1 Istituto di Gestalt Therapy HCC Kairòs Ragusa, Venezia e Roma Istituto di Clinica e formazione “Nino Trapani” - Siracusa Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” di Roma MASTER UNIVERSITARIO DI II LIVELLO IN PSICO – ONCOLOGIA Il dolore condiviso La Gestalt Therapy e l'elaborazione del lutto in gruppo Dott.ssa Agata Pisana Relatore Prof.ssa Paola Argentino Correlatore Prof. Giovanni Salonia Anno Accademico 2011/2012 2 Dal corpo verranno i primi lenti ma significativi movimenti di apertura del corpo e delle parole, che sono segno che la vita sta ri-partorendo la relazione e la relazione sta-ripartorendo la vita. Giovanni Salonia1 Avanti così: risoluti verso una vita piena, buona e bella! Friedrick Nietzsche2 Premessa La tesi è un diario in prima persona di un percorso di elaborazione di lutto in gruppo per genitori che avevano perso i figli, da me seguito in qualità di counsellor gestaltico insieme ad un sacerdote (don Gianni Mezzasalma) che ne ha curato l’aspetto spirituale. Attivata dalla Diocesi di Ragusa nell’ambito del servizio di Pastorale Familiare, l’iniziativa si è rivelata fruttuosa sia per i genitori che hanno partecipato sia per la sottoscritta, che ne ha ricavato un arricchimento umano, spirituale e scientifico non descrivibile nell’arco di poche parole. La tesi si muove su due registri: da un lato i fatti narrati in prima persona dalla sottoscritta così come li ha effettivamente vissuti, dall’altra i supporti teorici che passo passo hanno guidato il cammino. Una diversa grafica segnala il doppio filo del discorso e delle marcature in neretto evidenziano gli snodi focali cui di volta in volta la mia mente ricorreva lungo l’iter narrato. Gli stessi nell’indice vengono riportati come sottoparagrafi per una più agevole consultazione del testo. Gestaltica è l’ermeneutica sottesa al mio procedere, gestaltica la lettura delle sofferenze e gestaltico il modo di intervenire a loro sostegno e la conduzione del gruppo. Anche la scelta dello stile, improntato molto sull’ esperienziale e sull’esplorazione dei vissuti miei e dei partecipanti al percorso si rivela di matrice gestaltica. I capitoli traggono il titolo dalle varie fasi del ciclo di contatto. Essendo destinato il testo soprattutto alla lettura di possibili trainers le fasi cui ci si riferisce sono precipuamente le fasi del mio contatto con l’esperienza. Tuttavia esse ricalcano spesso anche lo stadio in cui si evolve il cammino di elaborazione da parte dei genitori. I fatti narrati, pur nel rispetto dell’anonimato, sono rigorosamente veri. 1 G. Salonia (2011), L’improvviso, inesplicabile sparire dell’altro. Depressione, psicoterapia della Gestalt e postmodernità, in G. Francesetti (a cura di), L’altro irraggiungibile, Franco Angeli, Milano, 60. 2 F. Nietzsche (1995), Lettera a Carl von Gersdoff del 18 Novembre 1871, in Id., Autobiografia attraverso le lettere, C. Buttazzi (a cura di), Piemme, Casale Monferrato, 148. 3 Desidero ringraziare innanzi tutto i partecipanti che, con tanta generosità, mi hanno accordato la loro fiducia e il loro affetto e la cui umanità sofferente e vibrante mi ha permesso di sperimentare relazioni profonde e nutrienti che resteranno sempre parte integrante del mio cuore. Grazie anche al vescovo, sua ecc.za Paolo Urso, per la fiducia accordatami e l’affetto paterno che mi ha sempre dimostrato e mi dimostra. Grazie a Romolo Taddei, direttore della Pastorale Familiare diocesana, per l’affetto e la stima che nutre nei miei confronti e per i validi consigli bibliografici sempre elargitemi. Un grazie commosso a Gianni Mezzasalma, con cui abbiamo condiviso ansie, fatiche, emozioni e tanta preghiera, nel fervido desiderio che un briciolo di conforto potesse arrivare a questi genitori. Grazie a Paola Argentino, preziosa amica sincera, sostegno scientifico e umano, che mi ha guidata e incoraggiata sempre nella mia formazione. Grazie ai corsisti del Master, che mi hanno apprezzata e coccolata con affetto e simpatia e con cui abbiamo scambiato tante interessanti riflessioni sui contenuti oggetto del corso. Un grazie, infine, dal profondo, a Giovanni Salonia, che col suo calore e la sua ricchezza dalle molte sapienze mi guida e mi sostiene nella mia vita umana, spirituale e professionale. Con la chiarezza e coerenza dei suoi insegnamenti, con la disponibilità ad accogliere ogni mio dolore, con la solidità della sua presenza costante nella mia vita ha fatto da sfondo a tutto il percorso, permettendomi di affrontare e condurre fino in fondo un cammino così faticoso ed impegnativo. Grazie di cuore! L’augurio è che, anche attraverso questa testimonianza diretta, proliferino iniziative di sostegno a persone così drammaticamente colpite dalla vita e che si sviluppi una sempre maggior fiducia nella possibilità di restituire vita alle relazioni e di vivificare la vita attraverso le relazioni. 4 Cap. 1 Precontatto. La telefonata di don Gianni è semplice: «Agata, come stai? Ti dovrei parlare, quando ci possiamo vedere?». Tutto qua. A volte succedono cose, nella vita, nel bene e nel male, che sembrano irrisorie, cose come tante altre, poi, dopo – nel tempo – ti accorgi che erano momenti ‘storici’ della nostra vita. Così è stato quando fu di quella telefonata. Siamo seduti uno di fronte all’altro e mi spiega che c’è un progetto: mettere su un gruppo per l’elaborazione del lutto. - Per ‘lutti gravi’ – precisa. - Cosa si intende per ‘lutti gravi’? – gli chiedo. - Famiglie a cui sono morti i figli – Un attimo in cui il respiro mi si ferma. La morte del figlio è per ogni mamma l’ipotesi peggiore cui si possa pensare. Un pensiero che viene sempre velocemente allontanato dalla mente perché non lo si può reggere: crolla il mondo addosso. Ho già seguito in consultorio persone che hanno affrontato questa tragedia, ma qui è di qualcosa di più che si sta parlando, è chiaro. - Un gruppo? – gli chiedo. Mi spiega che una coppia il cui figlio adolescente si è qualche anno fa suicidato ha trovato un minimo di conforto solo da parte di persone che sono andate a trovarli e che avevano avuto la stessa esperienza, che da allora hanno preso a frequentarsi per condividere il proprio dolore e che si è creato così un piccolo gruppetto, ma che a poco a poco si sono resi conto che non possono sempre vedersi da soli e rimasticare le stesse cose, che sentono il bisogno di una guida, una figura esterna che li sostenga in questi incontri, che gli dia una direzione. Si sono rivolti al vescovo per questo e il vescovo si è interessato di cuore a questa richiesta e ha pensato di organizzare un gruppo. Sono pochissime le parole di don Gianni nello spiegare questi fatti e a me sembrano già troppe: non c’è bisogno di aggiungere molto, la sostanza del discorso scotta così com’è. - Che dobbiamo fare? – conclude. Ci guardiamo negli occhi. Le orecchie mi ronzano. La mente è un frullio totale, ma c’è anche una cosa strana nei suoi e nei miei occhi che sono sicura stiamo vedendo l’uno riflessa nell’altro: c’è emozione. Un’emozione positiva che non è di ansia o paura, ma di energia. Passano dei secondi, forse dei minuti di silenzio. Continuiamo a guardarci fisso negli occhi l’un l’altro. La commozione ci invade. Stiamo permettendo a tutto il nostro sentire di espandersi nel 5 corpo e di riempirci totalmente. Poi i respiri sempre più profondi ci dicono che siamo pieni e consapevoli di quello che sta passando nei nostri cuori e fra noi. Quasi contemporaneamente le spalle si sollevano, come a dire: Che altro possiamo fare? Ci stringiamo le mani e passa calore, passa forza, passa un timore che è già sostenuto dal coraggio di andare incontro a quello che ci accadrà. Sorridiamo, poi buttiamo fuori un lungo respiro e le nostre mani si staccano. - Allora, vediamo da dove incominciare – è la mia risposta. Cominciamo a parlarne, a trovare qualche bandolo nella matassa aggrovigliatissima che ci rotoliamo fra le mani. Una cosa risalta subito ai nostri occhi: non ci piace l’idea del gruppo. Va bene che ci si incontri e si proceda insieme, ma è un percorso quello a cui dobbiamo pensare, non ad un ‘gruppo’. Pensare ad un gruppo sarebbe come creare un ghetto, uno stereotipo in cui accogliere/raccogliere una ‘categoria’. Non solo le categorizzazioni non ci persuadono affatto, ma il lutto poi non è un elemento discriminante. La vita, in quanto esseri mortali ci può riservare anche questo, ma come ogni altra esperienza siamo chiamati ad affrontarla, a viverla, ad elaborarla, ma restare nella nostra vita, per tornare – sicuramente trasformati – alla nostra quotidianità alla famiglia, al lavoro, a ciò che ci piaceva o in cui credevamo. Il lutto è un‟esperienza che presenta delle caratteristiche specifiche e ricorrenti: è, infatti, sempre inattesa e provoca stupore (anche dopo una lunga malattia la cessazione del respiro della persona cara dà comunque sgomento come se giungesse inaspettata); è accompagnata da stati d‟animo avvertiti sempre come qualcosa di estraneo alla propria volontà e di superiore ad essa, che – soprattutto nelle prime fasi – totalizzano la persona e la focalizzano esclusivamente su ciò che è avvenuto; è causa (ed è vissuta come causa) di un cambiamento generale 3. Proprio per la profondità e perentorietà assolutizzante del suo accadere, è una condizione che non può a lungo convivere con la quotidianità e che dunque va oltrepassata. Il superamento dell‟esperienza del lutto lascerà spazio ad una condizione diversa – quella del dolore – che può caratterizzarsi come attributo costante della vita di un individuo e che può essere assimilato ed integrato nel proprio esserci. Non è inusuale che un dolore cocente e persistente, proprio per l‟energia che lo alimenta e che chiede di essere espressa, possa risultare fonte di 3 Intrigante considerare il perfetto parallelismo tra l’esperienza del lutto e quella dell’innamoramento, anch’essa sempre vissuta come improvvisa, totalizzante e tale da creare uno spartiacque fra il ‘prima’ e il ‘dopo. Su dinamiche e valenze dell’innamoramento cfr. G. Salonia (1987), L’innamoramento come terapia e la terapia e la terapia come innamoramento, in «Quaderni di Gestalt», 4, 74-99. 6 intraprendenza e di iniziative anche di ampie dimensioni (succede spesso che vengano avviate opere di solidarietà ad ampio raggio, come memorial, concorsi con premi intestati, costruzioni pubbliche in terre di missione, etc). Decidiamo che sarà un percorso quello che proporremo. Passiamo quindi agli aspetti pratici: Quando vederci? Dove? Che fare? Che dire? Parlandone, la nebbia in qualche modo si dirada. Sia io che lui abbiamo diverse esperienze di conduzione di gruppi e di incontri di sostegno individuale: diamo fondo a tutte le nostre risorse per orientarci. Decidiamo che la cosa migliore è vederci a cadenza mensile, scegliamo il posto, concordiamo sul modo di avviare i primi contatti e dopo di che ci diamo tempo per riflettere e riconfrontarci dopo qualche giorno. Sono uscita da quell’incontro frastornata. Man mano che il muro a secco che costeggia la strada mi si saettava ai lati e diventava una striscia unica, bianca, opaca, la mia mente sembrava opacizzarsi anch’essa. Ero in stand-by. Solo la sera, appena coricata, ho preso forse un po’ più di coscienza della cosa e l’ansia allora d’improvviso mi ha mozzato il fiato. Ma quella sensazione di calore e di forza che avevamo sperimentato con don Gianni c’era ancora e questo mi ha permesso di tornare a respirare serenamente e sentire nuovamente la pienezza dentro di me. Pienezza del mio esserci e dell’incarico cui avevo (avevamo) detto di sì. L’indomani mattina, come prima cosa, sono corsa in libreria a cercare quanto più materiale possibile sul tema, poi, ritornata a casa, ho tirato fuori con una furia quasi frenetica tutti i testi di Gestalt e di psicologia in genere che potevano servirmi, lo ho affastellati sulla scrivania e mi sono seduta. Avevo davanti gli autori più svariati che si occupassero di dolore e di lutto: dalla Bessanetti4 (colpita in prima persona dalla morte per suicidio della figlia e fondatrice del gruppo “Figli in Cielo”), al professor Campione5 (terapeuta, fondatore del gruppo”Rivivere”), dalle Lettere sul dolore del grande Emmanuel Mounier6 al diario di un anno di Morena Fanti7, scrittrice, che ha perso l’unica figlia in un incidente stradale. I titoli si rincorrono sotto i miei occhi: c’è chi insiste sul dopo, sulla speranza, sulla possibilità di dischiudere nuovi orizzonti e di percorrere nuove vie (I giorni rinascono dai giorni8, Il figlio perduto e ritrovato9) e chi focalizza la richiesta d’aiuto (Aiutami 4 A. Bassanetti (2001), Il bene più grande. Storia di Camilla, Paoline, Milano. F. Campione (1990), Il deserto e la speranza. Psicologia e psicoterapia del lutto, Armando editore, Roma; F. Campione (2000), Rivivere, L’aiuto psicologico nelle situazioni di crisi, CLUEB, Bologna. 6 E. Mounier (1995), Lettere sul dolore, RCS, Milano. 7 M. Fanti (2007), Orfana di mia figlia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani. 8 L. Crozzoli Aite, R. Mander (a cura di) (2007), I giorni rinascono dai giorni, Paoline, Milano. 5 7 a dire addio10, Fammi sapere perché11), chi resta su una definizione asettica (La morte e il morire12) e chi punta sui vissuti interiori (Senza di te13). La testa mi ruotava. Le immagini di copertina simulano schizzi di sangue, zoomano mani che si allontanano l’una dall’altra, riprendono raffigurazioni evangeliche di crocifissione o di compianto su cadaveri. Vado su internet e mi documento anche su film, su qualsiasi cosa possa essermi utile. Dentro di me so benissimo, tuttavia, che tutto questo è un giusto e doveroso scrupolo di ricerca e di documentazione, ma ho le idee ben chiare sul fatto che già dispongo di sufficiente materiale mentalmente assimilato per poter affrontare un’impresa del genere. Non avrei potuto altrimenti nemmeno supporre dentro di me di poter accettare, nulla dentro di me si sarebbe spontaneamente mosso in questa direzione. È l’ermeneutica gestaltica quella su cui mi sono formata a livello professionale, quella che ha cambiato la mia vita personale e che mi ha stupita sempre per la veridicità e chiarezza del suo argomentare, quella che mi sosterrà e su cui baserò questo mio sì. Una gestalt è sia ogni episodio di vita sia il suo modo di essere organizzato e di procedere: il concetto di gestalt (forma) include quindi sia un‟accezione strutturalista che funzionalista. L‟intera vita è una gestalt ed ogni frame di essa lo è, così come la composizione che gli elementi del campo14 assumono in ogni istante e che ne determina il senso e l‟identità si definisce a sua volta gestalt. La morte, dunque, è la chiusura di una gestalt: la conclusione dell‟esperienza del vivere. E ciò vale sia per chi muore sia per chi „resta‟ 15, per chi cioè, includeva nel proprio campo esistenziale la persone deceduta. Rimane una possibilità di vita nuova, inevitabilmente diversa proprio per la assenza di un elemento del campo: tanto più importante era per la sua carica affettiva o per la stabilità della gestalt o anche per la destabilità che esso provocava, tanto più arduo e faticoso è il chiudere la gestalt precedente ed avviarne una nuova. Spesso nei genitori c‟è una chiara e dichiarata resistenza al nuovo, nel timore che questo possa significare un torto nei confronti del figlio o della figlia deceduti. 9 A. Cencini (2003), Il figlio perduto e ritrovato, Paoline, Milano. A. Pangrazzi (2002), Aiutami a dire addio, Erikson, Trento. 11 A. M. Canopi (2008), Fammi sapere perché, EDB, Bologna. 12 E. Kübler-Ross (1976), La morte e il morire, Cittadella editrice, Assisi. 13 R. Poletti, B. Dobbs (2003), Senza di te, Città Nuova, Roma. 14 Il concetto di campo, mutuato dalla fisica, include non solo il visibile che accade fra due persone, ma anche ciò che avviene all’interno delle soggettività in interazione: sensazioni, fantasie, ricordi, desideri, etc. È una realtà attiva, in continuo muoversi e divenire che fa da sfondo a qualsiasi azione. 15 Il presente lavoro non affronta le dinamiche del morire, per quanto molti punti di contatto le avvicinano alle dinamiche del ‘rimanere’. 10 8 Passo alcuni giorni immersa in tutto il materiale nuovo che ho potuto reperire e mi oriento sempre di più su ciò che un po’ tutti propongono e che con evidenza sempre più si mostra diverso dall’ottica e dal modello di intervento gestaltico. Farsene una ragione, razionalizzare, riflettere, trarne occasione per rinascere a una vita: queste, spesso, le onde su cui scorrono i concetti. Frequentissimo lo scivolare degli autori verso la sublimazione. Qualche pagine qua e là mi colpisce però, e sono tutti passaggi che hanno in comune il senso del realismo, lo stare coi vissuti, l’attenzionare la perdita della capacità di relazione. È questa la logica di cui sono convinta, quella per cui la GT mi ha così tanto affascinata: viviamo per incontrarci l’un l’altro e per incontrarci in pienezza, nell’autenticità dell’essere totalmente se stessi, senza riserve né pregiudizi. Vibrare per l’ansia dell’incontro e sentirne tuttavia il fascino così travolgente da rischiare, da osare presentarsi nudi, veri e vibranti dinanzi all’altro. Registrare dentro se stessi – nel proprio corpo, nella propria respirazione – il successo o il fallimento di un incontro e sapere che di successo o di fallimento si parla non perché si ha avuto ‘vittoria’ sull’altro, non perché si è stati adulati o approvati, ma solo perché ci si è incontrati con tutto se stessi e non in una terra propria ma nella «terra di nessuno»16, laddove le logiche del potere e dell’arroganza si perdono e con cuore umile e buono si vede l’altro e lo si accoglie così com’è. Questo incontrarsi è la forza che dà energia all’esistenza, questa la molla di ogni nostra scelta, questa la causa e l’effetto di ogni nostro sentire. Uno degli assunti di fondo della Gestalt Therapy (GT) è la certezza che ogni sequenza esistenziale è sempre relazione. Ogni individuo prova sensazioni interiori, sviluppa avverte bisogni, sviluppa desideri o sentimenti, pensa, decide, agisce sempre e comunque „in relazione a‟, „in riferimento a‟. Nulla è mai assoluto, mai sussistente in sé, ma sempre „in vista di‟. La nostra vita è un con-esserci o – come precisa Giovanni Salonia – un tra-esserci17. Quando nella vita relazionale si attua un incontro autentico e pieno (un „contatto‟) c‟è appagamento ed energia, che permangono anche in assenza fisica dell‟altro. La GT definisce confine di contatto questo luogo in cui abita la traità, quello spazio esistenziale in cui due realtà (due persone) si incontrano. Tutta la vita è un continuo muoversi verso un „contatto‟, una successione di episodi esistenziali definiti ognuno ciclo di contatto: da uno sfondo di percezioni, emozioni, ricordi e quant‟altro affiora un bisogno, che gradatamente prende corpo, facendosi riconoscere come una sensazione dapprima indistinta che poi acquista 16 17 Cfr. G. Salonia (2011), Sulla felicità e dintorni. Fra corpo, parole e tempo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani. Cfr. G. Salonia (2012), Il paradigma triadico della traità, in press. 9 un nome (si rende definibile), orienta verso una manipolazione dell‟ambiente e si realizza quindi in un‟azione giungendo finalmente ad un contatto con esso (umano o non umano che l‟ambiente sia)18. Il tutto è preceduto da una fase di pre-contatto che costituisce l‟humus immediato da cui tutto il processo emergerà e prenderà corpo19. L‟organismo di quindi si ritira dall‟esperienza, assimilandola e rendendola parte di se stesso20. Al che è pronto per avviare un nuovo ciclo di contatto. Man mano che l‟organismo procede lungo l‟ascesa verso il contatto cresce l‟energia, che – se necessario – avrà bisogno di sostegno specifico per poter fluire liberamente. «L‟analisi dei processi di contatto permette di delineare una grammatica della relazione che diventa orizzonte di comprensione dell‟esistenza, delle sue patologie, della sua cura»21. Più e più volte ci vediamo con don Gianni. È indispensabile chiarire quali sono le nostre posizioni terapeutiche, quale il taglio da dare allo svolgimento degli incontri e quali le modalità di organizzazione di essi. Lui si fida del mio approccio gestaltico, lo conosce e apprezza già. La cosa principale che mi preme ribadire è il fatto che gli argomenti saranno l’escamotage su cui si giocherà il nostro aiuto: quando ogni genitore si pronunzierà in merito ad uno o ad un altro argomento sarà sulla relazione che sta instaurando con noi e – di rimando – con gli altri che verteremo le nostre osservazioni, riflessioni e azioni. Secondo il modello gestaltico l‟intervento di sostegno e cura del counsellor o del terapeuta è sempre sulla modalità di relazione. Il contenuto di cui il paziente parla è essenzialmente un contenuto di relazione: più del „cosa‟ viene detto, è importante „a chi‟ viene detto e „come‟. Il vero contenuto diventa la relazione. È precipuamente su essa che si acquisiscono informazioni mentre l‟altro è di fronte ed è ad essa che è teso l‟intervento curativo. Intervento che sarà, a sua volta, una relazione: il modo in cui il terapeuta (o altra figura di caregiver) si relaziona modifica in qualche modo la capacità di contatto di chi sta chiedendo aiuto, diventando dunque la via di cura. Nel caso del training di gruppo, strumento di cura è anche la 18 Per una dettagliata analisi cfr. G. Salonia (1989a), Tempi e modi di contatto, in «Quaderni di Gestalt», 8/9, 55-64; per il contatto con l’ambiente non-umano cfr. G. Giordano (1997), La casa vissuta. Percorsi e dinamiche dell’abitare, Giuffrè Editore, Milano. Cfr. altresì grafico in Tav. 1. 19 «Usa dire Isadore From che la seduta inizia prima di entrare dentro lo studio del terapeuta»: G. Salonia (1989a), Tempi e modi di contatto, cit., 59. 20 Sono le fasi del ciclo di contatto, definite in G. Salonia (1989b), Dal Noi all’Io-Tu: contributo per una teoria evolutiva del contatto, in «Quaderni di Gestalt», 8/9, 45-54. 21 G. Salonia, M. Spagnuolo Lobb, A. Sichera (1997 ed. or. 1951), Postfazione alla edizione del 1997 di F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma, 498. 10 relazione che si instaura fra i membri, tuttavia il riferimento principe e diretto di ogni episodio di contatto ha sempre come referente il trainer. Ovviamente sarà l‟acquisizione di una più funzionale capacità di relazione il responso sul successo o meno dell‟intervento22. 22 Per i processi di gruppo, cfr. A. Pisana (2009), Ciclo vitale del gruppo e vitalità di un gruppo, in R. Taddei (a cura di), Cammini di tenerezza, di speranza e di gioia, Effatà, Torino. 11 Cap. 2 Orientamento Ci siamo dati appuntamento in canonica da don Gianni: lui, io e la coppia guida. Per coppiaguida intendo i due coniugi (G. lei e D. lui) che hanno dato il la a tutto il discorso. - Costernazione e dolore immobilizzante per i primi mesi, mesi in cui – ci spiega G. – non pensi a nulla, non riesci nemmeno a pensare che devi fare qualcosa. Stai sul divano o direttamente resti a letto e non ti alzi se non per i bisogni fisiologici. Poi a poco a poco gli altri familiari insistono: «Devi fare da mangiare, c’è l’altro figlio che ha bisogno, pensa a lui …» e cominci ad alzarti. Un giorno ti telefonano dicendoti che c’è una messa per tuo figlio la sera, in parrocchia, e allora ti senti in colpa se non vai e ti alzi, e ti fai accompagnare e ti trascini fino alla chiesa. E ascolti. Ascolti la parola di Dio, guardi quei gesti rituali che ti sono familiari e stai attenta al momento in cui sentirai pronunziare il nome di tuo figlio. La coltellata mira dritto allo stomaco al sentire quell’aggettivo insopportabile abbinato al nome di tuo figlio … ‘defunto’. Non lo sopportavo allora e non lo sopporto nemmeno ora. E in quel momento avresti voluto non esserci venuta in Chiesa, non esserti alzata, ma tutti stanno rispondendo «Ascoltaci, Signore» e stanno alzando questo coro per lui, per il tuo ragazzo. Non importa se la ripetizione è un cliché, non importa se non lo conoscevano: di lui stanno parlando, lui in quel momento … c’è. Poi succede un’altra volta che facciano celebrare una Messa in memoria e allora torni di nuovo fra quelle quattro mura. E stavolta senti anche le parole del Vangelo, senti la storia di Maria, che ha perso anche lei suo figlio … Pensare alla Madonna mi ha aiutata tanto: mi sono sentita meno sola. Se anche lei… - Si ferma. Sospira. Poi, riprendendo il discorso da un altro filo: - Intanto le settimane scorrono una dietro l’altra. E c’è anche qualcuno che viene a trovarti e ti dà fastidio, ma c’è anche il vuoto quando nessuno ti telefona o ti viene a far visita e al vuoto si aggiunge altro vuoto. – Ci guarda ad uno ad uno, soffermandosi lentamente sugli occhi dell’uno e dell’altra. Poi prende fiato, profondamente, e quasi soffiando fuori lentamente le parole: - Sono situazioni così tremende che non sai cosa fare, non sai cosa dire, non sai dove ti trovi – conclude. La guardo, nel suo viso bello, nei suoi grandi occhi celesti e mi chiedo se sta parlando davvero di se stessa o di qualcun altro, tanta è la serenità pacata del suo sguardo. Mi rassicura questo: si sono 12 proposti come coppia-guida e in questi loro occhi tranquilli, nel tono commosso ma non alterato della voce, nella ricchezza e concretezza di quello che raccontano mi dimostrano che per loro il lutto è già stato elaborato e hanno ben ragione di dirsi pronti ad altro. Fondamentale è l‟aspetto fenomenologico: osservare l‟altro, ascoltarlo non solo nelle sue parole ma nelle inflessioni della voce, nel ritmo, nelle vibrazioni che ogni muscolo esprime è quel „qui e ora‟ che permette a chi si prende cura di non aggiungere niente di suo (né pregiudizi, né risonanze personali, né interpretazioni) ma di essere lì presente solo per l‟altro23. «Il fallimento o il successo di un‟intenzionalità di contatto sono „visibili‟ nel corpo o, meglio, nel corpo in relazione»24. Considerare la coerenza fra ciò che si dice e come lo si dice (fra comunicazione verbale e non verbale)fornisce inoltre dati significativi per ogni intervento di sostegno o cura25. D. insiste sul bisogno di comunicare con gli altri, di avere la possibilità di parlane. - Dopo i primi periodi ti lasciano tutti solo. Hanno paura a stare col dolore, paura di dire una cosa sbagliata. Non sanno, gli altri, che non c’è niente di sbagliato, che va tutto bene, qualsiasi cosa si dica, perché tanto nessuna parola serve a niente. In effetti gli argomenti mancano: i tuoi amici evitano di parlarti dei loro figli, ed è meglio così; i parenti sono addolorati anch’essi del loro dolore e non vogliono parlarne a te che sei il diretto interessato; i colleghi d’ufficio vorrebbero sminuire, vorrebbero farti distrarre e allora diventano insopportabili, oppure ti danno quella pacca sulla spalla che è una coltellata, mi fa sentire umiliato. – Scoppia in lacrime. Noto che hanno usato tutti e due la stessa parola ‘coltellata’. G. lo guarda con occhi teneri e gli mette una mano sul ginocchio: - La verità è che non ci sta bene niente di quello che ci dicano. Siamo noi che siamo arrabbiati, troppo feriti e non reggiamo l’incontro con nessuno. – conclude. - 23 Sì, è vero. – conferma lui. Mette la sua mano su quella di lei e gliela tiene stretta. Il concetto di esistenza come continuo modificarsi di una relazione è tipico del pensiero filosofico contemporaneo: presente già a partire dalla fenomenologia di Husserl, trova compiuta formulazione con le teorie di Martin Heidegger [cfr. M. Heidegger (1970 ed. or. 1927), Essere e Tempo, Longanesi, Milano], soprattutto nella loro declinazione gadameriana della ‘fusione di orizzonti’ *H. G. Gadamer (1983 ed. or. 1970), Verità e Metodo, Bompiani, Milano]. 24 G. Salonia (2011), L’improvviso, inesplicabile sparire dell’altro. Depressione, psicoterapia della Gestalt e postmodernità, cit., 52. 25 Sulla comunicazione cfr.H. Franta, G. Salonia (1979), Comunicazione Interpersonale, Las, Roma-Zurigo. 13 Per lo sclerotizzarsi in modalità non più funzionali, per difficoltà riscontrate nel processo di contatto o per il sopraggiungere di eventi traumatici, la fisologica capacità di contatto può subire dei blocchi. «Ogni disturbo psichico rivela (e deriva da) un‟ interruzione del processo di avvicinamento dell‟O. all‟A. Fallire nel contatto con l‟A. blocca la crescita e produce sintomi»26. Sono „interruzioni‟ del ciclo di contatto che variano in qualità del processo e intensità del malessere provocato a seconda della fase del ciclo in cui esse si presentano27. Evolutiva è la visione gestaltica dell‟esistenza (poiché ogni episodio di vita è sempre considerato in un contesto spazio-temporale e soggetto dunque allo scorrere del tempo) ed evolutiva è dunque l‟ottica con cui si guarda all‟insorgere della sofferenza e alle possibilità di aiuto ad essa. Quando la capacità di contatto si interrompe. Il racconto dei due genitori contiene già un profilo generale delle prime interruzioni che la morte di un figlio scatena. La più immediata, dopo l‟evento, è la confluenza (il genitore si sente „nella tomba‟, è inattivo, non riesce ad avvertire alcunché al di fuori del dolore per la perdita; immagini e sensazioni sono bloccate solo su „quel‟ momento, ad esso fanno riferimento e su esso si impantanano); ad essa fa di solito seguito la desensibilizzazione (generale abbassamento della capacità di percepire emozioni), per svilupparsi quindi una sorta di lento, travagliato e sofferto smuoversi da questo stato senza tuttavia la forza di effettuare alcunché di originale e creativo. Perché ciò potesse avvenire, infatti, sarebbe necessario avere percezione dei propri vissuti e dei propri bisogni, il che – nella condizione di sopore emotivo – è impossibile. Ma la vita „chiama‟, l‟organismo umano tende per sua natura comunque ed inevitabilmente al proprio benessere e quindi inconsapevolmente … si muove: è la fase dell‟introiezione, quella „dei riti‟. I riti, anche se già stereotipati, per essere effettuati necessitano inevitabilmente di azioni: l‟energia riaffiora. Ci si muove verso l‟ambiente, ci si guarda attorno, ma non c‟è limpidezza nei propri occhi, tutto richiama il figlio/la figlia, ogni cosa ha senso „in riferimento a‟. La realtà non è più confusa ed indistinta, ma non ha nemmeno una sua autonomia: è la proiezione. Da qui, tuttavia, il progressivo riemergere man mano anche di riflessioni proprie, la percezione di stati d‟animo originali, la elaborazione soggettiva di ciò che è avvenuto. Si è pronti per poter avere consapevolezza piena del proprio stato di dolore: una consapevolezza non confusa ed indistinta come era inizialmente, non 26 G. Salonia (2010), L’angoscia dell’agire tra eccitazione e trasgressione. La Gestalt Therapy e gli stili relazionali fobicoossessivo-compulsivi, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 1, 19-55. 27 Salonia G. (1989b), Dal Noi all’Io-Tu: contributo per una teoria evolutiva del contatto, cit. Relativo grafico in Tav.2. 14 espressa da un‟inerzia non vissuta, non agganciata a decisioni e modalità d‟azione altrui ma unica ed autentica. Sarebbe troppo coinvolgente, però, una tale assunzione di consapevolezza esistenziale e l‟energia che inonda la persona dà la sensazione di poter tracimare rompendo gli argini di sicurezza così faticosamente ricomposti. Reggere l‟ansia del „troppo pieno‟ è difficile, necessita di un sostegno da parte dell‟ambiente non sempre disponibile e così, come se una falla si aprisse nella diga, l‟acqua defluisce e ci si „consola‟ con pensieri o atteggiamenti divergenti: è la retroflessione. Spesso chi retroflette si pone in atteggiamento di cura nei confronti di chi gli sta accanto. È un atteggiamento che può persistere anche molto a lungo perché nutrito da gratificazioni compensatorie. Nel caso del lutto se la coppia genitoriale si rannicchia su un prendersi cura prima di aver elaborato in pienezza il lutto, si può creare una condizione di stallo28. Aggravante è il frequente caso che sia uno dei due partner che si fermi in una situazione di accadimento del dolore dell‟altro senza alcuna alternanza. La buona intesa reciproca ha permesso a questi due genitori di procedere attraverso le varie fasi supportandosi a vicenda, ma su quest‟ultimo stadio si è arenata, ed è infatti adesso che – sapientemente – hanno deciso di chiedere un aiuto esterno. È giusto ed era prevedibile che la prima accoglienza del dolore l’avremmo riservato a loro, ma il fatto stesso che si siano proposti come guida significa che hanno comunque voglia di andare oltre, di assumere un altro ruolo e l’osservazione fenomenologica me l’ha confermato. Mi allineo, dunque, con questa direzione che hanno già espresso. In un‟ottica esistenziale, la GT guarda al next, a quella direzione verso cui l‟organismo sta andando. Ciò che il terapeuta o il counsellor è chiamato a fare è muoversi nella direzione verso cui l‟altro sta andando. Fa figura il presente e il presente è sempre in divenire: è in un‟ottica evolutiva che qualsiasi evento si inscrive e secondo un‟ermeneutica evolutiva che va guidato e disincagliato là dove si fosse bloccato. «La clinica della GT punta a creare una relazione terapeuta-paziente nella quale venga attraversata ed elaborata l‟angoscia del paziente nel portare 28 Per le varie interruzione nel lutto cfr. P. Argentino, Psicologia medica. Fondamenti teorici e applicazioni cliniche della Gestaklt Therapy, in press. Cfr. anche ottime osservazioni in M. Guccione (2008), Processi di adattamento creativo dei familiari in lutto. Essere presenti per lasciare andare, Tesi Master in Psico-oncologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma. Vedi altresì Tav.3 in appendice. 15 avanti le intenzionalità relazionali e così vengano ricostruiti possibilità e percorsi che conducono al contatto pieno»29. - Mi dicevano che avete avuto voi l’idea di ricevere un aiuto in gruppo … – - Sì, è così. – Ci spiegano che sin dalle prime ore le uniche persone che hanno sentito vicine sono state quelle che avevano vissuto il loro stesso dolore. - Ci capiamo, ci guardiamo negli occhi e sappiamo cosa c’è nel loro cuore e sappiamo che loro sanno cosa c’è nel nostro. Le parole di tutte quelle persone che non hanno provato questo sono sempre di consolazione … non si sopportano! – Hanno preso ad incontrarsi, si sono ‘cercati’, poi si sono resi conto che non potevano continuare ad appoggiarsi l’un l’altro ma anche sentito di aver bisogno di un aiuto più specifico e così loro due hanno pensato di rivolgersi al vescovo come ‘pastore’ della cittadinanza, perché li consigliasse e facesse qualcosa di concreto in tal senso. Da qui l’idea di creare un settore della Pastorale Familiare ad hoc, per la cui attivazione e conduzione G. e D. hanno dato la propria disponibilità a collaborare. Nel caso dei gruppi gestaltici per l‟elaborazione del lutto la „coppia guida‟ è una coppia di genitori che hanno subito l‟esperienza della perdita del figlio/a e che si propongono per affiancare il trainer (che funge da sostegno psicologico). Il loro compito è quello di mantenere contatti amichevoli ed informali con gli altri genitori al di là degli incontri „istituzionali‟, di ricordare loro la prossimità dell‟incontro, di condividere con il trainer impressioni e riflessioni sull‟andamento del percorso e su singoli casi. Questo loro prendersi cura è possibile purché sono già a buon punto nella elaborazione del proprio lutto, viceversa il restare nel clima del lutto, pur se con altra veste, potrebbe essere un modo per camuffare un loro blocco e non completare l‟elaborazione. Non risulterebbe quindi vantaggioso per loro e potrebbe non rendere limpido e libero il loro intervento con gli altri genitori. Senza riferimenti di carattere scientifico per non trascinarli in ambiti di cui non è opportuno che si facciano carico, spiego, per sommi capi, come intendiamo condurre il gruppo. Solo poche battute: che sarà aperto a chiunque, sarà gratuito, ci sarà un argomento per volta da affrontare, avrà orari, luogo e data fissi. Nella scelta degli argomenti, invece, e nella successione da dare ad essi ci 29 G. Salonia (2011), L’improvviso, inesplicabile sparire dell’altro. Depressione, psicoterapia della Gestalt e postmodernità, cit. 16 lasciamo consigliare dai due coniugi. Concordiamo, infine, le modalità di diffusione dell’informazione e si opta per la realizzazione di un pieghevole e di locandine in cui inserire ogni riferimento utile. Scegliamo il tipo di immagini da inserire, una frase come didascalia, ed ogni altro elemento necessario. Alla fine li vedo molto soddisfatti. Gli occhi di G. sono pieni di commozione, D. mi abbraccia con forza. Un „contratto‟ vincola la relazione asimmetrica, le conferisce limiti, scansioni e modalità. Non serve che sia esplicita l‟ermeneutica che lo sottende (che è bene rimanga, soprattutto fino ad un certo stadio dell‟intervento, di appannaggio e libertà di scelta solo di chi si prende cura), ma è necessario che esso, nella sua definizione, sia ben chiaro. Trattandosi di un gruppo è il pieghevole elaborato per dare informazione dell‟iniziativa che funge anche da „contratto‟. Nella situazione di generale sbandamento in cui ogni genitore vede la propria esistenza, il contratto assolve ad una importantissima funzione di „contenimento‟: a chi considera la propria vita affondata nella imprevedibilità più catastrofica dà il senso della programmabilità e regolarità di un percorso, a chi non sa più da dove iniziare nella ricognizione del proprio stato fornisce coordinate direzionali, ma soprattutto a chi ha ancora tanto bisogno di essere sostenuto e non trova più sufficiente disponibilità in chi gli sta accanto assicura la presenza di qualcuno che si sta occupando con sistematicità ed idee chiare di lui. Indicare tempi (date, orari di inizio e di fine di ogni incontro), luoghi, argomenti contribuisce molto, in sintesi, a ridare senso di concretezza e di realtà, trasmette un senso di ordine, di progettualità e dunque di cammino. 17 Cap. 3 Dalla sensazione alla simbolizzazione Il tema scelto per questo primo incontro punta dritto al problema: Dov’è mio figlio? G. e D. ci hanno consigliato questo come primo argomento: - Quando sei là, al cimitero, e vedi che hanno già scavato la fossa e sai che lì dentro metteranno tuo figlio, non ci sono altre domande: devi sapere subito, subito subito se tuo figlio è lì, dentro quella bara, se è lì e se verrà sotterrato o se è altrove. – L’ascoltavamo raggelati io e don Gianni. - E qualcuno che ti dia una risposta, qualsiasi sia, ci deve essere! E deve dartela subito. – aveva concluso. Non avevamo altro da aggiungere: questo sarebbe stato il primo tema. Abbiamo discusso però, dopo, se esplicitare o meno la nostra risposta: dire che a parere mio e di don Gianni un’altra vita esiste o non esplicitarlo? L’urgenza di sicurezze di cui aveva parlato G. ben si adattava, d’altronde, da un alto al fatto che don Gianni è un sacerdote, nel volantino c’è il logo della Diocesi e gli incontri si tengono in una saletta parrocchiale (per cui la sua visione dell’aldilà è già esplicita), dall’altro al fatto che secondo me – data la perentorietà del malessere di questi genitori, del loro vuoto di certezze e della nebulosità del sentire in cui si sono trovati catapultati e considerato che non hanno bisogno di un trattamento terapeutico ma di un aiuto di consulenza – il primo più immediato bisogno è quello del contenimento. Presentarsi, quindi, con una dichiarata visione della vita e della morte abbiamo ritenuto fosse motivo di ancoraggio e di sostegno. Dopo un primo momento di accoglienza, iniziamo l’incontro con una piccola premessa con informazioni su di noi, sul precorso, sugli incontri, etc. Diciamo che siamo disposti ad ogni chiarimento, ma quasi nessuno si pronunzia. C’è una sorta di torpore che si respira, nei volti e nell’aria. Passiamo al tema: dopo una brevissima introduzione di don Gianni, intervengo io invitandoli a condividere la loro risposta alla domanda in questione. Ma parlare di domanda/risposta è assolutamente riduttivo, è un accenno a quella marea di interrogativi che d’un tratto, come uno tzunami, mi trovo di fronte: Che fine hanno fatto i nostri figli? Dove sono? Come stanno? Ci vedono? Si ricordano di noi? E se ora che sono lontani non ci riconoscono più? Una mamma mi dice: «Mi spavento che quando un domani io poi muoio sarò vecchia e lui si ricorda com’ero prima e non mi riconosce». 18 Piango dentro il mio cuore guardandola in quel momento. Sarebbe un pensiero assurdo da un punto di vista esterno, ridicolo – oserei dire – a sentirlo in sé. E invece, in questo contesto, è di una verità e di una crudezza atroci. Mi rendo conto che la difficoltà più grande che sto riscontrando è questo non poter piangere con loro, non poter esprimere tutto lo strazio che sento in questo momento dentro di me. Ma trovo la forza di trattenere, basta tenere gli occhi fissi su di loro e sulla relazione che c’è fra noi: io sono là per prendermi cura di loro, per cercare di aiutarli in qualche modo, sarà anche una briciola nel mare di sofferenza che li travolge, sarà un’esilissima cordicella in mezzo alle onde più tempestose, ma c’è. È qualcosa. E questo qualcosa è appunto il bisogno di essere contenuti. Di trovare un luogo che sappia accogliere il loro dolore. Qualcuno cui possano raccontare senza temere di risultare pesanti e senza doversi occupare e preoccupare di chi sta ascoltando il loro pianto. Questo mio restare con loro ma fuori da loro so che è un aiuto che posso dargli e restare cementata in questa consapevolezza mi dà la forza per farlo. Poi, magari, troverò tempo e modo di esternare e metabolizzare anch’io ciò che sto sentendo, ma fino a quel momento devo trattenere, retroflettere, altrimenti tradisco il mio compito. E la loro fiducia. Sentire che l’altro può starci accanto senza restarne ferito: me lo sono sentito ripetere tante volte durante le mie esperienze di formazione e l’ho sperimentato ampiamente sulla mia pelle nel contesto mio di persona che consegnava la sua sofferenza. Trovare un cuore aperto e braccia spalancate ad accoglierci, in cui tuffarci senza timore alcuno, è stato un dono che si è rinnovato tante e tante volte e che, in tanti anni, ha sanato le mie ferite. L’ho sperimentato poi nel mio prendermi cura e ora, ancora una volta, lo trovo basilare per restare ancorata alla verità dell’incontro. Nelle relazioni asimmetriche chi si prende cura deve contemporaneamente agire su due fronti: ciò che accade al confine di contatto (nei corpi, nei vissuti, nelle parole, nei gesti che registra al confine di contatto) e l‟ordine ermeneutico che lo sta guidando: «Mantenendo nello sfondo gli orientamenti diagnostici (che hanno la funzione di indicare la strada e non di descrivere il paziente), egli si centra sulle risonanze proprie e del paziente nello svolgersi della seduta» 30. 30 Dov’era Dio quando è successo? – G. Salonia (2010), L’anxiety come interruzione nella Gestalt Therapy, in L. D. Regazzo (ed.), Ansia, che fare? Prevenzione, farmacoterapia e psicoterapia, CLEUP, Padova. 19 - Perché non è intervenuto? Perché non ha alzato un dito? – ripetono in tanti. Chi non crede ed è scettico sul senso della vita, adesso si sente confermato nelle sue reticenze, ma chi aveva coltivato una visione di speranza si sente anche beffato. - Gode a vederci soffrire? È questo il Dio buono di cui parlano i preti? – sbotta un papà. - Ti senti ingannato. – gli rispondo. Conferma. - Non lo riconosci più il Dio in cui credevi. – dico ad un altro. Anche in questo caso conferma e manda fuori un profondo respiro. Non ci sono altri interventi da parte mia che risposte empatiche. È questo ciò di cui hanno bisogno in questa fase: parlare, raccontare, essere ascoltati. Una mamma chiede cosa sia il Cielo. Lo chiede rivolta a don Gianni. - ‘Cielo’ – sento che risponde – è tutto ciò che è lontano da noi, che è altro e che possiamo solo immaginare ma non sapremo mai veramente com’è. La parola di Dio ci dice che in questa realtà altra, in questa dimensione, c’è amore. C’è un amore smisurato che va al di là, appunto, di quello che noi possiamo immaginare. Le persone care che ora vivono questa esperienza ci amano. Ci seguono, ci stanno accanto. . . – - Ma allora soffrono vendendoci piangere? – chiede un’altra mamma. - Penso che vedono la nostra sofferenza, la sentono – dice don Gianni – ma la gioia che hanno di essere nella luce di Dio è più grande. Stanno col nostro dolore, ma non ne restano addolorati: se ne prendono cura. – L’argomento su cui insistono di più è lo stupore di ciò che è successo. Solo una coppia ha perso il figlio per malattia, le altre, fra i presenti, hanno tutte avuto suicidi o incidenti. Questo essere sorpresi dalla notizia, questo correre in ospedale e da quel momento vedersi crollare il mondo addosso li sconvolge. - La nostra vita è prima e dopo quella telefonata. – ripetono in molti. - Mi ero alzato, ero al lavoro, una giornata come tante… poi la notizia. – - Eravamo con mio marito a comprare delle scarpe, il nostro cellulare non prendeva e non ci trovavano ed eravamo nel negozio, mentre invece nostro figlio era morto. – Ricorre questo spietato contrasto fra la vita ‘normale’ e quello che è successo, questo irrompere improvviso che ha stravolto ogni cosa. In Gestalt si dice che sono venute a mancare le certezze scontate. Sono pressoché tutti ancorati caparbiamente all’evento di morte. Un papà in modo particolare mi colpisce nel suo stato di confluenza col figlio: si è fatto tatuar sul corpo il nome e il 20 viso del figlio. Su tutto il busto. Alza la manica del suo maglione nero e mi mostra il braccio. Poi aggiunge che sulle spalle e sul petto si è fatto tatuare il busto del figlio a grandezza reale. C’è una sovrapposizione anche fisica dell’uno sull’altro. - Ma non fa male farsi questi tatuaggi? – gli chiede con candore una mamma. - Fa molto male e anche per questo l’ho voluto fare: speravo di sentire qualcosa, ma non ho sentito niente. – le ha risposto. L‟organismo umano è considerato dalla GT come un agente (un Sé) che opera nel „qui ed ora‟ per incontrare l‟ambiente. In questo suo muoversi verso il contatto il Sé esercita la funzione-Io (si caratterizza, infatti, come identità soggettiva), ovvero la capacità di agire concretamente, ma è supportato dalle funzione-es, cioè dalle sue sicurezze di fondo (i messaggi che provengono dal suo corpo, gli istinti e i bisogni primari, l‟insieme di quegli elementi della propria esistenza contingente che non pone in dubbio, come la certezza che è seduto sulla sedia e che la sedia lo reggerà, che il sole non gli precipiterà addosso) e dalla funzione-personalità, ovvero ciò che sa di essere (chi è, quale è la sua storia, quale il suo ruolo sociale, quale il livello delle sue competenze). Ogni ciclo di contatto – in successione – prende avvio dalla funzione-es, si dipana esplicando la funzione-Io e modifica la funzione-personalità, che a sua volta alimenterà di nuove acquisizioni la funzione-es per influire dunque sull‟esercizio della funzione-Io del ciclo seguente, etc31. Le tre funzioni si integrano, dunque, ed influenzano a vicenda, ma se subentra un malessere ciò – per quanto sempre da considerare nella globalità della persona umana – può rivelare deficit a livello di una specifica funzione. Nel caso del lutto l‟innaturalezza del sopravvivere ai propri figli ha destabilizzato precipuamente il livello delle certezze scontate (funzione-es), ma fortemente intaccata risulta anche la funzione-personalità: frasi del tipo “Avrei dovuto dirgli di non andare in moto”, “Potevo portarlo da un altro medico ancora”, “Non ho saputo proteggerlo” ricorrono sovente. Più acuta è la sofferenza a carico della funzionepersonalità, poi, nel caso di genitori i cui figli si siano suicidati: l‟essere buoni genitori (per quanto assolutamente priva di fondamento possa essere questa convinzione) non fa più parte dell‟idea che essi hanno di sé. 31 Cfr. G.Salonia (1989a), Tempi e modi di contatto, cit.; G.Salonia (1989), Dal Noi all'Io-Tu: contributo per una teoria evolutiva del contatto, cit. 21 Intaccate in modo più o meno grave queste due funzioni, la capacità di portare a compimento con successo i propri episodi di contatto (funzione-Io), è ovviamente compromessa. Uno dei motivi che hanno portato alla costituzione di questo gruppo è stata proprio l’esigenza di trovare uno spazio di condivisione: «Passate le prime settimane, i parenti hanno cercato di allontanare il discorso. Si vede che lo evitano apposta: forse lo fanno perché pensano così di aiutarci, forse perché non ne possono più di sentire sempre le stesse cose. . .”. Un senso di solitudine preme su questi genitori, quasi di emarginazione. “Ci trattano come se fossimo dei diversi! – mi diceva un padre, con rabbia – Non c’è più spontaneità con noi, come se fossimo delle persone strane!». Si innesca una sorta di scaramanzia, di paura, che crea dinamiche di allontanamento e la sensibilità, oltremodo affinata dal dolore, di chi è nel lutto, capta ogni più lieve segnale di questi vissuti. Il bisogno di parlare è grande e si vede. Finalmente hanno un posto ad hoc per farlo senza sentirsi d peso o inappropriati per nessuno. Tuttavia, anche se molti si sono attivati, molti altri assistono quasi inermi a quanto accade intono a loro. Qualcuno si sta rivolgendo a chi gli sta accanto. Cerco di socializzare gli interventi. - Non era giusto che io e mia moglie vedessimo crescere nostra figlia? Che un giorno avessimo dei nipotini? Perché ci è stato negato? – mi dice M., un papà. E lo fa guardandomi fisso negli occhi. I suoi occhi neri profondi sembrano un tutt’uno con la pelle scura e il giaccone, nero anch’esso, in cui se ne sta avvoltolato. La sua domanda, il modo in cui lo dice mi colpiscono. Mi sembra anche un po’ la sintesi dell’argomento e di tutti gli altri interventi. - Che ne pensate di questo che sta dicendo M.? – chiedo alzando leggermente la voce in segno che vorrei catturare bene la loro attenzione. Si crea silenzio. Qualcuno chiede che venga ripetuta la domanda. Invito M. a farlo. Lo fa e tutte le teste annuiscono. È un coro di conferme, poi su tutte si leva la voce di una mamma. - Comunque abbiamo fatto bene a fare una famiglia, a crescere i figli, a sperare nei nipotini … questa era la cosa giusta che si fa nella vita, se le cose sono andate diversamente che ci possiamo fare? – All’improvviso c’è di nuovo un totale silenzio: qualcosa li ha scossi. Amplifico e chiedo: 22 - Siete tutti d’accordo che in ogni caso è stato meglio averlo avuto questo figlio, questa figlia, che ora non è più con voi? Sento ricco e pieno il silenzio che si respira in questo momento. Qualcosa di nuovo sta entrando nella loro prospettiva, eppure non mi sento serena in questo momento. Don Gianni, che sembrava per qualche minuto essersi guardato attorno un po’ confuso, sembra all’improvviso riemergere e mi guarda. Ci sorridiamo. Lo vedo alzarsi meglio sulle spalle e prendere la parola. Rilancia la proposta: - Volete, a giro, dire ognuno cosa ne pensa? – Mi coglie di sorpresa. Personalmente non sono d’accordo su questo regolamentare gli interventi, ma mi fido che un senso avrà e non obietto: ci sarà qualcosa nel suo dire che io non stavo vedendo. Gli do un’occhiata come a dire che prosegua pure e lui, infatti, va avanti e coordina il giro. Vedo che anche chi non aveva parlato adesso invece, su invito, fra lacrime e sospiri, riesce tuttavia a dire qualcosa. La parola passa da uno all’altro lentamente. Ognuno si prende il tempo che vuole, mentre gli altri aspettano e ascoltano, con grande rispetto reciproco. Mi sento compiaciuta di questa intuizione di don Gianni, che aveva guardato a ciò che per me era sfondo: io stavo attenzionando il loro dire e operavo su questo e lui guardava a chi piangeva in silenzio. Ora capisco perché non mi sentivo serena dopo aver formulato la mia domanda: il silenzio si protraeva troppo. La mia proposta, probabilmente, era troppo generica per l’impegno così introspettivo che richiedeva: hanno molto bisogno di essere presi per mano e guidati. Ho la sensazione, con la vulnerabilità cui li ha costretti li ha quasi infantilizzati in alcuni tratti. In un incontro di gruppo gestaltico l‟intervento del trainer non è mai direttivo: osserva, orienta, vigila, interviene a sostegno, modera gli interventi per assicurare che tutti possano avere il proprio spazio, ma lascia che le cose accadano. Suo compito è anzi, in sintesi proprio il favorire l‟accadere e quindi la libera espressione delle intenzionalità relazionali dei membri. Ci si fida dell‟autoregolazione dell‟organismo in relazione e dunque della capacità di un gruppo di interagire mirando nel proprio insieme verso il contatto pieno 32. 32 Riflessioni su dinamiche e percorsi dei gruppi in A. Pisana (2009), Ciclo vitale del gruppo e vitalità di un gruppo, cit. 23 La opportunità che sia una coppia a guidare il gruppo è dettata dalla fisiologica struttura cogenitoriale di ogni intervento formativo33. Se fa da sfondo una logica relazionale (fiducia che l‟altro, nella sua diversità da me, arricchisce il mio stato d‟essere restituendomi parti di me non ascoltate), allora pause, idee creative, risonanze interiori, tensioni e luci dei due trainer si amalgameranno a vicenda in un tutt‟uno che assicurerà al gruppo un fluire articolato e compatto ad un tempo. Nella fattispecie la coppia è costituita da un esperto in ambito psicologico ed uno in ambito religioso sia per la circostanza che ha dato vita al gruppo (l‟iniziativa del Vescovo) sia per la tematica in sé, che rimanda necessariamente al mondo dell‟aldilà e a temi ultraterreni e di fede. Non è tuttavia necessario che sia un sacerdote l‟esperto in questo campo, ma anche un laico che abbia competenze di counsellor pastorale può assolvere questo compito34. Nell’ambito dell’incontro penso che questo sia stato il momento del contatto pieno. La richiesta che ognuno si pronunziasse e che fosse chiamato ad esprimersi in modo personalizzato ha costretto i genitori ad emergere – anche se solo temporaneamente – dalle frasi ormai meccanicamente ripetute mille e mille volte o dalla stasi. Dal magma confuso ed indistinto di sensazioni che li frastornava, hanno potuto enucleare parole vere. Abbiamo sforato di parecchio rispetto ai tempi previsti, ma il tempo è volato e non mi sono sentita di chiudere prima che li vedessi pronti a questo. Ci salutiamo con calore, tutti ci ringraziano. Vado verso il posteggio. Il rumore del motore che si accende è un tutt’uno con quello dei miei singhiozzi che esplodono. 33 Sulla cogenitorialità G. Salonia (2010), Lettera ad un giovane psicoterapeuta della Gestalt. Per un modello di Gestalt Therapy con la famiglia, in M. Menditto (a cura di), Psicoterapia della Gestalt contemporanea. Strumenti ed esperienze a confronto, Franco Angeli, Milano, 185-202. 34 Corsi di counselling educativo e pastorale sono attivati da diverse scuole di psicoterapia e di antropologia. Ad orientamento gestaltico ricordiamo il biennio tenuto dall’Istituto di Gestalt Therapy Kairòs e dall’Istituto di Antropologia Paideia. 24 Cap. 4 Dalla direzionalità all’eccitazione L’ideale per ogni percorso sarebbe che tutti i partecipanti iniziassero insieme e concludessero insieme, ma il ritrovarsi a dover far fronte a questa situazione non ha tempi stabiliti né previsioni, per cui può succedere che quando il corso si è già attivato altri abbiano bisogno di parteciparvi perché ne è sopraggiunta la necessità. Dato il dolore cocente per il quale chiedono aiuto, si è deciso di non rimandare e di inserirli comunque, attuando però un periodo di precontatto personalizzato: andiamo cioè a trovarli in casa e facciamo degli incontri in cui possano esprimere e raccontarsi con libertà e solo in un secondo momento li invitiamo all’incontro domenicale. L’approccio iniziale è sempre quello di aspettare che qualcuno ci chiami (o un amico o un familiare) e quindi – su presentazione – li contattiamo telefonicamente e, se sono disponibili, li andiamo a trovare. Non vogliamo presentarci mai di nostra iniziativa sia per non dare l’impressione di una sorta di delegazione post mortem, che risulterebbe più lugubre che altro (a me, poi, richiama l’idea dei monatti e so bene che chi si prende cura non è mai opportuno che si forzi nelle sue azioni, ma si fidi che il suo sentire avrà un senso), sia perché se non c’è già un minimo di apertura il nostro intervento sarebbe comunque rifiutato e ci saremmo preclusi la possibilità di approcciarli in un secondo momento più opportuno. Per diffondere la conoscenza del nostro sevizio, d’altronde, abbiamo fatto realizzare manifesti appesi in tutte le chiese, sensibilizzato i parroci, diffuso volantini per le scuole e negli uffici, etc. Non sempre dopo il primo contatto c’è la disponibilità a partecipare al gruppo, ma restiamo ugualmente vicini, continuiamo a sentirli telefonicamente, a fare altre visite se vediamo che ci sono i margini adatti. Non c’è uno schema fisso di ‘visita’: andiamo da soli o insieme, a seconda di come presenta la situazione. A volte preferiamo evitare che al primo impatto ci sia io per non dare un’impressione da intervento psicologico, a volte che ci sia don Gianni se non siamo sicuri che gradiscano il riferimento religioso: il criterio è sempre la delicatezza. Il primo accorgimento, di fronte a scottature così gravi, è la cautela, la prudenza, la delicatezza appunto. Mai fornire ricette sicure, mai elargire consigli, mai portare l’esempio di altre persone o assicurare speranze certe: stare col loro dolore e basta. Solo questo è possibile in una fase iniziale. Ascoltarli. Ascoltarli e assentire, non hanno bisogno d’altro: solo di essere accolti così come stanno. 25 Stavolta siamo andati a trovare una famiglia colpita dalla disgrazia del figlio morto per un incidente stradale. Siamo ‘al completo’: io, don Gianni e la coppia guida. È sera, dopo cena, così che abbiano finito di lavorare. Mi colpisce, all’ingresso, un vaso con grandi fiori di stoffa, coloratissimi. Tanti sopramobili, statuette, centrini all’uncinetto. . . Ogni volta è come entrare in una casa ‘congelata’, dove tutto è rimasto com’era ma tutto è diventato gelido. Quello che voleva essere cura e calore ora ha un sapore tetro e amaro. Ci sediamo in salotto. Sono pochi i minuti in cui si parla del più e del meno, poi il pianto affiora e il racconto inizia. Hanno un bisogno enorme di svuotarsi. Sempre. Tutti. Penso a come sembra assurdo, qui, in questo momento e in questa casa, che non si faccia niente per questa tragedia, come sarebbe assurdo non dare l’occasione a persone così provate di raccontare il loro dolore! Li ascolto con tutto il cuore. Cerco di mettermi comoda sulla poltrona, di respirare serenamente perché voglio esserci, con tutta me stessa. Ed esserci, nel mio ruolo, è soprattutto guardare ai processi familiari e individuali. È come se nel mio cervello si azionasse un filtro che mi evidenzia tutti i dati utili a questa lettura e li estrapola dai loro discorsi, me li colloca allineati uno dietro l’altro a formare un puzzle. - Andavamo allo stadio tutte le domeniche, da vent’anni – racconta il padre – mai una volta io da solo e mai una volta lui da solo. - - Per me mio fratello era tutto. – ci dice questo giovane esile, con un felpa scura e grandi occhi verdi, che si è seduto accanto a me – È stato così felice quando gli ho presentato la mia fidanzata! E lei si è trovata benissimo con mia cognata, con la moglie di mio fratello. Uscivamo sempre tutti e quattro insieme. – Continuano a raccontare. Chi parla è soprattutto il padre, va a quando lui era ragazzo, alle sue vicende familiari. - I miei genitori avevano sempre e solo lavorato, onestamente, non si meritavano questo! – esplode il fratello. Mi guardo attorno. La casa è elegante, è grande. I frutti del loro lavoro sicuramente li hanno avuti e da quello che raccontano erano una famiglia felice, affiatatissima e serena. Parlano di gioia, di tanta gioia. - Si scherzava, si scherzava sempre! “Mamma, prepara che stasera veniamo tutti qua”, ci diceva mio figlio e la sera c’era baldoria. – ci dice la madre. 26 - Sì, e io mi sedevo con loro, come un ragazzo anch’io. . . che tempi meravigliosi! Ora tutto questo non ci sarà più. – continua il padre. - Eravate molto affiatati. C’era tanto calore. – ripeto, restituendogli quello che mi dicono, non di più e non di meno. Mentre parlano si guardano l’uno con l’altro e ognuno ci fa notare l’ingiustizia e il dolore di vedere soffrire l’altro. - Questa figlio aveva diritto a sposarsi felicemente – dice il padre, guardando verso il ragazzo seduto accanto a me – e invece la sua vita non sarà più la stessa. . . – - La mamma aveva sempre fatto sacrifici e ora cosa le tocca. . . – fa lui, scoppiando in lacrime. È come se ognuno dovesse sopportare un dolore raddoppiato, triplicato e non può, perciò, riuscire a reggerlo. Ci chiedono consiglio su come fare a sopportare, a riprendersi. È incredibile la forza della vita: non c’è più un’aspirazione alla felicità, ovviamente, ma c’è sempre un appello a cercare di soffrire quanto meno possibile. In questo caso, data tanta accentuata coesione nelle loro relazioni, pensiamo che la cosa migliore sia aiutarli a ‘slegarsi’ l’uno dall’altro cosicché ognuno – individualmente sostenuto da noi – possa prendersi cura del proprio dolore, libero quanto più possibile dal peso del dolore degli altri familiari. Così, mentre don Gianni propone al fratello di incontrarlo in privato per qualche colloquio personale, magari – se lo vuole – con la sua fidanzata, alla coppia dei genitori proponiamo di venire al gruppo. Accettano, sia gli uni che gli altri. E c’è un sorriso di sollievo nel ragazzo quando sente che i genitori andranno per i fatti propri, nei genitori mentre il figlio memorizza sul suo cellulare il numero di don Gianni. Il lutto, con la prepotenza del suo erompere nella storia, nelle dinamiche relazionali, nei vissuti di una famiglia, con la violenza del suo sprigionarsi, smaschera tutte quelle dinamiche relazionali che non erano funzionali. Spezza gli equilibri e diventa spesso l‟inizio di una riscrittura più sana delle relazioni fra i membri rimasti. In molti casi permette anche che si trovi una giusta ottica con cui guardare al familiare defunto. È l‟unica via per poter intraprendere un percorso di elaborazione: costruire su basi nuove quanto è stato destrutturato. Una famiglia confluente o invischiata35, non essendo strutturata su una valida qualità di contatto né su una chiara definizione dei 35 Cfr. S. Minuchin (1978), Famiglie e terapie della famiglia, Astrolabio, Roma. 27 ruoli e delle competenze36, ha più difficoltà a reggere l‟impatto già in sé devastante del lutto. In questi casi interventi specifici, individualizzati o di coppia, aiutano l‟elaborazione. Quando all’incontro successivo questa nuova coppia partecipa, viene dato spazio speciale a loro, perché si presentino e dicano quanto vogliono. Ascoltano tutti con serenità, anche chi si commuove lo fa silenziosamente, senza voler attirare l’attenzione su di sé, ‘complice’ dell’aiuto che è possibile dare alla nuova coppia. La loro non è una storia diversa o più traumatica di quella degli altri, ma il fatto che siano presenti per la prima volta sta creando una salutare e spontanea enfasi su di loro. Fa bene a loro perché hanno tutto lo spazio che desiderano e agli altri perché si distanzino un po’ dal proprio lutto. Poi, gradatamente, alche gli altri genitori si prendono il proprio spazio, e qualcuno ri-racconta la propria storia. Mi colpisce moltissimo la pacatezza con cui ognuno lo fa: il narrare è ordinato, le lacrime scendono lente e silenziose, il tono di voce è calmo. È evidente che l’aver già sperimentato negli incontri precedenti la possibilità di raccontare senza doversi preoccupare della ricaduta sugli altri gli ha permesso di poter sentire in pieno le proprie emozioni e di dare un ordine sequenziale ai fatti, che è già un non esserne schiacciati o sovrastati. Ogni dolore, se non condiviso, se non espresso in verità e libertà, diventa incubo. Si sviluppa un senso di isolamento ed inadeguatezza. Ci si blocca. È questo sfondo così lacerato che stiamo cercando di ricostruire insieme. Come se raccogliessimo i brandelli di vita scagliati tutt‟intorno da un‟esplosione improvvisa e a poco a poco, pur se provocando a volte ulteriore dolore, li ricucissimo l‟un l‟altro. Restano sempre i rattoppi, le suture bruciano, qualcosa ha assunto una forma diversa, ma se si sarà ricreato uno sfondo esplorabile e flessibile l‟io può tornare a far figura e la vita a fluire. È da uno sfondo relazionale – o, come dicevamo, da una traità – che le parole emergono e in questa prima fase degli incontri è proprio la traità che abbiamo cercato di ricucire. Rassicurati da una traità accogliente e onesta ma anche forte e libera, i genitori possono adesso dire. È la fase della simbolizzazione. Tuttavia, se la dicibilità è requisito fondamentale della possibilità di procedere nell‟esperienza del contatto, perché le parole siano efficaci e producano movimento del sé è necessario che esprimano esattamente ciò che si sente, che lo esprimano tutto e 36 Approfondimenti in G. Salonia (2010), Lettera ad un giovane psicoterapeuta della Gestalt. Per un modello di Gestalt Therapy con la famiglia, cit. 28 che lo esprimano in autenticità. Per questo è importante sollecitare una piena focalizzazione dei vissuti. Se la morte di un figlio è, per certi aspetti, un subire una violenza dalla vita (acuita nel caso in cui la morte sia avvenuta per suicidio), il narrare e narrarsi è parte integrante del processo di guarigione: «Raccontare una storia consente di stabilire un contatto umano con il prossimo interrompendo l‟isolamento provocato dalla 37 violenza » . Gli condivido quanto ho notato: - M., vedo che hai raccontato la vostra storia con molta calma. – - Sì, me ne accorgo anch’io che mi sento più tranquilla. – Tira un profondo sospiro, poi per un attimo si rabbuia: - Però non è distacco … – - No, di certo – la rassicuro – Non si può essere distaccati rispetto ad una cosa del genere. – Mi fermo. Le sorrido, la vedo rasserenata e continuo: - Come ti senti nel notare questa maggiore tranquillità? – - Meglio così! – esclama candidamente. Tira un sospiro, si accomoda meglio il cappotto sulle spalle, poi continua: - Qui ne ho potuto parlare senza problemi. – - Cioè? – le chiedo perché vada avanti nell’esplorazione in cui si sta inoltrando. - Tu e don Gianni ci ascoltate senza piangere, e per questi altri genitori non è niente di nuovo. Ce l’hanno già uguale a me il dolore. Siamo tutti nella stessa barca … – Si ferma e si guarda intorno. Molti sguardi si incrociano. - È così – conferma subito un’altra mamma – io me ne accorgo che adesso se mia sorella, quando parliamo di mia figlia, si mette a piangere non mi preoccupa più. Continuo a parlare. Io ho diritto a parlare quanto voglio (è mia figlia!) e lei, che è la zia, ha diritto a piangere. – Altri feedback accompagnano in coro queste condivisioni. C’è una unanimità di consensi. I genitori che sono venuti oggi per la prima volta si guardano l’un l’atro: - Speriamo bene! – sospira lui. Solo un papà rimane immusonito nelle sue braccia conserte, a sfidare quasi quest’atmosfera lieve che si è creata. 37 V. Var (2012), La GT e la cura del disturbo post traumatico da stress. Un'ipotesi di intervento in gruppo con i sopravvissuti del genocidio cambogiano, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 3, in press. 29 - F., tu che ne pensi? – gli chiedo. Sbuffa, si solleva un po’ sulla schiena, poi: - Ne possiamo parlare quanto vogliamo! Tutte illusioni! I nostri figli non ce li restituisce nessuno! Vogliamo dire che ora è bello parlarne, eh? – - Non stiamo dicendo questo! – ribatte una mamma – Ma io è vero che mi sento diversa. Io avevo raccontato mille volte dell’incidente di mio figlio e di tutto il resto, ma come ne parliamo qua non ne abbiamo parlato mai. – C’è un tono caldo nelle sue parole, non è solo un obiettare il suo ma un voler sostenere F., un volergli dare quella speranza che lei sta sperimentando. Un papà che è seduto vicino ad F. gli mette una mano sul ginocchio: - Hai ragione, i nostri figli non tornano. Figurati se non lo sappiamo! Ma possiamo anche stare meno male. – F. nicchia inarcando le sopracciglia, ma non risponde. Questo tipo di gruppo è inevitabilmente ad alta coesione perché le situazioni che vivono i vari membri sono molto simili38 e i vissuti quindi già scontati e noti l‟un l‟altro, il che non solo avvantaggia il percorso che stanno compiendo, ma riduce anche la sensazione di esclusione sociale e di differenziazione radicale che avevano avvertito all‟inizio dell‟evento luttuoso e che aveva contribuito a picconare (sgretolare, a volte) la funzionalità del sé. A livello di processi di gruppo, «Se una persona sente qualcosa all‟interno del gruppo, dato lo sfondo condiviso, ciò implica che almeno un‟altra persona sente o sperimenta qualcosa di simile. Se quella persona verbalizza all‟interno del gruppo il suo sentire, è probabile che stia esprimendo la voce di una parte del tutto. Gli altri possono decidere di esprimere, condividere ed esplorare quell‟esperienza»39. Tuttavia il vantaggio dell‟elaborazione in gruppo è precipuamente quello di poter dar spazio a vissuti estremamente complessi come quelli che subentrano dinanzi alla morte di un figlio: accade, infatti, che le diverse voci che si affollano in un cuore trovino espressione differenziata e possano così più agevolmente essere riconosciute e vissute. È una dinamica figura/sfondo. Se un sentire nuovo fa figura in alcuni, ciò che prima in loro emergeva è refluito nello sfondo ma avverte ancora il bisogno di essere presente ed attenzionato; tuttavia, trovando dimora nella verbalizzazione di altri, „si rassicura‟ e si fa da parte, consentendo alla nuova figura di acquistare 38 Cfr. la differenziazione in base al contesto, condiviso o meno, di S. Gaffney (2006), Gestalt with groups: a crosscultural perspective, in «Gestalt Review», 10(3), 205-219. 39 V. Var (2012), La GT e la cura del disturbo post traumatico da stress. Un'ipotesi di intervento in gruppo con i sopravvissuti del genocidio cambogiano, cit. 30 consistenza e forza liberamente. Sapere – anche inconsapevolmente – che altri continueranno, ad esempio, a mantenere un sentire prevalente di rabbia, permette di oltrepassare la propria rabbia e di esplorare vissuti di perdono o di accettazione. E, viceversa, ognuno si può permettere di stare ancora coi propri vissuti di rabbia perché qualcuno sta dando voce al desiderio di andare oltre che pure si affaccia dentro il suo cuore. Una coppia durante questo mese ha avuto la nascita di un nipotino. Ce l’ha comunicato appena entrati e tutti hanno fatto capannello attorno a loro. Poi l’attenzione si è concentrata sulla coppia nuova, ma mi sembra opportuno tornare a questa altra novità. Chiedo - È stato bello avere questo bimbo, ma per noi le gioie, ormai, non sono mai piene – ci dice P., la madre - Guardi il bimbo e pensi a come era tuo figlio, pensi a cosa direbbe adesso a vedere che sua sorella è diventata mamma … – - Tutto richiama. – le confermo. - Esatto! – - Ci sei stata in ospedale? L’hai tenuto in braccio? – le chiedo. - Sì, certo. C’ero. Non l’ho mollata un attimo a mia figlia. Ma sai, poi pensi a lui … - Non è bene che resti così generico il suo dire: - Capisco. Ma come ti senti esattamente, P.? – Tira un energico sospiro: - È come quando ti cade del sale in una tazzina di caffè: puoi saggiungere tutto lo zucchero che vuoi, ma ormai è imbevibile. – Altri si accodano a confermare. - È così, non pensi ad altro e in tutto c’entra il pensiero di tuo figlio. – dice un’altramamma. Si sta parlando di come le difficoltà si acuiscono in prossimità delle festività natalizie. Raffrontarsi con la gioia del mondo è un tormento in più. Una mamma, L., esordisce dicendo: - È come quando per sbaglio metti del sale nel caffè: puoi aggiungere tutto lo zucchero che vuoi, ma resta sempre imbevibile. – Qualcuno dei presenti ribatte, c’è chi porta qualche esempio di vita propria per dimostrare che in effetti, però, a poco a poco, qualcosa si può tornare ad assaporare, ma lei insiste su questo aver perso ogni gusto della vita. 31 Questo è un classico esempio di interruzione: è più che un generalizzare, è un non distinguere la differenza fra le esperienze. È rimasta confluente con ciò che è successo, con quello specifico evento, e tutto viene assimilato ad esso. Provo a portarla su un altro piano: - Hai ragione, P., resta imbevibile un caffè con del sale dentro. Questa è la tua ferita, il tuo dolore, nessun fatto che potrebbe essere gioioso può toglierti il dolore. – Mi segue e annuisce, mi fissa negli occhi, continuo: - Ma è possibile, P., bere da altre tazzine? Ci possono essere altri caffè per te? – All’inizio la risposta da parte sua non è immediata, ma gli altri hanno fatto cerchio attorno a lei e si ancorano al mio input e con delicatezza e pazienza la portano a riconoscere che altre tazzine ne ha bevute e ne può continuare a bere: - Il mese scorso, quando i bambini del catechismo che seguo hanno fatto la prima confessione mi sono commossa, era bello vederli così puri e emozionati … - ci dice, tornando in pratica sui suoi passi rispetto alle affermazioni iniziali. Continua a guardarmi e tutti respirano meglio. Sono questi corpi più distesi che mi dicono che qualcosa hanno ricevuto. Preferisco lasciarli con questa sensazione positiva, perché la assimilino con calma, senza che altri discorsi si accavallino. Esplicito questo, lasciando anche un ‘compito’ per il tempo da qui al prossimo incontro. Riprendo la metafora perché ho visto che un po’ tutti l’hanno utilizzata poi nei loro interventi: - La vostra tazzina, quella del cuore del vostro cuore, resterà sicuramente di un sapore orribile, ma provate a bere altre tazzine, vedete che gusto hanno. Poi ne parliamo. Sostegno specifico si definisce un interevento che si ponga in direzione speculare ma opposta rispetto al tipo di interruzione presentata. Così, rispetto ad uno stato di confluenza ce tende alla non distinzione fra sé e ambiente si agirà verso una differenziazione, rispetto ad un atteggiamento retro flessivo si spingerà verso l‟audacia perché l‟energia attivata non si blocchi, e così via. L’evento della nascita di questo bimbo è appropriatissimo al tema di oggi: come convivere con le gioie del mondo. Siamo in prossimità del Natale e infatti l’abbiamo scelto proprio come argomento dell’incontro di Dicembre proprio per il suo inevitabile riaccendersi. - Prenderei un facile e sparerei ad una ad una a tutte le lucine che ci sono in giro – fa una mamma. 32 - A me non interessano, nemmeno le vedo. Passo nelle strade e non me ne accorgo nemmeno che ci sono. – - Ma come fa la gente a provare tanta eccitazione per queste cose? Ma non lo vedono che siamo in balia della sorte? Che ci può cadere la casa addosso da un momento all’altro? – Una certa rabbia è presente un po’ in tutti. Questo è un bene. La rabbia è una potente fonte di energia: fa chiudere i pugni, vibranti, fa tendere i nervi e stringere i denti: in qualche modo si va avanti, c’è qualcuno con cui prendersela, c’è un colpevole, c’è un torto in qualcuno o qualcosa, e questo è un sollievo grande. Una spiegazione. I filosofi antichi dicevano che l’uomo è un animale razionale: coi secoli si è capito che non è che sia solo questo, ma che questa era comunque anche una grande verità. Molte volte gli umani non si chiedono il perché della vita o il senso dell’accadere fino a quando non c’è qualcosa che li ruzzola giù dai loro piedistalli. È come quando si fa attenzione alla sedia su cui si è (si era) seduti perché d’improvviso si rompe e ci catapulta a terra. Sta di fatto che se quella logica viene meno ci si scuote e ci si interroga. Così, chi si è trovato ‘tradito’ dalla sedia su cui stava tranquillo non resta seduto a terra (è ugualmente seduto, no?) ma subito si alza, gira e rigira fra le mani la sedia, cerca di capire dove si è spezzata, di ricostruire come e perché può essere successo. Poi ne cerca un’altra, si assicura che regga bene, che sia più solida di quella precedente e torna a sedersi. Se nel frattempo è saltato all’occhio che c’era un difetto di fabbrica e c’è qualcuno con cui prendersela, tanto meglio! Eppure molti interventi si presentano già, in questo momento, come considerazioni ormai acquisite di distacco anche dalla rabbia stessa. - I colleghi in ufficio si sentono sempre nervosi per un nonnulla, a me non fa perdere le staffe ormai niente. Non mi interessa niente di qualsiasi cosa succeda. – dice una mamma che ha perso la figlia da pochi mesi – È già tanto che vado in ufficio io. – - Anche io non mi sento più scalfito da nulla, ma non è indifferenza, è che so che niente è importante tanto da farmi rovinare la giornata. A persone come noi non possono interessare le stupidaggini. – sottolinea V. Un papà è più veemente degli altri: insite sul sopruso che ha subito da aprte di chi gli ha strappato il figlio. - Avevo puntato tutto su lui! – sbotta – doveva diventare adulto, doveva ancora studiare etc, perché doveva morire? – 33 Insiste a ripetere con frasi diverse lo stesso concetto. C’è un’acrimonia nel suo tono che infastidisce visibilmente molti genitori. L’energia è alta. È lei, G., che prende la parola d’impeto, incalzandolo: - F., lo vuoi capire che i figli non sono nostri? Doveva … doveva … ma che diritto abbiamo di fare previsioni? Me lo spieghi? Niente è dovuto e niente è scontato nella vita: poteva non succedere ed è successo. Potevano non nascere e sono nati, e allora? – Mai nessuno avrebbe potuto rivolgersi così, con questo tono e con queste parole, ad un genitore. F. è ammutolito. G., d’altronde ha tutta l’autorevolezza e la credibilità possibile per parlare: lei non solo come coppia guida ha sempre mantenuto un atteggiamento di cura sempre caldo e attento, ma ha la posizione di chi non può essere contar battuta perché il suo era il più giovane dei ragazzi che si sono suicidati e questo la rende più in alto in una scala di ingiustizia e di assurdità di condizione. Non solo è condivisa una lettura gerarchica nella scala della gravità della condizione a seconda delle situazioni familiari e della modalità della morte, ma nel loro parlare hanno anche acquisito un linguaggio comune, quasi un gergo con termini ricorrenti che li caratterizzano come categoria a sé e questo non favorisce il procedere verso l’elaborazione perché è un restare confluenti con l’evento luttuoso: ‘noi’ è l’insieme di chi ha perso un figlio, ‘mondo’ chi non ha mai vissuto questa sofferenza, ‘prima’ è prima della morte del figlio, ‘dopo’ è dopo di essa. È una fase delicata questa del processo: da un lato si avverte il bisogno di rassicurazione, dall‟altra più si rafforza la sicurezza di un sostegno di gruppo, più subentra un senso di soffocamento che stimola verso la differenziazione rispetto al gruppo. È come se quel guscio protettivo che ha permesso l‟impianto e lo sviluppo del‟embrione divenisse man mano troppo rigido, tanto da ostacolare l‟ulteriore sviluppo di esso. Si crepa, allora, e si fende: dalla fenditura del „noi‟ può far capolino l‟„io‟. Di fronte al silenzio di F. (il cui figlio è morto per incidente stradale), un altro papà che si trova invece nella stessa condizione di G., reagisce alle sue parole: - Troppo facile! Come fai a dire queste cose, G.? Non ci possiamo rassegnare! – G. guarda verso di me. La tensione è altissima. È un dato di fatto che il carico umano di chi perde un figlio / una figlia per suicidio è carico di significati e pesi aggiuntivi. I sensi di colpa (tipici della confluenza) si mantengono per il significato particolare che il suicidio riveste per i familiari. 34 Questo del suicidio ( e particolarmente del suicidio giovanile) è il tema che ha dato l’input iniziale a tutto il processo che ci ha portato fino a questo momento oggi qua. Fra le prime chiarezze di cui ho avuto bisogno c’è stato proprio questa: farmi un’idea (non importa se ‘giusta’ o ‘sbagliata’, se anche di correttezza o meno di interpretazioni si potesse parlare) precisa sul suicidio. Una lettura che mi convincesse pienamente che mi rendesse pronta in momenti come questo a rispondere. Ognuno di loro una sua idea se l’è fatta ovviamente, ma la marea degli interrogativi è troppo grande e i coinvolgimenti emotivi troppo laceranti: so che proprio su questo c’è bisogno di dare risposte. Questo silenzio me lo sta confermando. Don Gianni mi guarda interrogativamente, con lui ne abbiamo parlato già e sa di cosa sono convinta e condivide. Mi fa cenno di parlare. È un momento cui mi sono preparata e che ho assimilato, ma in questo momento mi sta facendo paura. Il sorriso di don Gianni mi rincuora - Vedete, forse su questo è meglio dare un chiarimento – esordisco, e spiego la mia idea. - Il suicidio è una malattia come le altre. Inganna perché si pensa che chi lo compie lo desideri, ma non pè così: non lo si vuole così come non si vuole una leucemia o qualsiasi altra malattia. È come una cellula cancerogena: vive nel nostro corpo e non sappiamo che esiste fino a quando non si manifesta. Il resto del corpo continua a crescere normalmente ogni giorno e invece quella cellula / quelle cellule si ingigantiscono. Hanno una vita parallela. Il pensiero del suicidio si affianca ai pensieri ‘normali’ e man mano diventa così forte da portare alla morte. Come il cancro che è vissuto dentro il corpo e lo porta alla morte. – Uso termini semplici volutamente: immagino quanto ronzio nelle orecchie devono avere in questo momento tutti questi cuori affranti, queste menti logorate alla titanica ricerca di una verità. - È un corto circuito – commenta un papà che da sempre si è espresso in questi termini. Confermo. - Il mio terapeuta – dice una mamma, confermando anch’essa – mi ha detto una volta che chiunque di noi potrebbe fare un passo del genere in qualsiasi momento, che è un momento di follia. – - Ma allora come si spiega che mio figlio ha anche scritto una lettera, ha preparato tutto… non è un momento! – ribatte un’altra mamma. - Hai ragione. – le rispondo – c’è uno sdoppiamento, è appunto una follia. Se ci forsse lucidità pensate che avrebbero mai voluto dare un dolore del genere a voi genitori? – - Sì, nella lettera c’era scritto che ci amava e che eravamo stati degli ottimi genitori… 35 - E che ora vi stava colpendo in un modo così atroce … ti sembra logico? Non è follia? – Mi sento decisa e forte in questo momento, molto più di quanto non mi sentissi fino a pochi minuti fa: significa che è dal confine di contatto che mi arriva questo sentire, e che dunque viene da loro, che questo richiedono in questo momento. Sto col mio sentire. - Purtroppo la mente umana è totalmente sconosciuta ancora – continuo – il nostro cervello è un mistero. Come il corpo stesso, d’altronde. Dobbiamo arrenderci al fatto che è stato un gesto che non era dettato dalla loro volontà. Ognuno di questi ragazzi, se avesse avuto la possibilità di decidere liberamente e col cuore non l’avrebbe fatto né ora e né mai. – Vedo che annuiscono: nessuno sta piangendo in questo momento, il loro respiro è calmo, nessuno parla. . . inghiotto e mi rilasso: grazie a Dio è andata bene! 36 Cap. 5 Dall’azione al contatto Ho fatto un giro di telefonate per ricordare dell’incontro, per farli sentire pensati. Qualcuno ha bisogno di una parola in più, una mi chiede, fra le righe, di parlarmi a tu per tu: c’è spesso una ritrosia, un timore di essere pesanti. Anzi, È la loro voglio inconfessata e inconsapevole di star bene la mia migliore alleata. C‟è un muoversi dell‟organismo verso il benessere che non conosce ostacoli né arresti. È un richiamo della vita alla vita che supera l‟esistenza di ognuno, supera gli eventi e le circostanze e appella perché se perpetuino e permangano quei tessuti di relazioni, sentimenti, valori cui sappiamo di appartenere e che ci trascendono e cui ci sentiamo legati più e oltre il nostro supporre. Il miglioramento è dunque sempre possibile: «Gestalt Therapy ritiene che nella fedeltà al proprio esserci e alla propria storia, nel sentire ogni parte del sé e del suo sistema di rapporti dinanzi all‟altro che provoca e attacca, nel non sottrarsi alla lotta e al dolore in forza di una dignità che viene dall‟esistenza buona, dalla crescita nutriente, dall‟aver conosciuto il volto accogliente dell‟altro, ci sia un‟energia capace di generare pace anche nel lutto»40. Si parla di „potere di auto guarigione‟ 41 che è comune a tutti e che consiste nella volontà innata e permanente dell‟essere umano di sopravvivere e di guarire. Come sempre, siamo seduti in cerchio. Ognuno si siede liberamente, ma quasi tutti preferiscono restare sempre nella stessa zona del cerchio, come se avessero dei posti fissi. Faccio altrettanto perché i movimenti, se verranno, arrivino al momento in cui saranno essi stessi ad attivarli. Anche stavolta evitiamo il classico giro che si effettua in ogni gruppo con domande del tipo «Come state?». Sarebbe un ferirli. Diamo invece molta importanza ad un’accoglienza personale: incontrandoli ci facciamo loro incontro, li abbracciamo, le mani si soffermano a lungo l’una sull’altra, gli sguardi sono anch’essi prolungati. L’arrivo all’incontro è sempre emozionante, vedersi è come ritrovare il proprio dolore nel volto dell’altro. Non c’è spazio per le parole, ci vuole qualcosa di più intenso. Qualcosa di corporeo. 40 A. Sichera (2012), Antigone. Perché?, in G. Salonia, La grazia dell’audacia. Per una lettura gestaltica dell’Antigone, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, in press. 41 Cfr. R. F. Mollica (2007), Le ferite invisibili. Storie di speranza e guarigione in un mondo violento, Il Saggiatore, Milano. 37 Ormai c’è una certa familiarità fra tutti che è più che un condividere il dolore: c’è un conoscersi personalmente, ognuno con le proprie storie e le proprie attitudini. Noto che S. piange silenziosa: lascio il mio posto e vado verso di lei, con la mia mano destra le prendo la mano, con la sinistra la accarezzo sulle spalle, lentamente, continuando a rivolgermi verbalmente verso il gruppo. L’incontro procede. “Quali mie risorse personali sto utilizzando per far fronte al mio dolore”? – è questo il tema di oggi. Propongo di procedere diversamente dal solito: prima formeranno gruppetti di quattro persone mischiandosi in modo da non essere insieme fra coniugi, poi, dopo venti minuti torneranno nel gruppo grande per condividere insieme. Accolgono l’idea con curiosità. Si leva un chiacchierio. Mi giro verso S., che non sta più piangendo ma solo sospira ripetutamente, e le chiedo se le va di fare questa esperienza. Annuisce e mi sorride. Le do una stretta più forte alla mano come a salutarla; lei ricambia. Qualcuno intanto le si sta avvicinando, una mamma la prende sottobraccio e la guida verso i gruppetti che si stanno formando. L’esperienza ha buon esito. C’è energia che circola. «I pensieri su se stessi e quelli relazionali emergono nell’intercorporeità, ovvero dal corpo in interazione con altri corpi»42. Se è dalla prossemica relazionale che si instaura in famiglia che ogni individuo sviluppa il proprio schema corporeo, è dalla vicinanza di un corpo o dalla lontananza di esso che i nostri pensieri, le emozioni, le paure, i disagi, le sicurezze emergono: il clima che si respira fra persone, la qualità del loro incontrarsi, le modifiche che ne seguiranno dipendono da come si relazionano i corpi fra loro. Avvicinarsi ad un corpo o allontanarsene, toccare o essere toccati, accogliere o meno un corpo che ci si accosta o subirne l‟allontanamento ci rende di volta in volta diversi. E se un corpo viene a mancare o si aggiunge è la prossemica generale che cambia e, di conseguenza, la condizione interiore di ognuno dei familiari poiché «nell‟enterocezione del corpo bisogna includere non solo la propriocezione (sentire il mio corpo), ma anche la percezione del corpo (o dell‟ambiente non umano) che mi sta vicino»43. Poter esplorare i propri vissuti, adesso, mentre si fa esperienza di vicinanza nuova, muoversi nell‟ambiente rompendo gli schemi soliti (anche a partire dall‟esempio che 42 G. Salonia (2011), L’errore di Perls. Intuizioni e fraintendimenti del postfreudismo gestaltico, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 2, 49-66, 61. 43 Ibidem. 38 dà il trainer), prendere l‟iniziativa di compiere gesti di contatto fisico risulta stimolo a trovare nuove modalità di vivere la propria intercorporeità. Fra un’osservazione e l’altra emerge, fra gli altri, il tema della fede. Qualcuno ha asserito di averne tratto forza e aiuto, ma molti riconoscono che la delusione che la propria fede ha subito gli ha reso ancora più irto il cammino. Una mamma dice di non essere credente e fornisce tutte le sue umane riflessioni e convinzioni che l’hanno sostenuta e la sostengono. Questo fatto che, pur vedendoci in una saletta parrocchiale ed essendo presente un sacerdote, i genitori partecipino ugualmente, senza riserve da parte loro, mi riempie di gioia. L’elaborazione del lutto è un fatto squisitamente umano, in cui la fede può costituire una risorsa o, viceversa, creare dei rallentamenti perché può indurre ad accettazioni precoci. Il riconoscimento del dolore come matrice che accomuna è condiviso spontaneamente fra i presenti ed è la molla di fondo che ha fatto scattare da subito la coesione. Il calore che circola è tanto ed è la forza che ha snidato anche i più resistenti dal loro guscio. Un genitore può aver perso qualsiasi interesse nei confronti della vita, ma non può perdere interesse nei confronti del proprio stesso dolore e, di conseguenza, di dolori come il suo. Ciò che sta aiutando ognuno non è il ricevere una parola di comprensione o di consolazione, ma il sentire il bisogno di dare comprensione, di dare consolazione. Quando qualcuno parla, chi riceve aiuto in quel momento è proprio lui/lei che parla, non solo chi ascolta. Questa è la molla che ha segnato l’inizio della fine del lutto: dal momento in cui hanno incominciato a provare interesse per qualcun altro (e solo per chi è nel loro stesso dolore potevano provare interesse) hanno iniziato a riemergere dal baratro in cui erano sprofondati. Elisabeth Kubler-Ross ha individuato cinque fasi che ogni persona che si trovi a contatto con la morte attraversa: da una condizione di rifiuto ed isolamento, ad una fase di collera, poi man mano ad una graduale consapevolezza razionale dell‟evento (un „venire a patti‟, come la definisce lei). A ciò, dinanzi al riconoscimento della realtà, segue una fase depressiva e quindi una definitiva accettazione. Solo un‟accettazione vissuta e non precoce potrà, quindi, aprirsi alla speranza. Come già detto, la lettura gestaltica di tale fasi è diversa. Il gruppo e ormai abbastanza coeso ma anche articolato. Sanno di essere vicini l’un l’altro ma non se ne sentono soffocati. Prendono la parola se ne hanno bisogno e non si sentono a disagio se non hanno voglia di intervenire: avere il proprio spazio è sia essere in primo piano che in retrovia. 39 Pause, silenzi, parole sono una sinfonia armonica che nell’arco di quelle ore si sente vibrare nell’aria e nei cuori con una nitidezza indescrivibile. Dopo quel pomeriggio in cui abbiamo parlato del suicidio, è già da due incontri che avverto questo clima. Non significa che c’è un’atmosfera soave o allegra (anzi proprio in questo calore hanno potuto maturare le espressioni dei dolori più profondi e cocenti), ma ciò che mi fa vibrare è proprio questa pienezza del loro (nostro) esserci che è purissima vita. M. oggi per la prima volta è venuta senza il marito. Sempre riservata e silenziosa si siede accanto ad un’altra mamma con un sorriso come a dire: Posso? - Vieni qua, oggi, M.! – la incoraggia subito l’altra mamma, e le avvicina la sedia. Saluti, interventi, riflessioni, esclamazioni si susseguono fluidi. C’è una serenità palpabile: qualcuno scivola verso argomenti diversi dal tema di fondo, un papà si interessa ad un problema di lavoro di un altro papà, che casualmente è stato citato. S. nota che L. ha un taglio di capelli nuovo. Ad un certo punto mi accorgo che M. è paonazza in viso. Aggrotto le sopracciglia, guardandola, chiedendole così cosa le sta succedendo. I nostri occhi si incrociano e il suo labbro comincia a tremare freneticamente. Poi un singulto e all’improvviso un suono soffocato le viene fuori dal petto. Tutti si girano verso di lei, sorpresi. La interrogo: - M., che c’è? Gioia, dimmi! – Il papà che stava parlando in quel momento le chiede preoccupato se ha detto qualcosa che l’ha turbata. Lei scuote la testa a dire di no. Insisto perché mi guardi e mi (ci) dica. Rifletto che era un troppo imbarazzato quel suo arrivo così in punta di piedi; l’avevo attribuito al fatto che per la prima volta fosse senza il marito ma ora mi rendo conto che ci deve essere dell’altro di specifico. - È successo qualcosa di nuovo, in questi giorni? Che ti è capitato? – La mamma che le è seduta accanto la incoraggia: - Se non parli con noi, con chi allora? – Si riprende, le sorride, accetta un fazzoletto che la l’altra mamma le sta porgendo, poi ci spiega. Mi colpisce la chiarezza e linearità del suo discorso: ordinatissimo e serrato. M. e suo marito, in effetti, hanno sempre parlato poco in gruppo ma sono stati presenti ad ogni incontro. Attenti a tutto, si sono attivati però soprattutto nelle situazioni diadiche di saluto o quando hanno potuto intrattenersi in piccoli gruppi. Ora mi rendo conto che ha scelto quella mamma specifica, oggi, come ‘piccolo gruppo’ con cui interagire, riuscendo però a vedere contemporaneamente lo sfondo dell’intero gruppo e ad accoglierlo. 40 Parla. Ci racconta che delle amiche le hanno riferito di inopportuni e insulsi commenti di altre persone alla sua situazione. Nel parlare guarda un po’ me, un po’ l’altra mamma vicina, poi di tanto in tanto i suoi occhi vanno anche verso il resto del cerchio. Parole chiare le sue: di condanna dei comportamenti ma anche di riconoscimento della propria facilità alla vulnerabilità. - So che non cambia niente, ma sono quelle ferite in più che ti fanno traboccare il vaso. – sembra concludere. Il tema che ha toccato, nella sua amara crudezza, scuote tutti: - Quando chiedono il perché …è come se lo uccidessero. Come se morisse di nuovo. – C’è tutto il dramma di questo scontro tettonico fra una situazione di dolore assurdo e drammatico vissuto in tutta la sua profondità devastante e la insulsa stupidità di chi lo vede solo come una notizia di cronaca o ne ha forse tanta paura da difendersene interrogandolo (come a rassicurarsi che quel ‘perché’ che le risposte motiveranno non abita a casa loro). Mi sto sentendo di rabbia verso queste persone così insulse. Eppure è così frequente sentire come commento più immediato (e spesso ‘unico’ interesse) di fronte a questi eventi quel: Perché l’ha fatto? Ma la mia emozione so benissimo che non la aiuta. . . Sempre, ancora, la stessa fatica: non lasciarsi coinvolgere! Restare nel ruolo. - È una sofferenza atroce, hai ragione. È bello che ce la stai condividendo, M. – le dico, cercando di spostare il discorso dai contenuti ai processi. In qualsiasi azione c‟è sempre implicito un desiderio di felicità e la felicità risiede nelle relazioni44: se il dolore di cui sta parlando M. è un dolore relazionale (inerente alla relazione fra se e suo figlio, fra suo figlio e queste persone esterne e fra lei e queste persone) è tuttavia nel parlarne con il gruppo che sta cercando un frammento di „felicitò‟ che la aiuti a sostenerlo. L‟incessante moto evolutivo dell‟organismo è visibile fenomenologicamente e M. lo ha manifestato apertamente con questo suo esternare oggi davanti agli altri, con più libertà che mai, il proprio dolore. Sostengo dunque questa direzione sia nella traiettoria verso cui si dirige sia nella modalità di del procedere e così come lei ha ampliato il suo „sguardo‟ la aiuto ad allargare il suo spazio percettivo e a guardare ad altre relazioni che possono invece sostenerla. Cosa che appunto lei già vuole fare parlandone a tutti. 44 È il tema base di G. Salonia (2011), Sulla felicità e dintorni. Fra corpo, parole e tempo., cit. 41 Più genitori commentano: non sono più solo le emozioni che trovano parola ma anche le posizioni personali, le logiche critiche nei confronti del mondo familiare e sociale, le prospettive personali su di sé e sull’accaduto. Chiedo ad M. di dare un nome all’emozione che sente con più forza: - Cosa senti soprattutto, M.? – Tira un respiro profondo socchiude gli occhi inarcandoli a tipo spioventi. Non ha dubbi sulla risposta: - Sento vergogna. Mi vergogno! Per lui, per noi …! Soprattutto per lui. - Molti volti si incupiscono, ma mi fa piacere che nessuno abbassa la testa, quasi a sostenere con la propria forza la dignità con cui M. si è espressa. - A me succedeva spesso. – commenta un papà con la stessa situazione di morte – non sono stato capace di portare avanti quello che pensavo stessi ottenendo, mi dicevo sempre. Me lo ripetevo a martellamento continuo. Eppure ce l’avevo messa sempre tutta. Certo tutti facciamo errori, ma chi non ne fa? Non è presunzione, posso dire che mi sentivo un buon padre . . . eppure . . . – Sospira. Si mette le mani sul viso, poi le fa scorrere con forza lungo le guance, come se si stesse asciugando. Mi guarda. - Hai detto ‘succedeva’ – gli faccio notare, perché continui nella direzione che aveva preso. - Sì, infatti! – continua, rivolgendosi verso M. – Ma poi ho capito che non mi interessa niente. Non potranno mai capire e, se anche sono così ‘piccoli’, è vero che pure noi eravamo così ‘prima’. – Se la vergogna nasce dalla sensazione di discrepanza inattesa rispetto a ciò che si immaginava o che ci si aspettava rispetto alle proprie intenzioni o ai propri comportamenti, qui riscontro due registri diversi dello stesso sentire: G. si vergogna per l’esisto della sua intenzionalità genitoriale, del suo impegno, dei suoi sforzi (palese il senso di in adeguatezza: «Non sono stato capace di portare avanti quello che pensavo stessi ottenendo..»), M. dà voce ad un altro aspetto della vergogna, cioè la critica e incomprensione degli altri. C’è un disagio che si raddoppia, perché c’è anche la sofferenza di un’intromissione illecita nella vita del figlio e della famiglia. Un essersi ritrovati scoperti, nudi e vulnerabili. C’è il rammarico di sapere che ‘la gente parla’ e parla di suo figlio, del loro dolore, della loro estrema sofferenza e non poter far nulla per fermare quest’onda distruttiva. Quanto questo sentire riacutizza sensi di colpa sempre presenti anche se in tutta 42 sincerità totalmente assolti, non importa. Scavare al momento su questo sarebbe un fare ‘come la gente’: intromettersi. Vedo che M. è un po’ più serena. Guardo don Gianni che mi fa cenno che anche secondo lui è meglio lasciare qua il discorso. Sarebbe secondario minimizzare la portata di questo malessere o provare a lenirlo con parole di conforto, edulcorare una situazione obiettivamente drammatica. Sarebbe squalificarlo, quasi voler coprire questa nudità che invece con tanto coraggio e tanta dignità questi genitori stanno esponendo. Va solo contemplata, vista nella sua bellezza, nella sua preziosità. Va solo vissuta perché possa a sua volta essere vissuta come un fatto della vita. Il passaggio sarà lineare: così come questo sentire fa parte della vita, anche ciò che è accaduto è un fatto della vita. È la fase di contatto. Poter esprimere con libertà e con verità vissuti così inconfessati, così intimi è segno che attraverso questi incontri è ritornata la fiducia negli altri, nella propria forza e nella possibilità di accoglienza del proprio sentire da parte degli altri. C‟è chiarezza riguardo al proprio sentire, c‟è la possibilità di esprimerlo senza sentirsi a disagio. L‟aver raggiunto questa capacità di essere al confine con l‟altro (col gruppo) riconoscendo se stessi e l‟altro come portatori di verità e di valore è sperimentare un incontro pieno ed autentico che non può non rigenerare per la qualità in sé della relazione, a prescindere dai contenuti del dire. I contenuti fanno da sfondo, ma ciò che avviene è la modalità dell‟incontro. È la relazione il vero strumento di elaborazione: «L'arte della consolazione consiste forse, in ultima analisi, nell'offrire al dolore il grembo di una relazione dentro la quale può esprimersi, trasformarsi e diventare fecondo»45. Qualche secondo in cui sembra che tutti si stiano riassestando. Un papà sbadiglia, e stanco. Don Gianni guarda l’orologio e riporta il discorso dove l’avevamo interrotto. M. segue la conversazione tranquilla. All’uscita gli chiedo se, al di là di ciò che si è detto, ha notato anche lui quello che ha colpito me e lui conferma: M. ha parlato così apertamente quest’unica volta in cui il marito non era presente! 45 G. Salonia (2011), Sulla felicità e dintorni. Fra corpo, parole e tempo, cit., 80. 43 Cap. 6 Assimilazione Ultimo incontro. Mi sono preparata col magone in gola. Quanto bene voglio a queste persone! Mi ha colpita la vulnerabilità infissa nei loro occhi. Uomini fisicamente affascinanti, donne belle (ma proprio belle!), tutti ugualmente ‘esposti’ dalla loro condizione di dolore. Come se a guardarli li si vedesse nudi e si sentisse un profondo rammarico per aver visto quello che il rispetto umano richiederebbe di non vedere. Ho cercato di prendermi cura di loro come potevo. So che forse avrei potuto fare molto molto di più, so che mi sono avventurata in qualcosa che era forse più grande di me, ma so anche quanto mi è costato seguirli e proprio questa fatica oggi me li fa sentire tanto cari. Li amo. È stato faticoso dover ascoltare i loro racconti, doversi immergere in una realtà che umanamente vorremmo ignorare, è stato faticoso dover trovare sempre parole calibratissime che non alterassero la sensibilità dei loro cuori feriti, è stato faticoso stare coi miei figli pensando inevitabilmente ai loro figli. Eppure ne esco rafforzata, non indebolita. All’inizio sentire dei suicidi di questi ragazzi mi ha portata a temere per i miei figli, a stare sempre in ansia per loro. Poi man mano ho acquistato una visione ‘dall’alto’: ha cominciato a fare figura sempre di più la realtà in cui queste anime oggi vivono e vedo la vita come un lunghissimo tragitto di cui non scorgo né l’inizio né la fine ma che so che è lungo, molto molto lungo, percorso di cui gli anni terreni sono un frammento, nient’altro. Tutto ha acquistato un valore relativo. Soffrire, gridare, ribellarsi, sperare, pregare ed essere consolati sono come battito d’ali di un viaggio di migrazione. Eccoli, a d uno ad uno, a coppie, arrivare tutti. A quanto pare non sono la sola a sentirne forte il richiamo dell’incontro. Chi arriva anche solo con dieci minuti di ritardo si premura a chiederne scusa. Bellissimo questo sentirsi attesi! Si salutano tutti calorosamente. C’è un’aria di scherzo, una sorta di complicità che ormai si è creata soprattutto fra i papà. Per quest’ultimo incontro si è deciso che verrà fatta una revisione generale di tutte le tappe del cammino fatto sia per guardare in retrospettiva le cose, sia allo scopo di meglio appropriarsene, sia perché potrebbero esserci questioni che necessitano di altri spazi. Il problema non è, però, se ci siano delle questioni aperte perché in chi ha subito traumi così pesanti resteranno sempre dubbi, 44 rammarichi, rimpianti, ma se ci sono bisogni emergenti, consapevolizzati e non espressi a questi bisogna dare ancora l’opportunità di trovare spazio e temp o. Abbiamo già in uno dei precedenti incontri sollevato questo tema rispetto a gestalt rimaste aperte nei confronti dei figli e tanto è emerso. Una mamma ha «finalmente confessato» del rammarico di non avergli preparato quel dolce che le aveva chiesto il giorno prima dell’incidente, un’altra di una lite che non avevano mai chiarito, un’altra ancora di un rimprovero ingiusto. I papà avevano mantenuto molto più riservo su questo: con realismo tutto maschile avevano quasi tutti commentato che «è inutile piangere sul latte versato» o altro. Ora il problema è riprendere eventuali gestalt aperte rispetto al percorso di gruppo effettuato In un‟ottica secondo cui l‟organismo sta bene quando porta a termine tutte le proprie intenzionalità di contatto, le gestalt aperte sono motivo di sofferenza che, gradatamente, ostacola a sua volta la risoluzione di altre gestalt46. Snodi delicatissimi, sono spesso dovuti spesso alla mancanza di audacia, per cui accade che – in termini gestaltici – „ciò che non si completa si perpetua‟47. Il loro persistere ostacola la libera creazione di nuove figure dallo sfondo, per cui l‟insorgere di un bisogno è offuscato o confuso dalla presenza di ciò che ancora preme per essere completato e – con un effetto a catena – sarà a sua volta non soddisfatto pienamente. Il malessere aumenterà e solo la individuazione ed elaborazione di ciò che all‟origine era rimasto sospeso e aveva interferito sulle gestalt successive potrà ripristinare il flusso del contatto. Solo pochi prendono al parola, ma gli interventi sono molto pertinenti e chiarificatori di non-detti o di fraintendimenti a livello relazionale e sui temi affrontati. Prima di passare all’ultimo momento del nostro percorso, dico loro che se vogliono possono continuare a frequentare anche il percorso che verrà attivato l’anno prossimo. Il percorso di elaborazione – come qualsiasi percorso di guarigione – ha sempre dei ritmi e tempi assolutamente individuali, il cui rispetto è di per sé parte integrante del processo. Lasciamo libertà, infatti, ai genitori che lo vogliano di continuare o meno il cammino anche seguendo gli incontri programmati per l‟anno successivo. Per 46 Cfr. F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997 ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, Astrolabio, Roma. 47 Il russo Bluma Zeigarnick ha evidenziato la costituzionale incapacità dell’individuo a stare con le “gestalt aperte” a causa della sua tendenza a chiuderle, come accade per esempio nei racconti che si interrompono all’improvviso creando uno stato di tensione che genera ansia e bisogno di completare l’informazione (‘effetto Zeigarnick’). Cfr. A.V. Zeigarnik (2007), Bluma Zeigarnik: a memoir, in«Gestalt Theory », 3, 256-268. 45 quanto uguali o molto simili saranno, di volta in volta, gli argomenti, certi che il cammino verso il ripristino della capacità di contatto continuerà. Ciò sia perché – come più volte specificato – è ai processi e non ai contenuti che si guarda ed ai processi che appartiene il percorso di elaborazione, sia perché il riaffrontare le tematiche può dare occasione di accrescere la consapevolezza o di aprire snodi relazionali ancora avviluppati. Siamo in perfetto orario per passare allora alla attività concordata per quest’ultimo incontro: la proposta è di scrivere ciascuno una lettera ad un genitore che da poco abbia perso un figlio o una figlia e che non abbia compiuto il percorso di elaborazione che invece loro hanno fatto. Spiego che possono prendersi il tempo che vogliono per farlo, che sono liberi di farlo o meno, e che possono poi condividere o meno ciò che hanno scritto. C’è una perplessità visibile: qualcuno inarca le sopracciglia e accenna ad un sorriso di esplicita non approvazione. Non voglio forzarli, ma nemmeno rinunciare: abbiamo riflettuto a lungo su questa proposta anche con una collega psicologa che mi ha supportata in alcuni momenti del percorso48; sono convinta dell’utilità di un’esperienza del genere e – fra l’altro – non credo sia utile per loro che il trainer rientri subito e tout court da una precisa proposta: potrebbe trasmettere un senso di inadeguatezza o di approssimazione del supporto, che non gioverebbe alla certezza del contenimento che deve sempre e comunque fare da sfondo alla loro crescita. Chiedo cosa li lascia non convinti. Dai loro interventi è chiaro che la perplessità nasce soprattutto dal non rendersi conto dell’utilità di una esperienza del genere. Gli sta bene fare qualcosa di diverso e di nuovo (e questo mi sembra un ottimo dato in generale), ma desiderano delle informazioni in più. Spieghiamo che è un modo per riflettere su cosa hanno acquisito, cosa hanno tratto dall’esperienza del lutto e del percorso di elaborazione, che dire ad altri è sempre un modo per comprendere ed assimilare meglio ciò che si ha nel cuore. Li vedo rasserenati. Qualcuno comincia già a cercare una penna in borsa (nonostante con la collega avessimo già messo a centro del tavolo un bicchiere con diverse penne e un mazzo di fogli bianchi). Un genitore osserva: 48 - In pratica la scriviamo ad un altro, ma è come se la scrivessimo a noi stessi . . . - - Sì, è vero anche questo. – rispondiamo. - Ok. Vediamo cosa ne viene fuori! – conclude un papà, risoluto e sorridente. Ringrazio la dott.ssa Paola Aparo per avermi suggerito questa iniziativa e per l’aiuto datomi nel condurla 46 Sembra l’input in più di cui avevano bisogno e da quel momento cominciano a prendere ognuno un foglio e una penna dal tavolo. - Potete appoggiarvi al tavolo, mettervi comodi, fare liberamente. Trovatevi i vostri spazi e le posizioni che preferite. – specifico. Lo fanno. C’è chi si apparta appoggiandosi ad una scrivania addossata lateralmente al muro, chi si appoggia al tavolo centrale. C’è molta creatività in giro: un papà prende l’elenco telefonico che c’è in uno scaffale della canonica e lo usa come appoggio per scrivere, andandosi a mettere in un angolo estremo della stanza. Altri lo imitano prendendo i libri del catechismo riposti in un altro scaffale. Due coniugi spostano le sedie una di fronte all’altra e si mettono a parlare: solo lei ha il foglio in mano ed è chiaro che stanno parlando di cosa scrivere. Dopo qualche minuto mi chiedono se possono scrivere una lettera unica. Ci consultiamo con la collega e decidiamo di consigliare di parlarne magari insieme se lo preferiscono ma poi di provare a scrivere ognuno la propria. Assentono. Anche da questi „piccoli‟ gesti traspare come si sia riattivata la capacità di intervento originale del sé. L‟adattamento alla realtà aveva perso la propria dose di soggettività e si era per lo più appiattito in forme confluenti o di ancoraggio alla ritualità, in strenue guerre contro tutti o in modalità retroflessive di glissa mento del problema. Ora, anche in questo loro agire solo se convinti, in questo partecipare alle opportunità della vita e cercare di farlo „stando comodi‟, ognuno secondo il proprio bisogno, c‟è un adattamento creativo pertinente e funzionale che è segno di benessere interiore. E se la funzione-Io, nell‟adattarsi creativamente all‟ambiente, porta a termine con pienezza il proprio percorso, significa che anche le altre funzioni sono ripristinate. Ognuna delle interruzioni è stata in qualche modo – pur nella varietà delle reazioni e delle elaborazioni – sbloccata. Ognuno di loro (o quasi tutti) sa percepire i veri bisogni e discriminarli, rifiuta gli stereotipi e permette ai propri vissuti personali che accadano. Si occupa del suo dolore fino in fondo, può salutare chi non è più „visibile‟ e vive altre situazioni nella propria quotidianità anche senza riferimenti diretti alla morte49. Sa, in pratica, che il proprio dolore non glielo potrà portar via nessuno (così come l‟amore per il figlio non potrà mai essere eliminato o offuscato), ma ha anche imparato a viverlo come cosa che gli appartiene e non come totalità che lo distrugge. In molti casi un dolore così accolto sta dando esiti creativi e sta diventando germe di potenzialità espressive ed umane nuove per sé e per gli altri. 49 Cfr. Tav. 4 in appendice. 47 Solo un papà non ha preso alcun foglio. È assorto nei suoi pensieri: seduto accanto ad un tavolinetto, le gambe accavallate, il gomito appoggiato sul tavolo e il mento sulla mano. Lo sguardo verso l’alto. Mi avvicino a lui: - P., come va? Preferisci non scrivere? – gli chiedo. Ha uno sguardo sereno sotto le sue sopracciglia folte. Alla mia domanda alza su le spalle: - Preferisco pensare. – mi risponde. Mi sorride. È stato sempre silenzioso durante questi incontri, ma ha partecipato con assiduità e ho saputo che più volte ha contattato personalmente degli altri papà ‘nuovi’ (come ormai qui usiamo dire) per dare loro l’occasione di parlare. So anche che ha ripreso con regolarità il suo lavoro e che continua ad occuparsi degli altri figli con lo stesso impegno con cui faceva prima della disgrazia. È come se avesse sempre assorbito, lo avesse elaborato e fatto fruttificare, ma saltando quasi la fase della verbalizzazione dei vissuti. In varie occasioni ho anche avuto modo di chiacchierare con lui di altre cose non inerenti al lutto ed è stato sempre attento e cordiale: questo mi lascia serena e se anche adesso preferisce non scrivere non mi preoccupo. - Ok. – mi limito a rispondergli, sorridendogli anch’io. Quando vedo che tutti hanno posato le loro penne o stanno comunque guardandosi attorno ed è chiaro che hanno finito, chiedo come è andata l’esperienza: se è stato facile o meno, se si sono ritrovati a dire più di quanto supponessero o se è stato meno facile di come potesse sembrare. Le risposte non mostrano molto interesse su questo, segno che non ci sono state sorprese a livello di emozioni. In generale pare – a quanto dicono – che gli è piaciuto e che non è stato affatto difficile. Propongo che chi vuole ci dica qualcosa di ciò che ha scritto . . . e la sorpresa è mia! Non solo, infatti, tutti prendono la parola, ma leggono integralmente ognuno la propria lettera. Anche P., per quanto non abbia scritto la lettera, prende la parola ed è la prima volta che lo fa. Forse quell’ulteriore conferma del fatto che può essere e fare come vuole era il tassello finale che gli serviva. Leggono e resto estasiata. Quanto calore! Quanta pace! Quanta forza e sapienza in ogni parola! Estasiata. Le risposte sono varie, le considerazioni e angolature diverse, ma il tono è pressoché uguale in tutti: hanno assimilato che anche la morte di un figlio / di una figlia fa parte della vita e che la vita comunque non si arresta. Non solo la propria vita, ma il flusso della Vita in generale. Quel flusso che è qualcosa di più grande e più ricco dell’esistenza di un singolo (di quella del figlio, o della 48 propria o di chicchessia). Sono approdati ad una visione che non è mentale ma è una percezione di tutto se stessi: col cuore, col corpo, col sentire. C’è più di quello che si vede – di questo parlano le loro parole / i loro cuori / i loro corpi: ci sono i sentimenti, le relazioni, i valori, ogni esperienza narrata e riscoperta nella sua preziosità e bellezza, ci sono quei momenti speciali che nessuno potrà mai togliergli e per i quali vale la pena vivere e faticare per la vita intera, c’è un andare oltre le beghe della quotidianità – viste ora come poca cosa, misera, inutile cosa – e vedere il bello anche dove non appare. C’è un abitare le stanze del proprio cuore e riconoscersi a casa, c’è un poter visitare luoghi remoti, oltre la terra, e sentirli vicini. C’è un nutrirsi del calore che nasce dalla accettazione dei propri limiti e delle propria piccolezza e sentirsi pieni di una grandezza infinita. C’è un’energia vibrante che rende significativo ogni istante e che si chiama vita. E ancora una volta mi ritornano le parole della Sapienza: Agli occhi degli stolti parve che morissero (Sap 3,2). 49 Il ciclo di contatto G. Salonia, Tempi e modi di contatto,Quaderni di Gestalt, 8, 1989, 55-64 Tav. 1 Interruzioni del ciclo di contatto G. Salonia, Tempi e modi di contatto,Quaderni di Gestalt, 8, 1989, 55-64 Tav. 2 50 Il lutto in termini di interruzioni del ciclo di contatto = si sminuisce di fronte all’altro ‘che soffre di più’ = si compiace dì ciò che vive = tutto gli richiama = si mantiene ‘dentro la tomba’ = si aggrappa alla ritualità = fa come se non fosse accaduto nulla = si sente ‘dentro la tomba’ Elaborazione da G. Salonia (1989), Tempi e modi di contatto, in «Quaderni di Gestalt», 8, 55-64 Tav 3 Ripristino del ciclo di contatto nell’elaborazione del lutto Si occupa di sé e del proprio dolore, lo vive fino in fondo Riconosce i propri vissuti in quanto suoi e li lascia accadere Sa salutare Vive altro senza riferimenti diretti alla morte Assimilazione Sa definire vissuti e bisogni Creazione Percepisce il bisogno vero Rifiuta gli stereotipi e le ritualità Elaborazione da G. Salonia (1989), Tempi e modi di contatto, in «Quaderni di Gestalt», 8, 55-64 Tav. 4 51 BIBLIOGRAFIA Argentino P., Psicologia medica. Fondamenti teorici e applicazioni cliniche della Gestaklt Therapy, in press. Bassanetti A. (2001), Il bene più grande. Storia di Camilla, Paoline, Milano. Campione F. (1990), Il deserto e la speranza. Psicologia e psicoterapia del lutto, Armando editore, Roma Campione F. (2000), Rivivere, L’aiuto psicologico nelle situazioni di crisi, CLUEB, Bologna. Canopi A. M. (2008), Fammi sapere perché, EDB, Bologna. Cencini A. (2003), Il figlio perduto e ritrovato, Paoline, Milano. Crozzoli Aite L., Mander R. (a cura di) (2007), I giorni rinascono dai giorni, Paoline, Milano. Fanti M. (2007), Orfana di mia figlia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani. Franta H., Salonia G. (1979), Comunicazione Interpersonale, Las, Roma-Zurigo. Gadamer H. G. (1983 ed. or. 1970), Verità e Metodo, Bompiani, Milano. Gaffney S. 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(2007), Bluma Zeigarnik: a memoir, in «Gestalt Theory », 3, 256-268. 53 INDICE Premessa Cap.1 Precontatto - Lutto - Dolore - Gestalt - Campo - Morte - Relazione - Confine di contatto - Ciclo di contatto - Intervento di sostegno Cap. 2 Orientamento - Aspetto fenomenologico - Interruzioni - Confluenza - Desensibilizzazione - Introiezione - Proiezione - Retroflessione - Direzione - Coppia guida - Contratto - Contenimento Cap. 3 Dalla sensazione alla simbolizzazione - Relazioni asimmetriche - Funzione-Io - Funzione-es - Funzione-personalità - Gruppo gestaltico - Cogenitorialità 54 Cap. 4 Dalla direzionalità all’eccitazione - Famiglia - Parole - Processi di gruppo - Figura-sfondo - Sostegno specifico Cap. 5 Dall’azione al contatto - Benessere - Intercorporeità - Fasi - Moto evolutivo - Contatto Cap. 6 Assimilazione - Gestalt aperte - Percorso di elaborazione - Adattamento creativo Tavola 1: Il ciclo di contatto. Tavola 2: Le interruzioni del ciclo di contatto Tavola 3: Il lutto in termini di interruzioni del ciclo di contatto Tavola 4: Il ripristino del ciclo di contatto nella elaborazione del lutto Bibliografia