FRAMMENTI Riflessioni tra mito, leggenda e fiaba alla scoperta dell’archetipo femminile. A cura di Giulia Gentile 2 Premessa Quello di cui parlerò in questi incontri deriva da elementi scaturiti da studi e riflessioni personali che ho curato e approfondito negli anni, partendo da una base di preparazione universitaria unita ad un grande interesse personale. L’incontro, nell’ambito delle conversazioni di filosofia, con Paolo Pacifici, la collaborazione che abbiamo instaurato in questi anni, al di là della stima e dell’amicizia, ci ha fatto scoprire un comune interesse su alcuni punti cardine del pensiero filosofico: il mito e tutti gli studi che intorno ad esso si sono sviluppati, fino a giungere alla lettura psicanalitica del mito e alla presenza e al ruolo della figura femminile nel mito, nella leggenda e nella fiaba. Questi interventi non hanno la pretesa di dare risposte o di effettuare verifiche, ma vogliono narrare, restituire immagini e sollecitare emozioni. Potrei chiamarlo un viaggio tra miti e leggende per scoprire l’inconscio personale e collettivo attraverso varie epoche e differenti letture alla scoperta dell’Anima e dell’Animus. Per comprendere questo viaggio è importante definire la partenza, comprendere dove è il punto da cui l’uomo ha mosso i primi passi del suo pensiero per poi comprendere il percorso nella mente dell’uomo, quindi quello che ho voluto intraprendere è un percorso di conoscenza della figura femminile e maschile sempre più profondo, sempre più vivo. Filosofia e mito Per iniziare il ns. viaggio cominciamo a parlare necessariamente di filosofia che (dal greco (filèin), "amare", e (sofìa), "sapienza", ossia "amore per la sapienza") è un campo di studi che indaga sul senso del mondo e dell'esistenza umana, e, più specificatamente, il tentativo di studiare e definire le possibilità e i limiti della conoscenza. Aristotele nel Protreptico o Esortazione alla filosofia1 diceva: «Chi pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non si debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloqui.» 1 Il Protreptico o Esortazione alla filosofia, non è giunta a noi ma la conosciamo dalle numerose citazioni contenute nell'opera di eguale titolo di Giamblico, dedicato a Temisone, re di una città di Cipro, dovette essere scritto da Aristotele intorno al 350 a.C. Si trattava, appunto, di un'esortazione alla filosofia, essendo questa il più grande dei beni, dal momento che ha per scopo se stessa, mentre le altre scienze hanno per fine qualcosa di diverso da sé. 3 Il bisogno di filosofare, secondo Aristotele, nascerebbe dalla "meraviglia": «Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia [thaumazon] riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica, ovvero dal senso di stupore e di inquietudine sperimentata dall'uomo quando, soddisfatte le immediate necessità materiali, comincia ad interrogarsi sulla sua esistenza e sul suo rapporto con il mondo». Sin dai tempi più antichi gli uomini hanno sentito l'esigenza di interrogarsi sul modo in cui poteva essersi formato l'universo, sulla nascita del genere umano e sulle cause dei fenomeni naturali che accompagnavano, ma spesso anche sconvolgevano, la loro vita. Non possedendo ancora gli strumenti del pensiero filosofico e scientifico, essi si affidarono alla fantasia, personificarono e divinizzarono le forze benigne e maligne da cui si sentivano circondati e diedero vita a un vasto patrimonio di storie, per loro sacre e veritiere, che sono giunte a noi attraverso le più svariate fonti letterarie e artistiche. I miti, racconti terribili e meravigliosi, che narrano le origini dell'universo, degli uomini e degli dèi e che hanno per protagonisti esseri soprannaturali, prendono il nome, dal greco "mythos", che originariamente designava la «parola» e in particolare la «parola solenne e sacra di un dio». Il mito non è un racconto del tutto favoloso e inverosimile, ma racchiude una sua «verità», poiché è un modo di conoscenza e di appropriazione della realtà tipico delle società primitive, antiche e moderne. Dalle ricerche effettuate possiamo ritenere che i miti avessero anche la funzione di spiegare l'origine di un certo rituale, di un tempio, di una festa (sono questi i miti eziologici, dal greco "aítion" che vuol dire «causa») ed erano strettamente collegati alle cerimonie religiose. Anche se risalgono a epoche lontanissime dalla nostra, i miti con le loro vicende sovrumane, metamorfosi animalesche, epiche battaglie e agghiaccianti fatti di sangue, continuano a esercitare un fascino al quale non è facile sottrarsi. La parola mito (mythos), ha anche un equivalente nel latino fabula, ma l'orientamento prevalente attuale è quello di far derivare mythos dal verbo myo, che vuol dire: essere racchiuso, stare chiuso in se stesso. 4 Questo aspetto verrà ampiamente analizzato in seguito in questa ricerca. Del resto da parte di molti studiosi il mito viene interpretato come autentica conoscenza o comunque come una narrazione che possiede elementi di realtà. In questo senso dobbiamo pensare al mito come alla sapienza propria elaborata da una civiltà, un suo elemento di coesione, di memoria storica. Se andiamo ad enucleare il mito nella sua pienezza lo scopriamo come una tipica fonte di modelli di comportamento e regole dell'agire e potremmo azzardare nel dire che è nato dal bisogno di spiegare le leggi della vita e della natura ed è stato uno strumento di conoscenza per i popoli, tramandato di generazione in generazione e trasformato di volta in volta con finali diversi o con particolari fantasiosi. In quasi tutte le società e culture è esistita una narrazione mitologica dell'origine dell'essere umano e dell'universo, quindi il mito deriva dall'umana necessità di rispondere alla domanda: "da dove veniamo?" È legittimo quindi supporre con alcuni studiosi che il mito possieda un'intelaiatura che viene sempre ripresa e modificata, fino anche ai giorni nostri e che è flessibile dal momento che ha diversi significati e si apre a plurali interpretazioni, modificandosi nelle continue riprese. Non a caso Campbell nell’ ”Eroe dai mille volti” scrive: « I miti sono fioriti tra gli uomini in tutti i tempi, in tutte le regioni della terra, ed al loro vivificante afflato si deve tutto ciò che l’attività fisica e intellettuale dell’uomo ha prodotto»2. Lévi-Strauss nella “La struttura dei miti”, in Antropologia strutturale” afferma: <<Taluni pretendono che ogni società esprima, nei suoi miti, sentimenti fondamentali come l’amore, l’odio o la vendetta, che sono comuni all’intera umanità. Per altri, i miti costituiscono tentativi di spiegazione di fenomeni difficilmente comprensibili: astronomici, meteorologici, ecc. La mitologia sarà considerata come un riflesso di una struttura sociale e dei rapporti sociali»3. Cominciamo a capire quindi che lo studio dei miti ci porta a constatazioni contraddittorie, perché tutto può succedere in un mito; sembra che in esso la successione degli avvenimenti non sia subordinata a nessuna regola di logica o continuità, ma questi miti, si riproducono con gli stessi caratteri e spesso gli stessi particolari nelle diverse regioni del mondo; allora la riflessione si fa più profonda il desiderio di comprendere fino in fondo cosa c’è dietro il mito diventa oltremodo interessante ed emozionante. Il valore del mito, in quanto mito persiste, infatti il mito viene percepito come mito da ogni lettore in tutto il mondo; la sostanza del mito non sta nello 2 3 Campbell j, L’eroe dai mille volti, Guanda, Milano, 2004 Strauss C., Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 1968 5 stile, né nel modo di narrazione, né nella sintassi, ma nella storia che viene raccontata del resto non è esagerato affermare che le inesauribili energie del cosmo si manifestano nella cultura umana proprio attraverso il mito. Se cerchiamo di scavare fino in fondo ci rendiamo conto che le religioni, le filosofie, le arti, le forme sociali dell’uomo primitivo e storico, le scoperte scientifiche e tecniche, gli stessi sogni che popolano il sonno, scaturiscono indistintamente dalla fonte magica del mito. Infatti, i simboli che fanno parte della mitologia non si fabbricano, non si possono inventare, controllare, o abolire per sempre: sono produzioni spontanee della psiche e ciascuno ne conserva intatto il potere. Cerchiamo ora di vedere quali sono le specificità del mito attraverso una comparazione con le altre forme narrative come la leggenda e la fiaba con cui spesso il mito è stato confuso. Mito-leggenda-fiaba Il mito non è leggenda perché la leggenda parte da avvenimenti storici realmente accaduti, in un tempo definito, a cui si sono aggiunti elementi fantastici e/o irreali, mentre nel mito il tempo non è mai precisato spesso gli eventi hanno luogo in un remoto passato, all'inizio dei tempi o in ere primordiali. Jacob Cristillin, scrittore e storico, in “Leggende della valle del Lys” scrive : «La leggenda non è poi così lontana dalla verità; è la storia non ancora messa a punto». La leggenda è un tipo di racconto molto antico, come il mito e la fiaba, e fa parte del patrimonio culturale di tutti i popoli, appartiene alla tradizione orale e nella narrazione mescola il reale al meraviglioso. La parola "leggenda" deriva dal latino legenda che significa "cose che devono essere lette", "degne di essere lette" e con questo termine, un tempo, si voleva indicare il racconto della vita di un santo e soprattutto il racconto dei suoi miracoli o di un personaggio importante, oggi la parola leggenda indica qualsiasi racconto che presenti elementi reali, ma trasformati dalla fantasia, tramandato per celebrare fatti o personaggi fondamentali per la storia di un popolo, oppure per spiegare qualche caratteristica dell'ambiente naturale e per dare risposta a dei perché. Le leggende si rivolgono alla collettività, come i miti e spiegano l'origine di qualche aspetto dell'ambiente, le regole e i modelli da seguire, certi avvenimenti storici, o ritenuti tali, allo scopo di rinsaldare i legami d'appartenenza alla comunità. 6 Le leggende popolari non sono mai inventate da una sola persona, ma alla loro invenzione concorrono sempre più persone che, con il trascorrere del tempo, trasformano un fatto vero in un fatto sempre più leggendario. Le leggende non raccontano mai dei fatti puramente inventati ma contengono sempre una parte di verità che viene trasformata in fantasia perché gli uomini vogliono scoprire sempre la causa di certi fatti che non conoscono bene e pertanto cercano di spiegarli con l'immaginazione, inoltre la leggenda può variare nel tempo, il racconto originario può essere modificato, ampliato, ridotto ecc. Ogni popolo crea le sue leggende per celebrare le proprie origini, i propri eroi, ma se gli interessi storici mutano, se si ritiene che celebrare quelle origini non dia lustro e gloria, allora la leggenda si può modificare. Dal mito si può passare alla leggenda, ma quando questo accade questi motivi, queste immagini, questi personaggi perdono gran parte della loro sacralità. La leggenda a differenza del mito può avere tempo lungo o breve e può anche "morire", venendo soppiantata da altre che vengono create nelle nuove epoche storiche e a differenza del mito, non è necessariamente considerata vera dalle persone che la raccontano. La differenza fra miti e leggende sta anche nei protagonisti: nel mito si trovano più dei e dee, nella leggenda invece troviamo personaggi storici come Carlo Magno, El Cid, Billy the Kid, Guglielmo Tell, Romolo e Remo, il sacro Graal etc. Accanto ad essi però compaiono personaggi di fantasia e creature immaginarie come draghi, angeli e demoni e inoltre, anche se una leggenda si svolge in epoche storiche e non primordiali, contiene elementi fantastici. Il mito non è fiaba, perché non ha intenti dilettevoli, di intrattenimento. Il mito ha comunque dei punti di contatto con la fiaba. La fiaba è “un mito decaduto”: 1) i protagonisti non sono più Dei ed Eroi, ma Re e Regine, Principi e Principesse. 2) al meraviglioso divino subentra il magico umano con maghi, streghe, gnomi…dotati di poteri soprannaturali! Le fiabe sono un tipo di narrativa originaria della tradizione popolare, inizialmente erano racconti tramandati oralmente da generazione a generazione; solo in un secondo tempo sono state trascritte. Attraverso incanti, meraviglie e piacevoli paure, chi legge o ascolta ritrova se stesso, i conflitti che vive nel proprio intimo, le difficoltà contro cui deve lottare, i sacrifici che deve fare. Nella fiaba si ritrovano semplificati i grandi problemi della vita cui, sorridendo, viene sempre fornita una soluzione, a parte rare eccezioni, la caratteristica fondamentale della fiaba è il lieto fine. 7 In tempi diversi vari autori hanno raccolto le fiabe dei propri Paesi e le stesse sono diventate oggetto di studi e ricerche a vari livelli; gli studiosi del folklore hanno ricercato in esse le credenze e le tradizioni popolari dei popoli; gli antropologi, che studiano le culture umane, hanno individuato nelle fiabe segni dell’organizzazione sociale, familiare e modo di pensare di antiche culture povere e tribali, mettendo in relazione le difficili prove che gli eroi delle fiabe affrontano con i riti di iniziazione dei giovani ancora in uso nelle società tribali. Dobbiamo tenere presente che anticamente i ragazzi, raggiunta una certa età, venivano sottoposti a prove difficili, da un punto di vista fisico e psicologico, che facevano parte di un rituale determinante per il passaggio all’età adulta. Solo chi dimostrava abilità e coraggio poteva essere accettato come membro stimato della comunità adulta: lo stesso accade ai protagonisti di molte fiabe che affrontano prove difficili e pericolose per ottenere un premio finale ( il ritorno a casa, la ricchezza, un aspetto bello, l’amore e un felice matrimonio, …). Nella fantasia di chi tramandava i racconti, i giovani sottoposti al rito, sono diventati protagonisti delle fiabe, gli stregoni sono diventati personaggi che fanno paura come gli orchi, le streghe, i mostri, i lupi e le armi, che ricevevano i ragazzi, sono diventate i doni magici che i protagonisti delle fiabe ricevono dagli aiutanti che incontravano. Vladimir Propp nei suoi innumerevoli studi sulla fiaba e il mito è giunto alla determinazione che « il mito e la fiaba differiscono non per la loro forma, ma per la loro funzione sociale»4. Infatti egli ritiene che la funzione sociale del mito non sia sempre la stessa, ma dipende dal livello di cultura del popolo, inoltre“ il mito non può essere distinto dalla fiaba dal punto di vista formale perché talvolta essi coincidono”. Propp studiò le origini storiche della fiaba nelle società tribali e nel rito di iniziazione e ne trasse una struttura che propose anche come modello di tutte le narrazioni. Egli propose uno schema, identificando 31 sequenze (note come Sequenze di Propp) che compongono il racconto, ogni sequenza rappresenta una situazione tipica nello svolgimento della trama di una fiaba, riferendosi in particolare ai personaggi e ai loro precisi ruoli (ad es. l'eroe o l'antagonista). La Morfologia della Fiaba di Vladimir Jakovlevic Propp5, pubblicata nel 1928 a Leningrado, costituisce l'opera più importante dedicata alla struttura del racconto fiabesco. 4 Propp V.,Le radici storiche dei racconti di fate, Einaudi, Torino, 1949 5 Propp V., Morfologia della fiaba, Leningrado,Torino, Einaudi [1928], 2000. 8 Secondo Propp, è possibile un'analisi delle forme della fiaba "con la medesima precisione con la quale viene elaborata la morfologia delle formazioni organiche. E se questa affermazione non può riferirsi alla fiaba in tutto il suo insieme, è possibile tuttavia accettarla per i racconti di magia, e cioè per le fiabe nel senso proprio della parola". L'analisi morfologica di Propp dimostra che, nonostante i personaggi della fiaba possano essere diversissimi, le loro funzioni sono assai poco numerose, dove per funzione si intende "l'atto del personaggio, ben determinato dal punto di vista della sua importanza per il decorso dell'azione". In base allo studio dettagliato di un centinaio di fiabe tratte dalla raccolta di Afanas'ev, Propp enuncia quattro tesi fondamentali: 1. "Gli elementi costanti, stabili, della fiaba sono le funzioni dei personaggi, indipendentemente da chi essi siano e in che modo le assolvano. Esse costituiscono i componenti fondamentali della fiaba". 2. "Il numero delle funzioni proprie del racconto di magia è limitato". In totale, le funzioni individuate da Propp, sono infatti solamente 31. 3. "La successione delle funzioni è sempre la stessa". Anche se poche fiabe contengono tutte le funzioni, ciò non infirma la legge della successione. 4. "Tutte le fiabe, per struttura, sono monotipiche"; ovvero rappresentano innumerevoli variazioni di una serie unica per tutte le fiabe. Lo schema generale di una fiaba secondo Propp è il seguente: 1. Equilibrio iniziale (inizio) 2. Rottura dell'equilibrio iniziale (movente o complicazione) 3. Peripezie dell'eroe 4. Ristabilimento dell'equilibrio (conclusione) Queste sono le 31 funzioni individuate da Propp: 1. Allontanamento: uno dei membri della famiglia si allontana da casa - es. il principe va in guerra 2. Divieto (o ordine): all'eroe viene imposto un divieto (es. a Cappuccetto Rosso viene proibito di passare per il bosco) 3. Infrazione:il divieto è infranto (es. Cappuccetto rosso passa per il bosco) 4. Investigazione: l'antagonista fa delle ricerche sull'eroe 5. Delazione: l'antagonista riceve le informazioni 6. Tranello: l'antagonista tenta di ingannare l'eroe 7. Connivenza: l'eroe cade nel tranello 8. Danneggiamento (o mancanza): l'antagonista reca danno all'eroe (o viene a mancare qualcosa) - es. la bella addormentata è punta a causa della maledizione di una vecchia fata 9. Mediazione: il danneggiamento o la mancanza vengono resi noti 10. Consenso: l'eroe reagisce 9 11. Partenza:l'eroe parte 12. Funzione del donatore: il donatore mette alla prova l'eroe 13. Reazione:l'eroe supera la prova 14. Fornitura: il donatore dà l'oggetto magico all'eroe 15. Trasferimento: l'eroe si trasferisce,o viene condotto sul luogo in cui si trova l'oggetto delle sue ricerche 16. Lotta:l'eroe e l'antagonista ingaggiano direttamente la lotta 17. Marchiatura: all'eroe è impresso un marchio 18. Vittoria: l'antagonista è vinto 19. Rimozione: l'eroe viene liberato dal danno o dalla mancanza iniziale 20. Ritorno: l'eroe ritorna 21. Persecuzione: l'eroe è sottoposto a persecuzione 22. Salvataggio: l'eroe si salva 23. Arrivo in incognito: l'eroe arriva in incognito a casa o in un altro paese 24. Pretese infondate: il falso eroe avanza pretese infondate 25. Prova: all'eroe è imposto un compito difficile,una prova da superare 26. Adempimento:il compito difficile è eseguito 27. Identificazione: l'eroe viene riconosciuto 28. Smascheramento: il falso eroe o l'antagonista viene smascherato 29. Trasfigurazione: l'eroe assume nuove sembianze 30. Punizione: l'antagonista viene punito 31. Lieto fine:l'eroe ottiene il premio finale;spesso si sposa o ottiene un regno 6 Non tutte le sequenze si possono trovare in tutte le fiabe, d'altro canto lo schema si può associare anche a racconti di altro genere: si pensi all'Odissea per quanto riguarda le ultime sequenze. Una funzione che ricorre spesso è lo “smascheramento del falso eroe”. Per esempio, nella versione di Cenerentola, che si trova nella raccolta dei Fratelli Grimm, le cattive sorellastre cercano con vari trucchi di far credere, a turno, che una di loro era la proprietaria della scarpetta smarrita., infatti il principe in un primo momento è tratto in inganno, ma poi le sorellastre vengono smascherate. Analizzando una moderna rilettura della fiaba che ha portato al suo utilizzo a livello terapeutico possiamo evidenziare quelle che sono le prerogative della fiaba7: La fiaba parla dei perché, infatti la fiaba parla sempre del significato di ciò che accade e perchè accade 6 Propp V. Morfologia della fiaba, Leningrado,Torino, Einaudi [1928], 2000 7 Santagostino P., Guarire con una fiaba, URRA, Milano, 2004 10 Le fiabe presentano sempre un problema. Nella fiaba per definizione tutto finisce bene, ma non tutto va sempre bene. È tipico delle fiabe presentare una situazione che, felice o meno all’inizio, ha il compito di introdurre il dramma in cui si troverà coinvolto il protagonista. La fiaba conduce il bambino per mano fuori da queste tremende situazioni. Il valore della fiaba è proprio quello di presentare in termini immaginari, quindi facilmente comprensibili al bambino, una situazione drammatica. La fiaba presenta il problema e la soluzione del problema utilizzando l’unico linguaggio accessibile ad un bambino, cioè quello della fantasia. Le fiabe sono piene di bambini: bambini abbandonati da soli nei boschi, bambini maltrattati dalle matrigne crudeli, bambini non amati, bambini non voluti, bambini sperduti. I bambini nelle fiabe disobbediscono sempre ai divieti: aprono le porte che dovevano restare chiuse, vanno dove non avrebbero dovuto andare. Così le fiabe parlano al bambino dei problemi con cui a sempre a che fare: l’abbandono, il disamore, la solitudine, la disobbedienza, la paura. E nelle fiabe i bambini vincono. Sopravvivono nonostante l’abbandono dei genitori, le matrigne cattive, le streghe crudeli e vincono soprattutto contro i potenti: le fiabe quindi assumono per i bambini la voce della speranza. «Da un’analisi attenta delle fiabe si vede che in esse non ci sono solo bambini, ma anche giovani, ragazzi, adulti e vecchi, quindi le fiabe preannunciano le future tappe dell’esistenza, con le difficoltà che si potranno presentare e le maniere in cui superarle. In questo senso le fiabe sono per i bambini un corso completo di formazione alla vita»8. Non è un caso che i bambini amino una fiaba in un determinato periodo e vogliono sentire solo quella, perché parla del problema che al momento li riguarda in quella fase del loro processo evolutivo. Dall’analisi delle fiabe scopriamo che l’eroe della fiaba, il protagonista, è sempre un personaggio positivo; a cui si oppone un personaggio negativo, l’antagonista, che ostacola l’eroe, gli si contrappone ed è sempre cattivo. Da una ns analisi abbiamo rilevato che le fiabe sono piene di figure femminili negative: la matrigna, la regina malvagia, la strega che divora i bambini. La vera madre è sempre buona e affettuosa, infatti per il bambino la madre non può essere cattiva, gli atteggiamenti cattivi sono del suo alter-ego, della matrigna, della madre non vera. Si assiste alla scissione 8 Santagostino P., Guarire con una fiaba, op. cit. 11 della Grande Madre, come vedremo più avanti la madre buona e la madre cattiva, così il bambino però percepisce come sua solo la figura positiva. Se prendiamo la figura della strega nella fiaba vediamo che simboleggia un femminile materno distruttivo, come un utero materno che non lascia uscire, che imprigiona e uccide, al contrario della madre positiva che accoglie, nutre e aiuta a nascere. Le streghe nel bosco accolgono i bambini nella loro casetta, allettanti confortevoli, ma poi li imprigionano, li nutrono, ma per poi mangiarli. Quindi nella fiaba il rapporto strega-bambino rappresenta i rischi di una permanenza eccessiva di totale dipendenza del bambina dalla madre. Ma allora che differenza c’è con la matrigna ? La matrigna genera dolore, solitudine paura, ma anche rabbia e ciò stimola capacità reattive, infatti il bambino riesce a superare le difficoltà da solo. Se prendiamo le fiabe in cui i protagonisti sono adulti o comunque non più bambini, la figura della strega tenta di impedire uno sviluppo personale e attivo9. Prendiamo come esempio “La bella addormentata” vediamo che essa non potrà continuare il suo processo di sviluppo, non prenderà coscienza di se stessa, se non verrà risvegliata.(La principessa si punge con il fuso all’età dello sviluppo fisico cioè alla comparsa delle mestruazioni). (Lettura) Le trasformazioni che la strega produce sulle sue vittime sono regressive, riportano indietro nella scala dell’evoluzione: il principe diventa ranocchio, i servitori porci ecc. Invece le trasformazioni operate dalle Fate vanno nella direzione opposta, le fate aiutano i protagonisti a realizzarsi: Pinocchio diventa un bambino, Cenerentola va al ballo e incontro il Principe. Il bacio del principe rappresenta l’incontro positivo tra maschile e femminile che porta alla rinascita, alla conquista di un equilibrio interiore, siamo all’incontro tra Anima e Animus. Potremmo dire con la Santagostino che «Cadere prigionieri della strega nelle fiabe, rappresenta il pericolo della coscienza di cadere in balia delle forze distruttive dell’inconscio». L’inconscio si colloca nell’ambito di un simbolismo femminile, notturno, sotterraneo, solo in rapporto al simbolismo diurno, solare maschile della coscienza. 9 Santagostino P., Guarire con una fiaba, op. cit. 12 Jung, mito e archetipo Secondo Jung le fiabe sono "l'espressione più pura dei processi psichici dell’inconscio collettivo e rappresentano gli archetipi in forma semplice e concisa ". La storia raccontata in una fiaba è ancora qualcosa di più importante: è la storia della psiche che, attraverso una serie di eventi, a volti pieni di rischi e pericoli, raggiunge una meta, un traguardo, un obiettivo. La fiaba diventa la metafora della storia della vita della psiche: narra le vicende, le peripezie, i tormenti, i dolori attraverso i quali la psiche giunge infine alla sua piena maturazione, liberandosi dai complessi che l'avvolgono e la mettono a dura prova, e nutrendosi della forza degli archetipi che, invece di distruggerla, finiscono con il fortificarla, riportandola a vita autentica. Ogni cosa può funzionare da simbolo, ma alcuni simboli hanno una ricorrenza universale, questo rimanda all'esistenza di quelli che Jung chiama archetipi, cioè letteralmente modelli. Gli archetipi non sono idee, ma possibilità di rappresentazioni, ossia disposizioni a riprodurre forme e immagini virtuali, tipiche del mondo e della vita, le quali corrispondono alle esperienze compiute dall' umanità nello sviluppo della coscienza. Essi si trasmettono ereditariamente e rappresentano una sorta di memoria dell'umanità, sedimentata in un inconscio collettivo , non puramente individuale, ma presente in tutti i popoli, senza alcuna distinzione di luogo e di tempo: la mia vita è la storia di un'autorealizzazione dell'inconscio , afferma Jung 10. Gli archetipi lasciano le loro tracce nei miti, nelle favole e nei sogni, che contrariamente a quanto pensava Freud, non sono appagamento di desideri puramente individuali legati alla sessualità infantile, ma espressioni dell'inconscio collettivo. Un'analisi comparata di questi materiali è in grado di portarli alla luce, ogni individuo li avverte come bisogni e li può esprimere in modo storicamente variabile, secondo le diverse situazioni etniche, nazionali o familiari. A proposito dell'inconscio collettivo, dice Jung in una conferenza tenuta nel 1936: L'inconscio collettivo è una parte della psiche che si può distinguere in negativo dall'inconscio personale per il fatto che non deve, come questo, la sua esistenza all'esperienza personale e non è perciò un'acquisizione personale. [...] l'inconscio personale consiste soprattutto in "complessi"; il contenuto dell'inconscio collettivo, invece, è formato essenzialmente da "archetipi". Il concetto di archetipo, che è un indispensabile correlato 10 Jung C.G., La psicologia dell’incontro, Boringhieri, Torino, 1968 13 dell'idea di inconscio collettivo, indica l'esistenza nella psiche di forme determinate che sembrano essere presenti sempre e dovunque”. Carl Gustav Jung (Kesswill, 26 luglio 1875, Bollingen, 6 giugno 1961) è stato uno dei padri della psicologia del profondo. Il suo approccio, discostandosi da quello del suo maestro Sigmund Freud, apriva la ricerca psicanalitica dalla storia personale del singolo alla storia collettiva dell’umanità, che nel singolo si concretizza e prosegue, così l’inconscio non è più solo personale, prodotto dalla rimozione, ma oltre a questo nell’individuo esiste anche un inconscio collettivo. Per Jung l’inconscio collettivo non è un serbatoio di materiale rimosso, come affermava Freud, ma comprende in sé tutti i contenuti dell’esperienza psichica umana, sia positivi che negativi e costituisce la struttura connettiva universale. L’inconscio collettivo non è un pozzo dove vengono raccolti i ricordi, le emozioni, le memorie personali, ma è formato da associazioni mentali ed emotive, immagini, figure chiamate archetipi, connessi a temi universalmente condivisi. Miti ed archetipi sono dentro di noi ed il loro recupero ci aiuta a conoscerci più profondamente e ad espandere la nostra Identità comprendendo la complessità umana11. L’Inconscio collettivo contiene le esperienze emozionali di tutta l’umanità, gli archetipi : La Persona- maschera della psiche collettiva L’Ombra- lato animale della natura umana L’Anima- archetipo femminile nell’uomo L’Animus- archetipo maschile nella donna La Grande Madre l’Eroe Il vecchio saggio, ecc. La Persona è un “segmento dell’inconscio collettivo[..] è un complicato sistema di relazioni tra l’individuo e la società, una specie di maschera che serve da un lato a fare una determinata impressione sugli altri, dall’altro a nascondere la vera natura dell’individuo”12 In un convegno nel 1928 Jung a proposito di questo archetipo ebbe a dire che “C’è della gente che crede sul serio di essere ciò che rappresenta”. 11 12 Jung C.G., La psicologia dell’incontro, Boringhieri, Torino, 1968 Jung C. G., Gli archetipi dell'inconscio collettivo, in Opere vol. 9, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1997. 14 L’Ombra con Jung la possiamo definire “la parte inferiore della personalità, la somma di tutte le disposizioni personali e collettive che, a causa della loro inconciliabilità con la forma di vita scelta coscientemente, non vengono vissute e formano una personalità parzialmente e relativamente autonoma”. L’incontro con l’Ombra è la prima tappa necessaria per la realizzazione profonda dell’individuo. L’ombra è la nostra parte oscura, rimossa, inconscia, che risale nelle sue origini fino agli antenati animali: è “ciò che una persona non desidera essere”. "Ognuno di noi è seguito da un'ombra. Meno questa è incorporata nella vita conscia dell'individuo tanto più è nera e densa e, del resto, confrontarsi con la propria ombra significa prendere coscienza della propria natura in modo critico, senza riserve. Difficile e doloroso è accoglierla come la nostra parte notturna. Dobbiamo comunque tener presente che accanto all’Ombra personale c’è anche quella collettiva che rappresenta il lato oscuro dell’umanità, che corrisponde a ciò che si oppone all’evolversi del mondo, che tende a riportare indietro. L’archetipo dell’Anima è l’immagine del femminile che ogni essere umano di sesso maschile ha interiorizzato, è una componente inconscia della personalità propria dell’uomo. L’archetipo dell’Animus è l’’mmagine del maschile che ogni essere umano di sesso femminile ha interiorizzato, quindi è la componente inconscia della personalità della donna. L’Anima è il principio dell’eros e quindi si correla col modo con cui l’uomo si rapporta alle donne, l’animus è il logos, la razionalità. Gli stadi mitologicidello sviluppo della coscienza Dall’UROBOROS alla separazione dei genitori Seguiremo in questo ns. percorso ora il pensiero di Neumann, seguace di Jung, che nel testo “Storia delle origini della coscienza”13 elabora una storia dello sviluppo della coscienza e rappresenta il mito come una fenomenologia di tale sviluppo, così Neumann è pervenuto a conclusioni, che riteniamo tra le più importanti mai raggiunte in questo campo. 1. Il primo ciclo del mito è il mito della creazione. In esso la proiezione mitologica dello psichico avviene in forma cosmogonica, come mitologia della creazione dell’Universo. Il mondo e l'inconscio predominano e costituiscono l'oggetto del mito. L'Io e l'uomo stanno appena sorgendo; 13 Neumann E., Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1978 15 la loro nascita, i loro dolori e la loro emancipazione· costituiscono le fasi del mito della creazione. 2. Nello stadio della separazione dei genitori del mondo il nucleo della coscienza egoica dell'umanità si afferma in maniera definitiva. 3. Da qui si passa nel secondo ciclo, quello del mito dell'eroe, in cui l'Io, la coscienza e il mondo umano diventano consapevoli di sé e della propria dignità. Per Jung l’Io è la mente cosciente da non confondere con l’Ego che è il complesso centrale della consapevolezza. Il complesso dell’Ego comincia a formarsi quando ci stacchiamo dall’altro primario, che in genere è nostra madre; cioè, quando ci stacchiamo dal seno. E se da un lato questa separazione è necessaria per la formazione dell’individuo, dall’altro è molto dolorosa, perché rappresenta la perdita di quella primitiva esperienza di unità e sensazione di appartenenza. L'inizio del mito della creazione può essere letto in due modi diversi: all'interno dell'umanità come origine della storia dell'umanità e all'interno del singolo come origine dell'infanzia. L'autorappresentazione degli albori della storia dell'umanità può essere colta nella descrizione che ce ne fanno i rituali e i miti. L'origine dell'infanzia, così come quella dell'umanità, si manifesta nella immagine che sale dal profondo dell'inconscio e che si rivela all'Io già individualizzato. Cassirer ha dimostrato e illustrato come in tutti i popoli e in tutte le religioni la creazione venga presentata come creazione della luce. Pertanto l'autentico 'oggetto' della mitologia della creazione è la nascita della coscienza, che si presenta come luce in opposizione all'oscurità dell'inconscio. Cassirer ha anche dimostrato che nei differenti stadi della coscienza mitologica la prima cosa che viene scoperta è la realtà soggettiva, la formazione dell'Io e dell'individuo. L'inizio di questo sviluppo, mitologicamente visto come inizio del mondo, è l'avvento della luce, che solo permette di cogliere il divenire del mondo14. Analizzando l’opera di Neumann, rileviamo che la sua teoria si fonda tutta sull’assunto che lo sviluppo dell’umanità e quello dell’individuo procedano in maniera analoga verso fasi di differenziazione sempre maggiore dalla matrice originaria (matrice inconscia) da cui proveniamo, per giungere ad una struttura più stabile della coscienza senza mai perdere contatto con le origini. L’archetipo per Neumann è una immagine interiore che agisce in modo energetico sulla psiche umana. Egli paragona gli archetipi agli organi fisici e li vede come entità energetiche che sottostanno e presiedono alla maturazione della personalità esattamente come le strutture biologiche e ormonali 14 Cassirer E., Il pensiero mitico, La Nuova Italia, Firenze, 1988 16 sottostanno alla struttura fisica. In tal modo, l’evoluzione della coscienza individuale avviene per tappe di differenziazione dall’inconscio fino a giungere alla formazione della coscienza. Il problema dell'inizio è anche il problema della provenienza, dell'origine e del destino, cui la cosmologia e il mito della creazione hanno cercato di dare continuamente risposte nuove e diverse. Il problema dell'origine, della provenienza del mondo, è sempre anche il problema della provenienza dell'uomo, della coscienza e dell'Io, è la domanda fatale: "Da dove vengo io?", che si pone ogni essere umano quando giunge alla soglia della presa di coscienza di sé.15 Le risposte mitologiche a questa domanda sono simboliche, come tutte le risposte che provengono dal profondo della psiche, dall'inconscio, teniamo presente che una risposta simbolica non va mai capita in senso concreto e non va mai presa in maniera veramente letterale, possiamo trovare varie letture e interpretazioni di un simbolo, allora il simbolo è un'analogia, un'equiparazione per cui ha in sé una ricchezza di significato, ma anche una indeterminatezza. Il primo stadio di sviluppo della coscienza per Neumann è quello in cui l’Io è contenuto nell’inconscio ed è quindi totalmente indifferenziato, infatti Neumann lo chiama lo stadio uroborico. L’individuo è totalmente contenuto e inconscio lo potremmo paragonare all’universo prima della creazione (che rappresenta la separazione tra il cielo e la terra), ovvero della separazione tra il maschile e il femminile – conscio ed inconscio. Il simbolismo è quello del cerchio, simbolo dell’uovo cosmico in cui tutto è contenuto ma nulla può nascere se non subentra la luce o la coscienza. La condizione uroborica in questo senso, è la dimensione naturale inconscia, che è anche l’aspetto del materno, è la fase pre-egoica in cui il bambino psicologicamente è ancora contenuto nell’inconscio materno, non vi è ancora lo spiraglio di luce che viene dall’esterno. Da questo stadio il bambino comincia ad uscire pian piano, è un Io embrionale, piccolo, debole e fragile, dipendente dalla Grande Madre che contiene un aspetto costruttivo ed accogliente, ed uno distruttivo: in termini psicologici possiamo dire che siamo in una fase di forte ambivalenza di contrasto perché, da una parte esiste una spinta progressiva verso l’esterno, ed una altrettanto forte spinta regressiva, questo porta il bambino a restare in una situazione di contenimento psichico. A livello evolutivo questa fase la consideriamo quella in cui, dalla primordiale incoscienza nell’uomo, emerge una fragile coscienza che però è ancora labile e piena di paure. 15 Neumann E., Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1978, p.29 17 ( Ricordate quanto abbiamo detto a proposito delle fiabe e delle figure femminili che le popolano?) Uno degli aspetti simbolici della perfezione degli inizi è il cerchio, a cui sono associati la palla, l'uovo e il rotundum, il “rotondo” dell'alchimia. Allarghiamo il nostro pensiero e vediamo che il rotondo è l'uovo, l'Uovo Cosmico filosofico, il luogo iniziale e germinale, da cui sorge il mondo, ed è anche il perfetto che contiene in sé gli opposti e li contiene in quanto principio, perché questi contrari non si sono ancora separati e il mondo non ha ancora avuto inizio, e in quanto fine, perché tali contrari sono di nuovo arrivati a una sintesi in esso, perché il mondo in esso ha di nuovo trovato pace. Quale contenitore dei contrari lo potremmo rivedere nel T'ai chi cinese, che nella sua forma rotonda contiene in sé nero e bianco, giorno e notte, cielo e terra, maschile e femminile, e di cui Lao-tzu dice: «Prima della formazione del cielo e della terra c'era qualcosa in stato di fusione, tranquilla e immateriale, essa esiste da sola e non muta (carattere); essa circola ovunque senza stancarsi. Si può considerarla come la Madre di tutto sotto il cielo». Se analizziamo il simbolismo relativo al Taoismo vedremo che lo YIN rappresenta quindi l’oscurità, la terra, l’elemento femminile, mentre lo YANG è la luce, il sole, l’elemento maschile. “Ti aiuterò a progredire verso la vetta della grande luce e da lì a raggiungere la sorgente dello yang, ti aiuterò a penetrare nelle porte profonde e oscure e da lì a raggiungere la sorgente dello yin”, così recita lo Chuang-tzu, nel Cap. XI, 69. “Chi conosce gli altri è intelligente, ma chi conosce se stesso è saggio. Chi conquista gli uomini è forte, ma chi conquista se stesso è potente.”16 Andiamo a vedere quindi che la rappresentazione più antica dell'Uroboros che si trova su un vaso scoperto a Nippur; a Babilonia lo troviamo rappresentato come un serpente celeste e Macrobio ne attribuisce l'origine ai Fenici. Esso è l'archetipo che dice di sé: "lo sono l'alfa e l'omega". Quale Knef dell'antichità è il 'serpente primitivo', la "figura divina più antica della preistoria". Si può ritrovare nell'Apocalisse di Giovanni come nelle pitture di sabbia degli indiani Navajo e in Giotto, nei testi alchimistici17 e come amuleto tra gli zingari. Tutti questi simboli con cui l'umanità ha cercato di comprendere mitologicamente l'inizio sono presenti nei tempi primitivi e hanno un loro posto non solo nell'arte e nella religione, ma anche nei processi vitali della psiche individuale, nel sogno e nella fantasia. 16 Lao Tzu, Tao Te Ching, Penguin books, London, 1963 17 Jung C.G.,Psicologia e alchimia, Astrolabio, Roma 1950 18 L'esistenza nell'Uroboros è l'autorappresentazione simbolica di uno stato primitivo che si trova sia come condizione infantile sia dell'umanità che del bambino. La validità è la realtà di questo simbolo sono fondate nel collettivo, esso corrisponde ad un grado di sviluppo dell'umanità che può essere ritrovato nella struttura psichica di ogni essere umano. L'Uroboros si presenta simbolicamente come grembo primitivo e utero materno, nonché come l'unità degli opposti maschile-femminile, come i progenitori, come padre e madre, che sono uniti tra di loro in perpetua coabitazione. Che la questione dell'origine, del 'da dove', vada unita al problema dei progenitori emerge come una cosa evidente, ma per Neumann dobbiamo tener conto che si tratta di simboli dell'origine e non di sessualità e di 'teoria genitale'. Riprendiamo il ns discorso partendo dal concetto che la mitologia è il prodotto dell'inconscio collettivo, e che ogni studioso della psicologia primitiva è costretto a fermarsi pieno di meraviglia di fronte all'inconscia saggezza delle risposte che la psiche profonda ha dato e continua a dare alle domande inconsce degli uomini. Molti popoli primitivi non conoscono il nesso che intercorre tra rapporto sessuale e nascita, infatti spesso i primitivi cominciano ad avere rapporti sessuali già nell'età infantile, senza che ne segua una procreazione; di qui essi concludono facilmente che la nascita del bambino non è collegata alla generazione da parte dell'uomo nel rapporto sessuale. Però alla domanda "Da dove?" bisogna sempre dare, e di fatto si dà, la risposta: "Dal grembo", perché è un'esperienza originaria dell'umanità che ogni neonato proviene da un grembo e ogni mitologia afferma sempre precisamente che tale grembo è un'immagine e il grembo della donna è solo un aspetto parziale del simbolo originario del luogo dell'origine, del luogo da cui si proviene. Neumann ribadisce il concetto che l'Uroboros del mondo materno è vita e psiche , nutre e procura piacere, protegge e riscalda, consola e perdona, è il rifugio di tutto ciò che soffre, l'oggetto di ogni desiderio, infatti la madre è sempre quella che esaudisce, che dona e che aiuta. Quest'immagine viva della Grande Madre buona è stata il rifugio dell'umanità in tutti i momenti di bisogno e tale rimarrà sempre, perché la condizione dell'essere contenuto nella totalità, senza responsabilità e senza fatica, senza il dubbio e senza la dissociazione dal mondo è appunto paradisiaca e all'interno della vita adulta non sarà mai più realizzata nuovamente nella sua felicità e intensità originarie. L'Uroboros come la grande e turbinosa ruota della vita, in cui tutto ciò che non è ancora individuo è contenuto nell'unità dei contrari, in questo senso parliamo di un incesto uroborico, intendendo naturalmente l'incesto in senso simbolico e non concretistico-sessuale. 19 L'incesto uroborico è una forma di ingresso nella madre, di unione con lei, che si oppone ad altre più tarde forme dell’incesto. Rendiamoci conto che per Jung la Grande Madre accoglie e riprende in sé il piccolo bambino e l'incesto uroborico è sempre visto come segno di morte: caverna, terra, sepolcro, sarcofago, bara sono i simboli di questo rito di riunione, che cominciano con la sepoltura in posizione fetale nei sepolcri dell'era della pietra. Nel bambino le grandi immagini e i grandi archetipi dell'inconscio collettivo sono una realtà viva e molto vicina a lui, e molte delle sue espressioni e delle sue reazioni, delle sue domande e delle sue risposte, dei suoi sogni e delle sue immagini esprimono questa conoscenza, che deriva dall'esistenza prenatale, si tratta di un'esperienza non acquisita personalmente, ma che viene dall'alto. La fase di sviluppo individuale segnato dall’archetipo della Grande Madre è stato uno degli elementi centrali della psicologia del profondo che ha attribuito alla relazione primaria con la madre un potere altamente costruttivo e distruttivo per la costruzione della personalità e del Sé. Per Jung il Sé ("Selbst") va inteso come la totalità psichica rispetto a cui l'Io, la nostra parte cosciente, è solo una piccola parte. Egli ritiene che compito dell'attività psicoanalitica sia quella di istituire un rapporto gerarchico tra Sé e Io, tra la totalità e la parte, in grado di soddisfare le condizioni per una ripresa del movimento evolutivo che lui chiama "Individuazione”18. Secondo Neumann “La Grande Madre non è soltanto la Dea che decide della vita o della morte, o che determina uno sviluppo positivo o negativo; il suo atteggiamento è al tempo stesso un giudizio, una sentenza di alta corte. Nessuno sviluppo o razionalizzazione successiva può cancellare questa convinzione di una colpa primaria, poiché il disturbo del rapporto primario ha effettivamente leso l’individuo e lo ha portato ad uno sviluppo sbagliato che fornisce continuamente, a posteriori, ragioni sufficienti a giustificare il senso di colpa”19. Il carattere uroborico della Grande Madre traspare ovunque essa viene onorata in forma androgina, per esempio come dea con la barba, a Cipro e a Cartagine la donna con la barba, o con il fallo, rivela il suo carattere uroborico nell'indistinzione di maschile e femminile. Solo più tardi questa figura mista viene sostituita da figure sessualmente non ambigue; il carattere misto e ambivalente rappresenta lo stadio primitivo da cui si differenzieranno in seguito gli opposti. La coscienza infantile, che sperimenta continuamente il proprio legame con la matrice da cui proviene, e la 18 Jung C.G.,Psicologia e alchimia, op. cit. 19 Neumann E., Storia delle origini della coscienza,op. cit. 20 propria dipendenza da essa, si trasforma a poco a poco in un sistema autonomo; la coscienza diventa auto-coscienza, sorge cioè un Io riflettente e conscio di se stesso come centro della coscienza. C'è una coscienza già prima che l'Io , acquisti la sua posizione centrale, difatti possiamo osservare degli atti di coscienza nel lattante; prima che compaia la coscienza dell’Io, però solo quando l'Io si sperimenta come qualcosa di diverso dall'inconscio lo stadio embrionale può dirsi superato e assistiamo alla formazione di un sistema di coscienza autonomo e fondato sopra se stesso, ma questo è spesso uno stadio conflittuale in cui l’individuo deve rinunciare a una parte di sé. Questo stadio primitivo del rapporto tra la coscienza e l'inconscio si riflette nella mitologia del rapporto tra la Dea Madre e il figlio-amante. Se analizziamo certe figure maschili della cultura medio-orientale come Attis Adone, Tamuz e Osiride essi vengono sì partoriti dalla madre, però questo aspetto recede completamente in secondo piano ed essi diventano gli amanti della madre e vengono da questa amati, uccisi, seppelliti, pianti e rigenerati. Perché io sono colei che è prima e ultima Io sono colei che è venerata e disprezzata, Io sono colei che è prostituta e santa, Io sono sposa e vergine, Io sono madre e figlia, Io sono le braccia di mia madre, Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli, Io sono donna sposata e nubile, Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito, Io sono colei che consola dei dolori del parto. Io sono sposa e sposo, E il mio uomo nutrì la mia fertilità, Io sono Madre di mio padre, Io sono sorella di mio marito, Ed egli è il figlio che ho respinto. Rispettatemi sempre, Poiché io sono colei che da Scandalo e colei che Santifica. Inno a Iside Rinvenuto a Nag Hammadi, Egitto; risalente al III-IV secolo a.C Il simbolo tipico del figlio amante è un cinghiale che muore e viene sacrificato, e l'uccisione del cinghiale è la rappresentazione mitologica del sacrificio del figlio ad opera della Grande Madre. Su un rilievo etrusco in 21 bronzo si trova riprodotta la forma antichissima della Grande Madre, la Gorgone, che strangola il leone con le braccia e tiene le gambe aperte nell'atteggiamento dell'esibizionismo rituale. Sul medesimo pezzo troviamo però anche la caccia al cinghiale, raffigurata proprio come nei reperti provenienti da Creta e dalla Grecia sotto il dominio cretese. Tra i simboli dell'abisso divorante vi sono il grembo nel suo aspetto terrificante, la testa di una delle Gorgoni cioè di Medusa, la donna con la barba e il fallo, nonché il ragno in quanto in questo animale la femmina mangia il maschio. Il grembo aperto è il simbolo divorante della madre uroborica, specialmente se compare assieme al simbolismo fallico. La bocca masticante della Medusa con zanne da cinghiale presenta questi tratti nel modo più evidente. La lingua che fuoriesce dalla bocca tradisce la connessione del femminile con il fallico. Il grembo che morde e strappa, cioè castrante, si presenta come fauce infernale, e i serpenti che avvolgono il capo della Medusa non sono elementi personalistici (peli puberali), bensì degli elementi fallici di questo seno materno uroborico pericolosi, angoscianti e castranti. Nel mito di Medusa e Perseo la Dea Atena, dea della saggezza, passa da madre buona a madre terribile, infatti spinse ed aiutò Perseo ad uccidere Medusa, e, per decorare il suo scudo le fu data come un orribile trofeo, la testa della Gorgone, capace di pietrificare chi l'avesse guardata. Era stata Atena stessa a rendere Medusa ciò che era, infatti originariamente Medusa era la più bella delle tre sorelle Gorgoni, ma Medusa fece l'amore con Poseidone (secondo altre versioni fu stuprata) all'interno del tempio di Atena. Quando scoprì che il suo tempio era stato così profanato, Atena per punirla ne mutò l'aspetto rendendola mostruosa come le sue sorelle Steno ed Euriale: i suoi capelli si trasformarono in serpenti e qualsiasi creatura vivente ne avesse incrociato lo sguardo sarebbe stata mutata in pietra. Dal collo decapitato di Medusa esce il cavallo alato Pegaso che ella aveva concepito con Posidone, ma che a causa del suo odio non era capace di darlo alla luce. Il nome Pegaso viene dalla parola greca pegai, che significa “sorgenti” o “acque”. Atena trasformò anche la parte inferiore del suo corpo in modo tale da renderla pietrificata, così che per lei era impossibile avere ancora rapporti sessuali con un uomo. A questo punto possiamo azzardare di comprendere il messaggio che ci trasmette il mito di Medusa e Perseo: per non soccombere rispetto all'energia pietrificante, che coagula (che è quella sessuale) e alle paure inconsce, non bisogna lottare direttamente (Perseo non deve incrociare lo sguardo di Medusa), ma serve la riflessione (il riflesso dello specchio), la conoscenza della natura superiore ed inferiore (Jung direbbe l'Ombra) e così possono essere 22 superate le prove al fine di liberare infine sé stesso, uscire così dall’ammasso uroborico, come il Pegaso alato. Ritorniamo al ragno che rientra in questo gruppo di simboli non solo perché la femmina dopo il coito mangia il maschio, ma soprattutto come simbolo generale del femminile, che tesse la rete in cui l'uomo va a impigliarsi e non riesce a superare lo stadio adolescenziale dell'Io, né l'Io si è ancora reso autonomo dall'inconscio. Possiamo distinguere più fasi nel rapporto tra l'amante adolescente e la Grande Madre. La fase più antica è caratterizzata dalla naturale rassegnazione al destino, allo strapotere della madre o dell'Uroboros. Lo stadio dell'impotenza totale di fronte alla madre uroborica, al destino violento e ineluttabile. L’incapacità di reagire alla supremazia e l'avversione nei confronti della Grande Madre come espressione della centralità risulta chiara nelle figure di Narciso, Penteo e Ippolito. Essi si oppongono all'amore ardente e divoratore delle grandi dee, ma vengono puniti da esse o dai loro rappresentanti. In Narciso, che non vuole amare e che alla fine si innamora perdutamente della propria immagine, l'orientamento verso se stesso e il distacco dall'oggetto divorante e avido d'amore, sono chiari. Nell'inconscio collettivo tutti gli archetipi coesistono sullo stesso piano, solo con lo sviluppo della coscienza si arriva a una strutturazione gerarchica. Anche se è sedotto dalla propria immagine, Narciso è in realtà una vittima di Afrodite, della Grande Madre. Il sistema del suo Io viene sopraffatto e dissolto dal potere tremendo dell'impulso amoroso, della forza istintuale, su cui domina la Grande Madre. Infatti Afrodite per sedurlo prende in prestito l'immagine di Narciso stesso, questo la rende solo più infida. L'Io di Narciso, che vuole sottrarsi al potere dell'inconscio specchiandosi nel suo riflesso, soccombe a un catastrofico amore di se stesso. Il suo suicidio per annegamento rappresenta la distruzione dell'Io e della coscienza. Il mito di Penteo, figlio di Echione e di Agave, una delle figlie di Cadmo, si ricollega al ciclo di Bacco-Dioniso. Dioniso nasce dall'unione di Semele (figlia del re tebano Cadmo e della sua sposa Armonia) con Zeus; quest'ultimo cerca in tutti i modi di nascondere la relazione alla gelosa Era, la quale, scoperta la tresca, suggerisce a Semele di chiedere a Zeus, che le si mostrava sempre in sembianze umane, di manifestarsi nella sua vera natura. Zeus in un impeto d'ira si palesa in forma di tuono e folgore incenerendo l'amante nel cui grembo giaceva il piccolo Dioniso. Ermes, tuttavia, riesce a salvarlo 'cucendolo' nella coscia di Zeus. (bisogna notare come fra le tante 23 interpretazioni etimologiche del nome di Dioniso vi sia quella che lo intende come 'nato due volte', o anche come il 'figlio della doppia porta'). Una volta nato, Dioniso è affidato ad Atamante (re di Orcomeno) e a sua moglie Ino da Ermes che, sempre per sviare la gelosia di Era, prescrive loro di vestire il piccolo con abiti femminili. Scoperto l'inganno, Era fa impazzire i genitori adottivi. A questo punto, Zeus per impedire che Dioniso finisca tra le mani di Era, lo trasforma in capretto affidandolo alle Ninfe sul monte Nysa. Anche questa volta Era si avvede dell'inganno e punisce Dioniso con la follia. A partire da questo momento Dioniso vaga per tutta la terra, accompagnato dal suo precettore Sileno e da un corteo selvaggio di Satiri e Baccanti. Schelling ritiene che Dioniso sia il dio che rinasce e libera, che riporta all'Uno ciò che era separato nell'individualità. Dioniso è soprattutto il dio che viene, che è sempre venturo, il dio del futuro; questa prospettiva volta al futuro coincide con la speranza 'religiosa' di un ritorno all'Unità Nel momento in cui Dioniso decide di stabilire a Tebe il suo culto, Penteo è contrario e vuole opporsi alla sua diffusione perché lo considera privo di razionalità e troppo sfrenato. Bacco, per vendetta, suggerisce a Penteo di recarsi sul monte Citerone per spiare le donne ed essere testimone dei loro riti. Penteo subisce il destino di tutte le vittime della Grande Madre, impazzisce e partecipa alle orge travestito da donna; qui viene sbranato dalla propria madre che, in preda a un accesso di pazzia, lo ha scambiato per un cinghiale. Agave è la prima a colpirlo, si impadronisce della sua testa conficcandola su un tirso. Si reca poi a Tebe portando fieramente quella che crede un trofeo, per farla vedere a Cadmo. Solo in città si accorge di aver ucciso il proprio figlio. Ella porta in trionfo il suo capo insanguinato un residuo della castrazione originaria che seguiva allo smembramento del cadavere così diventa la Magna Mater. Anche Penteo appartiene a coloro che oppongono resistenza, senza però riuscire ancora a compiere l'atto eroico liberatorio, per scoprire il suo femminile si nasconde, ha paura di mettersi allo scoperto. Sebbene la sua opposizione sia diretta contro Dioniso, il suo destino e il suo peccato rivelano che anche qui il vero nemico è l'aspetto terribile della Grande Madre. Penteo non accoglie mai in sé il femminile - quindi l'inconscio, la sua Anima - egli rimane legato al potere, alla forza e non integra in sé alcun aspetto del femminile, ciò lo condanna a rimanerne vittima. La figura di Ippolito si colloca accanto a quella di Penteo e di Narciso, infatti per amore verso Artemide, per castità e per amore verso se stesso egli disprezza Afrodite disprezzando l’amore della matrigna Fedra per ordine del padre, e con l'aiuto del dio Posidone, viene trascinato dai propri cavalli finché muore. L'Afrodite disprezzata e la matrigna disprezzata sono un'unica cosa, 24 sono la Grande Madre innamorata che insegue il figlio amante e lo uccide perché oppone resistenza. Ippolito è a un livello in cui può decidere di opporsi alla Grande Madre e in cui comincia ad esser consapevole di se stesso come un giovane che lotta per conquistare l'autonomia e l'indipendenza. Questo è evidente nella sua 'castità', nel suo rifiuto dell'amore della Grande Madre e della sua sessualità fallica e orgiastica. La scissione degli opposti Il mito maori della creazione Gli uomini sono discesi da una sola coppia d'antenati primitivi,essendo nati dal vasto cielo che è sopra di noi, e dalla terra che ci sta sotto. Rangi e Papa, ossia il Cielo e la Terra, furono la origine prima di tutte le cose. Cielo e Terra erano allora avvolti nelle tenebre, essendo ancora aderenti l'uno all'altra,perché ancora non erano stati separati; e i figli da loro generati non facevano che almanaccare fra di loro quale potesse esser la differenza tra la tenebra e la luce; sapevano che le creature s'erano moltiplicate ed erano cresciute, ma la luce non s'era mai fatta su di loro, e il buio continuava sempre. Alfine gli esseri che erano stati procreati dal Cielo e dalla Terra, stanchi della continua tenebra, si consultarono tra loro dicendo: "Decidiamo che si debba fare di Rangi e di Papa, se sia meglio ucciderli o separarli". Allora parlò Tuma-tauenga, il più feroce dei figli del Cielo e della Terra: "Sta bene, uccidiamoli". Poi parlò Tane-mahuta, il padre delle foreste e di tutte le cose che vi abitano e che son costruite con gli alberi: "No, non così. Meglio è separarli,e far che il cielo stia lontano sopra di noi, e la terra giaccia sotto i nostri piedi. Divenga il cielo come uno straniero per noi, ma la terra ci resti vicina come una madre che allatta". Tutti i fratelli acconsentirono a tal proposta, a eccezione di Tawhiri-ma-tea, il padre dei venti e delle tempeste, il quale, temendo che il suo regno avesse ad essere rovesciato, grandemente si crucciò al pensiero che i suoi genitori fossero separati. Cinque dei fratelli consentirono di buon grado al distacco dei genitori, ma uno non voleva dare il suo consenso. Ma alla fine, messisi d'accordo, ecco, Rongo-ma-tane, il dio e padre degli alimenti coltivati dall'uomo, si leva su per staccare i cieli dalla terra;fa un grande sforzo,ma non riesce a staccarli. Ed ecco, dopo di lui,Tangaroa, il dio e padre dei pesci e dei rettili, si leva su per staccare i cieli dalla terra; anch'egli fa un grande sforzo, ma non riesce a staccarli. Ed ecco, dopo di lui, Haumia-tikitiki, il dio e padre degli alimenti dell'uomo che nascono senz'esser coltivati, si leva su e si sforza, ma invano. Ed ecco poi Tuma-tauenga, il dio e padre della cattiveria umana, si leva su e si sforza, ma anch'egli vien meno nei suoi conati. Alla fine, lentamente s'alza Tane-mahuta, il dio e padre delle foreste, degli uccelli e degl'insetti, e si mette a lottare coi suoi genitori; invano tenta di distaccarli con le mani e le braccia. Ecco, s'arresta; ora il suo capo è saldamente piantato sulla madre sua la terra, egli alza i piedi e li posa contro suo padre il cielo, inarca il dorso e le membra con possente sforzo. Così Rangi e Papa vengono separati, e con grida e lamenti di dolore urlano fortemente: "Perché uccidete così i vostri genitori? Perché commettete il nefando delitto di ucciderei, di dilaniare i vostri genitori?". Ma Tane-mahuta non s'arresta, non tiene conto delle loro urla e delle loro grida; giù, giù sotto di sé preme la terra;lontano, lontano sopra di sé spinge il cielo20. Il mito dei Maori contiene tutti gli elementi dello stadio evolutivo della coscienza successivo a quello della dominanza dell'Uroboros. La separazione 20 Pettazzoni R:, Miti e leggende, vol. II, UTET, Torino, 1963, pag. 468-9 25 dei genitori primordiali, la scissione degli opposti dall'unità, la nascita del cielo e della terra, del sotto e del sopra, del giorno e della notte, della luce e delle tenebre, tutto quel che in molti altri miti compare in modo isolato in singoli tratti qui si presenta fuso in una unità21. Dopo la fase dell’Uroboros e della Grande Madre, il successivo passaggio – di importanza decisiva – è quello della scissione degli opposti, adombrato nella separazione dei “Genitori Primordiali”. In questa fase che dobbiamo leggere come quella della propria evoluzione, l’Io si trova di fronte al compito di “creare il mondo” – la Bibbia parla del fatto che ad Adamo è data facoltà di “dare il nome” alle cose – cioè di separare gli opposti, identificando i vari elementi, prima confusi nell’unità uroborica. Nel mito cosmico di tutti i popoli, la luce è simbolo della coscienza: essa consente all’uomo di conoscere la realtà, dividendo il mondo in elementi antitetici: luce e tenebre, cielo e terra, giorno e notte, sopra e sotto, maschio e femmina. Interpretiamo il tutto a livello dell’evoluzione personale, l’individuo è nella fase evolutiva in cui comincia ad assumere consapevolezza del proprio Io, passando attraverso l’esperienza di essere diverso. Nasce infatti la separazione basilare tra soggetto e oggetto: ciò consente di scoprire in sé lo spirito, in contrapposizione alla materialità del corpo, cioè alla natura. Infatti nello stadio precedente – quello del bambino e, analogamente, dell’umanità primitiva – elementi quali piacere e dolore, gioia e tristezza, attrazione e repulsione, odio e amore, volontà e istinto non compaiono nettamente differenziati, il bambino non ne comprende la diversità. Siamo quindi consapevoli che, all’interno di questo processo evolutivo l’ermafroditismo presente nel bambino si dissolve, dando luogo alla contrapposizione tra maschile e femminile. Tale contrapposizione è favorita dalla cultura, che induce l’individuo a identificarsi con le tendenze della personalità del proprio sesso, anche per quanto concerne le manifestazioni secondarie, quali atteggiamenti, abbigliamento, ruoli sociali. Nello sviluppo della personalità, questo è il momento in cui si manifesta la perdita dell’innocenza, vissuta dall’individuo come colpa e accompagnata dall’esperienza della solitudine e della divisione. “Questa una fase critica, che è anche fondamentale per la crescita: “le mitologie la rappresentano simbolicamente come una decadenza, rispetto a una originaria “età dell’oro”, nella quale tutto era buono e regnava una situazione di equilibrio e di felicità”22. 21 Cassirer E., Filosofia, op.cit. 22 Neumann E., Storia delle origini della coscienza,op. cit. 26 Molte religioni parlano di un Eden, in cui ogni cosa è regolata dalla divinità. Per la tradizione giudaica, ripresa dal cristianesimo, questo stato di eterna beatitudine ha subito una drammatica rottura, a seguito del “peccato originale”, consistente nella acquisizione della coscienza del bene e del male”. Questo evento, vissuto con senso di colpa, ha come logica conseguenza il castigo, consistente nella cacciata dal Paradiso terrestre. La presa di coscienza da parte dell’uomo viene perciò considerata dalle religioni come caduta, disubbidienza, peccato, ribellione. In realtà l’uomo, a questo stadio psicologico, si libera dallo strapotere dell’inconscio e conquista la propria dimensione di persona, unica e irripetibile. Da questo momento in avanti l’essere umano è in grado di rapportarsi col mondo, prendendo per così dire le distanze da tutte le cose che lo circondano, valutandole personalmente, dando ad esse un nome, siamo nella fase in cui un soggetto riesce ad acquisire la facoltà di discriminazione, di decisione cioè di fare le proprie scelte, la figura della Grande Madre è offuscata. Soffermiamoci a riflettere ora sull’evoluzione della coscienza umana e quindi parliamo del mito dell’Eroe che è diffuso praticamente presso tutte le civiltà, seppure con modalità diverse. Esso segna un momento decisivo di passaggio dalla realtà cosmica e universale, connessa con la creazione, ai primi gradini dell’evoluzione: dal Tutto indifferenziato all’individuo, si passa cioè dalla dimensione naturistica del bambino a quella culturale e spirituale: l’uomo, nella sua essenza e nella sua individualità, è al centro di ogni cosa, la sua personalità si consolida proprio nella misura in cui prende le distanze dalla natura. L’Eroe è così l’archetipo, il modello ideale cui fa riferimento l’individuo, è il simbolo della persona che si autorealizza, esprime la propria volontà e agisce nel mondo L’emergere di questa figura, nella storia dell’umanità, coincide con la nascita e l’affermazione della civiltà di tipo patriarcale, viene così a vivere nelle tenebre la Grande Madre che è stato il fulcro della fase primordiale. Così le originarie e spontanee associazioni maschili di cacciatori si trasformano in gruppi organizzati, che danno luogo dapprima alla nascita della città-stato, quindi ad entità statali geograficamente anche assai estese: questi gruppi si organizzano sulla base di una struttura gerarchica e al loro interno prevalgono l’amicizia e l’intesa, al posto della rivalità. Gli Eroi sono spesso figli di donne mortali e di dèi immortali: tradizionalmente è il maschio che incarna la figura dell’Eroe: viene sottoposto ai riti di iniziazione, che regolano il passaggio da un gruppo di età ad un altro e prevedono di sopportare stanchezza, fame, paura, dolore, visti come prove ed ostacoli necessari per consolidare l’Io ed educare la volontà. L’Eroe è chiamato a combattere il drago, che tende a soverchiare e imprigionare e che rappresenta l’inconscio. In questo combattimento l’Eroe si trasforma, in lui avviene una glorificazione, addirittura una divinizzazione, per 27 simboleggiare il salto qualitativo che accade nella coscienza individuale quando si imbrigliano le forze inconsce. Il più famoso combattimento contro il drago, nell’ambito della cultura dell’umanità, è quello legato al mito solare, presente, con diverse varianti, in varie tradizioni: seguendo il viaggio dell’astro, l’Eroe è ingoiato dal mare in Occidente, nella notte raggiunge il punto più basso e combatte vittoriosamente il drago, per poi riemergere gloriosamente il giorno dopo ad Oriente, col nuovo sole. I draghi delle fiabe sorvegliano un palazzo incantato o una grotta misteriosa: per Freud è l’immagine della vagina della donna, mentre Jung, proseguendo l’analisi, dice: "L’eroe è un drago in quanto vuole la propria madre; ma è l’eroe vincitore del drago in quanto proviene dalla madre". La psicoanalisi riconosce nel drago la madre terribile, la Vita indifferenziata, pericolosa nel suo amore possessivo e simbiotico. "L’eroe-Dio e redentore del mondo compie ciò che è proibito e grazie a ciò acquisisce l’immortalità. Il combattimento contro il drago adombra, nella realtà, anche lo sforzo che l’individuo deve compiere per staccarsi dall’influenza dei genitori, al fine di conquistare la propria autonomia, come possiamo leggere in molte fiabe. Nelle mitologie antiche, le figure materne risultano simili tra loro, rappresentano l’aspetto istintuale della vita; invece la figura del padre cambia presso le diverse culture. E’ il padre infatti che impartisce l’educazione, trasmettendo ai singoli i valori della collettività che sono appunto variabili nel tempo. L’Eroe è individuo creativo, che entra in contrasto col padre, combattendo il vecchio sistema e i suoi valori, culturali e morali, per dare al mondo un volto nuovo e migliore. Abbiamo fino ad ora effettuato il lungo e travagliato cammino per giungere alla pienezza della propria coscienza siamo vicini alla meta finale, per fare ciò siamo passati attraverso una serie di grandi miti, comuni praticamente a tutta l’umanità: dall’Uroboros alla Grande Madre, dalla Scissione degli opposti all’Eroe. Ė l’Eroe che, avendo ormai acquisito la propria totale autonomia, ha soltanto bisogno di realizzarsi concretamente e compiere la propria evoluzione psicologica attraverso una esperienza forte: questo avviene con la lotta per conquistare il “tesoro”, come aspetto del mito della trasformazione. Il tesoro è qualcosa di prezioso e difficile da ottenere: può trattarsi della prigioniera da liberare, come di oro, pietre preziose, acqua della vita, coppa magica, elisir di lunga vita, mantello volante, erba che guarisce, anello dei desideri, pietra filosofale. Ogni mitologia ha un suo specifico simbolo che rappresenta il tesoro. La prigioniera da liberare costituisce la versione più comune: alla fine essa sposa l’Eroe che l’ha liberata e ciò rappresenta il perfezionamento del rituale 28 della fertilità. Ma non basta. Oltre all’aspetto relativo alla scoperta dell’Eros, vi è anche l’incontro col Tu, cioè con l’altro e, più in generale, col mondo. Il combattimento col drago simboleggia la tappa finale del processo di trasformazione del maschile nei confronti del femminile: il maschile si separa definitivamente dall’archetipo della Madre, l’uomo si unisce alla donna dando origine alla famiglia; il femminile non esercita più il controllo su quello che è uscito dal suo grembo, così il percorso evolutivo, la crescita individuale è completa. In talune mitologie la lotta dell’uomo contro il drago è assecondata da una figura femminile (Atena, Medea, Arianna), che in questo caso evidenzia il carattere non sessuale, ma soccorrevole e spirituale, da sorella e non da compagna. Gli aspetti naturali in cui l’uomo incontra la donna sono infatti diversi: madre, sorella, sposa, figlia. Ognuna di queste figure ha una funzione specifica, anche se esse possono comparire variamente combinate. Il combattimento può aver luogo più volte nella vita, in età diverse: nella fase infantile, in quella puberale e nella seconda metà dell’esistenza. La prigioniera liberata dall’Eroe rappresenta infatti il nuovo, quindi un momento di sviluppo decisivo della coscienza, se questo combattimento fallisce, l’individuo (maschio o femmina) non riesce a liberarsi dalla “tirannia” dei genitori e ciò può essere causa, oltre che di nevrosi, anche dell’incapacità di stabilire un rapporto con una persona dell’altro sesso. Per giungere alla vittoria sulla tirannia dei genitori i processi interpersonali dell’inconscio si trasformano in processi psichici interni all’individuo, ma questo presuppone che l’Eroe riesca innanzitutto ad incontrare la propria Anima e quindi a riscattarla, valorizzando il lato femminile che è in essa e che presiede ad ogni atto creativo. A questo proposito possiamo affermare che “Con l'emancipazione dell'Io, la separazione dei genitori del mondo, lo smembramento del drago originario, l'uomo si pone per la prima volta come figlio libero e immerso nella luce, e nasce come personalità dotata di un Io autonomo”23. Ricordiamoci che il mondo comincia solo con l'avvento della luce, che costella l'opposizione cielo-terra quale simbolo fondamentale di tutte le altre opposizioni. Prima « le tenebre non avevano limiti", come dice il mito dei Maori. Con il sorgere del sole o, come dice il mito egizio, con la creazione dello spazio atmosferico, che separa il sopra dal sotto, comincia il giorno dell'umanità, e l'universo diventa visibile con tutti i suoi contenuti. 23 Neumann E., Storia delle origini della coscienza,op. cit. 29 Giorno e notte, davanti e dietro, sopra e sotto, dentro e fuori, lo e Tu, maschio e femmina sorgono in questo sviluppo degli opposti e si differenziano dallo stato di commistione originaria, e anche le opposizioni di sacro e di profano, di buono e di cattivo vengono ora ad occupare il loro posto nel mondo. “Nell'uomo primitivo e nel bambino l'esterno e l'interno non sono ancora separati, così come non sono separati il male e il bene. Il compagno immaginato con la fantasia è contemporaneamente reale e irreale, e l'immagine del sogno è reale quanto la realtà esterna”. Così anche nello stadio in cui il figlio separa i genitori primordiali,cioè nello stadio del combattimento contro il drago, ci troviamo di fronte non solo a un nuovo contenuto, ma anche a un nuovo livello di emotività. L'azione di dividere i genitori primordiali è per l'Io un combattimento, un atto creativo. La separazione dei genitori primordiali non si limita a interrompere la coabitazione originaria e a spezzare il perfetto equilibrio cosmico simbolizzato dall'Uroboros, anche se già questo, assieme a ciò che abbiamo chiamato la perdita originaria, potrebbe bastare a produrre il senso di colpa primario, appunto perché lo stato uroborico, come abbiamo detto, è per sua natura uno stato di completezza e di totalità che abbraccia il mondo e l'uomo. La separazione è simbolicamente identica all'uccisione, al sacrificio, allo smembramento e alla castrazione. Nella mitologia, infatti, gli episodi in cui il dio-figlio castra il vecchio dio-padre sono altrettanto frequenti quanto quelli in cui egli taglia a pezzi il drago originario e con quei pezzi costruisce il mondo. È naturale che quando diventa cosciente e acquista un Io, l'uomo si senta spaccato in due, dato che c'è una parte di lui che si oppone violentemente al processo di divenire cosciente. Lo stadio della separazione dei genitori del mondo, in cui comincia l'indipendenza dell'Io e della coscienza e nasce il principio degli opposti, è dunque anche lo stadio della crescita del maschile. La coscienza egoica si pone in opposizione maschile all'inconscio femminile. L’uomo si sente attratto dal femminile capace di trasformazione, perché, oltre l’archetipo della Grande Madre, incontra la figura dell’Anima. L’Anima, infatti, come figura femminile interiore dell’uomo, muove e spinge alla trasformazione, incoraggia il maschile ad affrontare nuove avventure dello spirito, ad agire e creare nel mondo esterno ed interiore. L’Anima, se pure in parte è ambivalente perché legata all’uroboro materno, comunque si trasforma e trasforma, prepara all’Io-eroe nuove prove da affrontare che appartengono alla relazione con il maschile, è mediatrice tra mondo della coscienza maschile e mondo elementare dell’inconscio. La figura dell’Animus come guida della psiche esercita l’effetto corrispondente sul femminile. L’Anima assume carattere trasformatore del femminile, solo quando la donna è consapevole di questo suo potere e diventa capace di una relazione genuina con il partner. Solo con la separazione dei 30 genitori primordiali il mondo, come dice il Midrash giudaico, è creato nella dualità, cioè nell'opposizione. Questa separazione si basa sulla fondamentale scissione tra una parte conscia della personalità, che ha per centro l'Io, e una parte più estesa inconscia. L'Io e la coscienza si identificano sempre con un lato della opposizione e lasciano l'altro nell'inconscio, di volta in volta impedendogli di emergere, oppure reprimendolo consapevolmente, o ancora rimuovendolo, cioè escludendolo dalla coscienza senza la consapevolezza e di farlo. Nelle religioni l'atto primordiale, la separazione dei genitori del mondo, riceve una formulazione teologica. Esse cercano di dare una motivazione razionale ed etica all'effettivo sentimento di mancanza che accompagna l'Io nella sua emancipazione, interpretando come peccato, caduta, ribellione e disobbedienza quel che in realtà è l'atto liberatore fondamentale dell'uomo, la sua liberazione dallo strapotere dell'inconscio e la sua autoaffermazione come Io, coscienza e individuo. Ma quest'azione, come ogni azione e ogni liberazione, non va disgiunta da un sacrificio e quindi da una sofferenza, e proprio per questo è così importante e difficile decidere di compierla questa divisione non viene vissuta solo come una sofferenza passiva e come una perdita, bensì come un'azione attivamente distruttiva. La separazione è simbolicamente identica all'uccisione, al sacrificio, allo smembramento e alla castrazione. Diventare cosciente di sé, diventare cosciente in genere, comincia con l'atto di dire “no" all'Uroboros, alla Grande Madre e all'inconscio. E quando studiamo gli atti attraverso i quali si costituiscono l'Io e la coscienza, dobbiamo riconoscere che sono in un primo momento tutti atti negativi. È naturale che quando diventa cosciente e acquista un Io, l'uomo si senta spaccato in due, dato che c'è una parte di lui che si oppone violentemente al processo di divenire cosciente, egli si sente in preda al dubbio, e, finché l'Io è ancora acerbo, ciò può condurlo alla disperazione e al suicidio, che significa sempre un'uccisione dell'Io e un'automutilazione che culminano con la morte nella Grande Madre . L'Io adolescente non è ancora sicuro di sé, e non lo è perché internamente è diviso in due opposti sistemi psichici, uno dei quali, il sistema della coscienza, con cui l'Io si identifica, è ancora debole, immaturo e consapevole solo confusamente del significato del suo proprio principio. A questo punto pensiamo quindi che l’uomo debba scoprire la sua parte inconscia cioè deve passare sempre attraverso la sfera dell’«anima», per scoprire la sua totalità e incontrare la donna (Eros), “ per non essere costretto a rincorrere come un bambino, la donna che lo sopravanza”.(Jung) Ma è evidente che all’uomo (Logos) la sfera dell’Anima sembri inquietante e pericolosa, perché l’Eros spinge all’unione con gli altri e nel rapporto con il femminile trasforma il maschile. 31 Per l’uomo la completezza e la trasformazione personale nasce dallo sforzo di compiere uno slancio nella sfera dei sentimenti alla scoperta della sua Anima, nella donna la lotta degli opposti si attua oltre che tra il Logos e l’Eros anche in un conflitto tra quelle che da molti studiosi sono definite le «qualità lunari, bianche e nere», che si identificano nell’essere madre e amante, spirito e corpo, Eva e Lilith. Concludiamo la prima tappa di questo nostro viaggio ponendo le basi per eventuali ulteriori approfondimenti, visto che lo scopo di questi interventi non è esaurito, ma solo accennato visto che siamo ancora alla scoperta del femminile nella sua evoluzione. Logos – Eros Bianca – Nera Madre – Amante Spirito – Corpo Eva - Lilith