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ISSN 1120-6756
Caleidoscopio
Letterario
Roberto Pozzoli
La prostituzione
nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Direttore Responsabile
Sergio Rassu
Direttore Culturale
Maria Teresa Petrini
29
Via Rio Torbido, 40 - Genova (Italy) Tel. 010 83.401
Stampato a Genova 2001
La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
Caleidoscopio Letterario
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La prostituzione
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Caleidoscopio
Letterario
Editoriale
D
opo aver letto lo scritto del collega Roberto Pozzoli mi ha colto una grande malinconia, perché lo scritto era terminato e antiche Religioni scomparse.
Ma tutti gli addii vengono mitigati perché ci lasciamo per sempre i ricordi, che
talvolta divengono esperienze e altre volte storie.
Questo suo lavoro è un grande studio sulla storia delle religioni che, nate agli
albori dell’uomo, sono state praticate fino al Medio Evo.
Questo saggio è un excursus storico visto da una particolare angolatura: talvolta
ad ampio raggio che avvolge religioni sopravvissuti per millenni, talvolta visioni
filosofiche chiarificanti e talaltra piccoli particolari che però ci fanno entrare dentro
l’animo e comprendere il comportamento di questi nostri lontani antenati. Perché
l’uomo è sempre uguale con le sue virtù, ma anche con i suoi difetti o meglio con le
sue passioni, e, proprio perché così è, spesso ha cercato di rendere sacra questa sua
umanità, anche quella più deteriore. Ecco quindi tutta una serie di deità: sensuali,
libertini, e se non ladri e delinquenti almeno protettori di queste categorie. Assistiamo nel leggere questo saggio, che ci scorre davanti come un bellissimo film, ad
avvenimenti che si snodano in sontuosi santuari dove dei sacerdoti – guerrieri non si
limitano a praticare la cura delle anime e dei corpi, o “leggere” gli oroscopi, ma lottano, combattono, fanno prigionieri e questi immolano a degli dei assetati di sangue.
Vi è in questo saggio uno studio accurato della prostituzione nell’antichità, che
dà un ulteriore spessore a questo lavoro, perché mette a nudo attraverso i secoli e i
millenni in questa passione umana, che l’uomo ha tentato di ingentilire trasformandola in manifestazione culturale.
Questo anelito di Religiosità, che ha tentato di sacralizzare le passioni umane, è
un preludio alla visione più teologica della divinità che troverà riscontro nelle grandi
Religioni della Parola: ebraica, cristiana e musulmana, come ben esprime, in un nuovo altamente lirico, un nuovo rapporto tra l’uomo e Dio, nel salmo:
“Egli darà ordine ai suoi angeli
di custodirti in tutti i tuoi passi.
Sulle loro mani ti porteranno
Perché non inciampi nella pietra il tuo piede.
Camminerai su aspidi e vipere
Schiaccerai leoni e draghi”.
Maria Teresa Petrini
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La prostituzione nelle società antiche
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Prefazione
La stesura di questo lavoro ha conosciuto una doppia genesi. La prima
ragione del suo essere trova fondamento nell’affezione dell’autore per la storia e l’archeologia.
I viaggi intrapresi per appagare le sue curiosità storiche hanno sempre privilegiato quelle terre che conservano ancora le impronte di quei popoli protostorici e storici la cui eredità culturale ha segnato in modo determinante lo
sviluppo delle splendide civiltà che sono fiorite attorno al Mediterraneo.
Costante è sempre stata la finalità di chi scrive di venire a conoscenza
diretta delle testimonianze degli albori della loro esistenza sociale, politica e
religiosa per poterne fare utile tesoro da utilizzare come tracce da cui prendere l’avvio per ulteriori approfondimenti atti a soddisfare ancor più le proprie necessità culturali e le proprie curiosità aneddotiche. Consapevole che
niente eleva di più lo spirito umano dell’attendere alla storia e al pensiero
delle genti antiche.
Le argomentazioni del libro riconoscono, infatti, come oggetto aspetti parcellizzati, ma strettamente interdipendenti, di quei mondi passati.
Quali il mito che rispecchiava l’innata feconda fantasia di quei popoli primitivi e le religioni nel loro evolversi dalle forme più semplici quali l’animismo e il naturismo a quelle politeiste pregne di divinità le cui leggende personali erano state assunte come fondamento per la comprensione e la spiegazione di tutti i fenomeni naturali, fino a quelle rigorosamente monoteiste
nate dalla dissoluzione delle precedenti ormai prive di credibilità e il cui
pensiero spirituale si era fatto talmente sterile che i fedeli non ne potevano
trarre più alcuna garanzia di protezione e di conforto.
La seconda ragione che ha influito sulla decisione di elaborare questo
scritto è figlia della prima. Risiede nell’abbondante materiale letterario che
l’autore aveva ereditato da un suo precedente lavoro “Le Malattie a
Trasmissione Sessuale: una lunga e vecchia storia”, un excursus sulle malattie
sessualmente trasmesse nel corso della storia dell’uomo, cui si rimanda per i
riferimenti specifici che non sono stati oggetto di trattazione nel presente
libro.
In particolar modo egli ha potuto contare su una messe di riferimenti letterari e documentazioni sull’esercizio della prostituzione nell’Antichità che gli
erano stati indispensabili per tracciare una mappazione delle infezioni sessuali dalle primitive genti storiche ai nostri giorni, in quanto essa era considerata anche allora la causa prima di quest’ultime.
Cominciando a metter mano a questi dati ha avuto modo di accertare nei
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fatti come le diverse forme di prostituzione trovassero la loro giustificazione
e la loro radice nelle cause non solo sociali e culturali, ma anche religiose dei
popoli in cui tale pratica era diffusa.
Questo a giustificazione del perché il nucleo principale della trattazione,
improntato sull’esercizio del meretricio, sia stato corredato da capitoli inerenti le abitudini popolari e le tradizioni cultuali dalla cui conoscenza non si
può prescindere se si vuol avere una corretta comprensione di questo fenomeno.
La vastità della materia in oggetto motiva, inoltre, la voluta limitazione
dell’esposizione, contenuta dalle origini dell’uomo agli albori del medioevo.
Il presente scritto, quindi, si propone non già come un saggio sul costume
dei popoli antichi, ma più semplicemente come una sintesi della storia della
prostituzione nell’antichità in appendice a quello in precedenza edito.
Ecco l’uomo primitivo affacciarsi alla storia vivendo l’esperienza terrorizzante dell’ignoto e l’ignoranza angosciante delle cause prime dei fenomeni naturali e astrali, eccolo darsi un senso religioso della realtà materiale che
lo coinvolge, crearsi un pantheon inventando la relativa teonomastica, relazionare con le sue entità superiori per conoscerne i voleri attraverso la divinazione e i riti religioso-iniziatici.
Il disattenderli avrebbe significato ingenerare castighi terrificanti, come
l’avvento del diluvio universale, che tutti distrusse salvo i pochi eletti che si
sentirono investiti del potere e del dovere di insegnare ai loro discendenti le
leggi cui conformarsi, i riti religiosi da celebrare per ottenere il favore divino
per la fertilità della terra e per la fecondità della donna, garanzia di una
discendenza numerosa.
Nacquero, quindi, i rituali propiziatori per la Dea-Madre, la Grande
Madre Terra, si celebrarono feste alle dee protettrici dei campi e delle gravidanze che degenerarono sovente nell’esaltazione dell’osceno e comparve
una particolare forma religiosa di prostituzione, quella sacra, testimoniata in
moltissimi popoli appartenenti ad aree geografiche anche molto distanti le
une dalle altre che generò a volte, anche se più spesso convisse, quella profana, più vile e ancor più diffusa.
Le grandi città del peccato, la sumerica Uruk, l’anatolica Afrodisia, le greche Corinto e Atene, le italiche Erice e Roma, l’indiana Khajuraho erano
anche i più grandi centri di culto, mete di incessanti pellegrinaggi di fedeli
provenienti da ogni parte.
L’esercizio del meretricio nell’Antichità è indubbiamente materia molto
accattivante e di indubbia importanza, ma che si risolverebbe in sterile curiosità se non venisse recepita come un peculiare aspetto del sociale, capace di
farci avere una più completa comprensione della vita di quei popoli da noi
tanto lontani nel tempo, ma ancora così vicini per averne ereditato gli aspetti
letterari, intellettuali, politici e di costume.
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Non sono estranei al libro alcuni aspetti particolari del piacere che trovano
la loro traduzione in pulsioni sessuali non tradizionali, quali l’omosessualità
maschile e femminile, di cui ne viene sottolineato lo spirito educativo, intellettuale o mercenario con cui di volta in volta erano vissuti.
Va sottolineato come la pederastia in alcune civiltà arcaiche fosse intesa
esclusivamente in senso pedagogico, finendo poi per assumere un significato
più elitario e letterale quando vennero a cadere i valori sodali e guerreschi
per guastarsi definitivamente sconfinando nel semplice edonismo e nel volgare mercimonio.
Le pratiche lesbiche erano altrettanto diffuse, anche se vissute in modo più
discreto, a volte circoscritte solo a piccoli gruppi di donne come le fanciulle
del tiaso istituito a Lesbo dalla dolce poetessa Saffo, o condivise tra amiche
nella riservatezza delle proprie case.
A rivoluzionare la visione del piacere sessuale pagano, sarà l’avvento del
Cristianesimo che inneggiando alla castità o accettando l’unione di coppia
unicamente all’interno dell’istituto del matrimonio per i soli fini procreativi,
condannerà, spesso più a parole che con i fatti, ogni forma di fornicazione,
massimamente la prostituzione.
L’autore
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L’uomo primitivo e il senso del divino
La condizione costante dell’uomo primitivo, prima che egli scrivesse con
le sue azioni la storia, è la sofferenza.
Soffre la fame, soffre la sete, il clima, la paura degli animali predatori, soffre la belluinità dei suoi simili, soffre di un timore reverenziale verso tutto
ciò che gli è ignoto, prima fra tutto teme la natura che gli appare temibile e
incomprensibile.
Egli la osserva incuriosito e nello stesso tempo timoroso, valuta le manifestazioni e gli “oggetti” con cui in modo fausto o violento essa a lui si manifesta.
Le leggi naturali che sottendono alla nascita di un albero, al germogliare
delle messi, allo scorrere dei fiumi, al ritorno ciclico delle stagioni gli sono
sconosciute e misteriose.
Ignora il ciclo vitale delle nascite, crede nella reincarnazione degli esseri
viventi.
L’invisibile che penetra e permea la natura in tutte le sue forme e che si
rende visibile attraverso i suoi fenomeni e le sue creature all’inizio lo spaventa e lo atterrisce.
Cerca un contato con lei, un rapporto per rendersela favorevole e la comunione la media creando i primi abbozzi di riti cultuali. Il culto delle ossa
degli animali uccisi perché crede che si possano reincarnare nelle fiere con
cui lotta quotidianamente la cui carne e il cui pellame gli consentono di vincere la fame e il freddo, il culto dei propri morti il cui viatico in una dimensione non di perdita definitiva, ma di sopravvivenza è accompagnato da
offerte che possono tornar utili al defunto per una sua successiva reincarnazione.
Con l’evolversi dello stadio di aggregazione umana, dalla fase dei piccoli
clan a quella dei primi raggruppamenti tribali più numerosi e ai veri e propri gruppi sociali l’oscurità impenetrabile che avvolgeva la natura a poco a
poco si dilegua, l’invisibile si fa sempre più comprensibile e il timore lascia il
posto al rispetto.
Nasce la consapevolezza che in essa vi sia la presenza di qualche cosa di
superiore, di un’entità soprannaturale: il divino.
E a questo viene reso omaggio. Con preghiere e doni l’uomo adora il sorgere del sole, la comparsa nel cielo notturno della luna, il manifestarsi del
bagliore accecante del fulmine che distrugge. Deifica la flora, la fauna e le
forze cosmiche percependo nei venti impetuosi gli aneliti del divino. E gli dà
anche una forma, inizialmente femminile, l’antropomorfizza nelle sembianze
opulente di una donna dai grandi seni e dal ventre adiposo ad enfatizzarne
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gli attributi fertili che esprime in piccole sculture. Esse sono la rappresentazione visiva dell’idea della Grande Madre Natura cui l’uomo paleolitico
deve la propria vita, la possibilità di mantenerla e di trasmetterla.
Verso l’ottavo millennio prima di Cristo l’uomo ha ormai abbandonato del
tutto la transumanza e si è fatto stanziale, esercita ancor la caccia, ma ha ormai
soppiantato la donna nella cura dei campi. Ha appreso la divina arte dell’agricoltura e ne è divenuto il signore. Coltiva l’orzo e il grano che conserva in recipienti di ceramica che egli stesso modella, alleva greggi e per tutto questo
rende grazia al dio sconosciuto innalzandogli preghiere e sacrifici.
Pochi popoli come i Celti, antico ceppo indoeuropeo che si diffuse intorno
al VIII°-VII° secolo prima di Cristo per tutta l’Europa Occidentale e da qui
lungo direttrici diverse verso la nostra penisola, i Balcani e la Turchia, avvertirono il preistorico anelito divino nella natura che ancora pulsava negli
animi delle popolazioni autoctone alle quali andavano sovrapponendosi.
Essi consideravano la natura come la madre di tutte le forme di energia
esistenti e ricercavano in tutte le manifestazioni materiali le divinità, perché
credevano che esse presiedessero il tutto, il cosmo come la terra.
Pertanto, innalzavano suppliche agli astri, veneravano il Sole e il Cielo con
tutti i fenomeni che lo caratterizzavano anche i più terrificanti e nel contempo cercavano il contatto con il divino venerando le manifestazioni telluriche.
Sacri erano i laghi e i fiumi i cui benefici influssi protettivi confidavano
potessero essere trasfusi alle armi e agli ornamenti che vi immergevano
prima di essere indossati o che consegnavano come doni votivi per le preghiere esaudite.
Altrettanta devozione era riservata ai boschi, alle radure attigue, agli antri
sotterranei che credevano assorbissero l’essenza energetica cosmica e alle
grotte che, come molte altre popolazioni primitive, supponevano essere la
porta d’ingresso per l’oltretomba.
In questi luoghi come fossero templi all’aperto avvertivano la presenza del
divino che nelle forze che si sprigionavano dalla natura sentivano immanente su di loro.
E qui si raccoglievano in preghiera e innalzavano sacrifici a Lug, il padre
degli dèi, a Karidwen, la Grande Dea Madre, ad Epona dea della fertilità e
delle acque sotto gli insegnamenti dei druidi, il collegio di sacerdoti dediti al
culto, allo studio degli astri e all’interpretazione delle cose divine.
Ai Celti erano care tutte le specie di piante perché le consideravano mezzo
d’unione del cielo con la terra, un ponte tra le forze astrali e quelle telluriche
di cui assorbivano le energie; con le fronde l’aria e la luce, con le radici
l’acqua e gli alimenti.
Ma sopra tutte adoravano la quercia, emblema della forza e della vitalità e
il vischio, simbolo della continuità della vita riproduttiva e della perennità
dell’energia generante perché il solo albero fra tutti a germogliare d’inverno.
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Degradante verso le viscere della terra e risalente verso la sommità dei
cieli era, quindi, l’anelito religioso con cui l’uomo celtico cercava di entrare
in simbiosi anche attraverso i misteriosi megaliti a lui di molto preesistenti.
Dal nord Europa a Malta, dal medioriente all’isola di Pasqua la presenza
dei cromlech, dei menhir e dei dolmen sembrano attestare la memoria di una
civiltà megalitica sviluppatasi a macchia di leopardo in tutto il mondo la cui
origine (fine del neolitico, IV° millennio a.C.) è, in ogni caso, avvolta nel
mistero.
Così come è misteriosa la funzione di queste ciclopiche costruzioni.
I cromlech con la loro disposizione a cerchio sembrano indicare primitivi
“osservatori” astrologici dove veniva venerato il sole, i menhir dalle alte pietre squadrate infisse quasi magicamente nel terreno da un mitico gigante
preistorico, richiamano luoghi di culto e di devozione e i dolmen le cui pietre orizzontali gravano fuori dal tempo su blocchi di supporto verticali rievocano crudeli altari su cui venivano sacrificati vittime animali e umane o
arcane tombe collettive dove trovavano sepoltura capi e sacerdoti.
Alla presenza di questi monumenti i druidi di fronte a tutta la loro gente
invocavano i loro dèi e a loro eseguivano sacrifici, qui sceglievano tra i più
forti e coraggiosi uomini il loro valente capo e condottiero, qui i bardi intonavano canti misteriosi mentre le sacerdotesse invasate esercitavano la loro
arte di maghe e di indovine.
E’ qui che Veleda, l’ardita profetessa germanica (I° secolo d.C.) arringava i
suoi guerrieri, i valorosi Batavi a ribellarsi sotto la guida di Giulio Civile alle
truppe di conquista romane inviate dall’Imperatore Vespasiano. Infelice
Veleda, che fatta prigioniera, venne deportata in Italia, dove ad Ardea nelle
vicinanze di Roma concluse la sua orgogliosa vita esercitando la difficile arte
della divinazione.
Sempre qui la regina celtica Boadicea anch’essa strenua avversaria dei
Romani raccolse attorno a sé truppe ingenti che piegarono inizialmente le
ginocchia all’Impero infliggendogli sconfitte talmente pesanti da convincere
anche l’imbelle Nerone ad impegnare tutte le sue forze militari dislocate in
Britannia per aver ragione della sua resistenza, che venne meno solo con la
sua uccisione e lo sterminio della sua gente avvenuti nelle vicinanze di
Londra.
Chi, oggi, osserva dal lato del Parlamento sulla riva sinistra del Tamigi il
Westminster Bridge può scorgere sulla destra un gruppo scultoreo in marmo
opera di Thomas Thornycroft (1902) eretto a memoria della coraggiosa condottiera che la rappresenta stante con una lancia in mano su un carro da
guerra celtico trainato da due fieri destrieri in corsa.
Indecifrabili pietre, mistici corsi d’acqua, enigmatici antri, oscuri boschi.
Le leggende bretoni ci parlano di fantastiche visite di fate e di streghe.
Merlino, il mago, che prese sotto la protezione dei suoi incantesimi Artù
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(VI° secolo d.C.) e lo istruì a diventare il leggendario re della Tavola
Rotonda, ma soprattutto il primo eroe nazionale bretone, difensore
dell’amata Britannia dall’invasione delle popolazioni germaniche.
E Melusina, la fata metà donna e metà serpente; triste il giorno in cui
l’amato sposo, il bel principe Raimondino, figlio del re dei Bretoni contravvenendo al giuramento fatto la spiò mentre bagnandosi in una tinozza si trasformava in rettile.
Lei lo privò del suo corpo e del suo amore, scomparendo.
Lo stesso stretto contatto con la natura e le sue manifestazioni vegetali e
astrologiche, espressione di un irrazionale che associa la materia vivente con
la sua idea, la vita quotidiana con le misteriose vicende divine che la sottendono si ritrova in Oriente, in India presso le antiche popolazioni degli Ary
che si sovrapposero alle genti indigene dravidiane. Non a caso, poiché queste popolazioni che provenivano dalle steppe meridionali della Russia
appartenevano allo stesso ceppo etnico iniziale che era migrato ad Occidente
invadendo due mila anni prima dell’era cristiana l’Europa.
Ancora oggi in tutta la regione indiana del Rajastan sono sparsi centinaia
di semplici e modesti tempietti animisti risalenti a migliaia di anni fa dove
gli abitanti dei villaggi si raccolgono in preghiera. Essi venerano la natura
nel suo insieme e le loro suppliche sono rivolte in particolare all’albero il cui
culto è tra i più antichi praticati da queste tribù, qualsiasi sia la loro religione
di appartenenza.
Sia induisti che jaina venerano il Kalpa Uriksha o Albero della vita che troviamo riprodotto nei suggestivi dipinti di argomento mitologico e nelle raffinate sculture dei templi.
Atri alberi erano oggetto di divinizzazione come il pipal (Ficus religiosa) che
nel periodo protostorico delle civiltà dell’Indo di Harappa (III° millennio
a.C.) era considerato sacro o come il bo o fico del banyan (Ficus indica) sotto
le cui fronde il Buddha raggiunse l’ispirazione.
Una simbiosi con le forze naturali che ritroviamo ancora nei riti di fertilità
degli indiani Hopi dell’Arizona dove più che mai pressante è la necessità di
procacciarsi il cibo e dove il concetto di fecondità in ogni suo aspetto, animale, vegetale e umano rappresenta la garanzia della continuazione della vita.
Il misterioso popolo indiano Hopi, il cui ceppo originario si perde nella
preistoria americana, è distribuito in una manciata di villaggi lungo la parte
nord orientale dell’Arizona, sulla Black Mesa, terra inospitale e desertica.
Gente pacifica ed estremamente credente, è dedita a cerimonie religiose
che si protraggono per molti mesi l’anno, dall’inverno all’estate. Con esse, a
dispetto della sterilità della terra da loro abitata, esprimono rispetto e ringraziamento agli spiriti per quello che hanno loro concesso.
Ringraziano il dio Maasawu per il dono della terra su cui vivono quello che
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essi considerano il loro Quarto Mondo, iniziato dai loro antenati che, secondo la leggenda, sono risaliti dagli antri sotterranei del Gran Canyon.
Le danze propiziatorie compiute indossando multicolori costumi e i canti
che innalzano al cielo sono i richiami che indirizzano agli spiriti sovrannaturali, le Katsina, perché scendano tra loro a proteggere la loro difficile esistenza.
A loro che controllano gli elementi e i fenomeni naturali, gli Hopi demandano le esigenze e i desideri del vivere quotidiano, supplicano l’invio della
pioggia tanto benefica per la terra arida, necessaria per fertilizzarla a garanzia di un buon raccolto che consenta la sopravvivenza.
Il contatto, quasi fisico, con le Katsina è assicurato dalle maschere cerimoniali di concezione quasi astratta o surreale indossate da uomini che personificano gli stessi spiriti e da manufatti, soprattutto le splendide bambole di
piccola fattura ricavate dalle radici del pioppo, che vengono regalate ai bambini come iniziazione alla dimensione sovrannaturale.
Anche nelle tribù dell’Africa Nera il rapporto tra il quotidiano e il divino è
mediato dai grandi totem di legno scolpiti seguendo i rigorosi cerimoniali
degli avi, non dissimilmente da quanto avveniva tra i Celti che adoravano i
grandi alberi e gli dèi che credevano in loro albergassero. Questi simulacri
unitamente alle espressive maschere sono concepiti come tramite tra l’uomo
e lo spirito, tra gli accadimenti che accompagnano i singoli momenti della
vita terrena e quella soprannaturale.
Maschere simboliche recanti sulla sommità una figura femminile che
incarna la Dea della Terra sono indossate durante le cerimonie o poste nei
campi a scopo apotropaico, a protezione dai mali e a propiziarne la fertilità.
Alcune di queste maschere si protendono verso l’alto con la raffigurazione
di un uccello da lungo collo che ricurvo sembra penetrare con la testa nella
maschera stessa. Esso rappresenta lo spirito animistico del divino o degli
antenati che comunica con chi l’indossa, una linea diretta al di fuori del
tempo e dello spazio tra l’ultraterreno e il quotidiano.
Così come la fecondità della donna è esorcizzata dalla presenza nelle
capanne di statue di donne i cui elementi formali sono esagerati negli attributi significanti la gravidanza, ventre prominente e seni gonfi.
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Gli dèi hanno un nome e una forma: analogia dei loro attributi nelle diverse religioni antiche
L’uomo impara, quindi, nel corso del tempo a pregare, a invocare, a sacrificare e in questo modo egli tende a farsi amici gli elementi, legandosi ad essi
con un vincolo forte d’amore e di sottomissione perché in ognuno di essi suppone la presenza di un’anima, di una parte del divino che a tutto presiede.
Ormai aggregato in comunità sempre più numerose sente il senso religioso impossessarsi del suo animo ed egli “inventa” la religione inizialmente
animista e subito dopo naturistica; le più semplici, le più genuine in grado di
dare per prime una risposta ai suoi molteplici interrogativi sulla nascita
della vita e sulla sua fine.
L’alternarsi ciclico di vita e di morte viene considerato come un accadimento ineluttabile, così come il ciclo delle stagioni, facente parte di quel
grande disegno cosmico che il divino comanda e determina.
In questa fase di sviluppo della sua personalità, ancora infantile, l’uomo
evoca la divinità, la sua epifania attribuendole un nome.
Ma questi nomi rappresentano entità ancora astratte, atte a significare unicamente alcune “facoltà” peculiari delle entità divine.
Il fatto stesso di “ chiamarla” significava attestarne l’esistenza, voleva dire
entrare in più stretta, ma devota familiarità, sollecitarne più intimamente i
favori, preservarsi dalle sue pericolose ire.
Questa fase politeista coincide con la nascita del mito. L’uomo opera
un’azione di zoomorfizzazione delle mille divinità cui è devoto, attribuisce
loro fattezze e qualità di animali che conosce e teme o addirittura che fantastica.
Lo stadio successivo è quello della piena e totale antropomorfizzazione: gli
dèi hanno le fattezze squisitamente umane. L’uomo li crea a propria immagine, anche se talora li rappresenta in forme ibride conferendo loro particolari di divinità animali che stentano ad estinguersi completamente, forgiando
così fantastiche chimere dotate di qualità sovrumane.
Attribuisce loro una teogonia e con essa cerca di spiegare l’origine del
mondo e la propria, investe ogni singolo dio di qualità benefiche o malefiche
tentando così di giustificare la presenza del bene e del male.
La metamorfosi dell’idea originale del divino trova, infatti, riscontro nelle
raffigurazioni delle divinità di tutte le più arcaiche civiltà storiche che risultano associate da strette analogie. Negli dèi locali delle prime città-stato
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sumeriche innalzate intorno al 3000 a.C., nel Pantheon egizio e delle splendide civiltà che si svilupparono nelle fertili piane del Tigri e dell’Eufrate, dapprima, intorno al 2500 a.C., sotto l’impulso unificatore del grande re accadico
Sargon e in seguito dall’arrivo di altre genti semitiche quali gli Amorrei, gli
Aramei, i Cananei che ininterrottamente già dalla fine del terzo millennio
prima di Cristo migrarono dal deserto arabico verso la Mesopotamia,
l’Egitto e le fertili coste orientali del Mediterraneo.
Spesso alcune divinità, numi tutelari di un popolo, per la fama acquisita
venivano adottate da altri contribuendo in tale modo a creare una commistione di nomi, una sovrapposizione di aspetti aventi però come minimo
comune denominatore l’identità di funzioni.
Il dio sumerico del cielo Anu che dalla volta celeste sovrintende a tutti gli
altri dèi è lo stesso che viene adorato dagli Assiri e l’Assiria adotta anche le
altre due divinità della triade cosmica sumerica, Enlil il dio della tempesta
che diventerà il Baal dei Cananei e degli Aramei e Enki, signore della terra
identificato in Ea dai Babilonesi.
Queste triadi si rispecchiano nelle figure divine egizie dal corrispondente
carattere cosmico: Nut la dea celeste con il cui corpo aveva avvinto in un
abbraccio fatale il dio Geb, la terra, rischiando di soffocarlo e pertanto venne
da lui sollevata ad arco e separata dall’aria Shu.
Ma, nell’Oriente antico le manifestazioni cosmiche, come del resto la vita
terrena erano regolate dall’attività delle divinità astrali.
Altre triadi vengono così a sovrapporsi e a coincidere.
I nomi sumerici di Nanna la luna, Inanna la stella Venere, Utu il sole, hanno
i loro corrispettivi nelle divinità assiro-babilonesi di S i n, di I s h t a r e di
Shamash e in quelle egizie di Osiride simbolo della rinascita perché resuscitato dalla devota sposa-sorella Iside, di Hathor dall’aspetto di mucca il cui culto
si sviluppò soprattutto nel tempio di Dendera, nell’Alto Egitto e di Ra/Horo,
figlio ieracocefalo di Iside e Osiride adorato nel Delta, nato postumo.
Secondo la teogonia egizia, infatti, Osiride, figlio di Nut e di Geb, il cielo e
la terra, venne ucciso durante un banchetto con un perfido inganno dall’infido fratello Seth, dio della distruzione, che ne smembrò il corpo e lo disperse.
La fedele sposa Iside chiamò a suo soccorso il dio sciacallo Anubi custode
dei morti e il dio Thot dalla testa di babbuino, dio tutelare della medicina e
della magia.
Iside si mise alla ricerca delle diverse parti del corpo del suo diletto sposo e
nei luoghi in cui riuscì a rinvenirle eresse un tempio a lui dedicato.
I tre dèi riuscirono dopo indicibili peripezie a ritrovare tutte le membra di
Osiride, fatta eccezione del pene che venne inghiottito da un pesce e ritenuto
nelle acque del Nilo a significare la fecondità eterna del fiume che con le sue
inondazioni rendeva fertile l’Egitto. Essi, quindi, ridiedero forma al corpo
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mutilato che, ricomposto, risorse e incarnò il dio che risiede ad Occidente,
cioè nell’al di là e fecondò Iside da cui nacque Horo, il dio falco.
Dopo una lotta che si protrasse per ottanta anni e che si consumò nelle più
atroci violenze e mutilazioni reciproche (Seth strappo un occhio a Horo e questi tagliò i testicoli all’avversario) il giovane nipote ebbe ragione definitivamente dell’irriducibile zio che gli contestava l’eredità paterna.
Horo da tutti gli altri dèi riconosciuto come sovrano del mondo, così come
lo era stato suo padre prima di essere assassinato, incarnò Ra, il dio Sole, il
primitivo dio della teologia eliopolita, colui che si era creato da sè e che con
il suo sperma frutto di un atto masturbatorio aveva dato origine alle altre
otto divinità che avevano costituito l’Enneade adorata a Eliopoli. Il suo atto
creativo originò prima Shu, l’aria, e Tefnut, l’umidità, dalla cui unione nacquero Geb, la terra, e Nut, il cielo, che a loro volta generarono quattro figli,
due di sesso maschile, Osiride e Seth e due femminile Iside e Nefti.
Horo assurse così a dio simboleggiante la luce, la ragione e la civilizzazione
e avrà in Thot, il sommo tra i medici, lo strumento per combattere il disordine e le malattie inviate da Seth a vessare la terra.
E’ facile con l’evolversi delle civiltà scorgere nel pantheon greco e romano
le analoghe divinità cosmiche e astrali menzionate, ormai completamente
antropomorfizzate.
L’idea cosmica del cielo rappresentata da Urano si trasfonde nel proprio
figlio Crono che dopo averlo evirato ne assume le piene funzioni di dio
dell’Universo e si formalizza definitamente nelle sembianze di Zeus, il dio
supremo dell’Olimpo greco, che sottratto alla furia antropofoga paterna,
armato di fulmini presiede ai fenomeni atmosferici.
La religione romana deifica Crono nelle vesti dell’antico dio dei campi
Saturno, istituisce a ricordo della felice e mai più tornata ”età dell’oro” da lui
presieduta, in cui tutti gli uomini vivevano in pace e prosperità, i saturnali,
festività invernali caratterizzate da scambi di doni augurali, anticipazione
del Natale cristiano.
E Zeus si fa Iuppiter fulgator, elicius, lucetius, attributi delle sue principali manifestazioni, di fulmine, pioggia e luce con cui il popolo romano lo pregava.
Il culto di Febo Apollo il dio solare greco si diffonde per tutta la Magna
Grecia e conquista Roma, Selene la dea lunare che stante su un carro trascinato da quattro giovenche percorre nottetempo il cielo diventa la Diana romana
e in Afrodite e in Venere, troviamo le stesse proprietà, non ultima quella di
presiedere all’amore e alla sessualità, conferite prima ad Inanna, a Hathor, ad
Ishtar e ad Astarte.
Gli dèi romani si presentano, quindi, come riproposte di divinità proprie
di altre religioni anche più antiche; sono rappresentazioni spesse volte ibride
il cui aspetto e il cui significato risentono dell’influenza dei credi e dei miti
soprattutto greci e etruschi. E’ indubbio il debito che la religione romana
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deve a quella del popolo che di volta in volta assoggetta e annette, quasi un
lento, ma inesorabile processo di trasfusione dell’una nell’altra.
Così anche nella coppia celeste Giove-Giunone rivivono gli animi di quella
etrusca Tinia-Uni, e il sacro corteggio degli dei che fa loro da cornice nel
Campidoglio costituito da Diana, Minerva, Apollo, Nettuno richiama l’affollato
pantheon etrusco delle rispettive divinità Artumes, Menerva, Aplu, Nethunus.
Iside, Horus, Sekhmet (Amuleti egizi. Nuovo Regno 1575-1087 a.C)
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Il Diluvio Universale: misteriosa memoria comune a tutti i popoli
Dell’uomo gli dèi hanno le stesse passioni; come lui amano e odiano, mangiano e si ubriacano, temono, ingiuriano, tradiscono, violentano, puniscono
e uccidono.
Ma essi in più hanno il potere assoluto che sfruttano tenendo il genere
umano sotto il loro giogo. L’uomo diventa l’esecutore dei loro voleri cui non
può ribellarsi pena la condanna.
Deve solo sperare di accattivarsi la loro simpatia, assicurarsi la loro protezione attraverso oblazioni, preghiere, inni e processioni.
Non può permettersi di sbagliare, perché il peccato avrà come subitanea
conseguenza l’inevitabile punizione. Il dio provvederà a castigarlo personalmente con le sofferenze, le malattie, la morte e lo abbandonerà a se stesso o
peggio ancora in balia dei demoni.
Già una volta il genere umano tentò di sollevarsi contro gli dèi, ma venne
il Diluvio a punirlo e lo distrusse.
E’ interessante notare come l’episodio di questo devastante cataclisma si
ritrovi nelle narrazioni degli albori di tutte le civiltà caratterizzate da linguaggi e tradizioni diverse. Quasi fosse un patrimonio anamnestico comune,
una memoria che abbraccia tutto il genere umano da un continente all’altro
senza soluzione di continuità, tramandata in forma orale o scritta.
Come se dall’Egitto all’Etiopia, dal vicino Oriente alle civiltà dell’Indo,
dalle fredde terre degli Iperborei che ebbero nei Celti dai lungi e incolti
capelli rossi i propri eredi al mesoamerica preistorico abitato da una razza
rossa, tutti i popoli fossero stati percorsi contemporaneamente dalla stessa
tragica esperienza. E ne conservassero inalterato lo stesso ricordo: quello del
Diluvio Universale.
Il diluvio nella tradizione sumerica e biblica
Noi ancora oggi rimaniamo colpiti dalla descrizione di questa immane
punizione divina che apprendiamo dalla lettura dei testi biblici come probabilmente rimasero un tempo atterriti i popoli di paesi e colture diverse, ma
solo apparentemente lontane dalla nostra, da narrazioni analoghe e parallele:
<<Noè aveva 600 anni quando venne il diluvio e le acque inondarono la terra.
Noè, insieme coi suoi figli e alla moglie e con le mogli dei suoi figli, entrò nell’arca
prima che irrompessero le acque del diluvio…in quel giorno tutte le fonti del grande
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abisso irruppero e le cateratte del cielo si aprirono, e la pioggia cadde sulla terra per
quaranta giorni e quaranta notti … E le acque aumentarono sempre più sopra la
terra, e tutte le più alte montagne, che sono sotto il cielo, furono coperte… Tutto
quello che era sulla terra asciutta e aveva alito vitale nelle narici, morì. Il Signore
Iddio fece sparire tutti gli esseri che erano sulla faccia della terra, dall’uomo fino alle
bestie, ai rettili e agli uccelli del cielo; essi furono sterminati dalla faccia della terra:
non scampò che Noè con quelli che erano insieme con lui nell’arca>> (1) (Genesi 7,
6-23).
L’episodio della costruzione di una grande nave, l’arca, dove Noè su consiglio di Dio ricovera la propria famiglia e le coppie di animali presenti sulla
terra consentendo la sopravvivenza dal diluvio e la propagazione delle specie ricorre più o meno identica in molti altri racconti.
E’ già presente in un poema epico scritto in caratteri cuneiformi accadici
risalente alla fine del secondo millennio prima di Cristo rinvenuto nella
Biblioteca d’Assurbanipal (668-626 a.C.) a Ninive che vede come protagonista il mitico eroe sumerico Gilgamesh, re di Uruk.
I Sumeri, razza non semitica, costituirono l’antica civiltà stanziata in
Mesopotamia più di 3500 anni prima dell’era cristiana. La loro storia ci è
nota soprattutto dalla decifrazione di frammenti di descrizioni in caratteri
cuneiformi presenti su migliaia di tavolette d’argilla rinvenute nel corso
delle diverse campagne di scavi, intensificate negli ultimi cinquant’anni,
nella bassa Mesopotamia, nell’area di Shatt-al-Arab prossima alla confluenza
del Tigri e dell’Eufrate, prima che i due fiumi in un unico corso sfocino nel
Golfo Persico.
Ma conoscenze ancor più complete sulla loro letteratura, sulle antiche città
e sulle imprese dei loro sovrani ci sono pervenute da tavolette in argilla assiro-babilonesi scritte in accadico che a volte sono riedizioni o revisioni corrette e ampliate di narrazioni sumeriche.
Alcune di queste raccontano proprio del Diluvio, inserito nella più vasta
epopea di Gilgamesh, la versione più completa della quale è appunto quella
ninivita in accadico.
Anche in questo caso, come nella Genesi, il cataclisma rappresenta una
Nemesi degli dèi che condannano alla distruzione il genere umano, pentiti
d’averlo creato perché si era dimostrato non devoto e irrispettoso del loro
sonno che molestava con inutili grida.
I più convinti sostenitori del pandemico castigo sono Anu, il padre degli
dei, Enlil, loro prode sovrano che sovrintende all’uragano e alle piogge e
Ninurta, il dio della guerra.
Solamente Ea, il dio delle acque già signore della terra con il nome di Enki
presso i Sumeri, prova un po’ di pietà verso il fedele Utnapishtim e gli consiglia di abbattere la casa e con il legname così ottenuto di costruire una grande barca salvifica per sé, per i suoi cari e per il bestiame.
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E sarà di Utnapishtim, il sopravvissuto, il più saggio tra gli uomini, il più
antico di essi perché gli dèi gli avevano fatto dono dell’immortalità, che
Gilgamesh andrà alla ricerca, con l’animo distrutto dal dolore per la morte
dell’amico Enkidu, compagno di molte avventure e di pericolose imprese.
Dal grande saggio sentirà la narrazione del diluvio, per l’amico del cuore
chiederà la restituzione della vita, per sé di eludere la morte. Invano.
Il Diluvio nelle “Metamorfosi” di Ovidio
Un’arca simile verrà costruita anche da Deucalione su consiglio del padre
Prometeo in un'altra Genesi questa volta di tradizione greca.
Secondo questa mitologia si sono succedute quattro età del mondo (un
altro affascinante e curioso parallelismo con la ben lontana storia maya,
come vedremo).
L’età d’oro in cui gli uomini vivevano nella più completa armonia e piena
felicità. A loro era ignota la violenza e il male e la morte si manifestavano
come un dolce trapasso nella quiete del sonno.
A questa seguì l’età d’argento caratterizzata da una minor perfezione del
genere umano, che viveva fino alla morte in una sorta di eterna fanciullezza,
ma non sapeva onorare gli dèi e per questo Zeus lo distrusse.
La terza età fu quella di bronzo. Gli uomini si erano votati alla violenza,
ignoravano il senso dell’amicizia e della lealtà, erano inclini alla guerra e
questa li annientò.
L’ultima fu l’età del ferro, la più decadente, la più abominevole nella corruzione dei costumi e la più sanguinaria. E’ a questa che Zeus pose fine
inviando il Diluvio.
In questa narrazione mitica è, infatti il dio del cielo, nelle Metamorfosi
ovidiane romanizzato in Giove, che dapprima squarcia il cielo con folgori e
tuoni e poi rovescia per nove giorni e nove notti sulla terra piogge tali da
sommergere interamente tutto e tutti: (2)
Poena placet diversa, genus mortale sub undis
Perdere et ex omni nimbos demittere caelo
……………………………………………
Utque manu late pendentia nubila pressit,
Fit fragor; hinc densi funduntur ab aethere nimbi
……………………………………………
Exspatiata ruunt per apertos flumina campos;
Cumque satis arbusta simul pecudesque virosque
Tectaque cumque suis rapiunt...
(Ovidio, Le metamorfosi, Libro I, v.260-287)
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(Decide un diverso castigo, distruggere il genere mortale sotto le onde e
precipitare giù da ogni parte del cielo scrosci di pioggia…E tosto che di sua
mano strinse le nubi gravide, il fragore si manifesta e quindi dall’etere si
rovesciano dense piogge …Per gli spaziosi campi irrompono fuori dall’alveo
i fiumi; con i raccolti trascinano via arbusti, greggi, uomini e case…) (t.d.a.).
Solo Deucalione riesce a salvarsi e con lui sua moglie Pirra. Insieme immolano sacrifici alla dea della Giustizia Temi e pregano Zeus di rigenerare
l’umanità.
Le suppliche sono recepite benignamente nell’Olimpo e viene loro ordinato di raccogliere le ossa della loro Grande Madre. Ma quale madre potevano
avere in comune loro due, i soli superstiti, se non la terra e quali potevano
esserne le ossa se non le pietre che la ricoprivano?
Così i due sposi raccolgono le pietre e le gettano alle loro spalle: da quelle
lanciate da lui nasceranno nuovi maschi, da quelle di lei nuove femmine.
Ovidio, sempre nelle Metamorfosi (Libro VIII, 611-724), fa un secondo
favoloso riferimento ad una catastrofica alluvione che colpì la Frigia allorquando narra il commovente episodio che vede come protagonisti due
anziani coniugi, Filemone e Bauci, di pari età che erano invecchiati nella
povertà che avevano reso lieve e serena con il loro reciproco amore.
Cercando rifugio per riposare le loro stanche membra un giorno fecero
loro visita Giove e Mercurio sotto le spoglie di due mortali viandanti.
Di mille case avevano in precedenza bussato la porta, ma invano perché
sorde alle loro suppliche erano state le orecchie di chi ci abitava.
Solo Filemone e la sua sposa Bauci li accolsero con gioia mettendo a disposizione sulla loro traballante mensa quel poco di cibo che avevano nella
dispensa: qualche legume e una piccola porzione di maiale che era loro
avanzata e che pendeva da una trave annerita.
Sul loro umile letto stesero un giaciglio di morbide foglie che ricoprirono
con la sola coperta che possedevano e che nei lunghi anni passati insieme
erano stati soliti stendere unicamente nelle ricorrenze festive e vi fecero adagiare gli dèi.
In un rozzo cratere versarono un po’ di vino, di quello mediocre, il solo
che potevano permettersi e lo offrirono con piacere agli ospiti celesti e grande fu la loro meraviglia nel vedere il vaso riempirsi spontaneamente quando
il vino era sul punto di finire.
Esterrefatti dal miracolo innalzarono preghiere e stavano per sacrificare la
sola ricchezza che possedevano, un’oca, quando gli dèi lo impedirono e
manifestandosi li esortarono ad abbandonare la loro casa e a rifugiarsi sul
vicino monte perché di li a poco tutto attorno a loro sarebbe stato sommerso
dalle acque e tutti sarebbero periti per l’iniquità che avevano dimostrato.
Quando a stento, sorreggendosi ed aiutandosi a vicenda i due vecchi raggiunsero la sommità dell’erta si volsero a guardare nella valle e videro atter-
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riti <<et mersa palude cetera prospiciunt…>> che tutto era stato ricoperto da
un’immensa palude.
Solamente la loro povera dimora aveva resistito alla furia dell’inondazione, ma si era trasformata per incanto in uno splendido tempio dal tetto dorato e dalle colonne di marmo.
Allora Mercurio misericordioso e riconoscente chiese loro quale desiderio
volevano che fosse esaudito e come risposta all’unisono i due coniugi risposero di poter vivere gli ultimi anni della loro vita come sacerdoti del tempio
e di non vedere mai l’uno la morte dell’altra.
E così avvenne che quando la vita stava per sfuggire dai loro cuori Filemone
scorse la sua dolce sposa Bauci mettere le fronde e lei si accorse che il corpo
dell’amato compagno si stava facendo tronco e mentre si scambiavano l’estremo addio le loro bocche si ricoprirono di corteccia e per sempre tacquero.
Oggi in quel luogo una quercia e un tiglio si ergono tanto vicini che sembrano uniti in un tenero e perenne abbraccio.
Il racconto presso l’induismo e il madzeismo
La cosmologia indiana così affollata di dèi ed eroi non poteva non averne
uno proprio. L’unico uomo sopravvissuto al Diluvio in questo caso è Manu
ed è anche il primo uomo dell’attuale razza umana.
Secondo la concezione cronologica dell’India vedica (1500 a.C.) esisteva al
di là della dimensione temporale degli uomini (Yuga) anche un tempo che
misurava la vita degli dei e un tempo (Kalpa) proprio del dio Brahma, colui
che presiede a tutte le cose, a ciò che è stato e che sarà, il padrone assoluto
dei cieli, degli dei, dei semidei, degli uomini e degli animali, il primo dio
della Trimurti indù.
Un k a l p a di B r a h m a coincide ad un giorno della sua vita e a circa
4.320.000.000 anni umani ed egli vive cento anni.
Le età dell’uomo sulla terra sono quattro, tre passate Krita-Yuga, Treta
Yuga, Dvapara-Yuga, l’attuale chiamata Kali-Yuga è l’età oscura che va declinando e Manu è il suo primo uomo, il superstite dell’ultimo disastro delle
acque, il Noè biblico.
Queste quattro Yuga hanno la durata complessiva di 12000 anni e costituiscono una grande Yuga o Mahayuga.
La credenza del ciclo continuo delle rinascite e della metempsicosi, originale innovazione della religione creata dai Brahamani postvedici, fa sì che i
Kalpa e gli Yuga si ripresentino ciclicamente. E similmente i Manu.
Alla fine di ogni Kalpa diurno dove la vita è manifesta segue un Kalpa notturno dove essa si riassorbirà nel sonno del dio e la fine dell’era più misera e
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oscura dell’uomo, K a l i - Y u g a, sarà segnata dalla distruzione del genere
umano dalla quale sopravviverà solo il nuovo Manu.
L’attuale è il settimo dei quattordici determinabili, salvato da Vishnu (il secondo dio della Trimurti, il terzo è Shiva) che a lui si presenta con le sembianze di Matsya, il grande pesce, il primo dei suoi dieci Avatara, le sue incarnazioni.
Manu lo aveva appena pescato quando si sentì dire: << Se mi fai salva la vita,
conservandomi in un vaso colmo di acqua io ti salverò dalla violenza della stessa che
si manifesterà come un immane diluvio. Tu solo sopravviverai mettendoti in salvo
all’interno di una grande arca che costruirai>>
Manu ubbidì e quando il Diluvio sommerse tutta la terra il piccolo pesce si
era trasformato in uno gigantesco che prese sul suo dorso l’arca e la depositò
sulle alte cime de monti del Nord.
Questa è la versione che vede il dio Vishnu nel ruolo di creatore e salvatore
del genere umano all’inizio di ogni nuovo Kalpa presente nella raccolta di
testi antichi, i Purana (a partire dal VI° secolo d.C.) e nel più grande poema
epico indiano, il Mahabharata (II° secolo d.C.).
Ritroviamo nell’Avatara Matsya il recesso delle antiche divinità uomo/animale di cui la religione prima vedica e quindi induista è pregna. Poche altre
religioni politeiste ospitano nel loro pantheon tante divinità le cui caratteristiche zoomorfe permangono in qualche modo nonostante le raffigurazioni
vadano gradualmente assumendo nel corso dei secoli una umanizzazione.
Le antiche forme di culto dei dravidiani, gli indigeni primitivi dalla pelle
scura abitanti delle antiche civiltà dell’Indo, rivolte all’adorazione di dei
astrali e naturali verranno contaminate e trasformate dal matrimonio con le
divinità dei popoli Ary, di razza bianca che, come detto, si diffonderanno intorno al 2000 a.C. verso gli altipiani iraniani, il Pakistan e la penisola indiana.
Gli Ariani erano culturalmente simili ai popoli che avevano invaso
l’Europa nello stesso periodo, il che rende ragione dell’identità di alcune
divinità indo-ariane con quelle mitologiche celtiche, greche e romane.
Il Signore Cielo è il vedico Dyaus assimilabile a Zeus e a Giove, così come si
può leggere nelle divinità pastorali di Surya e di Agni le personificazioni del
dio sole e del dio fuoco presenti in altre religioni primitive quali indispensabili entità fonti di calore, di luce, di vita.
In India si assiste ad una continua modificazione dei canoni liturgici e ad
una costante modulazione delle figure divine come risposta alle professioni
delle religioni e allo sviluppo degli ideali delle popolazioni locali.
Il risultato è una miscela omogenea di culti, un impasto di sette e dottrine
che ha impresso il proprio profondo imprinting su tutta la complessa e variegata cultura indiana, soprattutto sulla letteratura filosofica e religiosa codificata nei Veda, i più antichi testi rivelati degli Ary in India (1500-1800 a.C.),
nei Purana e nei grandi poemi epici del Mahabharata e del Ramayana.
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Tra le molteplici religioni professate ancora ai nostri giorni nel subcontinente indiano, tali da renderlo il più recettivo, aperto e tollerante fra tutti vi
è anche il mazdeismo praticato dai Parsi, un’etnia assai numerosa, stanziatasi nel VII° secolo d.C. per sfuggire alla colonizzazione islamica, composta da
ricchi commercianti che opera e vive a Bombay.
Sono i più genuini discendenti degli antichi Ary che, da dominatori, conquistarono lungo due diverse direttrici l’Iran e l’India producendo le meravigliose letterature persiana e vedica.
Oggi come allora, essi come i loro antenati, si rifanno all’Avesta, il libro
sacro inizialmente composto in 21 parti che la tradizione vuole sia stato rivelato al proprio profeta Zarathustra o Zoroastro (VI° secolo a.C.) dal creatore
del mondo Ahura Mazdao.
All’origine naturistico e politeista il mazdeismo divenne sotto la divulgazione di Zarathustra rigorosamente monoteista. Solo in seguito alla sua
morte i discepoli, per accordare la nuova religione alle antiche credenze
popolari, pervennero ad una forma di compromesso trasformandolo in culto
dualistico dove il Bene e il Male si scontravano.
L’Avesta, a noi pervenuto in forma frammentaria e lacunosa e ridotto a
solo quattro parti (Yasna, Vispered, Vendidad e Yasht) rappresenta una raccolta enciclopedica del sapere di quei remoti tempi, i cui argomenti spaziano
dalla religione alla morale, dalla medicina alla giurisprudenza, dall’epica
alla lirica.
E proprio nel Vendidad redatto per combattere il malvagio operato dei
demoni che capeggiati dal loro dio Anra Maynu infestano il mondo e vessano
gli uomini con malattie e peccati si accenna al diluvio.
Anche in questo caso il creatore del mondo condanna il genere umano allo
sterminio, ma fa salvo il virtuoso Yima, figlio del mitico re Vivanhant cui si
deve la diffusione in terra della fede e l’insegnamento dell’agricoltura, e con
lui i migliori uomini e i più forti animali del creato.
Ahura Mazdao non li salva rifugiandoli in un’arca come avviene in altre
epopee, ma suggerisce a Yima di costruire un grande recinto di cui il dio
stesso traccia il disegno con precise misure e di accogliere a coppie maschi e
femmine di uomini e di armenti (3) (Vendidad II, v. 42-96).
A Yima allor così dicendo, o Yima,
Aura Mazda si volse, o Yima, o Bello,
Figliuol di Vivahvante, ecco! Sventura
D’intemperie a venir già s’appresta
Nel terren mondo, e turbine di neve
A principio cadrà là sovra i monti
Che più alti sono, e giù nelle bassure
Dell’ardue regioni, allora, o Yima,
Terza una parte degli armenti in questa
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
Terra morrà, di quei che stanno in luoghi
Più perigliosi, e di quei che stanno alle alture
………………………………………………
Un recinto farai. Quello farai
Lungo ciascun de’quattro lati suoi
Quanto la corsa d’un cavallo, e dentro
E d’armenti e di bovi ogni semenza
E d’uomini e d’augelli accoglierai.
Racconti mitici che hanno come oggetto l’antica religione cinese mischiano
dottrine cosmologiche a fenomeni soprannaturali magici e ci parlano di un
dio creatore del mondo che sotto le spoglie di un leggendario gigante, P’Anku, separa il cielo dalla terra nel grande brodo primordiale. E di un dio del
male, Kung-Kung, dal corpo di serpente e dalla testa umana che cacciato
dalla terra così formata dal dio del fuoco si ribella e con i suoi turbolenti
movimenti genera il devastante diluvio (4).
L’immane inondazione che sconvolse la terra dei Maya
I parallelismi tra le divinità e i miti fino ad ora considerati sono plausibilmente giustificabili dalla relativa vicinanza dei popoli che li hanno originati
o ancora meglio dalla possibilità che tra questi si sia potuto sviluppare lungo
varie direttrici un felice e proficuo scambio non solo politico e commerciale
ma anche di idee.
Di più difficile chiosa è la constatazione che alcuni di questi episodi mitologici si possano riscontrare in popoli geograficamente distanti e in culture
apparse ed evolute in modo apparentemente autonomo.
La narrazione del Diluvio si può, infatti, rintracciare anche in documenti e
racconti delle terre mesoamericane.
Nel XVIII° secolo venne scoperta e tradotta in spagnolo dal linguaggio
delle tribù guatemalteche Quichè, molto affine a quello delle antiche popolazioni maya che avevano abitato la penisola dello Yucatan in Messico, una
raccolta di scritti di argomento religioso, rituale, storico e cosmogonico, il
“Popol Vuh.”
In questa opera, una sorta di Antico Testamento del popolo maya, risalente al 1550 circa, sono narrati la cosmogonia del mondo maya, la nascita
dell’uomo e le primitive vicende che lo hanno visto interprete e tra queste vi
è il ricordo di una drammatica catastrofe provocata da una immane inondazione, il Diluvio.
Questo riferimento viene ribadito dalla traduzione di alcuni glifi del
Codex dresdensis uno dei tre libri maya (gli altri sono il codice di Parigi e di
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Madrid) risalenti probabilmente al Periodo Classico che va dal III° secolo
d.C. al IX°, sopravvissuti alla furia distruttrice dei conquistadores e dei preti
spagnoli.
Anche per i Maya il nostro creato aveva vissuto e sofferto periodiche
distruzioni e ricostruzioni: quattro come le età che si sono succedute nella
mitologia greca.
Il serpente dalle splendide piume, Tepeu Gucumaz, il dio creatore dell’universo che racchiude in sé il principio sia maschile che femminile, dopo aver
chiamato a consiglio Huracan, cuore del cielo, decise di creare la terra e la
popolò di animali.
A loro gli dèi imposero di onorarli e di invocarli con il linguaggio delle
loro specie, ma dalle bocche degli animali non salirono al cielo che rauchi e
incomprensibili versi. E perciò li annientarono.
I due dèi si consultarono ancora e decisero di creare degli esseri che sapessero pronunciare il loro nome e lavorare i campi. Crearono così gli uomini
impastandoli con acqua e argilla.
Ma questi si dimostrarono fragili, incapaci di qualsiasi pensiero e preghiera e pertanto furono sciolti nelle acque.
Tepeu Gucumaz e Hurucan si consultarono con il dio sole opossum Ixpiyacoc
e con il dio sole coyote Ixmucane e decisero di dar vita ad una nuova generazione di uomini, intagliandoli nel legno.
Gli uomini di legno si diffusero per la terra, sapevano parlare, ma non
sapevano rivolgersi ai loro dèi con preghiere e voti, non avevano sangue né
cuore.
Nel “Popol Vuh” si narra che proprio per questo Huracan, il dio rappresentato con una sola gamba e dai cui movimenti vengono generati gli uragani, agitò a tal punto le acque che esse inondarono la terra mentre una pioggia
incessante avvolse in un buio assoluto tutto il cielo.
Inutilmente gli uomini cercarono scampo arrampicandosi sui tetti delle
case, nelle caverne o sulle colline. Ancora una volta tutto il genere umano fu
sommerso tra urla di terrore e di dolore.
Solo allora gli dèi riuscirono a procreare l’ultima generazione di uomini,
modellando le membra, le vene, il cuore di quattro di loro con un impasto di
mais.
Gli uomini plasmati sapevano pensare, parlare e con le parole si rivolgevano agli dèi per ringraziarli perché potevano sentire tutto, vedere tutto e
conoscere tutto.
Gli dèi si allarmarono per tanta perfezione e velarono la loro coscienza
immergendoli in un sonno profondo durante il quale posero al loro fianco
quattro splendide donne, le loro mogli.
Al risveglio i primi quattro uomini della terra si sentirono pervadere da
una grande gioia e un improvviso desiderio d’amare si impossessò di loro
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alla vista delle bellissime donne e con esse giacquero. Dalla loro unione nacquero figli e da questi altri figli che si unirono in gruppi, dapprima piccoli e
poi sempre più numerosi che disperdendosi su tutta la terra la popolarono
per intero.
Un analogo racconto è presente nella tradizione culturale delle popolazioni andine dell’impero incaico (metà XV°– metà XVI° secolo d.C.).
Senza dubbio gli Incas ereditarono la loro concezione cosmogonica dal
popolo Maya o ne subirono il forte influsso. Anche per loro si sono succedute quattro età del mondo (l’attuale è la quinta) caratterizzate da diverse creazioni umane. Una di queste, crudele, malvagia e irriconoscente venne
distrutta da Viracocha, il grande creatore, ancora con il diluvio. I miti indios
affermano che dopo il castigo dalle acque del grande lago Titicata il dio si
manifestò in forma di uomo, dall’alta statura, dalla folta barba e dalla carnagione bianca. All’inizio creò gli astri e poi direttosi a Cuzco ridiede vita al
genere umano al quale fece dono della sua opera civilizzatrice.
Huracan non è il solo dio cosmico presente nel pantheon maya, ma in esso
troviamo una volta di più ad abitarlo molte divinità legate ai fenomeni
meteorologici che vengono sorprendentemente a sovrapporsi a quelle
descritte nelle altre civiltà e religioni prese prima in considerazione.
Vi possiamo riscontrare Hunab, il dio più antico creatore del mondo,
Chaac, il dio della pioggia dal naso adunco e gli occhi attorniati da anelli,
Itzamna il dio-dragone, principio vitale, signore del cielo e della terra, del
giorno e della notte, Carabacan dio dei terremoti che vengono prodotti dai sui
passi sulla terra.
Nel maestoso tempio dei guerrieri che si staglia nella piana di Chichén Itzà,
splendida città maya rifondata dagli Itzà dopo che era stata abbandonata a
metà del VII° secolo d.C. è diffusa la raffigurazione del serpente piumato.
Esso simboleggiava il dio del vento e delle energie maschili e femminili,
incarnazione divina del loro grande condottiero e signore Kukulcan che
nell’immaginario popolare richiamava il semidio tolteco Quetzalcoatl che
presiedeva alla conoscenza e alla saggezza.
Assenti sono gli dèi frutto di un processo d’astrazione, la rappresentazione
grafica e figurativa si impone sul puro concetto al punto che anche l’azione
del porre volontariamente fine alla propria vita, l’idea del suicidio, ha una
sua traduzione glifografica nella figura della dea Ix Tab.
La maggior parte degli dèi incarna qualità concrete, proprietà particolari
facilmente riscontrabili nelle leggi dei fenomeni naturali e nei principi cosmici e cosmogonici.
Da qui la teoria di divinità uomo-animale o totalmente zoomorfe che presiedono ogni attività e ogni momento dell’esistenza dell’uomo maya.
Il dio solare Kinich Ahav si metamorfizza in continuo in animali secondo il
suo significato: in giaguaro quando indica il sole nella fase notturna, in coli-
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brì quando assume il valore fecondante e in aquila quando indica il percorso
diurno dell’astro.
Il popolo maya aveva stretto un patto con il mondo naturale e con gli dèi
che su di esso incombevano e il suo senso del concreto era tale da divinizzare anche i prodotti della terra.
Prima della mietitura invoca il dio Ah Uaxacyol Kauil dal viso di giovane
adornato con pannocchie di mais. Il dio ha fattezze squisitamente umane
perché gli uomini nell’ultimo stadio della genesi avevano la carne e il sangue
formati proprio con la farina di mais.
E quando si reca ai mercati per vendere il raccolto di cacao ringrazia Ek
Chuah, la divinità con il corpo ricoperto dai semi della prelibata bevanda,
ricercata dai signori e dai sacerdoti.
Significativa è l’analogia di figure, di simboli e valenze attribuiti alle divinità di tutte le religioni antiche. Quasi che queste fossero accomunate dalle
stesse identiche esigenze, quelle di cercare delle risposte agli stessi esistenziali interrogativi superando il limite della dimensione temporale e spaziale
o meglio come se esse non esistessero per nulla, come se tutti i popoli all’inizio della storia dell’uomo si rifacessero ad una stessa fonte dell’idea del divino o che questa a tutti si fosse irraggiata e tutti avesse pervaso.
Sintomatico è il patrimonio comune di un episodio ancestrale quale il
Diluvio che tutti popoli sembrano conservare nella loro tradizione letteraria e
la cui memoria è filtrata fino a noi tramandata di generazione in generazione.
Per dare una spiegazione a queste singolari circostanze si possono invocare
alcune argomentazioni scientifiche e rifarsi a suggestive ipotesi geologiche.
Il Pleistocene, periodo del neozoico in cui fa la sua comparsa l’uomo è
caratterizzato da un abbassamento generale della temperatura e dall’estendersi della superficie dei ghiacci con la conseguente unione di vaste zone
continentali.
Questo aveva originato la saldatura attraverso lo stretto di Bering
dell’Asia con l’America e l’emergere di nuove terre, di grosse isole se non
addirittura d’interi continenti che andarono a costituire, seconda ipotesi affascinanti bisognose però di definitive conferme scientifiche, dei ponti di passaggio tra i vari continenti: la favolosa Atlantide descritta da Platone (427347 a.C.) nei suoi celebri dialoghi nel “Timeo” e nel “Crizia” e posta dai più
nell’Oceano Atlantico, ad Ovest delle attuali Azzorre, a cavaliere tra
L’Europa, l’Africa e le Americhe e l’ancor più mitico continente Mu, forse
già presente in epoca mesozoica, nel Pacifico.
Attraverso il passaggio di Bering sarebbe avvenuto la transumanza di
popoli asiatici in America con la colonizzazione del Nord e successiva
migrazione nel mesoamerica, per alcuni studiosi completamente disabitati o
secondo altri sovrapponendosi alla preesistente popolazione aborigena e
uno scambio di genti, culture ed esperienze religiose tra l’Atlantico e il
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Pacifico si sarebbe instaurato proprio attraverso questi ponti di terre emerse.
Lo scioglimento delle calotte polari alla fine della quarta glaciazione, quella di Wurm, l’ultima che il nostro continente ha conosciuto circa 13000 anni
fa con il conseguente innalzamento del livello dei mari accompagnato da
devastanti fenomeni bradisistici, avrebbe determinato quell’avvenimento
universalmente conosciuto e tramandato come Diluvio e avrebbe comportato l’inabissamento di vaste estensioni di terre tra cui Atlantide e Mu (5).
Diluvio universale (Formella policroa. Abbazia Mont Saint-Michel. XI°XIII° sec. d.C.)
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Gli dèi parlano agli uomini
L’arte divinatoria
Gli dèi sanno essere benevoli con chi è devoto e vendicativi con chi non lo
è, gli dèi concedono la loro protezione a chi li onora con offerte e preghiere e
puniscono chi li oltraggia fino a sterminare, furiosi, il genere umano se cade
nell’abominio. Ma gli dèi sono anche salvifici e avvertono dei loro disegni di
condanna i pochi meritevoli della grazia, comunicano con l’uomo giusto
ricordandosi che ogni uomo è in fondo un loro figlio.
E’ come se tra l’uomo e la divinità si instaurasse un tacito accordo, un
patto di mutua assistenza. Il mortale assiste, nutre, venera l’immortale e da
questi ne è ripagato con la vita. Ma non sempre con il benessere e con la
salute. E’ per questo che ci si rivolge al dio, per avere consigli e segnali che
consentano di capire in che cosa è stato offeso e in che modo la sua ira possa
essere placata.
La vita dell’uomo all’inizio della storia è dominata dal timore verso il suo
dio e dalla necessità di capire le sue volontà. Nasce l’esigenza di interrogarlo
e di interpretare le sue “parole”, ma non è dell’uomo comune la facoltà di
poterlo fare. Spetta a chi è investito del potere religioso, a colui cui il popolo
ha demandato l’autorità di sentire e dialogare con l’entità sovrannaturale.
I sacerdoti sono gli intermediari tra il divino e il popolo e a loro questi si
rivolge per conoscere i voleri celesti, sui quali adeguare le azioni da intraprendere per costruire a poco a poco la propria storia.
A volte, come lo sciamano maya o il re-sciamano, incarnano la stessa divinità zoomorfa che mimano indossandone le variegate piume e le preziose
pelli, calcando la maschera che ne riproduce la faccia.
Per la comunità è il segno della metamorfosi completa del sacerdote
nell’animale-dio dei cui pieni poteri prende possesso.
Che sono sovrannaturali come sovrannaturale è nell’immaginario popolare la sua capacità di trasmutarsi, strabiliante magia, fisicamente nell’animale;
nel giaguaro e manifestare tutta la sua forza nella caccia, nell’aquila e solcare
veloce il cielo, nel serpente e acquisirne tutta l’astuzia e la saggezza.
Il sacerdote può far affidamento su un solo mezzo per interagire con il
cielo, avvalersi della divinazione.
Egli deve trascendere il reale, superare la dimensione tempo-spazio, deve
entrare in contatto con la divinità o mediante stati di trance o atteggiamenti
orgiastici.
Come la Pizia, la pitonessa, sacerdotessa greca di Apollo a Delfi che seduta
su un tripode tra i fumi che uscivano dal ventre della terra vaticinava oracoli
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che i sacerdoti del tempio e i fedeli stessi ritenevano emanati dal dio, allo
stesso modo i sacerdoti maya sotto l’effetto allucinogeno del peyotl, il fungo
divino, si autosacrificavano.
Si ferivano con lische di pesce le parti più sensibili del corpo, le orecchie, la
lingua e soprattutto i genitali in modo da far sgorgare sangue copioso da
offrire agli dèi attraverso il fumo della sua combustione.
I bassorilievi illustranti centinaia di teschi presenti sulle mura del
Tzompantli, una costruzione tolteca prossima al Juego de la Pelota a
Chichèn Itzà, ci parlano di rituali che avvenivano anche con sacrifici umani.
Non certo quelli dei sacerdoti, ma dei prigionieri di guerra cui veniva strappato il cuore ancora palpitante per offrirlo agli dèi o delle donne e dei bambini che venivano immolati feriti mortalmente o gettati vivi in grandi e
profondi pozzi, come il cenote ancora oggi visibile in questa splendida località messicana in cui vennero rinvenuti i resti ossei dei sacrificati.
Il dio parla attraverso un proprio linguaggio fatto di presagi. Può intervenire anche direttamente sulla mente dell’uomo mandandogli sogni e avvertimenti premonitori che però questi non sa interpretare e deve, perciò, ricorrere a colui che sa “sentire” la voce divina, a colui che sa “vedere la divinità”.
Nei riti delle popolazioni mesopotamiche era il <<baru>> che presiedeva
alle pratiche mantiche, era alla sua preziosa opera che re, principi e popolo
ricorrevano per conoscere il proprio destino.
Dietro pagamento di una modica cifra destinata come offerta alla divinità
del tempio cui era addetto, egli invocava il dio Adad e interpretava i significati reconditi dei loro sogni.
Gli antichi Egizi potevano disporre perfino di una sorta di code-book che
permetteva loro di decodificare il sogno attribuendogli un significato felice o
foriero di sventura, una prognosi fausta o infausta. Ma il tutto era visto in
un’ottica dinamica. Il sogno era solo una proiezione della divinità sul mondo
terreno, una sorta di avvertimento per l’uomo che con le pratiche magiche
poteva, però, modificare e con gli esorcismi addirittura ribaltare.
Esisteva per ogni male un antidoto, una specifica prescrizione fatta di preghiere a Iside, la dea maga per eccellenza, affinchè intervenisse a favore del
sognatore, di invocazioni alla sua divina figura e perfino di ingiurie da lanciare contro i demoni, i veri responsabili dei cattivi sogni.
Alla stessa stregua operavano i sacerdoti greci preposti al culto di Asklépios
(Esculapio) nel famoso e frequentatissimo santuario sorto ad Epidauro, nella
lussureggiante vallata dell’Argolide.
Famosissimo come luogo di culto e soprattutto di cura, vide il suo maggior fulgore nel periodo ellenistico (IV° secolo a.C.).
I malati si affollavano a centinaia lungo il portico dell’Heraion dove in
sogno attendevano nottetempo l’apparizione miracolosa del dio, che risulta-
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va benefico solo se l’infermo aveva in precedenza offerto come vittima sacrificale un animale e si era avvolto nella sua pelle.
La pratica del versamento dell’obolo ai sacerdoti del tempio era regolata in
questo caso da precise regole, il rapporto tra l’officiante e fedele avveniva su
un piano di assoluta concretezza. Era conseguente solo alla guarigione che
veniva salutata e ricordata dalla dedica al dio di un ex voto in pietra o in
cotto riproducente la parte sanata.
Questi manufatti costituiscono una curiosa collezione aperta al pubblico in
una sala del piccolo, ma interessante museo di Epidauro.
L’oniromanzia non era la sola forma con cui gli dei comunicavano con gli
uomini. Spesse volte il presagio era letto nelle viscere degli animali o meglio
era scritto nel fegato (epatoscopia).
Per gli antichi, dagli Egizi ai Mesopotamici, dai Greci e dagli Etruschi ai
Romani, questo rappresentava l’organo più importante del corpo perché in
esso era riposta l’essenza dei più forti sentimenti, il soffio della vita stessa.
Nella seconda metà dell’Ottocento a Piacenza fu rinvenuto un reperto
etrusco in bronzo raffigurante il fegato di una pecora (fegato di Piacenza)
diviso in settori dettagliatamente incisi con iscrizioni che ricalcavano la corrispondente suddivisione della struttura del cielo e divina e che serviva da
modello per l’esame epatoscopico.
Secondo gli Etruschi, infatti, ogni organismo vivente rappresentava un
microcosmo che rifletteva l’ordinamento universale del macrocosmo.
Esaminare le interiora delle vittime sacrificali voleva dire indagare e riconoscere i segni delle corrispondenze celesti e i voleri degli dèi che su ciascuna di esse aveva potere e competenza.
L’aruspice era in grado di ricavare, così, responsi benevoli o avversi dal
colore del fegato e della cistifellea, da anomalie della loro superficie o dal
loro volume.
In base alla sezione del fegato anomala egli traeva indicazioni su quale
divinità doveva indirizzare le sue suppliche e le sue preghiere per modificare i presagi sfavorevoli, in quanto essa presiedeva specificamente la corrispondente parte celeste.
Tutto il preciso e complesso rituale divinatorio (haruspicina) su cui si
basava in età protostorica la religione etrusca (VII° secolo a.C.) era scandito
dai Libri Tagetici, raccolta di istruzioni per l’esame di tre particolari fenomeni: le viscere ( exta) delle vittime sacrificali, soprattutto il fegato, le manifestazioni prodigiose (monstra) e i fulmini (fulgura).
Secondo la tradizione i precetti raccolti nei Libri erano stati rivelati da
Tagete, un fanciullo che nato improvvisamente da un solco tracciato in un
campo da un contadino presso Tarquinia, insegnò agli etruschi accorsi al
prodigio l’arte divinatoria, scomparendo poi nello stesso giorno.
Primo depositario di questo patrimonio divinatorio fu l’eroe di Tarquinia
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Tarconte che, si dice, lo avrebbe ricevuto direttamente da Tagete e in seguito
sarebbe stato custodito gelosamente dai Lucumoni, i primitivi re etruschi
eletti da apposite assemblee cittadine che ricevevano dagli aruspici che li
affiancavano anche l’investitura di sommi sacerdoti, il tramite tra gli umani
e le divinità.
L’arte divinatoria etrusca venne in seguito assorbita dai Romani, le principali divinità Tinia e Uni si assimilarono a Zeus e ad Era e i sacerdoti della
Roma dei re e poi repubblicana presero il posto del Luchumon etrusco.
Solamente nella fase di decadenza dell’Impero sull’onda delle mode di
importazione dei culti e delle divinità mediorientali gli aruspici vennero
soppiantati dagli astrologi caldei, presso i quali l’extispicio (osservazione
delle viscere) era conosciuto e applicato già molti secoli prima.
A Roma la cura delle cose sacre aveva raggiunto un tal grado di specializzazione che venivano nominati sacerdoti per ogni tipo di ufficio.
Così per la divinazione si poteva contare sui viri sacris faciundis, un collegio di quindici sacerdoti (quindicemviri) cui spettava la cura e l’interpretazione dei libri Sibillini. Introdotti da Tarquinio il Superbo essi contenevano i
responsi in lingua greca della Sibilla di Apollo e venivano consultati in casi
eccezionali per avere indicazioni su come placare lo sdegno divino incombente sulla città e sui cittadini preannunciato da avvenimenti eccezionali.
E’ in questi libri che per la prima volta si palesa il suggerimento di ricorrere all’ossequio di culti di divinità greche ed orientali che verranno adottate
in seguito e che comporteranno una commistione e una sovrapposizione di
dèi etruschi, italici, romani, greci e orientali.
Accanto a questi sacerdoti esercitavano la loro professione gli augures, il
cui compito era quello di interpretare i segni con cui gli dèi rispondevano in
modo favorevole o sfavorevole su una determinata azione che si doveva
intraprendere e per la quale erano stati invocati: da quelle più semplici come
l’iniziare un viaggio, a quelle più importanti, come l’intraprendere una campagna bellica, l’optare per una scelta politica, il presentare la propria candidatura al senato, l’opportunità di consacrare qualche bene (non diversamente da ciò che si fa oggi consultando l’originale e improvvisata compagnia di
giro dei sedicenti maghi e divinatori).
Gli auspici interpretati potevano essere espressi sotto forma di volo di
uccelli, fenomeni atmosferici quali tuoni e lampi, dei quali rivestiva significativa importanza lo spazio da cui avevano avuto origine (se a ciel sereno o
provenienti da sinistra erano di buon augurio).
Un terzo sacerdozio era rappresentato dagli haruspices che come detto
sono di derivazione etrusca.
Non va peraltro dimenticato che accanto ai rituali divinatori dettagliatamente descritti nei culti ufficiali, l’arte della predizione era esercitata più o
meno clandestinamente da una pletora variopinta di persone che abbraccia-
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vano le prostitute e i saltimbanchi, i biscazzieri e i maghi e che faceva da cornice all’intensa attività pubblica del civis romano.
Abbiamo visto come i monstra, i fenomeni straordinari con i quali la natura
spesso si sbizzarrisce nel manifestarsi agli uomini fossero indagati presso gli
Etruschi e i Romani, così come gli avvenimenti o segni inconsueti erano
oggetto di considerazione e di interpretazione.
La nascita di animali bicefali o con una zampa soprannumeraria fu sempre
vista come un accadimento preoccupante se non infausto. Gli dei erano
intervenuti a modificare il corso naturale della vita, avevano forzato la natura facendo partorire dei “fenomeni” come avvertimento dell’appropinquarsi
di un avvenimento catastrofico, forse come monito per la cattiva condotta
degli uomini, ereditando in questo le valenze interpretative delle popolazioni mediorientali che avevano percorso le fertili vallate del Tigri e
dell’Eufrate.
La morte di Cesare, ci racconta Svetonio, fu preannunciata da evidenti
presagi: alcune mandrie di cavalli che Cesare aveva consacrato al dio del
fiume quando aveva varcato il Rubicone, pochi giorni avanti il suo assassinio avevano rifiutato il cibo e il giorno precedente le Idi di Marzo un passero
che stringeva nel suo becco un ramoscello di lauro fu inseguito e ucciso da
rapaci proprio sulla Curia di Pompeo, luogo dell’efferato assassinio.
Altrettanto infausti furono i presagi avvertiti prima della morte di
Augusto: una folgore aveva strappato via la prima lettera del suo nome scritto sulla sua statua e per questo gli indovini vaticinarono che egli non sarebbe
vissuto più di 100 giorni.
Lo scellerato Caligola, assassinato dal suo tribuno Cassio Cherea, comandante di una coorte pretoria, non volle prestare fede ai responsi delle
Fortune di Anzio, le sibille che gli avevano predetto l’uccisione, confermata
anche dall’astrologo Silla.
Ma non volle credere neppure a se stesso, o meglio al sogno che per tutta
la notte precedente la sua morte lo aveva ossessionato. Sognò che era asceso
al Cielo, al fianco del trono di Giove e che questi lo aveva cacciato bruscamente via precipitandolo sulla terra con il grande alluce del suo piede.
E anche l’assassinio del suo successore, il balbuziente e imbelle zio
Claudio, tradito pubblicamente dalla sua prima moglie, l’impudica
Messalina, e ucciso dalla seconda, l’astuta Agrippina, venne preannunciato
da chiari segni celesti quali l’apparizione di una cometa e la caduta di un ful mine sulla tomba di suo padre Druso.
Nella mantica antica veniva indagato tutto, perfino gli spiriti dei defunti
(necromanzia).
Si faceva ricorso ad ogni materiale e si osservava ogni fenomeno, anche
quello procurato in modo artificioso.
Sopra l’acqua contenuta in un bacile si versavano poche gocce d’olio e si
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davano interpretazioni sul modo con cui esso si distribuiva e su come formasse segni premonitori oppure in un braciere si osservava il colore delle
fiamme o la loro direzione ricavandone buoni o cattivi auspici.
La manifestazione del dio ai suoi figli è un patrimonio comune di tutte le
religioni anche se differente è il mezzo con cui essa è tradotta e illustrata.
Il Dio d’Israele è un dio completamente diverso dagli dèi delle religioni
politeiste. Egli è un Dio universale, unico che stabilisce un rapporto biunivoco con la sua gente. Ma anche egli si rende manifesto, non già con fenomeni
astrali o atmosferici, non necessita di aruspici o maghi per farsi intendere,
egli per essere ascoltato ha i suoi messaggeri e i suoi interpreti. Il suo volere,
i suoi avvertimenti, le sue punizioni sono veicolate e portate al suo popolo
eletto attraverso uomini particolari, dotati di spiccata fede che li rende veggenti: i profeti o nabhi.
Non appartengono a particolari caste sacerdotali come lo ierofante profetico dell’antico Egitto, il baru mesopotamico, l’aruspex romano, la medium
greca o i druidi celtici dalle candide vesti; essi si relazionano con Dio attraverso un canale preferenziale ed esclusivo.
E’ Dio che elegge liberamente e personalmente colui che sarà la sua voce
presso il popolo e perciò gli conferisce il potere di esortare, avvertire, condannare. E’ il suo braccio, il suo esecutore che fa intervenire per controllare e
guidare costantemente il suo popolo, è il garante della sua fede.
Egli sceglie Mosè per manifestarsi come Unico e Signore di tutto il creato
<<Io sono colui che sono>> e per stabilire, suo tramite, un’alleanza e un patto
con Israele <<Vi ho visitati; e ho visto quanto viene fatto contro di voi in Egitto;
perciò ho deciso: Io vi trarrò dall’afflizione in Egitto, per condurvi nella terra del
Cananeo…>> (1) (Esodo, 3).
Quando gli anziani d’Israele chiesero a viva voce un re è Samuele, il giudice veggente, che ancora su scelta di Dio indica e consacra Saul ma è lo stesso
che gli predice la destituzione e la fine perché si era ribellato alla volontà del
Signore (1) (I° Libro di Samuele, 9-15).
Dio aveva consegnato al popolo d’Israele una monarchia che era stata
capace di sconfiggere i nemici della sua fede, i Filistei, i Moabiti, gli
Ammoniti e gli Edomiti. Da una confederazione di tribù sparse e spesso in
contrasto le une con le altre aveva gettato il seme di un grande nazione e
anche se il suo re si era dimostrato indegno di guidarla, questa non poteva
rimanere senza un capo.
E’ ancora Samuele che visitato dal Signore si recherà presso la casa di Isai
a Betleem e riconoscerà in David il prescelto, l’unto, il successore di Saul:
<<Il Signore disse: orsù ungilo, perché è lui (1) (I° Libro di Samuele, 16).
Così come sarà un profeta, Isaia a predire l’invasione del regno d’Israele
da parte delle truppe assire e la capitolazione della sua capitale Samaria (722
a.C.) per i peccati commessi (Isaia, 5-7). L’altro regno in cui lo Stato d’Israele
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era stato suddiviso alla morte di re Salomone (X° secolo a.C.), quello di
Giuda a sud con capitale Gerusalemme, durerà solo 136 anni in più (586 a.C.).
La sua tragica fine culminata con la distruzione del Tempio ad opera di
Nabucodonosor re dei Babilonesi, potenza emergente nello scacchiere mesopotamico che aveva preso il posto degli Assiri << … e i Caldei, di ritorno,
attaccheranno questa città la prenderanno e la daranno alle fiamme>> venne ripetutamente paventata come castigo divino da un inascoltato Geremia.
Le parole del profeta vennero irrise e lui stesso dileggiato dal re Sedecia,
accusato di disobbedienza alle parole del Signore, che lo imprigionò in una
cisterna piena di fango. A lui non fu dato ascolto neppure quando predisse
la più tragica delle calamità, la deportazione in schiavitù del re, dei suoi
familiari e di tutto il popolo di Dio a Babilonia: <<Sì, tutte le tue mogli e i tuoi
figli saranno condotti ai Caldei e tu non scamperai dalle loro mani, ma sarai fatto
prigioniero dal re di Babilonia, e questa città sarà distrutta dalle fiamme>> (1)
(Geremia 34-39).
Parole vane, parole sorde alle orecchie di chi non voleva sentire la voce del
Signore.
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Le dee madri e i riti della fertilità
La Grande Dea, la Dea Madre
Tutte le religioni arcaiche ammettono l’esistenza di un’entità suprema,
creatrice del tutto, ma essa almeno inizialmente nella maggior parte delle
società protostoriche, animistiche e naturistiche è una pura astrazione.
Una costante che misteriosamente una volta di più le accomuna è la singolarità della sua forma, squisitamente femminile.
La figura preminente del loro pantheon, infatti, incarna la Grande Dea, la
Dea Madre che è venerata come incarnazione della Grande Madre Natura,
della Dea Madre Terra.
Ne è una diretta testimonianza la presenza di un’arte naturalistica che si
diffuse durante il Paleolitico superiore in coincidenza del fiorire delle culture
dell’Aurignaciano e del Perigordiano, dai nomi delle regioni francesi che le
svilupparono attorno al 15000 a.C.
Dalle terre franco-ispaniche a quelle che si affacciavano sul Mediterraneo,
dal Centro-Est europeo alla Siberia questa arte si caratterizzò per la produzione di sculture in pietra o più raramente in osso e avorio riproducenti le
cosiddette “Veneri”, figure di donne completamente nude, dal volto appena
abbozzato, dai grossi seni cascanti e dai larghi fianchi che a fatica erano
sostenute da piccole e tozze gambe prive di piedi.
Esse rappresentavano l’idea primigenia che quelle popolazioni del
Paleolitico avevano della Grande Madre, della generatrice di tutte le forme
viventi, della protettrice della forza riproduttiva. Attraverso esse tendevano
una correlazione tra la materia e la sacralizzazione delle sue forze naturali,
tra l’usuale quotidiano e il mistero che lo regolava.
Grande importanza aveva l’elemento terrestre, sia come humus benefico e
fertile per la vegetazione che come ultimo ricettacolo di ogni forma vivente.
Sì perché nella terra si compiva l’intero ciclo di vita e di morte; il vigore
della vita aveva inizio nel suo grembo, ma nel suo grembo si concludeva
anche.
In questo principio naturistico trovava giustificazione nel neolitico l’inumazione dei morti nella caratteristica posizione contratta, riproducente quella fetale quasi a segnare il ritorno dell’uomo alla fine della sua esistenza terrena nel ventre della Dea Madre Terra.
Non poteva, d’altra parte che essere indirizzato al femminile il loro concetto del divino. Chi, infatti, per prima percepisce il senso del mistero presente
nella natura, chi interagisce con l’occulto, chi avverte l’invisibile presenza
del divino o lo interroga è la donna, perché nessun essere più di lei è vicino
ai cicli naturalistici, all’alternarsi delle stagioni e alla forza generatrice.
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La donna è fertile come la terra e come questa porta in sé il mistero unico
della sua fecondità.
Il maschio subisce il fascino del femminino, avverte la presenza nella
donna di questa forza misteriosa e potente a lui preclusa e la stessa identica
forza la intravede nella natura: quella che presiede al ritorno ciclico dei mesi,
al maturare delle messi, alla nascita delle piante è la stessa che permette alla
donna di generare e di garantire la perpetuazione della specie.
Lungi dalla sua mente di poter in qualche modo intervenire nella fase
riproduttiva inizialmente fa della donna il centro della società arcaica, è a lei
che demanda il compito di intrattenere i rapporti con il misterioso presente
nella natura ed è, pertanto, istintivo che in una figura femminile intraveda il
divino.
La donna si crea sacerdotessa dei primi rituali naturistici, interpreta con
vaticini la voce degli dei nascosta negli elementi e nei fenomeni che incombono sull’uomo.
E’ lei che presiede all’agricoltura, alla coltivazione dei campi relegando il
proprio compagno alla funzione di procacciatore di cibo per il suo sostentamento e per quello dei suoi figli.
Solamente quando l’uomo comincerà ad intuire l’importanza del suo
ruolo nella riproduzione la funzione preminente della donna nell’ambito
della comunità sarà ridimensionata. Egli la soppianterà completamente nella
gestione dei campi, segnando il passaggio da una società a stampo matriarcale ad una del tutto patriarcale e la limiterà anche nelle sue prerogative
mantiche.
Dall’esercizio di queste essa non verrà però completamente esautorata,
solo la sua posizione privilegiata sarà circoscritta e controllata.
Ecco allora la Pizia delfica, le altre Sibille, la sacerdotessa druida, interpretare ancora il soffio divino, profetizzare il volere da cui dipenderanno le
decisioni dei re e dei sacerdoti.
L’idea astratta della Dea Madre Terra dell’India dravidiana (2800 a.C.) la
ritroviamo rappresentata nel periodo vedico dalla dea Aditi, l’incommensurabile, la grande madre progenitrice della stirpe divina degli Aditya, i primi dèi
dell’infinito cielo e dei fenomeni che lo solcano, tra cui rifulge Surya, il dio-Sole
con la testa fiammeggiante per il disco solare che gli fa da aureola rappresentato alla guida di un carro d’oro trascinato da un cavallo dalle sette teste.
Da sempre il popolo indiano pre-Arya e Arya ha coltivato, come del resto
tutte le altre civiltà naturistiche primordiali, il culto del sole.
In questo si può scorgere senza dubbio una stretta analogia con l’adorazione del Mitra avestico, il dio-Sole e della luce della religione zoroastriana
degli antichi Irani che senza dubbio ebbe una notevole influenza sovrapponendosi ai vicini culti locali dravidiani.
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Influenza che successivamente si diffuse ad occidente a tal punto che i
Romani durante l’Impero coltivarono la venerazione di questo dio, colto
nell’iconografia pittorica e scultorea nell’atto di uccidere il toro il cui sangue
rappresentava la forza generatrice di ogni cosa, attraverso la celebrazione di
misteri aperti ai soli iniziati che si svolgevano in segreti e sotterranei templi.
Nel dio-Sole il popolo indiano vedeva uno dei più importanti dèi, il creatore della luce, il generatore del giorno, il cui sorgere portava conforto e
fiducia all’uomo dopo il terrore e l’ignoto notturno, la forza fertile per le
piante e che dà vita a tutti gli animali.
Meraviglia e commozione pervadono oggi la nostra vista e il nostro
animo, quando mischiati in devoto e colorato corteggio con la popolazione
locale e proveniente da tutto il Rajasthan ci si reca presso lo splendido lago
Nakki in cui si rispecchiano le verdi colline sovrastate dal Tood’s Rock, la
roccia del rospo.
Il lago scavato secondo la leggenda dagli dèi con le unghie (Nakki in indi
significa appunto unghia) si sviluppa alle pendici di Mount Abu, meta di
pellegrinaggio tra le più frequentate da jainisti dove salendo tra alberi di
mango, melograno e cedri si giunge ai meravigliosi templi di marmo di
Dilwara, opera massima e insuperabile dell’architettura religiosa jaina.
A sud est del lago alcuni gradini si inerpicano tra le verdi colline e conducono ad un’ampia terrazza che domina una lussureggiante vallata.
Qui ogni domenica si raccoglie un’incredibile folla di bambini dagli occhi
neri come la pece e lucenti sotto il segno netto del kajal, di donne splendenti
nei mille colori dei loro sontuosi costumi e di uomini dall’aspetto fiero per
pregare devota il sole al tramonto e ringraziarlo del voler ancora mostrarsi ai
loro occhi ogni mattino; atto devozionale dimenticato da noi occidentali
ormai così lontani dal sentire il mistero della natura.
E tale è il credo nell’astro celeste e il senso di riconoscenza per il suo apparire mattutino che a lui i fedeli edificano sontuosi templi. Come quello che
sorge sulla sommità della gola di Galta che scende a strapiombo dai monti
Aravalli a pochi chilometri da Jaipur, sempre nella parte nord-orientale del
Rajasthan.
Una stretta strada in terra battuta conduce i devoti indigeni, cui solo eccezionalmente si mischia qualche solitario turista (la meta è fuori dagli itinerari turistici classici), all’ingresso del complesso templare dove ad attenderli
accorrono decine e decine di scimmie che scendono dai pendii che incastonano il tempio, richiamate dalla loro innata curiosità e dai dolci con cui ogni
pomeriggio i sacerdoti le nutrono.
Qui agli occhi dello spettatore si presenta una composizione architettonica
di rara bellezza, impossibile da dimenticare.
Il complesso costituito da diverse stazioni templari si sviluppa tutto in
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salita seguendo una ripida scalinata che si inerpica lungo la stretta gola e che
conduce al vero e proprio tempio del dio del Sole, posto sulla sommità.
Per tutta la lunghezza dell’ascesa le scale sono fiancheggiate da vasche
degradanti riempite dalle calme acque curative del Gomuk che dai monti,
come per magico incantesimo, fuoriescono attraverso la bocca spalancata di
una mucca in pietra. In queste piscine i dediti al culto, piccoli e grandi, giovani e anziani divisi per sesso, si immergono per procurarsi benessere e salute.
Nel vedismo la gran dea Aditi incarna ancora il concetto di divinità naturistica totipotente, ma assumerà la vera rappresentazione di Dea Madre Terra
incarnandosi in Privti, ora solo dea della terra, congiunta con il dio-Cielo
Dyaus.
Coppia divina unita seppur divisa in due dimensioni distinte, in due
mondi lontani: l’una governa i boschi, i fiumi, le montagne, i campi, l’altro il
firmamento e tra loro, secondo la concezione cosmogonica dei Veda un terzo
mondo intermedio, quello fenomenistico a separarli, ma non completamente, non perennemente.
Dalla loro unione sarà generato Agni bicefalo, doppio nel volto come
duplice è la sua valenza ontologica, di dio del fuoco sorgente di vita, ma
elargitore anche di morte e di dio della luce che trapassa i mondi per vivificare gli uomini, e in questo stretto fratello di Surya.
Nell’alto medioevo le prerogative di apportatrice di fecondità e fertilità
unitamente a quelle più terrifiche incarnate dapprima nella figura della dea
Durga verranno passate a Parvati, la compagna di Shiva, che verrà ad acquisire pertanto la facoltà di totipotenza generante. Dal IV° secolo d.C. lo
Shaktismo, la corrente induista del tantrismo, innalzerà la Dea, cioè la
Shakti, a somma divinità la cui energia femminile verrà considerata come la
proiezione di quella cosmica.
Inanna, la dea sumerica
Connotazione identica di dea della fertilità la troviamo già molto prima
nella figura di Inanna, la dea sumerica che incarna l’ubertosità dei campi e la
fecondità dei greggi.
A presiedere a quest’ultima, in realtà, è Dumuzi, il re pastore, amante tradito della spietata Signora.
Differenti sono le versioni che narrano il mito del loro amore, molte sumeriche e alcune accadiche (in queste Inanna diventa Ishtar e Dumuzi si trasfigura in Tammuz).
Al di là del diverso tipo di tono, ora elegiaco ora devozionale ora liturgico
tutte però coincidono a grandi linee nel canovaccio.
Nel poema sumerico “La discesa di Inanna agli Inferi” (6) (cap. IX, par.14),
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Inanna per ampliare il proprio potere decide di scendere nel regno dei trapassati su cui regna sovrana Ereskigal. La dea infernale intuisce le intenzioni
di Inanna e le impone di superare le sette porte d’accesso innalzate a difesa
della città dei morti.
Man mano che Inanna supera le singole porte perde gradualmente le sue
forze così che alla fine le vengono meno tutti i poteri che possedeva sulla
terra e che con astuzia, ricorrendo alla sua bellezza e al vino aveva ottenuto
come munifico dono da Enki, il Signore dell’apsu, il grande abisso di acque
su cui galleggiava il mondo.
Perse le sue facoltà Inanna è uccisa e sarebbe condannata a giacere per
sempre con tutti gli altri morti se non intervenisse Enki, che avvisato e supplicato da Ninsuburg, la fedele ancella della dea, ottiene che Inanna riabbia
la vita e lasci il regno dell’oltretomba.
Crea all’uopo dalla raschiatura delle sue unghie due strani personaggi,
una sorta di travestiti, di effeminati, presenza che troviamo spesso nei cerimoniali religiosi sumero-babilonesi, che con blandizie e scaltrezza connaturati al proprio essere riescono a portare via Inanna.
Ma ad un patto. La condizione che Ereskigal detta è che le sia dato un
corpo in sostituzione di quello perso e che questo corpo debba essere quello
di un familiare di Inanna o di una persona cui sia legata da forti affetti.
Inanna tornata sulla terra nello scorgere il bel Dumuzi presso il suo ovile
<<comodamente seduto su un podio maestoso>>, per nulla preoccupato della sua
assenza, quasi non si fosse accorto della sua dipartita è colta da una terribile
collera e indica ai guardiani infernali che l’avevano seguita nella persona
dell’amato il corpo da ricondurre agli Inferi.
Dumuzi in preda alla disperazione prega e supplica l’amante e tutti gli altri
dèi di salvarlo, ma solo la sorella Gestinanna ci riuscirà, parzialmente, ottenendo di sostituirsi a lui per sei mesi all’anno nel profondo regno dell’al di là.
In questa come in altre narrazioni incentrate sullo stesso episodio mitico
non si legge alcun rimpianto della dea per la perdita dell’amato, come se la
collera avesse definitivamente sostituito la passione e la vendetta il ricordo.
Solo in alcuni frammenti staccati Inanna piange, tardivamente, il suo
amore scomparso (6) (cap. IX, par.17, v.1-27):
Come Inanna piange amaramente il suo sposo
Come la regina dell’Eanna piange amaramente il suo sposo
…………………………………………………………….
Ecco scomparso il mio sposo, il mio bello sposo!
Scomparso il mio diletto, il mio adorabile diletto!
Il mio sposo è svanito come i primi germogli!
Il mio diletto è svanito come gli ultimi germogli!
Partito a cercar piante,
Il mio sposo è stato tramutato in pianta!
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Partito a cercar acqua,
Il mio sposo è stato precipitato nell’acqua!
E’ chiaro il significato agreste del racconto. L’alternarsi del ritmo stagionale, alla fioritura della vita nei campi coincidente in questa regione con il
clima mite invernale-primaverile subentrava la totale sterilità causata
dall’arsura e dal calore
estivo che iniziava proprio nel mese di Dumuzi,
giugno, in cui si celebrava la sua scomparsa.
Il suo corpo per sei mesi non era più sulla terra e in questo periodo la terra
soffriva perché non poteva godere dell’energia vitale che Inanna su di lei
riversava ogni qual volta si congiungeva con il suo amato.
Una volta sola Ishtar viene rifiutata da un mortale, in una sola occasione il
suo fascino divino non riesce ad ammaliare un uomo e a perderlo.
Gilgamesh l’eroico re di Uruk della cui bellezza si era infatuata la dea le si
sottrae. A nulla valgono le promesse di farlo suo sposo, di donargli un cocchio di lapislazzuli, con ruote d’oro, di farlo l’uomo più ammirato e riverito
sulla terra, di rendere i suoi animali prolifici oltre misura e i suoi cavalli i più
veloci. Gilgamesh è irremovibile, non solo si nega, ma anzi le rinfaccia la fine
miserabile di tutti i suoi precedenti amanti, di come abbia un cuore che facilmente si inaridisce e che come un braciere si spenga prestamente al freddo.
Paventa anche che se lui fosse divenuto suo amante, se le avesse concesso il
suo corpo avrebbe seguito la stessa funesta sorte degli altri. Il suo è quindi
un rifiuto netto, tanto che suona come un insulto. La dea irata si rivolge allora a suo padre, ad Anu il dio del cielo, perché per vendicarla le conceda il
Toro del Cielo che lei stessa avrebbe condotto ad Uruk per distruggere
Gilgamesh e portare siccità alla città per sette lunghi anni. Anu, solo dopo
essersi sincerato che il re aveva già messo da parte grano per la gente e fieno
per il bestiame sufficiente per tutto questo tempo, le affida il Toro.
Tremendo è il suo apparire e terribili le conseguenze. Un primo soffio
uscito dalle narici apre la terra in mille fenditure che ingoiano cento giovani
e un secondo soffio ne fa precipitare duecento. Enkidu, per niente atterrito,
gli si fa incontro e prende il Toro per le corna mentre l’amico inseparabile
Gilgamesch lo prende per la coda e gli conficca la sua spada nella testa, uccidendolo.
Alte si levano allora le lamentele di Ishtar e mille sono le maledizioni che
rivolge al valoroso re. Per tutta risposta Enkidu, irriverente e irridente, strappa la coscia destra del Toro del Cielo e con veemenza la scaglia sulla faccia
della dea.
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Le dee greche, italiche e romane
Gli antichi culti greci, italici e romani investivano alcune loro divinità femminili di una funzione ambivalente espressa dai rispettivi duplici attributi.
Ecco, quindi, Gea, la terra nata per prima dal Caos primigenio, madre e
amante di Urano e di Ponto dalla cui unione incestuosa ebbero origine i
Titani, i Ciclopi, i Centimani, i giganti dalle cento braccia, e Nereo, il mare,
configurarsi presso i Greci come divinità sì agreste, ma anche ctonica, in
quanto sovrintende il Tartaro, il regno dei morti.
Questa figura perderà poi a poco a poco i suoi precisi connotati per
confondersi con divinità di altri culti in cui è trasfusa più spiccatamente la
sola funzione generatrice.
Gea viene riconosciuta nella dea Tellus degli italici, in Rea sorella-amante di
Crono e madre di Zeus adorata a Creta e soprattutto in Cibele, la Grande
Madre venerata dai Frigi e da molte popolazione dell’Asia Minore e adottata
dai Romani come Magna Mater (7) (Lucrezio: De rerum natura, II libro, 3.2,
v.610-613).
Vari popoli, che ancor seguono riti antichi,
la invocano Madre Idea, e le schiere di Frigia
le attribuiscono come compagni, perché da quelle terre dicono
che iniziarono per l’orbe del mondo a diffondersi le messi
L’adozione di divinità orientali coincise, non casualmente, con i disastri
conseguenti alle guerre puniche, in particolar modo alla seconda (219 a.C.).
Annibale dopo aver espugnato Sagunto in Spagna, varcava le Alpi e si
dirigeva su Roma. A niente valse l’opposizione dell’esercito romano al Nord
sul Ticino e sul Trebbia, perse anche sul Trasimeno, ma soprattutto conobbe
la più ignominiosa giornata a Canne dove fu messo completamente in rotta.
Il terrore causato da queste iniziali vittorie di Annibale si impossessò dei
Romani e i loro cuori vennero gettati nel più cupo sconforto.
Gli antichi dèi non li proteggevano più e come sempre avviene quando il
terrore predomina sulla ragione fa breccia la superstizione. Essi non sentendosi più sufficientemente protetti abbandonarono i rigidi culti dei loro padri
per sostituirli con quelli provenienti dall’Oriente, che nel loro immaginario
scaramantico meglio potevano operare una più incisiva opera di soccorso e
di salvezza.
Queste cause associate alla forte e pressante influenza della cultura greca e
orientale che conquistava sempre più Roma portò alla diffusione nell’urbe e
nell’Italia tutta dei cerimoniali religiosi dei popoli di quelle terre.
A Cibele erano cari la quercia, il pino e i leoni e, infatti, veniva rappresentata stante alla guida di un carro trainato da due di essi.
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Famoso è il mito del suo amore per Attis, che essa volle sposare presa
d’ardore per il suo fascino e la sua bellezza.
Ma terribile fu anche la sua collera quando il giovane la tradì e la abbandonò per unirsi in matrimonio con la figlia del re Mida di Pessinunte.
Paurosa fu la comparsa della dea durante il banchetto di nozze dei due e tragica fu la sua conclusione.
Attis, infatti, sconvolto dalla vista della dea scappò sui monti dove nel più
disperato terrore trovò la morte, secondo alcune versioni evirandosi e secondo altre ucciso da un cinghiale, ricongiungendosi così al mito di Adone e
Afrodite.
Proprio Pessinunte era la città dove più di ogni altra era venerata Cibele e
dove era celebrato il suo culto durante l’equinozio primaverile.
In quei giorni i sacerdoti della dea, i Coribanti, correvano invasati nei
boschi alla ricerca del suo amato e fingendo di ritrovarlo morto si abbandonano ad una musica strepitosa e a scene orgiastiche in cui si ferivano a sangue, a volte fino al punto di evirarsi ad emulazione di Attis.
Al giorno del dolore e del compianto succedeva quello della gioia per la
resurrezione del corpo; le scene di disperazione dei sacerdoti lasciavano il
posto a quelle di felicità che culminavano in una processione che avanzava
al suono sfrenato di timballi, cembali, tamburelli, corni e flauti.
Anche qui ritroviamo palese il rito agrario dell’alternanza delle stagioni. Il
risveglio di Attis simboleggia la sua rinascita e il rifiorire della natura dopo
la sospensione della vita invernale. La morte lascia il posto alla ritrovata vita
come la sterilità dei campi cede il passo al rigermogliare della vegetazione.
L’offerta di sangue dei Coribanti racchiudeva in sé un complesso mosaico
di significati. Rappresentava, innanzi tutto, un atto di simbiosi dei sacerdoti
di Cibele con Attis, il loro sacrificio si sovrapponeva a quello dell’amante che
aveva immolato la propria virilità per espiare la colpa e il tradimento negandosi, nel contempo, la potenzialità della fertilità.
Il loro però era anche un atto di amore verso la propria dea cui si legavano
vicariando la persona dell’amante, una sorta di ierogamia sostitutiva.
L’immolazione sanguinaria aveva anche la finalità di sollecitare la Grande
Madre ad indulgere benignamente verso l’umano genere, a non privarlo del
ciclo delle generazioni naturali.
Si può leggere in questo cerimoniale una sorprendente analogia con i culti
celebrativi di altre religioni, distanti per cultura e per dimensione temporale
e spaziale.
Con l’omaggio, per esempio, del liquido sacro versato dal proprio corpo
dai sacerdoti maya, di cui si è già fatto cenno, che veniva raccolto in coppe
per essere bruciato e asperso sulle immagini delle divinità in modo da entrare con esse in più intima connessione. Alla stessa stregua e con lo stesso
scopo dei Coribanti che raccoglievano i loro miseri orpelli per deporli in
un’apposita stanza nuziale ricavata nel tempio dedicato alla dea.
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Il rito metroaco di Cibele fu importato a Roma a metà del secondo secolo
a.C. dai quindicemviri. La Grande Madre frigia divenne la Magna Mater latina, fu conservato lo stesso mito, mentre il cerimoniale assunse un carattere
meno ricco di connotazioni orgiastiche. I quindicemviri ritennero più opportuno, e li si può ben comprendere, che il rituale dell’autosacrificio dei sacerdoti fosse sostituito con l’evirazione di un toro i cui organi recisi erano offerti alla dea nel suo tempio edificato sul Palatino, vicino a quello di Apollo.
A Roma questa era la più importante celebrazione agreste, ma non l’unica.
La città adottò all’inizio della sua storia antichissimi culti italici di divinità
dei boschi e della campagna, alcuni esclusivi delle donne e ai quali era rigorosamente vietato agli uomini partecipare.
Tale era la festa laziale che si svolgeva tra il 3 e il 4 Dicembre di Bona, la
dea buona, la dea sotto il cui auspicio sottostavano i prodotti della terra, la
dea che guardava con occhio benevolo la castità delle giovani e alla cui protezione si rivolgevano in preghiera le donne desiderose di aver figli.
Altra primitiva festività italico-romana era rappresentata dai Cerealia,
dedicata alla dea delle messi Cerere e veniva celebrata in Aprile. Le celebrazioni conoscevano il loro apice nel corteo ieratico che accompagnava all’altare un animale da sacrificare, ornato con ghirlande di frutta a simbolo della
fertilità e nei giochi cui prendeva parte tutta la popolazione.
Questo culto in seguito confluì in quello di Demetra e le due divinità vennero a coincidere quando ancora i quindicemviri decisero di accogliere in base
ai libri sibillini questa dea greca.
Demetra divenne in tal modo la principale divinità che incarnava la fertilità
della terra e fu preposta alla protezione dell’agricoltura che, la tradizione
vuole, insegnò agli uomini trasformandoli da nomadi cacciatori in stanziali
contadini raggruppati attorno al focolare domestico.
Centro del suo culto in Grecia era Eleusi, cittadina dell’Attica che si affaccia sul golfo Saronico, dove oggi una piccola zona archeologica rimane a
ricordo di come già in età preellenica ogni anno erano celebrati i misteri eleu sini, riti misteriosofici esclusivi cui potevano partecipare solo gli adepti,
mentre parallelamente come manifestazioni collettive di letizia e di fasto
tutta la popolazione prendeva parte alle feste Eleusine, con giochi, gare,
danze e canti.
Le celebrazioni religiose dei misteri si richiamavano al mito della scomparsa di Persefone (o Cora) figlia di Demetra, rapita da Ades (o Plutone), re
degli Inferi.
La leggenda narra che mentre Persefone, disattendendo i consigli della
madre a non allontanarsi, era intenta sola a cogliere dei fiori in un campo
Ades le apparve innanzi sbucando improvvisamente dal profondo della
terra. Invaghitosi perdutamente della bella giovane la rapì incurante delle
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sue suppliche e delle sue lagrime e la trascinò con sé nel perduto mondo sotterraneo per farla sua sposa.
Disperato fu il grido di dolore che Demetra innalzò al cielo, a Zeus il padre
degli dèi, sodale complice del fratello. Per giorni e notti senza posa cercò
invano la figlia scomparsa, non le furono di ostacolo né le alte montagne, né
i vasti oceani, presso tutti i popoli rovistò, ma senza risultato alcuno.
Non vi era traccia della figlia, nessuno l’aveva vista o più ancora tutti tacevano.
Solamente Elio, il Sole, che ogni giorno lucente su un carro trascinato da
quattro magnifici cavalli porta la luce al mondo ebbe pietà della sua disperazione e le rivelò tutta la verità.
Se forte era stata la sofferenza di Demetra ancor più terribile fu la vendetta.
Non partecipò più al convivio degli dèi, disdegnò l’Olimpo, punì Z e u s
punendo ancor più gli uomini.
Il suo isolamento portò la sterilità nei campi che non diedero più le messi,
gli alberi avvizzirono privando gli uomini dei dolci frutti, una grande paura
si impossessò del genere umano che si vedeva ormai avviato alla fame più
disperata e ad una imminente tragica fine.
Solo a questo punto Zeus capì il suo errore, gli uomini rischiavano l’estinzione e lui fu obbligato a mandare il proprio figlio, il fidato messaggero
Ermes negli Inferi per convincere Ades a restituire Persefone.
Ma questa non poteva ritornare in modo definitivo sulla terra, non avrebbe potuto gioire costantemente tra le braccia di sua madre perché aveva già
gustato il melograno, il frutto dell’amore e della sessualità.
Essa ottenne di tornare ogni anno solo per nove mesi, dalla primavera alla
fine dell’autunno, ma i restanti mesi avrebbe dovuto passarli nel regno
dell’oltretomba al fianco del suo sposo.
E’ per questo che nei nove mesi terreni la natura gioisce e con lei gioiscono
tutti gli uomini, la vegetazione rinasce, le messi crescono e maturano per
essere colti nella tarda estate, mentre durante i tre mesi invernali tutto sembra morire.
Sempre a Roma nel periodo Repubblicano esercitava le sue funzioni un
altro antico collegio sacerdotale, i dodici Arvales. Con il capo cinto da una
corona di spighe essi offrivano annualmente un sacrificio alla fertilità dei
campi. La festa che si continuò a svolgere anche in età imperiale si svolgeva
con banchetti, giochi e sacrifici offerti da un flamen tra musica e canti.
L’ambivalenza delle dee primitive
Il concetto di fertilità che abbiamo visto essere correlato all’elemento terra,
non poteva essere disgiunto proprio per la natura di questa dall’immagine
dell’acqua.
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Non è forse l’acqua che irriga i campi, non è forse l’abbondanza di questa
che consente alla vegetazione di essere rigogliosa, non è l’acqua che sprofondandosi nelle viscere della terra la rende feconda e fertile?
E’ naturale, quindi, che la rappresentazione della Dea Madre a volte assumesse i connotati anche di questo indispensabile elemento, sotto le differenti
immagini allegoriche di fiume, lago, stagno, mare, acqua piovana.
Le acque generose, le acque che irrigavano e rendevano feconda la terra
presso gli assiro-babilonesi erano personificate dalla dea Ardvi Sura Anahita
che fu poi assimilata dalle genti iraniche.
Ardvi Sura Anahita come molte delle primitive divinità femminili della
natura viene rappresentata con una doppia iconografia. Quella della Grande
Madre dai seni gonfi ad esprimere l’abbondanza e la fecondità, donatrice di
vita nel mondo terreno e protettrice del parto (3) (Yasna, LXIV, v.11-15).
…e l’alvo per il parto
alle femmine tutte ella fa puro
che figliar denno. Un partorir felice
dà alle donne feconde, e l’opportuno
ritual latte a quante già figliaro.
e anche, come è presente nell’Avesta, di donna belluina, vestita con pelle
di un animale feroce recante sulla testa un diadema e nelle mani un fascio di
verbena.
Simbologia della duplice essenza a volte trasfigurata in un feroce leone
con cui erano ritratte nel Medio Oriente Isthar e Cibele o in docile vacca come
gli Egizi raffiguravano Hathor, la dea della fertilità, ma all’uopo anche della
distruzione che si veniva a confondere con un’altra dea egizia dagli stessi
attributi, Sekhmet dalla testa di leonessa che attentò addirittura all’umanità.
Ra era adirato con questa perché pervasa da cattivi pensieri e malvagie
azioni e convocò al suo cospetto la dea perché la punissse.
Sekhmet portò allora la distruzione e la morte tra gli uomini, ma eccitata
dal sangue che copioso bagnava la terra sembrava inarrestabile nella sua
opera di massacro e metteva in serio pericolo tutto il mondo.
Ra avvertì il pericolo di sterminio che incombeva sull’uomo e con uno
stratagemma placò la furia della dea.
Si fece portare una grande quantità di ocra rossa che miscelò con la birra
così da simulare il sangue umano.
Riempiti enormi orci fece versare la bevanda sui campi dove la dea aveva
intenzione di completare la sua carneficina. Quando essa giunse sul luogo lo
vide tutto invaso da quello che credeva fosse sangue e ne fu soddisfatta a tal
punto che trovato un orcio ancora ricolmo e scambiatolo per un recipiente di
birra bevve fino a sazietà, ubriacandosi. Risvegliatasi al mattino dopo si era
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ormai del tutto calmata e completamente dimendicata del genere umano che
in questo modo fu salvato.
Tale ambivalenza era incarnata anche dalla greca Artemide, la Diana romana.
Dea della caccia che scortata dalle sue fedeli ninfe percorreva indomita i
boschi e le pericolose selve inseguendo cervi e antilopi per poi trovare ristoro presso una fonte d’acqua dove soleva immergere il corpo completamente
denudato. Riposo che non doveva essere disturbato, intimità che non doveva essere violata, pena un’atroce morte.
Quella che colpì lo sfortunato Atteone, il bel cacciatore che inseguendo una
preda la scorse nella sua splendida nudità mentre si bagnava. Ella se ne
avvide e vendicativa dopo averlo trasformato in un superbo cervo lo fece
inseguire a lungo per i boschi dai suoi cani che alla fine si avventarono su di
lui ormai sfinito e lo dilaniarono orribilmente.
Molto diversa era l’altro aspetto di questa divinità, quello che la rappresentava come dea benefica della natura, apportatrice di fertilità come l’acqua
che irriga i campi.
La stessa valenza naturistica che ritroviamo nella dea Epona venerata dai
Celti proprio nelle sembianze di un fiume che straripando rende fertili i
campi.
In armonia con la loro credenza a considerare l’intervento del divino
attuato attraverso due vie, la via che tendeva all’infinito spazio e che li metteva a contatto con le divinità celesti e quella che li penetrava nella materia
sottostante e che consentiva loro di interagire con gli dei tellurici.
Personificazioni proprie del favoloso popolare che si coniuga con il devozionismo religioso e che sopravvive presso gli induisti nella dea Ganga in cui
si rispecchia il loro amato Gange.
Dea Madre amorrea (II° millennio a.C.)
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Le dee protettrici della fecondità della
donna
Le Veneri paleolitiche
Le divinità al centro dei riti di fertilità agreste ed animale assumono contemporaneamente i contorni di entità che sovrintendono anche alla fecondità
della donna e vigilano sul suo atto riproduttivo.
Le dee siro-cananee Reshef, Anath e soprattutto Astarte, che compendiano
inscindibilmente nella loro natura i simboli della fecondità, dell’amore e
della guerra sono ormai accolte nel pantheon egizio accanto alla dea Hathor
come protettrici degli organi genitali. Reshef tutela la vagina, Hathor le nati che e i mortali le invocano unitamente a Horo protettore del fallo, per tener
lontani i mali.
Questo sincretismo simbologico è reso molto bene dal racconto accadico
ritrovato nella biblioteca di Assurbanipal della discesa agli Inferi di Ishtar,
una sovrapposizione al poema sumerico di ugual tematica che come abbiamo descritto vedeva protagonista l’analoga dea sumerica Inanna.
Allorquando Ishtar superate le sette porte infernali perde tutti i suoi poteri
con cui imperava sul regno dei vivi ed è condannata a morte da Ereskigal, la
terra viene squassata da catastrofi immani. Gli animali non si coprono più e
gli uomini sembrano abbandonati dal dio dell’amore (6) (cap. IX, par.18,
v.77-80):
Ecco nessun toro montava più una vacca
Nessun asino fecondava più un’asina
Nessun uomo ingravidava più una donna a suo piacimento:
Ciascuno dormiva solo nella sua stanza
E ciascuno si coricava da una parte!
La sterilità condannava ormai la terra e gli uomini e solo con la rinascita di
Ishtar, con la sua ricomparsa sulla terra la vita sarebbe ripresa fertile e feconda.
Nessuna raffigurazione era più prossima all’idea che i popoli antichi avevano della funzione feconda e riproduttiva di quella espressa dai seni femminili. A volte appena abbozzati come si possono osservare nelle “belle
signore”, figurine in ceramica modellate a mano che sono state rinvenute
nelle necropoli diffuse per tutto l’altopiano centrale del Messico, ma soprattutto abbondanti a Tlatilco nelle vicinanze di Città del Messico e risalenti al
periodo preclassico medio (1600 a.C.). Il modello è quello di donna dalle pic-
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La prostituzione nelle società antiche
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cole braccia spesse volte aperte a croce che sembrano sostenere quasi senza
l’intermediazione del collo una voluminosa testa in cui spiccano i caratteristici occhi a mandorla. Il petto stretto è caratterizzato dalla presenza di piccoli seni e contrasta in modo palese con i larghi fianchi che sembrano cadere
sulle tozze e corte gambe.
Rappresentano segni votivi offerti in occasione di cerimonie riguardanti i
culti di fertilità e fecondità come testimoniano anche i soggetti di maternità
che queste figurine non infrequentemente riproducono.
Seni minuti, ma più frequentemente grandi e gonfie mammelle identificavano la Dea Madre che tutelava la funzione generatrice della donna.
Gli scavi archeologici eseguiti nel corso di due grosse campagne, la prima
negli anni ’30 del nostro secolo e la seconda negli anni 1954 e 1972, nell’antico sito della città mesopotamica di Mari, l’odierno Tell Hariri, hanno portato
alla luce nello splendido palazzo reale un patrimonio di reperti di inestimabile valore.
Accanto ad un ricco archivio di 200000 tavolette d’argilla scritte con caratteri cuneiformi, sono stati rinvenuto altri manufatti di ancor più antica datazione e tra questi alcune statuette in terracotta raffiguranti il corpo nudo di
una donna dai lunghi capelli a boccoli a far da cornice ad un gentile volto,
che con le proprie mani sorregge i pesanti seni.
In considerazione del fatto che Mari fu la capitale di un importante stato
amorreo fondato dalle prime popolazioni nomadi semitiche giunte in Siria
intorno al 2000 a.C. queste statuette vanno posizionate circa a metà del III°
millennio a.C.
Rappresentano le prime raffigurazioni sicuramente a carattere devozionale domestico della divinità che presiedeva alla fecondità tenuta in casa come
simbolo apotropaico, una sorta di talismano che doveva assicurare alla famiglia abbondanza di raccolti e di figli.
La donna egizia iperprotetta
Così nelle loro abitazioni a Dendera le donne egiziane non facevano mai
mancare alle statue che ritraevano la dea Hathor, dalla testa di vacca, preghiere perché le proteggesse e le spose ancora sterili del Delta pregavano
Iside, la dea che era riuscita a partorire il diletto figlio Horo rimanendo in
cinte con il seme postumo di Osiride, di favorire una loro gravidanza.
Con la finalità di tener lontano influenze malefiche le donne dell’antico
Egitto adornavano il loro collo con amuleti in “faiance” rappresentanti
Thueris, la dea ippopotamo protettrice delle donne gravide.
A lei innalzavano odi per una felice gravidanza e a Nut chiedevano mammelle gonfie di latte, mentre tenevano stretto al corpo un altro amuleto, quel-
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lo del dio Bes, il curioso nano dalla testa grottesca e dal viso irsuto, il goffo
dio dalle corte e tozze gambe, protettore dei matrimoni e, insieme alla dea
Meskhenet, del parto.
Curioso come nella religione egizia ogni fase della vita dell’uomo fosse
protetta da un dio peculiare. L’azione benefica di Bes si esaurisce, infatti, al
momento della nascita, in quanto la forma del nascituro si credeva fosse
modellata con l’argilla dalle abili mani del dio Khnum, dalla testa d’ariete,
sul suo tornio di vasaio mentre la moglie, la dea Heket dalla testa di rana alitava il soffio della vita.
Un grande numero di figure femminili nude dai grandi seni flaccidi che
cadono sul grasso ventre e sui larghi fianchi si possono osservare al museo
archeologico di Ankara.
Risalgono al grande (1550-1500 a.C.) e al nuovo impero ittita (1400-1200
a.C.) e sono le Grandi Madri Natura delle tribù autoctone che questo fiero e
bellicoso popolo proveniente dal Caucaso prese a prestito, non avendone di
proprie; sono le Dee della fecondità dei primitivi pastori locali che gli Ittiti
già conoscitori del ferro e del carro da guerra assimilarono e invocarono.
Pregavano Hepat insieme al dio Telipinu che muore e risorge con i cicli delle
stagioni, sovrapponendosi così agli analoghi miti naturistici menzionati.
Ad Efeso, in Asia Minore, uno dei principali centri del culto di Artemide, la
dea preposta alla fertilità della natura era anche concepita come Dea Madre
vergine protettrice della fecondità e della riproduzione.
E proprio perché più concretamente potesse assolvere questo suo fondamentale ruolo presso le genti una copia d’epoca romana del suo simulacro
ospite nel museo archeologico della città la ritrae con il corpo adorno di testicoli di tori castrati.
Nel loro immaginario, i devoti ritenevano che per qualche influenza magica lo sperma contenuto nei testicoli la fecondasse e che tale fecondità potesse
essere trasfusa dalla dea in chi la adorava e nelle donne che toccavano la sua
effigie.
La devozione delle donne che avevano portato a buon fine la gravidanza
trovava una tangibile forma di ringraziamento nella dedica alla divinità di ex
voto personali o corali, anche di grandi dimensioni.
Tali si possono considerare le Madri di Capua, gigantesche statue tufacee
una volta decorate dalla bella policromia, riproducenti madri maestose regalmente sedute che portano sulle loro braccia, aperte a semiciclo, i loro numerosi
neonati, anche dieci o quindici insieme. Sono state rinvenute a metà del secolo
scorso a S.M.Capua Vetere, l’antica Capua degli Etruschi, passata poi sotto i
Sanniti e quindi alleata con Roma a metà del IV° secolo a.C.
Mentre le donne d’oggi le possono ammirare presso il Museo Campano, le
loro antenate le frequentavano in un tempio della fertilità attivo tra il VI° e il
III° secolo a.C. dopo averle donate a scioglimento di un voto per aver avuto
una prole sana e numerosa.
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Compressi in una sola dimensione erano quindi i primitivi riti naturistici,
supplica di fertilità per ogni forma del creato e non ultima per la fecondità
muliebre, che andarono in seguito a ridefinirsi nei culti misterici parallelamente al passaggio dell’aggregazione tribale a quella civile dell’uomo, quando il suo agire non doveva sottostare più alla presenza indefinita di un’entità
divina astratta, ma era ormai stabilmente correlata alla presenza di un dio
ben definito nell’aspetto e nella funzione con cui interagiva intimamente.
Le feste popolari e i culti misterici
La divinità simboleggiava la forza riproduttiva e l’unione con essa era
spesso prerogativa di pochi iniziati e veniva celebrata nella più impenetrabile segretezza dei culti misterici, quali quelli di Iside e Osiride, di Dioniso, di
Orfeo o quelli eleusini dedicati a Demetra e a Persefone.
Accanto alla religione ufficiale praticata dai più, quella misteriosofica
accoglieva solo i pochi prescelti che tendevano attraverso la sua professione
a raggiungere la salvezza della propria anima.
Per perseguire tale fine si sottoponevano a prove iniziatiche gravose atte a
comprovarne l’assoluta purezza d’animo e la totale rettitudine morale ed
entravano in uno stato estatico nel quale si compiva la transustanziazione tra
la loro anima e l’essenza divina.
Educati dai loro maestri, ne seguivano scrupolosi i dettami così come
osservavano diligenti i protocolli cerimoniali dei vari gruppi sacerdotali
associandosi ad essi anche nelle manifestazioni estreme culminanti in veri e
propri deliri orgiastici durante i quali rivivevano il mito della divinità cui le
celebrazioni erano dedicate.
Il momento culminante dei misteri dionisiaci, che si svolgevano ogni due
anni, vedeva protagoniste esclusivamente le donne dette Menadi o Baccanti
che nottetempo nei boschi rischiarati dalle loro fiaccole si abbandonavano a
scene lascive. Seminude, con il corpo ricoperto solo di serpi al suono ossessivo di tamburelli e siringhe correvano in ogni dove innalzando lodi e invocando ritmicamente il nome del dio.
All’apice del loro stato convulsivo rincorrevano un animale sacrificale, un
capretto solitamente, che uccidevano con le loro mani divorandone le carni
sanguinolente ancora calde.
Volevano cosi richiamare lo scempio che la stagione invernale compiva
sulla natura, mentre altri riti erano celebrati in primavera in onore del rinato
rigoglio della vegetazione.
In una delle principali festività pubbliche, le grandi Dionisie, celebrate in
primavera ad Atene e in tutta l’Attica in onore del figlio di Semele che Zeus
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sotto forma di pioggia d’oro rese gravida, la cerimonia più significativa era
rappresentata da una colorita e festante processione durante la quale era
portato in trionfo il simulacro ligneo del dio che era posto nel tempio.
Qui veniva celebrata l’allegorica unione della moglie del re che, dopo aver
compiuto un sacrificio, trascorreva tutta la notte sdraiata accanto alla statua
di Dioniso.
Una ierogamia simbolica avente la finalità di indurre per via simpatica la
fertilità nei campi e la fecondità negli animali e negli uomini che analoga
ritroviamo anche nelle Grandi Eleuisine, dedicate al culto di Demetra e
Persefone.
In tali feste, celebrate nel mese di Boedromione (tra la metà e la fine di
Settembre) e che duravano nove giorni, era stigmatizzato il ritorno di
Persefone agli Inferi cui corrispondeva sulla terra il sopimento di tutta la
natura durante l’inverno.
Era un ricco e complesso cerimoniale cadenzato da programmi dettagliati
che venivano fatti rispettare dagli ierofanti e da altri ufficianti.
Nei primi giorni erano trasportati da Eleusi ad Atene i misteriosi oggetti
sacri del culto, da identificarsi forse in cereali o in attributi sessuali trattandosi di un rito agrario propiziatore insieme della fecondità dei campi e della
fertilità degli animali e degli uomini.
Questi oggetti ritornavano poi nel santuario sacro di Demetra ad Eleusi
attraverso un lungo festante corteo che per alcuni giorni percorreva il lungo
tratto che separava le due città e terminava nella celebrazione della ierogamia propiziatrice di benessere tra la sacerdotessa del tempio e il sacerdote a
ricordare l’unione di Demetra con il fratello Zeus, del seme con la luce da cui
nacque Persefone, la vegetazione.
L’officio ierogamico non era però patrimonio esclusivo dei riti misterici,
essendo presente ancor prima in una delle principali festività agrarie pubbliche sumeriche cui partecipava tutto il popolo, atta a simboleggiare la rinascita della vitalità naturale, il ritrovato risveglio dei campi e della vegetazione
dopo il sonno sterile dell’inverno e l’auspicio per una rinnovata fecondità
animale e umana.
Durante il rituale si facevano rivivere le nozze di Dumuzi e Inanna attraverso l’unione simbolica (all’origine probabilmente realistica) del re della
città con la prima sacerdotessa della dea.
La ierogamia era consumata in una vera e propria stanza nuziale debitamente approntata e ricavata in un’ala del tempio della dea cui non si facevano mancare né cibo né bevande.
Anche a Babilonia una festa celebrata in onore di Marduk, il dio protettore
della mitica città posto dai sacerdoti babilonesi a sovrintendere tutti gli altri
dèi che assunsero pertanto un’importanza secondaria, aveva la sua più
importante ritualità in una ierogamia del dio (8).
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Secondo un racconto cosmogonico di cui il popolo babilonese si era
impossessato ai tempi di Hammurabi (1792-1750 a.C.) Tiamat, la dea-caos,
aveva creato gli dèi, ma ben presto essa si pentì del suo operato e cercò la
loro distruzione. Disperati, imbelli e impotenti questi chiesero a Marduk di
prendere la loro difesa ed egli li salvò affrontando Tiamat e separandola in
due parti che divennero il cielo e la terra.
E’ questo mitico atto di forza e di coraggio che la cerimonia celebrava e
terminava nell’unione nella cella nuziale del tempio dei simulacri del dio e
della dea a significare il ritrovato vigore della natura sulla terra in ogni
aspetto e forma.
Come ogni matrimonio la ierogamia compendia in sé due aspetti fondamentali. Essa rappresenta sì un’unione sacra ma assume anche una valenza
contrattuale.
La congiunzione rituale è senz’altro la parte culminante di una rappresentazione sacra, ma la liturgia trasfonde in una dimensione più concreta, quella
della richiesta in cambio di atti devozionali dei fedeli di un benessere reale
che essi auspicano conseguire sotto forma di campi sempre più ubertosi, di
messi abbondanti e di una prole numerosa necessaria per raccoglierle.
Lo stato gravidico e la fase del parto da sempre si è creduto fossero grandemente influenzati dal ciclo lunare ed è per questa ragione che troviamo in
tutte le religioni manifestazioni delle dee preposte sotto forma dell’astro notturno e delle sue fasi.
Non va d’altronde dimenticato che alla luna era stata attribuita agli albori
della storia dell’uomo una natura diversa, opposta; essa aveva una connotazione maschile e si credeva custodisse il seme che tutto rendeva fecondo.
Nelle glaciali terre del Nord una dea, Karidwen, si manifesta addirittura in
tre forme femminili riproducenti tre fasi lunari: come vergine simbolo della
luna nuova, come madre, la luna piena, come vecchia, la luna calante (9).
E, curiosamente, in due forme è vissuta presso il lontano popolo maya
anche Ix Chel la dea protettrice del parto, venerata come giovane e fertile o
vecchia e sterile, rispettivamente nelle fasi di luna piena o nuova.
In Grecia e a Roma Artemide-Diana, in cui furono identificate la primitive
dee Selene greca e Luna dei popoli autoctoni dell’Etruria e del Lazio, è effigiata come luna recante nella propria faretra i raggi benefici.
Nei primi due secoli dopo Cristo in Occidente vanno sempre più diffondendosi nella cultura classica, anche perché ardentemente sostenuti dagli
stessi imperatori romani, i culti solari orientali in particolar modo quello di
Osiride, assimilato a Serapide dalla dinastia macedone dei Lagidi.
Essa introdusse tale culto già con Tolomeo Sotere, figlio di Lago generale
di Alessandro, che regnò in Egitto dal 304 a.C operando un processo di sincretismo tra le divinità User (Osiride) e Api, il dio toro venerato a Saqqara.
Parallelamente al culto di Serapide si andò estendendo sempre più quello
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di Iside che fu assimilata a Selene ed effigiata con la luna crescente posta sulla
testa.
Poche divinità femminili come Iside sono state protagoniste di così frequenti opere di assimilazione.
Dea dell’amore e pertanto in simbiosi con Hathor, Iside è protettrice della
donna e portatrice di fecondità. In quanto madre amorosa di Arpocrate (Horo
bambino) è il simbolo per eccellenza della maternità (sovente è, infatti, rappresentata nell’atto di allattare il figlioletto che tiene sulle ginocchia in
un’iconografia che sarà cara al cristianesimo e sarà identificata nella
Madonna e nel Bambinello).
Nell’Egitto tolemaico è rappresentata nuda e venerata come Afrodite. La
sua iconografia ci è pervenuta tramite le consuete statuette votive che la effigiano con tratti ellenizzanti che emanano una profonda sensualità mentre
sulla costa fenicia e in Siria la si ritrova sempre rappresentata con il corpo
nudo e viene associata ad Astarte. In Grecia diviene una dea dal significato
agreste e confusa con Demetra, nel periodo imperiale i Romani la pregano
come Cerere/Demetra e ad onorare la dea egizia in questa sua accezione vennero in queste terre innalzati gli Isei, templi a lei dedicati, ed ebbe vasta risonanza il suo culto.
Proprio sotto i regni dei Lagidi assurse a simbolo di elargitrice di fecondità
venendo assimilata alla dea dei campi Renenutet e si metamorfosizzò in IsideThermutis, rappresentata come una divinità ibrida, dalla bella testa femminile incorniciata da lunghi capelli a boccoli cadenti sulle spalle e recante sul
capo il basileion (disco solare della dea Hathor racchiuso dalle corna bovine e
sormontato da piume di falco e di struzzo ricurve) e dal corpo costituito da
una lunga coda attorcigliata di serpente.
Il culto pagano degli dèi che presiedevano al concepimento e alla
gestazione non era meno sentito e praticato tra le antiche genti italiche.
Di essi ce ne parla S.Agostino (354-430 d.C.) nel Libro VII° del “De civitate
Dei” (10) quando, nell’intento di dimostrarne la falsità, fa riferimento
all’opera di Marco Varrone (116-27 a .C.) che tratta della teologia.
L’erudito romano la distingue in mythicon, favolosa, trattata dai poeti nella
mitologia, physicon, naturale, oggetto della speculazione dei filosofi che dissertano su chi siano gli dèi, quale sia la loro natura, se esistano da sempre o
se furono creati nel tempo, e civile, propria del popolo, amministrata dai cittadini e soprattutto dai sacerdoti nelle città, che detta le regole su come e su
quali dèi si debbano onorare pubblicamente e delinea quali siano le “sacre”,
cioè i cerimoniali e i sacrifici propri di ogni culto (cap. V).
Al mitico Numa Pompilio si fa risalire l’istituzione di queste festività religiose rurali. E considerato il loro carattere misterico, ispirato secondo
Agostino dai demoni che fecero apparire al secondo re di Roma con una pratica di idromanzia le immagini degli dèi nell’acqua, non volendo egli inse-
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gnarle ad alcuno, né al popolo, né al Senato né ai sacerdoti seppellì in un
campo i libri che le descrivevano.
Solo dopo anni il bifolco di un tal Terenzio arando il suo campo li portò
alla luce e li consegnò al Senato che giudicatoli pericolosi e pieni di ammonimenti viziosi li fece ardere (cap. XXXIV-XXXV).
Varrone nel trattare la teologia civile menziona come protettori della fertilità della donna gli Dii selecti, divinità che godevano dei maggiori tributi dal
popolo per i più alti officii che recavano al mondo e perché maggiormente
manifesti.
La fecondità femminile era accompagnata in ogni sua fase dalle rispettive
divinità protettrici: Dea Mena, che presiede ai flussi mestruali, Giano che
favorisce l’entrata del seme maschile, Saturno il seminatore, Libero (Liber
Pater), che rende fecondo il seme una volta emesso, Libera o Venere che
sovrintende al concepimento, Vitunio che insuffla la vita al frutto del concepimento durante il puerperio, Sentino che gli dà il sentimento e Giunone che
nutre i fanciulli (cap. II).
A questi dei si può assimilare un altro nume pastorale italico, FaunusLupercus, protettore dei campi e difensore del bestiame dall’aggressione dei lupi.
Proprio in questa sua veste gli erano dedicati i Lupercalia, antichissime
feste propiziatorie per la fertilità istituite all’origine della storia di Roma e
celebrate nel mese di Febbraio.
Durante la cerimonia i sacerdoti preposti al culto si precipitavano giù dal
Palatino dove sorgeva l’antro in cui, secondo la leggenda, la Lupa aveva
allattato i gemelli Romolo e Remo e fustigavano le donne che incontravano
per le strade della città al fine di propiziarne la fertilità.
Bes, Thueris (Amuleti egizi. Nuovo Regno. 1575-1087 a.C.)
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L’ ”osceno” nei riti di fertilità e di fecondità
Le rappresentazioni primitive
I riti sacri della fertilità e della fecondità trovavano la loro più materiale
espressione nelle allusioni sessuali e nelle rappresentazioni estremamente
veristiche degli organi riproduttori.
Noi cosi’ lontani da quelle celebrazioni pagane manchiamo della capacità
di percepire il messaggio religioso che tali simboli emanavano in modo così
spesso ostentato.
Ma gli antichi, ricchi di una conoscenza più genuinamente naturalistica,
avevano estrapolato dal corpo umano questi organi che più di altri richiamavano le funzioni fertili e li avevano innalzati a forme di culto.
Scorgevano, infatti, in essi quella innocente spiritualità che noi costretti in
rigidi codici morali abbiamo del tutto perso.
Ciò che per noi sconfina nell’immorale e nella pornografia per loro rappresentava l’essenza stessa della potenza della natura, raffigurata negli atti di
fecondità.
Gli aspetti per noi osceni erano assunti a simbolo del vigore naturale, del
rinato rigoglio dei campi, della rinascita dopo la morte.
E questa “vis naturae” era talmente presente nei loro animi che la rappresentavano personificandola in divinità fallomorfe.
Il fallo e la vagina rappresentavano per loro la sorgente di vita, avvolta
ancora nel mistero e nell’ignoranza fisiologica ormai disvelate alle nostre
conoscenze di uomini moderni.
E allora perché non sposare la tesi avanzata da alcuni studiosi di identificare i menhir, i megaliti neolitici infissi nel suolo che si stagliano verso il
cielo come simboli fallici?
Un attestato realistico della forza dell’organo riproduttore dell’uomo la cui
importanza fisiologica nell’atto del concepimento iniziava, dopo la fase
matriarcale, a farsi strada nel convincimento maschile. Queste pietre infitte
nella terra ne mimano l’atto fecondante alla stessa stregua dell’atto sessuale
consumato con la donna.
E in che cosa cercare allora agli albori della storia dell’uomo il corrispettivo simbolo femminile? Forse nelle “Veneri” paleolitiche dai ventri adiposi e
dai grossi seni cadenti o nelle “statuette” ittite e mesopotamiche femminili,
leggermente più tarde ma talmente simili alle “Veneri” da far pensare ad
una consegna nella memoria del tempo senza soluzione di continuità
dell’universale idealizzazione della forza generatrice della natura ?
Non infrequenti sono le rappresentazioni in terracotta sia nell’Occidente
ellenistico e romano che nelle terre del Mesoamerica che sottolineano
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l’emblema fecondante di queste divinità, ormai incarnate nelle dee
dell’amore protettrici dei rapporti sessuali, enfatizzandone le dimensioni dei
genitali.
Questi sono, così, ostentatamente posti in bella mostra, evidenziati dal
colore rosso e spesso in posizione frontale, distorcendo a tal fine la naturale
sede e i precisi rapporti anatomici con il resto della figura, per meglio rimarcare il loro valore sessuale.
Certo è che le immagini sessuali le ritroviamo a volte parte integrante
dell’architettura templare e fanno da cornice a quasi tutte le cerimonie di
carattere agreste che sconfinavano in eccessi orgiastici.
A Delo, la rocciosa isoletta delle Cicladi sede religiosa fin dall’età arcaica,
nel complesso archeologico del Santuario di Apollo (V° secolo a.C.) sono
visibili i resti del santuario dionisiaco con rilievi coregici e simboli sessuali
chiaramente evidenziati da due enormi falli in pietra che appoggiano su due
bassi pilastri.
Si ricollegano all’antica festa misterica dedicata a Dioniso, frutto dell’unione di Zeus con la mortale Semele e portato dal padre degli dèi appena nato
cucito in una sua coscia nella terra degli Etiopi (13) (Libro II, 148), dove nella
fase orgiastica facevano la loro comparsa falli lignei sorretti in processione
da adepte con la precisa finalità di ingraziarsi il dio perché concedesse ricchi
raccolti.
Analoghe processioni erano celebrate anche in Egitto in onore di Iside e
Osiride, la divinità analoga a Dioniso collegato all’alternarsi continuo della
vita alla morte.
D’altra parte amuleti a forma di fallo o di vagina erano indossati a scopo
apotropaico, per allontanare i malvagi influssi e per favorire gravidanze
nelle donne sposate.
Un curioso amuleto adornava il collo delle belle Egizie e rappresentava il
buffo dio itifallico Min. Le donne coniugate lo accarezzavano per favorire
una felice gravidanza e le sterili lo ponevano sul loro ventre perché accordasse loro il suo favore e le rendesse fertili.
Era il più venerato dalle donne ormai sposate così come il dio nano Bes
dalla grossa testa e dal grande ventre era il più invocato dalle nubili perché
procurasse loro un marito.
Nel panorama generale delle testimonianze attestanti la diffusione nel
bacino mediterraneo degli Isei significato particolare e per certi versi ancora
oscuro assume in Italia, in età romana, la rappresentazione della c y s t a
mistica, cesta cilindrica in vimini recante l’effigie della luna crescente e con il
coperchio sormontato da un serpente arrotolato su sé stesso.
A questo recipiente fa riferimento con il nome di urnula anche Apuleio alla
fine del suo godibilissimo ”Asino d’oro” quando descrive la processione del
Navigium Isidis.
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Era la principale festa periodica celebrata all’inizio di marzo e solennizzava la ripresa annuale della navigazione.
Il lungo corteo avanzava verso la riva del mare con in testa << donne splen dide nelle loro candide vesti, tutte liete dei loro svariati ornamenti, e inghirlandate di
corone primaverili, andavano lanciando fiori dal grembo sì da cospargere tutto il ter reno per cui avanzava il sacro corteggio. Altre tenevano degli splendidi specchi arro vesciati dietro la schiena, per mostrare alla dea sopravveniente l’omaggio della folla
accorsa; altre reggendo in mano dei pettini d’avorio, col movimento delle braccia e le
articolazioni delle dita davan le viste di attendere all’acconciatura e alla pettinatura
della chioma regale…>>
A queste seguivano giovani che recavano fiaccole, lucerne e ceri che innalzavano lunghe fiamme al cielo e gli iniziati ai misteri di Iside, uomini e
donne, giovani e vecchi tutti raggianti nelle loro bianche vesti di lino.
Per ultimi i sacerdoti con la testa rasata che accompagnati dal suono dei
sistri portavano, incedendo solenni nei loro candidi lini, le insegne delle
divinità: una lucerna tutta d’oro, una palma con le foglie lavorate in oro, il
caduceo di Mercurio, un setaccio per il grano composto da piccoli rametti
d’oro intrecciati, le effigi degli dei, un vasetto d’oro a foggia di mammella,
simbolo della maternità di Iside, che distillava latte e l’urnula << una piccola
urna intagliata con arte finissima, dal fondo circolare ed istoriata all’esterno con
mirabili figure all’uso egiziano. Il suo orifizio non era situato tanto in alto, ma spor geva in fuori in un lungo canale che si rastremava a forma di beccuccio; dalla parte
opposta era applicato un manico che si incurvava in un’ampia ansa e su di essa
s’avvinghiava in tortuose spire l’aspide dalla pelle squamosa, che levava in aria il
collo rigonfio e striato >> (11).
Una volta giunta al mare la processione si arrestava e i sacerdoti consacravano a Iside una nave quivi ormeggiata che lasciavano libera senza nocchiero
alla mercé dei venti e delle acque.
La cysta era uno degli oggetti più sacri di Iside sempre presente nelle cerimonie in suo onore e che si suppone contenesse l’acqua del Nilo e il sacro
fallo dello sposo Osiride, a simbolo dell’intatta e sempiterna fertilità.
Fallo, quindi, in possesso di tutti i connotati di mistero e di sacralità che il
rito richiedeva, gli stessi attributi che ritroviamo negli oggetti trasportati in
un’analoga cesta da Eleusi ad Atene nei primi giorni delle Grandi Eleusine a
propiziare una diffusa e generalizzata fecondità.
Che tali oggetti fossero una riproduzione di organi genitali è plausibile per
analogia con altre festività dedicate a Demetra, le Haloa, celebrate nel mese di
Poseideone (Gennaio-Febbraio) e riservate esclusivamente alle donne. Erano
contraddistinte da canti licenziosi e motti scurrili che si lanciavano tra loro le
partecipanti e dalla presentazione degli organi riproduttori maschili e femminili in cotto e in altri materiali (12).
Rappresentazioni sceniche che avevano gli stessi contenuti di grande osce-
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nità delle Haloa caratterizzavano anche alcuni primitivi ludi romani quali i
Floralia (II° secolo a.C.) che facevano parte del culto della dea Flora, antica
divinità sabina dei fiori, della primavera e della gioventù, celebrati dal 28
Aprile al 3 Maggio.
Un riferimento indiretto al carattere lascivo di queste feste ci viene dato
dalla biografia dell’imperatore Eliogabalo (204-222 d.C.). Esempio di dissolutezza e di perversione sessuale, la sua fama ci fu tramandata così negativa
anche per l’inclinazione che aveva verso i bei giovani e in particolar modo
per la passione che provò nei confronti di uno schiavo della Caria, Ierocle,
tanto incontrollata che lo portava a baciare pubblicamente ogni parte del
corpo del suo amante in maniera oscena, adducendo il pretesto che in tal
modo voleva celebrare i sacri riti di Flora (38, cap. VI).
All’origine circoscritte ad Atene e in seguito diffuse in tutta la Grecia e
nella Magna Grecia sempre riservate alle sole donne si festeggiavano le
Thesmophoria, cerimonie religiose ancora in onore di Demetra, seppure di
importanza inferiore alle Eleusine, che ricorrevano nel mese di Pyanespione,
nei giorni cioè che andavano dalla fine di Ottobre ai primi di Novembre.
Nell’ultimo giorno della festa tra un banchetto e l’altro si inneggiava agli
organi sessuali femminili che venivano esposi accompagnati da allusioni e
frasi licenziose che volevano ricordare l’episodio di Iambe, una vecchia
donna di Eleusi che riuscì, mostrando il proprio sesso, a strappare un sorriso
alla dea affranta dal rapimento della figlia Core.
Erodoto (13) (Libro II, 171) le dice originarie dell’Egitto e introdotte in
Grecia dalle Danaidi che le insegnarono alle antiche donne dell’Argolide.
Le cinquanta figlie di Danao, infatti, avevano seguito il padre esule ad
Argo dopo che era venuto a contrasti con il fratello Egitto, omonimo della
terra su cui regnava, padre a sua volta di cinquanta figli.
Il mito racconta che, dopo che Danao venne riconosciuto re di Argo, i cinquanta nipoti imposero allo zio di dare in moglie a ciascuno di loro le sue
figlie.
Danao a malincuore acconsentì, ma diede ad ognuna di esse un pugnale
perché durante la prima notte di nozze uccidesse il proprio marito.
Tutte ubbidirono tranne Ipermnestra che innamorata di Linceo lo risparmiò. Il padre furibondo con la figlia la incarcerò, ma sbollita l’ira le perdonò
la disubbidienza e riconciliatosi anche con il nipote superstite lo dichiarò suo
successore sul trono di Argo.
Erodoto ci informa che con l’arrivo dall’Est dei Dori che invasero tutto il
Peloponneso il rito delle Thesmophoria scomparve da quasi tutta la Grecia,
sopravvivendo solo presso le popolazione dell’Arcadia.
Di un’altra “sacra”, i Liberalia, celebrata il 17 Marzo dagli antichi italici in
onore del dio Libero (Liberus Pater), poi assimilato a Dioniso, ci porta testimonianza S. Agostino sempre nel suo “De civitate Dei” (10) (Libro VII, cap.
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tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
XXI): <<Tra l’altre cose, ch’io son constretto di lasciare però che son molte, nelle
capi d’Italia dice che furon celebrate alcune sagre di Libero con tanta libertà di diso nestate, che a onor suo furono cultivati li membri genitali, et al meno non con qual che poco di segreto vergognoso, ma pubblicamente et a scoperto allegrandosene la
nequizia. Però che questo disonesto membro per più dì di feste di Libero con grande
onore essendo posto in una carretta, primamente nelle principali ville, dappoi si por tava dentro nella cittade e nel castello di Lavino, ove si festeggiava tutto un mese a
Libero: nelli cui dì ogni uomo usava parole scelleratissime, per infino che quel mem bro portato per piazza si riposava nel luogo suo: al cui membro disonesto convenia
che una matrona onestissima dinanzi a ogni uomo gli porgesse una corona in
capo>>.
Si trattava, dunque, di un lungo festeggiamento che aveva come oggetto
di culto il membro di Libero che ostentatamente era portato per piazze e città
e durante il cui cerimoniale, non dissimilmente dalle Dionise e dalle
Eleusine, ma tuttavia senza uguagliarne gli eccessi, era consentita ogni
forma di licenziosità, non ultima quella di convincere un’onesta sposa e
madre di famiglia a rendere omaggio al membro divino.
Tutto con l’unico fine di ingraziarsi i favori del dio e scacciare la sfortuna
che poteva accanirsi contro la fertilità dei campi.
Ma ad intrattenere i molteplici e intricati rapporti con il mondo naturale e
umano non poteva mancare la presenza di un dio protettore polivalente,
Ermes, alla volta messaggero dei disegni degli dèi, psicopompo delle anime
dei morti nell’al di là, datore di fecondità agreste e di prosperità commerciale e patrono dei viandanti.
Proprio a garanzia della sicurezza di quest’ultimi ancora una volta era
evocato l’emblema fallico: ai crocevia delle strade e anche in prossimità delle
porte di alcune case erano, infatti, collocate le erme, cippi in pietra che effigiavano nella parte superiore la testa del dio e in quella inferiore il suo enorme fallo in erezione.
Priapo
I primitivi riti campestri e silvani che, avvolti nel mistero dei loro cerimoniali, vedono protagonista una divinità itifallica a simbolo della forza procreatrice hanno la loro massima espressione nella celebrazione di un dio di
origine orientale ed ellenistica, Priapo, il cui culto ben presto assumerà una
valenza universale sovrapponendosi ad alcuni di carattere elitario come
quello misteriosofico dionisiaco o sostituendosi ad altri di origine e di natura
schiettamente popolari, come quello italico-romano di Mutunus Tutunus o di
Faunus-Lupercus e di Pan, tutte divinità boschive e protettrici dei pastori.
All’origine Priapo è una divinità squisitamente della Natura
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
Priapo, ti consacro questo bosco
con la legge che osservano i tuoi templi
a Lampsaco ed a Priapo. Poiché
te sopra tutti, nelle sue città,
dell’Ellesponto venera la riva
ricca d’ostriche più di ogni altro lido…
Catullo (14) si uniforma al mito e lo fa nascere sull’Ellesponto e precisamente a Lampsaco, frutto dell’amore di Afrodite e di Dioniso. Qui è onorato
come simbolo della forza generatrice dei campi e dei pascoli, protettore degli
armenti e della pesca, guardiano irreprensibile dei giardini e delle vigne.
Il suo simbolo, il fallo, è presente addirittura sui monumenti funerari stante ad indicare il genius del defunto, cioè la forza vitale che soparvvive alla
morte e al disfacimento del corpo.
Un inno anonimo lo saluta, infatti, <<Salve, sancte pater Priape rerum,
Salve>> santo, padre delle cose << O Priape potens amice, salve, / Seu cupis
genitor vocari et auctor / Orbis aut Physy ipsa Panque, salve / Namque concipitur
tuo vigore / Quod solum replet, aethera atque pontum>> (Potente protettore
Priapo salve, sia che tu voglia essere detto padre e protettore del mondo o
natura delle cose medesime o Pan, salve. Poiché raccogli in te col tuo vigore
ciò che riempie la terra, l’aria, il mare) (14).
In questi versi egli è accostato ad un'altra antichissima divinità greca delle
selve, Pan, venerato dai popoli dell’Arcadia e che trova il suo corrispettivo
nel dio italico Fauno-Luperco.
Uno dei tanti miti sulla sua origine fa Pan figlio di Zeus e della ninfa dei
boschi Callisto, che lo abbandonò appena nato atterrita dal suo aspetto: faccia barbuta, testa provvista di corna, naso schiacciato, gambe e piedi caprini
e lunga coda.
Raccolto da Ermes che lo portò sull’Olimpo divenne una divinità fallica
collegata con il mondo silvestre e famosa per le sue scorribande erotiche che
compiva in compagnia di Dioniso. Proprio per sfuggire alle sue mire lascive
la ninfa Pitis si trasformò in un pino e la ninfa Siringa in canne palustri che
Pan plasmò con cera ricavandone il suo strumento musicale.
Il culto di Priapo ben presto si diffonde in tutta l’Asia minore, in Grecia e
quindi a Roma, ma ormai ha perso molto del suo contenuto di sacralità.
L’antropomorfizzazione del fallo intesa come esaltazione raffigurativa del
concetto di fertilità universale perde poco a poco la sua primitiva essenza,
diviene sempre più oggetto di lazzi farseschi, di motteggi lubrici, il dio della
fecondità patrimonio della schiettezza popolare lascia il posto all’idolo rozzo
e dileggiato, a lui i contadini non fanno salire più preci e inni per ingraziarsi
i favori, ma solo canti scurrili.
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
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Ero un tronco di fico, legno inutile
Allorché un falegname, incerto se
Fare di me uno sgabello o un Priapo
scelse il Dio. E da allora sono un dio,
il terrore dei ladri e degli uccelli.
I ladri li spaventa la mia mano
e il palo rosso oscenamente eretto
sull’inguine; sgomentano gli uccelli
importuni le canne che ho legate
sulla testa, impedendo che si posino
sui nuovi orti coltivati.
Questa è ormai l’immagine che del dio ci offre Orazio in una sua satira
(15) (Libro I, VIII).
Priapo è divenuto un vile feticcio di legno, capace solo di tener lontano i
ladri e gli uccelli e <<Tu qui pene viros terres et falce cinedos…>> di terrorizzare, secondo Marziale, con il grosso fallo gli uomini e con la falce gli omosessuali (16) (Libro I).
Priapo rimane il protettore degli orti, sue rozze statue sopravvivono erette
nei campi e piccoli templi gli vengono ancora dedicati.
Ma non è più l’arcaica divinità agricola popolare, originariamente adorata
come personificazione dell’energia fecondante, ha perso la sua dignità di dio
agreste invocato dal popolo contadino, ormai è solo l’allegoria di un enorme
e rosso fallo, di legno, di marmo, di creta infisso nella terra che ladri e amanti furtivi dileggiano e di cui si prendono gioco.
Quel poco che rimane della sua essenza di dio propiziatorio della fertilità
della donna è ormai svilito a basso gioco erotico che vede la novella sposa
nel corso della cerimonia delle nozze costretta a sedersi sopra il suo grosso
fallo.
Scherzo apotropaico, ben augurante per una precoce e felice filiazione.
E tale è il significato che sempre più va assumendo. Le donne lo invocano
e adornano il loro collo con amuleti che lo riproducono per propiziarsi un
amante o per allontanare influssi infausti e la sua presenza anche in rappresentazioni estreme e caricaturali non mancano nelle case romane.
Pompei, famosa per la sua opulenza e per i suoi vizi, distrutta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. le ha conservate per noi intatte e le ha tramandate
nella loro ricca e curiosa iconografia, non sempre squisitamente erotica, ma
spesso anche ironica e parodica.
Nell’uomo di Pompei sempre aleggiava uno spirito ludens, il gioco e il
divertimento essendo costituente esenziale della sua stessa natura.
L’immagine di Priapo o del fallo che lo rappresenta ci viene raffigurato
sotto gli aspetti più diversi: come tintinnabulum, campanello bronzeo che
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La prostituzione nelle società antiche
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pende dal soffitto per scacciare il malocchio, configurato a forma di lucerna,
stilizzato in un placentarius porta focacce, antesignano dei nostri servi muti,
fuso in bronzo a costituire i tre piedi itifallici di un tripode (17).
Adorna gli ambienti intimi pompeiani come soprammobile scaccia guai in
forma di statuette caricaturali riproducenti le goffe sembianze di un nano
danzante o cavalcante il proprio fallo.
Se leviamo in alto il nostro sguardo mentre percorriamo alcune delle vie
della splendida città lo possiamo scorgere, come fallo murario ad indicare
non soltanto il vicolo del lupanare, sede del più celebre postribolo di
Pompei, quello di Victor e Africanus, ma anche come insegna di una bottega
di artigiano o di una casa gentilizia.
La sua presenza ha quindi assunto un valore esclusivamente scaramantico, rappresenta una sorta di grosso amuleto la cui funzione è quella di tener
lontano la sfortuna e di favorire la ricchezza.
Non ha nulla di sensuale né di osceno, questo fallo, in stucco, in cotto, in
pietra, a volte persino provvisto di ali. Tutta Pompei risalta per queste raffigurazioni che stanno semplicemente a significare il tentativo da parte dei
suoi cittadini di accattivarsi la protezione del dio e l’auspicio di ottenere prosperità.
Come il celeberrimo affresco dello stipite destro della porta d’ingresso
della splendida casa dei Vettii riproducente Priapo nell’atto di pesare il suo
enorme fallo sul minuto piatto di una bilancia che porta come contrappeso
sull’altro piatto una borsa di monete, simbolo di abbondanza e di benessere.
Caduto nell’oblio è lo schietto significato di forza generatrice anche se a
Pompei, come in altre parti d’Italia, Priapo è ancora celebrato con feste in cui
il suo enorme fallo è venerato e portato in processione e che culminano in
scene di massa lussuriose.
Ora viene ricordato soprattutto come un dio-portafortuna cui rivolgersi
per propiziarsi benessere e allontanare il male, da tenere costantemente presente nella vita affettiva e in quella sociale, un talismano come uno dei tanti
in voga ai nostri giorni.
L’adorazione del lingam e della yoni in India
Il culto di una divinità fallomorfa o itifallica, simbolo dell’onnipotenza
fecondante naturale, è una delle molte costanti che accomuna tutte religioni
antiche più o meno coeve e in alcuni casi, sopravvivendo al tempo, si perpetuano anche nei riti d’oggi.
Nello stato indiano di Rajaputana a Nord Est della splendida Udaipur, che
come gemma incastonata nei verdi rilievi degli Aravalli si specchia nelle limpide acque del lago Pichola, sorge il villaggio di Kailashpuri famoso per i
suoi 108 templi jaina circondati da alte mura fortificate.
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La prostituzione nelle società antiche
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L’intero complesso è meglio conosciuto come tempio di Shi Eklingji e fin
dai tempi antichi è considerato un luogo sacro, associato al dio Shiva le origini del cui culto si perdono nell’India pre-vedica delle religioni dravidiane
associate alle civiltà di Mohenjio-Daro e Harappa (2700 a.C.).
Dio originariamente naturistico era venerato come Shiva-Pasupati, dio delle
fiere, come Rudra, l’urlante che comanda gli elementi e solo più tardi viene
ad essere rappresentato con un’iconografia che raffigura la sintesi della sua
polivalenza, dei suoi molteplici poteri.
Dio dell’energia incontrollata e devastante, simboleggiata dalla posizione
tantrica di “Sommo Yogin” che assume sulla pelle di tigre con il corpo
cosparso di cenere, dio della distruzione come testimonia la lunga collana di
teschi che gli adorna il collo, dio dominatore del tempo incarnato nei lunghi
serpenti Naga che scendono sul suo petto, dio dell’eterno ciclo delle nascite,
samsara, dell’alternarsi continuo della vita e della morte che manifesta nella
forma di Shiva Nataraja, il signore della danza che esegue su un demone
prono personificazione dell’illusione fenomenistica, la maya, che obnubila la
vera conoscenza cui dovrebbe tendere l’uomo e lo costringe nelle continue
incarnazioni del samsara.
Ma egli è anche il dio della fertilità sessuale e come tale è onorato sotto le
sembianze di lingam, un fallo nero che viene custodito nei templi a lui dedicati dai suoi numerosi seguaci che qui si riuniscono in preghiera e i cui
ingressi portano scolpita l’effigie del toro Nandi, il suo veicolo, immagine
della vigoria fertile animale.
Il tempio di Shi Eklingji è in marmo e granito e ha una grande sala con
colonne decorate (mandap), sovrastata da un tetto a piramide.
Nel santuario interno la gente prega e adorna con variopinte ghirlande di
fiori profumati il grande lingam in marmo nero, mentre pregiate miniature lo
raffigurano come lingam dalle quattro facce.
La devozione riverente che viene tributata al grande lingam non è una
peculiarità dei soli suoi adepti, ma è largamente diffusa tra tutta la popolazione.
Piccole icone e altarini schivaiti abbelliti con petali di fiori rossi, gialli e
bianchi sono in bella mostra anche nelle povere case e sono oggetto di ossequio quotidiano da parte di tutti i familiari. Essi si rivolgono con preghiere al
dio, alla semente della loro esistenza e ne invocano la forza vitale.
Ma il principio maschile non poteva che essere visto in modo sincretico
unito a quello femminile, alla yoni, la vulva e con esso adorato.
Oggetti di culto raffigurano, infatti, il lingam inserito in una base che raffigura il simbolo genitale femminile a ribadire ancora una volta la sua funzione procreatrice unitamente a quella della yoni.
Il dualismo lingam/yoni si esaurisce nella loro unità, nell’unione del dio con
la dea, di Shiva con la compagna Parvati a simboleggiare la nascita della vita.
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La yoni rappresenta il retaggio ancestrale della Grande Dea Madre, principio divino della capacità generatrice di ogni forma di vita terrena.
Essa, la dea delle grandi foreste, delle sacre acque, primitivo elemento di
vita, la protettrice dei campi e degli armenti aveva demandato alla donna la
potenza riproduttiva umana
La yoni è così inizialmente avvolta in un alone di misteriosa sacralità, associata al simbolo primordiale del principio germinante, all’energia cosmica
che rende pregna la natura in ogni sua forma.
Nel Tantrismo (IV° secolo d.C.) che si espresse attraverso due correnti
principali, la prima evoluzione del Vajrayana buddista o “Veicolo di diamante” e l’altra, lo Shaktismo, espressione estrema e tarda dell’Induismo, la
yoni diverrà elemento di vitalità sessuale e la sua reale venerazione sarà uno
dei momenti più importanti del complesso rituale che terminerà con il raggiungimento della beatitudine attraverso il maithuna, l’unione mistica dei
due principi, quello maschile e quello femminile, la dualità fatta uno, il lin gam/yoni.
Il tantrika, l’adepto, tende ormai al superamento della concezione esclusivamente sacrale e naturistica del rapporto sessuale degli ultimi libri vedici e
ha del tutto rigettato la rinuncia ascetica propugnata dal buddismo ortodosso brahamanico.
Egli vede nell’unione dei corpi un rito estatico che culmina in una forma
di sublimazione se compiuto in modo armonioso e percepisce l’unione sessuale come il solo mezzo per pervenire alla salvezza.
Van Gulik nel trattare l’antico misticismo sessuale indiano e cinese (18)
(appendice I) rimarca che ogni uomo aveva in sé la percezione della Verità
Assoluta cui doveva attendere solo attraverso pratiche di spiritualismo sessuale, mediate da unioni che culminavano in ripetuti esercizi di coitus reser vatus.
Solo in tale maniera sarebbe egli riuscito a superare la dualità sessuale che
lo compenetrava e si sarebbe riunito in un tutt’uno con la divinità.
Per il sistema filosofico tantrico ciascun essere umano cela, infatti, una
parte del suo opposto; così l’uomo nasconde una parte del femminino e la
donna porta nel proprio essere una parte maschile.
Il trascendere questa ambivalenza sessuale condurrà alla sublimazione
verso la configurazione dell’ermafrodito assoluto che rappresenta la forma
umana più prossima alla divinità.
Ciò è reso possibile dall’attivazione nel tantrika della componente femminile operata dall’unione sessuale con la donna o meglio da rapporti multipli
senza emissione del liquido spermatico che trattiene in sé l’energia creatrice.
Le due forze sessuali risiedono in due emisferi nervosi che corrono lungo
il midollo spinale attraverso due canali energetici: a destra quello femminile,
ida, generatore e a sinistra quello maschile, il seme fecondo, pingala.
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
L’energia maschile sollecitata dalle secrezioni vaginali femminili assorbite
con il maithuna è compressa perché attuando il coitus reservatus non viene
dispersa.
Essa si unisce a quella femminile per sublimarsi in una forma di energia
nuova totipotente che nella rappresentazione grafica dello yantra (il disegno
prettamente geometrico del cosmo impiegato dai praticanti il Tantrismo per
evocare le forze energetiche e per comunicare messaggi) viene riassunta nel
simbolo del bindu, il punto in cui alberga la divinità. Esso simboleggia anche
l’Assoluto, l’Uno dove convergono lo spirito e la materia, ciò che si rende
visibile e ciò che è immanifesto.
Nello Shaktismo, comparso più tardivamente del Vajrayana dal quale
derivò, la dea, la Shakti, rappresenta la più alta espressione del divino e in
tale ambito il rapporto erotico assurge a valenza magica ed esoterica. L’unione con la propria donna, dopo averne adorata la yoni mima ancora l’unione
con la dea, ma si riallaccia solo in parte al cerimoniale ierogamico con la
Grande Dea Madre, sorgente di energia vitale, già presente negli antichi riti
naturistici espressi dagli Upanishad, i libri canonici composti tra il IX° e il
VI° secolo a.C.
Nei cerimoniali del Tantrismo la donna è divenuta soprattutto donnaoggetto, il suo corpo è ricercato in modo ossessivo in quanto sorgente di vita
e fertilità, incarnazione dell’energia totipotente della dea, così come il suo
orgasmo.
Forte è la convinzione nel tantrika che attraverso l’orgasmo femminile egli
possa appropriarsi di tale energia presente nelle secrezioni della compagna
che contribuiranno a prolungare la sua esistenza terrena.
La ricerca di questo continuo arricchimento energetico lo porta, pertanto, a
consumare l’atto erotico con fanciulle giovani e vergini perché, incontaminate, meglio conservano la forza vitale primigenia della dea, e a prolungarlo il
più a lungo possibile per finalizzarlo al conseguimento di più orgasmi da
parte della compagna evitando di provocare il proprio.
La perdita dello sperma lo priverebbe dell’energia in esso contenuta compromettendo la sua vitalità. Egli, di conseguenza, controlla la sua emissione
con pratiche yoga che governano i centri respiratori e dominano le pulsioni.
Attraverso il coitus reservatus si innesca il risveglio dell’energia totipotente
assopita, Kundalini, che come un serpente avvolto sulle sue spire dorme tra i
genitali e l’ano, all’imbocco del sushunna, il canale vertebrale e che impedisce
alle correnti energetiche ida e pingala di fondersi.
Kundalini ravvivata dal coito e da tecniche yoga misteriose (hatayoga) di
cui è depositario il guru, il maestro, consente l’unione di queste e il loro fluire nel sushunna. Esse ascendono da lei stimolate la colonna vertebrale attraverso diversi livelli energetici chiamati chakra, posti in corrispondenza delle
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rispettive sezioni metameriche del corpo che assorbono la nuova energia formatasi, fino al cervello sede del nirvana-chakra, dove si attuerà l’unione completa delle due entità sessuali, dove si compirà l’atto sessuale tra Shiva e
Parvati, dove l’adepto si unirà definitivamente alla dea pervenendo ad uno
stato di felicità assoluta, il nirvana (18) (19).
Solo nelle forme più eccessive del Tantrismo si assiste al perseguimento
esasperato dell’esperienza erotica attraverso l’attuazione di pratiche estreme
di accoppiamento, vissute nell’ottundimento della mente e nella scelta degenerata di compagne reclutate tra le più dissolute e impure con cui unirsi in
ripetuti rapporti.
Uomini e donne si assoggettano a rituali mistico-sessuali dove nel cuore
della notte si danno all’alcol e alle droghe e recitando formule esoteriche rendono dapprima omaggio alla yoni per poi concedersi l’un l’altra al più sfrenato commercio carnale; una complessa liturgia che il tantrika deve osservare
in cui il maithuna non è che l’atto finale, l’ultimo dei cinque elementi o delle
cinque cose di cui si deve nutrire insieme all’alcol, alla carne, al pesce e ai
cereali.
Se la componente erotica è pulsante nella concezione filosofica del
Tantrismo, altrettanto viva la troviamo espressa nell’iconografia con cui si
esprime tutta la religione induista e trova la sua massima espressione nella
realizzazione di quei capolavori allo stesso tempo architettonici e scultorei
che sono i templi di Khajuraho.
Era rimasto per secoli un anonimo villaggio nello stato indiano del
Madhya Pradesh e poteva rimanerlo per lungo tempo ancora se T.S. Burt, un
ingegnere inglese valente ma oltremodo bacchettone, non vi fosse incappato
per caso nel 1838.
La sua, infatti, non fu una reazione propriamente entusiasta. Di fronte alla
bellezza di quei monumenti in marmo di cui ancora oggi possiamo goderne
la vista, finemente e riccamente decorati da migliaia di sculture raffiguranti
coppie di amanti in differenti posizioni di unione sessuale, il suo solo commento fu teso a sottolinearne il carattere estremamente indecente e offensivo.
La fortuna in questo caso non venne in aiuto ad una mente preparata. La
sua fu miopia assoluta. Gli sfuggi l’importanza storica di una tale scoperta,
non riuscì a leggere la misticità religiosa derivante dalla perfetta fusione di
architettura e scultura, non si interrogò sul recondito racconto che i diversi
elementi iconografici potevano descrivere.
Degli 85 templi conosciuti costruiti sotto la dinastia dei re guerrieri
Chandela (IX°-XII° secolo d.C.), che qui avevano posto la capitale del loro
regno, ne rimangono attualmente solo 20 e di questi il Kandariya Mahadev è
senza dubbio quello meglio conservato.
Lungo le sue colonne marmoree che mani valenti di grandi maestri hanno
cesellato e nelle piccole edicole poste sulle basi da cui prendono slancio i tetti
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La prostituzione nelle società antiche
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conici dei templi aggettanti verso il cielo si succedono, in un’ininterrotta teoria di fotogrammi, vivaci scene erotiche di amanti a raffigurazioni di dei e
dee del pantheon indiano in estatica postura, scabrosi rapporti consumati
con animali a curiosi personaggi zoomorfi.
L’origine del complesso templare si perde nel mito popolare che lo farebbe
risalire al matrimonio del dio Shiva con la bella Parvati la cui unione, secondo la concezione religioso-filosofica induista, avrebbe generato tutta l’energia presente nel cosmo.
Le rappresentazioni erotiche del tempio rappresenterebbero null’altro se
non una manifestazione celebrativa di tale unione divina.
A questa leggenda se ne sovrappone una seconda che parla di una splendida vergine di nome Hemvati.
Una notte mentre si bagnava nuda nelle acque di uno stagno di loto fu
scorta dal dio della luna che se ne invaghì. Perdutamente innamorato della
sua bellezza prese le forme umane, scese dal cielo sulla terra, la rapì e abusò
di lei.
Solo più tardi, pentito, cercò di fare ammenda annunciandole che avrebbe
partorito un figlio maschio il quale avrebbe governato su Khajuraho e edificò gli splendidi templi. A suggellare tale promessa, infatti, volle che fosse
celebrato un sacrificio il cui rituale avrebbe compreso anche la realizzazioni
delle figure in posizioni erotiche per liberare Hemvati da ogni colpa.
Al di fuori della leggenda, per dare una plausibile spiegazione a questa
sensuale forma celebrativa del divino che apparentemente sembrerebbe una
giustapposizione paradossale di religiosità ed erotismo bisogna considerare
che essa era già presente in molti templi induisti risalenti a secoli prima della
nostra era, molto prima, quindi, di Khajuraho.
La si deve inserire nel contesto dell’antica visione della vita dell’uomo
letta alla luce delle scritture vediche secondo le quali questa si sviluppava
attraverso fasi ben determinate. Nell’età infantile fino a 5 anni l’educazione
del bambino avveniva nella propria casa, affidata ai genitori e poi era completata fino ai 25 anni lontano dalla propria famiglia, a scuola sotto l’insegnamento dei brahmani.
L’uomo si riappropriava della propria entità fisica e psichica dai 25 ai 75
anni dedicandosi alla costituzione di una propria intimità familiare e alla
procreazione dei figli che abbandonerà per dedicarsi alla vita contemplativa
ed estatica nella foresta fino alla fine dei suoi giorni
L’educazione formativa impartita dai brahmani ai discenti spaziava in
ogni ambito della conoscenza umana e comprendeva anche l’educazione
sessuale attuata proprio attraverso le scene erotiche che in questo contesto
rappresentavano una sorta di “materiale didattico” oggetto delle lezioni.
Non quindi esclusiva adorazione lasciva delle figurazioni, atte a suscitare
in chi le guardava solo desideri lussuriosi e blasfemi, ma contemplazione di
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La prostituzione nelle società antiche
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immagini illustranti momenti di quotidianità della vita nella cui splendida
fattura l’adepto poteva intravedere il sacro che vi era nascosto, lo spirito
della divinità che le aveva permeate.
L’erotico non in contrapposizione al senso religioso, ma sua forma di
espressione, seppur estrema.
Le rappresentazioni erotiche dei popoli andini
Il tema delle rappresentazioni fallomorfe o di carattere comunque erotico
sono riscontrabili in maniera più che mai vivace e diversificata anche nei
rituali della fertilità delle popolazioni andine precolombiane che basavano la
loro sussistenza su un’attività strettamente di tipo agricolo.
Tumaco, in Colombia e la vicina isola Tolita, apparentati dalla medesima
area culturale che ha portato i loro abili artigiani ad esprime manufatti ceramici di alta fattura contraddistinti dall’identico stile, spiccano per le centinaia di reperti di scavo, vasi e figurine, che avevano per tema proprio scene
erotiche (20).
Vasi decorati con raffigurazioni riproducenti le posizioni amorose di coito
e soprattutto sculture di personaggi reali o fantastici dagli evidenti membri
in erezione si ricollegano ai culti propiziatori apotropaici più antichi che
abbiamo già descritto in altre civiltà sviluppatesi in regioni geograficamente
molto lontane da queste.
Ancora più evidente e peculiare è il tema amatorio presente nell’arte erotica moche, che ebbe il massimo sviluppo nei primi secoli dopo Cristo nella
costa settentrionale del Perù precolombiano e che costituisce un repertorio
unico del mondo andino per le tante rappresentazioni giunte in nostro possesso sotto forma di pittogrammi o di manufatti statuari.
In tutti predominano le scene di unione sessuale, diversificate nelle molteplici posizioni che le coppie, rappresentate sempre con grande espressività,
assumono. Accanto al coito vaginale palesato dalla posizione delle figurine
faccia a faccia sono presenti posizioni a posteriori o di fianco. Sempre più
frequenti sono, inoltre, le raffigurazioni di coito anale confermando come
questo tipo di rapporto fosse molto diffuso tra la popolazione del centroamerica.
Il repertorio erotico cui ricorrevano i moche è vastissimo e vario, una vera
antologia dell’arte amatoria cui non potevano mancare raffigurazioni di rapporti orali e scene di masturbazione.
A rendere ancor più esplicito il senso erotico i vasi sono foggiati frequentemente a guisa di fallo o di vagina o rappresentano personaggi maschili e
femminili che espongono ritti o sdraiati, solitari o in coppia, in modo palese i
loro enormi organi genitali che, maliziosamente, vanno a costituire il collo
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stesso del vaso che necessariamente deve essere portato alla bocca da chi
beve.
Tra le più curiose rappresentazioni spiccano le scene di unioni bestiali tra
donne e animali o tra donne e figure umane dalla testa zoomorfa. Il loro
significato troverebbe spiegazione in quella diffusa pratica religiosa di unione tra un mortale e l’entità divina e si innesterebbe ancora una volta nella
pratica della ierogamia mimica consumata per ingraziarsi la benevolenza
della divinità agreste o cosmica sotto forma di dio-animale.
D’altra parte l’enfasi quasi sfacciata con cui le scene erotiche sono proposte nelle opere ceramiche di queste genti rientrerebbe nella loro attitudine a
rappresentare ogni tipo di momento della vita giornaliera, sociale o celebrativa, pubblica o privata ivi inclusa quella affettiva e amatoria.
Priapo (Terracotta romana policro ma. Magna Grecia. III° sec. a.C.)
Lingam nero (Tempio Shi Eklingji.
Rajaputana - India)
Caleidoscopio Letterario
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
La prostituzione sacra
Le Ierodule
Si è detto come già fin dal periodo sumerico e poi assiro-babilonese le cerimonie religiose inerenti i riti di fertilità e fecondità avessero il loro momento
focale nella unione ierogamica del sacerdote o del re con la grande sacerdotessa del tempio.
Questo rapporto fecondante consumato al fine di evocare per via simpatia
la fertilità dei campi, degli armenti e dell’uomo, non è escluso che divenne
del tutto simbolico solo in un secondo tempo, mentre all’inizio, quando
cominciava a farsi strada nell’uomo il senso del religioso, fosse interpretato
in modo del tutto realistico.
A tale fine sarebbe stato preposto un collegio di sacerdotesse consacrate
alla divinità, quasi sempre femminile in quanto incarnante la funzione di
dea dell’amore e delle unioni (fa eccezione il culto di Marduk, il sommo dio
protettore di Babilonia), che diedero forma a quell’istituzione nota come
“prostituzione sacra”.
Le fanciulle-prostitute, chiamate dai Greci “Ierodule”, esercitavano in
appositi ambienti annessi al tempio la loro professione in onore della dea cui
erano consacrate e cui andavano i doni e le offerte in denaro dei fedeli.
L’esistenza di questa forma di culto ai primordi della storia dell’uomo
trova conferma nelle iscrizioni in eblaitico presenti su alcune delle migliaia
di tavolette cuneiformi rinvenute durante gli scavi effettuati in Siria nella
Biblioteca del Palazzo Reale del sito archeologico di Tell Mardikh, la mitica
Ebla che visse i suoi splendori di importante centro culturale e commerciale
tra il 2400 e il 2250 a.C.
Questo ricco patrimonio di tavolette in argilla sopravvissute ad un devastante incendio che distrusse la città testimonia uno spaccato importante
della vita, dei costumi e degli usi dei suoi abitanti. Infatti, i contenuti fanno
riferimento a trattati economici e alleanze politiche stipulati con le vicine
città e a celebrazioni di festività religiose e cerimonie devozionali dei popoli
semitici, tra le quali risalta proprio la pratica dell’amore sacro.
D’altra parte, le stesse dee cui il culto era consacrato venivano sovente
evocate con appellativi che alludevano alla finalità per la quale le loro sacerdotesse erano istruite.
In alcuni poemi sumerici (II° millennio a.C.) riportati nello splendido libro
“Uomini e dei della Mesopotamia” di Bottero e Kramer (6) la dea dell’amore
sessuale e della guerra Inanna è chiamata “Ierodula” e si fa cenno in modo
palese alle celebrazioni licenziose istituite in suo onore cui partecipavano
cinedi, travestiti e prostitute. (Vittoria di Inanna sull’Ebih, cap. IX, par.10)
Caleidoscopio Letterario
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
Ancora più eloquente è la funzione di Inanna nel poema tramandatoci
sempre su tavolette cuneiformi che vede la dea ottenere da Enki, signore
della terra e delle acque del grande abisso Apsu su cui galleggiava il mondo,
suggeritore di saggezza e di operosità e creatore del genere umano, dei doni
con cui arricchire la città di Uruk di cui è la protettrice.
Solo con la sua avvenenza coniugata alla sottile astuzia che le è propria
riesce a convincere il grande dio, ormai confuso dai fumi delle copiose libagioni da lei sollecitate durante il banchetto che il dio ha approntato in suo
onore, a cederle i suoi “Poteri Culturali”.
Sono regalie che nei propositi della dea dovrebbero apportare una grande
ricchezza culturale alla sua città, attuando una profonda trasformazione
delle sue attività ancora primitive ed esclusivamente agresti.
Nel lungo elenco dei doni acquisiti figurano anche attributi della sua figura di Ierodula (6) (cap. IX, par.11, v.61-70):
<<Per il mio prestigio! Per il mio Apsu!
Alla santa Inanna, mia figlia, offro,
Senza che nulla mi trattenga,
Lo Stendardo, la Faretra, l’Erotismo, il Baciare amoroso
La Prostituzione e il Far-veloce>>
E Inanna li prese.
<< Per il mio prestigio! Per il mio Apsu!
Alla santa Inanna, mia figlia, offro,
Senza che nulla mi trattenga,
La Schiettezza, l’Ipocrisia, l’Adulazione,
Lo Stato di oblata d’Inanna e la santa Taverna>>
<< Per il mio prestigio! Per il mio Apsu!
Alla santa Inanna, mia figlia, offro,
Senza che nulla mi trattenga,
Il santo Nigingar, il….divino, la Ierodulia celeste,
L’Orchestra sonora, l’Arte del canto e l’Ufficio degli Antichi>>
E Inanna li prese.
Viene considerata, quindi, come facente parte della civilizzazione,
dell’arricchimento culturale l’acquisizione da parte dei cittadini di Uruk di
pratiche quali l’erotismo, il baciare amoroso, la prostituzione e l’istituzione
della ierodulia.
Del suo ruolo di divinità che sovrintende ai rapporti amorosi si fa cenno
anche in alcuni “coni di fondazione”, iscrizioni a carattere devozionale incisi
su coni d’argilla che venivano inseriti nelle fondamenta degli edifici sacri
eretti dai re agli dei.
Caleidoscopio Letterario
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
In uno di questi di 12 cm di altezza facente parte della splendida collezione Michail, e risalente al periodo di Isin (1950-1850 a.C.), la mitica città
dell’Eufrate sorta tra Uruk e Babilonia sede di un potente regno indipendente di origine semitica, è ripetuta per nove volte una dedica in caratteri
cuneiformi redatta dal suo re Lipit-Eshtar.
Egli nella sua munificenza si autoproclama “re delle quattro parti del mondo”
e “il prescelto nel cuore di Inanna” e annuncia l’erezione di un tempio alla dea
Nanaya chiamandola “figlia di Inanna, la dea dell’amore”.
A conferma ulteriore dell’introduzione della prostituzione sacra ritroviamo ribadite le caratteristiche di Inanna nei componimenti in accadico dedicati alla dea Ishtar, che viene ad assumere anche le qualità peculiari di divinità
protettrice degli amori licenziosi e dei rapporti sessuali finalizzati al solo
raggiungimento del piacere fisico
Al suo culto, infatti, erano consacrate le harimati, un particolare gruppo di
sacerdotesse che praticavano la prostituzione all’ombra dei suoi templi perseguendo una duplice finalità, quella di mimare l’unione ierogamica dei
fedeli con la divinità e quella di apportare ricchezza al luogo di culto.
E’ una di queste donne lascive che Gilgamesh, all’inizio della sua epopea,
manda incontro a Enkidu per fargli abbandonare lo stato selvatico in cui
viveva nella foresta, accanto alle bestie a loro difesa contro i cacciatori.
Creato dalla dea Aruru con l’argilla ad immagine di Anu, Enkidu è di nobile
e duro aspetto, con i lunghi capelli ondeggianti al vento, valoroso e forte
come un dio della guerra. In lui vi è la bontà originaria dell’uomo primitivo,
non ancora contaminato dalla civiltà, ignorante dei piaceri e dei lussi della
città e delle sue perversioni. Vive felice con la moglie e i figli a contatto con
la natura, anzi è parte di essa e niente conosce delle malie delle donne.
Perciò e facile preda della prostituta. Sedotto dalla sua arte giace con lei
per sei giorni e sette notti nelle vicinanze di uno stagno dove lei gli si era
presentata completamente nuda. Dimentico delle sue colline e della sua casa
impara a conoscere l’amore.
Ormai non è più il selvaggio puro e immacolato, lo sanno le belve una
volta sue amiche che ora lo sfuggono e lo sa il suo corpo improvvisamente
lento e molle, capace solo di seguire la prostituta in città, al sacro tempio di
Ishtar, ad Uruk dove regna Gilgamesh di cui diverrà suo inseparabile amico
e compagno di avventurosi episodi dopo essere stato battuto in un combattimento leale e duro.
Solo in punto di morte Enkidu sembra rinnegare il suo stato di uomo civilizzato e maledice la prostituta. Le augura di non avere un tetto al riparo del
quale svolgere il suo meretricio; che la sua sola compagnia siano gli ubriaconi, che il suo giaciglio sia un mucchio di letame, che i suoi piedi siano piagati
da ferite. Ci vuole l’intevento del Dio del Sole per calmare l’animo iracondo
e triste di Enkidu e per convincerlo a mutare il suo biasimo in lodi alla
donna in auguri per una vita serena e felice. Ma i Peana hanno un che di forCaleidoscopio Letterario
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La prostituzione nelle società antiche
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zato, escono dalla bocca di un uomo con la mente ormai ottenebrata dalla
malattia, un uomo già visitato dalla morte.
Lo strano voto delle donne assiro-babilonesi
Una dettagliata descrizione in forma di moderno reportage di questa pratica diffusissima nel V° secolo a.C. è fornita dallo storico greco Erodoto (484430 a.C.) ne “Le Storie” (13) (Libro I, 199).
In un apposito luogo sacro, adiacente al simulacro della dea dell’amore,
almeno una volta nella vita ogni donna assiro-babilonese esercitava la prostituzione sacra giacendo con uno straniero.
Le più abbienti sdegnando di mischiarsi con quelle di più bassa estrazione
si facevano portare sul luogo da un carro coperto accompagnate da un corteo di servi e ancelle.
Qui, in un recinto, le donne con il capo fasciato da una treccia di corda
sedevano in attesa di essere scelte dagli stranieri che le potevano ammirare
in ogni direzione percorrendo stretti corridoi delimitati da funi tese tra le
stesse.
Una sorta di passerella attraverso il recinto sacro che precorreva di millenni quella analoga che consentiva ai clienti di sfilare attorno al quadrato delle
prostitute nelle “case chiuse” del nostro secolo.
La donna-prostituta non aveva modo di rifiutare nessuno e tratteneva
qualsiasi somma di denaro che lo straniero le gettava sul grembo al momento della scelta mentre pronunciava la formula rituale “Invoco per te la dea
Militta”.
Ogni dono era accettato e ogni azione era compiuta in onore della sacralità
di questa dea cui corrisponderà la greca Afrodite.
Solamente dopo aver consumato il rapporto mercenario ed essersi purificata compiendo un sacrificio espiatorio la donna poteva ritornare dai propri
familiari.
E da questo momento nessun uomo poteva più possederla a dispetto di
tutte le ricchezze che le poteva offrire.
Come sempre, anche in questo rituale in onore di Militta veniva privilegiata la bellezza, in quanto erano le donne più avvenenti quelle che per prime
venivano scelte e che per prime potevano far ritorno a casa, mentre le meno
graziose o quelle decisamente più brutte per ottemperare a questa legge
potevano aspettare persino 3 o 4 anni.
Risalta evidente l’affinità del culto di questa divinità con quello ancora più
arcaico, cui si è accennato, di Inanna, la dea sumerica dell’amore sessuale,
venerata dai Babilonesi come Ishtar.
Nessun espediente per procacciarsi denaro raggiunse comunque l’eccen-
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tricità del grande faraone Cheope (2625 a.C.) che, a detta di Erodoto, per
coprire l’immane spesa di 1600 talenti d’argento necessari per la costruzione
della sua straordinaria piramide a Giza, non ebbe alcuna remora a indurre la
propria figlia a prostituirsi in un postribolo (13) (Libro II, 126).
La figlia, da parte sua, si dimostrò degna di tanto padre e assecondando
forse la sua naturale inclinazione al vizio, sfruttò al meglio l’imposizione
facendosi donare come sovrapprezzo da ciascun avventore una pietra squadrata che utilizzò per edificare a sua memoria una, seppur più piccola, piramide accanto a quella imponente paterna.
Lo storico greco omette, forse per discrezione, di menzionare quante pietre
furono all’uopo necessarie.
L’unica parziale attenuante che avrebbe potuto invocare il grandissimo
Faraone è che non poteva ricorrere alla prostituzione sacra in quanto non era
ammessa nei templi. Lo afferma ancora una volta Erodoto (13) (Libro II, 64),
secondo il quale gli Egiziani erano stati i primi ad imporre il divieto di
accoppiarsi all’interno dei templi e di entrarvi dopo un rapporto senza essersi prima purificati.
A comprovare la sua asserzione concorrono i molti papiri ritrovati nei sarcofagi che segnavano il viatico del defunto nel Mondo che è ad Occidente
Questi papiri, che formano il Libro dei Morti, rappresentano un formulario magico che doveva essere recitato per garantirgli un sicuro e felice cammino nell’Altro Mondo, un salvacondotto per essere accettato nel regno di
Osiride e il privilegio di identificarsi in lui.
Nel suo lungo viaggio il defunto arriva nella “Sala della Verità” dove il
suo cuore è pesato dalla dea Maat sulla bilancia contro la piuma della verità
e davanti ai 42 consiglieri di Osiride, che devono giudicare il suo operato in
vita, egli deve esporre l’elenco dei peccati che non ha commesso.
Nella lunga confessione egli nega esplicitamente di aver mai offeso il proprio Dio con atti impuri: << Non ho fornicato né mi sono mai masturbato nei san tuari del Dio della mia città>> (Libro dei Morti, papiro di Nu) (J.Kaster: La saggezza dell’antico Egitto. Newton e Compton Editori, 1998).
Ciò non impediva però che qualche prostituta profana contribuisse con i
propri guadagni alla costruzione dei monumenti sacri.
E’ quello che fece Rodopi, la più nota cortigiana dell’Egitto di quei tempi.
Erroneamente i Greci le attribuirono la costruzione della piramide di
Micerino (2560 a.C.), la più piccola della piana di Giza.
In realtà la bellezza di Rodopi, a sentire Erodoto, (13) (Libro II, 134-135)
rifulse molto più tardi di questo Faraone, sotto il regno di Amasi (586-526
a.C.). Di stirpe tracia condivise in gioventù la propria schiavitù con quella di
Esopo, il più illustre dei favolisti, e giunse in Egitto al seguito di Xanto di
Samo per praticare la professione di cortigiana.
Riscattata da questa sua vile condizione da Carasso, fratello della celebre e
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discussa poetessa Saffo, divenne molto ricca professando in proprio la prostituzione.
Non costruì alcuna piramide, ma volle lasciare a sua memoria in Grecia al
tempio di Delfi, sotto forma di donazione, numerosi spiedi di ferro che ai
tempi di Erodoto erano ancora ben visibili dietro l’altare e di fronte alla cella
del tempio.
L’ira del Signore nella Bibbia
Tra le testimonianze ancora oggi documentabili inerenti la forma di prostituzione sacra quella più concreta ci è offerta dalla più antica città del mondo
secondo la leggenda araba, la fenicia Baalbeck, nel Libano orientale, la cui
fondazione viene fatta risalire, dalle più antiche leggende, allo scellerato
Caino che vi avrebbe trovato rifugio nel tentativo di sfuggire alla maledizione e alla collera divina.
Tutt’oggi sull’Acropoli che occupa buona parte del centro della cittadina
sorge un ciclopico monumento, l’antico tempio di Baal, il dio siro-fenicio,
Signore del Cielo.
Varcati i larghi propilei che per grandiosità nulla hanno da invidiare a
quelli di Atene, cui si accede salendo una lunga e monumentale scalinata, si
giunge ad un primo e ampio cortile di forma esagonale che antecede il
Tempio del dio e l’altare sacrificale dove, la leggenda sostiene, venivano
immolate anche vittime umane.
In questa ampia area veniva esercitata la prostituzione sacra da sacerdotesse che erano ricercate e frequentate dai numerosi pellegrini prima di essere ammessi alla consacrazione solenne che si svolgeva nel grande Tempio.
Questa divinità pagana era già adorata in particolar modo dai Moabiti e
dai Madianiti, e dalle altre antiche popolazioni che abitavano la terra di
Canaan, la terra promessa per gli Israeliti e il suo culto cui essi si votarono è
alla base dell’episodio biblico dell’idolatria di Israele e dell’atroce castigo
patito dagli idolatri e dai Madianiti (1) (Numeri 25,1-8): <<Israele aderì al culto
di Baal-Fegor, tanto che l’ira del Signore s’accese contro di lui. Il Signore disse a
Mosè: Raduna tutti i capi del popolo e fa impiccare i colpevoli davanti a me, alla
vista di tutti, e l’ardente ira del Signore sarà distolta da Israele>>.
All’adorazione di questo dio cananeo, ai sacrifici umani, soprattutto infantili, a lui offerti e alla prostituzione sacra praticata ai piedi del suo simulacro
dal grande fallo in erezione (immagine che precorre quella greco-romana di
Priapo) che si svolgeva con eccessi lascivi consumandosi tra pratiche erotiche
oscene e bestiali si diede, infatti, una parte cospicua del popolo d’Israele
nelle terre aride del Moab, ad est del fiume Giordano.
La collera del Signore cessò cosi come questo atto di apostasia alla sua reli-
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gione, ma i morti tra i figli d’Israele furono 24000 e ancor più numerosi furono tra i Madianiti: <<Poi il Signore parlò a Mosè, e disse: Fate guerra ai Madianiti
e massacrateli, perché sono essi che vi hanno attaccati per primi con le loro insidie,
ordite contro di voi per mezzo di Fegor…>>.
Questo non fu l’unico atto di idolatria cui il popolo eletto indulse nella sua
lunga e tormentata storia biblica e Baal non fu certo il solo idolo che venerarono.
Praticarono il culto di Melcom o Moloc cui sacrificavano neonati, “l’abomi nevole idolo dei figli di Ammon” con il capo adornato da una corona di circa 50
chili d’oro e tempestata da gemme preziose, alcune delle quali andarono a
finire nel diadema di re Davide, venerarono Camos, altro idolo dei Moabiti,
idolatrarono la dea fenicia Astarte al pari dei Sidonii e frequentarono le prostitute sacre care alla dea Ascera: <<I figli d’Israele avevano compiuto ciò che è
male al cospetto del Signore, dimenticando il Signore, loro Dio, per servire a Baal e
alle Ascere>> (1) (Giudici 3,7).
Ascera era una dea adorata sui monti attraverso banchetti e aveva come
simulacro un palo sacro oggetto di preghiere da parte dei sacerdoti e delle
prostitute che praticavano la ierodulia.
E proprio per rinnovare l’Alleanza con Dio dopo averla ancora una volta
disattesa il re di Giuda Giosia (640-609 a.C.) distrusse il tempio di Baal bruciando tutti gli oggetti che servivano al suo culto, scacciò i sacerdoti idolatri,
fece portare fuori da Gerusalemme il palo della dea Ascera che ridusse in
cenere e <<Demolì la casa di prostituzione attigua al Tempio del Signore, dove le
donne tessevano tuniche per Ascera>> (1) (Secondo Libro dei Re 23,4-7).
Il pericolo incombente dell’idolatria che minacciava il popolo eletto, portò
il Signore per bocca di Mosè ad ammonire duramente Israele: <<Tra le figlie e
i figli d’Israele, non ci sia nessuna prostituta né alcun prostituto. Non portare nella
casa del Signore, Iddio tuo, il guadagno di una meretrice, né la mercede d’un prosti tuto, per qualsiasi voto, perché ambedue sono abominevoli davanti al Signore, Iddio
tuo>> (1) (Deuteronomio, 23, 18, 19).
Il culto dell’amore sacro fiorì anche in Occidente seguendo il flusso dei
rapporti commerciali con le città dell’Oriente e numerosi sorsero i templi che
in Asia Minore, in Grecia, nella Magna Grecia furono dedicati alle dee protettrici, prima fra tutte ad Afrodite, la più bella tra le dee che a Roma e presso
i popoli latini catturati dalle cultura ellenica venne a sovrapporsi e a personificare un’antica divinità italica, Venere.
Colei che nacque dalla bianca schiuma del mare di Cipro, che giunse
dall’Oriente come iniziale simbolo celeste dell’aurora assurse ben presto a
divinità della bellezza e dell’amore sensuale.
Venne ad incarnare, così, gli equivalenti attributi delle divinità dell’amore e
della fecondità che venivano celebrate nei rituali propiziatori delle antiche tradizioni agresti, quali la sumerica Inanna, la fenicia-cananea Astarte, la mesopotamica Ishtar o l’egizia Iside tutte accomunate dall’esercizio della prostituzione
a loro consacrata e dalle ingenti ricchezze accumulate nei loro santuari.
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Copiosi, infatti, arrivavano i regali e le offerte e i devoti giungevano
all’eccesso di offrire, in seguito ad una grazia ottenuta, un certo numero di
giovanette da avviare alla prostituzione il cui organico in carica diventava,
in definitiva, essere in funzione del benevolo agire della divinità. Una sorta
di primitivo e rozzo ex-voto devoluto in esseri umani.
Poche donazioni, comunque, eguagliarono quella generosissima di
Senofonte, il celebre atleta vincitore nel 464 a.C. di due gare olimpiche.
Cento etère furono quelle che egli, in caso di vittoria, aveva promesso di
far omaggio come ringraziamento a uno dei templi più famosi di Afrodite,
quello di Corinto che poteva contare a quei tempi su un “personale femminile” costituito da più di 1000 unità.
La celebrazione di questo evento ci è pervenuta sotto forma di un “encomio” composto da poeta greco Pindaro (518-438 a.C.), un vivace canto che
evoca l’antico rituale della prostituzione sacra in onore della bella dea,
amministrato dalla sua ancella Persuasione attorniata dalle giovinette ierodule, il cui numero lievitò considerevolmente di una greggia di cento capi,
come il poeta definisce le nuove acquisite (21).
Giovinette dagli ospiti molti,
ministre di Persuasione
nell’opulenta Corinto,
voi che vaporate lacrime
bionde di verde incenso,
- e vola frequente alla madre
celeste di amori Afrodite
il vostro pensieroa voi senza biasimo è dato
in amabili letti, o fanciulle,
mietere il frutto della molle stagione.
……………………………………..
Qui, regina di Cipro, al tuo bosco
lieto Senofonte dei voti
colmi ha recato una greggia
pascente di cento capi.
E davvero ricco doveva essere il famoso santuario di A f r o d i t e / V e n e r e
Erycina, che sorgeva sulla sommità del monte Erice in Sicilia, se riuscì a figurare nell’elenco di templi saccheggiati da quel mostro di cupidigia di Verre,
propretore dell’isola nel I° secolo a.C., accusato e fatto condannare da
Cicerone per malversazione.
L’improbo uomo politico romano sfruttò la sua posizione e la connivenza
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con il questore del monte Erice Nevio Turpione, suo protetto, per sottrarre alla
dea il pagamento di una forte ammenda che un certo Dione doveva versarle.
Questi era entrato in possesso di una cospicua eredità a patto di far erigere
nel Foro delle statue, altrimenti sarebbe incorso nel pagamento di una penale
da versare secondo la legge, al tempio di Venere Erycina.
Ebbene, Verre con un sotterfugio, nonostante Dione avesse, in effetti, fatto
innalzare le statue, si fece dare il dovuto dell’ammenda invece di versarlo a
Venere (22).
In Caria, nella città di Afrodisia, a lei dedicata e già primitivo luogo di
culto della dea Ishtar, a Corinto, ad Argo, nei suoi templi di Afrodite Ciprigna
nell’isola di Cipro, di Afrodite Citera a Citera e in quello di Afrodite Erycina la
dea veniva solennemente celebrata durante le feste afrodisie e adonie.
Con esse si voleva ricordare il mito del suo perduto amore per il bellissimo Adone ucciso da un cinghiale durante una battuta di caccia.
Il destino del giovane era stato scritto dal fato già prima della sua nascita
nel nome di Afrodite.
La dea per vendicarsi dell’affronto portatole da Cencride che aveva osato
reputare superiore la bellezza della figlia Mirra alla sua aveva fatto morbosamente innamorare del proprio padre Cinira, re di Cipro, la giovane che sotto
mentite spoglie si unì più volte con lui.
Quando il padre si rese conto dell’inganno tentò di uccidere la figlia che
però riuscì a sfuggire alla morte rifugiandosi in Arabia dove gli dèi resi pietosi dalle sue preghiere la trasformarono nell’omonima pianta profumata
che partorì dalla corteccia il frutto del suo amore incestuoso, Adone.
Afrodite, causa prima della sua infelice nascita, si invaghì in seguito del
bellissimo giovane e lo amò passionalmente da vivo come lo pianse disperatamente da morto.
Tale era l’avvenenza di Adone che del suo corpo si innamorò anche
Persefone, quando egli approdò nel mondo dei trapassati su cui la potente
dea regnava. Il desiderio divampava così forte nel suo animo che si rifiutò di
riportarlo alla vita terrena a dispetto delle imposizioni dettatele da Zeus,
mosso a compassione dalle disperate lagrime della dea dell’amore.
Il padre di tutti gli dèi, allora, risolse che per una parte dell’anno Adone
sarebbe rimasto nel mondo degli spiriti per poi ritornare a rivivere nella
restante parte. Secondo Ovidio, invece, l’amore di Venere fu così grande che
ella, per tenerlo sempre accanto a sé, mutò il rosso sangue del suo amante
<<at cruor in florem mutabitur>> in uno splendido fiore, l’anemone (2) (Le
metamorfosi, Libro X, 718).
Ancora una volta si ripropone nella leggenda la simbologia dell’alternarsi
delle stagioni rappresentate dal giovane, che ritornando alla vita riporta la
fertilità nella primavera dopo la sterilità invernale.
Le festività erano dunque di carattere agreste tese a sottolineare la funzio-
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ne di forza generatrice della dea, ma nel corso delle celebrazioni il significato
si estendeva andando a ricoprire altri aspetti altrettanto importanti che i
fedeli attribuivano alla dea, quali la rappresentazione della bellezza,
dell’amore e del desiderio sessuale che venivano esaltati e resi concreti
dall’esercizio della ierodulia, attuato dal corteo di giovani all’uopo preposte,
al fine non ultimo, di raccogliere offerte per la loro Signora.
Questa è la celebrazione che veniva officiata in onore di Afrodite, nel suo
aspetto di Pandemos, la protettrice dell’amore materiale, espresso anche attraverso i rapporti considerati volgari sia etero che omosessuali miranti alla
pura soddisfazione del piacere fisico, alla soddisfazione del primitivo impul so sessuale.
Il suo culto raggiungeva a volte eccessi di autentico fanatismo erotico.
Celebre è l’episodio che vide come oggetto la celebre Afrodite di Prassitele
(IV° secolo a.C.), la statua in candido marmo di starordinaria bellezza che
ritraeva la dea completamente nuda e che era venerata nel Santuario di
Cnido in Caria, andata distrutta, in seguito, da un incendio a Costantinopoli
dove era stata portata.
Tale era la sua avvenenza e tanto perfette erano le sue forme che di essa si
innamorò follemente un giovane della buona società. Non passava giorno
che egli non le facesse visita e non le sussurrasse estasiato dolci parole
d’amore. Più il tempo trascorreva più la sua devozione si manifestava in
modo psicotico. L’assurda passione aveva ormai lasciato il posto alla pura
demenza. Delirante ad ogni passo pronunciava appassionato il nome della
dea e lo scriveva in ogni dove. Era il primo ad arrivare al tempio e l’ultimo
ad uscirne, e sempre più con riluttanza.
Una sera, al calar del sole quando come d’uso il santuario veniva chiuso
egli decise di nascondersi all’interno e con la statua trascorse una notte di
folle amore. Nulla si seppe più del giovane innamorato; si pensa che per la
vergogna abbia cercato la morte precipitandosi giù da una rupe.
Le Devadasi indiane
Finalità educative, come si è accennato, avevano invece le raffigurazioni
erotiche presenti nei templi di Khajuraho, in India, dove meglio di altre rappresentavano l’esaltazione della gioia di vivere le dinamiche sculture delle
danzatrici che, isolate o allacciate languidamente, ritmavano con pose sensuali il suono dei timpani e dei flauti davanti agli occhi ammirati dei discenti
e dei fedeli.
Da sempre la figura delle danzatrici è associata alla prostituzione, e nel
periodo classico le Devadasi, le schiave del Dio, danzavano nei templi brahmanici e si prostituivano con i fedeli.
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Le prostitute sacre indiane non si sposavano mai, innalzavano inni agli dèi
e a loro devolvevano le oblazioni che accettavano dai fedeli, dai nobili e dai
principi in cambio dei loro servigi sessuali consumati in abitazioni prossime
ai templi.
La nudità dei loro corpi che oscillavano alla melodia cadenzata della musica non aveva niente di osceno.
Era lontano dai cuori semplici di quelle antiche popolazioni il concetto di
nudità vista come impudicizia. Al contrario in essa scorgevano i riflessi della
bellezza universale della natura e questa astrazione perpetuandosi nel
tempo la ritroviamo nelle figure delle Apsaras, le danzatrici celesti, le ninfe
che volteggiavano nude nelle immobilità delle selve.
Tale tradizione sopravvive in alcune danze propiziatorie che ancora oggi
vengono celebrate da alcune tribù indi. Come quelle della regione KochBihar, nell’Assam, dove nel corso della “danza della pioggia” alcune fanciulle ballano nude nella foresta al chiaro di luna.
Tempio di Baal (Palmira - Siria I° sec. d.C.)
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
La prostituzione profana
La prostituzione in Medioriente e nell’Egitto dei Faraoni
Accanto alla prostituzione sacra viveva e proliferava quella profana.
E’ azzardato affermare che la seconda abbia preso origine dalla prima,
perché le due coesistevano con tutta probabilità fin dai tempi protostorici,
ma è in dubbio che questa proliferò maggiormente dove quella era celebrata.
E della commistione tra sacro e profano vi è la testimonianza di un tempio
che sorgeva ad Abido in Asia Minore dedicato ad Afrodite Porne, Afrodite
la prostituta, attribuita da Ateneo (II°-III° sec.d.C.) a Pamfilo (23) (Libro XIII,
pag. 572).
Nelle città che erano luogo di culto delle dee dell’amore le due forme finivano per confluire l’una nell’altra o almeno vi era una stretta comunione tra
le due attestata dal fatto che molte volte le prostitute volgari devolvevano
parti del loro guadagno mercenario al tempio della dea per assicurarsi protezione e benevolenza e per rendere agli occhi dei governanti e del popolo la
loro professione più tollerabile.
Questo atteggiamento devozionale rappresenta un minimo comun denominatore che accumunò le prostitute in tutte le epoche e venne in parte tacitamente accolto da alcuni Padri della Chiesa e da molti prelati, fino ai nostri
giorni.
Emanuele Cortesi (L’Edicola del Sepolcro in <<Le Sette Chiese>>, anno I,
n°3, 1995-1996, pp.32-33) riferisce di un avvenimento annuale che riguardava le prostitute di Bologna e che si era mantenuto fino a non molte decine di
anni fa.
La mattina della Domenica di Pasqua all’alba si poteva assistere ad uno
strano corteo di donne che con il capo velato si indirizzava verso il complesso
basilicale di S.Stefano, detto delle Sette Chiese o la Nuova Gerusalemme in
Bologna. All’apertura del portale della Chiesa principale, queste figure si trascinavano in ginocchio fino alla Chieda del Santo Sepolcro (XI°-XII° secolo
d.C.), la seconda Chiesa che si apriva a sinistra e alla fine di quella d’ingresso.
Una volta entrate silenziosamente all’interno queste donne aprivano un
foglietto di carta e leggevano una preghiera che solamente loro conoscevano.
Erano le prostitute della città che come tante Maddalene facevano atto di
penitenza e di amore verso il Cristo che ra risorto.
Più frequentemente, però, le prostitute sfruttavano questi luoghi sacri per
contare su un maggiore afflusso di possibili clienti. Questa era almeno la certezza di Giovenale <<ché del resto in quale luogo sacro non ci sono donne a prosti tuirsi?>> (24) (Satira IX, 24).
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Comunque fosse, alle sacerdotesse-prostitute dei templi di Inanna e di
Isthar giungevano copiose offerte dalle colleghe profane sumeriche e babilonesi che contribuivano in tal modo ad incrementare fattivamente le ricchezze
di quei luoghi.
I templi di Afrodite a Corinto, a Cipro, ad Argo, a Cnido conobbero per
secoli una fama universale che richiamava fedeli sempre più numerosi da
Oriente e da Occidente proprio grazie alla presenza e all’attività delle meno
ossequiate prostitute vili.
Corinto era così celebre per le sue cortigiane che il verbo fornicare,
korinthiazesthai, aveva la sua radice nel nome della città e la città di Comona
nel Ponto sul mar Nero meno ricca di fama ma altrettanto dotata di prostitute con orgoglio si faceva chiamare <<la piccola Corinto>>.
D’altra parte le Istituzioni non avevano mai posto un qualche chiaro veto
all’esercizio della professione, anzi spesso il mercimonio era sollecitato perché, in quanto tenuto sotto stretto controllo fiscale, rappresentava una non
indifferente fonte di entrate per le scarne casse dell’erario.
La legge dello Stato era, a volte, opportunamente invadente e interveniva
nella sfera del privato anche per favorire i matrimoni. Lo dimostra l’usanza
che Erodoto definisce la più saggia in vigore presso i Babilonesi. Una volta
l’anno in ogni villaggio si conducevano nella piazza principale al cospetto
degli uomini le donne in età da marito e venivano vendute all’asta all’unico
scopo nuziale. (13) (Libro I, 196) Per prime venivano ovviamente esitate le
più avvenenti, acquistate dai più facoltosi babilonesi a cifre anche molto elevate, mentre le meno dotate di attrattive e quelle che soffrivano di qualche
difetto fisico venivano ricercate dagli uomini meno abbienti a modiche cifre.
In pratica il banditore poteva aggiudicare anche queste ultime giocando
sulla plus valenza di denari guadagnati dalle vendite delle più belle che in
definitiva contribuivano ad accasare le loro compagne più sfortunate.
Ma questa nobile iniziativa con la caduta in disgrazia di Babilonia e la
rovina economica dei suoi abitanti fu presa a pretesto da parte di alcuni
genitori poveri per prostituire le figlie.
Uno scotto a volte le prostitute lo dovevano pagare. Appartenendo ad una
categoria di donne socialmente emarginate dovevano essere facilmente riconoscibili e ben differenziabili da quelle oneste.
In Mesopotamia una legge Medio Assira ritrovata nella biblioteca del
potente re Tiglatpileser, ma considerata la copia di una ancor più antica,
forse datata dalla seconda metà alla fine del secondo millennio prima di
Cristo, proibiva alle prostitute di coprirsi la testa per poter essere facilmente
distinte dalle donne per bene che giravano per le strade velate (25).
Coloro che contravvenivano alla disposizione erano condannate a subire
la punizione di 50 vergate e il versamento sul capo di bitume, ma in cambio
potevano conservare i propri gioielli.
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Una pena altrettanto severa raggiungeva chi le vedeva con il velo e non le
denunciava: alle 50 vergate si assommavano la perdita dei vestiti e la foratura delle orecchie attraverso i cui fori veniva fatta passare una fune che era
legata dietro la testa (par. 40).
Il capo nudo rappresentava un contrassegno allora avvilente come l’obbligo per le meretrici romane di indossare in pubblico una tunica corta, o come
il nastrino rosso (aguillietto rougeon) che gli statuti di Giovanna I d’Angiò
(1326-1382) imponevano che le prostitute dei bordelli d’Avignone portassero
sulla spalla sinistra o come la lettera A scarlatta che le adultere, considerate a
tutti gli effetti delle sgualdrine, dovevano cucire in bella vista sui loro abiti
nella Nuova Inghilterra puritana secentesca.
O come la vergognosa “bassa di passaggio”, che ancora accompagnava nel
nostro civile Paese le “Signorine” 42 anni fa, fino a quel memorabile 20
Settembre 1958 che segnò la chiusura definitiva nel nostro paese delle “case
chiuse” in applicazione alla legge Merlin.
“ La bassa” era una sorta di documento d’identità in triplice copia, una per
la casa da cui usciva, la seconda per quella di nuova destinazione e la terza
per la Questura che veniva imposto alla prostituita di portare sempre con sé
nelle sue peregrinazioni da un bordello ad un altro, di città in città dove il
tenutario li aveva dislocati. Una forma neanche tanto subdola di schedatura
delle donne di vita.
Continuamente, quindi, questa popolazione femminile o almeno una parte
di essa, quella considerata infima, è stata oggetto di una sistematica ghettizzazione e costante è stata la sua esclusione da qualsiasi attività sociale.
Tuttavia, in Mesopotamia alcune normative di legge garantivano a queste
donne e ai loro figli una qualche protezione di carattere civile. (25)
Il Codice Lipit-Eshtar, il re sumerico che regnò su Ur all’inizio del secondo
millennio prima di Cristo, imponeva ad un uomo, che non aveva avuto figli
legittimi dalla propria moglie, ma li aveva generati da una prostituta, di
provvedere al mantenimento di questa con orzo, olio e lana, anche se le era
negato il diritto di convivenza nella casa e di considerare i figli avuti come
suoi eredi (par. 32).
Un altro articolo dello stesso codice (par. 35) pur ribadendo il divieto di un
uomo di sposare la prostituta gli concede la facoltà di convivenza dopo aver
ripudiato la moglie versandole un indennizzo in denaro.
Alcuni ordinamenti giuridici erano stati introdotti anche a tutela dell’integrità fisica della prostituta; uno di questi, Medio Assiro, condannava l’uomo
che aveva percosso la donna fino a procurarle un aborto a subire <<tanti
colpi da far compensare la vita con la vita>> (par. 52).
Le donne di malaffare erano reclutate tra le più disperate, tra le schiave o
tra le vedove che venendo meno la figura del marito erano state private del
quotidiano punto di riferimento economico che avevano riposto in lui.
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Proprio per scongiurare questo pericolo e per porre freno, quindi, al proliferare della prostituzione l’usanza ebraica, testimoniata da molti episodi
della Bibbia, imponeva ad una vedova senza prole la legge del levirato,
l’obbligo cioè di sposare, anche contro la sua volontà, il fratello minore del
marito e di considerare i loro figli come propri del marito defunto.
Ad una donna in gramaglie così come ad una divorziata rimanevano,
infatti, ben poche altre scelte: o tornare in seno alla propria famiglia se accettata o diventare una concubina se desiderata o andare ad accrescere la già
folta schiera di meretrici che battevano le strade adescando i viandanti o che
esercitavano al riparo e al sicuro in case più o meno chiuse delle città della
Palestina.
Ambiguo è l’atteggiamento degli antichi Ebrei nei riguardi della prostituzione (1).
Da una parte la legge mosaica facendo chiaro riferimento sia a quella femminile che a quella maschile la condannava senza mezzi termini << Tra le
figlie d’Israele, non ci sia nessuna prostituta né alcun prostituto. Non portare nella
casa del signore, Iddio tuo, il guadagno di una meretrice, né la mercede d’un prosti tuto…>> (Deuteronomio, 23, 18-19), vietava ai padri di prostituire le proprie
figlie <<Non profanare la tua figlia col prostituirla, così il paese non si darà alla
dissoluzione e non si riempirà di turpitudini>> (Levitico: 19,29) e catechizzava i
figli a non cadere in tentazione <<Figlio mio, sta’ lontano da ogni fornicazio ne…>> ( Tobia: 4,12).
Il Signore per bocca di Ezechiele (16: 20-25) considera la conversione di
Gerusalemme all’idolatria del dio Moloc e le prostituzioni che accompagnavano il suo culto come la causa principale della sua caduta in mano ai
Babilonesi << Ti parevano poco le tue prostituzioni…su ogni piazza ti sei prepara ta una tenda di peccato, e ti sei costruita un alto luogo; all’inizio di ogni strada ti sei
edificata un luogo di peccato e hai disonorato la tua bellezza offrendoti a qualunque
passante e moltiplicando le tue fornicazioni>>.
E tanto grande è la collera di Dio verso le perversioni omosessuali e il
meretricio in cui vivevano Sodoma e Gomorra <<Il clamore che giunge a me da
Sodoma e Gomorra è grande e il loro peccato è gravissimo>> che non esita a
distruggerle con zolfo e fuoco (Genesi: 18,20).
Dall’altra parte a questa censura per l’esercizio della prostituzione non
corrispondeva un’adempienza assoluta. Il popolo d’Israele opponeva un
atteggiamento spesso conciliante e di indulgente accettazione nella pratica
della vita quotidiana.
Più volte la figura della meretrice è presa ad esempio per sottolineare che i
disegni imperscrutabili del Signore erano indirizzati a convertire alla sua
fede anche le persone più abbiette, se meritevoli di essere redente.
Così Giosuè mette a ferro e fuoco Gerico e tutta la sua popolazione, ma
salva la vita di Rahab, la prostituta, premiandola per aver nascosto i messi
che egli aveva mandato ad esplorare la città (Giosuè, 6,25).
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E non è forse vero che Dio comanda al profeta Osea di prendere in moglie
la prostituta Gomer al fine toglierla dal peccato e di segregarla in una casa
per esemplificare la Sua condotta verso il popolo d’Israele che lasciò fosse
deportato in esilio per allontanarlo dall’idolatria in cui era caduto, per avere
adorato gli idoli di legno, per essere caduto nella fornicazione e nell’adulterio? (Osea, 3,1-3).
E Cristo, suo Figlio in terra, fattosi uomo non intrattenne sovente rapporti
con le meretrici per insegnar loro la via della conversione? Non lo fece con
Fotina, la samaritana, non prese le difese dell’adultera, non liberò la
Maddalena dai suoi costumi dissoluti?
La condanna della prostituzione era, quindi, più formale che sostanziale,
un’attività comportamentale che seppur abominevole era più tollerata di
altre giudicate ancor più gravi perché contro natura come l’adulterio, la
pederastia, i rapporti bestiali e l’incesto, aborrite e condannate senza pietà.
Tali colpe perpetrate contro la famiglia e la comunità sono dettagliatamente codificate nel Levitico che rappresenta una delle più antiche raccolte di
regole delle abitudini e dei culti presenti presso i popoli in epoca protostorica (20, 9-17) <<Per chi commette adulterio con una donna maritata: l’uomo che
commette adulterio con la moglie del suo prossimo sarà messo a morte lui e la sua
complice>> <<Se un uomo giace con un altro uomo come si fa con una donna, tutti
e due hanno commesso una cosa abominevole: siano messi a morte: il loro sangue
ricada sopra di loro>> <<Chiunque si congiunge con una bestia, sia messo a morte;
anche la bestia si uccida>> <<Se uno prende in moglie tanto la figlia che la madre, è
incesto: siano bruciati lui e loro, affinché non ci sia tale incesto tra voi>>.
Nell’Egitto dei Faraoni la prostituzione era diffusamente esercitata e si è
visto con che disinvoltura perfino la figlia di Cheope, per rendere più grande
la fama del padre e per lasciare memoria di sé ai posteri, si prostituisse con
chiunque la pagasse profumatamente e la gratificasse di un modesto cadeau
aggiuntivo sotto forma di una pietra squadrata che doveva servirle per la
costruzione della propria piramide.
Vizio di Faraone quello di far prostituire le figlie per raggiungere i propri fini.
Lo stesso in cui indulgeva Ramesse III (1195-1163 a.C.) che estese il dominio egiziano sulla Mesopotamia, la Libia e la Nubia e che si oppose con successo all’invasione dei “Popoli del mare”.
Ci racconta Erodoto (13) (Libro II, 1231) che non sapendo più come fare
per stipare le ricchezze che sempre più copiose affluivano nelle sue casse
fece costruire ad un architetto una camera di pietra con una parete confinante con l’esterno della reggia.
Il costruttore astuto e previdente fece in modo che una delle grosse pietre
formanti questo muro perimetrale fosse facilmente estraibile dall’esterno e
del segreto fece partecipe i due figli quando fu in punto di morte.
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Dopo la scomparsa del genitore i due non indugiarono più di tanto a sfruttare ciò di cui erano venuti a conoscenza e col favore delle tenebre trafugarono parte del tesoro.
Il Faraone si accorse subito della perdita delle sue ricchezze, ma impotente
non sapeva chi incolpare essendo la porta della camera saldamente chiusa.
Incattivito sempre più dalla progressiva diminuzione del tesoro, opera dei
ripetuti saccheggi dei due furbastri, fece predisporre all’interno della camera
fra gli orci che contenevano le sue ricchezze delle trappole.
Che funzionarono molto bene, perché riuscirono a catturare uno dei due
fratelli che ancora una volta si era introdotto nella camera per rubare.
Vistosi perso questi prese la risoluzione di sacrificarsi per non condannare
anche il fratello e chiamatolo gli impose di recidergli la testa. In questo modo
il Faraone non sarebbe mai risalito ai ladri.
Il fratello ubbidì, Erodoto non ci dice se con angoscia o con sollievo, e
rimessa a posto la pietra se ne tornò a casa con il macabro fardello.
Grande fu la sorpresa del faraone quando scopri nella stanza del tesoro il
corpo decapitato del ladro e volendo scoprire a tutti i costi la sua identità
diede disposizioni affinché il corpo fosse esposto all’esterno del palazzo e
che due guardie lo sorvegliassero attentamente per arrestare chiunque
vedessero piangere o disperarsi.
Ancor più forte fu però il dolore della madre dello sventurato ladro che
minacciando di rivelare tutta la verità al Faraone impose al figlio superstite
di recuperare il corpo mutilato del fratello.
Ed egli, reso ancor più ingegnoso dalla difficoltà, riuscì nell’impresa che
sembrava disperata ricorrendo ad un astuto stratagemma: fece ubriacare le
sentinelle con il vino che era contenuto in otri che finse di far cadere proprio
mentre passava davanti a loro.
Il sempre più sorpreso e adirato Faraone di fronte a questo nuovo smacco
patito non esitò, come ultima arma, a ricorrere all’utilizzo della propria figlia
che, a quanto pare, doveva tenere in non cale, cui impose di prostituirsi in
un bordello pubblico con qualsiasi avventore, giovane o vecchio, benestante
o squattrinato, alla condizione però di farsi raccontare prima di consumare il
rapporto l’azione più furba e scellerata compiuta.
Il ladro venuto a conoscenza della trappola tesa, invece di sfuggire la principessa, amante del rischio volle godere ugualmente delle sue grazie. Ma
astuto come era prima di recarsi al postribolo ormai avvezzo a recidere parti
del corpo umano, taglio il braccio ad un cadavere e nascostolo sotto l’ampio
mantello se lo portò macabramente con se all’appuntamento mercenario.
Sfruttando l’oscurità del luogo confidò con tutta tranquillità alla figlia del
Faraone la sua empia azione e mentre costei stava per afferrarlo le porse il
braccio monco del cadavere e fuggì velocemente lontano. Di fronte a questo
nuovo atto di astuzia e di coraggio del ladro Ramesse rimase attonito e data
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per persa la sfida, fece percorrere tutto il suo regno da messi che promettevano impunità e ricchezze al ladro se si fosse presentato a corte.
Gli dei egizi vegliavano probabilmente sul capo del furfante e, infatti, egli
credette alle promesse de Faraone e rimessosi al suo cospetto fu da questi
giudicato il più astuto e intelligente uomo della terra e in premio gli concesse
in sposa la figlia.
Considerata la disinvoltura con cui i Faraoni inducevano al meretricio le
figlie per le proprie mira, non deve meravigliare il fatto che essi promovessero a concubine alcune prostitute e non contenti in vita di tenersele a corte le
portassero con se nella tomba effigiate in statuette di “faience” o di argilla.
Un certo numero di queste risalenti al nuovo regno che le riproducono con
il corpo completamente nudo che mette in mostra le attrattive per cui erano
in vita apprezzate fanno bella mostra di sé in una grande bacheca del museo
egizio di Torino e attirano la curiosità dei turisti in sosta davanti.
Concubine senz’altro più fortunate delle colleghe maya che hanno accompagnato vive nel lungo viaggio nell’al di là il loro re Pakal, grande signore di
Palenque in Messico (VIII° secolo d.C.). Nella sua tomba scoperta nel 1953,
appena superata la porta in muratura che accedeva alla stanza del sarcofago
sono stati, infatti, rinvenuti alcuni scheletri femminili riferibili per mancanza
di regalità degli accessori trovati non certamente né alla prima né alla seconda moglie, ma con tutta probabilità alle sue concubine costrette a sacrificarsi
per stargli accanto.
Un costume diffuso nel mondo antico anche in Oriente dove secondo
Erodoto era in uso 2500 anni fa presso i Pazyryk, popolazione nomade di
ceppo mongolo dell’omonima valle dell’Asia centrale. I loro re venivano
interrati in sarcofagi di legno chiusi con grossi chiodi di rame insieme alle
armi, ai cavalli più amati e alle concubine.
Un cerimoniale pressoché simile accompagnava anche la sepoltura dei re
Sciti (I° millennio a.C.) celebrata presso i Gerri, là dove il fiume Boristene si
getta nel Mar Nero. Il cadavere regale era inumato in una tomba di terra, su
un giaciglio di foglie ai lati del quale venivano conficcate lance e che in
seguito veniva coperto con pezzi di legno ricoperti con stuoie. Nello spazio
rimanente della tomba venivano sepolti <<dopo averli strangolati, una delle
concubine, il coppiere, un cuoco, un palafreniere, un servo, un portatore di messag gi, dei cavalli, una scelta di tutti gli oggetti e coppe d’oro>> (13) (Libro IV, 71, 4).
La prostituzione nell’Atene classica. Le etère
Nell’Atene classica l’introduzione dei postriboli fu figlia dell’anelito
democratico che tutta la pervadeva. La prostituzione come democrazia piegata all’amore.
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Fu Solone (640-560 a.C.) in qualità di βασιλευσ, arconte basileo, a proporli
in modo istituzionale in quanto, compreso nella sua visione democratica che
tutto e tutti abbracciava, gli parve molto equo che le gioie del sesso fossero
accessibili a tutte le tasche e non solo a quelle dei più abbienti (23) (Libro
XIII). E, infatti, li rese accessibili anche agli schiavi e per primo eresse un
tempio ad Afrodite Volgare (Libro XI, pag.509).
D’altra parte lui i postribli li conosceva bene per avere frequentato durante
la giovinezza le sue ospiti ed essere passato, assecondando il suo spirito
assolutamente egualitario, dalle loro sensuali braccia a quelle non meno agognate dei ragazzi.
Alla donna libera di Atene era vietato prostituirsi. Non perché fosse un
soggetto giuridico particolarmente tutelato, anzi l’importanza di essere una
cittadina libera era in funzione unicamente della legittimità, sancita dalla
legge emanata da Pericle nel 450 a.C. e confermata anche in seguito, di conferire ai suoi figli maschi il diritto di cittadinanza con tutti i privilegi che ne
derivavano tramite l’iscrizione nella fratria e nel demo del marito se era cittadino (26).
La legge, infatti, vietava il matrimonio tra un cittadino ateniese e una straniera e viceversa, o meglio ne consentiva la convivenza a patto che fosse resa
pubblica.
In questo caso i figli nati dalla relazione non erano legittimati ad essere
investiti del diritto di cittadinanza e alla madre era interdetto officiare
importanti funzioni religiose, per le quali erano richieste oltre la cittadinanza, purezza e rettitudine morale, come le sacre Antesterie o piccole Eleusine
che si tenevano in Febbraio-Marzo e precedevano di sei mesi le più importanti grandi Eleusine. I piccoli misteri, celebrati in nome di Dioniso erano
presieduti, infatti, dalla moglie dell’arconte nelle cui mani prestavano giuramento le 14 sacerdotesse del culto.
A maggior ragione non godevano di alcun diritto civile le donne che si vendevano a scopo di lucro (il sostantivo pornèuesthai, prostituzione, trova la sua
radice etimologica nel corrispondente verbo che significa “vendere”) (26).
La classe più infima di prostitute esercitava nei πορνειοισ, pubblici postriboli, quelli fondati da Solone, la cui legalità era riconosciuta dallo Stato in
ragione della tassa che imponeva.
Esso vigilava assiduo e costante, fissava le tariffe, ispezionava le condizioni dei postriboli, recensiva le prostitute e ovviamente riscuoteva il proprio
balzello dagli esercenti tramite funzionari cui dava in appalto l’esattoria.
Queste donne, che appartenevano alle classi sociali più basse e non avevano dignità giuridica, seminude si offrivano a chiunque pagasse un misero
compenso.
Se un po’ più fortunate perché attraenti potevano fare un salto di qualità
ed entrare nella scuderia di tenutari e tenutarie (chiamate dai romani lenones
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e lenae) di pornoboskoi, case di prostituzione non statali dove si trovavavno
in compagnia di colleghe a volte molto giovani, tutte di loro proprietà.
Per lo più bambine appartenenti a famiglie indigenti che, abbandonate,
erano state da questi acquistate all’asta del mercato degli schiavi per essere
educate alla sottile arte della cortigianeria al fine di prostituirle, a volte fin
dalla più tenera età, per compensi che variavano a seconda della specialità
erotica esercitata.
Il lenocinio era un’attività non perseguibile dalla legge, a meno che non
avviasse alla prostituzione donne libere, e che spesso si tramandava di padre
in figlio, come confessa Battaro, il padrone di una casa di tolleranza nel
“Lenone”, uno di quei deliziosi mimi composti da Herodas, letterato nato a
Cos nel III° secolo a.C., per essere rappresentati sulla scena o solo letti per
diletto personale.
La trama del mimo è ambientata nell’aula di un tribunale e vede Battaro
intentar causa per lesioni e danni contro Talete, un ricco commerciante e
armatore, che in stato di ebbrezza era penetrato con la forza nel postribolo di
Battaro e dopo averlo malmenato aveva usato violenza a Mirtala, una delle
prostitute ospiti (27).
Nel corso della gustosa e grottesca requisitoria, lo sfortunato lenone
ammette di essere un cinedo e di discendere da una famiglia di lenoni <<…
mio nonno era Sisimbra e mio padre Sisimbrisco e tutti gestivano un postribolo>>.
I tenutari che non rientravano nello status di cittadini non sempre erano i
reali proprietari di questi luoghi di malaffare. Molto spesso erano semplicemente dei prestanome, uomini di paglia anche se tuttofare dietro i quali si
celavano i reali fruitori dei copiosi introiti, cittadini probi e insospettabili.
Non che per il cittadino di Atene, Corinto, Samo, fosse infamante gestire,
anche se indirettamente, case di piacere e arricchirsi attraverso il mercimonio, ma non poteva certo non badare alla forma con cui incassava dramme e
talenti.
<<Per una dramma Europa l’attica senza timore…non ti ricusa>>, <<Cinque
talenti paga per una volta quel tale alla tal’altra…io cinque dramme, non dodici a
Lysianassa…>>. Con questi versi Antipatro e Filodemo nelle loro poesie raccolte nell’Antologia Palatina ci danno un’idea di alcuni prezzi in vigore nei
postriboli greci. Pochi denari, tutto sommato in questi casi, da pochi oboli a 1
dramma, e c’è anche chi si vanta di aver ottenuto sconti di favore dalla bella
Lysianassa o addirittura una prestazione gratuita dalla tanto richiesta quanto costosa Stenelaide (28):
Quella Stenelaide che per la città tanta fiamma
suscita, e a caro prezzo cedesi a chi la vuole
nuda, per una notte, un sogno felice a me diede:
senza mercede alcuna, sino all’aurora io l’ebbi.
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Più non deprecherò la donna durissima, e in pianto
Non passerò le notti per un così bel sogno!
Così canta un poeta anonimo, vinto dall’immensa gratitudine per la splendida prostituta e c’è da chiedersi di quali attrattive egli doveva essere provvisto per muovere a commozione il cuore, solitamente duro, della donna al
punto da non doverle corrispondere alcun compenso. Ci doveva senz’altro
essere anche un accordo con il tenutario, poiché il dovuto andava quasi tutto
a lui e solo una piccola parte alla sua ospite.
Nello scacchiere urbanistico delle città i postriboli erano situati solitamente in posizione decentrata, vicino alle mura e nei porti dove esercitavano la
professione certamente le più smaliziate e opportuniste prostitute avvezze
come erano ad avere a che fare con ogni tipo di clientela, dai ricchi commercianti che approdavano con le loro imbarcazioni agli squattrinati marinai che
le governavano, dai borghesi benestanti in cerca di emozioni ai poveracci
desiderosi di calore umano anche se prezzolato.
Nella splendida Atene ellenistica erano diffusi un po’ dovunque, ma erano
particolarmente concentrati nel Ceramico, il vivace quartiere che si estendeva verso il demo di Colono, a nord dell’Acropoli, dove gli abili artigiani
lavoravano la creta per creare gli splendidi vasi in ceramica della cui raffinatezza ancora oggi possiamo godere, e nelle strette vie che conducevano al
Pireo, il più frequentato e malfamato porto dell’Attica
Come, insicuri e malfrequentati del resto erano tutti i porti, compresi quelli delle isole.
Lembion l’una, e l’altra Kercurion, le due meretrici
nel porto di Samo sempre stazionano.
Ma d’Afrodite le navi corsare fuggite voi tutti,
giovani, perché affonda chi sopra d’esse sale.
Chiara è l’esortazione del poeta Rufino (28) a fuggire queste due prostitute
che esercitavano nel porto di Samo perché talmente avide da prosciugare,
spietatamente, con le loro grazie le tasche dei clienti, riducendoli spesso in
miseria.
<< Non è per tutti un viaggio a Corinto>>. Mai detto popolare fu più indovinato di questo che sottolineava da un verso l’aspirazione somma, da parte di
coloro che desideravano provare i piaceri dell’alcova mercenaria, di recarsi
nella città più viziosa della Grecia e dall’altro la triste realtà con cui molti di
loro dovevano fare i conti, la penuria di denaro, quel denaro che comunque
non era mai sufficiente a placare la cupidigia delle prostitute e dei loro protettori.
In questa maniera ci vengono ancora descritte da Asclepiade, unito a
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Rufino dall’eleganza dei versi, ma soprattutto dalla stessa sanguigna passione per i postriboli.
Taide, Boidion, Eufrò, meretrici crudeli e rapaci
a venti rematori navi onerarie adatte,
Agi, Cleofonte, Antagora, spogliato hanno uno per una
e reso al tutto ignudi, proprio come naufraghi:
or con le vostre navi fuggite le navi pirate
d’Afrodite, in feste più di Sirene assai! (28)
Non mancano, comunque, esempi di una localizzazione di case di prostituzione pubbliche in prossimità delle terme o del teatro o delle vie principali
dove erano sempre ben identificati.
Spesse volte un’insegna fallomorfa dipinta o in bassorilievo faceva capolino sopra la porta d’ingresso o incisa sulla strada accompagnava passo passo
gli avventori al luogo di piacere.
Nell’antica città ionica di Efeso, nella parte asiatica della Turchia al turista
che con ammirazione ne visita le splendide e sontuose rovine le incisioni di
un cuore, di un piede e di un volto femminile sono ancora oggi ben visibili
sui lastroni della “via dei marmi” in prossimità del trivio con la via Arcadia,
l’arteria più importante che dall’antico porto conduceva all’Agorà inferiore e
al Teatro Grande, e la via dei Cureti su cui si affacciava lo splendido Tempio
di Adriano.
Tali indicazioni indirizzavano i marinai provati dai lunghi viaggi per il
mare, ma più che mai ansiosi di concedersi qualche ora d’amore, e tutti gli
altri frequentatori in modo inequivocabile alla “casa delle prostitute”. La
casa era costituita da piccole celle tutte uguali, quasi del tutto prive di arredamento e chiuse da una fragile porta in legno, in cui su un letto in pietra
reso più accogliente da coperte e cuscini venivano consumati i rapporti mercenari.
La prostituzione viveva e si sviluppava però anche al di fuori dei postriboli, per strada dove batteva la “porne”, la peripatetica, che agli angoli degli
incroci adescava i passanti cui forniva prestazioni estemporanee o li allettava
a passare ore indimenticabili nel letto non sempre comodo, ma comunque
caldo d’inverno, della sua dimora allo stesso prezzo delle prostitute da bordello. In questo caso il più delle volte si procacciava i clienti inviando solerti
e sveglie servette ad allettarli vicino alle bettole e alle mescite di vino e nei
vicoli stretti e bui dei porti.
Per una dramma Europa l’attica senza timore
prenditi d’alcuno, ch’ella non ti ricusa;
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ma t’offre letto mondissimo e t’offre brace d’inverno
contro il freddo. Invano, Zeus, ti mutasti in bove!
Allettante suona l’invito del poeta Antipatro (28) a ricercare le grazie
dell’attica Europa. Per la misera somma di una dramma non disdegnava
alcuno, anzi oltre il piacere offriva anche un giaciglio lindo e un ambiente
caldo incluso nel prezzo. Ironico il riferimento a Zeus che nelle sembianze di
un toro rapì una ben altra e più celebre Europa, la figlia di Agenore, re fenicio, che condotta a Creta generò Minosse.
Alla “porne” faceva concorrenza un nutrito gruppo di compiacenti fanciulle costituito dalle suonatrici di flauto, le aleutridi, e dalle danzatrici per godere delle cui grazie bisognava sborsare qualche dramma in più.
Reclutate per occasioni conviviali dai tenutari di postriboli o direttamente
“affittate” dai proprietari di circhi e di spettacoli di intrattenimento davano
alle feste quel tocco di sensualità e di erotismo che rientrava nella concezione
che i Greci avevano della vita finalizzata ad un appagamento sia intellettuale
che fisico.
Erano talmente vivi in essi il gusto estetico e l’armonia delle cose che la
gestualità sensuale del corpo pressoché nudo delle danzatrici al ritmo cadenzato della musica, la sintesi della bellezza fisica con la grazia delle movenze,
l’eleganza del movimento unita alla melodia strumentale portavano i convitati al raggiungimento di un piacere sommo.
Piacere che si completava attraverso la soddisfazione fisica del desiderio
sessuale operata dalle stesse artiste che si rendevano sempre disponibili a
protrarre la loro “performance” in incontri d’alcova a pagamento.
I tipi di prostituzione descritti erano ampiamente diffusi, molto richiesti,
ma erano considerati tutto sommato vili e non avevano niente a che fare con
la forma più elevata, quella della tradizione pre-ellenistica ed ellenistica
delle “hétairai”, le etère, cortigiane che si distinguevano dalle comuni “pornoi”
per la loro cultura e raffinatezza. E per il prezzo richiesto, che poteva arrivare anche a diverse mine, laddove una mina era l’equivalente di 100 dramme.
Tanto da portare il poeta Cillatore a questa mesta riflessione (28):
Dolce è coire, chi nega? Ma quanto ti costa denaro
esso diventa amaro più che non l’elleboro
Erano prostitute “scelte” della casa di piacere di proprietà di prosseneti e
mezzane. Esse univano alla grazia del loro corpo e al piacere sensuale che
da esso se ne poteva trarre una raffinata cultura e il conforto di un brillante
dialogare.
Indirizzate fin da piccole ad una vera e propria educazione sessuale, dovevano essere in grado di assoggettare e dominare completamente i loro pro-
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tettori, avvincerli con la sottile arte dell’amare ingelosendo, del compiacere
ma mai completamente, dell’offrirsi ma non totalmente.
La mezzana o il prosseneta investivano su di loro, garantendo una buona
cultura, abiti eleganti, gioielli e belletti che consentissero loro di ben figurare
nella buona società e di essere continuamente richieste a contro di prezzi esorbitanti pagati che rappresentavano per loro il rientro degli investimenti fatti.
Quasi tutti gli uomini più importanti e famosi, re, politici, filosofi, artisti,
poeti ne ricercavano, infatti, la compagnia mentre i militari erano usi portarsele spesso al seguito nelle campagne militari.
Con l’orgoglio di chi ne possedeva l’esclusiva le mostravano ai ricevimenti
e con vanto le interpellavano nei banchetti che appositamente per loro
approntavano anche con grande esborso di danaro. Ecco come Asclepiade ce
ne descrive uno dei tanti in cui il padrone di casa alterna stati d’animo di
concitata esaltazione per l’avvenimento a brusche arrabbiature con i servi
che disattendono i suoi ordini (28):
- Comprami una dozzina di granchi marini. Ubbidisci?
Cinque serti di rose prendimi. Cosa dici?
Come? Non hai denaro? Sono morto, e nessuno al martirio
pone questo Lapita? Ladro! Non servo sei.-Giusto non sei…- Per niente! Avanti coi fatti. Tu, Frine,
corri! Prendi i calcoli. Sei un volpone fino!- Cinque dramme il vino e due le salsicce…- Son sette,
a quanto pare!.- Due degli sgombri, e i favi…
- Bene, a domani i conti. Adesso da Escra tu andando,
l’unguentaria, prendi cinque fiale argentee.
Dille per segno: Nell’orgia baciato tu l’hai cinque volte
di seguito, e il tuo letto fece da testimone.
Le consideravano come loro accompagnatrici ufficiali al posto delle consorti legittime cui era negato uno spazio nella società galante e il cui unico
ruolo era relegato all’ambito famigliare, come custodi del focolare domestico
e fattrici di figli.
Antitesi paradossale di due categorie femminili ateniesi. L’una, l’etèra,
priva di diritti e schiava gode di una “libertà” che è preclusa all’altra, cittadina e libera ma segregata in casa.
E’ per questo che il comportamento in pubblico delle etère doveva essere
irreprensibile, mai eccessivo, mai spudorato o volgare.
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Ammaestramento delle etère
Con quale maestria Luciano di Samosata (120-? d.C.) nel godibilissimo
“Dialoghi delle cortigiane” che anticipa di 1400 anni gli altrettanto satirici e
beffardi “Ragionamenti” dell’Aretino ci rende partecipi dell’apprensione con
cui la madre di Filinna, la cortigiana amante del benestante Difilo, rimprovera la figlia di essersi comportata male la sera prima durante un
banchetto:<<Sei impazzita Filinna? O che t’è preso ieri al festino? All’alba m’è
arrivato Difilo in lacrime e m’ha detto come l’hai trattato: eri ubriaca e ti sei alzata e
messa a ballare lì in mezzo, benché lui cercasse d’impedirtelo; e dopo hai baciato,
Lampria il suo amico; e quando s’è mostrato in collera con te, l’hai lasciato per andar tene da Lampria ed abbracciarlo, mentre lui a queste cose si sentiva soffocare>>. Le
parole della madre che poteva contare su una più lunga militanza nel campo
e di conseguenza su una più smaliziata esperienza sono piene di riprovazione, non tanto per l’operato in sé della figlia, ma per le ripercussioni negative che esso poteva generare sul loro futuro: <<Non t’accorgi, figliola, che
siamo delle poverette, e non ti ricordi quanto abbiamo preso da lui, e che razza d’in verno avremmo passato l’anno scorso se Afrodite non ce l’avesse mandato?>> (29).
In questa frase è palesemente sintetizzata la filosofia di vita della cortigiana in quei tempi. Essa poteva essere “noleggiata” per un certo periodo di
tempo ad un protettore che sottoscrivendo un regolare contratto d’affittanza
contribuiva al suo mantenimento e a quello dei suoi famigliari. Durante questo periodo era la sua accompagnatrice ufficiale nei banchetti, nei ricevimenti pubblici dove veniva ostentata come una sua proprietà di cui lei doveva
rendergli conto in ogni momento. Non poteva tradirlo con un altro amante
poiché correva il rischio di essere chiamata in giudizio ed essere costretta
alla restituzione anche del doppio di quanto avuto e quindi essere condannata alla miseria.
Diffuso era anche il costume della “comproprietà” dell’etèra per cui due
amanti si suddividevano la spesa del mantenimento della donna e godevano
dei favori del suo corpo a giorni alterni o secondo accordi pattuiti.
Un vero e proprio galateo del modus operandi era, quindi, sotteso ai rapporti tra amante e amata e garante della correttezza dei comportamenti della
cortigiana sovrintendeva la mezzana i cui suggerimenti erano anche finalizzati ad insegnare come evitare gli inconvenienti del mestiere, le gravidanze
indesiderate, o a come liberarsene, perché queste avrebbero minato la redditizia fonte di guadagno.
Curiosa era la convinzione che ad escludere qualsiasi possibilità di gravidanza bisognasse espellere dalla vagina lo sperma subito dopo il rapporto, a
qualunque costo e in qualsivoglia maniera.
Per ciò la mezzana raccomandava alla sua protetta una tecnica a suo dire
infallibile, quella di scalciare ripetutamente le proprie natiche con i talloni
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per favorirne la completa fuoruscita. Espediente simile a quello riferito da
Lucrezio che affermava che la prostituta romana per non rimanere gravida
dimenava freneticamente le proprie anche, perchè: <<Allontanava di fatti il
solco dalla zona giusta, dal percorso / del vomere, deviando il getto del seme dai luo ghi propri>> (7) (Libro IV, v. 1265-1275).
E’ allora che fa la sua comparsa come anticoncezionale il profilattico in
forma abbastanza compiuta.
A dire il vero il ricorso al suo uso non era una novità assoluta per quei
tempi, in quanto già dapprima erano conosciuti e applicati accorgimenti
meccanici atti a prevenire i concepimenti.
Nel papiro medico di Ebers (783 ter, 1550 a.C.) sono riportate ricette utilizzate nell’antico Egitto all’uopo: impregnare un tampone vegetale con una
mistura di foglie d’acacia e datteri finemente triturati nel miele e introdurlo
in vagina.
Curioso precursore degli attuali ovuli vaginali, senz’altro da preferire a
quello suggerito da un frammento di un altro papiro medico, quello del
Ramesseum IV (1990-1785 a.C.) che si basava su un analogo tampone imbevuto di una micidiale soluzione di escrementi di coccodrillo e applicato
all’ingresso del meato vaginale.
Questi sistemi di contraccezione allo stesso tempo meccanici e chimici non
mancavano del tutto di una loro base scientifica.
Sono note, infatti, le proprietà acidificanti degli estratti di foglie d’acacia
che conseguono un’azione spermicida, così come i datteri e il miele possono
portare ad una parziale inibizione della motilità degli spermatozoi.
A tamponi simili questa volta di fine cotone, impregnati di sostanze acidule quali l’aceto o il succo di limone fecero ricorso le prostitute greche e
soprattutto quelle romane, le lupae (ma anche le più morigerate matronae) nei
secoli successivi.
Ricca è la documentazione che attesta come nei postriboli romani fosse
comunque molto diffuso tra queste meretrici l’uso dei profilattici costituiti
da budello di pecora, intestino cieco o vescica di maiale che venivano applicati a guisa di moderno diaframma.
La loro azione contraccettiva era resa più efficace dall’assunzione congiunta di “filtri” e pozioni a base di erbe vegetali quali il silphium, simile al finocchietto selvatico, ricordato da Plinio, il daucus carota sativus o carota selvatica,
il petroselinum sativum o prezzemolo che possono essere considerati come
primitivi sistemi abortivi.
Sovente esse ricorrevano a ricette mediche presenti negli “Aforismi” ippocratici che trattavano le malattie delle donne. La loro attenzione si soffermava su come favorire le mestruazioni applicando a livello dell’utero sostanze
odorose o come sciogliere il dubbio di essere incinte somministrando idromele prima di coricarsi (se seguivano coliche gastriche ciò era segno di sicu-
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ro stato gravidico). Ma, soprattutto, utilizzavano a proprio fine alcune citazioni che avvertivano come un abbondante salasso o una profusa diarrea
potessero indurre un possibile aborto.
Pratiche decisamente condannate dal pur licenzioso Ovidio (43 a.C.-18
d.C.) in due deliziose elegie dei suoi sensuali e fortunati “Amores”.
Apprensive sono le parole che il poeta di Sulmona indirizza alla sua
amante Corinna colpevole di essersi procurata un aborto: <<Poiché temeraria
ha cercato di rimuovere il peso del ventre gravido / Corinna giace sfinita in pericolo
di vita>> (Libro II, XIII), ma nel contempo severo è il biasimo <<Perché scava te le vostre viscere introducendovi armi / e somministrate funesti veleni a chi non è
ancora nato?>> (30) (Libro II, XIV) (T.d.a).
Si ricorreva a tutto per garantirsi l’appoggio economico di un protettore,
anche a misteriose pratiche terrene e a invocazioni divine.
Si faceva appello, extrema ratio, all’ausilio di fattucchiere tessali, famose
per la loro arte magica e per i filtri d’amore che preparavano in grado di
restituire l’amato crudele all’amata abbandonata, pozioni miracolose cui
disperata fa ricorso la prostituta Melitta per riavere nel letto Carino e nella
casa i suoi doni (29).
Sono sufficienti un paio dei suoi calzari che saranno appesi ad un chiodo e
fumigati dalla maga con zolfo e sale e l’evocazione dei nomi dei due amanti
nel corso di un incantesimo terrificante. E l’amato più mansueto che mai
ritornerà alla sua mantenuta.
Ma si pregava e si presentavano offerte anche alla naturale protettrice
degli amori terreni, Afrodite Pandemos, ai cui buoni auspici la cortigiana e la
mezzana dovevano la loro sorte e a Demetra dispensatrice di ricchezze.
Etère famose
La fama ci tramanda la vita leggendaria di alcune tra le più conosciute etère.
Di Frine (IV° secolo a.C.) che fu modella prediletta del raffinato scultore
attico Prassitele e del mitico pittore Apelle. Accusata di empietà per aver
dato vita ad un’associazione per il culto di una nuova divinità, si dice avrebbe estorto ai giudici un verdetto di completa assoluzione consigliando il suo
difensore Iperide di denudarle lo splendido corpo.
Nello studio di Apelle posava anche Laide altra mitica figura di etèra, compagna del filosofo Aristippo non a caso fondatore di una scuola di pensiero
che basava l’ideale di vita sul puro edonismo e per il quale il fine di ogni
desiderio non doveva essere altro che il raggiungimento del piacere e del
godimento.
E fedele al suo credo rispondeva faceto a chi sosteneva che Laide era solo
una cortigiana e non l’amava <<Non credo che il vino o il pesce siano innamorati
di me e tuttavia gusto l’uno e l’altro con piacere>> (31).
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Una seconda Laide, altrettanto desiderata, ma più sfortunata fu quella di
origine siciliana, figlia di Timandra.
Giunta in Grecia assurse ben presto a grande notorietà e fu amante ricercatissima da molti uomini illustri tra le cui schiere figura anche Demostene.
Abbandonata la carriera di cortigiana dopo esserne stata una regina fuggì
innamorata con Ippoloco, un giovane tessalico, e in Tessaglia la sorte canaglia la colpì nelle vesti delle donne di questa terra di streghe e di magia che
la massacrarono orrendamente dopo averla trascinata nel tempio di
Afrodite, invidiose della sua radiosa bellezza.
E’ da allora, da questa tragedia che il tempio viene chiamato di “Afrodite
Omicida”.
Senza dubbio più fausta fu la carriera dell’ateniese Taide, amata da
Alessandro Magno (356-323 a.C.), tanto grande quanto ambiguo nei gusti
sessuali che passava con ineffabile indifferenza dal suo letto a quello della
nobile moglie Statira, figlia di Dario III e da questo a quello meno principesco, ma più desiderato dell’amico del cuore Efestione.
L’attrazione che legava il re macedone alla cortigiana rinnovava quella
passata del padre Filippo II per la bella Filinna, che fu la causa non ultima
del ripudio della moglie Olimpiade, madre di Alessandro.
Donna questa volitiva e determinata che ben presto si vendicò inviando
sicari ad ucciderlo e resse per alcuni anni il regno per il figlio.
Tanto grande era l’influenza che Taide esercitava su Alessandro che ottenne da lui la distruzione di Persepoli, la favolosa città dei re di Persia fondata
da Dario I nel 518 a. C., cui essa partecipò personalmente appiccando il
fuoco per prima (330 a.C.).
Una sera al culmine delle libagioni e con la mente ormai ottenebrata dalla
crapula decise di vendicare gli affronti che la Grecia aveva subito nel passato
dai Persiani. Allora convinse Alessandro e un nutrito gruppo di dignitari e
ufficiali ad armarsi di funeste torce e li condusse, assatanati, su per le suntuose scalinate d’accesso all’apadana, la maestosa sala delle udienze dalle
colonne ornate con sfarzosi capitelli zoomorfi. A nulla valse questa volta la
presenza dei “diecimila immortali”, la guardia personale di Dario, che effigiati in mirabili bassorilievi all’esterno delle rampe d’accesso in pietra
vegliavano e proteggevano da due secoli lo splendido Palazzo. In men che
non si dica esso fu avvolto dalle fiamme e l’incendio si propagò agli altri
palazzi e tutta Persepoli, in breve, irremidiabilmente arse.
Alla morte che inaspettata e precoce raggiunse il grande conquistatore a
Babilonia a soli 33 anni, l’etèra passò in eredità ad uno dei suoi diadochi,
Tolomeo Sotere che si incoronò re d’Egitto nel 304 a.C.
La figura di questa cortigiana colpì tanto la fantasia popolare che altre prostitute vollero assumere, forse in modo immeritevole, come nome d’arte il
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suo e stimolò nel contempo l’estro di molti letterati che ne fecero un personaggio delle loro opere.
Nel primo breve dialogo dei “Dialoghi delle cortigiane” è proprio una
Taide che consola con una realistica constatazione sulla loro professione
dall’insicuro futuro la collega Glicera che era stata abbandonata dall’amico
Acarnano, la sua fonte di entrate, un giovane militare che le aveva preferito
le grazie di una rivale: <<La cosa è brutta, ma c’era da aspettarsela: fra noi corti giane usa così>> (29).
Con lo stesso nome si muove come personaggio principale nella brillante
commedia l’”Eunuchus” di Terenzio (185-159 a.C.) un’altra meretrice che
dispensa ingannevoli promesse d’amore agli sprovveduti avventori al fine di
lucrarne il denaro.
Ma fra tutte le etère che godettero di intramontabile gloria anche presso i
posteri e che cercarono in tutti i modi e mezzi di inserirsi nel mondo dorato
della privilegiata alta società dell’Atene classica nessuna riuscì ad eguagliare
le vette conseguite da Aspasia (V° secolo a.C.).
Figura di etèra entrata da tempo nell’immaginario maschile era originaria
di Mileto e visse ed esercitò ad Atene dove riuscì a frequentare la stretta cerchia delle più illustri personalità ateniesi del tempo.
Potè godere finanche della conoscenza se non dell’amicizia di Socrate che
confida a Menesseno di averla ascoltata in qualità di maestra di retorica recitare un epitaffio sui caduti di guerra ateniesi (32) e, capolavoro della sua vita
da prostituta, divenne l’amante del grande Pericle (495-429 a.C.).
Perdutamente innamorato della sua avvenenza il sommo stratega ateniese
abbandonò la moglie legittima e i figli per poterla sposare, in deroga alle
leggi da lui stesso emanate, in seconde nozze che furono coronate dalla
nascita di un figlio, Pericle il giovane.
Infelice progenie. Dapprima misconosciuto dalla società ateniese perché
nato comunque da una ex cortigiana, solo dopo la morte per peste dei figli
legittimi di Pericle gli furono riconosciuti i diritti di cittadino e raggiunse la
celebrità come stratega della flotta ateniese non tanto per la pur preziosa vittoria riportata nel 406 alle isole Arginuse contro le navi spartane di
Callicratida, quanto per la condanna a morte subita per non aver raccolto i
commilitoni ateniesi naufraghi nel corso della sanguinosa battaglia.
Gli avversari più agguerriti di Pericle non gli perdonarono mai il matrimonio con Aspasia, la prostituta, che aveva subito un processo per empietà,
adescamento e favoreggiamento e insinuarono sempre più che egli si lasciava da lei influenzare e condizionare nelle scelte politiche, quelle scelte che
contribuirono a portarlo a subire un processo e alla definitiva caduta in
disgrazia.
Come primo atto denunciarono i suoi fedeli amici Anassagora e Fidia contro cui vennero intentate cause e quindi colpirono direttamente lui accusan-
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dolo di aver voluto, influenzato da Aspasia, la guerra di Atene contro Samo
nel 441 e di aver promulgato il decreto contro Megara nel 432 con il quale la
escludeva dai mercati attici e dai porti della Grecia.
Vere o false che fossero le accuse, questi errori segnarono l’inizio della
guerra del Peloponneso e furono la causa nel 430 della sua disfatta politica.
Morì di peste l’anno seguente dopo aver avuto la soddisfazione di essere
stato richiamato al potere.
La bellezza di Aspasia fu così invidiata e la sua fama così universale che
Ciro il Giovane (423-401 a.C.) volle chiamare con lo stesso nome la sua favorita, Millo di Focea, splendida cortigiana la cui figura fece palpitare per anni
i cuori dei sovrani Achemenidi nel maestoso palazzo di Persepoli.
Il giovane principe persiano era rimasto avvinto dalla sua bellezza e dalla
sua riservatezza quando nel corso di un banchetto lei tra molte gli si negò.
Colpito da tanta personalità la volle come sua cortigiana prediletta e l’amo
di un amore sincero.
Ma la morte precoce che lo sorprese a Cunassa gliela portò via. Al comando di mercenari greci comandati da Senofonte stava lottando contro il fratello Artaserse II cui contendeva il trono. La disfatta fu terribile, Ciro venne
ucciso e i diecimila mercenari superstiti dovettero sottoporsi alla massacrante ritirata descritta in modo appassionato e struggente dallo stesso storico greco nell’”Anabasi”.
Aspasia fece parte del bottino di guerra e divenne la cortigiana del re che
la riempì di onori e doni e l’amo più delle altre centinaia di bellissime concubine che possedeva.
Era tanta la passione che legava Artaserse ad Aspasia che quando suo
figlio maggiore Dario la chiese per sé in ottemperanza all’usanza secondo la
quale l’erede al trono poteva chiedere qualsiasi tipo di dono al re regnante,
Artaserse non gliela concesse, ma lasciò libera la cortigiana di scegliere con
chi stare. Aspasia, forse non dimentica dell’uccisione di Ciro, scelse Dario e
questi la ricambiò tenedosela cara e nominandola, in seguito, sacerdotessa di
Anaitis, la dea iranica della fecondità e dell’amore che i Greci identificarono
in Afrodite. E forse per lui pregò quando egli venne messo a morte dal padre
per avergli congiurato contro.
Legato alle travagliate vicende politiche e militari di Atene fu un altro illustre generale ateniese, interprete di spicco della guerra peloponnesiaca,
Alcibiade (450-404 a.C). Seppur molto più giovane, a Pericle lo associano la
drammaticità della vita politica segnata da cadute e rinascite nella considerazione pubblica e una vita privata discutibile e discussa.
Da giovane insediò la virtù di Socrate e da uomo maturo convisse con
un’etèra, Teodota, famosa per la sue splendide forme, che per lui fu presa da
così forte passione da seguirlo nelle più avventurose spedizioni militari in
Frigia dove, come ultimo atto della sua devozione, si prese amorevole cura
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delle spoglie del suo amato fatto uccidere da Farnabazo alleato di Sparta
contro Atene (23) (Libro XIII, pag. 574).
Dell’acume di questa donna e del suo spirito ci parla anche Senofonte,
riportando un suo ironico dialogo con Socrate su come si possano accattivare
gli amici e conservarli facendo la propria fortuna (33).
La figura dell’etèra finora vista si era imposta per la sua giovinezza e per la
sua avvenenza. Se era riuscita a conquistarsi una posizione sociale di privilegio nella società e nel Palazzo e, a volte, perfino ad indirizzare le decisioni
politiche dei suoi amanti lo aveva potuto fare associando all’indubbia intelligenza di cui era provvista soprattutto la bellezza delle sue forme.
Ma vi furono cortigiane che si imposero e mantennero ruoli di prestigio
per anni anche se ormai sul punto di sfiorire grazie alla loro diplomazia, al
loro intuito, alla loro scaltrezza e alla loro esperienza nell’arte d’amare.
Come Lamia, favorita di Demetrio Poliorcete di Macedonia (336-283 a.C.),
figlio di Antigono Monoftalmo generale di Alessandro Magno, che nel 307 si
impadronì di Atene cacciando un suo omonimo Demetrio Falareo che la
governava con poteri assoluti e restaurando lo stato democratico.
Lamia aveva prestato la sua opera di cortigiana e di flautista già in Egitto,
alla corte di Tolomeo I ed era entrata a far parte del bottino di guerra che
Demetrio aveva acquisito dopo aver sconfitto Tolomeo a Salamina di Cipro
nel 306.
Demetrio era, tutto sommato, un buon democratico, ma per Plutarco
aveva un difetto; era troppo sensibile al fascino femminile, libertino e incline
al bagordo. Nella sua corte era circondato da splendide e famose cortigiane,
Demo, Criside, Anticira, ma più di tutte preferiva Lamia anche se ormai un
po’ avanti negli anni. Lei era riuscita a far presa su di lui grazie alla sua personalità e alla sua passionalità e questo aveva acceso d’invidia l’animo delle
concorrenti. Demo non si risparmiava di rammentare a Demetrio l’età della
sua preferita <<E’ vecchia o re>> e una volta che il re decantava i doni in frutta che Lamia gli faceva avere di continuo Demo rispose, caustica, che <<Di
più ti manderebbe mia madre se tu volessi andare a letto con lei>> (34) (27, 7-11).
A dispetto, però, di tutti tentativi messi in opera dai detrattori per metterla
in cattiva luce Lamia era sempre più nell’animo di Demetrio e nel suo letto.
Per lei era arrivato perfino all’eccesso di deliberare un provvedimento non
certo democratico. Ingiunse agli Ateniesi di raccogliere 250 talenti e ordinò
di donarli alla sua amante e alle sue cortigiane per il loro fabbisogno di belletti e unguenti (34) (27, 1).
Indubbiamente Lamia era dodata di sagacia e di una buona dose di spudorata sfacciataggine. Nel corso di uno dei tanti animati banchetti cui presiedeva, si era perfino permessa di confutare un giudizio che era stato emesso da
Bokenraf (Boccoris), faraone della XXIV dinastia, salito al trono nel 721 a.C.
A lui si era rivolto un uomo perdutamente innamorato della prostituta Tonide che non poteva possedere per l’elevato prezzo che costei gli richiedeva.
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Una notte egli sognò di congiungersi finalmente con lei e al mattino si
accorse che la passione gli era passata come d’incanto.
La prostituta, venuta a conoscenza del fatto, chiese all’uomo il pagamento
pattuito della prestazione perché l’appagamento era stato, comunque, conse guente alla consumazione del rapporto sessuale con lei, anche se avvenuto
in sogno.
Il saggio faraone, sentite le parti in causa, impose all’uomo di prendere un
vaso, di riempirlo di tante monete quante ne doveva alla prostituta e di portarlo in giro in modo che esso proiettasse la propria ombra verso la donna.
Questo era ciò che le si doveva.
Lamia confutò questo giudizio asserendo che non era un atto di equanime
giustizia. Infatti mentre il sogno aveva estinto la passione amorosa
dell’uomo, l’ombra del vaso pieno di monete non aveva sedato il desiderio
di Tonide di possedere il denaro (34) (27, 11-14).
Taide, Aspasia di Mileto, Aspasia di Focea, Teodota e Lamia rappresentano i rari esempi di cortigiane che riuscirono ad affrancarsi dalla loro professione e dai loro iniziali padroni.
Poche, infatti, riuscivano nel fiore della loro bellezza a liberarsi da questa
dipendenza in quanto dovevano soggiacere al pagamento come riscatto di
cifre molto elevate che difficilmente potevano avere risparmiato. Il benessere
che ostentavano era solo esteriore, la loro ricchezza solo apparente. Lo sfarzo
dei loro abiti, la sontuosità dei gioielli che spesse volte ricevevano in dono
dagli amanti erano il pegno che le teneva legate come schiave al loro prosseneta, cui andava la quasi totalità dei soldi versati dai clienti.
Partecipavano sì attivamente alla vita di società dei loro protettori e dei
loro amanti, ma ben poco rimaneva nei loro scrigni.
Quelle rare volte che un’etèra riusciva a riscattare la propria libertà la
sfruttava gestendo in modo autarchico l’unica fonte di guadagno che possedeva, il proprio corpo, prostituendosi in proprio magari riciclata in un’altra
città, ma nel contempo perseguiva quasi sempre un legame protettivo e stabile con qualche importante personaggio del luogo, ben consapevole che
senza di esso con lo sfiorire della bellezza la sorte la destinava a proporsi,
sfruttando l’esperienza di vita acquisita, ai passati amanti come mezzana di
più giovani e appetibili fanciulle.
Nessuna pietà vi era per il suo corpo ormai avvizzito, nesssuna considerazione era rivolta alla sua persona. Anzi a volte le veniva rinfacciata l’arroganza con cui aveva trattato coloro che non avevano potuto divenire i suoi
amanti o che lo erano diventati solo dopo molte suppliche (28, Macedonio):
Quella che un tempo, secondo è costume donnesco, i dorati
folleggiò scotendo crotali di lussuria,
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
della vecchiaia ora è doma e dai morbi inflessibili: lei
sfuggono quelli stessi che dopo lunghe preci
rano accolti un tempo: perduto ha quel viso di luna
piena: più nessuna congiunzione accade!
Dove è l’alterigia di Melissa, si chiede Rufino (28), dove è sprofondato il
suo incedere elegante, dove è il fascino del suo corpo tanto desiderato che
quasi sfacciatamente proponeva. Tutto si è vanificato perché questa è la
misera fine delle amanti:
Dove, Melissa, è andata quell’aurea bellezza
che adornava il tuo tanto famoso aspetto?
Dove le ciglia e i pensieri superbi e l’eretta cervice?
Dove quell’aureo lusso dei tuoi fastosi piedi?
Misera e solla hai la chioma, che trita ti scende al calcagno…
Questa è la fine delle splendide concubine!.
Un paradigma dell’abilità delle etère di guadagnarsi gradualmente un
posto sempre più elevato nella società lo ricaviamo dal discorso “Contro
Neera” attribuito a Demostene (384-322 a.C.) nel contesto della causa per
usurpazione dei diritti intentata da Teomnesto contro il cittadino ateniese
Stefano che conviveva more uxorio con la cortigiana Neera (26).
Questa era stata acquistata in tenera età da Nicarete, schiava affrancata e
mezzana, ed era stata avviata alla prostituzione. Agli ordini della donna che
si faceva passare per madre, Neera concedeva generosa il proprio corpo a
chiunque lo pagasse il giusto prezzo ed esercitando siffatta professione trascorse parte della giovinezza a Corinto dove divenne rinomata perché amante di poeti famosi e attori celebri.
In seguito Timanorida ed Eucate, due suoi amanti, la comprarono come
possesso comune in modo definitivo da Nicarete per 30 mine (3000 dramme)
giudicandolo un ottimo affare perché permetteva loro un forte risparmio
rispetto alle spese che dovevano sostenere quotidianamente per il mantenimento della casa e delle due donne.
Quando furono sul punto di accasarsi in modo legittimo i due, considerando indecoroso che si venisse a conoscenza che Neera era stata la loro mantenuta, facilitarono il suo affrancamento scontandole 1000 dramme delle 3000
che doveva loro versare per ottenere la libertà a patto che lasciasse per sempre Corinto.
Neera si fece prestare parte della cifra rimanente da Frinione, un cittadino
ateniese, e riuscì a compiere questo primo, ma decisivo passo in avanti nel
sociale: dalla completa schiavitù alla libertà che ora le permetteva di potersi
gestire a proprio piacimento senza sottostare ad alcuna direttiva e senza rendere conto a nessuno dei denari guadagnati.
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La prostituzione nelle società antiche
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Il suo ingresso nella società ateniese lo ottenne unendosi definitivamente
con un cittadino, Stefano, dopo essere fuggita precipitosamente dalla casa di
Frinione che in forza del prestito concessole l’aveva condotta con sé ad
Atene.
Ma nell’abbandonarlo Neera si era portata via tutto ciò che di valore
l’amante aveva, gioielli compresi, e si era rifugiata a Megara dove visse due
anni prostituendosi prima di incontrare Stefano che la riportò ad Atene.
Con lui visse facendosi passare per cittadina e quindi per moglie legittima
e facendo iscrivere come figli legittimi nei registri della fratria e nel demo del
compagno i tre che aveva avuto, invece, in precedenza, prima di conoscerlo.
Il vertice della sua scalata sociale lo raggiunse in modo clamoroso facendo
sposare la propria figlia Fanò, che aveva nel frattempo avviato alla prostituzione, dapprima con un ricco ateniese di nome Frastore che in seguito
l’aveva ripudiata per la sua condotta scandalosa e per essere venuto a conoscenza che non era cittadina in quanto nata da una straniera per di più ex
cortigiana, e poi addirittura con l’arconte-re di Atene Teogene che era stato
ingannato da Stefano.
Richiamato dall’Aeropago, il tribunale ateniese cui competevano i gravi
reati civili e penali, Teogene riuscì a dimostrare la propria buona fede e ripudiò Fanò.
Proprio per aver contravvenuto alle precise disposizioni di legge che vietavano di contrarre matrimonio con una straniera, per aver fatto passare
Neera per cittadina in qualità di moglie legittima, per aver favorito il matrimonio di Fanò con un cittadino ateniese facendola passare per propria figlia
legittima e quindi cittadina invece che per figlia di Neera e perciò straniera,
Stefano era stato chiamato in causa da Teomnesto che in aula si fece rappresentare dal celebre Apollodoro.
Tra la moglie legittima e l’etèra nella società ateniese occupava un posto
intermedio la figura della concubina (pallake) cui veniva attribuita una funzione più prossima allo status della prima, senza peraltro esserlo legalmente,
che a quello della seconda. Questo perché non sempre la concubina era una
prostituta che, ponendo fine alla propria attività, si era affrancata ed entrata
in modo definitivo nella casa del proprio amante aveva assunto la cura del
focolare domestico e dei figli, ma poteva essere anche una libera cittadina.
Rispetto alla moglie legittima la concubina veniva penalizzata nella legittimità dei figli nati da questo legame perché era loro precluso lo status di cittadini, salvo eccezioni straordinarie come quelle adottate per il figlio di
Aspasia e di Pericle.
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Roberto Pozzoli
Sparta ai tempi di Licurgo
Del tutto assente era, invece, la prostituzione nella Sparta antica, la storica
Lacedemone, sotto l’ordinamento legislativo di Licurgo (VIII° secolo a.C.).
Ciò era l’effetto delle leggi introdotte in città dal severo legislatore che ne
avevano tolto la necessità e la giustificazione (35) (Cap. 9).
Lo stato di rigida autarchia instaurato aveva colpito anche il denaro,
primo movens dell’avidità delle prostitute.
Licurgo aveva bandito ogni tipo di moneta d’oro e d’argento, imponendo
di battere solamente monete di ferro e aveva attribuito a queste un potere
d’acquisto basso rapportato al loro grande peso e alle loro grandi dimensioni. Svilimento del metallo associato ad un notevole ingombro, sia nel deposito che nel trasporto. Chi avrebbe mai desiderato accumulare un tale denaro,
oltretutto non accettato dagli altri Greci perché privo di valore? Il provvedimento aveva contribuito a rendere isolata Sparta e tutta la sua regione, la
Laconia. Nessuna nave attraccava ai suoi porti, nessuna mercanzia era
importata e al largo se ne stavano ladri, mezzane e prostitute private dei
motivi che alimentavano la loro professione, la ricchezza e il lusso.
Anche negli ordinamenti di Licurgo riguardanti l’educazione dei giovani e
l’istituto della famiglia va ricercata la mancanza di prostitute e di luoghi di
malaffare.
Per eliminare ogni forma di mollezza si impose alle donne spartane di fortificare il corpo gareggiando e partecipando nude a danze e canti, considerando la nudità un fatto naturale, per nulla indice di indecenza. Anzi consentiva ai maschi di apprezzare la fierezza e la bellezza di quei corpi incentivandoli al matrimonio. Ma solo a ventitre anni.
Licurgo, infatti, aveva in disprezzo i celibi e li combattè privandoli dei
diritti civili (atimia) e additandoli a pubblico disprezzo. La severità della pena
era tale che, nei mesi invernali, essi erano costretti a girare attorno all’agorà
nudi, cantando una canzone contro se stessi che sottolineava il giusto castigo
che stavano ricevendo per aver disubbedito alle leggi (35) (Cap. 15).
Le nozze, del resto, venivano consumate seguendo un antico rito, quello
del ratto della sposa che contribuiva a tenere desta la passione. La donna
veniva presa in consegna da una madrina che le rasava completamente la
testa e dopo averle fatto indossare un mantello e sandali da uomo la faceva
coricare su un pagliericcio, sola e al buio.
Solo allora lo sposo le si avvicinava e consumava il rapporto sessuale.
Dopo aver giaciuto con lei egli se ne andava a dormire con gli altri giovani
suoi coetanei, come era solito fare prima del matrimonio in ottemperanza
alle leggi.
E questo comportamento lo sposo lo teneva anche in seguito, per molto
tempo, limitando le sue visite alla sposa ed effettuandole di nascosto per
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La prostituzione nelle società antiche
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vergogna che qualcuno se ne accorgesse. Allo stesso modo la sposa escogitava continuamente stratagemmi per potersi incontrare con il suo sposo. In
tale maniera i coniugi non solo esercitavano lo spirito e il corpo ad un continuo autocontrollo, ma mantenevano il desiderio sempre pronto, unendosi
nel pieno della potenza fisica.
La maniera rigorosa con cui veniva concepito il matrimonio non concedeva, quindi, fantasia, spazio e tempo per la ricerca di amori mercenari.
A tutto cio si deve aggiungere che Licurgo, a maggior salvaguardia
dell’istituto, concesse a chi ne fosse stato degno la possibilità di avere figli e
mogli in comune.
Questa comunanza sessuale, derisa e vituperata dai nemici Ateniesi, consentiva ad un uomo anziano di riconoscere come proprio un figlio nato dalla
moglie che si era unita, dopo suo consenso, con un giovane nobile e vigoroso
di cui aveva stima e affetto.
E altrettanto permetteva ad un uomo probo che provava attrazione per
una donna onesta ammogliata con un altro e che si era dimostrata prolifica,
di fecondarla una volta ottenuto il consenso dal marito per avere figli buoni,
destinati a crescere come fratelli.
L’apparente permissivismo sessuale era in sintonia con le disposizioni
volute da Licurgo a proposito della gestione dei figli. Egli riteneva che questi
non fossero una proprietà privata del genitore, ma un bene comune della
città e, pertanto, dovevano essere gestiti dallo Stato e non dalla famiglia.
Il genitore portava il figlio in un luogo chiamato lèsche, dove i membri più
anziani della comunità lo esaminavano e, se ritenuto sano, lo facevano allevare e gli assegnavano un lotto di terreno.
Viceversa se risultava gracile a malato e pertanto inadatto alla vita militare
lo esponevano sul Taigeto, convinti che vivere non fosse di alcuna utilità, in
conformità alle leggi della natura, né per se stesso né per Sparta.
Da tutte queste legiferazioni, che rimasero vigenti per circa quattro secoli,
risalta che tanto lontane erano tenute la licenziosità e la depravazione da
ritenere del tutto inconcepibile ogni forma di adulterio e di prostituzione.
La comunanza sessuale non era un’istituzione sociale peculiare di Sparta,
ma era anzi molto diffusa nell’antichità. Presso alcuni popoli della Libia era,
addirittura, praticata una vera poliandria.
I Nasamani, popolo che si affacciava al golfo della Gran Sirte, erano soliti
avere ognuno molte donne in comune. Quando desideravano congiungersi
indicavano la prescelta piantandole davanti un bastone e quando un uomo
si sposava per la prima volta era costume che la sposa passasse la prima
notte unendosi con tutti gli invitati (13) (Libro IV, Cap. 172).
Le donne dei Gindani, tribù della Piccola Sirte, si vantavano dei molteplici
rapporti che potevano avere con i maschi. Ognuna di esse portava molti
bracciali di cuoio attorno alle caviglie, uno per ogni uomo con cui aveva
intrattenuto rapporti sessuali.
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Colei che ne mostrava di più era considerata la migliore (13) (Libro IV,
Cap. 176).
Ma il costume più originale era quello diffuso presso gli Ausei che vivevano nella palude Tritonide. Quando il bimbo avuta da una donna compiva tre
mesi, tutti gli uomini che con lei si erano uniti convenivano in uno dato
luogo e veniva considerato il padre l’uomo cui il bimbo maggiormente assomigliava (13) (Libro IV, Cap. 180).
Le meretrici romane e i lupanari
A Roma le schiere di prostitute venivano ingrossate anche dalle donne
libere, le più sfortunate e le meno avvenenti, quelle che non erano state in
grado di procacciarsi un marito e che pertanto erano oggetto di sberleffi e di
aggressioni da parte della gente nonché oppresse dalle stesse Istituzioni con
leggi penalizzanti e duri provvedimenti.
Uno di questi, la “Lex Julia de maritandis ordinibus” emanata da Augusto,
puniva lo stato nubile, il celibato e la mancanza di figli.
La legge, intervenendo direttamente nel privato e sul patrimonio individuale, imponeva ai cittadini liberi e ai liberti l’obbligatorietà di contrarre
matrimonio per gli uomini tra i 25 e i 60 anni e per le donne tra i 20 e i 50,
pena la perdita della possibilità di lasciare in eredità le proprie ricchezze.
In modo particolare si accaniva sulle donne imponendo loro il pagamento
di una tassa pari all’1% del valore dei propri beni se la disattendevano.
Questi provvedimenti rientravano nell’ottica dell’imperatore di attuare
un’efficace opera moralizzatrice, iniziata col tentativo di mettere un freno al
dilagare della prostituzione, soprattutto nell’Urbe e tradotta nella “Lex Julia
de adulteriis et stupro vel de pudicizia” del 18 a.C. Questa legge era estremamente severa e arrivava perfino a consentire al padre di uccidere la propria
figlia con l’amante se colta in fragrante adulterio e al marito tradito di uccidere il rivale, ma non la moglie.
Non deve destare meraviglia né la crudeltà della pena né l’identità degli
esecutori. Tutto ciò rientrava nell’antico concetto istituzionale del matrimonio latino che era essenzialmente di pertinenza della famiglia e recepito solo
da poche leggi dello Stato. Si configurava come un atto privato che veniva
redatto dai due contraenti con il quale il padre trasferiva la propria figlia al
futuro genero che l’accettava.
Era il padre che decideva la forma di questa cessione. Se essa doveva
avvenire col mantenimento, comunque, della potestà paterna sulla figlia o se
questa doveva passare sotto la “manus”, l’autorità, del marito.
Nel primo caso, che era largamente il più diffuso, la moglie rientrava
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ancora nell’ambito della famiglia paterna così come il suo patrimonio personale. Nel matrimonio con “manus”, invece, essa accettava la famiglia del
marito come propria e ne diventava un membro a tutti gli effetti, potendo
così vantare anche diritti sulla proprietà di questo.
La moglie romana pur godendo di una indubbia maggior libertà rispetto a
quella dell’Atene classica (poteva partecipare ai convivi, agli spettacoli) rivestiva, comunque, un ruolo civile importante soprattutto come madre di figli
legittimi poiché garantiva loro lo status di cittadini trasmesso dal padre.
L’emanazione delle norme augustee, pur conservando segni inequivocabili dell’antica tradizione, segna comunque una svolta decisiva nell’ambito
dell’istituzione matrimoniale e più in generale dei rapporti di coppia demandandoli ad una gestione pubblica che era giuridicamente controllata.
Perseguibile di adulterio non era solo la donna sposata che intratteneva
rapporti intimi con un uomo, ma anche l’uomo che si univa ad una donna
sposata (36).
Cardine attorno al quale si muoveva la condanna penale dell’adulterio era,
quindi, la donna sposata, perché attraverso la sua colpa veniva minato
l’onore del marito, il decoro della famiglia e la legittimità dei figli. Quanto
all’uomo era punita l’ingiuria che portava al marito della donna con cui
intratteneva relazioni sessuali, ma nulla gli si imputava, anche se sposato, se
si congiungeva con donne nubili.
Era accettato come naturale il diritto dell’uomo di godere di maggiori privilegi nella sfera sessuale rispetto alla donna e questi privilegi erano estesi
anche all’uomo sposato.
La legge promulgata da Augusto gli si ritorse contro, perché lo costrinse a
punire le scelleratezze e la licenziosità della figlia Giulia esiliandola prima a
Ventotene e poi a Reggio Calabria dove morì.
Quella figlia che egli non volle più nominare se non chiamandola, secondo
la testimonianza di Svetonio (70-140 d.C.) nella sua pettegola e un po’ parziale “De vita Caesarum”, in simbiosi coi nipoti M. Agrippa postumo e
Giulia <<I miei tre ascessi, i miei tre cancri>>.
Già in epoca repubblicana poco sopravviveva della prostituzione sacra che
veniva esercitata solo in pochi templi di influenza greca dedicati a Venere.
Essa fu quasi completamente assorbita da una prostituzione organizzata
che si praticava nei lupanaria aperti al pubblico e controllati dalle Istituzioni.
In età augustea non c’era rione di Roma che essi non avessero colonizzato.
Se ne contavano decine e decine tra grossi e piccoli, i più decentrati nei sobborghi plebei pregni di insulae, i casamenti in affitto a più piani, aperti a tutte
le tasche, per clienti facoltosi ed esigenti e per poveracci di bocca buona.
La maggior concentrazione era localizzata nella subura, la lunga strada
sempre in veglia che univa il Celio all’Esquilino, ricca di botteghe e ritrovi
malfamati garante di incontri furtivi e sotto le mura, nel summoenium, un
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quartieraccio decentrato, privo delle più elementari norme igieniche, stretto
e buio e pertanto altamente insicuro, abitato dalla feccia della popolazione,
poveracci senza lavoro o con un’attività saltuaria ai quali si offrivano le
meretrici più infime e più malsane che in angusti ambienti consumavano
rapidi amplessi su letti in muratura, quando ne erano provvisti.
Anche fuori Roma, nelle città dell’interno o che avevano un approdo verso
il mare, i lupanaria si aprivano in prossimità dell’incrocio di strade di secondaria importanza, vicino alle terme o nei quartieri suburbani dove erano
gestiti da un lenone.
Egli era obbligato per legge a “tenere a registro” l’organico delle sue prostitute, libro che veniva depositato presso gli aediles, i magistrati che vigilavano
sull’ordine della citta e a versare una “tassa d’esercizio” agli esattori statali.
Le ospiti che si rendevano accessibili al meretricio verso sera in applicazione alle normative erano le lupae o meretrices, donne di bassa estrazione sociale, schiave, straniere o vedove senza alcun sostegno economico che avevano
optato per questa forma di attività per campare.
Lupa ha un etimo strano, correla con la vorace femmina del lupo, quella
femmina che secondo la tradizione più benigna salvò dalle acque del Tevere
i gemelli Romolo e Remo, nati da Marte e da Rea Silvia e li allattò, ma indica
anche la comune prostituta, professione che secondo la versione più malevola del mito avrebbe esercitato la moglie del pastore Faustolo che li allevò fino
a farli diventare i fondatori di Roma.
Le meretrici dei lupanari non sempre piacenti, elargivano ore d’amore a
pagamento alla portata di qualsiasi tipo di borse, non solo di quelle sempre
ricche dei commercianti in cerca di divertimento e di un’eccitante avventura,
ma anche di quelle più scarne, quali quelle dei marinai, dei soldati e dei più
sventurati che nei loro amplessi dimenticavano per un istante la miseria e lo
stento con cui trascinavano la loro povera esistenza.
Il compenso di queste professioniste era esiguo; qualche asse, quanto
bastava per avere un piatto di ceci, niente a confronto con le centinaia e a
volte migliaia di sesterzi richiesti dalle più avvenenti e invidiate cortigiane.
Nessuna città come Pompei riesce ancor oggi a farci rivivere uno spaccato
così chiaro della vita sociale dei nostri antenati, dei loro gusti in fatto di
divertimenti e di donne.
Neanche l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. ha cancellato le testimonianze
del libertinaggio di cui andava famosa questa splendida città romana, al contrario le ha perpetuate ai nostri occhi con immutata vivacità attraverso la
loro ricca e curiosa iconografia.
E’ sufficiente visitare il lupanare di Africanus e Victor, quello meglio conservato dei 25 noti, così chiamato dal graffito dei nomi dei due esercenti rinvenuto su uno dei muri interni. Posto in posizione centrale, all’incrocio della
via omonima con il vicolo del balcone pensile, a testimonianza di quale noto-
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rietà e di quanta frequentazione godesse, ci fa avvertire le atmosfere licenziose del tempo dove l’edonismo regnava sovrano. Quasi che la vicinanza
della montagna di fuoco, il Vesuvio, portasse gli abitanti ad esaltare il piacere
della vita attraverso il gusto del sesso e a contrapporre, in un gioco estremo,
all’angosciante presenza della morte incombente il raggiungimento della
“piccola morte”, la sospensione momentanea del soffio vitale nel momento
orgasmico.
Il postribolo è strutturato su due piani comunicanti da una scala. Al pian
terreno abbastanza buio si accede per due entrate poste sulle due vie che si
intersecano e una volta entrati l’ambiente si presenta diviso in cinque celle
arredate con un letto e un cuscino in muratura. Dietro la latrina una scala in
legno porta al livello superiore dove altrettante stanze si aprono su un corridoio che sporge all’esterno dell’edificio come un lungo balcone pensile.
Locali avvolti nella penombra così tanto cara alle meretrici << Ma le mere trici non amano i testimoni, mettono la sbarra / alla porta, non si vede nelle case del
Summemmio / nemmeno una fessura…>> (16) (Libro I, XXXIV) dove è facile
immaginare che nelle celle seminascoste da una tenda in povera stoffa le
meretrici nude si rendessero disponibili con inviti lascivi ai clienti.
Promettevano loro prestazioni particolari che difficilmente avrebbero
dimenticato, le stesse che con dovizia di particolari sono ritratte esplicitamente dalle scene erotiche affrescate sopra gli stipiti delle porte delle celle e
cui fanno riferimento i graffiti scurrili incisi sulle pareti interne.
Queste iscrizioni ci informano dei diversi tipi di performance e dei relativi
prezzi. Niente di più facilmente comprensibile per i tanti clienti venuti da
luoghi tanto diversi e tanto lontani, un linguaggio universale che superava la
diversità degli idiomi parlati e l’incomprensione pretestuosa delle trattative.
Nomi d’arte adottati dalle prostitute o appositamente scelti per meglio sottolineare la propria specialità erotica, nomi dei loro esuberanti clienti con i
giudizi personali di compiacimento o di delusione sull’atto appena consumato, tariffario dei prezzi espressi in assi attirano la curiosità del turista che
con malcelata curiosità cerca di capire e testimoniano come la sessualità
fosse un corollario fondamentale della vita sociale del cittadino romano, libera da ogni pruderie conformistica, da ogni malizia e vissuta senza alcun senso
di colpa.
Molte prostitute, per evitare di versare al lenone il forte interesse sul guadagno dovutogli, esercitavano in proprio e camuffavano la loro vera professione proponendosi come gestrici di “thermopolium”, una specie di tavola
calda dove i passanti potevano trovare insieme a piatti caldi e a bevande a
base di vino mielato, birra e acqua un’ostessa disponibile a rallegrare ulteriormente il loro corpo per un modico sovrapprezzo.
In mancanza di una proprietaria godibile, questi locali diffusamente distribuiti nei diversi punti delle città (a Pompei per una popolazione di circa
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12000 cittadini liberi e 8000 schiavi se ne potevano contare un centinaio)
potevano dar ospitalità nel retrobottega, normalmente destinato a magazzino, o nel piano superiore alle blitidiae che adescavano gli avventori poco
abbienti e con poche esigenze.
Non era certo gratuita l’offerta dei proprietari delle taverne, ma il prezzo
richiesto per l’affitto di queste misere stanze che consentivano la consumazione di uno sbrigativo ed estemporaneo rapporto mercenario era solitamente basso.
Uno splendido esempio ci è offerto dal “termopholium” posto all’angolo del
crocevia tra il decumanus inferior e il cardo V ad Ercolano.
Un primo locale d’ingresso è occupato da un lungo bancone di mescita in
pietra dietro il quale una parete è gustosamente affrescata con le specialità
offerte dalla casa: un otre colmo di vino e un’effigie priapea con il fallo in
erezione.
Quindi cibi, bevande e prestazioni sessuali, che per modeste cifre, potevano essere godute nei due locali più umili posti sul retro e di lato al primo,
allettavano i clienti di passaggio o abituali.
Il t e r m o p h o l i u m rappresentava un luogo d’incontro e d’aggregazione
importante per il cittadino e ben l’avevano intuito gli scaltri politici di allora
che, dietro l’elargizione di qualche regalino, istruivano le servette compiacenti a fare propaganda in loro favore durante le campagne elettorali.
Nella taverna in via dell’Abbondanza a Pompei si può, infatti, leggere
l’esortazione di due cameriere tutto fare, Cuculla e Smirina, a votare per il
loro candidato preferito e indubbio generoso cliente, Caio Giulio Polibio.
I visitatori e gli abitanti erano continuo oggetto di tentativi di adescamento
da parte delle prostitute che a loro si proponevano sotto ogni forma. Anche
di bustuarie che operavano di notte nelle vicinanze dei cimiteri fuori dalle
mura delle città dove, invece, di giorno si prestavano sempre a pagamento
come prefiche a piangere e a lamentarsi per qualche caro estinto.
Erano del tutto assimilabili alle altre peripatetiche che, instancabili, con le
tenebre si offrivano sotto i portici ai passanti di ritorno dai festini o dalle
taverne (fornicare deriva proprio da fornix, arco).
Un gradino leggermente più in alto nella gerarchia delle prostitute occasionali era occupato dalle ambulaiae, termine di origine siriaca utilizzato da
Orazio in una sua satira per identificare le suonatrici di flauto che, già come
in Grecia, indulgevano più al letto che alla musica.
Una categoria di donne loro colleghe, ma oggetto di maggior considerazione e di più selezionata richiesta comprendeva attrici, cantanti e teatranti
in genere anche famose, come la celeberrima Novellia Primigenia ricordata
in un’iscrizione rinvenuta a Pompei nella necropoli in vicinanza dell’anfiteatro, che per essere coerenti con il ruolo effimero che recitavano non potevano
permettersi di essere più di tanto riluttanti ad accettare gli inviti a concedere
le loro grazie, e non sempre per lucro (17).
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Nel privato come nel pubblico in tutta Pompei si respirava un’aria di intrigante sensualità e di sereno erotismo, a volte reso ancor più leggero dall’ironica iconografia.
Nella casa del Centauro (I° sec. d.C.) è stata scoperta una piccola apertura
che metteva in comunicazione la parete dell’anticamera con quella di un
cubicolo, una confortevole alcova dove il padrone di casa era solito ritirarsi
per i prori approcci amorosi resa più eccitante dalle pitture di carattere erotico presenti sulle pareti.
Si è supposto che l’apertura, provvista di uno sportello, servisse per accogliere quadretti erotici, allora molto in voga tra i ricchi, che venivano mostrati agli amanti in modo estemporaneo e in successione manovrati da uno
schiavo nell’anticamera (37).
A queste tabulae pictae, unitamente a statuette illustranti atteggiamenti
chiaramente lascivi e ai libri dai versi considerati osceni di Elefantide, ricorreva l’imperatore Tiberio per ornare alcune camere del suo palazzo in modo
che egli stesso ed ognuno dei suoi compagni di crapula trovasse un modello
di posizione da riprodurre.
Esplicitamente erotiche sono anche le raffigurazioni scoperte nello spogliatoio, apoditeryum, delle Terme Suburbane in corrispondenza dei contenitori
porta abiti (37).
Ognuno di esso era contraddistinto da un numero (da I a XVI) e questo
numero era riportato sul verso di un gettone (spintria), che riproduceva sul
dritto le stesse scene erotiche dei porta abiti. Forse una contromarca che
doveva conservare chi entrava nelle terme e che doveva consegnare all’uscita per poter ritirare i propri indumenti.
Non c’è da meravigliarsi, comunque, che gli affreschi potessero avere
anche la funzione di stimolare ed eccitare considerato il fatto che sovente
incontri mercenari venivano consumati nelle prossimità delle terme e che
molti postriboli sorgevano volutamente li vicino.
Non a caso il lupanare di Africanus e Victor era collocato a poche decine
di metri dalle Terme Stabie.
Certo che i gettoni, in osso o in metallo, in quei tempi erano molto diffusi
anche se il loro significato a tutt’oggi non è ancora del tutto chiaro.
Alcuni erano utilizzati per gioco e riproducevano, spesso, volti di personaggi che si voleva mettere alla berlina. L’effigie di Cleopatra ne è un esempio. Caduta in disgrazia dopo il suo suicidio (30 a.C) che aveva segnato la
fine di Antonio e l’inizio dell’impero di Ottaviano Augusto, veniva in mille
modi dileggiata, non ultimo proprio con rappresentazioni ridicolmente oscene su gettoni e lucerne.
Altri gettoni riproducenti varie posizioni di copula furono distribuiti
munificamente al popolo da Domiziano per un suo trionfo come contromar-
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ca che dava diritto a prestazioni gratuite presso i postriboli. Ne parla Marziale in un suo Epigramma in lode all’imperatore: <<Nunc veniunt subitis la sciva nomismatica nimbis>> (Libro VIII, LXXVIII).
L’influenza greca sui costumi romani si faceva sentire in tutti i campi
anche in quelli meno nobili della prostituzione.
E così come in Grecia presso i Romani alla realtà vile e disperata di queste
prostitute da strada o da lupanare di basso profilo si contrapponeva il
mondo dorato, anche se non sempre facile e sicuro, delle cortigiane d’alto
bordo che come le etère greche erano corteggiate dai cittadini più abbienti,
dai nobili, dai ricchi commercianti, dai militari più prestigiosi che ne compravano il monopolio per poterle mostrare come un loro prezioso status sim bol agli amici e, soprattutto, ai nemici negli interminabili banchetti e nelle
feste più sfrenatamente edonistiche.
Erano donne eleganti queste cortigiane, vestite alla moda, con il corpo riccamente impreziosito dai gioielli regalati dai loro amanti, educate fin da giovani dalle loro madri, che come delle maitresses le coltivavano istruendole sui
comportamenti più opportuni e più scaltri da tenere per conquistare o per
mantenere un protettore, preferibilmente dotato di grandi possibilità economiche.
A volte erano state all’origine della loro professione delle comuni prostitute da bordello che grazie alla loro superiore bellezza erano riuscite eccezionalmente a riscattarsi pagandosi profumatamente la propria libertà o facendosela pagare da qualche protettore.
Rientravano così in possesso della propria persona solo in modo fittizio,
lasciavano i lupanari o la strada per diventare ossequiate cortigiane in belle
case nei quartieri alti di un solo uomo, merce esclusiva di un solo amante
che poteva gestirle a suo piacimento, godendosele o affittandole ad altri.
Finché gli garbava e conveniva le manteneva, poi le abbandonava costringendole a rincorrere di continuo altri protettori. Non era infrequente che per
mantenersi esse si affidassero, chiudendo un ciclo vizioso, all’”agenzia” di
qualche lenone o mammana che gestivano una vera e propria scuderia di
cortigiane per conto di cittadini di ambo i sessi apparentemente irreprensibili che lo consideravano un investimento poco rischioso che garantiva rendite
elevate e costanti nel tempo.
Così vantaggiosa era considerata la resa che l’imperatore Eliogabalo (204222 d.C.) svolgeva personalmente l’attività di lenone nella sua reggia (38)
(cap. XXX).
A differenza delle etère greche era, quindi, molto difficile per le prostitute
romane affrancarsi completamente. Essendo in massima parte straniere o
schiave, rare erano, infatti, quelle che nate libere sceglievano questa professione, rimanevano in qualche modo sempre legate a qualche padrone.
Come un indelebile marchio il loro stato servile seguiva il corpo che passa-
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va di proprietario in proprietario impedendo loro ogni possibilità di emancipazione poiché precludeva la possibilità di acquisire la cittadinanza romana.
In qualità di cortigiane potevano almeno permettersi il lusso di selezionare
a loro discrezione la clientela e di pretendere compensi più alti. Non più i
pochi assi per prestazione che nottetempo o nella penombra malsana del
lupanare il cliente allungava loro, ma un costante flusso di denari d’argento
che garantiva a loro e ai familiari un futuro più certo, alle mezzane e ai
padroni un utile stabile.
Trovava una sua logica giustificazione, quindi, l’assiduità con cui le ruffiane istruivano le loro giovani protette a sfruttare il più possibile la relazione,
spremendo e assillando gli amanti con continue richieste di gioielli e di
denaro.
Banditi i sentimenti, la cortigiana doveva privilegiare l’amante che più si
rendeva disponibile a far doni, prescindendo dalla sua avvenenza o dalla
sua età. Non erano questi i requisiti importanti che la donna doveva prendere in considerazione, ma le possibilità finanziarie; l’amore non paga la ricchezza sì.
Ecco perché queste figure di sordide istitutrici erano il bersaglio preferito
degli squattrinati, poeti in testa.
Ovidio (Amores, Libro I, VIII) con feroce acrimonia ne descrive una, vecchia con pochi capelli in testa, con gli occhi cisposi e semichiusi dall’ebbrezza del vino che non accortasi della presenza del poeta, nascosto volutamente
dietro una porta, offre consigli alla sua bella protetta (30):
<<Sai, mia luce, che ieri sei piaciuta ad un giovane ricco?
Si è arrestato ed è rimasto con gli occhi fissi sul tuo viso
E perché non dovresti piacere? La tua bellezza non è seconda a nessuna;
……………………………………………………………………………
E’ arrossita! Invero si confà il pudore ad un bianco volto:
se lo si simula giova, se è vero di solito nuoce.
Quando terrai con modestia gli occhi abbassati sul grembo
dovrai badare a quanto ciascuno porti.
……………………………………………………………………………
la bellezza, se respingi gli amanti, invecchia priva di esercizio.
E non hanno abbastanza effetto uno o due:
la preda è più sicura e non odiosa se fatta su molti,
piena rapina i lupi grigi fanno in un gregge.
Cosa ti regala il tuo poeta tranne nuovi
versi? Migliaia di monete riceverai dall’amante.
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……………………………………………………………………………
Esigi un modico prezzo, mentre tendi le reti,
perché non fuggano; presili, spellali a tuo piacere.
Un amore simulato non danneggia; lascia che si creda amato,
ma evita che questo amore non ti renda nulla.
Negati molte notti, fingi un dolore di testa,
un’altra volta Iside ti fornirà pretesti.
Poi ricevilo, affinché non contragga l’abitudine di sopportare,
e non venga meno un amore spesso rifiutato.
Sia sorda la tua porta a chi chiede, spalancata a chi dona:
l’amante accolto oda le parole dell’escluso;
…………………………………………………………………………...
E anzi i tuoi occhi imparino a lagrimare a comando, e l’uno
o l’altro sappiano rendere umide le tue guance;
e se ingannerai qualcuno non temere di spergiurare: Venere
rende a ciò compiacenti e sordi gli dei.
…………………………………………………………………………...
Anche la sorella e la madre e la nutrice taglieggino l’amante:
con molte mani si fa rapidamente bottino…>>
E via di seguito con altri illuminanti suggerimenti, su come rendere geloso
l’amante facendogli trovare tracce di un altro uomo nel letto e lividi di morsi
lascivi sul collo, su come, dopo avergli estorto tutto, farsi dare in prestito
ancora qualche cosa, che ben inteso, non verrà mai restituita.
Come non dare ragione al poeta se, quindi, alla fine maledice la laida strega
…Gli dei non ti concedano
mai nessun focolare, ti diano una miserabile vecchiaia.
E lunghi lunghi inverni e una perpetua sete.
Alla solerte opera delle prostitute fecero ricorso in molti e anche i più
morigerati nei costumi consigliavano ai giovani la loro frequentazione.
D’accordo con il saggio Catone il Censore (234-149 a.C.) che a coloro che
erano in preda agli irrefrenabili richiami dei sensi suggeriva il ricorso ai
lupanari, un male senz’altro minore di quello di indurre al tradimento le
mogli degli altri insidiandole con assidui corteggiamenti.
Oltre tutto comportava un rischio minore di quello giuridico dettato dalle
leggi sull’adulterio e di quello fisico che la galanteria con le matrone poteva
provocare da parte della gelosia dei mariti traditi, le cui ritorsioni sugli
amanti potevano avere esiti quantomeno tragici.
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Marito, l’amante infelice
di tua moglie hai sfigurato,
il naso e le due orecchie
con un colpo gli hai mozzato.
Queste erano le gravi lesioni che uno di questi sfortunati poteva subire
(16) (Libro II, LXXXIII) se non di peggiori ancora.
Come non preferire, per dirla come Orazio, al rischio di precipitarsi giù
dal tetto perché inseguito dal marito della bella matrona, di essere flagellato
a morte o, estrema e più insopportabile punizione, di vedersi recisi con il coltello i testicoli e il pene lascivo <<…parabilem amo venerem facilemque…>> il
comodo e facile rapporto carnale con le prostitute (15) (Libro I, II).
Sì, perché anche tra le severe matronae, tra le incontestabili signore della
domus, tra le apparentemente irreprensibili madri di famiglia, tra le donne
d'alto rango e perfino tra le imperatrici vi era chi indulgeva ai rapporti adulteri e clandestini, consumati tra le discrete pareti domestiche con i liberti, i
servi e a volte con amanti castrati per evitare ogni sorta di possibile inconveniente,
Perché la tua Celia voglia soltanto eunuchi, non sai capire,
o Pannico. La tua Celia vuole scopare, non partorire.
(16) (Libro VI, LXVII)
o, attratte dal piacere irrefrenabile dell’azzardo, al di fuori di esse a dispetto
del pericolo di incorrere nella grave denuncia per adulterio.
Lo testimonia Petronio Arbitro, arbiter elegantiorum, il riferimento in fatto
di eleganza e di bon ton di tutta la corte imperiale e dell’alta società romana
nella prima metà del I° secolo dopo Cristo.
Nel suo celeberrimo “Satyricon” mette in rilievo come certe signore romane che prediligono la libidine si eccitano solamente con la compagnia degli
schiavi o dei facchini mentre altre si infiammano di passione per un gladiatore, per un mulattiere impolverato o per un attore.
Di un simile trasporto era stata tutta presa la bellissima e ricca Circe che
invaghitasi del giovane Polieno, attraverso le astute lusinghe della sua ancella Criside ammaestrata all’uopo, cerca di averlo nel suo talamo per consumare tutta la sua brama erotica (39) (cap. CXXVI).
Mai nessun esempio di lussuria tramandatoci dalle cronache del tempo è,
comunque, paragonabile a quello offerto dal comportamento della dissoluta
Messalina, la terza moglie dell’imperatore Claudio.
Giovenale nella sua satira capolavoro, la sesta, con tutta la mordacia dei
suoi versi ne denuncia i vizi e ce la dipinge mentre <<… meretrix Augusta>>
augusta puttana, di notte col favore delle tenebre usciva dalla sua residenza
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preferendo al Palatino un letto da lupanare e frettolosamente percorreva le
insicure e strette vie della suburra di Roma per recarsi, nascondendo sotto
una parrucca bionda i suoi capelli neri, nei fetidi lupanari. Qui, assumendo il
nome d’arte di Licisca, denudava agli occhi dei più bruti avventori il suo
ventre che partorì il valoroso Britannico.
Patetico appare il comportamento dell’imperatrice quando già congedate
le prostitute dal lenone, triste per ultima chiude la propria stanza e ancora
tutta palpitante di voglia se ne va riportando nel letto augusto <<…lupana ris…odorem>> il lezzo del postribolo (24).
Claudio (10-54 d.C.) portò molta pazienza con la moglie, indubbiamente
affascinato dalla sua bellezza, ma non poté evitarle una miserevole fine,
quando su istigazione del suo consigliere Narciso, la fece uccidere a soli 23
anni, non tanto per averlo tradito con il pantomimo Mnestere, ma per aver
sposato davanti a testimoni e agli auguri il bel Caio Silio, appartenente al
fior fiore della nobiltà romana, sospettato del delitto di lesa maestà per aver
complottato contro di lui.
Per una donna che da imperatrice si abbassò a ruolo di meretrice, ce ne fu
un’altra che qualche secolo dopo percorse il camino inverso, elevandosi da
donna di piacere al rango di augusta: Teodora (500-548 d.C.) che si sedette
sul trono di Costantinopoli al fianco di Giustiniano. Era la secondogenita
delle tre figlie di un certo Acacio, guardiano di belve al circo, e fin da adolescente sentì prepotente il richiamo della lussuria seguendo i passi della
sorella maggiore Comitò divenuta una cortigiana molto apprezzata (40)
(cap. IX).
La accompagnava costantemente e fungendo da solerte aiutante portava
sulle sue spalle lo scranno dove la sorella maggiore si accomodava per consumare i suoi incontri mercenari.
Essendo ancora troppo giovane per accoppiarsi con gli uomini come
donna, si dava agli schiavi nei lupanari sottostando alle loro voglie alla guisa
di maschio passivo. Questa sua “specialità” ne determinò la fama che la
accompagnò per tutta la sua carriera di meretrice. Gli uomini la ricercavano
ancor più quando diventata adulta divenne prostituta a tutti gli effetti e fu
chiamata per la solerzia con cui accontentava i desideri più particolari e
ricercati dei suoi numerosissimi clienti “la truppa”.
Una volta in casa di un nobile salita su un tavolo si alzò le gonne e
mostrando tutta la sua splendente e sfruttata nudità si rammaricò di avere
solamente tre aperture naturali da poter utilizzare e rimpianse che i capezzoli dei suoi seni non fossero cosi pervi da formarne una quarta.
A teatro sotto gli occhi degli spettatori danzava lasciva e cingendo la vita e
il pube solamente con un sottile perizoma, indossato non per un rigurgito di
decenza, ma per non contravvenire alle leggi dello Stato che vietavano di
mostrarsi in pubblico con il corpo completamente nudo, si stendeva supina
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al suolo. Ad un suo ordine allora schiavi edotti le gettavano sul pube dei
chicchi d’orzo che oche ben ammaestrate beccavano provocandole gemiti
che portavano alla massima eccitazione il pubblico.
Ebbene questa donna che, secondo Procopio non conobbe limiti alla perversione sessuale, una volta imperatrice non solo fustigò con decreti l’omosessualità, ma fu tanto saggia e coraggiosa che salvò marito e impero da una
pericolosissima rivolta popolare, detta Nika dal grido “Vittoria” urlato dai
rivoltosi.
In quei tempi dell’Impero Costantinopoli era percorsa dai disordini delle
due fazioni sportive che si contrapponevano, i Verdi e gli Azzurri, così chiamati dai colori portati dei loro aurighi. Gradualmente la rivalità si estese al
campo politico e religioso e dalla capitale si diffuse all’esterno tanto che
buona parte dell’Impero fu coinvolto in una sorta di continua e luttuosa
guerra civile.
Il malcontento era contro l’imperatore accusato di vessare il popolo con
tasse inique e talmente odiato che quando entrava nell’ippodromo era accolto da un coro di “asino” gridato dalle due fazioni, una volta tanto d’accordo.
Ben presto l’aperto dissenso di trasformò in una vera e propria ribellione e
le strade della città furono percorse da una folla eccitata e tumultuosa che
urlante correva verso l’ippodromo dove Giustiniano presenziava ai giochi.
Atterrito e pavido l’imperatore cercò la salvezza con la fuga e senz’altro
avrebbe avuto la peggio se non fosse intervenuta Teodora che lo rincuorò e
con fermezza lo incitò a reagire.
Su suo suggerimento l’imperatore sedò gli animi concitati dei rivoltosi
promettendo un’amnistia e una riduzione delle tasse. Adunati tutti i sediziosi nello stadio manifestò però subito il suo vero disegno; chiamata, ancora
una volta su sollecitazione della moglie, la propria guardia li fece passare
tutti a fil di spada reprimendo così nel sangue la pericolosissima rivolta.
Teodora non fu la sola prostituta che riuscì ad indossare la corona imperiale. Tredici secoli prima la sua storia era già stata vissuta da un’altra celeberrima cortigiana, Semiramide (IX° secolo a.C.), che avuta per gioco in
mano la corona regale se la mise in testa per non togliersela più.
Era la concubina di uno schiavo del re assiro Nino che di lei si invaghì al
punto di concederle di governare, incontrastata, per un solo giorno su tutto e
su tutti.
Ingenua generosità d’amore, impulsiva follia dei sensi quella di Nino che
lo porto ad essere ricambiato con la sua cattura da parte delle guardie del
palazzo e con la sua messa a morte comandate dalla scaltra e irriconoscente
donna.
Semiramide divenne in questo modo la leggendaria regina che la storia ci
ha tramandato e, si dice, governò in seguito saggiamente sulla “mezza luna
fertile” abbellendo i palazzi di Babilonia con i celebri giardini pensili.
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Ci fu anche chi, come Caligola (12-41 d.C.) sfruttò la propria augusta autorevolezza per portarsi a Corte un lupanare, o meglio per crearselo a misura
dei propri gusti.
Svetonio ci rivela che Caligola non volendo trascurare alcuna specie di
traffico <<installò al Palatino un lupanare nel quale, separate le une dalle altre e
ammobiliate secondo la maestà di quella dimora, sostavano matrone e giovanotti nati
liberi. Dopo di che, mandò i suoi banditori a percorrere le piazze e le basiliche per
incitare alle sregolatezze giovani e vecchi; si elargivano ai visitatori prestiti usurai e
alcuni agenti annotavano pubblicamente i loro nomi perché essi contribuivano ad
aumentare le rendite dell’imperatore>> (41) (cap. XLI).
Originario a dir poco fu il comportamento di un altro discusso imperatore,
Eliogabalo che volle che a teatro le scene erotiche non fossero solo mimate,
come era uso fare normalmente, ma fossero rappresentate in tutta la loro
eccitante realtà.
Nei confronti delle meretrici fu molto prodigo e arrivò ad acquistarne
alcune dai lenoni per poi concedere loro la libertà.
La prostituzione era ampiamente diffusa non solo a Roma o nelle città italiche, ma in tutte le provincie, anche nelle più lontane.
La sua pratica seguiva i conquistatori e si imponeva ai costumi dei vinti,
laddove non esisteva già una tradizione locale.
Il turista che visita gli splendidi resti dell’antica città di Volubilis, nel 40
d.C designata da Caligola capoluogo della provincia romana della
Mauritania, pittorescamente incorniciata dal Medio Atlante e oggi dominata
dall’alto dalla città santa del mondo islamico, la bianca Moulay-Idriss, si può
imbattere in prossimità delle Terme nel suggestivo lupanare.
Per un attimo vive le atmosfere di quel luogo di piacere dove attorno ad
una grande vasca centrale racchiusa da otto grandi colonne lisce che ne supportavano la copertura, su un corridoio che la delimitava tutt’intorno si aprivano le porte delle cellae, le piccole stanze dove le lupae si intrattenevano con
i loro clienti.
E a rendere ancora più licenzioso l’ambiente, all’ingresso un grosso sedile
di pietra fornito di due posti a sedere giustapposti divisi da un altorilievo
fallomorfo ne sottolinea l’allusiva funzione di divertimento erotico allora in
voga tra i frequentatori del locale e le sue ospiti.
Roma di dimostrava benevola verso l’esercizio della prostituzione, ma
reclamava come detto il soldo dalle sue esercenti. Era uno Stato fiscalmente
ruffiano, che esigeva dai tenutari dei postriboli il versamento di una tassa
sugli introiti percepiti dalle loro protette, tutte regolarmente schedate a libro.
Lo scellerato Caligola, stando sempre a Svetonio, <<Fece raccogliere alcune
imposte in maniera assolutamente nuova: prima a mezzo di pubblicani, poi visto che
il guadagno era enorme, a mezzo dei centurioni e dei tribuni delle coorti pretorie,
dato che non vi era un solo genere di oggetto o di persona che non colpisse con qual che tassa.
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… le cortigiane quel che ciascuna di esse ritirava da una prestazione e all’articolo
della legge si aggiunse che questa imposta colpiva tanto le donne che esercitavano il
mestiere di cortigiana quanto i loro ruffiani…>> (41) (cap. XL).
Similmente lo Stato si comportava anche nelle provincie. Nel piatto deserto siriano (Badiyat ash-Sham) a ridosso delle montagne dall’ineguagliabile
colore viola sorge Palmira, la città di impareggiabile bellezza, già importante
centro religioso nel primo millennio a.C. che rivisse i suoi massimi splendori
nel II°-III° secolo d.C. quando cadde sotto l’influenza di Roma.
Nel corso degli scavi relativi agli insediamenti che risalgono al periodo del
regno della favolosa regina Zenobia (III° secolo d.C.), altra donna di leggendaria bellezza discendente da Cleopatra, venne scoperto un originale documento che testimoniava l’obbligo da parte di ogni prostituta di versare una
tassa annuale di 15 denari d’argento, pari a 150 assi.
Se si pensa che con 3 o 4 assi ci si poteva pagare un discreto pasto in una
taverna di medio livello l’esazione appare abbastanza onerosa.
Stante il dilagare del vizio qualche imperatore cercò, invano, di porvi un
freno con decreti di riforma dei costumi pubblici.
In aggiunta alla “Lex Juilia de adulteriis et stupro vel de pudicizia” augustea
un altro tentativo venne portato avanti paradossalmente dall’immorale
Tiberio (42 a.C.-37 d.C.).
Cercò di tamponare il vizio sempre più diffuso delle matronae di darsi alla
prostituzione istituendo una nuova carica, “l’intendenza dei piaceri” e ordinando che nei loro confronti in assenza di un accusatore pubblico, ad accusarle e a punirle fossero, seguendo l’antico costume, gli stessi loro parenti
dopo averlo deliberato collettivamente. (41) (cap. XXXV)
Ma la legge fu abilmente elusa dalle matrone disonorate alle quali, per non
incorrere nelle sanzioni penali, era sufficiente ammettere di rinunciare ai
diritti e alla dignità proprie del loro stato sociale e dichiararsi, a tutti gli
effetti, vere e proprie prostitute.
Solo all’imperatore Alessandro Severo (208-235) in un rigurgito di moralità sembrò indecente che lo Stato si arricchisse sul vizio e sul sesso comprato
e non permise più che fosse versato nell’erario sacro il denaro proveniente
dalle tasse pagate dalle meretrici, dai lenoni e dagli omosessuali destinandolo, invece, alle spese pubbliche per le opere di restauro del teatro, del circo,
dell’anfiteatro e dello stadio (38).
La prostituta nell’India antica
Per l’Induismo la sessualità da sempre ha rappresentato una parte imprescindibile dell’esperienza umana e ha rispecchiato l’esaltazione della vita e
della natura in tutte le loro manifestazioni.
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A tramandarci l’espressione visibile dell’energia vitale che veniva attribuita nell’India antica e medievale al maithuna, al rapporto sessuale anche di
tipo mercenario, nei candidi templi induisti e jainisti sopravvivono al tempo
le immagini erotiche scolpite nelle procaci forme delle ballerine che sensuali
danzano al suono di timpani e flauti e nelle palesi posture degli amanti o la
plasticità statica delle stesse figurazioni ritratte nelle miniature policrome.
Ma più di ogni altro documento a comprovare l’essenza pedagogico-spirituale oltre che squisitamente fisica sottesa alla relazione uomo-donna in
tutte le sue più intime e particolareggiate sfumature può essere invocato
quel capolavoro scritto da Mallanaga Vatsyayana nel III° secolo d.C., il
“Kamasutra”.
E’ sufficiente leggere gli intenti dell’autore <<Non è nelle mie intenzioni che
quest’opera venga usata solo come strumento per appagare i nostri desideri. Una
persona che conosca i veri principi di questa scienza e che rispetti i suoi Dharma,
Artha e Kama e che abbia sempre presenti le usanze del popolo, avrà sicuramente il
pieno controllo dei suoi istinti>> (42) per non incorrere nell’errore, in cui invece
è caduta la cultura occidentale, di considerare questo capolavoro della letteratura antica indiana semplicisticamente una licenziosa descrizione di posizioni erotiche, degna di essere annoverata tra la più scandalosa produzione
pornografica.
Il libro è, in realtà, un compendio sulla complessa arte d’amare, che tocca
tutti gli aspetti compresi, ovviamente, quelli intimi del rapporto di coppia, il
tutto nel rispetto del raggiungimento delle ricchezze (Artha) e dei beni spirituali (Dharma).
L’uomo che è dedito unicamente al piacere del corpo ha portato alla rovina non solo sé, ma amici e famiglia. E questo capitò anche ai re e agli dei.
Nel “Ramayana”, il lungo poema epico scritto da Valmiki nel V° secolo
a.C. che tratta delle avventure di Rama, uno degli avatara con cui Vishnu si
manifesta sulla terra, viene descritta la lotta tra il dio e Ravana.
Ravana, il re-demone dalle dieci teste e dalle venti braccia che governava
su Lanka (Ceylon) si era perdutamente invaghito della bella Sita, la moglie
del dio Rama, e il suo insano desiderio sessuale lo aveva portato a rapirla e a
condurla con sé sul suo carro dorato.
Terribile, come sempre lo è degli dèi, fu l’ira di Rama che decise di uccidere Ravana portandogli la guerra proprio nella sua isola.
Chiamò in aiuto il re delle scimmie che popolavano il Sud dell’India e
ottenne il suo appoggio che si concretizzò nell’invio di un esercito al comando di Hanuman, divinizzato in seguito a simbolo di eroe tutto coraggio e
fedeltà.
Tanta era l’abilità dell’esercito di scimmie che riuscì in breve tempo a
costruire un lungo ponte che collegò Lanka al continente consentendo così a
Rama di attraversarlo e di arrivare a contatto con le schiere dell’infido re.
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Lo scontro tra i due eserciti fu inevitabile e cruento. Ravana alla fine venne
ucciso, Sita resa libera e l’isola conquistata.
Purtroppo non sempre un grande valore si sposa ad una altrettanto grande umanità. E questo vale anche per gli dèi.
Rama è un dio, ma ha le debolezze di un uomo. Sospetta che Sita si sia concessa a Ravana, teme che abbia ceduto ai sensi e la sottopone all’atroce prova
del fuoco, il sati, l’usanza in vigore presso gli antichi indiani dell’autosacrificio delle vedove sul rogo.
Ma Agni, il dio del fuoco che consuma la vita è benigno, conosce l’infinita
virtù di Sita e la fa salva e così tra la felicità di tutti Rama la riaccoglie presso
di sé come moglie devota e fedele.
Anche gli dèi erano soggetti alla passione erotica che se fine a se stessa
non può portare che alla perdizione.
Indra, la più importante divinità vedica, il primitivo eroe che sconfisse il
male incarnato nel terribile demone-serpente Vritra arse anche lui di passione dissennata per la mortale Ahalya, moglie del brahamana Gautama e la
sedusse con l’inganno.
Alla stregua di Zeus che sfruttando i propri poteri divini si trasformò in
Anfitrione per giacere con sua moglie Alcmena da cui poi nacque Eracle,
Indra assunse le sembianze di Gautama e ne concupì la splendida sposa.
La bramosia carnale era insita nella natura stessa del dio, allegoria della
furia e della forza che sconfisse i demoni, ma anche simbolo della virilità,
della forza sessuale e del piacere e pertanto incline alla lussuria più sfrenata.
La maledizione del brahamana che ne seguì fu però tremenda e colpì Indra
così duramente che i suoi genitali e tutto il resto del corpo furono coperti da
disgustose ulcere.
Un secondo mito vuole che il castigo si manifestasse sotto forma di centinaia di yoni, che gli ricoprirono tutto il corpo trasformati in un secondo
tempo in occhi (43).
Nel Kamasutra sono illustrate le strategie del corteggiamento, del matrimonio, le tattiche che una donna deve sapere mettere in opera per riconquistare un uomo perso, di come tenerselo stretto, di come l’uomo, a sua volta,
deve considerare il rapporto sessuale, a quali canoni deve attenersi per scegliere la donna che diverrà sua sposa, quali sono le caratteristiche fisiche di
una donna che la rendono la più adatta ad unirsi con lui, quali donne di altri
uomini è lecito che egli frequenti e concupisca e quali sono i diversi modi di
giacere per una felice e soddisfacente unione sessuale.
E non poteva certo essere esclusa da questa completa trattazione l’aspetto
mercenario del rapporto con la donna, la prostituzione, che nell’ultima parte
del libro l’autore prende in disamina unitamente ai diversi tipi di prostituta.
Il tutto nell’ottica che il felice appagamento dei sensi rientri nell’ottimazione della vita dell’uomo, sia parte fondamentale del conseguimento del suo
stato di serenità e di salute.
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Grande considerazione veniva attribuita alla Ganika, la cortigiana affine
all’etèra greca, che godeva di un’alta considerazione presso tutti gli uomini
che ne ricercavano la compagnia retribuita a caro prezzo.
Il suo credo era, infatti, semplice, comune a quello di tutte le altre cortigiane: star lontano dagli uomini in precarie condizioni economiche, dagli egoisti e dagli avari ed ambire, invece, la compagnia dei ricchi e degli agiati che
le potevano garantire ricchezze e denaro compiacendoli in ogni loro desiderio o accettare l’amicizia di persone che sarebbe stato pericoloso trascurare o
rifiutare.
Era sì una donna pubblica, ma la sua disponibilità era limitata ad uno o ad
una cerchia ristretta di amanti.
La sua figura, presente anche in antichi testi sanscriti, è quella di una
donna colta, con buone maniere edotta nell’arte di intrattenere i propri
amanti, un connubio di bellezza e spiritualità.
La sua maggior dote doveva però essere la conoscenza profonda delle
leggi del Kama Shastra, ossia della scienza di Kama il dio dell’Amore, del
godimento che dalla loro applicazione se ne poteva trarre.
Le venivano richieste conoscenze intellettuali e materiali in ogni settore
della vita e del lavoro, anche se doveva in particolare conoscere le 64 arti che
in simbiosi con quella sublime del sapere fare all’amore (Kama Sutra) rappresentavano il suo ricco patrimonio, la sua ricchezza, il corredo culturale
indispensabile perché fosse sempre più richiesta.
Essa doveva eccellere non solo per le attitudini proprie della natura femminile come saper danzare, cantare, suonare almeno uno strumento, possedere la dote di decorare con i fiori, dipingere, saper preparare cibi raffinati e
bevande inebrianti, conoscere le lettere, interpretare il recondito significato
dei colori e delle pietre preziose, saper far uso di unguenti e profumi.
Ma doveva essere esperta anche nel tirar di spada, abile nei lavori di falegnameria, aver competenza nella lotta dei galli, essere introdotta nel mondo
misterioso della magia e della stregoneria, conoscere la chimica, eccellere
negli sport e essere professionale perfino nei lavori di miniera e di cava.
Le sue capacità toccavano, quindi, le arti più eterogenee e il suo sapere
doveva essere quasi enciclopedico. La cortigiana non poteva permettersi di
vivere unicamente facendo affidamento sulla propria bellezza, che sapeva
essere caduca, ma doveva sostenerla con altre qualità che venivano estimate
dai suoi amanti.
Era anche l’unico modo che le consentiva di accasare una figlia. Quando
questa entrava in età adolescenziale veniva dalla madre mostrata ai giovani
coetanei, a lei più affini per carattere e veniva data in moglie a colui che le
offriva doni di più congruo valore.
I vincoli che derivavano dal matrimonio e che la moglie doveva osservare
Caleidoscopio Letterario
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tra mito, culto e piacere
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erano della durata di un anno, trascorso il quale ella era libera di disporre
della propria persona, rendersi indipendente, legarsi come amante ad altri
uomini o convolare a nuove nozze.
Poteva trovarsi, quindi, altre fonti di guadagno, seguendo la carriera tracciata dalla madre, fonti che però era obbligata a trascurare quando era legittimamente avocata dal primo marito desideroso di passare una notte in sua
compagnia.
Costume ben originale il matrimonio in uso tra le cortigiane, un’unione
provvisoria a scadenza che le rendeva ancora più desiderate dagli uomini e
ancor più da questi arricchite.
E’ per ciò che dovevano essere a conoscenza di tutte quelle specialità atte a
soddisfare il proprio amante o a farne rinverdire il passato ardore sessuale.
Loro erano le depositarie dei segreti delle pozioni afrodisiache, degli espedienti naturali per innescare il desiderio sessuale.
Latte e zucchero in cui si è fatto bollire il testicolo di un ariete e di un
caprone; riso unito ad uova di passero il tutto fatto bollire nel latte cui si
aggiunge in seguito burro ottenuto dal latte di bufala e miele; miscuglio di
burro di latte di bufala, miele, zucchero e liquirizia in ugual quantità mescolato con succo di finocchio e latte. Queste sono alcune delle centinaia di ricette che raccolte nei Veda, garantiscono all’uomo il massimo della forza sessuale e il piacere di soddisfare un grande numero di donne.
La cortigiana non ha nulla da spartire con altri tipi di prostitute considerate più spregevoli presenti nella società indiana e che avevano nella mezzana,
nella comune prostituta che batteva le strade della città o nella Nayika che
attirava i clienti nei bagni pubblici le loro principali interpreti, donne con cui
gli uomini si univano unicamente per placare i propri ardori sessuali.
Le fila di queste prostitute erano formate da donne di bassissima estrazione sociale, appartenenti alla casta degli intoccabili, i fuori casta, lo strato
sociale più basso privo di qualsiasi diritto, relegato a svolgere solo attività
infamanti rifiutate dai componenti delle altre caste.
L’ordinamento delle caste, tuttora in vigore, è antichissimo ed è legato alla
tradizione religiosa del Brahmanesimo (IX° secolo a.C.) che voleva salvaguardare la purezza della razza degli Ary invasori dalla contaminazione con
le popolazioni locali.
Quattro sono le suddivisioni in cui veniva e viene distinto, anche se non in
modo così severo come una volta, il popolo indiano: Brahmani (sacerdoti),
Koshatriya (guerrieri), Vaisya (commercianti e agricoltori), Sudra (manovali).
Al di fuori di queste quattro caste sono posti i Paria, i fuoricasta discendenti
da matrimoni misti tra appartenenti a caste diverse (severamente interdetti e
che disonorano i discendenti all’infinito) che esercitano i lavori più degradanti, gli intoccabili che conciavano le pelli, che maneggiano le carcasse e il
cuoio degli animali, che rovistano nei rifiuti.
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tra mito, culto e piacere
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A volte tra le prostitute affluivano anche donne le cui origini erano più
elevate, addirittura appartenenti a famiglie nobili che erano state bandite
dalla propria casta e che non avevano altra fonte di sostentamento che il prostituirsi.
Era il caso delle mogli che si rifiutavano di assoggettarsi al crudele rito del
sati che le regole della famiglia imponevano.
La morte del marito in guerra era accompagnata dall’usanza dell’immolazione della moglie sullo stesso rogo. Un eroico gesto compiuto anche per
sfuggire se stesse e le proprie figlie alle angherie e alle violenze inevitabili
dei vincitori: meglio morte che schiave. Era un atto che rivendicava l’antico
senso della libertà e l’orgoglio della donna indiana che era onorata e venerata dal proprio uomo in quanto fertile e sorgente di vita.
Era un gesto eroico che vide spesso nel passato il sacrificio di tutta una
comunità femminile unita disperatamente nel rito cumulativo del johar.
L’episodio più clamoroso accadde nel basso medioevo a Chittor la valorosa
capitale del Mewar nel Rajastan. All’inizio del 1300 il sultano di Delhi Alaudin
Khalji, viceré degli invasori Musulmani che provenienti dall’Asia centrale avevano iniziato ad occupare l’India Nord Occidentale alla fine del XII° secolo,
assalì Chittor con un esercito così potente che il sovrano Rattan Sinh e gli abitanti della città capirono di non avere alcuna speranza di resistere.
Pertanto preferirono sfidare in campo il nemico e combatterono fino
all’ultimo uomo mentre all’interno delle mura tutte le donne con in testa la
regina Padmini dopo aver indossato i loro migliori abiti e i loro gioielli più
splendenti attuarono il johar sacrificandosi su un’enorme pira perché i loro
uomini non dovessero preoccuparsi per il loro onore nel corso della battaglia.
Chittor venne sconfitta, ma l’animo orgoglioso di quelle genti permea
ancor oggi i resti della città dove all’ingresso un toccante bassorilievo riporta
in rosso le impronte delle mani di quelle valorose donne.
Il piano di parità su cui era posta la dignità dell’uomo e della donna verrà
con il passare dei secoli sempre meno e nell’India tardo medievale la donna
si vedrà assoggettata completamente all’imperio dell’uomo.
L’orribile rito del sati era stato esteso anche in tempo di pace e nelle vedove in cui era venuto meno l’ideale eroico della fedeltà ad oltranza al coniuge
non era infrequente il senso del rifiuto.
Al suicidio veniva preferita la libertà anche se pagata a caro prezzo con il
bando dalla famiglia e dalla casta e l’inevitabile indigenza cui si cercava di
porre rimedio mendicando per le strade o prostituendosi.
La religione induista così tollerante verso l’esercizio di altri culti lo era
molto meno verso i peccati delle proprie adultere. All’uomo tutto era permesso, anzi venivano sollecitate le relazioni extraconiugali che gli permettevano di coltivare la propria energia vitale esaltando la potenza virile.
Si è visto come nel Tantrismo, o meglio nelle forme estreme e più deviate
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di esso, egli ne ricercasse la più copiosa matrice praticando il maithuna proprio con la donna fuori casta, la dissoluta prostituta.
Ma alla donna che peccava, alla fedifraga niente era perdonato. La condanna arrivava inesorabile e rapida, la perdita di ogni diritto, la messa al
bando dalla propria comunità, la miseria e l’elemosina da un uomo a compenso di un rapporto occasionale.
Solo se le donne cadute in disgrazia perché reiette, bandite, separate dal
marito verranno a conoscenza delle arti del Kama Shastra e del Kamasutra,
afferma Vatsyayana, potranno provvedere a se stesse. Ma è bene, aggiunge,
che anche le figlie di un ministro o di un re le apprendano perché solo in
questo modo potranno diventare le favorite dei loro mariti e le prescelte
anche tra mille mogli.
La cortigiana cinese
I precetti erotici del Tantrismo si ritrovano in buona parte espressi nelle
dottrine taoiste cinesi derivate dal libro Tao-te-king o “Libro della via suprema e della sua virtù” attribuito al filosofo Lao-tzu (inizio VII° secolo a.C.) e
diffuse in seguito dai suoi due principali successori e discepoli, Lieh-tse (V°
secolo a.C.) e Chuang-tse (IV° secolo a.C.).
La filosofia taoista predicava di come l’uomo dovesse vivere in perfetta
simbiosi con il mondo naturale che lo circondava e in assoluta armonia con
la donna che era vista come fonte prima ed inesauribile di vita in quanto più
vicina alle forze primordiali della natura.
Egli doveva conservarsi puro nel corpo e nello spirito e ciò era conseguibile solo se si atteneva alle leggi naturali. Il suo agire doveva essere, pertanto,
improntato alla spontaneità propria del suo essere e conforme alle sue caratteristiche osservando le leggi del creato. In piena libertà di pensiero e d’azione, non costretto da leggi morali o sociali che ne avrebbero impedito la
schiettezza e forzato la volontà.
Per conseguenza il suo habitat doveva essere scelto lontano dalle nefaste
influenze umane, tra la verginità dei monti e la sua esistenza vissuta in una
dignitosa solitudine condotta in un ambiente incontaminato e benefico. (44)
Netta era la sua contrapposizione al Confucianesimo, l’altro grande sistema filosofico coevo che obbligava l’azione umana nei vincoli di norme etiche
ed istituzionali essendo il suo fine quello di educare la società degli uomini
attraverso le rigide leggi dello Stato, mentre il taoismo ne garantiva la libertà
personale e la purezza della mente.
La concezione taoista dell’esistenza umana rappresentava una pura speculazione filosofica che contrastava in parte con i concetti del cosiddetto taoismo non filosofico, cui non saranno estranei aspetti di medicina, di igiene, di
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astrologia, di alchimia e perfino di occultismo, che confluiranno più tardi nei
canoni di una religione organizzata.
Nel contesto del conseguimento di una salubrità fisica e di spirito attuato
ricorrendo anche ad applicazioni di fototerapia e aeroterapia e all’esecuzione
di esercizi yoga un richiamo chiaro veniva indirizzato all’attività sessuale e
aveva come oggetto l’energia coitale intesa come riflesso di quella più universale diffusa dagli astri e dalla natura vergine.
Come il Tantrismo in India così il Taoismo in Cina sviluppò un misticismo
sessuale che trovò concreta attuazione nella venerazione del corpo femminile quale sorgente inesauribile di energia capace di dar vigore di continuo a
quella presente nel seme maschile (yang).
Il nutrimento era ricavato dall’esercizio del coitus reservatus che permetteva all’uomo di suggere le forze attraverso gli umori vaginali (yin) che venivano secreti durante il coito senza disperdere le proprie.
Le forze energetiche yin e yang vengono ad identificarsi nei rispettivi principi sessuali; essi si complementano mutuamente in un ritmo circolatorio
perpetuo di incrementi e decrementi energetici che vede lo yang al suo minimo trasformarsi in yin e questi aumentare gradualmente di energia e cambiarsi in yang quando raggiunge il suo massimo.
Il Taoismo ripropone solo con una formulazione diversa lo stesso principio presente nel Tantrismo, che ogni aspetto sessuale contiene l’embrione
del suo opposto in un continuo trasfondersi dell’uno nell’altro, di yin in
yang, da forza passiva femminile in forza fertile maschile.
Pertanto l’uomo era sollecitato a ricercare con continuità l’unione carnale
con la donna o meglio con più donne diverse portandole il più possibile
all’orgasmo in modo da arricchirsi delle loro essenze vitali indispensabili a
garantirgli una vita la più lunga possibile e una riproduzione sana conseguente ad un coito completo, compiuto in un periodo preciso del ciclo femminile, nei primi giorni dopo le mestruazioni.
Era, perciò, bandita la monogamia ed era sconsigliata l’unione con donne
d’età superiore ai trent’anni o che avessero partorito o abortito in quanto
depauperate dall’ancestrale energia vitale. Similmente era deprecata ogni
forma di emissione di sperma non finalizzata all’atto riproduttivo e trovava
un’ovvia giustificazione la condanna della masturbazione e della fellatio
completa.
Che l’uomo abbia pure una o più mogli, ma persegua continuamente gli
accoppiamenti con altre donne, concubine o cortigiane. Che il suo Stelo di
Giada, il suo pene, si rinvigorisca sempre più ricercando continuamente e
assiduamente la Porta di Cinabro, la vulva, portandola all’orgasmo più volte.
Yang si unisca in un lungo e continuo abbraccio sessuale a yin, in modo da
suggere tutta la sua energia assorbendola e arricchendosene.
Risalta evidente la differente importanza che veniva attribuita all’orgasmo
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femminile rispetto a quello maschile, all’energia insita nel primo rispetto a
quella del secondo.
Yang ha una valenza senz’altro più nobile di yin in quanto più limitata
dalle leggi fisiologiche e pertanto non deve essere sprecata. Il liquido seminale è raro e prezioso e non deve essere disperso attraverso inutili eiaculazioni.
Il rapporto con la donna doveva soddisfare, quindi, due leggi: essere
lungo e durevole per stimolare la compagna ad avere più orgasmi che avrebbero consentito di nutrire yang e non doveva comprometterne la carica vitale
con un’emissione indebita.
Da qui la necessità durante l’accoppiamento di un autocontrollo da parte
dell’uomo, attuato attraverso discipline di respirazione e complicate manovre pressorie esercitate sui suoi genitali.
Solo in questo modo l’uomo sarebbe riuscito ad accumulare tanta energia
nel suo seme da consentirgli una sana e forte procreazione unendosi a sua
moglie (o alle sue mogli) con la quale doveva intrattenere rapporti esclusivamente a questo fine; per il resto le loro vite e i loro interessi correvano completamente autonomi.
Il Confucianesimo che era improntato su una maggior ortodossia morale e
comportamentale rispetto al Taoismo considerava la donna assolutamente
inferiore all’uomo a tal punto da vietare qualsiasi promiscuità e da impedire
qualsiasi contatto fisico tra marito e moglie al di fuori del talamo nuziale:
camere separate, armadi distinti, servitù diverse, pasti serviti in appartamenti logisticamente differenziati, divieto ti sfiorarsi anche con le sole mani.
Proprio su questi rigidi presupposti si basava l’antico protocollo d’accoppiamento del re con le donne del suo gineceo, costituito da una moglie-regina, 3 consorti, 9 spose di secondo rango, 27 di terzo rango e 81 concubine
(18) (cap.I, pg.42).
Un impegno sessuale non da poco che il re assolveva prima con le donne
di rango inferiore e solo alla fine, quando aveva acquisito tutta l’energia
fecondante necessaria, con la regina.
Per il divertimento c’erano le prostitute alle quali l’uomo si poteva rivolgere in modo del tutto disimpegnato e non esclusivamente per intrecciare rapporti erotici.
Già durante la seconda dinastia Tchow (VIII°-III° secolo a.C.) i re e i principi rivolgevano le loro attenzioni alle danzatrici e alle musiciste che si esibivano nei banchetti alla stessa stregua delle colleghe greche e romane e come
queste erano possesso privato di alcuni proprietari che le potevano cedere
vendendole ad altri o offrile in regalo. E come accadeva in Grecia con i re e i
generali anche in Cina qualche imperatore pensò bene di istituire dei corpi
di prostitute da campo che seguivano le sue armate nel corso delle frequentissime guerre. Erano prostitute private, gestite in lupanari da tenutari e
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manutengoli che le consideravano merce loro, affittabile a chicchessia a caro
prezzo.
Ma accanto a questa forma di esercizio a conduzione personale se ne
affiancò un’altra statale. Secondo Van Gulik una tradizione tarda sostiene
che i lupanari pubblici furono introdotti dallo Stato addirittura nel VII° secolo a.C. su consiglio del filosofo e statista Koan Yi-wou per risanare le casse
erariali (18) (cap.III, pg. 95 nota e altre).
Ancora una volta alla base del fiorire della prostituzione c’erano una
ragion di Stato e cause sociali. Una grave congiuntura economica aveva
messo in ginocchio la ricca borghesia costituita da commercianti che erano
soliti investire parte dei loro guadagni nell’affitto di artiste di danza e di
canto con cui indulgere ai piaceri del sesso ed essi si erano trovati in breve
nella condizione di non riuscire più a far fronte alle onerose richieste delle
loro protette.
Si venne così a creare un esubero di “professioniste”, dal futuro quanto
mai incerto, che andava ad assommarsi alle molte donne appartenenti a
famiglie contadine ormai impoverite che non potevano contare più sulla
possibilità di una loro sistemazione matrimoniale in quanto prive della
necessaria dote.
Il naturale sfogo per tutte queste disadattate veniva quindi ad essere il
mercimonio dove il prezzo delle prestazioni era calmierato dallo Stato.
Queste prostitute, a differenza di quelle occasionali da strada quasi sempre rozze e ignoranti, oltre a saper cantare e danzare erano edotte sui più
segreti misteri del sesso e possedevano le nozioni rudimentali del leggere e
dello scrivere e in breve tempo acquisirono la dignità delle cortigiane indiane e delle etère greche diventando in seguito, nell’alto medioevo (VII°-X°
secolo d.C.), una vera e propria istituzione sociale. Unite in una vera e propria corporazione daranno vita ad una pianificazione della loro attività, esercitandola in case d’amore gestite da tenutari organizzati che garantiranno
loro una protezione da parte delle Istituzioni, legittimata dalle imposte che
in ottemperanza alle leggi essi verseranno regolarmente e un certo benessere
finanziario, un loro riciclaggio in qualità di insegnanti la difficile arte del
proporsi e del vendersi all’interno della casa quando ormai anziane non
saranno più in grado di sfruttare il proprio corpo.
Alcune case d’appuntamento erano chiamate con nomi suadenti, la <<casa
delle giovani cantanti>>, le <<dimore verdi>> o le <<case da tè>> e accoglievano le prostitute più colte, le cortigiane, la cui frequentazione rappresentava un aspetto del sociale dove la componente sessuale non sempre era
preminente. Venivano ricercate dagli avventori più abbienti, commercianti,
nobili e militari che venivano accolti in ambienti confortevoli, puliti, ben
arredati (18) (cap. III), (45).
Esse vivevano riunite in questi bordelli localizzati in quartieri ben definiti
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delle città, di cui si hanno documentazioni certe che risalgono al II° secolo
a.C., distinte in diverse categorie.
Anche in Cina quello di divenire cortigiana era spesso il solo mezzo che
una donna aveva di acquisire uno stato sociale più elevato; di diventare una
concubina e come tale di essere accolta dal proprio protettore sotto il suo
tetto, accanto alla moglie ufficiale e alle altre di ordine inferiore o addirittura
di arrivare ad essere una delle sue mogli.
Ma le cortigiane sia pubbliche che private costavano molto e non tutti se le
potevano permettere. La differenza di classe governa da sempre anche il
mondo della prostituzione. I meno abbienti potevano ripiegare sulle osterie
che, al conforto di un piatto caldo e di un buon bicchiere di vino o di liquore
di riso, univano il piacere della compagnia delle cameriere che non disdegnavano di arrotondare la loro paga concedendo il proprio corpo in apposite
camere annesse.
Erano, comunque, questi locali dignitosissimi, anche se non paragonabili
alle case da tè, ma senz’altro preferibili ad alcuni bordelli triviali e disagevoli
presenti in tutte le città dove li aspettavano donne non tanto più brutte, ma
dalla compagnia non così piacevole, di più bassa estrazione sociale o più
sfortunate perché mogli ripudiate dal marito, concubine abbandonate, schiave di guerra, mogli di delinquenti che per disposizioni dello Stato diventavano schiave (46).
Qualunque fosse la categoria di prostituta cui si rivolgeva, l’uomo non era
visto in modo deprecabile né veniva censurato il tipo di rapporto sessuale
anche se comportava l’emissione di sperma.
Infatti, in questo caso il coito completo non induceva un depauperamento
della forza dello yang poiché la parziale perdita energetica era ampiamente
compensata dall’assorbimento di yin ad alto contenuto qualitativo che le
prostitute acquisivano attraverso i loro ripetuti rapporti.
Meglio senza dubbio le prostitute, anzi necessarie, delle donne nubili viste
con sospetto e riprovazione perché non mettevano a disposizione dell’uomo,
per il rinvigorimento dello yang capace di garantirgli longevità e immortalità, tutta la potenziale essenza vitale contenuta nello yin che l’ordine universale aveva loro concesso.
Così come era successo a Hoang-ti, il mitico imperatore giallo della prima
dinastia Tchow (circa XVI°-VIII° secolo a.C.) che insegnò agli uomini i diversi mestieri e salì al cielo immortale per essersi congiunto con migliaia di
donne seguendo i precetti del suo maestro T’ien-lao raccolti nei segretissimi
<<manuali del sesso>> variamente menzionati nella letteratura dei secoli
posteriori, molti dei quali sono stati riassunti in modo particolareggiato in
una lista risalente all’epoca degli Han Anteriori (II° secolo a.C - I° secolo
d.C.) (18) (cap. IV).
Non erano componimenti a carattere esclusivamente erotico, ma facevano
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parte di compendi medici e igienici e davano indicazioni salutistiche su
come dedicandosi all’Arte della Camera da Letto si potessero tenere lontani i
mali e il decadimento fisico.
Era basilare, a tal fine, che l’uomo fosse a conoscenza delle direttive da
seguire per condurre un giusto rapporto sessuale, direttive che erano illustrate proprio da questa sorta di guide erotiche.
Esse risultavano però essere soprattutto un insieme di precetti di educazione sessuale ad uso della donna, facenti parte del suo patrimonio culturale, degli strumenti didattici di pronta consultazione che ricorrevano una
duplice finalità: fornirle tutti i mezzi possibili perché essa risultasse irresistibile e attraverso l’armonia e la corretta gestione del congresso carnale far sì
che l’uomo conseguisse la sanità del suo corpo.
I <<manuali del sesso>> rientravano, quindi, come parte integrante nella
concezione taoista di benefica salubrità in cui doveva essere condotta la vita
umana, rappresentandone l’aspetto peculiare dell’attività sessuale che veniva incanalata entro uno schematismo di norme sul connubio carnale che
l’uomo doveva obbligatoriamente osservare per ottemperare alla Via
Suprema.
Lupanare di Africanus e Victor Piano terra con le “cellae” (Pompei, I° sec.
d.C.)
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
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L’omosessualità e la prostituzione maschile
La pederastia in Grecia: esperienza pedagogica e culturale
Sono ricorrenti nei documenti, nella letteratura e nella storia i personaggi
omosessuali che attestano l’estesa pratica della pederastia del mondo antico.
Si è già accennato come nelle feste celebrate in onore alla dea sumerica
Inanna le danze che ne caratterizzavano il cerimoniale vedessero come interpreti i suoi seguaci rappresentati dalle figure delle ierodule, dei cinedi, degli
omosessuali e dei travestiti.
Personaggi, gli ultimi, equivoci dalla doppia sessualità, specchio della
duplice natura della dea di cui invocavano, allo stesso tempo la funzione fer tile ed erotica, ma anche belluina, di protettrice della guerra.
Nel noto racconto della “Discesa di Inanna agli Inferi” (6) (cap.9, par.14,
vers.218-225) il dio Enki che presiede all’Apsu, il grande abisso, raschiando
con le proprie unghie la terra crea due strani individui, un kurgara e un kala tur, che vengono interpretati come omosessuali e travestiti.
E l’importanza della loro presenza nella tradizione cultuale mesopotamica
è testimoniata dal fatto che proprio il loro intervento presso la dea Ereskigal,
regina del regno dei morti, porterà alla rinascita di Inanna e favorirà il suo
ritorno nel mondo dei vivi.
Solo con la scaltrezza questi due effeminati riusciranno a circuire la terribile sovrana e a strapparle la promessa di restituire Inanna alla vita.
Della presenza ancora ai suoi tempi di queste figure dal sesso ambiguo e
ambivalente ci porta testimonianza S.Agostino parlando a proposito della
disonestà delle sacre della Magna Mater celebrate a Cartagine dove insegnò teologia e retorica (10) (capitolo XXVI): <<Et anche degli uomini molli consecrati
alla Madre Magna contra ogni vergogna d’uomini e di femmine, li quali infino al dì
d’ieri con li capelli lunghi, e con la faccia imbiancata, con le membra e con l’andare
femminino per le piazze e per le strade di Cartagine andando, si facevano pagare
dalli popoli per avere da vivere>>.
E’ indubbio l’influsso orientale di queste pratiche religiose coeve al Santo
dove le figure degli officianti omosessuali e travestiti erano state ereditate
dalle tradizioni cultuali delle antiche popolazioni fenicie che avevano abitato
la costa mediterranea siriana e che avevano poi fondato Cartagine e delle
altre genti semitiche che si erano disperse in Mesopotamia.
Se tali personaggi erano diffusamente tollerati in qualità di celebranti i riti
propiziatori agresti di molte religioni, la natura dei loro rapporti veniva
duramente condannata dalle leggi di un altro popolo semitico, quello eletto
dei figli d’Israele.
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Nel Levitico (20: 2,13) a proposito delle pene comminate per i peccati di
culto così tuona il Signore <<Se un uomo giace con un altro uomo come si fa con
una donna, tutti e due hanno commesso una cosa abominevole: siano messi a morte:
il loro sangue ricada sopra di loro>> (1).
La severità era giustificata dalla necessità di porre un freno all’omosessualità ampiamente praticata da alcune popolazioni, come i Cananei, e l’episodio biblico dei Sodomiti ne dà ampia testimonianza (1) (Genesi: 19,5-10).
Quando i due Angeli inviati da Dio giunsero nella città di Sodoma per
verificare se ci fossero almeno dieci uomini giusti che avrebbero potuto salvare la città dalla distruzione bussarono alla porta di Lot e dietro insistenza
di questi furono ospitati nella sua casa.
Ma <<Non erano ancora coricati che gli uomini della città, i sodomiti, circondaro no la casa, giovani e vecchi, tutto il popolo senza eccezione; chiamarono Lot e gli dis sero: Dove sono quegli uomini venuti da te questa notte? Mandaceli fuori perché ne
abusiamo>>.
Tale era il senso di ospitalità e tanto bassa era la stima verso le donne,
anche se sangue del proprio sangue, che Lot per salvare gli ospiti offrì al
popolo canaglia perfino le proprie figlie.
Ma la propensione al vizio era così radicata nella natura dei Sodomiti che
essi le rifiutarono e rivolti a Lot lo minacciarono <<Quest’individuo è venuto
qua come straniero e ora vuol farci da giudice: faremo a te peggio che a loro>>.
Mal gli incolse però, perché l’ira divina non tardò a colpirli: tutti, dal più
giovane al più vecchio furono resi ciechi dagli Angeli.
Molto più tollerante era la società greca nel periodo classico dove l’omosessualità era un fatto di costume.
Essa trovava le sue più nobili origini nella cultura sessuale dei cittadini
maschi della Grecia arcaica (IX°-VIII° secolo a.C.) dove la bisessualità era
considerata naturale e dove alla contrapposizione tra attrazione per i ragazzi
o per le ragazze veniva preferito il concetto di ruolo attivo o passivo nella
conduzione dell’atto sessuale.
Il primo doveva essere assolto per natura dall’uomo, più precisamente
dall’uomo adulto che godeva della libertà e che attendeva al rapporto, mentre il secondo era proprio dei partner che lo subivano e che non erano necessariamente limitati alla donna, ma comprendevano anche i ragazzi e gli
schiavi, inferiori per età o per stato.
Chi si congiungeva con servitori e schiavi non metteva minimamente in
gioco la propria onorabilità e sfuggiva a qualsiasi giudizio etico-comportamentale perché traeva godimento da un proprio bene data l’inesistenza civile e giuridica di tali figure.
La pederastia esercitata sui ragazzi aveva, invece, un significato iniziatico,
era un rito sociale attraverso il quale il neofita (parastanthens) o amato (erome nion), accettava di unirsi con il proprio maestro (philetor) o amante (erastes),
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dopo che questi aveva ricevuto il consenso dalla famiglia del giovane, per
acquisire valore guerriero, la massima tra le virtù che gli antichi Greci tenevano in conto.
Contrassegnava il passaggio dall’infanzia alla fase virile dell’uomo.
Il cerimoniale si traduceva a volte nell’allegoria di un vero e proprio ratto
del giovane da parte del suo educatore che lo portava lontano da casa, presso la sua dimora, dove lo istruiva nell’arte delle armi e dell’amore.
L’amante condivideva la buona e la cattiva reputazione dell’amato. Plutarco
narra che a Sparta sotto Licurgo poiché un ragazzo nella lotta aveva tradito il
dolore provato emettendo un grido ritenuto vergognoso non venne punito,
ma venne condannato il suo amante a pagare un’ammenda (35) (Cap. 18).
La loro era un’unione completa, anche fisica, che si traduceva nella consumazione di completi rapporti sodomitici perché con essi si attuava la piena maturità sessuale del giovane, il suo definitivo accreditamento all’età adulta mediato
dalla trasfusione della forza e della vitalità del maestro attraverso il coito.
In questa fase iniziale l’eromenion svolgeva essenzialmente il ruolo passivo;
era lo scotto che doveva pagare per la sua iniziazione, ma ben presto tra
allievo e maestro si instaurava un rapporto di mutuo amore e di reciproca
dedizione.
A tal punto che insieme sostenevano le più dure prove e affrontavano
finanche la morte in combattimento esortandosi l’un l’altro.
Era tale il conforto e la forza che l’amore infondeva nei loro cuori vicendevolmente da vincere la paura e da moltiplicare il coraggio. Ne erano ben
consapevoli i Tebani che costituirono alcune schiere proprio con coppie di
amanti i cui scudi e i cui elmi si toccavano tanto erano stretti nel corso della
battaglia (47).
Così, come racconta Plutarco, fu l’amore che Cleomaco di Farsalo, in
Tessaglia, nutriva per il proprio amante a spingerlo a correre in aiuto degli
abitanti di Calcide in guerra contro l’Erètria per la supremazia dell’isola di
Eubea (VIII° secolo a.C.).
Troppo sproporzionate erano le forze in campo; gli Erètrei decisamente
più numerosi e protetti da una cavalleria tra le più potenti avrebbero conseguito una facile vittoria se Cleomaco non si fosse posto alla testa della fanteria calcidica e delle proprie truppe tessali. Rianimato dagli incoraggiamenti
e dall’abbraccio del proprio amato dopo un feroce e lungo combattimento
ebbe ragione del nemico trovando una gloriosa morte in battaglia.
A memoria di questo coraggio ai tempi dello storico greco era ancora visibile nella piazza principale di Calcide una stele e in quel luogo come in nessun altro veniva rispettato l'amore tra i giovani:
Giovani pieni di grazia e di fascino
e dotati delle qualità dei vostri padri,
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
non respingete mai i desideri dei guerrieri:
coraggio, amore, fioriscono nella Calcide. (31)
E non è forse vero che il bel Casifodoro per amore cercò la morte e la trovo
al fianco del suo amato Epaminonda (418-362 a.C.), il grande generale tebano ucciso nella battaglia di Mantinea contro la coalizione ateniese e spartana? E che dire del coraggio e della dedizione dell’altro giovane amato da
Epaminonda, Asopico, che seminò la morte tra i Focesi prima di essere ucciso da Eucnamo di Anfissa al quale per questo atto vennero attribuiti onori
riservati solo agli eroi?
Il rapporto omosessuale intrattenuto tra un uomo libero e un ragazzo
altrettanto libero era assurto, quindi, da un iniziale significato iniziaticopedagogico a idealizzazione di amore di mutuo soccorso, di dedizione affettiva reciproca tanto tenace da sconfinare nell’eroismo.
Aveva un che di sacro che si ricollegava alla tradizione più pura degli
amanti illustri e divini della sfera mitologica ed epica.
Giove che preso dalla passione per Ganimede lo rapì sotto le sembianze di
un’aquila, lo fece coppiere dell’Olimpo e suo amante rendendolo immortale,
Achille che pianse lagrime di dolore e d’ira davanti alle spoglie dell’amato
Patroclo, Ercole che rinunciò alla compagnia degli Argonauti e alla spedizione nella Colchide alla ricerca del vello d’oro per correre in soccorso del suo
amato Ila rapito dalle ninfe, Giacinto conteso tra Apollo e Zefiro e che fu vittima innocente della gelosia del vento dell’Ovest che fece deviare nel corso di
una gara il disco lanciato dal dio perché colpisse a morte il ragazzo. Solo la
pietà degli dèi fece sì che la sua memoria rimanesse imperitura tra gli uomini e dal suo sangue sparso sulla terra fecero germogliare lo splendido fiore
che conserva il suo nome.
Proprio travolgente dovette essere anche la passione che faceva palpitare il
cuore di Apollo alla vista del bellissimo giovane se per gelosia il dio indusse
le muse a privare della vista e della voce il rivale in amore Tamiri, il caposcuola della musica e della poesia, il mitico cantore delle corti dei re.
Gli amanti terreni potevano invocare a loro protezione quelli divini che
gliela accordavano solo se l’amore era reciproco e spontaneo e tendeva
all’eccellenza del valore e della virtù.
Ma guai a chi se ne appropriava con la forza e il sotterfugio. Allora gli dèi
presentavano il loro aspetto più terrifico e vendicativo. Scendevano nel
campo degli umani a portare castigo e morte.
Così accadde a Laio, re di Tebe e padre dello sventurato Edipo, che invaghitosi di Crisippo figlio in tenera età di Pelope lo rapì e ne abusò sessualmente.
Il fanciullo per la vergogna si diede la morte suscitando l’ira della dea Era
che volle punire Laio prima inviando a Tebe la mostruosa Sfinge e poi,
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facendo proprie le maledizioni di Pelope, uccidendolo per mano dell’inconsapevole figlio.
Quella della ricerca di una compagnia maschile, preferendola a quella
femminile, era un costume diffuso in tutte le antiche società i cui maschi
basavano la loro filosofia di vita sull’ardimento e sulla forza militare
Era presente anche nelle popolazioni celtiche della Gallia dove, riferisce
Diodoro Siculo (90-20 a.C.) nella sua “Biblioteca storica” le donne pur coraggiose e valide guerriere venivano relegate nell’ambito della famiglia e i loro
compagni preferivano invece che giacere con loro darsi a giochi erotici con i
membri dello stesso sesso (47).
La cultura omosessuale della Grecia arcaica fu sì ancora presente
nell’Atene classica (V° secolo a.C.), ma aveva perso il nobile manto di propedeutico insegnamento che transustanziava il giovane amante in uomo virile
arricchendo il suo animo delle più splendide virtù civili ed eroiche.
Essa aveva cominciato ad intraprendere la via che l’avrebbe portata con il
tempo all’esclusiva ricerca del piacere fisico.
Sussisteva ancora l’idealizzazione dell’omosessualità che era recepita dai cittadini appartenenti agli strati sociali più acculturati o più benestanti, era lecito
e tollerato il rapporto erotico tra cittadini liberi, ma già si avvertivano i prodromi di un lento ma inesorabile degrado verso un rapporto fondato su un vile
mercimonio che deflagrerà in modo incontrollato nella società romana.
Erano i giovani imberbi, i ragazzi sul cui viso non era ancora comparsa
l’ombra della barba, la cui età era quindi compresa tra la fase adolescenziale
e la virilità, l’oggetto del desiderio degli uomini più maturi.
Il concetto è espresso con mirabile sagacia da Rufino che in versi si prende
una bella rivincita su colui che da giovane aveva disdegnato il suo amore e
che ormai uomo fatto aveva perso tutta la sua risplendente bellezza. (28)
Ora “salute” mi dici, fascinatore, or ch’è sfatto
quel tuo volto liscio già come il marmo pario;
ora affabile sei, ora ch’hai tonduto i capelli,
che scesero scherzosi sulle spalle floride!
Non accostarti, o vano, e non inchinarmi: non voglio
in luogo delle rose, cogliere solo spine.
Sì perché, come era considerato riprovevole chi intratteneva una relazione
con i fanciulli in tenerissima età altrettanto dileggiato e coperto di ingiurie
era l’uomo maturo o peggio il vecchio che si offriva prostituendosi.
La domanda però non riguardava più i giovani forti e valorosi, ma era
rivolta esclusivamente ai più belli e ai più raffinati, di buona estrazione
sociale che venivano ricercati nelle palestre, coltivati nei ginnasi e nelle scuole di filosofia per possedere i quali nascevano vere e proprie contese, per il
cui amore ci si abbruttiva in disgustose scene di gelosia.
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Alla stima per la virtù guerresca dei Greci arcaici che aveva nei valorosi
Spartani i più convinti assertori veniva ora preferito l’apprezzamento per il
bello, all’ardimento e al coraggio l’Atene classica e soprattutto ellenistica
anteponeva la ricerca del puro edonismo.
L’amore virile ed eroico che spingeva gli amanti ad affrontare uniti la
morte era venuto meno. Ad esso si era sostituito un amore più cerebrale, più
letterale, più filosofico che sublimava nella ricerca della perfezione.
Come allora non si distinguevano due categorie di pulsioni sessuali differenti e l’opzione verso una relazione omosessuale piuttosto che eterosessuale, confinata in un particolare momento della vita dell’uomo, rispondeva
ancora al gusto personale indipendentemente dalla natura di chi era desiderato, ma ora era finalizzata all’acquisizione del bello in senso universale.
Il giovane amato ben conscio dei desideri che poteva ispirare era però
sempre più frequentemente indotto a monetizzare questa sua posizione di
forza. Combattuto tra la salvaguardia del proprio onore, inteso nell’accezione che al termine davano i suoi avi, e l’impulso venale di conseguire una
condizione sociale ed economica agiata, accettava sì le lusinghe e l’amore
dell’amante più maturo, ma li dissimulava dietro una certa qual ritrosia e
capitolava solo dopo essersi lasciato lungamente corteggiare senza disdegnare di accettare ricchi doni.
Solo quando eccedeva allora il suo atteggiamento era considerato disdicevole in quanto contravveniva ai canoni su cui si basava ancora la filosofia del
rapporto omosessuale.
Sì perché egli poteva accettare la protezione dell’amante non per calcolo
mercenario, non per ricavarne un mero profitto personale, ma solo
nell’intendimento di arricchirsi in saggezza e virtù. Il suo doveva essere un
offrirsi all’amico sollecitato da un sentimento di ammirazione e di devozione
nei suoi riguardi e l’amore che con lui condivideva doveva essere considerato una proiezione verso il conseguimento della bellezza intesa in senso assoluto, poiché nel bello vi è il divino.
E tanto più bello e generoso era il giovane amato tanto più trovava giustificazione il desiderio dell’amante-educatore di possederlo.
Il loro legame affettivo doveva essere in perfetta simbiosi con il senso di
amicizia che perfondeva i loro animi e rappresentava ancora una sorta di
apprendistato educativo alla vita sessuale, ma nell’ottica del raggiungimento
di uno stato di sublime saggezza.
Si è accennato come Solone avesse reso accessibile anche agli schiavi i
postriboli di Stato; che godessero del piacere volgare del corpo femminile,
ma vietò loro la pratica della pederastia.
L’amore e l’amicizia maschile erano considerati ben più puri della semplice attrazione verso la donna che rispondeva solamente ad un’esigenza fisica,
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quasi animalesca del corpo, e pertanto troppo nobili e propri solo degli
uomini liberi. Non per niente l’ideale sessuale del grande legislatore era
compendiato nel motto: <<Amo gli adolescenti, infine, le loro morbide cosce e le
loro dolci labbra>>. Il possesso dell’amato, la possibilità di godere del suo
corpo non solo in senso erotico prevaricava il piacere esclusivamente fisico
di giacere con una donna.
Platone (427-347 a.C.) espone i suoi precetti sull’amore maschile in alcuni
dialoghi facendo parlare il suo maestro Socrate che egli conobbe ventenne.
Socrate nel “Liside” prendendo pretesto dell’amore dichiarato di Ippotale
per il giovane Liside conversa in palestra con loro, con l’amico Messeno e
con altri giovani Ateniesi tra i più nobili sull’amicizia, da dove nasca e in che
modo si trasfiguri in amore.
E al giovane Fedro, nell’omonimo dialogo, confuta la tesi udita dall’oratore siracusano Lisia secondo la quale è preferibile che un giovane sia compiacente verso chi non l’ama piuttosto che verso chi l’ama.
L’essenza del pensiero filosofico che Platone ha sull’eros trova la sua più
completa espressione concettuale nel “Simposio”.
Questo famoso banchetto che vede come convitati medici come
Erissimaco, filosofi come Socrate e Fedro, letterati come Agatone, Aristofane
e Pausania e politici come Alcibiade è una riunione d’élite, riservata ai soli
uomini e per di più illustri e ha come oggetto della conversazione l’amore,
che sarà trattato a turno dai presenti solamente nell’ottica dell’amore omosessuale.
L’unico personaggio femminile che aleggia tra di essi è quello di Diotima,
una saggia di Mantinea, la cui presenza è solamente indiretta perché evocata
da Socrate che la conobbe in passato e che fa proprie le sue parole.
Questo è un artificio cui ricorre Platone per esporre i vincoli cui deve sottostare il rapporto tra il giovane amato e il suo amante-precettore.
L’amore per il giovane deve rappresentare una progressiva conquista del
Bello e l’esperienza sessuale che vive deve essere intesa in senso pedagogico,
come un’educazione tendente all’acquisizione di qualità virtuose, quali saggezza, rettitudine morale, onestà.
Questa idealizzazione del rapporto fa si che non si enfatizzi più di tanto il
tipo di intimità che intercorre tra i due amanti. Certo è che il giovane deve
svolgere una funzione passiva, di sudditanza rispetto al suo educatore sessualmente attivo.
Ma l’amore sodomitico, la posizione more ferarum non ha più l’importanza
che ricopriva nel tempo passato. E’ spesso visto come triviale e abbruttente
soprattutto per chi lo subisce. Esso è sostituto da approcci fatti di carezze e
baci su tutto corpo. Ma è bandita la penetrazione, almeno a parole.
L’ambiguità di tali rapporti è documentata anche dalle pitture vascolari
delle ceramiche attiche a figure rosse e nere (V°–IV° secolo a.C.) o dalle inci-
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sioni su specchi e bacili in metallo che accanto alle scene erotiche che evidenziano accoppiamenti completi dei corpi degli amanti ci offrono esempi di
unioni solo parziali, caratterizzate da giochi sensuali con il fallo che non pervengono però alla penetrazione.
Pausania nella sua esposizione sottolinea l’ulteriore finalità che la relazione deve prefiggersi e stabilisce i limiti che deve osservare: il suo solo fine
deve essere l’amore per la sapienza, ma deve essere severamente vietato
intraprenderla con i fanciulli in tenera età.
Se si rispettano queste regole trova giustificazione la disponibilità del giovane amato nei confronti dell’amante, essa è Bella se non è sollecitata dal
desiderio del primo di godere delle ricchezze supposte o reali del secondo o
di sfruttarne l’importante posizione sociale.
Risalta, ancora una volta, la subordinazione del rapporto eterosessuale a
quello pederastico, insita nella distinzione che viene fatta tra amore volgare
sovrinteso da Afrodite Pandemos che è quello che si nutre verso la donna,
materiale e tendente alla sola soddisfazione delle proprie pulsioni fisiche
come risposta ai primitivi impulsi sessuali ed un amore celeste, ispirato da
Afrodite Ourania, che nobilita chi lo anima, che deve essere preso a modello
dagli amanti in quanto proiettato al raggiungimento di una totale comunione di ideali spirituali e di scelte affettive di vita, quello che si identifica nell'anelito omosessuale.
Solo godendo di questo amore si riuscirà a percepire quel divino soffio che
fa sì che l’anima e il corpo dell’amato si compenetrino in quello dell’amante.
<<In effetti, quando l’amore è ispirato da un giovane uomo, intelligente, conduce
alla virtù per il cammino dell’amicizia: Mentre il desiderio dell’uomo per la donna ,
nei migliori dei casi, conduce al piacere del corpo, a un godimento che non dura che
qualche istante>> (31). Con queste parole Protogene nell’”Erotica” di Plutarco
riassume il pensiero che animava la cultura omosessuale dei giovani ateniesi, o almeno di una parte elitaria di essi, per i quali vi era un solo autentico
amore, quello per i ragazzi.
Plutarco dissente, contrapponendo l’amore coniugale. Solo gli sposi conoscono la fusione totale, l’unione perfetta che genera piaceri e sensazioni
durature. Mentre l’amore omosessuale non offre esempi di legami duraturi,
quello che è tessuto tra i coniugi resta fedele fino alla dissoluzione dei corpi,
fino alla morte.
Il filosofo di Cheronea accorda, comunque, una concessione alla fine della
suo trattatello morale: <<Tuttavia, quelli che amano veramente non meritano rim proveri>>. Sia che l’amore sia nutrito da un uomo verso un ragazzo o da un
uomo verso una fanciulla, perché questi due tipi di unione rispondono ad
una medesima passione.
Questo era il costume omosessuale accettato e vissuto nella Grecia classica,
ma accanto ad esso proliferava e a volte si sovrapponeva un vero e proprio
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sottobosco di bassa prostituzione maschile, svilita da chi la praticava, quasi
sempre schiavi o stranieri reietti, abbruttita dal luogo dove veniva esercitata,
di solito postriboli, taverne e strade e ridotta a puro mercimonio dalle tariffe
di mercato pattuite per le prestazioni.
Veniva tollerata tacitamente dalla comunità e dalle Istituzioni che se si
dimostravano benevoli verso quelli che la professavano, in considerazione
della loro condizione, manifestavano un’estrema severità se a prostituirsi era
un “cittadino”, passibile di incorrere nell’”atimia”, la perdita di tutti i diritti
civili.
Veniva in questo modo tutelata la sacralità del corpo del cittadino, che non
poteva essere abbassato a rango di schiavo dalla sottomissione al rapporto
pederastico per puro calcolo venale.
Nulla vi era di più infamante per lui che vendersi dietro compenso. Come
avrebbe mai potuto chi rinuncia volontariamente al valore più alto che possiede, quello della propria libertà, ergersi a difesa dello Stato?
Il vizio a Roma
A Roma la pederastia era ampiamente diffusa in tutti gli strati sociali, ma
completamente stravolto era l’ideale culturale che era sotteso alla sua pratica.
Non rappresentava più il tentativo di far pervenire il giovane amato alla
perfezione e alla conoscenza del Bello divino.
Sulle rive del Tevere incarnava ormai solamente l’essenza del puro erotismo, il desiderio lascivo del solo appagamento fisico. Una triviale unione di
corpi privi dei nobili sentimenti di amicizia e d’amore, un abuso libertino di
adolescenti dove l’antico significato pedagogico di educazione alla vita era
bandito e sostituito da atti di violenza compiuti per il solo godimento sessuale.
Già nella severa età repubblicana la promulgazione della legge Scatinia (149
a.C.) rappresentò un tentativo per arginarne la diffusione e fu recepita nel tentativo di salvaguardare la moralità del fanciullo romano prima che, indossata
la toga virilis facesse ingresso come civis nella vita sociale e pubblica.
Proprio per questo il legislatore indirizzava, nel contesto di un rapporto
sessuale con un fanciullo, unidirezionalmente la pena condannando solo il
partner adulto o nel caso di una relazione tra due cittadini adulti solo quello
che svolgeva il ruolo passivo, uniformandosi così alla concezione arcaica
greca che vedeva in colui che viene posseduto un atteggiamento femminile,
di vile sudditanza, così disonorevole da portare alla perdita dei diritti civili,
la peggiore onta che un cittadino potesse subire.
La manovra legislativa non diede i risultati desiderati se si pensa che a
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Roma in epoca imperiale si arrivò all’estremo di officiare veri e propri matrimoni tra omosessuali, come quello celebrato tra l’imperatore Eliogabalo e
Zotico, un atleta originario di Smirne, dalla corte e dal popolo accreditato
come suo legittimo marito.
Ma Eliogabalo non fu che uno dei tanti imperatori che non solo non intervennero mai in modo concreto a deliberare leggi restrittive sulla pederastia,
ma anzi ne assecondarono, partecipando in prima persona, la pratica.
Non si poteva certo sperare nell’opera moralizzatrice dei membri della
pur nobile, ma corrotta Gens Giulio-Claudia.
Come poteva impegnarsi il divo Giulio (100-44 a.C.) soprannominato con
feroce ironia dal popolo <<il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mari ti>> per la sua duplice e ambigua attività sessuale e come si poteva sperare
che Tiberio potesse rinunciare ai fanciulli in tenera età con cui era solito
intrattenersi, abusandone, durante i festini e che lo facevano talmente ardere
di desiderio che durante la celebrazione stessa di un sacrificio non seppe
trattenersi dal congiungersi con un giovane officiante di cui si era invaghito
trascinando nell’orgia anche il fratello flautista?
E quali provvedimenti poteva mai elaborare la mente labile dello scellerato Caligola (12-41 d.C.) uso ad alternare agli amori incestuosi consumati con
la sorella prediletta Drusilla le passioni sfrenate per alcuni amici e compagni
di crapula presso la sua corte imperiale, come quella nutrita per Marco
Lepido e per il pantomimo Mnester, personaggio buono per tutte le stagioni
e per tutti i Palazzi, che verrà messo a morte dall’imperatore Claudio, zio di
Caligola e suo successore, perché amante della lasciva moglie Messalina?
Né certamente poteva sconfessarsi Nerone che tra una violenza sacrilega
alla vergine vestale Rubria, una relazione dissennata con la sua liberta Atte e
fornicazioni varie e multiple con le mogli dei suoi più vicini amici e fedeli
dignitari si unì, in dubbio su quale ruolo sessuale svolgere, se attivo o passivo, dapprima come moglie con il suo liberto Doriforo ed in seguito come
marito con il giovane Sporo che fece pubblicamente castrare nel folle tentativo, dal sicuro insuccesso, di trasformarlo in donna.
E quando le leggi furono promulgate esse furono completamente disattese, anche dagli stessi legislatori.
L’imperatore Domiziano (51-96 d.C.) riprese, infatti, l’antica legge Scatinia
e la ripropose rendendola più severa con l’aggiunta di normative che punivano severamente la castrazione dei fanciulli e la prostituzione infantile, così
diffusamente praticata da far dire a Marziale che le culle erano ormai monopolio dei lenoni e che quei piccoli corpi immaturi erano oggetto di indicibili
sofferenze (16).
Lodevole iniziativa legislativa quella dell’imperatore che, per l’inapplicabilità pratica che ebbe, si ha però l’impressione che sia stata adottata più per
il desiderio di voler cancellare l’episodio che lo vide proporsi e prostituirsi in
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gioventù a Cocceio Nerva, per ironia della sorte suo successore all’Impero,
che per un reale anelito moralistico.
L’omosessualità non conobbe, quindi, seri tentativi di costrizione, ma
regnò sovrana nei Palazzi del potere e in un caso si mostrò tanto passionale
da far assurgere a dignità di divus l’amico amato.
L’artefice fu l’imperatore Adriano (73-168 d.C.), la cui figura nel panorama
della Roma imperiale si differenzia nettamente da quelle dei suoi predecessori menzionati per raffinatezza e saggezza, uomo di cultura amante dei
viaggi e dell’arte, ma incline all’amore per i bei giovani.
Il suo animo fu provato da un fortissimo turbamento verso il bellissimo
Antinoo, originario della Bitinia, che divenne ben presto il suo favorito al
punto d’essere la sua ombra nei consigli di stato e nelle campagne militari.
Mentre Adriano si trovava a navigare lungo il Nilo la morte si burlò della
bellezza del giovane che si spense improvvisamente. Il dolore dell’imperatore fu straziante e trovò unica consolazione nel rendere imperituro il volto
dell’amato effigiandolo sul dritto di una moneta battuta ad Alessandria ed
eleggendo la sua figura a divinità che fu raffigurata, nel rovescio, come
Ermes psicopompo, a cavallo con il caduceo in mano mentre guida le anime al
regno dei morti.
Un amore tenace quello che provò Adriano, anche se non particolarmente
discreto, forse l’ultimo bagliore di quel sentimento che animava la cultura
omosessuale greca, presto infangato in modo definitivo da un suo successore, quel campione di malvagità di Commodo (161-192 d.C.), figlio mal nato
del virtuoso Marco Aurelio. Non provando alcun rimorso per aver ucciso la
sorella Lucilla, la moglie che non doveva essergli da meno in turpitudine,
sorpresa in fragrante adulterio e per aver ripetutamente violentato le altre
sorelle trascinava la sua immorale esistenza dividendosi tra il circo dove si
cimentava come gladiatore e i festini dove si dilettava, giacendo con i giovani, ad assistere da “voyeur” alle prestazioni erotiche degli amici con le sue
concubine.
Non contento, si esibiva in pubblico sconciamente e <<…baciava con tra sporto le persone alle quali aveva imposto il nome di organi sessuali femminili e
maschili, e gli era carissimo soprattutto un tale, da lui chiamato Onos, asino, il quale
aveva questi organi così sviluppati che non se ne erano mai visti di simili neppure
negli animali: per queste sue qualità egli lo aveva colmato di ricchezze e nominato
sacerdote d’Ercole rustico>> (38) (cap. X).
Nulla in confronto alla sfrenata depravazione in cui era caduto Eliogabalo
che metteva in scena la storia del giudizio di Paride interpretando lui stesso
il ruolo di Venere. Ad un certo punto della rappresentazione lasciava cadere
la veste ai suoi piedi e nudo <<cadeva in ginocchio offrendo turpemente se stesso
ai desideri dei suoi amasii>> (38) (Cap. V).
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Il vizio aveva ormai preso il posto dell’antica virtù dei Padri, la lascivia
aveva sepolto la saggezza, l’immoralità e la corruzione dominavano tutti e
su tutto. La grandezza di Roma era ormai entrata in modo inarrestabile in
quella parabola discendente, frenata solo a volte e per poco tempo dalle voci
di isolati e valenti imperatori, che la porterà ad essere spazzata via dalle
forze meno colte, meno civili, ma più vive e fiere degli invasori barbari.
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L’omosessualità femminile
L’amore saffico
Meno volgare, anche se in alcuni casi pesantemente denunciata come quella di Finelide << Finelide, la lesbica delle lesbiche, / fai bene a chiamare “amica”
l’amica che ti scopi.>> (16) (Libro VII, LXX), mai comunque considerata come
una vera forma di prostituzione viveva accanto a quella maschile anche
un’omosessualità femminile.
Anzi nella Sparta di Licurgo l’amore era talmente considerato nobile in
tutte le sue accezioni <<che anche le donne belle e oneste amavano le ragazze>>
(35) (Cap.18).
Da pochi intellettuali del tempo giustificata in quanto espressione di un
amore elevato, nobile e tanto orgoglioso nel suo isolamento da sfidare le
leggi dell’uomo era dai più deplorata in quanto non allineata ai precetti della
dea dell’amore, Afrodite Ciprigna.
Contro questa inclinazione sessuale si esprime apertamente in un suo epigramma Asclepiade di Samo (IV°-III° secolo a.C.) biasimando due sue concittadine (28).
Nanno e Bitto, le Samie, accostarsi alla diva Afrodite
non vogliono, obbedendo alle sue proprie leggi;
ma da sé stesse, tra loro, esse compiono cose non belle:
Cipride dea, punisci chi dal tuo letto sfugge.
Ma scaglia, soprattutto, i suoi feroci strali satirici Giovenale descrivendo
tre patrizie, Tullia e due Maure, che non esitano a lasciarsi andare a pubblici
atteggiamenti osceni neppure davanti al tempio della dea Pudicizia:
<<Dubita ora della smorfia con cui Tullia assorbe l’aria o di quel che dice Maura
malfamata all’altra Maura, sua sorella di latte, quando passano davanti all’altare
dell’antica Pudicizia. Di notte è proprio qui che fan fermare le loro lettighe, e sma niose d’orinare, inondano la faccia della dea coi loro lunghi zampilli, e si cavalcano a
vicenda, e s’agitano l’una addosso all’altra sotto il lume della luna>> (24) (Libro
VI, v.306-311).
Culla dell’amore tra donne fu da sempre considerata l’isola di Lesbo dove
la poetessa Saffo (VII°-VI° secolo a.C.) raccolse attorno a sé un attivo cenacolo comunitario di fanciulle appartenenti all’aristocrazia, il tiaso, in cui venivano coltivate la musica, la danza e la poesia.
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La prostituzione nelle società antiche
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Roberto Pozzoli
La sua arte che difficilmente trova confronti per l’intensità e la sensualità
che esprime fu apprezzata da molti letterati del suo tempo e successivi, come
Platone, Catullo e Plutarco e chi la avversò non fu portato a criticarla per
l’inconsistenza della sua poesia, invero sublime come si può dedurre dalla
lettura dei pochi frammenti che ci sono pervenuti, ma fu indotto soprattutto
dalle sue preferenze nel campo dell’amore che denunciavano una libertà di
scelte affettive e un’indipendenza di pensiero non consone ai costumi di
quei tempi.
Anche se i suoi amori femminili, e pertanto detti saffici o lesbici, furono
senz’altro enfatizzati dai commentatori a lei posteriori è indubbio che dai
suoi versi traspare netta la passione che dominò il suo cuore per le compagne del tiaso.
Come quando la sua voce si fa tremula e il suo volto e tutto il suo cuore
avvampano di eccitazione all’apparire della bella amata (49):
…così ogni volta che ti vedo, voce
alle labbra non sale, ma la lingua
ecco si spezza
ed un fuoco sottile per la pelle
serpeggia e d’improvviso più non vedo
nulla cogli occhi, e paiono le orecchie
sorde rombare
sudore freddo avvolge le mie membra,
un tremito mi scuote, e più dell’erba
verde divento, e non lungi da morte
esser mi pare
E’ difficile credere che l’emozione e il desiderio che pervadono la raffinata
poetessa a tal punto da farla venir meno siano dettati da un impulso squisitamente affettivo e sodale, scevro da qualsiasi implicazione erotica.
Troppo vibranti di allusioni passionali e voluttuose sono le parole che
rivolge alla sua compagna che la sta per lasciare per escludere una partecipazione sessuale nel rapporto:
Tu sai quanto ti ho amata. Se dimentichi,
io voglio invece sempre ricordare
i momenti più belli che vivemmo:
quando di molte corone di viole
e di rose e di croco ti cingevi
il capo a me vicina, ed intrecciavi
ghirlande intorno al collo delicato
e con essenze regali di fiori
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
ti profumavi e sul giaciglio morbido
ti struggevi…
D’altra parte che il tiaso fosse un cenobio di amori lesbici lo pensava anche
Ovidio.
Non li condivideva, anzi li avversava. Ma chi più di lui, cantore
dell’amore licenzioso eterosessuale poteva, comunque, percepire la fragranza eccitante dei versi saffici e lo spirito sensuale che li pervadeva?
Nella lettera immaginaria contenuta nelle sue “Heroides” che fa indirizzare dalla sublime poetessa al bel Faone, di cui si era alla fine perdutamente
innamorata, allude palesemente ai suoi trascorsi lesbici e agli amori per
l’amata Attide, per Cidro dalla pelle bianca come il latte, per le sue compagne << l’amore per le quali fu causa del suo disonore>>.
Sanno di biasimo le parole che il poeta rivolge a Saffo, quasi a ravvisare
nella sua triste fine un sorta di Nemesi.
Sì, Saffo che ha diviso la sua vita tra gli amori femminili, negandosi ai
desideri maschili, viene condannata a soffrire per l’amore non corrisposto
per il pescatore Faone e a morire suicida.
La leggenda, infatti, vuole che ella annegò gettandosi in mare distrutta dal
dolore e dalla delusione per essersi il giovane rifiutato a lei.
Dimenticandosi di quanto fosse vecchio e di come il suo aspetto fosse
repellente prima che Venere gli facesse dono della giovinezza e della bellezza come gratitudine per averla traghettata dall’isola di Lesbo sul continente,
Faone la respinse sdegnoso.
Ella aveva tradito il tiaso attratta per la prima volta dalla passione per
l’uomo, ma da questi venne delusa e ingannata. La sola liberazione al dolore
che ne aveva ricavato non poteva trovarla che nella morte.
Le pratiche saffiche erano, comunque, diffuse tra le donne dei vari ceti
sociali e pervennero a mera pratica viziosa, del tutto spogliate della valenza
sodale ed educativa che potevano avere ai tempi della dolce e sfortunata
poetessa.
Nel quinto dei "Dialoghi di cortigiane" di Luciano, Clonario riferisce alla
sua amante Leena, le voci allarmanti che circolavano circa una sua relazione
saffica con Megilla, una ricca signora di Lesbo, <<che ti ama come un uomo>>.
Leena, arrossisce, tergiversa un po’, ma alla fine deve ammettere che era
stata irretita e convinta a partecipare ad un festino in qualità di suonatrice di
cetra da Megilla e dalla sua collega in arte Demonassa di Corinto (29).
Sul finire della serata le due donne, ormai ubriache, la invitano a restare a
dormire con loro e una volta stese sul letto Leena confida a Clonario che
<<Da principio mi baciavano come uomini, non solo così accostando le labbra, ma a
bocca dischiusa, e m’abbracciavano e mi premevano il seno. Demonassa, poi, mi
mordicchiava anche, in mezzo ai baci…Dopo un po’ Megilla, ch’era piuttosto accal -
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tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
data, si tolse la parrucca dalla testa e apparve lei, rasata a zero, come il più virile
degli atleti; ed io rimasi sconcertata a vederla. Ma lei dice… fammi provare, Leena,
se non ti fidi, e vedrai che non mi manca nulla degli uomini; qualcosa ce l’ho al posto
di quello degli uomini. Ma fammi provare e vedrai>>. E Leena la lasciò provare.
In questo dialogo si fa chiaramente allusione all’abitudine di ricorrere già
allora nei convegni lesbici all’uso di succedanei del fallo maschile, i baubon,
che vediamo riprodotti anche nelle pitture vascolari.
Veri e propri sex shops erano aperti a Mileto in Caria, altra città greca famosa per la licenziosità e le specialità erotiche, ed esportavano in tutta la Grecia
queste imitazioni del pene prodotte solitamente in pietra o in legno che venivano rifinite e ricoperte in cuoio dai calzolai.
Le botteghe di questi manufatti di artigianato locale erano assiduamente
frequentate dalle donne milesie, famigerate per l’abitudine di soddisfare con
essi le esigenze erotiche individuali o di gruppo, e che non si facevano scrupolo di prestarseli l’un l’altra.
Il mimo di Herodas “Le donne amiche a colloquio segreto” (27) è illuminante in questo senso. Esso si svolge proprio a Mileto e si sviluppa sul dialogo tra due donne, Metrò e Corittò, a casa di quest’ultima.
Metrò aveva fatto visita all’amica per sapere il nome del calzolaio che le
aveva confezionato il baubon, il fallo in cuoio di sua proprietà che aveva visto
a casa di Nosside, la quale a sua volta lo aveva avuto da un’altra loro comune amica, Eubene.
Corittò aveva prestato l’oggetto a quest’ultima dietro le sue molte insistenze ed ora era veramente arrabbiata con lei perché con assoluta mancanza di
tatto lo aveva a sua volta dato ad una donna pettegola e indiscreta come
Nosside.
Solo ricorrendo ad astute blandizie Metrò riesce a calmare l’animo
dell’amica e a farsi dire il nome dell’artigiano. Egli è un tal Cerdone venuto
da Chio, un uomo piccolo e calvo, cui l’aveva indirizzata Artemis, la moglie
di un cuoiaio.
E’ quanto basta per far correre Metrò, impaziente di possedere anche lei il
suo baubon, a casa di quest’ultima al fine di farsi dare l’indirizzo del calzolaio. Il fallo artificiale era anche conosciuto con un altro epiteto: olisbos. Con
tale riferimento lo troviamo descritto, infatti, nel “Lisitrata” di Aristofane
(445-385 a.C.).
In una scena della commedia che si svolge ad Atene la cui Acropoli è stata
occupata per protesta dalle donne che hanno decretato una singolare forma di
sciopero contro i loro mariti accusati di essere perennemente lontani da loro,
Lisistrata si duole con Lampitò dei danni provocati dallo scoppio della guerra
(quella del Peloponneso) e si lamenta in modo particolare che, essendo tutti gli
uomini validi sotto le armi, non si trovavano più amanti disponibili.
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La carenza di materiale affettivo umano era, inoltre, aggravata dal tradimento di Mileto che, avendo abbandonato la lega Attica dopo la disastrosa
spedizione ateniese contro Siracusa, aveva privato le donne anche dello strumento che fungeva da surrogato del maschio, l’olisbos appunto fabbricato
proprio in questa città: << E non ci è rimasto neanche uno straccio d’amante. E da
quando i Milesi ci hanno tradito non si vede neppure l’olisbos lungo otto dita, il
nostro sollievo di cuoio>> (50) (v. 107-110).
Lampitò sposa subito la strategia amorosa proposta dall’amica Lisitrata
che era improntata sulla ferma decisione di negare il proprio corpo ai mariti
dopo averne eccitato al massimo i desideri girando per casa tutte depilate e
con il corpo completamente nudo sotto la tunica. Solo così, castrandone le
voglie essi avrebbero abbandonato la guerra e fatto ritorno alle loro mogli. A
suffragare ulteriormente la bontà del piano scelto Lampitò porta l’esempio
di Menelao che, dopo aver distrutto Troia, buttò via la spada che aveva
sguainato per uccidere Elena, la moglie fedifraga causa di quei lunghi dieci
anni di lotte, davanti allo splendore dei suoi seni nudi.
Nessun rancore può sostenere la vista della nudità del corpo di una donna
dalle perfette forme. Cosa può valere anche il più forte odio davanti al desiderio irrefrenabile di possedere ancora una volta quel mirabile corpo?
Quelle donne ateniesi lo sapevano bene e se qualcuna come Cleonice tentennava paventando la possibilità che i loro uomini le potessero per sempre
abbandonare Lisitrata mostrava ancora una volta tutta la sua determinazione riproponendo all’estremo l’uso dell’o l i s b o s del quale prevedeva: <<
Faremo arrossire il cuoio>> (v. 157.158).
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Atteggiamento verso la prostituzione
del Cristianesimo all’origine
San Paolo
La comparsa del Cristianesimo segnò nell’ambito del privato della coppia
l’inizio di una revisione critica del piacere sessuale con la conseguente condanna di ogni forma manifesta di fornicazione, massimamente del meretricio, di chi lo professava e dei luoghi dove veniva esercitato.
Il tutto rientrava nella natura composita della sua visione filosofica del
sociale e della morale che da una parte sulla scorta del principio egualitario
della società poneva sullo stesso piano di diritto tutti gli uomini, a qualsiasi
status sociale appartenessero, e dall’altra perseguiva l’intento di una rivalutazione del ruolo della famiglia e dell’istituto del matrimonio.
Più precisamente la nuova religione non vedeva ancora in quest’ultimo
l’esaltazione liturgica di un sacramento, ma lo reputava l’unica possibilità
conferita all’uomo di rifuggire il peccato di fornicazione, il solo approdo
sereno che era in grado di proteggerlo dagli eccessi carnali.
Se egli non era in grado di condurre la propria vita nella castità e nella
continenza, allora scegliesse pure il matrimonio.
In un momento in cui all’interno della Chiesa cristiana si faceva sempre
più insistente il ricorso all’assoluta castità il matrimonio rappresentava il
minore dei mali consentendo legalmente l’unione di un uomo con una
donna al di fuori dalla sfera del peccato, alla precisa condizione però che
essa fosse consumata senza alcuna pulsione sessuale e al solo fine della procreazione.
Questi precetti che conferivano al celibato e al nubilato lo stato di assoluta
perfezione furono portati all’eccesso e generarono l’anacoretismo. In Egitto il
deserto della Tebaide fu teatro di una vera e propria colonizzazione di cristiani, presi per l’amore della solitudine e della penitenza e dediti esclusivamente alla contrizione e alla mutilazione della carne. Cristiani che vissero
per anni nell’esaltazione mentale e nel deliquio delle visioni tentatrici.
Così San Paolo nella Prima Lettera che invia ai Corinti espone il suo pensiero in merito al matrimonio: << Riguardo a quanto mi avete scritto, è ben per
l’uomo non toccare donna; tuttavia, per evitare la fornicazione, ogni uomo abbia la
propria moglie, ed ogni donna il proprio marito. Il marito renda alla moglie quel che
le deve, e lo stesso faccia la moglie verso il marito … Ai celibi e alle vedove io dico: è
bene per loro se rimangono come sono io; ma se non si sentono di vivere continenti,
si sposino; è meglio sposarsi che bruciare>> (1) (7, 1-9).
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In questo passo è presente tutto lo scetticismo che il primo Cristianesimo
riponeva nella donna. L’uomo non può certo trovare la felicità in lei, ma solo
in Dio.
Esso si richiama ad un preciso verso dell’Ecclesiaste, in ebraico Cohelet,
(III°-II° secolo a. C.): << e trovo che amara più della morte è la donna, la quale è un
laccio: una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è grato a Dio ne può scampa re, ma il peccatore ci resta preso>> (1) (7, 26) in cui viene espressa la vanità dei
beni terreni, amore, piacere, sapere, ricchezza <<vanitas vanitatum, omnia
vanitas>> e lascia trasparire chiaramente il consiglio di mantenere lo stato di
celibato e di nubilato quale mezzo virtuoso per conseguire un modello di
vita perfetta. La famiglia assorbe le menti e il corpo degli uomini per gli
impegni e le preoccupazioni che comporta distogliendoli dall’unico scopo
della loro esistenza, attendere al servizio di Dio con opere di carità e preghiere.
Ancora più esplicito si fa il richiamo dell’Apostolo alla Santità del proprio
stato per chi non ha ancora contratto il matrimonio: <<Riguardo a chi è vergi ne, non ho nessun ordine da parte del Signore, ma do un consiglio, come uomo che,
per grazia del signore, è degno di fede. Credo che sia cosa buona per l’uomo, a causa
della necessità del presente rimanere così… Sì io vorrei che foste senza preoccupazio ni. Colui che non ha moglie si dà pensiero delle cose del signore e come possa piacer gli; chi invece, è ammogliato, si dà pensiero delle cose del mondo e come possa piace re alla moglie, sicché rimane diviso. Così pure la donna non maritata e la vergine si
danno pensiero delle cose del Signore, per essere sante di corpo e di spirito.; la mari tata, invece, si preoccupa delle cose del mondo e come possa piacere al marito>> (1)
(7, 25-34).
In questo modo di sentire la sessualità non era estranea l’influenza che sul
Cristianesimo ebbe nel II° sec. d.C. il pensiero gnostico, incentrato sulla
conoscenza dualistica del mondo in cui si contrapponevano bene e male,
anima e corpo.
Seppure considerata come eretica questa corrente filosofica portò il
Cristianesimo a vedere nella repressione degli istinti del corpo l’unica arma
di salvezza dalla perdizione, il solo atteggiamento comportamentale in
grado di preservare l’uomo dal pericolo di cadere nella ricerca del solo piacere venale.
Al materialismo del corpo cui si era data la società romana si stava via via
sostituendo lo spiritualismo dell’amore, una fede che abbracciasse le esigenze degli spiriti più elevati e le essenziali domande dei più semplici.
L’amore sovraumano, trascendentale, intangibile fuori dal tempo e dallo
spazio era la risposta che il Cristianesimo dava ad un popolo disilluso, privo
di ideali, facilmente irretito da scuole di pensiero che propugnavano l’indifferenza più totale di fronte alle cose esterne, o di un sereno distacco dalle
angoscie materiali, perfino dalla morte.
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Al grido <<nulla mi preme della salute e delle ricchezze>> degli stoici o a quello <<non bisogna aver timore della morte, poiché quando essa c’è noi non siamo e
quando essa non c’è noi siamo>> degli epicurei il Cristianesimo contrappone la
speranza della salvezza dell’anima e della resurrezione della carne.
La Chiesa cristiana si proponeva ad un popolo decadente, infatti, come
unica garante della condotta morale e si ergeva a baluardo contro la degenerazione dei costumi sociali in cui lentamente ma inesorabilmente stava
sprofondando l’impero romano sulla strada della sua fine politica.
L’equazione leggi morali cristiane uguale ordine sociale si stava imponendo anche se a fatica sull’inconsistenza della religione politeista dominata da
divinità ormai prive di credibilità, che non potevano più garantire alcuna
protezione.
La forza centrifuga che stava portando il logoro impero verso una totale
parcellizzazione di genti e di territori aveva trovato nel Cristianesimo l’unica
forza di coesione che faceva perno sui suoi canoni morali ed etici.
E questi, a maggior ragione, non poteva certo tollerare nel consesso dei
propri fedeli un costume così pagano come la prostituzione a scopo di lucro.
S. Paolo nello scrivere ai Cristiani di Efeso detta le regole di vita che devono seguire per conformarsi alla santità cristiana e tra le prime osservanze
sottolinea l’esecrabilità della fornicazione e degli atti impuri e li esorta a condurre il loro operato all’insegna della grazia del Signore.
E non a caso l’Apostolo indirizza due lettere ai cittadini di Corinto, la città
che abbiamo visto essere la più viziosa della Grecia antica, nota soprattutto
per essere devota ai giochi di Venere e sede del suo tempio all’ombra del
quale si esercitava ogni tipo di prostituzione, da quella sacra a quella profana, da quella femminile a quella maschile.
La sua evangelizzazione non avvenne senza difficoltà e molte furono le
ricadute nel paganesimo che indussero S. Paolo ad attuare una costante
opera di vigilanza sull’operato dei Corinti esortandoli ad improntare il loro
vivere quotidiano sul modello di quello cristiano.
Proprio nella Prima Lettera scritta in seguito alla nascita nella città di
disordini e di disobbedienze le parole apostoliche suonano come una forte
reprimenda per la condotta scandalosa dei suoi abitanti e ribadiscono le
leggi cristiane cui si devono attenere a risposta dei dubbi sollevati circa problemi di carattere sociale e personale, quali i diritti dei coniugi, l’indissolubilità del matrimonio, la verginità e il comportamento delle vedove.
I Dottori della chiesa. Agostino
Anatemi contro i lupanari furono gettati anche da S. Cipriano (200-258
d.C.) vescovo di Cartagine che li considerava una scuola pubblica di lascivia
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e da S. Giovanni Crisostomo (345-407 d.C.) che li vedeva come fucine di
Satana in cui venivano forgiati i demoni.
Ancora più estremo era il giudizio sulla prostituzione che esprimevano S.
Ambrogio (339-397 d.C.) e S. Gerolamo (347- 420 d.C.) alfieri della lotta alle
eresie, i quali riconoscevano senza ombra di dubbio nella perversione delle
meretrici e nei peccati del sesso le principali fonti da cui esse si alimentavano
(51) (cap. VII, XI).
Il chiaro intento moralizzante della nuova religione che riprendeva i valori
religiosi e civili espressi dai Libri Sacri della tradizione ebraica esaltandone il
rigorismo si veniva, però, a scontrare con i rigurgiti tardivi dei culti pagani che
ancora erano ossequiati e che con essa erano in un conflitto concorrenziale.
E’ per questo che come l’Ebraismo anche il Cristianesimo vituperava
all’inizio il meretricio in maniera più apparente che sostanziale
D’altra parte la battaglia che esso stava combattendo per imporsi era
impegnata non solo su questo fronte, ma molti altri se ne erano aperti a
cominciare dalle spaccature interne che culmineranno nei primi movimenti
scismatici ed eretici quali il nestorianesimo e il monofisismo per finire poi
con l’antagonismo verso la nuova e più pericolosa religione, anch’essa rigorosamente monoteista, l’Islamismo di Maometto (570-632 d.C.).
A parziale scusante della tolleranza della prostituzione fu invocato il
minor male che il suo esercizio comportava rispetto a quello che sarebbe
stato provocato abolendolo completamente; esso tutto sommato ne evitava
di ben peggiori e di più insanabili.
La scelta di sopportare il meretricio come atteggiamento preventivo
all’insorgere di più turpi depravazioni contraddice l’esposizione di S. Paolo
che vedeva proprio nelle meretrici e nell’esercizio del loro vizio la prima
causa del peccato sodomitico.
Riferendosi ai castighi patiti dai pagani che non avevano voluto sentire la
voce del Signore, nella “Lettera ai Romani” descrive, infatti, come essi furono abbandonati alle più disgustose passioni (1) (1, 26): <<…le loro donne cam biarono le relazioni naturali con quelle contro natura; e gli uomini pure, abbandona ta la relazione naturale con la donna, si accesero di mutua concupiscenza, commet tendo turpitudini maschi con maschi…>>.
La sofferta e parziale indulgenza che dalla caduta dell’Impero romano
d’Occidente il Cristianesimo manifesterà verso la pratica della prostituzione
prendeva spunto da alcuni scritti in proposito attribuiti a S. Agostino (354430 d.C.), Padre della Chiesa latina, illuminato dalla fede in Cristo a 32 anni
dopo un trascorso nella chiesa manichea.
Senza riserva era la sua condannava verso la sodomia che bollava come la
peggiore delle perversioni contro natura <<Perciò i peccati contro natura sem pre e dovunque devono essere detestati e puniti, come per esempio quello dei sodomi ti. Ed anche se tutto il genere umano li commettesse, tutto il genere umano sarebbe
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reo di codesto crimine per la legge di dio che non ha creato gli uomini perché si unis sero in tal modo>> (52).
Ma più tollerante si mostrava nei riguardi delle prostitute, che sebbene
conducessero una vita indecente e scostumata pur tuttavia erano di una
qualche utilità poiché con la loro professione contribuivano a tenere lontani
dagli uomini le passioni più perverse che potevano sconvolgere tutto.
In questa sua accondiscendenza non era forse estraneo il peso della sua giovanile intemperanza, che era stata proiettata anche verso le passioni amorose.
Ormai uomo maturo negli anni, creato vescovo di Ippona si lasciò andare
alle memorie dei suoi trascorsi in toccanti confessioni: << Mi recai a
Cartagine, quando da ogni parte l’animo mio era sconvolto dagli amori disone sti…>> <<La dolcezza di amare e di essere amato era per me molto maggiore se
andava unita al possesso del corpo dell’amante. Inquinavo così la vena dell’amicizia
con le lordure della concupiscenza, ne offuscavo il candore con l’alito diabolico della
libidine…>> (52).
Nell’autunno del 386 Agostino si ritira con la madre a Cassago, a pochi
chilometri da Milano, e compone i Dialoghi. Nel “De ordine”, qui contenuto,
affronta con i suoi discepoli Licenzio e Trigezio il tema della difficoltà di rapportarsi alla razionalità del mondo umano e di giustificare, sempre razionalmente, la vita umana (53).
Sposa completamente l’osservazione avanzata da Trigezio che la vita degli
stolti pur non trovando una sua giustificazione razionale a causa del loro
operare è comunque fatta rientrare nella cosiddetta ragione sufficiente grazie
alla divina provvidenza.
Pertanto presa a sé stante può indurre repulsione e rifiuto, ma inserita
nella visione generale dell’Universo sarà razionale la sua ragion d’essere e la
sua collocazione al posto che le compete.
A dimostrazione delle sue affermazioni il teologo porta come esempio
proprio la condotta delle meretrici: che cosa vi è di più sordido, di più vuoto
di decoro e di più turpe della condotta delle meretrici, dei lenoni e di altre
pesti di tal genere? Ma <<Aufer meretrices de rebus humanis, turbaveris omnia
libidinibus>> leva le meretrici dalle vicende umane e turberai ogni cosa con
la libidine.
Nel consesso degli uomini queste categorie di persone sono considerate la
feccia poiché per la corruttela dei loro costumi sono le più laide, mentre per
la legge sono le più vili di condizione. Si sfugge la loro vista alla stessa stregua con cui si prova repulsione per le viscere degli animali; la legge naturale
imponendole ne ha decretato sì l’utilità, ma non ha permesso che fossero
troppo palesi in quanto brutte a vedersi.
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Tommaso d’Aquino
Alcuni fondamenti espressi da S. Agostino a parziale giustificazione del
meretricio verranno ripresi più tardi da S. Tommaso (1225-1274) quando,
citandolo, sosterrà che la meretrice nel mondo ha la stessa funzione della
cloaca nel palazzo: togliete la cloaca dal palazzo e lo riempirete tutto di
odore malsano, togliete il pubblico commercio e turberete il mondo con la
libidine.
Nelle “Questiones disputatae de malo” (54) egli condanna senza appello la
lussuria come peccato, ma lo considera venale se esso è dettato solo da un
disordine del desiderio interiore come quello dell’uomo che si unisce in
modo smodato alla propria moglie.
Se invece a muovere l’uomo oltre al disordine interno vi è anche un disordine nell’atto esteriore vero e proprio che lo porta ad unirsi ad una donna
fuori dal matrimonio con una finalità che non è quella di procreare e di educare i figli, allora l’atto lussurioso deve essere sempre condannato come peccato mortale (Quaestio XV: De luxuria, Art.II).
Il peccato, o meglio la sua diversa gravità, è oggetto di profonda e complessa dissertazione da parte del “doctor angelicus” anche nella sua “Summa
Theologiae” (55).
Tommaso distingue due tipi di concupiscenza dipendenti dalla volontà di
peccare (Ia, Iiae, Quaestio LXXIII, Art. VI).
Se la concupiscenza nasce dalla volontà dell’uomo di peccare allora tanto
maggiore essa è tanto più grave ne consegue il peccato, ma se si intende la
concupiscenza esclusivamente come passione, poiché sfugge al controllo
della ragione e dal moto della volontà allora colui che pecca sotto l’impulso
di una maggior concupiscenza cade in seguito ad una tentazione più grave e
quindi è meno colpevole.
Ma, allora, sostennero molti commentatori, quale migliore giustificazione,
quale più razionale attenuante può invocare l’uomo per il suo peccato della
irresistibile provocazione esercitata dalla totale disponibilità e dalla bellezza
tentatrice delle donne che si vendono?
Il Santo voleva salvaguardare in qualche modo ancora una volta l’istituto
del matrimonio e la sacralità della famiglia e pertanto considerava la fornicazione semplice, cioè quella esercitata con mutuo consenso e transitoriamente
da un uomo libero da vincoli matrimoniali con una donna libera non vergine, un peccato meno grave dell’adulterio poiché in questo caso vi è l’aggravante della colpa di aver sottratto un bene altrui (Ia, Iiae, Quaestio LXXIII,
Art. VII)
Non va infine dimenticato che la concezione tomistica del peccato di concupiscenza commisura la sua gravità alla condizione sociale della persona
verso cui si pecca: <<…maior gravitas in peccato, quanto obiectum eius est princi palior finis>> (Ia, Iiae, Quaestio LXXIII, Art.IX).
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Tanto più elevato è il fine cui tende l’oggetto o la persona verso cui si
manca tanto più grande è la gravità del peccato sostiene Tommaso, e come
non vedere in queste sue affermazioni un’ulteriore attenuante per l’uomo
che si macchia della colpa di congiungersi con le meretrici del fatto che
l’estrazione sociale di queste è tra le più infime. L’uomo è vero pecca, ma il
suo peccato è lieve, meno grave dell’adulterio che commetterebbe se concupisse le donne oneste e di nobili origini.
Visione discriminatoria quella del Santo, ma ampiamente diffusa e condivisa in epoca medievale dal clero che era più pronto a condannare un rapporto extraconiugale con una donna di buona condizione che non la semplice fornicazione con una prostituta.
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Opere citate
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27) Herodae: Mimiambi. La Nuova Italia editrice. Firenze, 1950.
28) I carmi erotici della Antologia Palatina. Fratelli Melita Editori, La Spezia
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29) Luciano: Dialoghi di dei e di cortigiane. B.U.R., 1989.
30) Ovidio P.N.: Amori. B.U.R., 1994.
31) Plutarco: Erotica, dialogo d’amore. Libri di una sera, La Pigna Meravigli,
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32) Platone: Dialoghi politici, lettere di Platone. Menesseno Capitolo III,
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33) Senofonte: Dei detti e dei fatti memorabili di Socrate. Vol II, Libro III,
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34) Plutarco: Vite parallele. Demetrio-Antonio. B.U.R.
35) Plutarco: Vite. Volume VI (Licurgo). Unione Tipografico-Editrice
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37) Varone A.: L’erotismo a Pompei. L’erma di Bretschneider, 2000
38) Storia Augusta. Rusconi Editore, 1972.
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40) Procopio: Storie Segrete (cap.IX). B.U.R., 1999.
41) Svetonio Tranquillo Gaio: Le vite di dodici Cesari. Rusconi 1975.
42) Mallanaga Vatsyayana: Kamasutra. Newton Compton editori, 1992.
43) Morretta Angelo: I miti Indiani. Longanesi, 1996.
44) Carlo Pucci: Il Taoismo. Libritalia, 1997.
45) Tannahill Reay: Storia dei costumi sessuali. B.U.R. Supersaggi, 1994.
46) Bullough Vern L.: Storia della prostituzione. Dall’Oglio Editore, 1967.
47) Lapi Luigi: Il gaio sesso. Xenia edizioni, 1989.
48) Gerhard Herm: Il mistero dei Celti. Garzanti, 1996.
49) Donna, mistero senza fine bello. Tascabili economici Newton, 1994.
50) Aristofane: Lisistrata. B.U.R. 1995.
51) Consulto teologico sopra la permissione del meretricio e dei lupanari: proposto
alla considerazione de’Veri Amanti della castità. La Vita Felice, Milano, 1994
52) Agostino Aurelio: Le confessioni (Lib.III, Cap.VIII e I). I classici del pensiero. Fabbri Editore, 1996.
53) Agostino Aurelio: Opere di Sant’Agostino: Dialoghi. Nuova Biblioteca
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54) Tommaso D’Aquino: I vizi capitali. B.U.R., 1996.
55) Tommaso d’Aquino: Summa totius theologiae. In tres parte. Venetiis ex
Officina Gasparis Bindoni. MDLXXXVI.
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
Roberto Pozzoli
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La prostituzione nelle società antiche
tra mito, culto e piacere
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Indice
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
5
L’uomo primitivo e il senso del divino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
8
Gli dèi hanno un nome e una forma: analogia dei loro attributi
nelle religioni antiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
13
Il diluvio universale: misteriosa memoria comune a tutti i popoli . . . . »
17
Diluvio nella tradizione sumerica e biblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
17
Diluvio nelle “Metamorfosi” di Ovidio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
19
Il racconto presso l’induismo e il mazdeismo . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
21
»
Gli dèi parlano agli uomini. L’arte divinatoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Le dee madri e i riti della fertilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
La Grande Dea, La Dea Madre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Inanna, la dea sumerica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Le dee greche, italiche e romane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
L’ambivalenza delle dee primitive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Le dee protettrici della fecondità della donna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Le “Veneri” paleolitiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
La donna egiziana iperprotetta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Le feste popolari e i culti misterici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
L’osceno nei riti di fertilità e di fecondità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Le rappresentazioni primitive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Priapo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
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36
36
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48
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L’immane inondazione che sconvolse la terra dei Maya . . . . . . . .
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L’adorazione del lingam e della yoni in India . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Le rappresentazioni erotiche dei popoli andini . . . . . . . . . . . . . . . .»
La prostituzione sacra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Le Ierodule . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Lo strano voto delle donne assiro-babilonesi . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
L’ira del Signore nella Bibbia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Le Devadasi indiane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
La prostituzione profana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
La prostituzione in Medioriente e nell’Egitto dei Faraoni . . . . . . .»
La prostituzione nell’Atene classica. Le etère . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Ammaestramenti delle etère . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Etère famose . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Sparta al tempo di Licurgo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Le meretrici romane e i lupanari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
La prostituta nell’India antica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
La cortigiana cinese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
L’omosessualità e la prostituzione maschile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
La pederastia in Grecia: esperienza pedagogica e culturale . . . . .»
Il vizio a Roma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
L’omosessualità femminile. L’amore saffico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Atteggiamento verso la prostituzione del Cristianesimo all’origine . .»
San Paolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
I Dottori della Chiesa. Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Tommaso d’Aquino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Opere citate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Altri principali riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Indice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
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Messina R.A.: Vetri d’aria. Novembre 1990.
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Cappi F.: La trasfusione del sangue dalle origini ai nostri giorni. Aprile 1992.
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Vecchi F.: Tutto quello che avreste dovuto sapere di un laboratorio analisi e la
mamma non vi ha detto. Febbraio 1995.
Casaglia G.: Kronos-Travel-L’unica Agenzia specializzata in viaggi nel tempo!
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Contini C. Romanzi brevi: La nana di Mantova; La camera della Badessa.
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anno 12, numero 29
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