PROGRESSI DELLA SCIENZA CHE STUDIA IL CERVELLO Aggiornamento 2007 La neuroetica evolve Saggio di Steven E. Hyman, MD PROGRESSI DELLA SCIENZA CHE STUDIA IL CERVELLO La neuroetica evolve Saggio di Steven E. Hyman, MD Aggiornamento 2007 THE EUROPEAN DANA ALLIANCE FOR THE BRAIN EXECUTIVE COMMITTEE William Safire, Chairman Edward F. Rover, President Colin Blakemore, PhD, ScD, FRS, Vice Chairman Pierre J. Magistretti, MD, PhD, Vice Chairman Carlos Belmonte, MD, PhD Anders Björklund, MD, PhD Joël Bockaert, PhD Albert Gjedde, MD, FRSC Sten Grillner, MD, PhD Malgorzata Kossut, MSc, PhD Richard Morris, Dphil, FRSE, FRS Dominique Poulain, MD, DSc Wolf Singer, MD, PhD Piergiorgio Strata, MD, PhD Eva Syková, MD, PhD, DSc Executive Committee Barbara E. Gill, Executive Director La European Dana Alliance for the Brain (EDAB) riunisce circa 186 tra i più grandi specialisti delle neuroscienze di 27 paesi, compresi 5 premi Nobel, che si sono dati come obbiettivo di sensibilizzare il pubblico sull’importanza della ricerca sul cervello. Fondata nel 1997, questa organizzazione è attiva a vari livelli dal laboratorio di ricerca fino al pubblico. Per ulteriori informazioni : The European Dana Alliance for the Brain Dr.essa Béatrice Roth, PhD Centre de Neurosciences Psychiatriques Site de Cery 1008 Prilly / Lausanne e-mail : [email protected] Copertina : Jennifer Suehs PROGRESSI DELLA SCIENZA CHE STUDIA IL CERVELLO Aggiornamento 2007 La neuroetica evolve 5 11 Introduzione di David C. Van Essen, PhD La neuroetica: ha cinque anni e continua a svilupparsi di Steven E. Hyman, MD I progressi della ricerca sul cervello nel 2006 17 Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia 25 I disturbi del movimento 33 Le lesioni del sistema nervoso 39 Neuroetica 47 Le malattie neuroimmunologiche 57 Il dolore 63 I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze 73 I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee 81 Cellule staminali e neurogenesi 91 I disturbi del pensiero e della memoria 99 Referenze 111 Immaginate un mondo... Introduzione di David C. Van Essen, PhD Presidente della Society for Neuroscience I l presente opuscolo vi offre un aggiornamento sulla ricerca nel campo delle neuroscienze. Nelle pagine che seguono sono presentate oltre un centinaio di recenti scoperte che illustrano il contributo della ricerca per il miglioramento della diagnosi, dei trattamenti e della comprensione di numerose malattie e gravi disturbi del sistema nervoso centrale. Ogni capitolo approfondisce una determinata categoria di disturbi, mentre il capitolo dedicato alla neuroetica analizza in modo trasversale le questioni comuni all’insieme della ricerca sul cervello. Le scoperte citate, delle vere «pepite di neuroscienze», così come i temi più generali che emergono da questo aggiornamento, costituiscono un ritaglio significativo di quanto è oggi fatto per comprendere il cervello umano, in buona salute oppure malato. Il cervello umano è una struttura incredibilmente complessa, che elabora l’informazione e controlla ogni aspetto del nostro comportamento. Con i suoi intricati circuiti neuronali costituiti da miliardi di neuroni e miliardi di miliardi di sinapsi, è l’organo più complicato del corpo umano. La complessità si manifesta a diversi livelli. A livello molecolare e cellulare, implica una complicata coreografia di segnali molecolari che trasmettono l’informazione da una cellula all’altra e regola l’intensità di questi segnali durante lo sviluppo e l’apprendimento. A livello di sistema coinvolge una sinfonia di diversi pattern di attività, basati su migliaia di strutture cerebrali differenti che comunicano attraverso decine di migliaia di vie anatomiche diverse. Grazie alla complessità cerebrale esiste una grande variabilità individuale delle strutture e delle funzioni cerebrali, che spiega l’enorme diversificazione delle personalità e dei mezzi intellettuali dell’essere umano. Data questa sbalorditiva complessità – infinitamente più grande di quella di una navetta spaziale o di un supercomputer – non stupisce che siano 5 così numerose le disfunzioni che possono colpire il sistema nervoso. I disturbi e le malattie identificate in questo ambito sono più di mille e la lista continua ad allungarsi. Le patologie più frequenti come la malattia di Alzheimer, la schizofrenia, l’ictus cerebrale, i disturbi dell’apprendimento, colpiscono una parte importante della popolazione e rappresentano un importante fardello per la società in termini non solo economici, ma anche di preoccupazioni e sofferenza umana. La speranza di vita della popolazione continua ad aumentare; senza grandi progressi nella prevenzione e nel trattamento dei disturbi del sistema nervoso, il carico di queste patologie continuerà a crescere. Per accelerare il corso della ricerca occorre una conoscenza approfondita dei meccanismi fisiologici e patologici del funzionamento e della plasticità del cervello. I progressi che ne deriveranno, alcuni dei quali sono segnalati in questo aggiornamento, permetteranno di utilizzare al meglio le normali capacità del cervello di rigenerarsi, ripararsi ed adattarsi alle lesioni e alle malattie. I progressi realizzati nel 2006 dalle neuroscienze offrono molti spunti. Uno tra i molti è il miglioramento della caratterizzazione dei fattori genetici che contribuiscono alla molteplicità dei disturbi neurologici e psichiatrici, che va dalla delucidazione del ruolo svolto da specifici geni nella forma familiare della malattia di Parkinson fino all’identificazione dei geni implicati nell’ansia in un modello murino 1-3. Un’altra strategia efficace emersa dalle ricerche è stata quella di combinare le conoscenze su un gene con un altro approccio sperimentale come ad esempio il neuroimaging. Un esempio interessante illustrato in questo aggiornamento implica l’uso della risonanza magnetica per caratterizzare le anomalie cerebrali (strutturali e funzionali) in individui portatori di una variante genetica associata a dei comportamenti violenti, ma senza antecedenti psichiatrici 4. Grazie al neuroimaging è stato possibile evidenziare delle anomalie strutturali nel cervello di bambini con disturbi da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) 5 e delle anomalie funzionali nei bambini autistici 6. 6 Le patologie neurodegenerative come la malattia di Parkinson, la corea di Huntington, la malattia di Alzheimer, la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), ecc., continuano a polarizzare le risorse di molti laboratori. Grazie ai progressi ottenuti dalla biologia cellulare è possibile comprendere meglio il funzionamento delle cellule, ad esempio come una configurazione Introduzione molecolare scorretta alteri il normale funzionamento di una proteina e come la cellula degeneri quando i meccanismi fisiologici che dovrebbero correggere gli errori di configurazione proteica sono sregolati. Una soluzione possibile a questo problema consiste nell’utilizzare dei trattamenti che proteggono i neuroni dai danni e dalla morte 7. L’interazione tra sistema immunitario e cervello alimenta la ricerca. Nel cervello sano i due sistemi interagiscono reciprocamente, numerosi lavori realizzati nel 2006 hanno dimostrato che quando il sistema immunitario attacca il cervello gli effetti sono devastanti. La risposta infiammatoria acuisce i danni neuronali provocati dai processi neurodegenerativi della malattia di Alzheimer, la malattia di Parkinson, la corea di Huntington e la SLA. La strategia clinica che ne consegue è la somministrazione di nuovi farmaci antinfiammatori per proteggere i neuroni delle persone affette da queste malattie. Nelle patologie autoimmuni come la sclerosi multipla, le cellule gliali diventano un obiettivo del sistema immunitario. Le scoperte realizzate l’anno scorso hanno fornito importanti informazioni sulle proteine chiave che mediano questo attacco immunitario e hanno identificato un anticorpo marker che permette di regolare la somministrazione di farmaci che contrastano queste malattie 8, 9. Per certi scienziati la sostituzione dei neuroni costituisce una sorta di ricerca del santo Graal, tanto più che la neurogenesi nell’adulto esiste in numerose altre specie. Nel cervello umano i neuroni distrutti sono insostituibili, nell’adulto la neurogenesi, cioè la formazione dei nuovi neuroni, non esiste, ad eccezione di alcune ristrette regioni cerebrali. Per certi scienziati la possibilità di sostituire i neuroni costituisce una sorta di ricerca del santo Graal, tanto più che la neurogenesi nell’adulto esiste in numerose altre specie. Le cellule cigliate della coclea nell’orecchio sono un obiettivo interessante, poiché costituiscono parte di un circuito neuronale relativamente semplice e i disturbi dell’udito sono frequenti ed invalidanti. I progressi realizzati nella caratterizzazione dei geni da cui dipende la proliferazione di queste cellule, permettono di sperare in nuovi sviluppi 10. I ricercatori continuano a studiare i meccanismi che regolano la neurogenesi nell’ippocampo e in altre regioni del cervello dove avviene spontaneamente. Esplorano inoltre l’uso di cellule staminali per promuovere la neurogenesi a livello del cervello e del midollo spinale 11, 12. 7 Un altro tema studiato è il modo con cui i progressi realizzati nella diagnosi e nel trattamento delle malattie cerebrali possono creare dei problemi con ricadute sul piano etico e sulla politica della salute. I membri della Dana Alliance for Brain Initiatives hanno un ruolo importante nella neuroetica. L’articolo sulla neuroetica di Steven Hyman ripercorre la storia di questa giovane disciplina e rileva gli interrogativi ai quali essa è confrontata. I differenti temi sono ripresi nel capitolo della neuroetica, che affronta una serie di problemi e controversie come la privacy cerebrale, il cervello incosciente e le implicazioni delle protesi neurali. Quale direzione prenderà la ricerca sul cervello? Questo ambito sarà determinato da tre tendenze. Quale direzione prenderà la ricerca sul cervello? Questo ambito sarà determinato da tre tendenze: La tecnologia guiderà la ricerca. La maggior parte delle scoperte elencate in questo aggiornamento sarebbe stata impossibile una decina di anni fa a causa dell’inadeguatezza dei metodi sperimentali. Degli esempi: la risonanza magnetica o i metodi per determinare rapidamente la sequenza di un gene non esistevano o erano insufficienti. Ricercatori e ingegneri, universitari o privati, lavorano senza sosta per preparare diversi metodi che permetteranno di ottenere e di analizzare le informazioni concernenti il cervello. Un impegno continuo è fondamentale per accelerare il ritmo delle scoperte. Laboratorio, letto del malato, laboratorio. È ormai acquisita da tempo l’idea che le scoperte della ricerca fondamentale e translazionale debbano tradursi in benefici per i malati. Ora è riconosciuto come indispensabile che l’informazione vada anche in senso inverso, dalla clinica alla ricerca fondamentale. Studiando le malattie e i loro meccanismi, i neuroscienziati possono comprendere meglio i processi alla base delle funzioni e dello sviluppo cerebrale. Per esempio, alle quattro Presidential Lectures presentate durante la conferenza annuale della Society for Neuroscience del 2006, i partecipanti hanno posto l’accento sui benefici tratti dall’interazione bidirezionale tra la ricerca fondamentale e le neuroscienze cliniche. 8 A livello personale, questa prospettiva trova in me un’eco profonda, visto che recentemente ho modificato i miei programmi di ricerca. Qualche anno fa ero un purista della ricerca di base, oggi il mio laboratorio lavora su disturbi neurologici e psichiatrici specifici utilizzando degli strumenti L’esplosione dell’informazione. Gli studi descritti in questo aggiornamento sono solamente la punta dell’iceberg sempre più grande, delle informazioni che emergono annualmente dalle neuroscienze. Tuttavia solo una parte delle informazioni è pubblicata sui giornali o messa a disposizione nelle banche dati e spesso i dati non si trovano facilmente, ma i prossimi dieci anni ci riserveranno sorprese spettacolari. Grazie ai progressi della tecnologia e dell’informazione i ricercatori, i clinici e il pubblico potranno procurarsi una quantità formidabile d’informazioni sul sistema nervoso, con una facilità, una comodità e una rapidità che sfideranno qualsiasi immaginazione. Introduzione innovativi per l’analisi delle strutture e delle funzioni della corteccia cerebrale. Il più importante tema di ricerca per la conferenza annuale della Society for Neuroscience è la malattia, a dimostrazione dell’impegno crescente della comunità neuroscientifica. 9 La neuroetica: ha cinque anni e continua a svilupparsi di Steven E. Hyman, MD I l cervello costituisce il fulcro della nostra umanità ed è sede delle facoltà più preziose, le malattie neurologiche sono quindi particolarmente devastanti e sono oggetto d’intensi sforzi da parte dei ricercatori. Allo stesso tempo, la scienza genera preziose conoscenze sul pensiero, sulle emozioni e sul comportamento dell’uomo malato e in buona salute. Le nuove tecnologie che permettono di osservare l’attività cerebrale e di agire sulle funzioni del cervello, sollevano delicate questioni etiche e determinate scelte politiche. Attualmente per diagnosticare una malattia è possibile contare principalmente sull’osservazione clinica, ma il progresso dell’imaging cerebrale avvicina il giorno in cui i medici disporranno di elementi più oggettivi. Tra una decina di anni i dati forniti dalla genetica e dalla biologia molecolare metteranno a disposizione dei trattamenti per rallentare l’evoluzione delle malattie neurodegenerative come l’Alzheimer o il morbo di Parkinson. Attraverso i progressi acquisiti dalla genetica o dalle neuroscienze cognitive e sociali, gradualmente emergono approcci innovativi per il completo ristabilimento psichico e funzionale dei pazienti affetti da schizofrenia e autismo. I progressi realizzati nell’interfaccia tra le neuroscienze e l’ingegneria annunciano il momento in cui, grazie alle interazioni tra cervello e computer, le persone vittime di paralisi ritroveranno un controllo delle loro capacità motorie. Le prime esperienze realizzate con la stimolazione cerebrale profonda, rivelano che una migliore comprensione dei circuiti cerebrali permetterà di curare con più efficacia la depressione, i disturbi d’ansia e altre patologie della sfera emotiva e cognitiva. Curare le malattie del cervello è una tra le maggiori ambizioni della nostra società, ma le conquiste sono tortuose. Il cervello è un organo complesso, 11 e risulta molto difficile trovare un modello animale adeguato per i processi cognitivi superiori. La modalità per trovare delle soluzioni contro le malattie, come stimolare i giovani ricercatori ad impegnarsi in questa lotta e come dotarli dei mezzi necessari, non sono le uniche sfide alle quali siamo confrontati. Quest’anno, l’aggiornamento annuale della Dana Alliance sui progressi della ricerca sul cervello, dedica per la seconda volta uno spazio speciale alla neuroetica, la prima risale al 2003. I membri della Alliance si sono impegnati sulle questioni etiche poste dalle neuroscienze con articoli o conferenze. I temi generati dalla ricerca sul cervello, dal comportamento alla psiche, sono stati approfonditi frammentariamente in diverse occasioni, spesso in piccoli gruppi di scienziati, eticisti ed altri intellettuali. Nel maggio del 2002, a San Francisco, la Dana foundation ha promosso una conferenza intitolata «Neuroethics: Mapping the Field», che è stata l’occasione per una presa di coscienza intensa e duratura sulle questioni raccolte con il termine più generico di neuroetica. Da allora, un numero crescente di seminari, articoli e libri alimentano questo dinamico campo interdisciplinare grazie al contributo di diverse comunità di scienziati, filosofi, medici, giuristi, sociologi, politologi e politici. Nel maggio del 2006 ad Asilomar, in California, si è tenuto un convegno durante il quale è stata creata una nuova società di neuroetica, la Neuroethics Society (www.neuroethicssociety.org). L’obiettivo di questa nuova società è quello di costituire una piattaforma di scambio per il dialogo interdisciplinare, che affinandosi e approfondendosi permetterà di affrontare i problemi più incalzanti. 12 Questa nuova società non è l’unica a promuovere l’argomento, l’American Association for the Advancement of Science presenta regolarmente alle sue riunioni dei temi di neuroetica. Dal 2003, la Society for Neuroscience nel corso del suo simposio annuale, prevede una conferenza sulla neuroetica, e le ha consacrato tre simposi, di cui uno in ottobre 2006, incentrato sui problemi internazionali. In questo appuntamento sono stati discussi: la formazione di volontari da parte dei ricercatori, la sensibilizzazione delle comunità nei paesi poveri e l’elaborazione delle direttive etiche. Nel 2006 anche la Cognitive Neuroscience Society e l’Association for Psychological Science ha organizzato un simposio sulla neuroetica, soggetto che negli ultimi due anni è stato affrontato anche dalla Wellcome Trust Bioethics Le pubblicazioni in questo ambito aumentano lentamente, anche se occorre rilevare che spesso i nuovi settori interdisciplinari riscontrano questo tipo di difficoltà per due ragioni: la prima è che i lavori proposti non si allineano perfettamente con le discipline che controllano le riviste scientifiche; la seconda consiste nel fatto che quando un ambito di lavoro richiede dei contributi significativi da diverse discipline, il materiale è difficile da raccogliere. Gli specialisti delle neuroscienze, i giuristi e i filosofi non sanno sempre dove trovare gli articoli di cui necessitano. Da cui gli sforzi per rimediare a questa lacuna. La Neuroethics Society, ha siglato un accordo con l’American Journal of Bioethics che prevede dei numeri speciali dell’American Journal of Bioethics – Neuroscience sulla neuroetica. La rivista Journal of Cognitive Neuroscience attribuirà a questo ambito uno spazio più rilevante. Ma la neuroetica è veramente necessaria? Non è sufficiente la bioetica il cui ambito è più vasto? È questa una questione ricorrente a proposito di tale giovane disciplina. I numerosi intellettuali che s’interessano alla neuroetica sono solidamente legati alla bioetica, molte delle questioni trattate dalla neuroetica appartengono all’ambito della bioetica, un esempio è il consenso informato per le persone affette da disturbi cognitivi o in fin di vita. La neuroetica: ha cinque anni e continua a svilupparsi Summer School. L’American Academy of Arts and Sciences ha organizzato all’inizio del 2007 un simposio sull’uso del neuroimaging nell’ambito della detezione della verità. Secondo il mio parere, la neuroetica è nata in ragione del particolare statuto del cervello. La ricerca sul cervello richiede tuttavia di un successivo passo; secondo il mio parere, la neuroetica è nata in ragione del particolare statuto del cervello. Un’attenta considerazione delle implicazioni della ricerca sul cervello oltrepassa gli abituali limiti della bioetica. L’uso dell’imaging cerebrale per ricostruire il passato recente di un individuo o per sondarne la sincerità pone la questione bioetica del rispetto della privacy, ma interpella anche le forze dell’ordine e della sicurezza, che sono poco presenti nel dibattito della bioetica. Se l’obiettivo è modificare o controllare le funzioni cerebrali, i problemi etici sono differenti da quelli che si pongono quando per ragioni analoghe 13 s’interviene sui reni o sul cuore, proprio perché s’interferisce con l’organo responsabile della nostra umanità e la nostra autonomia. Ciò che contraddistingue la neuroetica, è che il cervello non è solo l’oggetto della riflessione etica, ma costituisce la base stessa dei principi etici. Ciò che contraddistingue la neuroetica, è che il cervello non è solo l’oggetto della riflessione etica, ma costituisce la base stessa dei principi etici. Quest’ultimo punto è controverso per tutti coloro che credono che esista una legge naturale oppure dei precetti divini nei principi etici. In un paese come gli Stati Uniti in cui la religione occupa un posto importante nella vita degli individui, questa discussione è indispensabile. Oggi cominciamo a cogliere i fondamenti neuronali dell’interazione sociale, come per il pregiudizio e la fiducia, ed emerge la possibilità d’influenzare queste interazioni con dei farmaci o con la stimolazione elettrica. Si pongono quindi delle questioni fondamentali sull’origine dei nostri sistemi etici. Sono questi il frutto dei principi razionali tramandati dalla notte dei tempi oppure sono il prodotto contingente di un cervello in continua evoluzione? O entrambe le cose? Se l’uomo intende gestire il progresso scientifico nel modo più adatto, la neuroetica non sarà mai di troppo. 14 I progressi della ricerca sul cervello nel 2006 Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia Anomalie cerebrali nell’autismo 18 Novità sull’ADHD 21 Paralisi cerebrale infantile, il ruolo delle infezioni 23 17 N el corso del 2006, molti studi sulle malattie che appaiono nel corso dell’infanzia riguardavano le regioni cerebrali che contribuiscono ad aumentare la dimensione del cervello nei pazienti affetti dai disturbi di tipo autistico. I ricercatori hanno descritto alcune differenze neuroanatomiche e biochimiche che potrebbero essere responsabili delle difficoltà cognitive nei bambini affetti dai disturbi da deficit di attenzione e iperattività. Sono inoltre emerse nuove evidenze sul ruolo svolto dalle infezioni virali nei disturbi dello sviluppo come la paralisi cerebrale infantile. Anomalie cerebrali nell’autismo Le patologie di tipo autistico fanno parte dei disturbi generalizzati dello sviluppo, i bambini che ne sono affetti hanno grandi difficoltà di comunicazione e manifestano un ripiego su se stessi. L’esatta origine di questi disturbi è sconosciuta, gli scienziati hanno evidenziato diverse anomalie neurologiche che potrebbero contribuire al ripiego sociale e ai deficit cognitivi che li caratterizzano. Alcuni ricercatori hanno messo in relazione questi disturbi con un’attività anormale in determinate regioni cerebrali. Il gruppo diretto da Marco Iacoboni, neuroscienziato presso l’Università della California a Los Angeles, ha evidenziato una ridotta attività neuronale del giro frontale inferiore nei bambini affetti da disturbi di tipo autistico quando essi svolgono attività basate sull’interazione sociale 1. In uno studio pubblicato dalla rivista Nature Neuroscience, il gruppo di Iacoboni tramite la risonanza magnetica funzionale, ha paragonato l’attività neuronale di 10 bambini con una diagnosi di tipo autistico «high-functioning», che riescono cioè a condurre una vita quasi normale, con quella di 10 bambini dotati di uno sviluppo normale, mentre osservano e cercano di imitare delle emozioni con il volto. Il grado di riduzione dell’attività neuronale era correlato con la gravitá dei sintomi. I ricercatori sostengono che il giro frontale inferiore faccia parte del sistema dei neuroni specchio, importante per la percezione delle espressioni del viso che traducono le emozioni e che permette di provare empatia. La disfunzione di questo sistema potrebbe dare origine alle difficoltà di socializzazione osservate nei bambini autistici. 18 Anche le alterazioni delle dimensioni cerebrali sono state correlate con l’autismo. Nell’ambito di uno studio pubblicato nell’American Journal of Non è ancora noto in che modo lo spessore della corteccia cerebrale influisce sulle singole cellule, i ricercatori ritengono che esso potrebbe indicare il livello di arborizzazione cellulare, cioè il grado di sviluppo delle connessioni tra cellula e cellula. Nel corso dello sviluppo normale del cervello c’è una sovrapproduzione massiccia di cellule e di sinapsi, alla quale subentra per eliminazione competitiva, la soppressione dei neuroni e delle sinapsi eccedenti. Questa «potatura» potrebbe essere all’origine dell’assottigliamento della corteccia cerebrale. Esaminando le immagini cerebrali, i ricercatori hanno scoperto un aumento dello spessore corticale nei lobi temporali e parietali dei bambini autistici, che almeno in parte potrebbe essere responsabile dell’aumento della dimensione cerebrale osservata negli individui affetti da questa patologia. Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia Psychiatry, un gruppo di ricercatori diretto da Antonio Hardan, psichiatra alla Stanford University, ha utilizzato la risonanza magnetica per comparare la dimensione della corteccia cerebrale (la parte più esterna del cervello) di 17 bambini affetti da autismo e 14 bimbi in buona salute. Lo spessore della corteccia cerebrale costituisce un indicatore sensibile del normale sviluppo del cervello 2. Gli autori s’interessano ai meccanismi che controllano l’assottigliamento della corteccia cerebrale, incluse le influenze genetiche. Studiando i geni implicati in questo meccanismo sperano di scoprire le cause dell’ispessimento delle strutture cerebrali osservate nei soggetti autistici, per creare nuovi trattamenti. Secondo uno studio apparso nella rivista Archives of General Psychiatry, l’accrescimento dell’amigdala sembra contribuire all’aumento della dimensione del cervello nei pazienti autistici 3. L’amigdala è una struttura cerebrale molto importante per il funzionamento socio-emotivo dell’individuo. Gli autori di questo studio, diretto da Stephen Dager, ricercatore presso l’Università di Washington, tramite la risonanza magnetica hanno misurato la dimensione dell’amigdala di 45 bimbi d’età da 3 a 4 anni, affetti da disturbi di tipo autistico. Gli scienziati hanno evidenziato un nesso tra l’accrescimento dell’amigdala, in particolare l’amigdala destra, e la gravità dei sintomi. Riesaminando dopo tre anni gli stessi soggetti, i ricercatori hanno osservato che le competenze linguistiche e sociali erano meno sviluppate nei bambini che presentavano un accrescimento marcato dell’amigdala destra. 19 Esplorazione dell’autismo Il ricercatore Stephen Dager, in primo piano, osserva uno scan cerebrale. Egli conduce con Dennis Shaw uno studio sulla dimensione dell’amigdala nei bambini affetti da disturbi di tipo autistico. Questi risultati dimostrano l’implicazione dell’amigdala nei disturbi del comportamento osservati nell’autismo e indicano la taglia dell’amigdala destra come segnale premonitore dell’evoluzione clinica della malattia. In un recente articolo pubblicato in Neurology, gli stessi ricercatori sostengono che l’invalidità dei bambini autistici paragonata ai bimbi affetti da un ritardo dello sviluppo, potrebbe essere attribuita ad un esagerato «rilassamento trasversale» delle cellule del cervello 4. Il rilassamento trasversale corrisponde alla misura del grado di connessione tra le cellule cerebrali; è realizzata con la risonanza magnetica, determinando la capacità delle cellule cerebrali di spostare il liquido che le avvolge. Questa tecnica è utilizzata per determinare la maturazione del cervello. 20 Lo studio ha coinvolto 60 bambini autistici, 16 con un ritardo dello sviluppo e 10 bimbi dotati di sviluppo normale d’età compresa tra 2 e 4 anni. I ricercatori hanno constatato che i legami tra le cellule erano molto più stretti nei bambini con uno sviluppo normale rispetto ai bambini autistici, L’autismo resta una patologia misteriosa. Gli studi realizzati con l’imaging, sembrano indicare delle anomalie nella formazione delle strutture neuronali che potrebbero avere luogo durante i primi stadi della gestazione. Novità sull’ADHD Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), è una patologia dello sviluppo che compromette i risultati scolastici e professionali, incrementa il rischio di depressione ed espone all’abuso di sostanze e agli incidenti, talvolta mortali. L’ADHD è caratterizzato da agitazione e da riduzione dell’attenzione che sembrano essere dovuti ad un deficit dei meccanismi cerebrali che controllano l’impulsività. A lungo gli scienziati hanno ipotizzato che proprio l’insufficiente concentrazione di dopamina fosse l’origine dell’ADHD. Recenti scoperte confermano questa ipotesi. Per curare la maggior parte dei casi di ADHD esistono farmaci efficaci che aumentano la concentrazione cerebrale di un neurotrasmettitore inibitore, la dopamina. A lungo gli scienziati hanno ipotizzato che proprio l’insufficiente concentrazione di dopamina fosse l’origine dell’ADHD. Recenti scoperte confermano questa ipotesi, indicando i «trasportatori cerebrali della dopamina» come responsabili di questa disfunzione. I trasportatori captano troppa dopamina, impedendo che questo neurotrasmettitore, una volta liberato, svolga la sua funzione sulle cellule del cervello. Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia i soggetti affetti da ritardo dello sviluppo hanno ottenuto dei risultati intermedi. Un gruppo di ricercatori diretto da Donald Gilbert, neuropediatra al Cincinnati Children’s Hospital Medical Center, ha studiato la modalità con la quale la corteccia motoria inibisce i movimenti in 16 bambini e adolescenti affetti da ADHD, prima e dopo la somministrazione di farmaci che amplificano la disponibilità cerebrale della dopamina 5. L’incremento di dopamina riduce l’attività della corteccia motoria di tutti i bambini. L’effetto è più marcato nei bambini portatori di una variante genetica denominata DAT1, che provoca un’attività eccessiva dei trasportatori di dopamina e come conseguenza diminuisce la disponibilità di questo neurotrasmettitore. Le alterazioni genetiche dei trasportatori di dopamina potrebbero essere implicate nella genesi dell’ADHD. 21 Schiaccia! Non Schiacciare! Cambia! Attivazione cerebrale nell’ADHD I bambini affetti da disturbi da deficit di attenzione e iperattività dimostravano una ridotta attività nella corteccia prefrontale mediana quando dovevano inibire una risposta motoria (immagine di sinistra). Lo stesso avveniva (immagine di destra), nelle regioni frontali e temporali del cervello quando dovevano cambiare compito. Katya Rubia e i suoi colleghi dell’istituto di psichiatria del King’s College a Londra hanno osservato lo stesso tipo di difetto di inibizione motoria in 19 ragazzi che non avevano mai assunto dei farmaci per l’ADHD 6. Questi risultati sono significativi, perchè gli autori fanno notare che i dati realizzati in precedenza potevano essere falsati dal fatto che i bambini assumevano farmaci per l’ADHD. Utilizzando la risonanza magnetica funzionale, il gruppo di Rubia ha evidenziato un’attivazione cerebrale anormale in questi bambini e adolescenti che non hanno mai assunto dei farmaci, quando realizzavano dei compiti che implicavano l’inibizione motoria o quando dovevano passare da un procedimento ad un altro (ciò che richiede una flessibilità cognitiva). I dati suggeriscono che non esiste un legame tra la ridotta-attivazione osservata in questi pazienti e l’esposizione prolungata a farmaci stimolanti. In entrambi i casi è stata osservata una ridotta-attivazione nella regione prefrontale del cervello, così come nelle regioni temporali e parietali, aree che non erano mai state messe in relazione con l’ADHD. 22 Lo spessore della corteccia è un indicatore dello sviluppo cerebrale studiato sia nell’ADHD sia nell’autismo. I ricercatori del National Institute of Lo spessore della corteccia è un indicatore dello sviluppo cerebrale studiato sia nell’ADHD sia nell’autismo. L’analisi di questi immagini ha evidenziato nei bambini affetti da ADHD un assottigliamento della corteccia nelle regioni del cervello che svolgono un ruolo importante nel controllo dell’attenzione. Immagini acquisite in momenti successivi hanno mostrato nei bambini con i sintomi più gravi, una corteccia particolarmente sottile nella parte anteriore del cervello, vicino ad una regione che oltre agli aspetti dell’attenzione controlla l’inibizione di comportamenti inadeguati. Inoltre i bambini con una forma meno severa di ADHD presentano dei cambiamenti ben caratterizzati della corteccia parietale destra, che controlla alcuni degli aspetti fondamentali dell’attenzione. Alla fine dell’adolescenza, non c’era più differenza di spessore tra la loro corteccia cerebrale e quella dei bambini sani. Questa «normalizzazione» non è stata evidenziata nei bambini con dei gravi deficit. I risultati non sono stati influenzati dal fatto che i bambini assumessero o no dei farmaci. Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia Mental Health diretti da Philip Shaw, hanno misurato lo spessore della corteccia cerebrale in 166 bambini affetti da ADHD 7. Le immagini ottenute con la risonanza magnetica sono state ripetute circa ogni due anni e paragonate ad immagini realizzate in bambini in buona salute. Tali risultati offrono un’immagine molto dettagliata della corteccia cerebrale dei bambini affetti da ADHD ed evidenziano dei cambiamenti che secondo gli autori potrebbero essere un riflesso, se non il motore di un ristabilimento clinico. Come per l’autismo, gli studi di imaging suggeriscono l’origine delle disfunzioni cerebrali osservati nell’ADHD; tali studi potrebbero essere utili sul piano diagnostico e terapeutico. Paralisi cerebrale infantile, il ruolo delle infezioni Nel 2006 la ricerca ha trovato nuovi indizi sull’importante ruolo delle infezioni nelle patologie dello sviluppo come la paralisi cerebrale infantile (PCI). La PCI è una malattia cronica e spesso grave del cervello, diagnosticabile precocemente nell’infanzia, che provoca un’anomalia del controllo dei movimenti e della postura. Le cause della malattia sono generalmente sconosciute e non esiste alcun tipo di prevenzione. 23 Catherine Gibson e il suo gruppo dell’Università di Adelaide in Australia, hanno pubblicato nel British Medical Journal uno studio sulla possibile implicazione di alcune infezioni virali nella PCI 8. Gli scienziati hanno cercato la presenza di virus di tipo herpes in campioni di sangue neonatale essiccato proveniente da 443 bebè colpiti da PCI e da 883 bebè sani. I risultati evidenziano che i bebè esposti al virus dell’herpes durante la gravidanza sono molto più numerosi tra i bambini colpiti da PCI. È possibile ipotizzare che questi virus, responsabili per esempio della varicella o dell’herpes labiale, siano implicati nello sviluppo della PCI nel corso della vita intrauterina, un’ipotesi che dovrà essere verificata con successivi studi. 24 I disturbi del movimento Errato ripiegamento delle proteine: le inclusioni sono utili? 26 L’infiammazione e la malattia di Parkinson 28 Gli aspetti genetici della malattia di Parkinson 29 Monitoraggio e trattamento della corea di Huntington 30 25 N el 2006 gli scienziati hanno fatto progressi sulla lunga via che conduce dalla ricerca di base alla scoperta di nuovi trattamenti per i disturbi del movimento. Gli studi di laboratorio sul ripiegamento delle proteine, sui fenomeni infiammatori, sui fattori di crescita e la genetica hanno aperto nuove prospettive per monitorare e curare queste patologie. Alcuni trattamenti sono attualmente in fase di studio nell’animale, alcuni nell’uomo. Errato ripiegamento delle proteine: le inclusioni sono utili? L’azione delle proteine dipende dalla loro forma. Le cellule producono delle proteine costituite da lunghe catene di amminoacidi, che dopo essersi ripiegate e avvolte, assumono una struttura tridimensionale. Le proteine mal ripiegate non interagiscono in modo normale con le altre. Esse si aggregano tra loro formando dei depositi denominati inclusioni, osservati frequentemente nel cervello delle persone che soffrono di alcune malattie neurologiche. L’ alfasinucleina è la componente maggiore di queste inclusioni (denominate anche corpi di Lewy), la cui presenza nei neuroni è tipica della malattia di Parkinson, una patologia che provoca rigidità, tremito e disturbi del movimento. Si riscontrano i corpi di Lewy anche in una demenza detta appunto demenza a corpi di Lewy. Le inclusioni ricche di alfasinucleina si osservano anche nell’atrofia sistemica multipla, la cui sintomatologia è simile a quella della malattia di Parkinson e provoca dei problemi di linguaggio, di equilibrio e di coordinazione. Secondo due studi recenti, uno di Thomas Südhof e il suo gruppo i cui risultati sono apparsi in Cell, l’altro di Tracey Dickson e i suoi colleghi, pubblicato in Experimental Neurology, la funzione dell’alfasinucleina sarebbe quella di proteggere i neuroni dalle lesioni 1, 2. Quando i livelli di questa proteina sono normali e il suo ripiegamento è corretto, l’alfasinucleina protegge la cellula. Se vi è una sovrapproduzione ed essa è mal ripiegata si formano degli aggregati che sembrano associati con le malattie. Per quale ragione? 26 Sebbene sia una questione ancora controversa, è generalmente ammesso che l’alfasinucleina mal ripiegata che forma degli aggregati contribuisce alla morte delle cellule, ma il meccanismo è ancora sconosciuto. È possibile che le proteine mal ripiegate non svolgano la loro funzione in modo corretto, ma sembra anche che esse interferiscano con le altre funzioni delle Basandosi sull’ipotesi che le inclusioni contribuiscono a ledere le cellule, sono state sviluppate alcune terapie per prevenire gli aggregati e le inclusioni. In opposizione a quest’idea il gruppo diretto da David Housman e Aleksey Kazantsev ha pubblicato nella rivista Proceedings of the National Academy of Sciences i risultati di uno studio secondo il quale gli aggregati di proteine mal ripiegate sarebbero per la cellula un mezzo per proteggersi dagli effetti del cattivo ripiegamento delle proteine. Le inclusioni non provocherebbero dei danni ma, al contrario, preserverebbero la cellula 5. Quando questi autori hanno somministrato a dei topi portatori del modello della corea di Huntington e della malattia di Parkinson una sostanza Un sistema di difesa della cellula? Una cellula sotto stress, al centro dell’immagine, aumenta la produzione di alfasinucleina, una proteina del cervello. L’alfasinucleina potrebbe servire per proteggere dai danni provocati dall’errato ripiegamento delle proteine nelle patologie neurodegenerative come la malattia di Parkinson. I disturbi del movimento cellule. Secondo lo studio di Richard Morimoto pubblicato in Science, un eccesso di proteine mal ripiegate disorienta il sistema di «assicurazione della qualità» della cellula, provocando il cattivo ripiegamento di altre proteine 3. Susan Lindquist e i suoi colleghi hanno dal canto loro pubblicato in Science, uno studio secondo il quale la presenza eccessiva di alfasinucleina interferisce con il movimento proteico all’interno delle cellule 4. 27 denominata B2 che promuove la formazione di inclusioni, essi hanno costatato una riduzione dei danni cellulari. Mark Cookson in Experimental Neurology commentando gli effetti apparentemente paradossali dell’alfasinucleina, ha ipotizzato che a livelli normali, poco elevati, essa esercita un effetto protettore sulla cellula nervosa 6. In caso di stress, per proteggersi la cellula aumenta la produzione di alfasinucleina, si formano quindi degli aggregati che interferiscono con il normale funzionamento. Se i piccoli aggregati si aggregassero tra loro formando delle inclusioni, la cellula sarebbe protetta dai danni. Una migliore comprensione del ruolo delle proteine mal ripiegate nelle patologie neurodegenerative potrà senza dubbio contribuire alla scoperta di nuovi farmaci in grado di prevenire queste lesioni. L’infiammazione e la malattia di Parkinson Nella malattia di Parkinson si osserva la morte prematura di una determinata popolazione di cellule. La causa di questa patologia è ancora sconosciuta. Un’ipotesi si basa sul ruolo svolto dall’infiammazione, che induce un accumulo di cellule reattive. James Bower e il suo gruppo di ricercatori del Mayo Clinic College of Medicine hanno paragonato gli incartamenti clinici di 196 pazienti affetti dalla malattia di Parkinson con quelli di 196 soggetti controllo. I risultati, pubblicati in Neurology, hanno evidenziato che i pazienti che hanno sviluppato la malattia di Parkinson, erano più soggetti all’asma e al raffreddore allergico rispetto alle persone sane 7. Alcune persone potrebbero avere delle risposte immunitarie che provocano sia le reazioni allergiche sia la malattia di Parkinson. I dati suggeriscono che alcune persone potrebbero avere delle risposte immunitarie che provocano sia le reazioni allergiche sia la malattia di Parkinson. Seguendo la stessa linea, il gruppo di Bower ha constatato che i farmaci che bloccano la risposta infiammatoria, come gli antinfiammatori non steroidei (FANS) potrebbero avere un ruolo protettivo e che il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson potrebbe essere inferiore per le persone che assumono questo tipo di farmaci. 28 Nell’insieme, i risultati suggeriscono un nesso tra i fenomeni infiammatori e la malattia di Parkinson, altri lavori dovranno precisare la relazione tra i due studi. Comprendendo meglio la natura di questo legame avremo nuove informazioni sul meccanismo della malattia e diventerà quindi possibile orientare le strategie terapeutiche. I disturbi del movimento Un gruppo diretto da Miguel Hernán ha pubblicato in Neurology uno studio simile ai due citati precedentemente 8. Secondo questo lavoro, gli uomini che hanno assunto dei FANS diversi dall’aspirina (ad esempio l’ibuprofene) hanno il 20% in meno di possibilità di sviluppare la malattia di Parkinson, mentre le donne alle quali erano stati somministrati i FANS hanno il 20% in più di possibilità di sviluppare questa patologia rispetto alle persone che non assumono farmaci di questo tipo. La differenza uomodonna è stata una sorpresa, compatibile però con i risultati di altri studi secondo i quali per i fattori di rischio della malattia di Parkinson esiste una differenza di sesso. Un altro studio ha dimostrato che la minociclina, un antibiotico somministrato dal 1970 per il trattamento dell’acne, inibisce l’infiammazione e protegge i neuroni. Raymond Swanson e i suoi colleghi dell’University of California and Veterans Affairs Medical Center, San Francisco, hanno studiato i possibili meccanismi di questa protezione cellulare sulle colture di neuroni 9. Lo studio pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences, mostra che la minociclina inibisce la proteina PARP-1, una proteina che reagisce alle lesioni del DNA intensificando l’infiammazione e la morte cellulare. Gli autori hanno concluso che questo farmaco bloccando la PARP-1 ha un effetto antinfiammatorio e neuroprotettore. L’effetto antinfiammatorio e di protezione neuronale della minociclina potrebbe avere interessanti implicazioni cliniche. I risultati ottenuti nei modelli animali della malattia di Parkinson, della corea di Huntington e della sclerosi laterale amiotrofica (SLA), sono promettenti. I risultati di un test clinico preliminare pubblicato in Neurology sembra fare della minociclina il possibile candidato per nuovi test clinici sulla malattia di Parkinson 10, che si aggiungono a quelli in corso per la corea di Huntington e la SLA. Gli aspetti genetici della malattia di Parkinson I casi familiari della malattia di Parkinson rappresentano circa il 10% del totale, le mutazioni di almeno cinque geni sono implicate in questa forma di Parkinson. Studiando i geni i ricercatori hanno acquisito delle conoscenze sul meccanismo della malattia, che potrebbero offrire un beneficio per tutti i pazienti affetti dalla malattia di Parkinson. Due studi apparsi in Nature hanno esaminato le relazioni tra due geni diversi, «parkin» e «PINK1», implicati nella forma familiare della malattia di Parkinson 11, 12. I due geni collaborano al mantenimento delle funzioni dei 29 mitocondri, le centrali energetiche della cellula. Questi studi confermano la vecchia idea secondo la quale una perturbazione della funzione mitocondriale potrebbe contribuire alla genesi della malattia di Parkinson. Il legame delle mutazioni dei due geni «parkin» o «PINK1» con la malattia di Parkinson era stato descritto precedentemente in individui in cui entrambe le copie del gene «parkin» o del gene «PINK1» erano difettose. Le persone con la mutazione in una singola copia del gene possono trasmetterla ai loro figli, s’ignorava tuttavia le conseguenze al ciò sul piano clinico. Due studi pubblicati in Archives of Neurology e un terzo apparso in Movement Disorders, dimostrano il possibile nesso tra la mutazione di una singola copia del gene e lo sviluppo della malattia di Parkinson 13-15. Il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson è più elevato nelle persone che possiedono una copia difettosa del gene «PINK1» rispetto ai membri della loro famiglia che ne possiedono due copie normali. Il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson è più elevato nelle persone che possiedono una copia difettosa del gene «PINK1» rispetto ai membri della loro famiglia che ne possiedono due copie normali. Nelle persone con una copia difettosa di «parkin», la malattia si manifesta più precocemente rispetto alla maggior parte delle persone che la sviluppano, compresi i membri della famiglia nei quali le due copie sono normali. Dato che è molto più frequente avere una copia di geni difettosi che due, il numero di persone colpite da queste mutazioni potrebbe essere più elevato del previsto. Monitoraggio e trattamento della corea di Huntington La corea di Huntington è una malattia genetica che sopraggiunge generalmente tra i 40 e i 50 anni. Essa è caratterizzata da uno sviluppo progressivo di movimenti incontrollati, da disturbi psichici e da un progressivo deterioramento intellettivo. 30 Se uno dei due genitori è malato, i figli hanno il 50% delle possibilità di ereditare il gene della malattia. Attualmente è a disposizione un test che permette di identificare con precisione la presenza della mutazione. La maggior parte delle persone a rischio preferiscono però non sottomettersi al test poiché non esistono cure o mezzi di prevenzione e pochi trattamenti per i sintomi. I disturbi del movimento Una possibile via per studiare sia la progressione della malattia sia gli eventuali trattamenti è quella di monitorare le cellule immunitarie «microgliali». Tali cellule potrebbero infatti contribuire alla malattia sintetizzando delle sostanze che favoriscono l’infiammazione. Un gruppo di ricercatori diretto da Paola Piccini, utilizzando la tomografia ad emissione di positroni, ha dimostrato che il livello di attivazione della microglia era correlato con la gravità clinica della corea di Huntington. Pubblicati in Neurology, i risultati convalidano la tesi dell’implicazione della microglia, ed è possibile che ciò sia valido anche per altre patologie neurodegenerative 16. Un trattamento possibile per la malattia di Huntington consiste nel GDNF, un fattore neurotrofico derivato dalle cellule gliali (glial-derived neurotrophic factor) che protegge le cellule nervose e ne induce la ricrescita. Anche se un test clinico di vasta portata è stato abbandonato, nel 2006 sono stati realizzati degli studi su un numero meno elevato di casi che hanno dato risultati variabili sull’effetto del GDNF nel trattamento della malattia di Parkinson 17-19. Il GDNF è stato usato nel modello murino della corea di Huntington, in uno studio pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences 20. Il gruppo di Jeffrey Kordower si è servito di un virus per trasportare il GDNF nel cervello dei topi ed ha constatato un miglioramento del comportamento, un numero inferiore di neuroni morti e la riduzione della quantità di inclusioni. Altri studi dovranno confermare o meno se il suo uso potrà essere esteso alle persone affette dalla corea di Huntington. Sebbene non esista ancora un trattamento contro i processi patologici che stanno alla base di questa malattia, sono a disposizione farmaci capaci di alleviare i sintomi della corea di Huntington e di migliorare la qualità di vita delle persone che ne sono colpite. Uno studio clinico su uno di questi trattamenti è stato pubblicato in Neurology 21. In questo lavoro, della durata di 12 settimane, i pazienti che hanno ricevuto la tetrabenazina, hanno avuto una riduzione significativa dei movimenti incontrollati rispetto ai pazienti trattati con un placebo. 31 Le lesioni del sistema nervoso Sfruttare il pensiero 34 La riparazione del midollo spinale 34 Gli ictus cerebrovascolari 37 I tumori del cervello 38 33 N ella ricerca sulle lesioni del sistema nervoso centrale (SNC), uno tra i temi più importanti consiste nello studiare in quale modo la ricerca di base può contribuire allo sviluppo di nuovi trattamenti. Per ora non esistono delle terapie efficaci, a causa della complessità dei meccanismi innescati dalle tre lesioni primarie del sistema nervoso centrale, i traumi del midollo spinale, gli ictus e i tumori cerebrali. I ricercatori hanno studiato i fenomeni connessi alla morte cellulare, alla rigenerazione dei nervi, alla genesi dei tumori, con l’obiettivo di trasformare le conoscenze acquisite in trattamenti, diretti contro specifiche molecole, in grado di prevenire o riparare le lesioni del sistema nervoso centrale. Sfruttare il pensiero Una notizia che ha destato molto scalpore nella stampa mondiale nel 2006 è quella di un uomo paralizzato che con i pensieri è riuscito ad attivare un computer, un risultato che corona decenni di ricerca di base sul controllo cerebrale del movimento (questo soggetto è discusso anche nel capitolo di Neuroetica alla pagina 41). Nello studio pilota, pubblicato in Nature, John Donoghue, ricercatore alla Brown University e i suoi collaboratori di Harvard, hanno dimostrato che un’interfaccia computercervello può registrare l’attività neuronale della corteccia motoria primaria di una persona trasformandola in specifiche attività di apparecchiature periferiche 1. Il soggetto in questione, affetto da una paralisi quasi completa, sequela di un trauma del midollo spinale che risaliva a tre anni prima, oggi riesce ad utilizzare la posta elettronica, accendere il televisore e la luce, ad aprire e chiudere una mano protesica ed eseguire dei gesti semplici con un braccio multiarticolato. È questo un primo passo verso i robot diretti dal pensiero che potrebbero restituire autonomia alle persone paralizzate da traumi del sistema nervoso centrale. Gli autori tengono a precisare che questa tecnologia è ancora allo stadio sperimentale. La riparazione del midollo spinale 34 Le differenti forme di lesioni del midollo spinale richiedono trattamenti diversificati, attualmente i ricercatori cercano di combinare le molteplici strategie terapeutiche nel modello animale. La difficoltà sostanziale che essi riscontrano è quella di stimolare la rigenerazione degli assoni, le fibre nervose che trasmettono i segnali cerebrali da una cellula all’altra. Il fine è In corrispondenza della breccia provocata dalla rottura o dallo schiacciamento del midollo spinale, si forma un’impenetrabile cicatrice gliale nella quale sono presenti delle molecole che inibiscono la ricrescita degli assoni e rendono difficoltoso il complesso processo della guida della ricrescita assonale. Gli scienziati cercano d’identificare e testare delle sostanze capaci di contrastare gli effetti inibitori della crescita assonale. Tra le sostanze studiate troviamo la condroitinasi ABC, un enzima di origine batterica che secondo studi precedenti frena all’interno della cicatrice la formazione di sostanze inibitrici denominate proteoglicani. James Massey e i suoi colleghi dell’Università di Louisville, il cui studio è stato pubblicato nel Journal of Neuroscience, dopo avere iniettato la condroitinasi nel tronco cerebrale di ratti affetti da trauma midollare a livello cervicale, hanno constatato la ricrescita assonale nel luogo della lesione, confermando in questo modo i risultati precedenti 2. Le lesioni del sistema nervoso quello di ottenere delle fibre nervose che dopo essere ricresciute nella giusta direzione si riconnettano ai loro obiettivi, ristabilendo in questo modo la comunicazione interneuronale. I ricercatori della Johns Hopkins e dell’Università del Michigan diretti da Ronald Schnaar hanno affermato in Proceedings of the National Academy of Sciences di avere scoperto che la condroitinasi ABC induce la ricrescita assonale in un modello animale di trauma midollare. Essi hanno scoperto inoltre un secondo enzima di origine batterica, la sialidasi, che sembra avere un effetto doppio rispetto alla condroitinasi 3. Degli studi valutano le basi biologiche della ricrescita e della riconnessione assonale. Oltre a studiare gli effetti inibitori della ricrescita assonale, altri studi valutano le basi biologiche della ricrescita e della riconnessione assonale. In questo ambito tre gruppi di scienziati hanno pubblicato nel 2006 dei risultati preliminari. Yuqin Yin e Larry Benowitz, ricercatori al Children’s Hospital di Boston, hanno riferito in Nature Neuroscience che l’oncomodulina, un fattore di crescita presente naturalmente nell’organismo, ha aumentato da cinque a sette volte la ricrescita assonale in ratti con una lesione del nervo ottico 4. Samuel Pfaff che dirige il laboratorio del Salk Institute, ha pubblicato nella rivista Neuron che un altro fattore di crescita, il fattore di crescita 35 dei fibroblasti, stimola la riconnessione degli assoni con i muscoli dopo la ricrescita assonale 5. Infine, i ricercatori di Yale diretti da Paul Forscher hanno affermato in Nature Cell Biology di avere identificato che la miosina II, una proteina implicata nei movimenti cellulari, aiuta a dirigere la ricrescita neuronale all’estremità dell’assone 6. Queste scoperte danno nuova luce ai meccanismi implicati nello sviluppo del sistema nervoso e potrebbero essere il veicolo per stimolare la crescita dei nervi lesi da traumi. Per favorire la rigenerazione assonale a livello di una lesione traumatica del midollo nel ratto, un gruppo di ricercatori della Case Western Reserve University diretto da Jerry Silver ha combinato la condroitinasi ABC con una sorta di «passerella neuronale». Gli scienziati hanno inserito un segmento di nervo sciatico dell’animale nella breccia generata dal trauma, il trapianto ha formato un ponte per facilitare l’organizzazione della ricrescita assonale. Per stimolare la rigenerazione degli assoni ed impedire lo sviluppo della cicatrice gliale, i ricercatori hanno poi somministrato regolarmente delle dosi di condroitinasi ABC con una pompa. In questi animali si è osservato un netto miglioramento della mobilità se paragonato a quello dei ratti che avevano subito la stessa procedura ma sostituendo la condroitinasi ABC con una soluzione salina inattiva. Nei ratti ai quali è stata somministrata la soluzione salina, non si è osservato né ricrescita assonale, né miglioramento dei movimenti. I risultati di questo studio sono stati pubblicati nel Journal of Neuroscience 7. Anche i ricercatori dalla Johns Hopkins University diretti da Douglas Kerr hanno scelto un approccio simile. Gli scienziati hanno trapiantato a degli animali con un trauma del midollo dei neuroni motori, e poi hanno iniettato nella lesione una miscela di sostanze destinate a neutralizzare i segnali che inibiscono la ricrescita assonale. In seguito essi hanno somministrato un fattore di crescita che induce gli assoni a connettersi con i loro obiettivi. Pubblicati in Annals of Neurology, i risultati evidenziano un ristabilimento parziale della funzione motoria negli animali paralizzati 8. 36 Gli studi preliminari realizzati nel modello animale potrebbero in futuro contribuire a definire dei trattamenti per le persone che subiscono dei traumi midollari. Nel corso degli ultimi decenni il numero di ictus cerebrovascolari (ICV) si è ridotto in modo considerevole grazie ai farmaci che agiscono su due dei principali fattori di rischio: l’ipertensione arteriosa e il colesterolo. Nell’ICV ischemico, secondario all’occlusione di un vaso sanguigno provocata da un coagulo di sangue, l’attivatore del plasminogeno di tipo tissutale (tPA) dissolve i trombi contribuendo a limitare i danni. Questo farmaco deve però essere somministrato nelle tre ore che seguono l’episodio acuto. Nella pratica il tPA è poco utilizzato, in parte perché raramente i pazienti giungono così rapidamente in un servizio specializzato. Le lesioni del sistema nervoso Gli ictus cerebrovascolari Il registro degli ICV dello stato del Minnesota mostra che solamente il 2% delle persone sono state trattate con il tPA. Tra gli individui che non hanno beneficiato di questo trattamento, il 41% è giunto all’ospedale troppo tardi e il 38% non sapeva specificare con precisione l’orario in cui è sopraggiunta la sintomatologia. I risultati di questo studio effettuato da Mathew Reeves, ricercatore alla Michigan State University, sono stati pubblicati in Neurology 9. Il lavoro appena menzionato dimostra come sia importante scoprire dei farmaci capaci di preservare la funzione cerebrale e migliorare le possibilità di recupero anche se non sono somministrati nelle tre ore che seguono l’apparizione della sintomatologia acuta. L’interesse continua ad essere incentrato sui farmaci che dissolvono i trombi ma con delle finestre terapeutiche più ampie. Un primo passo in questa direzione proviene da un test clinico realizzato con una sostanza neuroprotettrice che limita i danni cerebrali provocati dagli ICV ischemici. Le molecole neuroprotettrici sono studiate da una ventina d’anni, il NXY-059 è il primo farmaco sviluppato secondo le nuove norme della ricerca clinica sugli ICV. Se questa sostanza è somministrata nelle sei ore che seguono l’esordio della sintomatologia acuta, essa riduce il tasso d’invalidità nei seguenti 90 giorni, ma non conduce ad un miglioramento delle funzioni neurologiche. Lo studio multisito è stato realizzato da Warren Wasiewski, del Western Infirmary a Glasgow in Scozia e pubblicato nel New England Journal of Medicine 10. L’interesse continua ad essere incentrato sui farmaci che dissolvono i trombi ma con delle finestre terapeutiche più ampie. 37 I tumori del cervello I gliomi sono dei tumori cerebrali per i quali non disponiamo ancora di una terapia, il decesso sopraggiunge in generale nei due anni che seguono la diagnosi. L’origine dei gliomi è in gran parte sconosciuta e non esiste una prevenzione. La ricerca di base sulla genesi dei gliomi è incentrata sulle relazioni tra le cellule staminali e le cellule presenti nei tumori, in particolare sulla questione già esplorata da studi precedenti, di sapere se le cellule staminali producono delle sostanze che promuovono lo sviluppo del tumore. Jeremy Rich e i suoi colleghi della Duke University hanno pubblicato nella rivista Cancer Research un articolo su un determinato tipo di cellule gliomatose denominate «stem-cell-like glioma cancer cell» per la loro somiglianza con le comuni cellule staminali 11. I ricercatori hanno esaminato come le cellule del glioma inducono la crescita del tumore. Le cellule in questione sintetizzano in notevole quantità una sostanza naturale chiamata fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF) che promuove la formazione di vasi sanguigni attraverso i quali l’ossigeno e le sostanze nutritive giungono alle cellule gliomatose, contribuendo alla loro proliferazione e al loro sviluppo. Nel frattempo, gli scienziati del National Institute of Neurological Disorders and Stroke e del National Cancer Institute diretti da Howard Fine hanno pubblicato in Cancer Cell, uno studio su un fattore di crescita denominato fattore di crescita delle cellule staminali (SCF) 12, che sarebbe uno tra i responsabili dello sviluppo del tumore. Come il VEGF, esso contribuisce alla progressione del tumore, creando un terreno favorevole alla formazione dei vasi sanguigni. Da qui l’interesse di trovare dei farmaci capaci di inibire la formazione dei vasi sanguigni tumorali, per privare di sangue e di ossigeno le cellule patogene. 38 Per il trattamento del glioma, i ricercatori stanno studiando anche il potenziale ruolo terapeutico delle cellule staminali. Un gruppo diretto da Arturo AlvarezBuylla, dell’Università della California a San Francisco, ha descritto in Neuron una molecola che regola la neurogenesi nell’adulto. Nel topo, quando questa molecola è stimolata in modo anomalo, induce lo sviluppo di neoplasie invasive. Tali neoformazioni regrediscono quando cessa la stimolazione 13. A partire da questi risultati diventa possibile immaginare dei trattamenti che impediscano lo sviluppo di gliomi maligni bloccando le vie di segnalazione. Neuroetica Il placebo nei test clinici 40 La privacy cerebrale 40 Tecnologie emergenti e cervello umano 41 Una concezione più dettagliata dell’incoscienza 43 39 C on la creazione della Società di Neuroetica (Neuroethics Society), nel 2006 la neuroetica ha assunto una forma più esplicita. Fondata da autorevoli scienziati, avvocati ed etici, questa società gestisce un sito web, www.neuroethicssociety.org e collabora con due pubblicazioni «partner», l’American Journal of Bioethics e il Journal of Cognitive Neuroscience. Nel corso del 2006 sono stati realizzati progressi significativi (accompagnati da accesi dibattiti) in quattro tra gli ambiti più importanti della neuroetica: gli interventi in caso di disturbi emotivi e del comportamento, la privacy cerebrale, l’impatto delle tecnologie emergenti e l’evoluzione delle nostre conoscenze sugli stati d’incoscienza come ad esempio lo stato vegetativo persistente. Il placebo nei test clinici L’uso del placebo nei test clinici crea un problema etico concreto. Recentemente si è sviluppato un ampio dibattito a proposito di uno studio realizzato da Sumant Khanna e pubblicato nel British Journal of Psychiatry. A circa 150 persone affette da disturbi maniacali è stato somministrato un placebo in sostituzione del risperidone, un farmaco antipsicotico utilizzato in questi casi 1. Alcuni medici hanno espresso un dubbio sulla validità del consenso informato ottenuto dai pazienti che hanno partecipato allo studio, spiega Ganapati Mudur nel British Medical Journal 2, la questione è quella di sapere se le persone affette da disturbi dell’umore sono realmente in grado di dare un consenso informato. La privacy cerebrale Le sempre più sofisticate tecniche di imaging cerebrale fanno vacillare i concetti più radicati sulla mente, come per esempio la nozione dell’inviolabilità dei pensieri segreti di una persona. Alcuni scienziati hanno sviluppato delle macchine della verità basate sulla risonanza magnetica funzionale (MRIf). I ricercatori sostengono che questo sistema è molto più preciso del tradizionale poligrafo, che valuta e misura le reazioni del sistema nervoso simpatico. 40 Feroze Mohamed e i suoi colleghi hanno pubblicato in Radiology 3 i risultati di uno studio realizzato con la MRIf che simula un’inchiesta intrapresa in seguito ad una sparatoria in un ospedale. I ricercatori hanno identificato otto regioni del cervello significativamente più attive durante l’inganno rispetto ad una situazione neutra e due regioni in cui l’attività era molto più Feroze Mohamed e i suoi colleghi hanno pubblicato in Radiology i risultati di uno studio realizzato con la MRIf che simula un’inchiesta intrapresa in seguito ad una sparatoria in un ospedale. I ricercatori hanno identificato otto regioni del cervello significativamente più attive durante l’inganno rispetto ad una situazione neutra e due regioni in cui l’attività era molto più importante quando le persone dicevano la verità rispetto ad una situazione emotivamente indifferente. Neuroetica importante quando le persone dicevano la verità rispetto ad una situazione emotivamente indifferente. Per ora la maggioranza dei neuroscienziati non ha espresso un’opinione a questo proposito. Un editoriale di Nature ha fatto appello alla comunità neuroscientifica, affinché i dubbi e le perplessità siano espresse chiaramente per essere pronti ad un lungo dibattito pubblico sulle implicazioni etiche di questa tecnologia così come sulla natura della sfera privata in sé 4. Una nuova tecnica per esaminare i dati forniti dal neuroimaging, denominata «classificazione dei pattern», permette di predire in modo abbastanza preciso cosa sta guardando il soggetto prima che egli ne sia cosciente. Anche se questa competenza evoca la preoccupante prospettiva della lettura della mente, l’uso di questa tecnica per rivelare le menzogne è conforme alle stesse limitazioni del convenzionale poligrafo che disorienta le reazioni emotive del soggetto, spiega un editoriale di Nature Neuroscience. L’impatto delle tecniche della «classificazione dei pattern» dovrebbe manifestarsi soprattutto a livello della ricerca di base, perché permetterà agli scienziati di cominciare a capire «non solamente dove, ma anche come è trattata l’informazione» 5. Un’altra area di interesse è la ricerca di marker biologici, come ad esempio delle anomalie cerebrali o delle mutazioni genetiche specifiche, che possono indicare una tendenza alla violenza. Nigel Eastman e Colin Campbell in Nature Reviews Neuroscience si chiedono se sia possibile considerare la presenza di questi marker come una causalità in senso giuridico, e se è il caso, se è accettabile porre in detenzione preventiva delle persone che presentano questi marker, per proteggere la società 6. Tecnologie emergenti e cervello umano BrainGate è un test clinico unico nel suo genere che utilizza l’interfaccia cervello-computer; il numero di Nature del 13 luglio 2006 ha consacrato a questo soggetto il suo articolo di fondo. BrainGate è un braccio robotico 41 sviluppato per Matt Nagle, un paziente tetraplegico a causa di una lesione al midollo spinale. Egli controlla il braccio robotico unicamente con la forza del pensiero, attraverso i segnali che il suo cervello invia al braccio, come ad esempio aprire e chiudere la mano (vedi anche il capitolo sulle lesioni del sistema nervoso pagina 34). I segnali motori inviati dal cervello di Matt Nagle sono raccolti da 96 elettrodi di un microchip impiantato nella sua corteccia motoria, decodificati ed utilizzati per controllare i movimenti della protesi. A differenza di altri tipi di tecnologia destinati alle persone colpite da paralisi multipla, che utilizzano per esempio l’attività elettrica a livello del cuoio capelluto o legata ai movimenti degli occhi, questa protesi neuromotoria non richiede mesi di allenamento e nemmeno la completa attenzione della persona. Leigh Hochberg e i suoi colleghi precisano in Nature che Matt Nagle riesce ad aprire la posta elettronica fittizia o a muovere il suo braccio anche conversando 7. Quando il progresso tecnico avrà permesso di accelerare il trattamento dell’informazione e di affinare le possibilità delle protesi neuromotorie si porrà la questione di quali sono le persone più adatte ad approfittarne e a quali fini esse dovranno essere utilizzate (terapeutici, finanziari, psicosociali). Stephen Scott nello stesso numero della rivista, evoca la possibilità che utilizzando i circuiti di feed-back già esistenti nel cervello, queste protesi finiscano per modificare in modo sottile la modalità con cui sono organizzati i segnali cerebrali stessi. Si stabilirebbe quindi tra il cervello ed i dispositivi tecnici una simbiosi sempre più stretta, che offrirebbe una prospettiva incoraggiante per le persone colpite da paralisi 8. In tutt’altro ambito, i progressi costanti del neuroimaging destano delle preoccupazioni a proposito delle «scoperte accidentali», fatte nel corso di analisi realizzate per altre ragioni, che evidenziano patologie inattese. Gli studi a questo proposito si moltiplicano. Un gruppo di lavoro costituito da una cinquantina di specialisti dell’imaging medico, dell’etica biomedica e del diritto, hanno valutato se i ricercatori avessero l’obbligo di informare di queste scoperte i pazienti che partecipano allo studio e in caso affermativo, qual è la condotta da adottare 9. 42 Le risposte non sono per niente evidenti. Le patologie scoperte in queste circostanze possono essere molto gravi, esistono tuttavia molti falsi positivi Neuroetica che possono essere chiariti con una seconda analisi valutata da un radiologo diagnostico. Se avviene una scoperta accidentale nell’ambito di una ricerca, la persona che vi partecipa ha il diritto di essere informata, o di non sapere, o entrambi? Il gruppo di lavoro raccomanda vivamente ai ricercatori che lavorano con il neuroimaging di prepararsi all’eventualità di scoperte accidentali e di elaborare un protocollo che deve essere presentato in modo chiaro, come se fosse parte del consenso informato. A questo proposito futuri lavori potranno fornire nuove linee guida, nell’intento di garantire l’integrità scientifica e di dare fiducia al pubblico. Una concezione più dettagliata dell’incoscienza Le ricerche effettuate nel 2006 hanno evidenziato insoliti casi di pazienti colpiti da gravi traumi cerebrali. Henning Voss, Nicholas Schiff e i colleghi ricercatori di New York, del New Jersey e della Nuova Zelanda, hanno descritto nel Journal of Clinical Investigation il recupero spontaneo di un uomo che era stato per 19 anni in uno stato di coscienza minima, incapace di muoversi e di parlare in seguito ad un incidente automobilistico 10. Il suo stato di salute nel corso degli anni è migliorato, il fatto che egli abbia ripreso coscienza, recuperato la parola e le sue facoltà cognitive e che sia ora capace di muovere tre arti, costituisce un evento senza precedenti. Esaminando il suo cervello con la risonanza magnetica del tensore di diffusione – una tecnica di imaging non invasiva – i ricercatori hanno dimostrato la ricrescita assonale che ha senza dubbio permesso la formazione di nuove connessioni tra i neuroni. Nello stesso articolo gli autori descrivono il caso di un altro paziente, anche lui vittima di un incidente automobilistico, che ha passato più di un anno in uno stato vegetativo persistente e quattro anni in uno stato di coscienza minima. Questo paziente non ha dimostrato un miglioramento clinico paragonabile al primo e neppure una ricrescita assonale, ma i ricercatori non ne escludono l’eventualità. Essi ritengono che degli scan (MRI del tensore di diffusione, e la tomografia ad emissione di positroni) praticati poco tempo dopo l’incidente, permetterebbero di valutare meglio le possibilità di ricablaggio cerebrale ed un’eventuale speranza di recupero a lungo termine. Sono emerse delle constatazioni incoraggianti sull’attività cerebrale anche nell’ambito di uno studio diretto da Adrian Owen e pubblicate su 43 Paziente Volontari sani Imaging tennis Imaging navigazione spaziale Attività cerebrale nello stato vegetativo Una paziente in uno stato vegetativo persistente ha mostrato un’attività nelle stesse aree cerebrali dei volontari in buona salute quando le si chiedeva di immaginarsi mentre giocava a tennis o mentre si muoveva nella sua casa. Science 11. Una giovane donna, in seguito ad un incidente automobilistico si trova da cinque mesi in uno stato vegetativo persistente. Una MRIf praticata quando la paziente non dava alcun segno di reattività dimostrava chiaramente che in realtà essa era in grado di realizzare dei compiti cognitivi complessi. Quando i ricercatori pronunciavano ad alta voce delle frasi che contenevano talvolta anche delle parole con doppio senso, l’attività cerebrale delle zone del linguaggio della paziente presentavano un’attività paragonabile a quella osservata in persone in buona salute. La sua attività cerebrale era normale anche quando le si chiedeva di immaginarsi mentre giocava a tennis o passeggiava nel suo appartamento. 44 Queste osservazioni sono ancora più sconvolgenti poiché testimoniano in modo chiaro un’attività cerebrale che sottende a dei fenomeni normalmente associati ad uno stato di piena coscienza. L’idea dei neuroscienziati è che nelle persone in stato vegetativo possano sussistere delle «isole» Neuroetica di funzioni intatte, non rivelate dai metodi clinici standard. L’agilità mentale di questa donna incapace di qualsiasi movimento sembra convalidare questa ipotesi e rinnova la speranza di conoscere più nel dettaglio gli stati di incoscienza. Queste osservazioni sono ancora più sconvolgenti poiché testimoniano in modo chiaro un’attività cerebrale che sottende a dei fenomeni normalmente associati ad uno stato di piena coscienza. Dato che solo in poche persone lo stato di salute migliora, ci si chiede se conviene utilizzare in modo sistematico degli interventi costosi come la stimolazione cerebrale profonda o la stimolazione transmagnetica per ottenere un recupero, anche parziale, delle funzioni di comunicazione. Attualmente sono in corso delle ricerche per determinare le circostanze nelle quali questi interventi potrebbero essere efficaci, i loro risultati potrebbero aiutare ad identificare i pazienti che potrebbero trarne un beneficio. 45 Le malattie neuroimmunologiche La sclerosi multipla 48 Il bersaglio di un attacco autoimmune 49 Il controllo della risposta immunitaria 50 Sistema immunitario e malattia di Alzheimer 51 Il dolore neuropatico 53 La plasticità 55 La depressione come causa di infiammazione 55 47 T ra il sistema immunitario umano ed il cervello sussiste una relazione spesso complicata. Dal punto di vista immunitario il cervello è una regione privilegiata, esso è popolato da un unico tipo di cellule immunitarie, la microglia. Per penetrare nell’encefalo, i batteri, i virus e le tossine devono oltrepassare la barriera emato-encefalica, un compatto strato di cellule della parete vascolare che regola il passaggio nel cervello delle sostanze contenute nel sangue. Quando questo accade, le cellule immunitarie accorrono per cercare di combattere l’intruso. Per errore le cellule immunitarie possono attaccare le normali cellule cerebrali, considerandole come invasori. Nella sclerosi multipla, le cellule immunitarie attaccano la mielina che avvolge gli assoni nel cervello e nel sistema nervoso centrale. Le cellule immunitarie possono assalire anche le proteine amiloidi che si formano nel cervello delle persone affette dalla malattia di Alzheimer; l’intensità dell’aggressione è tale che i fenomeni infiammatori generati ledono ulteriormente i neuroni. Un fenomeno simile potrebbe essere implicato anche nella malattia di Parkinson. (vedi «I disturbi del movimento», pag. 28). Il progresso più significativo realizzato dalla neuroimmunologia nel 2006 è stata la scoperta del meccanismo attraverso il quale certe cellule immunitarie si trasformano e attaccano la mielina nella sclerosi multipla. Altre ricerche hanno provato ad utilizzare il sistema immunitario per prevenire o addirittura capovolgere i fenomeni neurodegenerativi osservati nella malattia di Alzheimer. La sclerosi multipla 48 Nella sclerosi multipla la lacerazione della copertura di mielina che avvolge gli assoni neuronali, provocata dai ripetuti attacchi del sistema immunitario, disorganizza i segnali nervosi generando numerosi sintomi clinici. Gli scienziati ritenevano responsabili di questi assalti le cellule T helper (denominate TH1), la cui funzione è segnalare al sistema immunitario la presenza di batteri o di virus all’interno delle cellule. Nel 2005 i ricercatori hanno scoperto che anche un altro tipo di cellule T helper, le TH17, svolge un ruolo essenziale all’inizio degli attacchi immunitari contro la mielina. Estelle Bettelli, ricercatrice alla Harvard Medical School di Boston, in un articolo pubblicato dalla rivista Nature, sostiene che le cellule TH17 sono il prodotto dell’esposizione delle cellule T immature alla combinazione di due molecole 1. Una di queste molecole è una proteina segnale chiamata fattore di Yoichiro Iwakura e Harumichi Ishigame hanno scoperto che un fattore di crescita denominato interleuchina 23 (IL-23), trasforma le cellule T immature in cellule TH17 2. Pubblicati nel Journal of Clinical Investigation, i risultati mostrano che bloccando l’IL-23 i ricercatori sono riusciti a ridurre in modo significativo lo sviluppo della versione animale sia della sclerosi multipla, sia di un’altra malattia autoimmune denominata malattia infiammatoria dell’intestino. Alla luce dei risultati di questi due studi, è possibile ipotizzare delle terapie che impedendo alle cellule T immature di differenziarsi in cellule TH17, potrebbero essere utilizzate per curare alcune malattie autoimmuni, tra le quali la sclerosi multipla. Le malattie neuroimmunologiche crescita beta (TGF-beta), l’altra, l’interleuchina 6 (IL-6), è una molecola immunitaria sintetizzata dalle cellule T che favorisce i fenomeni infiammatori. I topi sprovvisti di IL-6 non possedevano le cellule TH17 e non hanno sviluppato la versione animale della sclerosi multipla. Il bersaglio di un attacco autoimmune In un’altra malattia infiammatoria, la neuromielite ottica, il sistema immunitario aggredisce la mielina che avvolge il nervo ottico, provocando una cecità parziale o totale. La neuromielite ottica è talvolta confusa con una manifestazione precoce della sclerosi multipla. Recentemente i ricercatori hanno scoperto che un anticorpo denominato NMO-IgG, che attacca la mielina nella neuromielite ottica, non è presente nei pazienti affetti da sclerosi multipla, suggerendo che questa malattia corrisponde ad uno stato patologico ben distinto. L’anticorpo NMO-IgG potrebbe svolgere un ruolo anche nella mielite trasversa, una malattia nella quale il sistema immunitario aggredisce la mielina degli assoni del midollo spinale, provocando una paralisi o dei disturbi motori. Brian Weinshenker e i suoi colleghi della Mayo Clinic hanno descritto in Annals of Neurology che circa il 40% dei pazienti gravemente colpiti da mielite trasversa risulta positivo l test per l’NMO-IgG; più della metà di loro ha subito una recidiva nei 12 mesi seguenti. I pazienti senza l’anticorpo non avevano ricadute 3. Prima di questa scoperta i medici non avevano nessuno strumento per identificare i pazienti il cui midollo spinale rischiava di essere il bersaglio di un nuovo attacco. Grazie al biomarker appena scoperto, essi possono identificare le persone che rischiano una recidiva, inclusi quelli che soffrono di mielite trasversa, ed è quindi giustificato un trattamento immunosoppressore. 49 Qual è il bersaglio dell’anticorpo autoimmune NMO-IgG? Nel 2006 i ricercatori della Mayo Clinic diretti da Vanda Lennon, hanno scoperto che per errore quest’anticorpo è diretto contro l’aquaporina-4, una proteina scoperta di recente nel sistema nervoso centrale, che permette all’acqua di entrare ed uscire dalle cellule 4. L’aquaporina-4 è prodotta essenzialmente dagli astrociti cerebrali, le cellule a forma di stella che rinforzano la barriera emato-encefalica e che impediscono il passaggio di sostanze nocive dal sangue al cervello. Sono stati evidenziati alti tassi di acquaporina-4 nel nervo ottico, nel midollo spinale e in certe regioni del tronco cerebrale, tutti possibili obiettivi del sistema immunitario nelle persone affette da neuromielite ottica. Attraverso i vasi sanguigni, gli anticorpi NMO-IgG possono passare nel cervello e attaccare l’acquaporina-4. La scoperta dell’anticorpo NMO-IgG come marker della neuromielite ottica rappresenta un progresso essenziale per la diagnosi di questa malattia. Il controllo della risposta immunitaria Una risposta immunitaria incontrollata a livello cerebrale può generare delle malattie come la sclerosi multipla o il lupus eritematoso sistemico, ma cosa fa perdere il controllo al sistema immunitario? Una risposta immunitaria incontrollata a livello cerebrale può generare delle malattie come la sclerosi multipla o il lupus eritematoso sistemico, ma cosa fa perdere il controllo al sistema immunitario? Le chemochine inviano dei segnali alle cellule e regolano lo schieramento delle cellule immunitarie, i leucociti. Un gruppo diretto da Richard M. Ransohoff ha descritto in Nature Neuroscience che le fractalchine, una variante rara delle chemochine, costituiscono un elemento essenziale per il controllo della risposta immunitaria a livello cerebrale 5. Liberando le fractalchine, le cellule immunitarie del cervello (la microglia) reprimono risposte eccessive da parte delle altre cellule implicate nella risposta immunitaria. 50 Lavorando su un modello di patologie come la malattia di Parkinson o la sclerosi laterale amiotrofica, Ransohoff ha costatato che i topi nei quali era stato soppresso il gene che codifica per le fractalchine sembravano normali, ma i loro neuroni erano molto più danneggiati dalle reazioni infiammatorie eccessive. c e b d f CX3CR1+/– CX3CR1–/– Le malattie neuroimmunologiche a Problemi nel controllo del sistema immunitario I topi senza il recettore per fractalchina (in basso), una proteina presente nelle cellule infiammatorie del cervello, aumentano nel tempo l’attività della microglia (da sinistra a destra). Questo aumento provoca danni neuronali maggiori nei modelli animali di malattie umane. Sistema immunitario e malattia di Alzheimer Nella malattia di Alzheimer si accumulano nel cervello dei frammenti di una proteina: la sostanza beta amiloide. Il sistema immunitario reagisce e interviene per cercare di distruggere questo deposito indesiderato. Ne conseguono dei fenomeni infiammatori che sicuramente peggiorano la malattia, o addirittura potrebbero esserne la causa. Nel 2002 il test clinico di un vaccino terapeutico per ridurre il volume delle placche di sostanza beta amiloide è stato interrotto a causa della gravità dei sintomi infiammatori generati dalla risposta immunitaria nel cervello di alcuni pazienti. Michal Schwartz e i suoi colleghi del Weizmann Institute of Science in Israele, ritengono che sia possibile trasformare le cellule T che generano i sintomi infiammatori, in alleati efficaci e sicuri per combattere le placche. In un articolo pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences, i ricercatori sostengono di avere realizzato un’immunizzazione terapeutica somministrando a dei topi geneticamente predisposti alla formazione della sostanza amiloide, un modulatore del sistema immunitario utilizzato nel trattamento della sclerosi multipla denominato glatiramer 51 acetato (Copaxone). Tale trattamento, che stimola le cellule T, riduce le placche e promuove la crescita delle cellule nell’ippocampo, fondamentale per le capacità mnemoniche e di apprendimento 6. I ricercatori attribuiscono l’effetto positivo del trattamento alla produzione da parte delle cellule microgliali dell’ormone IGF-1, il fattore di crescita insulino-simile. L’IGF-1, sarebbe prodotto al posto della citochina TNFalpha (fattore di necrosi tumorale alfa) che innesca la reazione infiammatoria distruttiva. Secondo gli autori, una strada possibile nel trattamento della malattia di Alzheimer consiste nel cercare di modulare la riposta immunitaria. Il risultato di questi trattamenti potrebbe permettere di attaccare la sostanza amiloide senza generare devastanti reazioni infiammatorie. Schwartz ha dimostrato inoltre che se s’iniettano nel cervello dei topi le cellule T, esse contribuiscono alla nascita dei neuroni nelle regioni che come l’ippocampo sono devastate dalla malattia di Alzheimer. I ricercatori hanno paragonato i cervelli di due gruppi di topi vissuti entrambi in un ambiente stimolante, con molti giochi e oggetti nuovi: il primo gruppo era costituito da topi normali, il secondo da topi affetti da immunodeficienza combinata grave (SCID) privi di cellule T. Schwartz e il suo gruppo hanno costatato che a livello dell’ippocampo, un’area fondamentale nei processi di memorizzazione, nel primo gruppo di animali si osserva un’importante neurogenesi, quasi totalmente assente nei topi privi di cellule T. Nel 2006 si è rivelato promettente anche un altro approccio, basato sulla soppressione dell’infiammazione. Dei ricercatori diretti da Edward Tobinick, dell’Università della California di Los Angeles, hanno realizzato uno studio pilota della durata di sei mesi durante il quale hanno somministrato a 15 persone colpite da una forma da moderata a grave della malattia di Alzheimer, delle iniezioni settimanali di etanercept, un farmaco che limita l’azione del TNFalpha e che ha un efficace effetto antinfiammatorio nell’artrite 7. I partecipanti a questo studio hanno presentato un miglioramento significativo delle loro funzioni mentali. Lo studio rafforza quindi la tesi secondo la quale l’infiammazione in sé stessa contribuisce in modo importante alla demenza nella malattia di Alzheimer e che se si riuscisse a reprimerla, sarebbe possibile rallentare o arrestare il declino mentale. 52 I ricercatori della Case Western Reserve University, tuttavia, contestano la teoria secondo la quale le placche di sostanza amiloide e le manifestazioni Un gruppo di ricercatori della Case Western Reserve University sostiene che è illusorio pensare di guarire la malattia di Alzheimer liberando il cervello dalle placche di beta amiloide. Le malattie neuroimmunologiche infiammatorie che esse generano, sono l’origine della malattia. Secondo questi ricercatori, i sintomi risulterebbero dallo stress ossidativo, una produzione eccessiva di sostanze ossidanti, che distruggono i neuroni. Gli autori di un articolo apparso in Current Alzheimer Research, Hyoung-gon Lee, Mark Smith, George Perry e i loro colleghi ritengono che le placche di proteina beta amiloide rappresentano il tentativo del cervello di fronteggiare lo stress ossidativo 8. Essi sostengono che è illusorio pensare di guarire la malattia di Alzheimer liberando il cervello dalle placche di beta amiloide, sarebbe invece più proficuo trovare l’origine e combattere lo stress ossidativo. Un gruppo di ricercatori della Northwestern University Medical School diretti da Abdelhak Belmadani ha scoperto che le chemochine, oltre ad inviare segnali per regolare l’attività dei leucociti, governano la migrazione dei progenitori neuronali verso i luoghi d’infiammazione del cervello, compresi quelli provocati della malattia di Alzheimer. Quando l’infiammazione lede le cellule nervose, gli astrociti attivano le chemochine, che dirigono i progenitori neuronali adulti verso il luogo dove si trovano queste cellule lese. Tali scoperte potrebbero indirizzare le ricerche verso dei farmaci che stimolano il recupero dopo una lesione cerebrale, incoraggiando la migrazione di cellule neuronali progenitrici verso il luogo della lesione. I ricercatori della Northwestern nel Journal of Neuroscience 9 sostengono che questo meccanismo potrebbe permettere la rigenerazione di nuovi neuroni per ripopolare l’ippocampo danneggiato dalla malattia di Alzheimer. Il dolore neuropatico Altre ricerche hanno analizzato il ruolo della microglia nel dolore neuropatico, un dolore cronico, spesso insopportabile, che persiste a lungo dopo che il trauma, l’infezione o la tossina che l’ha originato è sparito. (vedi a questo proposito il capitolo «Il dolore», pagina 58). Il dolore neuropatico può sopraggiungere dopo la lesione dei nervi periferici, i nervi che non fanno parte del cervello e del midollo spinale. Secondo dei ricercatori dell’Università di Toronto diretti da Michael Salter, questa risposta anormale è una conseguenza dell’attività delle cellule microgliali 53 La microglia media il dolore Dopo una lesione ai nervi periferici, la microglia si attiva nel corno dorsale del midollo spinale, rendendo i neuroni ipersensibili. Questo genera una sensazione di dolore anche quando non sono presenti stimoli dolorosi. che una volta attivate liberano una sostanza chiamata BDNF (brain-derived neurotrophic factor), che intensifica i segnali del dolore trasmessi tra la microglia e i neuroni. Tale fenomeno interrompe i normali meccanismi della soppressione del dolore, esacerbando la sensibilità dei neuroni anche in assenza di stimoli dolorosi. Secondo questa ricerca, pubblicata nell’European Journal of Physiology, i meccanismi di comunicazione delle cellule microgliali potrebbero costituire un obiettivo promettente per dei trattamenti volti a ridurre il dolore cronico dei nervi periferici 10. 54 Degli scienziati del Columbia University Medical Center hanno presentato una domanda di brevetto per dei farmaci che bloccano il dolore cronico inibendo un enzima denominato proteina chinasi G (PKG). I ricercatori hanno spiegato in Neuroscience che l’attività della PKG contribuisce all’ipereccitabilità dei neuroni e ai segnali di dolore persistente che generano quest’ipereccitabilità 11. Essi hanno constatato che quando si inibiva la PKG, il dolore spariva, un’osservazione che rende questo enzima un obiettivo farmacologico ideale. Quando il cervello giovane è vittima di un trauma, esso cerca di ristabilire il suo cablaggio con vigore. Questo comportamento spontaneo è denominato plasticità cerebrale, un meccanismo che s’indebolisce progressivamente con l’età. Dei ricercatori della Harvard Medical School hanno scoperto che la causa di questo indebolimento potrebbe essere una proteina del sistema immunitario chiamata «paired-immunoglobulin-like receptor-B» (PirB). Il gruppo diretto da Josh Syken ha pubblicato in Science un articolo nel quale spiega che nel corso della vita la facoltà di ricablaggio è conservata più a lungo nei topi privi di questa proteina 12. Sembra dunque che un farmaco capace di inibire la proteina PirB potrebbe aiutare il cervello a ristabilire le connessioni interneuronali lese da un trauma del midollo spinale, da un ictus cerebrovascolare o da altro. Le malattie neuroimmunologiche La plasticità La depressione come causa di infiammazione Alcuni ricercatori della Emory University School of Medicine di Atlanta, hanno constatato che esiste un legame tra sistema immunitario, depressione e stress in età precoce. Una risposta infiammatoria eccessiva allo stress può sensibilizzare l’organismo alle manifestazioni delle malattie infiammatorie. L’esposizione allo stress si traduce generalmente in una produzione maggiore di interleuchine-6 (IL-6) che favorisce i fenomeni infiammatori. Il gruppo diretto da Andrew H. Miller e Christine Heim, il cui lavoro è stato pubblicato nell’American Journal of Psychiatry, ha chiesto a 28 uomini, di cui la metà soffriva di una depressione grave e aveva subito uno stress in età precoce, di risolvere dei problemi di calcolo e di parlare in pubblico, dei compiti che incrementano lo stress, dopo di che hanno dosato nel sangue l’IL-6 13. Il tasso di IL-6 aumenta in tutti i partecipanti, ma l’incremento è doppio nel gruppo delle persone depresse. Questo studio è stato il primo a suggerire l’esistenza di un nesso tra la depressione maggiore, lo stress nella vita intrauterina e la salute generale. 55 Il dolore Scoperto un commutatore generale del dolore cronico 58 L’anticipare il dolore può essere peggio del dolore stesso 59 Dal pesticida all’antalgico 60 La «contagiosità emotiva» del dolore 61 C’è placebo e placebo 61 57 I l dolore è un grave problema non solamente per i medici ma anche per la società. Negli Stati Uniti il costo economico valutato come giornate lavorative perse, sommate alle spese per le cure, si avvicina ogni anno ai 100 miliardi di dollari (fonte: Partners Against Pain). Nel 2006 gli scienziati hanno fatto progressi nella comprensione dei meccanismi legati al dolore acuto e cronico, così come nello sviluppo di mezzi per alleviarlo. Un gruppo di ricercatori ha identificato un «commutatore generale» del dolore neuropatico, una forma di dolore molto differente dal dolore acuto provocato da un trauma. Un altro gruppo ha constatato che l’anticipazione del dolore può essere peggio del dolore stesso. Degli scienziati che studiavano dei pesticidi, hanno scoperto fortuitamente un inibitore di un enzima che potrebbe alleviare il dolore di tipo infiammatorio senza aumentare il rischio di infarto del miocardio se associato a farmaci come il rofecoxib (Vioxx). Alcuni ricercatori canadesi hanno scoperto che i topi provano empatia, essi diventano sensibili al dolore quando vedono dei congeneri soffrire. Altri ricercatori sostengono che l’effetto placebo di un trattamento antalgico dipende dal tipo di placebo e dalla situazione nella quale è somministrato. Scoperto un commutatore generale del dolore cronico Il dolore neuropatico secondario alla lesione dei nervi «periferici», situati al di fuori del cervello e del midollo spinale, è caratterizzato da una sensazione persistente di dolore lancinante o di bruciore. Esso è poco sensibile agli oppioidi, gli analgesici più potenti a disposizione che comprendono la morfina, la codeina e l’ossicodone (Oxycontin). I ricercatori della Harvard Medical School diretti da Qiufu Ma hanno annunciato in Neuron di avere scoperto una sorta di «commutatore generale» del dolore neuropatico 1. Si tratta del gene Runx 1, espresso unicamente nelle cellule nervose sensoriali denominate cellule nocicettive, che attraverso i canali ionici della loro membrana, trasformano gli stimoli dolorosi in segnali nervosi. 58 I ricercatori hanno esposto dei topi «knock-out» (nei quali il gene Runx 1 è stato soppresso) a stimoli termici, meccanici, infiammatori e neuropatici misurando la loro risposta al dolore in funzione del tempo che essi impiegavano a ritirare la zampa o se la leccavano. Il dolore I topi hanno risposto agli stimoli dolorosi di natura meccanica, ma non hanno dimostrato nessuna reazione agli stimoli termici, neuropatici e infiammatori. Lo sviluppo delle loro cellule nocicettive era alterato e i canali ionici, che partecipano alla percezione del dolore termico e neuropatico, erano inesistenti. Gli autori ritengono che questa scoperta potrebbe avere importanti implicazioni nello sviluppo di trattamenti più efficaci per il dolore neuropatico, che consistono per esempio nell’impedire l’espressione del gene Runx 1. L’anticipare il dolore può essere peggio del dolore stesso L’attesa di un’iniezione o di un intervento medico doloroso, per certe persone è più difficile da sopportare del dolore generato da questi gesti. Come dimostrato da uno studio pubblicato in Science, l’apprensione per il dolore può essere per certe persone più difficile da sopportare del dolore stesso. Studiando i meccanismi biologici dell’apprensione attraverso l’imaging cerebrale, un gruppo di ricercatori della Emory University School of Medicine diretti da Gregory Berns ha costatato che circa un terzo dei volontari che hanno subito delle scariche elettriche preferivano ricevere subito una scarica più forte, piuttosto che aspettare una scossa di minore intensità. Ai volontari sdraiati in un apparecchio per la risonanza magnetica nucleare, sono state somministrate nel piede 96 scosse d’intensità variabile. La maggior parte di queste persone ha preferito ricevere una scossa elettrica più intensa, ma con un’attesa più breve. Lo studio indica che per la maggior parte dei volontari l’attesa della scossa elettrica era difficile da sopportare 2. Gli individui che non potevano tollerare l’attesa e che ricevevano immediatamente una scarica più dolorosa, sono stati classificati nella categoria «apprensione estrema». Le persone che preferivano aspettare più a lungo una scarica di minore entità, nella categoria «apprensione moderata». I risultati mostrano che più la persona teme l’evento, più i centri nocicettivi del suo cervello si concentrano sull’attesa. Le immagini prodotte dalla risonanza magnetica mostrano che certe parti della «matrice algica» del cervello, la rete di strutture cerebrali sensibili agli stimoli nocicettivi, tra cui il dolore, mostravano segni di attività prima che l’individuo ricevesse la scossa elettrica. Nelle regioni cerebrali implicate 59 nelle reazioni di timore e di ansia non è stata dimostrata una differenza che ha permesso di distinguere tra le due categorie di apprensione. I risultati evidenziano che più la persona teme l’evento, più i centri nocicettivi del suo cervello si concentrano sull’attesa. Non è ancora chiaro il legame tra queste constatazioni e il modo in cui l’essere umano gestisce eventi sgradevoli, ma lo studio dei meccanismi neurobiologici che sottendono all’apprensione potrebbe fornire delle indicazioni per gestire più efficacemente il dolore. Dal pesticida all’antalgico Dopo il ritiro dal mercato del popolare farmaco Vioxx (rofecoxib), i ricercatori dell’Università della California a Davis potrebbero avere scoperto per caso un modo più sicuro per fronteggiare il dolore nelle persone che soffrono di artrite o altre malattie infiammatorie. L’obiettivo di questi ricercatori, totalmente estranei alle questioni antalgiche, era quello di trovare dei pesticidi biologici che permettevano di regolare lo sviluppo delle larve d’insetti. Nel corso del loro lavoro hanno scoperto un nuovo enzima umano che blocca indirettamente la produzione della COX2, una proteina con un ruolo attivo nel dolore e nell’infiammazione. La combinazione di questo enzima e dell’inibitore della COX2 permetterebbe di alleviare il dolore infiammatorio, riducendo gli effetti secondari provocati dai farmaci somministrati. Lavorando con dei roditori, i ricercatori hanno constatato che l’enzima in questione aveva la stessa efficacia di basse dosi di rofecoxib o celecoxib (Celebrex), un altro inibitore della COX2, senza indurre però i cambiamenti chimici del sangue connessi alle gravi complicazioni cardiovascolari, come l’infarto del miocardio, apparsi nel corso di uno studio realizzato in precedenza e che hanno motivato il ritiro del Vioxx. 60 Gli autori, il cui lavoro è stato pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences 3, ritengono che la combinazione dei due inibitori della COX2 permette una riduzione notevole delle dosi di inibitore necessarie per il trattamento dell’infiammazione. Questa combinazione sembra indurre sulla chimica del sangue una riduzione della tendenza alla formazione di coaguli sanguigni, l’origine più frequente dell’infarto del miocardio. Il trattamento combinato permetterebbe tra l’altro di risolvere La «contagiosità emotiva» del dolore Il dolore il dilemma sull’uso dei potenti inibitori della COX2 per curare il dolore infiammatorio. Studi realizzati in passato hanno dimostrato che delle esperienze fatte in età precoce e certi fattori sociali possono aggravare il dolore cronico. Alcuni scienziati tedeschi hanno dimostrato che alcuni fattori sociali alterano la funzione cerebrale, rafforzando la sensazione di dolore 4. Un altro studio ha mostrato che degli episodi di dolore subiti all’inizio della vita influenzano il modo di vivere il dolore all’età adulta 5. Secondo un recente lavoro diretto da Jeffrey Mogil, pubblicato in Science, la risposta al dolore nei topi è più intensa alla presenza di un altro topo che soffre, l’empatia svolge quindi un ruolo nel dolore 6. Inducendo dei dolori addominali tramite l’iniezione di acido acetico, i ricercatori del McGill University’s Pain Genetics Laboratory, hanno determinato che i topi abituati gli uni agli altri dimostrano un tipo di empatia definita «contagio emotivo». L’animale riconosce lo stato emotivo dell’altro topo e si adatta. I ricercatori hanno scoperto che questi animali diventavano più sensibili all’acido acetico se vedevano i loro simili soffrire in seguito ad uno stimolo termico doloroso. I topi interagiscono tra loro attraverso i ferormoni, delle sostanze chimiche che permettono ai membri di una stessa specie di comunicare. Dopo avere bloccato l’olfatto, la visione e l’udito dei topi, gli autori hanno costatato che essi avevano conservato la facoltà di percepire il dolore dei loro congeneri, esiste quindi tra questi animali una forma di comunicazione che influenza la risposta al dolore. Dato che l’interazione sociale svolge un ruolo importante nel comportamento indotto dal dolore cronico, le osservazioni fatte dal gruppo della McGill potrebbero essere utili per lo studio del dolore umano. Le scoperte fatte sul modello del topo potrebbero essere usate per studiare i meccanismi cerebrali umani implicati nel dolore, oltre che il ruolo dei fattori sociali nella sua gestione. C’è placebo e placebo Oltre 50 anni fa, un medico anestesista di Harvard, Henry K. Beecher ha descritto per la prima volta l’effetto placebo. Per effetto placebo si intende il fenomeno per il quale i sintomi di un paziente sono alleviati grazie 61 all’assunzione di un farmaco privo di principi attivi. Il gesto terapeutico è sufficiente per alleviare i sintomi a condizione che il paziente crede che il trattamento sia efficace. In due studi pubblicati rispettivamente dal British Medical Journal e dal Journal of Neuroscience un gruppo diretto da Ted Kaptchuk, ricercatore al Osher Institute della Harvard Medical School, ha dimostrato che l’effetto placebo può essere modulabile in relazione al tipo di placebo prescritto, così come al contesto nel quale è somministrato 7, 8. L’effetto placebo può essere modulabile in relazione al tipo di placebo prescritto, così come alla situazione nella quale è somministrato. Nel primo di questi due studi, il gruppo di Kaptchuk ha somministrato un’agopuntura fittizia a 135 pazienti che soffrivano di forti dolori al braccio, altri 135 pazienti hanno ricevuto una pastiglia priva di principio attivo. I risultati si sono rivelati identici. Nel secondo studio, i trattamenti fittizi sono continuati in metà dei pazienti di ogni gruppo, l’altra metà ha ricevuto un trattamento attivo. I pazienti trattati con l’agopuntura fittizia hanno percepito un miglioramento del dolore più marcato rispetto a quelli che hanno ricevuto le pastiglie. Secondo Kaptchuk, il rituale implicato dall’agopuntura rinforza maggiormente l’effetto placebo, un’ipotesi di lavoro che con i suoi colleghi continua ad esplorare. Nella fase che comprendeva anche dei trattamenti attivi, i ricercatori hanno usato la risonanza magnetica nucleare per determinare quali sono i sistemi cerebrali attivati dall’agopuntura fittizia. Alcuni studi precedenti avevano evidenziato un ruolo importante nell’effetto placebo della corteccia prefrontale, dello striato e del tronco cerebrale. I ricercatori hanno costatato una forte associazione tra determinate regioni del cervello e l’effetto placebo. Tra queste, la corteccia insulare anteriore, che attiva le sensazioni fisiche come il dolore. Questi studi confermano che l’effetto placebo si manifesta con dei precisi cambiamenti delle funzioni cerebrali. 62 I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze La schizofrenia 64 Violenza e aggressione 66 I disturbi d’ansia 67 La depressione 68 Il suicidio negli adolescenti 69 La dipendenza alla cocaina 70 63 C ome nel 2005, anche nel 2006 la ricerca sulla salute mentale ha continuato a studiare il ruolo dei geni e delle loro interazioni con i fattori ambientali nei disturbi psichiatrici. La novità del 2006 è costituita dall’attenzione agli aspetti clinici e genetici dei trattamenti. La ricerca sulla schizofrenia ha analizzato l’efficacia dei farmaci antipsicotici di recente commercializzazione, paragonandoli ai predecessori. Gli studi genetici sulla depressione si sono concentrati sulla ricerca di predittori dell’efficacia dei trattamenti antidepressivi e sugli eventuali nessi tra questi trattamenti e il suicidio. I ricercatori hanno inoltre cercato di capire se il trattamento antidepressivo assunto da una madre aumenta l’eventualità che i figli sviluppino dei sintomi depressivi. La schizofrenia I farmaci antipsicotici costituiscono da molto tempo il trattamento principale per i pazienti affetti da schizofrenia. Purtroppo molte di queste molecole inducono sgradevoli effetti collaterali a causa dell’effetto inibitorio sul sistema dopaminergico. Spesso gli psichiatri preferiscono prescrivere degli antipsicotici di seconda generazione o «atipici», che riducono il rischio di bloccare la trasmissione di dopamina nelle regioni del cervello non direttamente implicate nella malattia. La questione da capire é se i farmaci di questa nuova classe terapeutica sono più efficaci e meglio tollerati dai pazienti rispetto agli antipsicotici di prima generazione. Secondo gli studi realizzati nel 2005 e nel 2006 da Jeffrey Lieberman e dai suoi colleghi, la maggior parte dei nuovi farmaci non è più efficace e nemmeno meglio tollerata. Il lavoro pubblicato nel 2005, non rivela nessuna differenza di efficacia tra i farmaci antipsicotici di prima e di seconda generazione 1. Per quel che concerne la tolleranza, il tasso di abbandono della terapia farmacologica è un po’ ridotto con l’olanzapina, una molecola di seconda generazione in relazione agli altri farmaci, purtroppo però questo medicinale induce un fastidioso aumento di peso e altri effetti collaterali metabolici. 64 Gli stessi ricercatori hanno pubblicato nel 2006, nell’American Journal of Psychiatry, due studi nei quali hanno esaminato più dettagliatamente i trattamenti antipsicotici. Le persone affette da schizofrenia cronica che perseverano nel trattamento sono più numerose con l’olanzapina e il risperidone rispetto agli antipsicotici atipici 2. Nelle persone che non hanno tratto beneficio dagli antipsicotici atipici, gli autori si sono interessati all’efficacia della clozapina, un farmaco di ultimo ricorso a causa dei gravi effetti collaterali. I pazienti rispondono meglio alla clozapina rispetto ad un secondo antipsicotico atipico 3. I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze Differenze tra farmaci antipsicotici Il ricercatore Jeffrey Lieberman ha paragonato l’efficacia degli antipsicotici di prima e di seconda generazione dimostrando che i nuovi farmaci sono globalmente meno efficaci. In uno studio indipendente realizzato a Cambridge in Gran Bretagna, Peter Jones e il suo gruppo di ricercatori, hanno studiato l’efficacia degli antipsicotici di seconda generazione nel trattamento della schizofrenia cronica. Ai partecipanti è stato prescritto in modo randomizzato un farmaco di prima o di seconda generazione. I pazienti sono stati seguiti per un anno da un medico all’oscuro del tipo di farmaco che essi assumevano. Il medico valutava i sintomi, gli effetti collaterali e la qualità di vita. Il gruppo di Peter Jones ipotizzava che i farmaci atipici fossero più efficaci dei loro predecessori, i risultati hanno tuttavia dimostrato il contrario. La reazione al trattamento e la qualità di vita erano migliori nei pazienti che assumevano dei farmaci di prima generazione rispetto agli altri 4. Come previsto, gli psichiatri sono rimasti stupiti dagli studi di Jeffrey Lieberman e di Peter Jones. I risultati suggeriscono che gli antipsicotici atipici dovrebbero essere riservati ai pazienti resistenti ai farmaci di prima generazione. 65 I neuroni dopaminergici sono sempre al centro della ricerca sulle cause della schizofrenia. I primi studi attribuivano alla secrezione eccessiva di dopamina una delle ragioni possibili dei disturbi del comportamento osservati nella malattia. Secondo Michael O’Donovan, Michael Owen e i loro collaboratori, un’anomalia nel funzionamento delle cellule gliali potrebbe essere una causa della malattia. I ricercatori si sono basati sull’osservazione di differenze strutturali e volumetriche della materia bianca del cervello (costituita dalle connessioni nervose) osservate post-mortem o con il neuroimaging, tra persone affette da schizofrenia e soggetti in buona salute. Le cellule gliali sono parte del sistema nervoso centrale, esse producono la mielina, una sostanza isolante costituita da lipidi e da proteine che avvolge gli assoni dei neuroni e permette all’influsso nervoso di passare più facilmente da una cellula cerebrale all’altra. I neuroni dopaminergici sono sempre al centro della ricerca sulle cause della schizofrenia. Il loro studio, pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences, indica che la variazione di un gene chiamato OLIG2, che regola la produzione di mielina, rende vulnerabili alla schizofrenia le persone portatrici di questo gene. Secondo i ricercatori, ulteriori ricerche sui geni che controllano la produzione della mielina potranno migliorare le nostre conoscenze sui complessi meccanismi implicati nella genesi della schizofrenia 5. Violenza e aggressione Da centinaia di anni si cerca di capire cosa porta l’uomo ad essere violento e ad aggredire i suoi simili. L’aspetto socio-ambientale di questa questione è stato ampiamente esplorato, l’analisi della componente genetica è stata invece più difficoltosa e ha dato adito a molteplici contestazioni. 66 Il nesso genetico con i comportamenti violenti di cui oggi siamo più certi riguarda la monoamminossidasi A (MAOA), un enzima direttamente implicato nella degradazione metabolica di un neurotrasmettitore, la serotonina. Andreas Meyer-Lindenberg e il suo gruppo hanno pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences i risultati di un lavoro nel quale il ruolo della MAOA è stato studiato con la tecnica denominata «morfometria basata sui voxel» (VBM: voxel-based morphometry). Un’innovativa tecnica di risonanza magnetica che si avvale di una particolare analisi morfometrica in grado di evidenziare anche modeste differenze del tessuto cerebrale non percepibili con la risonanza magnetica tradizionale. I ricercatori hanno evidenziato delle differenze strutturali e funzionali significative nel cervello tra le persone violente senza antecedenti psichiatrici ma portatrici di una variante genetica che indebolisce l’espressione della MAOA e le persone che esprimono maggiormente la MAOA. Le persone con un’espressione ridotta della MAOA presentano una riduzione del volume di materia grigia a livello del giro del cingolo, dell’amigdala e della corteccia del cingolo anteriore. Mostrano inoltre un aumento dell’attività nell’amigdala e nelle regioni limbiche, strutture implicate nel trattamento degli stimoli emotivi, quando è chiesto loro di distinguere tra volti arrabbiati e spaventati. I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze Il gene collegato alla violenza I risultati ottenuti con due tipi di risonanza magnetica, evidenziano delle differenze cerebrali nelle persone con una variante genetica collegata all’aggressività. In particolare sono ridotti il volume e l’attività di una regione, la corteccia del cingolo anteriore ( in grigio scuro). Questa regione controlla l’aggressività e le emozioni. Gli autori hanno rilevato anche una differenza legata al sesso; l’attività dell’amigdala e l’ippocampo è più marcata negli uomini rispetto alle donne quando devono svolgere un test di memoria con una componente emotiva. Hanno notato che se sono molteplici i fattori che concorrono nei comportamenti violenti, potrebbe esserci una predisposizione biologica alla violenza impulsiva, in particolare nelle persone di sesso maschile portatrici di questa variante genetica 6. I disturbi d’ansia I geni sono stati anche al centro della ricerca sui disturbi d’ansia. Lavorando sul modello murino, Carrolee Barlow e i suoi colleghi del Salk Institute hanno identificato 17 geni la cui espressione è associata ai tipici sintomi 67 ansiosi. In uno studio pubblicato in Nature, gli autori ipotizzano come causa dei disturbi di tipo ansioso, due geni associati allo stress ossidativo. L’aumento della produzione di ossidanti porta alla morte dei neuroni. Dopo avere trasferito i geni nelle cellule di topo con l’ausilio di virus, i ricercatori hanno constatato un inasprimento del comportamento di tipo ansioso tra i topi che li esprimevano maggiormente 7. Nello stesso ordine di idee, il gruppo diretto da David Goldman ha studiato i geni associati ad uno specifico disturbo d’ansia : i disturbi ossessivi compulsivi. I ricercatori hanno costatato che l’HTT, il gene per il trasportatore della serotonina, è implicato in questi disturbi. In un articolo pubblicato nel American Journal of Human Genetics, essi discutono la scoperta di una terza variante genetica del HTTLPR, mentre fino ad ora si riteneva esistessero solo due varianti. Diversi metodi di analisi genotipica hanno permesso di evidenziare una variante di questo gene che potrebbe rivoluzionare la nostra concezione neurobiologica dei disturbi ossessivi compulsivi 8. Forse questi nuovi approcci genetici permetteranno di comprendere le cause finora difficili da cogliere di queste alterazioni del comportamento. La depressione La stimolazione cerebrale profonda continua a suscitare interesse per il trattamento delle depressioni resistenti ai farmaci classici. I nuovi studi di Helen Mayberg e dei suoi colleghi della Emory University potrebbero chiarire se questa tecnica può venire estesa con profitto ad altre categorie di pazienti 9. Tra gli altri temi studiati, ci sono i fattori genetici che influenzano la risposta ai trattamenti antidepressivi abituali. Gli scienziati diretti da Francis McMahon hanno studiato le basi genetiche delle differenze individuali nei trattamenti antidepressivi. Studiando il DNA di 1953 pazienti affetti da depressione maggiore e trattati con il citalopram, un antidepressivo comune, i ricercatori hanno evidenziato un nesso significativo tra i buoni risultati terapeutici e la variante A del HTR2A, il gene responsabile della sintesi del recettore alla serotonina. I risultati di questo studio sono stati pubblicati nell’American Journal of Human Genetics 10. 68 La variante A sarebbe sei volte più frequente nei soggetti di tipo caucasico rispetto ai pazienti afroamericani, questo potrebbe spiegare la minore sensibilità al citalopram di questi pazienti. I risultati forniscono degli elementi determinanti sul ruolo di questo gene nell’attività antidepressiva Quando le madri sono curate con dei farmaci antidepressivi per tre mesi, nei loro figli si osserva una riduzione della diagnosi di depressione e di altre malattie. Myrna Weissman e i suoi collaboratori hanno illustrato un fenomeno interessante sulla depressione del bambino. È noto da molto tempo che i figli di genitori depressi hanno un rischio maggiore di sviluppare a loro volta dei sintomi di depressione. Il gruppo della Weissman ha riportato nel Journal of the American Medical Association, che quando le madri sono curate con successo con dei farmaci antidepressivi per tre mesi, nei loro figli si osserva una riduzione della diagnosi di depressione e di altre malattie. Inversamente, i figli delle madri che restano depresse mostrano un aumento dei sintomi, ciò indica che dei fattori ambientali possono influire sulla psicopatologia di bambini ad alto rischio 11. Il suicidio negli adolescenti Un gruppo di ricercatori diretto da Mark Olfson si è interessato ad un aspetto diverso del trattamento antidepressivo: la sua relazione con i tentativi di suicidio e i decessi osservati negli adulti e nei bambini. I risultati dello studio, pubblicati in Archives of General Psychiatry permettono di concludere l’assenza di un nesso fra trattamento antidepressivo e tentativi di suicidio o morte nell’adulto, ma è stato dimostrato un legame nei bambini e negli adolescenti. Alla luce di questi risultati occorre rendere attenti medici e genitori ai trattamenti farmacologici prescritti ai giovani pazienti 12. I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze dei farmaci e potrebbero spiegare le differenze nella risposta terapeutica osservate secondo l’origine dei pazienti. La neurobiologia della depressione indotta dallo stress è il soggetto dello studio pubblicato in Nature Neuroscience da Eric Nestler e il suo gruppo. Gli autori hanno sottoposto dei topi ad uno stress cronico di frustrazione sociale, un precursore frequente dei disturbi depressivi. I ricercatori hanno osservato che lo stress ha ridotto la produzione del fattore neurotrofico BDNF nell’ippocampo e ha indotto dei cambiamenti in specifiche proteine associate alla trascrizione dei geni, un fenomeno chiamato metilazione degli istoni. In seguito i ricercatori hanno somministrato un trattamento antidepressivo sotto forma di dose quotidiana di imipramina. La molecola antidepressiva ha invertito gli effetti osservati, come se fosse stata somministrata 69 un’infusione di BDNF. I risultati sembrano dimostrare che la metilazione degli istoni e i fenomeni a lei connessi, potrebbero essere un possibile bersaglio interessante per i farmaci antidepressivi 13. Michel Lazdunski e i suoi collaboratori hanno identificato un’altra area di interesse per i trattamenti antidepressivi. Secondo lo studio pubblicato in Nature Neuroscience, il TREK-1, un canale al potassio regolato dalla serotonina, è implicato nella resistenza alla depressione nei topi. I topi privi del canale TREK-1 dimostrano una notevole resistenza alla depressione sotto stress, questo canale potrebbe quindi essere l’obiettivo per dei farmaci antidepressivi 14. La dipendenza alla cocaina Il desiderio di droga è la conseguenza di una maggiore secrezione di dopamina? Perché le immagini, i suoni o altri elementi che evocano l’uso di droghe possono innescare anche molti anni dopo delle reazioni condizionate in ex-tossicodipendenti? Grazie a degli studi di neuroimaging è noto che questo tipo di reazione è associata ad un’attivazione di determinate strutture del sistema limbico. Utilizzando la tomografia ad emissione di positroni, un gruppo diretto da Nora Volkow ha evidenziato una secrezione condizionata di dopamina nello striato dorsale di ex-consumatori di cocaina ai quali è mostrato un video con delle scene connesse alla tossicomania. A giudicare dai risultati pubblicati nel Journal of Neuroscience, sembra che i farmaci che impediscono una secrezione eccessiva di dopamina possano avere un ruolo utile nel trattamento delle dipendenze 15. L’imaging funzionale ha anche mostrato che le immagini connesse alla tossicomania attivano diverse regioni del cervello tra le quali la corteccia prefrontale e l’amigdala. Queste strutture sono in relazione con l’area tegmentale ventrale (ATV), i cambiamenti sinaptici della quale posono orientare i ricercatori verso le cause neurobiologiche delle dipendenze, delle disintossicazioni e delle ricadute. 70 Mu-Ming Poo e il suo gruppo hanno pubblicato in Nature Neuroscience i risultati di uno studio nel corso del quale hanno esaminato i neuroni dopaminergici dell’ATV di ratti in astinenza da cocaina. Gli scienziati hanno constatato in questi neuroni un livello più elevato di fattore neurotrofico I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze cerebrale (BDNF). Secondo gli autori è possibile che l’aumento di secrezione del BDNF connesso alla disintossicazione induca sui neuroni dopaminergici dell’ATV un effetto eccitante: innesca una serie di reazioni che inducono un forte desiderio di droga nelle persone che ricordano il loro passato di consumatore 16. 71 I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee Udito: la rigenerazione delle cellule cigliate nei mammiferi 74 Come è possibile riconoscere un volto 75 La detezione dei feromoni 76 I circuiti del sonno REM 76 Orologi circadiani e alimentazione 77 Identificato il recettore dell’acidità 79 Cellule staminali e visione 79 73 G razie al progresso delle tecnologie, gli scienziati possono esplorare i complessi meccanismi del funzionamento cerebrale ed arricchire le loro conoscenze sui rapporti tra il cervello, i sensi e le funzioni corporee. È un ambito molto vasto; dagli strumenti della genomica utilizzati per esplorare il meccanismo del sonno a movimenti oculari rapidi, all’influenza degli orologi circadiani sull’alimentazione, all’identificazione di una regione del cervello interamente dedicata al riconoscimento dei volti. Nel 2006 la scienza ha risposto a questioni fondamentali sull’udito, l’olfatto, il gusto e la visione. Udito: la rigenerazione delle cellule cigliate nei mammiferi La sordità neurosensoriale, una malattia attualmente irreversibile, costituisce la causa di perdita dell’udito più frequente negli Stati Uniti. Essa è la conseguenza di un danno alle cellule cigliate dell’orecchio interno in seguito all’età, all’esposizione a rumori particolarmente intensi e all’uso di determinati farmaci. Gli scienziati che cercano di sviluppare nuovi trattamenti per certi tipi di sordità, hanno appreso con soddisfazione la notizia secondo la quale queste cellule indispensabili per l’udito potrebbero rigenerarsi. Questo lavoro lascia sperare che in futuro dei farmaci potranno riuscire a vincere certe forme di sordità nell’uomo. Le cellule sensoriali dell’orecchio interno, la coclea, si rigenerano negli uccelli e in altri vertebrati inferiori, ma non nell’uomo o nei mammiferi in generale. Le cellule cigliate interessano da molto tempo gli scienziati che cercano nuovi trattamenti per la perdita neurosensoriale dell’udito. In uno studio pubblicato su Nature, Neil Segil, Andy Groves e i loro colleghi del House Ear Institute di Los Angeles hanno scoperto che un gene denominato p27Kip1, o semplicemente p27, ostacola la divisione cellulare nell’orecchio interno 1. 74 Lavorando sulle cellule sensoriali di topo in coltura, i ricercatori hanno scoperto che negli animali appena nati questo gene è silente, per permettere alle cellule di sostegno di moltiplicarsi e di differenziarsi in cellule cigliate. Nelle colture di cellule di topi di due settimane al contrario, il gene p27 è attivo e blocca la divisione cellulare. I ricercatori hanno osservato che se nelle cellule di topi di due settimane il gene p27 è soppresso, si formano le cellule cigliate. La disattivazione del gene potrebbe quindi permettere di ottenere una ricrescita delle cellule cigliate dell’orecchio interno così da ristabilire le facoltà uditive. Questo fenomeno che per ora è stato evidenziato solo su colture di cellule di topo, lascia sperare che in futuro dei farmaci riusciranno a vincere certe forme di sordità nell’uomo. I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee Peli nelle orecchie Le cellule cigliate dell’orecchio interno, riprese con un microscopio elettronico, normalmente non si rigenerano. I ricercatori hanno dimostrato che inibendo l’attività di un gene nel topo, le cellule cigliate ricrescono ristabilendo l’udito. Come è possibile riconoscere un volto Uno studio pubblicato in Science sostiene l’idea di alcuni neuroscienziati che, contrariamente ad altri, considerano il cervello come un mosaico di regioni specializzate per lo svolgimento di specifici compiti 2. Nell’ambito di questo studio, dei ricercatori della Harvard Medical School e dell’Università di Brema in Germania, hanno identificato un’area della corteccia visiva in cui tutti i neuroni sono specializzati per un unico compito: la percezione dei volti. Nell’uomo esistono dei neuroni specializzati la cui unica funzione è quella del riconoscimento dei volti. Utilizzando la risonanza magnetica funzionale, un gruppo diretto da Margaret Livingstone ha identificato tre zone della corteccia cerebrale del macaco che apparentemente svolgono un ruolo importante nel riconoscimento dei volti. Dopo avere mostrato ai macachi 96 fotografie di volti, mani, corpi, frutti, oggetti diversi e delle immagini geometriche, i ricercatori hanno registrato l’attività elettrica individuale dei neuroni nella più grande delle tre regioni in questione. Essi hanno constatato che c’era una probabilità 50 volte maggiore che i neuroni visivi (97% dei neuroni studiati) 75 reagissero ai volti rispetto alle altre immagini. Le altre immagini alle quali hanno reagito i neuroni visivi rappresentavano oggetti arrotondati, che ricordavano la forma ovale del volto. Le importanti similitudini fisiologiche tra il cervello del macaco e quello dell’uomo permettono di ipotizzare che esistono in quest’ultimo dei neuroni specializzati la cui unica funzione è quella del riconoscimento dei volti. Utilizzando l’imaging per studiare il fenomeno del riconoscimento dei volti, potrebbe essere possibile sviluppare nuovi metodi per la detezione delle menzogne (vedi il capitolo sulla Neuroetica, p. 40). La detezione dei feromoni Il cervello di molti animali è in grado di rivelare i feromoni, i segnali chimici che permettono di attirare il sesso opposto. Il cervello umano sembrava non possedere questa facoltà, recenti studi dimostrano tuttavia che anche il cervello umano reagisce ai feromoni. Probabilmente l’epitelio olfattivo, che contiene dei neuroni che riconoscono gli odori, è sensibile anche ai feromoni. Gli scienziati del centro di ricerca sul cancro Fred Hutchinson di Seattle, hanno studiato il ruolo della detezione dei feromoni dell’epitelio olfattivo nel topo. Nel loro studio diretto da Stephen Liberles e Linda Buck e pubblicato in Nature, essi hanno identificato nell’epitelio olfattivo del topo dei recettori olfattivi denominati TAARs, trace amine-associated receptors 3. Questi recettori sono diversi da quelli che captano gli odori. Secondo studi pubblicati in precedenza, alcuni sarebbero attivati da sostanze contenute nell’urina dei topi, notoriamente ricca di feromoni. Nel loro studio Liberles e Buck hanno scoperto che l’isoamylamina, una tra le sostanze alla quale reagiscono i TAARs, si comporta come un feromone e accelera la pubertà nel topo femmina. I TAARs potrebbero quindi costituire un modo alternativo di detezione dei feromoni. Dato che i geni che codificano per i TAARs sono presenti anche nei pesci e negli esseri umani, è possibile che questi ultimi usino questi recettori per riconoscere i feromoni. I circuiti del sonno REM 76 Sebbene risalga ad oltre 50 anni la scoperta del sonno a movimenti oculari rapidi (REM, rapid-eye-movement) associato con il sogno, non è ancora noto come il cervello passi dal sonno REM al sonno non REM. I modelli precedenti ponevano l’accento sull’interazione tra i neuroni colinergici, attivi durante il sonno REM e i neuroni monoaminergici che invece erano inattivi. Il modello proposto dal gruppo di Harvard, che i ricercatori definiscono «flip-flop switch» (interruttore avanti-indietro), mostra tuttavia che la disattivazione di questi due tipi di neuroni influisce poco sul sonno REM. Essi hanno scoperto che l’interazione reciproca tra i neuroni provoca la liberazione di un messaggero chimico, l’acido gamma-aminobutirrico, presente nell’insieme del cervello, che legandosi ai neuroni, inibisce la loro attività. I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee Dei ricercatori della Harvard Medical School hanno descritto, nel 2006, il modello di come il cervello controlla il passaggio di entrata e uscita dalla fase REM. Lo studio, realizzato da Clifford Saper e dal suo gruppo, pubblicato in Nature, esamina i meccanismi che sottendono il sogno e l’abolizione del tono muscolare nel corso del sonno REM 4. Un problema nella regolazione di quest’interazione potrebbe essere all’origine di certe stranezze del sonno come il disturbo comportamentale nel sonno REM, durante il quale la persona vive fisicamente il suo sogno, o le allucinazioni ipnagogiche, una sorta di sogno in stato di veglia. I ricercatori di farmaci che aiutano a dormire non hanno mai considerato i passaggi tra i vari stadi del sonno. Comprenderne la regolazione potrebbe portare a dei trattamenti più efficaci dei disturbi del sonno. Orologi circadiani e alimentazione Gli scienziati sanno da molto tempo che se si nutrono gli animali unicamente durante le loro normali ore di sonno, si alterano i loro cicli del sonno e le funzioni biologiche così da permettere agli animali di essere svegli e all’erta quando il cibo è disponibile. Due diversi studi pubblicati da un gruppo della Harvard Medical School e l’altro da ricercatori dell’University of Texas Southwestern Medical Center, ipotizzano le ragioni che potrebbero spiegare il cambiamento. Il gruppo di Harvard, diretto da Clifford Saper, si è interessato al nucleo dorso mediale dell’ipotalamo (DMH), che è in contatto con le regioni del cervello implicate nell’alimentazione, il metabolismo energetico, la regolazione dello stato di veglia e di sonno, la temperatura corporea ed altri 77 Veglia, alimentazione Rilascio di corticosteroidi Corteccia Ipotalamo CRH 0,4 mm lateralmente alla linea mediana Orexina MCH PVH Sonno LHA GABA VLPO dSPZ Termoregolazione Glutammato TRH MPO vSPZ DMH VMH SCN ARC Stimoli della fame Leptina Ghrelina Mangiare e dormire per sopravvivere Il nucleo dorso mediale dell’ipotalamo controlla il ciclo sonno-veglia, l’alimentazione, la temperatura corporea. Questa regione cerebrale può sincronizzare l’orologio cerebrale interno situato nel nucleo soprachiasmatico a dipendenza della disponibilità di cibo. processi. Lo studio, pubblicato su Nature Neuroscience, mostra che il DMH può staccarsi dall’orologio biologico del cervello e determinare un nuovo orario interno, per approfittare del cibo a disposizione 5. Gli scienziati hanno dimostrato che il DMH può staccarsi dall’orologio biologico del cervello e determinare un nuovo orario interno, così da approfittare della disponibilità di cibo. Il secondo studio, pubblicato da Masashi Yanagisawa e i suoi colleghi in Proceedings of the National Academy of Sciences, mostra che i neuroni del DMH contengono un orologio solitamente inattivo. Quando è ridotta la disponibilità di cibo, esso si sincronizza sui momenti di disponibilità alimentare, permettendo al DMH di stabilire il suo ritmo circadiano che esclude l’orologio biologico cerebrale 6. 78 Questi due studi propongono alla ricerca sugli orologi circadiani e l’alimentazione nuovi obiettivi che potrebbero essere interessanti per sviluppare dei trattamenti contro l’obesità. Gli umani hanno sulla lingua delle papille gustative che permettono di distinguere cinque gusti specifici: amaro, dolce, salato, acido e l’umami, un termine giapponese che designa il sapore del glutammato monosodico. Gli scienziati hanno identificato i recettori che rilevano tre di questi gusti: amaro, dolce ed umami. Nel 2006 due studi realizzati indipendentemente da due gruppi di ricercatori hanno identificato una proteina che permette agli esseri umani e ad alcune delle specie animali di percepire l’acidità e altri gusti, presenti negli alimenti avariati o acerbi. La proteina, di cui si parla in Nature e in Proceedings of the National Academy of Sciences, è la PKD2L1, presente in alcune delle papille gustative ma assente in quelle che riconoscono il dolce, l’amaro e l’umami 7, 8. Il gruppo dell’Università della California di San Diego, diretto da Charles Zuker, ha pubblicato il suo studio in Nature. Questi ricercatori hanno lavorato con dei topi geneticamente privati della PKD2L1. Gli animali reagiscono agli altri sapori, ma sono completamente indifferenti all’acido citrico, all’aceto o altri sapori acidi. I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee Identificato il recettore dell’acidità Il gruppo della Duke University, diretto da Hiroaki Matsunami, ha affermato in Proceedings of the National Academy of Sciences che con studi di questo genere si comprenderà la modalità con la quale il cervello tratta le informazioni sensoriali e come l’industria potrà in futuro servirsene per modificare il sapore degli alimenti. Cellule staminali e visione Le cellule staminali embrionali potrebbero diventare un trattamento per la degenerazione maculare senile (DMS). Prima causa di cecità nelle persone di oltre 65 anni, questa malattia è secondaria ad un deterioramento della retina e della macula, la regione situata al centro della retina, da cui dipende la visione centrale. In certi tipi di degenerazione maculare, si atrofizzano progressivamente le cellule dell’epitelio pigmentato della retina, che rivestono la base retinica. In uno studio pubblicato in Cloning and Stem Cells, un gruppo dell’Oregon Health and Science University diretto da Raymond Lund ha trasformato le cellule staminali embrionali in cellule dell’epitelio pigmentato della retina, poi le ha iniettate negli occhi di ratti malati 9. Dopo sei settimane, gli 79 scienziati, esaminando la visione degli animali hanno constatato che i ratti che avevano ricevuto le cellule staminali trasformate avevano una visione in gran parte conservata, gli animali non trattati erano pressoché ciechi. Gli scienziati, esaminando la visione degli animali hanno constatato che i ratti che avevano ricevuto le cellule staminali trasformate avevano una visione in gran parte conservata, gli animali non trattati erano pressoché ciechi. In un altro studio dello stesso genere, diretto da Robin Ali all’University College di Londra, sono state trapiantate delle cellule che si sono trasformate nelle cellule recettrici della retina, i fotorecettori 10. Questi studi indicano che le cellule staminali e altre cellule primitive possono essere una via possibile per il trattamento della degenerazione maculare. Malgrado queste scoperte, gli autori evidenziano che la malattia oculare del ratto non può essere assimilata alla degenerazione maculare che colpisce l’essere umano. Altri studi dovranno dimostrare se questa via può essere intrapresa per curare la forma umana della patologia. 80 Cellule staminali e neurogenesi La neurogenesi nella corteccia cerebrale 82 Una risposta spontanea alle lesioni 84 Neurogenesi ed epilessia 86 Gli antidepressivi stimolano uno stadio specifico della neurogenesi 86 Le proteine patogene e lo sviluppo delle cellule del cervello 87 Le cellule di sostegno diventano cancerogene 88 La proteina Notch attiva le cellule staminali 89 81 N el corso dell’intera vita nel cervello nascono nuovi neuroni, un fenomeno denominato neurogenesi. La neurogenesi costituisce per il cervello uno strumento per autoripararsi che potrebbe essere usato a fini terapeutici, le anomalie della neurogenesi potrebbero anche contribuire allo sviluppo di certi disturbi. Le cellule immature e versatili conosciute come cellule staminali continuano a far sperare in nuove terapie. Nel 2006 i ricercatori hanno fatto passi avanti nella conoscenza delle vie che esse utilizzano per trasformarsi in neuroni. Ma le staminali riescono a svolgere precisi compiti nel cervello? La neurogenesi nella corteccia cerebrale Dal 1998 è noto che nell’ippocampo del cervello umano adulto nascono nuovi neuroni, è meno chiaro se la neurogenesi avviene anche in altre regioni del cervello. Non è nemmeno possibile affermare con certezza se l’adattabilità cerebrale, definita plasticità, è una conseguenza del riadattamento delle cellule già esistenti oppure della produzione di nuove cellule. Esiste un metodo innovativo per datare le cellule cerebrali: il carbonio 14 (14C). Negli anni 1950 in seguito a test nucleari, questo elemento è stato liberato nell’atmosfera in quantità considerabili. Il 14C è stato quindi assorbito dal DNA dei vegetali, degli animali e degli uomini e decade in quantità misurabili nel tempo. Nel 2005 un gruppo di ricercatori del Karolinska Institute di Stoccolma diretto da Jonas Frisen ha dimostrato che la concentrazione di 14C nella corteccia cerebrale delle persone adulte è identica a quella dell’atmosfera al momento della loro nascita, quindi pochi, quasi nessuno dei neuroni corticali sono stati prodotti nel corso della vita. Frisen e i suoi colleghi si sono associati a diversi altri laboratori per ampliare lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences 1. Lavorando su campioni di tessuto cerebrale prelevati nel corso dell’autopsia di sette persone nate tra il 1933 e il 1973, i ricercatori hanno misurato la concentrazione di C14 in tutti i lobi cerebrali. Il livello di C14 misurato corrisponde alla concentrazione atmosferica di carbonio al momento della loro nascita, un’ulteriore dimostrazione che la neurogenesi corticale cessa alla nascita. 82 Gli autori ipotizzano che nell’ippocampo le cellule che nascono svolgono un ruolo in certi tipi di memoria. Le funzioni cognitive come l’apprendimento I neuroni corticali sembrano essere tra le prime cellule prodotte nell’embrione umano. La corteccia cerebrale è il luogo delle funzioni «superiori», come il pensiero e l’analisi, essa è considerata come la parte del cervello che distingue l’uomo dalle altre specie. Uno studio riportato in Nature Neuroscience mostra che i neuroni corticali sembrano essere tra le prime cellule prodotte nell’embrione umano. Alcuni ricercatori diretti da Colin Blakemore, dell’Università d’Oxford e Pasko Rakic, della Yale University, hanno identificato una popolazione differente di neuroni che appare nel corso delle prime settimane di gravidanza. Tali predecessori nascono nell’area che diventerà la corteccia, apparendo prima dei neuroni che costituiscono gli strati più profondi del cervello. Nel corso dello sviluppo cerebrale essi migrano verso determinati luoghi della corteccia. Cellule staminali e neurogenesi e l’analisi dipendono al contrario dalle cellule corticali presenti alla nascita, per quel che riguarda la corteccia la stabilità prevale sulla plasticità. I precursori producono un insieme di proteine specifiche, che possono essere identificate con dei markers, quindi costituiscono una popolazione cellulare differente. Questa scoperta dimostra che le prime cellule del cervello specificamente «umano» appaiono ad uno stadio molto precoce dello sviluppo embrionale. Essa è importante perché permette di comprendere meglio lo sviluppo normale del cervello, ma anche l’origine di numerosi disturbi cognitivi 2. Per esempio, recenti scoperte sull’autismo suggeriscono delle anomalie dello sviluppo corticale (vedi a questo proposito «Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia» pag. 18). L’uso terapeutico delle cellule staminali dipende dalla loro capacità di trasformarsi in cellule specializzate necessarie per correggere una determinata malattia. Secondo un articolo pubblicato in Nature Neuroscience, la loro plasticità, o pluripotenza, ha dei limiti 3. Un gruppo diretto da Sally Temple, dell’Albany Medical College, a New York, ha scoperto che la tempistica che regola lo sviluppo corticale è codificata nelle cellule progenitrici che danno origine ai neuroni e non dipende da segnali generati dall’ambiente. La corteccia si sviluppa in strati successivi, i neuroni di ogni strato sono prodotti secondo un programma determinato. 83 I ricercatori hanno scoperto che quando le cellule neurali progenitrici prelevate da topi erano isolate e fatte crescere in coltura, i neuroni che ne risultavano, apparivano nella stessa sequenza come se fossero in un cervello embrionale. Ad ogni stadio dello sviluppo le staminali in questione hanno perduto parte della loro plasticità. Togliendo il gene denominato Foxg1, necessario allo sviluppo della corteccia, i ricercatori sono riusciti a ristabilire il timing che dirigeva la prima metà della gestazione dei neuroni, ma non quello della fine della gestazione. Tale scoperta possiede importanti implicazioni per l’uso terapeutico delle cellule staminali. Essa indica che la sequenza dello sviluppo è programmata fin dall’inizio e che è breve l’intervallo di tempo nel quale le cellule possono essere fuorviate dal loro «destino». Una risposta spontanea alle lesioni Numerosi studi realizzati nell’animale dimostrano che nel cervello adulto una lesione provoca un aumento della neurogenesi, un fenomeno che conosciuto nei dettagli potrebbe essere sfruttato per curare le lesioni prodotte da traumi o da incidenti vascolari. Nella rivista Journal of Neuroscience, T. Yamashita e i suoi colleghi, affermano di avere scoperto che dopo un ictus, delle cellule staminali neurali che abitualmente producono solo le cellule olfattive, hanno dato origine a nuovi neuroni nello striato, il luogo dove si era prodotta la lesione 4. I nuovi neuroni hanno stabilito le connessioni con le vicine cellule dello striato. Questo potrebbe avere delle implicazioni terapeutiche nel trattamento degli ictus cerebrovascolari e di altri disturbi neurologici. 84 Studiando il ruolo della neurogenesi nel recupero dopo un ictus nell’uomo, David Greenberg e il suo gruppo del Buck Institute for Age Research, hanno cercato la presenza di nuovi neuroni nelle biopsie dei tessuti che provenivano da lesioni cerebrali secondarie ad un ICV. Come affermato in Proceedings of the National Academy of Sciences, nelle aree attorno alla lesione gli scienziati hanno trovato dei marker molecolari che attestano la presenza di nuovi neuroni, in particolare in prossimità dei vasi sanguigni che producono i fattori di crescita che stimolano la divisione e la crescita dei neuroni nel corso della neurogenesi 5. Si può concludere quindi che esiste un certo grado di neurogenesi spontanea e che potrebbe essere amplificato con l’ausilio di farmaci. Cellule staminali e neurogenesi Neurogenesi e lesioni del midollo spinale Il gruppo di ricerca diretto da Fred Gage, nella foto, e da Michael Tuszynski, del Salk Institute, ha dimostrato che i nuovi neuroni appaiono spontaneamente dopo una lesione del midollo spinale. Questo processo può servire per lo sviluppo di nuove terapie. La neurogenesi potrebbe costituire una reazione spontanea anche alle lesioni del midollo spinale, un fenomeno che potrebbe diventare un’opzione terapeutica. La neurogenesi potrebbe costituire una reazione spontanea anche alle lesioni del midollo spinale, un fenomeno utilizzabile come possibile terapia. Michael Tuszynski, Fred Gage e i loro colleghi del Salk Institute hanno pubblicato in Journal of Neuroscience i risultati di uno studio sulle scimmie rhesus adulte. Dopo avere generato una lesione sperimentale nel midollo spinale di questi animali, il numero di cellule che si sono appena divise è 80 volte superiore al normale 6. Sette mesi dopo la lesione, molte di queste cellule si sono trasformate in diversi tipi di cellule di sostegno, alcune delle quali producono la mielina, indispensabile per gli assoni dei neuroni lesi. Questo studio evidenzia che la neurogenesi costituisce un beneficio per le lesioni traumatiche del midollo spinale, un fenomeno che potrebbe essere amplificato da terapie appropriate. 85 Neurogenesi ed epilessia Alcuni studi realizzati nell’animale mostrano che le crisi convulsive stimolano la neurogenesi. Uno studio pubblicato in un numero speciale di Hippocampus, il cui tema era la neurogenesi, indica che le cellule appena nate non si trasformano in neuroni sostitutivi ma in cellule gliali, che non trasmettono quindi i segnali nervosi ma adempiono le funzioni di supporto, come per esempio fabbricare la mielina 7. Jack Parent e i suoi collaboratori del Medical Center dell’Università del Michigan, hanno indotto nel topo delle convulsioni con delle sostanze chimiche. Per due settimane essi hanno osservato un incremento delle cellule cerebrali evidenziato con una molecola che si fissa sulle cellule in divisione. Lo studio pone quindi un’importante questione: per quale ragione il cervello produce diversi tipi di cellule in risposta a differenti lesioni? Le cellule si sono trasformate in cellule gliali e non in neuroni, come dopo una lesione prodotta da un ictus cerebrovascolare. Questo studio pone quindi un’importante questione: per quale ragione il cervello produce diversi tipi di cellule in risposta a differenti lesioni? Ulteriori ricerche sulla neurogenesi come strumento di riparazione permetteranno di sviluppare nuovi farmaci per l’epilessia. Secondo lo studio di un altro gruppo di ricercatori diretto da Jack Parent, la neurogenesi generata dopo le crisi convulsive potrebbe costituire parte del problema. Nell’uomo e nell’epilessia temporale sperimentale, per esempio, si osserva un’anomalia di una parte dell’ippocampo denominata strato granulare del giro dentato. I ricercatori hanno riportato in Annals of Neurology che nei ratti affetti da prolungate crisi convulsive, le cellule progenitrici di questa regione migrano e si sviluppano in modo anormale 8. Sebbene in alcune aree dell’ippocampo la neurogenesi persiste nel corso di tutta la vita, i ricercatori ipotizzano che le crisi convulsive disorganizzano la migrazione dei neuroni, da cui una cattiva integrazione delle cellule appena nate e una possibile ricorrenza delle crisi. Gli antidepressivi stimolano uno stadio specifico della neurogenesi 86 Si ritiene che gli antidepressivi amplifichino la neurogenesi nell’ippocampo. Occorre attendere da tre a quattro settimane prima che gli antidepressivi attualmente a disposizione migliorino l’umore delle persone che soffrono di disturbi depressivi. Circa un terzo dei pazienti non trae nessun Dei ricercatori dei Cold Spring Harbor Laboratories hanno riportato in Proceedings of the National Academy of Sciences di avere creato dei topi «reporter» nei quali i nuclei delle cellule nate da precursori neurali contengono una proteina blu fluorescente 9. Controllando nei neuroni «blu» diverse proteine marker e poi esponendo le cellule alla fluoxetina, i ricercatori hanno confermato che l’obiettivo del farmaco erano le cellule staminali ad un determinato stadio del loro sviluppo. Scoprendo nuove vie per stimolare questa popolazione sarebbe possibile trovare farmaci antidepressivi più efficaci con un effetto sull’umore più rapido. Cellule staminali e neurogenesi beneficio da questo trattamento. Numerosi studi suggeriscono che i farmaci come la fluoxetina (Prozac) debbono il loro effetto ad un’aumentata neurogenesi. Se questo fenomeno fosse conosciuto nel dettaglio, sarebbe senza dubbio possibile sviluppare dei farmaci che stimolano la neurogenesi in modo più mirato. Le proteine patogene e lo sviluppo delle cellule del cervello La proteina prione è nota soprattutto per la sua azione patogena, infatti, se mal ripiegata essa costituisce l’agente patogeno dell’encefalopatia, meglio conosciuta come la malattia della mucca pazza o il suo equivalente nell’uomo, la malattia di Creutzfeldt-Jakob. Da qualche anno sappiamo che i prioni non sono degli agenti patogeni per definizione, ma piegandosi e dispiegandosi essi possono assumere una forma anormale, patogena. In Oltre la mucca pazza I ricercatori stanno studiando il ruolo normale dei prioni in una cellula sana, la cui azione è conosciuta meglio nelle patologie. Nella foto, la proteina normale è visibile nei nuclei dei neuroni in via di sviluppo. La struttura della proteina normale è visibile sullo sfondo. 87 funzione della quantità dei prioni anormalmente dispiegati la malattia si svilupperà o no. Resta invece meno conosciuto il ruolo della proteina prione quando ha una conformazione normale. Secondo lo studio pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences dal gruppo di Jeffrey Macklis della Harvard University e di Susan Lindquist del Massachusetts Institute of Technology, i prioni abbondano nelle regioni del cervello dove avviene la neurogenesi. Nel loro studio hanno dimostrato la stretta correlazione tra la quantità di prioni presenti e la velocità con cui le cellule precursore si differenziano in neuroni. Nei topi modificati che producono una quantità eccessiva di prioni, la proliferazione di cellule cerebrali è più importate rispetto ai topi normali o i topi knock-out 10. Successivi studi che premetteranno di comprendere meglio il ruolo di queste proteine nel cervello normale, potranno fornire nuovi approcci per prevenire e trattare le malattie a prioni. Secondo lo studio di un gruppo dell’University of Central Florida diretto da Kiminobu Sugaya e pubblicato su Stem Cells Development, quando i precursori della proteina amiloide raggiungono dei livelli troppo alti, come nel caso della malattia di Alzheimer, le cellule staminali potrebbero trasformarsi in astrociti invece di neuroni 11. I ricercatori si sono accorti che se si aggiunge la proteina amiloide nelle cellule staminali neurali umane in coltura, esse intensificano la loro differenziazione in astrociti. Se la proteina è bloccata con un anticorpo, s’impedisce la differenziazione. Nei topi geneticamente modificati per produrre della sostanza beta amiloide, le cellule staminali umane trapiantate si sono differenziate in cellule gliali invece di neuroni. I risultati sembrano indicare che dei livelli elevati dei precursori della proteina amiloide possono contrastare gli sforzi autorigeneranti del cervello cambiando il destino delle cellule, che si trasformano in cellule gliali invece di trasformarsi in neuroni di sostituzione. Si tratta di un meccanismo che dovremo comprendere meglio per potere utilizzare in futuro le cellule staminali nell’intento di curare la malattia di Alzheimer o altre forme di demenza. Le cellule di sostegno diventano cancerogene 88 Il meccanismo che determina se una cellula staminale neurale si trasforma in neurone o in cellula di sostegno potrebbe essere al centro di una scoperta che non suggerisce nulla di buono: le cellule staminali sarebbero in grado di dare origine a dei tumori. È quello che afferma in Neuron un Il meccanismo che determina se una cellula staminale neurale si trasforma in neurone o in cellula di sostegno potrebbe essere al centro di una constatazione che non suggerisce nulla di buono: le cellule staminali potrebbero dare origine a dei tumori. Patricia Casaccia-Bonnefil e il suo gruppo della Robert Wood Johnson Medical School hanno descritto nel Journal of Neuroscience che anche la neuroglia poteva diventare cancerogena a causa della mancanza di apoptosi, la morte cellulare fisiologica programmata della cellula 13. I ricercatori hanno realizzato degli studi su dei topi knock-out, privati del gene p53, che dà il segnale dell’apoptosi. Cellule staminali e neurogenesi gruppo diretto da Arturo Alvarez-Buylla, dell’Università della California a San Francisco. I ricercatori hanno identificato un gruppo di cellule staminali neurali dotate di un recettore per un fattore di crescita 12. Un’infusione di questo fattore di crescita ha indotto una crescita eccessiva di queste cellule che presentavano caratteristiche tumorali (vedi anche il capitolo sulle Lesioni del sistema nervoso, pag. 38). L’assenza del gene p53 non porta però automaticamente ad un tumore. Se ai topi è somministrato uno stimolo che provoca una forma sperimentale di cancro, le loro cellule staminali neurali mostrano profondi cambiamenti, compatibili con i tumori, come per esempio delle divisioni cellulari più rapide e una differenziazione incompleta. La proteina Notch attiva le cellule staminali Lo scopo della terapia con le cellule staminali è attivare le cellule staminali «endogene» presenti naturalmente nell’organismo. Ronald McKay, ricercatore al National Institute of Neurological Disorders and Stroke, ha pubblicato in Nature un modello di espansione delle cellule staminali che potrebbe contribuire alla realizzazione di quest’obiettivo 14. L’attivazione di un recettore chiamato Notch induce una cascata di fenomeni che promuovono la sopravvivenza delle cellule staminali neurali. Quando dei ratti adulti portatori di una lesione indotta da un ictus cerebrovascolare sperimentale sono stati trattati con una molecola che blocca il recettore Notch, i ricercatori hanno osservato un aumento delle cellule progenitrici ed un miglioramento delle facoltà motorie. Questo studio suggerisce un metodo efficace per aumentare il numero di cellule staminali in coltura o somministrate a degli animali che hanno ricevuto un trapianto, oppure per riattivare delle cellule staminali silenti. 89 Il campo delle cellule staminali è sempre stato florido, gli studi appena citati mostrano però che il cammino da percorrere è ancora lungo. Orientare lo sviluppo delle cellule staminali affinché esse diano origine a dei tipi di cellule precise (neuroni e cellule di sostegno) e non cellule tumorali, resta la grande sfida per la ricerca. 90 I disturbi del pensiero e della memoria La malattia di Alzheimer 92 Chi sviluppa l’Alzheimer conclamato 94 Una causa della demenza frontotemporale 95 Memoria normale: un grande passo avanti 95 91 N el 2006 il bilancio della ricerca sul pensiero e la memoria è incerto: in certi ambiti sono state realizzate scoperte notevoli, in altri campi occorre invece fare una pausa e riconsiderare le piste percorse. La malattia di Alzheimer Una delle principali caratteristiche della malattia di Alzheimer è la presenza di placche costituite da beta amiloide nel cervello delle persone che ne sono affette. Da una decina d’anni gli scienziati hanno consacrato gran parte del loro lavoro alla manifestazione fisica di questa malattia nell’ipotesi che riuscendo a ridurre la formazione o a fare scomparire le placche, l’impatto della malattia sarebbe stato attenuato. Nel 2006 diversi studi hanno però dimostrato che le placche in sé stesse potrebbero non essere all’origine della malattia. Esse sono degli aggregati costituiti da piccoli peptidi che si dispongono negli spazi tra i neuroni, formati a partire da una proteina di dimensioni maggiori, denominata precursore dell’amiloide. Studi precedenti, eseguiti su topi che esprimevano la proteina umana precursore dell’amiloide, hanno dimostrato che le anomalie comportamentali come il disturbo della memoria spaziale si manifestano prima dell’apparizione delle placche. Secondo quest’ipotesi, i frammenti di proteine potrebbero non avere nessuna relazione con la malattia, oppure i danni ai neuroni sono generati da piccoli aggregati che non hanno l’aspetto delle placche. Una placca è costituita da centinaia di migliaia di frammenti di proteina, ma Sylvain Lesné e i suoi colleghi della University of Minnesota Medical School a Minneapolis, hanno notato che è sufficiente avere aggregati costituiti da soli 12 frammenti per vedere i primi segni di deterioramento della memoria negli animali. I ricercatori hanno purificato i piccoli ammassi ottenuti dal cervello di animali malati e li hanno iniettati nel cervello di animali sani. I risultati pubblicati in Nature mostrano che gli animali sani sono diventati incapaci di imparare a muoversi in un labirinto 1. 92 In modo simile, dei ricercatori del Buck Institute for Age Research a Novato in California, hanno pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences che i topi con una variante della proteina che la rendeva incapace di produrre la sostanza beta amiloide, pur non presentando le caratteristiche placche della malattia di Alzheimer sviluppavano i disturbi della memoria 2. Il ruolo delle placche di beta amiloide nella malattia di Alzheimer è stato rimesso in questione anche da ricerche effettuate sul tessuto cerebrale umano. Da molti decenni gli scienziati sanno che è possibile avere delle placche nel cervello senza sviluppare la malattia. Per conoscere con quale frequenza si osservano le placche nelle persone in buona salute, i ricercatori del Rush Alzheimer’s Disease Center dell’Università di Chicago diretti da David Bennett, hanno seguito oltre 2000 persone appartenenti a due comunità diverse. I risultati di questo studio sono stati pubblicati in Neurology 3. I disturbi del pensiero e della memoria In questi casi il colpevole sembra dunque un piccolo frammento della proteina precursore dell’amiloide definito C-31. Secondo i ricercatori, le placche situate negli spazi tra i neuroni sarebbero all’origine del problema, ma la C-31 termina il lavoro, penetrando nelle cellule. I ricercatori dell’Università del Minnesota, così come quelli del Buck Institute for Age Research ritengono che i farmaci capaci di bloccare la formazione dei piccoli ammassi di materiale proteico o di impedire la formazione della proteina C-31, potrebbero contribuire a limitare i danni provocati dalla malattia di Alzheimer nell’uomo. I partecipanti allo studio sono stati sottomessi annualmente ad un test neuropsicologico per essere sicuri che con il passare del tempo non sviluppassero dei sintomi di demenza. Su 134 delle persone decedute che hanno messo a disposizione il loro cervello per un’autopsia, due presentavano delle placche, che secondo gli attuali criteri corrisponde ad un rischio elevato di sviluppare la malattia. 48 mostravano delle placche nella regione limbica, classificabile quindi come un rischio medio. La sola differenza che David Bennett e i suoi colleghi hanno rilevato nel funzionamento mentale tra queste 50 persone e le 84 nelle quali non sono state trovate delle placche, è un funzionamento leggermente meno buono della memoria episodica e autobiografica degli avvenimenti vissuti. Perché con lo stesso grado di neuropatologia, certe persone sono in buona salute e altre sviluppano la malattia? Ecco una questione centrale, alla quale molti ricercatori cercano ora di rispondere. Da questi risultati il gruppo di Bennett ha tratto due conclusioni. La prima è che una riduzione leggera della memoria episodica può segnalare un inizio della malattia di Alzheimer. La seconda è che l’essere umano possiede generalmente più neuroni di quelli che gli servono per la vita quotidiana, che i ricercatori definiscono «riserva neurologica». Molti individui possono 93 quindi tollerare un livello significativo di danni neuronali e di patologia alzheimeriana senza che la memoria sia gravemente lesa e senza presentare sintomi di demenza. Perché con lo stesso grado di neuropatologia, certe persone sono in buona salute e altre sviluppano la malattia? Ecco una questione centrale, alla quale molti ricercatori cercano ora di rispondere. Chi sviluppa l’Alzheimer conclamato Grazie alla ricerca si cominciano a comprendere meglio le ragioni per le quali non tutte le persone anziane con dei disturbi della memoria sviluppano la malattia di Alzheimer con tutti i suoi sintomi. Attualmente non esiste un test che permette di distinguere i pazienti che resteranno stabili da quelli il cui stato di salute continuerà a deteriorarsi. Tali informazioni potrebbero essere utili per le persone coinvolte, medici, pazienti, famiglie per pianificare piani di cura per i pazienti che svilupperanno la malattia di Alzheimer. A questo proposito nel 2006 sono stati pubblicati due studi che hanno apportato dei progressi significativi. Matthias Tabert, del New York State Psychiatric Institute and Columbia University di New York, ha seguito 63 adulti in buona salute e 148 pazienti affetti da disturbi cognitivi leggeri, uno stato intermediario tra la memoria normale e la demenza. I risultati pubblicati in Archives of General Psychiatry, mostrano che in tre anni il deficit cognitivo leggero si è trasformato in malattia di Alzheimer in 34 dei 148 pazienti 4. Quando il disturbo cognitivo leggero corrisponde a dei disturbi della memoria, il rischio di deterioramento è relativamente minore, solo 2 dei 20 pazienti di questo gruppo hanno sviluppato la malattia di Alzheimer. Nello stesso intervallo, la proporzione è stata di 32 su 64 nei pazienti che oltre ai disturbi della memoria manifestavano anche dei deficit cognitivi. Sembra quindi che con i test neuropsicologici sia possibile distinguere tra queste due situazioni e quindi predire quali tra i pazienti affetti da deficit cognitivo leggero, presentano un rischio maggiore. 94 Alcuni ricercatori dell’Università della California a Los Angeles, si sono basati su delle caratteristiche fisiche per trovare i pazienti affetti da disturbi cognitivi leggeri che presentano un elevato rischio di malattia di Alzheimer 5. Utilizzando la risonanza magnetica ad alta definizione, i ricercatori hanno constatato – come descritto in Archives of Neurology – che il rischio Una causa della demenza frontotemporale La malattia di Alzheimer è la forma di demenza più conosciuta, ma non è la sola. La seconda in ordine di frequenza a colpire le persone prima dei 65 anni è la demenza frontotemporale. Gli individui che ne sono affetti presentano dei disturbi del comportamento, dei cambiamenti della personalità e diventano disinibiti. La memoria è generalmente conservata. I disturbi del pensiero e della memoria di sviluppare la malattia è più elevato quando il volume dell’ippocampo è ridotto. All’inizio dello studio gli autori hanno notato un’atrofia più pronunciata di una determinata regione dell’ippocampo nei pazienti che nel corso del tempo hanno sviluppato la malattia, rispetto ai pazienti che sono rimasti stabili. Potere identificare i casi «pre-alzheimer» sarà senza dubbio un elemento delle strategie tese a prevenire o ritardare l’apparizione della malattia di Alzheimer. La demenza frontotemporale ha una forte componente genetica. La causa, in alcune tra le sue forme, è una mutazione della proteina tau associata ai microtuboli. S’ignoravano invece le cause di altre forme che non sembravano coinvolgere la mutazione di questo gene. Due gruppi di ricerca hanno scoperto nel 2006, nei pazienti affetti da queste forme atipiche di demenza frontotemporale, delle mutazioni di un altro gene: la proteina alterata è un fattore di crescita chiamato progranulina. Questo gene è espresso da una grande varietà di neuroni della corteccia oltre che dalle cellule della microglia, le cellule immunitarie del cervello. In due studi apparsi in Nature, i ricercatori avevano ipotizzato che la progranulina fosse importante per la sopravvivenza dei neuroni e che la perdita di una copia del gene della progranulina fosse sufficiente per attivare il fenomeno della neurodegenerazione 6, 7. Da notare che la progranulina induce nell’animale l’espressione di altri fattori di crescita che possono contribuire alla sopravvivenza delle cellule. L’identificazione delle mutazioni che stanno alla base della demenza frontotemporale apre nuove piste per sviluppare farmaci destinati a combatterle. Memoria normale: un grande passo avanti Gli scienziati sostengono da qualche tempo che la codifica dei ricordi è collegata a dei cambiamenti dell’intensità delle connessioni sinaptiche che uniscono i neuroni. La codifica di un ricordo dovrebbe quindi aumentare l’efficacia della sinapsi e rinforzare la comunicazione tra le cellule vicine. 95 neurone presinaptico neurotrasmettitore apprendimento recettori neurone postsinaptico ioni proteina PKM-zeta Grazie per la memoria I ricercatori hanno scoperto che la potenzializzazione a lungo termine, che sta alla base dei processi mnemonici, dipende da una proteina chiamata PKM-zeta. Quando questa proteina è inibita i ratti dimenticano comportamenti appresi in precedenza. Questo fenomeno è definito potenzializzazione a lungo termine (LTP). Tre studi realizzati nel 2006 hanno fornito la quasi-certezza che essa costituisce il fondamento neuronale della memoria. I ricercatori si sono concentrati su tre ipotesi: la prima è che bloccando l’LTP con degli inibitori chimici s’impedisce l’apprendimento. La seconda è che imparare un compito o una specifica informazione coinvolge l’LTP nella regione del cervello che tratta questo tipo d’informazione. La terza è che l’eradicazione dell’LTP con degli agenti chimici nella regione del cervello che tratta questo tipo d’informazioni induce un’amnesia con perdita dei comportamenti appresi. Uno studio pubblicato in precedenza aveva già confermato l’esattezza della prima ipotesi. Nell’ambito di una delle esperienze realizzate nel 2006, Jonathan Whitlock e i suoi colleghi del Howard Hughes Medical Institute e del Massachusetts Institute of Technology hanno insegnato a dei ratti a non avventurarsi nella parte scura della loro gabbia perché vi ricevevano una leggera scarica elettrica. Come pubblicato in Science, man mano che gli animali integravano quest’informazione, gli autori hanno potuto osservare la formazione di LTP nel loro ippocampo. Nei roditori questa struttura è il centro dell’apprendimento spaziale 8. 96 Agnès Gruart, dell’Università Pablo de Olavide a Siviglia in Spagna, ha ottenuto risultati simili che ha pubblicato nel Journal of Neuroscience 9. Il Realizzando un successivo passo avanti, un gruppo diretto da Eva Pastalkova, del SUNY Downstate Medical Center di Brooklyn a New York, ha pubblicato nello stesso numero di Science che gli animali nei quali si bloccava l’LTP con delle sostanze chimiche dimenticavano i comportamenti che avevano appreso, senza che questo escludesse la trasmissione sinaptica o che impedisse gli ulteriori apprendimenti 10. Questi studi dimostrano che l’ipotesi della formazione dei ricordi, da qualche tempo sostenuta dai ricercatori, è molto probabilmente corretta. I disturbi del pensiero e della memoria suo gruppo ha constatato che l’apprendimento induceva LTP nell’ippocampo dei topi e che delle sostanze che inibivano la trasmissione neurale bloccavano sia l’apprendimento sia la formazione di LTP. 97 Referenze Introduzione 1 Sun M, Latourelle JC, Wooten GF, Lew MF, Klein C, Shill HA, Golbe LI, Mark MH, Racette BA, Perlmutter JS, Parsian A, Guttman M, Nicholson G, Xu G, Wilk JB, Saint-Hilaire MH, DeStefano AL, Prakash R, Williamson S, Suchowersky O, Labelle N, Growdon JH, Singer C, Watts RL, Goldwurm S, Pezzoli G, Baker KB, Pramstaller PP, Burn DJ, Chinnery PF, Sherman S, Vieregge P, Litvan I, Gillis T, MacDonald ME, Myers RH, and Gusella JF. Influence of heterozygosity for parkin mutation on onset age in familial Parkinson disease. 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Storage of spatial information by the maintenance mechanism of LTP. Science. 2006 313(5790):1141-1144. Illustrazioni / Fotografie P. 5: P. 11: P. 20: P. 22: P. 27: P. 43: P. 51: P. 54: P. 65: P. 67: P. 75: P. 78: P. 85: P. 87: P. 96: Photograph courtesy of David C. Van Essen Photograph courtesy of Steven E. Hyman Photographs courtesy of Stephen Dager Image courtesy of Katya Rubia Image courtesy of Mark Cookson Image courtesy of Adrian Owen Image courtesy of Richard Ransohoff Image courtesy of Simon Beggs Photograph courtesy of Jeffrey Lieberman Image courtesy of Andreas Meyer-Lindenberg and Joshua Buckholtz, NIMH/IRP Image courtesy of House Ear Institute Illustration by Benjamin Reece Photograph courtesy of Fred Gage Image courtesy of Jeffrey Macklis Illustration by Benjamin Reece 109 Immaginate un mondo . . . … in cui la malattia di Alzheimer, la malattia di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica, la retinite pigmentosa e le altre cause di cecità, saranno facilmente diagnosticate ad uno stadio precoce e immediatamente curate con medicinali che ne impediscono il deterioramento prima che le lesioni divengano troppo gravi. … in cui saranno noti i fattori ambientali e genetici che predispongono le persone alle malattie mentali. Dove esistono dei precisi test diagnostici e dei trattamenti mirati – medicinali, sostegno psicologico, interventi preventivi – disponibili e utilizzati su vasta scala. … in cui le nuove conoscenze sullo sviluppo del cervello permetteranno sia di trarre un maggior beneficio dai primi anni di apprendimento sia di combattere le patologie associate all’età. … in cui le lesioni del midollo spinale non saranno più sinonimo di paralisi a vita, poiché sarà possibile programmare il sistema nervoso così da ricostruire i circuiti neurali e ristabilire l’attività muscolare. … in cui gli individui non saranno più schiavi delle tossicodipendenze e dell’alcolismo, perché esisteranno dei trattamenti facilmente accessibili, che agendo a livello delle vie nervose permetteranno d’interrompere i fenomeni responsabili delle crisi di astinenza e il bisogno impellente di consumare delle sostanze generatrici di dipendenza. … in cui la vita delle persone non sarà più in balia della depressione e dell’ansia perché per curarle disporremo di efficaci medicinali. 112 Anche se tale visione può sembrare irreale ed utopica, stiamo vivendo un momento della storia delle neuroscienze straordinariamente promettente e fecondo. I progressi realizzati dalla ricerca nel corso dell’ultimo decennio, oltrepassano le nostre aspettative. Le conoscenze sui meccanismi fondamentali del funzionamento cerebrale si sono ampliate e oggi possiamo cominciare a trarre un beneficio pratico dal loro potenziale. Abbiamo già cominciato a concepire delle strategie, delle nuove tecniche e delle terapie per combattere differenti malattie e disturbi neurologici. Fissando degli obiettivi terapeutici e applicando le conoscenze attuali, sarà possibile sviluppare dei trattamenti efficaci che, in alcuni casi, permetteranno di ottenere la guarigione completa. I grandi progressi delle neuroscienze ci permettono inoltre di valutare l’entità di ciò che ancora non conosciamo. Questo fatto costituisce senza dubbio uno stimolo che sprona la ricerca fondamentale ad esplorare questioni più ampie sul funzionamento della materia vivente, per formulare le domande di ordine complesso che portano alle scoperte scientifiche. La ricerca clinica e fondamentale svolta in modo coordinato da migliaia di scienziati, ha generato un insieme di conoscenze nelle diverse discipline, che variano dagli studi delle strutture molecolari e dei medicinali, alla visualizzazione cerebrale, alle scienze cognitive e alla ricerca clinica, che possono essere messe al servizio della lotta contro le malattie e i disturbi neurologici. Come scienziati continueremo a progredire sia individualmente nei nostri rispettivi ambiti, sia cooperando con i nostri colleghi di altri campi scientifici, moltiplicando le occasioni di collaborazioni interdisciplinari. La Dana Alliance for Brain Initiatives e la European Dana Alliance for the Brain riuniscono degli specialisti nelle neuroscienze pronti ad intraprendere progetti ambiziosi, come abbiamo potuto osservare nel 1992 a Cold Spring Harbor, New York, dove fu stabilito un vero e proprio calendario di ricerca per gli Stati Uniti e una seconda volta nel 1997, quando si è costituito il gruppo europeo con i suoi peculiari obiettivi e mete. Si tratta ora, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, di fissare nuovi scopi per orientare i progressi che possono essere realizzati a corto e a medio termine. Provando ad immaginare i futuri benefici, cerchiamo di accelerare l’andamento di questa nuova era delle neuroscienze, per riuscire a raggiungere più rapidamente gli obiettivi prefissati. Gli obiettivi Combattere gli effetti devastanti della malattia di Alzheimer. In questa patologia si osserva il deposito cerebrale di una piccola frazione proteica denominata proteina amiloide, estremamente tossica per le cellule nervose. Grazie alla sperimentazione animale oggi si conosce il meccanismo biochimico e genetico di quest’accumulo. Utilizzando il modello animale sono stati sviluppati nuovi medicinali e un vaccino potenzialmente efficace, sia per prevenire il deposito della proteina amiloide sia per cercare di rimuoverlo. Tali terapie che saranno prossimamente sperimentate nell’uomo, offrono la speranza di combattere efficacemente questo meccanismo patologico. Scoprire la miglior terapia per la malattia di Parkinson. I medicinali che agiscono sulle vie dopaminergiche del cervello, hanno dato buoni risultati nel trattamento dei disturbi motori nella malattia di Parkinson. Sfortunatamente in molti pazienti, dopo 5 a 10 anni questo effetto terapeutico tende a diminuire. Attualmente sono in via di sviluppo nuove molecole che cercano, da un lato di prolungare l’azione dei medicamenti dopaminergici, dall’altro di frenare la selettiva perdita neurale che è all’origine della malattia. Per i pazienti che non rispondono alla terapia medicamentosa, esiste la possibilità di trarre un beneficio dall’approccio chirurgico denominato stimolazione cerebrale profonda. Nuove forme di visualizzazione cerebrale permetteranno di determinare se questi trattamenti riescono a salvare i neuroni dalla distruzione e a ristabilire il normale funzionamento dei circuiti neurali. Immaginate un mondo ... La fiducia del pubblico nella scienza è essenziale per adempiere la nostra missione. Il dialogo tra i ricercatori e la gente sarà basilare soprattutto in considerazione delle conseguenze etiche e sociali del progresso della ricerca sul cervello. Diminuire l’incidenza degli ictus cerebrali e perfezionare il trattamento degli episodi acuti. Smettere di fumare, mantenere il tasso di colesterolo e il peso corporeo a livelli ragionevoli con un’alimentazione e un’attività fisica appropriate, sono, associati al depistaggio e al trattamento del diabete, i modi per ottenere una diminuzione spettacolare del numero degli incidenti cerebrovascolari e delle malattie cardiache. Nel caso degli ictus, con una diagnosi ed un intervento precoce, il paziente migliora rapidamente e i postumi della malattia sono minori. In futuro esisteranno nuovi trattamenti volti a ridurre l’impatto acuto degli incidenti cerebrovascolari sulle cellule del cervello. Le nuove tecniche di riabilitazione, che traggono profitto dalle conoscenze sulla capacità del cervello di recuperare dopo un trauma, permetteranno di progredire in questa via. Sviluppare trattamenti più efficaci per i disturbi dell’umore come la depressione, la schizofrenia, i disturbi ossessivi e il disturbo bipolare. Grazie alla determinazione della 113 sequenza del genoma umano, saranno scoperti i geni che predispongono ad alcune di queste malattie. Le recenti tecniche di visualizzazione cerebrale offriranno l’opportunità di osservare l’azione esercitata da questi geni nel cervello. Sarà quindi possibile esaminare la disfunzione dei circuiti neurali nelle persone colpite dalle patologie dell’umore. Disporremo di una diagnosi più sicura, l’uso di medicinali già esistenti sarà più efficace e la ricerca porrà nuove basi teoriche per sviluppare agenti terapeutici innovativi. Scoprire le cause genetiche e neurobiologiche dell’epilessia e migliorarne il trattamento. Comprendere l’origine genetica dell’epilessia e i meccanismi neurologici che scatenano le crisi, fornirà l’opportunità per una diagnosi preventiva e per trattamenti mirati. I progressi realizzati nel campo delle terapie chirurgiche offriranno in futuro delle alternative terapeutiche molto preziose. Scoprire vie innovative per prevenire e curare la sclerosi multipla. Per la prima volta disponiamo di medicinali che modificano il de corso di questa malattia. Queste nuove molecole alterano le risposte immunitarie dell’organismo, riducendo il numero e la gravità delle crisi. Nuovi metodi permetteranno di arrestare la progressione a lungo termine della sclerosi multipla, che è dovuta alla distruzione delle fibre nervose. Sviluppare dei trattamenti più efficaci per i tumori del cervello. Molte forme di tumori cerebrali sono difficili da curare, soprattutto quelle maligne o secondarie a tumori di origine non cerebrale. Le tecniche di visualizzazione, la radioterapia mirata, i differenti metodi che trasportano le sostanze medicamentose al tumore, così come l’identificazione di marker genetici, faciliteranno la diagnosi e permetteranno di sviluppare nuove 114 piste terapeutiche. Migliorare il recupero dopo lesioni traumatiche al cervello o al midollo spinale. Attualmente sono allo studio dei trattamenti che limitano i danni ai tessuti consecutivi ai traumi e si sperimentano sostanze che promuovono il ristabilimento delle connessioni nervose. Ben presto alcune tecniche di rigenerazione cellulare che permettono la sostituzione dei neuroni morti oppure lesi, passeranno dallo stadio della sperimentazione animale ai test clinici sull’uomo. Da segnalare anche il trapianto di microchip miniaturizzati che controllano i circuiti nervosi e ridanno una certa mobilità agli arti paralizzati. Trovare soluzioni innovative per la gestione del dolore. Il dolore non deve essere più sottovalutato. La ricerca sulla sua origine e sui meccanismi neurologici che lo mantengono, fornirà agli specialisti delle neuroscienze gli strumenti di cui necessitano per sviluppare dei trattamenti antalgici efficaci e mirati. Combattere la tossicodipendenza all’origine, nel cervello. I ricercatori hanno identificato i circuiti nervosi implicati in ognuno dei differenti tipi di dipendenza e hanno clonato alcuni dei recettori più importanti di queste sostanze. I progressi realizzati nella visualizzazione cerebrale, identificando i meccanismi neurobiologici che trasformano un cervello normale in un cervello sottomesso alla dipendenza, permetteranno di sviluppare dei trattamenti per annullare o compensare tali alterazioni. Comprendere i meccanismi cerebrali implicati nella risposta allo stress, all’ansia e alla depressione. La salute mentale è il requisito indispensabile per una buona qualità di vita. Lo stress, l’ansia e la depressione, oltre a perturbare la vita delle persone, possono avere un effetto devastante sulla società. Se capiremo meglio i meccanismi della risposta allo stress e i circuiti neurali implicati nell’ansia e La strategia Trarre vantaggio delle conoscenze fornite dalla genomica. Disponiamo oggi della sequenza completa dei geni che costituiscono il genoma umano. Nel corso dei prossimi 10 a 15 anni avremo la possibilità di stabilire quali geni sono attivi in ogni regione del cervello, in tutti gli stadi dell’esistenza dalla vita embrionale a quella adulta, passando dall’infanzia e dall’adolescenza. Sarà allora possibile identificare nelle diverse patologie neurologiche o psichiatriche, i geni alterati e le proteine assenti o anormali. Questo approccio ha già permesso agli scienziati di stabilire l’origine genetica di malattie come la corea di Huntington, l’atassia spinocerebellare, la distrofia muscolare e la sindrome del cromosoma X fragile. Le conoscenze fornite dalla genetica e le sue applicazioni nella diagnosi clinica, promettono di rivoluzionare la neurologia e la psichiatria e rappresentano una delle maggiori sfide delle neuroscienze. La disponibilità di un nuovo e potente strumento, i microchip di DNA, accelererà notevolmente questo processo aprendo nuove vie per la diagnosi clinica e la concezione di nuovi trattamenti. Applicare le nostre conoscenze sullo sviluppo del cervello. Dal concepimento alla morte, il cervello passa attraverso differenti stadi dello sviluppo con periodi di vulnerabilità e di crescita che possono essere favoriti oppure ostacolati. Per migliorare il trattamento dei disturbi dello sviluppo come l’autismo, i disturbi da deficit di attenzione e le difficoltà dell’apprendimento, le neuroscienze dovranno elaborare un quadro più dettagliato dello sviluppo cerebrale. Siccome il cervello è l’unico organo ad avere dei problemi specificamente collegati agli stadi dello sviluppo come l’adolescenza o la vecchiaia, capirne le trasformazioni in quelle precise fasi, permetterà di sviluppare trattamenti efficaci. Utilizzare l’enorme potenziale offerto dalla plasticità cerebrale. Traendo profitto dalla neuroplasticità, cioè dalla capacità del cervello di adattarsi e di modellarsi, i neuroscienziati faranno progredire le terapie per le malattie neurodegenerative e offriranno metodi per migliorare la funzione cerebrale sia nei soggetti sani sia nelle persone malate. Nei prossimi dieci anni, le terapie di sostituzione cellulare e di promozione della formazione di nuove cellule neurali, daranno l’opportunità di ottenere nuovi trattamenti per gli ictus cerebrali, i traumi del midollo spinale e la malattia di Parkinson. Immaginate un mondo ... nella depressione, sapremo sviluppare delle strategie preventive e dei trattamenti efficaci. Comprendere l’essenza dell’essere umano. Come funziona il cervello ? Oggi gli specialisti nelle neuroscienze sono in grado di porre le grandi domande sul funzionamento del cervello dell’uomo e di fornire le prime risposte. Quali sono i meccanismi e quali i circuiti nervosi che permettono all’essere umano di formare dei ricordi, di prestare attenzione, di percepire ed esprimere delle emozioni, di prendere delle decisioni, di utilizzare il linguaggio, di essere creativo ? Lo sforzo per sviluppare una teoria del funzionamento cerebrale, offrirà importanti opportunità per massimizzare il potenziale dell’essere umano. Gli strumenti La sostituzione cellulare. I neuroni adulti non possiedono la facoltà di riprodursi per sostituire le cellule perse in seguito a traumi o a malattie. Le tecniche che utilizzano la capacità delle cellule staminali neurali (i progenitori dei neuroni) di differenziarsi in neuroni, potrebbero rivoluzionare il trattamento delle patologie neurologiche. Il trapianto delle cellule staminali neurali, correntemente usato 115 nella sperimentazione animale, sarà ben presto applicato all’uomo. Controllare lo sviluppo di queste cellule, dirigerle verso le precise regioni del cervello e indurle a stabilire le connessioni appropriate, sono le molteplici questioni sulle quali la ricerca lavora senza sosta. I meccanismi di riparazione neurali. Utilizzando i meccanismi di riparazione propri del sistema nervoso, che in alcuni casi rigenerano i neuroni e in altri ristabiliscono i circuiti, il cervello ha la capacità di « riparare se stesso ». Rinforzare questa capacità significa ridare una speranza di guarigione alle persone vittime di traumi cranici o di lesioni del midollo spinale. Delle tecniche per arrestare o prevenire la neurodegenerazione. Molte patologie come la malattia di Parkinson, la malattia di Alzheimer, la corea Huntington o la sclerosi laterale amiotrofica, sono la conseguenza della degenerazione di una specifica popolazione di cellule in una determinata regione cerebrale. I trattamenti attuali agiscono unicamente sul sintomo, non alterano la perdita progressiva dei neuroni. Le nuove conoscenze sui meccanismi che sottendono la morte cellulare, offriranno metodi per prevenire la degenerazione cellulare e quindi arrestare la progressione di queste malattie. Le tecniche che modificano l’espressione genetica nel cervello. Nell’animale da laboratorio è possibile rinforzare oppure bloccare l’azione che certi geni specifici esercitano sul cervello. Attualmente le mutazioni genetiche che provocano nell’uomo malattie neurologiche come la corea di Huntington e la sclerosi laterale amiotrofica, sono sperimentate nei modelli animali per scoprire dei trattamenti capaci di prevenire i fenomeni di neurodegenerazione. Queste tecniche hanno fornito tra l’altro dati interessanti sul normale funzio116 namento del cervello durante lo sviluppo, l’apprendimento e la formazione dei ricordi. La modulazione dell’espressione dei geni è uno degli strumenti più efficaci per studiare i fenomeni normali e patologici del cervello, in futuro potrà essere utilizzata per curare numerosi disturbi cerebrali. I progressi delle tecniche di visualizzazione. Sono stati effettuati notevoli progressi nella visualizzazione strutturale e funzionale del cervello. Sviluppando delle tecniche in cui l’immagine della funzione cerebrale è dettagliata e rapida quanto le funzioni stesse, avremo a disposizione delle immagini in tempo reale. Queste tecnologie permetteranno allora ai ricercatori di osservare le regioni del cervello implicate nella riflessione, nell’apprendimento e nelle emozioni. Dispositivi elettronici capaci di sostituire le vie cerebrali non funzionali. Nel prossimo futuro sarà certamente possibile aggirare le vie cerebrali non funzionali utilizzando dei microelettrodi capaci di registrare l’attività cerebrale. Il loro compito sarà quello di convertire l’attività del cervello in segnali elettrici che saranno inviati al midollo spinale, ai nervi motori o direttamente ai muscoli. Dei trapianti costituiti da batterie di questi elettrodi collegati a dispositivi informatizzati e miniaturizzati, ridaranno speranza alle persone che hanno subito una lesione permettendo il recupero dell’integrità funzionale. I nuovi metodi della ricerca farmaceutica. I progressi realizzati nel campo della biologia strutturale, della genomica e della chimica computerizzata, permettono ai ricercatori di creare una quantità di molecole senza precedenti, molte delle quali possiedono un grande interesse clinico. In determinati casi le nuove tecniche di screening ad alto flusso, utilizzate in particolare dalle « gene chips » e da altre tecnologie, potranno diminuire il tempo che intercorre tra la scoperta di un nuovo principio Immaginate un mondo ... attivo e la sua valutazione clinica. In alcuni casi la riduzione di tempo passerà da diversi anni a qualche mese. 117 Members of EDAB AGID Yves Hôpital de la Salpêtrière, Paris, France AGUZZI Adriano University of Zurich, Switzerland CHERNISHEVA Marina University of St Petersburg, Russia ANTUNES João Lobo University of Lisbon, Portugal CHVATAL Alexandr Institute of Experimental Medicine ASCR, Prague, Czech Republic AUNIS Dominque INSERM Strasbourg, France CLARAC François CNRS, Marseille, France AVENDAÑO Carlos University of Madrid, Spain CLEMENTI Francesco University of Milan, Italy ANDERSEN Per University of Oslo, Norway BADDELEY Alan University of York, UK BARDE Yves-Alain University of Basel, Switzerland BELMONTE Carlos Instituto de Neurosciencias, Alicante, Spain. BENABID Alim-Louis INSERM and Joseph Fourier University of Grenoble, France BEN-ARI Yehezkel INSERM-INMED, Marseille, France COLLINGRIDGE Graham University of Bristol, UK; President of the British Neuroscience Association CUÉNOD Michel University of Lausanne, Switzerland CULIC Milka University of Belgrade, Yugoslavia DAVIES Kay University of Oxford, UK DEHAENE Stanislas INSERM, Paris, France BERGER Michael University of Vienna, Austria DELGADO-GARCIA José Maria Universidad Pablo de Olavide, Seville, Spain; President of the Spanish Neuroscience Society BERLUCCHI Giovanni Università degli Studi di Verona, Italy DICHGANS Johannes University of Tübingen, Germany BERNARDI Giorgio University Tor Vergata-Roma, Italy DOLAN Ray University College, London, UK BENFENATI Fabio University of Genova, Italy BERTHOZ Alain Collège de France, Paris, France BEYREUTHER Konrad University of Heidelberg, Germany BJÖRKLUND Anders Lund University, Sweden BLAKEMORE Colin Medical Research Council, UK BOCKAERT Joel CNRS, Montpellier, France BORBÉLY Alexander University of Zurich, Switzerland DUDAI Yadin Weizmann Institute of Science, Rehovot, Israel ELEKES Károly Hungarian Academy of Sciences, Tihany, Hungary; President of the Hungarian Neuroscience Society ESEN Ferhan Osmangazi University, Eskisehir, Turkey EYSEL Ulf Ruhr-Universität Bochum, Germany BRANDT Thomas University of Munich, Germany BRUNDIN Patrik Lund University, Sweden FERRUS Alberto Instituto Cajal, Madrid, Spain BUDKA Herbert University of Vienna, Austria FIESCHI Cesare University of Rome, Italy BUREŠ Jan Academy of Sciences, Czech Republic FOSTER Russell University of Oxford, UK BYSTRON Irina University of St Petersburg, Russia FRACKOWIAK Richard University College London, UK CARLSSON Arvid University of Gothenburg, Sweden FREUND Hans-Joachim University of Düsseldorf, Germany CATTANEO Elena University of Milan, Italy FREUND Tamás University of Budapest, Hungary CHANGEUX Jean-Pierre Institut Pasteur, Paris, France FRITSCHY Jean-Marc University of Zurich, Switzerland GARCIA-SEGURA Luis Instituto Cajal, Madrid, Spain KERSCHBAUM Hubert University of Salzburg, Austria GISPEN Willem University of Utrecht, The Netherlands KETTENMANN Helmut Max-Delbrück-Centre for Molecular Medicine, Berlin, Germany GJEDDE Albert Aarhus University Hospital, Denmark KORTE Martin Technical University Braunschweig, Germany GLOWINSKI Jacques Collège de France, Paris, France KOSSUT Malgorzata Nencki Institute of Experimental Biology, Warsaw, Poland GREENFIELD Susan The Royal Institution of Great Britain, London, UK KOUVELAS Elias University of Patras, Greece GRIGOREV Igor Institute of Experimental Medicine, St Petersburg, Russia GRILLNER Sten Karolinska Institute, Stockholm, Sweden KRISHTAL Oleg Bogomoletz Institute of Physiology, Kiev, Ukraine LANDIS Theodor University Hospital Geneva, Switzerland LANNFELT Lars University of Uppsala, Sweden HARI Riitta Helsinki University of Technology, Espoo, Finland LAURITZEN Martin University of Copenhagen, Denmark HARIRI Nuran University of Ege, Izmir, Turkey; President of the Turkish Neuroscience Society LERMA Juan Instituto de Neurociencias, CSIC-UMH, Alicante, Spain HERMANN Anton University of Salzburg, Austria LEVELT Willem Max-Planck-Institute for Psycholinguistics, Nijmegen, The Netherlands HERSCHKOWITZ Norbert University of Bern, Switzerland HIRSCH Etienne Hôpital de la Salpêtrière, Paris, France HOLSBOER Florian Max-Planck-Institute of Psychiatry, Munich, Germany HOLZER Peter University of Graz, Austria HUXLEY Sir Andrew University of Cambridge, UK INNOCENTI Giorgio Karolinska Institute, Stockholm, Sweden IVERSEN Leslie University of Oxford, UK IVERSEN Susan University of Oxford, UK JACK Julian University of Oxford, UK JEANNEROD Marc Institut des Sciences Cognitives, Bron, France LEVI-MONTALCINI Rita EBRI, Rome, Italy LIMA Deolinda University of Porto, Portugal LOPEZ-BARNEO José University of Seville, Spain MAGISTRETTI Pierre University of Lausanne, Switzerland MALACH Rafael Weizmann Institute of Science, Rehovot, Israel MARIN Oscar Universidad Miguel HernandezCSIC, Spain MATTHEWS Paul University of Oxford, UK MEHLER Jacques SISSA, Trieste, Italy MELAMED Eldad Tel Aviv University, Israel MONYER Hannah University Hospital of Neurology, Heidelberg, Germany JOHANSSON Barbro Lund University, Sweden MORRIS Richard University of Edinburgh, Scotland; President, Federation of European Neuroscience Societies KACZMAREK Leszek Nencki Institute of Experimental Biology, Warsaw, Poland. MOSER Edvard Norwegian University of Science and Technology, Trondheim, Norway KASTE Markku University of Helsinki, Finland KATO Ann Centre Médical Universitaire, Geneva, Switzerland NALECZ Katarzyna Nencki Institute of Experimental Biology, Warsaw, Poland KENNARD Christopher Imperial College School of Medicine, London, UK NEHER Erwin Max-Planck-Institute for Biophysical Chemistry, Göttingen, Germany NIETO-SAMPEDRO Manuel Instituto Cajal, Madrid, Spain SINGER Wolf Max-Planck-Institute for Brain Research, Frankfurt, Germany NOZDRACHEV Alexander State University of St Petersburg, Russia SMITH David University of Oxford, UK OERTEL Wolfgang Philipps-University, Marburg, Germany STEWART Michael The Open University, UK OLESEN Jes Glostrup Hospital, Copenhagen, Denmark; Chairman, European Brain Council ORBAN Guy Catholic University of Leuven, Belgium PÁRDUCZ Árpád Hungarian Academy of Sciences, Szeged, Hungary PEKER Gonul University of Ege Medical School, Izmir, Turkey; President, Turkish Neuroscience Society PETIT Christine Institut Pasteur & Collège de France, Paris, France POCHET Roland Université Libre de Bruxelles, Belgium POEWE Werner Universitätsklinik für Neurologie, Innsbruck, Austria POULAIN Dominique Université Victor Segalen, Bordeaux, France; President, French Neuroscience Society PROCHIANTZ Alain CNRS and Ecole Normale Supérieure, Paris, France PYZA Elzbieta Jagiellonian University, Krakow, Poland SPERK Günther University of Innsbruck, Austria STOERIG Petra Heinrich-Heine University, Düsseldorf, Germany STRATA Pierogiorgio University of Turin, Italy SYKOVA Eva Institute of Experimental Medicine ASCR, Prague, Czech Republic THOENEN Hans Max-Planck-Institute for Psychiatry, Martinsried, Germany TOLDI József University of Szeged, Hungary TOLOSA Eduardo University of Barcelona, Spain TSAGARELI Merab Beritashvili Institute of Physiology, Tblisi, Republic of Georgia VETULANI Jerzy Institute of Pharmacology, Krakow, Poland VIZI Sylvester Hungarian Academy of Sciences, Budapest, Hungary WALTON John Lord of Detchant University of Oxford, UK WINKLER Hans Austrian Academy of Sciences, Innsbruck, Austria RAFF Martin University College London, UK RAISMAN Geoffrey Institute of Neurology, University College London, UK RIBEIRO Joaquim Alexandre University of Lisbon, Portugal ZEKI Semir University College London, UK ZILLES Karl Heinrich-Heine-University, Düsseldorf, Germany RIZZOLATTI Giacomo University of Parma, Italy ROSE Steven The Open University, UK ROTHWELL Dame Nancy University of Manchester, UK RUTTER Sir Michael King’s College London, UK BAW Term Members AZOUZ Rony Ben-Gurion University of the Negev, Israel BATTAGLINI Paolo University of Trieste, Italy SAKMANN Bert Max-Planck-Institute for Medical Research, Heidelberg, Germany SCHWAB Martin University of Zurich, Switzerland CASTRO LOPES José University of Porto, Portugal CLARKE Stephanie University of Lausanne, Switzerland; President, Swiss Society of Neuroscience SEGAL Menahem Weizmann Institute of Science, Rehovot, Israel DEXTER David Imperial College, London, UK SEGEV Idan Hebrew University, Jerusalem, Israel DE ZEEUW Chris Department of Neuroscience, Erasmus MC, Rotterdam, The Netherlands SHALLICE Tim University College London, UK DIETRICHS Espen University of Oslo, Norway GRAUER Ettie Israel Institute of Biological Research, Israel HAGOORT Peter F.C. Donders Centre for Cognitive Neuroimaging, The Netherlands LYTHGOE Mark University College London, UK MALVA João University of Coimbra, Portugal MOHORKO Nina University of Ljubljana, Slovenia MOLDOVAN Mihai The Panum Institute, University of Copenhagen, Denmark NALEPA Irena Polish Academy of Sciences, Warsaw, Poland HUCHO Ferdinand Freie Universität Berlin, Germany; President, European Society for Neurochemistry JOËLS Marian University of Amsterdam, The Netherlands; President, The Dutch Neurofederation KHECHINASHVILI Simon Beritsashvili Institute of Physiology, Tblisi, Republic of Georgia; President, Georgian Neuroscience Association KOSTOVIC Ivica Institute for Brain Research, Zagreb, Croatia; President, Croatian Society for Neuroscience REPOVS Grega Washington University, St Louis, USA MENDLEWICZ Julien ULB Erasme Hospital, Brussels, Belgium; President, European College of Neuropsycopharmacology SKALIORA Irini Biomedical Research Foundation of the Academy of Athens, Greece PITKÄNEN Asla University of Kuopio, Finland; FENS Secretary General STAMATAKIS Antonis University of Athens, Greece STOOP Ron University of Lausanne, Switzerland PRZEWLOCKI Ryszard Polish Academy of Sciences, Krakow, Poland; President, Polish Neuroscience Society ZAGREAN Ana-Maria Carol Davila University of Medicine and Pharmacy, Bucharest, Romania ROTSHENKER Shlomo The Hebrew University of Jerusalem; President, Israel Society of Neuroscience ZAGRODZKA Jolanta Nencki Institute of Experimental Biology, Warsaw, Poland SAGVOLDEN Terje University of Oslo, Norway; President, Norwegian Neuroscience Society Federation of European Neuroscience Societies Presidents BÄHR Mathias University Hospital Göttingen, Germany; President, German Neuroscience Society BARTH Friedrich G. Austrian Academy of Sciences, Austria; President, Austrian Neuroscience Society STENBERG Tarja Institute of Biomedicine/ Physiology Biomedicum, Helsinki, Finland; President, Finnish Brain Research Society STYLIANOPOULOU Fotini University of Athens, Greece; President, Hellenic Society for Neuroscience SYKA Josef Academy of Sciences, Prague, Czech Republic; President, Czech Neuroscience Society ZAGREAN Leon Carol Davila University of Medicine, Bucharest, Romania; President, National Neuroscience Society of Romania BOER Gerard Netherlands Institute for Brain Research, The Netherlands; President, Dutch Neurofederation BRESJANAC Marja Institute of Pathophysiology, Ljubljana, Slovenia; President, Slovenian Neuroscience Association (SINAPSA) DE OLIVEIRA Catarina Resende University of Coimbra, Portugal; President, Portuguese Society for Neuroscience DE SCHUTTER Erik University of Antwerp, Belgium; President, Belgian Society for Neuroscience DI CHIARA Gaetano University of Cagliari, Italy; President, Italian Society for Neuroscience (SINS) FRANDSEN Aase Copenhagen University Hospital, Denmark; President, Danish Society for Neuroscience January 2007 A Dana Alliance for the Brain Inc Publication prepared by EDAB, the European subsidiary of DABI Stampato in Svizzera 6.2007