PROGRESSI DELLA SCIENZA
CHE STUDIA IL CERVELLO
Aggiornamento 2007
La neuroetica evolve
Saggio di Steven E. Hyman, MD
PROGRESSI DELLA SCIENZA
CHE STUDIA IL CERVELLO
La neuroetica evolve
Saggio di Steven E. Hyman, MD
Aggiornamento 2007
THE EUROPEAN DANA ALLIANCE
FOR THE BRAIN EXECUTIVE COMMITTEE
William Safire, Chairman
Edward F. Rover, President
Colin Blakemore, PhD, ScD, FRS, Vice Chairman
Pierre J. Magistretti, MD, PhD, Vice Chairman
Carlos Belmonte, MD, PhD
Anders Björklund, MD, PhD
Joël Bockaert, PhD
Albert Gjedde, MD, FRSC
Sten Grillner, MD, PhD
Malgorzata Kossut, MSc, PhD
Richard Morris, Dphil, FRSE, FRS
Dominique Poulain, MD, DSc
Wolf Singer, MD, PhD
Piergiorgio Strata, MD, PhD
Eva Syková, MD, PhD, DSc
Executive Committee
Barbara E. Gill, Executive Director
La European Dana Alliance for the Brain (EDAB) riunisce circa 186 tra i più
grandi specialisti delle neuroscienze di 27 paesi, compresi 5 premi Nobel,
che si sono dati come obbiettivo di sensibilizzare il pubblico sull’importanza
della ricerca sul cervello. Fondata nel 1997, questa organizzazione è attiva
a vari livelli dal laboratorio di ricerca fino al pubblico.
Per ulteriori informazioni :
The European Dana Alliance for the Brain
Dr.essa Béatrice Roth, PhD
Centre de Neurosciences Psychiatriques
Site de Cery
1008 Prilly / Lausanne
e-mail : [email protected]
Copertina :
Jennifer Suehs
PROGRESSI DELLA SCIENZA
CHE STUDIA IL CERVELLO
Aggiornamento 2007
La neuroetica evolve
5
11
Introduzione
di David C. Van Essen, PhD
La neuroetica: ha cinque anni e continua a svilupparsi
di Steven E. Hyman, MD
I progressi della ricerca sul cervello nel 2006
17
Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia
25
I disturbi del movimento
33
Le lesioni del sistema nervoso
39
Neuroetica
47
Le malattie neuroimmunologiche
57
Il dolore
63
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
73
I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee
81
Cellule staminali e neurogenesi
91
I disturbi del pensiero e della memoria
99
Referenze
111
Immaginate un mondo...
Introduzione
di David C. Van Essen, PhD
Presidente della Society for Neuroscience
I
l presente opuscolo vi offre un aggiornamento sulla ricerca nel campo delle neuroscienze. Nelle pagine che seguono sono presentate oltre un centinaio di recenti scoperte
che illustrano il contributo della ricerca per il
miglioramento della diagnosi, dei trattamenti e
della comprensione di numerose malattie e
gravi disturbi del sistema nervoso centrale.
Ogni capitolo approfondisce una determinata
categoria di disturbi, mentre il capitolo dedicato
alla neuroetica analizza in modo trasversale le
questioni comuni all’insieme della ricerca sul cervello. Le scoperte citate, delle
vere «pepite di neuroscienze», così come i temi più generali che emergono
da questo aggiornamento, costituiscono un ritaglio significativo di quanto è
oggi fatto per comprendere il cervello umano, in buona salute oppure malato.
Il cervello umano è una struttura incredibilmente complessa, che elabora
l’informazione e controlla ogni aspetto del nostro comportamento. Con i
suoi intricati circuiti neuronali costituiti da miliardi di neuroni e miliardi di
miliardi di sinapsi, è l’organo più complicato del corpo umano.
La complessità si manifesta a diversi livelli. A livello molecolare e cellulare,
implica una complicata coreografia di segnali molecolari che trasmettono
l’informazione da una cellula all’altra e regola l’intensità di questi segnali
durante lo sviluppo e l’apprendimento. A livello di sistema coinvolge una
sinfonia di diversi pattern di attività, basati su migliaia di strutture cerebrali
differenti che comunicano attraverso decine di migliaia di vie anatomiche
diverse. Grazie alla complessità cerebrale esiste una grande variabilità individuale delle strutture e delle funzioni cerebrali, che spiega l’enorme diversificazione delle personalità e dei mezzi intellettuali dell’essere umano.
Data questa sbalorditiva complessità – infinitamente più grande di quella
di una navetta spaziale o di un supercomputer – non stupisce che siano
5
così numerose le disfunzioni che possono colpire il sistema nervoso. I disturbi e le malattie identificate in questo ambito sono più di mille e la lista
continua ad allungarsi. Le patologie più frequenti come la malattia di
Alzheimer, la schizofrenia, l’ictus cerebrale, i disturbi dell’apprendimento,
colpiscono una parte importante della popolazione e rappresentano un
importante fardello per la società in termini non solo economici, ma anche
di preoccupazioni e sofferenza umana.
La speranza di vita della popolazione continua ad aumentare; senza grandi
progressi nella prevenzione e nel trattamento dei disturbi del sistema nervoso, il carico di queste patologie continuerà a crescere. Per accelerare il
corso della ricerca occorre una conoscenza approfondita dei meccanismi
fisiologici e patologici del funzionamento e della plasticità del cervello. I
progressi che ne deriveranno, alcuni dei quali sono segnalati in questo
aggiornamento, permetteranno di utilizzare al meglio le normali capacità
del cervello di rigenerarsi, ripararsi ed adattarsi alle lesioni e alle malattie.
I progressi realizzati nel 2006 dalle neuroscienze offrono molti spunti. Uno
tra i molti è il miglioramento della caratterizzazione dei fattori genetici che
contribuiscono alla molteplicità dei disturbi neurologici e psichiatrici, che
va dalla delucidazione del ruolo svolto da specifici geni nella forma familiare della malattia di Parkinson fino all’identificazione dei geni implicati
nell’ansia in un modello murino 1-3.
Un’altra strategia efficace emersa dalle ricerche è stata quella di combinare
le conoscenze su un gene con un altro approccio sperimentale come ad
esempio il neuroimaging. Un esempio interessante illustrato in questo
aggiornamento implica l’uso della risonanza magnetica per caratterizzare
le anomalie cerebrali (strutturali e funzionali) in individui portatori di una
variante genetica associata a dei comportamenti violenti, ma senza antecedenti psichiatrici 4. Grazie al neuroimaging è stato possibile evidenziare delle anomalie strutturali nel cervello di bambini con disturbi da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) 5 e delle anomalie funzionali nei
bambini autistici 6.
6
Le patologie neurodegenerative come la malattia di Parkinson, la corea
di Huntington, la malattia di Alzheimer, la sclerosi laterale amiotrofica
(SLA), ecc., continuano a polarizzare le risorse di molti laboratori. Grazie
ai progressi ottenuti dalla biologia cellulare è possibile comprendere meglio
il funzionamento delle cellule, ad esempio come una configurazione
Introduzione
molecolare scorretta alteri il normale funzionamento di una proteina e
come la cellula degeneri quando i meccanismi fisiologici che dovrebbero
correggere gli errori di configurazione proteica sono sregolati. Una soluzione possibile a questo problema consiste nell’utilizzare dei trattamenti
che proteggono i neuroni dai danni e dalla morte 7.
L’interazione tra sistema immunitario e cervello alimenta la ricerca. Nel
cervello sano i due sistemi interagiscono reciprocamente, numerosi lavori
realizzati nel 2006 hanno dimostrato che quando il sistema immunitario
attacca il cervello gli effetti sono devastanti. La risposta infiammatoria
acuisce i danni neuronali provocati dai processi neurodegenerativi della
malattia di Alzheimer, la malattia di Parkinson, la corea di Huntington e la
SLA. La strategia clinica che ne consegue è la somministrazione di nuovi
farmaci antinfiammatori per proteggere i neuroni delle persone affette da
queste malattie.
Nelle patologie autoimmuni come la sclerosi multipla, le cellule gliali diventano un obiettivo del sistema immunitario. Le scoperte realizzate l’anno
scorso hanno fornito importanti informazioni sulle proteine chiave che
mediano questo attacco immunitario e hanno identificato un anticorpo
marker che permette di regolare la somministrazione di farmaci che contrastano queste malattie 8, 9.
Per certi scienziati la sostituzione dei neuroni costituisce una sorta
di ricerca del santo Graal, tanto più che la neurogenesi nell’adulto
esiste in numerose altre specie.
Nel cervello umano i neuroni distrutti sono insostituibili, nell’adulto la neurogenesi, cioè la formazione dei nuovi neuroni, non esiste, ad eccezione di
alcune ristrette regioni cerebrali. Per certi scienziati la possibilità di sostituire i neuroni costituisce una sorta di ricerca del santo Graal, tanto più che
la neurogenesi nell’adulto esiste in numerose altre specie. Le cellule
cigliate della coclea nell’orecchio sono un obiettivo interessante, poiché
costituiscono parte di un circuito neuronale relativamente semplice e i
disturbi dell’udito sono frequenti ed invalidanti. I progressi realizzati nella
caratterizzazione dei geni da cui dipende la proliferazione di queste
cellule, permettono di sperare in nuovi sviluppi 10. I ricercatori continuano
a studiare i meccanismi che regolano la neurogenesi nell’ippocampo e in
altre regioni del cervello dove avviene spontaneamente. Esplorano inoltre
l’uso di cellule staminali per promuovere la neurogenesi a livello del
cervello e del midollo spinale 11, 12.
7
Un altro tema studiato è il modo con cui i progressi realizzati nella diagnosi
e nel trattamento delle malattie cerebrali possono creare dei problemi con
ricadute sul piano etico e sulla politica della salute. I membri della Dana
Alliance for Brain Initiatives hanno un ruolo importante nella neuroetica.
L’articolo sulla neuroetica di Steven Hyman ripercorre la storia di questa
giovane disciplina e rileva gli interrogativi ai quali essa è confrontata. I differenti temi sono ripresi nel capitolo della neuroetica, che affronta una
serie di problemi e controversie come la privacy cerebrale, il cervello incosciente e le implicazioni delle protesi neurali.
Quale direzione prenderà la ricerca sul cervello? Questo ambito
sarà determinato da tre tendenze.
Quale direzione prenderà la ricerca sul cervello? Questo ambito sarà determinato da tre tendenze:
La tecnologia guiderà la ricerca. La maggior parte delle scoperte elencate
in questo aggiornamento sarebbe stata impossibile una decina di anni fa a
causa dell’inadeguatezza dei metodi sperimentali. Degli esempi: la risonanza magnetica o i metodi per determinare rapidamente la sequenza di
un gene non esistevano o erano insufficienti. Ricercatori e ingegneri, universitari o privati, lavorano senza sosta per preparare diversi metodi che
permetteranno di ottenere e di analizzare le informazioni concernenti il
cervello. Un impegno continuo è fondamentale per accelerare il ritmo
delle scoperte.
Laboratorio, letto del malato, laboratorio. È ormai acquisita da tempo
l’idea che le scoperte della ricerca fondamentale e translazionale debbano
tradursi in benefici per i malati. Ora è riconosciuto come indispensabile che
l’informazione vada anche in senso inverso, dalla clinica alla ricerca fondamentale. Studiando le malattie e i loro meccanismi, i neuroscienziati possono comprendere meglio i processi alla base delle funzioni e dello sviluppo cerebrale. Per esempio, alle quattro Presidential Lectures presentate
durante la conferenza annuale della Society for Neuroscience del 2006, i
partecipanti hanno posto l’accento sui benefici tratti dall’interazione bidirezionale tra la ricerca fondamentale e le neuroscienze cliniche.
8
A livello personale, questa prospettiva trova in me un’eco profonda, visto
che recentemente ho modificato i miei programmi di ricerca. Qualche
anno fa ero un purista della ricerca di base, oggi il mio laboratorio lavora
su disturbi neurologici e psichiatrici specifici utilizzando degli strumenti
L’esplosione dell’informazione. Gli studi descritti in questo aggiornamento sono solamente la punta dell’iceberg sempre più grande, delle
informazioni che emergono annualmente dalle neuroscienze. Tuttavia solo
una parte delle informazioni è pubblicata sui giornali o messa a disposizione nelle banche dati e spesso i dati non si trovano facilmente, ma i
prossimi dieci anni ci riserveranno sorprese spettacolari. Grazie ai progressi della tecnologia e dell’informazione i ricercatori, i clinici e il pubblico
potranno procurarsi una quantità formidabile d’informazioni sul sistema
nervoso, con una facilità, una comodità e una rapidità che sfideranno
qualsiasi immaginazione.
Introduzione
innovativi per l’analisi delle strutture e delle funzioni della corteccia cerebrale. Il più importante tema di ricerca per la conferenza annuale della
Society for Neuroscience è la malattia, a dimostrazione dell’impegno crescente della comunità neuroscientifica.
9
La neuroetica: ha cinque anni
e continua a svilupparsi
di Steven E. Hyman, MD
I
l cervello costituisce il fulcro della nostra umanità ed è sede delle facoltà più preziose, le
malattie neurologiche sono quindi particolarmente devastanti e sono oggetto d’intensi
sforzi da parte dei ricercatori. Allo stesso
tempo, la scienza genera preziose conoscenze
sul pensiero, sulle emozioni e sul comportamento dell’uomo malato e in buona salute. Le
nuove tecnologie che permettono di osservare
l’attività cerebrale e di agire sulle funzioni del
cervello, sollevano delicate questioni etiche e determinate scelte politiche.
Attualmente per diagnosticare una malattia è possibile contare principalmente sull’osservazione clinica, ma il progresso dell’imaging cerebrale
avvicina il giorno in cui i medici disporranno di elementi più oggettivi. Tra
una decina di anni i dati forniti dalla genetica e dalla biologia molecolare
metteranno a disposizione dei trattamenti per rallentare l’evoluzione delle
malattie neurodegenerative come l’Alzheimer o il morbo di Parkinson.
Attraverso i progressi acquisiti dalla genetica o dalle neuroscienze cognitive e sociali, gradualmente emergono approcci innovativi per il completo
ristabilimento psichico e funzionale dei pazienti affetti da schizofrenia e
autismo. I progressi realizzati nell’interfaccia tra le neuroscienze e l’ingegneria annunciano il momento in cui, grazie alle interazioni tra cervello e
computer, le persone vittime di paralisi ritroveranno un controllo delle loro
capacità motorie. Le prime esperienze realizzate con la stimolazione cerebrale profonda, rivelano che una migliore comprensione dei circuiti cerebrali permetterà di curare con più efficacia la depressione, i disturbi d’ansia
e altre patologie della sfera emotiva e cognitiva.
Curare le malattie del cervello è una tra le maggiori ambizioni della nostra
società, ma le conquiste sono tortuose. Il cervello è un organo complesso,
11
e risulta molto difficile trovare un modello animale adeguato per i processi
cognitivi superiori. La modalità per trovare delle soluzioni contro le malattie, come stimolare i giovani ricercatori ad impegnarsi in questa lotta e
come dotarli dei mezzi necessari, non sono le uniche sfide alle quali
siamo confrontati.
Quest’anno, l’aggiornamento annuale della Dana Alliance sui progressi
della ricerca sul cervello, dedica per la seconda volta uno spazio speciale
alla neuroetica, la prima risale al 2003. I membri della Alliance si sono impegnati sulle questioni etiche poste dalle neuroscienze con articoli o conferenze. I temi generati dalla ricerca sul cervello, dal comportamento alla psiche, sono stati approfonditi frammentariamente in diverse occasioni,
spesso in piccoli gruppi di scienziati, eticisti ed altri intellettuali. Nel maggio
del 2002, a San Francisco, la Dana foundation ha promosso una conferenza
intitolata «Neuroethics: Mapping the Field», che è stata l’occasione per una
presa di coscienza intensa e duratura sulle questioni raccolte con il termine
più generico di neuroetica.
Da allora, un numero crescente di seminari, articoli e libri alimentano
questo dinamico campo interdisciplinare grazie al contributo di diverse
comunità di scienziati, filosofi, medici, giuristi, sociologi, politologi e politici. Nel maggio del 2006 ad Asilomar, in California, si è tenuto un convegno durante il quale è stata creata una nuova società di neuroetica, la
Neuroethics Society (www.neuroethicssociety.org).
L’obiettivo di questa nuova società è quello di costituire una piattaforma di
scambio per il dialogo interdisciplinare, che affinandosi e approfondendosi
permetterà di affrontare i problemi più incalzanti.
12
Questa nuova società non è l’unica a promuovere l’argomento, l’American
Association for the Advancement of Science presenta regolarmente alle
sue riunioni dei temi di neuroetica. Dal 2003, la Society for Neuroscience
nel corso del suo simposio annuale, prevede una conferenza sulla neuroetica, e le ha consacrato tre simposi, di cui uno in ottobre 2006, incentrato
sui problemi internazionali. In questo appuntamento sono stati discussi: la
formazione di volontari da parte dei ricercatori, la sensibilizzazione delle
comunità nei paesi poveri e l’elaborazione delle direttive etiche. Nel 2006
anche la Cognitive Neuroscience Society e l’Association for Psychological
Science ha organizzato un simposio sulla neuroetica, soggetto che negli
ultimi due anni è stato affrontato anche dalla Wellcome Trust Bioethics
Le pubblicazioni in questo ambito aumentano lentamente, anche se occorre
rilevare che spesso i nuovi settori interdisciplinari riscontrano questo tipo
di difficoltà per due ragioni: la prima è che i lavori proposti non si allineano
perfettamente con le discipline che controllano le riviste scientifiche;
la seconda consiste nel fatto che quando un ambito di lavoro richiede
dei contributi significativi da diverse discipline, il materiale è difficile da
raccogliere. Gli specialisti delle neuroscienze, i giuristi e i filosofi non sanno
sempre dove trovare gli articoli di cui necessitano.
Da cui gli sforzi per rimediare a questa lacuna. La Neuroethics Society, ha
siglato un accordo con l’American Journal of Bioethics che prevede dei
numeri speciali dell’American Journal of Bioethics – Neuroscience sulla
neuroetica. La rivista Journal of Cognitive Neuroscience attribuirà a questo
ambito uno spazio più rilevante.
Ma la neuroetica è veramente necessaria? Non è sufficiente la bioetica il
cui ambito è più vasto? È questa una questione ricorrente a proposito di
tale giovane disciplina. I numerosi intellettuali che s’interessano alla neuroetica sono solidamente legati alla bioetica, molte delle questioni trattate
dalla neuroetica appartengono all’ambito della bioetica, un esempio è il
consenso informato per le persone affette da disturbi cognitivi o in fin di vita.
La neuroetica: ha cinque anni e continua a svilupparsi
Summer School. L’American Academy of Arts and Sciences ha organizzato
all’inizio del 2007 un simposio sull’uso del neuroimaging nell’ambito della
detezione della verità.
Secondo il mio parere, la neuroetica è nata in ragione
del particolare statuto del cervello.
La ricerca sul cervello richiede tuttavia di un successivo passo; secondo il
mio parere, la neuroetica è nata in ragione del particolare statuto del cervello. Un’attenta considerazione delle implicazioni della ricerca sul cervello
oltrepassa gli abituali limiti della bioetica.
L’uso dell’imaging cerebrale per ricostruire il passato recente di un individuo o per sondarne la sincerità pone la questione bioetica del rispetto della
privacy, ma interpella anche le forze dell’ordine e della sicurezza, che sono
poco presenti nel dibattito della bioetica.
Se l’obiettivo è modificare o controllare le funzioni cerebrali, i problemi
etici sono differenti da quelli che si pongono quando per ragioni analoghe
13
s’interviene sui reni o sul cuore, proprio perché s’interferisce con l’organo
responsabile della nostra umanità e la nostra autonomia. Ciò che contraddistingue la neuroetica, è che il cervello non è solo l’oggetto della riflessione etica, ma costituisce la base stessa dei principi etici.
Ciò che contraddistingue la neuroetica, è che il cervello non
è solo l’oggetto della riflessione etica, ma costituisce la base stessa
dei principi etici.
Quest’ultimo punto è controverso per tutti coloro che credono che esista
una legge naturale oppure dei precetti divini nei principi etici. In un paese
come gli Stati Uniti in cui la religione occupa un posto importante nella vita
degli individui, questa discussione è indispensabile. Oggi cominciamo a
cogliere i fondamenti neuronali dell’interazione sociale, come per il pregiudizio e la fiducia, ed emerge la possibilità d’influenzare queste interazioni
con dei farmaci o con la stimolazione elettrica. Si pongono quindi delle
questioni fondamentali sull’origine dei nostri sistemi etici. Sono questi il
frutto dei principi razionali tramandati dalla notte dei tempi oppure sono il
prodotto contingente di un cervello in continua evoluzione? O entrambe le
cose? Se l’uomo intende gestire il progresso scientifico nel modo più
adatto, la neuroetica non sarà mai di troppo.
14
I progressi
della ricerca
sul cervello
nel 2006
Le patologie che appaiono
nel corso dell’infanzia
Anomalie cerebrali nell’autismo
18
Novità sull’ADHD
21
Paralisi cerebrale infantile, il ruolo delle infezioni
23
17
N
el corso del 2006, molti studi sulle malattie che appaiono nel corso dell’infanzia riguardavano le regioni cerebrali che contribuiscono ad aumentare la dimensione del cervello nei pazienti affetti dai disturbi di tipo autistico. I ricercatori hanno descritto alcune differenze neuroanatomiche e
biochimiche che potrebbero essere responsabili delle difficoltà cognitive
nei bambini affetti dai disturbi da deficit di attenzione e iperattività. Sono
inoltre emerse nuove evidenze sul ruolo svolto dalle infezioni virali nei
disturbi dello sviluppo come la paralisi cerebrale infantile.
Anomalie cerebrali nell’autismo
Le patologie di tipo autistico fanno parte dei disturbi generalizzati dello sviluppo, i bambini che ne sono affetti hanno grandi difficoltà di comunicazione e
manifestano un ripiego su se stessi. L’esatta origine di questi disturbi è sconosciuta, gli scienziati hanno evidenziato diverse anomalie neurologiche che potrebbero contribuire al ripiego sociale e ai deficit cognitivi che li caratterizzano.
Alcuni ricercatori hanno messo in relazione questi disturbi con un’attività
anormale in determinate regioni cerebrali. Il gruppo diretto da Marco Iacoboni, neuroscienziato presso l’Università della California a Los Angeles, ha
evidenziato una ridotta attività neuronale del giro frontale inferiore nei
bambini affetti da disturbi di tipo autistico quando essi svolgono attività
basate sull’interazione sociale 1.
In uno studio pubblicato dalla rivista Nature Neuroscience, il gruppo di
Iacoboni tramite la risonanza magnetica funzionale, ha paragonato l’attività
neuronale di 10 bambini con una diagnosi di tipo autistico «high-functioning», che riescono cioè a condurre una vita quasi normale, con quella di
10 bambini dotati di uno sviluppo normale, mentre osservano e cercano di
imitare delle emozioni con il volto. Il grado di riduzione dell’attività neuronale era correlato con la gravitá dei sintomi.
I ricercatori sostengono che il giro frontale inferiore faccia parte del sistema
dei neuroni specchio, importante per la percezione delle espressioni del
viso che traducono le emozioni e che permette di provare empatia. La disfunzione di questo sistema potrebbe dare origine alle difficoltà di socializzazione osservate nei bambini autistici.
18
Anche le alterazioni delle dimensioni cerebrali sono state correlate con
l’autismo. Nell’ambito di uno studio pubblicato nell’American Journal of
Non è ancora noto in che modo lo spessore della corteccia cerebrale influisce sulle singole cellule, i ricercatori ritengono che esso potrebbe indicare
il livello di arborizzazione cellulare, cioè il grado di sviluppo delle connessioni tra cellula e cellula. Nel corso dello sviluppo normale del cervello c’è
una sovrapproduzione massiccia di cellule e di sinapsi, alla quale subentra
per eliminazione competitiva, la soppressione dei neuroni e delle sinapsi
eccedenti. Questa «potatura» potrebbe essere all’origine dell’assottigliamento della corteccia cerebrale.
Esaminando le immagini cerebrali, i ricercatori hanno scoperto un aumento
dello spessore corticale nei lobi temporali e parietali dei bambini autistici,
che almeno in parte potrebbe essere responsabile dell’aumento della
dimensione cerebrale osservata negli individui affetti da questa patologia.
Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia
Psychiatry, un gruppo di ricercatori diretto da Antonio Hardan, psichiatra
alla Stanford University, ha utilizzato la risonanza magnetica per comparare
la dimensione della corteccia cerebrale (la parte più esterna del cervello) di
17 bambini affetti da autismo e 14 bimbi in buona salute. Lo spessore della
corteccia cerebrale costituisce un indicatore sensibile del normale sviluppo
del cervello 2.
Gli autori s’interessano ai meccanismi che controllano l’assottigliamento della
corteccia cerebrale, incluse le influenze genetiche. Studiando i geni implicati
in questo meccanismo sperano di scoprire le cause dell’ispessimento delle
strutture cerebrali osservate nei soggetti autistici, per creare nuovi trattamenti.
Secondo uno studio apparso nella rivista Archives of General Psychiatry,
l’accrescimento dell’amigdala sembra contribuire all’aumento della dimensione del cervello nei pazienti autistici 3. L’amigdala è una struttura cerebrale molto importante per il funzionamento socio-emotivo dell’individuo.
Gli autori di questo studio, diretto da Stephen Dager, ricercatore presso
l’Università di Washington, tramite la risonanza magnetica hanno misurato
la dimensione dell’amigdala di 45 bimbi d’età da 3 a 4 anni, affetti da disturbi di tipo autistico.
Gli scienziati hanno evidenziato un nesso tra l’accrescimento dell’amigdala, in particolare l’amigdala destra, e la gravità dei sintomi. Riesaminando
dopo tre anni gli stessi soggetti, i ricercatori hanno osservato che le competenze linguistiche e sociali erano meno sviluppate nei bambini che presentavano un accrescimento marcato dell’amigdala destra.
19
Esplorazione dell’autismo
Il ricercatore Stephen Dager, in primo piano, osserva uno scan cerebrale. Egli conduce
con Dennis Shaw uno studio sulla dimensione dell’amigdala nei bambini affetti da
disturbi di tipo autistico.
Questi risultati dimostrano l’implicazione dell’amigdala nei disturbi del
comportamento osservati nell’autismo e indicano la taglia dell’amigdala
destra come segnale premonitore dell’evoluzione clinica della malattia.
In un recente articolo pubblicato in Neurology, gli stessi ricercatori sostengono che l’invalidità dei bambini autistici paragonata ai bimbi affetti da un
ritardo dello sviluppo, potrebbe essere attribuita ad un esagerato «rilassamento trasversale» delle cellule del cervello 4. Il rilassamento trasversale
corrisponde alla misura del grado di connessione tra le cellule cerebrali; è
realizzata con la risonanza magnetica, determinando la capacità delle cellule cerebrali di spostare il liquido che le avvolge. Questa tecnica è utilizzata per determinare la maturazione del cervello.
20
Lo studio ha coinvolto 60 bambini autistici, 16 con un ritardo dello sviluppo e 10 bimbi dotati di sviluppo normale d’età compresa tra 2 e 4 anni.
I ricercatori hanno constatato che i legami tra le cellule erano molto più
stretti nei bambini con uno sviluppo normale rispetto ai bambini autistici,
L’autismo resta una patologia misteriosa. Gli studi realizzati con l’imaging,
sembrano indicare delle anomalie nella formazione delle strutture neuronali che potrebbero avere luogo durante i primi stadi della gestazione.
Novità sull’ADHD
Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), è una patologia
dello sviluppo che compromette i risultati scolastici e professionali, incrementa il rischio di depressione ed espone all’abuso di sostanze e agli
incidenti, talvolta mortali. L’ADHD è caratterizzato da agitazione e da
riduzione dell’attenzione che sembrano essere dovuti ad un deficit dei
meccanismi cerebrali che controllano l’impulsività.
A lungo gli scienziati hanno ipotizzato che proprio l’insufficiente
concentrazione di dopamina fosse l’origine dell’ADHD.
Recenti scoperte confermano questa ipotesi.
Per curare la maggior parte dei casi di ADHD esistono farmaci efficaci che
aumentano la concentrazione cerebrale di un neurotrasmettitore inibitore, la dopamina. A lungo gli scienziati hanno ipotizzato che proprio
l’insufficiente concentrazione di dopamina fosse l’origine dell’ADHD.
Recenti scoperte confermano questa ipotesi, indicando i «trasportatori
cerebrali della dopamina» come responsabili di questa disfunzione. I
trasportatori captano troppa dopamina, impedendo che questo neurotrasmettitore, una volta liberato, svolga la sua funzione sulle cellule
del cervello.
Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia
i soggetti affetti da ritardo dello sviluppo hanno ottenuto dei risultati
intermedi.
Un gruppo di ricercatori diretto da Donald Gilbert, neuropediatra al Cincinnati Children’s Hospital Medical Center, ha studiato la modalità con la
quale la corteccia motoria inibisce i movimenti in 16 bambini e adolescenti
affetti da ADHD, prima e dopo la somministrazione di farmaci che amplificano la disponibilità cerebrale della dopamina 5.
L’incremento di dopamina riduce l’attività della corteccia motoria di tutti i
bambini. L’effetto è più marcato nei bambini portatori di una variante genetica denominata DAT1, che provoca un’attività eccessiva dei trasportatori
di dopamina e come conseguenza diminuisce la disponibilità di questo
neurotrasmettitore. Le alterazioni genetiche dei trasportatori di dopamina
potrebbero essere implicate nella genesi dell’ADHD.
21
Schiaccia!
Non Schiacciare!
Cambia!
Attivazione cerebrale nell’ADHD
I bambini affetti da disturbi da deficit di attenzione e iperattività dimostravano una
ridotta attività nella corteccia prefrontale mediana quando dovevano inibire una risposta
motoria (immagine di sinistra). Lo stesso avveniva (immagine di destra), nelle regioni
frontali e temporali del cervello quando dovevano cambiare compito.
Katya Rubia e i suoi colleghi dell’istituto di psichiatria del King’s College a
Londra hanno osservato lo stesso tipo di difetto di inibizione motoria in
19 ragazzi che non avevano mai assunto dei farmaci per l’ADHD 6. Questi
risultati sono significativi, perchè gli autori fanno notare che i dati realizzati
in precedenza potevano essere falsati dal fatto che i bambini assumevano
farmaci per l’ADHD.
Utilizzando la risonanza magnetica funzionale, il gruppo di Rubia ha evidenziato un’attivazione cerebrale anormale in questi bambini e adolescenti
che non hanno mai assunto dei farmaci, quando realizzavano dei compiti
che implicavano l’inibizione motoria o quando dovevano passare da un
procedimento ad un altro (ciò che richiede una flessibilità cognitiva). I dati
suggeriscono che non esiste un legame tra la ridotta-attivazione osservata
in questi pazienti e l’esposizione prolungata a farmaci stimolanti. In
entrambi i casi è stata osservata una ridotta-attivazione nella regione prefrontale del cervello, così come nelle regioni temporali e parietali, aree che
non erano mai state messe in relazione con l’ADHD.
22
Lo spessore della corteccia è un indicatore dello sviluppo cerebrale studiato sia nell’ADHD sia nell’autismo. I ricercatori del National Institute of
Lo spessore della corteccia è un indicatore dello sviluppo cerebrale
studiato sia nell’ADHD sia nell’autismo.
L’analisi di questi immagini ha evidenziato nei bambini affetti da ADHD un
assottigliamento della corteccia nelle regioni del cervello che svolgono
un ruolo importante nel controllo dell’attenzione. Immagini acquisite in
momenti successivi hanno mostrato nei bambini con i sintomi più gravi,
una corteccia particolarmente sottile nella parte anteriore del cervello,
vicino ad una regione che oltre agli aspetti dell’attenzione controlla l’inibizione di comportamenti inadeguati.
Inoltre i bambini con una forma meno severa di ADHD presentano dei
cambiamenti ben caratterizzati della corteccia parietale destra, che controlla alcuni degli aspetti fondamentali dell’attenzione. Alla fine dell’adolescenza, non c’era più differenza di spessore tra la loro corteccia cerebrale
e quella dei bambini sani. Questa «normalizzazione» non è stata evidenziata nei bambini con dei gravi deficit. I risultati non sono stati influenzati
dal fatto che i bambini assumessero o no dei farmaci.
Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia
Mental Health diretti da Philip Shaw, hanno misurato lo spessore della
corteccia cerebrale in 166 bambini affetti da ADHD 7. Le immagini ottenute
con la risonanza magnetica sono state ripetute circa ogni due anni e paragonate ad immagini realizzate in bambini in buona salute.
Tali risultati offrono un’immagine molto dettagliata della corteccia cerebrale dei bambini affetti da ADHD ed evidenziano dei cambiamenti che
secondo gli autori potrebbero essere un riflesso, se non il motore di un
ristabilimento clinico.
Come per l’autismo, gli studi di imaging suggeriscono l’origine delle
disfunzioni cerebrali osservati nell’ADHD; tali studi potrebbero essere utili
sul piano diagnostico e terapeutico.
Paralisi cerebrale infantile,
il ruolo delle infezioni
Nel 2006 la ricerca ha trovato nuovi indizi sull’importante ruolo delle infezioni nelle patologie dello sviluppo come la paralisi cerebrale infantile
(PCI). La PCI è una malattia cronica e spesso grave del cervello, diagnosticabile precocemente nell’infanzia, che provoca un’anomalia del controllo
dei movimenti e della postura. Le cause della malattia sono generalmente
sconosciute e non esiste alcun tipo di prevenzione.
23
Catherine Gibson e il suo gruppo dell’Università di Adelaide in Australia,
hanno pubblicato nel British Medical Journal uno studio sulla possibile
implicazione di alcune infezioni virali nella PCI 8. Gli scienziati hanno cercato la presenza di virus di tipo herpes in campioni di sangue neonatale
essiccato proveniente da 443 bebè colpiti da PCI e da 883 bebè sani.
I risultati evidenziano che i bebè esposti al virus dell’herpes durante la gravidanza sono molto più numerosi tra i bambini colpiti da PCI. È possibile
ipotizzare che questi virus, responsabili per esempio della varicella o dell’herpes labiale, siano implicati nello sviluppo della PCI nel corso della vita
intrauterina, un’ipotesi che dovrà essere verificata con successivi studi.
24
I disturbi
del movimento
Errato ripiegamento delle proteine:
le inclusioni sono utili?
26
L’infiammazione e la malattia di Parkinson
28
Gli aspetti genetici della malattia di Parkinson
29
Monitoraggio e trattamento della corea di Huntington
30
25
N
el 2006 gli scienziati hanno fatto progressi sulla lunga via che conduce
dalla ricerca di base alla scoperta di nuovi trattamenti per i disturbi del
movimento. Gli studi di laboratorio sul ripiegamento delle proteine, sui
fenomeni infiammatori, sui fattori di crescita e la genetica hanno aperto
nuove prospettive per monitorare e curare queste patologie. Alcuni trattamenti sono attualmente in fase di studio nell’animale, alcuni nell’uomo.
Errato ripiegamento delle proteine: le inclusioni sono utili?
L’azione delle proteine dipende dalla loro forma. Le cellule producono
delle proteine costituite da lunghe catene di amminoacidi, che dopo
essersi ripiegate e avvolte, assumono una struttura tridimensionale. Le proteine mal ripiegate non interagiscono in modo normale con le altre. Esse si
aggregano tra loro formando dei depositi denominati inclusioni, osservati
frequentemente nel cervello delle persone che soffrono di alcune malattie
neurologiche.
L’ alfasinucleina è la componente maggiore di queste inclusioni (denominate anche corpi di Lewy), la cui presenza nei neuroni è tipica della malattia di Parkinson, una patologia che provoca rigidità, tremito e disturbi del
movimento. Si riscontrano i corpi di Lewy anche in una demenza detta
appunto demenza a corpi di Lewy. Le inclusioni ricche di alfasinucleina si
osservano anche nell’atrofia sistemica multipla, la cui sintomatologia è
simile a quella della malattia di Parkinson e provoca dei problemi di linguaggio, di equilibrio e di coordinazione.
Secondo due studi recenti, uno di Thomas Südhof e il suo gruppo i cui
risultati sono apparsi in Cell, l’altro di Tracey Dickson e i suoi colleghi, pubblicato in Experimental Neurology, la funzione dell’alfasinucleina sarebbe
quella di proteggere i neuroni dalle lesioni 1, 2. Quando i livelli di questa
proteina sono normali e il suo ripiegamento è corretto, l’alfasinucleina
protegge la cellula. Se vi è una sovrapproduzione ed essa è mal ripiegata
si formano degli aggregati che sembrano associati con le malattie. Per
quale ragione?
26
Sebbene sia una questione ancora controversa, è generalmente ammesso
che l’alfasinucleina mal ripiegata che forma degli aggregati contribuisce
alla morte delle cellule, ma il meccanismo è ancora sconosciuto. È possibile
che le proteine mal ripiegate non svolgano la loro funzione in modo corretto, ma sembra anche che esse interferiscano con le altre funzioni delle
Basandosi sull’ipotesi che le inclusioni contribuiscono a ledere le cellule,
sono state sviluppate alcune terapie per prevenire gli aggregati e le inclusioni. In opposizione a quest’idea il gruppo diretto da David Housman e
Aleksey Kazantsev ha pubblicato nella rivista Proceedings of the National
Academy of Sciences i risultati di uno studio secondo il quale gli aggregati
di proteine mal ripiegate sarebbero per la cellula un mezzo per proteggersi
dagli effetti del cattivo ripiegamento delle proteine. Le inclusioni non
provocherebbero dei danni ma, al contrario, preserverebbero la cellula 5.
Quando questi autori hanno somministrato a dei topi portatori del modello
della corea di Huntington e della malattia di Parkinson una sostanza
Un sistema di difesa della cellula?
Una cellula sotto stress, al centro dell’immagine, aumenta la produzione di alfasinucleina, una proteina del cervello. L’alfasinucleina potrebbe servire per proteggere dai
danni provocati dall’errato ripiegamento delle proteine nelle patologie neurodegenerative come la malattia di Parkinson.
I disturbi del movimento
cellule. Secondo lo studio di Richard Morimoto pubblicato in Science, un
eccesso di proteine mal ripiegate disorienta il sistema di «assicurazione
della qualità» della cellula, provocando il cattivo ripiegamento di altre proteine 3. Susan Lindquist e i suoi colleghi hanno dal canto loro pubblicato in
Science, uno studio secondo il quale la presenza eccessiva di alfasinucleina
interferisce con il movimento proteico all’interno delle cellule 4.
27
denominata B2 che promuove la formazione di inclusioni, essi hanno
costatato una riduzione dei danni cellulari.
Mark Cookson in Experimental Neurology commentando gli effetti apparentemente paradossali dell’alfasinucleina, ha ipotizzato che a livelli normali, poco elevati, essa esercita un effetto protettore sulla cellula nervosa 6.
In caso di stress, per proteggersi la cellula aumenta la produzione di alfasinucleina, si formano quindi degli aggregati che interferiscono con il normale funzionamento. Se i piccoli aggregati si aggregassero tra loro formando delle inclusioni, la cellula sarebbe protetta dai danni. Una migliore
comprensione del ruolo delle proteine mal ripiegate nelle patologie neurodegenerative potrà senza dubbio contribuire alla scoperta di nuovi farmaci
in grado di prevenire queste lesioni.
L’infiammazione e la malattia di Parkinson
Nella malattia di Parkinson si osserva la morte prematura di una determinata popolazione di cellule. La causa di questa patologia è ancora sconosciuta. Un’ipotesi si basa sul ruolo svolto dall’infiammazione, che induce un
accumulo di cellule reattive. James Bower e il suo gruppo di ricercatori del
Mayo Clinic College of Medicine hanno paragonato gli incartamenti clinici
di 196 pazienti affetti dalla malattia di Parkinson con quelli di 196 soggetti
controllo. I risultati, pubblicati in Neurology, hanno evidenziato che i
pazienti che hanno sviluppato la malattia di Parkinson, erano più soggetti
all’asma e al raffreddore allergico rispetto alle persone sane 7.
Alcune persone potrebbero avere delle risposte immunitarie
che provocano sia le reazioni allergiche sia la malattia di Parkinson.
I dati suggeriscono che alcune persone potrebbero avere delle risposte
immunitarie che provocano sia le reazioni allergiche sia la malattia di Parkinson. Seguendo la stessa linea, il gruppo di Bower ha constatato che i farmaci che bloccano la risposta infiammatoria, come gli antinfiammatori non
steroidei (FANS) potrebbero avere un ruolo protettivo e che il rischio di
sviluppare la malattia di Parkinson potrebbe essere inferiore per le persone
che assumono questo tipo di farmaci.
28
Nell’insieme, i risultati suggeriscono un nesso tra i fenomeni infiammatori e
la malattia di Parkinson, altri lavori dovranno precisare la relazione tra i due
studi. Comprendendo meglio la natura di questo legame avremo nuove
informazioni sul meccanismo della malattia e diventerà quindi possibile
orientare le strategie terapeutiche.
I disturbi del movimento
Un gruppo diretto da Miguel Hernán ha pubblicato in Neurology uno
studio simile ai due citati precedentemente 8. Secondo questo lavoro, gli
uomini che hanno assunto dei FANS diversi dall’aspirina (ad esempio l’ibuprofene) hanno il 20% in meno di possibilità di sviluppare la malattia di
Parkinson, mentre le donne alle quali erano stati somministrati i FANS
hanno il 20% in più di possibilità di sviluppare questa patologia rispetto alle
persone che non assumono farmaci di questo tipo. La differenza uomodonna è stata una sorpresa, compatibile però con i risultati di altri studi
secondo i quali per i fattori di rischio della malattia di Parkinson esiste una
differenza di sesso.
Un altro studio ha dimostrato che la minociclina, un antibiotico somministrato dal 1970 per il trattamento dell’acne, inibisce l’infiammazione e protegge i neuroni. Raymond Swanson e i suoi colleghi dell’University of California and Veterans Affairs Medical Center, San Francisco, hanno studiato
i possibili meccanismi di questa protezione cellulare sulle colture di neuroni 9. Lo studio pubblicato in Proceedings of the National Academy of
Sciences, mostra che la minociclina inibisce la proteina PARP-1, una proteina che reagisce alle lesioni del DNA intensificando l’infiammazione e la
morte cellulare. Gli autori hanno concluso che questo farmaco bloccando
la PARP-1 ha un effetto antinfiammatorio e neuroprotettore.
L’effetto antinfiammatorio e di protezione neuronale della minociclina
potrebbe avere interessanti implicazioni cliniche. I risultati ottenuti nei
modelli animali della malattia di Parkinson, della corea di Huntington e della
sclerosi laterale amiotrofica (SLA), sono promettenti. I risultati di un test clinico preliminare pubblicato in Neurology sembra fare della minociclina il
possibile candidato per nuovi test clinici sulla malattia di Parkinson 10, che si
aggiungono a quelli in corso per la corea di Huntington e la SLA.
Gli aspetti genetici della malattia di Parkinson
I casi familiari della malattia di Parkinson rappresentano circa il 10% del
totale, le mutazioni di almeno cinque geni sono implicate in questa forma
di Parkinson. Studiando i geni i ricercatori hanno acquisito delle conoscenze sul meccanismo della malattia, che potrebbero offrire un beneficio
per tutti i pazienti affetti dalla malattia di Parkinson.
Due studi apparsi in Nature hanno esaminato le relazioni tra due geni
diversi, «parkin» e «PINK1», implicati nella forma familiare della malattia di
Parkinson 11, 12. I due geni collaborano al mantenimento delle funzioni dei
29
mitocondri, le centrali energetiche della cellula. Questi studi confermano la
vecchia idea secondo la quale una perturbazione della funzione mitocondriale potrebbe contribuire alla genesi della malattia di Parkinson.
Il legame delle mutazioni dei due geni «parkin» o «PINK1» con la malattia di
Parkinson era stato descritto precedentemente in individui in cui entrambe
le copie del gene «parkin» o del gene «PINK1» erano difettose. Le persone
con la mutazione in una singola copia del gene possono trasmetterla ai loro
figli, s’ignorava tuttavia le conseguenze al ciò sul piano clinico. Due studi
pubblicati in Archives of Neurology e un terzo apparso in Movement
Disorders, dimostrano il possibile nesso tra la mutazione di una singola
copia del gene e lo sviluppo della malattia di Parkinson 13-15.
Il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson è più elevato
nelle persone che possiedono una copia difettosa del gene «PINK1»
rispetto ai membri della loro famiglia che ne possiedono
due copie normali.
Il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson è più elevato nelle persone
che possiedono una copia difettosa del gene «PINK1» rispetto ai membri
della loro famiglia che ne possiedono due copie normali. Nelle persone
con una copia difettosa di «parkin», la malattia si manifesta più precocemente rispetto alla maggior parte delle persone che la sviluppano, compresi i membri della famiglia nei quali le due copie sono normali. Dato che
è molto più frequente avere una copia di geni difettosi che due, il numero
di persone colpite da queste mutazioni potrebbe essere più elevato
del previsto.
Monitoraggio e trattamento della corea
di Huntington
La corea di Huntington è una malattia genetica che sopraggiunge generalmente tra i 40 e i 50 anni. Essa è caratterizzata da uno sviluppo progressivo
di movimenti incontrollati, da disturbi psichici e da un progressivo deterioramento intellettivo.
30
Se uno dei due genitori è malato, i figli hanno il 50% delle possibilità di
ereditare il gene della malattia. Attualmente è a disposizione un test che
permette di identificare con precisione la presenza della mutazione. La
maggior parte delle persone a rischio preferiscono però non sottomettersi
al test poiché non esistono cure o mezzi di prevenzione e pochi trattamenti
per i sintomi.
I disturbi del movimento
Una possibile via per studiare sia la progressione della malattia sia gli eventuali trattamenti è quella di monitorare le cellule immunitarie «microgliali».
Tali cellule potrebbero infatti contribuire alla malattia sintetizzando delle
sostanze che favoriscono l’infiammazione. Un gruppo di ricercatori diretto
da Paola Piccini, utilizzando la tomografia ad emissione di positroni, ha
dimostrato che il livello di attivazione della microglia era correlato con la
gravità clinica della corea di Huntington. Pubblicati in Neurology, i risultati
convalidano la tesi dell’implicazione della microglia, ed è possibile che ciò
sia valido anche per altre patologie neurodegenerative 16.
Un trattamento possibile per la malattia di Huntington consiste nel GDNF,
un fattore neurotrofico derivato dalle cellule gliali (glial-derived neurotrophic factor) che protegge le cellule nervose e ne induce la ricrescita. Anche
se un test clinico di vasta portata è stato abbandonato, nel 2006 sono stati
realizzati degli studi su un numero meno elevato di casi che hanno dato
risultati variabili sull’effetto del GDNF nel trattamento della malattia di
Parkinson 17-19. Il GDNF è stato usato nel modello murino della corea di
Huntington, in uno studio pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences 20. Il gruppo di Jeffrey Kordower si è servito di un virus
per trasportare il GDNF nel cervello dei topi ed ha constatato un miglioramento del comportamento, un numero inferiore di neuroni morti e la
riduzione della quantità di inclusioni. Altri studi dovranno confermare
o meno se il suo uso potrà essere esteso alle persone affette dalla corea
di Huntington.
Sebbene non esista ancora un trattamento contro i processi patologici che
stanno alla base di questa malattia, sono a disposizione farmaci capaci di
alleviare i sintomi della corea di Huntington e di migliorare la qualità di vita
delle persone che ne sono colpite. Uno studio clinico su uno di questi trattamenti è stato pubblicato in Neurology 21. In questo lavoro, della durata di
12 settimane, i pazienti che hanno ricevuto la tetrabenazina, hanno avuto
una riduzione significativa dei movimenti incontrollati rispetto ai pazienti
trattati con un placebo.
31
Le lesioni
del sistema nervoso
Sfruttare il pensiero
34
La riparazione del midollo spinale
34
Gli ictus cerebrovascolari
37
I tumori del cervello
38
33
N
ella ricerca sulle lesioni del sistema nervoso centrale (SNC), uno tra i
temi più importanti consiste nello studiare in quale modo la ricerca di base
può contribuire allo sviluppo di nuovi trattamenti. Per ora non esistono
delle terapie efficaci, a causa della complessità dei meccanismi innescati
dalle tre lesioni primarie del sistema nervoso centrale, i traumi del midollo
spinale, gli ictus e i tumori cerebrali.
I ricercatori hanno studiato i fenomeni connessi alla morte cellulare, alla
rigenerazione dei nervi, alla genesi dei tumori, con l’obiettivo di trasformare
le conoscenze acquisite in trattamenti, diretti contro specifiche molecole, in
grado di prevenire o riparare le lesioni del sistema nervoso centrale.
Sfruttare il pensiero
Una notizia che ha destato molto scalpore nella stampa mondiale nel
2006 è quella di un uomo paralizzato che con i pensieri è riuscito ad attivare un computer, un risultato che corona decenni di ricerca di base sul
controllo cerebrale del movimento (questo soggetto è discusso anche
nel capitolo di Neuroetica alla pagina 41). Nello studio pilota, pubblicato
in Nature, John Donoghue, ricercatore alla Brown University e i suoi
collaboratori di Harvard, hanno dimostrato che un’interfaccia computercervello può registrare l’attività neuronale della corteccia motoria primaria di una persona trasformandola in specifiche attività di apparecchiature periferiche 1.
Il soggetto in questione, affetto da una paralisi quasi completa, sequela di
un trauma del midollo spinale che risaliva a tre anni prima, oggi riesce ad
utilizzare la posta elettronica, accendere il televisore e la luce, ad aprire e
chiudere una mano protesica ed eseguire dei gesti semplici con un braccio
multiarticolato. È questo un primo passo verso i robot diretti dal pensiero
che potrebbero restituire autonomia alle persone paralizzate da traumi del
sistema nervoso centrale. Gli autori tengono a precisare che questa tecnologia è ancora allo stadio sperimentale.
La riparazione del midollo spinale
34
Le differenti forme di lesioni del midollo spinale richiedono trattamenti
diversificati, attualmente i ricercatori cercano di combinare le molteplici
strategie terapeutiche nel modello animale. La difficoltà sostanziale che
essi riscontrano è quella di stimolare la rigenerazione degli assoni, le fibre
nervose che trasmettono i segnali cerebrali da una cellula all’altra. Il fine è
In corrispondenza della breccia provocata dalla rottura o dallo schiacciamento del midollo spinale, si forma un’impenetrabile cicatrice gliale nella
quale sono presenti delle molecole che inibiscono la ricrescita degli assoni
e rendono difficoltoso il complesso processo della guida della ricrescita
assonale. Gli scienziati cercano d’identificare e testare delle sostanze
capaci di contrastare gli effetti inibitori della crescita assonale.
Tra le sostanze studiate troviamo la condroitinasi ABC, un enzima di origine
batterica che secondo studi precedenti frena all’interno della cicatrice la
formazione di sostanze inibitrici denominate proteoglicani. James Massey
e i suoi colleghi dell’Università di Louisville, il cui studio è stato pubblicato
nel Journal of Neuroscience, dopo avere iniettato la condroitinasi nel
tronco cerebrale di ratti affetti da trauma midollare a livello cervicale,
hanno constatato la ricrescita assonale nel luogo della lesione, confermando in questo modo i risultati precedenti 2.
Le lesioni del sistema nervoso
quello di ottenere delle fibre nervose che dopo essere ricresciute nella
giusta direzione si riconnettano ai loro obiettivi, ristabilendo in questo
modo la comunicazione interneuronale.
I ricercatori della Johns Hopkins e dell’Università del Michigan diretti da
Ronald Schnaar hanno affermato in Proceedings of the National Academy
of Sciences di avere scoperto che la condroitinasi ABC induce la ricrescita
assonale in un modello animale di trauma midollare. Essi hanno scoperto
inoltre un secondo enzima di origine batterica, la sialidasi, che sembra
avere un effetto doppio rispetto alla condroitinasi 3.
Degli studi valutano le basi biologiche della ricrescita e
della riconnessione assonale.
Oltre a studiare gli effetti inibitori della ricrescita assonale, altri studi
valutano le basi biologiche della ricrescita e della riconnessione assonale.
In questo ambito tre gruppi di scienziati hanno pubblicato nel 2006 dei
risultati preliminari.
Yuqin Yin e Larry Benowitz, ricercatori al Children’s Hospital di Boston,
hanno riferito in Nature Neuroscience che l’oncomodulina, un fattore di
crescita presente naturalmente nell’organismo, ha aumentato da cinque a
sette volte la ricrescita assonale in ratti con una lesione del nervo ottico 4.
Samuel Pfaff che dirige il laboratorio del Salk Institute, ha pubblicato
nella rivista Neuron che un altro fattore di crescita, il fattore di crescita
35
dei fibroblasti, stimola la riconnessione degli assoni con i muscoli dopo
la ricrescita assonale 5. Infine, i ricercatori di Yale diretti da Paul Forscher
hanno affermato in Nature Cell Biology di avere identificato che la
miosina II, una proteina implicata nei movimenti cellulari, aiuta a dirigere
la ricrescita neuronale all’estremità dell’assone 6. Queste scoperte danno
nuova luce ai meccanismi implicati nello sviluppo del sistema nervoso
e potrebbero essere il veicolo per stimolare la crescita dei nervi lesi
da traumi.
Per favorire la rigenerazione assonale a livello di una lesione traumatica
del midollo nel ratto, un gruppo di ricercatori della Case Western Reserve
University diretto da Jerry Silver ha combinato la condroitinasi ABC
con una sorta di «passerella neuronale». Gli scienziati hanno inserito
un segmento di nervo sciatico dell’animale nella breccia generata dal
trauma, il trapianto ha formato un ponte per facilitare l’organizzazione della
ricrescita assonale.
Per stimolare la rigenerazione degli assoni ed impedire lo sviluppo della
cicatrice gliale, i ricercatori hanno poi somministrato regolarmente delle
dosi di condroitinasi ABC con una pompa. In questi animali si è osservato
un netto miglioramento della mobilità se paragonato a quello dei ratti che
avevano subito la stessa procedura ma sostituendo la condroitinasi ABC
con una soluzione salina inattiva. Nei ratti ai quali è stata somministrata la
soluzione salina, non si è osservato né ricrescita assonale, né miglioramento dei movimenti. I risultati di questo studio sono stati pubblicati nel
Journal of Neuroscience 7.
Anche i ricercatori dalla Johns Hopkins University diretti da Douglas Kerr
hanno scelto un approccio simile. Gli scienziati hanno trapiantato a degli
animali con un trauma del midollo dei neuroni motori, e poi hanno
iniettato nella lesione una miscela di sostanze destinate a neutralizzare
i segnali che inibiscono la ricrescita assonale. In seguito essi hanno
somministrato un fattore di crescita che induce gli assoni a connettersi
con i loro obiettivi. Pubblicati in Annals of Neurology, i risultati evidenziano un ristabilimento parziale della funzione motoria negli animali
paralizzati 8.
36
Gli studi preliminari realizzati nel modello animale potrebbero in futuro
contribuire a definire dei trattamenti per le persone che subiscono dei
traumi midollari.
Nel corso degli ultimi decenni il numero di ictus cerebrovascolari (ICV) si è
ridotto in modo considerevole grazie ai farmaci che agiscono su due dei
principali fattori di rischio: l’ipertensione arteriosa e il colesterolo.
Nell’ICV ischemico, secondario all’occlusione di un vaso sanguigno provocata da un coagulo di sangue, l’attivatore del plasminogeno di tipo
tissutale (tPA) dissolve i trombi contribuendo a limitare i danni. Questo
farmaco deve però essere somministrato nelle tre ore che seguono
l’episodio acuto. Nella pratica il tPA è poco utilizzato, in parte perché
raramente i pazienti giungono così rapidamente in un servizio specializzato.
Le lesioni del sistema nervoso
Gli ictus cerebrovascolari
Il registro degli ICV dello stato del Minnesota mostra che solamente il 2%
delle persone sono state trattate con il tPA. Tra gli individui che non hanno
beneficiato di questo trattamento, il 41% è giunto all’ospedale troppo tardi
e il 38% non sapeva specificare con precisione l’orario in cui è sopraggiunta la sintomatologia. I risultati di questo studio effettuato da Mathew
Reeves, ricercatore alla Michigan State University, sono stati pubblicati
in Neurology 9.
Il lavoro appena menzionato dimostra come sia importante scoprire dei farmaci capaci di preservare la funzione cerebrale e migliorare le possibilità di
recupero anche se non sono somministrati nelle tre ore che seguono l’apparizione della sintomatologia acuta.
L’interesse continua ad essere incentrato sui farmaci che dissolvono
i trombi ma con delle finestre terapeutiche più ampie.
Un primo passo in questa direzione proviene da un test clinico realizzato
con una sostanza neuroprotettrice che limita i danni cerebrali provocati
dagli ICV ischemici. Le molecole neuroprotettrici sono studiate da una
ventina d’anni, il NXY-059 è il primo farmaco sviluppato secondo le nuove
norme della ricerca clinica sugli ICV. Se questa sostanza è somministrata
nelle sei ore che seguono l’esordio della sintomatologia acuta, essa riduce
il tasso d’invalidità nei seguenti 90 giorni, ma non conduce ad un miglioramento delle funzioni neurologiche. Lo studio multisito è stato realizzato da
Warren Wasiewski, del Western Infirmary a Glasgow in Scozia e pubblicato nel New England Journal of Medicine 10. L’interesse continua ad
essere incentrato sui farmaci che dissolvono i trombi ma con delle finestre
terapeutiche più ampie.
37
I tumori del cervello
I gliomi sono dei tumori cerebrali per i quali non disponiamo ancora di una
terapia, il decesso sopraggiunge in generale nei due anni che seguono la
diagnosi. L’origine dei gliomi è in gran parte sconosciuta e non esiste una
prevenzione.
La ricerca di base sulla genesi dei gliomi è incentrata sulle relazioni tra le
cellule staminali e le cellule presenti nei tumori, in particolare sulla questione già esplorata da studi precedenti, di sapere se le cellule staminali
producono delle sostanze che promuovono lo sviluppo del tumore.
Jeremy Rich e i suoi colleghi della Duke University hanno pubblicato nella
rivista Cancer Research un articolo su un determinato tipo di cellule gliomatose denominate «stem-cell-like glioma cancer cell» per la loro somiglianza con le comuni cellule staminali 11.
I ricercatori hanno esaminato come le cellule del glioma inducono la crescita del tumore. Le cellule in questione sintetizzano in notevole quantità
una sostanza naturale chiamata fattore di crescita dell’endotelio vascolare
(VEGF) che promuove la formazione di vasi sanguigni attraverso i quali
l’ossigeno e le sostanze nutritive giungono alle cellule gliomatose, contribuendo alla loro proliferazione e al loro sviluppo.
Nel frattempo, gli scienziati del National Institute of Neurological Disorders
and Stroke e del National Cancer Institute diretti da Howard Fine hanno
pubblicato in Cancer Cell, uno studio su un fattore di crescita denominato
fattore di crescita delle cellule staminali (SCF) 12, che sarebbe uno tra i
responsabili dello sviluppo del tumore. Come il VEGF, esso contribuisce
alla progressione del tumore, creando un terreno favorevole alla formazione dei vasi sanguigni. Da qui l’interesse di trovare dei farmaci capaci di
inibire la formazione dei vasi sanguigni tumorali, per privare di sangue e
di ossigeno le cellule patogene.
38
Per il trattamento del glioma, i ricercatori stanno studiando anche il potenziale
ruolo terapeutico delle cellule staminali. Un gruppo diretto da Arturo AlvarezBuylla, dell’Università della California a San Francisco, ha descritto in Neuron
una molecola che regola la neurogenesi nell’adulto. Nel topo, quando questa
molecola è stimolata in modo anomalo, induce lo sviluppo di neoplasie invasive. Tali neoformazioni regrediscono quando cessa la stimolazione 13. A partire da questi risultati diventa possibile immaginare dei trattamenti che impediscano lo sviluppo di gliomi maligni bloccando le vie di segnalazione.
Neuroetica
Il placebo nei test clinici
40
La privacy cerebrale
40
Tecnologie emergenti e cervello umano
41
Una concezione più dettagliata dell’incoscienza
43
39
C
on la creazione della Società di Neuroetica (Neuroethics Society), nel
2006 la neuroetica ha assunto una forma più esplicita. Fondata da autorevoli scienziati, avvocati ed etici, questa società gestisce un sito web,
www.neuroethicssociety.org e collabora con due pubblicazioni «partner»,
l’American Journal of Bioethics e il Journal of Cognitive Neuroscience.
Nel corso del 2006 sono stati realizzati progressi significativi (accompagnati da accesi dibattiti) in quattro tra gli ambiti più importanti della neuroetica: gli interventi in caso di disturbi emotivi e del comportamento, la
privacy cerebrale, l’impatto delle tecnologie emergenti e l’evoluzione delle
nostre conoscenze sugli stati d’incoscienza come ad esempio lo stato
vegetativo persistente.
Il placebo nei test clinici
L’uso del placebo nei test clinici crea un problema etico concreto. Recentemente si è sviluppato un ampio dibattito a proposito di uno studio realizzato da Sumant Khanna e pubblicato nel British Journal of Psychiatry. A
circa 150 persone affette da disturbi maniacali è stato somministrato un
placebo in sostituzione del risperidone, un farmaco antipsicotico utilizzato
in questi casi 1. Alcuni medici hanno espresso un dubbio sulla validità del
consenso informato ottenuto dai pazienti che hanno partecipato allo studio, spiega Ganapati Mudur nel British Medical Journal 2, la questione è
quella di sapere se le persone affette da disturbi dell’umore sono realmente in grado di dare un consenso informato.
La privacy cerebrale
Le sempre più sofisticate tecniche di imaging cerebrale fanno vacillare i
concetti più radicati sulla mente, come per esempio la nozione dell’inviolabilità dei pensieri segreti di una persona. Alcuni scienziati hanno sviluppato
delle macchine della verità basate sulla risonanza magnetica funzionale
(MRIf). I ricercatori sostengono che questo sistema è molto più preciso del
tradizionale poligrafo, che valuta e misura le reazioni del sistema nervoso
simpatico.
40
Feroze Mohamed e i suoi colleghi hanno pubblicato in Radiology 3 i risultati
di uno studio realizzato con la MRIf che simula un’inchiesta intrapresa in
seguito ad una sparatoria in un ospedale. I ricercatori hanno identificato
otto regioni del cervello significativamente più attive durante l’inganno
rispetto ad una situazione neutra e due regioni in cui l’attività era molto più
Feroze Mohamed e i suoi colleghi hanno pubblicato in Radiology i
risultati di uno studio realizzato con la MRIf che simula un’inchiesta
intrapresa in seguito ad una sparatoria in un ospedale. I ricercatori
hanno identificato otto regioni del cervello significativamente più attive
durante l’inganno rispetto ad una situazione neutra e due regioni in
cui l’attività era molto più importante quando le persone dicevano la
verità rispetto ad una situazione emotivamente indifferente.
Neuroetica
importante quando le persone dicevano la verità rispetto ad una situazione
emotivamente indifferente.
Per ora la maggioranza dei neuroscienziati non ha espresso un’opinione a
questo proposito. Un editoriale di Nature ha fatto appello alla comunità
neuroscientifica, affinché i dubbi e le perplessità siano espresse chiaramente per essere pronti ad un lungo dibattito pubblico sulle implicazioni
etiche di questa tecnologia così come sulla natura della sfera privata in sé 4.
Una nuova tecnica per esaminare i dati forniti dal neuroimaging, denominata «classificazione dei pattern», permette di predire in modo abbastanza
preciso cosa sta guardando il soggetto prima che egli ne sia cosciente.
Anche se questa competenza evoca la preoccupante prospettiva della
lettura della mente, l’uso di questa tecnica per rivelare le menzogne è
conforme alle stesse limitazioni del convenzionale poligrafo che disorienta
le reazioni emotive del soggetto, spiega un editoriale di Nature Neuroscience. L’impatto delle tecniche della «classificazione dei pattern»
dovrebbe manifestarsi soprattutto a livello della ricerca di base, perché
permetterà agli scienziati di cominciare a capire «non solamente dove, ma
anche come è trattata l’informazione» 5.
Un’altra area di interesse è la ricerca di marker biologici, come ad esempio
delle anomalie cerebrali o delle mutazioni genetiche specifiche, che possono indicare una tendenza alla violenza. Nigel Eastman e Colin Campbell
in Nature Reviews Neuroscience si chiedono se sia possibile considerare la
presenza di questi marker come una causalità in senso giuridico, e se è il
caso, se è accettabile porre in detenzione preventiva delle persone che
presentano questi marker, per proteggere la società 6.
Tecnologie emergenti e cervello umano
BrainGate è un test clinico unico nel suo genere che utilizza l’interfaccia
cervello-computer; il numero di Nature del 13 luglio 2006 ha consacrato a
questo soggetto il suo articolo di fondo. BrainGate è un braccio robotico
41
sviluppato per Matt Nagle, un paziente tetraplegico a causa di una lesione
al midollo spinale. Egli controlla il braccio robotico unicamente con la forza
del pensiero, attraverso i segnali che il suo cervello invia al braccio, come
ad esempio aprire e chiudere la mano (vedi anche il capitolo sulle lesioni
del sistema nervoso pagina 34). I segnali motori inviati dal cervello di Matt
Nagle sono raccolti da 96 elettrodi di un microchip impiantato nella sua
corteccia motoria, decodificati ed utilizzati per controllare i movimenti
della protesi.
A differenza di altri tipi di tecnologia destinati alle persone colpite da
paralisi multipla, che utilizzano per esempio l’attività elettrica a livello del
cuoio capelluto o legata ai movimenti degli occhi, questa protesi neuromotoria non richiede mesi di allenamento e nemmeno la completa attenzione della persona. Leigh Hochberg e i suoi colleghi precisano in Nature
che Matt Nagle riesce ad aprire la posta elettronica fittizia o a muovere il
suo braccio anche conversando 7.
Quando il progresso tecnico avrà permesso di accelerare il trattamento dell’informazione e di affinare le possibilità delle protesi neuromotorie si porrà
la questione di quali sono le persone più adatte ad approfittarne e a quali fini
esse dovranno essere utilizzate (terapeutici, finanziari, psicosociali).
Stephen Scott nello stesso numero della rivista, evoca la possibilità che utilizzando i circuiti di feed-back già esistenti nel cervello, queste protesi finiscano per modificare in modo sottile la modalità con cui sono organizzati i
segnali cerebrali stessi. Si stabilirebbe quindi tra il cervello ed i dispositivi
tecnici una simbiosi sempre più stretta, che offrirebbe una prospettiva
incoraggiante per le persone colpite da paralisi 8.
In tutt’altro ambito, i progressi costanti del neuroimaging destano delle
preoccupazioni a proposito delle «scoperte accidentali», fatte nel corso di
analisi realizzate per altre ragioni, che evidenziano patologie inattese. Gli
studi a questo proposito si moltiplicano. Un gruppo di lavoro costituito da
una cinquantina di specialisti dell’imaging medico, dell’etica biomedica e
del diritto, hanno valutato se i ricercatori avessero l’obbligo di informare di
queste scoperte i pazienti che partecipano allo studio e in caso affermativo,
qual è la condotta da adottare 9.
42
Le risposte non sono per niente evidenti. Le patologie scoperte in queste
circostanze possono essere molto gravi, esistono tuttavia molti falsi positivi
Neuroetica
che possono essere chiariti con una seconda analisi valutata da un radiologo diagnostico. Se avviene una scoperta accidentale nell’ambito di una
ricerca, la persona che vi partecipa ha il diritto di essere informata, o di non
sapere, o entrambi?
Il gruppo di lavoro raccomanda vivamente ai ricercatori che lavorano con il
neuroimaging di prepararsi all’eventualità di scoperte accidentali e di elaborare un protocollo che deve essere presentato in modo chiaro, come se
fosse parte del consenso informato. A questo proposito futuri lavori
potranno fornire nuove linee guida, nell’intento di garantire l’integrità
scientifica e di dare fiducia al pubblico.
Una concezione più dettagliata dell’incoscienza
Le ricerche effettuate nel 2006 hanno evidenziato insoliti casi di pazienti
colpiti da gravi traumi cerebrali. Henning Voss, Nicholas Schiff e i colleghi
ricercatori di New York, del New Jersey e della Nuova Zelanda, hanno
descritto nel Journal of Clinical Investigation il recupero spontaneo di un
uomo che era stato per 19 anni in uno stato di coscienza minima, incapace
di muoversi e di parlare in seguito ad un incidente automobilistico 10. Il suo
stato di salute nel corso degli anni è migliorato, il fatto che egli abbia
ripreso coscienza, recuperato la parola e le sue facoltà cognitive e che sia
ora capace di muovere tre arti, costituisce un evento senza precedenti.
Esaminando il suo cervello con la risonanza magnetica del tensore di diffusione – una tecnica di imaging non invasiva – i ricercatori hanno dimostrato
la ricrescita assonale che ha senza dubbio permesso la formazione di
nuove connessioni tra i neuroni.
Nello stesso articolo gli autori descrivono il caso di un altro paziente, anche
lui vittima di un incidente automobilistico, che ha passato più di un anno
in uno stato vegetativo persistente e quattro anni in uno stato di coscienza
minima. Questo paziente non ha dimostrato un miglioramento clinico
paragonabile al primo e neppure una ricrescita assonale, ma i ricercatori non
ne escludono l’eventualità. Essi ritengono che degli scan (MRI del tensore
di diffusione, e la tomografia ad emissione di positroni) praticati poco tempo
dopo l’incidente, permetterebbero di valutare meglio le possibilità di ricablaggio cerebrale ed un’eventuale speranza di recupero a lungo termine.
Sono emerse delle constatazioni incoraggianti sull’attività cerebrale anche nell’ambito di uno studio diretto da Adrian Owen e pubblicate su
43
Paziente
Volontari sani
Imaging tennis
Imaging navigazione spaziale
Attività cerebrale nello stato vegetativo
Una paziente in uno stato vegetativo persistente ha mostrato un’attività nelle stesse aree
cerebrali dei volontari in buona salute quando le si chiedeva di immaginarsi mentre
giocava a tennis o mentre si muoveva nella sua casa.
Science 11. Una giovane donna, in seguito ad un incidente automobilistico
si trova da cinque mesi in uno stato vegetativo persistente. Una MRIf praticata quando la paziente non dava alcun segno di reattività dimostrava
chiaramente che in realtà essa era in grado di realizzare dei compiti cognitivi complessi.
Quando i ricercatori pronunciavano ad alta voce delle frasi che contenevano talvolta anche delle parole con doppio senso, l’attività cerebrale delle
zone del linguaggio della paziente presentavano un’attività paragonabile a
quella osservata in persone in buona salute. La sua attività cerebrale era
normale anche quando le si chiedeva di immaginarsi mentre giocava a
tennis o passeggiava nel suo appartamento.
44
Queste osservazioni sono ancora più sconvolgenti poiché testimoniano in
modo chiaro un’attività cerebrale che sottende a dei fenomeni normalmente associati ad uno stato di piena coscienza. L’idea dei neuroscienziati
è che nelle persone in stato vegetativo possano sussistere delle «isole»
Neuroetica
di funzioni intatte, non rivelate dai metodi clinici standard. L’agilità mentale
di questa donna incapace di qualsiasi movimento sembra convalidare
questa ipotesi e rinnova la speranza di conoscere più nel dettaglio gli stati
di incoscienza.
Queste osservazioni sono ancora più sconvolgenti poiché
testimoniano in modo chiaro un’attività cerebrale che sottende
a dei fenomeni normalmente associati ad uno stato
di piena coscienza.
Dato che solo in poche persone lo stato di salute migliora, ci si chiede se
conviene utilizzare in modo sistematico degli interventi costosi come la stimolazione cerebrale profonda o la stimolazione transmagnetica per ottenere un recupero, anche parziale, delle funzioni di comunicazione. Attualmente sono in corso delle ricerche per determinare le circostanze nelle
quali questi interventi potrebbero essere efficaci, i loro risultati potrebbero
aiutare ad identificare i pazienti che potrebbero trarne un beneficio.
45
Le malattie
neuroimmunologiche
La sclerosi multipla
48
Il bersaglio di un attacco autoimmune
49
Il controllo della risposta immunitaria
50
Sistema immunitario e malattia di Alzheimer
51
Il dolore neuropatico
53
La plasticità
55
La depressione come causa di infiammazione
55
47
T
ra il sistema immunitario umano ed il cervello sussiste una relazione
spesso complicata. Dal punto di vista immunitario il cervello è una regione
privilegiata, esso è popolato da un unico tipo di cellule immunitarie, la
microglia. Per penetrare nell’encefalo, i batteri, i virus e le tossine devono
oltrepassare la barriera emato-encefalica, un compatto strato di cellule
della parete vascolare che regola il passaggio nel cervello delle sostanze
contenute nel sangue. Quando questo accade, le cellule immunitarie
accorrono per cercare di combattere l’intruso.
Per errore le cellule immunitarie possono attaccare le normali cellule cerebrali, considerandole come invasori. Nella sclerosi multipla, le cellule
immunitarie attaccano la mielina che avvolge gli assoni nel cervello e nel
sistema nervoso centrale. Le cellule immunitarie possono assalire anche le
proteine amiloidi che si formano nel cervello delle persone affette dalla
malattia di Alzheimer; l’intensità dell’aggressione è tale che i fenomeni
infiammatori generati ledono ulteriormente i neuroni. Un fenomeno simile
potrebbe essere implicato anche nella malattia di Parkinson. (vedi «I disturbi del movimento», pag. 28).
Il progresso più significativo realizzato dalla neuroimmunologia nel 2006 è
stata la scoperta del meccanismo attraverso il quale certe cellule immunitarie si trasformano e attaccano la mielina nella sclerosi multipla. Altre ricerche hanno provato ad utilizzare il sistema immunitario per prevenire o
addirittura capovolgere i fenomeni neurodegenerativi osservati nella malattia di Alzheimer.
La sclerosi multipla
48
Nella sclerosi multipla la lacerazione della copertura di mielina che avvolge
gli assoni neuronali, provocata dai ripetuti attacchi del sistema immunitario, disorganizza i segnali nervosi generando numerosi sintomi clinici. Gli
scienziati ritenevano responsabili di questi assalti le cellule T helper (denominate TH1), la cui funzione è segnalare al sistema immunitario la presenza
di batteri o di virus all’interno delle cellule. Nel 2005 i ricercatori hanno
scoperto che anche un altro tipo di cellule T helper, le TH17, svolge un
ruolo essenziale all’inizio degli attacchi immunitari contro la mielina. Estelle
Bettelli, ricercatrice alla Harvard Medical School di Boston, in un articolo
pubblicato dalla rivista Nature, sostiene che le cellule TH17 sono il prodotto
dell’esposizione delle cellule T immature alla combinazione di due molecole 1. Una di queste molecole è una proteina segnale chiamata fattore di
Yoichiro Iwakura e Harumichi Ishigame hanno scoperto che un fattore di
crescita denominato interleuchina 23 (IL-23), trasforma le cellule T immature in cellule TH17 2. Pubblicati nel Journal of Clinical Investigation, i risultati mostrano che bloccando l’IL-23 i ricercatori sono riusciti a ridurre in
modo significativo lo sviluppo della versione animale sia della sclerosi multipla, sia di un’altra malattia autoimmune denominata malattia infiammatoria dell’intestino. Alla luce dei risultati di questi due studi, è possibile ipotizzare delle terapie che impedendo alle cellule T immature di differenziarsi
in cellule TH17, potrebbero essere utilizzate per curare alcune malattie
autoimmuni, tra le quali la sclerosi multipla.
Le malattie neuroimmunologiche
crescita beta (TGF-beta), l’altra, l’interleuchina 6 (IL-6), è una molecola
immunitaria sintetizzata dalle cellule T che favorisce i fenomeni infiammatori. I topi sprovvisti di IL-6 non possedevano le cellule TH17 e non hanno
sviluppato la versione animale della sclerosi multipla.
Il bersaglio di un attacco autoimmune
In un’altra malattia infiammatoria, la neuromielite ottica, il sistema immunitario aggredisce la mielina che avvolge il nervo ottico, provocando una
cecità parziale o totale. La neuromielite ottica è talvolta confusa con una
manifestazione precoce della sclerosi multipla. Recentemente i ricercatori
hanno scoperto che un anticorpo denominato NMO-IgG, che attacca la
mielina nella neuromielite ottica, non è presente nei pazienti affetti da
sclerosi multipla, suggerendo che questa malattia corrisponde ad uno stato
patologico ben distinto.
L’anticorpo NMO-IgG potrebbe svolgere un ruolo anche nella mielite trasversa, una malattia nella quale il sistema immunitario aggredisce la mielina
degli assoni del midollo spinale, provocando una paralisi o dei disturbi
motori. Brian Weinshenker e i suoi colleghi della Mayo Clinic hanno
descritto in Annals of Neurology che circa il 40% dei pazienti gravemente
colpiti da mielite trasversa risulta positivo l test per l’NMO-IgG; più della
metà di loro ha subito una recidiva nei 12 mesi seguenti. I pazienti senza
l’anticorpo non avevano ricadute 3.
Prima di questa scoperta i medici non avevano nessuno strumento per identificare i pazienti il cui midollo spinale rischiava di essere il bersaglio di un
nuovo attacco. Grazie al biomarker appena scoperto, essi possono identificare le persone che rischiano una recidiva, inclusi quelli che soffrono di mielite trasversa, ed è quindi giustificato un trattamento immunosoppressore.
49
Qual è il bersaglio dell’anticorpo autoimmune NMO-IgG? Nel 2006 i ricercatori della Mayo Clinic diretti da Vanda Lennon, hanno scoperto che per
errore quest’anticorpo è diretto contro l’aquaporina-4, una proteina scoperta di recente nel sistema nervoso centrale, che permette all’acqua di
entrare ed uscire dalle cellule 4. L’aquaporina-4 è prodotta essenzialmente
dagli astrociti cerebrali, le cellule a forma di stella che rinforzano la barriera
emato-encefalica e che impediscono il passaggio di sostanze nocive dal
sangue al cervello.
Sono stati evidenziati alti tassi di acquaporina-4 nel nervo ottico, nel
midollo spinale e in certe regioni del tronco cerebrale, tutti possibili obiettivi del sistema immunitario nelle persone affette da neuromielite ottica.
Attraverso i vasi sanguigni, gli anticorpi NMO-IgG possono passare nel
cervello e attaccare l’acquaporina-4. La scoperta dell’anticorpo NMO-IgG
come marker della neuromielite ottica rappresenta un progresso essenziale per la diagnosi di questa malattia.
Il controllo della risposta immunitaria
Una risposta immunitaria incontrollata a livello cerebrale può generare
delle malattie come la sclerosi multipla o il lupus eritematoso sistemico, ma
cosa fa perdere il controllo al sistema immunitario?
Una risposta immunitaria incontrollata a livello cerebrale
può generare delle malattie come la sclerosi multipla
o il lupus eritematoso sistemico, ma cosa fa perdere il controllo
al sistema immunitario?
Le chemochine inviano dei segnali alle cellule e regolano lo schieramento
delle cellule immunitarie, i leucociti. Un gruppo diretto da Richard M.
Ransohoff ha descritto in Nature Neuroscience che le fractalchine, una
variante rara delle chemochine, costituiscono un elemento essenziale
per il controllo della risposta immunitaria a livello cerebrale 5. Liberando
le fractalchine, le cellule immunitarie del cervello (la microglia) reprimono
risposte eccessive da parte delle altre cellule implicate nella risposta
immunitaria.
50
Lavorando su un modello di patologie come la malattia di Parkinson o la
sclerosi laterale amiotrofica, Ransohoff ha costatato che i topi nei quali era
stato soppresso il gene che codifica per le fractalchine sembravano normali, ma i loro neuroni erano molto più danneggiati dalle reazioni infiammatorie eccessive.
c
e
b
d
f
CX3CR1+/–
CX3CR1–/–
Le malattie neuroimmunologiche
a
Problemi nel controllo del sistema immunitario
I topi senza il recettore per fractalchina (in basso), una proteina presente nelle cellule
infiammatorie del cervello, aumentano nel tempo l’attività della microglia (da sinistra
a destra). Questo aumento provoca danni neuronali maggiori nei modelli animali di
malattie umane.
Sistema immunitario e malattia di Alzheimer
Nella malattia di Alzheimer si accumulano nel cervello dei frammenti di una
proteina: la sostanza beta amiloide. Il sistema immunitario reagisce e interviene per cercare di distruggere questo deposito indesiderato. Ne conseguono dei fenomeni infiammatori che sicuramente peggiorano la malattia,
o addirittura potrebbero esserne la causa. Nel 2002 il test clinico di un vaccino terapeutico per ridurre il volume delle placche di sostanza beta amiloide è stato interrotto a causa della gravità dei sintomi infiammatori generati dalla risposta immunitaria nel cervello di alcuni pazienti.
Michal Schwartz e i suoi colleghi del Weizmann Institute of Science in
Israele, ritengono che sia possibile trasformare le cellule T che generano i
sintomi infiammatori, in alleati efficaci e sicuri per combattere le placche. In
un articolo pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences, i ricercatori sostengono di avere realizzato un’immunizzazione terapeutica somministrando a dei topi geneticamente predisposti alla formazione della sostanza amiloide, un modulatore del sistema immunitario
utilizzato nel trattamento della sclerosi multipla denominato glatiramer
51
acetato (Copaxone). Tale trattamento, che stimola le cellule T, riduce le
placche e promuove la crescita delle cellule nell’ippocampo, fondamentale
per le capacità mnemoniche e di apprendimento 6.
I ricercatori attribuiscono l’effetto positivo del trattamento alla produzione
da parte delle cellule microgliali dell’ormone IGF-1, il fattore di crescita
insulino-simile. L’IGF-1, sarebbe prodotto al posto della citochina TNFalpha (fattore di necrosi tumorale alfa) che innesca la reazione infiammatoria distruttiva. Secondo gli autori, una strada possibile nel trattamento della
malattia di Alzheimer consiste nel cercare di modulare la riposta immunitaria. Il risultato di questi trattamenti potrebbe permettere di attaccare la
sostanza amiloide senza generare devastanti reazioni infiammatorie.
Schwartz ha dimostrato inoltre che se s’iniettano nel cervello dei topi le cellule T, esse contribuiscono alla nascita dei neuroni nelle regioni che come
l’ippocampo sono devastate dalla malattia di Alzheimer. I ricercatori hanno
paragonato i cervelli di due gruppi di topi vissuti entrambi in un ambiente
stimolante, con molti giochi e oggetti nuovi: il primo gruppo era costituito
da topi normali, il secondo da topi affetti da immunodeficienza combinata
grave (SCID) privi di cellule T. Schwartz e il suo gruppo hanno costatato
che a livello dell’ippocampo, un’area fondamentale nei processi di memorizzazione, nel primo gruppo di animali si osserva un’importante neurogenesi, quasi totalmente assente nei topi privi di cellule T.
Nel 2006 si è rivelato promettente anche un altro approccio, basato sulla soppressione dell’infiammazione. Dei ricercatori diretti da Edward Tobinick, dell’Università della California di Los Angeles, hanno realizzato uno studio pilota
della durata di sei mesi durante il quale hanno somministrato a 15 persone
colpite da una forma da moderata a grave della malattia di Alzheimer, delle
iniezioni settimanali di etanercept, un farmaco che limita l’azione del TNFalpha e che ha un efficace effetto antinfiammatorio nell’artrite 7.
I partecipanti a questo studio hanno presentato un miglioramento significativo delle loro funzioni mentali. Lo studio rafforza quindi la tesi secondo
la quale l’infiammazione in sé stessa contribuisce in modo importante alla
demenza nella malattia di Alzheimer e che se si riuscisse a reprimerla,
sarebbe possibile rallentare o arrestare il declino mentale.
52
I ricercatori della Case Western Reserve University, tuttavia, contestano la
teoria secondo la quale le placche di sostanza amiloide e le manifestazioni
Un gruppo di ricercatori della Case Western Reserve University
sostiene che è illusorio pensare di guarire la malattia di Alzheimer
liberando il cervello dalle placche di beta amiloide.
Le malattie neuroimmunologiche
infiammatorie che esse generano, sono l’origine della malattia. Secondo
questi ricercatori, i sintomi risulterebbero dallo stress ossidativo, una
produzione eccessiva di sostanze ossidanti, che distruggono i neuroni. Gli
autori di un articolo apparso in Current Alzheimer Research, Hyoung-gon
Lee, Mark Smith, George Perry e i loro colleghi ritengono che le placche di
proteina beta amiloide rappresentano il tentativo del cervello di fronteggiare lo stress ossidativo 8. Essi sostengono che è illusorio pensare di
guarire la malattia di Alzheimer liberando il cervello dalle placche di beta
amiloide, sarebbe invece più proficuo trovare l’origine e combattere lo
stress ossidativo.
Un gruppo di ricercatori della Northwestern University Medical School
diretti da Abdelhak Belmadani ha scoperto che le chemochine, oltre ad
inviare segnali per regolare l’attività dei leucociti, governano la migrazione
dei progenitori neuronali verso i luoghi d’infiammazione del cervello, compresi quelli provocati della malattia di Alzheimer. Quando l’infiammazione
lede le cellule nervose, gli astrociti attivano le chemochine, che dirigono
i progenitori neuronali adulti verso il luogo dove si trovano queste
cellule lese.
Tali scoperte potrebbero indirizzare le ricerche verso dei farmaci che stimolano il recupero dopo una lesione cerebrale, incoraggiando la migrazione di cellule neuronali progenitrici verso il luogo della lesione. I ricercatori della Northwestern nel Journal of Neuroscience 9 sostengono che
questo meccanismo potrebbe permettere la rigenerazione di nuovi neuroni per ripopolare l’ippocampo danneggiato dalla malattia di Alzheimer.
Il dolore neuropatico
Altre ricerche hanno analizzato il ruolo della microglia nel dolore neuropatico, un dolore cronico, spesso insopportabile, che persiste a lungo dopo
che il trauma, l’infezione o la tossina che l’ha originato è sparito. (vedi a
questo proposito il capitolo «Il dolore», pagina 58).
Il dolore neuropatico può sopraggiungere dopo la lesione dei nervi periferici, i nervi che non fanno parte del cervello e del midollo spinale. Secondo
dei ricercatori dell’Università di Toronto diretti da Michael Salter, questa
risposta anormale è una conseguenza dell’attività delle cellule microgliali
53
La microglia media il dolore
Dopo una lesione ai nervi periferici, la microglia si attiva nel corno dorsale del midollo
spinale, rendendo i neuroni ipersensibili. Questo genera una sensazione di dolore
anche quando non sono presenti stimoli dolorosi.
che una volta attivate liberano una sostanza chiamata BDNF (brain-derived
neurotrophic factor), che intensifica i segnali del dolore trasmessi tra la
microglia e i neuroni.
Tale fenomeno interrompe i normali meccanismi della soppressione del
dolore, esacerbando la sensibilità dei neuroni anche in assenza di stimoli
dolorosi. Secondo questa ricerca, pubblicata nell’European Journal of
Physiology, i meccanismi di comunicazione delle cellule microgliali potrebbero costituire un obiettivo promettente per dei trattamenti volti a ridurre
il dolore cronico dei nervi periferici 10.
54
Degli scienziati del Columbia University Medical Center hanno presentato
una domanda di brevetto per dei farmaci che bloccano il dolore cronico
inibendo un enzima denominato proteina chinasi G (PKG). I ricercatori
hanno spiegato in Neuroscience che l’attività della PKG contribuisce
all’ipereccitabilità dei neuroni e ai segnali di dolore persistente che generano quest’ipereccitabilità 11. Essi hanno constatato che quando si inibiva la
PKG, il dolore spariva, un’osservazione che rende questo enzima un obiettivo farmacologico ideale.
Quando il cervello giovane è vittima di un trauma, esso cerca di ristabilire
il suo cablaggio con vigore. Questo comportamento spontaneo è denominato plasticità cerebrale, un meccanismo che s’indebolisce progressivamente con l’età. Dei ricercatori della Harvard Medical School hanno
scoperto che la causa di questo indebolimento potrebbe essere una proteina del sistema immunitario chiamata «paired-immunoglobulin-like
receptor-B» (PirB). Il gruppo diretto da Josh Syken ha pubblicato in
Science un articolo nel quale spiega che nel corso della vita la facoltà di
ricablaggio è conservata più a lungo nei topi privi di questa proteina 12.
Sembra dunque che un farmaco capace di inibire la proteina PirB potrebbe
aiutare il cervello a ristabilire le connessioni interneuronali lese da un
trauma del midollo spinale, da un ictus cerebrovascolare o da altro.
Le malattie neuroimmunologiche
La plasticità
La depressione come causa di infiammazione
Alcuni ricercatori della Emory University School of Medicine di Atlanta,
hanno constatato che esiste un legame tra sistema immunitario, depressione e stress in età precoce. Una risposta infiammatoria eccessiva allo
stress può sensibilizzare l’organismo alle manifestazioni delle malattie
infiammatorie.
L’esposizione allo stress si traduce generalmente in una produzione
maggiore di interleuchine-6 (IL-6) che favorisce i fenomeni infiammatori. Il
gruppo diretto da Andrew H. Miller e Christine Heim, il cui lavoro è stato
pubblicato nell’American Journal of Psychiatry, ha chiesto a 28 uomini, di
cui la metà soffriva di una depressione grave e aveva subito uno stress
in età precoce, di risolvere dei problemi di calcolo e di parlare in pubblico,
dei compiti che incrementano lo stress, dopo di che hanno dosato nel
sangue l’IL-6 13.
Il tasso di IL-6 aumenta in tutti i partecipanti, ma l’incremento è doppio nel
gruppo delle persone depresse. Questo studio è stato il primo a suggerire
l’esistenza di un nesso tra la depressione maggiore, lo stress nella vita
intrauterina e la salute generale.
55
Il dolore
Scoperto un commutatore generale del dolore cronico
58
L’anticipare il dolore può essere peggio del dolore stesso
59
Dal pesticida all’antalgico
60
La «contagiosità emotiva» del dolore
61
C’è placebo e placebo
61
57
I
l dolore è un grave problema non solamente per i medici ma anche per
la società. Negli Stati Uniti il costo economico valutato come giornate lavorative perse, sommate alle spese per le cure, si avvicina ogni anno ai
100 miliardi di dollari (fonte: Partners Against Pain). Nel 2006 gli scienziati
hanno fatto progressi nella comprensione dei meccanismi legati al dolore
acuto e cronico, così come nello sviluppo di mezzi per alleviarlo.
Un gruppo di ricercatori ha identificato un «commutatore generale» del
dolore neuropatico, una forma di dolore molto differente dal dolore acuto
provocato da un trauma. Un altro gruppo ha constatato che l’anticipazione
del dolore può essere peggio del dolore stesso. Degli scienziati che
studiavano dei pesticidi, hanno scoperto fortuitamente un inibitore di un
enzima che potrebbe alleviare il dolore di tipo infiammatorio senza aumentare il rischio di infarto del miocardio se associato a farmaci come il rofecoxib (Vioxx). Alcuni ricercatori canadesi hanno scoperto che i topi provano empatia, essi diventano sensibili al dolore quando vedono dei
congeneri soffrire. Altri ricercatori sostengono che l’effetto placebo di un
trattamento antalgico dipende dal tipo di placebo e dalla situazione nella
quale è somministrato.
Scoperto un commutatore generale
del dolore cronico
Il dolore neuropatico secondario alla lesione dei nervi «periferici», situati al
di fuori del cervello e del midollo spinale, è caratterizzato da una sensazione persistente di dolore lancinante o di bruciore. Esso è poco sensibile
agli oppioidi, gli analgesici più potenti a disposizione che comprendono la
morfina, la codeina e l’ossicodone (Oxycontin).
I ricercatori della Harvard Medical School diretti da Qiufu Ma hanno
annunciato in Neuron di avere scoperto una sorta di «commutatore generale» del dolore neuropatico 1. Si tratta del gene Runx 1, espresso unicamente nelle cellule nervose sensoriali denominate cellule nocicettive, che
attraverso i canali ionici della loro membrana, trasformano gli stimoli dolorosi in segnali nervosi.
58
I ricercatori hanno esposto dei topi «knock-out» (nei quali il gene Runx 1 è
stato soppresso) a stimoli termici, meccanici, infiammatori e neuropatici
misurando la loro risposta al dolore in funzione del tempo che essi impiegavano a ritirare la zampa o se la leccavano.
Il dolore
I topi hanno risposto agli stimoli dolorosi di natura meccanica, ma non
hanno dimostrato nessuna reazione agli stimoli termici, neuropatici e
infiammatori. Lo sviluppo delle loro cellule nocicettive era alterato e i canali
ionici, che partecipano alla percezione del dolore termico e neuropatico,
erano inesistenti.
Gli autori ritengono che questa scoperta potrebbe avere importanti implicazioni nello sviluppo di trattamenti più efficaci per il dolore neuropatico,
che consistono per esempio nell’impedire l’espressione del gene Runx 1.
L’anticipare il dolore può essere peggio del dolore stesso
L’attesa di un’iniezione o di un intervento medico doloroso, per certe
persone è più difficile da sopportare del dolore generato da questi gesti.
Come dimostrato da uno studio pubblicato in Science, l’apprensione per
il dolore può essere per certe persone più difficile da sopportare del
dolore stesso.
Studiando i meccanismi biologici dell’apprensione attraverso l’imaging
cerebrale, un gruppo di ricercatori della Emory University School of Medicine diretti da Gregory Berns ha costatato che circa un terzo dei volontari
che hanno subito delle scariche elettriche preferivano ricevere subito una
scarica più forte, piuttosto che aspettare una scossa di minore intensità. Ai
volontari sdraiati in un apparecchio per la risonanza magnetica nucleare,
sono state somministrate nel piede 96 scosse d’intensità variabile. La maggior parte di queste persone ha preferito ricevere una scossa elettrica più
intensa, ma con un’attesa più breve.
Lo studio indica che per la maggior parte dei volontari l’attesa della scossa
elettrica era difficile da sopportare 2. Gli individui che non potevano tollerare l’attesa e che ricevevano immediatamente una scarica più dolorosa,
sono stati classificati nella categoria «apprensione estrema». Le persone
che preferivano aspettare più a lungo una scarica di minore entità, nella
categoria «apprensione moderata».
I risultati mostrano che più la persona teme l’evento,
più i centri nocicettivi del suo cervello si concentrano sull’attesa.
Le immagini prodotte dalla risonanza magnetica mostrano che certe parti
della «matrice algica» del cervello, la rete di strutture cerebrali sensibili agli
stimoli nocicettivi, tra cui il dolore, mostravano segni di attività prima che
l’individuo ricevesse la scossa elettrica. Nelle regioni cerebrali implicate
59
nelle reazioni di timore e di ansia non è stata dimostrata una differenza che
ha permesso di distinguere tra le due categorie di apprensione. I risultati
evidenziano che più la persona teme l’evento, più i centri nocicettivi del
suo cervello si concentrano sull’attesa.
Non è ancora chiaro il legame tra queste constatazioni e il modo in cui
l’essere umano gestisce eventi sgradevoli, ma lo studio dei meccanismi
neurobiologici che sottendono all’apprensione potrebbe fornire delle indicazioni per gestire più efficacemente il dolore.
Dal pesticida all’antalgico
Dopo il ritiro dal mercato del popolare farmaco Vioxx (rofecoxib), i ricercatori dell’Università della California a Davis potrebbero avere scoperto per
caso un modo più sicuro per fronteggiare il dolore nelle persone che soffrono di artrite o altre malattie infiammatorie.
L’obiettivo di questi ricercatori, totalmente estranei alle questioni antalgiche, era quello di trovare dei pesticidi biologici che permettevano di
regolare lo sviluppo delle larve d’insetti. Nel corso del loro lavoro hanno
scoperto un nuovo enzima umano che blocca indirettamente la produzione della COX2, una proteina con un ruolo attivo nel dolore e nell’infiammazione.
La combinazione di questo enzima e dell’inibitore della COX2 permetterebbe di alleviare il dolore infiammatorio, riducendo gli effetti secondari
provocati dai farmaci somministrati. Lavorando con dei roditori, i ricercatori hanno constatato che l’enzima in questione aveva la stessa efficacia di
basse dosi di rofecoxib o celecoxib (Celebrex), un altro inibitore della
COX2, senza indurre però i cambiamenti chimici del sangue connessi alle
gravi complicazioni cardiovascolari, come l’infarto del miocardio, apparsi
nel corso di uno studio realizzato in precedenza e che hanno motivato il
ritiro del Vioxx.
60
Gli autori, il cui lavoro è stato pubblicato in Proceedings of the National
Academy of Sciences 3, ritengono che la combinazione dei due inibitori
della COX2 permette una riduzione notevole delle dosi di inibitore necessarie per il trattamento dell’infiammazione. Questa combinazione sembra
indurre sulla chimica del sangue una riduzione della tendenza alla formazione di coaguli sanguigni, l’origine più frequente dell’infarto del miocardio. Il trattamento combinato permetterebbe tra l’altro di risolvere
La «contagiosità emotiva» del dolore
Il dolore
il dilemma sull’uso dei potenti inibitori della COX2 per curare il dolore
infiammatorio.
Studi realizzati in passato hanno dimostrato che delle esperienze fatte in
età precoce e certi fattori sociali possono aggravare il dolore cronico.
Alcuni scienziati tedeschi hanno dimostrato che alcuni fattori sociali alterano la funzione cerebrale, rafforzando la sensazione di dolore 4. Un altro
studio ha mostrato che degli episodi di dolore subiti all’inizio della vita
influenzano il modo di vivere il dolore all’età adulta 5. Secondo un recente
lavoro diretto da Jeffrey Mogil, pubblicato in Science, la risposta al dolore
nei topi è più intensa alla presenza di un altro topo che soffre, l’empatia
svolge quindi un ruolo nel dolore 6.
Inducendo dei dolori addominali tramite l’iniezione di acido acetico, i ricercatori del McGill University’s Pain Genetics Laboratory, hanno determinato
che i topi abituati gli uni agli altri dimostrano un tipo di empatia definita
«contagio emotivo». L’animale riconosce lo stato emotivo dell’altro topo e
si adatta. I ricercatori hanno scoperto che questi animali diventavano più
sensibili all’acido acetico se vedevano i loro simili soffrire in seguito ad uno
stimolo termico doloroso.
I topi interagiscono tra loro attraverso i ferormoni, delle sostanze chimiche
che permettono ai membri di una stessa specie di comunicare. Dopo avere
bloccato l’olfatto, la visione e l’udito dei topi, gli autori hanno costatato che
essi avevano conservato la facoltà di percepire il dolore dei loro congeneri,
esiste quindi tra questi animali una forma di comunicazione che influenza
la risposta al dolore.
Dato che l’interazione sociale svolge un ruolo importante nel comportamento indotto dal dolore cronico, le osservazioni fatte dal gruppo della
McGill potrebbero essere utili per lo studio del dolore umano. Le scoperte
fatte sul modello del topo potrebbero essere usate per studiare i meccanismi cerebrali umani implicati nel dolore, oltre che il ruolo dei fattori sociali
nella sua gestione.
C’è placebo e placebo
Oltre 50 anni fa, un medico anestesista di Harvard, Henry K. Beecher ha
descritto per la prima volta l’effetto placebo. Per effetto placebo si intende
il fenomeno per il quale i sintomi di un paziente sono alleviati grazie
61
all’assunzione di un farmaco privo di principi attivi. Il gesto terapeutico è
sufficiente per alleviare i sintomi a condizione che il paziente crede che il
trattamento sia efficace.
In due studi pubblicati rispettivamente dal British Medical Journal e dal
Journal of Neuroscience un gruppo diretto da Ted Kaptchuk, ricercatore al
Osher Institute della Harvard Medical School, ha dimostrato che l’effetto
placebo può essere modulabile in relazione al tipo di placebo prescritto,
così come al contesto nel quale è somministrato 7, 8.
L’effetto placebo può essere modulabile in relazione al tipo di placebo
prescritto, così come alla situazione nella quale è somministrato.
Nel primo di questi due studi, il gruppo di Kaptchuk ha somministrato
un’agopuntura fittizia a 135 pazienti che soffrivano di forti dolori al braccio,
altri 135 pazienti hanno ricevuto una pastiglia priva di principio attivo.
I risultati si sono rivelati identici. Nel secondo studio, i trattamenti fittizi
sono continuati in metà dei pazienti di ogni gruppo, l’altra metà ha ricevuto
un trattamento attivo.
I pazienti trattati con l’agopuntura fittizia hanno percepito un miglioramento del dolore più marcato rispetto a quelli che hanno ricevuto le pastiglie. Secondo Kaptchuk, il rituale implicato dall’agopuntura rinforza maggiormente l’effetto placebo, un’ipotesi di lavoro che con i suoi colleghi
continua ad esplorare.
Nella fase che comprendeva anche dei trattamenti attivi, i ricercatori hanno
usato la risonanza magnetica nucleare per determinare quali sono i sistemi
cerebrali attivati dall’agopuntura fittizia. Alcuni studi precedenti avevano
evidenziato un ruolo importante nell’effetto placebo della corteccia prefrontale, dello striato e del tronco cerebrale. I ricercatori hanno costatato
una forte associazione tra determinate regioni del cervello e l’effetto placebo. Tra queste, la corteccia insulare anteriore, che attiva le sensazioni
fisiche come il dolore. Questi studi confermano che l’effetto placebo si
manifesta con dei precisi cambiamenti delle funzioni cerebrali.
62
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
La schizofrenia
64
Violenza e aggressione
66
I disturbi d’ansia
67
La depressione
68
Il suicidio negli adolescenti
69
La dipendenza alla cocaina
70
63
C
ome nel 2005, anche nel 2006 la ricerca sulla salute mentale ha continuato a studiare il ruolo dei geni e delle loro interazioni con i fattori ambientali nei disturbi psichiatrici. La novità del 2006 è costituita dall’attenzione
agli aspetti clinici e genetici dei trattamenti.
La ricerca sulla schizofrenia ha analizzato l’efficacia dei farmaci antipsicotici
di recente commercializzazione, paragonandoli ai predecessori. Gli studi
genetici sulla depressione si sono concentrati sulla ricerca di predittori dell’efficacia dei trattamenti antidepressivi e sugli eventuali nessi tra questi
trattamenti e il suicidio. I ricercatori hanno inoltre cercato di capire se il trattamento antidepressivo assunto da una madre aumenta l’eventualità che i
figli sviluppino dei sintomi depressivi.
La schizofrenia
I farmaci antipsicotici costituiscono da molto tempo il trattamento principale per i pazienti affetti da schizofrenia. Purtroppo molte di queste molecole inducono sgradevoli effetti collaterali a causa dell’effetto inibitorio
sul sistema dopaminergico. Spesso gli psichiatri preferiscono prescrivere
degli antipsicotici di seconda generazione o «atipici», che riducono il
rischio di bloccare la trasmissione di dopamina nelle regioni del cervello
non direttamente implicate nella malattia. La questione da capire é se i farmaci di questa nuova classe terapeutica sono più efficaci e meglio tollerati
dai pazienti rispetto agli antipsicotici di prima generazione.
Secondo gli studi realizzati nel 2005 e nel 2006 da Jeffrey Lieberman e
dai suoi colleghi, la maggior parte dei nuovi farmaci non è più efficace e
nemmeno meglio tollerata. Il lavoro pubblicato nel 2005, non rivela nessuna differenza di efficacia tra i farmaci antipsicotici di prima e di seconda
generazione 1. Per quel che concerne la tolleranza, il tasso di abbandono
della terapia farmacologica è un po’ ridotto con l’olanzapina, una molecola
di seconda generazione in relazione agli altri farmaci, purtroppo però
questo medicinale induce un fastidioso aumento di peso e altri effetti collaterali metabolici.
64
Gli stessi ricercatori hanno pubblicato nel 2006, nell’American Journal of
Psychiatry, due studi nei quali hanno esaminato più dettagliatamente i
trattamenti antipsicotici. Le persone affette da schizofrenia cronica che
perseverano nel trattamento sono più numerose con l’olanzapina e il risperidone rispetto agli antipsicotici atipici 2.
Nelle persone che non hanno tratto beneficio dagli antipsicotici atipici, gli
autori si sono interessati all’efficacia della clozapina, un farmaco di ultimo
ricorso a causa dei gravi effetti collaterali. I pazienti rispondono meglio alla
clozapina rispetto ad un secondo antipsicotico atipico 3.
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
Differenze tra farmaci antipsicotici
Il ricercatore Jeffrey Lieberman ha paragonato l’efficacia degli antipsicotici di prima e di
seconda generazione dimostrando che i nuovi farmaci sono globalmente meno efficaci.
In uno studio indipendente realizzato a Cambridge in Gran Bretagna, Peter
Jones e il suo gruppo di ricercatori, hanno studiato l’efficacia degli antipsicotici di seconda generazione nel trattamento della schizofrenia cronica. Ai
partecipanti è stato prescritto in modo randomizzato un farmaco di prima o
di seconda generazione. I pazienti sono stati seguiti per un anno da un
medico all’oscuro del tipo di farmaco che essi assumevano. Il medico valutava i sintomi, gli effetti collaterali e la qualità di vita.
Il gruppo di Peter Jones ipotizzava che i farmaci atipici fossero più efficaci
dei loro predecessori, i risultati hanno tuttavia dimostrato il contrario. La
reazione al trattamento e la qualità di vita erano migliori nei pazienti che
assumevano dei farmaci di prima generazione rispetto agli altri 4.
Come previsto, gli psichiatri sono rimasti stupiti dagli studi di Jeffrey Lieberman e di Peter Jones. I risultati suggeriscono che gli antipsicotici atipici dovrebbero essere riservati ai pazienti resistenti ai farmaci di prima generazione.
65
I neuroni dopaminergici sono sempre al centro della ricerca sulle cause
della schizofrenia. I primi studi attribuivano alla secrezione eccessiva di
dopamina una delle ragioni possibili dei disturbi del comportamento osservati nella malattia. Secondo Michael O’Donovan, Michael Owen e i loro
collaboratori, un’anomalia nel funzionamento delle cellule gliali potrebbe
essere una causa della malattia. I ricercatori si sono basati sull’osservazione
di differenze strutturali e volumetriche della materia bianca del cervello
(costituita dalle connessioni nervose) osservate post-mortem o con il
neuroimaging, tra persone affette da schizofrenia e soggetti in buona
salute. Le cellule gliali sono parte del sistema nervoso centrale, esse producono la mielina, una sostanza isolante costituita da lipidi e da proteine
che avvolge gli assoni dei neuroni e permette all’influsso nervoso di passare più facilmente da una cellula cerebrale all’altra.
I neuroni dopaminergici sono sempre al centro della
ricerca sulle cause della schizofrenia.
Il loro studio, pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences, indica che la variazione di un gene chiamato OLIG2, che regola la produzione di mielina, rende vulnerabili alla schizofrenia le persone portatrici
di questo gene. Secondo i ricercatori, ulteriori ricerche sui geni che controllano la produzione della mielina potranno migliorare le nostre conoscenze sui complessi meccanismi implicati nella genesi della schizofrenia 5.
Violenza e aggressione
Da centinaia di anni si cerca di capire cosa porta l’uomo ad essere violento
e ad aggredire i suoi simili. L’aspetto socio-ambientale di questa questione
è stato ampiamente esplorato, l’analisi della componente genetica è stata
invece più difficoltosa e ha dato adito a molteplici contestazioni.
66
Il nesso genetico con i comportamenti violenti di cui oggi siamo più certi
riguarda la monoamminossidasi A (MAOA), un enzima direttamente implicato nella degradazione metabolica di un neurotrasmettitore, la serotonina. Andreas Meyer-Lindenberg e il suo gruppo hanno pubblicato in
Proceedings of the National Academy of Sciences i risultati di un lavoro
nel quale il ruolo della MAOA è stato studiato con la tecnica denominata
«morfometria basata sui voxel» (VBM: voxel-based morphometry). Un’innovativa tecnica di risonanza magnetica che si avvale di una particolare
analisi morfometrica in grado di evidenziare anche modeste differenze
del tessuto cerebrale non percepibili con la risonanza magnetica tradizionale. I ricercatori hanno evidenziato delle differenze strutturali e funzionali
significative nel cervello tra le persone violente senza antecedenti psichiatrici ma portatrici di una variante genetica che indebolisce l’espressione
della MAOA e le persone che esprimono maggiormente la MAOA.
Le persone con un’espressione ridotta della MAOA presentano una riduzione del volume di materia grigia a livello del giro del cingolo, dell’amigdala e della corteccia del cingolo anteriore. Mostrano inoltre un aumento
dell’attività nell’amigdala e nelle regioni limbiche, strutture implicate nel
trattamento degli stimoli emotivi, quando è chiesto loro di distinguere tra
volti arrabbiati e spaventati.
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
Il gene collegato alla violenza
I risultati ottenuti con due tipi di risonanza magnetica, evidenziano delle differenze cerebrali nelle persone con una variante genetica collegata all’aggressività. In particolare
sono ridotti il volume e l’attività di una regione, la corteccia del cingolo anteriore ( in grigio scuro). Questa regione controlla l’aggressività e le emozioni.
Gli autori hanno rilevato anche una differenza legata al sesso; l’attività dell’amigdala e l’ippocampo è più marcata negli uomini rispetto alle donne
quando devono svolgere un test di memoria con una componente emotiva. Hanno notato che se sono molteplici i fattori che concorrono nei comportamenti violenti, potrebbe esserci una predisposizione biologica alla
violenza impulsiva, in particolare nelle persone di sesso maschile portatrici
di questa variante genetica 6.
I disturbi d’ansia
I geni sono stati anche al centro della ricerca sui disturbi d’ansia. Lavorando
sul modello murino, Carrolee Barlow e i suoi colleghi del Salk Institute
hanno identificato 17 geni la cui espressione è associata ai tipici sintomi
67
ansiosi. In uno studio pubblicato in Nature, gli autori ipotizzano come
causa dei disturbi di tipo ansioso, due geni associati allo stress ossidativo.
L’aumento della produzione di ossidanti porta alla morte dei neuroni.
Dopo avere trasferito i geni nelle cellule di topo con l’ausilio di virus, i ricercatori hanno constatato un inasprimento del comportamento di tipo
ansioso tra i topi che li esprimevano maggiormente 7.
Nello stesso ordine di idee, il gruppo diretto da David Goldman ha studiato
i geni associati ad uno specifico disturbo d’ansia : i disturbi ossessivi compulsivi. I ricercatori hanno costatato che l’HTT, il gene per il trasportatore
della serotonina, è implicato in questi disturbi. In un articolo pubblicato nel
American Journal of Human Genetics, essi discutono la scoperta di una
terza variante genetica del HTTLPR, mentre fino ad ora si riteneva esistessero solo due varianti. Diversi metodi di analisi genotipica hanno permesso
di evidenziare una variante di questo gene che potrebbe rivoluzionare la
nostra concezione neurobiologica dei disturbi ossessivi compulsivi 8. Forse
questi nuovi approcci genetici permetteranno di comprendere le cause
finora difficili da cogliere di queste alterazioni del comportamento.
La depressione
La stimolazione cerebrale profonda continua a suscitare interesse per il
trattamento delle depressioni resistenti ai farmaci classici. I nuovi studi di
Helen Mayberg e dei suoi colleghi della Emory University potrebbero
chiarire se questa tecnica può venire estesa con profitto ad altre categorie
di pazienti 9.
Tra gli altri temi studiati, ci sono i fattori genetici che influenzano la risposta
ai trattamenti antidepressivi abituali. Gli scienziati diretti da Francis McMahon hanno studiato le basi genetiche delle differenze individuali nei trattamenti antidepressivi. Studiando il DNA di 1953 pazienti affetti da depressione maggiore e trattati con il citalopram, un antidepressivo comune, i
ricercatori hanno evidenziato un nesso significativo tra i buoni risultati terapeutici e la variante A del HTR2A, il gene responsabile della sintesi del
recettore alla serotonina. I risultati di questo studio sono stati pubblicati
nell’American Journal of Human Genetics 10.
68
La variante A sarebbe sei volte più frequente nei soggetti di tipo caucasico
rispetto ai pazienti afroamericani, questo potrebbe spiegare la minore
sensibilità al citalopram di questi pazienti. I risultati forniscono degli elementi determinanti sul ruolo di questo gene nell’attività antidepressiva
Quando le madri sono curate con dei farmaci antidepressivi
per tre mesi, nei loro figli si osserva una riduzione della diagnosi
di depressione e di altre malattie.
Myrna Weissman e i suoi collaboratori hanno illustrato un fenomeno interessante sulla depressione del bambino. È noto da molto tempo che i figli
di genitori depressi hanno un rischio maggiore di sviluppare a loro volta dei
sintomi di depressione. Il gruppo della Weissman ha riportato nel Journal
of the American Medical Association, che quando le madri sono curate
con successo con dei farmaci antidepressivi per tre mesi, nei loro figli si
osserva una riduzione della diagnosi di depressione e di altre malattie.
Inversamente, i figli delle madri che restano depresse mostrano un
aumento dei sintomi, ciò indica che dei fattori ambientali possono influire
sulla psicopatologia di bambini ad alto rischio 11.
Il suicidio negli adolescenti
Un gruppo di ricercatori diretto da Mark Olfson si è interessato ad un
aspetto diverso del trattamento antidepressivo: la sua relazione con i tentativi di suicidio e i decessi osservati negli adulti e nei bambini. I risultati
dello studio, pubblicati in Archives of General Psychiatry permettono di
concludere l’assenza di un nesso fra trattamento antidepressivo e tentativi
di suicidio o morte nell’adulto, ma è stato dimostrato un legame nei bambini e negli adolescenti. Alla luce di questi risultati occorre rendere attenti
medici e genitori ai trattamenti farmacologici prescritti ai giovani pazienti 12.
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
dei farmaci e potrebbero spiegare le differenze nella risposta terapeutica
osservate secondo l’origine dei pazienti.
La neurobiologia della depressione indotta dallo stress è il soggetto dello
studio pubblicato in Nature Neuroscience da Eric Nestler e il suo gruppo.
Gli autori hanno sottoposto dei topi ad uno stress cronico di frustrazione
sociale, un precursore frequente dei disturbi depressivi. I ricercatori hanno
osservato che lo stress ha ridotto la produzione del fattore neurotrofico
BDNF nell’ippocampo e ha indotto dei cambiamenti in specifiche proteine
associate alla trascrizione dei geni, un fenomeno chiamato metilazione
degli istoni.
In seguito i ricercatori hanno somministrato un trattamento antidepressivo sotto forma di dose quotidiana di imipramina. La molecola antidepressiva ha invertito gli effetti osservati, come se fosse stata somministrata
69
un’infusione di BDNF. I risultati sembrano dimostrare che la metilazione
degli istoni e i fenomeni a lei connessi, potrebbero essere un possibile bersaglio interessante per i farmaci antidepressivi 13.
Michel Lazdunski e i suoi collaboratori hanno identificato un’altra area di
interesse per i trattamenti antidepressivi. Secondo lo studio pubblicato
in Nature Neuroscience, il TREK-1, un canale al potassio regolato dalla
serotonina, è implicato nella resistenza alla depressione nei topi. I topi
privi del canale TREK-1 dimostrano una notevole resistenza alla depressione sotto stress, questo canale potrebbe quindi essere l’obiettivo per dei
farmaci antidepressivi 14.
La dipendenza alla cocaina
Il desiderio di droga è la conseguenza di una maggiore secrezione di dopamina? Perché le immagini, i suoni o altri elementi che evocano l’uso di droghe possono innescare anche molti anni dopo delle reazioni condizionate
in ex-tossicodipendenti?
Grazie a degli studi di neuroimaging è noto che questo tipo di reazione è
associata ad un’attivazione di determinate strutture del sistema limbico.
Utilizzando la tomografia ad emissione di positroni, un gruppo diretto da
Nora Volkow ha evidenziato una secrezione condizionata di dopamina
nello striato dorsale di ex-consumatori di cocaina ai quali è mostrato un
video con delle scene connesse alla tossicomania.
A giudicare dai risultati pubblicati nel Journal of Neuroscience, sembra che
i farmaci che impediscono una secrezione eccessiva di dopamina possano
avere un ruolo utile nel trattamento delle dipendenze 15.
L’imaging funzionale ha anche mostrato che le immagini connesse alla tossicomania attivano diverse regioni del cervello tra le quali la corteccia prefrontale e l’amigdala. Queste strutture sono in relazione con l’area tegmentale ventrale (ATV), i cambiamenti sinaptici della quale posono orientare i
ricercatori verso le cause neurobiologiche delle dipendenze, delle disintossicazioni e delle ricadute.
70
Mu-Ming Poo e il suo gruppo hanno pubblicato in Nature Neuroscience i
risultati di uno studio nel corso del quale hanno esaminato i neuroni dopaminergici dell’ATV di ratti in astinenza da cocaina. Gli scienziati hanno
constatato in questi neuroni un livello più elevato di fattore neurotrofico
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
cerebrale (BDNF). Secondo gli autori è possibile che l’aumento di secrezione del BDNF connesso alla disintossicazione induca sui neuroni dopaminergici dell’ATV un effetto eccitante: innesca una serie di reazioni che
inducono un forte desiderio di droga nelle persone che ricordano il loro
passato di consumatore 16.
71
I disturbi sensoriali
e delle funzioni corporee
Udito: la rigenerazione delle cellule cigliate
nei mammiferi
74
Come è possibile riconoscere un volto
75
La detezione dei feromoni
76
I circuiti del sonno REM
76
Orologi circadiani e alimentazione
77
Identificato il recettore dell’acidità
79
Cellule staminali e visione
79
73
G
razie al progresso delle tecnologie, gli scienziati possono esplorare i
complessi meccanismi del funzionamento cerebrale ed arricchire le loro
conoscenze sui rapporti tra il cervello, i sensi e le funzioni corporee. È un
ambito molto vasto; dagli strumenti della genomica utilizzati per esplorare
il meccanismo del sonno a movimenti oculari rapidi, all’influenza degli
orologi circadiani sull’alimentazione, all’identificazione di una regione del
cervello interamente dedicata al riconoscimento dei volti. Nel 2006 la
scienza ha risposto a questioni fondamentali sull’udito, l’olfatto, il gusto e
la visione.
Udito: la rigenerazione delle cellule cigliate
nei mammiferi
La sordità neurosensoriale, una malattia attualmente irreversibile, costituisce la causa di perdita dell’udito più frequente negli Stati Uniti. Essa è
la conseguenza di un danno alle cellule cigliate dell’orecchio interno in
seguito all’età, all’esposizione a rumori particolarmente intensi e all’uso
di determinati farmaci. Gli scienziati che cercano di sviluppare nuovi
trattamenti per certi tipi di sordità, hanno appreso con soddisfazione la
notizia secondo la quale queste cellule indispensabili per l’udito potrebbero rigenerarsi.
Questo lavoro lascia sperare che in futuro dei farmaci potranno
riuscire a vincere certe forme di sordità nell’uomo.
Le cellule sensoriali dell’orecchio interno, la coclea, si rigenerano negli
uccelli e in altri vertebrati inferiori, ma non nell’uomo o nei mammiferi in
generale. Le cellule cigliate interessano da molto tempo gli scienziati che
cercano nuovi trattamenti per la perdita neurosensoriale dell’udito. In uno
studio pubblicato su Nature, Neil Segil, Andy Groves e i loro colleghi del
House Ear Institute di Los Angeles hanno scoperto che un gene denominato p27Kip1, o semplicemente p27, ostacola la divisione cellulare nell’orecchio interno 1.
74
Lavorando sulle cellule sensoriali di topo in coltura, i ricercatori hanno scoperto che negli animali appena nati questo gene è silente, per permettere
alle cellule di sostegno di moltiplicarsi e di differenziarsi in cellule cigliate.
Nelle colture di cellule di topi di due settimane al contrario, il gene p27 è
attivo e blocca la divisione cellulare. I ricercatori hanno osservato che se
nelle cellule di topi di due settimane il gene p27 è soppresso, si formano le
cellule cigliate. La disattivazione del gene potrebbe quindi permettere di
ottenere una ricrescita delle cellule cigliate dell’orecchio interno così da
ristabilire le facoltà uditive.
Questo fenomeno che per ora è stato evidenziato solo su colture di cellule
di topo, lascia sperare che in futuro dei farmaci riusciranno a vincere certe
forme di sordità nell’uomo.
I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee
Peli nelle orecchie
Le cellule cigliate dell’orecchio interno, riprese con un
microscopio elettronico, normalmente non si rigenerano.
I ricercatori hanno dimostrato che inibendo l’attività
di un gene nel topo, le cellule cigliate ricrescono ristabilendo l’udito.
Come è possibile riconoscere un volto
Uno studio pubblicato in Science sostiene l’idea di alcuni neuroscienziati
che, contrariamente ad altri, considerano il cervello come un mosaico di
regioni specializzate per lo svolgimento di specifici compiti 2. Nell’ambito di
questo studio, dei ricercatori della Harvard Medical School e dell’Università di Brema in Germania, hanno identificato un’area della corteccia visiva
in cui tutti i neuroni sono specializzati per un unico compito: la percezione
dei volti.
Nell’uomo esistono dei neuroni specializzati la cui unica funzione
è quella del riconoscimento dei volti.
Utilizzando la risonanza magnetica funzionale, un gruppo diretto da Margaret Livingstone ha identificato tre zone della corteccia cerebrale del
macaco che apparentemente svolgono un ruolo importante nel riconoscimento dei volti. Dopo avere mostrato ai macachi 96 fotografie di volti,
mani, corpi, frutti, oggetti diversi e delle immagini geometriche, i ricercatori hanno registrato l’attività elettrica individuale dei neuroni nella più
grande delle tre regioni in questione. Essi hanno constatato che c’era una
probabilità 50 volte maggiore che i neuroni visivi (97% dei neuroni studiati)
75
reagissero ai volti rispetto alle altre immagini. Le altre immagini alle quali
hanno reagito i neuroni visivi rappresentavano oggetti arrotondati, che
ricordavano la forma ovale del volto.
Le importanti similitudini fisiologiche tra il cervello del macaco e quello dell’uomo permettono di ipotizzare che esistono in quest’ultimo dei neuroni
specializzati la cui unica funzione è quella del riconoscimento dei volti. Utilizzando l’imaging per studiare il fenomeno del riconoscimento dei volti,
potrebbe essere possibile sviluppare nuovi metodi per la detezione delle
menzogne (vedi il capitolo sulla Neuroetica, p. 40).
La detezione dei feromoni
Il cervello di molti animali è in grado di rivelare i feromoni, i segnali chimici
che permettono di attirare il sesso opposto. Il cervello umano sembrava non
possedere questa facoltà, recenti studi dimostrano tuttavia che anche il cervello umano reagisce ai feromoni. Probabilmente l’epitelio olfattivo, che contiene dei neuroni che riconoscono gli odori, è sensibile anche ai feromoni.
Gli scienziati del centro di ricerca sul cancro Fred Hutchinson di Seattle,
hanno studiato il ruolo della detezione dei feromoni dell’epitelio olfattivo
nel topo. Nel loro studio diretto da Stephen Liberles e Linda Buck e pubblicato in Nature, essi hanno identificato nell’epitelio olfattivo del topo dei
recettori olfattivi denominati TAARs, trace amine-associated receptors 3.
Questi recettori sono diversi da quelli che captano gli odori. Secondo studi
pubblicati in precedenza, alcuni sarebbero attivati da sostanze contenute
nell’urina dei topi, notoriamente ricca di feromoni. Nel loro studio Liberles
e Buck hanno scoperto che l’isoamylamina, una tra le sostanze alla quale
reagiscono i TAARs, si comporta come un feromone e accelera la pubertà
nel topo femmina.
I TAARs potrebbero quindi costituire un modo alternativo di detezione dei
feromoni. Dato che i geni che codificano per i TAARs sono presenti anche
nei pesci e negli esseri umani, è possibile che questi ultimi usino questi
recettori per riconoscere i feromoni.
I circuiti del sonno REM
76
Sebbene risalga ad oltre 50 anni la scoperta del sonno a movimenti oculari
rapidi (REM, rapid-eye-movement) associato con il sogno, non è ancora
noto come il cervello passi dal sonno REM al sonno non REM.
I modelli precedenti ponevano l’accento sull’interazione tra i neuroni
colinergici, attivi durante il sonno REM e i neuroni monoaminergici che
invece erano inattivi. Il modello proposto dal gruppo di Harvard, che i
ricercatori definiscono «flip-flop switch» (interruttore avanti-indietro),
mostra tuttavia che la disattivazione di questi due tipi di neuroni influisce
poco sul sonno REM.
Essi hanno scoperto che l’interazione reciproca tra i neuroni provoca la
liberazione di un messaggero chimico, l’acido gamma-aminobutirrico,
presente nell’insieme del cervello, che legandosi ai neuroni, inibisce la
loro attività.
I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee
Dei ricercatori della Harvard Medical School hanno descritto, nel 2006, il
modello di come il cervello controlla il passaggio di entrata e uscita dalla
fase REM. Lo studio, realizzato da Clifford Saper e dal suo gruppo, pubblicato in Nature, esamina i meccanismi che sottendono il sogno e l’abolizione del tono muscolare nel corso del sonno REM 4.
Un problema nella regolazione di quest’interazione potrebbe essere all’origine di certe stranezze del sonno come il disturbo comportamentale nel
sonno REM, durante il quale la persona vive fisicamente il suo sogno, o le
allucinazioni ipnagogiche, una sorta di sogno in stato di veglia.
I ricercatori di farmaci che aiutano a dormire non hanno mai considerato i
passaggi tra i vari stadi del sonno. Comprenderne la regolazione potrebbe
portare a dei trattamenti più efficaci dei disturbi del sonno.
Orologi circadiani e alimentazione
Gli scienziati sanno da molto tempo che se si nutrono gli animali unicamente durante le loro normali ore di sonno, si alterano i loro cicli del sonno
e le funzioni biologiche così da permettere agli animali di essere svegli e
all’erta quando il cibo è disponibile. Due diversi studi pubblicati da un
gruppo della Harvard Medical School e l’altro da ricercatori dell’University
of Texas Southwestern Medical Center, ipotizzano le ragioni che potrebbero spiegare il cambiamento.
Il gruppo di Harvard, diretto da Clifford Saper, si è interessato al nucleo
dorso mediale dell’ipotalamo (DMH), che è in contatto con le regioni del
cervello implicate nell’alimentazione, il metabolismo energetico, la regolazione dello stato di veglia e di sonno, la temperatura corporea ed altri
77
Veglia, alimentazione
Rilascio di
corticosteroidi
Corteccia
Ipotalamo
CRH
0,4 mm
lateralmente alla linea mediana
Orexina
MCH
PVH
Sonno
LHA
GABA
VLPO
dSPZ
Termoregolazione
Glutammato
TRH
MPO
vSPZ
DMH
VMH
SCN
ARC
Stimoli della fame
Leptina
Ghrelina
Mangiare e dormire per sopravvivere
Il nucleo dorso mediale dell’ipotalamo controlla il ciclo sonno-veglia, l’alimentazione, la
temperatura corporea. Questa regione cerebrale può sincronizzare l’orologio cerebrale
interno situato nel nucleo soprachiasmatico a dipendenza della disponibilità di cibo.
processi. Lo studio, pubblicato su Nature Neuroscience, mostra che il
DMH può staccarsi dall’orologio biologico del cervello e determinare un
nuovo orario interno, per approfittare del cibo a disposizione 5.
Gli scienziati hanno dimostrato che il DMH può staccarsi
dall’orologio biologico del cervello e determinare un nuovo orario
interno, così da approfittare della disponibilità di cibo.
Il secondo studio, pubblicato da Masashi Yanagisawa e i suoi colleghi in
Proceedings of the National Academy of Sciences, mostra che i neuroni
del DMH contengono un orologio solitamente inattivo. Quando è ridotta la
disponibilità di cibo, esso si sincronizza sui momenti di disponibilità alimentare, permettendo al DMH di stabilire il suo ritmo circadiano che
esclude l’orologio biologico cerebrale 6.
78
Questi due studi propongono alla ricerca sugli orologi circadiani e l’alimentazione nuovi obiettivi che potrebbero essere interessanti per sviluppare
dei trattamenti contro l’obesità.
Gli umani hanno sulla lingua delle papille gustative che permettono di
distinguere cinque gusti specifici: amaro, dolce, salato, acido e l’umami, un
termine giapponese che designa il sapore del glutammato monosodico. Gli
scienziati hanno identificato i recettori che rilevano tre di questi gusti:
amaro, dolce ed umami.
Nel 2006 due studi realizzati indipendentemente da due gruppi di ricercatori hanno identificato una proteina che permette agli esseri umani e ad
alcune delle specie animali di percepire l’acidità e altri gusti, presenti negli
alimenti avariati o acerbi. La proteina, di cui si parla in Nature e in Proceedings of the National Academy of Sciences, è la PKD2L1, presente in
alcune delle papille gustative ma assente in quelle che riconoscono il
dolce, l’amaro e l’umami 7, 8.
Il gruppo dell’Università della California di San Diego, diretto da Charles
Zuker, ha pubblicato il suo studio in Nature. Questi ricercatori hanno lavorato con dei topi geneticamente privati della PKD2L1. Gli animali reagiscono agli altri sapori, ma sono completamente indifferenti all’acido citrico,
all’aceto o altri sapori acidi.
I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee
Identificato il recettore dell’acidità
Il gruppo della Duke University, diretto da Hiroaki Matsunami, ha affermato in Proceedings of the National Academy of Sciences che con studi di
questo genere si comprenderà la modalità con la quale il cervello tratta le
informazioni sensoriali e come l’industria potrà in futuro servirsene per
modificare il sapore degli alimenti.
Cellule staminali e visione
Le cellule staminali embrionali potrebbero diventare un trattamento per la
degenerazione maculare senile (DMS). Prima causa di cecità nelle persone
di oltre 65 anni, questa malattia è secondaria ad un deterioramento della
retina e della macula, la regione situata al centro della retina, da cui dipende
la visione centrale.
In certi tipi di degenerazione maculare, si atrofizzano progressivamente le
cellule dell’epitelio pigmentato della retina, che rivestono la base retinica.
In uno studio pubblicato in Cloning and Stem Cells, un gruppo dell’Oregon Health and Science University diretto da Raymond Lund ha trasformato le cellule staminali embrionali in cellule dell’epitelio pigmentato della
retina, poi le ha iniettate negli occhi di ratti malati 9. Dopo sei settimane, gli
79
scienziati, esaminando la visione degli animali hanno constatato che i ratti
che avevano ricevuto le cellule staminali trasformate avevano una visione
in gran parte conservata, gli animali non trattati erano pressoché ciechi.
Gli scienziati, esaminando la visione degli animali hanno
constatato che i ratti che avevano ricevuto le cellule staminali
trasformate avevano una visione in gran parte conservata,
gli animali non trattati erano pressoché ciechi.
In un altro studio dello stesso genere, diretto da Robin Ali all’University
College di Londra, sono state trapiantate delle cellule che si sono trasformate nelle cellule recettrici della retina, i fotorecettori 10. Questi studi indicano che le cellule staminali e altre cellule primitive possono essere una via
possibile per il trattamento della degenerazione maculare.
Malgrado queste scoperte, gli autori evidenziano che la malattia oculare
del ratto non può essere assimilata alla degenerazione maculare che colpisce l’essere umano. Altri studi dovranno dimostrare se questa via può
essere intrapresa per curare la forma umana della patologia.
80
Cellule staminali
e neurogenesi
La neurogenesi nella corteccia cerebrale
82
Una risposta spontanea alle lesioni
84
Neurogenesi ed epilessia
86
Gli antidepressivi stimolano uno stadio specifico
della neurogenesi
86
Le proteine patogene e lo sviluppo delle cellule
del cervello
87
Le cellule di sostegno diventano cancerogene
88
La proteina Notch attiva le cellule staminali
89
81
N
el corso dell’intera vita nel cervello nascono nuovi neuroni, un fenomeno denominato neurogenesi. La neurogenesi costituisce per il cervello
uno strumento per autoripararsi che potrebbe essere usato a fini terapeutici, le anomalie della neurogenesi potrebbero anche contribuire allo
sviluppo di certi disturbi. Le cellule immature e versatili conosciute come
cellule staminali continuano a far sperare in nuove terapie. Nel 2006 i ricercatori hanno fatto passi avanti nella conoscenza delle vie che esse utilizzano per trasformarsi in neuroni. Ma le staminali riescono a svolgere precisi compiti nel cervello?
La neurogenesi nella corteccia cerebrale
Dal 1998 è noto che nell’ippocampo del cervello umano adulto nascono
nuovi neuroni, è meno chiaro se la neurogenesi avviene anche in altre
regioni del cervello. Non è nemmeno possibile affermare con certezza
se l’adattabilità cerebrale, definita plasticità, è una conseguenza del
riadattamento delle cellule già esistenti oppure della produzione di
nuove cellule.
Esiste un metodo innovativo per datare le cellule cerebrali: il carbonio 14
(14C). Negli anni 1950 in seguito a test nucleari, questo elemento è stato
liberato nell’atmosfera in quantità considerabili. Il 14C è stato quindi assorbito dal DNA dei vegetali, degli animali e degli uomini e decade in quantità
misurabili nel tempo. Nel 2005 un gruppo di ricercatori del Karolinska Institute di Stoccolma diretto da Jonas Frisen ha dimostrato che la concentrazione di 14C nella corteccia cerebrale delle persone adulte è identica a
quella dell’atmosfera al momento della loro nascita, quindi pochi, quasi
nessuno dei neuroni corticali sono stati prodotti nel corso della vita.
Frisen e i suoi colleghi si sono associati a diversi altri laboratori per ampliare
lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati su Proceedings of the National
Academy of Sciences 1. Lavorando su campioni di tessuto cerebrale prelevati nel corso dell’autopsia di sette persone nate tra il 1933 e il 1973, i
ricercatori hanno misurato la concentrazione di C14 in tutti i lobi cerebrali.
Il livello di C14 misurato corrisponde alla concentrazione atmosferica di
carbonio al momento della loro nascita, un’ulteriore dimostrazione che la
neurogenesi corticale cessa alla nascita.
82
Gli autori ipotizzano che nell’ippocampo le cellule che nascono svolgono
un ruolo in certi tipi di memoria. Le funzioni cognitive come l’apprendimento
I neuroni corticali sembrano essere tra le prime cellule
prodotte nell’embrione umano.
La corteccia cerebrale è il luogo delle funzioni «superiori», come il pensiero
e l’analisi, essa è considerata come la parte del cervello che distingue
l’uomo dalle altre specie. Uno studio riportato in Nature Neuroscience
mostra che i neuroni corticali sembrano essere tra le prime cellule prodotte
nell’embrione umano.
Alcuni ricercatori diretti da Colin Blakemore, dell’Università d’Oxford e
Pasko Rakic, della Yale University, hanno identificato una popolazione
differente di neuroni che appare nel corso delle prime settimane di gravidanza. Tali predecessori nascono nell’area che diventerà la corteccia,
apparendo prima dei neuroni che costituiscono gli strati più profondi del
cervello. Nel corso dello sviluppo cerebrale essi migrano verso determinati
luoghi della corteccia.
Cellule staminali e neurogenesi
e l’analisi dipendono al contrario dalle cellule corticali presenti alla nascita,
per quel che riguarda la corteccia la stabilità prevale sulla plasticità.
I precursori producono un insieme di proteine specifiche, che possono
essere identificate con dei markers, quindi costituiscono una popolazione
cellulare differente. Questa scoperta dimostra che le prime cellule del
cervello specificamente «umano» appaiono ad uno stadio molto precoce
dello sviluppo embrionale. Essa è importante perché permette di comprendere meglio lo sviluppo normale del cervello, ma anche l’origine di
numerosi disturbi cognitivi 2. Per esempio, recenti scoperte sull’autismo
suggeriscono delle anomalie dello sviluppo corticale (vedi a questo proposito «Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia» pag. 18).
L’uso terapeutico delle cellule staminali dipende dalla loro capacità di trasformarsi in cellule specializzate necessarie per correggere una determinata malattia. Secondo un articolo pubblicato in Nature Neuroscience, la
loro plasticità, o pluripotenza, ha dei limiti 3.
Un gruppo diretto da Sally Temple, dell’Albany Medical College, a New
York, ha scoperto che la tempistica che regola lo sviluppo corticale è
codificata nelle cellule progenitrici che danno origine ai neuroni e non
dipende da segnali generati dall’ambiente. La corteccia si sviluppa in
strati successivi, i neuroni di ogni strato sono prodotti secondo un programma determinato.
83
I ricercatori hanno scoperto che quando le cellule neurali progenitrici prelevate da topi erano isolate e fatte crescere in coltura, i neuroni che ne risultavano, apparivano nella stessa sequenza come se fossero in un cervello
embrionale. Ad ogni stadio dello sviluppo le staminali in questione hanno
perduto parte della loro plasticità. Togliendo il gene denominato Foxg1,
necessario allo sviluppo della corteccia, i ricercatori sono riusciti a ristabilire il timing che dirigeva la prima metà della gestazione dei neuroni, ma
non quello della fine della gestazione.
Tale scoperta possiede importanti implicazioni per l’uso terapeutico delle
cellule staminali. Essa indica che la sequenza dello sviluppo è programmata
fin dall’inizio e che è breve l’intervallo di tempo nel quale le cellule possono
essere fuorviate dal loro «destino».
Una risposta spontanea alle lesioni
Numerosi studi realizzati nell’animale dimostrano che nel cervello adulto
una lesione provoca un aumento della neurogenesi, un fenomeno che
conosciuto nei dettagli potrebbe essere sfruttato per curare le lesioni prodotte da traumi o da incidenti vascolari. Nella rivista Journal of Neuroscience, T. Yamashita e i suoi colleghi, affermano di avere scoperto che
dopo un ictus, delle cellule staminali neurali che abitualmente producono
solo le cellule olfattive, hanno dato origine a nuovi neuroni nello striato, il
luogo dove si era prodotta la lesione 4.
I nuovi neuroni hanno stabilito le connessioni con le vicine cellule dello
striato. Questo potrebbe avere delle implicazioni terapeutiche nel trattamento degli ictus cerebrovascolari e di altri disturbi neurologici.
84
Studiando il ruolo della neurogenesi nel recupero dopo un ictus nell’uomo, David Greenberg e il suo gruppo del Buck Institute for Age
Research, hanno cercato la presenza di nuovi neuroni nelle biopsie
dei tessuti che provenivano da lesioni cerebrali secondarie ad un ICV.
Come affermato in Proceedings of the National Academy of Sciences,
nelle aree attorno alla lesione gli scienziati hanno trovato dei marker
molecolari che attestano la presenza di nuovi neuroni, in particolare in
prossimità dei vasi sanguigni che producono i fattori di crescita che
stimolano la divisione e la crescita dei neuroni nel corso della neurogenesi 5. Si può concludere quindi che esiste un certo grado di neurogenesi spontanea e che potrebbe essere amplificato con l’ausilio di
farmaci.
Cellule staminali e neurogenesi
Neurogenesi e lesioni del midollo spinale
Il gruppo di ricerca diretto da Fred Gage, nella foto, e da Michael Tuszynski, del
Salk Institute, ha dimostrato che i nuovi neuroni appaiono spontaneamente dopo
una lesione del midollo spinale. Questo processo può servire per lo sviluppo di nuove
terapie.
La neurogenesi potrebbe costituire una reazione
spontanea anche alle lesioni del midollo spinale,
un fenomeno che potrebbe diventare
un’opzione terapeutica.
La neurogenesi potrebbe costituire una reazione spontanea anche alle
lesioni del midollo spinale, un fenomeno utilizzabile come possibile terapia. Michael Tuszynski, Fred Gage e i loro colleghi del Salk Institute
hanno pubblicato in Journal of Neuroscience i risultati di uno studio
sulle scimmie rhesus adulte. Dopo avere generato una lesione sperimentale nel midollo spinale di questi animali, il numero di cellule che
si sono appena divise è 80 volte superiore al normale 6. Sette mesi dopo
la lesione, molte di queste cellule si sono trasformate in diversi tipi di
cellule di sostegno, alcune delle quali producono la mielina, indispensabile per gli assoni dei neuroni lesi. Questo studio evidenzia che la neurogenesi costituisce un beneficio per le lesioni traumatiche del midollo
spinale, un fenomeno che potrebbe essere amplificato da terapie
appropriate.
85
Neurogenesi ed epilessia
Alcuni studi realizzati nell’animale mostrano che le crisi convulsive stimolano la neurogenesi. Uno studio pubblicato in un numero speciale di
Hippocampus, il cui tema era la neurogenesi, indica che le cellule appena
nate non si trasformano in neuroni sostitutivi ma in cellule gliali, che non
trasmettono quindi i segnali nervosi ma adempiono le funzioni di supporto,
come per esempio fabbricare la mielina 7. Jack Parent e i suoi collaboratori
del Medical Center dell’Università del Michigan, hanno indotto nel topo
delle convulsioni con delle sostanze chimiche. Per due settimane essi
hanno osservato un incremento delle cellule cerebrali evidenziato con una
molecola che si fissa sulle cellule in divisione.
Lo studio pone quindi un’importante questione:
per quale ragione il cervello produce diversi tipi di cellule
in risposta a differenti lesioni?
Le cellule si sono trasformate in cellule gliali e non in neuroni, come dopo
una lesione prodotta da un ictus cerebrovascolare. Questo studio pone
quindi un’importante questione: per quale ragione il cervello produce
diversi tipi di cellule in risposta a differenti lesioni? Ulteriori ricerche sulla
neurogenesi come strumento di riparazione permetteranno di sviluppare
nuovi farmaci per l’epilessia.
Secondo lo studio di un altro gruppo di ricercatori diretto da Jack Parent, la
neurogenesi generata dopo le crisi convulsive potrebbe costituire parte
del problema. Nell’uomo e nell’epilessia temporale sperimentale, per
esempio, si osserva un’anomalia di una parte dell’ippocampo denominata
strato granulare del giro dentato. I ricercatori hanno riportato in Annals of
Neurology che nei ratti affetti da prolungate crisi convulsive, le cellule progenitrici di questa regione migrano e si sviluppano in modo anormale 8.
Sebbene in alcune aree dell’ippocampo la neurogenesi persiste nel corso
di tutta la vita, i ricercatori ipotizzano che le crisi convulsive disorganizzano
la migrazione dei neuroni, da cui una cattiva integrazione delle cellule
appena nate e una possibile ricorrenza delle crisi.
Gli antidepressivi stimolano uno stadio specifico
della neurogenesi
86
Si ritiene che gli antidepressivi amplifichino la neurogenesi nell’ippocampo. Occorre attendere da tre a quattro settimane prima che gli antidepressivi attualmente a disposizione migliorino l’umore delle persone che
soffrono di disturbi depressivi. Circa un terzo dei pazienti non trae nessun
Dei ricercatori dei Cold Spring Harbor Laboratories hanno riportato in Proceedings of the National Academy of Sciences di avere creato dei topi
«reporter» nei quali i nuclei delle cellule nate da precursori neurali contengono una proteina blu fluorescente 9. Controllando nei neuroni «blu»
diverse proteine marker e poi esponendo le cellule alla fluoxetina, i ricercatori hanno confermato che l’obiettivo del farmaco erano le cellule staminali ad un determinato stadio del loro sviluppo. Scoprendo nuove vie per
stimolare questa popolazione sarebbe possibile trovare farmaci antidepressivi più efficaci con un effetto sull’umore più rapido.
Cellule staminali e neurogenesi
beneficio da questo trattamento. Numerosi studi suggeriscono che i farmaci come la fluoxetina (Prozac) debbono il loro effetto ad un’aumentata
neurogenesi. Se questo fenomeno fosse conosciuto nel dettaglio, sarebbe
senza dubbio possibile sviluppare dei farmaci che stimolano la neurogenesi in modo più mirato.
Le proteine patogene e lo sviluppo delle cellule del cervello
La proteina prione è nota soprattutto per la sua azione patogena, infatti, se
mal ripiegata essa costituisce l’agente patogeno dell’encefalopatia, meglio
conosciuta come la malattia della mucca pazza o il suo equivalente nell’uomo, la malattia di Creutzfeldt-Jakob. Da qualche anno sappiamo che i
prioni non sono degli agenti patogeni per definizione, ma piegandosi e
dispiegandosi essi possono assumere una forma anormale, patogena. In
Oltre la mucca pazza
I ricercatori stanno studiando il ruolo normale
dei prioni in una cellula
sana, la cui azione è
conosciuta meglio nelle
patologie. Nella foto, la
proteina normale è visibile nei nuclei dei neuroni in via di sviluppo. La
struttura della proteina
normale è visibile sullo
sfondo.
87
funzione della quantità dei prioni anormalmente dispiegati la malattia si
svilupperà o no. Resta invece meno conosciuto il ruolo della proteina
prione quando ha una conformazione normale.
Secondo lo studio pubblicato in Proceedings of the National Academy of
Sciences dal gruppo di Jeffrey Macklis della Harvard University e di Susan
Lindquist del Massachusetts Institute of Technology, i prioni abbondano
nelle regioni del cervello dove avviene la neurogenesi. Nel loro studio
hanno dimostrato la stretta correlazione tra la quantità di prioni presenti e
la velocità con cui le cellule precursore si differenziano in neuroni. Nei
topi modificati che producono una quantità eccessiva di prioni, la proliferazione di cellule cerebrali è più importate rispetto ai topi normali o i topi
knock-out 10. Successivi studi che premetteranno di comprendere meglio
il ruolo di queste proteine nel cervello normale, potranno fornire nuovi
approcci per prevenire e trattare le malattie a prioni.
Secondo lo studio di un gruppo dell’University of Central Florida diretto da
Kiminobu Sugaya e pubblicato su Stem Cells Development, quando i precursori della proteina amiloide raggiungono dei livelli troppo alti, come nel
caso della malattia di Alzheimer, le cellule staminali potrebbero trasformarsi in astrociti invece di neuroni 11. I ricercatori si sono accorti che se si
aggiunge la proteina amiloide nelle cellule staminali neurali umane in coltura, esse intensificano la loro differenziazione in astrociti. Se la proteina è
bloccata con un anticorpo, s’impedisce la differenziazione.
Nei topi geneticamente modificati per produrre della sostanza beta amiloide, le cellule staminali umane trapiantate si sono differenziate in cellule
gliali invece di neuroni. I risultati sembrano indicare che dei livelli elevati
dei precursori della proteina amiloide possono contrastare gli sforzi autorigeneranti del cervello cambiando il destino delle cellule, che si trasformano
in cellule gliali invece di trasformarsi in neuroni di sostituzione. Si tratta di
un meccanismo che dovremo comprendere meglio per potere utilizzare in
futuro le cellule staminali nell’intento di curare la malattia di Alzheimer o
altre forme di demenza.
Le cellule di sostegno diventano cancerogene
88
Il meccanismo che determina se una cellula staminale neurale si trasforma
in neurone o in cellula di sostegno potrebbe essere al centro di una scoperta che non suggerisce nulla di buono: le cellule staminali sarebbero
in grado di dare origine a dei tumori. È quello che afferma in Neuron un
Il meccanismo che determina se una cellula staminale neurale
si trasforma in neurone o in cellula di sostegno potrebbe essere al
centro di una constatazione che non suggerisce nulla di buono:
le cellule staminali potrebbero dare origine a dei tumori.
Patricia Casaccia-Bonnefil e il suo gruppo della Robert Wood Johnson
Medical School hanno descritto nel Journal of Neuroscience che anche la
neuroglia poteva diventare cancerogena a causa della mancanza di apoptosi, la morte cellulare fisiologica programmata della cellula 13. I ricercatori
hanno realizzato degli studi su dei topi knock-out, privati del gene p53, che
dà il segnale dell’apoptosi.
Cellule staminali e neurogenesi
gruppo diretto da Arturo Alvarez-Buylla, dell’Università della California a
San Francisco. I ricercatori hanno identificato un gruppo di cellule staminali
neurali dotate di un recettore per un fattore di crescita 12. Un’infusione di
questo fattore di crescita ha indotto una crescita eccessiva di queste cellule
che presentavano caratteristiche tumorali (vedi anche il capitolo sulle
Lesioni del sistema nervoso, pag. 38).
L’assenza del gene p53 non porta però automaticamente ad un tumore. Se
ai topi è somministrato uno stimolo che provoca una forma sperimentale di
cancro, le loro cellule staminali neurali mostrano profondi cambiamenti,
compatibili con i tumori, come per esempio delle divisioni cellulari più
rapide e una differenziazione incompleta.
La proteina Notch attiva le cellule staminali
Lo scopo della terapia con le cellule staminali è attivare le cellule staminali
«endogene» presenti naturalmente nell’organismo. Ronald McKay, ricercatore al National Institute of Neurological Disorders and Stroke, ha pubblicato in Nature un modello di espansione delle cellule staminali che
potrebbe contribuire alla realizzazione di quest’obiettivo 14.
L’attivazione di un recettore chiamato Notch induce una cascata di fenomeni che promuovono la sopravvivenza delle cellule staminali neurali.
Quando dei ratti adulti portatori di una lesione indotta da un ictus cerebrovascolare sperimentale sono stati trattati con una molecola che blocca il
recettore Notch, i ricercatori hanno osservato un aumento delle cellule
progenitrici ed un miglioramento delle facoltà motorie. Questo studio suggerisce un metodo efficace per aumentare il numero di cellule staminali in
coltura o somministrate a degli animali che hanno ricevuto un trapianto,
oppure per riattivare delle cellule staminali silenti.
89
Il campo delle cellule staminali è sempre stato florido, gli studi appena citati
mostrano però che il cammino da percorrere è ancora lungo. Orientare lo
sviluppo delle cellule staminali affinché esse diano origine a dei tipi di cellule precise (neuroni e cellule di sostegno) e non cellule tumorali, resta la
grande sfida per la ricerca.
90
I disturbi del pensiero
e della memoria
La malattia di Alzheimer
92
Chi sviluppa l’Alzheimer conclamato
94
Una causa della demenza frontotemporale
95
Memoria normale: un grande passo avanti
95
91
N
el 2006 il bilancio della ricerca sul pensiero e la memoria è incerto: in
certi ambiti sono state realizzate scoperte notevoli, in altri campi occorre
invece fare una pausa e riconsiderare le piste percorse.
La malattia di Alzheimer
Una delle principali caratteristiche della malattia di Alzheimer è la presenza
di placche costituite da beta amiloide nel cervello delle persone che ne
sono affette. Da una decina d’anni gli scienziati hanno consacrato gran
parte del loro lavoro alla manifestazione fisica di questa malattia nell’ipotesi
che riuscendo a ridurre la formazione o a fare scomparire le placche, l’impatto della malattia sarebbe stato attenuato.
Nel 2006 diversi studi hanno però dimostrato che le placche in sé stesse
potrebbero non essere all’origine della malattia. Esse sono degli aggregati
costituiti da piccoli peptidi che si dispongono negli spazi tra i neuroni, formati
a partire da una proteina di dimensioni maggiori, denominata precursore dell’amiloide. Studi precedenti, eseguiti su topi che esprimevano la proteina
umana precursore dell’amiloide, hanno dimostrato che le anomalie comportamentali come il disturbo della memoria spaziale si manifestano prima dell’apparizione delle placche. Secondo quest’ipotesi, i frammenti di proteine
potrebbero non avere nessuna relazione con la malattia, oppure i danni ai neuroni sono generati da piccoli aggregati che non hanno l’aspetto delle placche.
Una placca è costituita da centinaia di migliaia di frammenti di proteina, ma
Sylvain Lesné e i suoi colleghi della University of Minnesota Medical
School a Minneapolis, hanno notato che è sufficiente avere aggregati
costituiti da soli 12 frammenti per vedere i primi segni di deterioramento
della memoria negli animali.
I ricercatori hanno purificato i piccoli ammassi ottenuti dal cervello di animali malati e li hanno iniettati nel cervello di animali sani. I risultati pubblicati in Nature mostrano che gli animali sani sono diventati incapaci di imparare a muoversi in un labirinto 1.
92
In modo simile, dei ricercatori del Buck Institute for Age Research a Novato
in California, hanno pubblicato in Proceedings of the National Academy of
Sciences che i topi con una variante della proteina che la rendeva incapace di
produrre la sostanza beta amiloide, pur non presentando le caratteristiche
placche della malattia di Alzheimer sviluppavano i disturbi della memoria 2.
Il ruolo delle placche di beta amiloide nella malattia di Alzheimer è stato
rimesso in questione anche da ricerche effettuate sul tessuto cerebrale
umano. Da molti decenni gli scienziati sanno che è possibile avere delle
placche nel cervello senza sviluppare la malattia. Per conoscere con
quale frequenza si osservano le placche nelle persone in buona salute, i
ricercatori del Rush Alzheimer’s Disease Center dell’Università di Chicago
diretti da David Bennett, hanno seguito oltre 2000 persone appartenenti
a due comunità diverse. I risultati di questo studio sono stati pubblicati
in Neurology 3.
I disturbi del pensiero e della memoria
In questi casi il colpevole sembra dunque un piccolo frammento della
proteina precursore dell’amiloide definito C-31. Secondo i ricercatori, le
placche situate negli spazi tra i neuroni sarebbero all’origine del problema,
ma la C-31 termina il lavoro, penetrando nelle cellule. I ricercatori dell’Università del Minnesota, così come quelli del Buck Institute for Age Research
ritengono che i farmaci capaci di bloccare la formazione dei piccoli
ammassi di materiale proteico o di impedire la formazione della proteina
C-31, potrebbero contribuire a limitare i danni provocati dalla malattia di
Alzheimer nell’uomo.
I partecipanti allo studio sono stati sottomessi annualmente ad un test neuropsicologico per essere sicuri che con il passare del tempo non sviluppassero dei sintomi di demenza. Su 134 delle persone decedute che hanno
messo a disposizione il loro cervello per un’autopsia, due presentavano
delle placche, che secondo gli attuali criteri corrisponde ad un rischio elevato di sviluppare la malattia. 48 mostravano delle placche nella regione
limbica, classificabile quindi come un rischio medio. La sola differenza che
David Bennett e i suoi colleghi hanno rilevato nel funzionamento mentale
tra queste 50 persone e le 84 nelle quali non sono state trovate delle placche, è un funzionamento leggermente meno buono della memoria episodica e autobiografica degli avvenimenti vissuti.
Perché con lo stesso grado di neuropatologia, certe persone sono
in buona salute e altre sviluppano la malattia? Ecco una questione
centrale, alla quale molti ricercatori cercano ora di rispondere.
Da questi risultati il gruppo di Bennett ha tratto due conclusioni. La prima è
che una riduzione leggera della memoria episodica può segnalare un inizio
della malattia di Alzheimer. La seconda è che l’essere umano possiede
generalmente più neuroni di quelli che gli servono per la vita quotidiana,
che i ricercatori definiscono «riserva neurologica». Molti individui possono
93
quindi tollerare un livello significativo di danni neuronali e di patologia
alzheimeriana senza che la memoria sia gravemente lesa e senza presentare sintomi di demenza.
Perché con lo stesso grado di neuropatologia, certe persone sono in buona
salute e altre sviluppano la malattia? Ecco una questione centrale, alla
quale molti ricercatori cercano ora di rispondere.
Chi sviluppa l’Alzheimer conclamato
Grazie alla ricerca si cominciano a comprendere meglio le ragioni per le
quali non tutte le persone anziane con dei disturbi della memoria sviluppano la malattia di Alzheimer con tutti i suoi sintomi. Attualmente non
esiste un test che permette di distinguere i pazienti che resteranno stabili
da quelli il cui stato di salute continuerà a deteriorarsi. Tali informazioni
potrebbero essere utili per le persone coinvolte, medici, pazienti, famiglie
per pianificare piani di cura per i pazienti che svilupperanno la malattia di
Alzheimer. A questo proposito nel 2006 sono stati pubblicati due studi che
hanno apportato dei progressi significativi.
Matthias Tabert, del New York State Psychiatric Institute and Columbia
University di New York, ha seguito 63 adulti in buona salute e 148 pazienti
affetti da disturbi cognitivi leggeri, uno stato intermediario tra la memoria
normale e la demenza. I risultati pubblicati in Archives of General Psychiatry, mostrano che in tre anni il deficit cognitivo leggero si è trasformato
in malattia di Alzheimer in 34 dei 148 pazienti 4.
Quando il disturbo cognitivo leggero corrisponde a dei disturbi della
memoria, il rischio di deterioramento è relativamente minore, solo 2 dei 20
pazienti di questo gruppo hanno sviluppato la malattia di Alzheimer. Nello
stesso intervallo, la proporzione è stata di 32 su 64 nei pazienti che oltre ai
disturbi della memoria manifestavano anche dei deficit cognitivi. Sembra
quindi che con i test neuropsicologici sia possibile distinguere tra queste
due situazioni e quindi predire quali tra i pazienti affetti da deficit cognitivo
leggero, presentano un rischio maggiore.
94
Alcuni ricercatori dell’Università della California a Los Angeles, si sono
basati su delle caratteristiche fisiche per trovare i pazienti affetti da disturbi
cognitivi leggeri che presentano un elevato rischio di malattia di Alzheimer 5. Utilizzando la risonanza magnetica ad alta definizione, i ricercatori
hanno constatato – come descritto in Archives of Neurology – che il rischio
Una causa della demenza frontotemporale
La malattia di Alzheimer è la forma di demenza più conosciuta, ma non è la
sola. La seconda in ordine di frequenza a colpire le persone prima dei
65 anni è la demenza frontotemporale. Gli individui che ne sono affetti
presentano dei disturbi del comportamento, dei cambiamenti della personalità e diventano disinibiti. La memoria è generalmente conservata.
I disturbi del pensiero e della memoria
di sviluppare la malattia è più elevato quando il volume dell’ippocampo è
ridotto. All’inizio dello studio gli autori hanno notato un’atrofia più pronunciata di una determinata regione dell’ippocampo nei pazienti che nel corso
del tempo hanno sviluppato la malattia, rispetto ai pazienti che sono rimasti stabili. Potere identificare i casi «pre-alzheimer» sarà senza dubbio un
elemento delle strategie tese a prevenire o ritardare l’apparizione della
malattia di Alzheimer.
La demenza frontotemporale ha una forte componente genetica. La causa,
in alcune tra le sue forme, è una mutazione della proteina tau associata ai
microtuboli. S’ignoravano invece le cause di altre forme che non sembravano coinvolgere la mutazione di questo gene. Due gruppi di ricerca
hanno scoperto nel 2006, nei pazienti affetti da queste forme atipiche di
demenza frontotemporale, delle mutazioni di un altro gene: la proteina
alterata è un fattore di crescita chiamato progranulina.
Questo gene è espresso da una grande varietà di neuroni della corteccia
oltre che dalle cellule della microglia, le cellule immunitarie del cervello. In
due studi apparsi in Nature, i ricercatori avevano ipotizzato che la progranulina fosse importante per la sopravvivenza dei neuroni e che la perdita di
una copia del gene della progranulina fosse sufficiente per attivare il fenomeno della neurodegenerazione 6, 7. Da notare che la progranulina induce
nell’animale l’espressione di altri fattori di crescita che possono contribuire
alla sopravvivenza delle cellule.
L’identificazione delle mutazioni che stanno alla base della demenza frontotemporale apre nuove piste per sviluppare farmaci destinati a combatterle.
Memoria normale: un grande passo avanti
Gli scienziati sostengono da qualche tempo che la codifica dei ricordi è collegata a dei cambiamenti dell’intensità delle connessioni sinaptiche che
uniscono i neuroni. La codifica di un ricordo dovrebbe quindi aumentare
l’efficacia della sinapsi e rinforzare la comunicazione tra le cellule vicine.
95
neurone
presinaptico
neurotrasmettitore
apprendimento
recettori
neurone postsinaptico
ioni
proteina PKM-zeta
Grazie per la memoria
I ricercatori hanno scoperto che la potenzializzazione a lungo termine, che sta alla base
dei processi mnemonici, dipende da una proteina chiamata PKM-zeta. Quando questa
proteina è inibita i ratti dimenticano comportamenti appresi in precedenza.
Questo fenomeno è definito potenzializzazione a lungo termine (LTP). Tre
studi realizzati nel 2006 hanno fornito la quasi-certezza che essa costituisce il fondamento neuronale della memoria.
I ricercatori si sono concentrati su tre ipotesi: la prima è che bloccando l’LTP
con degli inibitori chimici s’impedisce l’apprendimento. La seconda è che imparare un compito o una specifica informazione coinvolge l’LTP nella regione del
cervello che tratta questo tipo d’informazione. La terza è che l’eradicazione
dell’LTP con degli agenti chimici nella regione del cervello che tratta questo
tipo d’informazioni induce un’amnesia con perdita dei comportamenti appresi.
Uno studio pubblicato in precedenza aveva già confermato l’esattezza
della prima ipotesi. Nell’ambito di una delle esperienze realizzate nel 2006,
Jonathan Whitlock e i suoi colleghi del Howard Hughes Medical Institute e
del Massachusetts Institute of Technology hanno insegnato a dei ratti a
non avventurarsi nella parte scura della loro gabbia perché vi ricevevano
una leggera scarica elettrica. Come pubblicato in Science, man mano che
gli animali integravano quest’informazione, gli autori hanno potuto osservare la formazione di LTP nel loro ippocampo. Nei roditori questa struttura
è il centro dell’apprendimento spaziale 8.
96
Agnès Gruart, dell’Università Pablo de Olavide a Siviglia in Spagna, ha
ottenuto risultati simili che ha pubblicato nel Journal of Neuroscience 9. Il
Realizzando un successivo passo avanti, un gruppo diretto da Eva Pastalkova, del SUNY Downstate Medical Center di Brooklyn a New York, ha
pubblicato nello stesso numero di Science che gli animali nei quali si bloccava l’LTP con delle sostanze chimiche dimenticavano i comportamenti
che avevano appreso, senza che questo escludesse la trasmissione sinaptica o che impedisse gli ulteriori apprendimenti 10.
Questi studi dimostrano che l’ipotesi della formazione dei ricordi, da qualche tempo sostenuta dai ricercatori, è molto probabilmente corretta.
I disturbi del pensiero e della memoria
suo gruppo ha constatato che l’apprendimento induceva LTP nell’ippocampo dei topi e che delle sostanze che inibivano la trasmissione neurale
bloccavano sia l’apprendimento sia la formazione di LTP.
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Illustrazioni / Fotografie
P. 5:
P. 11:
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Photograph courtesy of David C. Van Essen
Photograph courtesy of Steven E. Hyman
Photographs courtesy of Stephen Dager
Image courtesy of Katya Rubia
Image courtesy of Mark Cookson
Image courtesy of Adrian Owen
Image courtesy of Richard Ransohoff
Image courtesy of Simon Beggs
Photograph courtesy of Jeffrey Lieberman
Image courtesy of Andreas Meyer-Lindenberg and Joshua Buckholtz, NIMH/IRP
Image courtesy of House Ear Institute
Illustration by Benjamin Reece
Photograph courtesy of Fred Gage
Image courtesy of Jeffrey Macklis
Illustration by Benjamin Reece
109
Immaginate
un mondo . . .
…
in cui la malattia di Alzheimer, la malattia
di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica,
la retinite pigmentosa e le altre cause di
cecità, saranno facilmente diagnosticate ad
uno stadio precoce e immediatamente curate
con medicinali che ne impediscono il deterioramento prima che le lesioni divengano
troppo gravi.
…
in cui saranno noti i fattori ambientali
e genetici che predispongono le persone
alle malattie mentali. Dove esistono dei precisi test diagnostici e dei trattamenti mirati
– medicinali, sostegno psicologico, interventi
preventivi – disponibili e utilizzati su vasta
scala.
…
in cui le nuove conoscenze sullo sviluppo
del cervello permetteranno sia di trarre un
maggior beneficio dai primi anni di apprendimento sia di combattere le patologie associate
all’età.
…
in cui le lesioni del midollo spinale non
saranno più sinonimo di paralisi a vita, poiché
sarà possibile programmare il sistema nervoso
così da ricostruire i circuiti neurali e ristabilire
l’attività muscolare.
… in cui gli individui non saranno più
schiavi delle tossicodipendenze e dell’alcolismo, perché esisteranno dei trattamenti
facilmente accessibili, che agendo a livello
delle vie nervose permetteranno d’interrompere i fenomeni responsabili delle crisi di astinenza e il bisogno impellente di consumare
delle sostanze generatrici di dipendenza.
…
in cui la vita delle persone non sarà
più in balia della depressione e dell’ansia
perché per curarle disporremo di efficaci
medicinali.
112
Anche se tale visione può sembrare irreale ed
utopica, stiamo vivendo un momento della
storia delle neuroscienze straordinariamente
promettente e fecondo. I progressi realizzati
dalla ricerca nel corso dell’ultimo decennio,
oltrepassano le nostre aspettative. Le conoscenze sui meccanismi fondamentali del funzionamento cerebrale si sono ampliate e oggi
possiamo cominciare a trarre un beneficio
pratico dal loro potenziale.
Abbiamo già cominciato a concepire delle
strategie, delle nuove tecniche e delle terapie
per combattere differenti malattie e disturbi
neurologici. Fissando degli obiettivi terapeutici e applicando le conoscenze attuali, sarà
possibile sviluppare dei trattamenti efficaci
che, in alcuni casi, permetteranno di ottenere
la guarigione completa.
I grandi progressi delle neuroscienze ci permettono inoltre di valutare l’entità di ciò che
ancora non conosciamo. Questo fatto costituisce senza dubbio uno stimolo che sprona
la ricerca fondamentale ad esplorare questioni più ampie sul funzionamento della
materia vivente, per formulare le domande di
ordine complesso che portano alle scoperte
scientifiche.
La ricerca clinica e fondamentale svolta in
modo coordinato da migliaia di scienziati, ha
generato un insieme di conoscenze nelle
diverse discipline, che variano dagli studi
delle strutture molecolari e dei medicinali, alla
visualizzazione cerebrale, alle scienze cognitive e alla ricerca clinica, che possono essere
messe al servizio della lotta contro le malattie
e i disturbi neurologici.
Come scienziati continueremo a progredire
sia individualmente nei nostri rispettivi ambiti,
sia cooperando con i nostri colleghi di altri
campi scientifici, moltiplicando le occasioni di
collaborazioni interdisciplinari.
La Dana Alliance for Brain Initiatives e la European Dana Alliance for the Brain riuniscono
degli specialisti nelle neuroscienze pronti
ad intraprendere progetti ambiziosi, come
abbiamo potuto osservare nel 1992 a Cold
Spring Harbor, New York, dove fu stabilito un
vero e proprio calendario di ricerca per gli
Stati Uniti e una seconda volta nel 1997,
quando si è costituito il gruppo europeo con
i suoi peculiari obiettivi e mete. Si tratta ora,
da una parte e dall’altra dell’Atlantico, di fissare nuovi scopi per orientare i progressi che
possono essere realizzati a corto e a medio
termine. Provando ad immaginare i futuri benefici, cerchiamo di accelerare l’andamento di
questa nuova era delle neuroscienze, per
riuscire a raggiungere più rapidamente gli
obiettivi prefissati.
Gli obiettivi
Combattere gli effetti devastanti della
malattia di Alzheimer. In questa patologia si
osserva il deposito cerebrale di una piccola
frazione proteica denominata proteina amiloide, estremamente tossica per le cellule
nervose. Grazie alla sperimentazione animale
oggi si conosce il meccanismo biochimico e
genetico di quest’accumulo. Utilizzando il
modello animale sono stati sviluppati nuovi
medicinali e un vaccino potenzialmente efficace, sia per prevenire il deposito della proteina amiloide sia per cercare di rimuoverlo.
Tali terapie che saranno prossimamente sperimentate nell’uomo, offrono la speranza
di combattere efficacemente questo meccanismo patologico.
Scoprire la miglior terapia per la malattia di
Parkinson. I medicinali che agiscono sulle vie
dopaminergiche del cervello, hanno dato
buoni risultati nel trattamento dei disturbi
motori nella malattia di Parkinson. Sfortunatamente in molti pazienti, dopo 5 a 10 anni
questo effetto terapeutico tende a diminuire.
Attualmente sono in via di sviluppo nuove
molecole che cercano, da un lato di prolungare l’azione dei medicamenti dopaminergici,
dall’altro di frenare la selettiva perdita neurale
che è all’origine della malattia. Per i pazienti
che non rispondono alla terapia medicamentosa, esiste la possibilità di trarre un beneficio
dall’approccio chirurgico denominato stimolazione cerebrale profonda. Nuove forme di
visualizzazione cerebrale permetteranno di
determinare se questi trattamenti riescono a
salvare i neuroni dalla distruzione e a ristabilire
il normale funzionamento dei circuiti neurali.
Immaginate un mondo ...
La fiducia del pubblico nella scienza è essenziale per adempiere la nostra missione. Il dialogo tra i ricercatori e la gente sarà basilare
soprattutto in considerazione delle conseguenze etiche e sociali del progresso della
ricerca sul cervello.
Diminuire l’incidenza degli ictus cerebrali e
perfezionare il trattamento degli episodi
acuti. Smettere di fumare, mantenere il tasso
di colesterolo e il peso corporeo a livelli ragionevoli con un’alimentazione e un’attività fisica
appropriate, sono, associati al depistaggio e al
trattamento del diabete, i modi per ottenere
una diminuzione spettacolare del numero degli
incidenti cerebrovascolari e delle malattie cardiache. Nel caso degli ictus, con una diagnosi
ed un intervento precoce, il paziente migliora
rapidamente e i postumi della malattia sono
minori. In futuro esisteranno nuovi trattamenti
volti a ridurre l’impatto acuto degli incidenti
cerebrovascolari sulle cellule del cervello. Le
nuove tecniche di riabilitazione, che traggono
profitto dalle conoscenze sulla capacità del
cervello di recuperare dopo un trauma, permetteranno di progredire in questa via.
Sviluppare trattamenti più efficaci per i disturbi dell’umore come la depressione, la
schizofrenia, i disturbi ossessivi e il disturbo bipolare. Grazie alla determinazione della 113
sequenza del genoma umano, saranno scoperti i geni che predispongono ad alcune di
queste malattie. Le recenti tecniche di visualizzazione cerebrale offriranno l’opportunità
di osservare l’azione esercitata da questi geni
nel cervello. Sarà quindi possibile esaminare
la disfunzione dei circuiti neurali nelle persone colpite dalle patologie dell’umore. Disporremo di una diagnosi più sicura, l’uso di
medicinali già esistenti sarà più efficace e la
ricerca porrà nuove basi teoriche per sviluppare agenti terapeutici innovativi.
Scoprire le cause genetiche e neurobiologiche dell’epilessia e migliorarne il trattamento. Comprendere l’origine genetica dell’epilessia e i meccanismi neurologici che
scatenano le crisi, fornirà l’opportunità per
una diagnosi preventiva e per trattamenti
mirati. I progressi realizzati nel campo delle
terapie chirurgiche offriranno in futuro delle
alternative terapeutiche molto preziose.
Scoprire vie innovative per prevenire e
curare la sclerosi multipla. Per la prima volta
disponiamo di medicinali che modificano il de
corso di questa malattia. Queste nuove molecole alterano le risposte immunitarie dell’organismo, riducendo il numero e la gravità
delle crisi. Nuovi metodi permetteranno di
arrestare la progressione a lungo termine
della sclerosi multipla, che è dovuta alla
distruzione delle fibre nervose.
Sviluppare dei trattamenti più efficaci per i
tumori del cervello. Molte forme di tumori
cerebrali sono difficili da curare, soprattutto
quelle maligne o secondarie a tumori di origine non cerebrale. Le tecniche di visualizzazione, la radioterapia mirata, i differenti
metodi che trasportano le sostanze medicamentose al tumore, così come l’identificazione di marker genetici, faciliteranno la diagnosi e permetteranno di sviluppare nuove
114 piste terapeutiche.
Migliorare il recupero dopo lesioni traumatiche al cervello o al midollo spinale. Attualmente sono allo studio dei trattamenti che
limitano i danni ai tessuti consecutivi ai traumi
e si sperimentano sostanze che promuovono
il ristabilimento delle connessioni nervose.
Ben presto alcune tecniche di rigenerazione
cellulare che permettono la sostituzione dei
neuroni morti oppure lesi, passeranno dallo
stadio della sperimentazione animale ai test
clinici sull’uomo. Da segnalare anche il trapianto di microchip miniaturizzati che controllano i circuiti nervosi e ridanno una certa
mobilità agli arti paralizzati.
Trovare soluzioni innovative per la gestione
del dolore. Il dolore non deve essere più sottovalutato. La ricerca sulla sua origine e sui
meccanismi neurologici che lo mantengono,
fornirà agli specialisti delle neuroscienze gli
strumenti di cui necessitano per sviluppare
dei trattamenti antalgici efficaci e mirati.
Combattere la tossicodipendenza all’origine, nel cervello. I ricercatori hanno identificato i circuiti nervosi implicati in ognuno dei
differenti tipi di dipendenza e hanno clonato
alcuni dei recettori più importanti di queste
sostanze. I progressi realizzati nella visualizzazione cerebrale, identificando i meccanismi
neurobiologici che trasformano un cervello
normale in un cervello sottomesso alla dipendenza, permetteranno di sviluppare dei trattamenti per annullare o compensare tali alterazioni.
Comprendere i meccanismi cerebrali implicati nella risposta allo stress, all’ansia e alla
depressione. La salute mentale è il requisito
indispensabile per una buona qualità di vita.
Lo stress, l’ansia e la depressione, oltre a perturbare la vita delle persone, possono avere
un effetto devastante sulla società. Se capiremo meglio i meccanismi della risposta allo
stress e i circuiti neurali implicati nell’ansia e
La strategia
Trarre vantaggio delle conoscenze fornite
dalla genomica. Disponiamo oggi della sequenza completa dei geni che costituiscono il
genoma umano. Nel corso dei prossimi 10 a
15 anni avremo la possibilità di stabilire quali
geni sono attivi in ogni regione del cervello, in
tutti gli stadi dell’esistenza dalla vita embrionale a quella adulta, passando dall’infanzia e
dall’adolescenza. Sarà allora possibile identificare nelle diverse patologie neurologiche o
psichiatriche, i geni alterati e le proteine assenti
o anormali. Questo approccio ha già permesso agli scienziati di stabilire l’origine genetica di malattie come la corea di Huntington,
l’atassia spinocerebellare, la distrofia muscolare e la sindrome del cromosoma X fragile.
Le conoscenze fornite dalla genetica e le sue
applicazioni nella diagnosi clinica, promettono di rivoluzionare la neurologia e la psichiatria e rappresentano una delle maggiori
sfide delle neuroscienze. La disponibilità di
un nuovo e potente strumento, i microchip di
DNA, accelererà notevolmente questo processo aprendo nuove vie per la diagnosi clinica e la concezione di nuovi trattamenti.
Applicare le nostre conoscenze sullo sviluppo del cervello. Dal concepimento alla
morte, il cervello passa attraverso differenti
stadi dello sviluppo con periodi di vulnerabilità e di crescita che possono essere favoriti
oppure ostacolati. Per migliorare il trattamento dei disturbi dello sviluppo come l’autismo, i disturbi da deficit di attenzione e le difficoltà dell’apprendimento, le neuroscienze
dovranno elaborare un quadro più dettagliato
dello sviluppo cerebrale. Siccome il cervello è
l’unico organo ad avere dei problemi specificamente collegati agli stadi dello sviluppo
come l’adolescenza o la vecchiaia, capirne le
trasformazioni in quelle precise fasi, permetterà di sviluppare trattamenti efficaci.
Utilizzare l’enorme potenziale offerto dalla
plasticità cerebrale. Traendo profitto dalla
neuroplasticità, cioè dalla capacità del cervello di adattarsi e di modellarsi, i neuroscienziati faranno progredire le terapie per le malattie neurodegenerative e offriranno metodi
per migliorare la funzione cerebrale sia nei
soggetti sani sia nelle persone malate. Nei
prossimi dieci anni, le terapie di sostituzione
cellulare e di promozione della formazione di
nuove cellule neurali, daranno l’opportunità
di ottenere nuovi trattamenti per gli ictus
cerebrali, i traumi del midollo spinale e la
malattia di Parkinson.
Immaginate un mondo ...
nella depressione, sapremo sviluppare delle
strategie preventive e dei trattamenti efficaci.
Comprendere l’essenza dell’essere umano.
Come funziona il cervello ? Oggi gli specialisti
nelle neuroscienze sono in grado di porre le
grandi domande sul funzionamento del cervello dell’uomo e di fornire le prime risposte.
Quali sono i meccanismi e quali i circuiti nervosi che permettono all’essere umano di formare dei ricordi, di prestare attenzione, di
percepire ed esprimere delle emozioni, di
prendere delle decisioni, di utilizzare il linguaggio, di essere creativo ? Lo sforzo per
sviluppare una teoria del funzionamento
cerebrale, offrirà importanti opportunità per
massimizzare il potenziale dell’essere umano.
Gli strumenti
La sostituzione cellulare. I neuroni adulti
non possiedono la facoltà di riprodursi per
sostituire le cellule perse in seguito a traumi o
a malattie. Le tecniche che utilizzano la capacità delle cellule staminali neurali (i progenitori dei neuroni) di differenziarsi in neuroni,
potrebbero rivoluzionare il trattamento delle
patologie neurologiche. Il trapianto delle cellule staminali neurali, correntemente usato 115
nella sperimentazione animale, sarà ben presto applicato all’uomo. Controllare lo sviluppo
di queste cellule, dirigerle verso le precise
regioni del cervello e indurle a stabilire le
connessioni appropriate, sono le molteplici
questioni sulle quali la ricerca lavora senza
sosta.
I meccanismi di riparazione neurali. Utilizzando i meccanismi di riparazione propri del
sistema nervoso, che in alcuni casi rigenerano
i neuroni e in altri ristabiliscono i circuiti, il cervello ha la capacità di « riparare se stesso ».
Rinforzare questa capacità significa ridare una
speranza di guarigione alle persone vittime di
traumi cranici o di lesioni del midollo spinale.
Delle tecniche per arrestare o prevenire la
neurodegenerazione. Molte patologie come
la malattia di Parkinson, la malattia di Alzheimer, la corea Huntington o la sclerosi laterale
amiotrofica, sono la conseguenza della degenerazione di una specifica popolazione di cellule in una determinata regione cerebrale. I
trattamenti attuali agiscono unicamente sul
sintomo, non alterano la perdita progressiva
dei neuroni. Le nuove conoscenze sui meccanismi che sottendono la morte cellulare, offriranno metodi per prevenire la degenerazione
cellulare e quindi arrestare la progressione di
queste malattie.
Le tecniche che modificano l’espressione
genetica nel cervello. Nell’animale da laboratorio è possibile rinforzare oppure bloccare
l’azione che certi geni specifici esercitano sul
cervello. Attualmente le mutazioni genetiche
che provocano nell’uomo malattie neurologiche come la corea di Huntington e la sclerosi
laterale amiotrofica, sono sperimentate nei
modelli animali per scoprire dei trattamenti
capaci di prevenire i fenomeni di neurodegenerazione. Queste tecniche hanno fornito tra
l’altro dati interessanti sul normale funzio116 namento del cervello durante lo sviluppo,
l’apprendimento e la formazione dei ricordi.
La modulazione dell’espressione dei geni è
uno degli strumenti più efficaci per studiare i
fenomeni normali e patologici del cervello, in
futuro potrà essere utilizzata per curare
numerosi disturbi cerebrali.
I progressi delle tecniche di visualizzazione. Sono stati effettuati notevoli progressi
nella visualizzazione strutturale e funzionale
del cervello. Sviluppando delle tecniche in cui
l’immagine della funzione cerebrale è dettagliata e rapida quanto le funzioni stesse,
avremo a disposizione delle immagini in
tempo reale. Queste tecnologie permetteranno allora ai ricercatori di osservare le
regioni del cervello implicate nella riflessione,
nell’apprendimento e nelle emozioni.
Dispositivi elettronici capaci di sostituire le
vie cerebrali non funzionali. Nel prossimo
futuro sarà certamente possibile aggirare le
vie cerebrali non funzionali utilizzando dei
microelettrodi capaci di registrare l’attività
cerebrale. Il loro compito sarà quello di convertire l’attività del cervello in segnali elettrici
che saranno inviati al midollo spinale, ai nervi
motori o direttamente ai muscoli. Dei trapianti
costituiti da batterie di questi elettrodi collegati a dispositivi informatizzati e miniaturizzati, ridaranno speranza alle persone che
hanno subito una lesione permettendo il
recupero dell’integrità funzionale.
I nuovi metodi della ricerca farmaceutica. I
progressi realizzati nel campo della biologia
strutturale, della genomica e della chimica
computerizzata, permettono ai ricercatori di
creare una quantità di molecole senza precedenti, molte delle quali possiedono un grande
interesse clinico. In determinati casi le nuove
tecniche di screening ad alto flusso, utilizzate
in particolare dalle « gene chips » e da altre
tecnologie, potranno diminuire il tempo che intercorre tra la scoperta di un nuovo principio
Immaginate un mondo ...
attivo e la sua valutazione clinica. In alcuni
casi la riduzione di tempo passerà da diversi
anni a qualche mese.
117
Members of EDAB
AGID Yves Hôpital de la Salpêtrière, Paris, France
AGUZZI Adriano University of Zurich, Switzerland
CHERNISHEVA Marina University of St Petersburg,
Russia
ANTUNES João Lobo University of Lisbon, Portugal
CHVATAL Alexandr Institute of Experimental
Medicine ASCR, Prague, Czech Republic
AUNIS Dominque INSERM Strasbourg, France
CLARAC François CNRS, Marseille, France
AVENDAÑO Carlos University of Madrid, Spain
CLEMENTI Francesco University of Milan, Italy
ANDERSEN Per University of Oslo, Norway
BADDELEY Alan University of York, UK
BARDE Yves-Alain University of Basel, Switzerland
BELMONTE Carlos Instituto de Neurosciencias,
Alicante, Spain.
BENABID Alim-Louis INSERM and Joseph Fourier
University of Grenoble, France
BEN-ARI Yehezkel INSERM-INMED, Marseille,
France
COLLINGRIDGE Graham University of Bristol, UK;
President of the British Neuroscience Association
CUÉNOD Michel University of Lausanne,
Switzerland
CULIC Milka University of Belgrade, Yugoslavia
DAVIES Kay University of Oxford, UK
DEHAENE Stanislas INSERM, Paris, France
BERGER Michael University of Vienna, Austria
DELGADO-GARCIA José Maria Universidad
Pablo de Olavide, Seville, Spain; President of the
Spanish Neuroscience Society
BERLUCCHI Giovanni Università degli Studi di
Verona, Italy
DICHGANS Johannes University of Tübingen,
Germany
BERNARDI Giorgio University Tor Vergata-Roma,
Italy
DOLAN Ray University College, London, UK
BENFENATI Fabio University of Genova, Italy
BERTHOZ Alain Collège de France, Paris, France
BEYREUTHER Konrad University of Heidelberg,
Germany
BJÖRKLUND Anders Lund University, Sweden
BLAKEMORE Colin Medical Research Council, UK
BOCKAERT Joel CNRS, Montpellier, France
BORBÉLY Alexander University of Zurich,
Switzerland
DUDAI Yadin Weizmann Institute of Science,
Rehovot, Israel
ELEKES Károly Hungarian Academy of Sciences,
Tihany, Hungary; President of the Hungarian
Neuroscience Society
ESEN Ferhan Osmangazi University, Eskisehir,
Turkey
EYSEL Ulf Ruhr-Universität Bochum, Germany
BRANDT Thomas University of Munich, Germany
BRUNDIN Patrik Lund University, Sweden
FERRUS Alberto Instituto Cajal, Madrid, Spain
BUDKA Herbert University of Vienna, Austria
FIESCHI Cesare University of Rome, Italy
BUREŠ Jan Academy of Sciences, Czech Republic
FOSTER Russell University of Oxford, UK
BYSTRON Irina University of St Petersburg, Russia
FRACKOWIAK Richard University College
London, UK
CARLSSON Arvid University of Gothenburg,
Sweden
FREUND Hans-Joachim University of Düsseldorf,
Germany
CATTANEO Elena University of Milan, Italy
FREUND Tamás University of Budapest, Hungary
CHANGEUX Jean-Pierre Institut Pasteur, Paris,
France
FRITSCHY Jean-Marc University of Zurich,
Switzerland
GARCIA-SEGURA Luis Instituto Cajal, Madrid,
Spain
KERSCHBAUM Hubert University of Salzburg,
Austria
GISPEN Willem University of Utrecht,
The Netherlands
KETTENMANN Helmut Max-Delbrück-Centre for
Molecular Medicine, Berlin, Germany
GJEDDE Albert Aarhus University Hospital,
Denmark
KORTE Martin Technical University Braunschweig,
Germany
GLOWINSKI Jacques Collège de France, Paris,
France
KOSSUT Malgorzata Nencki Institute of
Experimental Biology, Warsaw, Poland
GREENFIELD Susan The Royal Institution of Great
Britain, London, UK
KOUVELAS Elias University of Patras, Greece
GRIGOREV Igor Institute of Experimental Medicine,
St Petersburg, Russia
GRILLNER Sten Karolinska Institute, Stockholm,
Sweden
KRISHTAL Oleg Bogomoletz Institute of
Physiology, Kiev, Ukraine
LANDIS Theodor University Hospital Geneva,
Switzerland
LANNFELT Lars University of Uppsala, Sweden
HARI Riitta Helsinki University of Technology,
Espoo, Finland
LAURITZEN Martin University of Copenhagen,
Denmark
HARIRI Nuran University of Ege, Izmir, Turkey;
President of the Turkish Neuroscience Society
LERMA Juan Instituto de Neurociencias,
CSIC-UMH, Alicante, Spain
HERMANN Anton University of Salzburg, Austria
LEVELT Willem Max-Planck-Institute for
Psycholinguistics, Nijmegen, The Netherlands
HERSCHKOWITZ Norbert University of Bern,
Switzerland
HIRSCH Etienne Hôpital de la Salpêtrière, Paris,
France
HOLSBOER Florian Max-Planck-Institute of
Psychiatry, Munich, Germany
HOLZER Peter University of Graz, Austria
HUXLEY Sir Andrew University of Cambridge, UK
INNOCENTI Giorgio Karolinska Institute,
Stockholm, Sweden
IVERSEN Leslie University of Oxford, UK
IVERSEN Susan University of Oxford, UK
JACK Julian University of Oxford, UK
JEANNEROD Marc Institut des Sciences Cognitives,
Bron, France
LEVI-MONTALCINI Rita EBRI, Rome, Italy
LIMA Deolinda University of Porto, Portugal
LOPEZ-BARNEO José University of Seville, Spain
MAGISTRETTI Pierre University of Lausanne,
Switzerland
MALACH Rafael Weizmann Institute of Science,
Rehovot, Israel
MARIN Oscar Universidad Miguel HernandezCSIC, Spain
MATTHEWS Paul University of Oxford, UK
MEHLER Jacques SISSA, Trieste, Italy
MELAMED Eldad Tel Aviv University, Israel
MONYER Hannah University Hospital of
Neurology, Heidelberg, Germany
JOHANSSON Barbro Lund University, Sweden
MORRIS Richard University of Edinburgh,
Scotland; President, Federation of European
Neuroscience Societies
KACZMAREK Leszek Nencki Institute of
Experimental Biology, Warsaw, Poland.
MOSER Edvard Norwegian University of Science
and Technology, Trondheim, Norway
KASTE Markku University of Helsinki, Finland
KATO Ann Centre Médical Universitaire, Geneva,
Switzerland
NALECZ Katarzyna Nencki Institute of Experimental
Biology, Warsaw, Poland
KENNARD Christopher Imperial College School
of Medicine, London, UK
NEHER Erwin Max-Planck-Institute for Biophysical
Chemistry, Göttingen, Germany
NIETO-SAMPEDRO Manuel Instituto Cajal,
Madrid, Spain
SINGER Wolf Max-Planck-Institute for Brain
Research, Frankfurt, Germany
NOZDRACHEV Alexander State University of
St Petersburg, Russia
SMITH David University of Oxford, UK
OERTEL Wolfgang Philipps-University, Marburg,
Germany
STEWART Michael The Open University, UK
OLESEN Jes Glostrup Hospital, Copenhagen,
Denmark; Chairman, European Brain Council
ORBAN Guy Catholic University of Leuven, Belgium
PÁRDUCZ Árpád Hungarian Academy of Sciences,
Szeged, Hungary
PEKER Gonul University of Ege Medical School,
Izmir, Turkey; President, Turkish Neuroscience Society
PETIT Christine Institut Pasteur & Collège de
France, Paris, France
POCHET Roland Université Libre de Bruxelles,
Belgium
POEWE Werner Universitätsklinik für Neurologie,
Innsbruck, Austria
POULAIN Dominique Université Victor Segalen,
Bordeaux, France; President, French Neuroscience
Society
PROCHIANTZ Alain CNRS and Ecole Normale
Supérieure, Paris, France
PYZA Elzbieta Jagiellonian University, Krakow,
Poland
SPERK Günther University of Innsbruck, Austria
STOERIG Petra Heinrich-Heine University,
Düsseldorf, Germany
STRATA Pierogiorgio University of Turin, Italy
SYKOVA Eva Institute of Experimental Medicine
ASCR, Prague, Czech Republic
THOENEN Hans Max-Planck-Institute for
Psychiatry, Martinsried, Germany
TOLDI József University of Szeged, Hungary
TOLOSA Eduardo University of Barcelona, Spain
TSAGARELI Merab Beritashvili Institute of
Physiology, Tblisi, Republic of Georgia
VETULANI Jerzy Institute of Pharmacology,
Krakow, Poland
VIZI Sylvester Hungarian Academy of Sciences,
Budapest, Hungary
WALTON John Lord of Detchant University of
Oxford, UK
WINKLER Hans Austrian Academy of Sciences,
Innsbruck, Austria
RAFF Martin University College London, UK
RAISMAN Geoffrey Institute of Neurology,
University College London, UK
RIBEIRO Joaquim Alexandre University of
Lisbon, Portugal
ZEKI Semir University College London, UK
ZILLES Karl Heinrich-Heine-University, Düsseldorf,
Germany
RIZZOLATTI Giacomo University of Parma, Italy
ROSE Steven The Open University, UK
ROTHWELL Dame Nancy University of
Manchester, UK
RUTTER Sir Michael King’s College London, UK
BAW Term Members
AZOUZ Rony Ben-Gurion University of the Negev,
Israel
BATTAGLINI Paolo University of Trieste, Italy
SAKMANN Bert Max-Planck-Institute for Medical
Research, Heidelberg, Germany
SCHWAB Martin University of Zurich, Switzerland
CASTRO LOPES José University of Porto, Portugal
CLARKE Stephanie University of Lausanne,
Switzerland; President, Swiss Society of Neuroscience
SEGAL Menahem Weizmann Institute of Science,
Rehovot, Israel
DEXTER David Imperial College, London, UK
SEGEV Idan Hebrew University, Jerusalem, Israel
DE ZEEUW Chris Department of Neuroscience,
Erasmus MC, Rotterdam, The Netherlands
SHALLICE Tim University College London, UK
DIETRICHS Espen University of Oslo, Norway
GRAUER Ettie Israel Institute of Biological
Research, Israel
HAGOORT Peter F.C. Donders Centre for
Cognitive Neuroimaging, The Netherlands
LYTHGOE Mark University College London, UK
MALVA João University of Coimbra, Portugal
MOHORKO Nina University of Ljubljana, Slovenia
MOLDOVAN Mihai The Panum Institute, University
of Copenhagen, Denmark
NALEPA Irena Polish Academy of Sciences,
Warsaw, Poland
HUCHO Ferdinand Freie Universität Berlin,
Germany; President, European Society for
Neurochemistry
JOËLS Marian University of Amsterdam, The
Netherlands; President, The Dutch Neurofederation
KHECHINASHVILI Simon Beritsashvili Institute
of Physiology, Tblisi, Republic of Georgia; President,
Georgian Neuroscience Association
KOSTOVIC Ivica Institute for Brain Research,
Zagreb, Croatia; President, Croatian Society for
Neuroscience
REPOVS Grega Washington University, St Louis,
USA
MENDLEWICZ Julien ULB Erasme Hospital,
Brussels, Belgium; President, European College of
Neuropsycopharmacology
SKALIORA Irini Biomedical Research Foundation
of the Academy of Athens, Greece
PITKÄNEN Asla University of Kuopio, Finland;
FENS Secretary General
STAMATAKIS Antonis University of Athens,
Greece
STOOP Ron University of Lausanne, Switzerland
PRZEWLOCKI Ryszard Polish Academy of
Sciences, Krakow, Poland; President, Polish
Neuroscience Society
ZAGREAN Ana-Maria Carol Davila University of
Medicine and Pharmacy, Bucharest, Romania
ROTSHENKER Shlomo The Hebrew University of
Jerusalem; President, Israel Society of Neuroscience
ZAGRODZKA Jolanta Nencki Institute of
Experimental Biology, Warsaw, Poland
SAGVOLDEN Terje University of Oslo, Norway;
President, Norwegian Neuroscience Society
Federation of European Neuroscience
Societies Presidents
BÄHR Mathias University Hospital Göttingen,
Germany; President, German Neuroscience Society
BARTH Friedrich G. Austrian Academy of
Sciences, Austria; President, Austrian Neuroscience
Society
STENBERG Tarja Institute of Biomedicine/
Physiology Biomedicum, Helsinki, Finland; President,
Finnish Brain Research Society
STYLIANOPOULOU Fotini University of Athens,
Greece; President, Hellenic Society for Neuroscience
SYKA Josef Academy of Sciences, Prague, Czech
Republic; President, Czech Neuroscience Society
ZAGREAN Leon Carol Davila University of
Medicine, Bucharest, Romania; President, National
Neuroscience Society of Romania
BOER Gerard Netherlands Institute for Brain
Research, The Netherlands; President, Dutch
Neurofederation
BRESJANAC Marja Institute of Pathophysiology,
Ljubljana, Slovenia; President, Slovenian
Neuroscience Association (SINAPSA)
DE OLIVEIRA Catarina Resende University of
Coimbra, Portugal; President, Portuguese Society for
Neuroscience
DE SCHUTTER Erik University of Antwerp,
Belgium; President, Belgian Society for Neuroscience
DI CHIARA Gaetano University of Cagliari, Italy;
President, Italian Society for Neuroscience (SINS)
FRANDSEN Aase Copenhagen University Hospital,
Denmark; President, Danish Society for Neuroscience
January 2007
A Dana Alliance for the Brain Inc Publication prepared by EDAB,
the European subsidiary of DABI
Stampato in Svizzera 6.2007
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