Abstract tratto da www.darioflaccovio.it - Tutti i diritti riservati
PIPPO RUSSO
Siculospirina
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Pippo Russo
SICULOSPIRINA
ISBN 978-88-7758-924-8
Stampa: luglio 2010
© 2010 by Dario Flaccovio Editore s.r.l. - tel. 0916700686
www.darioflaccovio.it [email protected]
Russo, Pippo <1965->
Siculospirina / Pippo Russo. - Palermo : D. Flaccovio, 2010.
ISBN 978-88-7758-924-8
853.914 CDD-22
SBN Pal0228515
CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”
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Intercalare passionale
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Se il rischio incombe,
il siculo dice: “Accùra!”
Il siciliano conosce la prudenza. Praticamente la impara alla nascita, quando apprende d’istinto la filosofia del
giunco che si cala quando ancora la china ha da passare. Riesce sempre a darsi una misura e con quella convive, cercando d’essere meno possibile azzardùsu.
Meglio mimetizzarsi e caminàri muru muru. E a chi
invece mostra sprezzo del pericolo, egli indirizza compatimento o, al massimo, rivolge l’ultima inascoltata
raccomandazione: “Accùra!”.
Una parola secca, che però funziona meglio di uno slogan. E mica uno di quelli del genere I care. Ché in quest’ultimo caso, si parla di roba adatta a generazioni
post-materialiste pronte a preoccuparsi dei bisogni
altrui con un fare di maniera o che tutt’al più intendono fare scumàzza usando il vezzo dell’esterofilia.
Ben altra cosa è l’accùra: è puro istinto di conservazione, esercitato innanzitutto su se stessi. Chi esclama
“accùra!” non lo fa sollevando il mignolo e muovendo
la bocca a culetto di gallina; al contrario, usa entrambe
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le mani con gesto difensivo o autoritariamente persuasivo, come se ammuttàsse un po’ più arràsso la fastidiosa circostanza.
Non della stessa cura si tratta, dunque. E lo dice la
parola medesima. Col raddoppio della “c” e soprattutto con quella “a” iniziale, il cui significato è tutt’altro
che privativo. Essa segna piuttosto il senso di un incombere. Del pericolo, ma anche dello scudo protettivo
pronto a calare in difesa dell’individuo. Nell’accùra c’è
un significato ambivalente, la coesistenza di significati
opposti. C’è il senso di protezione dato dall’indirizzare
un avvertimento sul rischio che si va a correre (“accùra
ca po’ sciddicàri”), ma anche il potere d’intimidazione
(“accùra ca stavòta ‘i vùschi!”). C’è persino il piacere di
pronunciare l’ammonimento a se stessi, quando scansando il pericolo si pronuncia d’istinto: “Accùra!”. E
nell’esclamazione trovano spazio al contempo l’avvertenza e il sollievo. Due anime in una.
È quest’inestricabilità del rapporto fra protezione e
minaccia il vero segreto. Ciò che, una volta di più, fa del
parlare siculo una lingua anziché un dialetto, dove il
senso sfugge alla traduzione e si costruisce attraverso un
percorso irripetibile. Dove sta la cura? E chi dovrebbe
esercitarla? Perché, a sentir scattar in aria l’accùra, i
dubbi rimangono. È colui sul quale il rischio incombe a
doversene far carico? O piuttosto è una sorte dai disegni imperscrutabili che decide, e allora dire accùra è un
po’ come incrociare le dita sperando che gli astri siano
clementi? Nemmeno chi pronuncia l’esclamazione può
saperlo. Ché dire accùra è sì richiamare l’attenzione.
Ma a quel punto s’apre la gamma dei misteri e nessuna
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certezza si ha sull’uso che di quell’attenzione va fatto. È
infatti sul modo di mobilitarla che si costruisce la differenza. In questo senso, il parlato siculo sperimenta una
Terza Via fra quello italico e quello anglofono, segnando ancora una volta la sua irriducibilità a una traduzione. Ché in italiano l’attenzione si presta (“si prega di
prestare attenzione”), forse con la segreta speranza
ch’essa torni indietro. Mentre in inglese essa si paga
(“please pay attention”) e, del resto, da quelle parti
tutto ha un costo, pietà compresa.
E in siciliano? In questo caso, l’attenzione non esce d’in
sacchetta: troppo facile. Essa è rivolta piuttosto verso
qualcosa che accade. Sicché accùra è abbi cura degli
eventi, ma anche ripàrati dagli eventi. Un’esortazione di
carattere oracolare, perché, in ultima analisi, soltanto
chi la pronuncia e chi la sente pronunciare sanno di
quale circostanza bisognerà avere cura e in che modo. E
spesso neanche loro, che finiscono col dire accùra come
un mantra sperando basti a esorcizzare l’ignoto.
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E quando c’è da chiudere il siciliano esclama:
“Accurzàmu!”
Il tempo è denaro, ma più spesso pitìttu. Di sicuro, è
risorsa preziosa, pure quando assupérchia.
Salvaguardarlo è una questione di rispetto per le cose
che contano, come per il pane “ca ‘un si iétta e, si lu
iétti, l’ha vvasàri”. Il siculo s’uniforma a questo imperativo di non dissipazione. Soprattutto, detesta tirarla per
le lunghe. Sicché, quando vede che ciò accade, prende
di petto la situazione e la risolve esclamando:
“Accurzàmu!”.
La parola suona perentoria come un colpo di gong e il
gesto lo è ancor di più. L’esclamazione, infatti, è accompagnata talvolta da mano che scatta di taglio come
un’accetta. Più spesso sono indice e medio a sforbiciare freneticamente l’aria per dire: “Tàgghiala!”. E il sotterraneo legame fra la lingua sicula e quella inglese, che
sovente qua e là emerge, lascerebbe pensare a un apparentamento fra l’accurzàmu e il get shorty. Ma mica è lo
stesso. Perché la scorciatoia cui il parlante anglofono fa
cenno è un ridurre la cosa ai minimi termini eppur con9
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cluderla; e lo stesso gesto delle mani che la sintetizza
(entrambe a mezz’altezza, a stringere l’aria come invito
a quagghiàri) dà l’idea di una compiutezza da raggiungere più rapidamente, senza perdere tempo a annacarisìlla.
Non così è l’accurzàta, che quasi sempre mozza la questione a ccom’è gghié, lì dove si trova. “Finèmula ccà”
è il senso, quale che sia il punto della vicenda sul quale
il “ccà” s’abbatte come una mannaia.
In fondo, chi l’ha detto che le cose debbano per forza
avere un inizio, uno svolgimento e una fine?
C’è una profonda stoltezza nel voler portare fino in
fondo situazioni nate stanche, o partite con le migliori
intenzioni ma presto divenute abbuttatìzze. Dove sta
scritto che incompiutezza corrisponda a inadempienza?
In questo, la saggezza del siculo si dimostra di livello
superiore. E la sua scelta di accurzàri equivale al pigiare il tasto reset quando alla playstation il torneo si sta
dimostrando una fitinzìa. Perché andare fino in fondo
se non ci si diverte? “E chi mmacàri mi l’haiu a accattàri ‘a camurrìa?” E allora accurzàmu e si ricomincia da
capo senza tanti pinzéra.
E, certo, l’atto di accurzàre si lascia dietro un paesaggio
di moncherini e situazioni mozzate. Soprattutto di
parole non dette, che non a caso, per il sentire siculo,
sono sempre le migliori. Quante volte la formula magica “accurzàmu!” ha salvato la pace sociale? Il pronunciarla è infatti sintomo di situazione non più mediabile,
priva di sbocco. Non certo una di quelle che sull’orlo
della guerra vedono scoppiare la pace al coro: “’Un c’è
niènti, pigghiàmuni ‘u cafè!”. Piuttosto, il contrario:
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l’accurzàre interviene laddove mezze farse, per sottovalutazione, viaggiano senza freni in discesa verso la tragedia. Perciò, se non si vuole correre il rischio di
spardàrisi ‘u fìcatu in una guerra di posizione o di spasciàrisi i corna passando alle vie di fatto, l’opzione di
accurzàlla è quella più saggia. Per quanto, a dire il vero,
la scelta di accurzàre venga esercitata anche in circostanze meno drammatiche. Spesso essa è solo volontà di
scutulàrisi ‘i supra persone e situazioni fastidiose o di
tirare una riga su circostanze stucchevoli attorno alle
quali ci si arrovella senza costrutto. Ma può essere
anche la frase che piomba inattesa a rompere l’impasse.
Come quella volta che, come narra la leggenda, a un
consesso romano in cui si discuteva di rinnovo del contratto nazionale dei giornalisti si levò un cronista palermitano, il quale, stanco del vano filosofare, riportò il
discorso back to basic pronunciando la massima:
“Signori, cca ‘u riscùissu è bbello, ma ‘u taveinnàro vòli
‘i pìcciuli!”. E fra gli sguardi stralunati dei colleghi continentali, vistisi così brutalmente accurzàti, tornò a
sedere assumendo d’improvviso l’aura di un maestro
zen.
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Canzìati!
Accadde allo stadio durante una partita di quasi
vent’anni fa, in pieno Basso Medioevo rosanero. Erano
gli anni in cui il Palermo oscillava tra serie C1 e stente
comparsate in B e la società da poco rinata si trovava già
dilaniata dal conflitto fra i suoi principali dirigenti:
Giovanni Ferrara e Liborio Polizzi.
Roba che a dover prendere campo in favore di uno dei
due, s’avvertiva forte la tentazione di scegliere la Terza
Via, tirandosi un colpo alla tempia. Invece, quel giorno
i tifosi della curva si schierarono, esponendo uno striscione che conteneva l’avvertimento al nemico prescelto: “Ferrara, canzìati…”. Un messaggio il cui tono
inquietante poteva essere colto soltanto da chi avesse
dimestichezza col parlare siculo. Ché altrimenti era
intrasmissibile e qualsiasi tentativo di traduzione avrebbe distillato una versione monca. Come infatti mostrò il
maldestro tentativo di un cronista che, nell’articolo dell’indomani, provò a rendere la frase in italiano producendo un agghiacciante “Ferrara, riparati…”.
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Meglio astenersi, in casi del genere.
Quello del canziàrsi è, infatti, un caso in cui con maggiore evidenza il tradurre corrisponde al tradire.
Non si può rendere il termine in italiano ricercando una
parola omologa che non c’è o attingendo al kit dei sinonimi. Che forse ci s’azzarda a trasformare savoir faire
nello scarno saper fare? E non guardereste con commiserazione chi traducesse humour con umore e macho
con maschio?
E, allora, “Ferrara, canzìati…” andava reso con
nient’altro che “Ferrara, canzìati…”. Punto.
Al lettore non siciliano l’onere di ricercare il significato
e familiarizzare con esso. Soltanto così egli, allora come
adesso, potrebbe cogliere la complessa idea del canziàrsi e le decine di sfumature che comunicano l’idea del
districarsi nelle situazioni di rischio. Queste ultime, a
loro volta, non sono tutte uguali. Perciò richiedono
sempre risposte ad hoc. Ecco, dunque, il senso del canziàrsi: con l’attore che viene richiamato a decodificare la
situazione (valutandone il grado di pericolo) e a agire di
conseguenza, scegliendo il grado del proprio canziamento. Rispetto a ciò, l’atto di ripararsi cui avventatamente si riferì allora il giornalista nel suo sforzo di traduzione è parte minima della gamma. Molto altro può
essere il canziàrsi. Talvolta, è il semplice spostarsi dal
cammino per far strada al trasporto pesante e dunque ci
si canzìa per lasciare campo libero a chi s’affaccenda,
ma anche per evitare il danno a cose e persone. Oppure
è l’abbassarsi qualora la porta d’accesso a un luogo non
abbia altezza commisurata, sicché canziàrsi corrisponde
all’evitare di rrùmpisi ‘i corna. Altra variante del can13
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ziàrsi è l’eludere: quando la situazione è troppo complessa e rischiosa e l’eventualità di uscirne sani è sproporzionatamente inferiore rispetto a quella di venirne
fuori danneggiati. In questi casi, colui che si canzìa,
seguendo un adagio di saggezza popolare (“mégghiu
lassariccìlla scattiàri ‘nsacchetta a iddi”), comprende
che l’importante è non partecipare.
E c’è anche il canziàrsi inteso come star cauti, quando
la situazione rischiosa va comunque affrontata e allora
bisogna attingere a tutte le riserve di prudenza mentre
la si attraversa.
Tutto ciò è il canziaménto, altro che il semplice ripararsi.
A far da costante è lo spirito d’adattamento che all’attore viene richiesto. Egli, invitato a canziàrsi, deve innanzitutto decodificare se nell’esortazione vi sia più sollecitudine o minaccia: perché esistono situazioni in cui il
confine fra le due è sfumato assai e ignorare il consiglio
significa convertirlo automaticamente in rischio. Poi, gli
tocca pure selezionare il tipo di canziàta che la situazione pretende, avendo cura di optare per quella giusta.
Perché canziàrsi in eccesso può essere esiziale e farlo in
difetto lo è tre volte di più. E, in fondo, deve essere per
questo che il verbo esiste soltanto in forma riflessiva
(non è possibile il canziàre, ma soltanto il canziàrsi),
perché all’esortato viene affidato il compito di decodificare prima d’agire e, soltanto in conseguenza di questa
elaborazione tutta interna alla personale scatola nera,
verrà prodotto l’atto conseguente. Soprattutto, c’è un
onomatopeico senso del flessibilizzarsi, farsi di gomma,
nel suono della parola canziàrsi. Qualcosa che molto da
vicino ricorda ‘u iùncu sollecitato a piegarsi perché
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passa la chìna. Chi si canzìa ha capito che quella è la
sola cosa da fare, gli piaccia o no. Un’assenza di scelta
che è situazione opposta a quella del giornalista d’allora, il quale non aveva obbligo di tradurre quel “Ferrara,
canzìati…”, ma volle comunque osare. E se, invece, si
fosse canzìato anche lui, di fronte all’insidia linguistica,
avrebbe evitato d’accucchiàricci ‘stu trunzu di malafigùra.
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