudice, su richiesta motivata delle
parti, anziché chiedere il consenso delle difese degli imputati che
quasi sempre non consentono
alla rinnovazione mediante lettura e non sempre perché può essere utile o necessario rinnovare la
formazione ma spesso e volentieri solo per guadagnare tempo
in vista di una quasi certa prescrizione, se non in primo grado,
quantomeno nei gradi successivi.
Tutti noi operatori siamo consapevoli come una semplice modifica dell’art. 525 c.p.p. consentirebbe una immediata accelerazione dei tempi dei processi.
Tanto per essere molto concreti,
vi faccio un esempio che mi
coinvolge direttamente: nel Tribunale di Roma c’è un abbinamento tra p.m. e un collegio di
una determinata sezione. Ebbene
nella mia sezione ormai da più di
un anno manca uno dei giudici a
latere, perché trasferito ad altra
funzione e non è stato ancora
sostituito in via definitiva: abbiamo,quindi, un collegio c.d. precario con composizione variabile
ad ogni udienza. Si riescono,
pertanto, a definire solo i processi che è possibile chiudere in una
sola udienza (pochissimi) ovvero
i processi nei quali le difese consentono alla rinnovazione delle
prove mediante lettura (ancora
meno). Quale la conseguenza?: i
processi non si fanno e nel frattempo decorre il termine di prescrizione. Se poi a ciò si aggiunge che dopo l’entrata in vigore
del nuovo ordinamento giudiziario il presidente del collegio in
questione, che è anche presidente della sezione, è un perdente
posto (nel caso specifico è in
attesa di trasferimento alla Corte
d’Appello) è facile comprendere
quanto disastrosa sia la situazione: siamo di fronte ad un collegio
super-precario con le ovvie conseguenze. Inutile dire che tra i
processi destinati a non essere
mai celebrati o meglio destinati a
chiudersi già in primo grado con
una sentenza di non doversi procedere per prescrizione ve ne
sono alcuni per reati anche molto
gravi e di particolare allarme
sociale (quali corruzione, abuso
d’ufficio, falso in bilancio etc...).
È anche vero che secondo alcuni
questi non sono reati particolarmente gravi ma non è questa la
sede per affrontare tale problematica.
Certo già oggi appaiono possibili letture interpretative delle
norme in questione che possono
consentire di ridurre le “assurde”
conseguenze sopraindicate ma
trattasi di letture interpretative
poco praticate dalla giurisprudenza: si impone la necessità di
un intervento normativo chiaro e
risolutivo. Peraltro, a mio avviso,
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anche sulla base di un attento
esame della giurisprudenza
costituzionale, in caso di modificazione soggettiva del giudicante, non vi sarebbero modalità di
assunzione delle prove dichiarative costituzionalmente imposte:
ben potrebbe il legislatore ordinario intervenire sul punto. D’altronde già esiste nel nostro codice una norma,l’art. 190 bis
c.p.p., che potrebbe fornire utili
indicazioni. Il principio di immediatezza, come si è autorevolmente sostenuto in dottrina
(Tonini), “non può essere accolto
nel suo significato più rigoroso,
in quanto non ha un valore in sé,
bensì è funzionale all’accertamento dei fatti ed alla necessità
di amministrare la Giustizia”. Lo
stesso autore precisa che “i principi dell’oralità, dell’immediatezza e del contraddittorio non
hanno valore in se stessi, bensì
servono ad accertare la verità nel
modo migliore. Essi hanno un
valore strumentale in quanto
assicurano la correttezza del
risultato”. Sempre attuale e valido è quanto ha detto la Corte
Costituzionale nella sentenza
255/1992 ex qua “fine primario
ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello
della ricerca della verità”. Efficaci, come sempre, risultano sul
punto le parole del collega Davigo: “Risentire un teste a cui sono
già state effettuate contestazioni,
142
interrogare di nuovo un teste a
cui sono state poste domande a
sorpresa è inutile, perché le
domande non possono essere a
sorpresa la seconda volta e le
risposte non sono più genuine…
l’interesse processuale, nel rito
accusatorio, dovrebbe essere di
utilizzare quegli atti”.
In alternativa o come ipotesi
subordinata si dovrebbe quantomeno prevedere la sospensione
della prescrizione in caso di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per mutata composizione, totale o parziale, dell’organo
giudicante.
Ulteriori interventi potrebbero riguardare alcuni punti evidenziati nei vari “protocolli d’udienza” che sono stati elaborati
in alcuni uffici giudiziari in collaborazione tra magistrati ed
avvocati. Il protocollo per la
gestione delle udienze dibattimentali penali, collegiali e
monocratiche, elaborato a Roma
offre, ad esempio, spunti interessanti: si potrebbe introdurre, a
livello normativo, la c.d. udienza-filtro o di programma che
serve ad una più razionale programmazione del ruolo delle
udienze e serve ad impedire inutili citazioni di testi che spesso
sono costretti ad attendere numerose ore prima di apprendere che
il processo nel quale devono
essere sentiti è stato rinviato ad
altra data oppure che si è conclu-
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Riformare il processo
e non i magistrati
so con un patteggiamento. Un
problema da non sottovalutare è
la conseguenza negativa, in termini di credibilità e di fiducia nel
sistema giustizia, che i continui e
numerosi rinvii dei processi,
dovuti ai più diversi motivi,
causa nei cittadini che, specie in
qualità di persone offese o di
testi, frequentano le nostre aule
di giustizia. Ho assistito personalmente a testi che in più occasioni hanno dovuto prendere
atto, dopo alcune ore di attesa,
che il loro processo era rinviato:
come si fa poi a sanzionare lo
stesso teste che, dopo essere
venuto inutilmente più volte,
decide poi di non presentarsi?
L’udienza di prima comparizione, con eccezione per i giudizi con imputato detenuto,
dovrebbe essere dedicata alla
sola verifica della regolare costituzione delle parti, alla discussione delle questioni preliminari,
alle formalità di apertura del
dibattimento, all’ammissione
delle prove (con conseguente
calendarizzazione dell’istruttoria), alla definizione dei giudizi
ex art. 444 c.p.p. o per ragioni
processuali o di prescrizione, alla
definizione dei giudizi di rito
abbreviato non condizionato
all’assunzione di prove dichiarative.
È inutile ed è causa solo di
disagi alle numerose parti coinvolte nei vari processi sovracca-
ricare in maniera abnorme i ruoli
di udienza: personalmente ho
partecipato ad udienze monocratiche con oltre 40 procedimenti,
per alcuni dei quali erano stati
citati anche i testi. Pur essendo
evidente che era impossibile
celebrare tutti i processi fissati, si
costringono le parti ad inutili
attese: ecco perché appare necessario l’introduzione della c.d.
udienza-filtro o di programma.
Accenno brevemente ad ulteriori possibili interventi che
potrebbero servire a razionalizzare il processo penale e ad evitare alcune distorsioni, indubbiamente presenti nella realtà, anche
nell’ottica di recuperare risorse.
In materia di misure cautelari
personali (con eccezione, ovviamente, in caso di emissione successiva a convalida del fermo o
dell’arresto) si può pensare ad
attribuire l’emissione delle stesse
ad un collegio con contestuale
abolizione del riesame. In tal
modo si ridurrebbe certamente il
rischio di abusi o di errori. Una
competenza collegiale potrebbe
essere prevista anche in materia
di autorizzazione all’esecuzione
di operazioni di intercettazione:
personalmente sono dell’opinione che l’attuale disciplina normativa in tema di intercettazioni
non vada modificata in punto di
presupposti e condizioni ma poiché non si può non registrare un
certo “abuso” nell’uso di questo
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strumento investigativo si può
pensare, ferma restando l’attuale
disciplina, di prevedere la possibilità di una competenza collegiale, allo scopo di consentire
un’applicazione più rigorosa e
puntuale delle attuali norme
codicistiche. Ma gli ultimi argomenti indicati (misure cautelari e
intercettazioni) richiederebbero
riflessioni ulteriori per la loro
delicatezza e per i contrapposti
interessi coinvolti, tutti meritevoli di attenzione e di tutela.
Ovviamente, quelle indicate
sono solo alcune proposte a titolo esemplificativo in relazione ai
limiti del presente intervento.
In conclusione sento di poter
dire che continuare a parlare di
separazione delle carriere, di
riforma del C.S.M. e di altro in
questa situazione di paralisi del
processo penale significa, di
fatto, non voler affrontare e risolvere i veri problemi che determinano questa situazione.
Per riformare la giustizia
bisogna riformare i processi ed
intervenire sull’organizzazione
amministrativa senza necessità
di riformare i giudici e/o i pubblici ministeri.
E soprattutto bisogna essere
consapevoli che qualsiasi tentativo di riforma richiede una precisa scelta di investimento di risorse nel settore. Mi piace concludere questo scritto con alcune
parole di Carnelutti che, pur
144
datate nel tempo, sono quanto
mai attuali: “... gli uomini di
governo danno atto periodicamente delle esigenze di una ‘giustizia rapida e sicura’ ma basterebbe che avessero conoscenza
delle strettezze materiali, spesso
inconcepibili, nelle quali il servizio si compie per rendersi conto
che in pratica codeste declamazioni non hanno alcuna serietà.
Se al servizio giudiziario si dedicassero le cure che si prodigano
al servizio ferroviario o alla circolazione stradale, le cose
comincerebbero ad andare diversamente; ma i valori economici
contano ancora purtroppo assai
più che i valori morali”.
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Questioni di legittimità
costituzionale nella prospettiva
europea: il processo, gli interessi
e i diritti fondamentali
*Magistrato
ordinario
in tirocinio
presso
il Tribunale
di Palermo
Giustizia italiana e standard europei
Francesco Antonino Cancilla*
Premessa
Il presente contributo intende
delineare alcune questioni che
emergono da una rapida ricognizione della giurisprudenza della
Corte Costituzionale dell’ultimo
anno. Da tali pronunce si evince
che le norme della CEDU e quelle comunitarie (rectius UE) finiscono ormai per integrare il parametro di legittimità costituzionalei in virtù di un’applicazione
alquanto duttile dell’art. 117
comma 1 Cost. Non è casuale
che tale disposizione diventi lo
strumento essenziale per condurre all’interno del giudizio le
norme europee2.
Le pronunce, alle quali si
accennerà, sono le seguenti.
Innanzitutto, vi sono le sentenze n. 348 e n. 349 del 22 ottobre 2007 (depositate il 24 ottobre
2007), con le quali la Corte ha
dichiarato che talune disposizioni legislative, che riguardano il
calcolo dell’indennità di espropriazione e la liquidazione del
danno da occupazione acquisitiva, violano l’art. 117 comma
primo della Costituzione, poiché
sono contrastanti con l’art. 1 del
Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo3, che tutela il diritto di
proprietà. Per comodità espositiva nel corso di questo articolo ci
si riferirà a tali sentenze come “i
casi sull’espropriazione”.
Vi è poi la sentenza n. 39 del
146
25 febbraio 2008 (depositata il
27 febbraio) con la quale la Corte
Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli
articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della
liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore all’entrata
in vigore del decreto legislativo
9 gennaio 2006, n. 5, poiché tali
articoli stabiliscono che le incapacità personali derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurano oltre la chiusura della procedura concorsuale.
La pronuncia scaturisce dal contrasto –mediato dall’art. 117
Cost. – fra le norme censurate e
l’art. 8 par. 2 della CEDU, che
sancisce il “diritto al rispetto
della vita privata”. Sussiste,
peraltro, anche una violazione
dell’art. 3 Cost. Tale caso sarà in
prosieguo indicato come il “caso
del fallimento”.
Merita poi rilievo l’ordinanza
n. 103 del 13 febbraio 2008
(depositata il 15 aprile 2008),
con la quale la Corte Costituzionale, adìta in via principale, si è
avvalsa – per la prima volta nella
sua storia – del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia delle
Comunità Europee al fine di
ottenere una pronuncia sull’interpretazione dell’art. 49 TCE e
dell’art. 87 TCE.
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Questioni di legittimità
costituzionale nella
prospettiva europea:
il processo, gli interessi
e i diritti fondamentali
In tale vicenda lo Stato ha
impugnato una legge della
Regione Sardegna, che ha istituito un tributo regionale che colpisce il transito e l’approdo degli
aeromobili e delle unità da diporto di imprese non domiciliate in
Sardegna. La censura è stata sollevata con riferimento a diversi
parametri costituzionali e, in particolare, all’art. 117 primo
comma Cost. per violazione
delle norme del Trattato CE relative alla tutela della libera prestazione dei servizi (art. 49), alla
tutela della concorrenza (art. 81
coordinato con gli art. 3, lett. g) e
10) e al divieto di aiuti di Stato
(art. 87)4. Per ragioni di speditezza espositiva il caso sarà indicato
come “il caso della Sardegna”.
Va poi considerata la sentenza
n. 128 del 16 aprile 2008 (depositata il 30 aprile 2008), con la
quale la Corte Costituzionale ha
dichiarato non fondata – in riferimento agli artt. 3, 10 e 27 della
Costituzione – la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 630, comma 1, lettera a)
c.p.p. nella parte in cui tale
norma codicistica esclude dai
casi di revisione l’impossibilità
di conciliare i fatti stabiliti a fondamento della sentenza (o del
decreto penale di condanna) con
la decisione della Corte europea
dei diritti dell’uomo, che abbia
accertato l’assenza di equità del
processo ai sensi dell’art. 6 della
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Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
(CEDU). Questo è il “caso della
revisione”.
Infine, da ultimo, si rammenta l’ordinanza n. 109 del 14 aprile 2008 (depositata il 18 aprile
2008) con la quale la Corte ha
dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità dell’art. 18, comma 1, lettera e), della legge 22 aprile 2005,
n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del
Consiglio, del 13 giugno 2002,
relativa al mandato d’arresto
europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 11 e
117, primo comma, della Costituzione. Il giudice a quo ha prospettato un possibile contrasto
fra la decisione quadro sul mandato di arresto europeo
(2002/584/GAI) e l’art. 18 della
legge n. 69 del 2005, che impone
il rifiuto della consegna del soggetto richiesto, nel caso in cui la
legislazione dello Stato richiedente non preveda «limiti massimi di carcerazione preventiva».
Questo sarà definito come il caso
del “mandato di arresto europeo”.
Effettuata tale ricognizione
complessiva, non essendo ovviamente possibile esaminare
approfonditamente le diverse
tematiche, in questa sede saranno
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svolte soltanto alcune riflessioni
sulle linee guida della giurisprudenza costituzionale e sulle zone
d’ombra che tuttora esistono.
D’altra parte, i casi richiamati,
che tracciano un particolare
assetto dei rapporti tra gli ordinamenti, si prestano ad essere analizzati da una pluralità di punti di
vista: quello processuale, quello
dei rapporti fra gli interessi coinvolti, quello dei diritti fondamentali.
La prospettiva processuale
Per quanto attiene al punto di
vista processuale, quasi tutti i
casi richiamati riguardano giudizi di legittimità costituzionale in
via incidentale. Soltanto il “caso
Sardegna” è oggetto di un giudizio in via principale promosso
dallo Stato avverso una legge
della Regione Sardegna. Tale
particolarità incide sullo svolgimento del processo; e infatti, la
Corte Costituzionale, disattendendo una sua costante riluttanza
alla realizzazione di un dialogo
diretto con la Corte di Lussemburgo, si è finalmente avvalsa
del rinvio pregiudiziale alla
Corte di Giustizia5.
In materia è opportuno ricordare che la Corte Costituzionale,
malgrado qualche apertura dei
primi anni Novanta, nei giudizi
incidentali di costituzionalità ha
costantemente negato di essere
una “giurisdizione”6 nel senso
148
previsto dall’art. 234 TCE, che –
come è noto – disciplina il rinvio
pregiudiziale. Tale posizione non
è stata smentita neppure nell’ambito di più recenti giudizi in via
principale, in cui, però, a causa
della semplicità delle norme
comunitarie, la Corte non ha
neppure avvertito l’esigenza del
rinvio pregiudiziale7.
In effetti, la Corte Costituzionale ha evidenziato che nei giudizi in via incidentale vi è già un
giudice, quello a quo, che – nell’ipotesi di contrasto tra la norma
interna e quella comunitaria
dotata di effetti diretti – può
direttamente disapplicare la
norma interna e può altresì rivolgersi in via pregiudiziale alla
Corte di Lussemburgo al fine di
chiarire i dubbi sull’interpretazione delle disposizioni comunitarie.
Per contro, innanzi alla Corte
costituzionale, adíta in via principale, la valutazione della
conformità della legge impugnata alle norme comunitarie si
risolve, attraverso il parametro
dell’art. 117 Cost. comma 1
Cost., in un giudizio di legittimità costituzionale, sicché, in
caso di riscontrata difformità, la
Corte non può procedere alla
disapplicazione della legge ma
deve dichiararne l’illegittimità
con efficacia erga omnes8.
Pertanto, nel “caso della Sardegna” la Corte, pur insistendo
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Questioni di legittimità
costituzionale nella
prospettiva europea:
il processo, gli interessi
e i diritti fondamentali
sulla sua peculiare posizione di
organo di garanzia costituzionale, riconosce a sé nei giudizi in
via principale la natura di giudice ossia la qualifica che – ai sensi
dell’art. 234, terzo paragrafo, del
Trattato CE – è indispensabile
presupposto soggettivo per il rinvio pregiudiziale alla Corte di
Giustizia.
Seguendo tale ragionamento,
allora, la Corte Costituzionale
potrebbe (rectius dovrebbe) utilizzare il rinvio pregiudiziale
anche nel giudizio per conflitto
di attribuzioni o in quello di
ammissibilità del referendum,
dato che in entrambe le situazioni non vi è un diverso giudice
che possa occuparsi del rapporto
fra le norme interne e quelle
comunitarie.
Vi è tuttavia una zona d’ombra, nella quale il giudice a quo,
pur ravvisando una possibile violazione del diritto comunitario,
non può disapplicare la norma
interna in contrasto con il diritto
comunitario ma deve necessariamente sollevare questione di
legittimità costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117 Cost.
Si tratta delle ipotesi in cui viene
a rilievo una normativa europea
priva di efficacia diretta o ancora
dei casi in cui viene lamentata la
possibile violazione dei “controlimiti”9 (ossia dei principi fondamentali dell’ordinamento repubblicano) da parte del diritto
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comunitario o ancora dell’ipotesi
in cui la norma interna pregiudichi la perdurante osservanza del
Trattato CE o del nucleo essenziale dei suoi principi10.
Ora, con riferimento alle ipotesi summenzionate e – in particolare – per quella relativa alla
normativa comunitaria priva di
efficacia diretta, la Corte costituzionale ha elaborato la tesi della
priorità del rinvio pregiudiziale
rispetto alla questione di legittimità costituzionale. Di conseguenza, il giudice che si trovi di
fronte a una norme interna, che
richieda una preliminare interpretazione del diritto comunitario e ponga contemporaneamente
dubbi di legittimità costituzionale, dovrebbe prima interpellare in
via pregiudiziale la Corte di Lussemburgo; soltanto dopo la statuizione della Corte CE egli
potrebbe decidere di sollevare
questione di legittimità costituzionale. Se non viene rispettata
tale priorità, la Corte Costituzionale tende a dichiarare l’inammissibilità della questione o a
restituire gli atti al giudice a quo.
La tesi in oggetto, che apparentemente cerca di salvaguardare l’autonomia della Corte Costituzionale, facendo ricadere
esclusivamente sul giudice del
merito l’onere del rinvio pregiudiziale, potrebbe tuttavia non
soddisfare le esigenze del giudizio di costituzionalità. E infatti,
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poiché la Corte di Lussemburgo
si limita a rispondere ai quesiti
posti dal giudice a quo, non vengono esaminati ulteriori profili
che potrebbero essere nondimeno decisivi per risolvere il caso.
Ciò premesso, per capire il
senso di quanto si è sostenuto, si
pensi al “caso del mandato di
arresto europeo”. Si è già detto
che nell’ordinanza n. 109 del
2008 la Corte Costituzionale ha
dichiarato l’inammissibilità della
questione, poiché il giudice a
quo avrebbe dovuto preliminarmente verificare se la regola
della previsione di termini massimi di carcerazione preventiva,
che la norma denunciata mutua
dall’art. 13 Cost., sia o meno
“cedevole” di fronte all’obbligo
di rispetto dei vincoli scaturenti
dall’ordinamento comunitario,
sancito a carico del legislatore
nazionale dall’art. 117 Cost.
Ebbene, il giudice di merito, pur
nel caso di ritenuta cedevolezza
della norma interna, non potrebbe disapplicarla, dato che le decisioni quadro – ai sensi dell’art.
34 TUE – sono prive di efficacia
diretta. Qualora, poi, il giudice a
quo intravedesse una violazione
dei “controlimiti”, il problema
sarebbe ancor più complesso. In
ambedue le ipotesi il giudice
dovrebbe sollevare questione di
legittimità innanzi alla Corte, che
finalmente potrebbe (o dovrebbe) avvertire l’utilità (o la neces150
sità) del rinvio pregiudiziale.
Con tale strumento, che le consentirebbe di esplicitare la tesi
dei controlimiti, la Corte costituzionale esprimerebbe la sua posizione sugli aspetti attualmente
più critici del diritto europeo, sui
quali si sono pronunciate anche
altre corti costituzionali11.
In breve, la tesi della priorità
del rinvio pregiudiziale può tuttora accogliersi per finalità di
semplificazione e di deflazione
del lavoro della Corte Costituzionale, ma non può giustificare
una irragionevole avversione
della Corte verso il rinvio pregiudiziale.
Il “caso del mandato di arresto europeo” sarebbe poi interessante anche sotto un altro profilo.
E infatti, la Corte CEDU ha
affermato che la disciplina di
taluni Stati sulla custodia cautelare, sebbene sia diversa da quella italiana, è comunque coerente
con i «principi giuridici europei»
e segnatamente con l’art. 5, paragrafo 3, della CEDU. Pertanto, la
Corte Costituzionale e la Corte
di Lussemburgo, a loro volta,
non potrebbero prescindere dall’esame della giurisprudenza
della Corte di Strasburgo12.
La prospettiva
degli interessi
I casi richiamati possono
essere analizzati anche nella prospettiva degli interessi, che viene
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Questioni di legittimità
costituzionale nella
prospettiva europea:
il processo, gli interessi
e i diritti fondamentali
spesso trascurata dagli studiosi
che preferiscono concentrarsi
sulla tutela dei diritti individuali
oppure sui rapporti tra gli ordinamenti sotto il profilo del riparto
di competenze.
In verità, non va dimenticato
che l’attribuzione di un potere e
di una competenza su una certa
materia avviene in vista della
salvaguardia di taluni interessi
pubblici. In parallelo, il concetto
di diritto soggettivo sottende un
inevitabile riferimento ad interessi sostanziali. E infatti, da un
lato, il diritto soggettivo scaturisce dal riconoscimento di un
interesse del singolo ad un certo
bene della vita; dall’altro lato, la
limitazione dei diritti individuali
viene spesso giustificata dall’esigenza di tutelare diritti altrui di
pari importanza oppure dalla
necessità di perseguire interessi
collettivi anch’essi meritevoli di
protezione13.
L’interesse, dunque, è la
sostanziale giustificazione di un
potere pubblico o di un diritto
individuale e costituisce l’anello
di collegamento fra il piano dei
poteri e quello dei diritti dei cittadini. L’indagine lungo la linea
degli interessi può allora contribuire a fissare alcuni tratti dei
rapporti fra gli ordinamenti14.
Ebbene, nel “caso dell’espropriazione” all’interesse alla realizzazione delle opere pubbliche
e al risparmio della collettività,
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finora reputato prevalente dalla
Corte Costituzionale, si contrappone con successo l’interesse al
buon andamento e alla legittimità dell’attività amministrativa
e quello alla tutela della proprietà privata, che finisce per
prevalere per il tramite dell’art.
117 Cost. e della giurisprudenza
della CEDU.
Nel “caso del fallimento”
l’interesse all’ordine pubblico e
alla disciplina dell’economia,
che sarebbe a fondamento delle
incapacità per il fallito, risulta
soccombente – proprio a causa
del carattere sproporzionato
delle incapacità – rispetto all’interesse allo svolgimento dell’attività economica e a quello connesso alla tutela della dignità
degli individui e al loro inserimento sociale, interessi tutti
affermati dalla CEDU.
Nel “caso della Sardegna”
l’interesse alla contribuzione
fiscale, cui è connessa l’autonomia finanziaria della Regione,
che invoca ragioni di equità tributaria, si scontra con l’interesse
allo svolgimento delle attività
economiche, che è tutelato dall’ordinamento comunitario. È
chiaro che la decisione della
Corte di Giustizia, che dovesse
tendere – come è probabile – a
un’interpretazione estesa del
significato della libera prestazione di servizi, indurrà verosimilmente la Corte Costituzionale a
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dichiarare l’illegittimità delle
norme sarde censurate.
Nel “caso della revisione”
l’interesse al processo equo, tutelato dalla CEDU, sembrerebbe
soccombente rispetto a un generico interesse al mantenimento
dello status quo della normativa
processuale. In realtà, in tale
vicenda il giudice a quo non ha
individuato fra i parametri l’art.
117 Cost., che invece è indispensabile per far valere la violazione
delle norme CEDU all’interno
del giudizio di legittimità costituzionale. Vi è quindi un profilo
di natura processuale che ha inciso negativamente sul giudizio di
costituzionalità, impedendo una
più accurata disamina della
vicenda.
Nel caso del “mandato di
arresto europeo” si contrappongono l’interesse alla libertà personale e l’interesse alla cooperazione europea nel campo processuale e della repressione dei crimini. Il conflitto, però, non si è
risolto, poiché la Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente inammissibile la questione così come posta dal giudice a
quo.
Può allora affermarsi che,
eccettuati per ragioni processuali
il caso della revisione e quello
mandato del arresto europeo, il
conflitto tra gli interessi ha determinato un loro bilanciamento in
un’ottica di ragionevole contem152
peramento e di valutazione di
proporzionalità, che conduce,
infatti, ad affermare l’illegittimità della normativa sul calcolo
dell’indennità da occupazione
acquisitiva e quella sulle incapacità del fallito.
In generale, allorché vengano
a rilievo interessi giuridicamente
rilevanti e di carattere fondamentale, non è possibile l’aprioristica
prevalenza di uno rispetto all’altro, ma occorre considerare le
specifiche esigenze e le particolari modalità di tutela hic et
nunc. In altre parole, un interesse, che si ricollega a diritti fondamentali, non può tollerare una
sproporzionata compressione da
parte di normative che in modo
irragionevole ed eccessivo perseguono interessi pubblici15; oltretutto, la tutela delle libertà è essa
stessa un primario interesse pubblico.
La prospettiva dei diritti
individuali
Dal piano degli interessi, che
fanno da collegamento “deformalizzato” fra poteri pubblici e
diritti, si può procedere al piano
formale dei diritti soggettivi.
Dalla giurisprudenza costituzionale in esame risultano prevalenti il diritto di proprietà (nel
caso delle espropriazioni), il
diritto al “rispetto della vita privata” e all’iniziativa economica
(nel caso del fallimento). Per
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Questioni di legittimità
costituzionale nella
prospettiva europea:
il processo, gli interessi
e i diritti fondamentali
quanto attiene al caso della Sardegna, – come si è già osservatopuò prevedersi la declaratoria di
illegittimità costituzionale delle
norme regionali per violazione –
per il tramite dell’art. 117 Cost.
del diritto alla libera prestazione
di servizi sancito dall’ordinamento CE. Infine, per il “caso
della revisione” e per quello del
“mandato di arresto europeo”
taluni problemi di carattere processuale hanno impedito alla
Corte di affrontare funditus le
questioni dedotte, che coinvolgono il diritto alla libertà personale
e al processo equo.
Non v’è dubbio che l’esito
favorevole per i diritti individuali scaturisce dall’integrazione del
parametro di legittimità costituzionale. Ciò è reso possibile –
sotto un profilo di stretto diritto
positivo – dal vigente art. 117
comma 1 della Costituzione, che
pone espressamente il primato
delle norme CEDU sul diritto
interno e – unitamente all’art. 11
Cost. – ribadisce la supremazia
dell’ordinamento comunitario.
Si rende quindi necessaria e
ormai ineludibile una lettura
“transnazionale” delle norme che
enunciano diritti16.
Bisogna allora domandarsi se
davvero i cataloghi di diritti
menzionati in questo scritto
siano fra di loro nettamente
distinti e in posizione “sussidiaria” o se piuttosto si configuri un
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insieme complessivamente integrato di diritti, i cui contenuti
devono perciò desumersi da una
pluralità di ordinamenti.
Nella prima ipotesi i cataloghi
sopranazionali entrerebbero in
gioco soltanto nel caso di inadeguatezza o di insufficienza delle
norme interne, ferma restando la
separazione dei livelli ordinamentali. L’interpretazione di una
disposizione costituzionale, dunque, parrebbe indenne dalle
interferenze europee.
Nella seconda ipotesi, invece,
la ricognizione dei contenuti di
un diritto fondamentale, affermato dalla Costituzione, non
potrebbe trascurare un preliminare collegamento con diritti
analoghi che sono sanciti nell’ambito sopranazionale.
Appare preferibile quest’ultima tesi. E infatti, il contrasto
delle norme interne con quelle
poste dall’ordinamento CE o
dalla CEDU implica una violazione non solo degli obblighi
sopranazionali ma anche della
stessa Costituzione, poiché
ormai – in forza dell’art. 117
comma 1 Cost.– la potestà legislativa (statale e regionale) è
limitata da sistemi normativi
esterni, i cui principi conseguentemente si riverberano nell’ordinamento nazionale. Invero, l’art.
117 comma 1 Cost., imponendo
di fatto un’interpretazione delle
disposizioni interne conforme
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all’ordinamento CE e alla
CEDU, stimola la prospettiva
dell’integrazione.
A questo punto, è utile riesaminare i diversi casi, mettendo in
risalto l’esigenza di un’interpretazione “aperta” dei diritti fondamentali enunciati nella Costituzione.
In primo luogo, nei casi sulle
espropriazioni la Corte riprende
la giurisprudenza CEDU sul
diritto di proprietà e sul principio
di legalità delle procedure di
espropriazione. Nondimeno, l’illegittimità costituzionale delle
disposizioni in questione sarebbe
pure emersa qualora le norme
costituzionali, che sanciscono il
diritto di proprietà, fossero state
sottoposte ad una lettura “transnazionale” (ossia ispirata alla
giurisprudenza della Corte di
Strasburgo) e più garantista della
sfera giuridica del proprietario.
In secondo luogo, per quanto
riguarda il caso del fallimento, la
Corte Costituzionale aderisce
alla giurisprudenza della Corte
CEDU, che ha sostenuto che le
disposizioni della legge fallimentare sono lesive dei diritti
della persona, perché incidono
sulla possibilità di sviluppare le
relazioni col mondo esterno e
sono tali da determinare un’ingerenza non necessaria in una
società democratica. Invero, la
nozione di rispetto della “vita
privata” presa in considerazione
154
dall’art. 8, § 2, della CEDU non
esclude le attività di natura professionale o commerciale, dato
che proprio nel mondo del lavoro le persone intrattengono un
gran numero di relazioni con il
mondo esterno.
Il medesimo risultato si sarebbe tuttavia raggiunto attraverso
una rinnovata interpretazione
degli artt. 4, 27, 35 e 41 Cost.,
essendo palese che l’automaticità e l’eccessività delle incapacità si traducono in un’indebita
lesione del diritto al lavoro, di
quello all’iniziativa economica e
della stessa dignità della persona.
Sarebbe stata quindi auspicabile
un’interpretazione sistematica
più attenta alle pronunce della
Corte europea dei diritti dell’uomo e maggiormente ispirata a un
rinnovato valore della dignità
della persona, che va rispettata
anche per gli aspetti riferibili alle
attività economiche.
Infine, in relazione al tema
del rapporto fra i diversi livelli di
tutela dei diritti individuali, si
consideri il “caso della Sardegna” in cui viene dedotta la violazione della libertà di prestazione di servizi, che carattere fondamentale per il Trattato CE. A tal
proposito, occorre sottolineare
che i diritti e le libertà derivanti
dall’ordinamento comunitario, a
differenza di quelli di fonte
CEDU, non hanno carattere tendenzialmente universale. La giu-
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Questioni di legittimità
costituzionale nella
prospettiva europea:
il processo, gli interessi
e i diritti fondamentali
risprudenza comunitaria, infatti,
ha chiarito che, in assenza di una
specifica normativa derivata, la
libertà di prestazione di servizi
non può essere invocata da un
operatore economico contro il
proprio Paese ma soltanto da un
operatore di un altro Stato membro17. In altri termini, la libertà di
origine comunitaria (specie di
natura economica) può valere
soltanto nelle ipotesi transnazionali, che presuppongono un
attraversamento – sia pure potenziale – delle frontiere, ma non
può investire l’ambito delle
situazioni esclusivamente interne.
Da ciò deriva che la pronuncia della Corte di Giustizia, resa
a seguito del rinvio pregiudiziale, non potrà tenere conto della
condizione delle imprese italiane
ma potrà soltanto considerare
quella delle imprese straniere.
Pertanto, se la Corte di Lussemburgo fornirà un’interpretazione
estesa della libertà in oggetto, la
violazione del diritto comunitario si ravviserà in senso stretto
solo per le imprese straniere.
Per tutelare le imprese italiane, allora, la Corte Costituzionale dovrà pervenire a un concetto
esteso di “vincoli comunitari”
oppure dovrà affrontare la
“discriminazione a rovescio”18,
che inevitabilmente si configurerà per gli operatori aventi sede
in Italia.
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In alternativa, una pronuncia
favorevole per le imprese nazionali potrebbe derivare da una rinnovata lettura dell’art. 41 Cost.
sul diritto di iniziativa economica. Nella stessa direzione potrebbe pensarsi a una valorizzazione
della “tutela della concorrenza”
come materia “trasversale” ex
art. 117 comma 2 lett. e) Cost.,
che, in virtù di preminenti interessi del mercato derivanti dall’ordinamento europeo ma ormai
“interiorizzati” dall’ordinamento
statale, esige un’uniformità di
trattamento fra le imprese. Tale
parità può attenuarsi solo per la
protezione di ulteriori interessi
pubblici, che sono compatibili
con il sistema comunitario e che
richiedono una qualche diversità
di disciplina.
In conclusione, il quadro brevemente tratteggiato finisce per
valorizzare il ruolo del giudice,
che –sulla base dell’art. 117
comma 1 Cost. e della stessa giurisprudenza costituzionale qui
accennata – dovrà interpretare le
norme interne in una prospettiva
sopranazionale che dà nuovi
contenuti agli stessi diritti fondamentali enunciati dalla Costituzione. Le ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale,
dunque, dovranno manifestare
tale lettura “sopranazionale” del
catalogo dei diritti, essendo altrimenti probabile che sia dichiarata l’infondatezza o l’inammissi155
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bilità della questione.
Note
1. In breve, tali norme diventano “parametro interposto” del giudizio di legittimità costituzionale. Sulle norme interposte e sull’integrazione del parametro di costituzionalità, si v. C.
LAVAGNA, Problemi di giustizia costituzionale
sotto il profilo della “manifesta infondatezza”,
Milano 1957, 26; M. SICLARI, Le “norme interposte” nel giudizio di costituzionalità, Padova
1992; v. anche G. PITRUZZELLA, F. TERESI, G.
VERDE (a cura di), Il parametro del sindacato di
legittimità costituzionale delle leggi, Torino
2000; S. PAJNO, L’integrazione comunitaria del
parametro di costituzionalità, Torino 2001. Si
v. pure F. TERESI, Elementi di giustizia costituzionale, Bari 2004, 67.
2. Per un commento sul comma 1 dell’art.
117 Cost. dopo la riforma del 2001, si v. G.
SERGES, Commento all’art. 117, 1° co., in R.
BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di),
Commentario alla Costituzione, Vol. III, Torino
2006, 2213. Si v. pure: E. CANNIZZARO, La
riforma “federalista” della Costituzione e gli
obblighi internazionali, in Riv. dir. internaz.,
2001, 921; ID., Gli effetti degli obblighi internazionali e le competenze estere di Stato e
Regioni, in Ist. Fed., 2002, 15; P. CARETTI, Il
limite degli obblighi internazionali e comunitari per la legge dello Stato e delle Regioni, in
Stato, Regioni, Enti locali tra innovazione e
continuità, Torino 2003, 61; A. D’ATENA, La
nuova disciplina costituzionale dei rapporti
internazionali e con l’Unione europea, in Rass.
Parl., 2002, 916; G. FLORIDIA, Diritto interno e
diritto internazionale: profili storico-comparatistici, in Dir. pubbl. comp. eur., 2002, 1340; F.
GHERA, I vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali nei
confronti della potestà legislativa dello Stato e
delle Regioni, in F. MODUGNO, P. CARNEVALE (a
cura di), Trasformazione della funzione legislativa, Milano 2003; E. PALAZZOLO, Ordinamento
costituzionale e formazione dei trattati internazionali, Milano 2003; F. SORRENTINO, Nuovi
profili dei rapporti tra diritto interno e diritto
internazionale e comunitario, in Dir. pubbl.
comp. eur., 2002, 1355.
3. Sulla CEDU si v. per tutti P. PITTARO (a
cura di), La Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, Milano 2000; S. BARTOLE, B.
CONFORTI, G. RAIMONDI, Commentario alla
Convenzione europea per la tutela dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova
2001; B. NASCIMBENE (a cura di), La convenzione europea dei diritti dell’uomo, Milano
2002.
156
4. In parallelo, con la coeva sentenza n. 102
del 2008 la Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità di norme legislative della Regione Sardegna, concernenti tasse sul turismo e
imposte sulle abitazioni, in relazione all’art. 8,
lettera h ) [già lettera i] dello Statuto speciale,
che impone alla Sardegna la condizione dell’armonia con i principi del sistema tributario statale nell’istituzione dei tributi propri. Per contro, i profili di possibile contrasto tra altre
norme regionali anch’esse censurate e le norme
comunitarie per il tramite dell’art. 117 Cost.
sono stati oggetto dell’ordinanza n. 103 del
2008.
5. Sul tema si v. M. CARTABIA, La Corte
costituzionale italiana e il rinvio pregiudiziale
alla Corte di Giustizia europea, in AA.VV., Le
Corti dell’integrazione europea e la Corte
costituzionale italiana, (a cura di N. ZANON),
Napoli 2006, 99.
6. La Corte Costituzionale aveva accennato ad una possibilità di rinvio pregiudiziale
nella sentenza n. 168 del 18/04/1991; ciò tuttavia veniva successivamente negato con l’ordinanza n. 536 del 15/12/1995.
7. La rilevanza dei profili comunitari si
coglie nella sentenza n. 384 del 10/11/1994,
nella sentenza n. 94 del 30/03/1995 e anche
nella sentenza n. 85 del 23/03/1999.
8. L’incidenza del diritto europeo sulle pronunce della Corte Costituzionale attraverso
l’art. 117 comma 1 Cost. è notevole; v., in particolare, le seguenti sentenze: n. 166
dell’11/06/2004, n. 406 del 3/11/2005, n. 129
del 28/03/2006.
9. Sui “controlimiti”, si v. per tutti M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, Milano 1995
10. Si v. Corte Cost. sentenza 23/12/1986
n. 286.
11. Si v. U. DRAETTA, Diritto dell’Unione
Europea e principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano: un contrasto non
più solo teorico, in AA.VV., La dimensione
internazionale ed europea del diritto nell’esperienza della Corte Costituzionale (a cura di L.
DANIELE), Napoli 2006, 281; L. MARIN, Il mandato di arresto europeo al vaglio delle Corti
nazionali: divergenze e convergenze nell’interpretazione di uno strumento trasnsazionale
europeo, in AA.VV., Le Corti dell’integrazione
europea e la Corte costituzionale italiana, (a
cura di N. ZANON), Napoli 2006, 271.
12. Sul “valore” delle sentenze della Corte
di Strasburgo si v. P. PIRRONE, L’obbligo di
conformarsi alle sentenze della Corte europea
dei diritti dell’uomo, Milano 2004; F.M.
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Questioni di legittimità
costituzionale nella
prospettiva europea:
il processo, gli interessi
e i diritti fondamentali
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PALOMBINO, Il valore delle sentenze della Corte
europea dei diritti dell’uomo nell’ambito dei
giudizi costituzionali: in margine alla pronuncia della Corte costituzionale 154/2004, in
AA.VV., La dimensione internazionale ed
europea cit., 184; B.RANDAZZO, Le pronunce
della Corte europea dei diritti dell’uomo: effetti ed esecuzione nell’ordinamento italiano, in
AA.VV., Le Corti dell’integrazione europea
cit., 295.
13. Si v. pure R. BIN, Diritti e argomenti. Il
bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano 1992.
14. L’analisi sul piano degli interessi è sviluppata da autorevole dottrina; si v.: AA.VV.,
Legal and Diffuse Interests in the European
Legal Order (Liber Amicorum Robert Reich),
Baden Baden 1997; J. BEGOETXEA, N. MACCORMICK, L. MORAL SORIANO, Integration and
Integrità in the Legal Reasoning of the European Court of Justice, in AA.VV., The European Court of Justice (a cura di G. DE BURCA E
J. WEILER), Oxford 2001, 43; M. POIARES
MADURO, We, the Court, Oxford 1999.
15. Per una prospettiva di diritto interno, si
v. O CHESSA, Bilanciamento ben temperato o
sindacato esterno di ragionevolezza? Note sui
diritti inviolabili come parametro del giudizio
di costituzionalità, in Giur. Cost., 1998, 3925.
16. Sulla tutela “multilivello” dei diritti si
v. A. APOSTOLI, La tutela dei diritti fondamentali al di là della Costituzione, in AA.VV., Le
Corti dell’integrazione europea cit., 1; I. VIARENGO, Corte costituzionale, Corte di giustizia
e tutela dei diritti fondamentali in Europa, in
AA.VV., La dimensione internazionale ed
europea cit., 435. Più ampiamente v. pure si
seguenti volumi: L. MONTANARI, I diritti dell’uomo nell’area europea tra fonti internazionali e fonti interne, Torino 2002; A. D’ATENA,
P. GROSSI (a cura di), Tutela dei diritti fondamentali e costituzionalismo multilivello, Milano
2004; P. BILANCIA, E. DE MARCO (a cura di), La
tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti, momenti di stabilizzazione, Milano 2004; S.P. PANUNZIO (a cura di), I diritti fondamentali e le Corti in Europa, Napoli 2005.
17. Sulla libertà di prestazione di servizi ex
art. 49 TCE, si v. CGCE, 16/02/1995, cause riunite da C-29/94 a C-35/94; più ampiamente,
sulla libertà di stabilimento ex art. 43 TCE, si v.
CGCE, 3/10/1990, C-54/88, C-91/88 e C14/89, CGCE, 07/11/2000, C-168/98.
18. Sul tema delle “discriminazioni a rovescio”, si v. L. VEDASCHI, L’incostituzionalità
delle discriminazioni a rovescio: una resa al
diritto comunitario.
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Quale ragionevole
durata?
Una prospettiva europea
*Giudice
del Tribunale
di Como
Luca De Matteis*
1. Introduzione.
Il tempo sta per scadere e le
risposte al problema della durata
dei procedimenti giudiziari civili
e penali in Italia sono improcrastinabili. Non è uno scenario
allettante: troppe volte nel nostro
Paese l’urgenza ha giustificato la
superficialità, se non già l’adozione di scelte profondamente
sbagliate.
Il tempo sta per scadere, in
quanto entro il 1 novembre 2008
il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, sulla base di
quanto deliberato con la Risoluzione interinale CM/ResDH
(2007)2 del 14 febbraio 20071
riprenderà l’esame delle misure
per ridurre la durata dei procedimenti civili e penali al fine di
valutare se vi sia stata, ai sensi
dell’art. 46 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo,
osservanza delle plurime decisioni di condanna della Corte di
Strasburgo nei confronti del
nostro Paese in relazione a tale
ormai “storica” disfunzione.
Nessuna misura è stata presa,
anche in considerazione dell’azzeramento, a seguito delle recenti
elezioni politiche, delle proposte
sul tappeto. I tempi della giustizia
in Italia restano tra i più elevati in
Europa (considerando non solo la
“vecchia” Europa della C.E., ma
anche quella “grande” dei 47 Stati
membri del Consiglio d’ Europa),
costituendo l’imbarazzante rove158
scio della medaglia rispetto alla
storia e alla qualità della nostra
civiltà giuridica.
Senza alcuna pretesa di completezza, si vuole in questa sede
riassumere la natura e la portata
del principio della ragionevole
durata dei processi nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nelle altre Carte internazionali dei diritti che si occupano di giustizia, nonché richiamare schematicamente i risultati
del lavoro che da diversi anni in
Europa si svolge per identificare
le cause del problema e suggerire possibili soluzioni. Pur nella
evidente peculiarità della situazione italiana, credo che questo
excursus possa fornire qualche
utile spunto di riflessione in vista
della formazione di una posizione dell’A.N.M., anche per
rispondere ad una certa “cultura
dell’efficientismo” che non di
rado affiora quando si tratta dei
tempi della giustizia in Italia.
2. La ragionevole durata
nelle fonti internazionali.
Il principio della ragionevole
durata del processo è stato introdotto espressamente a livello normativo per la prima volta nella
Convenzione europea dei diritti
dell’uomo del 1950. In precedenza, si era ritenuto che tale principio potesse ritenersi implicito in
quello di eguaglianza, espresso a
livello internazionale già nella
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Quale ragionevole durata?
Una prospettiva europea
Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo del 1948.
Tuttavia, la menzione esplicita nella CEDU ha fatto sì che,
parallelamente all’elaborazione
dottrinaria sul tema, si sia sviluppato per via giurisprudenziale,
tramite l’azione della Corte europea dei diritti dell’uomo, un
insieme di regole concrete che ha
reso l’affermazione contenuta
nell’art. 6 § 1 CEDU molto più
che un auspicio. Solo sulla scorta di tale elaborazione si è giunti
all’introduzione normativa del
principio a livello nazionale: già
nel 1978 nella Costituzione spagnola (art. 24.2); nell’art. 111
comma 2 della nostra Costituzione, dal 2001.
È però evidente che non si
può parlare di ragionevole durata
dei procedimenti senza confrontarsi con l’elaborazione fatta nel
corso degli anni dalla Corte di
Strasburgo: elaborazione che ha
avuto il merito di impegnarsi per
uno sviluppo armonico delle
decisioni sui singoli casi sottoposti al giudizio della Corte, cercando di apportare con ciascuna
sentenza un mattone alla costruzione di un edificio teorico solido e comprensibile dall’esterno.
3. I criteri elaborati
dalla Corte europea
dei diritti dell’uomo.
In sintesi, la giurisprudenza di
Strasburgo ha individuato, nel
corso della sua evoluzione, un
corpus di principi per i giudizi in
materia di ragionevole durata
che può essere così riassunto2.
3.1. Individuazione
dei momenti iniziali e finali
del computo.
Sotto questo profilo, la Corte
ha legato il dies a quo per il computo della durata del procedimento al momento in cui le
Autorità assumono una responsabilità legale verso il cittadino
per la trattazione di un procedimento. Nel processo civile, tale
momento coincide per lo più con
il deposito in tribunale dell’atto
di impulso del processo; nel processo penale, per contro, l’inizio
del procedimento non necessariamente è legato ad un atto formale
o
all’incriminazione
espressa del sospettato: si ricollega l’inizio del procedimento al
momento in cui il soggetto interessato dalle investigazioni è
ragionevolmente in grado di
sapere che nei suoi confronti le
autorità stanno svolgendo attività
d’indagine (ad es., a seguito di
una perquisizione).
Per quanto riguarda il punto
finale del procedimento, la dizione impiegata è quella del
“momento in cui cessa l’incertezza legale sulla situazione controversa”. Generalmente, ciò
coincide con l’irrevocabilità
della decisione giudiziale. Tutta159
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via, nel caso della giustizia civile, viene computato nella durata
del procedimento anche il tempo
necessario ad ottenere l’esecuzione, anche forzata, della decisione.
Va inoltre evidenziato come
non sempre nel proprio giudizio
la Corte considera unitariamente
l’intero procedimento, preferendo talvolta giudicare separatamente della durata delle singole
fasi processuali.
3.2. Inesistenza
di un parametro temporale
prefissato.
Nell’ambito della cornice così
definita si situa il giudizio della
Corte europea dei diritti dell’uomo in merito al rispetto del parametro della ragionevole durata.
Va subito precisato che la giurisprudenza della Corte non offre
parametri temporali rigidi, neppure divisi per tipologie di procedimento: ogni giudizio fa “storia a sé”, in quanto la Corte di
Strasburgo esamina ogni caso
con le sue particolarità per decidere se in concreto la durata sia
stata ragionevole. Questo modo
di procedere discende dal principio di fondo secondo il quale il
diritto del cittadino è ad un processo di “ragionevole durata”,
cosa ben diversa dal procedimento “il più veloce possibile”:
torneremo più avanti su questa
importante distinzione.
160
Tuttavia, un’analisi della giurisprudenza della Corte porta ad
individuare quelle che potrebbero essere definite “soglie di
attenzione”3: si tratta di durate
complessive, misurate secondo i
parametri iniziali e finali cui si
accennava sopra, al superamento
delle quali la Corte si addentra
con maggior attenzione nell’esame delle circostanze del caso
concreto. In altre parole: al di
sotto di una certa durata, il procedimento può in via di prima
approssimazione dirsi corretto
dal punto di vista del rispetto dell’art. 6 § 1 CEDU; al di sopra di
essa, non è detto che sia stato
violato il principio della ragionevole durata, ma occorre valutare
attentamente i motivi per i quali
si è arrivati a superare la soglia in
questione.
Va da sé che tali standard
variano a seconda della tipologia
di procedimento considerato
(civile, penale, amministrativo).
Due brevi osservazioni sul
punto: in primo luogo, tali standard temporali vanno adattati,
oltre che alla tipologia procedimentale, anche all’oggetto concreto del giudizio. La Corte ha
infatti individuato categorie di
procedimenti ad “oggetto prioritario” rispetto ai quali anche
tempi normalmente considerati
idonei portano alla violazione
del principio della ragionevole
durata. In secondo luogo, dalla
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Quale ragionevole durata?
Una prospettiva europea
mera lettura degli standard in
questione e dal raffronto, anche
superficiale, con l’esperienza
giornaliera di ciascuno di noi,
emerge, per quanto riguarda il
nostro Paese, tutta la drammaticità della situazione che ci troviamo ad affrontare. Si consideri,
ad esempio, che per un procedimento penale di ordinaria complessità viene ritenuta adeguata
una durata di due anni (dal coinvolgimento dell’indagato alla
sentenza definitiva): anche un
confronto superficiale con la
realtà italiana rende evidente la
portata del problema.
3.3. Complessità
del giudizio.
Ciò premesso, passiamo a
vedere quali sono gli elementi
presi in considerazione dalla
Corte per giudicare se un dato
processo si sia o meno svolto in
un tempo ragionevole. Primo
parametro è quello della complessità del giudizio: tale complessità può derivare da fattori
giuridici o fattuali. Sotto il primo
aspetto, vengono presi in considerazione, ad esempio: mutamenti normativi occorsi in pendenza del procedimento; interazioni tra giudizi in diverse sedi,
come ad es. nel caso di pregiudiziali civili, penali, amministrative (es.: C.e.d.u., Djangozov c.
Bulgaria, 8 luglio 2004, nella
quale è stato considerato rilevan-
te per giustificare la cospicua
durata di un procedimento civile
il fatto che questo fosse stato
obbligatoriamente sospeso in
attesa dell’esito di un connesso
giudizio in sede penale); procedimenti complessi per la quantità
delle parti.
Sotto il secondo profilo, la
Corte ha ritenuto rilevanti: la
necessità di interrogare numerosi
testimoni, alcuni di difficile
reperibilità (C.e.d.u., Mitev c.
Bulgaria, 22 dicembre 2004); la
necessità di ricostruire in giudizio fattispecie concrete di particolare complessità (C.e.d.u.,
Akcakale c. Turchia, 25 maggio
2004); dal lato opposto, la difficoltà di concludere le investigazioni in assenza di testimoni
diretti del fatto (Jean-Claude
Boddaert c. Belgio, 17 aprile
1991 (rapporto della Commissione)); la necessità di svolgere in
sede processuale giudizi tecnici
complessi, tramite l’impiego di
periti, o ancora la necessità di
attendere la traduzione di una
corposa mole di documenti
(C.e.d.u., Sari c. Turchia e Danimarca, 8 novembre 2001).
Vi sono poi alcune categorie
di procedimenti per i quali la
Corte esprime una sorta di “presunzione di complessità”: ad es.,
in materia di espropriazione per
pubblica utilità; oppure, per il
settore penale, in casi di reati
finanziari transnazionali o reati
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societari afferenti realtà societarie complesse (es.: C.e.d.u., Wejrup c. Danimarca, 7 marzo
2002).
3.4. Il comportamento
del ricorrente.
La Corte europea prende in
considerazione anche il comportamento delle parti private in seno
alla procedura, affiancandola al
giudizio sulla diligenza impiegata
dall’autorità giurisdizionale. Il
metro di giudizio cambia a seconda della natura del processo. Nel
processo civile si richiede da
parte degli organi giurisdizionali
una “ordinaria diligenza”, valutando dunque in maniera più
attenta il comportamento delle
parti (C.e.d.u., Hervouet c. Francia, 2 luglio 1997); nel processo
penale, per contro, non viene
richiesta alcuna collaborazione
attiva con le pubbliche autorità
del soggetto sottoposto a procedimento (C.e.d.u., Eckle c. Germania, 15 luglio 1982), salvo il caso
in cui un determinato snodo procedimentale richieda la sua partecipazione attiva. Tuttavia, anche
se nessuna cooperazione alla speditezza del processo penale viene
pretesa dall’imputato, allo stesso
tempo il suo comportamento
costituisce fatto oggettivo che
non può andare a detrimento delle
autorità dello Stato, potendo quindi portare ad un giudizio di non
violazione dell’art. 6 § 1 Cedu
162
nonostante la durata del procedimento appaia prima facie eccessiva: così, ad es., nel computare la
durata dei processi viene sempre
detratta la durata di un’eventuale
latitanza dell’imputato (laddove il
sistema processuale non possa
prescindere dalla presenza in giudizio di questi).
3.5. Il comportamento
delle autorità nazionali.
Nel valutare se le autorità
nazionali abbiano usato, nella
gestione del procedimento, la
necessaria diligenza, la Corte
europea richiede ai tribunali
nazionali anche uno sforzo particolare per affrontare le cause di
ritardo non dipendenti dal loro
comportamento. L’accumularsi
di arretrato, per esempio, non
può valere di per sé a giustificare
la durata eccessiva del procedimento, laddove lo Stato chiamato in giudizio non dimostri di
aver effettuato sforzi per ridurre
il divario tra procedimenti esauriti e sopravvenuti (C.e.d.u.,
Buchholz c. Germania, 6 maggio
1981; Zimmermann e Steiner c.
Svizzera, 13 luglio 1983; a contrario, Dumont c. Belgio, 28
aprile 2005). Ancora, lo Stato è
chiamato ad ogni sforzo possibile per ridurre i ritardi derivati da
astensioni dalle udienze degli
avvocati (C.e.d.u., Papageorgiou
c. Grecia, 22 ottobre 1997; Agga
c. Grecia, 25 gennaio 2000).
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Quale ragionevole durata?
Una prospettiva europea
Una misura di diligenza maggiore per assicurare la speditezza
del procedimento viene poi
richiesta in considerazione di
alcune particolarità dei processi
inerenti qualità delle persone
coinvolte o l’oggetto di trattazione: per la gravità delle pene in
relazione alle quali si svolge il
processo (C.e.d.u., Soto Sanchez
c. Spagna, 25 novembre 2003);
nel caso di processi relativi ad
abusi commessi dalle forze di
polizia (Caloc c. Francia, 20
luglio 2000; Krastanov c. Bulgaria, 30 settembre 2004); per le
gravi condizioni di salute della
persona che ha adito il tribunale
(X c. Francia, 31 marzo 1992;
Henra c. Francia, 29 aprile 1998)
o per l’età avanzata. La Corte ha
poi individuato (senza pretesa di
organicità) un gruppo di “priority cases”, nell’ambito dei quali
giudicare in modo particolarmente attento le circostanze di
fatto della domanda proposta alle
autorità nazionali: ad es., processi in materia di licenziamento
illegittimo, recupero di retribuzioni non corrisposte o reintegrazione nel posto di lavoro
(C.e.d.u., Dousaly c. Francia, 23
aprile 1998; Lechelle c. Francia,
8 giugno 2004; Obermeier c.
Austria, 28 giugno 1990); ancora, per il risarcimento dei danni
subiti da vittime di incidenti
(C.e.d.u., Hüseyin Ertürk c. Turchia, 22 settembre 2005).
4. Rimedi risarcitori.
Ciò che preme osservare, conclusivamente, è che il sistema di
protezione dei diritti contemplati
dalla CEDU (e dunque anche
quello alla ragionevole durata
del procedimento del quale qui ci
occupiamo) è strutturato in modo
sussidiario: l’obbligo per il ricorrente avanti la Corte europea di
esaurire i mezzi di ricorso interni
(art. 35) implica che l’intervento
di tale Corte deve essere una
sorta di extrema ratio allorquando i meccanismi interni non sono
in grado di garantire l’osservanza della Convenzione.
Per ciò che concerne la riparazione dei danni derivanti dalla
lesione del principio di ragionevole durata, come noto, a seguito
di plurime sollecitazioni della
Corte e del Consiglio d’Europa
nel nostro Paese è stata introdotta una disciplina specifica tramite la c.d. legge “Pinto” (l. 24
marzo 2001, n. 89), giudicata
dalla Corte europea “rimedio
efficace” ai sensi dell’art. 13
CEDU con la sentenza Brusco c.
Italia, 6 settembre 2001.
Ma non possiamo ritenerci
soddisfatti. Consideriamo, infatti, che anche per il tramite di tale
meccanismo
l’irragionevole
durata del processo non è solo
una questione di denegata giustizia, ma anche di impegno finanziario: prima attraverso le condanne della Corte europea dei
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diritti dell’uomo, poi attraverso i
risarcimenti tramite la legge
Pinto, il nostro Paese duplica da
anni le spese per l’esercizio della
giustizia, prima spendendo per
celebrare processi estenuanti, poi
per risarcire dell’attesa coloro
che sono stati coinvolti in tale
processo.
Anche se secondo la Corte
europea dei diritti dell’uomo la
legge Pinto costituisce rimedio
efficace, ogni soddisfazione di
fronte a questo riconoscimento
dovrebbe arrestarsi a fronte della
semplice constatazione del crescente numero di ricorsi introdotti e di risarcimenti accordati
in base a tale legge. Si cura il sintomo, non la malattia.
Non è un caso se la Commissione Europea per l’Efficacia
della Giustizia (Commission
Européenne pour l’Efficacité de
la Justice – C.E.P.E.J., organo
consultivo costituito in seno al
Consiglio d’Europa)4, nel proprio programma quadro “Un
nuovo obiettivo per i sistemi giudiziali: la trattazione di ciascun
caso entro una cornice temporale ottimale e prevedibile” (approvato con risoluzione CEPEJ
(2004) 19 REV 2 del 13 settembre 2005 – d’ora in avanti per
brevità “Programma quadro”)5
ha osservato che meccanismi di
compensazione nazionali per la
violazione del principio della
ragionevole durata sono “troppo
164
deboli” e non “spingono adeguatamente gli Stati a modificare i
loro processi operativi”.
Ma bisogna andare anche
oltre, e ricordare che (lo fa anche
la CEPEJ nel “Programma quadro”) l’art. 6 CEDU ed i procedimenti riparatori davanti alla
Corte di Strasburgo (prima) e
secondo la legge Pinto (oggi)
sono posti a tutela di uno standard minimo di accettabilità e
non costituiscono certo un massimo virtuoso cui aspirare.
Non solo: occorre anche
ricordare che, secondo la giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo non tutti i
diritti previsti dall’art. 6 si applicano alla vittima del reato: ciò
significa che la persona vittima
di reato è priva di qualsiasi tutela risarcitoria per l’eccessiva
durata del procedimento penale,
a meno che non abbia esercitato
in sede penale anche l’azione
civile.
5. Ipotesi di intervento
nel “Programma quadro”
della C.E.P.E.J.
Proprio il citato “Programma
quadro” della CEPEJ offre molte
indicazioni utili al nostro tema, a
partire da quella contenuta nel
titolo del rapporto che già implica in sé un giudizio di merito.
Due, infatti, sono i poli intorno ai
quali deve muoversi la strategia
di riforma: tempi “ottimali” e
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Quale ragionevole durata?
Una prospettiva europea
tempi “prevedibili”.
Quanto al primo predicato,
occorre evidenziare (lo si era
anticipato supra, § 3.2.) come la
CEPEJ affermi chiaramente che
non è ottimale il tempo più breve
possibile (cfr. Programma quadro, § 13.): deve essere lasciato
alle parti tutto il tempo necessario per un esercizio effettivo del
diritto di difesa. Non solo: la
stessa Commissione mette in
guardia da soluzioni “fasulle”,
ispirate al “diktat of urgency” (§
23.), atte solo a mettere sotto
pressione il giudice chiamato a
decidere su una controversia
senza che questo possa dare alle
circostanze del caso la considerazione che meritano. “Fare presto”, dunque, ma anche “fare
bene”.
Il richiamo alla prevedibilità,
poi, ci ricollega al ruolo assegnato alla ragionevole durata nell’implementazione del rule of
law, di cui si diceva in apertura.
La prevedibilità è un valore forte
nel sistema di garanzie dei diritti
fondamentali incentrato sulla
CEDU: si ricordi che la giurisprudenza di Strasburgo nega la natura di norma giuridica a quelle
previsioni, pur contenute nell’ordinamento positivo, che vengono
applicate in modo incostante e,
appunto, imprevedibile da parte
dei tribunali nazionali.
Quanto alle soluzioni proposte, il “Programma quadro” parte
dall’acquis della Corte di Strasburgo nei giudizi relativi alla
violazione dell’art. 6 CEDU, ma si
propone di andare oltre, osservando – come premesso sopra –
che la norma convenzionale
pone un limite minimo di accettabilità e non può essere considerato un risultato del quale accontentarsi.
La CEPEJ individua tre principi essenziali, tre “elementi di
un piano d’azione per un nuovo
approccio” al problema della
durata dei procedimenti (§§ 26. –
30.):
principio del bilanciamento e
della qualità complessiva, con
riferimento ad un efficiente
impiego delle risorse umane ed
economiche da destinare alla
giustizia;
necessità di dotarsi di strumenti di misura ed analisi definiti in accordo tra tutte le parti interessate;
necessità di conciliare tutti gli
elementi costitutivi del “giusto
processo”, bilanciando l’esigenza di speditezza dei processi con
il rispetto delle garanzie procedurali.
Questi principi vengono poi
specificati attraverso l’indicazione
di diciotto “linee d’azione”, raccomandazioni rivolte rispettivamente agli Stati membri quali “gestori” del servizio giustizia, agli Stati
quali produttori normativi ed infine alle parti del processo.
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Nel primo gruppo rientrano,
in particolare:
la riqualificazione delle risorse umane, sia magistrati che personale amministrativo, dal punto
di vista della formazione, della
dotazione organica e materiale,
della retribuzione;
la definizione, anche attraverso appositi “progetti pilota”, di
standard ottimali di durata per
ciascuna classe di procedimento;
Nel secondo gruppo sono
comprese, ad esempio:
l’invito a ridurre il numero di
casi portati avanti ai tribunali
mediante un uso “appropriato”
degli strumenti di impugnazione,
che possono essere ad accesso
limitato, ovvero sottoposti ad un
filtro, studiando meccanismi di
dissuasione ed addirittura sanzionatori degli “abusi del processo”;
l’attenzione alla qualità delle
decisioni, sia come qualità delle
soluzioni raggiunte, sia come
rispetto delle procedure;
la definizione di un sistema di
priorità nella trattazione dei procedimenti che non sia esclusivamente una gestione dell’urgenza
ma tenga effettivamente conto
della natura degli interessi coinvolti nel processo;
Quanto agli “attori” della giustizia, le raccomandazioni comprendono:
il coinvolgimento di tutti i
soggetti interessati (a partire
166
dalla classe forense) nell’amministrazione dei tribunali;
lo sviluppo della formazione;
lo studio della possibilità di
coinvolgere nella gestione degli
affari giurisdizionali anche personale diverso dai magistrati
(quali, nel sistema tedesco, i
Rechtspfleger).
6. Conclusioni.
Qualche considerazione conclusiva, sulla scia di quanto
esposto sino ad ora.
Appare, in primo luogo, sin
troppo evidente che il problema
della durata dei procedimenti
non ha una singola soluzione, né
può essere affrontato con un coacervo non sistematico di misure.
È invece necessario disegnare un
piano di approccio globale, una
strategia per individuare, per poi
attaccarle contemporaneamente,
tutte le cause del dissesto della
giustizia civile e penale, ponendosi seriamente il problema delle
conseguenze sistemiche che ciascuna scelta potrà avere anche in
relazione alle altre misure prospettate.
Crediamo, altresì, che un progetto di soluzione debba partire
da un presupposto metodologico
che implica già in sé una scelta di
merito: non si può pensare di
diminuire la durata dei procedimenti pretendendo aumenti indiscriminati di rendimento da ciascun magistrato, né aumentando
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Quale ragionevole durata?
Una prospettiva europea
tout court il numero dei giudici e
pubblici ministeri6. È necessario
salvaguardare appieno la qualità
della magistratura, consci della
delicatezza della funzione che
esercitiamo7.
Altri, dunque, sono i nodi che
vanno sciolti prima di poter
ragionare con cognizione di
causa su un eventuale aumento
della pianta organica della magistratura.
In primo luogo, è ormai
imprescindibile una profonda
rivisitazione delle procedure, per
eliminare quegli infiniti bizantinismi che, lungi dal costituire
espressione di autentica garanzia
per le parti, finiscono per trasformare il processo in una specie di
“gioco enigmistico” nel quale il
senso della vicenda umana che
ne costituisce il cuore è presto
perduto.
A tal fine, preziose indicazioni ci vengono proprio dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo: si pensi, ad esempio, alla
copiosa casistica relativa al processo penale contumaciale o nei
confronti degli irreperibili, alla
luce della quale si potrebbe pensare ad una radicale rivisitazione
di questo istituto che avrebbe
non solo la conseguenza di rendere “più sostanzioso” il processo, ma anche un’immediata finalità deflattiva.
Si pensi, ancora, alla giurisprudenza in tema di accesso ai
mezzi di gravame, sulla scorta
della quale si potrebbe ripensare
al principio della libera ed indiscriminata accessibilità ai gradi
superiori di giudizio.
D’altro lato, credo sia ormai
imprescindibile una presa di
coscienza del fatto che la massiccia “giurisdizionalizzazione” dei
conflitti non è compatibile con la
società contemporanea. È essenziale ricondurre l’intervento del
giudice alla sua matrice essenziale di tutela dei diritti fondamentali e di risoluzione delle
controversie di particolare valore
economico e sociale, mediante
un ricorso convinto a metodologie contenziose e non contenziose di risoluzione dei conflitti che
evitino il passaggio all’interno
del circuito giudiziario (ove, tra
l’altro, non sempre gli strumenti
dati al giudicante sono i più idonei per raggiungere un’effettiva
composizione degli interessi ottimale per le parti).
Dobbiamo avere il coraggio
di ammettere che la magistratura
non può occuparsi efficacemente
di tutto e chiedere che il nostro
intervento sia tendenzialmente
limitato ai casi ove effettivamente si può dare alla società nella
quale operiamo un contributo di
qualità.
In questo, credo sia imprescindibile non solo individuare possibili competenze e capacità al di
fuori della magistratura per la
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risoluzione delle controversie, ma
anche aprire un confronto serio
con la classe forense che deve
assumersi la propria parte di
responsabilità nel contribuire a
contenere la “litigation explosion”8: in primo luogo, mediante
una riqualificazione dell’accesso
alla professione, in secondo
mediante un possente sforzo di
tutela e promozione della professionalità dei propri membri, anche
attraverso l’eliminazione di tutti i
meccanismi che, oggi, rendono il
processo (per il difensore) più
conveniente della transazione.
Per quanto ci riguarda, come
Associazione Nazionale Magistrati abbiamo un preciso dovere
di elevare la questione a priorità
168
assoluta nell’agenda del confronto con la politica. E ciò non solo
per la ragione, sin troppo ovvia,
relativa alle conseguenze politiche ed economiche che derivano
al Paese dalla sistematica disfunzione della sua giustizia, ma
anche per noi stessi. Scriveva
Jeremy
Bentham:
“justice
delayed is justice denied”: la giustizia dai tempi infiniti non è giustizia e rende le nostre fatiche
spesso vane, quando non controproducenti per l’individuo e la
società. Chiedere una riforma
radicale della nostra giustizia e
contribuire ad essa con tutte le
nostre forze è anche recuperare il
senso del nostro lavoro: lo dobbiamo dunque anche a noi stessi.
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Quale ragionevole durata?
Una prospettiva europea
Note
1. La Risoluzione interinale (consultabile
all’indirizzo:
http://www.coe.int/t/e/human_rights/execution/02_documents/
IntResLengthProc_%20it.asp#TopOfPage
in traduzione italiana) è stata emanata dal
Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa
nell’ambito dei propri poteri di sorveglianza
sull’esecuzione delle decisioni della Corte
europea dei diritti dell’uomo ai sensi dell’art.
46 § 2 della Convenzione. Va ricordato che il
rispetto delle decisioni della Corte costituisce
parte di quella “collaborazione sincera ed effettiva” richiesta dall’art. 3 dello Statuto agli Stati
membri del Consiglio per il raggiungimento dei
fini di protezione dei diritti fondamentali che ne
costituiscono lo scopo. Ai sensi dell’art. 8 dello
Statuto, in caso di violazioni “gravi” dell’art. 3
uno Stato membro può essere sospeso dai propri diritti di rappresentanza in seno al Consiglio
e soggetto a richiesta di ritiro da parte del
Comitato dei Ministri. Se lo Stato non si ritira,
può essere dichiarato decaduto dal Consiglio
d’Europa.
Va inoltre ricordato che, con l’entrata in
vigore del Protocollo 14 alla Corte europea dei
diritti dell’uomo (per la quale difetta, a tutt’oggi, la ratifica da parte della sola Federazione
Russa), l’art. 46 sarà modificato prevedendo
per l’accertamento delle infrazioni e delle relative conseguenze una vera e propria procedura
contenziosa davanti alla Corte di Strasburgo su
iniziativa del Comitato dei Ministri.
Si rimanda al testo della Risoluzione interinale ResDH(2007)2 anche per quanto riguarda
l’elencazione delle numerose precedenti Risoluzioni con le quali, dapprima dal 1990 al 1996,
poi in via costante dal 2000, il nostro Paese è
stato tenuto sotto osservazione per la questione
della durata dei processi.
2. Tra le tante trattazioni sistematiche e/o
riassuntive della giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo in materia di durata dei processi si vedano: la Relazione dell’Ufficio Studi e Documentazione del C.S.M. n. 310
del 15 giugno 2000, ne La ragionevole durata
del processo, Quaderni del Consiglio Superiore
della Magistratura, anno 2000, n. 113, p. 35 e
ss.; M. Fabri – P. M. Langbroek, Delay in Judicial Proceedings: A Preliminary Inquiry into
the Relation Between the Demands of the Reasonable Time Requirements of Article 6, 1
ECHR and their Consequences for Judges and
Judicial Administration in the Civil, Criminal
and Administrative Justice Chains, Strasburgo,
10 novembre 2003; F. Calvez, Length of court
proceedings in the member States of the Council of Europe based on the case law of the European Court of Human Rights, Strasburgo, 6-8
dicembre 2006; questi ultimi sono consultabili
sul sito http://www.coe.int/t/dg1/legalcooperation/cepej/Delais/default_en.asp. Tutte le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo
sono inoltre consultabili liberamente sul sito
www.echr.coe.int.
3. V. Calvez, Length of court proceedings,
cit., p. 6.
4. Si rimanda al sito della C.E.P.E.J.,
http://www.coe.int/t/dg1/legalcooperation/cepej.
5. Per il testo del Programma quadro v.
http://www.coe.int/t/dg1/legalcooperation/cepe
j/Delais/default_en.asp.
6. Integralmente condivisibile, a tal proposito, quanto affermato dal Prof. G. Verde nella
Prefazione al volume “La durata ragionevole
del processo” (cit. sub nota 2), secondo il quale
non si può affrontare il problema della durata
dei processi aumentando i giudici, che devono
essere una classe selezionata, ma diminuendo i
processi a favore di altri metodi e sedi di risoluzione dei conflitti.
7. Valga come ulteriore esempio di tale
impostazione quanto affermato nel “Rapporto
Woolf” del 21 dicembre 2005 sui metodi di lavoro della Corte europea dei diritti dell’uomo, parte
di un progetto lanciato per affrontare – può sembrare un paradosso – il problema della irragionevole durata dei procedimenti avanti la Corte di
Strasburgo. In seno a tale studio, appare particolarmente significativo (e dal punto di vista di chi
scrive pienamente condivisibile) che gli Autori,
pur evidenziando come sia stato auspicato l’aumento della pianta organica del personale addetto alla Corte, mettano in guardia dal pericolo che
“l’attenzione alla produttività mini la qualità del
lavoro della Corte, e con essa la credibilità del
sistema della Convenzione stessa”. Pertanto, pur
avanzando proposte per razionalizzare l’attività
dei giudici addetti alla Corte, nulla viene detto
circa la necessità di incrementarne la mera produttività in termini numerici. Il rapporto è consultabile all’indirizzo:
http://www.echr.coe.int/Eng/Press/2005/Dec/L
ORDWOOLFSREVIEWONWORKING
METHODS2.pdf.
8. Cfr. J. Chevalier, L’État de Droit, Montchrestien, Coll. Clefs, 4a ed., Paris 2003, 141.
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Un codice
per l’Europa
*Procuratore
della Repubblica
presso
il Tribunale
di Ferrara
Giustizia italiana e standard europei
Rosario Minna*
So che su di noi è calata una
nebbia quasi nera. Ci hanno
sceso da cavallo ma rispondiamo
come noi fossimo e dovessimo
sempre stare sul piedistallo. Con
“Mani Pulite versus Tangentopoli” approdammo a dignità planetaria. Ma, dentro l’uso pubblico
della Storia, fummo epifania
della società civile o noi recitammo lo Stato? È vero, poi, che,
finiti quegli anni, per naturali
gestori della cosa pubblica si
sono proposti i ceti superiori?
Per poter essere se stessa, la
società oggi pensa a se stessa?
Solo noi resistiamo come esseri
normativi, dotati di autocomprensione etica dell’umanità nel
suo complesso? Precipitiamo
verso la depressione – senz’altro
realistica – di farci muovere
come “lavoratori socialmente
inutili”? Introitiamo il silenzio
delle parole perché abitudini e
schemi adatti ad altri tempi continuano a guidarci?
Forse, però, prima di scegliere o di scioglierci dentro questi
nodi, c’è ancora qualcosa da
vedere e, magari, da fare.
Da un bel po’ di tempo le Istituzioni si occupano di “ripartizioni di funzioni e risorse”, con
cui si relativizza la sovranità ma
si tiene desto il consenso. Il Parlamento governa con una Finanziaria che ogni anno stampa
3/4 mila articoli, di cui qualcuno
cesella anche il c.p.p. per una
170
qualche utilità di un qualcuno. Il
Governo legifera con una selva
sempre mutante di decreti legislativi, che quasi mai contengono
principi fondamentali, ma, spesso, ricordano le circolari ministeriali di Giolitti. Alla fine però: 1)
nel gennaio 2008 la Corte dei
Conti, con grazia e finezza giuridica di livello alto, spera che in
futuro un po’ di responsabilità e
di controlli effettivi tornino dentro la mano pubblica; 2) a marzo
2008 su Corsera protestano gli
imprenditori perché, anche dopo
la legge-obiettivo del 2001, per
passare nelle opere pubbliche dal
progetto preliminare a quello
definitivo ci vogliono 3 anni e 7
mesi rispetto ai 4 anni di prima,
mentre le ineffabili/incommensurabili varianti in corso d’opera
ritardano le realizzazioni del
43%. Ma non avevano detto che
Istituzioni serie ed efficienti
domavano le mafie? O il neofeudalesimo di dominanti poteri
forti-locali è più globale?
Fingiamo, soprattutto, noi di
non sapere che ci è franato
addosso il fallimento del nuovo
codice di procedura penale.
Mentre gli articoli da 40 a 50 del
codice penale sono “principi
attuativi” che inglobano anche
bilanciamenti di interessi, il
c.p.p. dell’89 non possiede
semafori perché non ha una linea
di politica criminale. È giusto un
processo dove, ai sensi dell’art.
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Un codice
per l’Europa
444 c.p.p. come novellato nel
2003, l’imputato può impugnare
una condanna che gli riduce
della metà una pena fino a 7 anni
e la vittima viene semplicemente
estromessa dal processo?
Senza meraviglia, cioè, le
vicende delle norme procedurali
sanciscono al massimo un “ordine pubblico processuale” dove
“diritto penale dell’amico” e
“diritto penale del nemico” bellamente convivono; mentre noi
stiamo al palo e in silenzio.
Epperò, il presente è già ricchissimo di futuro. Da anni ed
anni l’Europa con minute direttive domina le nostre produttività
economiche ma anche le nostre
mense: un po’ più di Unione,
magari, aiuterebbe nell’attuale,
vischiosissima, crisi dell’economia globale? Sul piano del diritto il nuovo Vecchio Continente
trascina tutti contro la criminalità
transnazionale ma intanto sforna
una quantità incredibile di direttive che, a loro volta e soprattutto in Italia, si sminuzzano in una
caterva quasi incontrollabile di
leggine: gli Stati, cioè e noi
avanti a tutti, preferiscono
abbondare in sanzioni penali che
non costano nulla, mentre Loro
non conviene elaborare mezzi di
tutela extrapenali capaci di proteggere a buon livello i beni della
collettività; sarebbe una trasformazione della cultura giuridicopenale degli Stati europei; e
anche una diminuzione dei singoli poteri, o dei poteri dei singoli.
Invece, la stessa Unione va
molto oltre. Se già nel 1971 il
Consiglio dei Ministri d’Europa
immagina un codice penalemodello, poi nel 1995 la Commissione (unico, vero organo
sopranazionale) incarica un
gruppo di giuristi di stilare,
soprattutto per la protezione
degli interessi finanziari dell’Unione, un “Corpus iuris”: anzi,
tra il 1997 e il 2000 ne appaiono
due (molto buone) edizioni. Al
che e del tutto in proprio, gli
scienziati europei formano gli
“Europadelikte” sopra il diritto
penale economico, che poi è
oltre la metà di qualsiasi sistema
penale; ma ne è anche la parte
più nuova quando proprio l’Europa vara “il principio di precauzione” che tutela beni superindividuali come l’ambiente e la
salute. Ma, e ben al di là di singole fattispecie, Europadelikte
contiene 22 “norme di parte
generale” e il Corpus 8. Non per
caso, allora, giuristi europei sono
in primissima linea nello scrivere
gli Statuti della Corte Penale
Internazionale inventata sopra i
crimini contro l’umanità nel
1998 a Roma; e qui le situazioni
generali sono almeno 12 (artt.
21-33).
Dunque: un Codice Penale
per l’Europa, con una ricca parte
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generale e con una parte speciale
magari limitabile a 50/100 reati,
è tutto a portata di mano; soprattutto perché il Parlamento Europeo che eleggeremo nel 2009
vedrà molto aumentati i poteri
decisionali. In particolare: il
codice penale europeo sarebbe il
vero, e agevole, supporto di quel
Mandato d’Arresto europeo che
pure abbiamo ma stenta a decollare.
È sogno/illusione/utopia? È
vero che tutto ciò che non serve a
niente possiamo chiamarlo filosofia?
No: è una scelta.
Dalla Dichiarazione sui Diritti del 1950, e passando per oltre
una dozzina di Patti Aggiuntivi,
fino alla Carta di Nizza gli europei siamo trainanti per la positivizzazione dei diritti fondamentali: facendo perno su un ineliminabile
“principio
di
eguaglianza” spalanchiamo la
porta sul domani come un processo di democratizzazione permanente.
Non abbiamo grandi previsioni per il nostro futuro anche
immediato. Vogliamo restare
muti su un piedistallo tarlato e
prossimo a franare? E se cercassimo di correre come “attori” là
dove nell’agenda politica il presente passa al futuro? In base
all’europeo “criterio di sussidiarietà”, il meglio dei vari diritti
penali salirebbe sopra il Conti172
nente, da dove tornerebbe dentro
i singoli Stati nazionali, non si sa
quanto amici o nemici del diritto
ma comunque obbligati ad attuare imperative norme europee.
Allora: la ANM (alma mater
e talvolta matrigna per ciascuno
di noi) prenda tre o quattro soggetti (e li abbiamo in abbondanza), chieda loro di scrivere, dentro 60 righe di e-mail, una petizione al Parlamento di Strasburgo per ottenere il Codice Penale
Europeo. Su questa base apriamo
un confronto con l’Università,
con la Corte dei Conti, con l’Ordine degli Avvocati, con chi ci
vuole e sa stare.
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Analyse et propositions
sur la méthode de collecte des
données par la CEPEJ (presentato
al Convegno di MEDEL, 1/2
febbraio 2008, Palermo)
*Presidente
di sezione
del Tribunale
di Palermo
Giustizia italiana e standard europei
Gioacchino Natoli*
1. Introduction
En décembre 2004, la Commission européenne pour l’efficacité de la Justice (CEPEJ) a
adopté le rapport “Systèmes judiciaires européens: faits et chiffres”.
Il s’agissait d’une première en
Europe.
Ce document était le résultat
d’un exercice expérimental, basé
sur un questionnaire d’évaluation
des systèmes judiciaires, visant à
obtenir des données quantitatives
et qualitatives comparables, concernant l’organisation et le fonctionnement des systèmes judiciaires dans 40 des 46 Etats membres
du Conseil de l’Europe.
Malgré les limites et les lacunes inhérentes à son caractère
expérimental, le rapport a montré
qu’un tel exercice d’évaluation
est possible et surtout qu’il est
utile, puisqu’il fournit des
données dans des domaines
essentiels pour la compréhension
du fonctionnement des systèmes
judiciaires européens.
Le rapport a été étudié par les
autorités judiciaires de nombreux
Etats membres pour mettre en
évidence les lacunes de leur propre système et pour élaborer des
réformes.
Le rapport 2006 est le résultat
d’un nouveau processus d’évaluation et il présente les résultats
d’une enquête menée dans 45
Etats européens.
174
Ce processus a pour but de
définir progressivement un noyau
de données-clé, qui devront être
collectées régulièrement et
traitées de la même façon dans
tous les Etats membres.
Il devrait ainsi permettre de
faire ressortir des indicateurs
communs sur la qualité et l’efficacité du fonctionnement de la justice dans le Conseil de l’Europe et
d’évaluer l’évolution de la situation d’un exercice à l’autre.
Nous tous croyons à l’importance de ce projet sur l’efficacité
de la justice, mais il faut adopter
beaucoup de précautions et de
précisions surtout avant de parler
de «qualité de la justice».
En effet, donner une définition
de ce concept est beaucoup plus
difficile, parce que la notion de
«qualité» est la synthèse complexe de facteurs nombreux, relevant de plans différents et qui ne
peuvent pas tous être saisis par les
mêmes outils.
C’est pourquoi la CEPEJ a
choisi de mettre en avant la diversité des constituants qui font la
«qualité de la justice ».
Ceci pourrait se traduire par
l’idée que cette «qualité» est comparable à un triangle, dont les
sommets sont l’efficacité, l’éthique et la légitimité.
Et alors seulement les systèmes judiciaires nationaux qui se
situeront à l’intérieur du triangle
ainsi délimité seront conformes à
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Analyse et propositions
sur la méthode
de collecte des données
par la CEPEJ
une «justice de qualité».
Ces trois facteurs principaux
sont unis entre eux par des interactions réciproques, qui marquent leurs rôles convergents
dans la construction d’une <justice de qualité>.
L’objectif sera de fournir aux
responsables des juridictions des
tests pouvant être largement utilisés et diffusés.
Donc, nous désirons que
MEDEL – comme partenaire de
la CEPEJ – puisse suggérer des
modifications à la collecte des
données-clé pour les prochains
rapport (à partir du rapport 2008)
au but d’améliorer l’évaluation de
l’efficacité des divers systèmes
judiciaires.
L’autre objectif est de relever
des spécificités nationales, qui
puissent expliquer tout à fait certains résultats ou certains détails
différents de chaque système.
2. Les difficultés objectives
Le rapport 2006 a écrit que
comparer des données quantitatives de pays différents (avec des
situations judiciaires particulières) est une tâche très difficile, qui
doit être appréhendée avec précaution, tant par les experts au
moment de la conception du rapport, que par le lecteur pour comprendre le fonctionnement des
systèmes judiciaires européens.
La CEPEJ a donc créé, en
2005, un Groupe de travail sur
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l’évaluation des systèmes judiciaires afin de réviser le questionnaire à la lumière des conclusions
de l’exercice pilote 2004 pour
assurer la collecte et le traitement
de nouvelles données et pour préparer le rapport 2006 et les suivants.
Le principal objectif de la révision de la grille est d’élaborer un
questionnaire utilisable, de façon
systématique, pour les futures
exercices d’évaluation.
Cette finalité est très importante et – comme j’ai déjà dit – il faut
faire encore beaucoup d’efforts
pour améliorer la collecte des
données futures (à partir de 2008)
par des intégrations bien mirées,
parce que les résultats bruts doivent être pondérés par plusieurs
ratios pour prendre sens.
3. Le possible
développement
des prochains rapports
En particulière, par exemple, il
faut estimer dans le prochain future – pour mieux quantifier les
performances de chaque système
– le ratio entre le montant total du
budget affecté au fonctionnement
des tribunaux et du ministère
public dans chaque pays et le
numéro global des affaires (pénales et civiles) auxquelles les tribunaux et les parquets doivent donner une réponse de justice.
En effet, en cette perspective,
les nouveaux résultats réalisables
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peuvent devenir très différents.
En Italie, par exemple, le ratio
entre le budget global et le numéro des procédures (civiles et pénales) destiné aux tribunaux colloque le pays aux premières positions.
Au contraire, le seul ratio brut
entre le budget global national et
les procédures décidées (ou autrement terminées) est bien pire.
Les chiffres portées par le
Rapport 2006 (tableau 2) pourront expliquer mieux la question.
Giustizia italiana e standard europei
Tableau 2 - Budget allouée à l'ensemble des tribunaux en 2004
Pays
Budget annuel total
consacrée à l'ensemble
des tribunaux (sans le
ministeère public et
l'aide judiciaire)
Budget annuel total
consacreé à l'ensemble
des tribunaux (sans le
ministèere public et
l'aide judiciaire) par
habitant
Budget annuel total
consacreé à l'ensemble
des tribunaux (sans le
ministeère public et
l'aide judiciaire) par
habitant en pourcentage
du PIB per capita
Budget annuel total
consacrée à l'ensemble
des tribunaux (sans le
ministeère public et
l'aide judiciaire) par
habitant en pourcentage
du salaire moyen brut
0,14%
10 486 065 Euro
3,4 Euro
0,18%
Andorre*
4 447 193 Euro
57,8 Euro
0,26%
0,39%
Azerbaïdjan
6 915 057 Euro
0,8 Euro
0,10%
0,08 %
Bosnie-Herzégovine
59 262 904 Euro
15,5 Euro
0,89 %
0,33 %
Bulgarie
48 900 313 Euro
6,3 Euro
- %
0,26 %
Croatie
159 988 552 Euro
36,0 Euro
0,58 %
0,38 %
Chypre
17 997 698 Euro
26,1 Euro
0,36 %
0,22 %
Réepublique tcheèque
241 292 690 Euro
23,6 Euro
0,28 %
0,35 %
Danemark
155 000 000 Euro
28,7 Euro
- %
- %
20 700 000 Euro
15,3 Euro
0,23 %
0,27 %
Albanie
Estonie
211 636 000 Euro
40,4 Euro
0,14 %
0,12 %
2 257 981 000 Euro
36,3 Euro
0,14 %
0,09 %
7 206 338 Euro
1,6 Euro
0,17 %
0,16 %
276 563 900 Euro
27,4 Euro
0,34 %
0,39 %
Islande
9 400 000 Euro
32,0 Euro
0,09 %
0,08 %
Irlande
97 991 000 Euro
24,3 Euro
0,07 %
0,09 %
2 749 944 000 Euro
47,0 Euro
0,20 %
0,21 %
21 074 355 Euro
9,1 Euro
0,19 %
0,25 %
8 611 142 Euro
248,9 Euro
0,23 %
0,33 %
38 045 065 Euro
11,1 Euro
0,21 %
0,28 %
8 679 000 Euro
21,6 Euro
0,22 %
0,19 %
Moldova
26 015 100 Euro
7,7 Euro
1,34 %
0,90 %
Monaco *
3 020 010 Euro
100,6 Euro
-%
-%
Montéenéegro
6 791 731 Euro
10,9 Euro
0,52 %
0,30 %
Pays-Bas
762 607 000 Euro
46,8 Euro
0,16 %
0,15 %
Norvèege
164 000 000 Euro
35,6 Euro
0,08 %
0,09 %
Pologne
813 729 185 Euro
21,3 Euro
0,41 %
0,34 %
Roumanie
117 961 263 Euro
5,4 Euro
0,20 %
0,22 %
1 545 651 802 Euro
10,8 Euro
0,31 %
0,45 %
Serbie
70 207 781 Euro
9,4 Euro
0,42 %
0,27%
Slovaquie
79 339 027 Euro
14,7 Euro
0,24 %
0,29 %
Sloveénie
111 500 000 Euro
55,8 Euro
0,43 %
0,41 %
Espagne*
2 231 531 310 Euro
52,0 Euro
0,27 %
0,21 %
Suèede
463 687 163 Euro
51,3 Euro
0,18 %
0,16 %
Angleterre & Pays
de Galles (RU)
429 000 000 Euro
8,1 Euro
0,03 %
0,02 %
93 301 917 Euro
18,4 Euro
0,07 %
0,05 %
Finlande
France
Geéorgie
Hongrie
Italie
Lettonie
Liechtenstein
Lituanie
Malte
Feédéeration de Russie
Ecosse (RU)
*budget estimée
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Analyse et propositions
sur la méthode
de collecte des données
par la CEPEJ
Eh bien, en comparant seulement des pays homogènes pour
caractéristiques sociales et juridiques, il faut dire que le budget
annuel global consacré en Italie à
l’ensemble des tribunaux est égal
à euro 2,75 milliards. La France
destine au même but euro 2,26
milliards et l’Espagne euro 2, 23
milliards (l’Allemagne, le Portugal et la Grèce n’ont pu fournir le
chiffre du budget consacré aux
tribunaux: voir note 3).
L’Italie, donc, est située à la
première place.
Au contraire, en face de
5.378.221 affaires civiles et
pénales existantes en Italie (avec
un ratio de dépense de 511 euro
pour chaque dossier), la France
enregistre 4.353.330 affaires
civiles et pénales (ratio 519 euro)
et l’Espagne 7.047.092 affaires
civiles et pénales (ratio 317
euro).
L’Espagne, donc, montre le
meilleur résultat par ratios pour
chaque dossier, avec un investissement inférieur à celui-là de l’Italie et de la France.
Mais il y a un petit problème
dans cette acte récognitif: parce
que, en effet, le montant des
affaires civiles italiennes ne
comprends pas les données statistiques regardantes la matière
fiscale et tributaire, qui en Italie
(mais – je pense – aussi dans
autres pays) n’a rien à voir avec
la magistrature ordinaire.
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3.1 Les affaires civiles
et administratives traitées
par le tribunaux
Dans le tableau suivant le
nombre total d’affaires civiles
reçues par les tribunaux, ainsi
que les décisions, les affaires
pendantes, les durées et les
appels sont présentés.
Toutefois les données dans
ces tableaux ne sont pas facilement comparables, car certains
pays ont défini de manière différente une affaire civile.
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Tableau 37 - Nombre de proceédures pour des affaires civiles et administratives en 2004
Pays
Q68 Nombre total
d'affaires civiles
devant les tribunaux
(contentieuses et
non contentieuses)
Q69-1 Nouvelles
affaires civiles et
administratives
contentieuses
(1eère instance)
pour
100.000
habitants
Q69-2
Q69-3 %
Deécisions des deécisions
au fond
ayant fait
l'objet d'un
appel à une
instance
supeérieure
Q69-4
Affaires
pendantes
au 1 janvier
2005
Q69-5 %
d'affaires
pendantes
de plus de
3 ans
Albanie
41 755
24 960
813
-
9,0
3 386
0,0
Andorre
3 765
3 070
3 993
1 100
1,9
1 426
1,3
101 703
101 703
3 168
84 851
4,6
5 927
4 807 881
818 213
9 970
44 169
32,2
177 106
53 249
53 249
638
38 252
21,9
4 616
Belgique
700 709
694 986
6 653
733 890
5,1
Bulgarie
680 742
573 399
7 388
542 417
Croatie
417 223
160 790
3 618
Arméenie
Autriche
Azerbaïdjan
338 159
29 043
4 212
31 220
285 469
2 793
316 367
141 486
126 696
2 347
Estonie
37 781
25 301
1 873
Finlande
176 171
9 460
181
3 390 413
1 779 344
13 755 061
n.r.
Hongrie
Réepublique tcheèque
68 852
237 749
1 209 659
Chypre
1,5
1,0
32 679
20,0
171 454
5,9
2,0
35 308
25 682
9,3
11 826
9 715
24,6
5 682
4,0
2 862
1 368 181
12,8
1 490 000
12,0
3 083 980
3 738
1 375 938
23,4
1 510 916
168 651
1 525
113 748
00,0
34 087
635 000
165 027
1 634
86 965
25,2
76 203
1,4
Islande
25 664
1 296
441
0,9
728
0,0
Irlande
135 510
130 391
3 228
7 716
19,0
3 944 961
3 600 526
6 159
1 156 045
21,8
4 087 311
116 808
59 156
2 551
44 491
6,6
20 720
831
416
1 202
89
152 132
152 132
4 441
149 646
5,0
12 079
4 315
948
18 931
n.a.
5 858
5 858
1 455
56 401
52 414
1 548
42 124
950
748
2 492
860
n.r.
15 462
2 492
11 996
1 131 810
902 980
5 542
896 700
Danemark
France
Allemagne
Grèece
Italie
Lettonie
Liechtenstein
Lituanie
Luxembourg
Malte
Moldova
Monaco
Montéenéegro
Pays-Bas
Norvèege
Pologne
15,7
6 692
n.a.
20,0
1 091
21,7
3 466
8,4
0,0
292
13 944
12,0
7 751
3 045
1 201 149
17,8
498 955
628 170
5 966
524 684
5 321
933 854
Feédéeration de Russie
6 334 000
5 852 000
4 079 5 019 000
Serbie
7756 758
687 431
Slovaquie
7228 755
238 662
4 420
Sloveénie
550 470
25 335
1 268
18 971
1 862 966
826 835
1 926
188 246
9 168
461 589
Suèede
69 721
43 539
482
Turquie
2 116 746
1 391 095
1 955
Ukraine
1 873 438
2 031 123
4 296
Angleterre & Pays de
Galles (RU)
1 770 056
1 597 123
3 011
61 824
n.r.
28 062
1 641
1 641
178
n.a.
33,0
13 450
1 153 187
Irlande du Nord (RU)
n.a.
14 277
1 162 480
628 170
Espagne
1 779
13 450
1 353 749
1,4
154
7 602 495
Roumanie
Portugal
7,6
1 325 662
247 337
5,9
485 000
0,8
23,7
225 555
n.a.
12,0
226 462
15,2
21,2
44 418
31,8
17,5
578 209
4,8
1 081 777
26 151
671 915
224 325
2,0
9 364
3,9
18-12-2008
16:06
Pagina 179
Analyse et propositions
sur la méthode
de collecte des données
par la CEPEJ
Commentaires
(seulement pour les pays
définis homogènes)
France:
- Q 69-1: sont comprises les
affaires au fond litigieuses (contentieuses uniquement) des tribunaux de grande instance, tribunaux d’instance, juges de proximité, conseillers prud’homaux,
tribunaux de commerce et tribunaux des affaires de sécurité
sociale; ne sont pas comptés les
ordonnances sur requête et les
référés. Pour les mineurs sont
comptés les mineurs en danger
devant le juge des enfants et les
familles faisant l’objet d’un suivi
social.
- Q 69-2: comprend toutes les
décisions qui mettent fin à l’affaire en statuant sur le fond (hors
référés et ordonnances sur requête et hors radiations, jonctions,
etc.).
- Q 69-3: le taux de recours
moyen calculé toutes juridictions
confondues n’a jamais été donné
et va mélanger des taux aussi
différents que 4,6 % pour les tribunaux d’instance et 56,9 %
pour les prud’hommes.
- Q 69-5: pas d’information
sur les stocks d’affaires de plus
de 3 ans d’âge à l’exception des
tribunaux de grande instance.
Allemagne: Le nombre total
d’affaires comprend environ 9
100 000 procédures accélérées
pour le recouvrement des créan-
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
ces incontestées qui sont, pour la
plupart, examinées automatiquement par traitement informatique. (automatisiertes Mahnverfahren).
Grèce: Nombre total de nouvelles affaires civiles: 168 651;
nombre total de décisions rendues: 113 748; toutes les décisions ont fait l’objet d’un appel.
Pour 34 087 nouvelles affaires,
les décisions ont été rendues après
2004. Il n’y a pas d’affaires pendantes depuis plus de trois ans
parce que la loi ne le permet pas.
Il n’est pas possible d’estimer la
durée moyenne. Les données sur
le nombre d’affaires civiles,
administratives et pénales ne concernent que le parquet du Tribunal de première instance d’Athènes et de tribunal administratif de
première instance d’Athènes.
Italie: Q 69-3: estimation.
3.2 Les affaires pénales
traitées par les tribunaux
Comme évident, seule une
petite partie des affaires pénales
est portée par le ministère public
devant le tribunal.
Dans le tableau suivant des
chiffres généraux sont présentés
pour le nombre d’affaires pénales reçues par les tribunaux.
Toutes les données doivent
être traitées avec précaution et
peuvent seulement être utilisées
dans un but illustratif, pour montrer la charge d’affaires des tribu179
Giustizia italiana e standard europei
Impaginato 2-2008
Impaginato 2-2008
18-12-2008
16:06
Pagina 180
Giustizia italiana e standard europei
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
naux.
Il doit être noté que la durée
générale des procédures a été
incluse comme une indication,
mais ne peut être utilisée à des
fins comparatives, étant donné
les disparités entre les périodes
de la procédure prises en compte.
Tableau 40 - Nouvelles affaires peénales devant les tribunaux en 2004 (question 73)
Pays
Q73-1
Nouvelles
affaires
péenales
pour
100.000
habitants
Q73-2
Décisions
judiciaires
Q73-3
Q73-4
Q73-5 %
Personnes Personnes des deécisions
condamneéesacquittéees ayant fait
l'objet d'un
appel à une
instance
supeérieure
Q73-6
Affaires
pendantes
au 1 janvier
2005
Q73-7 %
d'affaires
pendantes
de plus de
3 ans
Albanie
9 181
299
7 068
6 379
303
38,0
2 113
-
Andorre
2 319
3 017
911
1 656
1420
-
-
-
Arméenie
4 651
145
3 780
4 881
6
33,3
547
-
Autriche
91 152
1 111
50 723
-
-
8,8
15 695
2,4
Azerbaïdjan
13 838
166
10 775
13 353
6
18,6
1 305
-
Belgique
32 437
311
-
-
-
-
-
-
Bulgarie
67 537
870
58 377
57 383
2 953
-
28 117
-
Croatie
33 931
764
-
-
-
-
-
-
Chypre
81 948
11 884
80 608
68 536
13 412
0,3
32 058
0
10,86
Réepublique tcheèque
Danemark
Estonie
79 012
773
94 024
68 443
7 456
-
5 403
134 647
2 495
131 298
131 298
-
3,0
42 780
-
8 622
638
8 412
10 060
248
21,0
2 181
3,8
6
67 298
1 285
66 533
54 018
3 486
12,4
17 380
France
962 917
1 549
1 086 651
1 115 823
47 800
-
368 818
-
Allemagne
910 548
1 104
433 406
442 356
37 243
14,0
313 989
0,63
Grèece
205 534
1 859
-
-
-
-
-
-
Hongrie
138 433
1 371
103 041
98 976
4 490
10,6
51 761
1,61
Islande
8 563
2 917
8 105
2 612
81
2,0
761
0
Irlande
360 334
8 919
-
-
-
-
-
-
1 433 260
2 452
1 311 549
-
-
-
1 254 003
-
12 167
525
12 295
13 222
209
17,2
4 475
1,9
Finlande
Italie
Lettonie
Liechtenstein
Lituanie
Luxembourg
Moldova
Monaco
Montéenéegro
1 429
4 130
1 293
-
-
-
321
-
17 592
514
17 364
17 882
458
26,0
3 493
-
-
-
11 477
-
-
-
2 956
-
12 774
377
13 046
12 751
338
4,6
2 799
-
617
2 055
700
796
30
10,0
40
-
5 190
836
3 459
3 000
595
32,3
1 731
5,1
-
-
-
133 218
126 174
6 353
-
-
16 896
367
16 343
-
-
8,0
5 264
-
Pologne
548 136
1 436
564 196
500 799
13 070
18,4
213 277
2,8
Portugal
116 344
1 105
99 747
69 798
35 105
-
170 008
-
Roumanie
416 581
1 922
353 945
76 198
27 816
-
60 633
-
1 059 000
738
677 000
816 000
9 000
19,8
155 000
-
105 389
1 406
56824
-
-
25,0
48 565
-
26 939
499
26 446
26 804
1 223
17,0
17 330
9
26,5
Pays-Bas
Norvèege
Feédéeration de Russie
Serbie
Slovaquie
14 529
727
16 008
7 974
1 713
-
20 904
5 184 126
12 074
415 313
-
-
7,0
751 472
-
Suèede
68 555
759
-
-
-
12,9
25 827
2,6
Turquie
1 778 875
2 500
2 337 748
1 091 358
485 253
-
1 056 754
-
Angleterre & Pays de
Galles (RU)
2 022 604
3 813
1 599 448
1 548 500
50 948
12,7
28 198
0
Sloveénie
Espagne
180
18-12-2008
16:06
Pagina 181
Analyse et propositions
sur la méthode
de collecte des données
par la CEPEJ
Commentaires
(seulement pour les pays
définis homogènes)
France:
- Q 73-1: 517.245 crimes et
délits, 445. 672 contraventions,
dont 5e classe 119. 622
- Q 73-2: décisions judiciaires
(jugements
et
arrêts)
1.086.651dont 518. 699 crimes
et délits, 567. 952 contraventions
dont 5ème classe 149. 789;
- Q 73-3: 566. 919 crimes et
délits, 548. 904 contraventions,
dont 5e classe 143. 953
- Q 73-4: dont 31.110 crimes
et délits, 16. 690 contraventions
dont 5e classe 4 403
- Q 73-5: affaires pendantes
au 1er janvier 2005 (hors tribunaux pour enfants) 368. 818,
dont tribunaux de police et juridictions de proximité 221. 917
(hors tribunaux pour enfants)
Grèce: les données sont celles transmises par le parquet
auprès du Tribunal de première
instance d’Athènes et le Tribunal
administratif de première instance d’Athènes.
Italie:
- Q 73-1: 1. 343. 481 tribunaux, 89. 779 tribunaux de paix
(total 1. 433. 260)
- Q 73-2: 1. 231. 499 tribunaux, 80. 010 tribunaux de paix
(total 1. 311. 549)
- Q 73-6: 1. 196. 156 tribunaux, 57. 847 tribunaux de paix
(total 1. 254. 003).
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
4 - Le numéro des juges
Un autre critère utile d’évaluation est certainement le numéro
des juges (professionnels ou non)
employés dans chaque pays, parce
que ce montant agit beaucoup sur
le budget national (en Italie, p. e.,
environ pour le 65%).
Dans la grille de la CEPEJ,
trois types de juges sont définis.
En général, un juge est défini
comme une «personne chargée
de rendre ou de participer à une
décision judiciaire ».
Cette définition doit être envisagée dans le contexte de la Convention Européenne des Droits
de l’Homme et la jurisprudence
de la Cour.
En particulier: “le juge tranche, sur la base de normes de
droit et à l’issue d’une procédure
organisée, toute question relevant de sa compétence”.
Les juges professionnels sont
décrits comme «ceux qui ont été
formés et qui sont rémunérés
comme tel (et où leur principale
fonction est de travailler comme
un juge)».
A côté des juges professionnels, la grille de la CEPEJ définit
deux autres catégories de juges, à
savoir :
– les juges professionnels qui
siègent sur une base occasionnelle (et qui sont payés comme
tel) ;
– et les juges non professionnels.
181
Giustizia italiana e standard europei
Impaginato 2-2008
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La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
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Les juges non professionnels
sont surtout chargés du traitement des affaires pénales. Ils
interviennent également dans les
affaires de droit du travail et de
droit commercial.
Dans certains pays (France,
par exemple) les juges non professionnels siègent dans divers
tribunaux spécialisés.
Les différentes catégories de
juges figurent au suivant tableau.
Commentaires
Tableau 30 - Types et nombres de juges en 2004
Pays
Giustizia italiana e standard europei
Pagina 182
Q36 Juges
Q37 Juges
professionnels à temps professionnels siéegeant
plein (etp)
occasionnellement
Nombre
pour
100.000
habitants
Nombre
Q38 Juges non
professionnels
(lay-judges)
pour
100.000
habitants
Nombre
Nombre de juges
non professionnels
(lay judges) par juge
professionnel
pour
100.000
habitants
Albanie
383
12,5
n.a.p.
-
n.a.p.
-
-
Andorre
22
28,6
2
2,6
n.a.p.
-
-
179
5,6
n.a.p.
-
n.a.p.
-
-
1 696,5
20,7
n.a.p.
-
n.r.
-
-
338
4,0
n.r.
-
n.r.
-
-
2 500
23,9
n.a.p.-
-
3 749
35,9
1,50
Bosnie-Herzégovine
690
18,0
12
0,3
362
9,4
0,52
Bulgarie
n.r.
-
1751
22,6
n.r.
-
-
1907
42,9
n.a.p
-
6 272
141,1
3,29
96
13,9
n.r.
-
n.r.
-
-
2 878
28,2
n.a.p.
-
7 872
77,0
2,74
Arméenia
Autriche
Azerbaïdjan
Belgique
Croatie
Chypre
Réepublique tcheèque
Danemark
368
6,8
n.a.p.
-
n.a.
-
-
Estonie
245
18,1
n.r.
-
1 955
144,7
7,98
Finlande
875
16,7
n.r.
-
3 700
70,7
4,23
6 278
10,1
213
0,3
3 299
5,3
0,53
406
9,0
n.r.
-
n.r.
-
-
20 395
24,7
n.r.
-
100 000
121,2
4,90
Grèece
2 200
19,9
n.a.p.
-
n.a.p.
-
-
Hongrie
2 757
27,3
n.a.p.
-
2 921
28,9
1,06
Islande
47
16,0
n.a.p.
-
n.r.
-
-
Irlande
130
3,2
n.a.p.
-
n.a.p.
-
-
6 105
10,4
n.r.
-
8 077
13,8
1,32
384
16,6
n.r.
-
4 058
175,0
10,57
17
49,1
1
2,9
16
46,2
0,94
Lituanie
693
20,2
n.a.p.
-
n.a.p.
-
-
Luxembourg
162
35,6
n.r.
-
127
27,9
0,78
-
France
Georgie
Allemagne
Italie
Lettonie
Liechtenstein
Malte
35
8,7
n.a.p.
-
n.a.p.
-
Moldova
415
12,3
n.r.
-
n.r.
-
-
Monaco
18
60,0
14
46,6
118
393,1
6,56
Montéenéegro
242
39,0
n.a.p.
-
544
87,7
2,25
2 004
12,3
900
5,5
n.a.
-
-
501
10,9
n.r.
-
n.a.
-
-
Pologne
9 766
25,6
n.a.p.
-
43613
114,2
4,47
Portugal
1 754
16,7
n.a.p.
-
676
6,4
0,39
Roumanie
4 030
18,6
n.a.p.
-
170
0,8
0,04
29 685
20,7
n.a.p.
-
n.a.p.
-
-
16
53,9
4
13,5
n.a.p.
-
-
Serbie
2 418
32,2
n.r.
-
n.a.
-
-
Slovaquie
1 208
22,4
n.a.p.
-
2 747
50,9
2,27
Pays-Bas
Norvèege
Feédéeration de Russie
Saint-Marin
Sloveénie
780
39,0
n.a.p.
-
4 065
203,5
5,21
Espagne
4 201
9,8
1 181
2,8
7 681
17,9
1,83
Suèede
1 618
17,9
n.a.
-
7 556
83,6
4,67
Turquie
5 304
7,5
n.a.p.
-
n.r.
-
-
Ukraine
6 999
14,8
n.r.
-
n.r.
-
-
Angleterre & Pays
de Galles (RU)
1 305
2,5
2 370
4,5
28 029
52,8
21,48
62
3,6
n.r.
-
n.a.p.
-
-
227
4,5
57
1,1
749
14,7
3,30
Irlande du Nord (RU)
Ecosse (RU)
182
18-12-2008
16:06
Pagina 183
Analyse et propositions
sur la méthode
de collecte des données
par la CEPEJ
(seulement pour les pays
définis homogènes)
Juges professionnels:
Allemagne: Il n’y a pas de
chiffre absolu pour le nombre de
juge à temps complet ou à temps
partiel. La donnée est précisée en
équivalent temps plein. C’est
pourquoi cette donnée ne peut
pas être comparée directement
avec celle d’autres Etats.
Juges professionnels (sur une
base occasionnelle):
France: 213 juges de proximité en exercice en 2004. Ils travaillent maximum 4 jours par
mois.
Espagne: juges suppléants ou
substituts.
Juges non professionnels:
France: 14.610 conseillers
prud’homaux, 1.800 (au budget:
2.412) assesseurs des Tribunaux
pour enfants, 3.800 assesseurs
des tribunaux des affaires de
sécurité sociale, 2.800 assesseurs
des tribunaux du contentieux de
l’incapacité et assesseurs des tribunaux paritaires des baux
ruraux (chiffre inconnu).
Allemagne: les chiffres doivent être interprétés comme le
nombre de citoyens faisant fonction de juge avec des juges professionnels dans divers tribunaux. Dans les affaires pénales
36.029 citoyens étaient engagés,
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
en ce qui concerne les autres
types de procédures prises en
compte, le chiffre est une estimation.
Italie: 3.686 juges de paix,
440 juges non professionnels
dans les tribunaux et 2.233 juges
honoraires dans les tribunaux
avec des postes non permanents.
Portugal: Ce chiffre se réfère
aux personnes désignées comme
juges sociaux, tel que publié au
Journal officiel. Figurer sur ces
listes ne signifie pas participer
effectivement à la prise de décision judiciaire mais seulement
être susceptible d’être appelé à
participer à des procédures spécifiques, notamment pour les
affaires référencées tant dans la
Loi n. 166/99 du 14 septembre
(article 30, n. 2 – Loi sur l’éducation tutorale) que dans la Loi
n. 147/99 du 1er Septembre (article 115 – Loi sur la protection
des mineurs en danger); ils décident alors sous la présidence
d’un juge professionnel. Il est
impossible de déterminer la
quantité de juges non professionnels qui ont effectivement participé à des jugements en 2004.
Espagne: les juges de paix
sont chargés des infractions
pénales mineures dans les municipalités.
Note:
Les autres pays qui ont un
grand nombre de juges profes183
Giustizia italiana e standard europei
Impaginato 2-2008
Impaginato 2-2008
18-12-2008
16:06
Pagina 184
Giustizia italiana e standard europei
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
sionnels sont: Belgique, Allemagne, Hongrie, Luxembourg et
Roumanie.
Concernant les juges professionnels à temps partiel, il n’en
existe pas: en Arménie, Croatie,
Grèce, Hongrie, Monténégro,
Pologne, Portugal, Fédération de
Russie, Slovaquie, Slovénie et
Turquie.
Alors, nous référant au numéro total de tous ces juges, nous
pouvons dire en général que:
– la France compte 29.501
juges (+ un chiffre inconnu d’assesseurs des tribunaux paritaires
en matière de contrats agricoles,
dits des “baux ruraux”)
– l’Allemagne compte 20.395
juges (+36.029 citoyens engagés
dans le système de jugement par
jury des affaires pénales. Cependant, il n’y a pas de chiffre absolu
pour le nombre de juge à temps
complet ou à temps partiel. La
donnée est éstimée en équivalent
temps plein. C’est pourquoi cette
donnée ne peut pas être comparée
directement avec celle d’autres
Etats)
– l’Italie compte 12.464 juges
– l’Espagne compte 4.201
juges
– le Portugal seulement 1.754
juges
La France, donc, montre le
meilleur résultat, ayant un ratio
d’investissement inférieur à celui184
là des autres pays homogènes
considérés.
Cependant, il faut noter que le
fonctionnement du système judiciaire de certains Etats est beaucoup dépendent de l’utilisation de
juges non professionnels (c’est le
cas de l’Allemagne et de la France) et, en particulière, de la participation des citoyens au jugement
par jury (c’est le cas de l’Allemagne pour les affaires pénales).
Ce critère, donc, doit être envisagé avec beaucoup de précaution.
5 - Le budget consacré
au ministère public
Sur les 47 Etats ou entités considérés, seulement 36 ont répondu
au questionnaire.
Dans la grande majorité des
pays (32), les parquets sont entièrement séparés des tribunaux et
ont leur propre budget.
Dans 13 pays, les tribunaux et
les parquets sont gérés ensemble
ou s’inscrivent dans un même et
seul budget.
France, Italie et Espagne ont
été en mesure d’estimer les parts
respectives du budget attribuées
au tribunaux et aux parquets.
Au contraire, Allemagne,
Grèce et Portugal n’ont pas été
capables d’estimer ces parts
respectives et en conséquence ils
ne sont pas dans le tableau suivant.
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Analyse et propositions
sur la méthode
de collecte des données
par la CEPEJ
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Tableau 3 - Budget consacréée au ministeère public en 2004
Pays
Q9 Budget public
annuel consacreé au
ministeère public
Budget public annuel
Budget public annuel
consacreé au ministeère consacreé au ministeère
public par habitant
public par habitant
en pourcentage
du PIB per capita
Budget public annuel
consacrée au ministeère
public par habitant en
pourcentage du salaire
moyen brut
8 498 900 Euro
2,8 Euro
0,14 %
0,11 %
426 969 Euro
5,6 Euro
0,02 %
0,04 %
Azerbaïdjan
10 916 740 Euro
1,3 Euro
0,15 %
0,13 %
Bosnie-Herzégovine
16 591 370 Euro
4,3 Euro
0,25 %
0,09 %
Bulgarie
22 826 626 Euro
2,9 Euro
- %
0,12 %
Croatie
28 967 501 Euro
6,5 Euro
0,11 %
0,07 %
Réepublique tcheèque
55 924 241 Euro
5,5 Euro
0,06 %
0,08 %
Estonie
3 500 000 Euro
2,6 Euro
0,04 %
0,05 %
Finlande
33 022 000 Euro
6,3 Euro
0,02 %
0,02 %
646 771 000 Euro
10,4 Euro
0,04 %
0,03 %
7 498 585 Euro
1,7 Euro
0,18 %
0,17 %
108 000 000 Euro
10,7 Euro
0,13 %
0,15 %
Islande
3 100 000 Euro
10,6 Euro
0,03 %
0,03 %
Irlande
28 661 000 Euro
7,1 Euro
0,02 %
0,03 %
1 167 510 000 Euro
20,0 Euro
0,09 %
0,09 %
12 018 365 Euro
5,2 Euro
0,11 %
0,14 %
1 302 339 Euro
37,6 Euro
0,04 %
0,05 %
24 375 087 Euro
7,1 Euro
0,14 %
0,18 %
1 023 260 Euro
2,5 Euro
0,03 %
0,02 %
Moldova
18 623 700 Euro
5,5 Euro
0,96 %
0,64 %
Monaco*
780 740 Euro
26,0 Euro
-
-
1 197 047 Euro
1,9 Euro
0,09 %
0,05 %
335 300 000 Euro
20,6 Euro
0,07 %
0,07 %
10 737 Euro
0,0 Euro
0,00001 %
0,00001 %
226 591 855 Euro
5,9 Euro
0,11 %
0,10 %
70 989 086 Euro
3,3 Euro
0,12 %
0,14 %
926 827 355 Euro
6,5 Euro
0,19 %
0,27 %
Serbie
12 108 235 Euro
1,6 Euro
0,07 %
0,05 %
Slovaquie
26 289 474 Euro
4,9 Euro
0,08 %
0,10 %
Sloveénie
15 600 000 Euro
7,8 Euro
0,06 %
0,06 %
Espagne*
153 158 726 Euro
3,6 Euro
0,02 %
0,01 %
Suèede
89 000 000 Euro
9,9 Euro
0,03 %
0,03%
Ukraine
41 307 900 Euro
0,9 Euro
0,08 %
0,08 %
770 000 000 Euro
14,5 Euro
0,06 %
0,04 %
35 370 000 Euro
20,7 Euro
0,08 %
0,07 %
131 300 000 Euro
25,9 Euro
0,11 %
0,08 %
Albanie
Andorre*
France
Geéorgie
Hongrie
Italie
Lettonie
Liechtenstein
Lituanie
Malte
Montéenégro
Pays-Bas
Norvèege
Pologne
Roumanie
Feédération de Russie
Angleterre & Pays de
Galles (RU)
Irlande du Nord (RU)
Ecosse (RU)
*budget estimée
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(seulement pour les pays
définis homogènes)
Les différences notables entre
les compétences et les modes
d’organisation du parquet doivent être prises en compte lorsque l’on examine les montants
consacrés au ministère public.
Ces informations apparaissent
plus loin dans ce rapport, tout
comme d’autres données d’importance pour ce thème, en particulier le nombre de personnels et
de juridictions.
Quelques pays ont indiqué un
faible montant de ressources
affectées au parquet.
C’est le cas en particulier de
la Norvège qui aurait déclaré un
chiffre beaucoup plus élevé si
elle avait intégré budgétairement
dans son système de poursuites
certains membres de la police
attachés au parquet. Cette
donnée doit donc être interprétée
avec prudence.
Dans 6 pays (Italie, PaysBas, Liechtenstein, Monaco,
Irlande du Nord et Ecosse), le
montant consacré aux fonctions
de poursuite est égal ou dépasse
les 20 euro par habitant.
Mais c’est en Bosnie-Herzégovine, en Moldova, en Fédération de Russie et en Géorgie que
ce montant est le plus élevé par
rapport au PIB par habitant.
186
Dans ce tableau, l’Italie montre le budget plus important en
face de celui-là de la France et de
l’Espagne:
– Italie: euro 1.167.510.000
– France euro 646.771.000
– Espagne euro 153.158.726
Mais c’est nécessaire, aussi
que pour le tribunaux, commenter le ratio entre l’investissement
et les affaires pénales traitées.
5.1 - Le traitement
des affaires pénales
par le ministère public
Le tableau suivant présente le
nombre total d’affaires pénales
reçues par le ministère public en
première instance.
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Analyse et propositions
sur la méthode
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Tableau 39 - Affaires péenales traiteées par le ministeère public en 2004
Pays
pour
Q72 Nombre
100.000
total d'affaires
habitants
peénales de
premièere instance
reçcçues par le
ministèere public
Classées par le ministeère public
parce que en raison
l'auteur de d'une iml'infraction possibilitée
de fait ou
n'a pas
de droit
pu êetre
identifiée
en
geéneéral
Terminéees par
une sanction
ou par une
mesure imposéee
ou neégociéee
par le Procureur
Portéees
par le
Procureur
devant les
tribunaux
Albanie
14 204
463
2 175
-
-
-
3 779
Andorre
2 343
3 048
10
-
-
-
14
Arméenie
3 481
108
1 485
1 345
403
-
-
631 619
7 697
126 717
-
107 064
32 765
67 002
Autriche
Azerbaïdjan
-
-
145
75
39
443
11 452
821 392
7 863
624 880
294 386
133 751
8 390
19 331
96 915
2 181
-
41 679
15 075
-
-
Réepublique tcheèque
111 694
1 093
294
0
184
0
79 012
Danemark
194 926
Belgique
Croatie
892 288
16 531
-
-
-
-
Estonie
34 078
2 522
29 474
20 987
2 336
2 096
-
Finlande
88 000
1 680
26 000
-
-
3 700
67 000
5 004 678
8 049
366 382
3 147 897
401 184
414 693
674 522
43 071
950
7 016
792
6 224
-
7 291
4 988 450
6 047
4 997 579
-
1 313 576
265 319
1 211 875
Grèece
148 556
1 344
2 257
50 700
-
-
-
Hongrie
137 886
1 366
16 934
-
-
5 254
78 850
France
Georgie
Allemagne
8 782
2 991
2 794
-
455
-
5 944
3 188 511
5 454
2 223 721
1 339 369
-
-
568 515
15 511
669
1 639
54
213
1 282
13 322
2 787
8 055
1 407
208
1 199
0
1 158
Lituanie
17 358
507
61 696
-
20 401
-
18 827
Luxembourg
48 365
10 630
9 749
-
-
618
11 477
2 714
9 041
1 680
240
-
0
617
10 535
1 698
-
6 458
554
-
8 503
Pays-Bas
273 974
1 682
36 743
-
36 743
78 613
160 000
Norvèege
426 053
9 249
241 046
183 762
-
185 007
87 466
Pologne
1 816 335
4 758
1 040 125
681 860
294 198
0
425 048
Portugal
498 935
4 739
406 151
-
-
2 116
85 563
Roumanie
661 355
3 051
321 219
-
-
96 976
49 185
Feédéeration de Russie
978 371
682
1 435 830
1 369 326
65 904
-
65 123
88 453
1 180
-
-
-
-
44 881
Islande
Italie
Lettonie
Liechtenstein
Monaco
Montéenéegro
Serbie
Slovaquie
139 384
2 581
65 727
63 234
-
-
32 682
Sloveénie
91 956
4 603
15 472
-
-
3 007
14 721
514 741
Espagne
3 956 078
9 214
-
2 305 225
424 819
91 562
Suèede
185 710
2 055
71 944
-
-
24 488
92 900
Turquie
2 300 954
3 234
919 158
-
-
-
872 875
Angleterre & Pays de
Galles (RU)
1 570 000
2 960
172 848
72 195
32 832
1 060 619
1 330 767
70 000
4 093
-
-
-
-
-
Irlande du Nord (RU)
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Commentaires
En France, les infractions routières sont incluses dans le nombre total indiqué.
En général on doit dire que la
variété des procédures pénales
nationales implique que le rôle et
le pouvoir du ministère public
peut grandement différer d’un
pays à l’autre.
Dans ce sens, par exemple, plusieurs absences de réponses sont
expliquées par les options
suggérées qui n’entrent pas dans
les attributions du procureur examinées plus haut, telles que par
exemple le fait de classer une affaire sans une décision du tribunal.
Cette remarque est également
valable pour les pays qui ne fournissent pas le nombre d’affaires
classées par le ministère public
dans une situation où le contrevenant ne pourrait pas être identifié,
car leur système ne prévoit pas
que ces affaires soient traitées par
le procureur (Arménie, PaysBas); parfois ces affaires sont
gérées par les forces de police
jusqu’à leur élucidation (Croatie), ce qui n’est pas exactement
l’équivalent d’un classement par
le ministère public.
C’est ainsi le cas pour la
République tchèque, où les forces de police ont le pouvoir de ne
pas prolonger et de clôturer l’affaire. Cela doit être souligné également à l’égard de la spécificité
de l’Irlande, dont le système
188
accusatoire rend difficile le fait de
transférer une affaire au procureur
quand le contrevenant est inconnu
et que les chances de le localiser
sont minces. Il peut être noté
quelques fois une légère disparité
entre les catégories suggérées et
les dispositions légales des pays.
Aux Pays-Bas, par exemple,
le terme “sanction” n’est pas un
exact équivalent d’un cas conclu
par une peine imposée ou négociée par le ministère public.
Le ratio entre le budget et le
montant des affaires traitées est,
donc, le suivant:
– Espagne euro 39
– France euro 129
– Italie euro 366
Le résultat est très important
mais il faut probablement, pour le
future, être surs que les données
fournies par chaque pays soient
homogènes, parce que en Italie par exemple - ne sont pas inclues
les infractions de la circulation
routière (au contraire de la France
ou des autres pays).
5.2 - Le numéro
des procureurs
Un critère utile d’évaluation,
comme déjà dit au § 4, est certainement le numéro des procureurs
(professionnels ou honoraires )
employés dans chaque pays,
parce que ce montant agit beaucoup sur le budget national
affecté (en Italie, p. e., environ
pour le 65%).
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Tableau 42 - Nombre de procureurs en 2004
Q43 Nombre
de procureurs
(etp)
pour 100 000
habitants
Q44 D'autres
personnes
ont-elles
des fonctions
comparables à
celles des
procureurs?
Albanie
267
8,7
8,7
Andorre
4
5,2
non
Arméenie
605
18,9
non
Autriche
216
2,6
oui
Azerbaïdjan
360
4,3
n.a.
Belgique
893
8,5
non
Bosnie-Herzégovine
274
7,2
non
Bulgarie
n.r.
Croatie
558
12,6
non
Chypre
107
15,5
non
1 066
10,4
non
Danemark
564
10,4
oui
Estonie
186
13,8
non
oui
République tchèque
Finlande
France
Georgie
Allemagne
Grèece
Hongrie
Q44 Si oui,
nombre
pour 100 000
habitants
145
1,8
non
330
6,3
1 848
3,0
oui
532
11,7
non
5 106
6,2
oui
520
4,7
non
1 453
14,4
non
Islande
7
2,4
oui
26
8,9
Irlande
100
2,5
oui
16
0,4
2 146
3,7
oui
1 506
2,6
604
26,0
non
85
21,1
628
13,6
22
1,1
Italie
Lettonie
Liechtenstein
Lituanie
Luxembourg
Malte
Moldova
Monaco
7
18,8
non
850
24,8
non
39
8,6
non
6
1,5
oui
766
22,6
non
4
13,3
non
83
13,4
non
Pays-Bas
598
3,7
non
Norvège
Norvèege
705
15,3
oui
Pologne
5 393
14,1
oui
Portugal
1 217
11,6
non
Roumanie
2 784
12,8
non
55 021
38,3
non
1
3,4
oui
Slovaquie
697
12,9
non
Slovenie
171
,68
oui
Serbie
800
10,7
non
1 740
4,1
non
767
8,5
non
Turquie
3 006
4,2
non
Ukraine
n.r.
Monténégro
Feédération de Russie
Saint-Marin
Espagne
Suède
Angleterre & Pays
de Galles (RU)
Irlande du Nord (RU)
Ecosse (RU)
non
2 819
5,3
oui
300
17,5
non
1 428
28,1
n.r.
189
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Pays
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Le tableau concernant les procureurs montre ces nombres:
1. Allemagne 5.106
procureurs
2. Italie
2.146
3. France
1.848
4. Espagne
1.740
5. Portugal
1.217
6. Grèce
520
Dans le tableau suivant, le
personnel non procureur de tous
les pays est représenté.
Le ratio entre le nombre de
personnel non procureur par procureur, ainsi que le nombre de
juges par procureur est également décrit.
Giustizia italiana e standard europei
Tableau 43 - Nombre de personnel non procureur en 2004 et ratios
Pays
Q46 Nombre
de personnel
(non procureurs)
rattachée au
parquet (etp)
Q43 Nombre
de procureurs
(etp)
Personnel non
procureur par
procureur
Q40 Nombre
de personnel
non juge
travaillant dans
les tribunaux
(etp)
Q36 Nombre
de juges
professionnels
siégeant dans
les tribunaux
(etp)
Personnel non
juge par juge
Albanie
497
267
1,9
808
383
2,1
Andorre
4
4
1,0
68
22
3,1
273
605
0,5
966
179
5,4
171,6
216
0,8
4 320
1 697
2,5
700
360
1,9
1 524
338
4,5
2 304
893
2,6
5 618
2 500
2,2
Bosnie-Herzégovine
427
274
1,6
1 998
690
2,9
Bulgarie
n.r.
n.r.
n.r.
n.r.
Croatie
885
558
1,6
6 473
1 907
3,4
Chypre
190
710
1,8
425
96
4,4
1580
1 066
1,5
9 093
2 878
2,2
n/a
564
1 422
368
3,9
74
618
0,4
1 016
245
4,1
210
330
0,6
2 586
875
3,0
4 077
1 848
2,2
17 376
6 278
2,8
290
532
0,5
1 155
406
2,8
12 304
5 106
2,4
58 922
58 922
2,9
Nap
520
6 827
2 200
3,1
2 295
1 453
1,6
6 770
2 757
2,5
Islande
57
7
8,1
57
47
1,2
Irlande
102
100
1,0
1 084
130
8,3
10 852
2 146
5,1
24 952
6 105
4,1
Lettonie
372
604
0,6
1 137
384
3,6
Liechtenstein
3,8
7
0,6
39
17
2,3
Lituanie
585
850
0,7
2 350
693
3,4
36
39
0,9
240
162
1,5
7
6
1,2
346
35
9,9
790
766
1,0
n.a.
415
Arméenie
Autriche
Azerbaïdjan
Belgique
République tchèque
Danemark
Estonie
Finlande
France
Georgie
Allemagne
Grèece
Hongrie
Italie
Luxembourg
Malte
Moldova
Monaco
5
4
1,3
41
18
2,3
116
83
1,4
830
242
3,4
3 382
598
5,7
5 217
2 004
2,6
51
705
0,1
961
501
1,9
Pologne
4 213
5 393
0,8
33 878
9 766
3,5
Portugal
1 696
1 217
1,4
7 506
1 754
4,3
n.r.
2 784
8 975
4 030
2,2
16 902
55 021
65 237
29 685
2,2
Saint-Marin
n.r.
1
45
16
2,8
Slovaquie
756
697
1,1
4 070
1 208
3,4
Slovenie
174
171
1,0
2 257
780
2,9
Serbie
n.r.
800
18 171
2 418
7,5
1 751
1 740
1,0
37 744
4 201
9,0
Suèede
620
767
0,8
1 337
1 618
0,8
Turquie
Nap
3 006
18 276
5 304
3,4
Ukraine
n.r.
n.r.
23 304
6 999
3,3
8 011
2 819
2,8
23 000
1 305
17,6
300
300
1,0
537
62
8,7
1 428
1 428
1,0
1 231
227
5,4
Monténégro
Pays-Bas
Norvege
Norvèege
Roumanie
Fédération de Russie
Espagne
Angleterre & Pays
de Galles (RU)
Irlande du Nord (RU)
Ecosse (RU)
190
0,3
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Analyse et propositions
sur la méthode
de collecte des données
par la CEPEJ
Note:
Quand le ratio du personnel
non procureur par procureur est
comparé avec le personnel non
juge par juge, le résultat général
est que, selon la moyenne, les
juges ont plus de personnel à leur
disposition que les procureurs (à
l’exception de: Islande, Italie,
Pays Bas et Royaume Uni
(Angleterre et Pays de Galles,
Irlande du Nord et Ecosse).
Des différences entre les pays
peuvent être également clairement identifiées selon le nombre
de juges par procureur.
Dans un premier groupe de
pays, les procureurs sont plus
nombreux que les juges, car le
ratio est en dessous de 1 (dans un
ordre croissant): 2 entités du
Royaume Uni (Ecosse et Irlande
du Nord), Arménie, Fédération
de Russie, Moldova, Lettonie,
Danemark, Norvège, Géorgie,
Angleterre et Pays de Galles
(RU), Lituanie, Chypre et Azerbaïdjan.
Dans le second groupe, les
juges sont légèrement plus nombreux que les procureurs (moins
de 2): Irlande, Estonie, Albanie,
Portugal, Pologne, Slovaquie,
Turquie et Hongrie.
Finalement, une troisième
catégorie où les juges sont beaucoup plus nombreux que les procureurs (plus de deux) dans les
pays suivants:
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
Suède, Espagne, BosnieHerzégovine, Liechtenstein, Finlande, République tchèque, Belgique, Italie, Monténégro,
Malte, Pays Bas, Croatie, Allemagne, France, Luxembourg,
Grèce, Monaco, Slovénie,
Andorre, Islande, Autriche et
Saint Marin.
Le tableau 43, concernant le
personnel non procureur, montre
ce ratio:
– Italie 10.852
ratio 5,1
(pour chaque procureur)
– Allemagne 12.204
ratio 2,4
– France 4.077
ratio 2,2
– Portugal 1.696
ratio1,4
– Espagne 1.751
ratio 1,0
Donc, le budget italien est très
influencé - en moyen - par le
numéro de personnel non procureur.
Il faut savoir, cependant, pour
la future collecte des données le
nombre de procureurs honoraires, parce que ce paramètre est
très important pour évaluer le
vrai ratio entre le numéro des
procureurs et le numéro de personnel non procureur.
En Italie, par exemple, les
191
Giustizia italiana e standard europei
Impaginato 2-2008
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Pagina 192
Giustizia italiana e standard europei
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
procureurs honoraires sont 1.755
et le supérieur ratio, donc,
descende de la moitié (de 5.1 à
2.7).
6. - Conclusion
Attendu que le rapport 2006
affirme que «les experts ont tenu
compte des propositions de
modifications formulées par les
membres de la CEPEJ, par les
192
observateurs et par les correspondants nationaux dans le
cadre du processus pilote», j’espère que ces actuelles propositions puissent être utiles pour le
«colloque de Palerme» au but de
rendre plus efficaces et homogènes les réponses aux divers destinataires des prochains rapports
de la CEPEJ.
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*Università
di Bologna.
Dipartimento di
Scienza Politica
La professione
del magistrato
nella costruzione dello spazio
giudiziario europeo
Giustizia italiana e standard europei
Daniela Piana*
Introduzione
Affermava Piero Calamandrei
che “se il livello morale e intellettuale della nostra magistratura
è stato finora superiore a quello
di ogni altra categoria di funzionari, ciò è derivato dal fatto che
ha potuto formarsi attraverso una
scelta fondata sulla vocazione”
([1959] 1999, p. 251). E, riprendendo Weber, l’esercizio di una
professione intellettuale è sottesa
da una vocazione professionale
(1919). Le capacità intellettuali
necessarie a indirizzare quella
motivazione all’interno di una
attività collettivamente riconosciuta e legittimata istituzionalmente si possono acquisire attraverso la formazione e l’apprendimento.
La professione del magistrato
si situa all’incrocio di tre aree,
regolate da standard e principi di
azione fra loro diversi, anche se
non incompatibili. Innanzitutto,
la professione del magistrato
richiede la conoscenza del diritto, anche se tale conoscenza
dipende da cosa all’interno di un
sistema socio politico si deve
intendere per diritto (se diritto di
common law o di civil law, ma
più raffinata distinzione potrebbe
anche introdursi fra diritto dottrinaria e diritto giurisprudenziale).
In secondo luogo, la professione
del magistrato richiede la conoscenza delle regole che definiscono il ruolo di “magistrato”,
194
ovvero di quegli standard deontologici che regolano il comportamento di individui che obbediscono ad una “figura”, un tipo
istituzionale. Infine, la professione del magistrato richiede la
conoscenza delle altre professioni con cui eventualmente egli
interagisce sia nel corso processo, sia nella gestione quotidiana
del lavoro.
Come vedremo, la costruzione dello spazio giudiziario europeo e la definizione di standard
di professionalità per l’esercizio
della funzione giudiziaria intrattengono fra loro una relazione a
doppio filo, la cui logica può
essere meglio compresa se si
parte delle tre questioni sovra
menzionate: professionalità giuridica, professionalità di ruolo,
professionalità di interazione con
le altre professioni.
La competenza giuridica:
standard e politicies
in Europa
Il processo di integrazione
europea ha indotto una crescente
pressione sulle corti ordinarie di
tutti i paesi membri (e diremmo
anche dei paesi candidati alla
membership). Un primo strumento di pressione consiste nella
necessaria integrazione del diritto comunitario all’interno del
sistema di norme giuridiche
nazionali. Integrazione tuttavia
non ha significato riorganizza-
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Pagina 195
La professione
del magistrato
nella costruzione dello spazio
giudiziario europeo
zione di un sistema deduttivo nel
quale le norme più generali – il
diritto europeo – costuiscono la
base dalla quale dedurre, ovvero
inferire, tutte le altre norme. In
altri termini, il diritto comunitario non sistematizza le norme
giuriche nei paesi membri, ma ne
mette in discussione la tenuta
assiomatica e in generale ne scardina talvolta alcuni prassi interpretative (Kuhn, 2003; Bobek,
2007; Weiler, 2005). Anche se
non è questa la sede per
approfondire questo aspetto,
occorre ricordare quante difficoltà siano insite nell’esercizio
quotidiano
che
consiste
nell’”accomodare” all’interno di
una unica argomentazione giurisprudenziale norme prodotte da
due ratio legislative o giurisprudenziali diverse, l’una facente
capo a Bruxelles o a Lussemburgo, e l’altra facente capo a Roma,
Berlino, Varsavia, Madrid, o
anche, considerato il grado di
decentramento che oggi contraddistingue le democrazie europee,
Bologna, Bonn, Monaco, Barcellona, ecc.
Invece, in questa sede si
intende portare l’attenzione sugli
standard e sulle politiche ad essi
legate relative alla formazione
giudiziaria per quanto attiene
strettamente la conoscenza del
diritto, nazionale, comunitario ed
internazionale.
Già nel 1995 la Raccomanda-
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
zione R 1994, adottata dal Comitato Consultivo dei Giudici
Europei, sottolineava la necessità
di reclutare i giudici permettendo
loro di “acquisire ogni formazione necessaria, ad esempio una
formazione pratica nei tribunali
e, se possibile, presso altre autorità ed enti, prima della loro
nomina e durante la loro carriera.
Tale formazione dovrà essere
gratuita per il giudice e, in particolare, interessare la legislazione
recente e la giurisprudenza. Se
del caso, la formazione dovrà
includere visite di studio presso
le autorità e le corti europee e
straniere”.1
Nel testo si fa esplicita menzione alla legislazione recente
(in ragione della crescente produzione normativa degli organi
di governo nazionali e sovranazionali) e alla giurisprudenza.
Inoltre viene auspicata la promozione delle visite-studio dei giudici all’esterno, una prassi che
come vedremo trova la sua formalizzazione all’interno dei programmi di costruzione dello spazio giudiziario europeo.
In ragione della specificità
delle mansioni e della crescente
pressione posta sulle magistrature reguirenti da parte delle
società contemporanee, la Raccomandazione 2000 19 adottata
dal Comitato dei Ministri del
Consiglio d’Europa in merito
alle competenze dei pubblici
195
Giustizia italiana e standard europei
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Giustizia italiana e standard europei
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
ministeri sottolinea che “la formazione è sia un dovere che un
diritto per tutti i pubblici ministri, prima della loro nomina e
dopo di questa [...] lo Stato deve
garantire pertanto misure effettive per assicurare che i pubblici
ministeri abbiano una formazione e un training adeguati”. I contenuti della formazione devono
comprendere: i principi deontologici (su questi torneremo nel
prossimo paragrafo); i principi
costituzionali di protezione delle
vittime e dei testimoni; la Convenzione Europea per i Diritti
dell’Uomo e per le Libertà Fondamentali.
Tuttavia è probabilmente è
nel testo della Opinione n. 4
adottata dal Comitato Consultivo
dei Giudici Europei che si definisce con maggiore rigore e con
divizia di particolari il tipo di
formazione che deve essere
offerta ai magistrati (Oberto,
2007). Ancora viene ribadita la
necessità di fornire ai magistrati
programmi di formazione iniziale e in corso di carriera che comprendano sia il diritto nazionale
sia il diritto internazionale.2 L’accento posto sulla dimensione
internazionale, invece che su
quella comunitaria, si può spiegare in virtù del fatto che la Opinione nasce nel contesto di un
gruppo di lavoro che appartiene
al quadro delle attività della
Direzione Generale per gli Affari
196
Legali del Consiglio d’Europa,
una organizzazione che ha propriamente natura intergovernativa e che obbedisce a diritto internazionale, piuttosto che a quello
comunitario.3 Tuttavia la Opinione stessa riconosce il carattere
cruciale del diritto comunitario
per lo svolgimento della funzione giudiziarie in Europa e consacra al tema dell’apprendimento
(e aggiornamento) di competenze giuridiche in materia di diritto
comunitario il titolo VI della
Opinione: “La formazione europea dei giudici”. Al suo interno il
concetto di “europeizzazione”
della formazione giudiziaria
viene utilizzato in un duplice
modo: sia in senso funzionale,
sia in senso contenustico. La formazione europea significa innanzitutto acquisizione della conoscenza del diritto comunitario
(che deve essere insegnato nei
programmi universitari di giurisprudenza prima che divenire
materia di formazione giudiziaria in senso proprio): “nessun
giudice può ignorare il diritto
comunitario, sia la CEDU o altre
Convenzioni del Consiglio d’Europa o i Trattati dell’Unione
europea e la legislazione che da
questi deriva, dal momento che
ci si aspetta che egli sia in grado
di applicare tali norme ai casi che
sono portati dinnanzi alla corte”.4
L’introduzione di una dimensione propriamente europea nei
18-12-2008
16:06
Pagina 197
La professione
del magistrato
nella costruzione dello spazio
giudiziario europeo
meccanismi di formazione giudiziaria si esplica anche in un’azione di carattere organizzativa, sia
attraverso la promozione di
scambi di informazioni fra uffici
giudiziari (Fabri et al., 2007), sia
attraverso il finanziamento di
programmi di scambio fra istituzioni giudiziarie nazionali, sia
ancora attraverso la offerta di
programmi di formazione vera e
propria.
Su quest’ultimo punto riteniamo che valga la pena soffermarsi
un istante. Già a partire dal 1985
alcune scuole di formazione
decisero di costituire il Network
di Lisbona,5 allo scopo di facilitare, in seno ai programmi di
cooperazione giudiziaria del
Consiglio d’Europa, lo scambio
di informazioni sui programmi e
i meccanismi di offerta, aggiornamento ed eventualmente valutazione della formazione della
magistratura (Piana, 2007).6
A partire dall’ottobre del
2000 viene istituito il Network
Europeo per la Formazione Giudiziaria.7 L’Ecole Nationale de la
Magistrature ne costituisce il
centro propulsore, sia in termini
di leadership politica, sia in termini di offerta di programmi di
formazione. Il Network ha lo
scopo di promuovere sia lo
scambio di programmi di formazione, attraverso accordi bilaterali fra paesi, sia la formazione
“europea” dei magistrati, offerta
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
in alcune sedi istituzionali: l’Accademia europea di diritto
(ERA), l’Istituto europeo di pubblica amministrazione (EIPA),
entrambi supportati finanziariamente dalla Commissione europea. Il Network Europeo per la
Formazione Giudiziaria ha oggi
un segretariato con sede a
Bruxelles ed è uno dei network
europei supportato dalla Commissione europea. È composto
dalle scuole giudiziarie e dai
dipartimenti dei ministeri o dei
Consigli superiori della magistratura che sono responsabili
per la formazione. È in grado di
organizzare regolarmente seminari e sessioni di formazione, in
particolare in materia di diritto
comunitario. Dal 2001 ne fanno
parte anche i paesi post comunisti.8 Esso si propone come piattaforma di coordinamento dei
programmi di formazione offerti
a livello nazionali dai paesi
membri.9 Fornisce ai magistrati
dei paesi membri dell’Unione
europea la conoscenza di quali
corsi sono offerti nelle diverse
sedi nazionali e quali sono le
opportunità di partecipazione da
parte di magistrati provenienti da
altri paesi. Ogni anno redige un
catalogo nel quale sono raccolti i
diversi programmi, corsi, seminari offerti dalle istituzioni di
formazione
membre
del
Network. La Commissione europea ha riconosciuto al Network il
197
Giustizia italiana e standard europei
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Giustizia italiana e standard europei
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
monopolio nella implementazione dei programmi di scambio,
attraverso i quali diverse istituzioni di formazione ospitano giudici, pubblici ministeri e formatori giudiziari (giudici, professori di diritto, esperti che prestano
servizio come formatori presso
le scuole di formazione nazionali).
Sulla base dell’osservazione
longitudinale dei cataloghi redatti dal Network considerandoli
come banche dati (anchorchè
non esaustive) dei programmi di
formazione offerti, si può notare
l’emergere di una crescente attività seminariale, che possiamo
definire “europea” in senso proprio. Il contenuto dei programmi
di formazione offerti dal
Network Europeo per la Formazione Giudiziaria fornisce una
indicazione delle aree “sensibili”
della politica giudiziaria europea. A partire dal 2001 molte sessioni sono state dedicate allo studio degli strumenti di cooperazione giudiziaria. Fra il 2001 e il
2002 10 su 20 seminari sono stati
dedicati alle decisioni europee in
materia di cooperazione giudiziaria e ai regolamenti di Bruxelles I e II, con riconoscimento
delle sentenze in materia civile e
penale. Nel 2003 8 su 10 seminari hanno riguardato aspetti procedurali della giustizia penale in
Europa (5 di essi sono stati organizzati a Roma, presso il Consi198
glio superiore della Magistratura). Nel 2004 il catalogo dei
seminari è aumentato fino a raggiungere un offerta di 98 sessioni formative. La giustizia penale
resta il tema prevalentemente
affrontato, così come nel 2005.
Nel 2006 i corsi sono aumentati
fino a 123.10 La dimensione europea dei contenuti di programmi
di formazione si istanzia innanzitutto nella offerta di conoscenze
giuridiche relative ai regolamenti e alle decisioni del Consiglio
Europeo appartenenti al Terzo
Pilastro, ovvero l’insieme degli
strumenti che sono stati creati
per costruire lo spazio giudiziario europeo (Vervaele, 2003).
La definizione del ruolo
nello spazio giudiziario:
il magistrato e gli altri
Alla luce di una attenta osservazione dei documenti ufficiali,
si può notare come il tema sul
quale stanno progressivamente
convergendo le energie politiche
e finanziarie messe in campo
dalla Commissione europea nell’ambito della costruzione dello
spazio giudiziario è rappresentato dalla formazione giudiziaria.
Con “formazione giudiziaria”
non si indica solo l’offerta di
corsi, programmi, seminari nelle
sedi ufficiali che sono state
prima elencate (come il Network
europeo per la formazione giudiziaria, o la Accademia europea
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La professione
del magistrato
nella costruzione dello spazio
giudiziario europeo
per il diritto di Trier). Per formazione deve essere inteso un processo più ampio di socializzazione e comunicazione fra magistrati che ha lo scopo di costruire una
cultura comune, ovvero di contribuire in modo significativo e
duraturo alla “costruzione dell’Europa attraverso la legge”.11
L’enfasi posta sulla formazione è presente nel discorso ufficiale dell’Unione europea ed in
particolare della Commissione,
la quale, in una comunicazione
del giugno del 2006, afferma:
“occorre create il prima possibile
un effettivo network per la formazione delle autorità giudiziarie”.12 Questo allo scopo di creare “una cultura giuridica comune”, un senso di appartenenza ad
un “corpo comune” per implementare in modo più efficace il
programma dell’Aja (Piano di
rafforzamento dello spazio di
Libertà, sicurezza e giustizia).
Tuttavia, per avere una più
ampia e forse più corretta visione
di quali cambiamenti abbiano
interessato il ruolo del magistrato, occorre fare un passo indietro
e ritornare alla definizione parsoniana di “ruolo”: nel sistema
sociale gli individui si muovono
all’interno di ambiti di azione
che essi considerano legittimi e
opportuni, ambiti definiti (o in
taluni casi istituiti)13 sulla base di
una serie di norme comportamentali e di standard di accetta-
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
bilità (Parsons, 1965). I ruoli non
sono definiti in vacuum. Essi
rispondono alla differenziazione
delle funzioni che sussiste all’interno del sistema sociale. Dove
termina la funzione F1 del ruolo
R1 inizia la funzione F2 del
ruolo R2. Nel caso in cui un individuo debba agire compenetrando regole del ruolo R1 con regole del ruolo R2 esso necessiterà
di meta-regole, ovvero di principi che non derivano la propria
origine nè dalla funzione F1 nè
dalla funzione F2 e che gli permettono di gestire insieme regole, standards di comportamento,
funzioni che obbediscono a logiche diverse.
La gestione di funzioni giudiziarie e di funzioni organizzativo-gestionali sembra esemplificare questo tipo di situazione.
Tale premessa si rende particolarmente saliente per comprendere l’evoluzione degli standard
con cui viene oggi valutata la
attività della magistratura e, conseguentemente,
l’evoluzione
delle domande di formazione che
il processo di costruzione dello
spazio giudiziario europeo fa
emergere.
Nel mondo westfaliano al
magistrato veniva richiesto di
conoscere il sistema giuridico
nazionale e la dottrina che scaturiva dalla elaborazione scientifico tecnica delle norme. Nel
mondo post westfaliano, dove le
199
Giustizia italiana e standard europei
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Giustizia italiana e standard europei
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
fonti del diritto si frammentano e
diventano plurime e non riducibili ad un unica ratio, al magistrato si chiede non solo di conoscere diversi sistemi giuridici,
ma anche di dotarsi di criteri per
“decidere come trattare all’interno della propria attività quotidiana diversi set di norme, norme
giuridiche, norme gestionali,
norme sociali.
Uno dei punti su cui si è maggiormente insistito in Europa è la
fiducia che i magistrati appartenenti a diversi paesi dovrebbero
nutrire gli uni per gli altri. Tale
fiducia non attiene solo al fidarsi
delle capacità dei colleghi, ma
anche della capacità dei sistemi
di formazione di mantenere
aggiornati i colleghi. Tale fiducia
si rende necessaria nell’eventualità di dovere gestire in comune
processi inter-nazionali (in particolare si pensi alla implementazione del mandato di arresto).
Mutua fiducia significa anche
credenza nella comunanza di
cultura giuridica. In questo senso
la richiesta dell’Unione europea
implica che i magistrati di diversi paesi risentano dell’influenza
di norme comportamentali provenienti da uno stesso codice
deontologico. Possiamo qui
identificare un tentativo di europeizzare la cultura giuridica
interna delle magistrature nazionali.
La cultura giuridica interna
200
(Friedman, 1971) si crea e si trasmette attraverso i meccanismi
di socializzazione che hanno
luogo all’interno delle magistrature nazionali. Cercare di creare
una cultura giuridica comunitaria
significa 1) presupporre che vi
siano principi comuni alle culture giuridiche nazionali e 2) presupporre di potere scoprire quali
principi essi siano e 3) immaginare di poterli trasmettere in
assenza di una magistratura propriamente europea. Di qui i programmi di scambio e i programmi di formazione aperti a magistrati di diversi paesi.
Il processo di costruzione
dello spazio giudiziario è andato
sviluppandosi in parallelo con la
definizione di standard di qualità
della giustizia. Tali standard
hanno integrato una visione
maggioremente managerialista
(Friedman, 2007) del servizio del
rendere giustizia. Essi si sono
estesi dalla valutazione della correttezza procedurale delle sentenze e dei processi alla valutazione della adeguatezza della
gestione delle risorse che sono
utilizzate per rendere giustizia.
Il ruolo del magistrato risente
pertanto dello sviluppo del
discorso di policy attinente alla
qualità della giustizia.14 Nel
2003 il Consiglio d’Europa istituisce la Commissione per la
Valutazione della Efficienza dei
Sistemi Giudiziari, alla quale
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La professione
del magistrato
nella costruzione dello spazio
giudiziario europeo
viene affidato il compito di
monitorare dapprima le politiche
giudiziarie dei paesi membri del
Consiglio d’Europa e in seguito
di diffondere la conoscenza e il
know how derivati da sperimentazioni, good practices, riforme
organizzative micro o locali
introdotte in alcuni paesi in
modo pionieristico, tutte avnti lo
scopo di migliorare la “qualità
della giustizia”.
Il concetto di qualità denota
due diverse caratteristiche di un
processo. È una giustizia di qualità quella che si esplica in tempi
ragionevoli. È una giustizia di
qualità quella che si esplica in
luogo trasparenti e attenti alla
comunicazione pubblica con
utenti/cittadini (sulla dicotomia
ritorniamo in seguito) e professioni legali (avvocati e notai).
Sul primo punto a distanza di
4 anni dalla creazione della
CEPEJ gli standard europei si
sono ampiamente sviluppati, fino
ad arrivare alla elaborazione di
una check list, un blueprint che
può essere applicato al fine di
valutare la adeguatezza dei meccanismi di gestione dei tribunali,
dei dossier, delle pratiche, degli
archivi.15
In realtà la CEPEJ non è la
prima voce a identificare con una
adeguata gestione dei tribunali la
qualità della giustizia. Già nella
Raccomandazione R 2000 si sottolineava come ai pubblici mini-
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
steri fosse necessario fornire una
formazione adeguata al fine di
permettere loro di svolgere le
funzioni di organizzazione del
lavoro, management delle risorse
umane degli uffici di procura.16
Che impatto possono avere le
influenze degli attori esterni ai
sistemi giudiziari nazionali
rispetto alla definizione del ruolo
del magistrato? Ci preme indicarne e discutere due aspetti. In
primo luogo l’aumento delle
fonti di diritto con cui i magistrati devono commisurarsi oggi,
aumento dovuto in larga misura
alla evoluzione del diritto comunitario, alle opportunità di comunicazione fra sistemi giuridici
nazionali, ed infine allo sviluppo
di forme di normazione di carattere paragiudiziale, come ad
esempio i meccanismi di soluzione alternativa delle dispute
(ADR), espande da un lato gli
ambiti di azione dei sistemi giudiziari ma ne indebolisce la univocità, la sistematicità e la coerenza degli strumenti di azione.
In termini semplici, ma senza
troppo forzare i fatti, si può affermare che se il magistrato nel
mondo westfaliano basava la
propria decisione su un sistema
di norme che tendeva (almeno
asintoticamente) ad essere coerente, eventualmente basato sulla
norma fondamentale del testo
costituzionale (sulla linea del
modello germanico-continentale
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Nazionale
Magistrati
della Gründnorm), nel mondo
post-westfaliano la decisione
giudiziaria è basata su una articolata rete di norme, che intrattengono fra di loro una relazione
non sempre lineare, di ordinamento chiaro deduttivo o nel
caso della common law di carattere evolutivo giurisprudenziale.
L’analisi delle sentenze delle
corti costituzionali e in taluni
casi anche delle corti di cassazione o corti supreme ha messo in
evidenza che l’appello a principi
extra giuridici, come ad esempio
quelli che sottendono l’intera
architettura normativa dei diritti
umani, finiscono non solo per
aprire i sistemi giuridici a norme
che non sono posite, ma rendono
possibile anche la contaminazione, ovvero citazione, di sentenze
attraverso i confini nazionali,
avendo tali principi extra-giuridici un valore che prescinde dall’ordinamento
dello
Stato
(Bobek, 2008; Kuhn, 2003 e
2005; Pernice, 2004). La costruzione dello spazio giudiziario
europeo accentua pertanto le tendenze evolutive già messe in
rilievo dagli studiosi (Ferrarese,
1999 e 2003) nell’ambito della
sociologia del diritto.
Un secondo punto che ci
preme portare alla attenzione
riguarda la molteplicità dei ruoli
che si sono affiancati a quello
tradizione di carattere giudiziario
(soluzione dei conflitti sulla base
202
di norme astratte, imparziali,
certe). Questa trasformazione
avviene in modo surrettizio, laddove l’aspetto precedentemente
toccato è maggiormente evidente. L’ampiamento della gamma
di standard con i quali si valuta la
qualità della giustizia induce un
ampiamento della gamma dei
comportamenti del magistrato
che possono essere sottoposti a
regolazione e controllo via standardizzazione. Se infatti si
richiede ad un magistrato di
ottemperare obblighi di efficienza (gestione adeguata delle risorse), obblighi di comunicazione
con il pubblico (trasparenza e
accountability sociale), per restare all’interno dell’ambito coperto
dagli standard della CEPEJ, i
comportamenti del magistrato
soggetti a istituzionalizzazione,
normazione, controllo sono di
numero maggiore (almeno per
tipo). Il ruolo del magistrato non
si esplica solo nella gestione
delle sentenze (studio delle
norme salienti, articolazione
della sentenza, rendere giustizia), ma anche nella gestione
delle risorse umane e materiali,
nella gestione degli strumenti
comunicativi (fra i quali vanno
compresi anche i media).
Un ruolo espanso per qualità
e per quantità richiede la dotazione di conoscenze e know how
diversi e certamente maggiori
rispetto a quelli che potevano
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La professione
del magistrato
nella costruzione dello spazio
giudiziario europeo
rispondere alla domanda di formazione giudiziaria in mondo
tradizionale westfaliano. Tali
saperi spaziano dalla conoscenza
del diritto, alla conoscenza degli
strumenti di gestione dei tribunali (compresa quella delle tecnologie informatiche), alla conoscenza delle linmgue straniere
(per comunicare con i colleghi di
altri paesi), alla conoscenza delle
scienze sociali (al fine di meglio
interagire con l’ambiente esterno, pubblico, media, politica).
Non è un caso che l’agenda
della CCJE si sia spostata vigorosamente fino a toccare la
domanda della qualità delle decisioni giudiziarie, dove per qualità non si intende “rispetto dei
termini della legge”. Si intende
una complessa articolazione di
proprietà che devono soddisfare
standard comportamentali, solo
alcuni dei quali hanno una natura
squisitamente giuridica.
Che ne è di Parsons dunque?
La differenziazione funzionale
che appariva come centrale nello
sviluppo dei sistemi sociali
moderni, una funzione, una struttura, un tipo di ruolo, si sfalda
sotto la pressione dei processi di
sovranazionalizzazione,
che
hanno la peculiare caratteristica
di mettere in rilievo anche quanto complesse siano oggi le
domande rivolte al sistema giudiziario.
In tal senso la formazione del
La
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Associazione
Nazionale
Magistrati
magistrato deve rispondere ad un
compito arduo, ma al contempo
stimolante. È infatti assai possibile che l’insieme dei know how
e dei saperi di cui il magistrato
deve essere dotato provengano
da discipline che spaziano dalle
scienze sociali, al management,
all’informatica, alla psicologia
sociale e della decisione. Contaminazione,
comunicazione,
scambio, discussione fra professioni che tradizionalmente, in
ottemperanza al principio della
divisione dei lavori e dei saperi,
si sono tenute meticolosamente
all’interno dei propri spazi regolati da peculiari standard di comportamento.17
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Giustizia italiana e standard europei
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Note
1. Principio 3, 1.a.
2. Opinione 4, par. 28.
3. Fra Unione europea e Consiglio d’Europa sussistono tuttavia sinergie e sovrapposizioni di carattere normativo. Si veda in proposito
Benoit-Rohmer, 2005.
4. Opinione 4, Titolo 6, par. 43. Si aggiunge poi che “al fine di promuovere questo aspetto essenziale dei doveri dei magistrati, la CCJE
considera che gli Stati membri [del Consiglio
d’Europa, n.d.a.], dopo avere rafforzato lo studio del diritto comunitario nelle università, debbano promuovere la sua inclusione anche nei
programmi di formazione iniziale e in corso di
carriera”.
5. Http://www.coe.int/lisbon_network
6. CCJE, Opinione 4, titolo 6, par. 46 (si
auspica il potenziamento del European
Network of Judicial Training al fine di armonizzare i programmi di formazione).
7.
http://www.ejtn.net/www/en/html/index.htm
8.
http://www.ejtn.net/www/en/html/nodes_
main/4_1949_208.htm (link “members”).
9. Il Network è un organo indipendente dai
governi nazionali.
204
10. EJTN, Newsletters, 2005, 2006, 2007.
11. Consiglio d’Europa, DG Affari Giuridici, 2006.
12. Comunicazione della Commissione al
Parlamento europeo e al Consiglio, sulla formazione giudiziaria nell’Unione europea, COM
(2006) 356 finale, p. 2.
13. La concezione delle norme come strumenti che istituiscono (costituiscono) tipi di
azioni si trova in Luckmann e Berger, 1977, poi
in Mc Cormick, 1991, e in La Torre, 1999.
14. Si veda su questo il nostro precedente
intervento su questa stessa rivista.
15. Comunicazione della Commissione al
Consiglio e al Parlamento europeo, Il Programma del L’Aja, COM(2005), 184 finale.
16. Raccomandazione R 94, principio 3, 3.g.
17. Un ultimo aspetto che merita essere
ricordato è l’accento posto dal processo di standard setting sulla meta-cognizione dei magistrati (Girotto, 1998). Per metacognizione si
intende la conoscenza di quello che un individuo sa e la consapevolezza di quali sono i propri bisogni formativi. Si veda i rapporti-paese
raccolti dal Network di Lisbona.
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Poteri violenti
e mafie
*Componente
del Consiglio
Superiore
della Magistratura
Gli strumenti della lotta alla mafia
Livio Pepino*
1. Dire «poteri violenti»
significa evocare soggetti organizzati e influenti che esercitano
la forza in modo aggressivo e
privo di controlli pubblici e/o
democratici (id est, in modo illecito). Categoria assai ampia, a
ben guardare. Comprensiva, per
un verso, di soggetti istituzionali
(le dittature sanguinarie in primis) e di realtà che alle istituzioni si contrappongono (o sembrano contrapporsi) e, per altro
verso, di organizzazioni apertamente criminali e di strutture
complesse operanti su una pluralità di piani. Dei poteri violenti
fanno parte a pieno titolo le
mafie1, ma non v’è, fra le due
categorie, coincidenza: non solo
per la varietà ed eterogeneità
della prima ma anche perché
l’organizzazione e l’uso illecito
della forza, pur costituendo un
tratto distintivo e immancabile
delle mafie, non bastano a definirle.
Per orientarsi e cercare di
mettere ordine nell’intreccio tra
poteri, violenza e attività illecite
occorre addentrarsi nell’analisi
dell’evoluzione in atto dei principali fenomeni mafiosi e criminali.
2. Conviene partire dalle tre
organizzazioni mafiose storiche
del nostro Paese: la mafia in
senso stretto (o mafia siciliana o
Cosa nostra), la ‘ndrangheta e la
206
camorra. Si tratta, come noto, di
organizzazioni tra loro assai
diverse non solo nelle strategie
criminali e nelle relazioni esterne
ma anche nella struttura. In sintesi, e facendo riferimento alle
analisi più classiche: la prima è
organizzata in modo tendenzialmente unitario e gerarchico; la
seconda realizza un modello
orizzontale o federativo; la terza
si configura come una costellazione di associazioni spesso in
lotta tra di loro. Eppure tutte le
definizioni classiche delle mafie
individuano in esse elementi fondamentali comuni (seppur variamente intrecciati): una struttura
associativa stabile, risalente nel
tempo, con coesione interna irrobustita da riti di iniziazione e con
caratteri – più o meno marcati –
di segretezza; l’esercizio di una
vera e propria sovranità su un
determinato territorio (con le
connesse prerogative, tra cui
l’uso sistematico della forza);
l’esistenza, nell’area geografica
di riferimento, di un significativo
consenso sociale; l’ingente accumulazione economica e l’impiego imprenditoriale dei capitali
acquisiti; il più o meno rilevante
(ma costante) peso politico. In
maggiore o minor misura tali
elementi caratterizzano, in Italia,
anche le nuove mafie: soprattutto
la Sacra corona unita (SCO),
comunemente considerata la
«quarta mafia», nata nei primi
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Poteri violenti
e mafie
anni Ottanta e operante in una
ampia area comprensiva delle
province di Brindisi, Lecce,
Taranto e del Salento.
La compresenza delle caratteristiche sin qui descritte individua un vero e proprio modello
mafioso, da anni preso in considerazione in maniera esplicita
anche nel nostro sistema penale.
La legge 13 settembre 1982, n.
646 (comunemente nota come
legge Rognoni-La Torre) infatti,
nell’introdurre nel codice penale
il delitto di associazione mafiosa,
prevede che la relativa disciplina, dettata dall’art. 416 bis, «si
applica anche alla camorra e alle
altre associazioni, comunque
localmente denominate, che
valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a
quelli delle associazioni di tipo
mafioso». In questa ottica la giurisprudenza ha applicato la fattispecie in esame anche a ipotesi
apparentemente assai lontane da
quella originaria, comprese quelle di organizzazioni straniere
dedite a traffici illeciti (di persone o di stupefacenti) sul territorio
nazionale.
C’è di più. Molti elementi
simbolici tipici delle organizzazioni mafiose (i riti, il segreto, il
vincolo di fedeltà al gruppo, l’organizzazione gerarchica, la confusione tra virtuale e reale, la criminalizzazione dell’avversario)
sono diventati, negli ultimi
decenni, caratteri strutturali,
palesi o comunque riconoscibili,
della cultura diffusa e finanche di
una parte significativa del sistema politico2; e, ancora, termini
come «mafia» e «mafioso» vengono abitualmente usati per definire situazioni eterogenee (si
pensi all’espressione «messaggio
mafioso»). In altri termini, la
mafia ha fatto scuola, non ha trasformato la sua specificità in fattore di chiusura e isolamento, ma
si è rivelata un modello capace di
espansione.
3. Prima di proseguire è
opportuno estendere lo sguardo
alle mafie operanti in realtà geopolitiche diverse da quella italiana. In proposito è necessario
guardarsi dalle generalizzazioni
(ché, nel linguaggio giornalistico
– e non solo –, è invalso in modo
tanto diffuso quanto improprio
l’impiego del termine «mafia»
per definire qualunque organizzazione criminale potente,
agguerrita e dotata di elevata
professionalità delinquenziale) e
fare uso del massimo rigore,
districandosi tra carenza di informazioni approfondite, siti internet non tutti egualmente affidabili e frequenti diversità di valutazioni tra studiosi. Ma l’operazione è necessaria per comprendere
e interpretare gli sviluppi di una
realtà in continuo movimento
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Gli strumenti della lotta alla mafia
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(soprattutto negli ultimi decenni). Del resto, già quindici anni
fa Giovanni Falcone scriveva
che «nel panorama criminale
internazionale, le maggiori organizzazioni, depurate dalle loro
specifiche connotazioni ambientali, presentano caratteristiche
non dissimili da quelle della
mafia (...). Tale unicità sostanziale del modello organizzativo
nelle più importanti organizzazioni criminali operanti a livello
internazionale, consente di usare
per le stesse il termine “mafia” in
una accezione certamente più
estensiva di quella che è normalmente, in senso tecnico, il significato di questa parola, ma in una
accezione tuttavia non priva di
un certo rigore scientifico»3.
3.1. Spiccano, tra le organizzazioni storiche assimilabili alle
mafie, le Triadi cinesi e la Yakuza giapponese
Le origini delle Triadi cinesi4
risalgono a oltre due secoli fa. Di
esse si parla inizialmente come
di società segrete sorte per combattere la corruzione del Governo centrale, ma è certo che,
quantomeno dopo la instaurazione della repubblica nel 1911,
esse persero ogni venatura ideologica per assumere la veste preponderante di organizzazioni criminali. Le Triadi non sono mai
state – e non sono – una organizzazione unitaria bensì una costel208
lazione di strutture associative
aperte quanto a classi sociali,
con numero di componenti variabile (da poche decine ad alcune
migliaia), caratterizzate spesso
da rapporti parentali o da provenienza geografica omogenea,
legate all’interno da vincoli di
solidarietà e omertà assai forti,
cementate da giuramenti e riti di
iniziazione talora sofisticati.
Ogni Triade, poi, è strutturata al
proprio interno in modo gerarchico, con la previsione di ben
sei livelli o gradi. Le Triadi sono
diffuse non solo nella madre
patria e nella città di Hong Kong
(diventata principale luogo di
diffusione durante il regime
comunista e giunta, negli anni
Novanta, a contare sul proprio
territorio un numero di affiliati
superiore a centomila) ma anche
in tutte le realtà a grande immigrazione cinese. Esse hanno
spesso come caratteristica peculiare la facciata di associazioni
di mutuo soccorso o di società
finanziarie, che le colloca formalmente in una situazione di
liceità. Le loro attività criminali
(estorsioni, traffico di stupefacenti, controllo del gioco d’azzardo e di traffici clandestini di
merci, riciclaggio e sfruttamento
della prostituzione) sono gestite
– secondo gli accertamenti di
numerose autorità di polizia –
con il ricorso a forme di violenza
particolarmente efferate.
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Poteri violenti
e mafie
Ancor più antica delle Triadi
cinesi è la Yakuza giapponese5,
risalente addirittura al Medio
Evo, pur se soggetta, nei secoli, a
profonde trasformazioni che la
configurano come organizzazione originariamente composta da
classi e ceti sociali deprivati e
poi, nell’Ottocento, rilanciata da
samurai fattisi banditi per
«togliere ai ricchi e dare ai poveri». Qual che ne sia l’origine,
negli anni Novanta la Yakuza si
presenta come organizzazione
reticolare composta – secondo
stime accreditate – di 3.400 clan
e di 90.000 uomini. Tra i suoi
caratteri principali si segnalano: i
riti di accesso e i simboli di
appartenenza; un mix di segretezza e di visibilità, posto che
alcune strutture della organizzazione si presentano addirittura
«con uffici aperti al pubblico,
con un cartello all’esterno che
indica il nome del gruppo o lo
stemma»; un rapporto assai stretto della struttura associativa formale con le istituzioni, al punto
che, nel 1997, 23 clan si presentavano come organizzazioni
filantropiche con contributi statali (tanto che – difficile dire se
per ragioni di sostanza o di
immagine – una legge del 1992
impose a tali organizzazioni il
limite del 12 per cento di soci
condannati penalmente). I settori
principali di attività criminale
della Yakuza sono quelli classici
(traffico di stupefacenti, riciclaggio, estorsioni, sfruttamento
della prostituzione etc.) anche se
ad essi si affiancano in modo
significativo incursioni esplicite
e strutturate nelle attività industriali o finanziarie, come nel
caso dei sokaiya, azionisti con
quote irrisorie che intervengono
per conto terzi nelle assemblee
delle società interessate al fine di
influenzare le scelte aziendali
con la minaccia e l’intimidazione.
3.2. Diverse dalle precedenti
sono alcune agguerrite organizzazioni, prive di radici storiche
ma dotate di altri caratteri comuni con le mafie. Il riferimento è,
in particolare, alla mafia russa, ai
Cartelli colombiani e ai clan
nigeriani.
La mafia russa (Organizatsya
o Mafiya)6 assume una dimensione eccedente i confini locali e
una mole di affari considerevole
(e in costante crescita) solo a partire dalla metà degli anni Ottanta
con il crollo dell’Unione sovietica. L’humus su cui essa nasce è
una realtà diffusa di bande criminali composte da qualche decina
o centinaia di affiliati, operanti
su base locale, dedite soprattutto
ad attività predatorie, frodi e
sfruttamento della prostituzione,
dirette da capi indiscussi detti
vory v zakone (letteralmente
«ladri sottoposti a una regola»)7,
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spesso dotate di riti di iniziazione e di segni distintivi per gli
aderenti (classico quello dei
tatuaggi). Il salto di qualità e la
trasformazione di tale sistema di
malavita in insieme di organizzazioni strutturate e influenti anche
sul piano economico e politico è
intervenuto con il passaggio dal
sistema collettivistico all’economia di mercato e con il contestuale indebolimento del potere
statale, incapace di controllare
l’immenso territorio russo e di
gestire una situazione sociale
esplosiva. In tale contesto la
malavita classica, pur mantenendo alcuni caratteri identificativi
originari, si è trasformata e
potenziata con l’ingresso massiccio di ex ufficiali dei dissolti
KGB e GRU (servizi segreti interni e internazionali) e di professionisti spregiudicati di ogni
genere e mediante la pratica massiccia di traffici (in particolare di
armi e materie prime) con l’estero. Oggi la mafia russa si presenta come una costellazione o un
arcipelago di brigade (corrispondenti alle famiglie della mafia
siciliana o della ‘ndangheta) che,
secondo le stime più accreditate,
ammontano a circa 350, nella
maggior parte radicate a Mosca,
San Pietroburgo, Ecaterinburgo e
Vladivostok. Operativamente le
brigade hanno una struttura verticale al cui apice stanno spesso
personaggi insospettabili della
210
vecchia nomenklatura o della
nuova borghesia. La capacità di
controllo delle attività economiche e la entità della violenza di
tali brigade sono impressionanti:
già dieci anni fa si parlava di un
controllo sul 40 per cento delle
imprese private, sul 66 per cento
degli esercizi commerciali, su
400 banche, 50 borse e 1.500
imprese di proprietà statale8 e le
cronache descrivono un crescendo continuo di omicidi di oppositori (cioè funzionari pubblici non
disponibili alla corruzione e
giornalisti indipendenti).
Con la definizione «Cartelli
colombiani»9 si indicano, in
modo un po’ improprio, le principali organizzazioni dedite,
negli ultimi decenni del secolo
scorso, al traffico di stupefacenti
(soprattutto cocaina) dalla
Colombia ai mercati europei e
nordamericani. I cartelli erano in
realtà delle vere e proprie imprese a carattere multinazionale, con
struttura piramidale e rigida
compartimentazione che si occupavano dell’intero ciclo della
droga (dalla produzione alla
distribuzione),
avvalendosi
anche di collaborazioni e di capitali estranei alla organizzazione.
I due cartelli principali sono stati
quelli di Medellin (il cui esponente più noto e leggendario è
stato Pablo Escobar10) e quello di
Cali, giunti a controllare, secondo stime attendibili, quasi il 70
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e mafie
per cento del traffico internazionale di cocaina. Entrambi i cartelli, seppur con sistemi diversi,
non si sono limitati alla gestione
di affari illeciti ma, al fine di
condurli in condizioni di maggior sicurezza e tranquillità, si
sono sempre preoccupati di
garantirsi copertura e protezione
pubblica: con la corruzione il
cartello di Cali, con l’esercizio di
una violenza pari a quella di una
guerra civile quello di Medellin
(a cui si devono tra l’altro, negli
anni Ottanta, gli omicidi di cinquanta giudici e di centinaia di
poliziotti, l’attacco militare alla
Corte suprema mentre era impegnata nel giudizio di validità del
trattato di estradizione negli Stati
Uniti, l’abbattimento di aerei,
l’uccisione di un candidato alla
presidenza). Tale esercizio di
violenza si è accompagnato, nel
cartello di Medellin, con opere
sociali di grande impatto, come
la costruzione di ospedali, di
oltre cento campi sportivi, di
quattrocento case popolari finalizzata a costruirsi un’area di
consenso nelle classi più povere.
I due cartelli storici si sono esauriti sul finire degli anni Novanta
con l’uccisione di Pablo Escobar
e con l’arresto contrattato degli
altri principali leader. Dalle
ceneri dei cartelli, e grazie anche
alla loro strutturazione in subcartelli, è, peraltro, nato un
nuovo sistema organizzativo, più
flessibile e articolato, che consta
attualmente – secondo le stime
più accreditate – di circa duecento associazioni indipendenti con
vaste ramificazioni e alleanze in
altri Paesi dell’America del Sud
e in Messico.
Tratti di modernità analoghi a
quelli delle organizzazioni
colombiane caratterizzano i Clan
nigeriani11, anch’essi apparsi
sulla scena internazionale nei
primi anni Ottanta e presto
diventati i controllori del traffico
di eroina verso gli Stati Uniti e
l’Europa. I caratteri peculiari
delle molteplici organizzazioni
nigeriane (dedite, oltre che al
traffico di stupefacenti, allo
sfruttamento della prostituzione
di connazionali e a frodi internazionali) sono: una struttura verticale e ben compartimentata, una
forte omertà e segretezza e un
uso spietato della violenza (verso
il proprio interno e nei confronti
delle vittime) coniugati con una
grande capacità di alleanze con
altre organzizazioni criminali e
con una vasta rete di riferimento
a livello internazionale (facilitata
dalla presenza diffusa in molti
Paesi di connazionali emigrati).
Questi profili di indubbia modernità si innervano su un humus
arcaico, costituito dalla commistione con una vasta rete di sette
religiose e dalla adozione di riti,
sia a fini di affiliazione sia a fini
di controllo e dominio sulle vitti211
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me (in particolare nello sfruttamento della prostituzione).
4. La sommaria carrellata sin
qui svolta consente di individuare alcuni tratti di un metodo che,
pur muovendo talora da situazioni di fatto diverse, sta conformando, con influenze reciproche, le principali organizzazioni
e i loro rapporti con la società
circostante. Ciò consente di
riprendere il discorso sui poteri
violenti non istituzionali, che
sembrano costituire il modello
evolutivo delle mafie, differenziandole in modo crescente dalle
gang criminali comuni, che
hanno altra genesi e altre caratteristiche12 e di cui esistono in Italia esempi significativi13. Conviene soffermarsi su alcuni punti
cruciali.
4.1. Una prima caratteristica
della evoluzione delle organizzazioni mafiose sta nel consolidamento del loro carattere interclassista, con una forte presenza
di borghesia o di classe media (e
talora alta).
Esemplare, nelle mafie italiane, è il caso di Cosa nostra, nel
cui milieu i “briganti” e i “galantuomini” si incontrano, si parlano, si toccano, costituiscono un
tutt’uno. In esso le differenze di
status, di censo, di cultura, di
collocazione sociale non sono
certo eliminate, ma i rapporti non
212
rispecchiano in modo rigido e
immodificabile le stratificazioni
sociali. Altrettanto – e ancor più
– ciò accade in alcune delle più
importanti organizzazioni criminali straniere. È il caso della
mafia russa, il cui carattere specifico è proprio l’intreccio tra
antiche bande diseredate dedite a
delitti comuni e violenti, strutture burocratiche e militari in
libertà e nuova borghesia (sì da
rendere abituale anche in tale
realtà l’uso, da parte degli studiosi, della espressione «borghesia mafiosa»). Illuminante è un
passaggio dell’intervento svolto
il 23 giugno 1993 davanti alla
Commissione antimafia italiana
dal generale Aslanbeek A. Aslahnov (presidente del Comitato per
la legalità, l’ordine pubblico e la
lotta contro la criminalità della
Federazione russa) che vale la
pena riportare per la sua esemplarità: «Per quanto riguarda un
diretto legame tra ambiente politico e criminalità, vorrei portate
un esempio. È qualcosa che deve
essere visto con i propri occhi,
altrimenti è difficile crederlo:
poniamo che si inauguri una
nuova azienda o una mostra di
quadri; lei potrà vedere che all’inaugurazione si presentano noti
esponenti criminali in doppio
petto accanto agli uomini politici
e gli uni e gli altri si salutano»14.
Egualmente aperte in punto partecipazione sono strutturalmente
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Poteri violenti
e mafie
– come già si è detto – le Triadi
cinesi e la Yakuza, sia in patria
che nella diaspora.
Evoluzioni analoghe, poi, si
intravedono, pur nella diversità
dell’origine e della struttura, in
organizzazioni come la camorra
e i Cartelli colombiani, entrambi
nati e stabilmente ancorati alla
plebe, ma capaci oltre che di un
uso esponenziale di violenza
anche di intrecci impensati con
la borghesia: se pur non può parlarsi, per esse, di una «borghesia
mafiosa» in senso proprio, non
va dimenticato che la camorra,
soprattutto con il suo ingresso
nei traffici internazionali, conosce contaminazioni e rapporti
che la allontanano definitivamente dal modello della criminalità stracciona e che i Cartelli
colombiani hanno fin dall’inizio
come metodo di espansione l’impiego di capitali anche ingenti
investiti da soggetti estranei
appartenenti al ceto dirigente del
Paese.
4.2. Le mafie (non solo la
mafia siciliana che ne costituisce, in qualche modo, il prototipo, anche sotto il profilo terminologico) sono nate prevalentemente in contesti territoriali limitati e spesso caratterizzati da economie arcaiche. Ma il loro sviluppo e la loro espansione in luoghi e mercati diversi dal territorio di radicamento dimostrano
l’inadeguatezza delle interpretazioni che le considerano, nei fatti
(quando non in modo esplicito),
fenomeni contingenti legati
all’arretratezza,
economica,
sociale, politica. Esse, in realtà,
non sono figlie del sottosviluppo
e la loro rappresentazione come
metafora dell’arretratezza è una
visione a dir poco parziale ché il
loro tratto specifico è proprio
quello di essere state sempre (e
tanto più ora) strutture di potere
capaci di coniugare tradizione e
modernità e, soprattutto, di inserirsi nelle dinamiche economiche
piegandole o controllandole a
proprio vantaggio. L’idea di una
mafia sconfitta dal progresso è
un’ingenua illusione o un’abile
bugia. E i boss rozzi e semianalfabeti sono una parte soltanto
della realtà mafiosa che mostra al
loro fianco, con un sorprendente
interscambio di ruoli, tipi d’autore di tutt’altra caratura culturale
e di ben diverso status sociale.
Ciò – come si è visto – riguarda
tutte le mafie (italiane e straniere), delle quali gli osservatori
segnalano, talora con sorpresa
(in realtà ingiustificata), i caratteri di estrema e sofisticata
modernità anche tecnologica.
Uno dei corollari dell’adeguamento delle mafie alla modernità
è il loro tener conto della complessità, con progressivo abbandono (persino, seppur con qualche resistenza, da parte di Cosa
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nostra) del modello rigidamente
centralista in favore di strutture
reticolari, collegate tra di loro e
ricche di relazioni esterne, tanto
da indurre un attento studioso a
dire, in modo solo apparentemente paradossale, che la forza
della mafia sta al suo esterno,
«nelle relazioni esterne dei
mafiosi, che costituiscono in
definitiva la loro forza, la loro
capacità di adattamento, di radicamento e di diffusione»15.
4.3. Un terzo dato emergente
è la crescita (o il consolidarsi),
ovunque, dell’interazione tra
mafie e politica.
Il caso più studiato, nel nostro
Paese, è quello del rapporto tra
istituzioni, politica e mafia siciliana. La tipologia di tale rapporto – in estrema sintesi – è chiara:
la mafia non ama il protagonismo diretto nella sfera politica e
il condizionamento palese dell’attività parlamentare. Buscetta,
di fronte alla Commissione antimafia, dichiara che anche il
deputato colluso deve poter votare una legge contro la mafia perché tutte le persone ragionevoli
si rendono conto che egli «deve
conservare quell’immagine pubblica anche a scapito di Cosa
nostra»: i politici devono rispettare le regole della politica come
i mafiosi devono rispettare quelle della mafia, perché le cose
possono funzionare solo lascian214
dole nel loro ordine naturale16.
L’atteggiamento degli “uomini
d’onore” nei confronti della politica e dei politici è stato – ed è –
di formale rispetto o, addirittura,
di deferenza17, ma a ciò si è sempre accompagnata, nel merito, la
richiesta di trattare da pari a
pari18. Ciò esalta il peso delle
interazioni sia nella definizione
delle strategie complessive che
nelle scelte contingenti. È un
sistema risalente nella storia
della mafia, non disdegnato, pur
con diversa intensità e modalità
di rapporti, da personaggi politici di primo piano della nostra
storia: da Crispi a Vittorio Emanuele Orlando fino a Giulio
Andreotti19. Diverso il caso della
camorra, la cui natura tipicamente plebea non toglie, peraltro, che
i ceti dominanti di Napoli e della
Campania abbiano sempre intrattenuto con essa un rapporto particolare, sia in termini di generica tolleranza della illegalità sia in
termini di gestione di specifiche
emergenze20. E lo stesso accade
per le principali mafie straniere.
In Colombia i Cartelli sono dei
veri e propri decisori politici in
gradi di trattare da pari a pari con
i Governi21; in Giappone la Yakuza condiziona pesantemente l’attività politica (come è emerso in
maniera univoca da alcuni scandali degli anni Novanta e dalle
conseguenti inchieste giudiziarie) e ha finanche contrattato
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e mafie
leggi che la riguardano; per
quanto riguarda la Cina, sono
state segnalate aperture alle Triadi, indicate come «organizzazioni patriottiche», anche da parte di
dirigenti di primo piano del regime comunista22.
Difficile non vedere in ciò
solidi indizi di un rapporto tra
mafie e politica «caratterizzato
da un legame di reciproco bisogno»23. Ciò rende ambigua – se
non francamente elusiva – la
definizione, pur frequente sui
media e nel linguaggio comune,
delle mafie come antistato. In
essa, infatti, v’è certamente del
vero (e non poco) ma le sfuggono la complessità e la doppiezza
delle mafie, che propongono nel
rapporto con le istituzioni profili
cangianti che vanno dall’antagonismo alla compenetrazione. Del
resto, come è stato scritto: «se la
mafia rappresentasse davvero
l’antistato, la cronaca non ci
riporterebbe con sempre maggior
frequenza la notizia di un numero crescente di Stati-mafia. In
questo caso il paradosso si coglie
soltanto se facciamo coincidere
lo Stato con la democrazia, con
l’idea del potere pubblico in pubblico, e la mafia, invece, con l’esasperazione criminale di un
interesse comunque privato»24.
4.4. I rapporti e i fenomeni
descritti si intrecciano, per di
più, con alcuni cambiamenti in
atto della politica, anche in relazione all’esercizio di alcune
delle sue specifiche competenze.
L’esempio più rilevante ai fini
che qui interessano è – insieme
alla progressiva sottrazione al
controllo democratico delle decisioni pubbliche – quello della
cosiddetta esternalizzazione dell’uso della forza che ha manifestazioni di immediata evidenza
ad ogni livello (nazionale e internazionale): dall’impiego in operazioni belliche – per esempio
nella guerra in Iraq – di forze
irregolari, ingaggiate da società
private, quantitativamente superiori a quelle regolari (cioè a
quelle inquadrate nelle forze
armate dei Paesi belligeranti)
alla gestione da parte di agenzie
private di prigioni e corpi di sicurezza (i vigilantes diffusi in tutte
le società occidentali).
Orbene, ciò che sta accadendo
in modo frequente e vistoso è il
trasferimento di queste funzioni
direttamente alle mafie. Il fatto, a
ben guardare, non è nuovo né nel
nostro Paese né nel panorama
internazionale. Persino nella storia della camorra (l’organizzazione che più incarna l’illegalismo popolare) c’è una componente di esercizio delegato di
poteri di polizia in senso stretto:
si pensi all’affidamento alle
organizzazioni camorristiche di
compiti di tutela della sicurezza,
operato nel 1860 – alla vigilia
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dell’ingresso a Napoli di Garibaldi – dal prefetto borbonico
Liborio Romano per evitare sollevazioni e disordini: singolare
affidamento nato dalla convinzione «non solo del potere dei
camorristi sul popolo, ma anche
della loro abituale funzione di
contenitori e calmieratori della
violenza»25. Quanto alla mafia
siciliana, poi, basti citare la tacitiana descrizione, risalente al
1875, del duca Gabriele Colonna
di Cesarò secondo cui «tutti i
baroni, tutti i proprietari tanto
delle città come dell’interno
hanno sempre avuto una forza
che stava attorno a loro e della
quale si sono sempre serviti per
farsi giustizia da sé senza ricorrere al Governo e della quale forza
si sono serviti ogni qualvolta si è
dato il segnale della rivoluzione»26 o considerare il suo ruolo
nella strategia separatista del
secondo dopoguerra, perseguita
anche con una vera e propria
strategia della tensione. Allo
stesso modo è stato ripetutamente segnalato il ruolo di braccio
armato del Governo svolto dalle
Triadi cinesi che, nel 1927, parteciparono alla sanguinosa
repressione dei sindacati dei
lavoratori nella città di Shangai.
Ma il fatto in qualche misura
nuovo è che ciò ha assunto, negli
ultimi decenni, una dimensione
per così dire strutturale. Così, per
limitarsi ad alcuni esempi etero216
genei, in Russia la mafia gestisce
una parte significativa delle
agenzie di sicurezza private27, in
Colombia il cartello di Cali ha
svolto veri e propri compiti di
polizia sia nel garantire l’ordine
pubblico in città28 sia nell’assicurare alle autorità i principali
esponenti del cartello rivale di
Medellin29, in Calabria e a Palermo il controllo del territorio nei
confronti della microcriminalità
di strada assicurato dalla ‘ndrangheta e da Cosa nostra non è
stato disdegnato, nei periodi di
pax mafiosa, dalle istituzioni.
In sintesi, le mafie si appropriano di poteri e prerogative che
nell’organizzazione politica contemporanea sono monopolio
dello Stato e diventano “imprenditori della sicurezza”; e ciò – è
questo l’aspetto più significativo
e inquietante – accade non in
modo conflittuale (nel senso di
una sottrazione di poteri allo
Stato) bensì in modo consensuale (nel senso di una cessione di
poteri o di una delega, nei fatti, a
esercitarli).
4.5. Il percorso evolutivo
delle mafie (e, parallelamente,
dell’agire di ampi settori delle
classi dirigenti e della politica)
ha incrinato in modo significativo – e talora abbattuto – il tradizionale confine tra lecito e illecito.
Nel settore dell’economia il
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e mafie
dato è conclamato. La radicale
tesi esposta oltre quindici anni fa
da M. Centorrino30 secondo cui
«non esiste più, rispetto alle analisi tradizionali, una contrapposizione tra economia legale, economia sommersa, alegale, illecita e mafiosa, e ci si avvia verso
un’economia “cattiva” fatte di
diverse tipologie di contatto,
compenetrazione, continuità», ha
trovato negli anni successivi
molteplici conferme ed appare
oggi condivisa da un numero
crescente di studiosi31. Il fenomeno – va aggiunto – ha assunto
dimensioni planetarie intrecciandosi con la globalizzazione e
determinando in maniera diffusa
l’estendersi della zona grigia32
tra lecito e illecito, tra legale e
illegale. Come ha scritto recentemente M. Massari: «È ormai
riconosciuto come questa globalizzazione asimmetrica faccia
sempre più ricorso alla manipolazione, se non addirittura al vero
e proprio annullamento, delle
regole del gioco e delle norme
che producono la leale competizione in campo economico e
imprenditoriale. La ricerca di
profitti crescenti a costi sempre
più limitati attraverso la frode,
l’inganno e il ricorso sistematico
alla negazione dei diritti elementari fa sì che settori crescenti
delle cosiddette élites utilizzino
frequentemente comportamenti
illegali, se non manifestamente
criminali, per raggiungere i propri obiettivi. Si tratta dell’emergere di vere e proprie “economie
sporche” che trovano una collocazione, talvolta ottimale, nei
meandri dell’economia ufficiale:
un’arena in cui criminalità organizzata e attori legali tendono a
scambiarsi servizi, a offrirsi reciprocamente favori, a promuoversi vicendevolmente nelle loro
attività imprenditoriali»33.
Inutile aggiungere che l’ombra lunga dell’economia si
proietta sulla intera organizzazione sociale e politica e che l’affievolirsi del discrimine tra lecito
e illecito ha condotto, su grande
scala, all’emergere di veri e propri «Stati mafia» e, nella realtà
del nostro Paese, alla commistione talora inscindibile di potere
legale e mafie34.
5. È tempo di conclusioni.
Ciò che sta accadendo può, in
estrema sintesi, descriversi in
questi termini: sempre più le
mafie assumono (o consolidano)
un carattere interclassista e un
rapporto privilegiato con le sedi
della politica (nella quale, parallelamente, viene meno la trasparenza e la controllabilità delle
decisioni e si verifica una crescente esternalizzazione dell’uso
della forza anche in favore di
organizzazioni criminali); in
questo contesto, il confine tra il
lecito e l’illecito si attenua sino a
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scomparire. Così le mafie entrano a far parte del sistema dei
poteri in un intreccio nel quale il
successo e il riconoscimento
sociale sembrano irrimediabilmente collocarsi sul versante
esclusivo della capacità di produrre profitti (indipendentemente dal modo in cui ciò avviene).
*È una editio minor della relazione svolta
nel ciclo di seminari organizzato a Palermo nell’autunno 2007 dalla locale Università in collaborazione con l’Ufficio dei referenti per la formazione professionale dei magistrati del
distretto di Palermo. La relazione completa
(comprensiva anche di più ampi riferimenti
bibliografici) può leggersi, insieme alle altre
relazioni, nel fascicolo monografico (n. 3/2008)
di Questione giustizia dal titolo Sistemi criminali e metodo mafioso e, ora, nel volume dallo
stesso titolo curato, per i tipi di FrancoAngeli,
da A. Dino e L. Pepino. La pubblicazione costituisce anche occasione per segnalare il recente
volume Nuovo dizionario di mafia e antimafia
(a cura di M. Mareso e L. Pepino, Ega, Torino,
2008) da cui sono tratte molte delle informazioni cui si fa riferimento nel testo, in particolare
per quanto riguarda le mafie straniere.
Note
1. Della mafia come soggetto dedito
all’«esercizio autonomo di potere extralegale»
e «compenetrato» nelle strutture del potere,
soprattutto pubblico, parlano da decenni, nel
nostro Paese, anche i documenti ufficiali, a
cominciare dalla prima – pur reticente – relazione della Commissione parlamentare antimafia, risalente al 1972. Per una accurata raccolta
dei passaggi più significativi delle relazioni
delle Commissioni susseguitesi sino alla XIII
Legislatura, cfr. N. Tranfaglia, Mafia, politica e
affari. 1943-2000, 2^ edizione (aggiornata),
Laterza, Roma-Bari, 2001.
218
2. Questa tendenza, definita ancor più
preoccupante di una ulteriore espansione delle
organizzazione mafiose, è stata segnalata già
più di quindici anni fa da N. Tranfaglia, La
mafia come metodo nell’Italia contemporanea,
Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 13.
3. G. Falcone, Il testamento di Falcone:
«Attenti ai Colombiani» (intervento svolto a
Roma il 12 maggio 1992), Narcomafie, n.
1/1993, p. 17.
4. Cfr. A. Jamieson, Cinesi, triadi, voce del
Nuovo dizionario di mafia e antimafia, cit., p.
126.
5. Cfr. A Jamieson, Yakuza, voce del Nuovo
dizionario di mafia e antimafia, cit., p. 585.
6. Tra i (pochi) scritti in materia comparsi
nel nostro Paese, cfr. F. Varese, Russa (mafia),
voce del Nuovo dizionario di mafia e antimafia,
cit., p. 485 e P. Cusano e P. Innocenti, Le organizzazioni criminali nel mondo. Da Cosa nostra
alle triadi, dalla mafia russa ai narcos, alla
yakuza, Editori Riuniti, Roma, 1996, p. 93 ss.
7. In epoca staliniana queste forme di criminalità organizzata furono combattute con
deportazione di migliaia di malviventi nei
campi di lavoro siberiani, ma ciò, lungi dal
debellare il fenomeno, finì per accrescere il prestigio di molti capi che continuarono a dirigere
le loro attività dalla prigione corrompendo o
minacciando le guardie carcerarie.
8. Così M. Dixelius, Terra madre, terra di
mafiya, Narcomafie, n. 6/1997, p. 15.
9. Sul punto vds. A. Jamieson, Colombiani,
cartelli, voce del Nuovo dizionario di mafia e
antimafia, cit., p. 132 e P. Cusano e P. Innocenti, Le organizzazioni criminali nel mondo, cit.,
p. 47 ss.
10. Pablo Escobar, arrestato una prima
volta nel 1976 con 39 chilogrammi di cocaina,
venne sei anni dopo eletto deputato supplente in
Parlamento nelle file del Partito liberale, mantenne sempre rapporti di grande cordialità con
la Chiesa locale e venne indicato nel 1987 dalle
riviste Fortune e Forbes come il quattordicesimo uomo più ricco del mondo (cfr. G. Piccoli,
Pablo Escobar, il fascino del male, Narcomafie,
n. 1/1994).
11. Cfr., P. Monzini, Nigeriani, clan, voce
del Nuovo dizionario di mafia e antimafia, cit.,
p. 381.
12. Il discrimine tra forme tradizionali di
malavita e criminalità organizzata di tipo
moderno viene, in genere, individuato negli elementi strutturali delle aggregazioni prese in
esame, nel senso che si considera «criminalità
organizzata» quella in cui «la struttura e il dato
“organizzazione” svolgono un ruolo preponde-
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e mafie
rante e superiore rispetto a quello dei singoli
aderenti». Così V. Ruggiero, Crimine organizzato: una proposta di aggiornamento delle definizioni, in Dei delitti e delle pene, n. 3/1992, p.
7 ss., all’esito di un elencazione dei fenomeni
(eterogenei) cui si fa riferimento allorché si
parla genericamente di criminalità organizzata
(che spaziano dalle associazioni prive di elementi di stabilità nel tempo, alle bande giovanili, a gruppi spontanei in cui l’elemento organizzativo è secondario). Merita, peraltro, ricordare
che tale rigida e tradizionale distinzione è da
tempo superata nella cosiddetta criminologia
critica: cfr. V. Ruggiero, Crimine organizzato,
cit., p. 7 ss. e A. Dal Lago, Controllo sociale e
nuove forme della devianza, Questione giustizia, n. 2-3/2004, p. 345 ss. Sull’evoluzione e sui
caratteri attuali del crimine organizzato cfr.
anche S. Becucci, Criminalità organizzata,
voce del Nuovo dizionario di mafia e antimafia,
cit., p. 178.
13. Tra le espressioni più significative di
criminalità organizzata diversa da quella mafiosa si possono ricordare, nel nostro Paese, il brigantaggio e alcune bande di tipo gangsteristico.
Il primo fenomeno (detto anche banditismo)
ebbe il suo massimo sviluppo nelle regioni centrali e meridionali in epoca immediatamente
postunitraria e fu, anche in testi legislativi, assimilato alla mafia. Così non è: per la diversa
base sociale (ché il brigantaggio fu essenzialmente fenomeno di fuorilegge datisi alla macchia, ancorché talora circondati da fama leggendaria), ma anche perché – dato di particolare rilievo ai fini che qui interessano – mentre
«la mafia esercitò la violenza con impunità
nella difesa del privilegio, il banditismo fu sempre in opposizione allo Stato» (così A. Jamieson, Le organizzazioni mafiose, in L. Violante
(a cura di), Storia d’Italia, Annali, 12, La criminalità, Einaudi, Torino, 1997, p. 465; cfr. sul
punto anche D. Paternostro, Brigantaggio, voce
del Nuovo dizionario di mafia e antimafia, cit.,
p. 90, il quale sottolinea come «mentre la mafia
continua a esistere ancora oggi, il brigantaggio,
quando si è manifestato, fu spento appena cessata l’emergenza che lo aveva prodotto»).
Anche le bande gangsteristiche italiane (assai
diverse dal gangsterismo americano, da cui
pure prendono il nome) differiscono profondamente dalle mafie soprattutto per il loro scarso
radicamento sociale e per la loro stretta dipendenza dal capo, scomparso il quale l’organizzazione non sopravvive a lungo. I due principali
esempi di bande gangsteristiche del nostro
Paese (che evidenziano in modo scolastico i
caratteri richiamati) sono stati, negli ultimi
decenni, quelli della Banda della Magiana (operante a Roma tra gli anni Settanta e Ottanta, su
cui cfr. M. Fiasco, Banda della Magliana, voce
del Nuovo dizionario di mafia e antimafia, cit.,
p. 55) e la Mafia del Brenta (operante negli
stessi anni nel Veneto e dintorni, sotto la guida
di Felice Maniero, su cui cfr. P.P. Romani,
Brenta, voce del Nuovo dizionario di mafia e
antimafia, cit., p. 83).
14. Il passaggio è riportato, con altri di pari
interesse, da L. Violante, Non è la piovra. Dodici tesi sulle mafie italiane, Einaudi, Torino,
1994, p. 220 ss.
15. R. Sciarrone, Mafie vecchie mafie
nuove, Donzelli, Roma, 1998, p. 293.
16. Commissione parlamentare antimafia,
XI legislatura, audizione di Tommaso Buscetta,
16 novembre 1992, p. 428, citata in S. Lupo,
Andreotti, la mafia, la storia d’Italia, Donzelli,
Roma, 1996, p. 41.
17. Questa (tradizionale e risalente) tipologia di rapporti è stata sovvertita da Riina e dal
suo gruppo di potere, ma sembra essersi trattato più di una parentesi che di uno stabile cambiamento di strategia, come dimostra la vicenda
di questi ultimi anni con il prevalere di quello
che è stato chiamato il “modello Provenzano”.
18. Non è una novità, se già nel 1876 un
parlamentare della destra storica, all’esito di
una nota indagine informale in Sicilia, si esprimeva nei seguenti termini: «quella popolazione
di facinorosi (i mafiosi, ndr) che prima era al
servizio dei baroni diventò indipendente; sicché
per ottenere i suoi servigi bisognò trattare con
essa da pari a pari. (...) Coloro che predominano, se vogliono adoperare la classe facinorosa
ai loro fini devono pur permetterle di curare i
suoi interessi particolari e indipendenti» (L.
Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, in L. Franchetti e S. Sonnino,
Inchiesta in Sicilia, ripubblicazione, Vallecchi,
Firenze, 1974, p. 72).
19. Tale sistema è ricostruito analiticamente in S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai
giorni nostri, Donzelli, Roma, 2000. Su alcuni
collegamenti storici tra mafia e settori della
politica, emersi nel corso delle indagini conseguenti agli omicidi di Emanuele Notarbartolo e
di Joe Petrosino (commessi rispettivamente nel
1893 e nel 1909), cfr. anche G. Montanaro, Il
contesto storico sociale, in Gruppo Abele (a
cura di ), Dalla mafia allo Stato. I pentiti: analisi e storie, Ega, Torino, 2005, p. 35. Sulla
trama di rapporti evidenziati dal processo a
carico del sen. Andreotti (conclusosi, come
noto, per quanto riguarda il periodo precedente
il 1980 con sentenza di non doversi procedere
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per essere il reato estinto per prescrizione,
fermo che i fatti accertati dimostrano «una vera
e propria partecipazione alla associazione
mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel
tempo»: così Corte appello Palermo, sentenza 2
maggio 2003) cfr. L. Pepino, Andreotti, la
mafia, i processi, Ega, Torino, 2005 e N. Tranfaglia, La sentenza Andreotti. Politica, mafia e
giustizia nell’Italia contemporanea, Garzanti,
Milano, 2001.
20. Così I. Sales, La camorra, le camorre,
Editori riuniti, Roma, 1993, che ricorda, tra
l’altro, i casi emblematici della ricostruzione
del dopo terremoto del 1980 (in cui la cogestione dei fondi stanziati da parte della politica e
della camorra fu conclamata) e delle trattative
per la liberazione dell’on. Cirillo, sequestrato
dalle Brigate rosse, «unico caso di cui si abbia
notizia, certo in Italia e forse nel mondo, in cui
esponenti di un partito politico, terroristi,
camorristi, servizi segreti, “pezzi di Stato”
hanno strettamente collaborato e si sono reciprocamentre influenzati per liberare un ostaggio nelle mani di una banda criminale» (cfr. p.
47 ss.).
21. Si veda, per esempio, l’impressionante
quadro descritto da G. Piccoli, Colombia, il
paese dell’eccesso, Feltrinelli, Milano, 2003.
22. Per più precise indicazioni sul punto
cfr. P. Cusano e P. Innocenti, Le organizzazioni
criminali nel mondo, cit., p. 62.
23. A Jamieson, Le organizzazioni mafiose,
cit., p. 462. Cfr. altresì L. Pepino e M. Nebiolo,
Poteri, mafia e antimafia, in L. Pepino e M.
Nebiolo (a cura di), Mafia e potere, Ega, Torino, 2007, p. 18.
24. F. Armao, Il mafioso e i suoi paradossi,
Il Mulino, n. 395, maggio-giugno 2001, pp.
489-490.
25. Così I. Sales, La camorra, cit., p. 49.
26. La citazione è tratta dagli atti della
Commissione d’inchiesta sulle condizioni
sociali ed economiche della Sicilia ed è stata
inserita nella lezione inaugurale del corso su
«Storia della criminalità organizzata» tenuta da
E. Ciconte il 5 novembre 2004 presso la Facoltà
di giurisprudenza di Roma Tre.
27. Esplicito è M. Dixelius, Terra madre,
terra di mafiya, cit., che osserva: «Un settore
nel quale lo Stato russo ha manifestamente
ceduto potere alle organizzazioni criminali è
quello che riguarda l’uso della forza (...). Nel
settore della sicurezza e della protezione sono
infatti nate parecchie ditte private che offrono
alle imprese servizi del tutto legittimi, ma che
spesso operano per conto di gruppi criminali.
La polizia di San Pietroburgo calcola che circa
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l’80 per cento delle agenzie di sicurezza private della città abbia legami con la malavita organizzata. (...) Un aspetto paradossale della situazione è che i boss criminali si lamentano apertamente del teppismo e della microdelinquenza
e offrono il proprio aiuto per mantenere la legge
e l’ordine».
28. Secondo A. Wallon, Le narcostrategie
del dopo Escobar, Narcomafie, n. 3/1994: «I
narcos caleños hanno ripulito la città dagli
“indesiderabili” in modo radicale: assassinî di
migliaia di mendicanti, di delinquenti che sfuggivano all’ordine dei narcos, di prostitute, di
omosessuali o di semplici gamines, i bambini di
strada».
29. Cfr., sul punto, A. Jamieson, Colombiani, cartelli, cit.
30. L’economia “cattiva” nel Mezzogiorno, Liguori, Napoli, 1990, p. 12.
31. Per una delle prime analisi, nel nostro
Paese, sull’intreccio tra mafia ed economia cfr.
l’ormai classico P. Arlacchi, La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Il Mulino, Bologna, 1983. In tempi più
recenti cfr., per tutti, F. Armao, Il sistema mafia.
Dall’economia del mondo al dominio locale,
Bollati Boringheri, Torino, 2000. Il numero e la
notorietà delle conferme della tesi qui esposta
esimono da una esemplificazione che sarebbe
interminabile. Ma non si può evitare un richiamo alle vicende paradigmatiche del banchiere
Michele Sindona [accomunate da grande successo nei palazzi del potere (politico, economico ed ecclesiastico), dagli indissolubili intrecci
con Cosa nostra, da gesta e fatti rocamboleschi
e, infine, dalla tragica morte secondo i più classici rituali mafiosi].
32. Esempio classico di tale zona grigia nel
panorama italiano è, a fronte della azione di
estorsione/protezione mafiosa, la posizione di
molti imprenditori il cui ruolo oscilla tra quello
di vittime e quello di concorrenti nella associazione mafiosa. Su questa delicata questione cfr.,
da ultimo, P.G. Morosini, Contiguità alla mafia
e prova penale, in L. Pepino e M. Nebiolo (a
cura di), Mafia e potere, cit. p. 201 ss.
33. M. Massari, Globalizzazione e criminalità, voce del Nuovo dizionario di mafia e antimafia, cit., p. 286.
34. La punta dell’iceberg di questo fenomeno è data dalla quantità, davvero ingente,
degli scioglimenti (talora ripetuti) di amministrazioni locali per «infiltrazioni mafiose».
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Una riforma necessaria
e urgente: i reati
collegati all’espulsione
*Magistrato
di Tribunale
destinato
alla Corte
di Cassazione
Il dibattito sulle riforme
Angelo Caputo*
I reati collegati all’espulsione
svolgono un ruolo di primo
piano nel quotidiano della giustizia penale, un ruolo spesso non
adeguatamente conosciuto (e
valutato) nella discussione pubblica. Per almeno due ragioni un
rilievo particolare va riconosciuto al reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine di allontanamento del questore: per il suo
collocarsi a valle della gestione
amministrativa dell’immigrazione irregolare, con le gravi problematiche applicative che
nascono dall’intreccio tra provvedimenti amministrativi e fattispecie penale; ma anche per i
meccanismi processuali (incentrati su arresto in flagranza e giudizio direttissimo) che ne fanno
un vero protagonista del diritto
penale in action. La breve, ma
travagliata storia di questo reato
merita allora di essere riassunta.
Il nuovo reato, punito a titolo
di contravvenzione, si inseriva (e
tuttora si inserisce) in un quadro
normativo nel quale, da una
parte, i canali di ingresso legale
dei migranti - ed è questo un dato
largamente condiviso - sono difficilmente praticabili e, dall’altra, la risposta data dall’ordinamento a qualsiasi ipotesi di irregolarità è rappresentata dall’espulsione e dalla sua esecuzione
attraverso misure coercitive della
libertà personale di natura amministrativistica (l’accompagna222
mento coattivo alla frontiera e la
detenzione amministrativa nei
centri di permanenza temporanea). La legge del 2002 (legge
Bossi - Fini) aveva costruito per le ipotesi di impossibilità di
procedere all’espulsione attraverso tali misure - un meccanismo
penal-amministrativo
imperniato sul passaggio dall’espulsione amministrativa all’ordine di allontanamento emesso
dal questore, dall’incriminazione
dell’inosservanza di questo ordine all’arresto dello straniero
inottemperante, dal giudizio
direttissimo fino, nuovamente
(almeno sulla carta), all’espulsione.
I primi problemi interpretativi
sorsero con riferimento alla compatibilità della clausola del “giustificato motivo” con il princìpio
di
tassatività/determinatezza
della fattispecie penale: la Corte
costituzionale (sent. n. 5/2004)
dichiarò infondata la questione,
precisando che tale clausola si
riferisce «a situazioni ostative di
particolare pregnanza, che incidano sulla stessa possibilità, soggettiva od oggettiva, di adempiere all’intimazione, escludendola
ovvero rendendola difficoltosa o
pericolosa (...)». La Corte
osservò poi che, nell’«architettura complessiva della nuova disciplina dell’espulsione», l’ordine
del questore ex art. 14 comma 5bis «viene emesso in surroga del-
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Una riforma necessaria
e urgente: i reati collegati
all’espulsione
l’accompagnamento, proprio nei
casi in cui il destinatario versa in
una situazione di rilevante difficoltà di adempierlo»: e tale rilievo suggerì la considerazione che
«la formula “senza giustificato
motivo” riduce notevolmente, in
fatto, l’ambito applicativo della
norma incriminatrice»: interpretata, dunque, in termini rigorosi,
la clausola del giustificato motivo riduce notevolmente la portata applicativa della norma incriminatrice di cui al comma 5-ter
dell’art. 14. Abbiamo assistito, in
questi anni, a periodiche polemiche politico-mediatiche in relazione ad alcune sentenze di assoluzione per il reato in questione:
la nitida presa di posizione del
giudice delle leggi rappresenta la
migliore risposta a queste polemiche (e, può aggiungersi, un
indice attendibile del carattere
strumentale di molte di esse).
Sempre nel 2004 la Corte
costituzionale (sent. n. 223)
affrontò un altro filone di questioni rimesse al suo giudizio,
dichiarando illegittima la norma
sull’arresto dello straniero che
non aveva ottemperato all’ordine
del questore. In quella occasione
il giudice delle leggi osservò, tra
l’altro, che la misura pre-cautelare «non trova valida giustificazione neppure ove la si voglia
ritenere finalizzata, sia pure
impropriamente, ad assicurare
l’espulsione amministrativa dello
straniero che non abbia ottemperato all’ordine di allontanarsi dal
territorio dello Stato», posto che
il relativo procedimento amministrativo potrebbe comunque
seguire il suo corso a prescindere
dall’arresto dello straniero: la
funzionalizzazione dell’arresto
all’espulsione dell’immigrato
irregolare era dunque considerata
dalla Consulta impropria sul
piano dei princìpi e, può ben
dirsi, inutile su quello della effettività dei provvedimenti di allontanamento.
Nonostante le nette affermazioni della Corte, il legislatore ha
nuovamente introdotto, con la
legge n. 271/2004, il meccanismo descritto e, in particolare, la
generalizzata previsione dell’arresto dello straniero: a questo
scopo, ha inasprito fortemente le
sanzioni per i vari reati collegati
all’espulsione, trasformandoli di
regola da contravvenzioni in
delitti.
Ulteriori dubbi di illegittimità
costituzionale si sono affacciati e
un nuovo intervento della Corte
costituzionale si è reso necessario: con la sentenza n. 22/2007 la
Corte - pur ritenendo inammissibile la questione relativa al trattamento sanzionatorio previsto per
il reato di ingiustificata inottemperanza all’ordine di allontanamento del questore - ha rivolto al
legislatore un severo monito,
rilevando che «il quadro norma223
Il dibattito sulle riforme
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Il dibattito sulle riforme
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tivo in materia di sanzioni penali
per l’illecito ingresso o trattenimento di stranieri nel territorio
nazionale, risultante dalle modificazioni che si sono succedute
negli ultimi anni, anche per interventi legislativi successivi a pronunce di questa Corte, presenta
squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica la verifica di compatibilità
con i principi costituzionali di
uguaglianza e di proporzionalità
della pena e con la finalità rieducativa della stessa»; di qui «l’opportunità di un sollecito intervento del legislatore, volto ad
eliminare gli squilibri, le sproporzioni e le disarmonie prima
evidenziate».
D’altra parte, la necessità di
una riforma della disciplina dei
reati collegati all’espulsione
discende da un ulteriore ordine
di questioni messo in luce da un
passaggio della sentenza n. 22
del 2007; la Corte descrive il
reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine di allontanamento come una «fattispecie che
prescinde da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti
responsabili». È questo un rilievo decisivo che evoca efficacemente
il
profilo
dello
straniero/tipo coinvolto negli
ingranaggi del meccanismo
penal-amministrativo costruito
intorno al reato di cui all’art. 14,
co. 5-ter del D. Lgs. n. 286/1998:
224
si tratta di un soggetto la cui pericolosità sociale si attesta, nella
maggioranza dei casi, su livelli
bassissimi e che si trova coinvolto nella vicenda penale in relazione ai reati marcatamente artificiali introdotti a presidio del
provvedimento di espulsione
amministrativa.
Un’indicazione nello stesso
senso si ricava da una ricognizione svolta alcuni anni fa presso
vari tribunali (Milano, Torino,
Bologna, Roma, Cagliari e Palermo) sui dati e sulle prassi più
significative riguardanti i processi celebrati con giudizio direttissimo nei confronti di soggetti
imputati dei reati collegati all’espulsione: la ricognizione (pubblicata in Questione Giustizia, n.
2/2006) non ha ovviamente alcuna pretesa di scientificità, ma
offre comunque una serie di
testimonianze degli operatori
circa l’impatto di quei reati sull’amministrazione della giustizia. Due spunti tratti dalla ricognizione meritano di essere
segnalati.
Le diverse rilevazioni segnalano un numero molto basso di
misure cautelari applicate all’esito della convalida (disposta invece nella generalità dei casi), il
che sembra confermare i tratti
del profilo dello straniero/tipo
imputato del reato ex art. 14, co.
5-ter, un soggetto nei confronti
del quale la valutazione sulla
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Una riforma necessaria
e urgente: i reati collegati
all’espulsione
sussistenza delle esigenze cautelari è di regola negativa.
Da questo punto di vista, può
ben dirsi che la sicurezza dei cittadini – la sicurezza vera, quella
messa a repentaglio prima di
tutto dai reati contro la vita e
l’incolumità individuale, ma
anche, ad esempio, dai reati contro il patrimonio – trae ben poco
vantaggio dalla repressione di
questi reati artificiali, che invece, grazie soprattutto al meccanismo arresto/giudizio direttissimo, assorbono una parte rilevante delle - scarse - risorse della
macchina della giustizia penale:
eloquenti, anche per l’ampiezza
del periodo preso in considerazione, sono i dati raccolti presso
il Tribunale di Torino, dove «nell’anno 2005, su un totale di 5.929
di arresti/fermi, ben 2.016
riguardano le nuove fattispecie
di reato (pari al 34% del totale);
nello stesso periodo si sono celebrati 3.434 processi di rito direttissimo con detenuti, di cui 2.079
concernenti reati previsti dalla
Bossi-Fini (pari al 60, 54%)».
Agli squilibri, alle sproporzioni e alle disarmonie del trattatamento sanzionatorio dei reati
collegati all’espulsione può dunque essere associata la valutazione della loro inutilità (per non
dire dannosità) sul piano di una
razionale politica criminale. Nell’una e nell’altra prospettiva,
chiudere la pagina del diritto
penale speciale dello straniero
appare necessario e urgente, ma i
primi passi della nuova legislatura muovono in ben diversa direzione.
La previsione, nel disegno di
legge n. 733/S, del delitto di
ingresso illegale nel territorio
dello Stato risponde ad una logica che ne mette in luce la irriducibile incompatibilità con il volto
costituzionale dell’illecito penale: verrebbe sanzionato penalmente non un fatto lesivo di beni
primari, ma una condizione individuale, la condizione di migrante.
La stessa logica di fondo è
alla base dell’aggravante comune per gli immigrati irregolari
introdotta con il D.L. n.
125/2008, conv. nella L. n.
125/2008. La norma suscita
numerosi dubbi di legittimità
costituzionale, con riferimento a
vari parametri e, prima di tutto,
al principio di uguaglianza che
prima ancora di costituire il fondamento del giudizio di ragionevolezza contiene un nucleo forte
che esclude «distinzioni normative ratione subiecti, correlate cioè
a qualità meramente subiettive
anziché alla natura dell’atto, dell’attività, della funzione, dell’oggetto giuridico» (Cerri). D’altra
parte, come hanno osservato i
primi commentatori (Pulitanò),
l’aggravante si ispira a una logica “presuntiva” di maggiore
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Il dibattito sulle riforme
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Il dibattito sulle riforme
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capacità a delinquere dello straniero irregolare che è già stata
sconfessata dalla Corte costituzionale: con la sentenza n. 78 del
2007, il giudice delle leggi ha
escluso che la condizione soggettiva derivante dal mancato
possesso di un titolo abilitativo
alla permanenza nel territorio
dello Stato sia, di per sé, univocamente sintomatica di una parti-
226
colare pericolosità sociale.
L’autorevole ed argomentato
giudizio della Corte costituzionale dovrebbe rappresentare la
base per un ripensamento complessivo del diritto penale dell’immigrazione, in linea con i
princìpi costituzionali e al riparo
dalla tentazione dell’utilizzo in
chiave simbolica degli strumenti
della politica criminale.
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Il dibattito sulle riforme
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Il nuovo testo unico
in materia di sicurezza
sui luoghi del lavoro:
prime osservazioni
*Sostituto
Procuratore
della Repubblica
presso il Tribunale
di Palermo.
**Sostituto
Procuratore
della Repubblica
presso il Tribunale
di Termini Imerese
Vania Contrafatto* e Marco Formentin**
Uno sforzo pregevole seppur
perfettibile quello contenuto nel
nuovo T.U. su sicurezza e salute
dei luoghi di lavoro.
Il decreto legislativo 81/2008
emanato il 1 maggio 2008 ( pubblicato nel supplemento n. 108/L
alla G.U. n 101 del 30 aprile 2008
entrato in vigore il 15.05.2008) si
evidenzia per avere riorganizzato
il complesso sistema di norme
che hanno regolamentato per
oltre sessant’anni la materia prevenzional – antinfortunistica, tentando di armonizzare la legislazione stratificatasi nel tempo.
L’armonizzazione è infatti l’unico elemento per cui si contraddistingue tale decreto legislativo,
poiché nessuna innovazione
viene portata al previgente sistema di norme i cui principi sottesi
rimangono immutati: la individuazione dei soggetti titolari di
posizioni di garanzia, la valutazione dei rischi, il sistema dei
controlli.
L’esame comparato della
maggior parte delle disposizioni,
in particolare, rivela una riorganizzazione “formale” del testo,
con la sola novità della mutata
numerazione dei precetti: i titoli
di cui si compone ricalcano infatti quasi integralmente il testo del
d.lgs 626/94, del dpr 303/56, del
dpr 547/55, del dlgs 494/96, abrogandone le relative norme.
Il titolo I del decreto si apre
con l’enucleazione delle defini228
zioni sia dei soggetti destinatari
delle posizioni di garanzia, sia
degli altri soggetti coinvolti nell’organizzazione del lavoro chiamati ad interagire in tema di sicurezza (art. 2).
La tecnica legislativa è quella
già usata nel testo unico in materia di ambiente: tale tecnica se
presenta l’indubbio pregio di fornire una classificazione tassativa
delle posizioni di garanzia (datore di lavoro, dirigente, preposto,
ecc..) può determinare vuoti di
tutela, con riguardo alla molteplicità di situazioni contigenti non
previste né prevedibili, se non
mediante definizione più generali
ed “elastiche”.
Non a caso, il legislatore inserisce, una norma di chiusura l’art.
299, il quale attribuisce una posizione di garanzia anche ai soggetti che, pur sprovvisti di regolare
investitura, esercitino in concreto
i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti prima definiti.
Principale responsabile, e
dunque titolare della posizione di
garanzia per antonomasia, rimane
il datore di lavoro, su cui gravano
tutti gli obblighi di sicurezza.
Proprio perché il sistema, pur
tendendo alla eliminazione del
rischio alla fonte, assume come
risultato effettivo la riduzione o il
contenimento dello stesso, il legislatore del 2008, al pari di quello
del 1994, distingue tra obblighi
“non delegabili” (art. 17) il cui
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Il nuovo testo unico
in materia di sicurezza
sui luoghi del lavoro:
prime osservazioni
adempimento spetta in via esclusiva al datore di lavoro, e obblighi
delegabili, il cui adempimento
viceversa può essere delegato ad
altro soggetto , che come tale sarà
definito “datore di lavoro ai fini
prevenzionali” e che nelle imprese di medie e grandi dimensioni,
potrà anche coincidere con il dirigente.
Così secondo prima una lettura, si potrebbe affermare che il
quadro delle posizioni di garanzia
che si viene a delineare è così
articolato:
1. posizioni di garanzia “originarie” dei soggetti così come
definiti nella parte introduttiva
(ar. 2) già individuati attraverso
un criterio di tipo c.d. “misto”
(investitura formale accompagnata da effettivi poteri di gestione).
2. posizioni di garanzia delegate di cui all’art. 16 T.U. che,
codificando definitivamente la
giurisprudenza in tema di delega
di funzioni, fornisce una interpretazione autentica dei requisiti
della delega.
Peraltro, la delega non svuota
di contenuto gli obblighi gravanti
sul garante originario: da obbligo
di attendere direttamente alla
sicurezza, a obbligo di sorveglianza .
3. posizione di garanzia sussidiaria dei c.d. “garanti di fatto” ,
con la cristallizzazione all’art.
299 del principio di “effettività”,
caro alla giurisprudenza, e critica-
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to da quella parte di dottrina che
sosteneva invece come suddetto
principio comportasse una rinuncia ai precetti di tassatività e
determinatezza tipici della materia penale.
Ancora, definiti e individuati
con dovizia descrittiva tutti i
rischi che il datore deve valutare
ai fini di una corretta redazione
del “documento di valutazione
dei rischi” (artt. 28-29), questo
adempimento viene graduato a
seconda dei livelli di occupazione
dell’azienda, residuando l’autocertificazione sullo svolgimento
della valutazione del rischio alle
sole aziende con meno di dieci
dipendenti, e semplificandolo con
procedure standardizzate per i
datori di lavoro che occupino più
di dieci, ma meno di cinquanta
dipendenti, purchè non svolgano
attività che presentino “particolari” profili di rischio.
Procedure standardizzate che
dovranno però essere stabilite con
decreto interministeriale entro il
31 dicembre 2010. Sorge spontaneo chiedersi cosa accadrà nelle
more dato che viene sanzionato
penalmente anche l’aver redatto il
documento di valutazione dei
rischi in maniera “incompleta”.
In ossequio alla determinazione 5/03/2008 n. 3, l’art. 26 del
decreto in commento, quando il
datore di lavoro intenda appaltare
una o più fasi dell’attività produttiva ad imprese esterne o lavora229
Il dibattito sulle riforme
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Il dibattito sulle riforme
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tori autonomi, deve effettuare la
cd. analisi delle interferenze, analizzando le concomitanze, le
sovrapposizioni o le amplificazioni dei rischi, derivanti non solo
dal lavoro in concreto da effettuarsi, ma anche dalle situazioni
ambientali, e indi redigere un
unico documento di valutazione
dei rischi, ove indichi le misure
adottate per eliminare o ridurre al
minimo i rischi da interferenza.
Documento che deve essere allegato al contratto di appalto.
I primi commenti al T.U. sono
unanimi nel lamentare il moltiplicarsi degli adempimenti formali
richiesti dalla legge: l’eccessiva
“formalità” degli obblighi imposti, tipica del sistema fino ad ieri
vigente, non è mutata nell’impianto disegnato dal T.U. che affida sempre alla sanzione penale il
maggior peso di deterrente delle
situazioni illegittime.
Purtuttavia, come le prime letture del testo unico sottolineano,
non viene fatta alcuna distinzione
tra inadempimenti ad obblighi
“formali” ed inadempimenti ad
obblighi “sostanziali”: le violazioni integrano tutte reati contravvenzionali puniti con pena
alternativa dell’arresto o dell’ammenda.
Immutata rimane la tecnica
redazionale con la separazione
del precetto dalla sanzione che
viene indicata in un unico articolo con rinvio alle altre norme con230
tenenti gli obblighi prescrittivi.
Le sanzioni vengono infatti
inserite al termine di ogni titolo
specifico al quale fanno riferimento, con la coordinazione di
cui all’art. 298, che cristallizzando il principio di specialità, recita
che “quando lo stesso fatto è
punito da una disposizione prevista dal titolo I del presente decreto e da una o più disposizioni previste negli altri titoli del medesimo decreto, si applica la disposizione speciale”.
Il testo unico ha altresì ribadito che prevenzione vuol dire formazione, informazione, sostegno
finanziario. Il lavoratore deve
essere adeguatamente formato e
ricevere tutte le istruzioni e i
mezzi necessari per prendersi
cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro.
La legge prevede infatti che
gli argomenti da trattare debbano
spaziare dai principi giuridici
generali alla legislazione speciale
in materia di sicurezza, al diritto
sindacale, alle nozioni di tecnica
della comunicazione.
Senza dubbio formazione ed
informazione dei lavoratori sono
dei capisaldi, che, già introdotti
dalla 626/94, costituiscono il fulcro dell’eliminazione dei rischi
alla fonte, ma la “formazione” in
quanto tale, nella pratica asseverata a logiche clientelari, rischia
di diventare il business del terzo
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Il nuovo testo unico
in materia di sicurezza
sui luoghi del lavoro:
prime osservazioni
millennio piuttosto che un valido
strumento di prevenzione.
Sotto il profilo processuale,
degna di nota è la disposizione di
cui all’art. 60 del T.U. la quale
prevede che, in caso di esercizio
dell’azione penale per i delitti di
omicidio colposo o di lesioni personali colpose, commesse con
violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro
o che abbia determinato una
malattia professionale, il pubblico ministero ne dia notizia all’INAIL ed all’IPSEMA, in relazione alle rispettive competenze, ai
fini dell’eventuale costituzione di
parte civile e dell’azione di
regresso.
È inoltre previsto che le organizzazioni sindacali e le associazione dei familiari delle vittime di
infortuni sul lavoro abbiano la
facoltà di esercitare i diritti e le
facoltà della persona offesa di cui
agli artt. 91 e 92 c.p.p, con riferimento ai reati commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro
o che abbia determinato una
malattia professionale
Viene mantenuta la logica del
legislatore del 1994, secondo la
quale “prevenire è meglio che
curare”; quindi non solo rimane
in vigore il D.lgs 758/94, ma
viene introdotto un nuovo beneficio dell’estinzione del reato ove
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decorrano tre anni dal passaggio
in giudicato della sentenza, senza
che l’imputato abbia commesso
ulteriori reati in materia di salute
e sicurezza del lavoro, ovvero
quelli agli articoli 589 e 590,
limitatamente alle ipotesi di violazione delle norme relative alla
prevenzione degli infortuni sul
lavoro.
È inoltre introdotta all’art. 303
una particolare ipotesi di circostanza attenuante legata al c.d.
“ravvedimento operoso”: “1. La
pena per i reati previsti dal presente decreto e puniti con la pena
dell’arresto, anche in via alternativa, è ridotta fino ad un terzo per
il contravventore che, entro i termini di cui all’art. 491 del codice
di procedura penale, si adopera
concretamente per la rimozione
delle irregolarità riscontrate
dagli organi di vigilanza e delle
eventuali conseguenze dannose
del reato.
2. La riduzione di cui al
comma 1 non si applica nei casi
di definizione del reato ai sensi
dell’articolo 302 del presente
decreto”.
Il quadro delle conseguenze
sanzionatorie, anche non penali,
previste dal nuovo T.U. deve essere completato con la menzione
dello strumento dissuasivo della
sospensione dell’attività imprenditoriale previsto dall’art. 14.
Infatti dopo il totale abbandono dei vecchi istituti previsti
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Il dibattito sulle riforme
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Il dibattito sulle riforme
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rispettivamente dagli artt. 9 e 10
del DPR n. 520/55, la diffida e la
disposizione, viene introdotto un
nuovo provvedimento amministrativo, “la sospensione cautelare”, che, affidato ad entrambi gli
organi di vigilanza – AUSL e
ispettorati del lavoro – dovrebbe
anche costituire strumento di lotta
al lavoro nero.
L’art. 14 del T.U. prevede
infatti che “gli organi di vigilanza
del Ministero del lavoro e della
previdenza sociale, anche su
segnalazione delle amministrazioni pubbliche secondo le rispettive competenze, possono adottare provvedimenti di sospensione
di un’attività imprenditoriale
qualora riscontrino l’impiego di
personale non risultante dalle
scritture o da altra documentazione obbligatoria in misura pari
o superiore al 20 per cento del
totale dei lavoratori presenti sul
luogo di lavoro, ovvero in caso di
reiterate violazioni della disciplina in materia di superamento dei
tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale, di cui agli
articoli 4, 7 e 9 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, e successive modificazioni, considerando le specifiche gravità di
esposizione al rischio di infortunio, nonché in caso di gravi e reiterate violazioni in materia di
tutela della salute e della sicurezza sul lavoro individuate con
decreto del Ministero del lavoro e
232
della previdenza sociale, adottato
sentita la Conferenza permanente
per i rapporti tra lo Stato, le
regioni e le province autonome di
Trento e di Bolzano”.
Tale strumento ha natura giuridica formale e sostanziale di
atto amministrativo, circostanza
questa che si deduce dal fatto che
sia impugnabile con ricorso da
presentare entro trenta giorni alla
direzione regionale del lavoro territorialmente competente e dal
fatto che, se l’organo di secondo
grado non decide sul ricorso entro
15 giorni dalla proposizione, il
provvedimento di sospensione
perde efficacia (silenzio-accoglimento).
La possibilità di sanzionare
un’impresa con la sospensione
cautelare da parte dell’AUSL è
limitata ai casi di accertamento
della reiterazione delle violazioni
in materia di tutela della salute e
della sicurezza sul lavoro, al pari
di quella emessa dall’ispettorato
del lavoro, la predetta sospensione, è revocabile se sia reintegrata
la situazione di illegittimità e
pagata una sanzione pecuniaria.
Last but not least, l’art. 300 del
T.U. ha esteso l’ambito della
responsabilità amministrativa da
reato delle persone giuridiche (l.
231/01) anche alle ipotesi di cui
agli artt. 589 c.p. e 590 c.p., quando l’evento sia il risultato della
violazione delle norme sulla prevenzione.
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Il nuovo testo unico
in materia di sicurezza
sui luoghi del lavoro:
prime osservazioni
In tal modo il legislatore ha
accolto i rilievi della dottrina, la
quale aveva sottolineato come un
sistema sanzionatorio ancorato
alla moderna realtà produttiva
deve tenere conto del fatto che
spesso le scelte operate dai datori
di lavoro sono condizionate dalle
politiche economiche di impresa
e dunque anche dagli interessi
particolari perseguiti dal soggetto
collettivo.
La suddetta norma, se da una
parte ha l’indubbio pregio di
costituire un “punto di contatto
tra responsabilità da reato degli
enti e condotte illecite incentrate
su un’inadeguata gestione del
rischio”, dall’altra apre in dottrina
la querelle circa “la compatibilità
tra i reati previsti dall’art. 25-septies ed il criterio di attribuzione
dell’illecito all’ente incardinato
sull’interesse e/o sul vantaggio” .
Posto infatti che l’esigenza
che l’ente venga chiamato a
rispondere per il fatto proprio è
stata assolta delineando un triplice collegamento tra reato presupposto ed ente (l’illecito della persona fisica deve essere stato commesso da persone che intrattengono rapporti particolari con l’ente;
il reato deve essere stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente; deve sussistere una
colpa di organizzazione), il criterio di attribuzione dell’illecito
basato sull’interesse e sul vantaggio, nato per evidenziare la proie-
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zione finalistica della condotta
nei reati di matrice dolosa , mal si
coniuga con il delitto colposo il
quale si caratterizza per la mancanza di volontà dell’evento.
Secondo alcuni autori questa
“impasse” interpretativa sarebbe
superata da una ricostruzione
della fattispecie incentrata sulla
c.d. colpa cosciente o sull’interesse mediato.
Altri invece pongono l’accento sulla contrarietà a Costituzione
delle interpretazioni che legittimano l’associazione tra interesse/vantaggio e condotta, sostenendo invece che l’interesse/vantaggio vada sempre ancorato
all’evento lesivo, e quindi con
sostanziale disapplicazione dell’art. 25-septies.
Queste in estrema sintesi le
uniche novità nonostante le linee
guida del Ministero del lavoro e
della Previdenza Sociale per il
testo unico si concludessero con
la chiosa: “In sintesi, le parole
chiave del nuovo “Testo Unico”
sono: riordino, innovazione,
coordinamento, semplificazione,
il tutto finalizzato ad una maggiore prevenzione, a controlli più
efficaci, oltreché alla diffusione
di una cultura della sicurezza”.
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Il dibattito sulle riforme
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Magistrati
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Riflessioni sulla Riforma
del diritto di famiglia
e dei Tribunali
per i minorenni
*Giudice
del Tribunale
per i minorenni
di Palermo
Fulvia Fratantonio*
Mi preme sottolineare come
una riforma del diritto di famiglia
e dei Tribunali per i minorenni
implica necessariamente una
revisione del rito processuale
applicabile alle questioni inerenti
il diritto di famiglia ed il minore
in particolare. Si tratta infatti di
revisionare le competenze attualmente attribuite al Giudice Civile
ordinario, al Giudice minorile ed
al Giudice tutelare, organi giurisdizionali regolati da norme processuali diverse.
Una modifica del rito processuale attualmente applicato presso i Tribunali per i minorenni
inciderebbe profondamente e
sostanzialmente sul concetto di
“Tutela del minore” e sulla qualità e importanza di tale “interesse”.
Presso i Tribunali per i minorenni allo stato vige il rito c.d.
camerale, ossia vige il rito della
volontaria giurisdizione che ha
caratteristiche ben diverse dal
rito civile ordinario, applicabile
presso i Tribunali Ordinari.
Bisogna considerare che
quando furono istituiti i Tribunali
per i minorenni - ossia nel 1934
con il R.D.L.20 luglio 1934 n.
1404; e poi con il successivo
R.D. 30.3.1942 n. 318 e con successive ulteriori modifiche - si
avvertiva forte la necessità di
offrire un trattamento diverso al
minorenne “delinquente”, privilegiando l’aspetto di recupero
234
sociale e riabilitativo del processo penale e della pena.
Nello stesso tempo si avvertiva la necessità di prevedere una
competenza civile differenziata
per le questioni relative all’esercizio della potestà genitoriale;
per l’adozione nonché per altre
questioni che in forza dell’art. 38
delle disposizioni di attuazione al
codice civile (R.D. 30 marzo
1942 n. 318 ), vennero attribuite
alla competenza del Giudice
minorile, con un enumerazione
tassativa e non suscettibile di
interpretazione analogica ( attribuzione di cognome - azione per
il riconoscimento della paternità sentenza sostitutiva del mancato
consenso al riconoscimento
ecc...) .
Il legislatore dell’epoca si
rese conto della necessità di istituire un Tribunale specializzato
del quale facessero parte non
solamente Giudici Togati ma
anche Giudici non togati - un
uomo ed una donna - scelti fra i
cittadini benemeriti dell’assistenza sociale e fra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia
criminale, di pedagogia, di psicologia che avessero compiuto il
trentesimo anno di età.
Il Legislatore previde anche la
presenza presso Il T.M. di un ufficio di Procura autonomo rispetto
a quello Ordinario e di una sezione di Corte di Appello specializzata per i minori, con la medesi-
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Riflessioni sulla Riforma
del diritto di famiglia
e dei Tribunali
per i minorenni
ma composizione.
Quindi, il legislatore attribuì
al Tribunale per i minorenni competenza territoriale allargata - per
così dire - rispetto ai Tribunali
Ordinari, conferendogli competenza a decidere per tutte le questioni insorte nel Distretto della
Corte di Appello, ossia in un territorio più ampio rispetto a quello
ordinario .
Lo stesso art. 38 delle le
disposizioni di attuazione al
Codice civile del 1942 previde
ancora che “In ogni caso il giudice provvede in camera di consiglio sentito il Pubblico Ministero” . Tale norma sancì quindi che
il T.M. si avvalesse delle forme
del rito c.d. camerale o di volontaria giurisdizione con l’intervento necessario del Pubblico Ministero, come portatore di un interesse pubblico.
Tale scelta non fu casuale,
atteso che il rito camerale , a differenza di quello ordinario applicabile presso i Tribunali Ordinari,
si caratterizzava - e si caratterizza
tuttora- dalla mancanza di udienze pubbliche ; da una prevalenza
dell’impulso di ufficio; dalla
maggiore velocità e sollecitudine; minori vincoli processuali,
ampi poteri per il giudice di assumere informazioni ecc,; revocabilità in ogni tempo dei provvedimenti emessi e conseguente mancanza di passaggio in giudicato
dei medesimi provvedimenti;
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mancata possibilità di esecuzione
forzata dei provvedimenti ad
eccezione dei ricoveri in casa
famiglia per i minori maltrattati
e/o abusati; ecc… tanto che tali
processi possono essere inquadrati nella categoria dei processi
c.d. “inquisitori”, laddove l’interesse pubblico coesiste ed a volte
sovrasta l’interesse privato, sempre nel rispetto comunque del
contradditorio fra le parti.
Tali procedimenti hanno sempre avuto la caratteristica di non
riguardare questioni patrimoniali,
per le quali è sempre stato competente il Giudice civile ordinario, ad eccezione di un solo caso
che era quello dell’azione di riconoscimento della paternità, laddove era - ed è anche attualmente
- lasciata al Giudice minorile
anche la questione relativa alla
determinazione dell’assegno di
mantenimento da porre a carico
del genitore di cui si accerta la
paternità.
Dal 1934, dunque, al Tribunale per i minorenni è demandata
competenza a decidere sulle questioni sopra indicate con le forme
del rito camerale o di volontaria
giurisdizione.
Le ultime riforme legislative,
in modo scoordinato e caotico
hanno preteso di estendere in
qualche misura regole proprie e
provvedimenti propri del giudice
civile ordinario al Giudice minorile, creando non pochi problemi
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interpretativi, disparità di trattamento ed incongruenze, al vaglio
della Corte Costituzionale, che
tuttavia non si è ancora pronunciata in merito.
Tutto ciò premesso mi preme
qui sottolineare ancora che il vecchio R.D.L. 1934 con le modifiche successive, si inseriva in un
contesto sociale dove non era
pensabile la disciplina del divorzio; dove la famiglia fondata sul
matrimonio era un bene costituzionalmente rilevante e con un
chiaro riferimento antropologico,
ossia quello che reputava - a mio
avviso a ragione - che la persona
ha una struttura familiare da
difendere e che solo nella famiglia formata da un uomo ed una
donna uniti volontariamente da
un vincolo stabile nel tempo, un
minore trova la sua migliore collocazione e la comunità umana
trova una sua stabilità ed un suo
ordine sociale, capace di garantire la memoria del passato, la consapevolezza del presente e la possibilità di proiettarsi nel futuro.
Il contesto di riferimento era
quello chiaro per tutti e condiviso
da tutti e le norme sopra richiamate in qualche modo prendevano atto di ciò prevedendo - a
ragione - la necessità che il collegio giudicante presso il Tribunale
per i minorenni fosse composto
anche da esperti di cui uno di
sesso maschile ed uno di sesso
femminile; prevedevano l’appli236
cabilità del rito camerale nel
quale non esistono diritti contrapposti ma interessi che meritano o
meno tutela e che si confrontano
con un interesse pubblico superiore che era quello della tutela
degli interessi del minore, fra i
quali quello ancestrale di vivere
all’interno della propria famiglia
in maniera dignitosa ed adeguata
alle sue necessità ed esigenze.
È evidente che le modifiche
sociali e culturali avvenute nel
corso degli anni hanno confuso e
disorientato molte delle certezze
sulle quali si fondava l’intera
legislazione.
Oggi diverse sono le istanze
che richiedono riconoscimento e
tutela: a fronte dei difensori della
Famiglia ossia a fronte di coloro
che ritengono che la famiglia stabile nel tempo e formata da un
uomo ed una donna sia l’unica
società idonea a garantire l’ordine sociale ed il benessere psicofisico di un minore - cui io aderisco pienamente - oggi si agitano
altre istanze: quelle dei genitori
separati che pretendono di dividere a metà il tempo da trascorre
con i figli, costringendoli a peregrinare di casa in casa per tutta la
settimana; le istanze dei padri
separati, stanchi di essere considerati genitori di serie b); le istanze degli omosessuali o dei transessuali, stanchi di sentirsi ripetere di essere “anormali” e desiderosi di vedere riconosciuto giuri-
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Riflessioni sulla Riforma
del diritto di famiglia
e dei Tribunali
per i minorenni
dicamente il loro legame sessuale
ed il loro diritto ad adottare un
bambino; ci sono ancora le istanze di coloro che ritengono che
una differenza di “genere” non
esiste, perché il maschile ed il
femminile appartengono ad un
retaggio culturale superato ormai
dal progresso; le istanze di coloro
che esigono il riconoscimento del
diritto a fecondare un figlio assolutamente sano e così via di
seguito. Argomenti tutti di grande
rilevanza etica che coinvolgono
la coscienza e che ci interrogano
sul ruolo del diritto oggi.
Di certo il legislatore non può
ignorare il contesto sociale e culturale in cui si muove .
Una riforma del diritto di
famiglia ed una riforma dei Tribunali per i minorenni non ignora
certo e non può ignorare tale contesto sociale e culturale.
Credo tuttavia che la virulenza
del dibattito in materia possa in
qualche modo far dimenticare
qual è la posta in gioco.
Si corre il rischio, infatti, che
“il minore” rimanga schiacciato
dagli ingranaggi del dibattito
politico e rimanga schiacciato da
una riforma che non tenga più
conto delle sue esigenze.
Si corre il rischio di non
apprezzare più l’importanza che
riveste il contributo dell’esperienza femminile e maschile in
campo educativo.
Si corre il rischio che attraver-
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so un rito processuale ordinario,
che è tipico delle controversie su
diritti in contrapposizione fra
loro, il minore diventi esso stesso
“parte” del processo, in contrapposizione con le altre parti ossia i
suoi genitori e nello stesso tempo
diventi “Oggetto” di rivendicazioni e di diritti in contrapposizione.
Nel rito ordinario ogni parte
ha necessità di un avvocato, perché non si ha facoltà di stare in
giudizio personalmente, quindi
ogni genitore deve aver un difensore ed il minore deve avere un
curatore che lo rappresenti ed un
difensore che possa stare in giudizio: quindi per ogni processo
deve essere garantita la presenza
di almeno tre difensori (se il curatore nominato al minore è anche
un difensore, infatti, si risparmierà un legale) con le necessarie
conseguenze, peraltro, in tema di
patrocinio a spese dello Stato per
i non abbienti.
Nel rito ordinario il Giudice è
vincolato alle domande di parte;
è vincolato alle prove chieste
dalle parti ed ogni parte ha una
serie infinita di decadenze, scadenze e forme da rispettare; il
Giudice non ha alcun potere di
iniziativa autonomo ed il Pubblico Ministero non deve necessariamente intervenire.
Nel rito ordinario le decisioni
hanno la forma di sentenza, che è
un provvedimento che definisce
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il processo; che è suscettibile di
passare in giudicato che non è
mai revocabile e/o modificabile,
se non con le impugnazioni previste dalla legge - appello e ricorso in Cassazione.
La scelta di un giudice specializzato che agisca con le forme di
un rito del tipo camerale invece,
ha permesso finora di concentrare tutte le attenzioni sul minore,
che in tal modo non diventa mai
“parte” in contrapposizione
“con” ma che rimane quale protagonista principale del processo e
quale portatore di un interesse
che coincide prima di tutto con
un interesse pubblico e che è
anche un potente fattore di pacificazione sociale (si pensi all’importanza di una cultura della
mediazione che presuppone un
bene superiore alla posizione del
singolo, per il quale ognuno deve
essere disposto a rinunciare a
qualcosa in favore dell’altro in
posizione di reciprocità).
L’istituzione di un Tribunale
per la Famiglia che accorpi in sé
tutte le competenze finora distribuite tra Giudice civile ordinario,
giudice minorile e giudice tutelare deve tenere conto di quanto
detto sopra, perché altrimenti il
rischio è quello di ridurre il minore alla stessa stregua dell’adulto.
A mio parere deve, quindi,
riconoscersi una rilevanza pubblica all’interesse del minore, che
va difeso e custodito con priorità
238
ed al di là di ogni interesse e/o
pretesa individuale .
Questo significa riconoscere
che esiste “Il Minore” come
verità e come realtà degna di tutela al di sopra dei diritti e dei desideri del singolo individuo.
Credo, pertanto, importante
che una riforma del diritto di
famiglia e dei Tribunali per i
minorenni sia consapevole di
quale sia la posta in gioco e prenda decisamente posizione rispetto
a ciò che reputa prioritario difendere e tutelare.
A mio parere abbandonare il
rito camerale; eliminare i giudici
onorari; applicare il rito civile
ordinario senza distinguere le
questioni patrimoniali da quelle
relative all’esercizio della potestà
genitoriale; non prevedere legislativamente percorsi di sostegno
alla genitorialità ; non potenziare
e favorire le competenze espresse oggi dai Servizi sociali, dai
SERT, dai servizi di N.P.I.; dai
consultori familiari; dai Servizi
Pedagogici ecc... e dal volontariato sociale, non favorire l’avvio
di protocolli di intesa e prassi
comuni ma differenziate in ragione delle diverse caratteristiche
del territorio - significa acuire un
disagio sociale che è sotto gli
occhi di tutti.
Spero di aver fornito un contributo alla riflessione comune e
rimango a disposizione per eventuali ulteriori confronti.
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Un nuovo giudice
per la persona,
la famiglia ed i minori
*Consigliere
della Corte di
Appello di Napoli
Lucio Napolitano*
Il tema in questione, certamente non nuovo, ha indubbiamente
assunto, negli ultimi tempi, aspetti
tali da far ritenere non più differibile un serio intervento riformatore.
Soprattutto alcune riforme di
rilevante impatto sociale, prima
ancora che d’impianto normativo,
come la L. 8.2.2006 n. 54 in tema
di c.d. affidamento condiviso della
prole in caso di separazione dei
genitori, anche a causa dell’adozione di tecnica legislativa assolutamente lacunosa, hanno posto
agli interpreti numerosi problemi,
determinando, in alcuni casi, una
pressoché totale situazione di
denegata giustizia.
È il caso, per limitarsi all’esempio più clamoroso, del conflitto
negativo di competenza tra tribunale per i minorenni e tribunale
ordinario riguardo ai provvedimenti da emanare nell’ambito dei
“procedimenti relativi ai figli di
genitori non coniugati”, in ragione
della generica norma di rinvio di
cui all’art. 4, 2° comma, della citata legge: conflitto che, per circa un
anno, sino all’intervento della
Suprema Corte (Cass. civ. sez.
unite 3 aprile 2007 n. 8362) ha
determinato la paralisi nella materia riguardante le disposizioni sull’affidamento della prole e sui
provvedimenti di natura economica nel caso di disgregazione della
c.d. famiglia di fatto.
L’individuazione di un nuovo
240
unico giudice per la persona, la
famiglia ed i minori, che postula
evidentemente l’accorpamento in
capo a detto giudice di competenze sia di natura civile che penale,
allo scopo di affrontare in modo
più adeguato alla realtà dei tempi
ed alla complessità delle relative
problematiche gli aspetti relativi in
primo luogo alla tutela dei minori
e dei soggetti comunque più deboli della realtà familiare, può considerarsi ormai esigenza sufficientemente condivisa tra gli studiosi e
gli operatori del settore, inteso in
senso lato, della giustizia minorile,
tale da comprendere tutte le fattispecie nelle quali l’interesse del
minore costituisca oggetto della
valutazione giudiziale e misura
della giustizia del provvedimento.
In realtà, non appena si passi ad
individuare le possibili opzioni
tecniche per il perseguimento dell’obiettivo, le soluzioni che vengono ad essere prospettate divergono
in modo spesso radicale.
Oggi è maturata finalmente la
convinzione che non possa procedersi sulla strada di un proficuo
intervento riformatore se non previa attenta globale valutazione dei
provvedimenti che, sul piano ordinamentale, processuale e nel contempo anche sostanziale, un simile
intervento comporti.
Ciò diversamente da un pur
recente passato, in cui, all’insegna
di una preoccupante tendenza
all’improvvisazione e, addirittura,
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Un nuovo giudice
per la persona,
la famiglia ed i minori
all’ignoranza di talune problematiche determinate da riforme già
approvate ma delle quali era stata
differita l’entrata in vigore (come
quella relativa alla difesa d’ufficio,
ex L. n. 149/2001, nei procedimenti de potestate) si prospettavano misure in certo modo dirompenti in assenza di soluzioni meditate (il ricordo, in proposito, non
può non andare alla clamorosa
bocciatura da parte della Camera
dei Deputati, che il 5.11.2003 deliberò di accogliere la pregiudiziale
di costituzionalità del ddl 2517/C
d’iniziativa governativa presentato
dall’allora Ministro della Giustizia).
Sul piano ordinamentale sembra preferibile l’opzione dell’istituzione non di sezioni specializzate del Tribunale e della Corte di
Appello per la tutela dei diritti e
dei minori da creare, sia pur attraverso un aumento di organico del
personale di magistratura ed ausiliario, presso le sedi (centrali) dei
tribunali esistenti (in tal senso va
invece ad esempio il primo disegno di legge d’iniziativa parlamentare n. 393/C riproposto nella
presente legislatura appena iniziata), ma quella di addivenire all’istituzione del Tribunale per la persona, la famiglia ed i minori che
passi attraverso una necessaria
rideterminazione delle circoscrizioni territoriali, diverse tanto da
quelle distrettuali, sulle quali è in
linea di massima oggi organizzato
il riparto della competenza per territorio dei Tribunali per i Minorenni, tanto da quelle circondariali
degli odierni tribunali ordinari.
Evidentemente siffatta esigenza può essere assicurata unicamente attraverso una seria rilevazione
dei flussi dei procedimenti che
porti, previa determinazione dei
carichi di lavoro compatibili, alla
configurazione di entità sufficientemente presenti sul territorio,
snelle e quindi più agevolmente
dirette dai capi degli uffici ma al
tempo stesso dotate di quelle risorse umane e materiali necessarie al
perseguimento dello scopo di una
giustizia per quanto possibile celere, ma al tempo stesso attenta alle
garanzie formali.
Non s’ignora che ogni discorso
volto alla riforma della circoscrizioni territoriali si è sempre storicamente scontrato, nell’Italia dei
Campanili, con forti resistenze
conservatrici a livello politico ed
amministrativo.
Bisogna comunque confidare
che non si perda, in questo senso,
un’importante e forse decisiva
opportunità di avvicinare la nostra
giustizia a standard europei di efficienza.
È evidente, a tal fine, che le
misure ordinamentali debbano
essere accompagnate dalle imprescindibili misure organizzative, in
primo luogo in tema di aumento
dell’organico del personale di
magistratura ed ausiliario.
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Il dibattito sulle riforme
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Il dibattito sulle riforme
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Quanto alle competenze del
nuovo Tribunale per la famiglia e
per i minori, presso cui dovrebbe
essere costituito un autonomo ufficio di Procura, fermando l’attenzione in questa sede solo a quelle
civili, esse dovrebbero includere i
procedimenti relativi alle materie
indicate nei titoli VI, VII, VIII, IX,
IX – bis, X. XI, XII, XIII e XIV
del primo libro del codice civile, i
procedimenti ex L. n. 898/1970 e
successive modifiche, quelli ex L.
n. 183/1984 e successive modificazioni, accorpando quindi in
unico ufficio le competenze oggi
ripartite tra tribunale per i minorenni, tribunale ordinario e giudice
tutelare, ivi comprese quelle previste da altre leggi speciali.
Il giudice tutelare sarebbe quindi aggregato al Tribunale per la
famiglia, potendo riservarsi ai criteri tabellari la valutazione circa
l’opportunità o meno di un’assegnazione esclusiva dello stesso
giudice al solo ufficio tutelare o
anche all’attribuzione di una quota
di contenzioso.
In ordine alla competenza per
territorio, in linea con le più recenti tendenze, essa potrebbe essere
individuata nel giudice del luogo
ove abitualmente dimora la famiglia al momento della proposizione della domanda (luogo dove è la
casa familiare, anche se non coincidente con quella emergente dalle
risultanze anagrafiche) solo in via
sussidiaria potendo farsi ricorso al
242
foro del convenuto o, in caso d’irreperibilità, a quello dell’attore.
Il criterio del luogo ove è sita la
casa familiare postula che al
momento della proposizione della
domanda vi sia ancora la dimora
familiare (va in proposito ricordata la recentissima sentenza della
Corte Costituzionale 23 maggio
2008 n. 170 che, riguardo ai procedimenti per lo scioglimento o la
cessazione degli effetti civili del
matrimonio, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 1°
comma della L. 1.12.1970 n. 898
nel testo da ultimo sostituito dall’art. 2 comma 3 bis del D.L. n.
35/2005 convertito, con modificazioni, nella L. n. 80/2005, ripristinando, attraverso l’eliminazione
dal testo normativo della frase
“dell’ultima residenza comune dei
coniugi, ovvero in mancanza” il
criterio del luogo il coniuge convenuto ha residenza o domicilio
con riferimento a fattispecie in cui,
a distanza di molti anni dalla separazione, non vi era più alcun criterio di collegamento di ciascuna
delle parti con il luogo dell’ultima
residenza comune.
Sotto il profilo processuale
deve essere assicurata, a fronte del
rispetto delle esigenze di celerità
del procedimento avuto riguardo
anche alla natura peculiare degli
interessi in gioco, la salvaguardia
del fondamentale principio del
contraddittorio come sancito dagli
art. 24 e 111 della Costituzione.
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Un nuovo giudice
per la persona,
la famiglia ed i minori
Il nodo del mancato adeguamento del rito camerale, procedimento attraverso il quale oggi il
Tribunale per i Minorenni adotta i
provvedimenti di propria competenza (ex art. 38 3° comma disp.
att. c.c.). dal momento in cui è
stato adoperato anche in tema di
giurisdizione contenziosa su diritti, ai principi fondamentali in tema
di contraddittorio e diritto alla
prova, lascia presumere che possa
essere più facilmente percorsa la
via, prospettata già in via d’interpretazione dal Tribunale per i
Minorenni di Milano nel noto
decreto del 12 maggio 2006 (poi
sconfessato dalla Suprema Corte)
dell’adozione di un rito uniforme
modellato sull’attuale procedura
dei procedimenti di separazione e
divorzio dinanzi al Tribunale ordinario, con una fase presidenziale
caratterizzata dall’esperimento del
tentativo di conciliazione, all’esito
della quale provvedersi all’emanazione dei provvedimenti urgenti
nell’interesse delle parti e dei
minori e da una fase di merito a
cognizione piena.
Potrebbe eliminarsi quella che
appare oggi come una superfetazione (il reclamo dei provvedimenti presidenziali quale oggi previsto dall’ultimo comma dell’art.
708 c.p.c.) in considerazione della
possibilità di revoca o modifica
degli stessi in ogni momento da
parte dell’istruttore, ma prevedersi
di contro la reclamabilità dei prov-
vedimenti di quest’ultimo al tribunale in composizione collegiale ex
art. 669 terdecies c.p.c., senza la
partecipazione al collegio dell’estensore del provvedimento reclamato.
Nel caso in cui la controversia
non veda coinvolti minori, potrebbe ipotizzarsi la devoluzione della
decisione al tribunale in composizione monocratica (sia pure con
l’intervento obbligatorio del P.M.
nelle controversie riguardanti lo
stato e la capacità delle persone,
come ad esempio nelle cause di
separazione o divorzio di coniugi
senza figli o con prole maggiorenne), che potrebbe quindi adottare il
modello decisorio di cui all’art.
281 sexies c.p.c.
In ogni altro caso in cui invece
occorra valutare l’interesse di
minori la decisione dovrebbe essere attribuita al tribunale in composizione collegiale, la quale dovrebbe integrare una prevalente componente togata (due giudici) con
un terzo componente non togato
dotato di particolare esperienza in
quei saperi medici, psicologici e
sociologici che consentano di
compiere una valutazione accurata
e completa della situazione del
minore.
In ogni caso tali decisioni
sarebbero soggette ad appello
dinanzi alla sezione specializzata
di Corte di Appello per la persona,
famiglia e minori, sempre in composizione collegiale, con sola
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Il dibattito sulle riforme
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componente togata avverso le
decisioni monocratiche o con il
terzo componente esperto negli
altri casi.
Il c.d. giudice - esperto potrebbe in primo luogo contribuire a
rendere sempre effettivo l’ascolto
del minore capace di discernimento, se del caso affiancando il Presidente sin dal momento dell’adozione dei provvedimenti urgenti o
l’istruttore nella successiva fase
istruttoria.
L’attuazione dei provvedimenti
provvisori o l’applicazione di
misure di coercizione indiretta
dovrebbe essere affidata al giudice
del procedimento in corso, mentre
l’esecuzione delle decisioni idonee
ad acquisire tendenziale definitività o l’applicazione di sanzioni
per la loro violazione potrebbe
essere affidata al giudice tutelare,
ove non sia richiesta la modifica
del provvedimento.
Certamente sul piano processuale la riforma non potrà più obliterare la definizione dell’ambito
del ruolo dell’avvocato del minore.
L’impatto del patrocinio obbligatorio nelle procedure relative
all’adottabilità dei minori e in
quelle de potestate, sopraggiunto
inaspettato nel luglio 2007 dopo
proroghe dell’entrata in vigore
delle disposizioni processuali della
L. n. 149/2001 protrattesi per oltre
una legislatura, senza l’adozione
di una specifica normativa sulla
244
difesa d’ufficio e sul patrocinio a
spese dello Stato, con le forti
incertezze conseguite sulle prassi
adottate presso i diversi Tribunali
per i Minorenni, evidenzia come il
problema necessiti di soluzioni
attente e meditate.
Chi scrive ritiene, d’accordo
con altre opinioni pure recentemente espresse, che sia da evitare
una predeterminata istituzionalizzazione del conflitto tra minore ed
ambiente familiare di appartenenza, genitori in primo luogo, dovendo tendere le soluzioni in primo
luogo verso l’attenuazione dei
conflitti, ove possibile attraverso
la mediazione delle relazioni familiari e quindi, verso l’applicazione
di un c.d. “diritto mite”.
Ciò impone almeno un cenno
alla problematica della mediazione familiare che, timidamente, ha
trovato ingresso, in maniera molto
riduttiva, nell’art. 155 sexies 2°
comma c.c. come inserito dall’art.
1 della L. n. 54/2006, come una
sorta di parentesi nell’ambito di un
procedimento di separazione o
divorzio.
In realtà storicamente l’ambito
proprio della mediazione nasce in
funzione preventiva e alternativa
al processo.
Certamente non può risolversi
in pochi spunti il controverso problema sulla volontarietà (ribadita
anche dalle raccomandazioni
europee) o meno della mediazione, volontarietà infine ribadita dal
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Un nuovo giudice
per la persona,
la famiglia ed i minori
testo approvato dall’art. 155 sexies
c.c. con abbandono quindi della
previsione dell’obbligo, previsto
dai cosiddetti progetti di legge
Paniz 2 (aprile 2003) e Paniz 3
(aprile 2004) di rivolgersi, prima
di adire il giudice, ad un centro di
mediazione.
Sembra però certamente opportuno che il previo ricorso alla
mediazione, se non reso obbligatorio in funzione deflativa del contenzioso, sia quanto meno incrementato attraverso misure oggettive quali, in primo luogo, una
capillare informazione dell’esistenza dei centri pubblici di
mediazione, un rafforzamento
delle loro potenzialità attraverso
l’incremento della spesa sociale e
l’individuazione di meccanismi
premiali per chi si rivolga previamente alla mediazione (ad esempio corsie privilegiate per la definizione dei procedimenti sulla
base degli accordi raggiunti in
sede di mediazione c.d. globale).
Infine deve sottolinearsi l’importanza che contestualmente si
approvino norme di carattere
sostanziale destinate ad avere incidenza significativa nella semplificazione delle procedure.
Può essere richiamato, in proposito, come esempio di normativa da riprendere nella legislatura
in corso, il testo base sul c.d.
“divorzio veloce” approvato nella
scorsa legislatura il 19 dicembre in
Commissione Giustizia del Sena-
to, comprendente, oltre all’abbreviazione ad un anno dalla comparizione dei coniugi all’udienza
presidenziale di separazione per la
proposizione della domanda di
divorzio, anche altre importanti
disposizioni, tra le quali l’abrogazione dell’art. 151 2° comma c.c.
in tema di addebito della separazione e delle conseguenti disposizioni in tema di mantenimento del
coniuge e di diritti successori del
coniuge separato e la decorrenza
automatica degli effetti dello scioglimento della comunione dal
momento della proposizione della
domanda di separazione o di
annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del
matrimonio.
In tema di protezione dell’incapace, dovrebbe infine portarsi a
compimento la definitiva abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione secondo quanto auspicato e prospettato da lavori condivisi da esperti ed operatori di
diversa formazione.
I giudici sono pronti a fare la
loro parte nel quadro di un impegno costante alla formazione,
all’aggiornamento ed alla dedizione ad un servizio di vitale importanza per la società.
L’auspicio è che anche le scelte
politiche s’indirizzino nel solco di
riforme meditate ed effettivamente
attente ai bisogni della famiglia.
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Nazionale
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Il processo veloce,
il processo giusto.
La riforma dei tempi
della giustizia civile
*Giudici
del Tribunale
di Palermo
Michele Ruvolo* e Luigi Petrucci*
Lo scopo di questo articolo è
quello di individuare delle misure utili per ridurre in modo significativo i tempi del processo
civile, che sono evidentemente
spropositati ed impediscono al
cittadino di avere giustizia, a prescindere dalla equità o meno
della decisione finale.
Uno dei presupposti di questo
contributo è, anzitutto, un atteggiamento propositivo nei confronti di chi scrive le regole e di
chi ha il compito di organizzare i
servizi a sostegno della decisioni
giudiziarie. Si è poi anche tenuto
conto della necessità che tutti gli
attori del processo civile siano
adeguatamente coinvolti nella
riforma, perché la diminuzione
dei tempi del processo passa
attraverso il cambiamento del
modo di pensare il lavoro dei
giudici, degli avvocati e del personale ausiliario. Il presente
lavoro si fonda, infine, sulla consapevolezza che occorre agire su
più fronti – e non solo su quello
dei riti – per determinare una
reale e sensibile diminuzione del
tempo per giungere ad una decisione “utile” delle controversie
di natura civile.
Le proposte sono state articolate su quattro livelli, a seconda
del tipo di intervento normativo
che si richiede.
Il primo livello comprende
l’unificazione delle giurisdizioni, alla quale dovrebbe essere
246
logicamente accompagnata una
divisione del lavoro per macrospecializzazioni, peraltro già in
parte esistenti nella realtà giudiziaria.
Nel secondo livello sono
riportate una serie di proposte di
distribuzione dell’attuale carico
lavoro del giudice ordinario,
quasi integralmente già oggetto
del dibattito in corso da anni sul
tema ed in parte già recepite dall’attuale disegno riformatore, al
quale si aggiunge il necessario
raccordo che va fatto fra la
“capacità produttiva” dei magistrati e del personale ausiliario e
la “capacità produttiva” degli
avvocati (come ha sottolineato la
Banca d’Italia nel suo rapporto
sulla situazione produttiva dell’Italia del 2007).
Nel terzo livello sono accorpate alcune misure sul rito, che
nel solco delle parziali riforme
già attuate puntano a ridurre ulteriormente i tempi “morti” del
processo ed a trovare un ragionevole sistema di stabilizzazione
delle decisioni “interinali”, che è
l’unico strumento in grado di
abbreviare realmente i tempi del
processo secondo l’osservazione
del più qualificato osservatorio
europeo (il CEPEJ).
Nel quarto livello viene focalizzata l’attenzione sulle misure
organizzative che possono sviluppare atteggiamenti quotidiani
degli attori del processo più fun-
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Il processo veloce,
il processo giusto.
La riforma dei tempi
della giustizia civile
zionali alla rapida conduzione
del procedimento verso una decisione “utile” (l’attenzione è puntata sui magistrati, ma è ovvio
che analoghe iniziative dovrebbero essere sviluppate dagli
avvocati e dagli ausiliari).
È importante che tutti siano
consapevoli che il processo civile è sempre il luogo in cui non
solo si vivono i conflitti individuali, ma si esprimono, con la
forza dell’attuazione della decisione giudiziaria, anche i valori
della nostra società. Si tratta, pertanto, di uno strumento delicatissimo per la qualità della convivenza civile e fondamentale
soprattutto per chi non ha la
forza di imporre il rispetto dei
propri diritti e, dunque, soprattutto dei soggetti più deboli (i
minori, gli incapaci, i lavoratori,
i consumatori, il cittadino di
fronte all’Amministrazione, i
senza casa, gli stranieri, i clienti
di banche ed assicurazioni, le
persone offese nel bene della
salute e così via elencando una
serie di interessi che sono rappresentati quotidianamente e con
più frequenza nelle cause civili).
Questa è la stella polare che
deve guidare tutti coloro che
oggi stanno ridisegnando il ruolo
del giudice civile e che, proprio
per questo motivo, non può essere né un funzionario, assorbito
solo dalle logiche del sistema a
cui appartiene, né un cavaliere
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solitario, completamente indifferente al sistema di cui fa oggettivamente parte.
I quattro livelli
del processo veloce
1. architettura costituzionale
dell’equilibrio fra poteri dello
Stato e disegno delle giurisdizioni (principi);
2. legislazione sull’organizzazione giudiziaria (regole 1);
3. legislazione sul modello
processuale (regole 2);
4. gestione efficace del processo (enforcement)
Il primo livello del processo
veloce: i principi
a. unificazione delle giurisdizioni (quindi fine delle questioni
sulla giurisdizione);
b. creazione di sezioni specializzate, quali quella della famiglia e della persone (quindi fine
del problema Trib.Ord./Trib.
Min./Giud.Tut.), quella delle
cause in cui è parte una PA, quella dell’impresa e del lavoro,
quella della proprietà immobiliare, quella dei rapporti negoziali
ordinari. La maggiore specializzazione del giudice comporta,
evidentemente, una più frequente
trattazione di cause seriali, con
un fisiologico aumento della produttività. È chiaro che una specializzazione delle sezioni
potrebbe attuarsi solo nei Tribunali di una certa dimensione e
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funzionerebbe in tutto il territorio nazionale se operasse in
sinergia con una revisione della
geografia giudiziaria (v. infra);
c. coerente previsione di un
Ufficio dell’Avvocato Distrettuale che riunisca Avvocatura
Distrettuale, Procura Ordinaria e
Procura della Corte dei Conti
Il secondo livello
del processo veloce:
le regole sull’organizzazione
giudiziaria
a. abolizione delle sezioni
distaccate e dei Tribunali non
sede di provincia (quindi riduzione delle questioni di competenza per territorio, miglior utilizzo dei magistrati e del personale di Cancelleria ed ottenimento di forme di economie di scala)
– [cfr. art. 74 comma 3 dl 112/08
conv. l. 133/08 sulla soppressione degli uffici amministrativi]. Si
evidenzia che nelle conclusioni
ultime dell’ANM era prevista la:
riduzione degli uffici del Giudice
di pace, l’accorpamento dei piccoli Tribunali e l’istituzione di
Procure infraprovinciali, secondo le linee di un progetto già elaborato dall’ANM;
b. determinazione della competenza per valore dei giudici di
pace con norma di legge (per
rispettare riserva di legge su giudice naturale) che la affidi ad un
decreto ministeriale (da emanarsi
all’inizio di ogni revisione tabel248
le, e quindi ogni quattro anni)
sulla base di parametri da indicare (es. indice ISTAT FOI o altro
indice analogo) ed a partire
(aumentando quindi la previsione di cui al ddl governativo
attuale) da 10.000,00 euro (per
cause ordinarie) e 30.000,00
euro (per sinistri stradali), con
aumento a 2.000,00 euro del
limite per l’inappellabilità;
c. riordino della magistratura
onoraria in modo conforme
all’assetto costituzionale. Si
osserva che nelle conclusioni
ultime ANM si parla soltanto di
una limitata redistribuzione delle
competenze dal giudice professionale al giudice di pace;
d. sostituzione (integrale o
parziale) delle attuali Corti di
Appello con un giudice collegiale di primo grado (modello Riesame, più che reclamo) e ciò nell’ottica di un equilibrato decentramento e rapido svolgimento
delle cause di appello e di una
nuova impostazione dei Tribunali;
e. estensione dell’ambito di
non appellabilità delle sentenze
di primo grado e ciò sia per valore che per materia (es. materia
condominiale, regolamento di
confini o opposizioni a ordinanza ingiunzione di valore inferiore
ad euro 10.000,00. A tale ultimo
proposito è appena il caso di rilevare che non si sentiva affatto
l’esigenza, in un sistema giudi-
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Il processo veloce,
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ziario già in forte crisi, di ingolfare le aule dei giudici di appello
di cause per “multe stradali” di
valore molto basso);
f. introduzione del giudice
monocratico anche per talune
cause di appello;
g. previsione di una struttura
di filtro in appello ed in Cassazione [sul punto si noti, comunque, che il ddl attuale approvato
alla Camera non prevede più
l’appellabilità di tutti i provvedimenti di primo grado; molti di
più saranno, poi, stando al testo
del ddl in questione, i ricorsi in
Cassazione non ammissibili];
h. eliminazione degli affari di
volontaria giurisdizione non contenziosi, affari da delegare ad
altre categorie professionali o
uffici amministrativi (autorizzazioni, visti, etc.);
i. riduzione dei compiti che
sono propri del giudice, garantendo l’assistenza in udienza e
l’ordine dei fascicoli previsto dal
codice e prevedendo la liquidazione dei compensi degli ausiliari come compito dei funzionari
amministrativi;
j. necessaria riorganizzazione
del processo, da attuare mediante
l’istituzione del cd. ufficio per il
processo o dell’ufficio del giudice e la riqualificazione del personale amministrativo. È prioritario sviluppare l’applicazione
degli strumenti informatici in
tutte le fasi processuali, a comin-
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ciare dalla introduzione della
posta elettronica certificata. Solo
in questo contesto sarà possibile
l’adozione di misure organizzative idonee a garantire che ogni
magistrato possa gestire, nell’ambito della sua responsabilità,
un carico sostenibile di lavoro (v.
conclusioni ultime ANM);
k. copertura delle vacanze
amministrative con personale
degli enti pubblici da sopprimere;
l. introduzione di un numero
programmato massimo di avvocati;
m. individuazione in anticipo
dei costi del processo ridisegnando le tariffe professionali in
modo che siano parametrate più
al valore ed alla complessità
della causa che all’attività formalmente espletata davanti al
giudice, con la conseguenza che
verrebbe meno ogni interesse
alla dilatazione dei tempi processuali. Anzi, l’avvocato avrebbe
tutto l’interesse ad una rapida
soluzione della controversia al
fine di non sprecare attività professionale;
n. incentivazione delle sedi
conciliative e degli strumenti di
composizione/mediazione dei
conflitti (conclusioni ultime
ANM). Occorre che si faccia
ricorso a strumenti alternativi di
risoluzione delle controversie
civili, con l’intervento di organi
di conciliazione prima dell’in249
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staurazione del giudizio Interessanti sono state, sul punto, alcune
iniziative in tema di conciliazione
(il progetto ‘Conciliamo’ di Milano e la preparazione di una proposta di legge per istituire camere di
conciliazione in ogni tribunale, su
cui si sollecita il parere di avvocati e magistrati);
o. valorizzazione della capacità degli avvocati di far trovare
ai loro clienti della soluzioni
conciliative, totali o parziali,
della controversia. I compensi
professionali per l’attività di
conciliazione giudiziale ed extragiudiziale sono, invece, di gran
lunga inferiori a quelli per l’attività giudiziale contenziosa. Questo punto andrebbe rivisto. Si
potrebbero inoltre prevedere
delle agevolazioni fiscali per tali
compensi per l’attività extragiudiziale e meccanismi di sgravio
fiscale per le parti (es. possibilità
di detrarre i compensi in questione), considerato il vantaggio
complessivo per l’Erario derivante dalla minor mole di processi da celebrare;
p. adozione, all’interno del
processo, di strumenti volti a
contrastare l’uso dilatorio e gli
abusi del processo (conclusioni
ultime ANM). La previsione di
nuove forme conciliatorie (prima
o durante il processo) andrebbe,
ad esempio, accompagnata da
meccanismi che le rendano effettive, quali possono essere i prov250
vedimenti in materia di spese di
lite in caso di mancato accoglimento di proposte transattive
qualora, all’esito del giudizio, la
parte ottenga il riconoscimento
del diritto nella stessa misura (o
in misura minore) di quella che
avrebbe ottenuto in sede conciliativa (così il ddl Mastella ed il
ddl attuale). Va disincentivato,
attraverso delle sanzioni pecuniarie, il vero e proprio abuso del
diritto alla tutela giurisdizionale,
che si manifesta nella presentazione di domande strumentali,
palesemente infondate e dilatorie, delle quali si ravvisano molteplici esempi nell’esperienza
quotidiana del giudice civile.
Il terzo livello del processo
veloce: le regole del modello
processuale
a. introduzione del sistema
della decisione provvisoriamente
esecutiva allo stato degli atti
(salvo cause di stato). Sempre di
più si sente l’esigenza di una stabilizzazione dei provvedimenti
provvisori. Questa è la principale
soluzione secondo il CEPEJ.
Unitamente al principio di non
contestazione, aiuta a precisare i
temi della causa da subito e concentrare l’istruttoria sui punti
realmente controversi. Si tratta,
però, di una soluzione che non
puo’ essere realizzata allo stato,
perchè l’arretrato impedirebbe di
studiare sin da subito i fascicoli.
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il processo giusto.
La riforma dei tempi
della giustizia civile
puo’ andare bene se si mettono le
premesse per cominciare daccapo. Culturalmente è una svolta
soprattutto per gli avvocati, che
dovrebbero “spalmare” il loro
lavoro da qualche anno a qualche
mese ed anche per loro c’è il problema dell’arretrato. Peraltro, si
noti che il principio della decisione allo stato degli atti potrebbe far ottenere, insieme ad un
sistema di appello configurato
sulla falsariga del riesame, decisioni autorevoli da subito Si
potrebbe, poi, anche avere una
maggiore uniformità di giudizio;
b. riduzione dei riti (massimo
tre) [intanto il ddl ne introduce
uno nuovo: procedimento sommario di cognizione]. La normativa processuale deve essere elastica, capace di adeguarsi agli
specifici bisogni di ciascuna controversia, ma è certamente possibile individuare pochi modelli di
riferimento, a seconda della celerità della decisione e dell’importanza degli interessi coinvolti (la
recente modifica del rito ordinario e la concentrazione delle attività processuali da poco introdotta rende, comunque, sempre
meno necessaria la previsione di
riti ad hoc). Si potrebbero così
eliminare inutili e pericolosi
intrecci tra questioni di rito e
riparto all’interno del medesimo
ufficio, che ostacolano lo spedito
svolgimento del processo, agevolano la parte più abile nell’ap-
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plicare le disposizioni più complicate e finiscono con il creare
controversia proprio sulle regole
processuali, dando pure luogo in
qualche caso a decisioni sfavorevoli per mancato rispetto di taluna delle nuove (ed ancora poco
note e chiare) norme processuali;
c. rivitalizzazione del processo del lavoro e semplificazione/
riduzione degli altri riti processuali; modulazione del rito ordinario a seconda della complessità/semplicità della controversia
(conclusioni ultime ANM) [il ddl
attuale prevede, in un’ottica di
semplificazione e di diversificazione della procedura a discrezione del giudice, la testimonianza scritta, che dovrebbe però
essere accompagnata da una
videoregistrazione, e la possibilità di non concedere i termini ex
art. 183, comma 6, c.p.c.];
d. riduzione dei tempi di prescrizione dei diritti;
e. introduzione del principio
della non contestazione [il ddl
attuale prevede solo che il giudice può, senza bisogno di prova,
porre a fondamento della decisione non soltanto le nozioni di
fatto che rientrano nella comune
esperienza, ma anche “i fatti
ammessi o non contestati”. Tuttavia, questo era già sostanzialmente pacifico. Andrebbe chiarito se costituisce (come sarebbe
preferibile ritenere) non contestazione anche il silenzio o la
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contestazione generica];
f. introduzione dell’inversione dell’onere della prova per le
cause introdotte dopo la metà del
tempo per la prescrizione (quale
possibile alternativa alla riduzione sic et simpliciter dei tempi di
prescrizione e, comunque, come
temperamento del principio di
non contestazione da non applicarsi in cause “prescritte”)1;
g. modifica dell’art. 132 c.p.c.
relativo al contenuto della sentenza, eliminando l’esposizione
dello svolgimento del processo,
rendendola facoltativa per i soli
casi in cui la stessa è richiesta
dalla complessità delle questioni
da decidere [così ddl Mastella e
ddl attuale];
h. riformulazione dell’art.
281 sexies c.p.c. prevedendo la
motivazione per relationem con
espresso riferimento anche agli
atti di causa, compresi quelli
delle parti [il ddl attuale consente solo in caso di domanda manifestamente fondate o non fondate di rifarsi ad un precedente di
una corte superiore];
i. esclusione dell’obbligo di
motivazione sulle questioni preliminari se la domanda di merito
può essere facilmente valutata
come infondata nel merito;
j. introduzione dellla forma
decisoria dell’art. 281 sexies
c.p.c. anche in fase di appello;
k. incentivazione (prevedendo
magari dei meccanismi obbligato252
ri) delle comunicazioni via fax e
via mail prendendo atto che anche
gli avvocati si devono adeguare al
processo telematico ed al processo veloce ed incentivando quindi
gli studi associati e la diffusione
dei requisiti minimi per l’attività
(fax, posta certificata, numero di
avvocati per fare tot udienze contemporaneamente, etc.);
l. controllo ad opera del personale di cancelleria del deposito
delle relazioni del ctu prima dell’udienza fissata per l’esame ed
ulteriore (rispetto alla previsione
attuale contenuta nel T.U. sulle
spese di giustizia) riduzione
(fino alla metà dei minimi) degli
onorari dei consulenti d’ufficio
che depositano in ritardo senza
giustificato motivo;
m. previsione della cancellazione della causa dal ruolo quando entrambe le parti non compaiono ad un’udienza – eliminando il rinvio ad altra udienza previsto dagli artt. 181 e 309 c.p.c.
[ancora contemplato dalla recente modifica apportata dalla legge
133/08, di conversione di un precedente decreto legge, nonostante
sia stata introdotta l’estinzione, in
aggiunta alla cancellazione, per
le cause introdotte a partire dal
luglio 2008] – e drastica riduzione del termine per la riassunzione
della causa, limitandolo, ad
esempio, a tre mesi dalla comunicazione della cancellazione alle
parti [ddl attuale];
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Il processo veloce,
il processo giusto.
La riforma dei tempi
della giustizia civile
n. riduzione di tempi di riassunzione del giudizio in caso di
interruzione [ddl attuale];
o. abolizione del termine
lungo di impugnazione (ridotto
solo a sei mesi dal ddl attuale) e
decorrenza dei termini dell’appello (da ridurre a 60 giorni)
dalla comunicazione del deposito della sentenza da parte della
Cancelleria; [così in parte ddl
attuale, che però si limita ad affidare alla notifica telematica della
sentenza ad opera della parte il
termine per l’impugnazione ed
dimezza tutti i tempi per riassunzione e impugnazioni]
p. riduzione dei motivi di
impugnazione in appello (o giudice dell’impugnazione) e Cassazione;
q. revisione del sistema delle
impugnazioni ed in particolare
del processo di appello [Conclusioni ultime ANM];
r. garanzia della fase esecutiva, assicurandone la continuità
con quella di cognizione (estendere il meccanismo di cui all’art.
669 duodecies c.p.c. al processo
ordinario ove possibile) [buona
l’astreintes generalizzata per
l’attuazione degli obblighi di
fare del ddl attuale];
s. previsione di un meccanismo di adeguamento per tutte le
previsioni di sanzioni o di limiti
in valuta (è stata aggiornata la
sanzione per i testimoni ingiustificatamente assenti, ma vanno
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anche costantemente tenute
aggiornate, magari con il medesimo provvedimento che aggiorna la competenza per valore del
Giudice di pace, la sanzione per
il terzo che non ottempera all’ordine di esibizione, la multa nei
regolamenti condominiali, il
limite di ammissibilità della
prova per testi, il limite delle
cause decise secondo equità, il
limite per le sentenze non appellabili, etc.). Alcune di queste sanzioni possono, se effettive e di
importo congruo, non dilatare i
tempi processuali;
t. la garanzia della prima notifica alle persone che non hanno
fissa dimora.
Le nuove regole sul processo
veloce dovrebbero essere
accompagnate da una serie di
provvedimenti relativi alla
gestione dell’arretrato, quali:
1. assegnazione dell’arretrato
a chi si impegna a garantire uno
standard con incentivi per la produttività (tempo massimo: fine di
questa legislatura?);
2. introduzione di meccanismi di “rottamazione” dei processi più antichi (conciliazione
incentivata);
Il quarto livello del processo
veloce: la gestione efficace
del processo (enforcement)
a. ruolo del sistema Consiglio
Superiore/Consigli Giudiziari:
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tenere conto delle esigenze e
delle condizioni di chi sta in
prima linea, secondo una catena
in cui ogni anello è causa ed
effetto dell’altro: condizioni di
lavoro, ovvero tabelle e disfunzioni, esigenze di formazione,
ovvero la Scuola della Magistratura, crescita professionale del
Magistrato ovvero le valutazione
periodiche. N.B. Il carico di
lavoro sostenibile è un tema culturalmente molto sensibile: si
gioca su questo fronte il ruolo del
magistrato del terzo millennio
come funzionario che esegue
direttive ministeriali o della Cassazione ovvero come potere
dello Stato diffuso, indipendente
e soggetto alla legge (come fare
quantità senza andare a discapito
della qualità? Come difendere
uno status senza assicurare un
servizio efficace?) Su questo
bisogna ricordare che è proprio il
magistrato dotato di autonomia
che può rispondere ai bisogni dei
cittadini immediatamente e concretamente (v. giurisprudenza
creativa sul danno biologico),
nonché il fatto che il Legislatore
ha sempre lasciato alla discrezionalità del magistrato la soluzione
dei casi più spinosi (es. equo
indennizzo);
b. consolidare le prassi applicative ed interpretative virtuose.
Evidenti sono, in proposito, le
prospettive che possono aprirsi
considerando gli Osservatori un
254
luogo privilegiato per la rilevazione delle prassi: ad esempio, al
fine di dare risposte al libro
verde sulle esecuzioni o di monitorare la giurisprudenza sull’applicazione del diritto comunitario;
c. organizzare nel maggior
numero di uffici incontri di formazione comune tra giudici e
avvocati in ordine alle riflessioni
sulla motivazione ed in particolare al raccordo tra atti difensivi
e provvedimenti, coinvolgendo
le fondazioni per la formazione
forense, i consigli dell’ordine,
l’a.n.m., la formazione decentrata del c.s.m., i singoli uffici. Gli
incontri potrebbero svolgersi
sulla base degli schemi di atti
emersi dai lavori assembleari,
specie su impulso degli Osservatori di Milano, Verona e Salerno;
d. rendere effettivi dei livelli
standardizzati minimi e massimi
nel lavoro dei magistrati (attraverso un’analisi del carico di
lavoro dei singoli uffici che
tenga conto dell’aspetto qualitativo e quantitativo del lavoro).
Occorre ottenere un carico di
lavoro sostenibile per ciascuno
dei “mestieri” del giudice civile
(della famiglia, del fallimento,
delle società, dell’esecuzione,
del lavoro, delle locazioni, etc.);
e. prevedere che le riunioni
mensili di Sezione siano dedicate anche all’esame dei flussi (in
entrata ed in uscita) per singolo
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Il processo veloce,
il processo giusto.
La riforma dei tempi
della giustizia civile
magistrato ed al numero ed allo
stato delle cause da definirsi con
priorità (con particolare riferimento a quelle ultratriennali);
f. prevedere che le riunioni
mensili di Sezione siano dedicate anche al confronto con gli
avvocati sulla gestione delle
udienze e sulle cause seriali (o
sui criteri di decisione seriali).
Sotto questo profilo si può fare
uno sforzo per distinguere l’indipendenza (della decisione) dall’arbitrio (della gestione);
g. privilegiare un’organizzazione del lavoro degli uffici e
delle politiche di trasferimento
interno dei magistrati in modo da
rispettare il principio che chi
istruisce il procedimento possa
anche concluderlo;
h. organizzare gli eventi
“straordinari” (arretrati, vuoti di
organico, sopravvenienze incontrollate, etc.);
i. non penalizzare chi non è
abbastanza abile nel prevedere i
tempi di scrittura della sentenza,
ma che rispetta il tempo complessivo di definizione del procedimento;
j. utilizzare i finanziamenti
pubblici previsti per le best practices;
k. individuare in anticipo i
tempi del processo in relazione a
cause tipo (ovvero in relazione al
carico di lavoro medio esigibile);
l. ripensare la “cultura” della
motivazione: massima concisio-
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ne, sempre comunque nel rispetto dei limiti minimi di contenuto.
Es. motivazione per relationem
agli atti delle parti (specie se il
giudice ha già indicato l’indice
dei punti controversi);
m. adottare formule per gli
atti di parte da rendere utilizzabili anche in motivazione con il
rinvio per relationem;
n. adottare dei dettagliati
regolamenti di procedura sulla
falsariga di quelli della CGCE.
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Il dibattito sulle riforme
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Note
1. Rispetto al tema della non contestazione
(che andrebbe comunque legato ad una chiara
sanzione in caso di sostanziale infedeltà dell’allegazione, pena la sua disapplicazione nella
pratica), che implica un rapporto fra allegazione e prova, è forse utile evidenziare un passaggio logico che riguarda l’estensione del principio di non contestazione e che afferisce all’onere della prova. In altri termini, si è tenuti a contestare un fatto che è comunque onere dell’altra
parte provare? La portata del quesito si chiarisce subito pensando all’ipotesi della contumacia e dell’istruttoria che è necessario fare per
accogliere la domanda contro il contumace e
che “carica” il giudice di nuove responsabilità.
È piuttosto frequente, poi, che la causa sia decisa attraverso il ricorso all’onere della prova per
l’intrinseca difficoltà di provare il fatto decisivo per la causa. Non bisogna, infine, dimenticare l’importanza della ripartizione degli oneri
probatori per stabilire l’alea del giudizio, che
indubbiamente incide sulla possibilità di addivenire ad accordi transattivi. Ecco che si può
allora cercare di evidenziare la “sensazione” del
giudicante (ma l’esperimento va fatto anche
mettendosi dal punto di vista dell’avvocato). Si
può, infatti, tollerare l’emissione di un decreto
ingiuntivo sulla base della sola fattura, mentre
non si può tollerare di condannare chi ha dato
un pugno ed è rimasto contumace ad un risarcimento del danno senza fare un minimo di istruttoria, sulla base di un mero referto medico. La
“sensazione” evidenzia due elementi, più che la
prova atipica documentale, presente nei due
esempi: la differente struttura del diritto fatto
valere (il credito contrattuale deve essere
“impedito” da qualche fatto: l’onere è sul debitore; il credito extracontrattuale deve essere
provato in tutti i suoi elementi dall’attore) ed il
tipo di rimedio che si ha a fronte della decisione di primo grado (pieno e totale con oneri probatori normali in caso di opposizione a decreto
ingiuntivo; l’appello con tutte le conseguenze
sulla prova nella seconda ipotesi). Se si vuole
pensare un processo diverso che possa tagliare i
tempi dell’istruttoria (ma non quelli decisione!)
e che, soprattutto, anticipi (e di molto!) i tempi
della (prima, ovviamente, perché destinata ad
essere seguita da un’altra decisione ad istruttoria completa) decisione del giudice, occorre
agire anche su questi due elementi (oneri probatori ed impugnazioni). I due esempi più lampanti di questo modulo processuale sono il
decreto ingiuntivo e l’udienza presidenziale
della separazione e del divorzio, che non a caso
sono provvedimenti decisori, potenzialmente
256
definitivi, che vengono emessi sulla base di
istruttoria sommaria in meno di un anno (spesso anche meno di sei mesi) dalla presentazione
del ricorso (ma anche il possessorio, il cautelare atipico). Quanti di questi provvedimenti vengono modificati dopo il giudizio? Non è, allora,
più facile condannare chi ha fatto proseguire il
giudizio inutilmente? È possibile pensare che
questo modulo processuale possa temperare,
attraverso un sapiente uso delle regole di riparto dell’onere della prova, esiti imprevedibili ed
ingiusti del meccanismo della non contestazione (es. penso di aver ragione senza fare istruttoria, il giudice mi dà torto perché applica un
diverso onere della prova, posso sempre espletare l’istruttoria che non avevo fatto). Con l’attuale processo, che contempla ordinariamente
una sola decisione su tutte le questioni, questo
non è possibile e, nell’incertezza sugli esiti del
principio di non contestazione, rischia di porre
nel nulla l’innovazione ovvero di approdare ad
esiti ingiusti. La reclamabilità di questi provvedimenti assicurerebbe, poi, in tempi brevi la cristallizzazione di una determinata situazione
processuale, che dovrebbe favorire la transazione della causa (l’unica alea resta quella dell’istruttoria, che peraltro sarebbe ridotta a quella
costituenda o orale). Il sistema del reclamo collegiale si apprezza, infine, per la possibilità che
si formino più rapidamente indirizzi giurisprudenziali locali condivisi (analogamente al meccanismo di interpretazione dei contratti collettivi di lavoro, preliminare rispetto alla decisione
di merito).
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Il dibattito sulle riforme
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Le difficoltà di accertamento
del reato di usura: proposta
di modifiche normative
*Consigliere
della Corte
d’Appello
di Mialno
Rosario Spina*
L’usura è un fenomeno sommerso; a tale conclusione si perviene da una lettura dei dati
offerti dall’Osservatorio permanente sui fenomeni dell’usura e
dell’estorsione presso il Ministro
dell’interno
A fronte dell’effettiva diffusione di tale reato, infatti, il
numero dei procedimenti penali
pendenti non corrisponde alla
reale portata dello stesso.
Al riguardo la legge 7 marzo
1996 n. 108 che ha profondamente modificato la struttura del
reato, non sembra aver apportato
sostanziali novità in tema di
numero di denuncie.
Lo stesso Osservatorio nell’anno 1999, monitorando il
periodo 1995-1998, scriveva:
“Le analisi di carattere economico che, pur con sempre
maggior frequenza, vengono
condotte sul tema dell’usura
convergono nel mettere in evidenza la natura prevalentemente
sommersa di questo fenomeno,
che lo rende scarsamente trasparente all’osservazione statistica.
Le fonti definite ‘dirette’, cioè i
dati di polizia e le statistiche giudiziarie penali, forniscono, invero, una rappresentazione parziale dell’usura, essendo indicative
solo delle manifestazioni emerse
dei processi usurari.”
Ragioni di carattere personale
e di non giustificabile pudore si
oppongono a che l’usurato si
258
rivolga all’autorità Giudiziaria Il
rapporto tra usuraio ed usurato –
può sembrare singolare - è di
reciproca convenienza, configurando per quanto riguarda la
posizione dell’usurato, qualcosa
di simile alla c.d. “sindrome di
Stoccolma”. La spiegazione è da
ricercare nelle ragioni che spingono un soggetto verso l’usuraio,
quasi sempre determinate dal
fatto che egli, per la propria condizione economica ( pensiamo al
debitore “protestato” o semplicemente a chi non garanzie da
offrire) non ha accesso al credito
“legale”. In questa situazione
l’usuraio diviene una sorta di
ancora di salvezza. Vi sono inoltre ragioni di pudore che si
oppongono a che si sveli all’esterno la propria situazione di
difficoltà economica.
Scriveva sempre l’Osservatorio nel 1999 : “Il fenomeno dell’usura, infatti, è una piaga criminale e sociale che resta spesso
impunita, in ragione dl particolar legame psicologico tra usurai e debitori e, soprattutto, della
necessità di questi ultimi, in
genere piccoli imprenditori e
commercianti, di mantenere
nascosto il proprio effettivo stato
economico”.
La conseguenza di tutto ciò è
che sino a quando non si verifichino situazioni che rendano
intollerabile la prosecuzione del
rapporto,- e cioè quando di fatto
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Le difficoltà
di accertamento
del reato di usura:
proposta di modifiche
normative
quest’ultimo si sia deteriorato ed
abbia raggiunto una via di non
ritorno, - la denuncia non viene
presentata.
In particolare l’esperienza
giudiziaria dimostra come il rapporto usuraio emerga, a seguito
di denuncia, nella ricorrenza di
alcune condizioni. La prima condizione è costituita dal timore da
parte dell’usurato per la propria
incolumità fisica o per quella dei
propri cari; nella prassi accade,
infatti, che qualora il finanziatore non riesca a recuperare il proprio credito passi a vie di fatto
particolarmente “convincenti”,
quali minacce, violenze, pestaggi; in questo caso la condotta dell’agente, per l’illiceità del profitto che caratterizza la pretesa creditoria, realizza il delitto di estorsione. La seconda condizione è
individuata nella situazione economica del denunciante particolarmente critica. In ipotesi come
questa vi è tuttavia il rischio di
denuncie “strumentali”, presentate cioè al solo fine di paralizzare la procedura stessa; ed infatti
la denuncia è quasi sempre
accompagnata dalla richiesta di
sequestro di titoli in possesso del
presunto usuraio e dallo stesso
azionati.
Ma non vi è dubbio che il
carattere sommerso dell’usura
risenta anche delle difficoltà di
accertamento del reato; l’usurato
non rischia un processo “inutile”
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che potrà risolversi con l’assoluzione dell’autore del reato. In tal
senso le difficoltà sopradette
influiscano sulla risposta che lo
Stato è chiamata a dare. Ed è
proprio la particolarità del rapporto usuraio – usurato, infatti,
ad influire in modo sostanziale
sull’attività investigativa. Sovente, allorché la denuncia viene
presentata, il rapporto tra le parti
è in atto da tempo, i fatti denunciati sono remoti, e pertanto gli
elementi probatori sono difficilmente acquisibili; le difficoltà
riguardano in primo luogo la
incapacità della persona offesa a
ricordare e ricostruire dettagliatamente i termini del rapporto
usurario, la carenza di tracce
documentali (assegni, cambiali),
dei flussi di denaro, molto spesso
i ritardi degli istituti di credito a
rispondere alle richieste di informazione dei Pubblici Ministeri,
la carenza di segnalazioni delle
operazioni “sospette”.
Se le difficoltà di accertamento sono da porre in relazione al
problema relativo alla risposta
sanzionatoria adeguata, le stesse
spiegano solo in parte il fatto che
comunque i casi di usura denunciati siano sicuramente inferiori
come numero a quelli effettivi.
Infatti, se la ragione principale
delle scarse denuncie nella normativa previgente si spiegava
con il vuoto normativo in tema di
strumenti di soccorso alle vittime
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Il dibattito sulle riforme
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Il dibattito sulle riforme
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del reato, così non può più dirsi
con la legge n. 108 del 1996,
nella quale l’attenzione verso la
persona offesa è massima, avendo il Legislatore previsto una
serie di interventi volti a favorire
la denuncia da parte delle stessa
e a consentire il superamento
della crisi economica derivante
dal reato.
Dal raffronto dei dati offerti
dall’Osservatorio permanente sui
fenomeni dell’usura e dell’estorsione, emerge in modo evidente
come che in alcune aree geografiche il numero delle denuncie
per usura sia limitato, al contrario di quelle per estorsione; ciò
tuttavia non può portare alla conclusione di una marginalità di
tale fenomeno rispetto ad altre
forme di criminalità.
Il dato da tenere presente, in
realtà, è l’impatto violento che
caratterizza il reato di estorsione
ed il fatto che i valori aggrediti,
quali sicurezza ed incolumità,
sono difficilmente rinunciabili;
l’imprenditore oggetto di estorsione sa che non può salvarsi
dalla spirale in cui è entrato se
non facendo ricorso all’Autorità
Giudiziaria. Inoltre gli atti intimidatori normalmente compiuti
(incendi, danneggiamenti di
esercizi) hanno una rilevanza
esterna che necessariamente
rende immediato l’intervento
degli inquirenti i quali, contattando la vittima, favoriscono la
260
denuncia.
Ciò spiega quindi il numero
di denuncie maggiori per estorsione rispetto a quelle per usura.
Per favorire la denuncia per
usura è necessario quindi superare quelle difficoltà di accertamento del reato. che, rendendo
meno efficace la risposta dello
Stato, contribuiscono a creare
quel clima di diffidenza dell’usurato verso l’Autorità Giudiziaria.
È necessario pertanto verificare
se alcune modifiche legislative
possano rendere più efficace l’attività di contrasto dell’usura.1
Partendo dal presupposto
sopra evidenziato delle difficoltà
di accertamento del reato, va
subito detto che il termine massimo di diciotto mesi per le indagini previsto dal codice di rito (termine di sei mesi di volta in volta
prorogabile, previa autorizzazione del giudice per le indagini
preliminari, sino a diciotto mesi),
e fissato dall’art. 407 cpp, è sicuramente inadeguato. Pertanto
sarebbe auspicabile ricomprendere nel comma 2 della lett.a) n.2
dell’art. 408 cpp, che fissa il termine massimo per le indagini
preliminari in due anni per alcuni reati, il reato di usura; con la
predetta modifica, sarebbe previsto un termine massimo delle
indagini preliminari della durata
di due anni per alcune categorie
di reati, e precisamente i “delitti
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Le difficoltà
di accertamento
del reato di usura:
proposta di modifiche
normative
consumati o tentati di cui agli
artt. 575, 628, terzo comma, 629,
secondo comma, 630 e 644 dello
stesso codice penale”.
Un’ ulteriore modifica sarebbe auspicabile in tema di modalità di proroga del termine delle
indagini preliminari. Il sistema
dell’art. 406 cpp prevede come
alla scadenza di sei mesi dal
momento in cui il nome dell’indagato è stato iscritto nell’apposito registro, il Pubblico Ministero, se non ha concluso l’attività
investigativa (e ciò, in questa
tipo di reato, stante le difficoltà
di accertamento, rappresenta ipotesi tutt’altro che infrequente)
debba presentare richiesta di proroga al giudice per le indagini
preliminari. Tale richiesta, recita
l’art. 406 cpp “... è notificata, a
cura del giudice... alla persona
sottoposta alle indagini...”.
Ora, è evidente che la notifica
all’indagato della richiesta di
proroga, mettendo lo stesso in
grado di conoscere l’esistenza di
un procedimento a suo carico per
usura, di fatto pregiudichi inevitabilmente il corso e l’esito delle
indagini medesime; il presunto
usuraio, infatti, nella ipotesi
migliore penserà bene di sopprimere le eventuali tracce del reato
e, nell’ipotesi peggiore, provvederà a contattare la persona offesa, costringendola a ritrattare.
Orbene, com’è noto l’art. 406
co.5 bis cpp prevede che tale
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meccanismo della notifica della
richiesta di proroga vada escluso
per alcuni reati, rendendo quindi
maggiormente agevole l’intervento investigativo e quindi
repressivo; posto che, come si è
detto, quasi sempre le indagini
preliminari per il delitto di usura
non si concludono in sei mesi,
sarebbe auspicabile che nel co.5
bis dell’art. 406 cpp venisse inserito anche il reato di usura tra
quei reati in relazione ai quali
non va disposta la notifica all’indagato della predetta richiesta di
proroga.
A nostro avviso tali modifiche
normative porterebbero enormi
vantaggi sul piano investigativo,
rendendo sicuramente più efficace l’azione di contrasto dell’Autorità Giudiziaria.
Note
1. l’argomento è stato sviluppato dallo scrivente nel convegno organizzato dall’Osservatorio permanente dei fenomeni dell’estorsione e
dell’usura in Roma il 6.12.2005: Cfr. R.SPINA,
Il reato di usura: la legislazione attuale tra
repressione e tutela della persona offesa, in Atti
del Convegno organizzato dall’Osservatorio
permanente dei fenomeni dell’estorsione e dell’usura, Usura ed estorsione: esperienze a confronto e prospettive di riforma, Roma, 6 dicembre 2005, p.23 ss.
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Il dibattito sulle riforme
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Sulle scuole di specializzazione
per le professioni legali:
una proposta di riforma
per il loro effettivo rilancio
*Magistrato
ordinario
in tirocinio.
Tribunale
di Napoli
Luigi Levita*
“Le Scuole di Specializzazione devono essere rafforzate
anche con un’opportuna riforma
normativa, in modo da costituire
un luogo di preparazione comune alla futura attività professionale di magistrati ed avvocati,
che serva a far venir meno le
separazioni culturali che sovente
sono di ostacolo ad una serena
conduzione dei processi, e da
garantire un’adeguata formazione teorico-pratica, verificata
alla fine del corso con una prova
nazionale di idoneità”: con queste parole, lo scorso maggio
2007, il Consiglio Superiore
della Magistratura invocava un
cambio di rotta nella navigazione, piatta e priva di slancio, delle
Scuole per le Professioni Legali,
sorte nell’anno accademico
2001/2002 ed attualmente avviate all’inaugurazione dell’ottavo
ciclo.
Nonostante l’autorevole input
dell’organo di autogoverno, la
precedente Legislatura si è chiusa senza che un’opera di riforma
venisse quantomeno intrapresa,
il che trova peraltro una parziale
giustificazione nella necessità di
avviare una complessiva rivisitazione dei meccanismi di selezione ed accesso, all’interno dei
quali la valorizzazione delle
Scuole Bassanini costituisce solo
un tassello del più generale
impianto di collegamento fra
l’Università ed il mondo del
262
lavoro e delle professioni.
Nondimeno, il sostanziale
immobilismo che ha caratterizzato il legislatore di questi ultimi
anni sembra protrarsi anche nel
corso dell’attuale Legislatura,
giacché il Governo in carica ha
dimostrato in questa fase del suo
cammino di voler porre in primis
attenzione ai problemi dell’efficienza della giustizia, senza
debitamente soffermarsi sulle
annose problematiche dell’accesso alla magistratura ed alle
professioni legali. Anzi, perpetuando con il solito decreto legge
il rinnovo in carica dei magistrati onorari ed avviandosi a varare
la sessione degli esami d’abilitazione forense con l’ormai collaudato sistema delle correzioni
decentrate (in attesa di una
riscrittura complessiva dell’accesso alla professione che si
preannuncia travagliata), l’Esecutivo sembra pericolosamente
tralasciare gli spinosi interrogativi che si connettono ad un’Università poco meritocratica, ad
una difficile ricerca della professionalità nel mondo dell’avvocatura e ad un sistema oneroso e
defatigante di selezione dei
nuovi magistrati, duramente
messo alla prova dall’abolizione
della prova preselettiva e destinato a scontrarsi con gli impietosi numeri degli aspiranti che si
stagliano all’orizzonte.
Non vi è quindi dubbio che
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Sindacato e Associazionismo:
una necessità storica e una scommessa
per il futuro dell’A.N.M.
Considerazioni sparse per un impegno
sindacale dell’A.N.M.
una seria rimodulazione dell’accesso alle professioni legali
debba presupporre una adeguata
trasformazione delle SSPL, nella
consapevolezza che le poche
Scuole di eccellenza funzionanti
sul territorio nazionale non possono guadagnarsi l’apprezzamento degli studenti esclusivamente per la qualità dei contenuti e la bontà dell’organizzazione
didattica, ma necessitano di un
chiaro riconoscimento normativo
che contribuisca ad elevare l’appeal dell’istituzione e, nel contempo, l’appetibilità di tutte le 39
Scuole operanti in Italia (una
delle quali in via telematica).
Chi scrive, del resto, ha ormai
maturato la profonda convinzione che l’obiettivo – patrocinato
dalla legge Bassanini – di un
sistema di formazione comune
degli aspiranti magistrati, avvocati o notai, sia allo stato utopico: la crescente specializzazione
della società e degli operatori, il
progresso tecnologico e la correlata settorializzazione degli studi
non potevano non riverberare i
loro effetti anche nel ramo umanistico e nel settore giuridico.
Pertanto, continuare a sostenere
che la SSPL, così com’è, possa
adempiere alla formazione
comune di professionisti così
diversi è opinione fallace, per
non dire illusoria, tanto più se
messa a raffronto con le linee
guida emergenti dall’odierno
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dibattito in materia di separazione delle carriere dei magistrati e
di specializzazione delle attività
della classe forense.
Una riprova di questa evidenza è peraltro ravvisabile nell’atteggiamento di complessivo
disinteresse che il notariato ha da
sempre manifestato nei confronti
delle Scuole per le Professioni
Legali, un disinteresse che il sottoscritto ha avuto modo di appurare nel corso della partecipazione ai lavori della cd. “Commissione Siliquini”, organismo di
studio presieduto dal Sottosegretario all’Istruzione che, nel corso
della passata Legislatura, ha
invano tentato una riforma delle
professioni nel contempo ipotizzando una revisione della struttura normativa ed organizzativa
delle SSPL. L’impossibilità di
coinvolgere il notariato nel rilancio delle Scuole ha peraltro
costretto i Direttori delle Scuole
italiane, onde adempiere al
comando normativo di differenziare al secondo anno gli indirizzi di studio, a concludere apposite convenzioni con i locali Consigli Notarili che assicurano la
frequenza degli specializzandi ai
corsi ivi organizzati, per non
ingolfare la macchina burocratica con la predisposizione di indirizzi frequentati da pochissimi
studenti.
Quale, allora, la pars
costruens del ragionamento?
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Il dibattito sulle riforme
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Accertata la refrattarietà del
notariato ad instaurare un proficuo dialogo con i Direttori delle
SSPL, con il Ministero e con gli
altri organi competenti, una proposta di rinnovamento potrebbe
compendiarsi nei seguenti punti
fondamentali: convertire la
SSPL in SSPG, ossia “Scuole di
Specializzazione per le Professioni Giudiziarie”, magistratura
ed avvocatura, estromettendo il
notariato dall’obiettivo formativo; lasciare il primo anno di formazione comune, così come prevede l’attuale legislazione, per
poi creare due indirizzi al secondo anno, l’indirizzo giudiziario e
l’indirizzo forense; prevedere
però che – diversamente dalla
disciplina attuale – il diploma
conseguito sia differente a seconda dell’indirizzo. In altre parole,
solo chi consegue il diploma ad
indirizzo giudiziario potrà accedere al concorso per magistrato
ordinario; invece, solo chi consegue il diploma ad indirizzo
forense potrà accedere all’esame
di avvocato, fermo restando il
canale “ordinario” dello svolgimento della pratica forense che
va fatto salvo (e sempre che il
passaggio obbligatorio per le
“Scuole forensi”, preconizzato
dalle recenti proposte di riforma
dell’accesso all’avvocatura, non
dovesse concretizzarsi).
In questo modo si vincerebbero le censure di disparità di trat264
tamento e si consentirebbe allo
specializzando di maturare per
tempo la scelta professionale
dopo aver già frequentato la
Scuola per un anno accademico,
edificando altresì un filtro d’ingresso che conferirebbe gestibilità al concorso in magistratura e
deflazionerebbe la mole dei dottori in giurisprudenza alla ricerca
dell’abilitazione professionale.
Il tutto, però, sempre che lo
Stato preveda un effettivo ed
adeguato meccanismo di incentivi economici per i laureati capaci e meritevoli che intendano frequentare le Scuole, pena la creazione di un inaccettabile meccanismo censitario di selezione.
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Diario semiserio
di un uditore con funzioni
*Giudice
Siracusa.
Sede distaccata
Augusta
Magistratura giovane
Stefano Montoneri*
Oramai ci sono.
Dopo aver chiesto decine di
volte ho trovato finalmente il Tribunale.
Il mio tribunale di assegnazione.
Parcheggio e scendo.
L’edificio - certo - si qualifica
come tribunale solo per la bandiera italiana, un po’ malconcia, che
sventola su un’asta arrugginita.
Per il resto sembra abbastanza
anonimo ed ammaccato.
Quella che è stupenda è la
vista del mare, che mi riempie di
gioia e mi rinfranca, spingendomi
ad entrare.
Salgo le scale ripidissime.
Noto subito che non ci sono né
ascensori, né alcun tipo di sistema
di sicurezza.
Ma comunque.
Arrivato al piano, apro la porta
antipanico ed entro.
Sono concentrato.
Voglio fare una buona impressione sin da subito.
“Chi ben comincia, è a metà
dell’opera”, ripeto tra me e me.
E fare una bella impressione
sul personale è importante.
Nessuno mi ferma, guarda o
rivolge la parola.
Saluto due vigilantes seduti ad
un tavolo.
Ancora non lo so: diventeranno i miei custodi, sempre gentili e
disponibili.
Entro nella prima stanza che
mi assomiglia ad una cancelleria.
266
Busso gentilmente alla porta
aperta e nel modo più educato che
mi riesce, dico: “buongiorno”.
Da dietro un tavolo, una signora, nascosta sotto un muro di
carte, neanche mi guarda e, col
tono di quella che lo ha ripetuto
decine di volte, dice: “che c’è?”.
Io cerco di rispondere: “emm...
beh... io veramente sarei... ecco ...
sono il nuovo giudice assegnato a
questo tribunale”.
“DOTTOREEEEE”...
“mi
scusi, non l’avevo riconosciuta”,
dice – tutto in una volta – la
signora drizzandosi da dietro il
tavolo, come se scattasse sull’attenti.
“Come potrebbe?”, penso e le
dico: “salve”.
Per arrivare a questo momento, occorre fare un passo indietro.
Ormai è passato il giorno del
giudizio, il giorno più lungo: lo
sbarco.
Quando 360 uditori piovono a
Roma e si radunano insieme per
l’evento su cui hanno discusso
per mesi e mesi.
La tensione si palpa ed il clima
goliardico degli incontri precedenti è mutato.
Tutti sanno che tra poco il
destino si compie.
È il giorno della scelta.
Quando i vincitori dell’ultimo
concorso sono chiamati a Roma
presso il C.S.M. ad indicare la
scelta sulla propria destinazione.
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Diario semiserio
di un uditore con funzioni
La tensione che si percepisce
alla griglia di partenza di una
finale olimpionica dei 100 metri,
è nulla in confronto.
La sera prima ci si attarda ed
accapiglia con commenti e
discussioni sullo stravolgimento
della graduatoria tra matrimoni,
figli, convivenze, militare, parenti, cugini, bisognosi di assistenza,
passaggi dalla trecentesima alla
seconda posizione.
Finalmente la notte passa e
l’indomani ci si trova tutti riuniti
in una sala in attesa del proprio
turno.
Fuori uno stuolo di parenti che
aspettano la “destinazione” del
proprio caro.
I tentativi di infiltrazione sono
bloccati dal servizio, questa volta
rigidissimo, di controllo del personale del C.S.M., ormai avvezzo
ed esperto: nessuna scusa o motivazione viene accolta: neanche
malori improvvisi, minacce di
aborto, telefonate del Papa,
richieste del Presidente della
Repubblica.
Per mezza giornata, gli uditori
sono soli con se stessi e gli altri.
Uditore per uditore inizia la
processione al podio per la dichiarazione: Tribunale di Roma, Bari,
Napoli, Palermo...
L’Italia tribunalizia passa tutta:
sede per sede.
“Lanusei?”. “Dov’è Lanusei?”.
Contestualmente io, come gli
altri, seguo l’andamento, depennando le sedi e pensando alle
opzioni possibili.
Arriva il mio turno.
Neanche ci credo, è rimasto
l’ultimo posto nella sede che desideravo.
Passata la scelta del Tribunale,
si entra in una fase nuova, ma non
meno stressante.
L’individuazione
concreta
delle funzioni che si andranno ad
esercitare.
Io convinto al 100% di aver
scelto il mio tribunale per la
disponibilità del “civile”, sul
quale mi ero concentrato da anni,
mi ritrovo giudice penale, assegnato in distaccata: solo monocratico.
Un intero tribunale penale
sulle mie spalle. Niente collegio:
niente supporto e guida di un Presidente che, quanto meno, nelle
prime fasi mi aiuti a limitare i
danni che combino.
Niente sicurezza e confronto
della camera di consiglio.
Nella stanza sarò solo.
In distaccata non ci sono altri
colleghi.
Non c’è tempo per la disperazione, la delusione, i ripensamenti: “avrei potuto scegliere lì dove
ero primo”, “volevo fare civile”,
“ma com’è possibile”, “faccio
opposizione”, “non è giusto”, ecc.
Investo uno sproposito in libri,
riviste ed abbonamenti.
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Magistratura giovane
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Magistratura
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Magistratura giovane
La
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Passo l’estate a studiare il
dibattimento, chiedo consigli a
tutti i miei affidatari penali, fino
al giorno del mio ingresso in tribunale.
Mi accompagnano nella mia
stanzetta, dove inizio a dare una
occhiata.
Apro l’armadio e trovo un
metro cubo di carte impolverate e
malridotte.
“Cosa saranno?”. “Ma non
siamo al penale?”. “cosa sono
questi fascicoli?”, penso.
Chiamo e mi viene risposto:
“quella ormai è cosa tua”.
“Ops… ok”.
Faccio caricare il metro cubo
impolverato sulla macchina e
porto tutto a casa.
Sono i miei compiti per l’estate.
Decine di istanze, richieste,
liquidazioni di ogni tipo, abbandonate da anni, della cui presenza
nel mondo giuridico io non avevo
idea.
Sono gli interstizi del diritto
processuale penale. Le rogne
noiose, insomma.
Quelle che non danno gloria.
Non fanno statistica. Sfortunatamente.
Il giorno della mia prima
udienza sta per approssimarsi.
Passata l’estate a studiare
fascicoli, mi arriva una nota del
Tribunale: “si comunica che con
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delibera del ...” “FANTASTICO:
LO SCIOPERO DEGLI AVVOCATI”.
Le prime due udienze saltano
in maniera provvidenziale: “Dio
c’è e mi vuole bene”, consentendomi di smistare i fascicoli e
vivere il primo giorno con calma.
Ma gli scioperi, anche se provvidenziali, non durano in eterno.
Arriva così inesorabilmente la
mia prima udienza vera.
Un numero spropositato di
fascicoli sul ruolo monocratico:
42.
Ormai ho anche catabolizzato
la sensazione di amarezza che mi
aveva lasciato lo studio dei fascicoli.
Mi chiedo, infatti: “vediamo
per che cosa vengono tutti questi
procedimenti”.
Apro il primo fascicolo e vado
all’ultimo verbale di udienza: “si
rinvia per la decisione”.
“Cavolo”, penso. “questo me
lo devo studiare per la decisione”.
Apro il secondo e leggo: “si
rinvia per la decisione”.
“ops .. anche questo”, mi ridico.
Il terzo: “per la decisione”.
“sicuramente sarà un caso”,
penso. “saranno sistemati in ordine; prima quelli per la decisione”.
Prendo il quarto: “per la decisione”.
Il quinto: “per la decisione”.
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Diario semiserio
di un uditore con funzioni
Il sesto: “per la decisione”.
“Ma vah...” penso. “Che coincidenza”.
Un dubbio ed un velato timore
mi attraversa.
Vuoi vedere che son tutti così
e soprattutto che saranno tutti
così.
Conto quasi venti procedimenti per la decisione.
Impossibile anche solo pensare di deciderli tutti.
Sono quintali di carta: centinaia di pagine da studiare.
“Mi sa che questo è un bel
pacco”, penso.
Non c’è nulla da fare: è inutile
anche chiamare amici-colleghi
per lamentarsi.
L’unica soluzione è non smarrirsi.
Ed iniziare: da uno, come sempre.
Dovrò studiarli, sistemarli,
riorganizzarli, ricollocarli sul
ruolo e deciderli quanto più velocemente ed efficacemente possibile.
Sono in tribunale.
“Dottore, il pubblico ministero
è arrivato”, mi dice il cancelliere.
“Ci siamo”, penso. “Esco
subito”, rispondo.
Prendo la toga dall’attaccapanni e la indosso.
Sento una strana sensazione.
Ho impiegato anni ed un oceano di sacrifici solo per fare questo
gesto, che mi accompagnerà per –
spero – tutta la vita.
È la mia divisa ed il mio orgoglio. “Ce la metterò tutta per non
deludere... soprattutto me stesso”:
è il mio augurio a me medesimo,
prima di uscire.
Un popolo di persone, tra
avvocati, imputati, testimoni,
agenti, curiosi, parenti, ecc. mi
aspetta in udienza.
Sono tutti incuriositi, dall’arrivo del nuovo giudice e dall’impostazione che darà.
Mi avevano detto che occorre
avere un po’ di polso e non farsi
sfuggire la situazione, se no: “ti
salgono di sopra”.
Il segreto dell’efficienza è
l’organizzazione.
Avevo studiato bene i fascicoli, dividendoli tra quelli da rinviare subito per problemi vari, così
da liberare le persone interessate e
sgomberare un po’ l’udienza,
quelli con attività istruttoria e
quelli da discutere.
Almeno quelli che avrei fatto
discutere.
Faccio anche rinvii miei di
ufficio. Troppi i fascicoli.
Il mio primo obiettivo è riorganizzare il ruolo in modo da
gestirlo meglio.
Tutto sta andando bene.
Certo, ancora cose strane non
me ne sono accadute; ma la situazione è sotto controllo.
Spero di non aver fatto una
brutta impressione, soprattutto
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Magistratura giovane
La
Magistratura
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Nazionale
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agli avvocati: loro sono i giudici
dei giudici, con loro lavorerò per
un bel po’ di tempo.
È del tutto inutile sembrare o
essere troppo altezzosi, presuntuosi o superbi.
La maggior parte degli avvocati ha venti anni di esperienza in
più di me.
Vorrei che il loro rispetto per
me dipendesse da stima e non da
timore.
Sono le 13.30: è dalle 9 che
sono seduto senza mai fermarmi.
Ancora ce n’è per un bel
pezzo.
Dalla porta vedo uno dei collaboratori del Tribunale che cerca di
farmi capire che dovrebbe parlarmi.
Gli faccio un cenno per farlo
avvicinare.
“Vediamo che succede”,
penso.
Mi si avvicina e con fare guardingo mi dice: “Dottore, il Tribunale chiude!”.
“E io che avevo pensato non
so a quale tragedia”.
Poi pensandoci su, nell’arco di
15 nanosecondi, rielaboro il messaggio appena ricevuto.
Non riesco a formulare niente
di meglio che: “in che senso,
scusi?”.
“Sì, dottore, il personale alle
14,00 finisce ed i vigilantes se ne
vanno, rimane solo il custode”.
Cerco di mostrarmi indifferente o comunque con l’aria di chi è
270
abituato a sentirsi dire che il Tribunale chiude e che sa cosa fare.
So che sono in udienza.
Allora dico: “aspetti un
momento”.
Sospendo per un attimo l’udienza.
Mi ricordo anche che avevo
bisogno di andare in bagno.
E così scopro che in effetti nei
tribunali piccoli soprattutto in
distaccata, non ci sono le forze
dell’ordine come presidio: la
sicurezza dell’edificio è garantita
da vigilantes privati.
Solo che loro hanno un ben
preciso monte orario.
Finisco col chiamare i vigili
urbani per garantire la sicurezza
dell’edificio: lo stabile infatti è
del Comune.
Mentre chiamo i carabinieri
per l’ordine pubblico in udienza.
Un meccanismo di telefonate e
persone un po’ perverso che sarò
costretto a ripetere.
Nel pomeriggio inoltrato, finisco l’udienza.
Fatta la camera di consiglio;
depositate le decisioni.
La giornata giudiziaria è finita.
Entrato con la luce del mattino, esco con il buio della sera: “e
chi se n’è accorto”.
Il custode ed il vigile urbano, i
soli rimasti ormai, insieme a me,
mi aiutano a posare i 5 faldoni di
fascicoli nella macchina.
Sono la mia prossima udienza.
Tornato a casa, finisce l’effetto
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Diario semiserio
di un uditore con funzioni
della adrenalina.
Crollo fisicamente e perdo
conoscenza nel letto.
Il giorno dopo, di mattina prestissimo, sono già sul tavolo per
studiare i nuovi fascicoli.
Non mi posso distrarre un
secondo.
I fascicoli aumentano con
ritmo circadiano: se ci si ferma, si
viene sommersi dalla carta.
Mi sento però un po’ stanco,
intontito e svogliato.
Scoprirò che si tratta del
rebound post-udienza.
Troppo stress, tensione ed
adrenalina prodotta nell’arco
della precedente giornata.
Il giorno dopo si rende di
meno.
Da quella udienza ne sono passate 92 altre.
La tensione da microfono e
toga è passata.
Letti, studiati e trattati più di
500 procedimenti.
Depositati un numero imprecisato di provvedimenti.
Il rebound non c’è più.
La sensazione di affrontare
una situazione ingestibile è passata.
Quasi.
Anche il dispiacere per il civile.
L’esperienza del monocratico
penale è tosta ma dà grandi soddisfazioni.
Certo: c’è un motivo se le
norme dell’ordinamento giudiziario e le circolari del CSM richiedono che – affinché un giudice
possa essere assegnato a funzioni
giudicanti penali monocratiche –
è necessario che abbia tre anni di
esperienza di collegio penale.
Eccome se c’è.
A gestire da solo un processo
penale si fanno sfaceli.
Per consolarti ti dicono: “ma
guarda che i got fanno udienze
monocratiche perché non le deve
fare l’uditore?”... magari droga,
omicidi, ambiente, inquinamento,
rapine, estorsioni è una risposta
sufficiente... Ma non è più un problema che mi riguarda.
Le persone mi guardano come
se dovessi avere sempre la risposta.
Mi piacerebbe dire: “proprio
non lo so, aspetti che devo chiedere a qualcuno dei miei affidatari”... purtroppo non posso.
Allora alla prima occasione,
chiamo il primo numero: niente,
non risponde.
Il secondo: è staccato; il terzo:
risponde la telecom; il quarto: è
occupato; l’ultimo: non risponde.
Una piccola goccia di sudore
fa la sua comparsa sul lato destro
della fronte: “mo’ che faccio?”.
La camera di consiglio non
può durare in eterno.
Le persone aspettano e non si
sa quando la linea rossa “aiuto
uditori con funzioni in crisi”
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Magistratura giovane
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riprenderà a funzionare.
Non c’è niente da fare.
Non ho neanche una monetina
per scegliere.
Devo decidere di testa mia.
Il codice non mi dà alcun
aiuto.
L’intranet del tribunale manco
funziona.
Non resta altro da fare che leggersi bene le carte e prendere una
decisione che assomigli a qualcosa di logico e condivisibile.
Dopo, con calma, non so se
per fortuna o altro, verifico che la
decisione presa era quella della
Cassazione.
“Grazie”! “Di nuovo, Dio
c’è!”.
Un procedimento disciplinare
evitato.
La routine tribunalizia abitua a
qualunque vicenda e situazione.
L’assunzione di responsabilità,
prima impensabili, diventa normalità.
Quasi non ci si fa più caso.
Si diventa un po’ fatalisti, ma
anche – o forse per questo – scanzonati.
Ma, come dice la prima legge
di Murphy: “se le cose possono
andare peggio, peggioreranno”.
Infatti, dopo pochi mesi di attività giurisdizionale e con ormai la
sensazione di riuscire a farcela,
ecco che l’altro giudice che avevo
272
trovato in distaccata e che svolgeva il ruolo di magistrato responsabile della Sezione, un amico ed
una garanzia, viene trasferito.
Questa volta più che la gocciolina di sudore sul lato destro della
fronte, ho un cedimento della
gambe.
Questo significa che il ruolo di
magistrato responsabile – in
assenza di qualunque altro: “indovina chi lo dovrà assumere??”.
Esauriti tutti gli improperi che
conosco, spenti gli intenti bellicosi, mi chiedo: “ma come si amministra un tribunale?”.
Incomincia una nuova sfida.
Rifaccio di nuovo tutte le
telefonate che posso alla ricerca
di consigli ed indicazioni di qualunque genere.
Cerco sul Cosmag tutte le relazioni sull’amministrazione dei
Tribunali.
Mi studio circolari, delibere,
leggi e regolamenti sulla vita
delle cancellerie e sul lavoro del
magistrato responsabile in distaccata.
Risultato: non si capisce nulla.
Non ho capito se sono: responsabile della sicurezza dell’edificio, dell’ordine pubblico, garante
della sicurezza dei dati personali,
coordinatore del personale amministrativo, supervisore del lavoro
dei cancellieri.
Non c’è nulla da fare.
Come è stato per l’attività giu-
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Diario semiserio
di un uditore con funzioni
risdizionale verificherò sul
campo.
Tutti si mettono a disposizione.
Mi dicono: “però che bella
esperienza che stai facendo!”;
“certo è impegnativo, ma in qualunque altro posto andrai te la
saprai sempre cavare”; “a me non
è capitata una cosa del genere,
però diventerai davvero bravo”.
Al che io non so se consolarmi
oppure sentirmi peggio.
Quello che è subito diventato
un mio amico, il precedente magistrato responsabile, il giudice
civile della distaccata, va via il 4
aprile.
Dal 5 aprile sono responsabile
di fatto.
Il 30 aprile arriva il provvedimento tabellare che mi nomina
formalmente.
Il 4 maggio, dopo 8 anni che
non facevano la loro comparsa,
arrivano gli ispettori ministeriali.
Il primo giorno da giudice e
responsabile neanche lo ricordo
più.
Ricordo solo una carpetta blu
contenente 72 fogli, documenti e
circolari da firmare, vistare, autorizzare.
Penso – per consolarmi: “davvero diventerò bravo”!
Per fortuna, il personale
amministrativo è fatto di persone
gentili e disponibili.
Si rendono conto e cercano
anche loro di aiutare.
Peccato che ho avuto la fortuna di assumere l’incarico di
responsabile del Tribunale con la
maggiore scopertura di organico
amministrativo di Italia, con una
sede fatiscente e con ogni tipo di
problemi di sicurezza.
L’unico sistema è – di nuovo –
organizzarsi.
La legge di Murphy però è sempre in agguato.
Faccio l’accoglienza agli
ispettori. Mi presento.
Spiego la situazione.
Si mettono a ridere.
Scherziamo un pochino sulla
vicenda.
È andata.
Inizio a pensare che non è
tanto la legge, i provvedimenti o
altro che fanno il sistema, ma
sono le persone.
Basta incontrare quelle giuste.
Alternando ormai ufficio
come giurisdizione ed ufficio
come amministrazione, cerco di
barcamenarmi e di non essere
sommerso dalla carte.
Le cose che si leggono nei
fascicoli sono a volte sorprendenti, a volte imbarazzanti.
Nessun tirocinio può preparare
a questo.
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Ma è bello cercare di mettere
le cose a posto.
O almeno pensare di stare mettendo le cose a posto.
Per scoprire nel corso della
messa a posto che “a posto” è un
concetto relativo e dipende da
troppe variabili per essere universalmente apprezzato e riconosciuto.
È meglio non pensarci e cercare di far quanto meglio si può.
Perdere la concezione del
superman della giurisdizione, non
acquisire quella della pallina
insieme alle altre e rimanere se
stessi.
In genere viene apprezzato. In
genere.
Emetto una valanga di sentenze di prescrizione.
Cerco di sfoltire il ruolo in tutti
i modi che riesco a concepire:
udienze di smistamento, monotematiche, istruttorie, di discussione, per fasce orarie, ecc.
Qualunque meccanismo è
buono pur di dare una organizzazione che mi consenta, quanto
meno una volta al mese, di andare al cinema.
Finiscono il loro lavoro gli
ispettori.
Sono gentili.
Mi dicono anche cosa fare
nella mia situazione: “tu scrivi
sempre”.
“A tutti. Così che non si possa
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dire che tu non avevi rappresentato la situazione”.
“Grazie”. Non capisco bene
sul momento.
Passano pochi giorni.
E: “Al magistrato responsabile
del tribunale – sezione distaccata,
. ecc. rilevato che … ecc….” .
Una nota mi dice che, a seguito dei rilievi ministeriali, devo
cercare di mettere a posto le cose.
“Io?”, penso.
Capisco, all’improvviso, il
consiglio.
Da allora ho iniziato a scrivere: relazioni, note, trasmissioni,
richieste, comunicazioni.
Divento una scheggia.
Anche a rappresentare i problemi.
Acquisisco un maggiore confidenza, sicurezza e fatalità.
Ogni giorno che passa, arrivo
sempre prima in tribunale.
Ero partito dalle 8,30, quando
mi sembrava presto: mezz’ora
prima dell’udienza, in modo da
iniziare puntuale.
Sono giunto ad arrivare ordinariamente in tribunale alle 7,45.
Senza contare la strada.
Arrivo e: “dottore il muro è
pieno di umidità. È pericoloso.
Sta per crollare”.
“Non c’è problema”, penso:
basta scrivere. E scrivo. “Si rappresenta che … pericolo….
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di un uditore con funzioni
responsabilità ….ecc…. si chiede
che ecc. ”
Dopo pochi giorni, il muro
crolla.
Non capisco se sono fortunato
o meno, ma scrivo lo stesso:
“comunico che, come rappresentato, ecc.., il muro è crollato”.
Il Tribunale mette però in condizioni di poter vivere la vita di
un sacco di persone.
Che non sono solo quelle dei
fascicoli, ma anche le altre, vive,
con le quali ci si può confrontare.
Inizio a diventare un po’ psicoanalista, a volte anche terapeuta.
Mi convinco della fondatezza
del detto per cui “l’uomo è dotato
di due occhi, due orecchie ed una
bocca, per vedere ed ascoltare il
doppio di quanto non si parli”.
Cerco di ascoltare tutti: dal
custode al vigilantes, dal messo al
cancelliere.
Ognuno ha le sue lamentale,
indicazioni, consigli, manie,
hobby e fobie.
Tutti fanno capo a me, come se
davvero avessi la risposta per
tutto.
Un giorno appena entrato nella
stanza, entra un ufficiale giudiziario con aria circospetta, chiude la
porta: “Le devo parlare”, dice.
“È successa una cosa gravissima”, anticipa.
“Mi dica”, rispondo. “che cosa
è successo?”, chiedo.
“Giudice, l’altro giorno”, inizia subito, “ho cercato di notificare un atto, ma i carabinieri me lo
hanno impedito”.
A quel momento, avevo già
scoperto che una delle frasi che
avrei ripetuto più spesso di fronte
alle vicende e richieste più strane,
era quella che pronunziai in quel
momento: “in che senso?”.
Serve infatti per prendere un
attimo di respiro, riflettere ancora
un secondo, sperare che l’interlocutore chiarisca qualcosa e non si
accorga della perplessità che ha
suscitato.
“dovevo notificare un atto”,
continua - cercando di farmi capire - “presso la base militare. Ed i
carabinieri del posto di guardia
non mi hanno fatto entrare. Ho
dovuto lasciare l’atto al
piantone”.
“Ma”, cerco di argomentare,
“magari, sa, la base militare”.
“No, io dovevo entrare”,
rinforza.
“Si, va beh, ok. Però. Voglio
dire. Lei l’atto l’ha notificato.
Teoricamente è una zona militare
quella. L’accesso è vietato”,
cerco di argomentare io, tentando
di giustificare quello che mi veniva descritto e sentivo essere stato
percepito come un oltraggio e
soprattutto già subodorando quello che stava per accadere.
“io dovevo notificare un atto.
Sono un pubblico ufficiale. Dove275
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vo entrare. E me lo hanno impedito”.
La discussione è continuata in
questi termini per un po’, sino a
quando, ormai rassegnato, e
sapendo a cosa andavo incontro,
chiesi: “ho capito, ma io cosa
dovrei fare?”.
“lei deve richiamare il comandante dei carabinieri”, risponde
l’ufficiale come se fosse una cosa
assolutamente normale.
“Ma, vede”, cerco di dire con
la voce più suadente possibile, “i
carabinieri non dipendono dalla
magistratura”.
“Lei è il magistrato responsabile: e le devono ubbidire. Si deve
fare chiedere scusa”, conclude
irremovibile.
Ho capito così che la gestione
del processo e del tribunale consente di entrare in relazione con
tutti gli organi dello Stato e di
vedere quanto sia affascinante e
farraginosa la vita della pubblica
amministrazione. Oltre che umanamente interessante.
In quel caso, una volta rassicurato l’ufficiale giudiziario, scoprii, che – a volte – l’inattività è la
soluzione migliore.
Ha avuto l’intelligenza di non
chiedermi come era andata a finire.
Mai però, mi sarei aspettato
che tra tutti i problemi il più difficoltoso sarebbe stato quello relati276
vo alle zone di parcheggio.
E già. Oramai i veicoli dominano universalmente le nostre
vite.
Il parcheggio è diventato un
bene di consumo, economicamente valutabile.
Di difficile reperimento.
Innanzi al tribunale ci sono le
strisce gialle che delimitano una
area di parcheggio riservata.
L’area però deve essere delimitata sia orizzontalmente che
verticalmente per essere obbligatoria.
Non essendo più leggibile la
segnaletica, ne chiedo il rifacimento, essendo questa una delle
tante incombenze delle quali oramai mi occupo.
Anche perché i posti, pochissimi, sono sempre occupati da altre
macchine, alle quali non è possibile elevare una contravvenzione
per la mancanza della segnaletica.
Scrivo al sindaco ed al comandante dei vigili urbani.
Sicuro di avere, con il mio
grande decisionismo, risolto il
problema.
Dopo una settimana ricevo
una comunicazione a firma di un
ispettore della polizia municipale,
il quale mi dice che, sì, provvederanno al rifacimento; nel frattempo, mi avverte che l’aria di parcheggio delimitata è riservata
esclusivamente ai veicoli delle
forze dell’ordine.
Mi affaccio dalla finestra per
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Diario semiserio
di un uditore con funzioni
controllare se non mi hanno già
fatto la multa, dato che, da quel
momento, potevo considerarmi in
sosta vietata.
Lo comunico al personale.
Scoppia una semi rivolta. Cerco
di calmare tutti. Do l’esempio
spostando la mia macchina.
Si apre così un lungo percorso
per risolvere la situazione.
Telefonate al Sindaco, alla
Presidenza; confronti col Comandante dei Vigili Urbani; sopralluoghi; domande; delibere, valutazioni di impatto ambientaleecologico-urbanistico; studi di
fattibilità, petizioni.
Alla fine la spunto.
Ora quelle strisce gialle, la
nuova segnaletica ed il pass
nominativo dell’auto mi fanno
sentire troppo operativo.
Trovo peraltro nuovamente la
conferma che un po’ di buon
senso, sensibilità e soprattutto
buona educazione, servono molto
di più di mille carte.
Una telefonata con un tono
gentile, fattivo e collaborante apre
un sacco di porte e risolve una
miriade di problemi.
Ho scoperto che le parole che
pronunzio più frequentemente
non sono “legge”, “sentenza”,
“diritto”, “giudice”, “ordinanza”,
ma sono: “cortesemente”, “gentilmente”, “per favore”, “mi scusi”,
“mi rendo conto”, “la capisco,
però”, “grazie”, “guardi, possia-
mo metterci d’accordo”, “vediamo se riusciamo a risolvere il
problema”.
Nonostante che il tribunale
assorba il 97,4 % del mio tempo,
e si faccia difficoltà a condurre
una vita decente, si viene ripagati
dall’esperienza e soprattutto dai
risultati, se arrivano.
E arrivano, anche se non è
detto che vengano riconosciuti.
Ma non ha importanza.
Sforzandosi, ci si convince che
non si è proprio più in alto degli
altri, anche se la sedia su cui ci si
siede è collocata un po’ più su.
In fondo ci si sta seduti sempre
con il sedere, a prescindere dall’altitudine.
Le persone mi aiutano in continuazione.
Peccato che il lavoro del giudice, soprattutto quello monocratico, soprattutto in distaccata, non è
esattamente un lavoro di squadra.
È un lavoro un po’ da orsi solitari.
Ma a me piace. Così com’è.
Alla fine si è soli con se stessi
e bisogna cercare di comportarsi e
di fare in modo da potersi continuare a guardare allo specchio la
mattina, senza avere particolari
repulsioni.
Così facendo ci si rende conto
di quanto il nostro sia un lavoro
interessante.
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Di quanto siamo fortunati.
Di quanto ci si possa divertire.
E migliorare.
Basta solo non fare come taluni, anche noti, personaggi che a
forza di dire “bravo” a se stessi,
finiscono col credere di esserlo
davvero.
Basta non prendersi troppo sul
serio e lasciarsi il tempo di fare
qualcosa che non abbia nulla a
che vedere con la legge, il diritto
o il processo.
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In fondo dopo tanto studio,
tante questioni, giudizi, problemi,
si arriva a scoprire quanto sia vera
la frase detta da quel famoso
avvocato che aveva elogiato i giudici per la quale: “il processo – e
aggiungerei io la giustizia – non è
questione di legge, ma di galateo”.
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L’associazionismo
giudiziario al di là
delle frontiere nazionali
Cronache dell’Unione Internaz. dei Magistrati
Antonio Mura*, Giacomo Oberto**
L’Unione Internazionale
dei Magistrati
L’Unione Internazionale dei
Magistrati (UIM), nota più diffusamente con la sua denominazione inglese International Association of Judges (IAJ), è stata fondata il 6 settembre 1953 a Salisburgo (Austria) per iniziativa di
sei associazioni nazionali di
magistrati, tra cui l’ANM, che ne
è dunque membro fondatore.
L’esigenza di costituire un
sodalizio internazionale che
avesse per scopo da una parte la
salvaguardia dell’indipendenza
della magistratura e dall’altra la
promozione di scambi culturali
tra magistrati di diversi paesi si
era palesata nell’autunno del
1952, in occasione del VI congresso nazionale dell’ANM,
tenutosi a Venezia, al quale avevano partecipato anche delegazioni straniere provenienti da
Austria, Francia, Germania, Lussemburgo e Brasile. Di quella
esigenza si era fatto carico un
comitato promotore, i cui lavori
erano terminati nello spazio di
un anno con l’adozione dello
Statuto della nuova associazione
internazionale e l’elezione del
suo primo Presidente, il cons.
Ernesto Battaglini della Corte di
cassazione italiana, e del suo
primo Segretario generale, il
cons. Pietro Pascalino, all’epoca
dirigente della Pretura di Roma.
L’Unione Internazionale è
280
*Sostituto
procuratore generale
della Corte
di cassazione
**Giudice del
Tribunale di Torino,
sono rispettivamente
Segretario generale
e Segretario generale
aggiunto dell’Unione
internazionale
dei magistrati
costituita come organizzazione
professionale senza fini politici,
cui aderiscono non i singoli giudici, ma le associazioni nazionali di magistrati, purché siano
dotate di un apprezzabile livello
di rappresentatività degli appartenenti all’ordine giudiziario nel
rispettivo paese e si riferiscano a
sistemi nei quali l’indipendenza
della magistratura è assicurata a
livello costituzionale e nella vita
concreta delle istituzioni. Lo Statuto dell’UIM prevede altresì la
qualifica di membro straordinario, allorquando, pur non essendo l’indipendenza della magistratura pienamente raggiunta
nel paese, un’associazione nazionale o un gruppo rappresentativo
di magistrati dimostri di lottare
per conseguire questo risultato.
Attualmente all’UIM aderiscono
associazioni nazionali di magistrati di 70 paesi, ma si tratta di
una dimensione in costante crescita: nell’imminente riunione
mondiale che avrà luogo in
Armenia a settembre 2008, l’assemblea esprimerà infatti il suo
voto sull’adesione di sei nuove
associazioni nazionali di magistrati, mentre prosegue l’esame
di altre candidature.
L’Unione Internazionale ha
status consultivo presso il Consiglio Economico e Sociale delle
Nazioni Unite e presso l’Ufficio
Internazionale del Lavoro, non-
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Il trattamento
“economico-professionale” dei magistrati:
tanti oneri senza onori
ché presso il Consiglio d’Europa.
Negli ultimi anni, la sua cooperazione con le organizzazioni internazionali è cresciuta di intensità,
come testimoniato anche dalla
partecipazione dello Special
Rapporteur sull’indipendenza di
giudici e avvocati, Leandro
Despouy, alle riunioni annuali in
Messico (2004) e Uruguay
(2005), nonché dalla cooperazione con l’Alto Commissario delle
Nazioni Unite per i diritti umani
relativamente a questioni afferenti il Sud Africa, l’Egitto e
l’Angola.
Organo deliberante dell’UIM
è il Consiglio Centrale; la rappresentanza e la direzione spettano al Presidente, assistito nel
Comitato di presidenza da sei
Vice-presidenti. L’organo esecutivo dell’Unione è il Segretariato
Generale, che ha sede a Roma e
nel quale il Segretario generale è
assistito da più Segretari generali aggiunti. Le cariche hanno
durata biennale e vengono rinnovate in occasione della riunione
plenaria, che si svolge abitualmente durante l’autunno in uno
dei paesi la cui associazione
nazionale dei magistrati è membro dell’Unione. L’ANM italiana
partecipa ai lavori con 6 suoi
delegati.
I fini dell’Unione sono definiti dall’art. 3 dello Statuto: “a)
salvaguardare l’indipendenza del
potere giudiziario, condizione
essenziale della funzione giurisdizionale e garanzia dei diritti e
delle libertà umane; b) salvaguardare la posizione costituzionale e morale del potere giudiziario; c) ampliare e perfezionare le
conoscenze e la cultura dei magistrati mettendoli in contatto con i
loro colleghi di altri paesi, facendo loro conoscere gli ordinamenti esteri ed il loro funzionamento,
nonché il diritto positivo straniero, specialmente nella sua applicazione; d) studiare in comune
alcuni problemi giuridici al fine
di giungere, sia nell’interesse
nazionale, sia nell’interesse delle
comunità regionali o universali,
ad una migliore soluzione dei
problemi stessi”.
Per perseguire questi obiettivi, l’Unione Internazionale si è
dotata di una struttura che le consente, da un lato, l’esame e il
monitoraggio delle situazioni di
sofferenza dell’ordine giudiziario con riferimento particolare
(ma non esclusivo) al tema del
rapporto tra i poteri dello Stato e,
dall’altro, lo studio di questioni
attuali di diritto sostanziale e
processuale in una prospettiva
comparatistica.
Alla prima esigenza si può
ricondurre la costituzione, a partire dal 1989, dei Gruppi Regionali, mentre alla seconda esigenza risponde l’istituzione delle
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Cronache dell’Unione Internaz. dei Magistrati
La
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Nazionale
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Commissioni di Studio.
I Gruppi Regionali in cui si
articola l’Unione Internazionale
sono attualmente quattro: l’Associazione Europea dei Magistrati (“AEM” o – secondo la
dizione inglese – European
Association of Judges, “EAJ”,
con 38 paesi membri); il Gruppo
Ibero-americano (“IBA”, 15
membri); il Gruppo Africano (12
membri); il Gruppo AsiaticoNordamericano-Oceanico
(“ANAO”, 9 membri). Attraverso i Gruppi, l’Unione Internazionale ha la possibilità di seguire
più da vicino le attività delle
organizzazioni internazionali
regionali che hanno riflessi sull’amministrazione della giustizia, nonché di esprimere – ove
necessario e richiesto – il proprio
sostegno ad uno dei suoi membri, tenendo conto dello specifico
regionale.
Tra il 1993 e il 1995 i gruppi
regionali europeo, ibero-americano ed africano hanno adottato
le carte regionali del giudice, che
sono state la base per una riflessione a livello ancora più generale sullo status dei magistrati,
conclusasi con l’adozione nel
1999, a Taipei (Taiwan), dello
Statuto Universale del Giudice.
Le Commissioni di Studio
sono anch’esse quattro e si occupano rispettivamente di: 1) organizzazione giudiziaria e status
dei magistrati; 2) diritto e proce282
dura civile; 3) diritto e procedura
penale; 4) diritto pubblico e del
lavoro. Ogni anno, la presidenza
di ogni Commissione elabora un
questionario sull’argomento prescelto dall’assemblea e lo trasmette alle associazioni aderenti
all’UIM per raccoglierne il contributo. I rapporti nazionali vengono diffusi tra tutte le associazioni e pubblicati sul sito internet
dell’UIM
(http://www.iajuim.org), studiati e ricondotti a
sintesi in occasione della riunione annuale.
L’Unione Internazionale e
l’ANM sono storicamente legate
da un vincolo particolarmente
intenso, che deriva innanzitutto
dall’essere stata l’ANM tra gli
ispiratori e fondatori dell’UIM. Il
primo e il secondo Presidente
dell’Unione Internazionale sono
stati magistrati italiani (il già
citato cons. Battaglini, fino al
1958, e il cons. Vincenzo Chieppa, fino al 1961); al Segretariato
generale sono stati sempre eletti
magistrati italiani e per il suo
funzionamento l’ANM – a far
data dall’anno 2000 – ha assicurato uno specifico finanziamento.
La magistratura italiana per
questa via ha sempre svolto –
con espliciti, ripetuti apprezzamenti di tutti i colleghi stranieri
che partecipano alla vita associativa – un ruolo sostanziale di pri-
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Il trattamento
“economico-professionale” dei magistrati:
tanti oneri senza onori
missimo piano nel promuovere
gli obiettivi dell’UIM.
L’Unione Internazionale ha a
sua volta manifestato la propria
vicinanza all’ANM con la partecipazione del Presidente dell’UIM Tarek Bennour (Tunisia)
al XXVI Congresso ANM
(Salerno il 28 febbraio - 1, 2 e 3
marzo 2002) nonché quella del
Presidente dell’UIM Ernst
Markel (Austria) e della Presidente dell’Associazione Europea
Maja Tratnik (Slovenia) al
XXVII Congresso ANM (Venezia, 5-8 febbraio 2004).
L’Associazione Europea
dei Magistrati
L’Associazione Europea dei
Magistrati (European Association of Judges – Association
Européenne des Magistrats:
“EAJ”–“AEM”) è il più ampio
dei quattro gruppi regionali in
cui si articola l’Unione Internazionale dei Magistrati. È composta da 38 associazioni di magistrati di altrettanti paesi del continente, tra i quali tutti quelli
appartenenti all’Unione Europea. Tra di esse, 35 associazioni
nazionali hanno lo status di
membro ordinario; le residue
(Armenia, Bulgaria e Ucraina)
quello di membro c.d. straordinario.
Pur essendo nata nel 1953,
l’UIM cominciò a porsi il pro-
blema della costituzione di gruppi regionali nei primi anni
Novanta, allorquando divenne
chiaro che l’aumento del numero
delle associazioni aderenti determinava l’esigenza di una più
razionale ripartizione di compiti
e sfere di competenza. Il Gruppo
Regionale Europeo nacque così
nel 1991, con lo scopo di fornire
una tribuna per la discussione a
livello continentale delle questioni attinenti all’indipendenza
della magistratura. La difesa dell’indipendenza del potere giudiziario costituisce infatti il primo
dei compiti dell’UIM e dell’AEM. Un’altra importante
finalità istituzionale è rappresentata dall’opportunità di offrire ai
magistrati di diversi paesi una
sede per dibattere i problemi
comuni e confrontare sistemi ed
esperienze.
L’AEM si riunisce due volte
l’anno: una volta nel contesto del
congresso mondiale annuale dell’UIM (così come gli altri tre
gruppi regionali, vale a dire quello Ibero-americano, quello Africano e quello che raggruppa i
rimanenti paesi aderenti all’Unione Internazionale, essenzialmente delle aree asiatica e nordamericana) ed un’altra volta in
un paese europeo. Essa è guidata
da un Presidente, che è eletto
ogni due anni dalle associazioni
membre tra i sei vice-presidenti
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Nazionale
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Cronache dell’Unione Internaz. dei Magistrati
La
Magistratura
Organo
della
Associazione
Nazionale
Magistrati
dell’UIM. La sua struttura è retta
da uno statuto (da ultimo modificato nel 2003), che prevede
anche la costituzione di uno o più
gruppi di lavoro o comitati esecutivi. Il più importante di questi
gruppi, istituito in via permanente a Madrid nel 2001, è dedicato
alla situazione della magistratura
nei singoli paesi membri.
L’adesione di numerose associazioni nazionali di magistrati
dell’Europa centrale e orientale,
a partire dai primi anni Novanta,
ha infatti suscitato la necessità di
prendere in considerazione situazioni di sistemi nazionali in cui
la fragilità del nuovo assetto istituzionale e le pesanti eredità di
un passato non democratico
espongono i magistrati a frequenti tentativi di circoscrivere
l’indipendenza dell’ordine giudiziario sotto ogni forma possibile
(dai profili ordinamentali, a quelli di carriera ed economici). Il
compito del gruppo permanente
di lavoro in questione è dunque
quello di ricevere le indicazioni
di allarme e le doglianze provenienti dalle associazioni richiedenti, di raccogliere informazioni al riguardo e di proporre
all’assemblea plenaria le azioni
da intraprendere. Queste ultime
consistono, per lo più, nell’elaborazione di risoluzioni, dichiarazioni o raccomandazioni preparate dal gruppo di lavoro e
284
quindi discusse ed approvate dall’assemblea plenaria, formata dai
delegati delle varie associazioni
aderenti all’AEM. Questi documenti vengono poi trasmessi ai
rappresentanti del potere esecutivo e legislativo dei paesi interessati, ma anche, in caso di mancata risposta, o qualora si profili la
necessità di esercitare una pressione particolare, agli organi di
stampa, nonché ad organismi
internazionali e sovranazionali:
dal Consiglio d’Europa, all’Unione Europea, all’Ufficio del
Rapporteur delle Nazioni Unite
sull’indipendenza dei giudici e
degli avvocati. Un ulteriore strumento a disposizione dell’Associazione è l’invio di missioni in
loco, per l’incontro con i rappresentanti delle istituzioni interessate.
Un fenomeno – insieme interessante e preoccupante – di questo ultimo periodo è dato dal
fatto che, mentre sino ad alcuni
anni or sono erano i soli paesi
dell’ex blocco comunista a dar
luogo ad interventi del genere di
quelli appena descritti, negli ultimi anni sono piuttosto le associazioni delle «tradizionali» democrazie occidentali a sollecitare
l’intervento dell’AEM: si possono citare, ad esempio, i casi dell’Italia, della Svezia e della Francia; ma l’elenco può essere assai
più nutrito. Gli attacchi all’indi-
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Il trattamento
“economico-professionale” dei magistrati:
tanti oneri senza onori
pendenza della magistratura
sembrano quasi rispondere ad
una linea di comportamento che
presenta attraverso l’Europa elementi di impressionante analogia: dall’inasprimento della
responsabilità disciplinare, al
tentativo di ridurre la componente togata negli organi di autogoverno, all’introduzione di elementi salariali collegati alla
«produttività», alla pura e semplice (talora drastica) riduzione
del trattamento retributivo e pensionistico. La storia delle dichiarazioni emesse dalla AEM costituisce una vera e propria «antologia» di siffatti tentativi, che talora, proprio grazie all’intervento
dell’Associazione Europea, sono
stati se non sventati quanto meno
contenuti nella loro portata.
Merita di essere rammentato,
fra l’altro, che nel 2003 - in relazione all’intervista concessa dal
Presidente del Consiglio Berlusconi alla rivista The Spectator
nella quale si descrivevano i giudici come soggetti “mentalmente
disturbati” - l’Associazione
Europea dei Magistrati si è pronunciata con una lettera della
Presidente Tratnik spedita
all’ANM, alla rivista medesima e
al Consiglio d’Europa. Nel 2004
l’AEM è poi intervenuta criticamente in merito alla riforma dell’ordinamento giudiziario italiano (c.d. riforma Castelli), con
una risoluzione dell’assemblea.
Il ruolo dell’AEM è però
anche quello di costituire un
valido punto di riferimento delle
principali istituzioni europee per
le questioni attinenti alla giurisdizione ed all’assetto della
magistratura. Da tempo, infatti,
l’Associazione Europea collabora con il Consiglio d’Europa fornendo esperti per i programmi
che attengono alla formazione
dei magistrati ed alla cooperazione con le nuove democrazie dell’Europa centrale e orientale.
L’AEM partecipa inoltre come
osservatore ai lavori del Consiglio Consultivo dei Giudici
Europei (CCEJ) e della Commissione Europea per l’Efficacia
della Giustizia (CEPEJ). Rappresentanti dell’AEM hanno contribuito all’elaborazione dello Statuto Europeo del Giudice approvato dal Consiglio d’Europa nel
1998 ed alla revisione (recentemente varata a livello di comitato d’esperti) della Raccomandazione R(94)12 del Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa
sull’Indipendenza, efficacia e
ruolo del giudice. L’AEM è poi
sovente chiamata a partecipare
ad iniziative dell’Unione Europea nel campo della giustizia:
l’ultima di queste è rappresentata
dall’EU Justice Forum, iniziativa lanciata dalla Commissione
Europea e destinata a costituire il
principale punto di riferimento
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Cronache dell’Unione Internaz. dei Magistrati
La
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Associazione
Nazionale
Magistrati
per l’evoluzione della «politica»
dell’Unione Europea nel campo
della giustizia. D’altro canto, il
Presidente dell’AEM siede nel
comitato direttivo dell’Accademia Europea di Diritto (Europäische Rechtsakademie – ERA) di
Treviri, istituto fondamentale nel
campo della formazione dei giuristi del nostro Continente.
L’AEM ha elaborato, nel
1993, una Carta del Giudice
Europeo ed ha sostanzialmente
contribuito alla redazione e
all’approvazione a Taipei, nel
1999, della Carta Universale del
286
Giudice da parte dell’UIM. L’associazione pubblica periodicamente una rivista elettronica. La
ricchezza e la vastità dei dibattiti
al suo interno, testimoniata dai
verbali delle riunioni semestrali,
il credito che essa ha acquistato
di fronte ad istituzioni quali l’Unione Europea ed il Consiglio
d’Europa, l’efficacia degli interventi dispiegati ovunque l’indipendenza del potere giudiziario
fosse posta in discussione ne
fanno un punto imprescindibile
per l’affermazione dell’idea del
«giudice europeo».
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Presidente
Dr. Luca PALAMARA
Sostituto Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale
di Roma
Vice Presidente
Dr. Gioacchino NATOLI
Presidente di Sezione del
Tribunale di Palermo
Segretario Generale
Dr. Giuseppe CASCINI
Sostituto Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale
di Roma
Vice Segretario Generale
Dr.ssa Silvana SICA
Giudice del Tribunale di Napoli
Codirettori de
“La Magistratura”
Dr. Antonio BALSAMO
Corte Suprema Cassazione
Dr. Nicola DI GRAZIA
Giudice del Tribunale di
Civitavecchia
Componenti:
Dr.ssa Anna CANEPA
Sostituto Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale
di Genova
Dr. Piergiorgio MOROSINI
Giudice del Tribunale di
Palermo
Dr. Roberto ROSSI
Sostituto Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale
di Arezzo
Dr. Gaetano SGROIA
Giudice del Tribunale di Salerno
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Cronache dell’ANM
La Giunta Esecutiva Centrale
eletta dal Comitato DIrettivo
Centrale nella riunione
del 17 maggio 2008
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2
Anno LXI-Trimestrale-Poste Italiane Spa-Spedizione in abbonamento postale-d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2-DCB Roma
Aprile-Giugno 2008
Articoli di
Caterina Brignone, Francesco Antonio Cancilla, Angelo Caputo, Mario Chiavario, Vania
Contrafatto, Luca De Matteis, Marco Formentin, Ennio Fortuna, Fulvia Fratantonio,
Luigi Levita, Rosario Minna, Stefano Montoneri, Antonio Mura, Lucio Napolitano,
Gioacchino Natoli, Giacomo Oberto, Livio
Pepino, Luigi Petrucci, Daniela Piana, Antonello Racanelli, Michele Ruvolo, Armando
Spataro, Rosario Spina, Francesco Viganò.
Organo dell’Associazione Nazionale Magistrati
Organo dell’Associazione Nazionale Magistrati
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Aprile-Giugno 2008
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