PROGRESSI DELLA SCIENZA CHE STUDIA IL CERVELLO Aggiornamento 2008 Introduzione di Eve Marder, PhD La relazione tra arte e cognizione Saggio di Michael S. Gazzaniga, PhD La stimolazione cerebrale profonda: nuovi sviluppi di Mahlon R. DeLong, MD, e Thomas Wichmann, MD PROGRESSI DELLA SCIENZA CHE STUDIA IL CERVELLO Introduzione di Eve Marder, PhD La relazione tra arte e cognizione Saggio di Michael S. Gazzaniga, PhD La stimolazione cerebrale profonda: nuovi sviluppi di Mahlon R. DeLong, MD, e Thomas Wichmann, MD Aggiornamento 2008 THE EUROPEAN DANA ALLIANCE FOR THE BRAIN EXECUTIVE COMMITTEE William Safire, Chairman Edward F. Rover, President Colin Blakemore, PhD, ScD, FRS, Vice Chairman Pierre J. Magistretti, MD, PhD, Vice Chairman Carlos Belmonte, MD, PhD Anders Björklund, MD, PhD Joël Bockaert, PhD Albert Gjedde, MD, FRSC Sten Grillner, MD, PhD Malgorzata Kossut, MSc, PhD Richard Morris, Dphil, FRSE, FRS Dominique Poulain, MD, DSc Wolf Singer, MD, PhD Piergiorgio Strata, MD, PhD Eva Syková, MD, PhD, DSc Executive Committee Barbara E. Gill, Executive Director La European Dana Alliance for the Brain (EDAB) riunisce circa 183 tra i più grandi specialisti delle neuroscienze di 27 paesi, compresi 5 premi Nobel, che si sono dati come obbiettivo di sensibilizzare il pubblico sull’importanza della ricerca sul cervello. Fondata nel 1997, questa organizzazione è attiva a vari livelli dal laboratorio di ricerca fino al pubblico. Per ulteriori informazioni : The European Dana Alliance for the Brain Dr.essa Béatrice Roth, PhD Centre de Neurosciences Psychiatriques Site de Cery 1008 Prilly / Lausanne e-mail: [email protected] Copertina: Keystone PROGRESSI DELLA SCIENZA CHE STUDIA IL CERVELLO Aggiornamento 2008 La relazione tra arte e cognizione 5 Introduzione di Eve Marder, PhD Presidente della Society for Neuroscience 11 La relazione tra arte e cognizione di Michael S. Gazzaniga, PhD 17 La stimolazione cerebrale profonda: nuovi sviluppi di Mahlon R. DeLong, MD, e Thomas Wichmann, MD I progressi della ricerca sul cervello nel 2007 25 Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia 33 I disturbi del movimento 41 Le lesioni del sistema nervoso 49 Neuroetica 57 Le malattie neuroimmunologiche 65 Il dolore 71 I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze 81 I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee 89 Cellule staminali e neurogenesi 97 I disturbi del pensiero e della memoria 107 Referenze 117 Immaginate un mondo... Introduzione di Eve Marder, PhD Presidente della Society for Neuroscience È in veste di ricercatrice fondamentale senza preconcetti che affronto senza remore questo aggiornamento. Esso riassume i recenti progressi nel campo delle neuroscienze che sono di primaria importanza per noi e per le nostre famiglie, per il nostro presente e il nostro futuro. Come scienziata ho avuto il privilegio di occuparmi dei problemi fondamentali delle neuroscienze, come ad esempio la regolazione omeostatica, cioè il mantenimento costante della funzione neuronale nel corso della vita. In questo contesto ho capito l’utilità che il mio lavoro poteva avere per i ricercatori che si occupano di problemi clinici come ad esempio l’epilessia 1, 2. Come figlia ho potuto osservare, con immenso stupore, mio padre recuperare la salute dopo un trauma cerebrale causato da un incidente stradale. È incredibile come si sia ricostituito il suo cervello di 76 anni. Dopo sette anni una persona che lo incontra per la prima volta non immaginerebbe mai le gravi lesioni che ha subito. Il suo ristabilimento testimonia la straordinaria abilità del cervello umano di recuperare, ma evidenzia anche le grandi competenze del chirurgo. Restano invece misteriosi le ragioni e i meccanismi del suo completo risanamento. Sapendo quanto sono limitate le nostre conoscenze, non c’è nulla di più sconcertante per un neuroscienziato che vedere un amico o un famigliare colpito da trauma o da una malattia del cervello. Tutti i progressi descritti in questo aggiornamento sono quindi per me un piccolo segno di speranza. Come scienziata ricercatrice all’università mi occupo tra l’altro di un corso sui fondamenti delle neuroscienze di base e delle loro applicazioni sia sulle questioni cliniche e sia sui problemi quotidiani. Come insegnante trovo molto soddisfacente il numero di volte in cui dei dettagli apparentemente 5 oscuri studiati dalla ricerca fondamentale preparano il terreno ai progressi clinici. Mi rallegrano molto anche i numerosi casi in cui lavori perseguiti a lungo da ricercatori fondamentali concretizzano dei progressi portando un beneficio reale ai pazienti. Le neuroscienze possono trovare delle applicazioni agli ambiti più disparati del nostro quotidiano. Prendiamo un esempio semplice: perché degli individui che crescono in famiglie diverse diventano pittori, musicisti o ballerini? Tutti abbiamo notato una specie di predisposizione che si potrebbe qualificare come « eredità familiare » in relazione all’arte. È una questione di geni, di immersione precoce e di esercizio o di entrambi? Si ritiene che i matematici e i fisici siano dotati per la musica. Esiste veramente una relazione tra le aree corticali che permettono di formulare dei pensieri astratti e la musica? Educando i nostri figli all’arte favoriamo lo sviluppo di altre competenze cognitive? Questi esempi molto concreti sono stati discussi da un gruppo di persone all’interno del consorzio Arte e Cognizione della Dana. Ma le neuroscienze cercano anche risposte a numerose malattie, come le patologie che colpiscono i bambini. L’autismo, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, il ritardo mentale, ecc., sono tra le malattie neurologiche più strazianti. Sono devastanti anche le patologie neurodegenerative che colpiscono l’adulto, come la corea di Huntington, il morbo di Parkinson e il morbo di Alzheimer. Recenti studi dimostrano l’importanza della genetica nella comprensione delle cause di alcune di queste malattie. Decenni di lavoro sui meccanismi genetici di base forniscono ai ricercatori gli strumenti che permettono di studiare le interazioni tra la moltitudine di geni che intervengono nelle complesse malattie dell’uomo. Lo stesso messaggio emerge dai recenti lavori sui tumori cerebrali: lo studio delle vie cellulari di segnalazione che controllano la crescita e la proliferazione di numerosi tipi di cancro, compresi i tumori cerebrali, permette di intravedere nuovi trattamenti per i gliomi e per altri tipi di tumori cerebrali. 6 Grazie alla rapidità dell’intervento chirurgico, il cervello di mio padre ha recuperato. I recenti progressi elencati in questo aggiornamento, realizzati nell’ambito degli incidenti cerebrovascolari, dimostrano che la rapidità dell’intervento è decisiva per la protezione di un cervello che ha subito sia un incidente cerebrovascolare sia un attacco ischemico transitorio che apparentemente ha minori conseguenze neurologiche. Gli interventi rapidi realizzati dopo un incidente ischemico transitorio, infatti, riducono il rischio di Nelle patologie che riguardano l’uomo, può essere particolarmente difficile trasporre le intuizioni e le scoperte realizzate sui modelli animali alla pratica clinica. Garantire la qualità e il rigore dei test clinici è talvolta difficile. A questo scopo l’International Campaign for Cures of Spinal Cord Paralysis ha elaborato nuovi criteri di inclusione e di valutazione per i test clinici di trattamento delle lesioni midollari. L’importanza di questi criteri è altrettanto rilevante quando si tratta di valutare un qualsiasi trattamento neurologico o psichiatrico per l’uomo. Introduzione ulteriori e più importanti ictus nelle settimane che seguono i primi segnali di un evento ischemico neurologico. Nel corso del 2007 c’è stata un’esplosione d’interesse per le domande nate da una giovane disciplina, la neuroetica, alla quale l’American Journal of Bioethics consacra tre numeri l’anno. Quattro soggetti hanno sollevato particolare attenzione: la commercializzazione di dispositivi basati sulle conoscenze del cervello in grado di identificare se una persona dice la verità, la stimolazione profonda del cervello nel trattamento della depressione, lo studio genetico della dipendenza e l’imaging cerebrale. In questi ambiti siamo confrontati con le conseguenze impreviste e spinose dello sviluppo di tecnologie che in prima analisi erano destinate alla diagnosi e al trattamento dei disturbi cerebrali. Problemi di questo tipo sorgono contemporaneamente ai notevoli progressi della biologia delle cellule staminali, che forse un giorno ci solleveranno dalle controversie sull’uso delle cellule staminali embrionali. Le interazioni tra il sistema immunitario e il sistema nervoso diventano sempre più tangibili. Un’interazione particolarmente evidente si osserva nella sclerosi multipla. In questa malattia i fattori genetici e ambientali favoriscono l’attacco da parte del sistema immunitario della guaina di mielina che avvolge le cellule neuronali. Recenti studi hanno dimostrato un legame tra diversi geni del sistema immunitario e il rischio di sviluppare la sclerosi multipla. Affascinanti scoperte suggeriscono anche l’importante nesso tra la vitamina D, l’esposizione al sole (che aumenta la sintesi di questa vitamina), il sistema immunitario e la sclerosi multipla. Il sistema immunitario sembra svolgere un ruolo anche in certe sindromi di dolori cronici. I meccanismi che provocano le sindromi di dolori cronici sono spesso misteriosi, essi possono includere una risposta al dolore inadeguata che si prolunga oltre l’evento iniziale. Dato che un intenso dolore cronico è molto 7 debilitante, è spesso difficile curarlo con successo. Occorrono quindi nuove conoscenze sull’organizzazione e sulle funzioni delle vie del dolore, così come nuovi tipi di trattamento. Sono inoltre necessarie nuove terapie che possano offrire un’alternativa all’uso prolungato di oppiacei di cui si conosce l’effetto additivo. Tra i nuovi trattamenti attualmente allo studio, il più promettente è la neurostimolazione, che consiste nell’impiantare degli elettrodi nelle vicinanze del midollo spinale o più in periferia. Tale metodo tende a utilizzare la stimolazione diretta per bloccare i segnali nocicettivi prima che raggiungano il cervello. In questo aggiornamento, si potranno leggere anche affascinanti nuovi studi sul modo in cui il cervello produce la febbre in caso d’infezione 3. Queste nuove scoperte si basano sulle conoscenze dei meccanismi di segnalazione cellulare di base e sono state possibili grazie alla nostra capacità di manipolare geneticamente tali meccanismi nel modello animale. Le grandi patologie psichiatriche come la schizofrenia, la depressione, la dipendenza si manifestano spesso per la prima volta nell’adolescente o nel giovane adulto, un’età in cui la persona dovrebbe essere pronta a dare il suo contributo alla società. Le ricerche effettuate nel 2007 annunciano un cambiamento di paradigma nella comprensione di queste malattie. Per molto tempo gli scienziati hanno cercato le cause delle patologie psichiatriche in disfunzioni biochimiche o molecolari, oggi sembra invece che i disturbi del pensiero e dell’umore potrebbero essere la conseguenza di una connettività difettosa dei circuiti cerebrali, anche se i singoli neuroni funzionano normalmente. Nuove tecniche di imaging e di manipolazione genetica permettono di affinare la ricerca di geni da cui dipendono la creazione e il mantenimento dell’architettura dei circuiti cerebrali atti a resistere ai cambiamenti dell’ambiente. Il cambiamento di paradigma dovrebbe favorire un supporto all’analisi di nuovi trattamenti e permettere di comprendere meglio i disturbi cognitivi che sono la conseguenza della perdita di specifici componenti dei circuiti neurali, ad esempio i neuroni persi nelle patologie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer. 8 Tra le maggiori difficoltà nel trattamento delle patologie psichiatriche c’è l’estrema eterogeneità della popolazione. Una delle più grandi speranze per il futuro è disporre di farmaci o altri trattamenti in base alla costituzione genetica del paziente e che hanno quindi più opportunità di essere efficaci. Introduzione Molti giovani scienziati scelgono le neuroscienze perché attratti dalle « grandi » questioni: la natura della coscienza, la struttura del pensiero umano, la capacità dell’uomo di usare il linguaggio, la capacità di apprezzare la musica, l’interesse per i propri simili. Il lavoro svolto nel 2007 ci avvicina al momento in cui comprenderemo veramente cosa accade in un cervello composto di circuiti neuronali, durante lo svolgimento di un atto cognitivo complesso. Nonostante le straordinarie conoscenze che abbiamo sul cervello sano e malato, ad ogni passo avanti intuiamo un po’ meglio quel che resta da capire. Per esempio, tutti abbiamo sperimentato la fatica psichica, eppure non abbiamo la minima idea del suo correlato biologico. Sappiamo che ogni cervello è unico, che ciascuno di noi ha ricordi propri e che il modo con cui ce ne serviamo per interagire con gli altri è senza uguali. Allo stesso tempo siamo convinti che le regole essenziali secondo le quali il cervello funziona appartengano non solamente al genere umano ma anche al regno animale. Concepirsi come individui nel contesto dei meccanismi biochimici, molecolari e genetici condivisi, è la più grande sfida dei prossimi anni di lavoro. 9 La relazione tra arte e cognizione di Michael S. Gazzaniga, PhD N el 2004 il consorzio Arte e Cognizione della Dana ha riunito un gruppo di neuroscienziati cognitivi provenienti da sette università statunitensi, per cercare di comprendere il rapporto tra educazione artistica e capacità cognitive. In particolare il gruppo ha cercato di esplorare in quale modo l’educazione artistica sia associata a delle migliori prestazioni negli studi accademici. Sono le persone con delle spiccate capacità cognitive ad essere attratte dalle attività artistiche (musica, danza, teatro) oppure praticare un’arte fin dalla più giovane età induce dei cambiamenti cerebrali favorevoli allo sviluppo di altri aspetti importanti della cognizione? Questo consorzio potrebbe fornire dei risultati che permetterebbero di comprendere meglio le relazioni esistenti tra l’educazione artistica e l’apprendimento in altri ambiti cognitivi. La ricerca offrirà sicuramente anche nuovi elementi che permettono di valutare le conseguenze della formazione artistica e getterà le basi utili per successivi studi. Le conclusioni preliminari ottenute in quest’ambito saranno vantaggiose non solamente per i genitori, gli studenti, gli insegnanti e i neuroscienziati, ma anche per i politici e i responsabili di decisioni con ricadute istituzionali. Il rapporto del gruppo di esperti, che può essere scaricato dal sito www.dana.org., presenta il programma di ricerca dettagliato di ciascuno dei partecipanti allo studio. Ecco una sintesi delle conclusioni dei neuroscienziati: 1. L’interesse verso le arti sceniche induce un’alta «motivazione» che a sua volta genera la «concentrazione necessaria» al miglioramento della prestazione stessa ma anche ad altri ambiti cognitivi. 11 2. Alcuni studi genetici evidenziano l’esistenza di possibili geni che potrebbero spiegare le differenze individuali nell’interesse per l’arte. 3. Esistono dei nessi tra la formazione musicale ad alto livello e la capacità di elaborare le informazioni nella memoria a corto e a lungo termine: queste correlazioni oltrepassano l’ambito musicale. 4. Nel bambino sembra esistere un legame specifico tra la pratica della musica e le competenze nella rappresentazione geometrica, ma non nelle altre forme di rappresentazione numerica. 5. Esistono delle correlazioni tra l’educazione musicale e l’acquisizione sia della lettura, sia dell’apprendimento sequenziale. La conoscenza fonologica, uno degli indicatori centrali dell’acquisizione precoce della lettura e della scrittura, è correlata con la pratica musicale e con lo sviluppo di una specifica via cerebrale. 6. Il teatro sembra rinforzare la memoria, il giovane attore sviluppa, infatti, la capacità generale di manipolare le informazioni semantiche. 7. L’interesse che un adulto prova per l’estetica è in relazione con una componente di apertura mentale, che a sua volta è influenzata da geni collegati alla dopamina. 8. Imparare a ballare osservando dei passi di danza è simile all’impararli eseguendoli fisicamente, sia a livello di risultati sia nell’attivazione dei substrati neurali che supportano lo svolgimento di azioni complesse. L’apprendimento attraverso l’osservazione è applicabile anche all’acquisizione di altre competenze cognitive. Per la prima volta le neuroscienze cercano di capire se un’attività artistica può modellare il cervello amplificando le competenze cognitive generali. La questione è di tale portata che, come per alcune patologie organiche, non mancheranno speculazioni esagerate e affermazioni fantasiose, ma come spesso accade, se non saranno fondate di sicuro esse si rivolteranno come un boomerang contro i loro autori. 12 Esiste una difficoltà particolare nelle correlazioni. Proprio la povertà e il carattere dubbioso di certi studi correlativi hanno motivato la creazione del consorzio. Non bisogna quindi dimenticare che la «correlazione», sempre Sebbene gli scienziati debbano ricordare costantemente la necessità di distinguere tra correlazione e causalità, è importante evidenziare che nell’ambito delle neuroscienze spesso si parte da una correlazione. Per esempio spesso si osserva che una specifica attività cerebrale può essere connessa a un particolare comportamento. Quando si tratta di decidere quale sarà la ricerca più produttiva però, è importante sapere quanto queste correlazioni siano forti oppure deboli. Molti degli studi menzionati in questo rapporto contengono delle correlazioni già rilevate in lavori precedenti, essi pongono quindi le basi per altri studi che fondandosi sulle conoscenze dei meccanismi biologici e cerebrali che sottendono queste relazioni, permetteranno di spiegarne veramente le cause. La relazione tra arte e cognizione interessante da osservare, accompagna, confronta, e completa dei risultati, ma è la comprensione dei meccanismi che fa progredire e cambiare le cose. Così come una correlazione può essere stretta o debole, anche il nesso di casualità può essere forte o debole. Si potrebbe teoricamente ammettere una causalità generale del tipo « fumare provoca il cancro », con degli studi prospettici randomizzati che dimostrano che i bambini con un’attività artistica realizzano dei risultati cognitivi migliori degli altri. Per un risultato così netto, la causalità sarebbe debole, infatti la ricerca non ha ancora scoperto nemmeno uno dei meccanismi cerebrali dell’apprendimento che permettono di «comprendere» in quale modo ottimizzare l’educazione artistica. Non si conoscono nemmeno meccanismi generali dell’apprendimento cerebrale, né gli stadi di sviluppo ai quali il cervello è particolarmente sensibile a determinate esperienze. Tra la correlazione stretta e la causalità pura, si estende un vasto e prezioso ambito di ricerca: le questioni basate sulla teoria che utilizzando i metodi delle neuroscienze cognitive, prevedono delle esperienze che dimostrano come i cambiamenti cerebrali prodotti da un’attività artistica arricchiscano la vita e come questo profitto si trasponga agli ambiti che favoriscono le acquisizioni accademiche. Pur non essendo svolti a livello cellulare o molecolare, questi studi incrementano in modo significativo le nostre conoscenze. Un buon esempio in questo senso è il lavoro del consorzio a proposito della danza. Le ricerche dimostrano, infatti, che l’allievo ballerino diventa un eccellente osservatore e che può imparare anche solo guardando. A 13 livello neuronale questo è da attribuire alla notevole sovrapposizione tra le regioni del cervello che usiamo per osservare e quelle per muoverci. Tali substrati neuronali condivisi sono più importanti quando si tratta di organizzare un’azione complessa in una serie ordinata di movimenti. In futuro sarà possibile stabilire se è immaginabile trasferire le competenze di osservazione ad altri ambiti puramente accademici. Tuttavia non è una questione da poco identificare un meccanismo causale in un ambito complesso come quello dei circuiti cerebrali. Gli studi sull’arte e la cognizione realizzati dal consorzio della Dana nel corso degli ultimi tre anni, hanno posto delle basi sufficientemente solide per successivi lavori. Una nuova dimensione sta aprendosi nelle neuroscienze. Scoprire come la prestazione e l’apprezzamento dell’arte amplifichino le competenze cognitive, permetterà di imparare meglio, di vivere più serenamente e di essere più produttivi. Ecco qualche idea per estendere gli studi presentati in questo rapporto: 1. Studi realizzati in precedenza hanno dimostrato che la musica, le arti visive, le arti drammatiche e la danza, implicano circuiti neuronali diversi. Future ricerche dovrebbero esaminare in che misura questi circuiti si distinguono e in quale si sovrappongono. 2. Sarebbe interessante scoprire per quale ragione i cambiamenti delle reti neuronali coinvolte in una determinata attività artistica, sono più rapidi quando la motivazione è elevata e mostrare in quale misura essi influenzano altre forme cognitive. 3. Attraverso recenti tecniche d’imaging è possibile esplorare nel dettaglio i nessi tra la musica e le arti visive, oltre che certi aspetti della matematica, come la geometria. 4. Il collegamento tra la motivazione intrinseca per una specifica forma d’arte e l’attenzione continua alle mansioni che sottendono quella determinata espressione artistica, deve essere esplorato con l’aiuto di metodi che vertono sul comportamento e con le tecniche di imaging così da dimostrare che i cambiamenti in certe vie sono più importanti se la motivazione è alta. 14 5. La ricerca di specifici indicatori dell’interesse e l’influenza dell’educazione artistica, dovrebbe continuare combinando appropriati questionari Altre questioni potrebbero essere esplorate in futuro: 1. In quale misura è causale il nesso tra l’educazione musicale, la lettura e l’apprendimento sequenziale? Se è causale, sono modificate le connessioni tra le regioni del cervello implicate? 2. È causale anche il nesso tra la pratica della musica o del teatro e i metodi di memorizzazione? Se sì, l’imaging cerebrale può evidenziarne il meccanismo? La relazione tra arte e cognizione di ricerca, l’uso di potenziali geni già identificati e le esplorazioni dell’intero genoma. 3. Nelle arti connesse allo spettacolo, qual è il ruolo dell’osservazione e dell’imitazione? È possibile preparare il sistema motorio a complessi passi di danza semplicemente osservando e immaginando il movimento da eseguire? La disciplina e le competenze cognitive necessarie si trasferiscono anche ad altri ambiti? Su iniziativa del consorzio, alcuni tra gli eminenti neuroscienziati cognitivi del mondo hanno analizzato le correlazioni sulle arti e la cognizione e hanno cominciato ad affrontare la questione della causalità. Le scoperte e i progressi realizzati in quest’occasione hanno chiarito il seguito da dare al progetto. Le proposte di analisi appena elencate sono tratte direttamente dal progetto, il loro scopo è di permettere di approfondire il nuovo ambito di analisi. Questo progetto ha permesso d’identificare dei geni potenzialmente implicati nella predisposizione all’arte e di mostrare che il miglioramento delle capacità cognitive potrebbe estendersi a specifiche competenze intellettive, come il ragionamento geometrico. Si potrebbero identificare delle vie cerebrali specifiche e osservarne il cambiamento quando una persona esegue un’attività artistica. Talvolta non è il cambiamento a livello strutturale del cervello, ma piuttosto la variazione di strategia cognitiva che permette di risolvere un problema. Una formazione musicale precoce e mirata migliora le competenze cognitive attraverso un meccanismo non ancora delucidato. Tutte queste sono scoperte importanti e soprattutto avvincenti. 15 La stimolazione cerebrale profonda: nuovi sviluppi di Mahlon R. DeLong, MD, e Thomas Wichmann, MD Introduzione N el corso del secolo scorso a causa dell’assenza di trattamenti efficaci che potessero aiutare i pazienti affetti da forme gravi del morbo di Parkinson, di tremiti e di altri disturbi motori, i neurochirurghi hanno cercato di alleviare i sintomi di questi disturbi intervenendo chirurgicamente in diverse aree cerebrali. Queste pratiche hanno raggiunto l’apogeo durante gli anni 1950 e 1960. Nello stesso periodo ci sono stati molti interventi chirurgici che avevano come obiettivo i disturbi psichiatrici e le anomalie del comportamento. Questi interventi estremi che potremmo definire di psicochirurgia, sono stati negli anni ’60 molto ridotti sia in seguito all’introduzione della levodopa per il trattamento del morbo di Parkinson, sia per le numerose proteste dell’opinione pubblica contro gli abusi di queste pratiche. Potrebbe quindi sorprendere il ritorno ai trattamenti neurochirurgici per i disturbi neurologici e psichiatrici negli ultimi dieci anni. La nuova tendenza è stata indotta dai grandi progressi della ricerca fondamentale sulla comprensione dell’organizzazione del sistema motorio, ma anche dalla comprensione delle basi neurobiologiche delle affezioni come il morbo di Parkinson. Gli studi sui primati, hanno dimostrato che i disturbi motori di tipo parkinsoniano sono generati da un’anormale attività in diversi circuiti del cervello. Con un intervento chirurgico è possibile modulare l’attività in diversi punti nodali di questi circuiti, alleviando efficacemente i sintomi della malattia 1. 17 L’approccio chirurgico è favorito da diversi fattori: i farmaci attuali non permettono di trattare con efficacia tutti i sintomi presenti allo stadio avanzato di numerose affezioni neuropsichiatriche croniche e talvolta generano effetti collaterali inaccettabili. Gli individui, inoltre, sono più coscienti del peso che queste malattie rappresentano per i pazienti e le persone che se ne fanno carico. In ogni caso l’approccio chirurgico per i disturbi psichiatrici così come per altri interventi, si basa sul consenso informato del paziente che ne garantisce i diritti. La maggior parte delle misure neurochirurgiche funzionali usate oggi, hanno come obiettivo un insieme di strutture cerebrali sottocorticali denominate nuclei della base. Queste strutture costituiscono parte di un gruppo di circuiti cerebrali ben distinto dal punto di vista anatomico che comprende anche la corteccia cerebrale e il talamo. Tali circuiti partecipano ad alcuni aspetti del comportamento motorio (circuito motorio) delle funzioni cognitive e comportamentali (circuito associativo) così come delle emozioni e della motivazione (circuito limbico). I disturbi motori osservati nel morbo di Parkinson sono prodotti da un’anormale attività dei neuroni del circuito motorio. Una parte dei sintomi e dei segni di malattie neuropsichiatriche può avere come causa delle anomalie del sistema limbico o associativo. L’obiettivo degli interventi chirurgici sarà quindi diverso se una persona soffre di disturbi motori o di disturbi neuropsichiatrici. Tra gli approcci chirurgici di nuova generazione, la stimolazione cerebrale profonda (DBS, dall’inglese «Deep Brain Stimulation») si distingue per la sua capacità di modificare l’attività di certi circuiti cerebrali. La DBS è stata sperimentata verso la fine degli anni ’70 per il trattamento dei tremori; poi con il tempo è stata evidenziata l’enorme efficacia che poteva avere per il trattamento del morbo di Parkinson e di altri disturbi motori. Contrariamente alle conseguenze dei trattamenti lesivi, la DBS non altera in modo permanente il cervello, i cambiamenti ottenuti grazie all’applicazione di una corrente elettrica sono modulabili e reversibili. 18 La DBS consiste nell’impiantare in specifiche regioni cerebrali dei microelettrodi muniti di quattro contatti diversi, diretti da un generatore d’impulsi programmabile, posto sotto la clavicola come un pacemaker cardiaco. Il generatore d’impulsi è programmato così da liberare una stimolazione continua con una frequenza, un’ampiezza e una durata La stimolazione profonda del cervello offre notevoli benefici ai pazienti che presentano dei disturbi motori o altre affezioni in stato avanzato, ma non se ne conosce ancora il funzionamento. In principio gli scienziati ritenevano che essa imitasse gli effetti degli interventi lesivi, recenti studi realizzati sull’attività cerebrale dell’uomo e dell’animale sembrano tuttavia indicare che essa modifica le reti cerebrali più lontane ma associate alle regioni da essa stimolate, attivando gli assoni che entrano o escono da queste aree. I disturbi motori L’applicazione più frequente della DBS è lo stadio avanzato del morbo di Parkinson, una patologia progressiva caratterizzata dalla lentezza dei movimenti, tremito e rigidità muscolare. I sintomi sono secondari alla carenza di dopamina nei nuclei della base, che limita fortemente l’attività neurale dell’insieme del circuito motorio. La stimolazione cerebrale profonda: nuovi sviluppi ottimale nella zona cerebrale determinata. La stimolazione è regolabile e reversibile, ed è proprio questo uno dei maggiori vantaggi della DBS. La somministrazione della corrente elettrica è molto precisa e riduce gli effetti collaterali osservati con i farmaci che esercitano al contrario un effetto globale sul cervello. La terapia farmacologica è efficace all’inizio della malattia, mostra però dei limiti agli stati più avanzati. I farmaci con il tempo provocano dei movimenti involontari (discinesie) e il loro effetto scompare rapidamente. Applicata alla porzione motoria dei due nuclei dei ganglioni della base, il nucleo sottotalamico e il segmento interno del globo pallido, la DBS elimina buona parte dei disturbi motori generati dal morbo di Parkinson, oltre evidentemente agli effetti collaterali dei farmaci 2, 3. Le complicazioni chirurgiche gravi si limitano all’1-2% dei pazienti e i benefici a lungo termine sono sostanziali. Il nucleo sottotalamico e il globo pallido non sono i soli obiettivi della DBS; sono allo studio anche la stimolazione del nucleo peduncolopontino, che sembra utile nei casi gravi del morbo di Parkinson con disturbi della locomozione e dell’equilibrio resistenti al trattamento. La DBS è usata con successo anche nei pazienti che presentano altri disturbi del movimento. Sono allo studio dei test con la DBS che possono quindi ridare speranza alle persone poco sensibili ai farmaci per diverse forme di distonia, una malattia estremamente fluttuante, caratterizzata da movimenti involontari di torsione e da anomalie della postura 4. 19 I disturbi neuropsichiatrici Incoraggiati sia dagli eccellenti risultati ottenuti nel morbo di Parkinson e in altri disturbi motori, sia dall’intuizione che molte patologie neuropsichiatriche frequenti potrebbero essere provocate da un’anormale attività di alcune reti neurali, prudentemente e per ora solo in modo sperimentale, i neurochirurghi cominciano a esplorare le possibilità della DBS in altre patologie. Tra queste i disturbi ossessivo-compulsivi, una patologia caratterizzata dalla presenza di pensieri intrusivi e comportamenti compulsivi. Il trattamento lesivo in questi casi è sempre stato diretto contro obiettivi empirici, in particolare la parte anteriore della capsula interna. Uno studio recente dimostra che la DBS può avere un effetto benefico sia in questa regione 5 sia su una struttura vicina, lo striato ventrale. La DBS potrebbe essere utile anche per il trattamento della sindrome di Gilles de la Tourette, nella quale i movimenti bruschi, involontari, stereotipati e le vocalizzazioni (motorie e tic vocali), sono spesso associati a dei disturbi ossessivo-compulsivi, a dei disturbi di iperattività e deficit di attenzione, a depressione e difficoltà psicosociali 6. Nella sindrome di Gilles de la Tourette i sintomi scompaiono all’adolescenza, la DBS è indicata quindi per i casi gravi, che non migliorano spontaneamente. Facendo riferimento a degli studi di trattamenti lesivi empirici e considerando l’anatomia dei circuiti limbici, in questi pazienti si è tentato di dirigere la DBS su differenti obiettivi, tra i quali i nuclei intralaminari e i nuclei mediani del talamo o verso le porzioni motorie e limbiche del globo pallido. In certi casi i risultati preliminari evidenziano dei miglioramenti sostanziali dei sintomi. 20 Sono in corso degli studi che cercano di valutare il potenziale della DBS anche nei casi gravi di depressione resistenti ai trattamenti abituali. Secondo un recente studio realizzato con l’imaging, la regione subgenuale della corteccia cingolare, denominata anche area 25, ha un ruolo chiave nella depressione. L’applicazione della DBS in questa zona ha migliorato i sintomi in modo sostanziale 7. La DBS perseguita per sei mesi, ha generato un miglioramento significativo e sostenuto, quando nessun altro trattamento aveva portato un beneficio. Per confermare questi risultati e fornire delle informazioni su altri obiettivi, come per esempio lo striato ventrale, occorrono studi e test rigorosamente controllati su un numero più ampio di pazienti. Attualmente la stimolazione profonda del cervello è la tecnica neurochirurgica di prima scelta per i pazienti affetti da invalidanti disturbi motori. La sua applicazione è allo studio per molte altre gravi patologie neuropsichiatriche. Sebbene le basi neurobiologiche di affezioni come i disturbi ossessivo-compulsivi, la sindrome di Gilles de la Tourette e la depressione siano meno conosciute rispetto ai disturbi motori, sembra che in queste patologie vi siano, come elementi comuni, delle disfunzioni dei circuiti cerebrali. In questi casi la DBS può costituire uno strumento efficace per i pazienti i cui sintomi sono resistenti ad altre forme di trattamento. La stimolazione cerebrale profonda: nuovi sviluppi Conclusioni 21 I progressi della ricerca sul cervello nel 2007 Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia La genetica dell’autismo 26 Disturbi da deficit di attenzione ed iperattività 27 Progressi nella sindrome di Rett 28 Un enzima importante nella sindrome del cromosoma X-fragile 31 25 N el 2007 i ricercatori hanno identificato alcuni degli elementi genetici responsabili dei disturbi di tipo autistico e dei disturbi da deficit di attenzione e da comportamento dirompente, due tra le più frequenti patologie dello sviluppo. I ricercatori hanno posto le basi per sviluppare un possibile trattamento per la sindrome di Rett, una delle malattie più invalidanti tra i disturbi di tipo autistico. La sindrome di Rett è molto frequente nelle bambine, dato che solo pochi maschietti sopravvivono oltre i due anni. Altre ricerche hanno permesso di intravedere possibili piste terapeutiche anche per la sindrome dell’X-fragile, la forma più comune di ritardo mentale ereditario che predomina nei maschi. La genetica dell’autismo Sebbene molti studi realizzati sui gemelli abbiano dimostrato che i disturbi di tipo autistico possiedono una forte componente ereditaria, non è ancora stato identificato nessun gene specifico. La maggioranza delle persone affette da autismo non ha antecedenti famigliari di questa patologia, è possibile quindi che i fattori di rischio ereditari siano molto complessi. Gli aspetti genetici di questi disturbi sono stati studiati nel 2007 da un gruppo diretto da Jonathan Sebat, al Cold Spring Harbor Laboratory. In un articolo pubblicato nel numero di aprile della rivista Science, Jonathan Sebat e i suoi collaboratori hanno scoperto che una mutazione genetica non presente nel genoma dei due genitori potrebbe rappresentare un rischio di autismo maggiore di quel che si presupponeva 1. La particolare mutazione è denominata variazione del numero delle copie e comporta la delezione di minuscoli segmenti di geni. Il gruppo di Jonathan Sebat ha ricercato delle variazioni del numero di copie in 264 famiglie, di cui 118 avevano un solo bambino autistico, 47 famiglie ne avevano vari. 99 famiglie senza figli affetti da autismo sono state scelte come campione testimone. 26 I ricercatori hanno osservato che tra i bambini affetti da disturbi di tipo autistico che non avevano dei fratelli autistici, il 10% presentava la delezione di segmenti di geni, rispetto al 2,6% tra i bambini affetti da questi disturbi con fratelli con la stessa malattia e l’1% nei soggetti testimone. Le delezioni sono state osservate in numerosi siti del genoma. Questi risultati convalidano l’ipotesi secondo la quale i geni dell’autismo sarebbero Il fatto che i geni implicati nell’autismo siano parecchi potrebbe insegnarci qualcosa di fondamentale a proposito di questa malattia, per esempio che le sue caratteristiche comuni (il ripiegamento su se stessi, le enormi difficoltà di comunicazione, i comportamenti e gli interessi ristretti) non devono i loro tratti comuni agli stessi geni, ma alla medesima via biologica che implica un importante insieme di geni diversi. Tali risultati hanno un’implicazione clinica. Ricercando sistematicamente nei bambini affetti da disturbi di tipo autistico delle mutazioni genetiche spontanee, i clinici potrebbero riuscire a informare i genitori sul rischio che essi corrono di avere un secondo figlio affetto da autismo, pericolo che apparentemente è minore, quando le mutazioni sono spontanee. Disturbi da deficit di attenzione ed iperattività I disturbi da deficit di attenzione ed iperattività (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, ADHD) sono molto frequenti, colpiscono da 3 a 7% dei bambini, hanno un’importante componente ereditaria e tendono ad avere un impatto minore quando il bambino cresce. Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia numerosi e spiega in parte l’incoerenza dei dati forniti da precedenti studi genetici. In uno studio pubblicato in agosto in Archives of General Psychiatry, Philip Shaw e i suoi colleghi del National Institute of Mental Health hanno analizzato gli effetti di uno dei più importanti tra i fattori di rischio genetici noti in questa malattia 2. Si tratta del gene che codifica per il recettore D4 della dopamina, una forma relativamente rara, che contrariamente agli altri recettori dopaminergici possiede una variante allelica 7-repeat in una parte del gene denominata assone 3. Questa variante genetica è responsabile del 30% circa dei casi di ADHD, tale gene è quindi il candidato più importante. I ricercatori hanno raccolto dei campioni di DNA, dei dati clinici e delle immagini del cervello ottenute attraverso la risonanza magnetica di 105 bambini affetti da ADHD e di 103 bambini sani. L’analisi di questi dati dimostra che le prospettive cliniche sono migliori e l’intelligenza è più elevata nei bambini affetti da ADHD con il gene 7-repeat rispetto ai bambini che ne sono privi. I risultati sono molto specifici, nessun nesso di questo genere, né con i dati clinici né con un particolare sviluppo corticale, è mai stato mostrato per i due altri fattori di rischio genetici conosciuti nel ADHD. 27 8 9 10 11 12 13 14 15 16 T statistic –2 –5 I bambini affetti da disturbo da deficit di attenzione ed iperattività hanno una corteccia cerebrale più sottile dei bambini non colpiti da questa malattia. Le immagini cerebrali (il numero indica l’età del bambino) dimostrano però che nel 30% dei casi in cui il ADHD è associato ad una determinata variante genetica rara, la differenza di spessore scompare verso i 16 anni. I ricercatori hanno costatato inoltre che i bambini con la variante genetica 7-repeat, hanno un’evoluzione particolare dello sviluppo corticale: in certe aree che intervengono nel controllo dell’attenzione la corteccia all’inizio è sottile, poi s’ispessisce e verso i 16 anni la crescita raggiunge quella dei bambini che non sono affetti da questo disturbo. Lo stesso gruppo di ricercatori, in uno studio precedente ha rilevato che questo tipo di sviluppo corticale lascia presagire un’evoluzione clinica più favorevole nei bambini che presentavano un ADHD. Stabilendo un nesso tra la genetica, la clinica e lo sviluppo corticale, lo studio del 2007 mantiene viva la speranza che con il tempo la crescita delle conoscenze genetiche potrà apportare un beneficio clinico diretto. Progressi nella sindrome di Rett 28 Provocata dalle mutazioni del gene MeCP2 (methyl-CpG-binding protein 2), la sindrome di Rett colpisce principalmente le bambine. Questa patologia appare molto precocemente, provoca la scomparsa dell’uso del linguaggio e delle mani, progressivamente scompaiono i movimenti coordinati. Sono frequenti anche i disturbi respiratori e un tremore di tipo parkinsoniano. Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia Adrian Bird e i suoi colleghi del Wellcome Trust Centre for Cell Biology in Scozia, studiano la proteina denominata MeCP2 nel modello del topo della sindrome di Rett. Essi hanno scoperto che ristabilendo la produzione della proteina MeCP2 è possibile fare scomparire i sintomi della malattia. Le bambine che soffrono della sindrome di Rett hanno un gene MeCP2 normale e un gene MeCP2 mutato. I topi femmina che presentano un gene silenziato sul cromosoma X offrono un ottimo modello genetico per lo studio della malattia. In questi topi tra i 4 e i 12 mesi appaiono dei tremori e delle difficoltà della mobilità e della marcia che ricordano i sintomi della sindrome di Rett che persistono per una durata di vita apparentemente normale. I prolungamenti neuronali sono meno numerosi del normale, non si trovano segni di morte cellulare né nei topi né nei pazienti portatori della malattia (mentre i segni di morte cellulare sono presenti nelle patologie neurodegenerative come il morbo di Parkinson, la corea di Huntington e il morbo di Alzheimer). Dato che i neuroni malati restano in vita, i ricercatori del Wellcome Trust Centre for Cell Biology dell’Università di Edimburgo in Scozia, hanno ipotizzato che per ristabilire la funzione nervosa e «guarire» i topi sarebbe sufficiente ristabilire la normalità della proteina MeCP2. Adrian Bird e il suo gruppo, in uno studio pubblicato sul numero di febbraio di Science, hanno testato quest’ipotesi introducendo nel gene 29 L’espressione di CrH è aumentata nel topo MeCP2308 Controllo MeCP2308 Ipotalamo paraventricolare Livello di espressione di CrH alto basso La mutazione della proteina MeCP2 provoca la sindrome di Rett. I topi con questa mutazione mostrano nell’ipotalamo elevati livelli dell’ormone dello stress, denominato ormone di liberazione della corticotropina (CrH). L’aumento di quest’ormone nell’ipotalamo genera lo stress e l’ansia, caratteristici della sindrome di Rett. MeCP2 dei topi una «cassetta stop» che impedisce la sintesi della proteina MeCP2 3. Il gene silenziato, poteva essere riattivato con iniezioni di tamoxifen, una sostanza che attiva una sequenza di eventi molecolari che a loro volta provocano la delezione della cassetta stop e quindi la riattivazione del gene MeCP2 con conseguente sintesi della proteina. Prima di somministrare il tamoxifen ai topi, i ricercatori hanno aspettato che i sintomi della malattia fossero conclamati. La riparazione del gene MeCP2 e la conseguente ripresa della proteina MeCP2 hanno fatto scomparire completamente il tremito e hanno normalizzato la respirazione, la mobilità e la marcia anche quando i topi si trovavano a qualche giorno dalla morte. Questo spettacolare risultato è stato accompagnato da un recupero delle funzioni elettrofisiologiche. I ricercatori hanno misurato anche la risposta delle cellule nervose a diversi stimoli. 30 Gli autori hanno somministrato il tamoxifen anche a dei topi maschi che avevano sviluppato i sintomi della malattia. La maggior parte dei sintomi è scomparsa anche in questi casi; dopo il ristabilimento del gene MeCP2 la sopravvivenza ha riacquisito una durata apparentemente normale. Un enzima importante nella sindrome del cromosoma X-fragile Un gruppo diretto dal premio Nobel Susumu Tonegawa, ricercatore al Massachusetts Institute of Technology, ha ottenuto dei risultati incoraggianti nello studio della sindrome del cromosoma X-fragile, la forma ereditaria di ritardo mentale più frequente che predomina nei maschi. Questo lavoro è stato pubblicato nel numero di luglio di Proceedings of the National Academy of Sciences 4. La ricerca è stata realizzata sul modello murino della sindrome del cromosoma X-fragile. I topi presentano sintomi simili a quelli osservati nell’uomo: iperattività, movimenti stereotipati, deficit di attenzione, difficoltà dell’apprendimento e della memoria. Anche le anomalie strutturali mostrate dai topi erano simili a quelle osservate nell’uomo. I neuroni cerebrali hanno un alto numero di spine dendritiche che però sono più lunghe e più sottili del normale. La trasmissione dei segnali elettrici è quindi più debole rispetto all’animale sano. Le spine dendritiche sono delle piccole protrusioni sui dendriti del neurone, esse ricevono dei segnali chimici dagli altri neuroni che trasmettono al corpo della cellula. Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia Secondo questi risultati, i sintomi della sindrome di Rett sono potenzialmente reversibili; questa potrebbe essere un’ipotesi da sviluppare anche per studi sulle patologie dello spettro autistico. I ricercatori hanno ipotizzato che l’inibizione di un enzima del cervello, l’enzima PAK (p21-activated kinase), potrebbe contrastare questi cambiamenti strutturali annullando i sintomi invalidanti della sindrome del cromosoma X-fragile. Infatti, questo enzima influisce sul numero, la dimensione e sulla forma delle interconnessioni neurali del cervello. Nello studio in questione i ricercatori dopo avere inibito l’enzima hanno costatato la scomparsa delle anomalie strutturali delle interconnessioni neurali, il ristabilimento della comunicazione elettrica tra i neuroni dei topi e la scomparsa delle anomalie comportamentali. Dato che il gene che inibisce l’enzima PAK è espresso soltanto dopo la nascita, delle molecole capaci di inibirlo potrebbero in futuro essere utilizzate per prevenire o rendere reversibile il ritardo mentale che colpisce i bambini affetti dalla sindrome del cromosoma X-fragile. 31 I disturbi del movimento La corea di Huntington 34 Il morbo di Parkinson 37 33 N el 2007 la ricerca realizzata sulla corea di Huntington e il morbo di Parkinson ha permesso di chiarire alcuni degli aspetti genetici e molecolari, ma ne ha rivelato anche l’incredibile complessità e ha obbligato i ricercatori a ridimensionare le speranze riposte nei progressi terapeutici. I ricercatori ritengono che sarà possibile comprendere meglio queste due malattie, quando si avrà un’idea più precisa dei meccanismi molecolari delle cellule cerebrali. La corea di Huntington La mutazione genetica che provoca la corea di Huntington è presente alla nascita, i sintomi appaiono tuttavia attorno ai 40 anni. Questo lungo intervallo sconcerta gli scienziati che cercano di comprenderne le ragioni. In una delle pubblicazioni più importanti del 2007 sulla corea di Huntington, Cynthia T. McMurray e i suoi colleghi della Mayo Clinic e di altri istituti, hanno attribuito lo sviluppo della malattia al normale fenomeno dell’ossidazione e seguente riparazione del DNA, che svolge un importante e conosciuto ruolo chiave nel processo dell’invecchiamento. Nel corso della vita gli atomi di ossigeno attaccano i nucleotidi che costituiscono i filamenti di DNA presenti in ogni cellula. Degli enzimi cellulari tagliano i frammenti ossidati e riparano il DNA. In un articolo pubblicato in Nature, Cynthia T. McMurray dimostra che nelle persone con la mutazione genetica responsabile della corea di Huntington si osserva un aumento di ripetizioni di una sequenza costituita da tre basi – citosina, adenina, guanina (CAG) – normalmente presenti alla nascita sul cromosoma 4 1. Questa sequenza contiene le istruzioni necessarie alla sintesi della proteina huntingtina, cruciale per il trasporto dei neurotrasmettitori dal corpo della cellula lungo l’assone fino alla sinapsi, il luogo di comunicazione tra le differenti cellule. 34 Il numero normale di ripetizioni della sequenza CAG sul cromosoma 4 va da 10 a 35. Quando le ripetizioni raggiungono o oltrepassano le 40, appaiono i sintomi della malattia; più il numero è elevato più questi sintomi appaiono precocemente. Per esempio un bambino con 95 ripetizioni, ha sviluppato delle crisi, un indebolimento della facoltà cognitive e dei disturbi neuromuscolari dall’età di tre anni ed è deceduto a causa della corea di Huntington a 11 anni. I disturbi del movimento Le immagini ottenute attraverso gli scan cerebrali mostrano le notevoli differenze tra un individuo in buona salute (a sinistra) e una persona affetta dalla corea di Huntington. Il normale processo di riparazione del DNA aumenta il numero delle CAG, afferma Cynthia McMurray, che attribuisce questo fenomeno a un enzima denominato OGG1, grazie al quale i neuroni producono una forma di proteina huntingtina tossica, che contiene delle quantità eccessive di glutammina, un aminoacido che svolge un ruolo chiave nel metabolismo cellulare. A causa dell’eccesso di glutammina, la proteina huntingtina diventa appiccicosa e si agglutina accumulandosi nel nucleo, ne conseguono diverse disfunzioni cellulari responsabili dei sintomi coreici. Questa osservazione coincide con la relazione lineare tra il numero di ripetizioni della sequenza CAG e l’età di esordio della malattia. L’esordio è precoce quando le ripetizioni sono numerose, se il loro numero è basso i sintomi appaiono solo quando il normale meccanismo di riparazione del DNA porta il numero di queste ripetizioni a un livello più tossico. Nei topi che non possiedono l’enzima OGG1 si osserva una soppressione importante dell’amplificazione CAG senza conseguenze cliniche; l’ipotesi è che in queste condizioni la riparazione del DNA sia realizzata da enzimi di «soccorso». L’enzima OGG1 potrebbe quindi amplificare la CAG, bloccando questa molecola si potrebbe ritardare o prevenire i danni generati dalla corea di Huntington. Con un approccio diverso, i ricercatori di Cambridge e Harvard, hanno cercato di mitigare gli effetti tossici della proteina huntingtina mutata, inducendo le cellule a sbarazzarsi in modo più efficace dei resti tossici. In un articolo pubblicato in Nature Chemical Biology, Stuart L. Schreiber, David C. Rubinsztein e i loro collaboratori, affermano che somministrando 35 delle molecole denominate «small-molecule enhancers» al lievito, si stimola il processo di autofagia attraverso il quale le cellule eliminano le proteine alterate e mal ripiegate come la proteina huntingtina mutante 2. I ricercatori ritengono che stimolando l’autofagia nelle persone che soffrono della corea di Huntington, anche se non si rallenta o arresta la produzione di proteina huntingtina, le cellule eliminano meglio i resti tossici in eccesso, ritardando l’apparizione dei sintomi. La proteina huntingtina mutante sembra generare anche molti altri problemi, studiati attualmente da Elena Cattaneo e il suo gruppo dell’Università di Milano. La proteina huntingtina normale induce la produzione di BDNF, (brainderived neurotrophic factor), una proteina che protegge i neuroni e stimola la crescita delle sinapsi e di nuovi neuroni. Nella corea di Huntington, i neuroni dello striato muoiono, provocando uno stato di spasticità e molti altri sintomi. Elena Cattaneo e il suo gruppo nel 2001 hanno dimostrato che le persone affette dalla corea di Huntington hanno dei tassi di BDNF inferiori ai soggetti sani 3. I topi con il modello della corea di Huntington mostrano una carenza di colesterolo, i ricercatori attribuiscono questa mancanza alla proteina huntingtina mutante che si trova nelle persone affette dalla malattia. Nel 2007, i ricercatori hanno attribuito questo fenomeno a un sito genetico di regolazione che controlla il BDNF nelle persone affette dalla corea di Huntington 4. Il sito si trova in una regione che contiene oltre mille geni; questo può significare che anche altri geni neurali potrebbero non funzionare in modo corretto in questa malattia. Elena Cattaneo e il suo gruppo cercano ora delle molecole che, mimando l’attività della proteina huntingtina normale, rinforzino l’espressione del BDNF e dei geni a lui simili. Fino ad ora, i ricercatori hanno identificato tre sostanze che aumentano la produzione di BDNF nelle cellule lese dalla corea di Huntington 5. 36 Il BDNF sembra regolare lo sviluppo delle sinapsi aumentando il livello di colesterolo nelle vescicole sinaptiche 6. Nel 2005 Elena Cattaneo e i suoi colleghi hanno constatato che le cellule e i tessuti delle persone affette dalla corea di Huntington non avevano un tasso di colesterolo sufficiente e che aggiungendo questa molecola ai neuroni dello striato lesi dalla malattia, era possibile prevenirne la morte 7. In uno studio del 2007 pubblicato I ricercatori ritengono che la segnalazione BDNF colpisce direttamente la biosintesi del colesterolo, ipotesi che associa due forme di disfunzione apparentemente distinte. I disturbi del movimento in Human Molecular Genetics, Cattaneo e i suoi colleghi sostengono di avere scoperto la carenza di colesterolo in modelli della corea di Huntington nel topo. A loro parere, sarebbe proprio questa la conseguenza della proteina huntingtina mutante presente nelle persone affette dalla corea di Huntington 8. Un trattamento curativo della corea di Huntington dovrebbe essere una forma di terapia genica che permette di regolare il problema della ripetizione del DNA da cui risulta la proteina huntingtina mutante. Un recente studio ha rivelato che una piccola molecola chiamata C2-8 inibisce nelle cellule l’aggregazione della proteina huntingtina mutante; questo potrebbe rallentare lo sviluppo dei sintomi 9. Il morbo di Parkinson Nel 2007 i ricercatori hanno creato due nuovi metodi di trattamento per il morbo di Parkinson, rilanciando in questo modo la speranza di attenuare i sintomi come il tremito e la rigidità muscolare. Un gruppo di ricercatori della Northwestern University ha affermato in Nature di essere riuscito a «ringiovanire» i neuroni dopaminergici di una regione del cervello, la parte compatta della sostanza nigra. Nel morbo di Parkinson, i neuroni di questa regione muoiono e nel cervello non resta sufficiente dopamina per garantire il corretto svolgimento dei movimenti 10. Per assicurare il metabolismo normale, queste cellule solitamente usano i canali al calcio. James Surmeier e il suo gruppo hanno costatato che i topi nei quali questi canali erano soppressi, funzionavano normalmente dato che i neuroni dopaminergici continuavano a servirsi dei canali al sodio normalmente attivi solo durante la giovinezza. I ricercatori hanno utilizzato l’isradipina, un inibitore dei canali al calcio nei neuroni prelevati da topi normali. I neuroni hanno smesso di funzionare per trenta minuti, poi hanno ripreso la loro attività di pacemaker riattivando i canali al sodio, normalmente attivi solo nei topi giovani. Quando i ricercatori hanno impiantato dei granuli di isradipina sotto la pelle di topi portatori 37 di un tipo sperimentale di morbo di Parkinson, gli animali non hanno sviluppato i deficit motori caratteristici di questa malattia. Il fatto che l’isradipina appartenga a una classe di farmaci usati per l’ipertensione arteriosa propende in favore di una sua possibile utilità. Uno studio retrospettivo sembra, infatti, indicare che il morbo di Parkinson sia meno frequente nelle persone la cui ipertensione è curata con delle molecole di questa categoria 11. La disfunzione dei mitocondri, gli organelli situati all’interno delle cellule che forniscono l’energia necessaria alle loro attività, potrebbe essere responsabile della distruzione dei neuroni dopaminergici. Dei ricercatori della Stanford University hanno dimostrato che una mutazione del gene pink1 era correlata con un’incidenza maggiore del morbo di Parkinson 12. Gli scienziati hanno trasposto questa mutazione a dei moscerini della frutta, costatando in questi insetti una degenerazione dei muscoli alari e dei loro neuroni dopaminergici. La degenerazione dei muscoli delle ali era preceduta da anomalie mitocondriali. Si ipotizza una disfunzione dei mitocondri nel morbo di Parkinson affermano i ricercatori, poiché anche i pesticidi – delle sostanze che possono aumentare il rischio di contrarre la malattia – inibiscono l’attività dei mitocondri. Tuttavia i moscerini indotti a sovraesprimere la parkina, una proteina implicata nell’eliminazione delle proteine mal ripiegate, non hanno sviluppato i sintomi muscolari. Questo fatto lascia supporre che la proteina pink1 e la parkina agiscano attraverso una via comune che regola nel moscerino della frutta la funzione mitocondriale e la sopravvivenza cellulare. Nell’ambito del trattamento, la ricerca nel 2007 ha dato segni di speranza per la terapia genica. Nel primo studio sulla terapia genica applicata al morbo di Parkinson, essa ha migliorato in modo significativo lo stato clinico senza generare gravi effetti collaterali 13. Dei ricercatori del New YorkPresbyterian Hospital/Weill Cornell Medical Center hanno impiantato a 12 pazienti, un virus inoffensivo che trasporta un gene che codifica per un enzima denominato decarbossilasi dell’acido glutammico (GAD). Questo enzima produce il GABA, un neurotrasmettitore che reprime le scariche neurali eccessive e favorisce la coordinazione motoria. 38 Il virus inoffensivo che trasporta la GAD, è stato impiantato nel nucleo sottotalamico, una struttura situata al centro del cervello che regola l’attività I disturbi del movimento Yu-Hung Kuo, a sinistra, osserva Michael Kaplitt del New York-Presbyterian Hospital/ Weill Cornell Medical Center, che si prepara a iniettare un enzima nella speranza di migliorare i disturbi del movimento nei pazienti affetti dalla malattia di Parkinson. motoria, con l’obiettivo di accrescere la produzione di GABA e ristabilire la funzione motoria normale, spiega il ricercatore principale Michael Kaplitt, autore nel 2003 della prima terapia genica al mondo praticata a una persona affetta dal morbo di Parkinson. Per minimizzare i rischi, il virus è stato impiantato da una parte sola del cervello. Dato che i sintomi della malattia colpiscono in modo uguale le due parti del corpo, questa tecnica ha permesso di identificare e misurare i miglioramenti. Tre mesi dopo l’interevento, gli autori hanno notato nel gruppo di persone trattate, un miglioramento dei movimenti del 25-30% sulla Unified Parkinson’s Disease Rating Scale, con punte fino a 40-65% per alcuni pazienti. I risultati così spettacolari rendono questo trattamento un compagno degno della stimolazione cerebrale profonda, già largamente utilizzata per il controllo dei disturbi della locomozione e dei movimenti del morbo di Parkinson nei pazienti che non tollerano il trattamento farmacologico (vedi anche il capitolo di Neuroetica, pagina 51). Nei pazienti affetti dal morbo di Parkison, per ora la stimolazione profonda del cervello resta il metodo più promettente. Essa consiste nell’impiantare 39 in una regione profonda del cervello chiamata nucleo sottotalamico, degli elettrodi attraverso i quali si modifica la comunicazione tra i neuroni e fra i circuiti del cervello. La stimolazione cerebrale profonda, blocca i segnali incontrollati responsabili dei sintomi motori della malattia, in particolare il tremito. Nel 2007 dei ricercatori italiani, hanno affinato l’uso della stimolazione cerebrale profonda collocando per la prima volta degli elettrodi nel nucleo peduncolo pontino, un’area che svolge un ruolo importante nella locomozione 14. Sei pazienti affetti dalla malattia di Parkinson che non avevano risposto ai farmaci, hanno reagito senza rischi a una stimolazione di 25 Hz nel nucleo peduncolo pontino e di 185 Hz nel nucleo sottotalamico. Il miglioramento generale è stato di oltre 60% sulla scala di valutazione, ben oltre i risultati ottenuti solo con la stimolazione del cervello o con i farmaci. Oggi la stimolazione profonda del cervello è un trattamento approvato per il morbo di Parkinson nei pazienti che non rispondono alla levodopa o in quelli il cui uso a lungo termine induce invalidanti effetti collaterali. Gli scienziati continuano a studiare eventuali localizzazioni degli elettrodi per alleviare i sintomi. Secondo uno studio recente, la stimolazione profonda del cervello potrebbe avere un effetto neuroprotettore sui neuroni dopaminergici della sostanza nigra che degenera nella malattia 15. 40 Le lesioni del sistema nervoso Agire rapidamente dopo un ictus 42 Colpire i tumori cerebrali con una precisione molecolare 44 Traumi midollari: preparare il terreno per i test clinici 47 41 L e lesioni del sistema nervoso centrale includono diverse affezioni che colpiscono il cervello e il midollo spinale: l’ictus, i traumi midollari e i tumori al cervello. Nel 2007 i ricercatori hanno ribadito la necessità di agire rapidamente dopo un ictus, hanno sperimentato nuovi approcci per curare i tumori cerebrali e hanno proposto nuove opzioni per perfezionare i test clinici applicati ai traumi midollari. Agire rapidamente dopo un ictus La rapidità dell’ospedalizzazione e la qualità della presa a carico ospedaliera restano in primo piano nella ricerca clinica sull’ictus. I nuovi dati europei estendono l’obbligo d’urgenza di cure mediche anche per le persone che presentano dei sintomi neurologici transitori. Nel mese di maggio l’American Heart Association e l’American Stroke Association hanno aggiornato le loro linee guida per le cure acute dell’ictus, riaffermando il primato dell’attivatore tessutale del plasimonogeno (tPA). Questo farmaco deve essere somministrato nelle tre ore che seguono l’inizio dell’episodio acuto per dissolvere i coaguli di sangue e in questo modo minimizzare i danni cerebrali 1. Un ictus ischemico è, infatti, causato da un’ossigenazione cerebrale insufficiente generata dall’occlusione di un’arteria cerebrale che riduce drasticamente il flusso di sangue al cervello. Le linee guida raccomandano ai servizi di primo intervento degli ospedali e ai servizi di urgenza di essere meglio preparati per intervenire con urgenza. I nuovi dati forniti dai Centri americani di Controllo e di Prevenzione delle Malattie dimostrano, in effetti, che meno della metà dei pazienti vittime di un ictus arrivano all’ospedale nelle due ore che seguono l’apparizione dei sintomi neurologici 2. 42 Un ictus si manifesta con sintomi come anomalie della vista, difficoltà dell’eloquio, disturbo della sensibilità o paralisi di una parte del corpo. Alcune delle conseguenze cerebrali dell’ischemia sono temporanee e non lasciano segni clinici evidenti, questi casi si definiscono incidenti ischemici transitori. L’imaging cerebrale evidenzia in molti di questi pazienti danni che evocano delle lesioni subcliniche. Quando la causa di un’ischemia cerebrale è presente (nel caso di un attacco ischemico transitorio o un evento ischemico minore) se non è adeguatamente curata, ci sono molte probabilità che persista, rendendo l’attacco transitorio o minore un fattore di rischio per un ictus. Nel primo studio, pubblicato sulla rivista Lancet, il neurologo Peter Rothwell e i suoi collaboratori dell’Università di Oxford, Inghilterra, hanno costatato nei pazienti posti sotto trattamento preventivo nelle 24 ore che seguono un attacco ischemico transitorio, un’elevata riduzione del rischio di subire un ictus grave nel corso dei seguenti tre mesi, rispetto ai pazienti che non hanno immediatamente beneficiato di un tale trattamento 3. In cifre, il rischio di recidiva è passato dal 10 al 2%, una riduzione dell’80%, che secondo gli autori significa una diminuzione di 10 000 ictus l’anno solo nel Regno Unito. Lo studio ha esaminato 600 pazienti, che provenivano da uno studio più ampio con circa 100 000 persone, realizzato a Oxford a proposito dell’incidenza dell’ictus e degli incidenti ischemici transitori. Le lesioni del sistema nervoso L’obiettivo della terapia realizzata dopo un incidente ischemico transitorio è quello di prevenire l’ictus nelle settimane o nei mesi che seguono. In questo ambito sono stati ben documentati l’effetto preventivo della riduzione della tensione arteriosa e della colesterolemia. Due studi pubblicati in ottobre sottolineano l’importanza di intervenire immediatamente sui fattori di rischio dopo un incidente ischemico transitorio. Il secondo studio, pubblicato nella rivista Lancet Neurology, da Pierre Amarenco, neurologo specializzato in ICV presso l’Ospedale Universitario Bichat-Claude Bernard a Parigi, rileva i benefici di un intervento rapido per prevenire l’ictus 4. Gli autori hanno valutato 1085 pazienti con sospetto di attacco ischemico transitorio ricoverati in ospedale in un servizio specializzato aperto 24 ore su 24. La valutazione d’urgenza includeva l’imaging del cervello, dei vasi sanguigni e del cuore. Ai pazienti con sospetto o diagnosi accertata di attacco ischemico transitorio, sono stati somministrati immediatamente dei farmaci che hanno ridotto la pressione arteriosa e il tasso di colesterolo oltre che aspirina, per evitare la formazione di coaguli di sangue. Circa 5% dei pazienti hanno subito un intervento per disostruire la carotide, l’arteria principale del collo che porta il sangue ossigenato al cervello. L’intervento è stato realizzato in modalità aperta (endarterectomia carotidea) o trasvascolare, con la posa di uno stent che mantiene aperta l’arteria (terapia endovascolare). Al 5% dei pazienti che presentavano dei disturbi del ritmo cardiaco (fibrillazione auricolare) sono stati somministrati farmaci anticoagulanti per ridurre il rischio di formazione di coaguli di sangue nel cuore, che raggiungendo il cervello attraverso il flusso sanguigno possono provocare un ictus. 43 Nei pazienti trattati immediatamente, il tasso di ictus registrato nei 90 giorni che seguono l’attacco ischemico transitorio è stato leggermente superiore all’1%, gli studi realizzati in precedenza indicavano un tasso vicino al 6%. Associate ai risultati pubblicati sul Lancet, queste conclusioni hanno indotto gli esperti di tutto il mondo a richiedere per i pazienti vittime dell’ictus transitorio, delle nuove linee guida terapeutiche che pongono l’accento sulla rapidità della valutazione e della somministrazione del trattamento. Colpire i tumori cerebrali con una precisione molecolare I tumori del cervello continuano a sfuggire ai trattamenti antitumorali e le aspettative in questo ambito, così come nella ricerca sul cancro in generale, vertono nello sviluppo di terapie molecolari mirate. Dato che si tratta di forme gravi di tumore, sembra scontata l’idea che un solo trattamento non possa essere sufficiente, da cui l’attenzione agli approcci combinati che aggiungono nuove opzioni terapeutiche alle misure classiche come la radioterapia e la chemioterapia. Molti ricercatori ritengono che queste terapie multimodali siano promettenti in caso di glioma maligno, un tumore raro ma con mortalità elevata; una volta posta la diagnosi la sopravvivenza è breve. Il glioblastoma multiforme, una tra le forme più aggressive di questo gruppo di tumori, è di particolarmente difficile trattamento. La ricerca clinica condotta in questo ambito è basata sulla conoscenza della patogenesi dello sviluppo del tumore a livello molecolare, acquisita man mano che gli scienziati scoprono i fattori e le vie di segnalazione che regolano la crescita e la disseminazione dei tumori. La diversità delle neoformazioni esclude però l’idea di un unico trattamento universale. Tuttavia certi elementi delle vie usate sembrano presentare tratti comuni. Proprio su quest’ultimo elemento verte il lavoro dei ricercatori. 44 Una pista promettente usata anche per altre forme di cancro, consiste nell’interferire con la vascolarizzazione dei tumori. Nel gennaio 2007, Rakesh Jain e i suoi colleghi del Massachusetts General Hospital Cancer Center hanno pubblicato nella rivista Cancer Cell i risultati preliminari ottenuti con l’AZD2171, una molecola che inibisce lo sviluppo dei vasi sanguigni che vascolarizzano i tumori 5. L’AZD2171 blocca i tre recettori principali del VEGF, un potente fattore di crescita vascolare presente sui vasi sanguigni che vascolarizzano i glioblastomi, ma che però non è necessario alla sopravvivenza dei vasi sanguigni che alimentano i tessuti normali. Le lesioni del sistema nervoso Rakesh Jain e i suoi colleghi del Massachusetts General Hospital Cancer Center studiano un farmaco che blocca la crescita dei vasi sanguigni dei tumori. Realizzato con 16 pazienti affetti da glioblastoma ricorrente, lo studio clinico di fase 2 ha ridotto la dimensione dei tumori del 50% o più nella metà dei pazienti e di almeno 25% nei tre quarti dei partecipanti. L’imaging cerebrale ha evidenziato sia l’effetto rapido sulla normalizzazione dei vasi sanguigni, che si manifesta in certi casi già dalla prima assunzione del farmaco, sia la riduzione dell’edema cerebrale, una complicazione frequente di questo tipo di tumore. I test clinici proseguono con la speranza di potere studiare l’AZD2171 con terapie antitumorali classiche in pazienti con una diagnosi recente di glioblastoma. Gli specialisti che si occupano di tumori cerebrali affermano che la chiave per migliorare il trattamento dei gliomi maligni sta nel determinare quali pazienti rispondono meglio alle terapie specifiche e nel migliorare gli approcci combinati di trattamento. Il gruppo di ricerca della Duke University diretto da James Vredenburgh ha associato il bevacizumab (Avastin), un inibitore dell’angiogenesi, con l’irinotecan, un chemioterapico, nell’ambito di un test clinico di fase 2, su 31 pazienti affetti da glioma in stadio avanzato. Secondo i risultati preliminari pubblicati in febbraio sulla rivista Clinical Cancer Research, l’associazione è attiva contro questa forma letale di tumore cerebrale, la sua tossicità sarebbe «accettabile» 6. In circa due terzi dei pazienti, i tumori sono regrediti di almeno 50% e sei mesi più tardi il 38% non ha manifestato una recidiva. Diversamente, la chemioterapia usata da sola, ritarda tipicamente lo sviluppo del glioma per un periodo compreso tra le sei settimane e i tre mesi. 45 Le immagini ottenute con lo scan cerebrale mostrano un’incoraggiante riduzione del tumore nel paziente che ha risposto meglio al trattamento con il farmaco sperimentale. I numeri nella parte superiore corrispondono ai giorni prima o dopo avere iniziato il trattamento. Le immagini nella prima linea superiore mostrano la diminuzione della taglia tumorale con il passare del tempo. Le altre linee mostrano rispettivamente la riduzione della taglia dei vasi sanguigni tumorali, la permeabilità della barriera ematoencefalica e l’edema nelle regioni circostanti il tumore. L’ultima linea mostra la visibilità della materia bianca quando l’edema scompare. 46 Secondo Vredenburgh e altri specialisti dei tumori cerebrali, si curerà meglio il glioblastoma, quando sarà possibile determinare con più precisione quali sono i pazienti che hanno una maggiore possibilità di Traumi midollari: preparare il terreno per i test clinici Dato che le acquisizioni della ricerca fondamentale cominciano a produrre approcci terapeutici, gli specialisti richiedono di migliorare anche la metodologia dei test clinici. In marzo, un collegio internazionale multidisciplinare di ricercatori ha pubblicato in Spinal Cord, quattro articoli che costituiscono le prime linee guida per lo studio clinico dei traumi del midollo spinale 7-10. Le lesioni del sistema nervoso rispondere a determinati trattamenti e quando sarà possibile combinarli al meglio. Gli specialisti sottolineano la necessità di migliorare la metodologia dei test clinici, così da potere ottenere un massimo d’informazioni in un lasso minimo di tempo. L’International Campaign for Cures of Spinal Cord Paralysis (ICCP) cerca di delineare solidi criteri di studio, realistici e utili, per stabilire le possibilità terapeutiche emerse dalle investigazioni precliniche attualmente in corso. Il collegio ha richiesto una definizione rigorosa e standardizzata dei criteri di valutazione, di quelli d’inclusione ed esclusione oltre che dei principi etici, per la metodologia e la realizzazione dei test effettuati nell’uomo. Gli autori hanno richiesto che per dimostrare la «riconnessione» del midollo spinale sia realizzata una valutazione anatomica e neurologica, così come di determinare la qualità della vita e le capacità dei pazienti a svolgere le attività di tutti i giorni. Per quel che riguarda i criteri di inclusione e di esclusione, il collegio dei ricercatori ritiene che i pazienti che partecipano allo studio, debbano trovarsi a uno stadio del trauma per il quale il potenziale beneficio di un intervento sia attestato da dati ottenuti sia nell’animale, sia da test anteriori. La gravità, il livello e l’estensione del trauma devono essere valutati in relazione ai possibili benefici di un trattamento sperimentale. I pazienti devono dare un consenso informato sui rischi e benefici e sulla logica scientifica dei trattamenti investigativi. Ammettendo che esistano anche altre procedure intraprese che possono essere utili, i ricercatori affermano che la soluzione ottimale sono gli studi prospettici, a doppio cieco randomizzati, con un gruppo di controllo. La restrizione dei criteri richiesta dall’ICCP sembra essere motivata in parte dall’accanimento di certi scienziati occidentali che cercano di giudicare l’efficacia dei test non controllati nell’uomo. In un ambito della medicina in cui nessun trattamento ha un’efficacia riconosciuta, i pazienti e i loro fami- 47 gliari sono pronti a intraprendere le soluzioni più azzardate, incontrando dei ricercatori compiacenti. Questa situazione pone un vero problema nei paesi in cui i test clinici non sono regolamentati. In Cina per esempio, si praticano su pazienti vittime di traumi midollari, dei trapianti di cellule staminali senza che la loro efficacia sia stata dimostrata. Per i test clinici i ricercatori cercano di evitare dei problemi di metodologia di cui hanno sofferto la ricerca di trattamenti per disturbi neurologici complessi. In particolare il problema dell’assenza di criteri di valutazione sufficientemente sensibili per i test clinici che analizzano i trattamenti neuroprotettori dell’ictus. 48 Neuroetica La commercializzazione della «macchina della verità» 50 La stimolazione profonda del cervello per la depressione grave 51 Le basi genetiche della dipendenza 52 L’imaging cerebrale a uso diagnostico 54 49 L’ implicazione etica dei progressi, spesso rapidi, realizzati dalle neuroscienze continua ad alimentare lo slancio della neuroetica, che assume un posto sempre più importante in seno al vasto ambito della bioetica. Nel 2007 la rivista American Journal of Bioethics è passata da sei a dodici numeri l’anno, di cui tre interamente consacrati alla neuroetica. Denominati AJOB Neuroscience, i numeri speciali costituiscono la pubblicazione ufficiale della Neuroethics Society. I grandi temi al centro del dibattito neuroetico dell’anno appena trascorso sono quattro: la commercializzazione della «macchina della verità», le indicazioni per l’applicazione della stimolazione profonda del cervello nel trattamento della depressione, la conoscenza sempre più precisa delle basi genetiche della dipendenza e l’uso dell’imaging a scopo diagnostico. La commercializzazione della «macchina della verità» In questi ultimi anni l’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI) per fare una mappa dell’attività nelle differenti regioni cerebrali ha permesso di applicare questa tecnica anche alla rivelazione delle menzogne. Sebbene sia solo un tipo di ricerca preliminare e i risultati siano ancora da prendere con la dovuta cautela, due società – Cephos Corporation e No Lie MRI – hanno sviluppato dei prodotti e dei servizi per la rivelazione delle menzogne basate sulla fMRI. Tra le potenziali applicazioni annunciate sono elencate le inchieste criminali, il diritto di custodia dei bambini, il controspionaggio, le questioni assicurative e non da ultimo gli interrogatori di sicurezza dello Stato. L’American Journal of Law and Medicine ha pubblicato nel 2007 un articolo firmato da Henry Greely della Stanford University e Judy Illes dell’University of British Columbia, che analizza le ricerche in corso sulla rivelazione della menzogna basata sulla fMRI 1. Riconoscendone una possibile utilità, gli autori richiedono con insistenza una regolamentazione; infatti, essi sostengono che gli studi esistenti sono ben lontani dal dimostrare un’affidabilità pratica ed evidenziano in particolare la natura artificiale e insignificante delle menzogne utilizzate per gli studi. 50 Nessuno di questi studi, realizzati su piccola scala è mai stato riprodotto da scienziati esterni e non sono mai state utilizzate contromisure per confondere i rivelatori. Gli autori preconizzano una regolamentazione simile a quella che la FDA applica ai farmaci e che come lei, obblighi le società commerciali a dimostrare sulla base di test su vasta scala l’affidabilità e Neuroetica Judy Illes ha richiesto la regolamentazione della «macchina della verità» realizzata attraverso la risonanza magnetica funzionale. Gli studi realizzati con questa tecnica non hanno dimostrato di essere affidabili, afferma Judy Illes in un articolo firmato anche da Henry Greely. l’efficacia del loro metodo. La commercializzazione di sistemi non omologata sarebbe illecita. Judy Illes ha commentato (con Margaret Eaton, Stanford University) nel numero di aprile del 2007 di Nature Biotechnology, alcuni degli aspetti etici, sociali e politici connessi alla commercializzazione delle neurotecnologie cognitive in generale 2. Gli autori hanno evocato, come problemi, la precisione di queste tecnologie, il rispetto della privacy cerebrale e i potenziali conflitti d’interesse per le persone che le commercializzano. Uno dei pericoli dell’industria non regolamentata della rivelazione della menzogna, è quello dello sfruttamento degli elementi più vulnerabili della società, come per esempio le persone che soffrono di malattie neurologiche o psichiatriche. Secondo gli autori, la rivelazione della menzogna riscontra un grande successo nel pubblico, molti sono disposti a credere anche solo sulla parola a chi pretende che i sistemi siano efficaci. La stimolazione profonda del cervello per la depressione grave I buoni risultati ottenuti con la stimolazione profonda del cervello nel trattamento dei sintomi somatici del morbo di Parkinson e l’identificazione tramite l’imaging di una zona del cervello implicata nella depressione, ha indotto i ricercatori a usare questa tecnica in alcune persone che soffrono di forme severe di depressione, non trattabili con le cure farmacologiche. Il notevole miglioramento dei sintomi ottenuto in un buon numero di questi pazienti, è stato oggetto di numerose pubblicazioni nel 2005. Parallelamente sono sorte alcune questioni etiche su questa tecnica. 51 Dato che la tecnica della stimolazione profonda del cervello è recente, si pone il problema dei rischi imprevisti, questione che sorge anche per il morbo di Parkinson. Nel giugno del 2007 è stato pubblicato in Acta Neuropsychiatrica uno studio che dimostra che dei leggeri cambiamenti nella posizione degli elettrodi o del voltaggio, hanno indotto in due pazienti affetti dal morbo di Parkinson delle pericolose depressioni che potevano portare al suicidio 3. La sicurezza è sempre fondamentale, ma secondo i ricercatori quando sono confrontate con malattie invalidanti e talvolta mortali come il morbo di Parkinson, le persone hanno la tendenza ad assumere rischi significativi. Il caso della depressione è ancora più controverso: certe associazioni di pazienti ritengono che questa malattia sia sovradiagnosticata, altre affermano che occorre imparare a conviverci, altre ancora ricordano che esistono molti farmaci antidepressivi. La stimolazione cerebrale profonda è indicata unicamente per le depressioni ribelli a ogni trattamento, resistenti a ogni farmaco, con degli effetti debilitanti e talvolta a rischio di suicidio. Avendo a cuore la sicurezza del paziente, nel 2007 un gruppo di scientifici coinvolti nella ricerca sulla stimolazione profonda del cervello ha stabilito delle regole per l’uso sperimentale di questo metodo. Un’altra preoccupazione etica è il consenso informato. I disturbi cognitivi e la disperazione che accompagnano le depressioni gravi possono compromettere le facoltà di discernimento dei pazienti. Un dibattito che aleggia anche sullo spettro della terapia elettroconvulsiva, i cui risultati non sono contestati, ma l’uso è ancora controverso. Le basi genetiche della dipendenza I geni che potrebbero essere alla base di una predisposizione alla dipendenza sono stati oggetto nel 2007 di diversi articoli. Un esempio è il testo di Colin Haile e dei suoi colleghi intitolato «Genetics of Dopamine and Its Contribution to Cocaine Addiction», pubblicato in Behavior Genetics 4, o quello di Joel Gelernter e dei suoi colleghi pubblicato in Biological Psychiatry, dal titolo «Genomewide Linkage Scan for Nicotine Dependence: Identification of a Chromosome 5 Risk Locus» 5. 52 Per quel che riguarda l’alcolismo, Charles O’Brien 6 ricorda in un commento pubblicato nel numero di novembre di Addiction, l’esistenza sempre più Neuroetica plausibile di un nesso tra una variante del gene che codifica per i recettori agli oppioidi di tipo mu e una sensibilità maggiore all’euforia indotta dall’alcool, un rischio aumentato di alcolismo e di dipendenza agli oppioidi e i buoni risultati del naltrexone nei test clinici sull’alcolismo. I dati a disposizione suggeriscono che alcuni geni predispongono gli individui a sviluppare dei comportamenti additivi. Non si tratta solo di un dato biologico, ma anche di una questione etica. Le indicazioni secondo le quali in certe persone esiste una predisposizione genetica ai comportamenti di dipendenza solleva molte questioni etiche. La prima è relativa alla ricerca dei geni. È stabilito che certi geni contribuiscono alla dipendenza ma non che la determinano, occorre quindi cercarli? Quale deve essere la forza predittiva dei geni o il loro valore d’orientamento del trattamento affinché si decida di ricercarli? In quale momento la ricerca deve essere intrapresa? Sapendo che il figlio rischia di sviluppare una dipendenza alla nicotina, i genitori potrebbero per esempio metterlo in guardia contro il pericolo che corre, ma è un’informazione che potrebbe anche alimentare ansie inutili. Il fatto di sapersi più sensibili a una dipendenza potrebbe generare inoltre anche un certo fatalismo. Diversamente, se la persona ha già sviluppato un problema di dipendenza, sapere quali geni la predispongono, può permettere di trovare un trattamento adatto. Che cosa consigliare? Che cosa deve dire un medico ai genitori di un bambino i cui geni aumentano la probabilità che egli fumi, beva o diventi eroinomane? La questione diventa ancora più spinosa se si conosce questo dato prima della nascita. Certi genitori potrebbero giudicare questa gravidanza indesiderabile. Conoscere a priori una predisposizione alla dipendenza pone la questione di sapere se occorre somministrare farmaci (per esempio il naltrexone) come profilassi, prima della manifestazione della dipendenza. Dato il costo di questo potenziale trattamento, i futuri datori di lavoro e le compagnie assicurative avrebbero tutti gli interessi a scartare i postulanti portatori dei geni incriminati. (Attualmente, la legge impedisce la trasmissione non autorizzata delle informazioni genetiche agli assicuratori e ai datori di lavoro.) Un’altra prospettiva da considerare è quella della stigmatizzazione sociale, come per tutte le anomalie genetiche, anche se comportano un rischio non elevato. Essere portatore di una predisposizione genetica accertata rischierebbe per esempio di complicare le relazioni sociali, la ricerca di un partner 53 per sposarsi o avere dei figli. I genitori si sentirebbero anche colpevoli di avere trasmesso dei «cattivi» geni ai loro figli anche se questi non presentano alcun segno di dipendenza. Sono queste alcune questioni che si porranno sempre più spesso alla luce dei risultati sui fattori di rischi genetici nella dipendenza. L’imaging cerebrale a uso diagnostico C’è ancora molta strada da percorrere prima che l’imaging cerebrale permetterà di diagnosticare la maggior parte delle malattie psichiatriche, tuttavia nel corso del 2007 sono stati realizzati dei progressi sull’imaging del morbo di Alzheimer e di altre forme di demenza in fase precoce. In agosto, Agneta Nordberg ha pubblicato nella rivista Current Opinion in Neurology 7 la sintesi di un articolo su una nuova tecnica di imaging della sostanza amiloide che utilizza la tomografia ad emissione di positroni. Questa tecnica permette di distinguere in modo chiaro il cervello delle persone che soffrono del morbo di Alzheimer da quello di soggetti testimone in buona salute, dimostrando in questo modo che è possibile una diagnosi precoce. Simili osservazioni sono state fatte anche da uno studio apparso nel marzo del 2007 in Archives of Neurology 8, i cui autori affermano di essere riusciti a scoprire con il marker Pittsburgh Compound B, dei discreti segni di indebolimento cognitivo. Questi studi fanno sperare che con l’imaging sarà possibile ottenere una diagnosi più precisa dei disturbi ansiosi e dei disturbi dello spettro autistico. È tuttavia in alcune situazioni estreme che emerge la necessità di uno strumento diagnostico più preciso. È il caso per esempio degli stati di coscienza limite quando occorre fare chiaramente la distinzione tra uno stato vegetativo persistente e uno stato di coscienza minimo. 54 Mentre nel 2007 non si sono stati importanti progressi tecnici in quest’ambito, la discussione etica ha invece continuato a svilupparsi. In giugno Judy Illes e Joseph Fins hanno condotto alla Stanford University un atelier intitolato «Etica, neuroimaging, e stati di coscienza limite», durante il quale degli specialisti hanno analizzato questo problema. Nel corso del seminario sono stati affrontati diversi aspetti e in particolare quali devono essere gli obiettivi scientifici e clinici degli studi di neuroimaging sulle persone in stato di coscienza limite. Durante il seminario si sono pure affrontati temi come il problema del consenso informato e dell’autorizzazione da ottenere per questi studi e la coerenza etica che deve essere alla base della selezione dei candidati e della concezione dei test. Sarà prossimamente I neuroetici continueranno a lavorare per cercare di ottenere un consenso su queste questioni, mentre la qualità delle tecniche di imaging migliorerà ulteriormente ponendo nuove sfide etiche. I ricercatori e clinici, continueranno a dibattere sulla questione dell’interpretazione delle immagini del cervello e del valore pronostico che esse possono avere nelle persone che presentano un disturbo della coscienza. Le priorità sono state definite in un articolo pubblicato in aprile in Neurology da Joseph Fins, Nicholas Schiff e Kathleen Foley. I ricercatori hanno raccomandato di delineare innanzitutto un profilo epidemiologico dello stato di coscienza minimo e che siano chiariti i meccanismi di recupero. Inoltre sarà necessario identificare dei marker diagnostici e pronostici al fine di orientare le decisioni cliniche prese al capezzale del malato 9. Neuroetica pubblicato un numero speciale di American Journal of Bioethics Neuroscience su questi problemi. 55 Le malattie neuroimmunologiche Il recettore dell’IL-7 58 Il sole illumina la sclerosi multipla 61 57 I l sistema immunitario protegge l’organismo dagli agenti patogeni che lo assalgono utilizzando un ampio e variegato arsenale di cellule interdipendenti tra loro e di molecole che permettono la loro interazione. Quando le cellule e le molecole del sistema immunitario sono mal regolate, possono generare delle malattie. L’aggressore nella sclerosi multipla, una malattia neurologica, sembra proprio essere il sistema immunitario. Non si conosce ancora il motivo di questo comportamento anomalo del sistema immunitario, ma i danni che esso infligge alla guaina protettrice che avvolge gli assoni delle cellule nervose cerebrali e del midollo spinale, interferiscono con la trasmissione intracellulare dell’influsso nervoso. La sintomatologia della sclerosi multipla è polimorfa, questa malattia può provocare dei sintomi che vanno dai disturbi della vista fino ai disturbi della marcia. È una patologia cronica, che evolve tra crisi acute e remissioni con un aggravamento dei sintomi a ogni crisi. La suscettibilità alla sclerosi multipla è contrassegnata da numerosi fattori genetici e ambientali i cui effetti si combinano influenzando lo sviluppo e la progressione della malattia. L’implicazione del sistema immunitario è solidamente documentata e le ricerche svolte nel 2007 hanno evidenziato nuove prove sulla partecipazione dei fattori genetici e ambientali che agiscono tramite il sistema immunitario. Il recettore dell’IL-7 Nel 1972, per la prima volta è stato stabilito un nesso tra i fattori genetici implicati nella sclerosi multipla e il complesso HLA (Human Leukocyte Antigen), ma da allora la ricerca sui fattori di rischio genetici non era progredita. La pubblicazione nel 2001 della mappatura del genoma umano (insieme dei geni presenti in ogni cellula di un organismo) ha permesso di realizzare passi da gigante nell’analisi genetica. Per trovare l’ago nel pagliaio del groviglio genetico, gli scienziati dispongono ora di nuovi strumenti di laboratorio e di potenti computer che permettono di analizzare un’enorme quantità di dati. 58 Il genoma umano è costituito da 3 miliardi di paia di basi, la maggior parte delle varianti genetiche concernono da 250 000 a 500 000 segmenti di DNA, che il microarray permette di esaminare simultaneamente. Le scansioni dell’intero genoma hanno evidenziato dei geni associati al tumore al Le malattie neuroimmunologiche La tecnica del DNA microarray, o «gene chip» ha contribuito a rivelare i fattori di rischio genetici della sclerosi multipla. seno, alle patologie cardiache e al diabete 1. Quando i fattori genetici sono numerosi ma i loro effetti poco importanti, per individuare le associazioni statisticamente significative occorre analizzare un numero elevato di campioni. (Vedi per quel che riguarda la mappatura dell’intero genoma, il capitolo sui I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze, pagina 71) I risultati della ricerca sul genoma intero, che hanno evidenziato i geni che conferiscono il rischio di sclerosi multipla, sono stati pubblicati sul numero del 30 agosto della rivista New England Journal of Medicine 2. Un gruppo internazionale di ricercatori ha esaminato attraverso la tecnica del microarray di DNA, centinaia di migliaia di cambiamenti genetici su oltre 12 000 campioni. Senza avere alcun preconcetto, i ricercatori hanno confermato l’esistenza di un nesso tra la regione HLA e la sclerosi multipla. Essi hanno trovato nuovi marker, uno sul gene che codifica per il recettore dell’interleuchina 2 (IL-2), l’altro sul recettore dell’interleuchina 7 (IL-7). Le interleuchine sono delle proteine del sistema immunitario attraverso le quali le cellule comunicano e agiscono sulla funzione di altre cellule. Nel sistema immunitario questi recettori svolgono un ruolo importante nella segnalazione da una cellula all’altra. Come le proteine associate al gene HLA, anche i recettori IL-2 e IL-7 regolano questo sistema; è quindi ipotizzabile che i geni che li producono possano essere implicati nella sclerosi multipla. Lo studio in questione aveva tuttavia come unico obiettivo quello di evidenziare un nesso statistico. 59 La proiezione di un laser su un microarray illumina i frammenti marcati con del DNA ibridizzato DNA non-ibridizzato DNA ibridizzato I frammenti di DNA emettono luce in presenza di un fascio laser quando si legano alla loro sequenza omologa. Nel microarray è possibile analizzare in parallelo milioni di sequenze di DNA. Spesso gli studi genetici evidenziano molti fattori di rischio per una malattia, ma nessuno è molto pronunciato. Inoltre i successivi sforzi messi in atto per convalidare le ipotesi genetiche falliscono. Ora, grazie ad una tecnica che combina diversi approcci sperimentali, definita «convergenza genomica» da Michael Hauser, del centro di genetica umana della Duke University, i ricercatori hanno la possibilità di individuare i geni candidati più promettenti. Un importante marker genetico può emergere dalla combinazione di risultati di studi che associano i geni a malattie famigliari, analizzando la modalità di eredità e ricercando nei tessuti malati i geni attivi. Questo metodo è stato usato per studiare le basi genetiche di diverse complesse malattie neurologiche tra cui il morbo di Parkinson, il morbo di Alzheimer e la sclerosi multipla. 60 L’approccio della convergenza genomica applicata alla sclerosi multipla, è stata oggetto di due studi nel numero di settembre del 2007 di Nature Tale particolare variazione genetica ha permesso agli autori di ipotizzare che il recettore non sia collegato alla membrana cellulare, dove adempie la sua funzione di segnalazione, ma si presenti sotto forma solubile che gli permette di fissare l’IL-7, impedendogli in questo modo di interagire con la cellula. Quest’ipotesi è stata verificata sia in laboratorio sia nelle persone colpite da sclerosi multipla. Teoricamente il cambiamento dovrebbe ridurre gli effetti dell’IL-7 sull’organismo. Inoltre l’espressione del gene che codifica per l’IL-7 e per il recettore dell’IL-7 è modificata nel liquido cerebrospinale delle persone malate. Le malattie neuroimmunologiche Genetics. In questi studi si sono ricercati in modo mirato dei geni candidati, cioè dei geni che si erano dimostrati promettenti durante studi funzionali e genetici realizzati in precedenza 3, 4. Così come la mappatura del genoma, i due studi hanno indicato il recettore dell’IL-7 e identificato la stessa variante di una sola base (single-nucleotide polymorphism, o SNP) sul gene che produce questo recettore. Sono quindi sempre più forti gli indizi per un ruolo dell’IL-7 e il suo recettore nella sclerosi multipla, tuttavia non si è ancora in grado di comprenderne la portata. L’aumento del rischio di malattia attribuito al gene del recettore IL-7 è, infatti, debole, ma il suo ruolo sta diventando sempre più evidente e non può essere ignorato. Successivi studi potranno dimostrare che esso è implicato nella sclerosi multipla e in questo modo offrire nuove opzioni terapeutiche 5. La via basata sull’IL-7 rappresenta solo uno dei numerosi meccanismi che concorrono alla malattia. L’analisi di questo marker genetico e dei marker genetici in generale, con il tempo permetterà di scoprire le specificità esistenti a livello individuale e in questo modo personalizzare i trattamenti. Il sole illumina la sclerosi multipla Il rischio di sviluppare la sclerosi multipla è strettamente correlato con la latitudine alla quale si vive; infatti, il rischio aumenta allontanandosi dall’equatore. La suscettibilità differisce anche tra persone con antenati comuni che vivono a latitudini diverse soprattutto se sono giovani. Secondo recenti studi questo dato è da correlare con l’irraggiamento solare. Gli autori di uno studio apparso su Neurology hanno analizzato gli effetti dell’esposizione al sole durante l’infanzia in gemelli monozigotici dell’America del Nord 6. Il gruppo di ricerca diretto da Thomas Mack, della Keck 61 School of Medicine, University of Southern California, dimostra che il gemello che nel corso dell’infanzia ha passato più tempo all’aria aperta (spiaggia, sport di gruppo, ecc.) rispetto al fratello ha un rischio inferiore di sviluppare la sclerosi multipla. Studiare gemelli monozigotici permette di evidenziare i fattori ambientali senza preoccuparsi delle complicazioni a proposito delle differenze genetiche. Un altro studio norvegese pubblicato sulla rivista Journal of Neurology dimostra che una buona esposizione al sole durante l’infanzia e un’alimentazione ricca in pesce riducono il rischio di sclerosi multipla 7. Il gruppo di ricerca diretto da Margitta Kampman ritiene che l’effetto protettivo potrebbe essere in relazione con la grande concentrazione di vitamina D nel pesce. La vitamina D potrebbe avere un effetto diretto sul cervello. Degli studi sul modello animale dimostrano, infatti, che essa riduce il rischio di ictus. L’azione protettrice del sole potrebbe essere dovuta all’esposizione diretta ai raggi ultravioletti o indirettamente alla sintesi di questa vitamina attraverso il sole. Una parte della vitamina D è fornita dall’alimentazione, ma la quantità maggiore è prodotta dalla pelle dopo essere stata esposta al sole, da cui il nome che talvolta gli si attribuisce, vitamina solare. D’inverno le giornate sono corte e c’è meno sole, sono più frequenti le carenze in vitamina D. Da novembre a febbraio, la sintesi della vitamina D equivale a zero per le persone che vivono sulla linea Boston – Barcellona – Roma – Sofia. La vitamina D è fondamentale per il mantenimento della densità ossea, non è ancora noto se essa abbia un ruolo nella regolazione del sistema immunitario. Esistono, infatti, dei recettori della vitamina D sulle cellule del sistema immunitario. Degli studi hanno stabilito un nesso tra le carenze in vitamina D e le malattie auto-immuni o infiammatorie, come l’asma, la poliartrite reumatoide, il diabete e le malattie infiammatorie croniche dell’intestino. I ricercatori stanno ora cercando di capire il ruolo protettore della vitamina D nel modello murino della sclerosi multipla. 62 Diversi recenti studi di popolazioni evidenziano una correlazione inversa tra i livelli sanguigni di vitamina D e il rischio di sviluppare una sclerosi multipla. Uno studio realizzato in Tasmania (Australia), ha rilevato la riduzione del tasso sanguigno di vitamina D nelle persone che soffrono di questa malattia 8. Pubblicato il 20 dicembre 2006 nel Journal of the American Medical Association, uno studio effettuato tra il personale militare Le malattie neuroimmunologiche Le ricerche realizzate nel 2007 indicano che la vitamina D, prodotta dalla pelle dopo l’esposizione ai raggi solari, può ridurre il rischio di sviluppare una sclerosi multipla. americano ha dimostrato che l’apparizione dei sintomi della sclerosi multipla è preceduta da un abbassamento dei livelli di vitamina D. Tali risultati convalidano la tesi secondo la quale la carenza in vitamina D interviene nella sclerosi multipla e non è la conseguenza di un’esposizione ridotta al sole a causa della disabilità prodotta dalla malattia 9. Uno studio finlandese pubblicato nel Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry ha evidenziato un nesso tra la riduzione dei tassi sanguigni di vitamina D e l’aggravamento dei sintomi della sclerosi multipla 10. Dati i potenziali effetti della vitamina D sulla suscettibilità alla sclerosi multipla e ad altre malattie, i ricercatori stanno riconsiderando le raccomandazioni sull’apporto alimentare di questa vitamina. Secondo l’Institute of Medicine of the National Academy of Sciences, la dose indicata per persone di meno di 50 anni è 200 unità internazionali (UI), cioè 5 microgrammi di vitamina D il giorno. Secondo quanto pubblicato dalla Canadian Paediatric Society nel settembre del 2007 per le donne incinte o che allattano occorre un supplemento quotidiano di questa vitamina, fino a 2000 UI 11. I ricercatori raccomandano un apporto di 400 UI di vitamina D al giorno per i bebè nutriti al seno e un supplemento di 800 UI di vitamina D durante i mesi invernali per i bebè che vivono oltre il 50e parallelo (sud del Canada – Manica – Francoforte – Praga). Secondo degli studi realizzati sugli animali, la vitamina D potrebbe essere usata per prevenire e per curare la sclerosi multipla, ma occorrono nuovi studi prima di intraprendere i primi test clinici. 63 Il dolore Dolori cronici e dipendenza da oppiacei 66 La segnalazione del dolore 67 La neurostimolazione per il dolore alla schiena 68 65 I l dolore è la causa più frequente di consultazione medica negli Stati Uniti. I medici sono sempre alla ricerca di mezzi efficaci per curare e gestire sia il dolore acuto, sia il dolore cronico. Nel 2007 gli scienziati che studiano il dolore hanno percorso diverse piste di ricerca. Alcuni hanno tentato di trovare un mezzo per ridurre la dipendenza da oppiacei, dei farmaci potenti che spesso costituiscono l’arma più efficace contro il dolore. Altri hanno scoperto una cruciale via di segnalazione del dolore, aprendo nuove prospettive per le persone che soffrono di gravi dolori « fantasma » sequele di traumi midollari. Un altro gruppo di ricercatori ha invece trovato un trattamento più efficace per il dolore neuropatico cronico, una speranza per le persone che soffrono di invalidanti dolori alla schiena. Dolori cronici e dipendenza da oppiacei Da migliaia di anni, l’oppio è usato per alleviare il dolore. I suoi numerosi derivati, gli oppiacei, sono oggi utilizzati a fini leciti e talvolta illeciti. I poteri euforizzanti di questi farmaci tendono a generare una dipendenza, il medico deve quindi destreggiarsi tra l’alleviare il dolore e il rischio di rendere il paziente dipendente. Con il passare del tempo, il dolore cronico riduce l’effetto analgesico di molti oppiacei. Dei ricercatori della Wake Forest University School of Medicine hanno costatato che il tempo diminuisce anche la tendenza a sviluppare una dipendenza ad alcuni di questi farmaci; morfina, idromorfone e fentanil. Pubblicato sul numero del 27 febbraio del 2007 di Anesthesiology, lo studio indica che se il dolore cronico non è trattato adeguatamente, i pazienti non assumono i farmaci prescritti dal medico preferendo alternative come l’eroina o il metadone che sono più efficaci ma potenzialmente additive 1. 66 I ricercatori della Wake Forest hanno impiantato dei cateteri nel rachide di alcuni ratti. Dopo avere realizzato una legatura o avere leso i nervi spinali a metà degli animali, è stato loro insegnato ad autosomministrarsi clonidina e adenosina, due oppiacei che sopprimono l’ipersensibilità al dolore. I ricercatori hanno scoperto che entrambi i farmaci non avevano effetto sul comportamento di ricerca di eroina nel ratto normale, poiché il luogo che stimola il potenziale abuso di eroina è nel cervello e non nel midollo spinale. Il dolore La somministrazione di clonidina nel rachide riduce in modo spettacolare la ricerca di eroina nei ratti che soffrono di dolore cronico, lo stesso fenomeno non si verifica con la somministrazione nel rachide di adenosina, che solitamente allevia l’ipersensibilità al dolore dopo una lesione nervosa. A giudicare dal modello animale, sembra, dunque, che la somministrazione congiunta di clonidina e adenosina riduca il dolore senza alterare il desiderio di eroina. Un sottogruppo di pazienti affetti da dolore cronico è incline a sviluppare un comportamento additivo. Un altro studio ha messo in evidenza la dipendenza in un sottogruppo di pazienti affetti da dolori cronici. I ricercatori del Massachusetts General Hospital hanno esaminato i nessi tra la dipendenza agli oppiacei e il trattamento del dolore cronico. Nel numero di giugno di Pain gli scienziati affermano che i casi di dipendenza nei pazienti affetti da dolori cronici non erano così rari come si pensava. Anche se in un numero esiguo di pazienti colpiti da dolore cronico si osservano sia dei comportamenti additivi, sia altri problemi comportamentali, per queste persone il passaggio alla dipendenza è insidioso e più difficile da riconoscere 2. I medici conoscono e sono in grado di prevenire i pericoli delle dipendenze connessi all’uso cronico degli oppiacei, i ricercatori affermano tuttavia che è necessario migliorare gli strumenti che permettono di distinguere i pazienti più vulnerabili. I medici dovrebbero sviluppare, in collaborazione con dei colleghi specializzati nella dipendenza, dei programmi terapeutici strutturati come alternativa all’uso di oppiacei. La segnalazione del dolore Circa l’80% delle persone che hanno subito un trauma midollare, sviluppa dei dolori clinicamente significativi, descritti come lancinanti, terebranti o come una sensazione di bruciore. Molti soffrono anche di dolori che si definiscono « dolori fantasma » poiché colpiscono una parte del corpo in cui il trauma ha abolito ogni sensazione. In seguito a una lesione midollare, si sviluppa un dolore anormale come conseguenza del malfunzionamento del sistema nervoso, spiegano nel Journal of Neuroscience del 28 febbraio 2007 dei ricercatori del Yale University Center for Neuroscience and Regeneration Research. Per la prima volta questi scienziati hanno evidenziato nel midollo spinale leso una via di segnalazione diretta tra i neuroni e le cellule della microglia, le cellule immunitarie del sistema nervoso centrale. Le cellule della microglia 67 In quest’immagine del corno dorsale del midollo spinale si possono vedere le cellule della microglia, visibili come puntini luminosi tra i neuroni più scuri. Queste cellule sono coinvolte nei meccanismi che portano alla manifestazione del dolore cronico dopo un trauma midollare. generano una risposta infiammatoria che solitamente protegge il sistema nervoso, ma talvolta peggiora la situazione 3. Lavorando su ratti adulti che hanno subito sperimentalmente un trauma contusivo del midollo spinale, i ricercatori hanno scoperto che la prostaglandina E2 (PGE2) svolge un ruolo centrale nel dolore cronico mediato dalle cellule microgliali. Liberata quando le cellule sono attivate, la prostaglandina E2 contribuisce alla sensibilizzazione dei neuroni dopo un trauma. Sfruttando questo meccanismo di segnalazione microglia-neuroni, secondo il gruppo di Yale è possibile curare il dolore conseguente a un trauma midollare. I ricercatori stanno analizzando delle molecole capaci di bloccare questa via di segnalazione a diversi livelli del midollo spinale. Il prototipo è la minociclina, un antibiotico che la Food and Drug Administration ha omologato per curare diverse infezioni, ma che ora è oggetto di test clinici « fuori etichetta » per malattie neurologiche come la corea di Huntington, la sclerosi laterale amiotrofica e la sclerosi multipla. Usando la tomografia a emissione di positroni, gli scienziati di Yale cercano nell’uomo e nel topo dei meccanismi del dolore simili o identici. In caso di successo cercheranno di determinare nei pazienti vittime di traumi midollari, se la minociclina blocca il meccanismo di segnalazione del dolore generato dalla PGE2. La neurostimolazione per il dolore alla schiena 68 Il mal di schiena è uno tra i problemi medici più diffuso negli USA, circa l’80% delle persone ne soffre in un momento o l’altro della propria vita. Il dolore Secondo uno studio della Duke University del 2004, per il mal di schiena – lombare, cervicale oppure la sciatica – si spendono circa 100 miliardi di dollari l’anno in onorari medici, indennità lavorative e perdita di produttività. I trattamenti convenzionali e la chirurgia hanno una certa efficacia per i dolori dorsali, mentre il dolore neuropatico cronico della schiena e delle gambe, invece, risponde meglio alla neurostimolazione. Questa tecnica consiste nell’impiantare sotto la pelle un apparecchio che invia nello spazio epidurale della colonna vertebrale delle correnti elettriche che a loro volta impediscono ai segnali del dolore di arrivare al cervello. Un gruppo internazionale di ricercatori diretti da Krishna Kumar, del Regina General Hospital in Canada, ha realizzato il più grande studio multicentrico randomizzato controllato con placebo, dimostrando che la neurostimolazione è più efficace dei trattamenti convenzionali (analgesici, blocchi farmacologici, iniezioni di steroidi, terapie fisiche e chiropratiche) per quanto riguarda l’alleviamento del dolore, la qualità della vita e le capacità funzionali. Secondo lo studio pubblicato in novembre in Pain, sei mesi dopo il trattamento circa la metà dei pazienti trattati con la combinazione di neurostimolazione e terapie convenzionali ha registrato un miglioramento del dolore nelle gambe del 50% superiore a quello riportato dai pazienti trattati unicamente con metodi convenzionali 4. Ogni paziente coinvolto nello studio aveva già subito almeno un intervento chirugico per un’ernia discale, tutti soffrivano di dolori da moderati a forti in una o due gambe oppure alla schiena nei sei mesi che hanno seguito l’intervento. Dato che il dolore neuropatico grave è difficile da curare, i ricercatori affermano che la neurostimolazione dovrebbe essere aggiunta alla lista dei trattamenti di routine proposti ai pazienti che soffrono di dolori cronici alla schiena. In California, dei medici del Coast Pain Management hanno affermato nel numero di luglio di Neuromodulation che una forma specifica di neurostimolazione, detta stimolazione del campo del nervo periferico, costituisce una soluzione sicura ed efficace per i pazienti che soffrono di dolori cronici della parte inferiore della schiena 5. La sua efficacia è stata valutata in sei pazienti che non avevano risposto ai trattamenti convenzionali. Contrariamente alla stimolazione del midollo spinale o alla stimolazione diretta dei 69 nervi periferici, questa tecnica stimola la regione dei nervi colpita con l’intermediario di conduttori che vengono inseriti attraverso la pelle nella regione in cui si prova il dolore. Nei sei pazienti analizzati, si è verificata una riduzione del consumo di analgesici, un più elevato livello di attività e un miglioramento della qualità di vita. La stimolazione del nervo periferico presenta rispetto alle altre forme di neurostimolazione, un numero inferiore di complicazioni e una morbosità più bassa. Secondo gli autori essa potrebbe costituire un complemento utile agli altri trattamenti e merita ulteriori ricerche. 70 I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze La depressione 72 I disturbi bipolari 76 I disturbi ossessivo-compulsivi 76 La schizofrenia 77 L’alcolismo 78 Future direzioni per studi e trattamenti 78 71 N el corso del 2007 la ricerca sulla salute mentale si è concentrata sulla comprensione dell’origine di certi disturbi e sulla ricerca di trattamenti più efficaci. L’interesse sull’implicazione dei fattori genetici è sempre costante e molti ricercatori studiano ora il ruolo dei geni nella gestione e nel trattamento dei disturbi psichiatrici. La neurobiologia, che fino ad ora si è interessata soprattutto alle differenti regioni cerebrali, sta estendendo gli studi ai circuiti neurali per capire le conseguenze di un’interruzione o una disorganizzazione dei segnali. Le connessioni che uniscono le differenti parti del cervello potrebbero essere la base per comprendere alcune patologie mentali. Per esempio, le recenti scoperte sulla depressione hanno permesso di capire meglio le anomalie dei circuiti neurali presenti in questa patologia. Per correggerli i ricercatori cominciano a impostare dei trattamenti non farmacologici. Anche in altri ambiti sono state fatte scoperte importanti. La ricerca sui disturbi bipolari ha evidenziato un possibile indicatore genetico e ha prodotto il primo modello murino. Gli studi sulla schizofrenia e l’alcolismo, hanno permesso di trovare nuove prospettive di trattamenti farmacologici. La depressione L’ippocampo appartiene al sistema limbico, una regione cerebrale responsabile della vita emotiva. Esso svolge un ruolo importante nella memoria e nel trattamento delle informazioni spaziali. Questa regione cerebrale ha attirato l’attenzione dei ricercatori da quando è stato scoperto che essa proietta delle fibre sulle regioni implicate nella depressione e che alcuni farmaci antidepressivi ne stimolano la neurogenesi portando benefici comportamentali. In un articolo pubblicato il 10 agosto in Science, Karl Deisseroth e un gruppo interdisciplinare della Stanford University, affermano di avere scoperto un circuito neurofisiologico che collega l’ippocampo (compreso il giro dentato) con la depressione. Questo circuito potrebbe essere un potenziale obiettivo per futuri interventi terapeutici 1. 72 I ricercatori hanno posto dei ratti in situazioni stressanti (privazione di sonno, illuminazione violenta, rumori intensi), mentre altri che fungevano da controllo vivevano in condizioni relativamente normali. A una parte dei ratti sotto stress erano somministrati farmaci antidepressivi. Dopo diverse settimane, i ratti dei due gruppi sono stati immersi nell’acqua. Gli animali stressati che non hanno ricevuto il trattamento antidepressivo, nuotavano meno vigorosamente rispetto ai loro congeneri stressati che assumevano farmaci. Secondo i ricercatori questo fatto era interpretabile come un segno di rinuncia, di mancanza di motivazione. Con l’ausilio di una tecnica basata sulla visualizzazione di coloranti sensibili al voltaggio, gli autori hanno misurato l’attività elettrica della regione ippocampale, interessandosi più precisamente a quella proiettata sul giro dentato. I ricercatori hanno costatato che negli animali non stressati e nei ratti trattati con i farmaci i segnali in questo circuito erano normali, mentre negli animali stressati erano invece interrotti e seguiti dalla scomparsa completa del circuito. I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze Il ricercatore Karl Deisseroth e i colleghi all’Università di Stanford hanno usato una tecnica, basata sulla visualizzazione di coloranti sensibili al voltaggio, che consente di ottenere immagini ad alta velocità. Il metodo ha permesso di trovare nei cervelli dei ratti una correlazione tra un difetto nei circuiti nervosi dell’ippocampo e la depressione. Tali risultati permettono di ipotizzare che un evento grave come la morte di un parente o uno stress professionale intenso provochi dei disordini di questo circuito che generano la depressione, gli autori intravedono quindi un potenziale obiettivo di trattamento. È stato stabilito un nesso anche tra la depressione e altri circuiti del sistema limbico. Questi circuiti comprendono delle regioni cerebrali come la corteccia prefrontale, l’amigdala e la corteccia cingolata subgenuale, le aree implicate nel trattamento delle emozioni e nella produzione dei neurotrasmettitori coinvolti nello stato di tristezza e nella risposta agli antidepressivi. 73 Pre-op MRI Pre-op PET Contatto con gli elettrodi Bersaglio dell’elettrodo: sostanza bianca di Cg25 Depressione: iperattività di Cg25 Post-op MRI 6 mesi DBS PET Confermare la posizione dell’elettrodo Guarigione con il DBS: riduzione dell’attività di Cg25 Esiste una possibile correlazione tra un’attività cerebrale aumentata nell’area Cg25 e la depressione grave. È quanto suggeriscono gli studi preliminari realizzati nel 2007. La stimolazione profonda del cervello applicata all’area Cg25 – una regione della corteccia cingolata subgenuale – ha infatti un effetto antidepressivo. Queste immagini mostrano una riduzione del flusso sanguigno nell’area Cg25 dopo una stimolazione profonda del cervello realizzata con degli elettrodi impiantati nel tessuto cerebrale. 74 In un’analisi della letteratura pubblicata nel numero di settembre di Nature Neuroscience, Kerry J. Ressler e Helen S. Mayberg, del dipartimento di psichiatria e delle scienze del comportamento della Emory University, sostengono che i progressi realizzati nella descrizione e nella comprensione dei circuiti neuronali connessi alla depressione e nell’identificazione delle aree specifiche di sregolazione all’interno dei circuiti associate a dei sintomi comportamentali, permettono di applicare delle terapie non farmacologiche 2. In effetti, è molto importante trovare delle alternative efficaci Tra queste c’è la stimolazione profonda del cervello o DBS (vedi i capitoli, Disturbi motori, pagina 33 e Neuroetica, pagina 49). Gli studi clinici su questa tecnica nel trattamento della depressione resistente ai farmaci sono basati su lavori realizzati da Helen Mayberg, con la tomografia a emissione di positroni, che hanno fatto un nesso tra la corteccia cingolata subgenuale (Cg25) e la depressione maggiore. La DBS altera la comunicazione all’interno e fra i circuiti di questa regione, attraverso la stimolazione proveniente dagli elettrodi. Il trattamento con la DBS ha migliorato i sintomi depressivi, ha ridotto in modo sostanziale la perfusione sanguigna della regione Cg25 e ha generato molti cambiamenti strutturali del cervello implicati nella regolazione dell’umore e nella risposta ai farmaci. Attualmente sono in corso altri studi clinici realizzati su un grande numero di pazienti per precisare la sicurezza e l’efficacia della DBS, stabilire in quale modo i circuiti di questa regione siano implicati nella depressione e determinare il meccanismo che permette l’interazione della DBS con questi circuiti. Oltre alla DBS esistono anche altre opzioni ai trattamenti farmacologici, tra questi ricordiamo la stimolazione vagale, la terapia elettroconvulsiva e la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva. La terapia elettroconvulsiva è stata usata nel passato per trattare le depressioni resistenti; da qualche anno, questa terapia è stata reintrodotta e riaccettata. D’altra parte, la stimolazione profonda del cervello, la stimolazione vagale e la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva sono attualmente analizzate per determinare la loro capacità a correggere le anomalie dei circuiti che intervengono nella regolazione dell’umore e delle emozioni. I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze per curare le persone che soffrono di una depressione che non risponde ai farmaci antidepressivi. Attraverso le tecniche di imaging come la tomografia a emissione di positroni e la risonanza magnetica funzionale, i ricercatori possono registrare i cambiamenti di attività generati nelle diverse regioni cerebrali e nei differenti circuiti neurali. Questi studi permetteranno di conoscere meglio i circuiti neurali così da ipotizzare l’uso di questi trattamenti anche per altri disturbi psichiatrici, come i disturbi ossessivo-compulsivi. La DBS è un trattamento riconosciuto per i pazienti affetti dal morbo di Parkinson che non sopportano la terapia con la levodopa e ha dimostrato di 75 essere promettente anche per le forme gravi di depressione; Kerry Ressler e Helen Mayberg ritengono tuttavia che siano necessari ulteriori studi per conoscere meglio gli effetti a lungo termine e per definire le condizioni ottimali di trattamento. I disturbi bipolari Studi realizzati in precedenza hanno dimostrato che i disordini dei ritmi circadiani dettati dall’orologio interno del corpo, svolgono un ruolo centrale nei disturbi bipolari, la malattia denominata in passato psicosi maniaco-depressiva. In uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences USA, Colleen McClung e i suoi collaboratori hanno affermato di avere creato il primo modello murino dei disturbi bipolari, alterando un gene denominato clock (circadian locomotor output cycles kaput) che sintetizza le proteine responsabili della regolazione del ritmo circadiano dell’animale 3. Il gene clock dà origine a una proteina necessaria alla regolazione del complesso feedback che dirige i ritmi circadiani. Se si disattiva il gene, i topi mutanti presentano un comportamento di tipo maniacale, iperattività, una riduzione del sonno, un incremento della reattività a stimoli insoliti o a molecole stimolanti come la cocaina, paragonabili ai disturbi bipolari che colpiscono le persone. Quello appena descritto è il primo modello animale del disturbo maniacale, il topo mutante clock dovrebbe permettere di comprendere meglio la regolazione neuronale e genetica dei ritmi circadiani e come il cambiamento di questa regolazione genera i sintomi bipolari. È questa una nuova pista per lo sviluppo di moderne strategie terapeutiche. I disturbi ossessivo-compulsivi Gli studi sui disturbi ossessivo-compulsivi (DOC) realizzati in passato hanno identificato quasi sistematicamente il ruolo di un’area precisa del cervello: lo striato, il centro degli input del sistema dei nuclei della base. Tale sistema è implicato nel controllo della motricità, dell’apprendimento e della ricompensa. 76 Guoping Feng e i suoi colleghi hanno indagato questa ipotesi. In un articolo pubblicato nella rivista Nature spiegano di avere utilizzato delle tecniche genetiche di knock-out per rimuovere nel topo il gene sapap3, che svolge un ruolo determinante nella comunicazione sinaptica dei neuroni che usano il glutammato 4. Questi risultati aprono nuove prospettive sulle cause neurobiologiche del disturbo ossessivo-compulsivo, ma anche su nuovi possibili trattamenti futuri. I risultati aprono nuove prospettive sulle cause neurobiologiche e sui trattamenti dei disturbi ossessivo-compulsivi. Dato che l’obiettivo non è la serotonina ma il glutammato, questo studio potrebbe essere la base per lo sviluppo di nuovi farmaci che interferiscono con la trasmissione mediata da questo neurotrasmettitore. La schizofrenia Degli studi apparsi indipendentemente nel 2005 e nel 2006 dimostrano che gli antipsicotici atipici o di seconda generazione sono meno efficaci rispetto ai farmaci precedenti. Tuttavia i farmaci più vecchi inducono più effetti collaterali. A questa regola generale faceva eccezione solo l’olanzapina, un farmaco di seconda generazione, come riportato da Jeffrey Lieberman in uno studio pubblicato nel 2005 nella rivista New England Journal of Medicine 5. L’olanzapina causa un tasso di abbandono di assunzione da parte dei pazienti inferiore rispetto alle molecole simili, ma purtroppo provoca un persistente aumento del peso e altri disturbi metabolici. Questi studi per ora non sono in grado di chiarire quale sia il miglior trattamento da proporre ai pazienti affetti da schizofrenia. I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze I topi mutanti sapap3 presentano diversi sintomi di tipo ossessivo-compulsivi, tra cui ansia esacerbata e la preoccupazione d’igiene che può arrivare fino alla perdita del pelo. Questi sintomi scompaiono quando ai topi è reinserito nel loro striato il gene sapap3 oppure quando è somministrata la fluoxetina (Prozac), un farmaco utilizzato nel trattamento dei disturbi ossessivo-compulsivi. Altri ricercatori, diretti da Sandeep Patil, dei laboratori di ricerca Lilly, hanno testato una nuova molecola che modera l’azione del glutammato, la LY2140023. In un articolo di settembre di Nature Medicine i ricercatori hanno confrontato l’azione di questa molecola con quella dell’olanzapina e di un placebo in 200 pazienti affetti da schizofrenia per un periodo di quattro settimane 6. Oltre il 25% dei pazienti ha risposto bene al trattamento, senza manifestare importanti effetti collaterali. Considerati questi risultati la LY2140023, che aiuta il cervello ad adattarsi alle conseguenze delle anomalie della via 77 del glutammato, potrebbe rappresentare un’opzione sicura e utile per le persone colpite da schizofrenia. L’alcolismo Il trattamento farmacologico dell’alcolismo offre risultati mitigati. Secondo uno studio realizzato da Lara Ray e Kent Hutchison pubblicato in settembre nella rivista Archives of General Psychiatry, il naltrexone, un antagonista dei recettori agli oppiacei prescritto spesso in caso di alcolismo, sarebbe più efficace nelle persone con un determinato genotipo 7. Negli alcolisti portatori del gene OPRM1 gli autori hanno costatato una maggiore sensazione di ebbrezza, ma anche una risposta all’alcol meno marcata dopo avere assunto il naltrexone. I risultati potrebbero gettare le basi per altri studi sugli indicatori genetici dell’alcolismo e sulle interazioni possibili con i trattamenti. Future direzioni per studi e trattamenti Il completamento nel 2005 del progetto internazionale HapMap, che cataloga le varianti genetiche umane più comuni, ha fornito ai ricercatori che si occupano della salute mentale una nuova occasione per identificare i fattori genetici che sono alla base di malattie psichiatriche complesse partendo dall’intero genoma. Gli studi associativi sull’intero genoma, realizzati per la malattia coronarica, il diabete e per certi tipi di tumore hanno permesso di raccogliere informazioni molto preziose sullo sviluppo e sul trattamento di queste malattie. Gli scienziati sperano che potranno essere realizzati simili studi anche sulla schizofrenia, i disturbi bipolari, i disturbi ossessivo-compulsivi. 78 Thomas R. Insel, direttore del National Institute of Mental Health e Thomas Lehner, che è a capo della divisione delle neuroscienze e delle scienze del comportamento dello stesso istituto, hanno affermato in un editoriale di maggio di Biological Psychiatry che gli studi associativi dell’intero genoma possiedono un potenziale incontestabile, ma per ottenere un successo occorrono alcune condizioni 8. I campioni analizzati devono essere numerosi e le caratteristiche ben definite, questo potrebbe essere un problema per i piccoli laboratori di ricerca che hanno accesso a un numero limitato di pazienti. Inoltre, dato che si tratta di disturbi di cui i criteri diagnostici sono poco differenziati o controversi, può essere difficile precisare con esattezza i fattori genetici in causa. La banca dati è a disposizione dei laboratori e dei centri di ricerca che desiderano identificare gli indicatori e gli effetti dei geni. Se le banche dati diventeranno numerose e saranno messe a disposizione per uso pubblico, sarà possibile capire in modo dettagliato il ruolo dei geni nei disturbi psichiatrici e sviluppare dei trattamenti più efficaci. I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze Per affrontare questo inconveniente gli autori sostengono la messa in comune dei dati delle banche genomiche. Un primo tentativo era già stato fatto dal NIMH per il genoma dei disturbi bipolari. I ricercatori dell’istituto avevano realizzato una banca dati con le variabili convalidate per più di 5000 persone affette da disturbi bipolari 9. 79 I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee La reazione febbrile 82 L’apprezzamento universale della musica 84 Un fenomeno complesso: la percezione del linguaggio parlato 85 81 N el 2007 gli scienziati hanno continuato ad esplorare come il cervello elabora e reagisce agli stimoli che riceve. I ricercatori della Harvard University hanno studiato il meccanismo attraverso il quale ci si sente malati ed hanno aperto una via che potrebbe offrire a certi pazienti un’alternativa al trattamento classico del dolore. I ricercatori della Duke University e della Johns Hopkins University hanno fatto progressi nella difficile esplorazione della percezione del dolore, essi hanno inoltre indagato la percezione della musica e del linguaggio chiarendo alcuni meccanismi con cui il cervello analizza i suoni. La reazione febbrile L’impressione di sentirsi ammalati è costituita da una serie di sintomi che accompagnano la febbre: male alle ossa, fatica, perdita di appetito, brividi che si alternano a vampate di calore. La febbre è una reazione dell’organismo a diverse situazioni riconosciute come una minaccia. Le più frequenti sono le infezioni batteriche e virali, oltre alle malattie non infettive che colpiscono il sistema immunitario come per esempio la poliartrite reumatoide e la malattia di Crohn, che rialzano la temperatura oltre i 37 gradi. Lo stato febbrile è sgradevole, ma la febbre contribuisce nella lotta contro l’infezione. Essa stimola l’attività dei globuli bianchi, che resistono più tenacemente all’invasione dei germi. Gli agenti patogeni hanno più difficoltà a sopravvivere e a moltiplicarsi in un ambiente la cui temperatura è più alta 1. Fino a poco tempo fa il meccanismo che genera la febbre era sconosciuto. Gli scienziati sapevano che la temperatura corporea aumenta quando la prostaglandina E2 (PGE2), un ormone sintetizzato dai vasi sanguigni situati alla periferia del cervello, è riversata nella circolazione, attraversa la barriera ematoencefalica e si lega ai recettori della prostaglandina EP3 (EP3Rs). I recettori in questione si trovano nella parte dell’ipotalamo denominata nucleo preottico mediano e in altri punti del sistema nervoso centrale. La questione alla quale Clifford B. Saper e il suo gruppo di Harvard hanno cercato di rispondere nel 2007 è la seguente: quali sono i recettori che rispondo alla PGE2 provocando un rialzo della temperatura? 82 Per studiare la reazione dei recettori, il gruppo di Clifford Saper ha utilizzato un vettore virale – cioè un virus modificato e reso inoffensivo, chiamato virus adenoassociato – allo scopo di trasportare nel cervello di un topo del materiale genetico. Il vettore « esclude » il gene EP3, impedendo alla PGE2 di legarsi al recettore. I ricercatori hanno lavorato su piccole regioni, misurando la reazione febbrile dei topi dopo ogni intervento. I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee I ricercatori sono riusciti a impedire lo sviluppo della febbre nei topi, bloccando i recettori EP3 della prostaglandina (in bianco) nella regione sopra il terzo ventricolo. Le cellule scure sono state modificate tramite l’iniezione di un gene che blocca la funzione dei recettori EP3. Il riquadro è un ingrandimento della stessa regione. Gli scienziati hanno notato che quando i recettori EP3 del nucleo preottico mediano non potevano svolgere la loro funzione – a causa dell’esclusione indotta artificialmente dai ricercatori – l’infezione non provocava febbre nei topi 2. Il gruppo di Clifford Saper attribuisce alla PGE2 e ai suoi recettori EP3 i sintomi che si percepiscono quando ci si ammala. I farmaci come l’aspirina o l’ibuprofene bloccano la sintesi delle prostaglandine e riducono la febbre e i dolori. Ma perché i ricercatori si sono interessati alla reazione febbrile? In primo luogo perché è un parametro facile da misurare (più che la sensazione di male alle ossa o la fatica). Secondariamente perché la ricerca sulla febbre era più in avanti rispetto allo studio delle altre reazioni alle infezioni. Il gruppo di Harvard nel 2008 analizzerà nel topo, il ruolo che la PGE2 e il suo recettore EP3 svolgono nel dare avvio alla reazione algica nelle infezioni. Se il meccanismo attraverso il quale il corpo avverte il dolore quando è ammalato può essere compreso esattamente quanto il meccanismo che genera la febbre, il dolore potrebbe allora essere controllato dall’ormone PGE2 e i relativi recettori. 83 Questa potrebbe essere un’alternativa agli oppioidi e ad altri farmaci analgesici usati per migliorare le condizioni dei pazienti che soffrono di malattie croniche o terminali, nei quali la reazione dolorosa non è né profilattica né adattativa. Per migliorare la qualità della vita di queste persone, i farmaci dovrebbero semplicemente abbassare il livello di intensità della reazione algica. L’apprezzamento universale della musica L’orecchio umano percepisce una grande varietà di suoni. I musicologi che studiano la musica di tutte le culture hanno notato che per creare la musica sono usati praticamente gli stessi insiemi di suoni, o gamme. Dale Purves e i suoi colleghi della Duke University ipotizzano che questo fatto sia in relazione con i suoni usati per parlare. Nel 2007 essi hanno scoperto i nessi tra il linguaggio e le note musicali gradevoli da ascoltare. I ricercatori hanno ipotizzato che gli intervalli tra le note preferite mimassero le inflessioni della lingua parlata. Essi ritenevano di potere cartografare le modulazioni della voce con scale di uso corrente si sono però accorti che gli intervalli non erano gli stessi. Per delucidare il possibile nesso hanno preso in considerazione i formanti. Quando uno strumento musicale produce una nota, essa può essere rappresentata sotto forma di uno spettro. I gruppi di armoniche che più spiccano nello spettro di un suono emesso da uno strumento musicale oppure dalla voce umana sono detti formanti.Quando una persona emette un suono vocale, sono i formanti che lo rendono intelligibile e permettono di distinguerlo da altri suoni vocali. Dale Purves e i suoi colleghi hanno fatto un’analisi statistica degli spettri sonori creati dalla musica e dall’emissione di vocali (lo spettro era rappresentato visivamente). I ricercatori hanno scoperto che nel 68% dei casi gli stessi intervalli che generano un suono gradevole, in tutte le epoche e in tutte le culture, sono quelli che si usano quando si pronunciano le vocali 3. Le armoniche che si accentuano parlando, cioè le frequenze che armonizzano e formano un suono di una vocale, sono spesso gli stessi intervalli cromatici musicali, quindi i suoni prodotti dalla musica preesistono nel linguaggio. 84 Secondo il principio evolutivo, che procede per eliminazione, i gusti estetici dell’uomo devono essere radicati in un contesto pratico. Quindi le Dale Purves intende esplorare in futuro i rapporti tra la musica e le emozioni. Nella composizione, il tono maggiore è quello della luce e della speranza, mentre il minore è quello della malinconia. Dale Purves ritiene che le modificazioni della laringe indotti dal sistema nervoso producono dei cambiamenti che riflettono questi due modi a livello dei formati. Secondo questa teoria, il sistema nervoso comanda alla laringe di produrre dei formati in maggiore in una persona contenta e in minore se è triste. I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee armonie che il cervello trova gradevoli riconoscono nel nostro ambiente degli aspetti che portano o che portavano delle informazioni importanti. Ascoltare quello che diceva l’altro, poteva (e può ancora) essere una questione di vita o di morte; le persone che provavano piacere nel sentire, ascoltavano, traendo importanti insegnamenti e quindi vantaggi. Gli individui che ottenevano più successo nella vita pratica potevano quindi anche crescere e accedere alla riproduzione meglio di altri. Secondo questa teoria, proprio con gli intervalli usati da questi primi uomini inventarono la musica. Un fenomeno complesso: la percezione del linguaggio parlato Murray Sachs e Eric D. Young, della Johns Hopkins University, hanno scoperto negli anni 1970 il meccanismo cerebrale che codifica e comprende il linguaggio parlato. Essi hanno costatato che i suoni facevano vibrare le cellule ciliate dell’orecchio interno y e che all’interno di queste cellule la vibrazione è trasformata in segnale elettrico che raggiunge il cervello attraverso il nervo uditivo. Negli anni 1980, i ricercatori hanno cercato di capire come il cervello rappresenta i differenti tipi d’informazioni che giungono attraverso l’orecchio. Ciascuna delle 30 000 fibre nervose uditive rappresenta un numero molto piccolo di frequenze. Le frequenze dominanti che equivalgono ai formanti studiati da Dale Purves e il suo gruppo, sono estratte a livello del nucleo cocleare, che interpreta la risposta delle fibre nervose uditive a differenti frequenze. Xiaoqin Wang, un ricercatore associato al gruppo, si è interessato al modo in cui il cervello tratta gli stimoli come il linguaggio a livello della corteccia uditiva. Egli ha cercato di capire come l’uistiti, una piccola scimmia che possiede un repertorio vocale particolarmente esteso, sceglie gli stimoli uditivi che preferisce. I suoni che questa scimmia emette le permettono di 85 Gli intervalli fra le note nella scala musicale cromatica (i tasti segnati nella figura) corrispondono ai toni della voce umana (le creste della linea bianca illustrata). Questi picchi permettono il riconoscimento dei suoni delle vocali e potrebbero spiegare perché gli esseri umani apprezzano determinati suoni. comunicare ogni sorta d’informazione di ordine sociale o pratico, anche in cattività. Xiaoqin Wang e i suoi colleghi hanno fatto sentire a delle scimmie e a dei gatti dei suoni registrati di un urlo della scimmia. Le registrazioni erano fatte sentire prima normalmente e poi al contrario. I ricercatori si sono accorti che l’urlo della scimmia era percepito in modo diverso dalla scimmia e dal gatto. La risposta dei gatti all’urlo registrato della scimmia era la stessa, quando il magnetofono girava in un senso o nell’altro. I neuroni delle scimmie della stessa specie, invece, reagivano più intensamente, quando l’urlo era riprodotto nel verso giusto. Questa esperienza dimostra che gli animali trattano unicamente i suoni delle loro specie, e conferma le differenze osservate a livello di una struttura cerebrale denominata collicolo inferiore. Questa struttura studiata attentamente da Eric Young introduce il fattore tempo nella comprensione del linguaggio. Quando si ascolta parlare una persona si sentono dei suoni che si decifrano e s’immagazzinano nella memoria a corto termine, anticipando i suoni seguenti. Quando molte persone parlano contemporaneamente, come in un gruppo di discussione, il cervello percepisce i flussi di parole come dei flussi distinti. La rapidità con la quale esso riesce a dare un significato al linguaggio è quello che rende quest’organo un indispensabile mezzo di scambio d’informazione. 86 Eric Young s’interessa ora al modo in cui il sistema uditivo contribuisce alla memoria a corto termine e al trattamento momento per momento del Nel 2008 Murray Sachs dovrebbe collaborare con Young e Wang per cercare di comprendere come l’uistiti distingue il grido di uno dei suoi congeneri, quando sono in molti e quando non si guardano. I ricercatori credono che il nostro cervello e quelli di certi animali siano in grado di formare quello che viene chiamato « un oggetto uditivo », cioè di isolare un suono tra tutti quelli che provengono dalla stessa fonte. Secondo loro è proprio nel collicolo inferiore che si trovano i neuroni che realizzano quest’analisi, la stessa che permette agli umani di comprendere quello che viene detto in una folla o di percepire tra tutti i suoni di un’orchestra quello di un preciso strumento. Il gruppo ha anche l’intenzione di studiare i meccanismi della percezione della musica. Comme Dale Purves, Murray Sachs s’interessa agli effetti della musica sulle emozioni. I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee suono che dà un senso al linguaggio. La tappa seguente consisterà nello studiare i meccanismi grazie ai quali l’uomo è capace di anticipare quel che gli è detto. 87 Cellule staminali e neurogenesi Cellule staminali che provengono dalla pelle 90 Cellule staminali provenienti da embrioni che non possono generare un essere vivo 91 Le cellule staminali neuronali non sono tutte uguali 92 Delle cellule staminali proteggono i neuroni nella Sclerosi Laterale Amiotrofica 93 Strumenti potenti per studiare le malattie 94 89 L e cellule staminali sono i precursori immaturi e polivalenti dei tessuti umani. Esse costituiscono anche uno strumento importante per la comprensione e il trattamento delle malattie, in particolare le patologie neurodegenerative che provocano la morte di popolazioni di cellule cerebrali. Nel 2007, degli scienziati hanno annunciato di avere scoperto il modo di ottenere importanti quantità di cellule staminali per tutti gli organi, cervello compreso, senza sollevare dei problemi etici. Altri studi hanno riferito che le cellule staminali possono aiutare a chiarire i processi neurodegenerativi ed essere utilizzate con successo per le cellule cerebrali che stanno per morire. Cellule staminali che provengono dalla pelle Nel 2007 la ricerca sulle cellule staminali ha compiuto un importante passo avanti verso un obiettivo da lungo tempo ambito: disporre di cellule che provengono dai tessuti umani adulti ma con le proprietà delle cellule staminali embrionali, così da evitare le questioni etiche poste dall’utilizzo degli embrioni. Sul numero della rivista Cell del 20 novembre, Shinya Yamanaka e i suoi colleghi della Kyoto University in Giappone, hanno inserito in un virus quattro geni attivi durante lo sviluppo embrionale. Il virus è stato poi introdotto nei fibroblasti, delle cellule prelevate da individui adulti. I quattro geni hanno «riprogrammato» le cellule della pelle così da produrre una linea di cellule staminali che si rinnovano e producono cellule simili a quelle generate dalle cellule staminali embrionali 1. Un altro gruppo diretto da James Thompson dell’Università del Wisconsin a Madison, ha utilizzato una combinazione di geni un po’ diversa per riprogrammare allo stesso modo le cellule epiteliali, che però erano state prelevare da neonati. I risultati sono stati pubblicati il 19 novembre nella versione online della rivista Science e il 21 dicembre su quella cartacea 2. Le cellule staminali prodotte con questo metodo possiedono la medesima «pluripontenzialità» delle cellule staminali embrionali, cioè la capacità di trasformarsi in tutti i tipi di cellula. Due studi pubblicati nel numero di Nature del 19 luglio, uno di Yamanaka e uno di Rudolph Jaenisch e i suoi colleghi del Whitehead Institute di Boston, utilizzando la stessa tecnica hanno dimostrato la pluripotenzialità di linee cellulari prodotte dalle cellule della pelle di topo 3, 4. 90 L’uso più immediato di questa tecnica sarà quello di produrre delle linee cellulari che contengono i geni noti per essere responsabili di specifiche malattie come la forma ereditaria del morbo di Alzheimer o di quello di Cellule staminali e neurogenesi Parkinson. L’obiettivo è cercare di capire in quale modo il gene influisce sulla neurodegenerazione così da scoprire potenziali terapie. Queste nuove tecniche potrebbero aprire una nuova era della medicina, un’epoca in cui molte delle malattie cerebrali potrebbero essere curate sostituendo le cellule neurali lese con nuove popolazioni cellulari derivanti dalle cellule staminali del paziente stesso. Per ora, i problemi sono ancora molti. Per esempio, l’uso di virus modificati per introdurre i geni nelle cellule della pelle potrebbe indurre lo sviluppo di tumori. Le cellule staminali che derivano dalla pelle non sono identiche a quelle prodotte dagli embrioni e le differenze potrebbero essere importanti. Quando questi problemi saranno risolti, la possibilità di produrre cellule staminali in grande quantità senza usare embrioni umani provenienti dalla fertilizzazione in vitro, sarà un importante passo avanti. Cellule staminali provenienti da embrioni che non possono generare un essere vivo Nel 1997 la clonazione della pecora Dolly con la tecnica denominata trasferimento nucleare di cellule somatiche, aveva fatto sperare che questo metodo potesse essere utilizzato per produrre un’infinita quantità di cellule staminali sia sane prelevate dai pazienti, sia portatrici di determinate anomalie genetiche a scopo di ricerca. Questo metodo presuppone tuttavia che il materiale genetico delle cellule che si desidera produrre sia inserito in un ovocita, e ottenere degli ovociti umani in numero sufficiente pone numerosi problemi, sia tecnici che etici. Secondo lo studio pubblicato nel numero di Nature del 7 giugno, una nuova tecnica permette di oltrepassare molti di questi ostacoli. Lavorando sui topi, Dieter Egli e un gruppo della Harvard University hanno dimostrato per la prima volta che era possibile inserire del DNA di cellule staminali in ovuli fecondati, gli zigoti. I ricercatori hanno utilizzato zigoti portatori di cromosomi soprannumerari, che non sono vitali e quindi non generano un essere vivente. Dopo avere tolto i cromosomi in eccesso hanno inserito il DNA delle cellule staminali che volevano ottenere. Secondo il rapporto della American Society for Reproductive Medicine/Society for Assisted Reproductive Technology Registry pubblicato nel 2000, da 3 a 5% degli zigoti presentano questo tipo di aberrazioni cromosomiche 5. Lo studio dimostra per la prima volta che è possibile generare grandi quantità di cellule staminali partendo da zigoti non utilizzabili – che sono decine di migliaia. 91 Gli zigoti con le aberrazioni cromosomiche utilizzati in questo studio non erano vitali e quindi tale tecnica non distrugge potenziali vite, inoltre il DNA delle cellule staminali ottenute in questo modo è differente da quello dei donatori. Questo metodo potrebbe offrire quindi una possibilità eticamente accettabile per generare delle cellule staminali su una scala sufficientemente importante per studiare molte malattie genetiche 6. Le cellule staminali neuronali non sono tutte uguali Per ottenere delle possibili applicazioni terapeutiche dalle cellule staminali neuronali è indispensabile una conoscenza approfondita dei fattori che ne controllano lo sviluppo. Secondo le conoscenze attuali, le cellule staminali neuronali all’inizio della loro vita possiedono un potenziale di differenziazione uniforme e quasi illimitato. Questa ipotesi si basa tuttavia su degli studi realizzati con cellule ottenute in coltura. Che cosa accade alle cellule staminali che si trovano nel cervello? Uno studio pubblicato nel numero di Science del 20 luglio, dimostra che il destino delle cellule staminali dipende dalla loro localizzazione 7. Lavorando su topi neonati e adulti, Arturo Alvarez-Buylla e i suoi colleghi dell’Università della California a San Francisco hanno studiato la progenie di piccole formazioni di cellule staminali, marcate con una proteina verde fluorescente. Questa tecnica ha permesso di seguire il percorso delle cellule staminali in 15 luoghi diversi di una vasta regione « germinativa » del cervello adulto nella quale si formano dei neuroni e altre cellule cerebrali anche dopo la nascita. 92 I neuroni maturi marcati in verde si erano formati in tutti luoghi, ma il tipo di neurone prodotto differiva a seconda della sua origine. Le cellule staminali avevano inoltre una notevole resistenza ai cambiamenti di luoghi. Una volta tolte dal cervello dei topi e allevate in coltura, anche se esposte a diversi fattori di crescita o inserite in differenti siti delle regioni germinative di altri animali, le staminali continuavano a dare origine a neuroni e ad altre cellule cerebrali, ma sempre cellule specifiche della loro localizzazione di origine. Questa scoperta potrebbe significare che le cellule staminali sono versatili, ma che i neuroni che ne derivano sono specifici della regione del cervello da cui provengono e non cambiano identità alla variazione del luogo. Questa specificità potrebbe restringere le possibilità terapeutiche di una determinata popolazione di cellule staminali. Cellule staminali e neurogenesi Clive Svendsen e i suoi colleghi dell’Università del Wisconsin a Madison hanno sviluppato delle cellule staminali che secernono il fattore neuroprotettivo GDNF (glial-derived neurotrophic factor). Gli impianti di queste cellule permettono la sopravvivenza dei neuroni motori nei ratti con una SLA a uno stadio precoce. Delle cellule staminali proteggono i neuroni nella Sclerosi Laterale Amiotrofica Le cellule staminali sono apprezzate per la loro capacità di produrre generazioni di cellule sane, capaci di assumere il ruolo delle cellule distrutte dalle malattie neurodegenerative; esse possono inoltre essere utilizzate per produrre degli agenti terapeutici utili ai neuroni lesi. Clive Svendsen e i suoi colleghi dell’Università del Wisconsin a Madison, hanno manipolato delle cellule staminali embrionali affinché producessero una sostanza denominata GDNF (glial-derived neurotrophic factor), che alimenta e protegge i neuroni. Secondo l’articolo pubblicato il 31 luglio nella rivista online PLoS One, della Public Library of Science, gli autori hanno trapiantato delle cellule staminali che sintetizzano il GDNF nel midollo spinale di ratti portatori del modello animale della sclerosi laterale amiotrofica (SLA), una malattia che lede i neuroni motori 8. Nei ratti allo stadio iniziale della malattia, i trapianti hanno protetto praticamente tutti i neuroni malati. Dando prova di un alto grado di affinità per i neuroni lesi, le cellule manipolate hanno direttamente raggiunto e alimentato in GDNF le zone lese. L’intervento non ha né ristabilito la comunicazione tra i neuroni motori e i muscoli, né ha procurato un miglioramento funzionale agli animali. Sul piano terapeutico esso si è quindi limitato a mantenere in vita i neuroni. Attualmente questa capacità meno nota di trasportare agenti terapeutici verso le lesioni è allo studio per il trattamento dei tumori cerebrali. 93 Strumenti potenti per studiare le malattie Grazie alle cellule staminali, due gruppi di ricercatori hanno scoperto informazioni molto importanti sulla sclerosi laterale amiotrofica. Il 90% dei casi di SLA sono sporadici, si manifestano quindi in assenza di antecedenti famigliari. In alcune persone è stato identificato un gene mutato che potrebbe partecipare alla malattia. Il gene in questione codifica per un enzima chiamato superossido dismutasi-1 (SOD1). Non è ancora noto il meccanismo attraverso il quale il gene mutato lede i neuroni. S’ignora in particolare, se esso agisca direttamente sulla funzione dei neuroni motori o se siano coinvolte altre cellule. Degli studi recenti mostrano che se dei neuroni motori sani sono posti in coltura con cellule non neuronali portatrici della mutazione, anche le cellule sane manifesteranno le caratteristiche della SLA. Secondo questi due studi, pubblicati nel numero di Nature Neuroscience di maggio, il problema nasce dagli astrociti, le cellule a forma di stella che svolgono numerose funzioni di sostegno. Lavorando con i neuroni motori prelevati da embrioni di topo e da altri neuroni tratti da cellule staminali embrionali di topo, un gruppo della Columbia University diretto da Serge Przedborski ha constatato nel primo dei due studi, che i neuroni motori portatori della mutazione SOD umana presentavano delle anomalie ma non i segni di neurodegenerazione 9. Gli astrociti con la mutazione, invece, provocavano la morte dei neuroni motori; i meccanismi degenerativi erano gli stessi osservati nella SLA. Gli autori hanno constatato che i danni provocati dagli astrociti erano dovuti alla secrezione di una sostanza con una tossicità selettiva per i neuroni motori, contrariamente alle sostanze inoffensive liberate da altri tipi di cellule di sostegno, in particolare le cellule gliali. 94 Nel secondo studio, Kevin Eggan e due gruppi delle università di Harvard e di Perugia hanno creato un modello animale con delle cellule staminali embrionali di topo per affrontare la stessa questione 10. I ricercatori hanno modificato queste cellule affinché presentassero il gene SOD umano normale e la sua versione mutata, poi hanno lasciato che le cellule si differenziassero in neuroni motori. Gli scienziati hanno costatato che le cellule mutate percorrevano tutti gli stadi classici della malattia, fino alla morte dei neuroni motori. Questo permette di supporre che l’approccio costituisce un modello efficace della SLA utile per la ricerca. I neuroni motori, Le ultime ricerche dimostrano che la SLA potrebbe essere dovuta agli astrociti quindi a fattori esterni ai neuroni, questa scoperta potrebbe aprire nuove piste terapeutiche. Gli studi evidenziano inoltre che le cellule staminali sono uno strumento utile per studiare i meccanismi di sviluppo di una malattia; il secondo studio in particolare propone nuovi farmaci potenziali e un metodo di screening basato sulle cellule. Cellule staminali e neurogenesi sia normali che mutati, presentavano inoltre dei segni di neurodegenerazione quando erano posti in coltura in compagnia di cellule di supporto SOD mutanti. 95 I disturbi del pensiero e della memoria La proteina beta amiloide ed il morbo di Alzheimer 98 Varianti genetiche 100 Altri obiettivi terapeutici 101 Predire il morbo di Alzheimer 103 Ricordarsi ed immaginare 103 97 N el 2007 la ricerca ha fatto passi avanti nella comprensione e nel trattamento delle patologie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer. Le ricerche hanno permesso di progredire nella conoscenza dei meccanismi che permettono al cervello di usare la memoria del passato per preparare il futuro. Finora nessun farmaco si è rivelato efficace nel bloccare il progredire del morbo, tuttavia in certi ambiti sono stati fatti progressi che messi insieme potrebbero migliorare i trattamenti e forse anche la prevenzione di questa malattia. La proteina beta amiloide è uno degli argomenti della ricerca, ma non l’unico. La proteina beta amiloide ed il morbo di Alzheimer Molti studi si sono concentrati sulle placche di beta amiloide e le neurofibrille che si depositano nel cervello delle persone affette dal morbo di Alzheimer. Le placche si formano negli interstizi tra le cellule cerebrali, mentre i grovigli di neurofibrille all’interno delle cellule. I ricercatori ritengono però che i danni neuronali e i deficit funzionali precedano l’apparizione di queste strutture. Sono unanimi i risultati di diversi studi realizzati con colture di cellule di topi transgenici (geneticamente modificati per contenere del DNA umano) o nel cervello umano: l’accumulo progressivo della sostanza beta amiloide esercita un effetto tossico sulle cellule molto prima che siano visibili le placche e i grovigli di neurofibrille. Nel 2007 molte ricerche hanno analizzato le sottounità che costituiscono la proteina beta amiloide. Un gruppo di ricerca diretto da Lennart Mucke dell’Università della California a San Francisco, ha studiato dei topi transgenici che presentavano delle quantità importanti di sottounità di beta amiloide nel cervello. Gli animali mostravano numerosi sintomi del morbo di Alzheimer, compresi i deficit cognitivi 1. 98 I ricercatori hanno evidenziato un’elevata attività di crisi non convulsive nell’ippocampo e nella corteccia cerebrale, due regioni che svolgono un ruolo importante nella memoria. In queste regioni cerebrali le sottounità di beta amiloide provocavano un tasso importante di scariche nei circuiti neuronali eccitatori. In risposta a questo fenomeno si rimodellano i circuiti inibitori, la conseguenza è una riduzione del numero di scariche nei circuiti eccitatori. Secondo i ricercatori, i deficit cognitivi osservati nel morbo di Alzheimer potrebbero risultare dalla combinazione dell’eccesso di scariche neuronali dovute alle sottounità di beta amiloide seguita dal rimodellamento compensatorio dei circuiti inibitori, che ha un influsso negativo sulla funzione dei circuiti eccitatori. I disturbi del pensiero e della memoria I ricercatori nel 2007 hanno studiato l’effetto delle ADDL, delle proteine tossiche che si accumulano nel cervello e nel liquido cerebrospinale nel morbo di Alzheimer. Queste molecole si legano alle sinapsi e interferiscono con i processi mnemonici che avvengono nelle cellule del cervello. Secondo Mucke, dei trattamenti che bloccano la sovraeccitazione dei neuroni generata dalla sostanza beta amiloide potrebbero impedire l’attivazione delle vie inibitrici, il loro conseguente rimodellamento e le alterazioni cognitive che ne derivano. Un gruppo di ricerca della Northwestern University diretto da William Klein ha studiato l’effetto delle sottounità della sostanza beta amiloide denominate ADDL sulla composizione, la struttura e la densità delle sinapsi 2. Accumulandosi nel cervello e nel liquido cerebrospinale, queste molecole si legano alle sinapsi e interferiscono con la loro plasticità provocandone la degenerazione, da cui risultano i disturbi della memoria osservati all’inizio nel morbo di Alzheimer. Klein e il suo gruppo hanno studiato le spine dendritiche, cioè i sottili prolungamenti neuronali situati sui dendriti che conducono l’influsso nervoso dalla periferia verso il corpo del neurone. Utilizzando in coltura i neuroni prelevati dall’ippocampo, Klein e i suoi colleghi hanno costatato che le ADDL si legano alle spine dendritiche di determinati neuroni, aumentando il numero di certi recettori che 99 intervengono nella memoria. Un’esposizione prolungata a queste proteine rende le spine dendritiche anormalmente lunghe e sottili e il loro numero diminuisce. Il risultato è un deterioramento delle sinapsi. I ricercatori hanno constatato che la memantina, utilizzata nel trattamento del morbo di Alzheimer, blocca i due fenomeni. In uno studio analogo, un gruppo di Harvard diretto da Bernardo Sabatini, ha dimostrato che le sottounità composte di due o tre molecole di beta amiloide (non quelle composte di un’unica molecola), provocavano una perdita progressiva delle sinapsi delle cellule ippocampali 3. I ricercatori hanno osservato sui neuroni piramidali esposti a queste piccole molecole solubili una diminuzione della densità delle spine dendritiche e del numero delle sinapsi attive. La somministrazione di anticorpi specifici diretti sulla sostanza beta amiloide e di un agente che impedisce alle piccole molecole di formare unità più grandi, ha interrotto la scomparsa delle spine dendritiche. Sabatini ha concluso quindi che la perdita di sinapsi sarebbe provocata dalle piccole unità solubili di beta amiloide. Sebbene non sia ancora chiara l’esatta struttura molecolare di queste sottounità solubili che unendosi formano delle placche e delle fibrille visibili, stanno per essere sviluppati e testati dei farmaci che cercano di impedirne la formazione. L’obiettivo del trattamento è rallentare o arrestare il deterioramento dei circuiti neuronali prima che appaiano i sintomi del morbo di Alzheimer 4. Varianti genetiche La sostanza beta amiloide si forma dal precursore proteico dell’amiloide (APP) in diverse parti della cellula. Una delle tappe importanti della sua costituzione si situa al momento in cui attraverso una precisa via, l’APP passa dalla superficie verso l’interno della cellula ed è riciclato. Un gruppo internazionale di ricercatori diretto da Peter St. George-Hyslop all’Università di Toronto, ha ipotizzato che l’esistenza di differenze ereditarie a questo livello possono avere delle ripercussioni sia sul metabolismo dell’APP e sia sul rischio di sviluppare il morbo di Alzheimer. 100 I ricercatori hanno pubblicato nella rivista Nature Genetics che delle differenze del gene SORL1 sono associate con l’apparizione tardiva del morbo di Alzheimer 5. Le varianti sono state osservate in almeno due gruppi di Secondo questo studio il gene SORL1 dirige l’APP sulle vie del riciclaggio. Quando il SORL1 viene meno, l’APP è collocato nei compartimenti cellulari dove si forma la proteina beta amiloide. I ricercatori hanno concluso che i cambiamenti ereditari o acquisiti dell’espressione o della funzione del gene SORL1 fanno parte dei fattori che causano il morbo di Alzheimer. Altri obiettivi terapeutici La proteina beta amiloide non è l’unico bersaglio dei trattamenti per il morbo di Alzheimer, ce ne sono altri, tra i quali la proteina tau. La proteina tau abbonda nei neuroni normali. Essa interagisce con la tubulina per promuovere e stabilizzare i microtubuli delle strutture che costituiscono lo scheletro cellulare fondamentale per il trasporto. I disturbi del pensiero e della memoria DNA non codificante del gene SORL1, essi potrebbero però regolarne l’espressione nel tessuto cerebrale. Esistono delle varianti anormali della proteina tau, che possono formare i grovigli neurofibrillari osservati nei neuroni delle persone affette dal morbo di Alzheimer. Gli scienziati stanno cercando di capire se dei trattamenti mirati contro questa proteina arrestano il declino cognitivo indotto dalla sostanza beta amiloide. A San Francisco, un gruppo del Gladstone Institute of Neurological Disease diretto da Eric Roberson ha cercato di delucidare questa questione usando dei topi geneticamente modificati in modo da esprimere alti livelli di proteina precursore dell’amiloide. Studiando i topi in un labirinto acquatico finalizzato all’apprendimento e alla memoria, i ricercatori hanno costatato che i topi con un basso livello di proteina tau nei tessuti conservavano la facoltà di memorizzare il labirinto anche quando il livello della proteina beta amiloide era elevato. Un altro potenziale strumento terapeutico è il peptide NAP che protegge i neuroni contro la distruzione indotta dalla sostanza beta amiloide. I ricercatori hanno notato che la riduzione del tasso di proteina tau protegge sia i topi geneticamente modificati sia quelli non transgenici dall’effetto tossico denominato eccitotossicità che un particolare aminoacido esercita sui neuroni. La conclusione dello studio pubblicato in Science è che l’abbassamento del livello di proteina tau nei tessuti può 101 arrestare il disfunzionamento neuronale provocato dalla sostanza beta amiloide e l’eccitotossicità 6. La riduzione della proteina tau potrebbe essere una strategia terapeutica efficace per il morbo di Alzheimer e altri tipi di demenza. Un altro potenziale strumento terapeutico è il peptide NAP, che protegge i neuroni contro la distruzione indotta dalla sostanza beta amiloide. Questo peptide sembra impedire la formazione di placche e fibrille da parte della sostanza beta amiloide. Il NAP si lega alla tubulina, prevenendo la disorganizzazione dei microtubuli osservata nel morbo di Alzheimer. Paul Aisen e il suo gruppo di ricercatori della Georgetown University hanno studiato dei topi transgenici che presentano i due grandi segni del morbo di Alzheimer: l’accumulo di beta amiloide e le anomalie della proteina tau associate alla disfunzione microtubulare. Per tre mesi, i ricercatori hanno somministrato quotidianamente ai topi che avevano nove mesi all’inizio dello studio, delle dosi di NAP prima dell’apparizione dei sintomi. Come spiegato nel Journal of Molecular Neuroscience, il trattamento ha ridotto in modo significativo i tassi cerebrali della sostanza beta amiloide e i livelli della proteina tau anormale 7. La conclusione dei ricercatori è che il peptide NAP potrebbe essere un trattamento possibile per il morbo di Alzheimer. Al Massachusetts Institute of Technology, un gruppo di scienziati ha studiato dei topi nei quali per un breve intervallo era possibile controllare la perdita di neuroni in precise aree cerebrali. Una parte dei topi è stata posta in un ambiente arricchito, con ruote, tunnel, scale, ecc. Questi topi, anche dopo avere perso i neuroni e dopo che il loro cervello si era atrofizzato, hanno ritrovato le facoltà di apprendimento e memoria a lungo termine. I ricercatori hanno studiato il materiale genetico del tessuto cerebrale dei topi, in particolare la struttura di base dei cromosomi composta di cromatina. I filamenti di cromatina contengono gli istoni, delle proteine attorno alle quali si avvolge il DNA. Gli istoni sono i principali costituenti delle code o della fine dei filamenti di cromatina. 102 I ricercatori hanno notato che arricchendo l’ambiente dove vivevano i topi, si producono dei cambiamenti chimici a livello delle code degli istoni. Altri ricercatori studiano il meccanismo d’azione degli inibitori dell’enzima HDAC. Prima di un loro eventuale utilizzo è importante capire se questi inibitori alterano l’espressione di molti geni e se hanno un effetto globale sul processo mnesico o al contrario agiscono in modo mirato. Uno studio ha permesso d’identificare due effetti specifici. Uno è in relazione con la proteina CREB. Sintetizzata all’interno del neurone, essa ha un ruolo importante nella formazione dei memoria. Gli inibitori dell’enzima HDAC interferiscono anche sull’espressione di diversi geni che intervengono nel meccanismo della consolidazione dei memoria 9. I disturbi del pensiero e della memoria Gli stessi cambiamenti sono indotti da farmaci che inibiscono l’attività dell’enzima HDAC. Si osserva infatti la gemmazione dei dendriti, aumenta il numero di sinapsi, migliorano le facoltà di apprendimento e l’accesso alla memoria a lungo termine. La conclusione di questo studio, pubblicato nel numero di Nature del 10 maggio, è che i farmaci che inibiscono l’enzima HDAC potrebbero essere utili nel trattamento del morbo di Alzheimer e in altre forme di demenza 8. Predire il morbo di Alzheimer Un gruppo diretto da David Holtzman della Washington University a St. Louis, ha affermato in Archives of Neurology del mese di marzo del 2007 che la proporzione di certi tipi di beta amiloide e di proteina tau permettono di stabilire se una persona senza disturbi cognitivi ha nel cervello degli accumuli di amiloide e di conseguenza ha un maggiore rischio di sviluppare una demenza. I ricercatori hanno analizzato il liquido cerebrospinale e il sangue di 139 volontari tra 60 e 91 anni, le cui capacità cognitive erano normali oppure presentavano segni di demenza leggeri o molto leggeri 10. Gli scienziati hanno trovato nel liquido cerebrospinale dei soggetti con leggeri segni di demenza dei tassi meno elevati di un particolare tipo di beta amiloide e dei livelli di proteina tau più elevata rispetto ai soggetti testimone in buona salute. I livelli nei tessuti di questo tipo di beta amiloide hanno predetto se il beta amiloide era presente nel cervello dei soggetti con o senza demenza. Ricordarsi ed immaginare Molti ricercatori si sono occupati nel 2007 della relazione tra il ricordo del passato e il modo con cui si immagina il futuro. Secondo uno studio realizzato da Arnaud D’Argembeau, Università di Liegi in Belgio, pubblicato nel 103 Journal of Abnormal Psychology, le persone che presentano una lesione nell’ippocampo e i soggetti affetti da schizofrenia hanno difficoltà a stabilire questo nesso 11. Una delle conseguenze della perdita della memoria episodica nelle persone anziane è la difficoltà nell’integrare le informazioni e di creare nessi tra i vari elementi. Conclusioni simili sono tratte anche da uno studio realizzato ad Harvard e pubblicato in Psychological Science. Lo studio in questione aveva come oggetto la memoria episodica o autobiografica, che i ricercatori hanno valutato in adulti di una certa età e in giovani studenti in buona salute. Grazie alla memoria episodica l’individuo evoca gli eventi che appartengono al proprio vissuto e può proiettarsi in un tempo soggettivo che si estende dal passato al futuro. Invitati dai ricercatori a evocare degli eventi passati e futuri, gli adulti di una certa età fornivano meno dettagli autobiografici con un nesso al passato rispetto ai soggetti giovani. Il risultato è identico per gli eventi futuri immaginati, che erano meno ricchi in informazioni episodiche negli anziani rispetto ai più giovani 12. La perdita della memoria episodica nelle persone anziane provoca delle difficoltà nell’integrare l’informazione e nel mettere in rapporto gli elementi che la compongono. Gli studi realizzati con il neuroimaging dimostrano che le regioni del cervello che permettono di ricordarsi del passato e immaginarsi il futuro sono in parte le stesse. In uno studio effettuato con la risonanza magnetica, dopo avere chiesto a 21 volontari di 18-32 anni di evocare dei ricordi o di immaginare eventi futuri è emersa un’impressionante sovrapposizione delle zone attivate 13. Queste aree appartengono a un sistema che comprende le regioni prefrontali e mediane del lobo temporale e le regioni posteriori (che includono il precuneo e la corteccia retrospleniale) associate a una rete di recupero dei ricordi. 104 Dagli studi simili a quello appena citato è nato il concetto di « cervello prospettico », che immagazzina delle informazioni di cui si serve per immaginare, simulare e predire gli eventi futuri. Questo concetto offre una nuova via per rinnovare il modo di concepire la memoria, affermano gli psicologi di Harvard Daniel Schacter, Donna Rose Addis e Randy Buckner 14. Questo suggerisce che il cervello usa delle reti condivise del recupero dell’informazione, per ricordare e immaginare. I disturbi del pensiero e della memoria Per immaginare è tuttavia necessario ricombinare i dettagli in modo diverso facendo intervenire altre regioni cerebrali. A causa di questa sovrapposizione il ricordo non è mai una registrazione perfetta del passato ma un processo che si costruisce. Schacter, Addis e Buckner sostengono che la capacità di riorganizzare e modificare l’informazione immagazzinata nella memoria potrebbe essere cruciale per pianificare il futuro. 105 Referenze Introduzione 1 Echegoyen J, Neu A, Graber KD, and Soltesz I. Homeostatic plasticity studied using in vivo hippocampal activity-blockade: Synaptic scaling, intrinsic plasticity, and age-dependence. Public Library of Science 1. 2007 2:e700. 2 Howard AL, Neu A, Morgan RJ, Echegoyen JC, and Soltesz I. 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Science. 2007 316(5825):750-754. 7 Matsuoka Y, Gray AJ, Hirata-Fukae C, Minami SS, Waterhouse EG, Mattson MP, LaFerla FM, Gozes I, and Aisen PS. Intranasal NAP administration reduces accumulation of amyloid peptide and tau hyperphosphorylation in a transgenic mouse model of Alzheimer’s disease at early pathological stage. Journal of Molecular Neuroscience. 2007 31(2):165-170. 8 Fischer A, Sananbenesi F, Wang X, Dobbin M, and Tsai L-H. Recovery of learning and memory is associated with chromatin remodelling. Nature. 2007 447:178-182. 9 Vecsey CG, Hawk JD, Lattal KM, Stein JM, Fabian SA, Attner MA, Cabrera SM, McDonough CB, Brindle PK, Abel T, and Wood MA. Histone deacetylase inhibitors enhance memory and synaptic plasticity via CREB: CBP-dependent transcriptional activation. Journal of Neuroscience. 2007 27(23): 6128-6140. 10 Fagan AM, Roe CM, Xiong C, Mintun MA, Morris JC, and Holtzman DM. Cerebrospinal fluid tau/β-amyloid42 ratio as a prediction of cognitive decline in nondemented older adults. Archives of Neurology. 2007 64(3):343-349. 11 D’Argembeau A, Raffard S, and Van der Linden M. Remembering the past and imagining the future in schizophrenia. Journal of Abnormal Psychology (in press for December 2007 or January 2008). 12 Addis DR, Wong AT, and Schacter DL. Age-related changes in the episodic simulation of future events. Psychological Science (in press for January 2008). Prepublication copy available at http://www.wjh.harvard.edu/∼dsweb/pdfs/inpress_DRA_ATW_DLS.pdf 13 Szpunar KK, Watson JM, and McDermott KB. Neural substrates of envisioning the future. Proceedings of the National Academy of Sciences USA. 2007 104(2):642-647. 14 Schacter DL, Addis DR, and Buckner RL. Remembering the past to imagine the future: The prospective brain. Nature Reviews Neuroscience. 2007 8(9):657-661. Illustrazioni / Fotografie P. 5: P. 11: P. 17: P. 25: P. 28: P. 29: P. 30: P. 33: P. 35: P. 39: P. 41: P. 45: P. 46: P. 49: P. 51: P. 57: P. 59: P. 60: P. 65: P. 68: P. 71: P. 73: P. 74: P. 81: P. 83: P. 86: P. 89: P. 93: P. 97: P. 99: Photo courtesy of Mike Lovett Photo courtesy of Michael S. Gazzaniga Above photo courtesy of Mahlon R. DeLong, MD Down photo courtesy of Thomas Wichmann, MD Illustration by Jennifer E. Fairman Image courtesy of Philip Shaw / NIH Photo courtesy of Adrian Bird, University of Edinburgh Image courtesy of Adrian Bird, University of Edinburgh Illustration by Jennifer E. Fairman Image courtesy of Cynthia McMurray Photo courtesy of New York Presbyterian / Weill Cornell Medical College Illustration by Jennifer E. Fairman Photo courtesy of Rakesh Jain Image courtesy of Rakesh Jain Illustration by Jennifer E. Fairman Photo courtesy of Judy Illes Illustration by Jennifer E. Fairman Photo courtesy of Affymetrix Image courtesy of Affymetrix Illustration by Jennifer E. Fairman Photo courtesy of Bryan Hains, Yale University Illustration by Jennifer E. Fairman Photo courtesy of School of Engineering, Stanford University Image courtesy of Helen Mayberg Illustration by Jennifer E. Fairman Image courtesy of Clifford B. Saper Image courtesy of Dale Purvis Illustration by Jennifer E. Fairman Photo courtesy of Clive Svendsen Illustration by Jennifer E. Fairman Image courtesy of William Klein 115 Immaginate un mondo . . . … in cui la malattia di Alzheimer, la malattia di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica, la retinite pigmentosa e le altre cause di cecità, saranno facilmente diagnosticate ad uno stadio precoce e immediatamente curate con medicinali che ne impediscono il deterioramento prima che le lesioni divengano troppo gravi. … in cui saranno noti i fattori ambientali e genetici che predispongono le persone alle malattie mentali. Dove esistono dei precisi test diagnostici e dei trattamenti mirati – medicinali, sostegno psicologico, interventi preventivi – disponibili e utilizzati su vasta scala. … in cui le nuove conoscenze sullo sviluppo del cervello permetteranno sia di trarre un maggior beneficio dai primi anni di apprendimento sia di combattere le patologie associate all’età. … in cui le lesioni del midollo spinale non saranno più sinonimo di paralisi a vita, poiché sarà possibile programmare il sistema nervoso così da ricostruire i circuiti neurali e ristabilire l’attività muscolare. … in cui gli individui non saranno più schiavi delle tossicodipendenze e dell’alcolismo, perché esisteranno dei trattamenti facilmente accessibili, che agendo a livello delle vie nervose permetteranno d’interrompere i fenomeni responsabili delle crisi di astinenza e il bisogno impellente di consumare delle sostanze generatrici di dipendenza. … in cui la vita delle persone non sarà più in balia della depressione e dell’ansia perché per curarle disporremo di efficaci medicinali. 118 Anche se tale visione può sembrare irreale ed utopica, stiamo vivendo un momento della storia delle neuroscienze straordinariamente promettente e fecondo. I progressi realizzati dalla ricerca nel corso dell’ultimo decennio, oltrepassano le nostre aspettative. Le conoscenze sui meccanismi fondamentali del funzionamento cerebrale si sono ampliate e oggi possiamo cominciare a trarre un beneficio pratico dal loro potenziale. Abbiamo già cominciato a concepire delle strategie, delle nuove tecniche e delle terapie per combattere differenti malattie e disturbi neurologici. Fissando degli obiettivi terapeutici e applicando le conoscenze attuali, sarà possibile sviluppare dei trattamenti efficaci che, in alcuni casi, permetteranno di ottenere la guarigione completa. I grandi progressi delle neuroscienze ci permettono inoltre di valutare l’entità di ciò che ancora non conosciamo. Questo fatto costituisce senza dubbio uno stimolo che sprona la ricerca fondamentale ad esplorare questioni più ampie sul funzionamento della materia vivente, per formulare le domande di ordine complesso che portano alle scoperte scientifiche. La ricerca clinica e fondamentale svolta in modo coordinato da migliaia di scienziati, ha generato un insieme di conoscenze nelle diverse discipline, che variano dagli studi delle strutture molecolari e dei medicinali, alla visualizzazione cerebrale, alle scienze cognitive e alla ricerca clinica, che possono essere messe al servizio della lotta contro le malattie e i disturbi neurologici. Come scienziati continueremo a progredire sia individualmente nei nostri rispettivi ambiti, sia cooperando con i nostri colleghi di altri campi scientifici, moltiplicando le occasioni di collaborazioni interdisciplinari. La Dana Alliance for Brain Initiatives e la European Dana Alliance for the Brain riuniscono degli specialisti nelle neuroscienze pronti ad intraprendere progetti ambiziosi, come abbiamo potuto osservare nel 1992 a Cold Spring Harbor, New York, dove fu stabilito un vero e proprio calendario di ricerca per gli Stati Uniti e una seconda volta nel 1997, quando si è costituito il gruppo europeo con i suoi peculiari obiettivi e mete. Si tratta ora, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, di fissare nuovi scopi per orientare i progressi che possono essere realizzati a corto e a medio termine. Provando ad immaginare i futuri benefici, cerchiamo di accelerare l’andamento di questa nuova era delle neuroscienze, per riuscire a raggiungere più rapidamente gli obiettivi prefissati. Gli obiettivi Combattere gli effetti devastanti della malattia di Alzheimer. In questa patologia si osserva il deposito cerebrale di una piccola frazione proteica denominata proteina amiloide, estremamente tossica per le cellule nervose. Grazie alla sperimentazione animale oggi si conosce il meccanismo biochimico e genetico di quest’accumulo. Utilizzando il modello animale sono stati sviluppati nuovi medicinali e un vaccino potenzialmente efficace, sia per prevenire il deposito della proteina amiloide sia per cercare di rimuoverlo. Tali terapie che saranno prossimamente sperimentate nell’uomo, offrono la speranza di combattere efficacemente questo meccanismo patologico. Scoprire la miglior terapia per la malattia di Parkinson. I medicinali che agiscono sulle vie dopaminergiche del cervello, hanno dato buoni risultati nel trattamento dei disturbi motori nella malattia di Parkinson. Sfortunatamente in molti pazienti, dopo 5 a 10 anni questo effetto terapeutico tende a diminuire. Attualmente sono in via di sviluppo nuove molecole che cercano, da un lato di prolungare l’azione dei medicamenti dopaminergici, dall’altro di frenare la selettiva perdita neurale che è all’origine della malattia. Per i pazienti che non rispondono alla terapia medicamentosa, esiste la possibilità di trarre un beneficio dall’approccio chirurgico denominato stimolazione cerebrale profonda. Nuove forme di visualizzazione cerebrale permetteranno di determinare se questi trattamenti riescono a salvare i neuroni dalla distruzione e a ristabilire il normale funzionamento dei circuiti neurali. Immaginate un mondo ... La fiducia del pubblico nella scienza è essenziale per adempiere la nostra missione. Il dialogo tra i ricercatori e la gente sarà basilare soprattutto in considerazione delle conseguenze etiche e sociali del progresso della ricerca sul cervello. Diminuire l’incidenza degli ictus cerebrali e perfezionare il trattamento degli episodi acuti. Smettere di fumare, mantenere il tasso di colesterolo e il peso corporeo a livelli ragionevoli con un’alimentazione e un’attività fisica appropriate, sono, associati al depistaggio e al trattamento del diabete, i modi per ottenere una diminuzione spettacolare del numero degli incidenti cerebrovascolari e delle malattie cardiache. Nel caso degli ictus, con una diagnosi ed un intervento precoce, il paziente migliora rapidamente e i postumi della malattia sono minori. In futuro esisteranno nuovi trattamenti volti a ridurre l’impatto acuto degli incidenti cerebrovascolari sulle cellule del cervello. Le nuove tecniche di riabilitazione, che traggono profitto dalle conoscenze sulla capacità del cervello di recuperare dopo un trauma, permetteranno di progredire in questa via. Sviluppare trattamenti più efficaci per i disturbi dell’umore come la depressione, la schizofrenia, i disturbi ossessivi e il disturbo bipolare. Grazie alla determinazione della 119 sequenza del genoma umano, saranno scoperti i geni che predispongono ad alcune di queste malattie. Le recenti tecniche di visualizzazione cerebrale offriranno l’opportunità di osservare l’azione esercitata da questi geni nel cervello. Sarà quindi possibile esaminare la disfunzione dei circuiti neurali nelle persone colpite dalle patologie dell’umore. Disporremo di una diagnosi più sicura, l’uso di medicinali già esistenti sarà più efficace e la ricerca porrà nuove basi teoriche per sviluppare agenti terapeutici innovativi. Scoprire le cause genetiche e neurobiologiche dell’epilessia e migliorarne il trattamento. Comprendere l’origine genetica dell’epilessia e i meccanismi neurologici che scatenano le crisi, fornirà l’opportunità per una diagnosi preventiva e per trattamenti mirati. I progressi realizzati nel campo delle terapie chirurgiche offriranno in futuro delle alternative terapeutiche molto preziose. Scoprire vie innovative per prevenire e curare la sclerosi multipla. Per la prima volta disponiamo di medicinali che modificano il de corso di questa malattia. Queste nuove molecole alterano le risposte immunitarie dell’organismo, riducendo il numero e la gravità delle crisi. Nuovi metodi permetteranno di arrestare la progressione a lungo termine della sclerosi multipla, che è dovuta alla distruzione delle fibre nervose. Sviluppare dei trattamenti più efficaci per i tumori del cervello. Molte forme di tumori cerebrali sono difficili da curare, soprattutto quelle maligne o secondarie a tumori di origine non cerebrale. Le tecniche di visualizzazione, la radioterapia mirata, i differenti metodi che trasportano le sostanze medicamentose al tumore, così come l’identificazione di marker genetici, faciliteranno la diagnosi e permetteranno di sviluppare nuove 120 piste terapeutiche. Migliorare il recupero dopo lesioni traumatiche al cervello o al midollo spinale. Attualmente sono allo studio dei trattamenti che limitano i danni ai tessuti consecutivi ai traumi e si sperimentano sostanze che promuovono il ristabilimento delle connessioni nervose. Ben presto alcune tecniche di rigenerazione cellulare che permettono la sostituzione dei neuroni morti oppure lesi, passeranno dallo stadio della sperimentazione animale ai test clinici sull’uomo. Da segnalare anche il trapianto di microchip miniaturizzati che controllano i circuiti nervosi e ridanno una certa mobilità agli arti paralizzati. Trovare soluzioni innovative per la gestione del dolore. Il dolore non deve essere più sottovalutato. La ricerca sulla sua origine e sui meccanismi neurologici che lo mantengono, fornirà agli specialisti delle neuroscienze gli strumenti di cui necessitano per sviluppare dei trattamenti antalgici efficaci e mirati. Combattere la tossicodipendenza all’origine, nel cervello. I ricercatori hanno identificato i circuiti nervosi implicati in ognuno dei differenti tipi di dipendenza e hanno clonato alcuni dei recettori più importanti di queste sostanze. I progressi realizzati nella visualizzazione cerebrale, identificando i meccanismi neurobiologici che trasformano un cervello normale in un cervello sottomesso alla dipendenza, permetteranno di sviluppare dei trattamenti per annullare o compensare tali alterazioni. Comprendere i meccanismi cerebrali implicati nella risposta allo stress, all’ansia e alla depressione. La salute mentale è il requisito indispensabile per una buona qualità di vita. Lo stress, l’ansia e la depressione, oltre a perturbare la vita delle persone, possono avere un effetto devastante sulla società. Se capiremo meglio i meccanismi della risposta allo stress e i circuiti neurali implicati nell’ansia e La strategia Trarre vantaggio delle conoscenze fornite dalla genomica. Disponiamo oggi della sequenza completa dei geni che costituiscono il genoma umano. Nel corso dei prossimi 10 a 15 anni avremo la possibilità di stabilire quali geni sono attivi in ogni regione del cervello, in tutti gli stadi dell’esistenza dalla vita embrionale a quella adulta, passando dall’infanzia e dall’adolescenza. Sarà allora possibile identificare nelle diverse patologie neurologiche o psichiatriche, i geni alterati e le proteine assenti o anormali. Questo approccio ha già permesso agli scienziati di stabilire l’origine genetica di malattie come la corea di Huntington, l’atassia spinocerebellare, la distrofia muscolare e la sindrome del cromosoma X fragile. Le conoscenze fornite dalla genetica e le sue applicazioni nella diagnosi clinica, promettono di rivoluzionare la neurologia e la psichiatria e rappresentano una delle maggiori sfide delle neuroscienze. La disponibilità di un nuovo e potente strumento, i microchip di DNA, accelererà notevolmente questo processo aprendo nuove vie per la diagnosi clinica e la concezione di nuovi trattamenti. Applicare le nostre conoscenze sullo sviluppo del cervello. Dal concepimento alla morte, il cervello passa attraverso differenti stadi dello sviluppo con periodi di vulnerabilità e di crescita che possono essere favoriti oppure ostacolati. Per migliorare il trattamento dei disturbi dello sviluppo come l’autismo, i disturbi da deficit di attenzione e le difficoltà dell’apprendimento, le neuroscienze dovranno elaborare un quadro più dettagliato dello sviluppo cerebrale. Siccome il cervello è l’unico organo ad avere dei problemi specificamente collegati agli stadi dello sviluppo come l’adolescenza o la vecchiaia, capirne le trasformazioni in quelle precise fasi, permetterà di sviluppare trattamenti efficaci. Utilizzare l’enorme potenziale offerto dalla plasticità cerebrale. Traendo profitto dalla neuroplasticità, cioè dalla capacità del cervello di adattarsi e di modellarsi, i neuroscienziati faranno progredire le terapie per le malattie neurodegenerative e offriranno metodi per migliorare la funzione cerebrale sia nei soggetti sani sia nelle persone malate. Nei prossimi dieci anni, le terapie di sostituzione cellulare e di promozione della formazione di nuove cellule neurali, daranno l’opportunità di ottenere nuovi trattamenti per gli ictus cerebrali, i traumi del midollo spinale e la malattia di Parkinson. Immaginate un mondo ... nella depressione, sapremo sviluppare delle strategie preventive e dei trattamenti efficaci. Comprendere l’essenza dell’essere umano. Come funziona il cervello ? Oggi gli specialisti nelle neuroscienze sono in grado di porre le grandi domande sul funzionamento del cervello dell’uomo e di fornire le prime risposte. Quali sono i meccanismi e quali i circuiti nervosi che permettono all’essere umano di formare dei ricordi, di prestare attenzione, di percepire ed esprimere delle emozioni, di prendere delle decisioni, di utilizzare il linguaggio, di essere creativo ? Lo sforzo per sviluppare una teoria del funzionamento cerebrale, offrirà importanti opportunità per massimizzare il potenziale dell’essere umano. Gli strumenti La sostituzione cellulare. I neuroni adulti non possiedono la facoltà di riprodursi per sostituire le cellule perse in seguito a traumi o a malattie. Le tecniche che utilizzano la capacità delle cellule staminali neurali (i progenitori dei neuroni) di differenziarsi in neuroni, potrebbero rivoluzionare il trattamento delle patologie neurologiche. Il trapianto delle cellule staminali neurali, correntemente usato 121 nella sperimentazione animale, sarà ben presto applicato all’uomo. Controllare lo sviluppo di queste cellule, dirigerle verso le precise regioni del cervello e indurle a stabilire le connessioni appropriate, sono le molteplici questioni sulle quali la ricerca lavora senza sosta. I meccanismi di riparazione neurali. Utilizzando i meccanismi di riparazione propri del sistema nervoso, che in alcuni casi rigenerano i neuroni e in altri ristabiliscono i circuiti, il cervello ha la capacità di « riparare se stesso ». Rinforzare questa capacità significa ridare una speranza di guarigione alle persone vittime di traumi cranici o di lesioni del midollo spinale. Delle tecniche per arrestare o prevenire la neurodegenerazione. Molte patologie come la malattia di Parkinson, la malattia di Alzheimer, la corea Huntington o la sclerosi laterale amiotrofica, sono la conseguenza della degenerazione di una specifica popolazione di cellule in una determinata regione cerebrale. I trattamenti attuali agiscono unicamente sul sintomo, non alterano la perdita progressiva dei neuroni. Le nuove conoscenze sui meccanismi che sottendono la morte cellulare, offriranno metodi per prevenire la degenerazione cellulare e quindi arrestare la progressione di queste malattie. Le tecniche che modificano l’espressione genetica nel cervello. Nell’animale da laboratorio è possibile rinforzare oppure bloccare l’azione che certi geni specifici esercitano sul cervello. Attualmente le mutazioni genetiche che provocano nell’uomo malattie neurologiche come la corea di Huntington e la sclerosi laterale amiotrofica, sono sperimentate nei modelli animali per scoprire dei trattamenti capaci di prevenire i fenomeni di neurodegenerazione. Queste tecniche hanno fornito tra l’altro dati interessanti sul normale funzio122 namento del cervello durante lo sviluppo, l’apprendimento e la formazione dei ricordi. La modulazione dell’espressione dei geni è uno degli strumenti più efficaci per studiare i fenomeni normali e patologici del cervello, in futuro potrà essere utilizzata per curare numerosi disturbi cerebrali. I progressi delle tecniche di visualizzazione. Sono stati effettuati notevoli progressi nella visualizzazione strutturale e funzionale del cervello. Sviluppando delle tecniche in cui l’immagine della funzione cerebrale è dettagliata e rapida quanto le funzioni stesse, avremo a disposizione delle immagini in tempo reale. Queste tecnologie permetteranno allora ai ricercatori di osservare le regioni del cervello implicate nella riflessione, nell’apprendimento e nelle emozioni. Dispositivi elettronici capaci di sostituire le vie cerebrali non funzionali. Nel prossimo futuro sarà certamente possibile aggirare le vie cerebrali non funzionali utilizzando dei microelettrodi capaci di registrare l’attività cerebrale. Il loro compito sarà quello di convertire l’attività del cervello in segnali elettrici che saranno inviati al midollo spinale, ai nervi motori o direttamente ai muscoli. Dei trapianti costituiti da batterie di questi elettrodi collegati a dispositivi informatizzati e miniaturizzati, ridaranno speranza alle persone che hanno subito una lesione permettendo il recupero dell’integrità funzionale. I nuovi metodi della ricerca farmaceutica. I progressi realizzati nel campo della biologia strutturale, della genomica e della chimica computerizzata, permettono ai ricercatori di creare una quantità di molecole senza precedenti, molte delle quali possiedono un grande interesse clinico. In determinati casi le nuove tecniche di screening ad alto flusso, utilizzate in particolare dalle « gene chips » e da altre tecnologie, potranno diminuire il tempo che intercorre tra la scoperta di un nuovo principio Il nostro obiettivo, il malato Oggi le neuroscienze hanno a disposizione opportunità senza precedenti. Abbiamo ampliato le conoscenze sul funzionamento cerebrale, sull’origine delle malattie e sulla loro evoluzione. Un sofisticato arsenale di strumenti e di tecniche, ci permette di applicare le nozioni acquisite e di accelerare il progresso nella ricerca cerebrale. Gli scienziati continueranno ad essere gli artigiani del progresso. Non è possibile affrontare patologie cerebrali come la malattia di Alzheimer, la malattia di Parkinson, o gli incidenti cerebrovascolari, senza che la ricerca fondamentale fornisca ai clinici gli elementi necessari per concepire trattamenti innovativi e terapie rivoluzionarie. Abbiamo la responsabilità sia di proseguire le ricerche sia di promuovere il sostegno del pubblico. Inserire la ricerca in un contesto di vita quotidiana è sempre stata un’impresa ardua. Il pubblico non vuole solamente sapere come e perché si ricerca, desidera sapere in che misura egli stesso è implicato. Nell’interesse delle persone che soffrono di malattie neurologiche o psichiatriche, è indispensabile dissipare la paura che la ricerca sul cervello possa essere utilizzata a fini nocivi o eticamente dubbi. Immaginate un mondo ... attivo e la sua valutazione clinica. In alcuni casi la riduzione di tempo passerà da diversi anni a qualche mese. La nostra missione come neuroscienziati non si limita alla ricerca propriamente detta, abbiamo la responsabilità di spiegare in modo chiaro dove ci condurranno i nuovi strumenti e le nuove tecnologie scientifiche. I membri della Dana Alliance degli Stati Uniti e della Dana Alliance Europa si assumono volentieri il compito di affrontare un nuovo decennio di speranza e di intenso lavoro in collaborazione con il pubblico. Occorre divulgare quegli ambiti della ricerca scientifica che presto forniranno delle applicazioni interessanti per l’essere umano. In collaborazione con il pubblico, dobbiamo percorrere le fasi cliniche che seguono gli stadi di laboratorio. I progressi scientifici dovranno tradursi con autentici benefici per il malato. I nostri mezzi e le nostre tecniche diventano sempre più sofisticate, il pubblico potrebbe credere che vi siano degli abusi e che la ricerca sul cervello dia agli scienziati la possibilità di alterare ciò che costituisce la specificità umana, il cervello e il comportamento. È molto importante che la gente non dubiti dell’onestà degli scienziati, della sicurezza dei test clinici – pietra angolare della ricerca applicata – e della riservatezza dei dati medici. 123 Members of EDAB AGID Yves* Hôpital de la Salpêtrière, Paris, France AGUZZI Adriano University of Zurich, Switzerland CARLSSON Arvid University of Gothenburg, Sweden ANDERSEN Per* University of Oslo, Norway CASTRO LOPES Jose University of Porto, Portugal ANTUNES João Lobo University of Lisbon, Portugal CATTANEO Elena University of Milan, Italy AUNIS Dominque INSERM Strasbourg, France CHANGEUX Jean-Pierre Institut Pasteur, Paris, France AVENDAÑO Carlos University of Madrid, Spain AZOUZ Rony Ben-Gurion University of the Negev, Israel, TM BADDELEY Alan University of York, UK BARDE Yves-Alain* University of Basel, Switzerland CHERNISHEVA Marina University of Saint Petersburg, Russia CHVATAL Alexandr Institute of Experimental Medicine ASCR, Prague, Czech Republic CLARAC François CNRS, Marseille, France BATTAGLINI Paolo University of Trieste, Italy, TM CLARKE Stephanie University of Lausanne, Swiss Society for Neuroscience, TMP BELMONTE Carlos Instituto de Neurosciencias, Alicante, Spain CLEMENTI Francesco* University of Milan, Italy BENABID Alim-Louis INSERM and Joseph Fourier Universtiy of Grenoble, France BEN-ARI Yehezkel INSERM-INMED, Marseille, France BENFENATI Fabio University of Genova, Italy COLLINGRIDGE Graham* University of Bristol, UK British Neuroscience Association president, P CUÉNOD Michel* University of Lausanne, Switzerland CULIC Milka University of Belgrade, Yugoslavia BERGER Michael University of Vienna, Austria BERLUCCHI Giovanni* Università degli Studi di Verona, Italy DAVIES Kay* University of Oxford, UK DEHAENE Stanislas INSERM, Paris, France BERNARDI Giorgio University Tor Vergata-Roma, Italy DELGADO-GARCIA José Maria Universidad Pablo de Olavide, Seville, Spain BERTHOZ Alain* Collège de France, Paris, France DEXTER David Imperial College London, UK, TM BEYREUTHER Konrad* University of Heidelberg, Germany DE ZEEUW Chris Erasmus University, The Netherlands, TM BJÖRKLUND Anders* Lund University, Sweden BLAKEMORE Colin* University of Oxford, UK DICHGANS Johannes University of Tübingen, Germany BOCKAERT Joel CNRS, Montpellier, France DIETRICHS Espen University of Oslo, Norway, TM BORBÉLY Alexander University of Zurich, Switzerland DOLAN Ray University College London, UK BRANDT Thomas University of Munich, Germany DUDAI Yadin* Weizmann Institute of Science, Rehovot, Israel BRUNDIN Patrik Lund University, Sweden BUDKA Herbert University of Vienna, Austria BUREŠ Jan* Academy of Sciences, Prague, Czech Republic BYSTRON Irina University of Saint Petersburg, Russia ELEKES Károly Hungarian Academy of Sciences, Tihany, Hungary ESEN Ferhan Osmangazi University, Eskisehir, Turkey EYSEL Ulf Ruhr-Universität Bochum, Germany FERRUS Alberto* Instituto Cajal, Madrid, Spain FIESCHI Cesare University of Rome, Italy INNOCENTI Giorgio Karolinska Institute, Stockholm, Sweden FOSTER Russell University of Oxford, UK IVERSEN Leslie University of Oxford, UK FRACKOWIAK Richard* University College London, UK IVERSEN Susan* University of Oxford, UK FREUND Hans-Joachim* University of Düsseldorf, Germany JACK Julian* University of Oxford, UK FREUND Tamás University of Budapest, Hungary FRITSCHY Jean-Marc University of Zurich, Switzerland JEANNEROD Marc* Institut des Sciences Cognitives, Bron, France JOHANSSON Barbro Lund University, Sweden KACZMAREK Leszek Nencki Institute of Experimental Biology, Warsaw, Poland GARCIA-SEGURA Luis Instituto Cajal, Madrid, Spain KASTE Markku University of Helsinki, Finland GISPEN Willem* University of Utrecht, The Netherlands KATO Ann Centre Médical Universitaire, Geneva, Switzerland GJEDDE Albert* Aarhus University Hospital, Denmark KENNARD Christopher Imperial College School of Medicine, UK GLOWINSKI Jacques Collège de France, Paris, France KERSCHBAUM Hubert University of Salzburg, Austria GRAUER Ettie Israel Institute of Biological Research, Israel, TM KETTENMANN Helmut Max-Delbrück-Centre for Molecular Medicine, Berlin, Germany GREENFIELD Susan The Royal Institution of Great Britain, UK KORTE Martin Technical University Braunschweig, Germany GRIGOREV Igor Institute of Experimental Medicine, Saint Petersburg, Russia KOSSUT Malgorzata* Nencki Institute of Experimental Biology, Warsaw, Poland GRILLNER Sten* Karolinska Institute, Stockholm, Sweden KOUVELAS Elias University of Patras, Greece HAGOORT Peter F.C. Donders Centre for Cognitive Neuroimaging, Nijmegen, The Netherlands, TM HARI Riitta* Helsinki University of Technology, Espoo, Finland HARIRI Nuran University of Ege, Izmir, Turkey KRISHTAL Oleg* Bogomoletz Institute of Physiology, Kiev, Ukraine LANDIS Theodor* University Hospital Geneva, Switzerland LANNFELT Lars University of Uppsala, Sweden HERMANN Anton University of Salzburg, Austria LAURITZEN Martin University of Copenhagen, Denmark HERSCHKOWITZ Norbert* University of Bern, Switzerland LERMA Juan Instituto de Neurociencias, Alicante, Spain HIRSCH Etienne Hôpital de la Salpêtrière, Paris, France, French Neuroscience Society, P LEVELT Willem* Max-Planck-Institute for Psycholinguistics, Nijmegen, The Netherlands HOLSBOER Florian* Max-Planck-Institute of Psychiatry, Germany LEVI-MONTALCINI Rita* EBRI, Rome, Italy HOLZER Peter University of Graz, Austria LOPEZ-BARNEO José* University of Seville, Spain HUXLEY Sir Andrew* University of Cambridge, UK LYTHGOE Mark University College London, UK, TM LIMA Deolinda University of Porto, Portugal MAGISTRETTI Pierre J* University of Lausanne, Switzerland POCHET Roland Université Libre de Bruxelles, Belgium MALACH Rafael Weizmann Institute of Science, Rehovot, Israel POEWE Werner Universitätsklinik für Neurologie, Innsbruck, Austria MALVA Joao, University of Coimbra, Portugal, Portuguese Society for Neuroscience, TMP POULAIN Dominique Université Victor Segalen, Bordeaux, France MARIN Oscar Universidad Miguel HernandezCSIC, Spain PROCHIANTZ Alain CNRS and Ecole Normale Supérieure, France MATTHEWS Paul University of Oxford, UK PYZA Elzbieta Jagiellonian University, Krakow, Poland MEHLER Jacques* SISSA, Trieste, Italy MELAMED Eldad Tel Aviv University, Israel MOHORKO Nina University of Ljubljana, Slovenia, TM MOLDOVAN Mihai University of Copenhagen, TM MONYER Hannah* University Hospital of Neurology, Heidelberg, Germany MORRIS Richard* University of Edinburgh, Scotland; President of FENS MOSER Edvard Norwegian University of Science and Technology NALECZ Katarzyna Nencki Institute of Experimental Biology, Warsaw, Poland RAFF Martin* University College London, UK RAISMAN Geoffrey Institute of Neurology, UCL, London, UK REPOVS Grega University of Ljubljana, Slovenia. Slovenian Neuroscience Association (SINAPSA), TMP RIBEIRO Joaquim Alexandre University of Lisbon, Portugal RIZZOLATTI Giacomo* University of Parma, Italy ROSE Steven The Open University, Milton Keynes, UK ROTHWELL Nancy University of Manchester, UK RUTTER Michael King’s College London, UK NALEPA Irena Polish Academy of Sciences, TM NEHER Erwin Max-Planck-Institute for Biophysical Chemistry, Göttingen, Germany NIETO-SAMPEDRO Manuel* Instituto Cajal, Madrid, Spain NOZDRACHEV Alexander State University of Saint Petersburg, Russia SAKMANN Bert Max-Planck-Institute for Medical Research, Heidelberg, Germany SCHWAB Martin* University of Zurich, Switzerland SEGAL Menahem Weizmann Institute of Science, Rehovot, Israel SEGEV Idan Hebrew University, Jerusalem, Israel SHALLICE Tim* University College London, UK OERTEL Wolfgang* Philipps-University, Marburg, Germany OLESEN Jes Glostrup Hospital, Copenhagen, Denmark; Chairman European Brain Council ORBAN Guy* Catholic University of Leuven, Belgium SINGER Wolf* Max-Planck-Institute for Brain Research, Frankfurt, Germany SKALIORA Irini Biomedical Research Foundation of the Academy of Athens, TM SMITH David University of Oxford, UK SPERK Günther University of Innsbruck, Austria PARDUCZ Arpad Institute of Biophysics, Biological Research Centre of the Hungarian Academy of Sciences, Szeged, Hungary STAMATAKIS Antonis University of Athens, Greece,TM STEWART Michael The Open University, UK PEKER Gonul University of Ege Medical School, Izmir, Turkey. Turkish Neuroscience Society, P STOERIG Petra* Heinrich-Heine University, Düsseldorf, Germany PETIT Christine Institut Pasteur & Collège de France, Paris STOOP Ron University of Lausanne, Switzerland, TM STRATA Pierogiorgio* University of Turin, Italy SYKOVA Eva Institute of Experimental Medicine ASCR, Prague, Czech Republic. Czech Neuroscience Society, P BANDTLOW Christine Austrian Neuroscience Association, Innsbruck Medical University, Austria THOENEN Hans* Max-Planck-Institute for Psychiatry, Germany DI CHIARA Gaetano Italian Society for Neuroscience (SINS) University of Cagliari, Italy TOLDI József University of Szeged, Hungary EFTHYMIOPOULOS Spyros Hellenic Neuroscience Society, University of Athens, Greece TOLOSA Eduardo University of Barcelona, Spain TSAGARELI Merab Beritashvili Institute of Physiology, Tblisi, Republic of Georgia VETULANI Jerzy Institute of Pharmacology, Krakow, Poland VIZI Sylvester* Hungarian Academy of Sciences, Budapest WALTON Lord John of Detchant* University of Oxford, UK WINKLER Hans* Austrian Academy of Sciences, Austria DE SCHUTTER Erik Belgian Society for Neuroscience, University of Antwerp, Belgium FRANDSEN Aase Danish Society for Neuroscience, Copenhagen University Hospital, Denmark GALLEGO Roberto Spanish Neuroscience Society, Instituto de Neurociencias/Universidad Miguel Hernández, Spain GORACCI Gianfrancesco European Society for Neurochemistry, University of Perugia, Italy JOELS Marian Dutch Neurofederation, University of Amsterdam, The Netherlands KHECHINASHVILI Simon Georgian Neuroscience Association, Beritsashvili Institute of Physiology, Tblisi, Republic of Georgia KOSTOVIC Ivica Croatia Society for Neuroscience, Institute for Brain Research, Zagreb, Croatia ZAGREAN Ana-Maria Carol Davila University of Medicine and Pharmacy, Romania, TM NUTT David, European College of Neuropharmacology, University of Bristol, UK ZAGRODZKA Jolanta Nencki Institute of Experimental Biology, Warsaw, Poland, TM PITKANEN Asla FENS Secretary General University of Kuopio, Finland ZEKI Semir* University College London, UK ROTSHENKER Shlomo Israel Society of Neuroscience, The Hebrew University of Jerusalem ZILLES Karl* Heinrich-Heine-University, Düsseldorf, Germany * Original signatory to the EDAB Declaration P = Full Member and NSS president TMP = NSS president term member TM = BAW Term member SAGVOLDEN Terje Norwegian Neuroscience Society, University of Oslo, Norway SKANGIEL-KRAMSKA Jolanta Polish Neuroscience Society, Nencki Institute of Experimental Biology, Warsaw, Poland STENBERG Tarja Finnish Brain Research Society, Institute of Biomedicine/Physiology Biomedicum Helsinki, Finland ZAGREAN Leon National Neuroscience Society of Romania, Carol Davila University of Medicine, Bucharest, Romania Federation of European Neuroscience Societies Presidents ANTAL Miklós Hungarian Neuroscience Society, University of Debrecen, Hungary BÄHR Mathias German Neuroscience Society, University Hospital Göttingen, Germany June 2008 A Dana Alliance for the Brain Inc Publication prepared by EDAB, the European subsidiary of DABI Stampato in Svizzera 6.2008