Maggio-Giugno - Anno 7 - n. 5-6 - 2004 Il ruolo della radioterapia nel linfoma di Hodgkin: luci ed ombre agli albori del XXI secolo Alessandro Magli, Anna Merlotti Vittorio Vavassori, Michele Tordiglione Dieta mediterranea e micronutrienti nella prevenzione primaria del carcinoma prostatico Lucio Miano Problematiche auxologiche e puberali nella β-talassemia omozigote Spedizione in abbonamento postale - 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Filiale di Milano Giuseppe Raiola, Maria Concetta Galati Vincenzo De Sanctis, Vincenzo Arcuri PRIMO PIANO Infezioni delle vie urinarie non complicate (seconda di tre parti) Pietro Cazzola Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 129 Il ruolo della radioterapia nel linfoma di Hodgkin: luci ed ombre agli albori del XXI secolo Scripta MEDICA Alessandro Magli, Anna Merlotti, Vittorio Vavassori, Michele Tordiglione pag. 131 Direttore Responsabile Pietro Cazzola Direzione Marketing Armando Mazzù Registrazione Tribunale di Milano n.383 del 28/05/1998 Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa n.10.000 Redazione e Amministrazione Scripta Manent s.n.c. Via Bassini, 41 - 20133 Milano Tel. 0270608091 - 0270608060 Fax 0270606917 E-mail: [email protected] Dieta mediterranea e micronutrienti nella prevenzione primaria del carcinoma prostatico Lucio Miano pag. 145 Problematiche auxologiche e puberali nella β-talassemia omozigote Giuseppe Raiola, Maria Concetta Galati, Vincenzo De Sanctis, Vincenzo Arcuri pag. 166 Consulenza Amministrativa Cristina Brambilla Consulenza grafica Piero Merlini Impaginazione Felice Campo Stampa Parole Nuove s.r.l. Brugherio (MI) È vietata la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, di articoli, illustrazioni e fotografie pubblicati su Scripta MEDICA senza autorizzazione scritta dell’Editore. L’Editore non risponde dell’opinione espressa dagli Autori degli articoli. PRIMO PIANO Infezioni delle vie urinarie non complicate (seconda di tre parti) Pietro Cazzola pag. 173 Edizioni Scripta Manent pubblica inoltre: ARCHIVIO ITALIANO DI UROLOGIA E ANDROLOGIA RIVISTA ITALIANA DI MEDICINA DELL’ADOLESCENZA INFORMED, CADUCEUM, IATROS, EUREKA Diffusione gratuita. Ai sensi della legge 675/96 è possibile in qualsiasi momento opporsi all’invio della rivista comunicando per iscritto la propria decisione a: Edizioni Scripta Manent s.n.c. Via Bassini, 41 - 20133 Milano Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 1131 Il ruolo della radioterapia nel linfoma di Hodgkin: luci ed ombre agli albori del XXI secolo Alessandro Magli1, Anna Merlotti2, Vittorio Vavassori1, Michele Tordiglione1 Introduzione I linfomi di Hodgkin rappresentano poco più dell’1% di tutte le neoplasie. Sebbene I’eziologia non sia dei tutto nota, sono stati indIviduati gruppi di pazienti con un aumentato rischio di sviluppare la malattia. Tale rischio è stato correlato a vari fattori, ma l’ipotesi di una infezione virale è quella più accreditata. In pratica, un virus che possiede un oncogene a bassa potenzialità, infettando un individuo geneticamente predisposto (associazione con determinati tipi di HLM ed interagendo con fattori ambientali, sarebbe in grado di causare la malattia con una probabilità crescente all'aumentare dell’età in cui avviene l’infezione. La sede dell’esordio è quasi sempre linfonodale, più frequentemente lungo il decorso e le diramazioni del dotto toracico, e si diffonde per via linfatica con l’interessamento di stazioni linfonodali contigue. L’insorgenza della malattia si osserva in tutte le classi di età, ma l’incidenza massima si manifesta tra i 15 e i 30 anni. Gli individui di sesso maschile risultano essere più colpiti rispetto a quelli di sesso femminile con un rapporto di 1,5:1. Nel 50-60% dei pazienti compaiono sintomi sistemici quali febbre, sudorazione notturna, prurito e perdita di peso superiore al 10% in 6 mesi o meno, senza causa apparente. Anatomia patologica La classificazione istopatologica prevede la suddivisione dei linfomi di Hodgkin in quat1 2 Divisione di Radioterapia, Ospedale di Circolo, Varese Divisione di Radioterapia, Ospedale di Circolo, Busto Arsizio tro sottogruppi di seguito elencati. In tutti gli istotipi sono presenti le caratteristiche cellule di Reed-Sternberg, cellule neoplastiche giganti considerate l’elemento essenziale in tutte le forme di linfoma di Hodgkin. La loro individuazione nel reperto bioptico della neoplasia è fondamentale per la formulazione della diagnosi. 1. Prevalenza linfocitaria nodulare o diffusa. La varietà nodulare si caratterizza per un’alta incidenza di recidive tardive, un possibile coinvolgimento midollare all’esordio ed un’alta predilezione per i soggetti nella quarta decade, elementi che rendono questa forma più simile ad un linfoma non Hodgkin a basso grado di malignità. Diagnostica è la presenza di cellule di Reed-Sternberg che esprimono recettori CD20+ e CD15 -. La classificazione WHO riconosce una nuova entità di linfoma di Hodgkin con morfologia similare alla varietà a prevalenza linfocitaria, con cellule di Reed-Sternberg che hanno una morfologia classica ma esprimono recettori CD30+, CD15+ e CD20 -. 2. Sclerosi nodulare. È la forma a maggior incidenza, interessa frequentemente pazienti giovani e maggiormente quelli di sesso femminile. Si localizza principalmente in sede sopradiaframmatica. Caratteristica la presenza di cellule di Reed-Sternberg a variante lacunare. 3. Cellularità mista. È il secondo istotipo per incidenza, si localizza a livello linfonodale ed extralinfonodale (frequente l’interessamento splenico), con associazione di sintomi sistemici. 4. Deplezione linfocitaria. Ha una prognosi peggiore rispetto alle altre varianti, si manifesta spesso in pazienti di età inferiore ai 50 anni, con sintomi sistemici ed in Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 132 stadio avanzato all’esordio. Questo istotipo è frequentemente associato ad infezione da HIV. Si osserva la presenza di numerose cellule di Reed-Sternberg. Classificazione I LMH vengono suddivisi in quattro stadi secondo la classificazione di Costwold (1989) (Tabella 1) che ha aggiornato quella proposta ad Ann Arbor nel 1971 e prevede una definizione dello stadio clinico (cs) e patologico (ps). Rispetto alla classificazione di Ann Arbor viene introdotto il suffisso “x” che permette di identificare i pazienti con malattia bulky (nel mediastino: rapporto tra diametro massimo della massa adenopatica e diametro interno trasversale del torace > 0,33 misurato in postero-anteriore a livello dei somi vertebrali di D5-D6, in altre sedi diametro massimo dell’adenopatia > 10 cm). Viene anche definito il numero di sedi linfonodali interessate nello stadio II, dato questo prognosticamente significativo. Lo stadio III infine viene suddiviso in due sottogruppi: III1 con interessamento linfonodale addominale superiore (attorno all’asse celiaco) e III2 con compromissione dei linfonodi addominali inferiori (paraaortici, iliaci e mesenterici), caratterizzato da prognosi infausta dopo sola radioterapia rispetto al gruppo III1. Stadio I Interessamento di una singola regione linfonodale o struttura linfoide (ad es. milza, timo, anello di Waldeyer). Stadio II Interessamento di due o più regioni linfonodali dello stesso lato del diaframma (il mediastino costituisce una singola sede, i linfonodi un’altra sede). Il numero delle sedi anatomiche deve essere indicato da un suffisso (ad es. II3). Tabella 1. Classificazione in stadi secondo Cotswolds. Lister TA, et al. Semin Oncol 1990; 17:700. Stadio III Interessamento di regioni o strutture linfonodali da entrambi i lati del diaframma • III1: con o senza adenopatie dell’ilo splenico epatico o del tripode celiaco • III2: con adenopatie para-aortiche, iliache, mesenteniche. Stadio IV Interessamento di una o più sedi extralinfonodali la cui compromissione supera quella designata come “E”. “A” “B” “X” “E” “SC” “SP” Assenza di segni sistemici Presenza di segni sistemici (febbre> 38°C, sudorazione prevalentemente notturna, perdita di peso corporeo >10% nei 6 mesi precedenti la diagnosi Adenopatia massiva (bulky) • allargamento del medesimo >1/3 • massa linfonodale >10 cm Interessamento di una singola struttura extralinfonodale ma contigua o prossimale a una nota sede linfonodale Stadio clinico Stadio patologico GHSH EORTC NCI Canada Malattia mediastinica bulky (rapporto mediastino/ torace ≥ 0,33) Malattia mediastinica bulky (rapporto mediastino/ torace ≥ 0,35) Istologia CM o DL VES ≥ 50 senza o ≥ 30 con sintomi B VES ≥ 50 senza o ≥ 30 con sintomi B VES elevata ≥ 3 stazioni linfonodali coinvolte ≥ 4 stazioni linfonodali coinvolte ≥ 4 stazioni linfonodali coinvolte Interessamento extralinfonodale Età ≥ 50 anni Età ≥ 40 anni Tabella 2. Fattori prognostici avversi negli stadi I-II definiti da tre differenti Gruppi di Studio. Scripta MEDICA Il ruolo della radioterapia nel linfoma di Hodgkin: luci ed ombre agli albori del XXI secolo 133 Tabella 3. Gruppi prognostici definiti dal GHSG. STADIO Fattori di rischio Nessuno ≥ 3 aree linfonodali Alta VES IA, IB, IIA IIB III, IV Stadio Iniziale Stadio Intermedio Stadio Intermedio Interessamento extranodale Bulky mediastinico Stadio StadioAvanzato Avanzato Prognosi La prognosi dei linfomi di Hodgkin è migliorata nel corso degli anni grazie ad una migliore conoscenza degli aspetti istobiologici, ad un accurato staging ed all’introduzione della polichemioterapia come modalità terapeutica integrata con la radioterapia. La scelta del trattamento dipende dallo stadio di malattia, dalla presenza o assenza di vari fattori prognostici e dal tentativo di ridurre al minimo gli effetti collaterali a lungo termine delle terapie. È riconosciuto il valore prognostico della divisione in stadio iniziale ed avanzato (Costwold I-II vs III-IV). Molti Gruppi di Studio sui linfomi suddividono ulteriormente i pazienti in stadio iniziale, in gruppi a prognosi favorevole, intermedia e sfavorevole sulla base di fattori prognostici non sempre uniformi tra loro (Tabella 2) (1). Per gli stadi avanzati l’International Prognostic Factor Project ha identificato su oltre 5.000 pazienti di 25 differenti Centri, un indice prognostico (IPS) in seguito ampiamente validato dalla Letteratura (2). L’IPS include 7 fattori prognostici avversi: età ≥ 45 anni, sesso maschile, anemia, ridotta albumina sierica, stadio IV, leucocitosi e leucopenia. Recentemente e con risultati modesti, è stato testato il valore prognostico predittivo dell’IPS in pazienti in stadio iniziale nel gruppo a prognosi sfavorevole (3). Il German Hodgkin Lymphoma Study Group (GHSG) (4) ha identificato in pazienti con linfoma maligno di Hodgkin (LMH) quattro classi di rischio per ripresa di malattia dopo la sola radioterapia (Tabella 3): 1. basso rischio: cs I-II senza fattori prognostici sfavorevoli; 2. rischio intermedio: cs I-IIIIIA1 con fattori prognostici sfavorevoli; 3. alto rischio: cs IIIA2-IIIB-IV; 4. gruppo eterogeneo: ripresa di malattia. Stadiazione Lo stadio di malattia è il fattore che maggiormente influenza la prognosi e quindi la scelta terapeutica. Diviene pertanto fondamentale una corretta procedura di stadiazione che consenta una precisa definizione dell’estensione di malattia, soprattutto in alcune sedi strategiche quali midollo osseo, fegato, milza e stazioni linfonodali retroperitoneali. Biopsia Esame diagnostico essenziale per la tipizzazione istologica. Radiografia standard del torace Rappresenta il mezzo più economico per documentare un interessamento mediastinico e polmonare. È una metodica dotata di bassa sensibilità per le lesioni più piccole, ma espone il paziente a basse dosi di radiazione. Tomografia Computerizzata (TC) L’ avvento della TC spirale ha reso più semplice l’estensione dell’indagine a tutti i distretti corporei. Il mezzo di contrasto e.v. è utile solo per lo studio di alcune sedi come reni, pancreas, fegato e milza. L’utilizzo del contrasto per os è imperativo per l’identificazione delle localizzazioni addominali di malattia, in particolare con coinvolgimento mesenterico o intestinale. Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 134 Lo sviluppo delle metodiche computerizzate per la determinazione delle dimensioni delle lesioni ha reso più facile la valutazione della risposta alle terapie ed ha eliminato una fonte di errore legata alla soggettività degli operatori. Risonanza Magnetica (RM) Non offre vantaggi rispetto alla TC nell’identificazione delle localizzazioni linfonodali in sede toracica o addominale. La risoluzione spaziale infatti risulta inferiore ed i movimenti respiratori e addominali possono deteriorare in misura considerevole la qualità delle immagini. La RM offre vantaggi solo nello studio del midollo spinale e nei casi in cui le sezioni coronali o sagittali risultino più appropriate per indagare particolari strutture, ad es. diaframma, apice polmonare, pelvi. Metodiche scintigrafiche Tutti gli istotipi del LMH mostrano una discreta affinità per il Gallio-67, in particolare la varietà a sclerosi nodulare. L’esame scintigrafico di stadiazione deve essere eseguito prima dell’inizio di qualsiasi terapia steroidea, chemioterapica o radioterapica, poiché l’iniezione del radiofarmaco effettuata anche poche ore dopo l’inizio delle suddette terapie è gravata da un rischio significativo di falsi negativi. La scintigrafia basale con Gallio-67 consente di individuare le sedi di malattia in cui è necessario effettuare indagini TC o RM di approfondimento. È utile nella valutazione della risposta dopo terapia, in particolare, come nel caso di bulky mediastinico per differenziare i residui fibrotici dai residui di malattia non distinguibili con TC o RM. È un esame non dotato di specificità: altri tumori, oltre ai linfomi, mostrano un’affinità per il Gallio-67, come anche una grande varietà di disordini infiammatori (falsi positivi dopo radioterapia e chemioterapia con bleomicina) e focolai infettivi. La sensibilità (potere predittivo negativo) della scintigrafia con Gallio-67 è invece elevata: 89-96%. La PET (tomoscintigrafia ad emissione di positroni) è una metodica scintigrafica che utilizza il 2-fluoro desossiglucosio, un analogo del glucosio, che è trasportato ed accumulato senza giungere al termine della sua via metabolica nelle cellule tumorali dotate di un incrementato metabolismo rispetto alle cellule normali. È caratterizzata da un’alta sensibilità (80-100%) e una buona specificità (76-100%). Quando la PET mostra dati discordanti con altre metodiche risulta corretta nel 40-96% dei casi. È inoltre superiore alla scintigrafia con Gallio-67 nell’identificazione di localizzazioni spleniche. Alcuni Autori (5) hanno mostrato che la valutazione quantitativa della malattia effettuata con la PET ha un valore prognostico predittivo. Laparotomia Permette la massima accuratezza nella definizione dell’estensione di malattia in sede addominale, soprattutto a livello splenico. Questa metodica è stata abbandonata come procedura di routine nella stadiazione, in considerazione dell’elevata morbilità e della necessità di ritardare l’inizio delle terapie di circa 2-3 settimane. Prima della diffusione delle terapie combinate anche negli stadi iniziali I e IIA non bulky, la stadiazione con laparotomia permetteva di escludere localizzazioni occulte sottodiaframmatiche, consentendo l’attribuzione certa (stadiazione patologica) a stadi di malattia con prognosi favorevole dopo sola radioterapia (sopravvivenza 90%). Il ruolo della radioterapia Il ruolo della radioterapia nella cura del LMH ha riconosciuto un’importante evoluzione dagli esordi ai giorni nostri. In seguito ad una prima fase di valutazione dell’efficacia agli inizi del secolo scorso, la radioterapia si è affermata quale trattamento standard del LMH, pur con risultati subottimali (6-10). La necessità di migliorare i risultati della radioterapia ha determinato, a partire dagli anni ‘60, lo sviluppo e l’evoluzione del concetto di trattamento precauzionale delle aree linfatiche contigue a quelle coinvolte all’e- Scripta MEDICA Il ruolo della radioterapia nel linfoma di Hodgkin: luci ed ombre agli albori del XXI secolo 135 sordio della malattia. Nello stesso periodo sono stati condotti anche i primi studi sulla relazione dose-risposta (11-13). Dagli anni ‘80, grazie al decisivo sviluppo delle terapie combinate e allo studio accurato dei fattori prognostici, con l’identificazione di precise classi di rischio e la possibilità di individualizzare l’iter terapeutico per i vari gruppi di pazienti, si è ottenuto un rilevante miglioramento della sopravvivenza e del controllo di malattia negli stadi avanzati. Nell’ultimo decennio sono state condotte numerose analisi retrospettive dalle quali è emerso che, nei pazienti trattati per LMH, a 15 anni dalla diagnosi la mortalità per altre cause supera quella per LMH. In un’analisi della Stanford University (14) il rischio assoluto di decesso per altre cause ogni 5 anni di follow-up è risultato inferiore per pazienti trattati in anni più recenti (1980-1995), rispetto a quelli trattati in periodi precedenti (1962-1979). In una review olandese è riportato un rischio di morte cumulativo a 20 anni del 33% per LMH e del 20% per altre cause (15). Questi risultati hanno condotto ad una sostanziale revisione critica delle indicazioni radioterapiche in termini di dosi e volumi, soprattutto alla luce del progressivo incremento dell’associazione con la chemioterapia anche negli stadi iniziali di malattia (16-19). Vi sono numerosi studi clinici in corso finalizzati a fornire una risposta alle molteplici problematiche legate alla terapia combinata nei LMH: • elevata incidenza di complicanze tardive (cardiopatie e secondi tumori); Tabella 4. Autore/anno Tipo di studio End point Popolazione Risultati Specht/1998 Metanalisi Volumi ridotti A: extended fields B: involved fields 1962-1982, 8 trials A: 1.005 pz. B: 969 pz. OS% 77 vs 77 Brinker/1994 Dose ottimale per controllo di malattia 4.117 campi dal 1960 al 1990 Nessuna relazione dose-risposta sopra i 32.2 Gy 169 pazienti 1967-1994 Nessuna relazione dose-risposta sopra i 30 Gy Mendenhall/1999 Dose ottimale per Review controllo di malattia TF= treatment failure, IF= involved fields, EF= extended fields, OS= overall survival Commento TF% a 10 aa 31 vs 43 (p<0.00001) EF producono un tasso inferiore di TF ma non si osservano differenze nell’OS poiché la mortalità in eccesso per ripresa di malattia con IF è bilanciata dalla mortalità in eccesso per tossicità tardiva con EF. 30 Gy sono sufficienti per la malattia subclinica o per volumi tumorali piccoli Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 136 • necessità di ridurre l’intensità del trattamento (dosi e volumi di radioterapia, numero di cicli di chemioterapia) a parità di risultati (overall cure rate ≥ 70%); • miglioramento della sopravvivenza nella malattia avanzata. Revisione degli studi in corso e della letteratura Early stages (I-II senza fattori prognostici negativi) e stadi intermedi (I-II con fattori prognostici sfavorevoli) 1. Radioterapia da sola: valutazione dei volumi e delle dosi (Tabella 4) 2. Radioterapia vs chemioterapia Due studi randomizzati condotti negli anni ‘90 hanno confrontato la radioterapia con la chemioterapia secondo lo schema MOPP giungendo a conclusioni differenti. Questi studi non sono ritenuti rilevanti ai giorni nostri a causa della chemioterapia non ottimale e dell’utilizzo della laparotomia nella stadiazione. Il NCI in Canada sta conducendo un trial randomizzato in pazienti di età inferiore a 40 anni con fattori prognostici favorevoli, in cui viene confrontata l’irradiazione nodale subtotale (STNI=subtotal nodal irradiation) con 4-6 cicli di chemioterapia secondo lo schema ABVD. Non vi sono ancora risultati disponibili. 3. Radioterapia da sola vs chemioradioterapia (Tabella 5) 4. Chemioradioterapia vs sola chemioterapia Sono disponibili solo i risultati di uno Studio Clinico svedese pubblicato nel 1996 in cui il trattamento combinato offre migliori tassi di sopravvivenza libera da malattia. Vi sono quattro studi attualmente in corso (MSKCC, NCI Canada/ECOG, GHSG 13 e CALGB). 5. Riduzione della dose e del volume irradiato dopo CHT Sono in corso due trials del German Hodgkin Study Group in cui vengono valutati due livelli di dose (20 Gy e 30 Gy) su “involved field” in stadi iniziali ed intermedi dopo 2 o 4 cicli di chemioterapia. Lo Studio dell’EORTC H9-F attualmente in corso sta valutando tre livelli di dose: 36, 20 e 0 Gy in pazienti in risposta completa dopo 6 cicli di chemioterapia. In conclusione dalla Letteratura emerge come nei LMH in stadio iniziale: • campi estesi di radioterapia riducono il tasso di recidive ma non influenzano la sopravvivenza; • l’aggiunta di chemioterapia alla radioterapia riduce il tasso di recidive, non influenza la sopravvivenza ma permette l’utilizzo di campi di irradiazione più limitati; • la dose ottimale di radioterapia non è ancora definita. Per la malattia subclinica 30 Gy sono sufficienti; la dose di 32-30 Gy potrebbe essere ottimale per il controllo tumorale. Dopo chemioterapia la dose di radioterapia potrebbe essere ridotta a 20 Gy sulle sedi non bulky; • l’orientamento attuale di far seguire ad un breve corso di chemioterapia radioterapia “involved field” è supportato da 5 studi clinici randomizzati sinora pubblicati solo in forma di abstract; • nessuno studio controllato ha sinora risposto al quesito se nei LMH in stadio iniziale ed intermedio sia possibile omettere del tutto il trattamento radioterapico. Advanced stages (III-IV) La terapia di scelta negli stadi avanzati è la combinazione di chemioterapia e radioterapia, con cui si ottengono tassi di remissione completa del 60-90%. Un terzo circa dei pazienti sviluppa in seguito una recidiva, l’80% entro i primi 3 anni. Recentemente l’International Prognostic Factor Project ha sviluppato, analizzando i dati di oltre 5.000 pazienti di 25 differenti Centri, un indice prognostico (IPS) in 7 punti, in cui ogni fattore prognostico avverso è predittivo per una riduzione del tasso di sopravvivenza libera da progressione dell’8%. Dopo 5 anni il tasso di sopravvivenza libera da progressione risultava dell’80% senza fattori prognostici avversi e del 42% con 5 o più fatto- Scripta MEDICA Il ruolo della radioterapia nel linfoma di Hodgkin: luci ed ombre agli albori del XXI secolo 137 Tabella 5. Autore/anno Tipo di studio End point Popolazione Risultati Specht/1998 Metanalisi Valutare beneficio dell’aggiunta della CHT alla RT A: RT+CHT B: RT 1967-1988 13 trials St IA-IIIB A: 839 pz B: 856 pz OS% 79 vs 77 TF% a 5 aa 16 vs 33 L’aggiunta della CHT riduce le recidive ma non modifica OS. Molti studi analizzati prevedevano l’uso dello schema MOPP e di campi di irradiazione estesi nei pz che non ricevevano CHT. In alcuni studi sono stati inclusi pz in stadio avanzato. Siebert/2001 Studio clinico Valutare beneficio dell’aggiunta della CHT alla RT A: RT B: ABVDx2+RT 1994-1998 St IA-IIA A: 282 pz B: 289 pz OS% 98 vs 98 FFTF% a 22 mesi 84 vs 96 (p< 0.05) La CHT neoadiuvante riduce il tasso di recidive ma non modifica OS. Abstract. Follow-up breve Press/2001 Studio clinico Valutare beneficio dell’aggiunta della CHT alla RT A: STNI B: STNI+CHT 1989-2000 St I-IIA non bulky A: 161 pz B: 165 pz OS% 96 vs 96 FFS% a 3 aa 81 vs 94 (p< 0.001) La CHT neoadiuvante riduce il tasso di recidive ma non modifica OS. Ridurre campi di RT con l’aggiunta della CHT A: STNI B: EBVPx6+IF 1988-1993 St I-II favorevoli A: 165 pz B: 168 pz OS% 96 vs 98 RFS% a 6 aa 81 vs 92 (p< 0.004) Con la CHT è possibile ridurre i volumi irradiati. La CHT neoadiuvante riduce il tasso di recidive ma non modifica OS. 1993-1999 St I-II favorevoli A: 272 pz B: 271 pz OS% 96 vs 99 TFFS% a 46 mesi 77 vs 99 (p< 0.001) Con la CHT è possibile ridurre i volumi irradiati. La CHT neoadiuvante riduce il tasso di recidive ma non modifica OS. Noordijk/1997 Studio Clinico Meerwaldt/2001 Ridurre campi di RT Studio Clinico con l’aggiunta della CHT A: STNI B: MOPP/ABVDx3+IF commento TF= treatment failure, IF= involved fields, EF= extended fields, OS= overall survival FFTF= freedom from treatment faiulure, FFS= failure free survival, RFS= relapse free survival, TFFS= treatment failure free survival ri prognostici negativi presenti. L’indice prognostico in 7 punti è risultato anche predittivo della sopravvivenza globale a 5 anni che variava dal 90% al 56%. Il reale contributo della radioterapia nei pazienti affetti da LMH in stadio avanzato dopo chemioterapia è ancora incerto e controverso. In uno studio dello SWOG (South- west Oncology Group) sono stati riportati tassi di remissione completa del 61% dopo chemioterapia e dell’80% con l’aggiunta di basse dosi di radioterapia (20 Gy). In una casistica svedese il tasso di remissione completa passava dal 72% dopo 8 cicli di chemioterapia al 91% con l’aggiunta di radioterapia (40 Gy) sui residui di malattia. In un trial randomiz- Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 138 Malattia bulky mediastinica Il mediastino è una sede coinvolta nel 70% dei casi di LMH ed in un terzo dei pazienti il coinvolgimento è considerato bulky (ratio mediastino/torace ≥ 0,33). La malattia bulky in genere, e quella mediastinica in particolare, è considerata un fattore prognostico avverso con un’alta frequenza di recidive sia dopo chemioterapia che dopo radioterapia come uniche modalità di trattamento. È consuetudine nella pratica clinica somministrare radioterapia di consolidamento sulle sedi bulky dopo chemioterapia, anche se ad oggi non vi sono dati in Letteratura che dimostrino un vantaggio in termini di sopravvivenza e controllo di malattia. D’altra parte il valore prognostico della malattia bulky si riduceva in alcune casistiche non controllate dopo trattamento combinato, suggerendo comunque un ruolo favorevole della radioterapia. È riportato un solo studio clinico controllato con un numero limitato di pazienti in risposta completa dopo chemioterapia, trattati con radioterapia o chemioterapia di consolidamento; nessuna differenza in termini di sopravvivenza globale e libera da malattia è emersa nei due sottogruppi di pazienti. Trattamento delle recidive Anche per quanto riguarda il trattamento delle recidive, esiste in Letteratura un dibattito ancora irrisolto. Vi sono tuttavia indicazioni secondo le quali la radioterapia può rappresentare una potenziale alternativa in pazienti in ripresa di malattia dopo sola chemioterapia, con possibilità di remissioni complete di circa il 70% in casi selezionati quali: • recidive dopo > 1 anno dalla fine della chemioterapia; • malattia localizzata all’esordio; • esordio sede linfonodale. D’altra parte, il ruolo del consolidamento radioterapico dopo chemioterapia ad alte dosi e trapianto di midollo deve ulteriormente essere valutato nell’ambito di studi prospettici controllati (21). Relazione dose-risposta Le basi razionali degli studi sopra riportati si possono ricavare dall’analisi di fattori radiobiologici e clinici. La malattia di Hodgkin, come la maggior parte delle neoplasie del sistema linfatico, è caratterizzata, dal punto di vista radiobiologico, da una ridotta capacità di riparazione del danno sub-letale radioindotto, fatto che indica una sua evidente radiosensibilità. I dati sull’esistenza di una relazione doserisposta, proprio perché si tratta di una malattia generalmente molto radioresponsiva, sono alquanto controversi ed indicano chiaramente solo la forma di questa relazione, cioè una sigmoide. Per la malattia sub-clinica o limitata, il range terapeutico di dosi che garantiscono un controllo locale in circa il 75% dei casi si colloca tra i 20 ed i 30 Gy. Nella malattia bulky non si è potuto evidenziare una relazione ben definita, principalmente a causa dei biases statistici da cui sono gravati gli studi retrospettivi effettuati. Per le terapie combinate invece sono emerse indicazioni convincenti sulla possibilità di ridurre le dosi della radioterapia. Una delle prime analisi retrospettive sulla 100 80 % Controlli zato italiano 14 su 15 pazienti in risposta parziale dopo chemioterapia hanno ottenuto una risposta completa dopo radioterapia sulle sedi di persistenza di malattia (20). Attualmente in Germania è in corso un altro studio randomizzato volto a chiarire il ruolo della radioterapia in aggiunta alla chemioterapia negli stadi avanzati. 60 40 20 0 1000 2000 3000 4000 Dose (R) Figura 1. Curve di dose-risposta per i linfomi di Hodgkin. Analisi su casistiche retrospettive. Fletcher GH, Shukovsky LJ. J Radiol Electrol 1975; 56:383. Scripta MEDICA Il ruolo della radioterapia nel linfoma di Hodgkin: luci ed ombre agli albori del XXI secolo 139 100 80 % Controlli Figura 2. Curve dose-riposta per malattia sub-clinica (curva A); nodulo ∅ < 6 cm (curva B); nodulo ∅ > 6 cm (curva C). Vijayakumar S, et al. Radiother Oncol 1992; 24:1-13. 60 A 40 B 20 C 0 0 Figura 3. Curve dose-risposta per livelli di dose. Brincker H et al. Radiother Oncol 1994; 30:227. 10 20 30 40 Dose (Gy) 50 60 % In-field Control 100 95 90 85 30 40 45 Dose (Gy) 50 <50 anni ≥50 anni 100 80 % Controlli Figura 4. Sopravvivenza libera da recidiva (RFS) in relazione all’età (< 50 anni: 70 pz.; ≥ 50 anni: 39 pz.). Casistica Ospedale di Circolo, Varese. Antognoni P, et al. Radiol Med 1992; 84 (S 1):16. 35 60 40 20 p=0.02 0 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Anni relazione dose-risposta venne condotta da Fletcher e Shukovsky nei primi anni ‘70 (Figura 1), reinterpretando una precedente analisi di Kadplan. Questi autori concludevano che dosi di 3500 R (Roentgen) somministrate in circa 6 settimane erano in grado di produrre percentuali di controllo locale almeno pari al 95%, mentre dosi superiori non incrementavano significativamente questi risultati e potevano altresì aumentare le complicanze. Sulla scorta di questi dati, all’inizio degli anni ‘90, il gruppo dell’University of Chicago ha effettuato un’ulteriore analisi dei dati di Fletcher, riconfermando da un lato la forma sigmoide della relazione dose-risposta e proponendo in aggiunta anche dei livelli di dose differenziati in relazione alle dimensioni della malattia (Figure 2 e 3). Una successiva rianalisi di questi dati, fatta da Brincker e Bentzen nel 1994 (22), non ha dimostrato alcuna relazione dose-risposta per livelli di dose superiori a 32.5 Gy. Questi Autori pertanto, concludevano che non esistono evidenze statisticamente significative che il controllo locale possa essere migliorato con dosi superiori ai 32.5 Gy, mentre anche la dose per frazione ed il tempo totale di trattamento risultano non influenzare significativamente il controllo locale. L’esistenza di dati così controversi sulla relazione dose-risposta impone a questo punto un riferimento clinico più concreto e certo, quale è quello rappresentato dai fattori prognostici. I fattori prognostici sono stati ampiamente studiati nell’ambito di numerosi studi clinici, pertanto è attualmente possibile stratificare i pazienti in almeno quattro classi di rischio che formano la base dei più recenti studi prospettici (Tabella 6). L’importanza dei fattori prognostici nella selezione ed individuazione dei trattamenti è del resto evidente anche in studi clinici retrospettivi, come nella casistica storica di Varese dalla quale, all’interno degli stadi IIIA, emerge l’influenza decisiva del fattore età sulla sopravvivenza libera da malattia (Figura 4). Volumi della radioterapia I volumi classicamente trattati nel trattamento radioterapico per la malattia di Hodgkin sono riportati nella Tabella 7. La terminologia ha avuto origine nel tempo in cui la radioterapia rappresentava il trattamento esclusivo. Oggi, nell’era dei trattamenti integrati, ci si riferisce essenzialmente agli “involved fields” sebbene la definizione di questi non sia uni- Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 140 voca. Infatti, non è ancora stato chiarito cosa si debba intendere per area linfonodale a rischio, ad esempio dopo remissione completa ottenuta con chemioterapia primaria. Razionale della terapia combinata (CMT) Stadio+++ Istotipo VES Età Bulky N° sedi coinvolte ) (> 4 vs < 4 Sintomi “B” Tabella 6. Fattori prognostici e stratificazione classi di rischio. Basso rischio: c.s. I-II senza fattori prognostici sfavorevoli Intermedio: c.s. I-II-IIIA1 con fattori prognostici sfavorevoli Alto: IIIA2, IIIB, IV Riprese di malattia: gruppo eterogeneo La terapia combinata trae il suo Involved-field (IF = intera area linfonodale a rischio) razionale essenzialmente da due considerazioni: Extended-field (EF = IF+aree contigue a rischio di 1. dopo RT esclusiva le recidive malattia sub-clinica) si manifestano prevalentemente al di fuori dei campi Mantle-field (= tutte le stazioni linfonodali sopradiadi irradiazione, in aree contiframmatiche) gue non irradiate, oppure ai Total nodal (TN = tutte le areee linfatiche) margini dei campi; 2. dopo CHT esclusiva le reciSub-Total nodal (STN = TN-linfonodi pelvici ed inguinodive si manifestano prevafemorali) lentemente sulle aree linfonodali coinvolte all’esordio Inverted-Y (= linfonodi L-A, pelvici, inguino-femorali) (23). Pertanto, è ragionevole pensare che la terapia combinata affidi alla chemioterapia il controllo Polmoniti Occlusioni Intestinali della malattia sub-clinica e alla (↑ dopo laparotomia) radioterapia il controllo della malattia macroscopica entro gli Fibrosi polmonare Alterazioni gonadiche “involved fields”. Pericardite Alterazioni sviluppo Di pari passo allo sviluppo osseo e tessuti molli delle terapie combinate si è (pazienti pediatrici) riproposto con insistenza crescente il problema delle dosi di IMA Secondi tumori radioterapia. S. Lhermitte A questo proposito, esistono vari studi retrospettivi e proMielite trasversa spettici, a partire da quelli (tecnica RT sub-ottimale) pediatrici, continuando con Disfunzione tiroidee quelli dello SWOG per finire con quelli recenti ed in parte ancora in corso del gruppo tedesco per lo studio del-l’Hodgkin, sembraAspetti tecnici no indicare la possibilità di riduzione delle dosi di RT nei trattamenti integrati. L’analisi del ruolo della radioterapia non Resta invece ancora aperto il problema dei sarebbe completa se non si considerassero pazienti con malattia “bulky”, per i quali anche gli aspetti tecnici del trattamento dal sarebbero necessari studi clinici di fase III. momento che questi hanno un effetto diret- Tabella 7. Volumi radioterapici. Tabella 8. Complicanze tardive da radioterapia. Mendenhall NP, et al. Current Radiot Oncol 2:241, Arnold, London 1996. Scripta MEDICA Il ruolo della radioterapia nel linfoma di Hodgkin: luci ed ombre agli albori del XXI secolo 141 to sui risultati e sulla compliance. Ricordiamo come la tecnica dei campi sagomati, con tutte le problematiche esecutive e fisicodosimetriche che la caratterizzano quali: campi irregolari, dose off-axis, punto di prescrizione della dose, dose agli organi critici (OARs), utilizzo di compensatori per la regione cervicale e calcolo della dose ai polmoni, sia la più impiegata in ambito radioterapico. La Letteratura più recente (24-26) ha segnalato anche per questa patologia, la possibilità di un miglioramento significativo dei risultati nel caso in cui si faccia ricorso ad uno studio 3D del treatment planning, eventualmente associato a promettenti tecniche di “active breathing control” che hanno lo scopo di sincronizzare l’irradiazione con gli atti respiratori per ridurre la dose al tessuto polmonare sano. hanno un rischio di mortalità per malattie cardiache sette volte superiore a quello della popolazione. Per quanto riguarda l’insorgenza di una seconda neoplasia, possiamo dire che si tratta essenzialmente di tumori solidi con incidenza del 10-15%, che si manifestano soprattutto a carico del polmone e della mammella ed hanno una chiara correlazione con le dosi ed i volumi della radioterapia. Emolinfopatie, leucemie acute e linfomi non Hodgkin, presentano invece una più diretta correlazione con la chemioterapia, soprattutto nel caso di regime MOPP. In ogni caso, è stato riscontrato che dopo radioterapia il rischio di mortalità per seconda neoplasia è dieci volte superiore rispetto a quello della popolazione. Conclusioni Complicanze tardive della radioterapia Le complicanze della radioterapia sono legate alla dose totale, alla dose per frazione, al volume di tessuto irradiato, alla tolleranza dei tessuti normali all’interno del volume di trattamento ed all’età del paziente. Nell’ambito della serie di complicanze che è possibile riscontrare (Tabella 8) le più gravi, cioè quelle che incidono in modo significativo sul tasso di mortalità dei pazienti lungo sopravviventi, sono senza dubbio l’alterazione cardiaca ed il secondo tumore. Alterazioni cardiache di vario genere insorgono in pazienti che hanno ricevuto radioterapia sul mediastino e si manifestano nel 25-50% dei pazienti lungo sopravviventi. Il rischio di insorgenza è significativamente aumentato per dosi maggiori di 40 Gy. Si tratta essenzialmente di pericarditi, per le quali è evidente la relazione con le dosi ed i volumi di trattamento, e di infarti del miocardio che hanno invece un’eziologia multifattoriale in cui l’irradiazione spesso gioca un ruolo di fattore scatenante. Il dato certo, secondo una recentissima analisi di Lee (27), è che dopo radioterapia esclusiva con intento curativo i pazienti I risultati indicano che, sebbene non possa essere considerata come trattamento esclusivo di riferimento, la radioterapia conserva un suo ruolo nel trattamento della malattia di Hodgkin. È necessario tuttavia modulare la terapia in relazione ai fattori prognostici ed al rischio di complicanze tardive. La radioterapia come trattamento esclusivo trova indicazioni in casi selezionati, come ad esempio gli stadi iniziali (early stage) con fattori prognostici favorevoli, per i quali sono consigliate dosi ≤ 36 Gy sulle sedi d’esordio (involved fields) e ≤ 30 Gy sulle aree linfonodali contigue. Nell’ambito della terapia combinata restano tuttora aperti alcuni importanti problemi: le dosi di radioterapia, i volumi di trattamento, la qualità e l’intensità della chemioterapia all’interno dei protocolli integrati (28). In conclusione, come risulta dagli studi più recenti, la chemioterapia integrata con la radioterapia è potenzialmente in grado di migliorare i risultati e di sostituire la radioterapia a titolo esclusivo come trattamento della malattia subclinica (29). Sulla base di questi concetti, ecco che la sfida per i futuri studi clinici prospettici, specialmente gli stadi iniziali, è proprio Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 142 quella di cercare di ridurre le complicanze del trattamento, senza tuttavia mettere a rischio le attuali possibilità di cura definitiva della malattia. Bibliografia 16. Andrieu JM, Yilmaz U, Colonna P, et al. MOPP versus ABVD and low-dose versus high-dose irradiation in Hodgkin’s disease at intermediate and advanced stages: analysis of a meta-analysis by clinicians (multiple letters) JCO 1999; 17:731 17. Mendenhall NP, Rodrigue LL, Moore-Higgs GJ, et al. The optimal dose of radiation in Hodgkin disease: an analysis of clinical and treatment factors affecting in-field disease control. IJROBP 1999; 44:551 1. Gustavsson A, Osterman B, Cavallin-Ståhl E. A Systematic overview of radiation therapy effects in Hodgkin lymphoma. Acta Oncologica 2003; 42:589 18. Vijayakuman S, Myrianthopoulos LC. An update dose-response analysis in Hodgkin’s disease. Radiother Oncol 1992; 24:1 2. Hansenclever D, Diehl V. For the International prognostic factors project on advanced Hodgkin’s disease. N Engl J Med 1998; 339:1506 19. Duhmke E, Diehl V, Loeffer M et al. Randomized trial with early stage Hodgkin’s disease testing 30 Gy vs. 40 Gy extendet field radiotherapy alone. IJORBP 1996; 36:305 3. 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An Oncol 1998; 9(S5):63 Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 145 Dieta mediterranea e micronutrienti nella prevenzione primaria del carcinoma prostatico Lucio Miano Introduzione Il carcinoma della prostata (Ca prostatico CaP) è il più diffuso tumore maschile e nei paesi occidentali costituisce la seconda causa di morte dopo il ca polmonare. In Italia rappresenta la quarta causa di morte dopo il ca polmonare, dello stomaco e del colon retto (1). è stato calcolato che il rischio attuale per un maschio USA di contrarre nell’arco della vita un CaP è approssimativamente del 19% (2). Dati simili si riscontrano nel Nord Europa, mentre nel Sud Europa e quindi anche nel nostro paese tale rischio è sensibilmente inferiore, anche se in ascesa in questi due ultimi decenni. Tutto ciò documenta in modo chiaro che il tumore prostatico costituisce oggi uno dei più importanti problemi sanitari del mondo occidentale. Prevenire è meglio che curare. Una massima che fino ad ora aveva trovato scarsa applicazione in oncologia ma che forse diventerà realtà in un prossimo futuro, almeno per quanto riguarda il CaP. Con una coincidenza a dir poco sorprendente le maggiori riviste internazionali di urologia, di oncologia e della nutrizione hanno affrontato in questi ultimi due anni il difficile tema della chemioprevenzione e più in generale della prevenzione primaria di questa neoplasia (3-16). Le caratteristiche biologiche della neoplasia prostatica sono tali da consentire di afferma- Clinica Urologica, II Facoltà di Medicina e Chirurgia Università di Roma “La Sapienza”, Roma re che tale tumore rappresenta un target ideale per una strategia di prevenzione. Con tale termine si intende la possibilità di inibire la crescita di un tumore, di invertirne o rallentarne la progressione. Alla base di una tale strategia vi è ovviamente una conoscenza precisa e dettagliata dei meccanismi che partendo da una cellula prostatica normale portano alla modificazione delle sue caratteristiche genetiche e dei meccanismi di controllo della crescita cellulare. La neoplasia prostatica ha, come è noto, uno sviluppo generalmente piuttosto lento e si ritiene che occorrano almeno 20-30 anni perché si sviluppi una neoplasia iniziale ed altri 10 anni perché questa minima lesione si sviluppi in un vero e proprio tumore. La prevenzione primaria è quindi indirizzata ai soggetti sani e deve essere attuata modificando da un lato lo stile di vita e l’alimentazione e dall’altro somministrando sostanze prive di tossicità alcuna in grado di bloccare o invertire il fenomeno di trasformazione maligna della cellula normale. Dati epidemiologici Gli studi epidemiologici hanno rilevato che l’incidenza del tumore prostatico clinicamente evidente è circa 10 volte più elevata nel maschio bianco statunitense rispetto al maschio giapponese di comparabile livello socio-economico (17, 18). Oltre a questo gli studi sui fenomeni migratori hanno altresì dimostrato che la bassa incidenza di CaP aumenta di circa 3 volte nell’arco di una gene- Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 146 razione nel maschio giapponese emigrato negli USA (19) con tendenza progressiva ad allinearsi alla realtà del paese che lo ospita. In Europa esiste una significativa differenza di incidenza di CaP; ad esempio in Portogallo si osservano valori di 11,8/100.000 maschi, mentre in Svezia i valori sono di 50,2/100.000 maschi (13). I dati epidemiologici relativi al nostro paese evidenziano come la prevalenza del CaP per la fascia di età 60-64 anni si aggira intorno a 3000 casi; tali valori si raddoppiano nelle due successive fasce di età per assestarsi tra i 10-11.000 casi oltre i 70 anni. Le stime soprariportate mostrano pertanto come per l’anno 1997 siano attivi in Italia oltre 12.000 nuovi casi di CaP per un totale di circa 44.000 casi (1). Tutto questo a dispetto di quanto documentato negli studi autoptici che rivelano una frequenza simile di neoplasia microfocale (la cosiddetta neoplasia “latente”) tra i maschi giapponesi, statunitensi ed europei (20). Dati recenti suggeriscono inoltre che l’età di insorgenza delle primitive lesioni cancerose microfocali si colloca nella quarta decade di vita. Un approfondito studio sulle vittime di incidenti traumatici negli USA ha dimostrato che il 30% degli uomini di età compresa tra i 30 e 39 anni presenta lesioni neoplastiche prostatiche mi-crofocali (21). Queste osservazioni hanno determinato la convinzione che esista un fattore promotore di origine ambientale che apre il varco alla malattia, in pratica convertendo una forma latente nel CaP conclamato. Di particolare interesse è la velocità che caratterizza questa trasformazione, con la forma latente che si avvia nella quarta decade di vita e la forma clinica che si manifesta nella sesta o nella settima. è evidente che la possibilità di rallentare in qualche modo questo processo nelle nazioni ad incidenza elevata della malattia potrebbe trasformare il carcinoma prostatico in una malattia di scarso rilievo sociale come lo è appunto in Asia. Il problema dietetico Più volte gli studi epidemiologici hanno evidenziato presso le popolazioni mediterranee una minore diffusione delle malattie cronicodegenerative, soprattutto cardiovascolari, che sono quelle maggiormente frequenti in altri paesi europei ed in genere nel mondo anglosassone. D’altro canto presso le stesse, parallelamente all’evoluzione economica e sociale, si osserva un progressivo aumento della diffusione delle patologie in oggetto. Ciò vale anche per l’incidenza delle malattie neoplastiche ed in particolare per la neoplasia prostatica. Quale importanza rivestono pertanto i fattori ambientali ed in particolare nutrizionali nel determinismo di tale fenomeno? Lipidi ed alimentazione I lipidi hanno un ruolo importante nel funzionamento dell’organismo umano, tuttavia un eccesso nel consumo di sostanze grasse costituisce uno dei principali fattori favorenti l’insorgenza di alcuni stati patologici come l’aterosclerosi e le malattie ad essa correlate, l’obesità ed alcuni tipi di tumore. Lo studio epidemiologico di confronto tra varie popolazioni ha dimostrato una stretta correlazione tra quantità di grassi nella dieta e il rischio di tumore prostatico (22). Altri studi hanno evidenziato una correlazione tra dieta ad elevato contenuto lipidico e rischio di malattia avanzata nei pazienti con CaP (23, 24). Uno studio condotto dalla Società Americana contro il cancro ha rivelato che l’obesità aumenta sensibilmente il rischio di CaP (25). Altre valutazioni analitiche hanno evidenziato che la mortalità per CaP è correlata con l’aumento di introduzione di grassi animali nella dieta (26). In uno studio prospettico Giovannucci et al. hanno dimostrato che gli stadi avanzati di neoplasia prostatica erano correlati con un’elevata introduzione di grassi animali (carne rossa), in particolare con l’acido alfa-linolei- Scripta MEDICA Dieta mediterranea e micronutrienti nella prevenzione del carcinoma prostatico 147 co presente nella carne rossa (23). Risultati simili sono stati segnalati anche da Godley et al. (27). Gli acidi grassi contenuti nel pesce e nei frutti di mare svolgerebbero invece un ruolo protettivo, secondo uno studio condotto in Inghilterra (28). Inoltre negli studi autoptici condotti sugli Esquimesi si è documentata una bassa incidenza di aterosclerosi ed assenza di tumori prostatici, nonostante una dieta ad elevato contenuto di acidi grassi insaturi omega-3 (14). Accanto a questi dati epidemiologici, i risultati di studi sull’uomo indicano chiaramente che i lipidi dell’alimentazione e gli acidi grassi influenzano l’incidenza e la progressione del CaP con effetto inibitorio degli acidi grassi n-3 a lunga catena ed un effetto stimolatore degli acidi grassi n-6 (29). Undici su 14 studi caso-controllo e 4 su 5 studi di coorte hanno confermato questa associazione (5). Gli acidi grassi entro membrane biologiche sono il substrato per l’ossidazione lipidica. I perossidi lipidici ed i loro prodotti possono causare danni agli enzimi di membrana e ad altre macromolecole, compreso il DNA. Oltre a ciò Wang et al. (30) hanno dimostrato che una dieta ad alto contenuto lipidico (40% delle calorie totali) potenzia la crescita di linee cellulari di CaP umano trapiantato nel ratto maschio. Dato che il CaP clinico deriva dalla progressione della malattia microscopica, questi rilievi indicano che la riduzione dei grassi alimentari può essere utile nella prevenzione della malattia. Obesità, ormoni e rischio di carcinoma prostatico La dieta può stimolare l’insorgenza di un tumore prostatico in parte modificando i livelli di alcuni ormoni. Com’é noto gli androgeni sono necessari per la normale crescita e funzione della ghiandola prostatica ed il tumore prostatico in fase iniziale è ormono-dipendente. È altresì noto che il carcinoma prostatico può essere indotto nei ratti con una prolungata somministrazione di testosterone. Poiché l’alimentazione può influenzare la concentrazione degli ormoni sessuali circolanti, la dieta e gli androgeni possono alterare la biologia del CaP attraverso meccanismi comuni. I livelli urinari di androgeni ed estrogeni si riducono sensibilmente in uno studio effettuato con un gruppo di maschi bianchi e neri, nei quali il contenuto in grassi della dieta veniva ridotto dal 40% al 30% delle calorie totali (31). Una dieta marcatamente ipolipidica e ad alto contenuto di fibre può ridurre i livelli ormonali sessuali in uno studio condotto su un gruppo di maschi normali (32). Pertanto le variazioni degli ormoni sessuali possono mediare in parte gli effetti della dieta sulla crescita del CaP. Come è noto la vita sedentaria può condurre ad un aumento del tessuto adiposo ed a una modificazione dei livelli ormonali. Tali situazioni aumentano il rischio di CaP. Poiché la prostata può convertire il testosterone in diidrotestosterone (DHT), alcuni Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 148 studi hanno ipotizzato che l’aumentata conversione di testosterone in DHT può essere responsabile dell’incremento del DHT circolante nell’uomo anziano. Pertanto gli effetti di una dieta ad alto contenuto lipidico sul CaP sono parzialmente spiegati dalle modificazioni ormonali conseguenti alla dieta. Il ruolo delle fibre Le fibre alimentari stimolano l’eliminazione degli ormoni e dei grassi del nostro organismo. La riduzione del livello degli ormoni sessuali (testosterone ed estradiolo) può avere un drammatico impatto sulla progressione del carcinoma prostatico. Il testosterone plasmatico e l’estradiolo sono presenti in concentrazioni sensibilmente inferiori in un gruppo di maschi di mezza età sottoposti a dieta ad elevato contenuto di fibre provenienti da cereali, frumento, frutta e verdura in confronto ad un gruppo di maschi sottoposto alla tipica dieta americana (33). Spesso i regimi alimentari attuali hanno un contenuto medio-basso di fibre (circa 10 g/die), mentre le raccomandazioni ufficiali indicano la necessità di introdurre almeno 2530 g/die di fibre. Uno dei modi più semplici per aumentare il contenuto in fibre nella dieta è quello di introdurre cereali ad alto contenuto in fibre nella prima colazione del mattino insieme a latte scremato e a frutta. Tutti questi dati indicano in modo inequivocabile la possibile interferenza di un eccesso nel consumo di lipidi nella patogenesi delle più comuni malattie del secolo. Oltre la quantità, è determinante la qualità dei grassi introdotti: gli acidi grassi saturi sono considerati a rischio, mentre quelli insaturi svolgono azione protettiva. In Europa il consumo giornaliero varia da 50 a 75 g come grassi a sé (prodotti merceologici) ai quali va aggiunta la quota dei cosiddetti grassi invisibili, cioè quelli presenti negli alimenti; in tal modo l’assunzione giornaliera aumenta fino a 70-100 g di sostanze grasse, valori questi che sono notevolmente superiori a quelli considerati ottimali. La maggior parte dei nutrizionisti ritiene ottimale l’introduzione di una quota di grassi pari a circa il 25% del fabbisogno calorico giornaliero. In Italia negli ultimi decenni si è avuto un forte incremento del consumo di grassi che è passato dal 23% del 1958 al 33% circa delle calorie totali nel 1990 (dati Istituto Nazionale Nutrizione). Il tipo di sostanze grasse impiegate varia da paese a paese, secondo le abitudini e le possibilità locali dei prodotti nazionali e di quelli d’importazione: la Francia consuma in prevalenza burro, l’Olanda e la Germania margarina, mentre in Italia prevale, soprattutto nel Centro-Sud, il consumo di oli vegetali, soprattutto olio di oliva (contenente anche grassi monoinsaturi). La dieta mediterranea La caratteristica comune alle diete delle popolazioni mediterranee e di altre popolazioni che impiegano in prevalenza acidi grassi insaturi è il basso contenuto di acidi grassi saturi nell’alimentazione; ultimamente si è avuto un ritor- Scripta MEDICA Dieta mediterranea e micronutrienti nella prevenzione del carcinoma prostatico 149 no verso la ben nota “dieta mediterranea” che si basa essenzialmente sull’introduzione di carboidrati (soprattutto pasta), proteine di origine animale e vegetale e lipidi (derivanti dal pesce ricco di acidi grassi polinsaturi) combinati in maniera opportuna e varia; viene inoltre messo in primo piano il consumo di verdura e frutta fresca, entrambe ricche di sostanze antiossidanti. La dieta mediterranea si innesta nelle strutture storiche, etniche e socioculturali delle popolazioni che abitano i paesi mediterranei, dall’Italia alla Spagna, dalla Grecia alla Francia. Lo schema fondamentale si basa su cereali, legumi, ortaggi, grassi vegetali, latticini, frutta, pesce e carne in quantità limitata, più pesce che carne. In Italia, nel primo secolo dell’Unità, i consumi alimentari e l’apporto calorico, nonché le fonti energetiche sono rimasti immutati o quasi. La tradizionale dieta mediterranea, scarsa di carne, meno sobria di latticini e pesce, abbondante di cereali (pane, pasta e polenta), di legumi (fagioli, ceci, fave e lenticchie), di ortaggi e di frutta ha nutrito per decenni contadini, pescatori, pastori, artigiani, piccoli borghesi. I ceti più benestanti hanno mantenuto una dieta che si poteva distinguere da quella della maggioranza della popolazione solamente per la qualità e la quantità, con qualche eccentricità contenuta però nei limiti della stessa dieta mediterranea. Sul finire degli anni Cinquanta, mutate le condizioni economiche e sociali di gran parte della popolazione, avviene una netta inversione di tendenza. L’evoluzione del nuovo corso ha visto i consumi alimentari passare dalle 2300 kilocalorie (Kcal) giornaliere del biennio 1951-53 ad oltre 3000 Kcal degli anni settanta ed ottanta, con una percentuale di lipidi che ha raggiunto negli anni ‘90 valori intorno al 33% delle calorie totali (con picchi del 38% negli anni ‘80), rispetto al 21-23% degli anni cinquanta (dati Istituto Nazionale Nutrizione). Gli Italiani perciò seguono oggi una dieta piuttosto sbilanciata, che discorda da quella equilibrata che sta alla base della dieta mediterranea. Oltre alle migliorate condizioni economiche anche la “globalizzazione dei mercati” ha portato da un lato alla diffusione di alimenti un tempo ritenuti pregiati ma anche alla tendenza a mangiare più del necessario, spesso in maniera uniforme e monotona. L’internazionalizzazione sta comportando un appiattimento del gusto e l’indirizzo verso appagamenti organolettici facili ed immediati; da qui la nascita dei fast-food e di snack che soddisfano tali esigenze con un elevato contenuto di grassi soprattutto saturi. Alimenti base della dieta mediterranea Frumento – Cereale fondamentale della dieta mediterranea, è originario del Kurdistan, grano tenero (Triticum sativum), e dell’Africa, grano duro (Triticum durum). Col grano tenero si fabbrica il pane che fu diffuso dai Romani sotto forma di pane integrale lievitato, tecnica scoperta dagli Egizi. Il pane bianco era privilegio di classi elevate e solo molti secoli dopo la Rivoluzione francese lo rivendicherà per tutti. Col grano duro si fabbrica la pasta alimentare che fu inventata in Cina, ma divenne un prodotto tipico italiano Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 150 grazie agli spaghetti. Olivo – L’olivo è originario dell’Asia minore. Oggi si trova soprattutto in Italia, Spagna e Grecia. Dall’olivo si ricava l’olio, ottimo grasso vegetale, altamente calorico, ricco di acidi grassi essenziali insaturi (soprattutto monoinsaturi). Vite – La vite (vitis vinifera) proviene dal Mar Nero ed è coltivata in molte varietà nell’area del Mediterraneo. In Italia la coltura fu iniziata dagli Etruschi ed ebbe notevole impulso con i Romani. Il vino, ottenuto per fermentazione dell’uva, è un prodotto molto calorico per la netta prevalenza di alcool. Miele – Il miele si ottiene dalla trasformazione del nettare dei fiori (saccarosio in glucosio e levulosio) nell’ingluvie dell’Apis mellifera. Oltre a fornire molta energia, è di facile assimilazione, essendo, per così dire, predigerito. Ai tempi dei Romani era tenuto in grande considerazione. Giove era stato nutrito con miele d’api. Se ne cibavano consoli ed imperatori, soldati e gladiatori. Con il passare dei secoli lo zucchero (saccarosio) ha sostituito il miele senza averne i vantaggi. Legumi – Costituiscono un alimento ricco di sostanze plastiche (proteine e minerali come calcio, fosforo e ferro), di nutrienti energetici (glucidi) e scarso di grassi (lipidi). Per gli Egizi, i Greci e i Romani furono il piatto di base delle classi popolari. I ceci (Cicer arietum), introdotti nella dieta mediterranea dall’Oriente e dall’Etiopia, hanno un valore energetico maggiore di altri legumi, ma un contenuto proteico minore. Le fave (Faba vicia) sono indigene delle zone mediterranee ed, assieme ai ceci, erano il cibo delle mense militari in Grecia ed in Roma grazie al loro valore nutrizionale. Le lenticchie (Ervum lens) furono il piatto classico delle classi povere in Grecia ed in Roma. I fagioli (Phaseolus vulgaris) che oggi entrano nella dieta mediterranea, sono originari dell’America del Sud; sono molto nutrienti ed energetici ed occupano un posto di rilievo in molte ricette. I piselli (Pisum sativum) costituiscono un alimento equilibrato; oggi più richiesti che in passato, sono rimineralizzanti e vitaminici. Ortaggi, frutta e piante aromatizzanti – Sono questi alimenti di ampio consumo nella dieta mediterranea. Molte specie erano già presenti al tempo della Roma Imperiale, altre furono conosciute e coltivate in seguito all’espansione barbarica del Nord ed islamica del Sud. Nuovi alimenti entrarono nella dieta mediterranea con l’intensificarsi della navigazione e dei commerci orientali e la scoperta dell’America. Con le invasioni barbariche, nella cosiddetta “dieta mediterranea” entrarono nuovi alimenti come il grasso di maiale, il burro (molto diffuso nelle regioni del Nord Italia), i formaggi, la birra, mentre il riso, il grano saraceno, la canna da zucchero giunsero da noi dopo l’VIII secolo con l’espansione araba. Il riso (Oryza sativa) è entrato nella dieta mediterranea diventando popolare in molti paesi del bacino mediterraneo e quindi anche in Italia. Come è noto, nella Cina meridionale, nel Sud Est asiatico ed in India costituisce il piatto di base per l’elevato valore nutritivo ed energetico, specie se viene consumato integrale. Del mais (Zea mais) si utilizza nella dieta mediterranea soprattutto la farina cucinata come polenta, il piatto forte delle famiglie contadine e della gente povera specie nel Nord-Italia (Veneto). Il mais viene consuma- Scripta MEDICA Dieta mediterranea e micronutrienti nella prevenzione del carcinoma prostatico 151 to anche in fiocchi (corn flakes), abbrustolito e rigonfiato (pop-corn) oppure scoppiato (poppened pop corn). La patata (Solanum tuberosum) è entrata nella dieta mediterranea attraverso la Spagna e l’Italia ed è stata poi accolta con grande favore nell’alimentazione del Nord Europa, dove è di uso abitudinario. Il valore calorico della patata è molto basso, meno di un quarto di quello della pasta alimentare. Vale la pena di utilizzarla in cucina per ridimensionare il peso; con essa si è certi di non ingrassare, perché si soddisfa subito l’appetito senza appesantire lo stomaco. Il pomodoro (Solanum lycopersicum) è diventato molto popolare sia crudo che cotto. Come tutti gli ortaggi a frutto (peperoni, cetrioli, zucche o zucchine) ha un valore calorico trascurabile ed è quindi molto adatto a riequilibrare il peso corporeo. Il suo elevato contenuto in licopene, vitamina A e C caratterizza il suo elevato potere antiossidante e quindi antitumorale, in particolare per il CaP. L’abitudine generalizzata di mangiare carne, anche tutti i giorni, interessa i Paesi industrializzati avanzati, come l’Italia, dove il fenomeno ha preso piede tra gli anni Sessanta e Settanta fino ad oggi. Si tratta di un’abitudine dannosa per l’organismo perché l’uso delle proteine animali deve essere contenuto nei limiti della dieta bilanciata se si vogliono evitare danni nutrizionali. Nella dieta mediterranea può entrare comunque qualsiasi tipo di carne di vitello o di manzo anche se è preferibile che sia magra oppure “bianca” come quella degli animali da cortile (coniglio, pollo, tacchino). Il maiale e gli insaccati dovrebbero essere lasciati da parte, nonostante la loro appetibilità, per limitarsi all’assunzione del prosciutto crudo, sempre magro. Il pesce, come la carne, ha rappresentato fin dall’antichità il punto di passaggio fra il cibo dei poveri e quello dei ricchi. Oggi è alla portata di tutte le tasche, anche grazie all’industria dei surgelati che ne ha aumentato l’offerta. Esso costituisce una fonte importante di proteine anche se contenute in percentuale minore che nella carne, elevato è il contenuto in aminoacidi essenziali. Vi sono pesci a bassissimo contenuto di grassi (merluzzo, rombo, sogliola, tinca, palombo, razza, luccio, acciuga, baccalà, stoccafisso, cernia, etc.) ed altri a contenuto medio ed alto. I lipidi dei pesci contengono in buona percentuale acidi grassi insaturi, molto utili nella prevenzione delle malattie cronico-degenerative e dei tumori. L’internazionalizzazione (o globalizzazione) dell’alimentazione trova influenza anche nella dieta mediterranea che, come abbiamo detto, è oggi più ricca di grassi rispetto al passato. Da quanto sin qui riferito vi sono motivi più che validi per modificare le nostre attuali abitudini alimentari, riducendo innanzitutto ed in modo significativo la quota lipidica ed in particolare quella contenente acidi grassi saturi favorenti lo sviluppo di radicali liberi e quindi i processi di ossidazione. Molti medici ed esperti di nutrizione ritengono che non debba essere superata la soglia del 20-25% di quota lipidica rispetto alle calorie totali. Altri ancora più prudenti consigliano di non superare il 15-20%. In molti casi questo livello consente un consumo quotidiano di grassi pur sempre pari a 50-60 grammi. Da queste considerazioni possiamo ricavare alcuni suggerimenti di utilizzo pratico che possono essere compendiati in una sorta di Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 152 sunzione di alimenti decalogo al quale tutti Tabella 1. ricchi di grassi, non dovrebbero ispirarsi sono di per sé suffi(Tabella 1). • Dare la preferenza agli alimenti di oricienti a proteggere l’orLa dieta mediterranea è gine vegetale, soprattutto ortaggi, ganismo dall’azione senza dubbio un ottilegumi e frutta fresca; nociva dei radicali libemo esempio di alimen• Ridurre il consumo di tutti gli alimenti di origine animale; ri e dai processi ossitazione parca, povera • Moderare il consumo di carni bovine e danti ad essi collegati. di grassi, molto palatasuine a favore di carni alternative, bile ed allo stesso come pesce, pollo e tacchino; tempo adeguata per • Preferire alimenti magri come latte l’apporto di sostanze Micronutrienti magro, yogurt magro, formaggi magri, nutritive. prosciutto magro; Uno dei presupposti Si tratta di un gruppo • Non abbondare nei condimenti; essenziali per soddisfadi sostanze nutritive in • Utilizzare l’olio di oliva extravergine re questo requisito è la come unico (o quasi) condimento; grado di interferire farvarietà degli alimenti macologicamente con i • Non consumare più di 3-4 uova per settimana; che rientrano nel regimeccanismi che regola• Solo occasionalmente consumare me alimentare. La no la crescita cellulare, dolci, salumi, formaggi grassi; carne, per esempio, riducendo fondamen• Limitare il consumo di vino e bevande deve essere limitata ma talmente il cosiddetto alcooliche; mai eliminata complestress ossidativo o • Preferire ogni giorno un’alimentazione tamente perché fonte addirittura esercitando parca che, pur con le occasionali ecdi importanti nutrienti, un’efficace azione anticezioni, favorisce il mantenimento del peso ideale. la carne di manzo proliferativa. Per quanmagra ed accuratamento riguarda la ghiandote privata del grasso la prostatica essenzialvisibile deve essere mente possono essere consumata almeno una così elencate: Vitamina volta alla settimana E, Selenio, Vitamina essendo un’importante D3, licopene, polifenofonte di ferro. li, zinco. Diete più restrittive e magari strettamente vegetariane possono Stress ossidativo e cancro prostatico avere più successo in casi di marcata ipercoI problemi relativi al danno ossidativo biolesterolemia. molecolare costituiscono oggi uno dei prinVa infine ricordato che può essere molto utile cipali temi di ricerca oncologica. Le alterasupplire alla carenza di antiossidanti (quindi zioni ossidative del DNA conducono a mutaprotettivi dallo stress ossidativo) attraverso zioni ed alterata funzione genica che costil’apporto supplementare di micronutrienti ad tuiscono i presupposti della carcinogenesi. azione antiossidante, quali il selenio, le vitaIl danno ossidativo può anche alterare la mine D ed E, i polifenoli e gli isoflavonoidi struttura della proteina P53 che, come è ottenuti dal thè verde e dagli estratti di soia, noto, è associata con la progressione di il licopene e lo zinco (Uractive® - SPA, diversi cancri umani, compreso il CaP (34). Società Prodotti Antibiotici). Una serie di osservazioni epidemiologiche e Tali micronutrienti naturali sono presenti di laboratorio indicano in modo inequivocanella dieta mediterranea, ma, a causa di un’abile che il danno ossidativo riveste un ruolo limentazione ormai “sbilanciata” verso l’asimportante nella carcinogenesi prostatica (v. Scripta MEDICA Dieta mediterranea e micronutrienti nella prevenzione del carcinoma prostatico 153 lipidi ed alimentazione). Le proprietà bioossidative degli androgeni, così come gli effetti benefici delle sostanze antiossidanti supportano ulteriormente questa ipotesi. Gli androgeni inoltre possono avere, come è noto, un ruolo importante nella carcinogenesi prostatica. I soggetti con una funzione androgena inibita da tempo (per esempio eunuchi o con deficienza di 5-alfa-reduttasi) non sviluppano CaP. Un regime alimentare ad elevato consumo di grassi può essere associato con livelli cronicamente elevati di androgeni, prospettando una plausibile ragione biologica all’associazione tra lipidi e CaP. D’altro canto gli androgeni esercitano la loro influenza attraverso lo stress ossidativo. Ripple et al. (35) hanno dimostrato che livelli fisiologici di androgeni incrementano lo stress ossidativo nelle colture cellulari umane di CaP. Lo stress ossidativo può essere misurato con una serie di metodiche. Recentemente è stata determinata l’entità dello stress ossidativo dell’epitelio prostatico benigno sia in soggetti con e senza CaP (36). In questo studio il tasso dei grassi tiolici ridotti è risultato in molti casi nettamente più basso, dato suggestivo per un aumentato stress ossidativo. Ulteriore evidenza del ruolo dello stress ossidativo viene segnalato da Lee et al. (37) che hanno osservato che l’inattivazione di un enzima pro-ossidante come la glutatione-S transferasi costituisce un punto critico nella carcinogenesi prostatica. Vitamina E (alfa-tocoferolo) è uno dei più potenti antiossidanti ed è stato già ampiamente dimostrata la sua proprietà antitumorale sia per un effetto protettivo contro la carcinogenesi sia per un effetto inibitorio della progressione neoplastica (38). L’esatto meccanismo con il quale la Vitamina E svolge il suo ruolo benefico è tuttavia ancora largamente sconosciuto. I tocoferoli funzionano principalmente come antiossidanti di membrana e sono presenti nei semi delle piante, dove proteggono il materiale genetico rimanendo legati ai complessi delle nucleoproteine. Durante numerose reazioni cellulari si possono infatti produrre concentrazioni letali di biossido di azoto, una molecola in grado di reagire con i lipidi insaturi di membrana inducendo gravi lesioni alle membrane stesse. I tocoferoli sono in grado di sequestrare il biossido di azoto dando origine ad un suo derivato (toferilchinone) proteggendo così le membrane dall’ossidazione. La Vitamina E esercita anche un’azione antiproliferativa sulle cellule in coltura non collegata alla sua attività antiossidante, ma mediata dall’inibizione diretta dell’enzima proteinchinasi C, uno dei principali sistemi di trasduzione che viene attivato da vari elementi che promuovono la crescita cellulare, come ormoni e fattori di crescita. è stato dimostrato che la Vitamina E è in grado di inibire la proliferazione delle cellule di carcinoma prostatico umano LNCaP in maniera dose-dipendente ed in un range di concentrazione facilmente riscontrabile nel plasma umano (39). È interessante notare che la Vitamina E induce l’apoptosi solo nelle cellule tumorali, mentre non esplica tale effetto sulle cellule normali. Lo studio osservazionale più ampio di popolazione sull’effetto della Vitamina E è l’Alphatocopherol, Beta-Carotene (ATBC) Cancer Prevention Study eseguito in Finlandia tra il 1985 e 1993. Dopo un follow-up di 6 anni, si è osservato un numero inferiore di tumori della prostata (32% in meno) nei soggetti in trattamento con alfa-tocofenolo (50 mg/die) rispetto ai controlli ed una riduzione del 41% della mortalità per la stessa neoplasia (40). Tali dati tuttavia non sono stati ulteriormente confermati in altri studi epidemiologici condotti negli ultimi dieci anni (41, 42). Ciò ha spinto il National Cancer Institute (NCI) statunitense ad avviare un ampio studio su due specifici agenti antiossidanti, la Vitamina E e il selenio (v. selenio) i cui risultati saranno disponibili nel 2006 (43). Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 154 Selenio Il selenio è un microelemento essenziale per la specie umana ma i meccanismi di azione non sono completamente conosciuti. L’organismo umano non è in grado di assorbire il selenio allo stato metallico, ma lo assimila sotto forma di selenio-metionina o selenio-cisteina che sono sintetizzate dalle piante, come per esempio l’aglio, ricco di seleniometionina. è stata dimostrata l’attività antiossidante del selenio con conseguente neutralizzazione di perossinitriti, la protezione verso l’azione dei radicali liberi ed un effetto antiossidante generalizzato, dal momento che è incorporato nella glutatione-perossidasi, enzima chiave per il mantenimento del sistema di ossido-riduzione cellulare. Nelle colture cellulari il selenio è in grado altresì di ridurre l’azione di vari composti mutageni e di interferire con il metabolismo di altri, ma è stato postulato anche un suo effetto sull’apoptosi e sull’inibizione della sintesi proteica (azione antiproliferativa). Numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato un rapporto inverso tra l’apporto di selenio (o le sue concentrazioni plasmatiche) e diversi tumori umani, compreso il carcinoma prostatico (44). Il più vasto di questi trial è stato uno studio caso-controllo che ha valutato le concentrazioni di selenio a livello ungueale ed il rischio di carcinoma prostatico, come parte della Health Professional’s Follow-up Study; nei casi di maggiore concentrazione di selenio, il rischio di carcinoma della prostata in stadio avanzato era ridotto a un terzo (45). Clark et al. hanno condotto uno studio su 974 pazienti trattati con selenio e placebo per un periodo medio di 10 anni osservando, come risultato, una significativa riduzione dell’incidenza di CaP nei pazienti in trattamento con selenio (46). Altri dati positivi riportano l’efficacia della selenio metionina in uno studio controllato vs placebo su 1312 pazienti affetti da tumore della pelle (escluso il melanoma). I risultati hanno evidenziato, quali end point secondari, anche una riduzione di incidenza del CaP pari a 3-4 volte senza reazioni avverse determinate dal selenio. Nonostante l’obiettivo principale di questa indagine non fosse il CaP, il dato merita gli opportuni approfondimenti (47). Tali evidenze hanno spinto il National Cancer Institute (NCI) ad avviare uno studio su due specifici agenti antiossidanti, la Vitamina E ed il selenio. Lo studio denominato SELECT (Selenium and Vitamin E Chemopreventive Trial) prevede l’arruolamento di 32.400 pazienti con lo scopo di verificare quanto il selenio e la vitamina E, da soli od in associazione, siano in grado di ridurre l’incidenza sia del carcinoma prostatico che di altri tumori come quello del polmone e del colon. Il trial verrà concluso nel 2006 (43). Vitamina D3 La Vitamina D3 nella sua forma attiva, il calcitriolo, è in grado di inibire la proliferazione neoplastica delle cellule prostatiche. I meccanismi utilizzati per indurre questo effetto sono numerosi e spaziano dall’arresto del ciclo cellulare, all’inibizione del potenziale metastatico, all’azione antagonista sull’angiogenesi per culminare nella morte cellulare per apoptosi (48-53). La Vitamina D viene fornita fisiologicamente all’organismo con la dieta oppure a seguito dell’irradiazione ultravioletta, a partire da un precursore contenuto nella pelle. Essa è soggetta ad idrossilazioni sequenziali da parte del citocromo P 450 a formare la 25-idrossi- Scripta MEDICA Dieta mediterranea e micronutrienti nella prevenzione del carcinoma prostatico 155 vitamina D nel fegato, la 1-25 diidrossivitamina D e la 24-25 diidrossivitamina D nel rene. Il metabolita 1-25 di idrossivitamina D, pur essendo presente in circolo in quantità di gran lunga inferiore agli altri due, è l’unico ad esplicare spiccata attività ormonale. La Vitamina D agisce attraverso una via non genomica che prevede il suo legame con recettori di membrana ed una via genomica che prevede il suo legame con recettori specifici nucleari. La prostata rappresenta un ottimo bersaglio per il calcitriolo. Lo dimostra la presenza di recettori specifici (VDR-Vitamin D Receptors) nelle cellule epiteliali prostatiche e la capacità da parte della Vitamina D3 di regolare l’espressione di parecchi geni sia nelle linee cellulari prostatiche tumorali sia nelle linee cellulari epiteliali e stromali derivate da biopsie di prostata normale o da prelievi effettuati in ghiandole affette da carcinoma. In effetti, nonostante la sua attribuzione al gruppo delle Vitamine, la Vitamina D3 si può considerare alla pari di un vero ormone steroideo. La sua sintesi avviene grazie all’esposizione della cute ai raggi ultravioletti, mentre la conversione in forme biologicamente attive avviene attraverso un processo di idrossilazione a livello del tessuto epatico e renale. Storicamente il rapporto tra deficit di Vitamina D3 e sviluppo di carcinoma della prostata è emersa per la prima volta dai risultati di uno studio che mirava a valutare negli USA l’eventuale associazione tra scarsa esposizione ai raggi ultravioletti ed incidenza dei decessi per questo tumore. Un rapporto che venne prima dimostrato e poi ulteriormente rafforzato dai risultati di uno studio epidemiologico che dimostrò l’aumento del rischio di CaP nei pazienti con un elevato apporto di calcio alimentare e conseguente inibizione fisiologica dell’azione della Vitamina D3 (54, 55). È stato poi, grazie ai successivi approfondimenti di laboratorio, che si è potuta dimostrare anche l’esistenza dei recettori specifici per la Vitamina D3 a livello delle cellule epiteliali prostatiche. Sono i recettori che, una volta stimolati, sono in grado, tra l’altro, di inibire la crescita cellulare fino ad indurre l’apoptosi, cioè la morte cellulare programmata. A conferma dell’attività antiproliferativa espletata dalla Vitamina D3 recentemente Zhao et al. hanno dimostrato che la Vitamina D3 è in grado di inibire, in modo significativo e dose-dipendente, la crescita sia di linee cellulari di LNCaP sia di linee cellulari metastatiche derivanti da CaP avanzato (56). Licopene Il licopene, un pigmento naturale appartenente alla classe dei carotenoidi, è caratterizzato da proprietà antiossidanti analoghe a quelle del beta-carotene, ma è molto più potente e quindi molto più efficace nel prevenire i danni dei radicali liberi dell’ossigeno. Il licopene è ampiamente diffuso in natura, dove si trova nei pomodori (anche pomodori cotti, salsa di pomodoro, concentrato di pomodoro) nella frutta (soprattutto pompelmo, anguria e papaia), in alcune verdure e rappresenta circa il 50% di tutti i carotenoidi contenuti nel plasma umano (57-59). Il licopene rappresenta il 60-65% del totale dei carotenoidi contenuti nei pomodori ed in altre verdure. Per effetto degli acidi biliari e della lipasi pancreatica il licopene viene dissolto in goccioline finissime e viene assorbito dalla mucosa duodenale, passa nei chilomicroni che lo veicolano nel sangue, ove circola principalmente legato alle lipoproteine a bassissima densità. Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 156 Il danno ossidativo può svolgere un’importante azione di trasformazione e di promozione tumorale agendo attraverso una perossidazione della membrana cellulare e del DNA. Il licopene è in grado pertanto di inibire il danno ossidativo e di proteggere in questo modo l’epitelio prostatico impedendo la sua possibile trasformazione tumorale. Le forme ossidate di alcune macromolecole possono trasformarsi o dar luogo a macromolecole potenzialmente cancerogene. Un esempio tipico è rappresentato dal cancro del colon, della mammella, del pancreas ed in particolare della prostata che possono essere favoriti dalle amine eterocicliche, carcinogeni che originano dalla cottura della carne o del pesce. Il licopene può svolgere pertanto un ruolo centrale nella prevenzione della formazione di queste molecole, intervenendo attivamente sul controllo delle ossidazioni (36). Limitandosi al carcinoma prostatico, studi sperimentali hanno evidenziato la sua efficacia su colture di cellule DU-145 e PC3 (androgeno insensibili) a concentrazione pari a 50 micromoli/litro. Sono livelli che non si possono raggiungere attraverso la sola alimentazione, dal momento che la concentrazione plasmatica fisiologica del licopene è pari a 0,7 micromoli/litro (15). Pastori et al. hanno dimostrato che il licopene è in grado di agire in modo sinergico con la Vitamina E, esercitando così un effetto antimitotico già a concentrazioni fisiologiche (60). Esistono ampie conferme in vasti trial di popolazione che dimostrano l’esistenza di una correlazione tra ridotte concentrazioni plasmatiche di licopene ed aumento del rischio di sviluppare un carcinoma prostatico (61). Nel vasto studio di Mills et al. (62) è emerso che il consumo elevato di pomodori si accompagna a riduzione del rischio di CaP. In uno studio caso-controllo condotto da Hsing et al. (63) si è avuta una riduzione del 50% dell’incidenza della malattia tra gli uomini con livelli sierici di licopene più elevati. Un’altra valutazione di tipo caso-controllo (64) ha dimostrato che chi consuma più di dieci piatti a base di pomodoro alla settimana presenta un rischio significativamente ridotto (meno del 35%) di sviluppare un carcinoma prostatico aggressivo e avanzato. Studi recenti (65) hanno dimostrato che la supplementazione di licopene (15 mg x 2 volte /die per 3 settimane) in pazienti già in attesa di prostatectomia radicale, riduce sensibilmente la percentuale di margini positivi, riduce il PSA sierico e l’incidenza di multifocalità neoplastica con PIN. Questi incoraggianti risultati preliminari richiedono una conferma su vasta scala, ma fanno ritenere che la supplementazione con licopene sia efficace nel rallentare la progressione del carcinoma prostatico. Polifenoli Numerosi studi hanno dimostrato che il tè verde (differente dal tè nero in quanto non viene sottoposto a fermentazione) è particolarmente ricco di polifenoli, in particolare di epigallo-catechina-3-gallato (EGCG), una sostanza dotata di una spiccata attività antimutagena e anticancerogena. È altresì noto che questa bevanda è consumata in grandi quantità dalle popolazioni dell’estremo oriente, notoriamente risparmiate dal Ca P. Il tè (Camellia sinensis) fu scoperto e coltivato nel Sud Est Asiatico migliaia di anni fa: secondo la tradizione cinese l’imperatore Shen Nung scoprì il tè nel 2737 a.C. e, da allora, la popolarità di tale bevanda è andata sempre aumentando in tutto il mondo al punto che attualmente è la bevanda più utilizzata dopo l’acqua. Nel tè sono disciolte parecchie sostanze, fra le quali spiccano per caratteristiche farmacologiche i polifenoli (GTPs - Green Tea Polifenols) ed in particolare la epigallo-catechina3-gallato (EGCG) che si ritiene responsabile dell’attività antitumorale del tè. Una tazza di tè verde può contenere fino a 400 mg di polifenoli, circa la metà dei quali è costituita da EGCG. Scripta MEDICA Dieta mediterranea e micronutrienti nella prevenzione del carcinoma prostatico 157 I polifenoli sono in grado di bloccare la sintesi della ornitina-decarbossilasi (DOC) - un marker della trasformazione tumorale iniziale, e di indurre la sintesi di vari sistemi enzimatici (AT, GR, GST) capaci di neutralizzare l’acqua ossigenata (66, 67). Secondo Gupta et al. (68) i polifenoli inibiscono l’azione della DOC (in maniera dose-dipendente) indotta dal testosterone nelle cellule prostatiche tumorali dell’uomo, nei ratti WU e nei topi C:5786/5 in vivo. L’effetto antitumorale preventivo della EGCG è stato identificato da Paschka et al. (1998) nell’induzione dell’apoptosi cellulare documentata in varie linee cellulari tumorali umane, comprese le cellule DU 145 derivate da cellule del CaP androgenoindipendenti. Altri meccanismi antitumorali del EGCG sono stati identificati nell’inibizione della tirosina-chinasi che da una parte interagisce col fattore di crescita dell’epidermide (EGF) e dell’altra riduce la fosforilazione di proteine stimolanti la proliferazione cellulare (69). La somministrazione di tè verde nell’animale da esperimento induce un significativo aumento dell’attività antiossidante di vari enzimi coinvolti nella detossificazione dell’organismo, come la glutatione-reduttasi, la glutatione-perossidasi, la glutatione-S-transferasi e la chinone reduttasi presenti nel polmone, reni ed intestino. Le concentrazioni plasmatiche di EGCG dopo l’ingestione di un estratto acquoso di 1,5 g di tè verde in 500 ml di acqua raggiungono i 326 mg/ml ed aumentano di 3 volte dopo l’ingestione di 3 g, ma non aumentano ulteriormente con quantità maggiori (15). Isoflavonoidi e fitoestrogeni L’interesse per questi composti nella prevenzione del carcinoma prostatico deriva da studi epidemiologici che evidenziano una mi-nore incidenza della malattia ed un minor tasso di mortalità in paesi come il Giappone, in cui vi è un elevato consumo di alimenti che ne sono ricchi, come il tè verde e la soia (70-75). Il tè verde, oltre a contenere polifenoli e catechina di cui si è parlato, contiene anche isoflavonoidi, una sottoclasse di flavonoidi costituita principalmente da genisteina, daidzeina e relativi coniugati. La soia è una leguminosa originaria della Cina e dal Giappone, presente come derivati (tofu, miso e latte di soia) nella dieta orientale in quantità 50 volte maggiori che nella dieta occidentale; essa è ricca di proteine e di genisteina con scarsa quantità di amido e di ureasi. Ad esempio a Taiwan il consumo medio di proteine di soia è di circa 35 g/die pro capite. La genisteina, la daidzeina e loro coniugati sono presenti in concentrazione fino a 3 mg per grammo con conseguente introduzione di questi isoflavonoidi fino a 100 mg/die. In altri paesi asiatici si stima che Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 158 l’introduzione di isoflavonoidi si aggiri intorno a 50 mg/die. Sembra dimostrato che i livelli ematici ed urinari di isoflavonoidi siano correlati con una più bassa incidenza di tumori ormonodipendenti. Essa non fu conosciuta in Europa fino al XVIII secolo e fu importata in America nella metà del XIX secolo. Gli Stati Uniti ne sono attualmente i maggiori produttori. Il pregio principale della soia è il suo elevato valore proteico, tanto che la qualità delle sue proteine è di poco inferiore a quella della carne. La soia ha inoltre un alto contenuto di grassi vegetali (mono e polinsaturi), nonché un elevato contenuto vitaminico. La soia più conosciuta e diffusa è la soia gialla. Essa può essere consumata intera oppure tramite i suoi numerosi derivati. Eccone alcuni: Latte di soia: assomiglia molto nell’aspetto al latte vaccino, ma se ne discosta notevolmente per quanto riguarda il gusto ed i principi nutritivi (elevata concentrazione di acidi grassi insaturi ed assenza di colesterolo). Tofu: formaggio ricavato dalla soia gialla, estremamente digeribile, ricco di proteine, povero di grassi e privo di colesterolo. Miso: prodotto ottenuto dalla fermentazione di fagioli di soia, sale e, a volte, un cereale. è altamente proteico e ricco di fermenti lattici. Tamari: prodotto fermentato ricavato da soia gialla, frumento integrale biologico e sale marino integrale. Viene utilizzato come salsa per condire e cucinare. Olio di soia: adatto solo per condire, viene utilizzato nella preparazione di olii di semi vari per il suo basso costo. Ha un elevato contenuto di acino linoleico. Gli isoflavonoidi ed i flavonoidi sono presenti, oltre che nella soia anche in altri legumi (fagioli, piselli, ceci, lenticchie), nella frutta, negli ortaggi (zucca, carote, cavoli, spinaci, lattuga, asparagi), nel tè e nel vino sotto forma di coniugati glicosidici. Tali composti, infatti, sono introdotti con la dieta come composti glicosidici e quindi idrosolubili. Essi richiedono una serie di passaggi metabolici prima di essere assorbiti: una deconiugazione da parte di enzimi della flora batterica oppure da enzimi presenti a livello dell’orletto delle cellule intestinali e, quindi, una re-coniugazione ad acido glucuronico (glucuronato) o acido solforico (solfato) nell’ambito dell’orletto delle cellule intestinali che ne permettono l’entrata nel sangue o nel fluido linfatico. Il metabolismo di questi composti e conseguentemente la loro azione sembra poi essere influenzata da altri normali componenti della dieta, dalla funzione intestinale e da variazioni individuali. Fitoestrogeni - I fitoestrogeni, conosciuti anche come estrogeni vegetali, sono molecole non-steroidee (isoflavonoidi, lignani, cumestani, stilbeni, ecc.) presenti in vari tipi di piante. Le due classi principali sono gli isoflavonoidi e i lignani. La genisteina, la daidzeina, l’equolo e la quercitina sono i principali isoflavonoidi, presenti nelle leguminose, mentre l’enterolattone e l’enterodiolo, che appartengono alla classe dei lignani, sono principalmente presenti nei cereali, riso, grano saraceno, nei semi di lino e di sesamo. I fitoestrogeni sono stati anche alternativamente classificati come xenoestrogeni, ormoni ambientali, “endocrine disrupting chemicals”. Recentemente, gran parte della ricerca si è focalizzata sugli isoflavonoidi, quali la genisteina e la daidzeina. Queste molecole non condividono la stessa struttura chimica degli estrogeni, ma posseggono delle caratteristiche chimiche che ricordano questi ormoni steroidei: 1) un anello aromatico A con un gruppo idrossilico 2) un secondo gruppo idrossilico sullo stesso piano dell’anello A. Queste somiglianze permettono a tali composti di legarsi ai due diversi tipi di recettore estrogenico alfa e beta e di conseguenza ad avere un’attività biologica simile agli estrogeni. Tuttavia per la diversa affinità di legame con le isoforme del recettore estrogenico e per la diversa attività biologica, questi com- Scripta MEDICA Dieta mediterranea e micronutrienti nella prevenzione del carcinoma prostatico 159 posti possono agire sia come puri agonisti, che come parziali agonisti o antagonisti. Per queste loro molteplici e complesse capacità, negli ultimi anni i fitoestrogeni sono anche stati definiti modulatori selettivi del recettore estrogenico (SERM) naturali. Le loro proprietà biologiche si esplicano attraverso i seguenti possibili meccanismi: • Modificazione selettiva dei recettori per gli estrogeni (SERM). La presenza di elevate concentrazioni di recettore estrogenico alfa nello stroma prostatico suggerisce anche per gli estrogeni un ruolo fisiologico nella crescita ghiandolare: se l’estradiolo promuove l’iperplasia stromale attraverso la produzione del fattore di crescita fibroblastica (FGF) e se stimola direttamente il recettore androgenico (AR), allora si può prospettare che l’estrogeno sia essenziale da un lato per la proliferazione epiteliale e dall’altro per il blocco della apoptosi indotta dall’androgeno. La genisteina presenta un debole effetto estrogenico (1000 volte inferiore a quello dell’estradiolo), che condiziona un aumento della globulina plasmatica che lega e trasporta gli ormoni sessuali (SHBG) e la conseguente riduzione degli estrogeni ed androgeni liberi circolanti e nello stesso tempo presenta un effetto anti-estrogenico, che può contrastare lo stimolo androgeno sulla proliferazione epiteliale prostatica. Va ricordato che la genisteina presenta un’alta affinità per il recettore estrogenico beta e può pertanto rivestire un ruolo molecolare specifico nel frenare l’insorgenza di lesioni pre-neoplasti- Tabella 2. Ipotetici meccanismi di azione dei fitoestrogeni nelle cellule prostatiche. che o lo sviluppo di cancro precoce (15). È stato dimostrato che la genisteina inibisce in vivo la tumorogenesi mammaria (Messina, 1994), presenta un effetto bifasico sulla poliferazione delle cellule mammarie in vitro (Wong e Call, 1996), inibisce la formazione e lo sviluppo del cancro prostatico, presenta una debole azione estrogena in menopausa, contrasta il rimaneggiamento osseo, influisce favorevolmente sulle lipoproteine e sulla coagulazione ematica (76). • Inibizione della 5-alfa-reduttasi. Di conseguenza i fito-estrogeni bloccano la sintesi del DHT (diidrotestosterone), impedendo con questo meccanismo la crescita cellulare nell’iperplasia prostatica benigna e forse la formazione/progressione del cancro prostatico (77). • Inibizione della aromatasi e della 17-betaidrossisteroido-deidrogenasi. L’inibizione di questi due enzimi può rendere ragione del benefico effetto degli isoflavonoidi e dei lignani nella IPB e nel CaP, attraverso l’interferenza sul metabolismo degli androgeni e degli estrogeni a livello ghiandolare. • Inibizione della tirosinachinasi specifica (TK). Com’è noto questo enzima ha un ruolo fondamentale nell’indurre, attraverso i fattori di crescita androgeno-dipendenti ed androgeno-indipendenti, il segnale di trasduzione che attiva i proto-oncogeni collegati con la crescita cellulare. • Inibizione dell’angiogenesi. La dieta ricca di isoflavonoidi inibisce l’angiogenesi tumorale nel ratto in vivo, dove i vasi san- • Aumento della SHBG e conseguente riduzione del testosterone libero; • Riduzione della sintesi del DNA attraverso una riduzione della tirosina-chinasi e delle topoisomerasi; • Riduzione dell’effetto dei radicali liberi attraverso le proprietà antiossidanti; • Inibizione della neoangiogenesi; • Inibizione del metabolismo del testosterone intraprostatico attraverso l’inibizione della 5 - alfa - reduttasi e dell’aromatasi Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 160 guigni vengono ridotti fino al 61%. La inibizione dell’angiogenesi e della proliferazione endoteliale promossa dalla genisteina avviene probabilmente attraverso il blocco della TK (78). • Attività antiossidante. Isoflavonoidi, flavonoidi e lignani ed in particolare la quercitina sono dotati di alto potere antiossidante, nettamente superiori a quella dell’alfatocoferolo e della Vitamina C (79). • Influenza sulle topo-isomerasi del DNA. Enzima che modifica la conformazione elicoidale del DNA. Si ottiene un arresto del ciclo cellulare nella fase G2-M ed una induzione dell’apoptosi (80) (Tabella 2). Zinco Questo minerale si trova in elevate concentrazioni nel tessuto prostatico normale, ma si riduce in modo significativo quando le cellule prostatiche diventano tumorali (81). Lo zinco è un componente essenziale di tutte le cellule ed interviene in numerosissime attività come quella dei metallo-enzimi, per la produzione di nucleoproteine ed acidi nucleici e per l’interazione di fattori di trascrizione. Lo zinco intracellulare è in forma legata alle proteine per oltre il 95%. Il sistema di accumulo attivo dello zinco nelle cellule prostatiche normali è controllato da un gene specifico che, a sua volta, è regolato dalla prolattina e dal testosterone e riduce il suo funzionamento quando le cellule prostatiche vanno incontro a mutagenesi (82, 83). è stato dimostrato in vitro che lo zinco può inibire la crescita delle cellule tumorali prostatiche attraverso l’induzione di apoptosi e l’arresto del ciclo cellulare (84); ciò lascia supporre che la carenza di zinco possa svolgere un ruolo importante nella patogenesi del tumore prostatico. L’inibizione della crescita è stata esaminata da Liang et al. (1999) in uno studio condotto su linee cellulari di carcinoma prostatico umano LNCaP e PC-3 che sono state incubate o meno con lo zinco, con il risultato nel primo di una marcata inibizione della crescita di entrambe le linee cellulari tumorali e tale effetto era correlato all’accumulo di zinco nelle cellule (LNCaP-53%, PC-3 33%). Tali risultati suggeriscono che lo zinco inibisce la crescita delle cellule di CaP probabilmente attraverso l’induzione dell’arresto del ciclo cellulare e dell’apoptosi (84). Studi osservazionali di popolazione, condotti sui pazienti con tumore della prostata, hanno dimostrato un effetto protettivo dello zinco rispetto al rischio di carcinoma prostatico, che risulta ridotto proporzionalmente alla quantità di zinco che viene assunto settimanalmente. Indicazioni Data l’elevata incidenza del CaP vi sono fondati motivi per ritenere che la messa a punto di una terapia nutrizionale debba coinvolgere tutti i maschi dopo il 4° decennio di vita. Vi sono tuttavia categorie a rischio più elevato nelle quali l’utilizzo di una dieta appropriata e la somministrazione di micronutrienti sembra particolarmente consigliata. Esse sono: a) Soggetti con anamnesi familiare positiva per CaP (padre o fratelli). In questi casi il rischio di contrarre la malattia è superiore di almeno 3-4 volte. b) Soggetti obesi e/o con ipercolesterolemia. c) Soggetti giovani con PSA superiore a 2,5 ng/ml in assenza di processi di flogosi prostatica acuta o cronica in atto. d) Soggetti portatori di IPB con PSA superiore a 4 ng/ml e biopsia prostatica negativa. e) Presenza di PIN di basso o elevato grado alla biopsia prostatica. f) Pazienti già sottoposti a prostatectomia radicale od a radioterapia per malattia localizzata allo scopo di ridurre il rischio di eventuale progressione di malattia negli anni. Scripta MEDICA Dieta mediterranea e micronutrienti nella prevenzione del carcinoma prostatico 161 Conclusioni La Società del benessere, frutto della rivoluzione industriale, ha condotto a colossali progressi tecnologici in ogni settore, ma il suo modo di alimentarsi si è fatto sempre più artificioso ed innaturale, in netto contrasto con i sani principi biologici che da milioni di anni governano gli organismi viventi. Oggi vi è la necessità da parte del medico di suggerire indicazioni realistiche per una alimentazione coerente con le acquisizioni scientifiche in merito a nutrizione e salute. L’esigenza del pubblico in questo senso è sempre maggiore ed il medico non a torto è considerato la fonte più autorevole per qualsiasi messaggio di tipo salutistico. Nessuna scienza medica è in grado, quanto la nutrizione, di fornire oggi importanti contributi. Dieta non significa necessariamente regime alimentare riduttivo, ma giusta combinazione qualitativa e quantitativa degli alimenti in base alle esigenze nutrizionali individuali. Date queste premesse è evidente che non esiste una dieta tipo valida per tutti, ma è possibile individuare comportamenti e criteri generali su cui impostare una sana e corretta alimentazione. Infine, data la conoscenza abbastanza approfondita dei complessi meccanismi biologici che sottendono a quella cascata di eventi situati tra un determinato insulto e la manifestazione patologica, il ruolo cosiddetto “modulatorio” di alcuni micronutrienti fa sì che la carenza od un eccesso ed anche solo uno squilibrio tra essi sia sufficiente a favorire la progressione di un certo evento verso una chiara situazione patologica. Ciò vale in particolare per il tumore della prostata che, come è noto, ha un tempo di latenza molto lungo che consente all’organismo molte possibilità di neutralizzare o distruggere le iniziali alterazioni del metabolismo cellulare. Il ruolo della maggior parte di questi micronutrienti è oramai ampiamente confermato da molte ricerche sperimentali ed epidemiologiche, sul ruolo di altri si discute e vi sono ipotesi in attesa di conferma ma comunque supportate da un solido razionale. Nonostante i limiti delle nostre attuali conoscenze un dato è comunque certo: un apporto completo di nutrienti in un giusto equilibrio è essenziale per una protezione efficiente che si ottiene solo intervenendo in più punti del cammino. Compito futuro della scienza sarà quello di precisarne ulteriormente il giusto equilibrio, nonché di individuare i micronutrienti maggiormente responsabili di queste interferenze. Il recupero “della via mediterranea” per star bene, mangiando bene, trova il suo fondamento nei risultati di almeno due decenni di studi nutrizionali ed epidemiologici. E ciò paradossalmente avviene nel momento in cui esse tendono ad essere abbandonate, perché considerate, alla luce del consumismo importato dalle società più avanzate dell’occidente industrializzato, espressione di “vita povera”. Bibliografia 1. Bono AV, Rocca Rossetti S, Vercelli M, Berrino F, Verdecchia A. Ricerca epidemiologica italiana sul carcinoma prostatico (REICAP). Segrate: Depha Team, 1997 2. Parker SL, Tong T, Bolden S, Wingo PA. Cancer statistics, 1996. C.A. Cancer J Clin 1996; 46:5 3. Kellof GJ, Lieberman R, Steele VE, Boone CW, Lubet RA, Kopelovitch L, Malone WA, Crowell JA, Sigman CC. Chemoprevention of prostate cancer: Concepts and strategies. Eur Urol 1999; 35:342 4. 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Il ferepatica reattiva ro si deposita (7), di miglioradapprima nelle re il ritmo di crecellule del sistescita e favorire il ma reticolo-enraggiungimento doteliale fino a di un normale S.R.E. saturarne le casviluppo pubepacità fisiologirale (8). Nei sogche (10-15 g), getti intolleranti poi, a transferrialla DFX, può Transferrina na completamenessere utilizzato te satura, si accuun chelante per mula nei parenvia orale, il defechimi determiriprone. nando un imporCuore Fegato tante danno ossidativo (3) soBassa prattutto a carico statura del cuore, del feGhiandole gato e delle ghianLa bassa statura endocrine dole endocrine nei pazienti talas(Figura 1). semici trova una Il deposito di ferorigine multifatFigura 1 ro (emosiderosi), toriale (Tabella principale causa 1); in passato le Introduzione Fe U.O. di Pediatria – Ambulatorio di Auxoendocrinologia. A.O. “Pugliese-Ciaccio”, Catanzaro 1 U.O. di Oncoematologia Pediatrica. A.O. “Pugliese-Ciaccio”, Catanzaro 2 U.O. di Pediatria ed Adolescentologia. Arcispedale “S. Anna”, Ferrara 3 U.O. di Radiologia. A.O. “Pugliese-Ciaccio”, Catanzaro cause principali erano l’anemia cronica, il sovraccarico marziale, l’ipersplenismo e il deficit di folati. Generalmente la crescita staturo-ponderale è normale sino ai 9-10 anni; dopo quest’età è possibile osservare un rallentamento della velocità di crescita (Figura 2) con conse- Scripta MEDICA Problematiche auxologiche e puberali nella β-talassemia omozigote 167 Tabella 1. Origine multifattoriale della bassa statura nei pazienti talassemici. Anemia cronica Disordini endocrini secondari al sovraccarico marziale (insufficienza-deficienza di GH, ipotiroidismo, ipogonadismo, diabete) Epatopatia cronica Displasia scheletrica secondaria a “tossicità” da desferioxamina Displasia scheletrica La displasia scheletrica, secondaria a “tossicità” della DFX, è un problema emergente. La DFX interferisce sulla osteogenesi inibendo la sintesi del collagene e la proliferazione dei fibroblasti; inoltre determina un deficit di zinco. La displasia scheletrica è caratterizzata da riduzione della velocità di crescita, platispondilia, lesioni similrachitiche a carico delle ossa lunghe, con rigonfiamento a livello dei polsi e delle ginocchia (Figura 3 e 4). Ipogonadismo guente decanalizzazione della statura; ciò, se non opportunamente e tempestivamente affrontato, conduce a un’altezza finale più bassa rispetto al target genetico (9-11) Alcuni studi eseguiti in pazienti talassemici con bassa statura hanno dimostrato normali o ridotte risposte del GH ai test convenzionali di stimolo (12-15), in qualche caso sono stati trovati valori deficitari nella secrezione spontanea dell’ormone della crescita; ciò indicherebbe una diFigura 2. sfunzione neurosecretoria del GH (16-18). È stata anche riscontrata una bassa attività sierica delle IGF-I (13, 17-19). L’efficacia del trattamento con rhGH in questi pazienti è variabile. In base alla nostra esperienza, nei casi con deficit di GH, il trattamento sortisce effetti positivi anche se in alcuni casi sono necessarie dosi superiori alla norma (20-22). In uno studio multicentrico italiano, condotto su 1.861 pazienti talassemici è stata osservata una prevalenza di ipogonadismo nel 47% delle ragazze e nel 51% dei maschi di età superiore ai 15 anni, amenorrea secondaria nel 23%, irregolarità me-struali nel 14% e arresto della maturazione sessuale nel 13% (23). L’emosiderosi è la principale causa del deficit gonadotropinico (24). L’esame istologico delle gonadi femminili mostra una minima siderosi con un occasionale contenuto di ferro nei macrofagi e un ridotto numero dei follicoli primordiali. Nei testicoli la maggior parte del ferro è Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 168 Figura 4. Figura 3. depositato nei tubuli seminiferi e tessuto interstiziale e, solo in minima parte, si ritrova nelle cellule di Leydig. Tutto ciò comporta una immaturità sessuale. In un recente studio è stata trovata una significativa correlazione tra il test al GnRH e il grading del deposito di ferro nella ghiandola pituitari a valutato con RM; con i grading più bassi (grading: 0= normale; 1= lieve; 2= moderato; 3= severo), si aveva una più elevata risposta dell’LH al GnRH test. L’ aver comunque trovato risposte di LH alterate in pazienti con lieve o assente deposito di ferro, potrebbe indicare che la terapia chelante rimuove il ferro senza indurre una concomitante ripresa funzionale delle cellule gonadotropino secernenti (25). Tuttavia, ulteriori studi sono necessari per valutare se una precoce e adeguata terapia chelante è in grado di prevenire il danno dell’ipofisi. Il genotipo del paziente può rappresentare un fattore prognostico della evoluzione spontanea o meno della pubertà (26). In un nostro studio, condotto su un gruppo di 12 pazienti di sesso femminile, omogeneo per età, consumo trasfusionale, ferritinemia e funzionalità epatica, abbiamo osservato la comparsa di pubertà spontanea in 6 pazien- ti e pubertà indotta con basse dosi di estrogeni somministrati per brevi periodo, in 2 pazienti. Questi 8 soggetti presentavano una doppia eterozigosi con una mutazione tipo mild (IVS1 nt6, -101, Hb Lepore, δβ-thalassaemia). Le rimanenti 4 pazienti ipogonadiche che avevano richiesto terapia sostitutiva con estroprogestinici erano omozigoti o con doppie eterozigosi per β°39 e IVS1 nt 110 (27). La pubertà dovrà essere indotta quando i pazienti raggiungono un’età ossea “puberogena”, tenendo sempre in considerazione i dati auxologici, endocrinologici e gli aspetti psicosociali. Sia per i ragazzi che per le ragazze possono essere impiegate piccole dosi di steroidi (testosterone ritardo alla dose iniziale di 2550 mg ogni 4 settimane ed etinil-estradiolo 2,5-5 µg/die) per brevi periodi (3-6 mesi), valutando ogni 3 mesi LH, FSH e gli steroidi sessuali. Se dopo questo periodo non si dovesse osservare una progressione spontanea della pubertà e un aumento del testosterone e degli estrogeni, si dovrà istituire un trattamento sostitutivo con steroidi sessuali. Per quanto concerne i maschi, quando la compliance lo permette, sulla scorta di alcu- Scripta MEDICA Problematiche auxologiche e puberali nella β-talassemia omozigote 169 Tabella 2. Terapia sostitutiva nei maschi. Testosterone ritardo 250 mg/3-4 settimane oppure Cerotti transdermici 1 cerotto da 5 mg/die applicare sul dorso (regione lombare) oppure HCG alla dose iniziale di 500 UI 2 volte alla settimana aumentando sino a 3.000 UI 2 volte alla settimana (valutare i valori serici di testosterone) associando poi l’FSH alla dose di 75 UI/2-3 volte alla settimana ne esperienze comparse in Letteratura (28), l’uso di HCG associato all’FSH dovrà essere considerato quando si vuole indurre la spermatogenesi (Tabella 2). La terapia sostitutiva nelle femmine, prevede uno schema ciclico sequenziale (Tabella 3). Conclusioni Una regolare terapia chelante, per via sottocutanea, riduce la frequenza delle complicanze endocrine nei soggetti talassemici. Un accurato monitoraggio del bilancio marziale dovrà essere effettuato in corso di terapia allo scopo di evitare la comparsa di possibili effetti negativi della desferioxamina sull’accrescimento staturale. Nei casi di comparsa di “tossicità” al trattamento con DFX, per via sottocutanea, si potrà ridurre la dose del chelante o si potrà passare a un trattamento alternativo con deferiprone per via orale. Alcuni effetti negativi della DFX sulla crescita dei corpi vertebrali (platispondilia) sono irreversibili e, pertanto, il medico dovrà effettuare regolari controlli della velocità di crescita staturale/anno e una misurazione della statura da seduto. Se questi valori risulteranno inferiori a quelli attesi dovrà essere Tabella 3. Terapia sostitutiva nelle femmine. Cicli di etinil-estradiolo 10-20 mcg/die per os per 21 gg associando negli ultimi 10 gg il medrossiprogesterone acetato per os (5 mg/die) Stop terapia per una settimana poi ripresa del ciclo. La terapia estrogenica può essere anche somministrata per via transdermica: cerotti da 25-50 mcg da applicare ogni 3 giorni e mezzo richiesta una radiografia del rachide vertebrale e del carpo; quest’ultima per escludere la presenza di lesioni “similrachitiche” a carico delle metafisi delle ossa lunghe. Una valutazione della secrezione dell’ormone della crescita andrà effettuata nei casi che si accompagnano a bassa statura e/o ridotta velocità di crescita staturale/anno. L’ipogonadismo è di solito irreversibile e necessita di una terapia sostitutiva con steroidi sessuali. È auspicabile che una regolare terapia chelante possa ridurre l’incidenza di questa endocrinopatia. Il genotipo del paziente può rappresentare un fattore favorevole la comparsa spontanea della pubertà. Bibliografia 1. Fosburg MT, Nathan DG. Treatment of Cooley’s anemia. Blood 1990: 76:435-444 2. Hoffbrand AV, Wonke B. Iron chelation therapy. J Int Med 1997; 242:37-41 3. 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Shorth stature and failure of pubertal development in thalassaemia major: evidence for hypothalamic neurosecretory dysfunction of growth hormo- Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 173 Infezioni delle vie urinarie non complicate Seconda di tre parti Pietro Cazzola Cistite acuta non complicata Nelle giovani donne sessualmente attive la cistite acuta è una condizione patologica gravata da un’elevata morbilità: è stato infatti calcolato che ciascun episodio in media causa sintomi che perdurano 6,1 giorni, costringe ad una riduzione dell’attività per 2,4 giorni e obbliga il malato a letto per 0,4 giorni (26). La sintomatologia della cistite è caratterizzata da disuria associata a pollachiuria, minzione imperioSpecialista in Anatomia e Istologia Patologica e Tecniche di Laboratorio sa, dolore sovrapubico, urine torbide e, talvolta, francamente ematiche (cistite emorragica). Quando una giovane donna accusa disuria in modo acuto, in genere ha contratto uno dei seguenti tre tipi di infezione: cistite acuta; uretrite acuta da Chlamydia trachomatis, o da Neisseria gonorrhoeae, o da Herpes simplex; vaginite da Candida spp, o da Trichomonas vaginalis. La diagnosi differenziale si basa sulla presenza di altri segni e sintomi ed, eventualmente, sui risultati dell’urinocoltura (Tabella 2). Se è presente solo disuria la probabilità che si tratti di una cistite è del 25%, ma se ad essa si associano aumento della frequenza e urgenza, in assenza di sintomi vaginali, la probabilità sale al 7080% (27). In passato si riteneva significativa di cistite una batteriuria di uropatogeni ≥ 105 CFU (Colony-Forming Units)/ml, ma attualmente il limite più congruo è considerato ≥ 103 CFU/ml (28, 29). A causa della limitata sensibilità e dei tempi prolungati necessari per i risultati, l’urinocoltura non viene più raccomandata come test diagnostico per la cistite (27), anche se rimane dirimente nei casi Tabella 2. Cause prevalenti di disuria nella donna. Infezione Patogeni Piuria Cistite Escherichia coli S. saprophyticus Proteus spp Klebsiella spp Uretrite Vaginite Ematuria Urinocoltura CFU/ml Sintomi, segni e altri fattori Presente A volte ≥103 Insorgenza improvvisa, sintomi severi e multipli (disuria, incremento della frequenza e urgenza), dolore sovrapubico o alla schiena; dolorabilità sovrapubica all’ispezione C. trachomatis N. gonorrhoeae Presente Rara <102 Insorgenza graduale, sintomi lievi, perdite vaginali o sanguinamento (in concomitanza a cerviciti), dolori addominali, nuovo partner; cerviciti o lesioni erpetiche vulvovaginali all’ispezione Candida spp Trichomonas vaginalis Rara <102 Perdite vaginali maleodoranti, prurito, dispareunia, disuria, frequenza e urgenza urinarie nella norma; vulvovaginiti all’ispezione Rara Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 174 in cui la sintomatologia non è caratteristica (1). Il test più utile per la diagnosi di cistite è rappresentato dal rilevamento della piuria che può essere effettuato mediante esame microscopico del sedimento urinario dopo centrifuga (Figura 2), o con il metodo del dipstick per le esterasi leucocitarie. Il metodo del dipstick ha una sensibilità del 75-96% e una specificità del 94-98% (27). Pielonefrite acuta non complicata Quando, oltre ai tipici sintomi relativi al tratto urinario inferiore (disuria, aumentata frequenza urinaria, urgenza minzionale), sono presenti anche dolore al fianco, dolore addominale, nausea, vomito, febbre e brividi, deve essere presa in considerazione la diagnosi di pielonefrite (27). Il sospetto clinico deve Figura 2. Leucociti nelle urine (piuria). Figura 3. Cilindro leucocitario nelle urine. essere confermato dall’esame delle urine che evidenzia piuria e/o cilindri leucocitari (Figura 3) e dall’urinocoltura. Per quest’ultima il numero di CFU/ml che viene indicato come probante è di 104 (1,28, 29). Questi pazienti, al fine di escludere la presenza di ostruzioni o di calcoli, dovrebbero comunque essere sottoposti ad ecografia del tratto urinario superiore e a Rx della regione lombare (1, 30). Batteriuria asintomatica Tale termine definisce la presenza di un “significativo” numero di batteri nelle urine (> 103 CFU/ml) in assenza di sintomi di IVU. La prevalenza della batteriuria asintomatica nella popolazione generale è del 3,5% e si osserva la tendenza a un aumento Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 175 lineare in funzione dell’età, dal momento che ne sono colpite il 5% delle donne tra i 18 e i 40 anni e il 20% delle donne anziane che vengono valutate ambulatoriamente (31, 32). La batteriuria asintomatica è molto frequente negli anziani istituzionalizzati: essa infatti è riscontrabile in circa il 50% delle donne e nel 30% degli uomini. McCue (33) ha tuttavia sottolineato che in questi soggetti il 25% delle urinocolture positive diventa negativo al follow-up a 6 mesi (e viceversa) e che il 25% delle urinocolture che sono positive in entrambi le occasioni, evidenzia un differente patogeno al follow-up. Nell’anziano la batteriuria asintomatica è molto probabilmente il risultato di una disfunzione vescicale e per questo motivo il tratta- mento antibiotico non offre nessun beneficio: infatti in questi casi l’antibioticoterapia non ha portato a modificazioni della mortalità, morbilità e incontinenza (33). Nella maggioranza dei pazienti le urinocolture diventano nuovamente positive entro pochi mesi ed è necessario trattare ambulatorialmente almeno 7 pazienti anziani con batteriuria asintomatica per prevenire una IVU sintomatica (33). È importante ricordare che nella diagnosi differenziale tra batteriuria asintomatica e IVU vera e propria la presenza di piuria non costituisce un elemento di distinzione in quanto sono possibili casi di piuria senza batteriuria e casi di batteriuria senza piuria. Orr PH e coll. (34) hanno osservato che la presenza di batteriuria in Figura 4 Germi patogeni responsabili delle infezioni delle vie urinarie nell’anziano. corso di un episodio febbrile rilevato in una popolazione di anziani istituzionalizzati può essere addirittura fuorviante per la diagnosi: infatti solo nel 7% dei casi si è trattato di una IVU a fronte di una positività dell’urinocoltura riscontrata nel 50% dei pazienti. IVU in gravidanza Le IVU rappresentano la più frequente complicanza medica che insorge durante il periodo gestazionale. I fattori che favoriscono le IVU in gravidanza sono legati alle modificazioni meccaniche e ormonali a cui vanno incontro il rene e le vie urinarie durante tale fase della vita della donna: tra quest’ultime spiccano la compressione estrin- Scripta M E D I C A Volume 7, n. 5-6, 2004 176 seca della pelvi renale e dell’uretere esercitata dall’utero aumentato di volume e il rilasciamento della muscolatura liscia indotta dal progesterone. La prevalenza della batteriuria asintomatica in gravidanza varia dal 4% al 7% (27). In molte donne la batteriuria è presente già prima della gravidanza (35). Uno studio condotto in Svezia ha evidenziato che il rischio di batteriuria aumenta con il progredire della gestazione, raggiungendo il massimo tra la 9a e la 17a settimana (36). La batteriuria in gravidanza si associa ad un aumentato rischio di parto prematuro, di basso peso alla nascita e di mortalità neonatale (1). Quando non trattata, la batteriuria asintomatica in gravidanza esita in una cistite in più del 30% dei casi e in pielonefrite nell’1-2% dei casi. L’esecuzione dell’urinocoltura deve essere effettuata alla 16a settimana di gravidanza e se il risultato è positivo l’esame deve essere ripetuto dopo 1-2 settimane: il trattamento deve essere iniziato in caso di confermata positività (≥ 104 CFU/ml) per lo stesso uropatogeno (1). IVU nell’anziano Rispetto ai soggetti più giovani, le IVU nell’anziano sono sostenute da un più ampio spettro di germi patogeni: è noto infatti che più del 90% delle IVU non complicate che colpiscono le giovani donne sono dovute all’Escherichia coli, mentre nelle varie casistiche riferite all’anziano questo germe è coinvolto in percentuali variabili dal 41% (38) al 62% (39) (Figura 4). Bibliografia 26. Foxman B, Frerichs RR. Epidemiology of UTI: I. Diaphragm use and sexual intercourse. Am J Public Health 1985; 75:1308 27. University of Michigan Health System. 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