FRAMMENTI
Riflessioni tra mito, leggenda e fiaba alla
scoperta dell’archetipo femminile.
A cura di Giulia Gentile
2
Premessa
Quello di cui parlerò in questi incontri deriva da elementi scaturiti da
studi e riflessioni personali che ho curato e approfondito negli anni, partendo
da una base di preparazione universitaria unita ad un grande interesse
personale.
L’incontro, nell’ambito delle conversazioni di filosofia, con Paolo Pacifici,
la collaborazione che abbiamo instaurato in questi anni, al di là della stima e
dell’amicizia, ci ha fatto scoprire un comune interesse su alcuni punti cardine
del pensiero filosofico: il mito e tutti gli studi che intorno ad esso si sono
sviluppati, fino a giungere alla lettura psicanalitica del mito e alla presenza e al
ruolo della figura femminile nel mito, nella leggenda e nella fiaba.
Questi interventi non hanno la pretesa di dare risposte o di effettuare
verifiche, ma vogliono narrare, restituire immagini e sollecitare emozioni.
Potrei chiamarlo un viaggio tra miti e leggende per scoprire l’inconscio
personale e collettivo attraverso varie epoche e differenti letture alla
scoperta dell’Anima e dell’Animus.
Per comprendere questo viaggio è importante definire la partenza,
comprendere dove è il punto da cui l’uomo ha mosso i primi passi del suo
pensiero per poi comprendere il percorso nella mente dell’uomo, quindi quello
che ho voluto intraprendere è un percorso di conoscenza della figura
femminile e maschile sempre più profondo, sempre più vivo.
Filosofia e mito
Per iniziare il ns. viaggio cominciamo a parlare necessariamente di
filosofia che (dal greco (filèin), "amare", e (sofìa), "sapienza", ossia "amore
per la sapienza") è un campo di studi che indaga sul senso del mondo e
dell'esistenza umana, e, più specificatamente, il tentativo di studiare e
definire le possibilità e i limiti della conoscenza.
Aristotele nel Protreptico o Esortazione alla filosofia1 diceva:
«Chi pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non si
debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare;
dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla
vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloqui.»
1
Il Protreptico o Esortazione alla filosofia, non è giunta a noi ma la conosciamo dalle numerose citazioni
contenute nell'opera di eguale titolo di Giamblico, dedicato a Temisone, re di una città di Cipro, dovette
essere scritto da Aristotele intorno al 350 a.C.
Si trattava, appunto, di un'esortazione alla filosofia, essendo questa il più grande dei beni, dal momento
che ha per scopo se stessa, mentre le altre scienze hanno per fine qualcosa di diverso da sé.
3
Il bisogno di filosofare, secondo Aristotele, nascerebbe dalla
"meraviglia": «Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in
origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di
fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco,
giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti
i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la
generazione dell'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di
meraviglia [thaumazon] riconosce di non sapere; ed è per questo che anche
colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito
da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno
filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere
solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica, ovvero dal
senso di stupore e di inquietudine sperimentata dall'uomo quando, soddisfatte
le immediate necessità materiali, comincia ad interrogarsi sulla sua esistenza e
sul suo rapporto con il mondo».
Sin dai tempi più antichi gli uomini hanno sentito l'esigenza di
interrogarsi sul modo in cui poteva essersi formato l'universo, sulla nascita del
genere umano e sulle cause dei fenomeni naturali che accompagnavano, ma
spesso anche sconvolgevano, la loro vita. Non possedendo ancora gli strumenti
del pensiero filosofico e scientifico, essi si affidarono alla fantasia,
personificarono e divinizzarono le forze benigne e maligne da cui si sentivano
circondati e diedero vita a un vasto patrimonio di storie, per loro sacre e
veritiere, che sono giunte a noi attraverso le più svariate fonti letterarie e
artistiche.
I miti, racconti terribili e meravigliosi, che narrano le origini
dell'universo, degli uomini e degli dèi e che hanno per protagonisti esseri
soprannaturali, prendono il nome, dal greco "mythos", che originariamente
designava la «parola» e in particolare la «parola solenne e sacra di un dio».
Il mito non è un racconto del tutto favoloso e inverosimile, ma racchiude
una sua «verità», poiché è un modo di conoscenza e di appropriazione della
realtà tipico delle società primitive, antiche e moderne.
Dalle ricerche effettuate possiamo ritenere che i miti avessero anche la
funzione di spiegare l'origine di un certo rituale, di un tempio, di una festa
(sono questi i miti eziologici, dal greco "aítion" che vuol dire «causa») ed erano
strettamente collegati alle cerimonie religiose. Anche se risalgono a epoche
lontanissime dalla nostra, i miti con le loro vicende sovrumane, metamorfosi
animalesche, epiche battaglie e agghiaccianti fatti di sangue, continuano a
esercitare un fascino al quale non è facile sottrarsi.
La parola mito (mythos), ha anche un equivalente nel latino fabula, ma
l'orientamento prevalente attuale è quello di far derivare mythos dal verbo
myo, che vuol dire: essere racchiuso, stare chiuso in se stesso.
4
Questo aspetto verrà ampiamente analizzato in seguito in questa ricerca.
Del resto da parte di molti studiosi il mito viene interpretato come
autentica conoscenza o comunque come una narrazione che possiede elementi
di realtà. In questo senso dobbiamo pensare al mito come alla sapienza propria
elaborata da una civiltà, un suo elemento di coesione, di memoria storica.
Se andiamo ad enucleare il mito nella sua pienezza lo scopriamo come una
tipica fonte di modelli di comportamento e regole dell'agire e potremmo
azzardare nel dire che è nato dal bisogno di spiegare le leggi della vita e della
natura ed è stato uno strumento di conoscenza per i popoli, tramandato di
generazione in generazione e trasformato di volta in volta con finali diversi o
con particolari fantasiosi.
In quasi tutte le società e culture è esistita una narrazione mitologica
dell'origine dell'essere umano e dell'universo, quindi il mito deriva dall'umana
necessità di rispondere alla domanda: "da dove veniamo?"
È legittimo quindi supporre con alcuni studiosi che il mito possieda
un'intelaiatura che viene sempre ripresa e modificata, fino anche ai giorni
nostri e che è flessibile dal momento che ha diversi significati e si apre a
plurali interpretazioni, modificandosi nelle continue riprese.
Non a caso Campbell nell’ ”Eroe dai mille volti” scrive: « I miti sono fioriti
tra gli uomini in tutti i tempi, in tutte le regioni della terra, ed al loro
vivificante afflato si deve tutto ciò che l’attività fisica e intellettuale
dell’uomo ha prodotto»2.
Lévi-Strauss nella “La struttura dei miti”, in Antropologia strutturale”
afferma: <<Taluni pretendono che ogni società esprima, nei suoi miti,
sentimenti fondamentali come l’amore, l’odio o la vendetta, che sono comuni
all’intera umanità. Per altri, i miti costituiscono tentativi di spiegazione di
fenomeni difficilmente comprensibili: astronomici, meteorologici, ecc. La
mitologia sarà considerata come un riflesso di una struttura sociale e dei
rapporti sociali»3.
Cominciamo a capire quindi che lo studio dei miti ci porta a constatazioni
contraddittorie, perché tutto può succedere in un mito; sembra che in esso la
successione degli avvenimenti non sia subordinata a nessuna regola di logica o
continuità, ma questi miti, si riproducono con gli stessi caratteri e spesso gli
stessi particolari nelle diverse regioni del mondo; allora la riflessione si fa più
profonda il desiderio di comprendere fino in fondo cosa c’è dietro il mito
diventa oltremodo interessante ed emozionante.
Il valore del mito, in quanto mito persiste, infatti il mito viene percepito
come mito da ogni lettore in tutto il mondo; la sostanza del mito non sta nello
2
3
Campbell j, L’eroe dai mille volti, Guanda, Milano, 2004
Strauss C., Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 1968
5
stile, né nel modo di narrazione, né nella sintassi, ma nella storia che viene
raccontata del resto non è esagerato affermare che le inesauribili energie del
cosmo si manifestano nella cultura umana proprio attraverso il mito.
Se cerchiamo di scavare fino in fondo ci rendiamo conto che le religioni,
le filosofie, le arti, le forme sociali dell’uomo primitivo e storico, le scoperte
scientifiche e tecniche, gli stessi sogni che popolano il sonno, scaturiscono
indistintamente dalla fonte magica del mito.
Infatti, i simboli che fanno parte della mitologia non si fabbricano, non si
possono inventare, controllare, o abolire per sempre: sono produzioni
spontanee della psiche e ciascuno ne conserva intatto il potere.
Cerchiamo ora di vedere quali sono le specificità del mito attraverso una
comparazione con le altre forme narrative come la leggenda e la fiaba con cui
spesso il mito è stato confuso.
Mito-leggenda-fiaba
Il mito non è leggenda perché la leggenda parte da avvenimenti storici
realmente accaduti, in un tempo definito, a cui si sono aggiunti elementi
fantastici e/o irreali, mentre nel mito il tempo non è mai precisato spesso gli
eventi hanno luogo in un remoto passato, all'inizio dei tempi o in ere
primordiali.
Jacob Cristillin, scrittore e storico, in “Leggende della valle del Lys”
scrive : «La leggenda non è poi così lontana dalla verità; è la storia non ancora
messa a punto».
La leggenda è un tipo di racconto molto antico, come il mito e la fiaba, e
fa parte del patrimonio culturale di tutti i popoli, appartiene alla tradizione
orale e nella narrazione mescola il reale al meraviglioso.
La parola "leggenda" deriva dal latino legenda che significa "cose che
devono essere lette", "degne di essere lette" e con questo termine, un tempo,
si voleva indicare il racconto della vita di un santo e soprattutto il racconto dei
suoi miracoli o di un personaggio importante, oggi la parola leggenda indica
qualsiasi racconto che presenti elementi reali, ma trasformati dalla fantasia,
tramandato per celebrare fatti o personaggi fondamentali per la storia di un
popolo, oppure per spiegare qualche caratteristica dell'ambiente naturale e
per dare risposta a dei perché.
Le leggende si rivolgono alla collettività, come i miti e spiegano l'origine
di qualche aspetto dell'ambiente, le regole e i modelli da seguire, certi
avvenimenti storici, o ritenuti tali, allo scopo di rinsaldare i legami
d'appartenenza alla comunità.
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Le leggende popolari non sono mai inventate da una sola persona, ma alla
loro invenzione concorrono sempre più persone che, con il trascorrere del
tempo, trasformano un fatto vero in un fatto sempre più leggendario.
Le leggende non raccontano mai dei fatti puramente inventati ma
contengono sempre una parte di verità che viene trasformata in fantasia
perché gli uomini vogliono scoprire sempre la causa di certi fatti che non
conoscono bene e pertanto cercano di spiegarli con l'immaginazione, inoltre la
leggenda può variare nel tempo, il racconto originario può essere modificato,
ampliato, ridotto ecc.
Ogni popolo crea le sue leggende per celebrare le proprie origini, i propri
eroi, ma se gli interessi storici mutano, se si ritiene che celebrare quelle
origini non dia lustro e gloria, allora la leggenda si può modificare. Dal mito si
può passare alla leggenda, ma quando questo accade questi motivi, queste
immagini, questi personaggi perdono gran parte della loro sacralità.
La leggenda a differenza del mito può avere tempo lungo o breve e può
anche "morire", venendo soppiantata da altre che vengono create nelle nuove
epoche storiche e a differenza del mito, non è necessariamente considerata
vera dalle persone che la raccontano. La differenza fra miti e leggende sta
anche nei protagonisti: nel mito si trovano più dei e dee, nella leggenda invece
troviamo personaggi storici come Carlo Magno, El Cid, Billy the Kid, Guglielmo
Tell, Romolo e Remo, il sacro Graal etc. Accanto ad essi però compaiono
personaggi di fantasia e creature immaginarie come draghi, angeli e demoni e
inoltre, anche se una leggenda si svolge in epoche storiche e non primordiali,
contiene elementi fantastici.
Il mito non è fiaba, perché non ha intenti dilettevoli, di intrattenimento.
Il mito ha comunque dei punti di contatto con la fiaba.
La fiaba è “un mito decaduto”:
1) i protagonisti non sono più Dei ed Eroi, ma Re e Regine, Principi e
Principesse.
2) al meraviglioso divino subentra il magico umano con maghi, streghe,
gnomi…dotati di poteri soprannaturali!
Le fiabe sono un tipo di narrativa originaria della tradizione popolare,
inizialmente erano racconti tramandati oralmente da generazione a
generazione; solo in un secondo tempo sono state trascritte.
Attraverso incanti, meraviglie e piacevoli paure, chi legge o ascolta
ritrova se stesso, i conflitti che vive nel proprio intimo, le difficoltà contro cui
deve lottare, i sacrifici che deve fare. Nella fiaba si ritrovano semplificati i
grandi problemi della vita cui, sorridendo, viene sempre fornita una soluzione,
a parte rare eccezioni, la caratteristica fondamentale della fiaba è il lieto
fine.
7
In tempi diversi vari autori hanno raccolto le fiabe dei propri Paesi e le
stesse sono diventate oggetto di studi e ricerche a vari livelli; gli studiosi del
folklore hanno ricercato in esse le credenze e le tradizioni popolari dei popoli;
gli antropologi, che studiano le culture umane, hanno individuato nelle fiabe
segni dell’organizzazione sociale, familiare e modo di pensare di antiche
culture povere e tribali, mettendo in relazione le difficili prove che gli eroi
delle fiabe affrontano con i riti di iniziazione dei giovani ancora in uso nelle
società tribali.
Dobbiamo tenere presente che anticamente i ragazzi, raggiunta una certa
età, venivano sottoposti a prove difficili, da un punto di vista fisico e
psicologico, che facevano parte di un rituale determinante per il passaggio
all’età adulta. Solo chi dimostrava abilità e coraggio poteva essere accettato
come membro stimato della comunità adulta: lo stesso accade ai protagonisti
di molte fiabe che affrontano prove difficili e pericolose per ottenere un
premio finale ( il ritorno a casa, la ricchezza, un aspetto bello, l’amore e un
felice matrimonio, …).
Nella fantasia di chi tramandava i racconti, i giovani sottoposti al rito,
sono diventati protagonisti delle fiabe, gli stregoni sono diventati personaggi
che fanno paura come gli orchi, le streghe, i mostri, i lupi e le armi, che
ricevevano i ragazzi, sono diventate i doni magici che i protagonisti delle fiabe
ricevono dagli aiutanti che incontravano.
Vladimir Propp nei suoi innumerevoli studi sulla fiaba e il mito è giunto alla
determinazione che « il mito e la fiaba differiscono non per la loro forma, ma
per la loro funzione sociale»4.
Infatti egli ritiene che la funzione sociale del mito non sia sempre la
stessa, ma dipende dal livello di cultura del popolo, inoltre“ il mito non può
essere distinto dalla fiaba dal punto di vista formale perché talvolta essi
coincidono”.
Propp studiò le origini storiche della fiaba nelle società tribali e nel rito
di iniziazione e ne trasse una struttura che propose anche come modello di
tutte le narrazioni. Egli propose uno schema, identificando 31 sequenze (note
come Sequenze di Propp) che compongono il racconto, ogni sequenza
rappresenta una situazione tipica nello svolgimento della trama di una fiaba,
riferendosi in particolare ai personaggi e ai loro precisi ruoli (ad es. l'eroe o
l'antagonista). La Morfologia della Fiaba di Vladimir Jakovlevic Propp5,
pubblicata nel 1928 a Leningrado, costituisce l'opera più importante dedicata
alla struttura del racconto fiabesco.
4
Propp V.,Le radici storiche dei racconti di fate, Einaudi, Torino, 1949
5
Propp V., Morfologia della fiaba, Leningrado,Torino, Einaudi [1928], 2000.
8
Secondo Propp, è possibile un'analisi delle forme della fiaba "con la
medesima precisione con la quale viene elaborata la morfologia delle
formazioni organiche. E se questa affermazione non può riferirsi alla fiaba in
tutto il suo insieme, è possibile tuttavia accettarla per i racconti di magia, e
cioè per le fiabe nel senso proprio della parola".
L'analisi morfologica di Propp dimostra che, nonostante i personaggi della
fiaba possano essere diversissimi, le loro funzioni sono assai poco numerose,
dove per funzione si intende "l'atto del personaggio, ben determinato dal
punto di vista della sua importanza per il decorso dell'azione". In base allo
studio dettagliato di un centinaio di fiabe tratte dalla raccolta di Afanas'ev,
Propp enuncia quattro tesi fondamentali:
1. "Gli elementi costanti, stabili, della fiaba sono le funzioni dei
personaggi, indipendentemente da chi essi siano e in che modo le assolvano.
Esse costituiscono i componenti fondamentali della fiaba".
2. "Il numero delle funzioni proprie del racconto di magia è limitato". In
totale, le funzioni individuate da Propp, sono infatti solamente 31.
3. "La successione delle funzioni è sempre la stessa". Anche se poche
fiabe contengono tutte le funzioni, ciò non infirma la legge della successione.
4. "Tutte le fiabe, per struttura, sono monotipiche"; ovvero
rappresentano innumerevoli variazioni di una serie unica per tutte le fiabe.
Lo schema generale di una fiaba secondo Propp è il seguente:
1.
Equilibrio iniziale (inizio)
2.
Rottura dell'equilibrio iniziale (movente o complicazione)
3.
Peripezie dell'eroe
4.
Ristabilimento dell'equilibrio (conclusione)
Queste sono le 31 funzioni individuate da Propp:
1.
Allontanamento: uno dei membri della famiglia si allontana da casa
- es. il principe va in guerra
2.
Divieto (o ordine): all'eroe viene imposto un divieto (es. a
Cappuccetto Rosso viene proibito di passare per il bosco)
3.
Infrazione:il divieto è infranto (es. Cappuccetto rosso passa per il
bosco)
4.
Investigazione: l'antagonista fa delle ricerche sull'eroe
5.
Delazione: l'antagonista riceve le informazioni
6.
Tranello: l'antagonista tenta di ingannare l'eroe
7. Connivenza: l'eroe cade nel tranello
8. Danneggiamento (o mancanza): l'antagonista reca danno all'eroe (o viene a
mancare qualcosa) - es. la bella addormentata è punta a causa della
maledizione di una vecchia fata
9. Mediazione: il danneggiamento o la mancanza vengono resi noti
10. Consenso: l'eroe reagisce
9
11. Partenza:l'eroe parte
12. Funzione del donatore: il donatore mette alla prova l'eroe
13. Reazione:l'eroe supera la prova
14. Fornitura: il donatore dà l'oggetto magico all'eroe
15. Trasferimento: l'eroe si trasferisce,o viene condotto sul luogo in cui si
trova l'oggetto delle sue ricerche
16. Lotta:l'eroe e l'antagonista ingaggiano direttamente la lotta
17. Marchiatura: all'eroe è impresso un marchio
18. Vittoria: l'antagonista è vinto
19. Rimozione: l'eroe viene liberato dal danno o dalla mancanza iniziale
20. Ritorno: l'eroe ritorna
21. Persecuzione: l'eroe è sottoposto a persecuzione
22. Salvataggio: l'eroe si salva
23. Arrivo in incognito: l'eroe arriva in incognito a casa o in un altro paese
24. Pretese infondate: il falso eroe avanza pretese infondate
25. Prova: all'eroe è imposto un compito difficile,una prova da superare
26. Adempimento:il compito difficile è eseguito
27. Identificazione: l'eroe viene riconosciuto
28. Smascheramento: il falso eroe o l'antagonista viene smascherato
29. Trasfigurazione: l'eroe assume nuove sembianze
30. Punizione: l'antagonista viene punito
31. Lieto fine:l'eroe ottiene il premio finale;spesso si sposa o ottiene un regno 6
Non tutte le sequenze si possono trovare in tutte le fiabe, d'altro canto
lo schema si può associare anche a racconti di altro genere: si pensi
all'Odissea per quanto riguarda le ultime sequenze.
Una funzione che ricorre spesso è lo “smascheramento del falso eroe”.
Per esempio, nella versione di Cenerentola, che si trova nella raccolta dei
Fratelli Grimm, le cattive sorellastre cercano con vari trucchi di far credere,
a turno, che una di loro era la proprietaria della scarpetta smarrita., infatti il
principe in un primo momento è tratto in inganno, ma poi le sorellastre vengono
smascherate.
Analizzando una moderna rilettura della fiaba che ha portato al suo
utilizzo a livello terapeutico possiamo evidenziare quelle che sono le
prerogative della fiaba7:
La fiaba parla dei perché, infatti la fiaba parla sempre del significato di
ciò che accade e perchè accade
6
Propp V. Morfologia della fiaba, Leningrado,Torino, Einaudi [1928], 2000
7
Santagostino P., Guarire con una fiaba, URRA, Milano, 2004
10
Le fiabe presentano sempre un problema. Nella fiaba per definizione
tutto finisce bene, ma non tutto va sempre bene. È tipico delle fiabe
presentare una situazione che, felice o meno all’inizio, ha il compito di
introdurre il dramma in cui si troverà coinvolto il protagonista.
La fiaba conduce il bambino per mano fuori da queste tremende
situazioni. Il valore della fiaba è proprio quello di presentare in termini
immaginari, quindi facilmente comprensibili al bambino, una situazione
drammatica. La fiaba presenta il problema e la soluzione del problema
utilizzando l’unico linguaggio accessibile ad un bambino, cioè quello della
fantasia.
Le fiabe sono piene di bambini: bambini abbandonati da soli nei boschi,
bambini maltrattati dalle matrigne crudeli, bambini non amati, bambini
non voluti, bambini sperduti. I bambini nelle fiabe disobbediscono
sempre ai divieti: aprono le porte che dovevano restare chiuse, vanno
dove non avrebbero dovuto andare. Così le fiabe parlano al bambino dei
problemi con cui a sempre a che fare: l’abbandono, il disamore, la
solitudine, la disobbedienza, la paura.
E nelle fiabe i bambini vincono. Sopravvivono nonostante l’abbandono dei
genitori, le matrigne cattive, le streghe crudeli e vincono soprattutto
contro i potenti: le fiabe quindi assumono per i bambini la voce della
speranza.
«Da un’analisi attenta delle fiabe si vede che in esse non ci sono solo
bambini, ma anche giovani, ragazzi, adulti e vecchi, quindi le fiabe
preannunciano le future tappe dell’esistenza, con le difficoltà che si
potranno presentare e le maniere in cui superarle. In questo senso le fiabe
sono per i bambini un corso completo di formazione alla vita»8.
Non è un caso che i bambini amino una fiaba in un determinato periodo
e vogliono sentire solo quella, perché parla del problema che al momento li
riguarda in quella fase del loro processo evolutivo.
Dall’analisi delle fiabe scopriamo che l’eroe della fiaba, il protagonista,
è sempre un personaggio positivo; a cui si oppone un personaggio negativo,
l’antagonista, che ostacola l’eroe, gli si contrappone ed è sempre cattivo.
Da una ns analisi abbiamo rilevato che le fiabe sono piene di figure
femminili negative: la matrigna, la regina malvagia, la strega che divora i
bambini. La vera madre è sempre buona e affettuosa, infatti per il bambino
la madre non può essere cattiva, gli atteggiamenti cattivi sono del suo
alter-ego, della matrigna, della madre non vera. Si assiste alla scissione
8
Santagostino P., Guarire con una fiaba, op. cit.
11
della Grande Madre, come vedremo più avanti la madre buona e la madre
cattiva, così il bambino però percepisce come sua solo la figura positiva.
Se prendiamo la figura della strega nella fiaba vediamo che
simboleggia un femminile materno distruttivo, come un utero materno che
non lascia uscire, che imprigiona e uccide, al contrario della madre positiva
che accoglie, nutre e aiuta a nascere.
Le streghe nel bosco accolgono i bambini nella loro casetta, allettanti
confortevoli, ma poi li imprigionano, li nutrono, ma per poi mangiarli.
Quindi nella fiaba il rapporto strega-bambino rappresenta i rischi di
una permanenza eccessiva di totale dipendenza del bambina dalla madre.
Ma allora che differenza c’è con la matrigna ?
La matrigna genera dolore, solitudine paura, ma anche rabbia e ciò
stimola capacità reattive, infatti il bambino riesce a superare le difficoltà
da solo.
Se prendiamo le fiabe in cui i protagonisti sono adulti o comunque non
più bambini, la figura della strega tenta di impedire uno sviluppo personale
e attivo9.
Prendiamo come esempio “La bella addormentata” vediamo che essa
non potrà continuare il suo processo di sviluppo, non prenderà coscienza di
se stessa, se non verrà risvegliata.(La principessa si punge con il fuso all’età
dello sviluppo fisico cioè alla comparsa delle mestruazioni). (Lettura)
Le trasformazioni che la strega produce sulle sue vittime sono
regressive, riportano indietro nella scala dell’evoluzione: il principe diventa
ranocchio, i servitori porci ecc. Invece le trasformazioni operate dalle Fate
vanno nella direzione opposta, le fate aiutano i protagonisti a realizzarsi:
Pinocchio diventa un bambino, Cenerentola va al ballo e incontro il Principe.
Il bacio del principe rappresenta l’incontro positivo tra maschile e
femminile che porta alla rinascita, alla conquista di un equilibrio interiore,
siamo all’incontro tra Anima e Animus.
Potremmo dire con la Santagostino che «Cadere prigionieri della
strega nelle fiabe, rappresenta il pericolo della coscienza di cadere in balia
delle forze distruttive dell’inconscio».
L’inconscio si colloca nell’ambito di un simbolismo femminile, notturno,
sotterraneo, solo in rapporto al simbolismo diurno, solare maschile della
coscienza.
9
Santagostino P., Guarire con una fiaba, op. cit.
12
Jung, mito e archetipo
Secondo Jung le fiabe sono "l'espressione più pura dei processi
psichici dell’inconscio collettivo e rappresentano gli archetipi in forma
semplice e concisa ".
La storia raccontata in una fiaba è ancora qualcosa di più importante:
è la storia della psiche che, attraverso una serie di eventi, a volti pieni di
rischi e pericoli, raggiunge una meta, un traguardo, un obiettivo. La fiaba
diventa la metafora della storia della vita della psiche: narra le vicende, le
peripezie, i tormenti, i dolori attraverso i quali la psiche giunge infine alla
sua piena maturazione, liberandosi dai complessi che l'avvolgono e la
mettono a dura prova, e nutrendosi della forza degli archetipi che, invece
di distruggerla, finiscono con il fortificarla, riportandola a vita autentica.
Ogni cosa può funzionare da simbolo, ma alcuni simboli hanno una ricorrenza
universale, questo rimanda all'esistenza di quelli che Jung chiama archetipi,
cioè letteralmente modelli.
Gli archetipi non sono idee, ma possibilità di rappresentazioni, ossia
disposizioni a riprodurre forme e immagini virtuali, tipiche del mondo e
della vita, le quali corrispondono alle esperienze compiute dall' umanità
nello sviluppo della coscienza. Essi si trasmettono ereditariamente e
rappresentano una sorta di memoria dell'umanità, sedimentata in un
inconscio collettivo , non puramente individuale, ma presente in tutti i
popoli, senza alcuna distinzione di luogo e di tempo: la mia vita è la storia di
un'autorealizzazione dell'inconscio , afferma Jung 10.
Gli archetipi lasciano le loro tracce nei miti, nelle favole e nei sogni,
che contrariamente a quanto pensava Freud, non sono appagamento di
desideri puramente individuali legati alla sessualità infantile, ma
espressioni dell'inconscio collettivo. Un'analisi comparata di questi
materiali è in grado di portarli alla luce, ogni individuo li avverte come
bisogni e li può esprimere in modo storicamente variabile, secondo le
diverse situazioni etniche, nazionali o familiari.
A proposito dell'inconscio collettivo, dice Jung in una conferenza
tenuta nel 1936:
L'inconscio collettivo è una parte della psiche che si può distinguere in
negativo dall'inconscio personale per il fatto che non deve, come questo, la
sua esistenza all'esperienza personale e non è perciò un'acquisizione
personale. [...] l'inconscio personale consiste soprattutto in "complessi"; il
contenuto dell'inconscio collettivo, invece, è formato essenzialmente da
"archetipi". Il concetto di archetipo, che è un indispensabile correlato
10
Jung C.G., La psicologia dell’incontro, Boringhieri, Torino, 1968
13
dell'idea di inconscio collettivo, indica l'esistenza nella psiche di forme
determinate che sembrano essere presenti sempre e dovunque”.
Carl Gustav Jung (Kesswill, 26 luglio 1875, Bollingen, 6 giugno 1961) è stato uno
dei padri della psicologia del profondo.
Il suo approccio, discostandosi da quello del suo maestro Sigmund Freud,
apriva la ricerca psicanalitica dalla storia personale del singolo alla storia
collettiva dell’umanità, che nel singolo si concretizza e prosegue, così
l’inconscio non è più solo personale, prodotto dalla rimozione, ma oltre a questo
nell’individuo esiste anche un inconscio collettivo.
Per Jung l’inconscio collettivo non è un serbatoio di materiale rimosso, come
affermava Freud, ma comprende in sé tutti i contenuti dell’esperienza psichica
umana, sia positivi che negativi e costituisce la struttura connettiva universale.
L’inconscio collettivo non è un pozzo dove vengono raccolti i ricordi, le
emozioni, le memorie personali, ma è formato da associazioni mentali ed
emotive, immagini, figure chiamate archetipi, connessi a temi universalmente
condivisi.
Miti ed archetipi sono dentro di noi ed il loro recupero ci aiuta a conoscerci
più profondamente e ad espandere la nostra Identità comprendendo la
complessità umana11.
L’Inconscio collettivo contiene le esperienze emozionali di tutta l’umanità, gli
archetipi :
La Persona- maschera della psiche collettiva
L’Ombra- lato animale della natura umana
L’Anima- archetipo femminile nell’uomo
L’Animus- archetipo maschile nella donna
La Grande Madre
l’Eroe
Il vecchio saggio, ecc.
La Persona è un “segmento dell’inconscio collettivo[..] è un complicato sistema
di relazioni tra l’individuo e la società, una specie di maschera che serve da un
lato a fare una determinata impressione sugli altri, dall’altro a nascondere la
vera natura dell’individuo”12
In un convegno nel 1928 Jung a proposito di questo archetipo ebbe a dire che
“C’è della gente che crede sul serio di essere ciò che rappresenta”.
11
12
Jung C.G., La psicologia dell’incontro, Boringhieri, Torino, 1968
Jung C. G., Gli archetipi dell'inconscio collettivo, in Opere vol. 9, Bollati Boringhieri Editore, Torino
1997.
14
L’Ombra con Jung la possiamo definire “la parte inferiore della personalità, la
somma di tutte le disposizioni personali e collettive che, a causa della loro
inconciliabilità con la forma di vita scelta coscientemente, non vengono vissute
e formano una personalità parzialmente e relativamente autonoma”. L’incontro
con l’Ombra è la prima tappa necessaria per la realizzazione profonda
dell’individuo. L’ombra è la nostra parte oscura, rimossa, inconscia, che risale
nelle sue origini fino agli antenati animali: è “ciò che una persona non desidera
essere”. "Ognuno di noi è seguito da un'ombra. Meno questa è incorporata nella
vita conscia dell'individuo tanto più è nera e densa e, del resto, confrontarsi
con la propria ombra significa prendere coscienza della propria natura in modo
critico, senza riserve. Difficile e doloroso è accoglierla come la nostra parte
notturna. Dobbiamo comunque tener presente che accanto all’Ombra personale
c’è anche quella collettiva che rappresenta il lato oscuro dell’umanità, che
corrisponde a ciò che si oppone all’evolversi del mondo, che tende a riportare
indietro.
L’archetipo dell’Anima è l’immagine del femminile che ogni essere umano di
sesso maschile ha interiorizzato, è una componente inconscia della personalità
propria dell’uomo.
L’archetipo dell’Animus è l’’mmagine del maschile che ogni essere umano di
sesso femminile ha interiorizzato, quindi è la componente inconscia della
personalità della donna.
L’Anima è il principio dell’eros e quindi si correla col modo con cui l’uomo si
rapporta alle donne, l’animus è il logos, la razionalità.
Gli stadi mitologicidello sviluppo della coscienza
Dall’UROBOROS alla separazione dei genitori
Seguiremo in questo ns. percorso ora il pensiero di Neumann, seguace di
Jung, che nel testo “Storia delle origini della coscienza”13 elabora una storia
dello sviluppo della coscienza e rappresenta il mito come una fenomenologia di
tale sviluppo, così Neumann è pervenuto a conclusioni, che riteniamo tra le più
importanti mai raggiunte in questo campo.
1. Il primo ciclo del mito è il mito della creazione. In esso la proiezione
mitologica dello psichico avviene in forma cosmogonica, come mitologia
della creazione dell’Universo. Il mondo e l'inconscio predominano e
costituiscono l'oggetto del mito. L'Io e l'uomo stanno appena sorgendo;
13
Neumann E., Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1978
15
la loro nascita, i loro dolori e la loro emancipazione· costituiscono le fasi
del mito della creazione.
2. Nello stadio della separazione dei genitori del mondo il nucleo della
coscienza egoica dell'umanità si afferma in maniera definitiva.
3. Da qui si passa nel secondo ciclo, quello del mito dell'eroe, in cui l'Io, la
coscienza e il mondo umano diventano consapevoli di sé e della propria
dignità.
Per Jung l’Io è la mente cosciente da non confondere con l’Ego che è il
complesso centrale della consapevolezza. Il complesso dell’Ego comincia a
formarsi quando ci stacchiamo dall’altro primario, che in genere è nostra
madre; cioè, quando ci stacchiamo dal seno.
E se da un lato questa separazione è necessaria per la formazione
dell’individuo, dall’altro è molto dolorosa, perché rappresenta la perdita di
quella primitiva esperienza di unità e sensazione di appartenenza.
L'inizio del mito della creazione può essere letto in due modi diversi:
all'interno dell'umanità come origine della storia dell'umanità e all'interno del
singolo come origine dell'infanzia. L'autorappresentazione degli albori della
storia dell'umanità può essere colta nella descrizione che ce ne fanno i rituali
e i miti. L'origine dell'infanzia, così come quella dell'umanità, si manifesta nella
immagine che sale dal profondo dell'inconscio e che si rivela all'Io già
individualizzato.
Cassirer ha dimostrato e illustrato come in tutti i popoli e in tutte le
religioni la creazione venga presentata come creazione della luce. Pertanto
l'autentico 'oggetto' della mitologia della creazione è la nascita della
coscienza, che si presenta come luce in opposizione all'oscurità dell'inconscio.
Cassirer ha anche dimostrato che nei differenti stadi della coscienza
mitologica la prima cosa che viene scoperta è la realtà soggettiva, la
formazione dell'Io e dell'individuo. L'inizio di questo sviluppo, mitologicamente
visto come inizio del mondo, è l'avvento della luce, che solo permette di
cogliere il divenire del mondo14.
Analizzando l’opera di Neumann, rileviamo che la sua teoria si fonda tutta
sull’assunto che lo sviluppo dell’umanità e quello dell’individuo procedano in
maniera analoga verso fasi di differenziazione sempre maggiore dalla matrice
originaria (matrice inconscia) da cui proveniamo, per giungere ad una struttura
più stabile della coscienza senza mai perdere contatto con le origini.
L’archetipo per Neumann è una immagine interiore che agisce in modo
energetico sulla psiche umana. Egli paragona gli archetipi agli organi fisici e li
vede come entità energetiche che sottostanno e presiedono alla maturazione
della personalità esattamente come le strutture biologiche e ormonali
14
Cassirer E., Il pensiero mitico, La Nuova Italia, Firenze, 1988
16
sottostanno alla struttura fisica. In tal modo, l’evoluzione della coscienza
individuale avviene per tappe di differenziazione dall’inconscio fino a giungere
alla formazione della coscienza.
Il problema dell'inizio è anche il problema della provenienza, dell'origine
e del destino, cui la cosmologia e il mito della creazione hanno cercato di dare
continuamente risposte nuove e diverse. Il problema dell'origine, della
provenienza del mondo, è sempre anche il problema della provenienza
dell'uomo, della coscienza e dell'Io, è la domanda fatale: "Da dove vengo io?",
che si pone ogni essere umano quando giunge alla soglia della presa di
coscienza di sé.15
Le risposte mitologiche a questa domanda sono simboliche, come tutte le
risposte che provengono dal profondo della psiche, dall'inconscio, teniamo
presente che una risposta simbolica non va mai capita in senso concreto e non
va mai presa in maniera veramente letterale, possiamo trovare varie letture e
interpretazioni di un simbolo, allora il simbolo è un'analogia, un'equiparazione
per cui ha in sé una ricchezza di significato, ma anche una indeterminatezza.
Il primo stadio di sviluppo della coscienza per Neumann è quello in cui l’Io
è contenuto nell’inconscio ed è quindi totalmente indifferenziato, infatti
Neumann lo chiama lo stadio uroborico.
L’individuo è totalmente contenuto e inconscio lo potremmo paragonare
all’universo prima della creazione (che rappresenta la separazione tra il cielo e
la terra), ovvero della separazione tra il maschile e il femminile – conscio ed
inconscio. Il simbolismo è quello del cerchio, simbolo dell’uovo cosmico in cui
tutto è contenuto ma nulla può nascere se non subentra la luce o la coscienza.
La condizione uroborica in questo senso, è la dimensione naturale inconscia,
che è anche l’aspetto del materno, è la fase pre-egoica in cui il bambino
psicologicamente è ancora contenuto nell’inconscio materno, non vi è ancora lo
spiraglio di luce che viene dall’esterno.
Da questo stadio il bambino comincia ad uscire pian piano, è un Io
embrionale, piccolo, debole e fragile, dipendente dalla Grande Madre che
contiene un aspetto costruttivo ed accogliente, ed uno distruttivo: in termini
psicologici possiamo dire che siamo in una fase di forte ambivalenza di
contrasto perché, da una parte esiste una spinta progressiva verso l’esterno,
ed una altrettanto forte spinta regressiva, questo porta il bambino a restare
in una situazione di contenimento psichico.
A livello evolutivo questa fase la consideriamo quella in cui, dalla
primordiale incoscienza nell’uomo, emerge una fragile coscienza che però è
ancora labile e piena di paure.
15
Neumann E., Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1978, p.29
17
( Ricordate quanto abbiamo detto a proposito delle fiabe e delle figure
femminili che le popolano?)
Uno degli aspetti simbolici della perfezione degli inizi è il cerchio, a cui
sono associati la palla, l'uovo e il rotundum, il “rotondo” dell'alchimia.
Allarghiamo il nostro pensiero e vediamo che il rotondo è l'uovo, l'Uovo
Cosmico filosofico, il luogo iniziale e germinale, da cui sorge il mondo, ed è
anche il perfetto che contiene in sé gli opposti e li contiene in quanto principio,
perché questi contrari non si sono ancora separati e il mondo non ha ancora
avuto inizio, e in quanto fine, perché tali contrari sono di nuovo arrivati a una
sintesi in esso, perché il mondo in esso ha di nuovo trovato pace.
Quale contenitore dei contrari lo potremmo rivedere nel T'ai chi cinese,
che nella sua forma rotonda contiene in sé nero e bianco, giorno e notte, cielo
e terra, maschile e femminile, e di cui Lao-tzu dice:
«Prima della formazione del cielo e della terra c'era qualcosa in stato di
fusione, tranquilla e immateriale, essa esiste da sola e non muta (carattere);
essa circola ovunque senza stancarsi. Si può considerarla come la Madre di
tutto sotto il cielo».
Se analizziamo il simbolismo relativo al Taoismo vedremo che lo YIN
rappresenta quindi l’oscurità, la terra, l’elemento femminile, mentre lo YANG è
la luce, il sole, l’elemento maschile.
“Ti aiuterò a progredire verso la vetta della grande luce e da lì a
raggiungere la sorgente dello yang, ti aiuterò a penetrare nelle porte profonde
e oscure e da lì a raggiungere la sorgente dello yin”, così recita lo Chuang-tzu,
nel Cap. XI, 69.
“Chi conosce gli altri è intelligente, ma chi conosce se stesso è saggio. Chi
conquista gli uomini è forte, ma chi conquista se stesso è potente.”16
Andiamo a vedere quindi che la rappresentazione più antica dell'Uroboros
che si trova su un vaso scoperto a Nippur; a Babilonia lo troviamo
rappresentato come un serpente celeste e Macrobio ne attribuisce l'origine ai
Fenici. Esso è l'archetipo che dice di sé: "lo sono l'alfa e l'omega". Quale Knef
dell'antichità è il 'serpente primitivo', la "figura divina più antica della
preistoria". Si può ritrovare nell'Apocalisse di Giovanni come nelle pitture di
sabbia degli indiani Navajo e in Giotto, nei testi alchimistici17 e come amuleto
tra gli zingari.
Tutti questi simboli con cui l'umanità ha cercato di comprendere
mitologicamente l'inizio sono presenti nei tempi primitivi e hanno un loro posto
non solo nell'arte e nella religione, ma anche nei processi vitali della psiche
individuale, nel sogno e nella fantasia.
16
Lao Tzu, Tao Te Ching, Penguin books, London, 1963
17
Jung C.G.,Psicologia e alchimia, Astrolabio, Roma 1950
18
L'esistenza nell'Uroboros è l'autorappresentazione simbolica di uno stato
primitivo che si trova sia come condizione infantile sia dell'umanità che del
bambino. La validità è la realtà di questo simbolo sono fondate nel collettivo,
esso corrisponde ad un grado di sviluppo dell'umanità che può essere ritrovato
nella struttura psichica di ogni essere umano.
L'Uroboros si presenta simbolicamente come grembo primitivo e utero
materno, nonché come l'unità degli opposti maschile-femminile, come i
progenitori, come padre e madre, che sono uniti tra di loro in perpetua
coabitazione. Che la questione dell'origine, del 'da dove', vada unita al
problema dei progenitori emerge come una cosa evidente, ma per Neumann
dobbiamo tener conto che si tratta di simboli dell'origine e non di sessualità e
di 'teoria genitale'.
Riprendiamo il ns discorso partendo dal concetto che la mitologia è il
prodotto dell'inconscio collettivo, e che ogni studioso della psicologia primitiva
è costretto a fermarsi pieno di meraviglia di fronte all'inconscia saggezza
delle risposte che la psiche profonda ha dato e continua a dare alle domande
inconsce degli uomini. Molti popoli primitivi non conoscono il nesso che
intercorre tra rapporto sessuale e nascita, infatti spesso i primitivi cominciano
ad avere rapporti sessuali già nell'età infantile, senza che ne segua una
procreazione; di qui essi concludono facilmente che la nascita del bambino non
è collegata alla generazione da parte dell'uomo nel rapporto sessuale.
Però alla domanda "Da dove?" bisogna sempre dare, e di fatto si dà, la
risposta: "Dal grembo", perché è un'esperienza originaria dell'umanità che ogni
neonato proviene da un grembo e ogni mitologia afferma sempre precisamente
che tale grembo è un'immagine e il grembo della donna è solo un aspetto
parziale del simbolo originario del luogo dell'origine, del luogo da cui si
proviene.
Neumann ribadisce il concetto che l'Uroboros del mondo materno è vita e
psiche , nutre e procura piacere, protegge e riscalda, consola e perdona, è il
rifugio di tutto ciò che soffre, l'oggetto di ogni desiderio, infatti la madre è
sempre quella che esaudisce, che dona e che aiuta. Quest'immagine viva della
Grande Madre buona è stata il rifugio dell'umanità in tutti i momenti di
bisogno e tale rimarrà sempre, perché la condizione dell'essere contenuto
nella totalità, senza responsabilità e senza fatica, senza il dubbio e senza la
dissociazione dal mondo è appunto paradisiaca e all'interno della vita adulta
non sarà mai più realizzata nuovamente nella sua felicità e intensità originarie.
L'Uroboros come la grande e turbinosa ruota della vita, in cui tutto ciò
che non è ancora individuo è contenuto nell'unità dei contrari, in questo senso
parliamo di un incesto uroborico, intendendo naturalmente l'incesto in senso
simbolico e non concretistico-sessuale.
19
L'incesto uroborico è una forma di ingresso nella madre, di unione con lei,
che si oppone ad altre più tarde forme dell’incesto. Rendiamoci conto che per
Jung la Grande Madre accoglie e riprende in sé il piccolo bambino e l'incesto
uroborico è sempre visto come segno di morte: caverna, terra, sepolcro,
sarcofago, bara sono i simboli di questo rito di riunione, che cominciano con la
sepoltura in posizione fetale nei sepolcri dell'era della pietra.
Nel bambino le grandi immagini e i grandi archetipi dell'inconscio
collettivo sono una realtà viva e molto vicina a lui, e molte delle sue espressioni
e delle sue reazioni, delle sue domande e delle sue risposte, dei suoi sogni e
delle sue immagini esprimono questa conoscenza, che deriva dall'esistenza
prenatale, si tratta di un'esperienza non acquisita personalmente, ma che
viene dall'alto.
La fase di sviluppo individuale segnato dall’archetipo della Grande Madre è
stato uno degli elementi centrali della psicologia del profondo che ha
attribuito alla relazione primaria con la madre un potere altamente costruttivo
e distruttivo per la costruzione della personalità e del Sé.
Per Jung il Sé ("Selbst") va inteso come la totalità psichica rispetto a cui l'Io,
la nostra parte cosciente, è solo una piccola parte. Egli ritiene che compito
dell'attività psicoanalitica sia quella di istituire un rapporto gerarchico tra Sé
e Io, tra la totalità e la parte, in grado di soddisfare le condizioni per una
ripresa del movimento evolutivo che lui chiama "Individuazione”18.
Secondo Neumann “La Grande Madre non è soltanto la Dea che decide della
vita o della morte, o che determina uno sviluppo positivo o negativo; il suo
atteggiamento è al tempo stesso un giudizio, una sentenza di alta corte.
Nessuno sviluppo o razionalizzazione successiva può cancellare questa
convinzione di una colpa primaria, poiché il disturbo del rapporto primario ha
effettivamente leso l’individuo e lo ha portato ad uno sviluppo sbagliato che
fornisce continuamente, a posteriori, ragioni sufficienti a giustificare il senso
di colpa”19.
Il carattere uroborico della Grande Madre traspare ovunque essa viene
onorata in forma androgina, per esempio come dea con la barba, a Cipro e a
Cartagine la donna con la barba, o con il fallo, rivela il suo carattere
uroborico nell'indistinzione di maschile e femminile.
Solo più tardi questa figura mista viene sostituita da figure sessualmente
non ambigue; il carattere misto e ambivalente rappresenta lo stadio primitivo
da cui si differenzieranno in seguito gli opposti. La coscienza infantile, che
sperimenta continuamente il proprio legame con la matrice da cui proviene, e la
18
Jung C.G.,Psicologia e alchimia, op. cit.
19
Neumann E., Storia delle origini della coscienza,op. cit.
20
propria dipendenza da essa, si trasforma a poco a poco in un sistema
autonomo; la coscienza diventa auto-coscienza, sorge cioè un Io riflettente e
conscio di se stesso come centro della coscienza. C'è una coscienza già prima
che l'Io , acquisti la sua posizione centrale, difatti possiamo osservare degli
atti di coscienza nel lattante; prima che compaia la coscienza dell’Io, però solo
quando l'Io si sperimenta come qualcosa di diverso dall'inconscio lo stadio
embrionale può dirsi superato e assistiamo alla formazione di un sistema di
coscienza autonomo e fondato sopra se stesso, ma questo è spesso uno stadio
conflittuale in cui l’individuo deve rinunciare a una parte di sé.
Questo stadio primitivo del rapporto tra la coscienza e l'inconscio si
riflette nella mitologia del rapporto tra la Dea Madre e il figlio-amante.
Se analizziamo certe figure maschili della cultura medio-orientale come
Attis Adone, Tamuz e Osiride essi vengono sì partoriti dalla madre, però
questo aspetto recede completamente in secondo piano ed essi diventano gli
amanti della madre e vengono da questa amati, uccisi, seppelliti, pianti e
rigenerati.
Perché io sono colei che è prima e ultima
Io sono colei che è venerata e disprezzata,
Io sono colei che è prostituta e santa,
Io sono sposa e vergine,
Io sono madre e figlia,
Io sono le braccia di mia madre,
Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli,
Io sono donna sposata e nubile,
Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.
Io sono sposa e sposo,
E il mio uomo nutrì la mia fertilità,
Io sono Madre di mio padre,
Io sono sorella di mio marito,
Ed egli è il figlio che ho respinto.
Rispettatemi sempre,
Poiché io sono colei che da Scandalo e colei che Santifica.
Inno a Iside
Rinvenuto a Nag Hammadi, Egitto;
risalente al III-IV secolo a.C
Il simbolo tipico del figlio amante è un cinghiale che muore e viene
sacrificato, e l'uccisione del cinghiale è la rappresentazione mitologica del
sacrificio del figlio ad opera della Grande Madre. Su un rilievo etrusco in
21
bronzo si trova riprodotta la forma antichissima della Grande Madre, la
Gorgone, che strangola il leone con le braccia e tiene le gambe aperte
nell'atteggiamento dell'esibizionismo rituale. Sul medesimo pezzo troviamo
però anche la caccia al cinghiale, raffigurata proprio come nei reperti
provenienti da Creta e dalla Grecia sotto il dominio cretese.
Tra i simboli dell'abisso divorante vi sono il grembo nel suo aspetto
terrificante, la testa di una delle Gorgoni cioè di Medusa, la donna con la
barba e il fallo, nonché il ragno in quanto in questo animale la femmina mangia il
maschio. Il grembo aperto è il simbolo divorante della madre uroborica,
specialmente se compare assieme al simbolismo fallico.
La bocca masticante della Medusa con zanne da cinghiale presenta questi
tratti nel modo più evidente. La lingua che fuoriesce dalla bocca tradisce la
connessione del femminile con il fallico. Il grembo che morde e strappa, cioè
castrante, si presenta come fauce infernale, e i serpenti che avvolgono il capo
della Medusa non sono elementi personalistici (peli puberali), bensì degli
elementi fallici di questo seno materno uroborico pericolosi, angoscianti e
castranti.
Nel mito di Medusa e Perseo la Dea Atena, dea della saggezza, passa da
madre buona a madre terribile, infatti spinse ed aiutò Perseo ad uccidere
Medusa, e, per decorare il suo scudo le fu data come un orribile trofeo, la
testa della Gorgone, capace di pietrificare chi l'avesse guardata. Era stata
Atena stessa a rendere Medusa ciò che era, infatti originariamente Medusa
era la più bella delle tre sorelle Gorgoni, ma Medusa fece l'amore con
Poseidone (secondo altre versioni fu stuprata) all'interno del tempio di Atena.
Quando scoprì che il suo tempio era stato così profanato, Atena per punirla ne
mutò l'aspetto rendendola mostruosa come le sue sorelle Steno ed Euriale: i
suoi capelli si trasformarono in serpenti e qualsiasi creatura vivente ne avesse
incrociato lo sguardo sarebbe stata mutata in pietra. Dal collo decapitato di
Medusa esce il cavallo alato Pegaso che ella aveva concepito con Posidone, ma
che a causa del suo odio non era capace di darlo alla luce. Il nome Pegaso viene
dalla parola greca pegai, che significa “sorgenti” o “acque”.
Atena trasformò anche la parte inferiore del suo corpo in modo tale da
renderla pietrificata, così che per lei era impossibile avere ancora rapporti
sessuali con un uomo.
A questo punto possiamo azzardare di comprendere il messaggio che ci
trasmette il mito di Medusa e Perseo: per non soccombere rispetto all'energia
pietrificante, che coagula (che è quella sessuale) e alle paure inconsce, non
bisogna lottare direttamente (Perseo non deve incrociare lo sguardo di
Medusa), ma serve la riflessione (il riflesso dello specchio), la conoscenza della
natura superiore ed inferiore (Jung direbbe l'Ombra) e così possono essere
22
superate le prove al fine di liberare infine sé stesso, uscire così dall’ammasso
uroborico, come il Pegaso alato.
Ritorniamo al ragno che rientra in questo gruppo di simboli non solo
perché la femmina dopo il coito mangia il maschio, ma soprattutto come
simbolo generale del femminile, che tesse la rete in cui l'uomo va a impigliarsi
e non riesce a superare lo stadio adolescenziale dell'Io, né l'Io si è ancora
reso autonomo dall'inconscio.
Possiamo distinguere più fasi nel rapporto tra l'amante adolescente e la
Grande Madre.
La fase più antica è caratterizzata dalla naturale rassegnazione al destino,
allo strapotere della madre o dell'Uroboros. Lo stadio dell'impotenza
totale di fronte alla madre uroborica, al destino violento e ineluttabile.
L’incapacità di reagire alla supremazia e l'avversione nei confronti della
Grande Madre come espressione della centralità risulta chiara nelle figure
di Narciso, Penteo e Ippolito.
Essi si oppongono all'amore ardente e divoratore delle grandi dee, ma
vengono puniti da esse o dai loro rappresentanti. In Narciso, che non vuole
amare e che alla fine si innamora perdutamente della propria immagine,
l'orientamento verso se stesso e il distacco dall'oggetto divorante e avido
d'amore, sono chiari. Nell'inconscio collettivo tutti gli archetipi coesistono
sullo stesso piano, solo con lo sviluppo della coscienza si arriva a una
strutturazione gerarchica.
Anche se è sedotto dalla propria immagine, Narciso è in realtà una
vittima di Afrodite, della Grande Madre. Il sistema del suo Io viene
sopraffatto e dissolto dal potere tremendo dell'impulso amoroso, della forza
istintuale, su cui domina la Grande Madre. Infatti Afrodite per sedurlo prende
in prestito l'immagine di Narciso stesso, questo la rende solo più infida. L'Io
di Narciso, che vuole sottrarsi al potere dell'inconscio specchiandosi nel suo
riflesso, soccombe a un catastrofico amore di se stesso. Il suo suicidio per
annegamento rappresenta la distruzione dell'Io e della coscienza.
Il mito di Penteo, figlio di Echione e di Agave, una delle figlie di Cadmo, si
ricollega al ciclo di Bacco-Dioniso.
Dioniso nasce dall'unione di Semele (figlia del re tebano Cadmo e della sua
sposa Armonia) con Zeus; quest'ultimo cerca in tutti i modi di nascondere la
relazione alla gelosa Era, la quale, scoperta la tresca, suggerisce a Semele di
chiedere a Zeus, che le si mostrava sempre in sembianze umane, di
manifestarsi nella sua vera natura.
Zeus in un impeto d'ira si palesa in forma di tuono e folgore incenerendo
l'amante nel cui grembo giaceva il piccolo Dioniso. Ermes, tuttavia, riesce a
salvarlo 'cucendolo' nella coscia di Zeus. (bisogna notare come fra le tante
23
interpretazioni etimologiche del nome di Dioniso vi sia quella che lo intende
come 'nato due volte', o anche come il 'figlio della doppia porta').
Una volta nato, Dioniso è affidato ad Atamante (re di Orcomeno) e a sua
moglie Ino da Ermes che, sempre per sviare la gelosia di Era, prescrive loro di
vestire il piccolo con abiti femminili. Scoperto l'inganno, Era fa impazzire i
genitori adottivi. A questo punto, Zeus per impedire che Dioniso finisca tra le
mani di Era, lo trasforma in capretto affidandolo alle Ninfe sul monte Nysa.
Anche questa volta Era si avvede dell'inganno e punisce Dioniso con la follia. A
partire da questo momento Dioniso vaga per tutta la terra, accompagnato dal
suo precettore Sileno e da un corteo selvaggio di Satiri e Baccanti.
Schelling ritiene che Dioniso sia il dio che rinasce e libera, che riporta all'Uno
ciò che era separato nell'individualità. Dioniso è soprattutto il dio che viene,
che è sempre venturo, il dio del futuro; questa prospettiva volta al futuro
coincide con la speranza 'religiosa' di un ritorno all'Unità
Nel momento in cui Dioniso decide di stabilire a Tebe il suo culto, Penteo
è contrario e vuole opporsi alla sua diffusione perché lo considera privo di
razionalità e troppo sfrenato. Bacco, per vendetta, suggerisce a Penteo di
recarsi sul monte Citerone per spiare le donne ed essere testimone dei loro
riti. Penteo subisce il destino di tutte le vittime della Grande Madre,
impazzisce e partecipa alle orge travestito da donna; qui viene sbranato dalla
propria madre che, in preda a un accesso di pazzia, lo ha scambiato per un
cinghiale. Agave è la prima a colpirlo, si impadronisce della sua testa
conficcandola su un tirso. Si reca poi a Tebe portando fieramente quella che
crede un trofeo, per farla vedere a Cadmo. Solo in città si accorge di aver
ucciso il proprio figlio.
Ella porta in trionfo il suo capo insanguinato un residuo della castrazione
originaria che seguiva allo smembramento del cadavere così diventa la Magna
Mater.
Anche Penteo appartiene a coloro che oppongono resistenza, senza però
riuscire ancora a compiere l'atto eroico liberatorio, per scoprire il suo
femminile si nasconde, ha paura di mettersi allo scoperto. Sebbene la sua
opposizione sia diretta contro Dioniso, il suo destino e il suo peccato rivelano
che anche qui il vero nemico è l'aspetto terribile della Grande Madre. Penteo
non accoglie mai in sé il femminile - quindi l'inconscio, la sua Anima - egli
rimane legato al potere, alla forza e non integra in sé alcun aspetto del
femminile, ciò lo condanna a rimanerne vittima.
La figura di Ippolito si colloca accanto a quella di Penteo e di Narciso, infatti
per amore verso Artemide, per castità e per amore verso se stesso egli
disprezza Afrodite disprezzando l’amore della matrigna Fedra per ordine del
padre, e con l'aiuto del dio Posidone, viene trascinato dai propri cavalli finché
muore. L'Afrodite disprezzata e la matrigna disprezzata sono un'unica cosa,
24
sono la Grande Madre innamorata che insegue il figlio amante e lo uccide
perché oppone resistenza. Ippolito è a un livello in cui può decidere di opporsi
alla Grande Madre e in cui comincia ad esser consapevole di se stesso come un
giovane che lotta per conquistare l'autonomia e l'indipendenza. Questo è
evidente nella sua 'castità', nel suo rifiuto dell'amore della Grande Madre e
della sua sessualità fallica e orgiastica.
La scissione degli opposti
Il mito maori della creazione
Gli uomini sono discesi da una sola coppia d'antenati primitivi,essendo nati dal vasto cielo
che è sopra di noi, e dalla terra che ci sta sotto. Rangi e Papa, ossia il Cielo e la Terra, furono
la origine prima di tutte le cose. Cielo e Terra erano allora avvolti nelle tenebre, essendo
ancora aderenti l'uno all'altra,perché ancora non erano stati separati; e i figli da loro generati
non facevano che almanaccare fra di loro quale potesse esser la differenza tra la tenebra e la
luce; sapevano che le creature s'erano moltiplicate ed erano cresciute, ma la luce non s'era
mai fatta su di loro, e il buio continuava sempre.
Alfine gli esseri che erano stati procreati dal Cielo e dalla Terra, stanchi della continua
tenebra, si consultarono tra loro dicendo: "Decidiamo che si debba fare di Rangi e di Papa, se
sia meglio ucciderli o separarli". Allora parlò Tuma-tauenga, il più feroce dei figli del Cielo e
della Terra: "Sta bene, uccidiamoli". Poi parlò Tane-mahuta, il padre delle foreste e di tutte le
cose che vi abitano e che son costruite con gli alberi: "No, non così. Meglio è separarli,e far
che il cielo stia lontano sopra di noi, e la terra giaccia sotto i nostri piedi. Divenga il cielo come
uno straniero per noi, ma la terra ci resti vicina come una madre che allatta".
Tutti i fratelli acconsentirono a tal proposta, a eccezione di Tawhiri-ma-tea, il padre dei
venti e delle tempeste, il quale, temendo che il suo regno avesse ad essere rovesciato,
grandemente si crucciò al pensiero che i suoi genitori fossero separati. Cinque dei fratelli
consentirono di buon grado al distacco dei genitori, ma uno non voleva dare il suo consenso.
Ma alla fine, messisi d'accordo, ecco, Rongo-ma-tane, il dio e padre degli alimenti coltivati
dall'uomo, si leva su per staccare i cieli dalla terra;fa un grande sforzo,ma non riesce a
staccarli. Ed ecco, dopo di lui,Tangaroa, il dio e padre dei pesci e dei rettili, si leva su per
staccare i cieli dalla terra; anch'egli fa un grande sforzo, ma non riesce a staccarli. Ed ecco,
dopo di lui, Haumia-tikitiki, il dio e padre degli alimenti dell'uomo che nascono senz'esser
coltivati, si leva su e si sforza, ma invano. Ed ecco poi Tuma-tauenga, il dio e padre della
cattiveria umana, si leva su e si sforza, ma anch'egli vien meno nei suoi conati.
Alla fine, lentamente s'alza Tane-mahuta, il dio e padre delle foreste, degli uccelli e
degl'insetti, e si mette a lottare coi suoi genitori; invano tenta di distaccarli con le mani e le
braccia. Ecco, s'arresta; ora il suo capo è saldamente piantato sulla madre sua la terra, egli
alza i piedi e li posa contro suo padre il cielo, inarca il dorso e le membra con possente sforzo.
Così Rangi e Papa vengono separati, e con grida e lamenti di dolore urlano fortemente: "Perché
uccidete così i vostri genitori? Perché commettete il nefando delitto di ucciderei, di dilaniare
i vostri genitori?". Ma Tane-mahuta non s'arresta, non tiene conto delle loro urla e delle loro
grida; giù, giù sotto di sé preme la terra;lontano, lontano sopra di sé spinge il cielo20.
Il mito dei Maori contiene tutti gli elementi dello stadio evolutivo della
coscienza successivo a quello della dominanza dell'Uroboros. La separazione
20
Pettazzoni R:, Miti e leggende, vol. II, UTET, Torino, 1963, pag. 468-9
25
dei genitori primordiali, la scissione degli opposti dall'unità, la nascita del cielo
e della terra, del sotto e del sopra, del giorno e della notte, della luce e delle
tenebre, tutto quel che in molti altri miti compare in modo isolato in singoli
tratti qui si presenta fuso in una unità21.
Dopo la fase dell’Uroboros e della Grande Madre, il successivo passaggio – di
importanza decisiva – è quello della scissione degli opposti, adombrato nella
separazione dei “Genitori Primordiali”.
In questa fase che dobbiamo leggere come quella della propria evoluzione, l’Io
si trova di fronte al compito di “creare il mondo” – la Bibbia parla del fatto che
ad Adamo è data facoltà di “dare il nome” alle cose – cioè di separare gli
opposti, identificando i vari elementi, prima confusi nell’unità uroborica.
Nel mito cosmico di tutti i popoli, la luce è simbolo della coscienza: essa
consente all’uomo di conoscere la realtà, dividendo il mondo in elementi
antitetici: luce e tenebre, cielo e terra, giorno e notte, sopra e sotto, maschio
e femmina.
Interpretiamo il tutto a livello dell’evoluzione personale, l’individuo è nella
fase evolutiva in cui comincia ad assumere consapevolezza del proprio Io,
passando attraverso l’esperienza di essere diverso. Nasce infatti la
separazione basilare tra soggetto e oggetto: ciò consente di scoprire in sé lo
spirito, in contrapposizione alla materialità del corpo, cioè alla natura. Infatti
nello stadio precedente – quello del bambino e, analogamente, dell’umanità
primitiva – elementi quali piacere e dolore, gioia e tristezza, attrazione e
repulsione, odio e amore, volontà e istinto non compaiono nettamente
differenziati, il bambino non ne comprende la diversità.
Siamo quindi consapevoli che, all’interno di questo processo evolutivo
l’ermafroditismo presente nel bambino si dissolve, dando luogo alla
contrapposizione tra maschile e femminile. Tale contrapposizione è favorita
dalla cultura, che induce l’individuo a identificarsi con le tendenze della
personalità del proprio sesso, anche per quanto concerne le manifestazioni
secondarie, quali atteggiamenti, abbigliamento, ruoli sociali.
Nello sviluppo della personalità, questo è il momento in cui si manifesta la
perdita dell’innocenza, vissuta dall’individuo come colpa e accompagnata
dall’esperienza della solitudine e della divisione.
“Questa una fase critica, che è anche fondamentale per la crescita: “le
mitologie la rappresentano simbolicamente come una decadenza, rispetto a una
originaria “età dell’oro”, nella quale tutto era buono e regnava una situazione di
equilibrio e di felicità”22.
21
Cassirer E., Filosofia, op.cit.
22
Neumann E., Storia delle origini della coscienza,op. cit.
26
Molte religioni parlano di un Eden, in cui ogni cosa è regolata dalla divinità.
Per la tradizione giudaica, ripresa dal cristianesimo, questo stato di eterna
beatitudine ha subito una drammatica rottura, a seguito del “peccato
originale”, consistente nella acquisizione della coscienza del bene e del male”.
Questo evento, vissuto con senso di colpa, ha come logica conseguenza il
castigo, consistente nella cacciata dal Paradiso terrestre. La presa di
coscienza da parte dell’uomo viene perciò considerata dalle religioni come
caduta, disubbidienza, peccato, ribellione.
In realtà l’uomo, a questo stadio psicologico, si libera dallo strapotere
dell’inconscio e conquista la propria dimensione di persona, unica e irripetibile.
Da questo momento in avanti l’essere umano è in grado di rapportarsi col
mondo, prendendo per così dire le distanze da tutte le cose che lo circondano,
valutandole personalmente, dando ad esse un nome, siamo nella fase in cui un
soggetto riesce ad acquisire la facoltà di discriminazione, di decisione cioè di
fare le proprie scelte, la figura della Grande Madre è offuscata.
Soffermiamoci a riflettere ora sull’evoluzione della coscienza umana e quindi
parliamo del mito dell’Eroe che è diffuso praticamente presso tutte le civiltà,
seppure con modalità diverse. Esso segna un momento decisivo di passaggio
dalla realtà cosmica e universale, connessa con la creazione, ai primi gradini
dell’evoluzione: dal Tutto indifferenziato all’individuo, si passa cioè dalla
dimensione naturistica del bambino a quella culturale e spirituale: l’uomo, nella
sua essenza e nella sua individualità, è al centro di ogni cosa, la sua personalità
si consolida proprio nella misura in cui prende le distanze dalla natura.
L’Eroe è così l’archetipo, il modello ideale cui fa riferimento l’individuo, è il
simbolo della persona che si autorealizza, esprime la propria volontà e agisce
nel mondo L’emergere di questa figura, nella storia dell’umanità, coincide con la
nascita e l’affermazione della civiltà di tipo patriarcale, viene così a vivere
nelle tenebre la Grande Madre che è stato il fulcro della fase primordiale.
Così le originarie e spontanee associazioni maschili di cacciatori si trasformano
in gruppi organizzati, che danno luogo dapprima alla nascita della città-stato,
quindi ad entità statali geograficamente anche assai estese: questi gruppi si
organizzano sulla base di una struttura gerarchica e al loro interno prevalgono
l’amicizia e l’intesa, al posto della rivalità.
Gli Eroi sono spesso figli di donne mortali e di dèi immortali: tradizionalmente
è il maschio che incarna la figura dell’Eroe: viene sottoposto ai riti di
iniziazione, che regolano il passaggio da un gruppo di età ad un altro e
prevedono di sopportare stanchezza, fame, paura, dolore, visti come prove ed
ostacoli necessari per consolidare l’Io ed educare la volontà.
L’Eroe è chiamato a combattere il drago, che tende a soverchiare e
imprigionare e che rappresenta l’inconscio. In questo combattimento l’Eroe si
trasforma, in lui avviene una glorificazione, addirittura una divinizzazione, per
27
simboleggiare il salto qualitativo che accade nella coscienza individuale quando
si imbrigliano le forze inconsce.
Il più famoso combattimento contro il drago, nell’ambito della cultura
dell’umanità, è quello legato al mito solare, presente, con diverse varianti, in
varie tradizioni: seguendo il viaggio dell’astro, l’Eroe è ingoiato dal mare in
Occidente, nella notte raggiunge il punto più basso e combatte vittoriosamente
il drago, per poi riemergere gloriosamente il giorno dopo ad Oriente, col nuovo
sole.
I draghi delle fiabe sorvegliano un palazzo incantato o una grotta
misteriosa: per Freud è l’immagine della vagina della donna, mentre Jung,
proseguendo l’analisi, dice: "L’eroe è un drago in quanto vuole la propria madre;
ma è l’eroe vincitore del drago in quanto proviene dalla madre".
La psicoanalisi riconosce nel drago la madre terribile, la Vita indifferenziata,
pericolosa nel suo amore possessivo e simbiotico. "L’eroe-Dio e redentore del
mondo compie ciò che è proibito e grazie a ciò acquisisce l’immortalità.
Il combattimento contro il drago adombra, nella realtà, anche lo sforzo
che l’individuo deve compiere per staccarsi dall’influenza dei genitori, al fine di
conquistare la propria autonomia, come possiamo leggere in molte fiabe.
Nelle mitologie antiche, le figure materne risultano simili tra loro,
rappresentano l’aspetto istintuale della vita; invece la figura del padre cambia
presso le diverse culture.
E’ il padre infatti che impartisce l’educazione, trasmettendo ai singoli i valori
della collettività che sono appunto variabili nel tempo. L’Eroe è individuo
creativo, che entra in contrasto col padre, combattendo il vecchio sistema e i
suoi valori, culturali e morali, per dare al mondo un volto nuovo e migliore.
Abbiamo fino ad ora effettuato il lungo e travagliato cammino per giungere
alla pienezza della propria coscienza siamo vicini alla meta finale, per fare ciò
siamo passati attraverso una serie di grandi miti, comuni praticamente a tutta
l’umanità: dall’Uroboros alla Grande Madre, dalla Scissione degli opposti
all’Eroe.
Ė l’Eroe che, avendo ormai acquisito la propria totale autonomia, ha soltanto
bisogno di realizzarsi concretamente e compiere la propria evoluzione
psicologica attraverso una esperienza forte: questo avviene con la lotta per
conquistare il “tesoro”, come aspetto del mito della trasformazione.
Il tesoro è qualcosa di prezioso e difficile da ottenere: può trattarsi della
prigioniera da liberare, come di oro, pietre preziose, acqua della vita, coppa
magica, elisir di lunga vita, mantello volante, erba che guarisce, anello dei
desideri, pietra filosofale. Ogni mitologia ha un suo specifico simbolo che
rappresenta il tesoro.
La prigioniera da liberare costituisce la versione più comune: alla fine essa
sposa l’Eroe che l’ha liberata e ciò rappresenta il perfezionamento del rituale
28
della fertilità. Ma non basta. Oltre all’aspetto relativo alla scoperta dell’Eros,
vi è anche l’incontro col Tu, cioè con l’altro e, più in generale, col mondo.
Il combattimento col drago simboleggia la tappa finale del processo di
trasformazione del maschile nei confronti del femminile: il maschile si separa
definitivamente dall’archetipo della Madre, l’uomo si unisce alla donna dando
origine alla famiglia; il femminile non esercita più il controllo su quello che è
uscito dal suo grembo, così il percorso evolutivo, la crescita individuale è
completa.
In talune mitologie la lotta dell’uomo contro il drago è assecondata da una
figura femminile (Atena, Medea, Arianna), che in questo caso evidenzia il
carattere non sessuale, ma soccorrevole e spirituale, da sorella e non da
compagna.
Gli aspetti naturali in cui l’uomo incontra la donna sono infatti diversi: madre,
sorella, sposa, figlia. Ognuna di queste figure ha una funzione specifica, anche
se esse possono comparire variamente combinate.
Il combattimento può aver luogo più volte nella vita, in età diverse: nella fase
infantile, in quella puberale e nella seconda metà dell’esistenza.
La prigioniera liberata dall’Eroe rappresenta infatti il nuovo, quindi un
momento di sviluppo decisivo della coscienza, se questo combattimento
fallisce, l’individuo (maschio o femmina) non riesce a liberarsi dalla “tirannia”
dei genitori e ciò può essere causa, oltre che di nevrosi, anche dell’incapacità
di stabilire un rapporto con una persona dell’altro sesso.
Per giungere alla vittoria sulla tirannia dei genitori i processi interpersonali
dell’inconscio si trasformano in processi psichici interni all’individuo, ma questo
presuppone che l’Eroe riesca innanzitutto ad incontrare la propria Anima e
quindi a riscattarla, valorizzando il lato femminile che è in essa e che presiede
ad ogni atto creativo.
A questo proposito possiamo affermare che “Con l'emancipazione dell'Io, la
separazione dei genitori del mondo, lo smembramento del drago originario,
l'uomo si pone per la prima volta come figlio libero e immerso nella luce, e
nasce come personalità dotata di un Io autonomo”23.
Ricordiamoci che il mondo comincia solo con l'avvento della luce, che
costella l'opposizione cielo-terra quale simbolo fondamentale di tutte le altre
opposizioni. Prima « le tenebre non avevano limiti", come dice il mito dei Maori.
Con il sorgere del sole o, come dice il mito egizio, con la creazione dello spazio
atmosferico, che separa il sopra dal sotto, comincia il giorno dell'umanità, e
l'universo diventa visibile con tutti i suoi contenuti.
23
Neumann E., Storia delle origini della coscienza,op. cit.
29
Giorno e notte, davanti e dietro, sopra e sotto, dentro e fuori, lo e Tu,
maschio e femmina sorgono in questo sviluppo degli opposti e si differenziano
dallo stato di commistione originaria, e anche le opposizioni di sacro e di
profano, di buono e di cattivo vengono ora ad occupare il loro posto nel mondo.
“Nell'uomo primitivo e nel bambino l'esterno e l'interno non sono ancora
separati, così come non sono separati il male e il bene. Il compagno immaginato
con la fantasia è contemporaneamente reale e irreale, e l'immagine del sogno
è reale quanto la realtà esterna”.
Così anche nello stadio in cui il figlio separa i genitori primordiali,cioè
nello stadio del combattimento contro il drago, ci troviamo di fronte non solo a
un nuovo contenuto, ma anche a un nuovo livello di emotività. L'azione di
dividere i genitori primordiali è per l'Io un combattimento, un atto creativo.
La separazione dei genitori primordiali non si limita a interrompere la
coabitazione originaria e a spezzare il perfetto equilibrio cosmico simbolizzato
dall'Uroboros, anche se già questo, assieme a ciò che abbiamo chiamato la
perdita originaria, potrebbe bastare a produrre il senso di colpa primario,
appunto perché lo stato uroborico, come abbiamo detto, è per sua natura uno
stato di completezza e di totalità che abbraccia il mondo e l'uomo.
La separazione è simbolicamente identica all'uccisione, al sacrificio, allo
smembramento e alla castrazione. Nella mitologia, infatti, gli episodi in cui il
dio-figlio castra il vecchio dio-padre sono altrettanto frequenti quanto quelli
in cui egli taglia a pezzi il drago originario e con quei pezzi costruisce il mondo.
È naturale che quando diventa cosciente e acquista un Io, l'uomo si senta
spaccato in due, dato che c'è una parte di lui che si oppone violentemente al
processo di divenire cosciente. Lo stadio della separazione dei genitori del
mondo, in cui comincia l'indipendenza dell'Io e della coscienza e nasce il
principio degli opposti, è dunque anche lo stadio della crescita del maschile. La
coscienza egoica si pone in opposizione maschile all'inconscio femminile.
L’uomo si sente attratto dal femminile capace di trasformazione, perché, oltre
l’archetipo della Grande Madre, incontra la figura dell’Anima.
L’Anima, infatti, come figura femminile interiore dell’uomo, muove e spinge alla
trasformazione, incoraggia il maschile ad affrontare nuove avventure dello
spirito, ad agire e creare nel mondo esterno ed interiore.
L’Anima, se pure in parte è ambivalente perché legata all’uroboro materno,
comunque si trasforma e trasforma, prepara all’Io-eroe nuove prove da
affrontare che appartengono alla relazione con il maschile, è mediatrice tra
mondo della coscienza maschile e mondo elementare dell’inconscio.
La figura dell’Animus come guida della psiche esercita l’effetto
corrispondente sul femminile. L’Anima assume carattere trasformatore del
femminile, solo quando la donna è consapevole di questo suo potere e diventa
capace di una relazione genuina con il partner. Solo con la separazione dei
30
genitori primordiali il mondo, come dice il Midrash giudaico, è creato nella
dualità, cioè nell'opposizione. Questa separazione si basa sulla fondamentale
scissione tra una parte conscia della personalità, che ha per centro l'Io, e una
parte più estesa inconscia.
L'Io e la coscienza si identificano sempre con un lato della opposizione e
lasciano l'altro nell'inconscio, di volta in volta impedendogli di emergere,
oppure reprimendolo consapevolmente, o ancora rimuovendolo, cioè
escludendolo dalla coscienza senza la consapevolezza e di farlo.
Nelle religioni l'atto primordiale, la separazione dei genitori del mondo,
riceve una formulazione teologica. Esse cercano di dare una motivazione
razionale ed etica all'effettivo sentimento di mancanza che accompagna l'Io
nella sua emancipazione, interpretando come peccato, caduta, ribellione e
disobbedienza quel che in realtà è l'atto liberatore fondamentale dell'uomo, la
sua liberazione dallo strapotere dell'inconscio e la sua autoaffermazione come
Io, coscienza e individuo. Ma quest'azione, come ogni azione e ogni liberazione,
non va disgiunta da un sacrificio e quindi da una sofferenza, e proprio per
questo è così importante e difficile decidere di compierla questa divisione non
viene vissuta solo come una sofferenza passiva e come una perdita, bensì come
un'azione attivamente distruttiva. La separazione è simbolicamente identica
all'uccisione, al sacrificio, allo smembramento e alla castrazione.
Diventare cosciente di sé, diventare cosciente in genere, comincia con
l'atto di dire “no" all'Uroboros, alla Grande Madre e all'inconscio. E quando
studiamo gli atti attraverso i quali si costituiscono l'Io e la coscienza,
dobbiamo riconoscere che sono in un primo momento tutti atti negativi.
È naturale che quando diventa cosciente e acquista un Io, l'uomo si senta
spaccato in due, dato che c'è una parte di lui che si oppone violentemente al
processo di divenire cosciente, egli si sente in preda al dubbio, e, finché l'Io è
ancora acerbo, ciò può condurlo alla disperazione e al suicidio, che significa
sempre un'uccisione dell'Io e un'automutilazione che culminano con la morte
nella Grande Madre .
L'Io adolescente non è ancora sicuro di sé, e non lo è perché
internamente è diviso in due opposti sistemi psichici, uno dei quali, il sistema
della coscienza, con cui l'Io si identifica, è ancora debole, immaturo e
consapevole solo confusamente del significato del suo proprio principio.
A questo punto pensiamo quindi che l’uomo debba scoprire la sua parte
inconscia cioè deve passare sempre attraverso la sfera dell’«anima», per
scoprire la sua totalità e incontrare la donna (Eros), “ per non essere
costretto a rincorrere come un bambino, la donna che lo sopravanza”.(Jung)
Ma è evidente che all’uomo (Logos) la sfera dell’Anima sembri inquietante
e pericolosa, perché l’Eros spinge all’unione con gli altri e nel rapporto con il
femminile trasforma il maschile.
31
Per l’uomo la completezza e la trasformazione personale nasce dallo
sforzo di compiere uno slancio nella sfera dei sentimenti alla scoperta della
sua Anima, nella donna la lotta degli opposti si attua oltre che tra il Logos e
l’Eros anche in un conflitto tra quelle che da molti studiosi sono definite le
«qualità lunari, bianche e nere», che si identificano nell’essere madre e
amante, spirito e corpo, Eva e Lilith.
Concludiamo la prima tappa di questo nostro viaggio ponendo le basi per
eventuali ulteriori approfondimenti, visto che lo scopo di questi interventi non
è esaurito, ma solo accennato visto che siamo ancora alla scoperta del
femminile nella sua evoluzione.
Logos – Eros
Bianca – Nera
Madre – Amante
Spirito – Corpo
Eva - Lilith
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Riflessioni tra mito, leggenda e fiaba alla ricerca dell`archetipo femm.