RS RICERCHE STORICHE Anno XXXI N. 81- Marzo 1997 Direttore Salvatore Fangareggi Direttore Responsabile Sergio Rivi Segretario Antonio Zambonelli Capo Redattore C. Mario Lanzafame Comitato di Redazione: Anna Appari, Laura Artioli, Renzo Barazzoni, Giorgio Boccolari, Ettore Borghi, Antonio Canovi, Alberto Ferraboschi, Sereno Folloni, Sergio Marini, Marco Paterlini, Massimo Storchi, Antonio Torrenzano Progetto grafico Pietro Mussini Direzione, Redazione, Amministrazione Via Dante, 11 - Reggio Emilia Telefono e FAX (0522) 437.327 c.c.p. N. 14832422 Cod. Fisc. 363670357 Prezzo del fascicolo Numeri arretrati il doppio Abbonamento annuale Abbonamento sostenitore Abbonamento benemerito Abbonamento estero L. 20.000 L 50.000 L. 100.000 L. 500.000 $ 40,00 I versamenti vanno intestati a ISTORECO, specificando il tipo di Abbonamento, utilizzando il Conto Corrente Cassa di Risparmio RE n. 11701/1 La collaborazione alla rivista è fatta solo per invito o previo accordo con la redazione. Ogni scritto pubblicato impegna politicamente e scientificamente l'esclusiva responsabilità dell'autore. I manoscritti e le fotografie non si restituiscono. Stampa AG E- Via Casorati, 29 Tel. (0522) 921276 Editore proprietario ISTORECO Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Reggio Emilia cod. fisco 80011330356 Registrazione presso il Tribunale di Reggio Emilia n. 220 in data 18 marzo 1967 Rivista quadrimestrale del!' ISTORECO (Istituto per la storia della Resistenza e della Soci~tà contemporanea di Reggio Emilia) Le foto ospitate in questo numero sono selezionate dalla produzione "astratta" di Renzo Vaiani. Risalgono alla fine degli anni '50 e agli inizi del decennio del "boom" economico. Alcune di queste sono state esposte recentemente presso gli spazi della Libreria dell' Arco, mentre altre dovevano diventare parte di una mostra, curata da Vaiani stesso, che non ha avuto seguito. ERRATA CORRIGE Nelle didascalie delle foto alle pagine 77 e 81 del precedente numero, sono state scambiate le diciture relative alla redazione de "II Volontario della Libertà". Landa Landini è stato indicato come Ottavi o Tirelli e viceversa. La storia è uguale a ogni altra disciplina. Ha bisogno di buoni operai e di buoni capomastri, capaci di eseguire correttamente il lavoro secondo piani altrui. Ha bisogno anche di alcuni buoni ingegneri. E costoro debbono vedere le cose da un poco più in alto che dal basamento. Devono poter tracciare piani, vasti piani, larghi piani, alla cui realizzazione possano poi lavorare utilmente i buoni operai e i buoni capomastri. E per tracciare ampi e vasti piani, occorrono spiriti grandi ed elevati. Bisogna avere una chiara visione delle cose. Bisogna lavorare d'accordo con tutto il movimento del proprio tempo. Bisogna avere orrore di quanto è meschino, angusto, povero, antiquato. In breve, bisogna saper pensare. (L. Febvre - 1941) 5 .. . ... .... ... . ... . ... .. .. . ... . .... 8 Editoriale Massimo Storchi 12 Riflessioni Salvatore Fangareggi Antonio Zambonelli 18 Conversazioni Enzo Santarelli 30 Saggi Marco Fincardi 68 Mobilità bracciantile e secolarizzazione nella pianura padana Documenti Giuseppe Dossetti 80 Una "storia in corso" (a cura di Antonio Canovi) Gli inediti di "Benigno" (a cura di Salvatore Fangareggi) Didattica Antonio Brusa Il nuovo curriculo di storia 112 Schede (a cura di Alberto Ferraboschi) 120 Recensioni Marco Fincàrdi L' ambigua transizione. I processi ai fascisti 7 Lavorare sulla memoria del passato significa anche confrontarsi quotidianamente con la contemporaneità che pure quella memoria contribuisce a formare ed elaborare. In un processo continuo di verifica e analisi, i territori della ricerca vengono così progressivamente modificati e messi in discussione in un rapporto aperto con altri percorsi culturali e con le sensibilità e le domande che si evidenziano ai margini dell'attività storiografica in senso stretto. MASSIMO STORCHI Questo processo ha conosciuto, in un passato anche recente, troppi vincoli e limiti contingenti legati a contesti variabili che hanno finito per favorire, se non omissioni e trascuratezze, almeno pigrizie e coazioni a ripetere schemi e percorsi ormai logori e incapaci di rispondere alle esigenze di un reale che andava rapidamente modificandosi. Di questi limiti proprio la storiografia della Resistenza ha subìto i danni maggiori, arrestandosi spesso in una compiaciuta autocontemplazione e auto celebrazione che ha impedito poi, nella maggior parte dei casi, di produrre risposte efficaci in occasione delle ricorrenti campagne (di stampa e non) volte a ridiscutere -strumentalmente per la maggior parte dei casi- proprio il nodo legato alla lotta armata e alla riconquista della democrazia. Questo blocco ha impedito anche la maturazione di un corretto 'senso storico' diffuso, aprendo il campo alla diffusione di prodotti di argomento storico ma che con la storiografia non hanno nulla a che vedere. Di questi fenomeni Reggio è stato (ed è) teatro ripetuto e fertile palcoscenico. Da queste aporie giunge a scuotere la sensibilità dei testimoni e degli addetti ai lavori la realizzazione di operazioni massmediologiche di 9 indubbio effetto ma di altrettanto chiaro intento strumentale come quelle prodotte negli ultimi tempi da radio e televisione di stato ("La voce dei vinti" e l'intervista con il "Boia di Albenga"). La voce dei "vinti", decontestualizzata e confezionata secondo canoni convincenti di 'imparzialità', arriva a mettere in mostra i ritardi accumulati e ci richiama ad una riflessione e ci invita ad un maggior rigore in futuro. Quante volte infatti la voce dei "vincitori" è suonata opaca, ripetitiva, autoreferente. Impegnati a (ri)costruire una memoria che si voleva la migliore possibile, almeno adeguata all'importanza dei valori che avevano motivato quella scelta, ci si é ritirati dal confronto, da quel continuo allargamento del territorio della ricerca che rimane alla base di un approfondimento corretto e collettivamente utile. Così oggi una memoria "bloccata" come quella dei reduci di Salò, degli "sconfitti", ci pone di fronte, ancora una volta, al problema di ridefinire limiti e schemi per un nuovo percorso storiografico che sia in grado di riprendere i fili, spesso dispersi e taciuti, di una esperienza che è stata, ed è, fondante della nostra società e del nostro modo di concepire lo Stato e i rapporti politici in senso lato. Si tratta di sfuggire alla strettoia fra revisionismo 'a la page' e rivendicazionismo a tutti i costi per costruire una 'nuova storiografia' della Resistenza alla quale tutti possano concorrere ma solo su basi di rigore scientifico e di piena libertà ed autonomia. Non si tratta di ricostruire, a tutti i costi, una definitiva "storia unica" nazionale, ma di contribuire, portando alla luce i tanti nodi problematici, alla ripresa di un confronto il più preciso e articolato possibile, prendendo atto di come esistano memorie 'divise' fra vincitori e sconfitti, fra chi scelse l'una parte o l'altra. Memorie sedimentate e inconciliabili. Alla sensibilità e alla intelligenza di ogni cittadino poi la scelta e le opzioni finali, ma in perfetta chiarezza di percorsi e con il massimo di informazioni possibili per tutti. Questo numero di RS, il sesto della nuova serie avviata nel 1995, esce in una composizione differente dalla sua struttura ormai consolidata. La scomparsa, avvenuta nei mesi scorsi, di Giuseppe Dossetti è sembrata un evento di tale rilevanza da giustificare tale mutamento. Le lettere inedite del periodo della lotta armata, che lO vengono pubblicate, sono un elemento di grande interesse proprio nel senso appena accennato, di fornire nuovi elementi e materiali per riavviare una riflessione sulla nostra storia resistenziale e non. In tutto ciò la figura di Giuseppe Dossetti, partigiano, uomo politico e monaco mi sembra rappresentare una sintesi di grande efficacia e spessore, capace di fornire abbondanza di spunti che la rivista vuole soltanto accennare in larga sintesi. RS vuole anche ricordare un'altro reggiano recentemente scomparso: Renzo Vaiani, al quale ero legato personalmente da stima e amicizia pluriennali. Riservare alle sue immagini (realizzate a Milano alla metà degli anni cinquanta) il consueto percorso iconografico é un modo anche per ringraziare un artista (o forse meglio un 'artigiano' nel senso più alto del termine) che ha dato tanto per conservare la memoria di questa città, memoria che, con grande sensibilità e intelligenza, le istituzioni pubbliche hanno saputo tutelare e difendere, assicurandosi già da tempo l'intero archivio fotografico che la dinastia Vaiani (Mario, il padre, e Renzo) hanno contribuito a costruire in quasi un secolo di attività. 1l = o .~ • Giuseppe Dossetti ci ha lasciato ormai da ottuagenario, ma proprio nel momento in cui il suo rinnovato impegno civile rendeva più prezioso e indispensabile il suo messaggio. SALVATORE FANGAREGGI Egli ribadiva sovente che, secondo una storicamente consolidata consuetudine, quando circostanze eccezionali lo richiedano è necessario che anche i monaci interrompano il silenzio per portare la loro parola alla comunità civile. La frequenza e la continuità degli interventi di Dossetti negli ultimi anni, realizzati senza escludere alcuno degli attuali mezzi di comunicazione, rivelano una cosciente preoccupazione per l'avvenire della Repubblica a fronte di improvvisate quando non maliziose, tendenze riformatrici della carta costituzionale, anche nei suoi principi fondamentali. Per scontata che sia l'affermazione, non può negarsi che sta a tutti noi non lasciare cadere il suo ultimo messaggio. Non si tratta soltanto di mantenere in vita e se possibile potenziare i Comitati per la difesa della Costituzione. Per evitare che, spentasi reco della liturgia esequiale, svanito ormai il profumo d'incenso, si torni tutti a casa pronti ad erigere un ideale monumento ad una straordinaria figura della storia d'ltalia e della Chiesa cattolica, e d'uopo portare avanti i contenuti della sua lezione, perché nella prossima stagione di rinnovamento istituzionale siano evitate involuzioni rifonnistiche- e pericolose tentazioni autoritarie. Si profila dunque l'esigenza di un approfondimento della figura 13 e del pensiero di Giuseppe Dossetti nella sua globalità, il che potrà avvenire affrontando la sintesi dei tre aspetti fondamentali: il giurista, il politico, l'uomo di Dio. Non c'è dubbio che da sempre, Dossetti si ritenne consacrato, e I:impegno pubblico non fu che una doverosa conseguenza per il suo essere cristiano, motivata dalle contingenze storiche che non gli consentirono di rimanere ai margini. E' da augurarsi che si dia inizio ad una organica composizione storico-biografica che non trascuri alcuno dei molteplici aspetti della personalità di Dossetti Per parte nostra, riteniamo di rendere omaggio alla memoria del Dossetti della Resistenza, pubblicando alcune sue lettere inedite inviate dalla montagna all'amico Ing. Domenico Piani, nelle ultime settimane precedenti la Liberazione. Un piccolo ma significativo contributo agli studiosi della vicenda partigiana di Dossetti. 14 1123 gennaio scorso è morta all'ospedale di Reggio, novantunenne, la professoressa Lina Cecchini, dopo anni di una malattia alle ossa che le aveva rattrappito il corpo senza spegnerne lo spirito. Per una singolare coincidenza, il suo decesso è avvenuto a pochi giorni di distanza di quello del monaco prof. Giuseppe Dossetti, a fianco del quale Lina Cecchini era stata fin dai primi anni quaranta, partecipando a quei "Gruppi del Vangelo" che prepararono una generazione di cattolici reggi ani alla Resistenza. La sua salma riposa ora nel cimitero di Laterino, in provincia di Siena, di dove era originaria. ANTONIO ZAMBONELLI "Dossettiana" in politica, come nella ispirazione religiosa, dopo aver partecipato alla lotta di liberazione Lina Cecchini fu protagonista della costruzione della Democrazia cristiana in provincia di Reggio, ed in particolare del Centro italiano femminile, contraltare dell'Unione donne italiane. Quando Dossetti , sconfitto nel confronto con De Gasperi, si dimise da parlamentare, nel 1950, Lina Cecchini gli subentrò in quanto prima dei non eletti, rimanendo però in carica solo per pochi mesi. Ma della professoressa Cecchini in tanti ricordano soprattutto il ruolo di educatrice. Insegnante di filosofia e pedagogia all'Istituto magistrale di Reggio dal 1937 al 1973, ha contribuito alla formazione di centinaia di maestre e maestri. Non essendosi mai sposata, dedicava interamente il suo tempo, oltre che all'associazionismo cattolico, alla scuola ed ai suoi allievi. Il rapporto con questi ultimi non si esauriva nelle lezioni o nei colloqui tra le mura scolastiche. Chiunque, tra i suoi allievi, avesse bisogno di aiuto, sia sul piano 15 intellettuale che su quello materiale, trovava in lei una disponibilità totale. Religiosissima, come testimonia la sua intera esistenza, parzialmente impegnata anche in politica, ebbe sempre un dialogo sereno ed aperto con quanti, tra i suoi allievi, manifestassero posizioni ideali anche antitetiche alle sue. Anzi, secondo la parabola della "pecorella smarrita", era particolarmente attenta a chi si professasse "ateo" o agnostico. Ma senza cingere nessuno d'assedio a scopo di proselitismo. Socraticamente, poneva più domande che fornire risposte preconfezionate. Tutti i suoi atteggiamenti erano improntati ad un impegno etico che le veniva in particolare dal suo amato Agostino di Ippona, il padre della Chiesa al quale aveva dedicato, nel lontano 1934, il primo dei due soli libri di cui ci risulta sia stata autrice, Il problema morale in S. Agostino, Reggio Emilia, Libreria editrice "Frate Francesco", 1934; (il secondo, Facciamo del bene, R.E., 1965, è una documentata biografia del francescano Padre Ruggero da Vezzano Ligure, fondatore dell'Ordine delle "Piccole Figlie di S. Francesco). L'altro Autore che le fu sempre particolarmente caro, ed alla cui conoscenza chi scrive queste note è grato di essere stato avviato, è il Blaise Pascal delle Pensées. Una delle più toccanti testimonianze del suo impegno etico e civile, la professoressa Cecchini la diede nel lontano 1938: il prof. Pardo, ebreo, venne destituito da preside dll'Istituto magistrale di Reggio. Dopo aver preso commiato dal corpo insegnanti, si incamminò verso la stazione per rientrare a Bologna. Nell'atrio della stazione ebbe la gradita sorpresa di trovare la prof. Cecchini ed alcune altre insegnanti venute per un ulteriore saluto che fu anche gesto di protesta contro le leggi razziste di Mussolini. Gli offrirono - come ha testimoniato la vedova del prof. Pardo - "fiori, lettere, regali e ricordi. Tra questi anche una sveglia con l'augurio 'che possa segnare ore più liete". La scelta resistenziale di Lina Cecchini veniva dunque da lontano e si consolidò in vari momenti significativi. Dalla partecipazione al convegno di Piacenza, estate 1942, del Movimento laureati cattolici sul tema Se la morale cristiana legittimi la rivolta contro la tirannide, alla presenza in quei "Gruppi del Vangelo" che si riunirono periodicamente, a Reggio, nella Sala capitolare del Vescovado, fino 16 all'autunno del 1943, e che ebbero tra i relatori personalità come don Primo Mazzolari. Pochi giorni prima della sua morte, ricevette in ospedale la visita di un altro protagonista della resistenza cattolica, don Angelo Cocconcelli. "Noi, alla nostra età, dobbiamo essere pronti ... ", le disse don Angelo. "Ah, sono pronta! .. ", rispose Lina Cecchini. Siamo certi che essa era davvero pronta, come il suo Agostino, "alla pace del riposo, la pace del Sabato, la pace che non conosce sera". Nel rinnovare da queste pagine le condoglianze di Istoreco ai famigliari della professoressa Cecchini, non possiamo fare a meno di ricordare con commozione che Essa fu abbonata alla nostra rivista, ininterrottamente, fin dalla fondazione. 17 .~ = Una listo ria in co rso" D. Nell'introdurre la sua "Storia critica della Repubblica", pone subito un'affermazione che ne restituisce la dichiarata problematicità: "un libro di storia, oggi, va sempre, in qualche misura, controcorrente". Si riferisce ad una sorta di "oscuramento" indotto dal gran brusio dei mezzi di comunicazione di massa o ad una vocazione-" scomoda" quanto risorgente ad ogni epoca propria dello storico? a cura di ANTONIO CANOVI ENZO SANTARELLI Enzo Santarelli è ordinario di storia contemporanea presso l'Università di Urbino, ha partecipato alla guerra di liberazione e dal 1948 è stato- e rimane- un militante della sinistra su posizioni comuniste. Tra le sue importanti opere, segnaliamo in particolare l'ultima, Storia critica della Repubblica, /'Italia dal 1945 al 1994, Milano, Feltrinelli, 1996. Santarelli. Mi riferivo, in prima istanza, fondamentalmente, alle difficoltà peculiari che la storia oggi sembra incontrare. Si pensi a certi slogans come "la morte delle storia", al ruolo dei mass-media in tutta la vicenda del revisionismo storico e, in Italia, al torbido gioco che si è innescato, fra il '93 e i1'94, su alcuni concetti o pseudo concetti come "partitocrazia" e "consociativismo". Stimolato da Aldo Garzia, ne avevo già parlato in un libretto dell'autunnno de1'94, che peraltro era già pronto prima dell' estate, uscito per Datanews, Il vento di destra. In Italia, in particolare, c'è stata una "deriva" che ha toccato il potere e l'intellettualità, non senza reciproci rapporti. "Deriva" che con maggiore o minore intensità dura tuttora e scava nel profondo dei rapporti sociali e degli indirizzi culturali. La normale e classica opera di revisione storiografica si è così trasformata in una moda in cui a volte sembrano contare di più i momenti giornalistici o politici che lo studio e la ricerca. In questa Storia critica della Repubblica, ho dedicato qualche pagina a ricostruire (e in un certo senso a nobilitare) il percorso dell'idea di "partitocrazia" dal tanfo fascistico e qualunquaio, come diceva 19 Gabriele Pepe nell' immediato dopoguerra, al rilancio dei radicali che in un certo senso ne sono gli epigoni, avendo trapiantato e spostato " a sinistra" le tesi altrimenti pensate da Giuseppe Maranini. Se avessi avuto più il spazio e più tempo, allo stesso modo si sarebbe potuto ricostruire la vicenda della "rivoluzione italiana", fra "Corriere della sera" e Mario Segni, di cui poi si impadronì una destra pseudoliberale e nostalgica. Voglio dire che tanti momenti di cronaca attendono ancora di ricomporsi in un'autentica pagina di storia. A me toccava, e avevo scelto, di inquadrare il tutto in un breve saggio, in cui indubbiamente si avverte la passione civile e politica. La domanda coglie alcune motivazioni psicologiche dell'autore, anche i limiti che mi sono posto, pur nella riaffermata problematicità storiografica. Nella nota introduttiva accenno al fatto di una lunga incubazione e, quasi per contrasto, ai tempi rapidi di un libro scritto di getto. In un dibattito alla libreria Bibli, a Roma, il primo in assoluto, tenuto proprio alla immediata vigilia del 21 aprile, Lucio Villari ha rilevato questa apparente aporia. Per rispondere fino in fondo, sento dunque di dover richiamare il contesto tra attualità e storia in cui il libro è stato concepito, è nato, ha esordito. Ma c'è anche un contesto di diverso spessore, c'è un quadro ideale di riferimento. Voglio solo ricordare, a questo proposito, l'antologia storica su La lotta politica in Italia dall' Unità al 1925 apprestata su uno sfondo di rara intensità da Nino Valeri. Finito di stampare nel dicembre del 1945 e messo in circolazione da Le Monnier all'inizio e con la data del 1946, quel libro recava un sottotitolo che ancor oggi fa riflettere: Idee e documenti, una coppia dialettica oggi quasi in disuso. Ma quanti giovani comunisti e giovani democratici, delle più diverse sfumature, si educarono e si esercitarono allora, in quel vigoroso tornante della storia patria, sulle idee e i documenti che riandavano a Mazzini, a Carducci, a Cavour, e passando per Croce, Giolitti e Salvemini, rivelavano infine Sturzo, Gobetti, Gramsci? La Storia critica, a petto di questi precedenti, vuoI essere, oltretutto,un contributo alla saldatura fra una situazione e l'altra, fra una generazione e l'altra, un tramite indiretto al rinnovamento e riorientamento della cultura politica in Italia. 20 D. Veniamo alla partizione del volume. La terminologia adottata per raccontare il mezzo secolo di repubblica- in seguenza: "Transizione e metamorfosi", "Intermezzo", "I nodi una crisi"- imprime al saggio l'andamento di una "storia in corso". Viene da pensare che, a suo parere, la prima "anomalia" di questa vicenda italiana stia nella refrattarietà ad essere categorizzata; l'ultimo capitolo, in particolare, fa aperto voto di scetticismo (cfr. "Una rivoluzione italiana" ?) e lascia il lettore entro una dimensione sospesa, insiema suggestiva ma un poco frustrante. Santarelli. È doppiamente giusto dire che si tratta di una "storia in corso": nei fatti e nell'interpretazione. Non a caso parlo di "opera aperta": una ricerca che ormai spetta a molti altri di proseguire, discutere, elaborare. Del resto mi sono mosso sulla base di un gran materiale bibliografico, di un dibattito storiografico e di opere storiche che, soprattutto sul primo periodo di vita della Repubblica, hanno affrontato e posto alcune questioni di fondo. Invece -si veda l'attuale confronto sugli anni settanta-, quanto al versante più recente della nostra storia nazionale, il dissodamento nel dibattito e nella ricerca sta appena affiorando. E vengo alla seconda parte della domanda. Per questo, per una puntualizzazione sufficiente, debbo esporre un mio punto di vista generale. È vero che il "messaggio" di questo lavoro può essere più immediatamente inteso nella ricerca, alquanto scontata e ripetiti va, delle peculiarità italiane nella refrattarietà della vicenda italiana ad essere categorizzata. Ma non ignorando alcuni classici punti di riferimento in questo senso, ho cercato di calare le strutture e le immagini della odierna Italia in un contesto molto più attuale e concreto, che lascio al lettore di ripercorrere e approfondire. A mio avviso l'Italia odierna ha acquistato (e verrà acquistando) una certa consapevolezza di essere sospesa e di muoversi come società e come economia, in definitiva come nazione, fra Europa e Mediterraneo. Tutta la seconda metà del secolo, questi ultimi decenni del Novecento, cos'altro vogliono dire se non la grande trasformazione del boom economico, industriale, urbanistico, con tutte le conseguenze di secolarizzazione, emancipazione delle donne e dei giovani a petto dei poteri tradizionali, su cui hanno insistito prima del sottoscritto Ginsborg, Scoppola e Lanaro? Ma va anche veduto con chiarezza che l'Italia appartiene all'Europa meridionale, e forse gli attuali movimenti di opinione pubblica 22 e anche di disagio fra il Nord e il Sud, hanno questo significato di ricerca e collocazione di un ruolo più consapevolmente diffuso e stabile nella società, cultura, politica europea, senza perdere il senso della tradizione mediterranea. Quindi la crisi italiana attuale potrebbe essere anche interpretata come una crisi di crescenza, di assestamento e insieme di rielaborazione del carattere e della società nazionale. È il contrario, su un periodo sufficientemente ampio e in una prospettiva di qualche respiro, di quanto non dicano oggi certi funebri vaticini sulla morte della patria da riscattare soltanto muovendosi verso destra. E vengo all'appunto di scetticismo nei confronti della cosiddetta "rivoluzione italiana", per cui lascerei il lettore in una dimensione sospesa, forse suggestiva ma un po' frustrante. In testa al volume avevo ripreso alcune parole di Gobetti le ultime di Rivoluzione liberale: "A questo punto è evidente che una nostra profezia riuscirebbe troppo interessata e, per quel che non nasce dal contesto, spetta piuttosto all'iniziativa del lettore". Ho troppo rispetto per i lettori per evitare, comunque, di trarre conclusioni in un libro che intende esercitare e provocare la critica storica. Perciò quei due o tre interrogativi che aprono e costellano l'ultimo capitolo: "Una rivoluzione italiana? Un nuovo trasformismo? Quale repubblica? Comprendo il senso sottilmente provocatorio della domanda: ma come anticipare i tempi? Tutto il libro è un po' storia del presente. Anche i lettori di oggi,1997 e in una certa misura di domani, se il libro resisterà, potranno sciogliere, con le loro forze, quei problemi. Il mio è un atteggiamento di fiducia. D. Il saggio, alleggerito della consueta retorica dell"'epilogo", procede stendendo un ordito lasciato spesso sotto traccia, laddove l'invenzione narrativa del!' "Intermezzo" consente di connotare l'estrema coerenza dello sguardo. Per lo storico, infine, viene ritagliato un primato della "morale" il cui segno mi pare niente affatto scontato: vi si riconosce il singolare stile della militanza intellettuale (gli espliciti richiami a Gobetti e a Gramsci), e ancora una perorazione metodologica -a privilegiare le "memorie lunghe" che abitano la società a noi contemporanea- che merita qualche approfondimento. 23 Santarelli. Suggestivi e pertinenti mi sembrano i richiami alla militanza intellettuale, alla cerchia ideologica Gramsci-Gobetti, al privilegiamento delle "memorie lunghe". E in effetti mi ero proposto, forse in primissimo luogo, un appello-ripristino-rilancio della "memoria storica". Certo che questo nodo merita qualche approfondimento! Ma come vorrei che venisse letto questo libro? Dando più spazio a certe cose e certe parole. Intendo dire che al di là della militanza intellettuale, del tratto etico-politico che pure vi si può leggere, del resto apertamente sottolineato, la critica e i dibattiti ai quali ho partecipato, salvo poche voci, hanno lasciato un po' in ombra o addirittura hanno trascurato alcuni fondamenti o pilastri dell'intero discorso. Alludo qui ai momenti strutturali di tutto il lavoro. Per esempio a tutto il capitolo, è il terzo, interamente dedicato agli anni dello sviluppo economico, che non dimentica né l'analisi né il metodo marxista. E qui debbo toccare altri due punti. Il primo riguarda la partenza di queste pagine, i primi due capitoli che in un rapido giro d'orizzonte impostano la prospettiva, per così dire, di tutto il lavoro. La problematica della Resistenza, le opzioni della sinistra o delle sinistre (avrebbero potuto essere diverse?) sono viste sullo sfondo sia della vischiosità del riscatto anche umano e di massa dalle eredità del fascismo e prefascismo sia dell'incombere di rapporti di forza sociali e internazionali non troppo favorevoli a una svolta politica progressista. Il secondo punto riguarda il tentativo di dare voce agli operai e di farli parlare realmente in modo diretto o indiretto, in alcune situazioni discriminanti. La mia non si può dire una storia di estrema sinistra in senso ideologico, ma i rapporti di classe stanno al centro di una certa visione sociale, attraversata da una dialettica mai nascosta fra struttura e sovrastruttura. Non mancano dunque la lotta, la vita e la presenza delle classi subalterne. Dai contadini calabresi che avviano dall'autunno '43 uno dei più grandi movimenti di massa dell'Italia postbellica, al disperdersi del bracciantato agricolo della Padania: naturalmente ho portato all'attenzione del lettore una piccola serie di lavori di storia sociale del movimento operaio. Ma l'aspetto che forse mi è più caro consiste nell'aver ricordato alcuni semisconosciuti protagonisti o vittime: Turi Scordu, il minatore morto a Marcinelle nel 1956, la figura di un solfataro disoccupato perché scioperante che appare ne Il treno del sole di Ignazio Buttitta, 24 o quell'operaio di Torino, si chiamava Otello Pacifico, che Alberto Papuzzi ha ricordato nelle pagine de Il provocatore, a proposito del sistema repressivo Fiat negli anni più duri della guerra fredda. O infine la stessa sconfitta degli operai di fabbrica del nord-ovest, nelle parole di uno scrittore come Volponi e di un delegato del sindacato dei consigli, nella lotta del 1980. Curiosamente questo Giovanni Falcone, che figura nell'indice del nomi, si chiamava come il giudice poi caduto in Sicilia sotto i colpi della mafia. Ma non potevo dimenticare, data questa impostazione né i capitani d'industria, né alcuni grandi manager, nè quegli esponenti del nuovo capitalismo rampante, alla Berlusconi, che segnano il trapasso dagli anni ottanta ai novanta! D. I nodi intepretativi così enfatizzati vengono colti nel fuoco evenemenziale, e -la dialettica storiografica tra passato e futuro acquisisce il senso di un processo che si colloca in un tempo a noi prossimo ("presente"). Il "trasformismo" e il "familismo ", tra gli altri, mi sono parse due categoria particolarmente vivide e invasive. Le chiedo allora: in che modo vi legge la "crisi della nazione italiana" sui cui ritorna ripetutamente nel volume? Santarelli. Qui la risposta può essere più breve, proprio perché ritengo che il discorso storico debba intrecciare gli eventi ai problemi, sono alquanto lontano da ogni sorta di "modelli" e cerco di usare con prudenza certe categorie. Ho puntualmente segnalato, nella crisi dell' era democratica cristiana, il ricorrere del dibattito sul trasforrnismo e l'attualità degli studi di Giampiero Carocci su questo terreno. Del resto il trasformismo dei partiti è, oggi, sotto gli occhi di tutti. Debbo dire che scrivendo ho usato questa discriminante; per esempio la lotta delle classi, la contrapposizione ideologica fra gli schieramenti caratterizza tutto il periodo della nascente democrazia repubblicana e l'azione politica di uomini di uomini come De Gasperi e Togliatti. Per Moro e il centro sinistra ho ancora raccolto suggestioni che vengono da certi confronti di Carocci. Quanto al Fascismo sono abbastanza lontano da Banfield. Uso l'espressione, un po' ironicamente, a proposito dei nuovi arrivati della finanza, dell'industria, del commercio, dalle radici padane, quindi lontani da Montegrano, il villaggio meridionale studiato dal sociologo americano. 26 Sulla questione del "familismo" in sede storica mi sento più vicino a Ferrarotti che a Ginsborg. Credo che nella mia interpretazione, o meglio ricostruzione e visione delle cose e dei problemi, ci siano più fili e motivi di quanto non possa apparire da una lettura che pone al centro la coppia trasformismo-familismo. Infine non mi pare di parlare testualmente di crisi della nazione italiana. Se mai è una crisi a più livelli: sociale, morale, politico-istituzionale, economico. Questo sì, una crisi della compagine italiana. Mi sento lontanissimo dalle tesi sulla morte della patria. Chiudo il volume con le parole di Alcide Cervi: sapienza contadina da una parte, innesto sulla resistenza dall'altra. Per uscire da una crisi non meno composita e certo più profonda di quella odierna. D. Vi sono infine due nodi che, una volta sollevati, sembrano ricadere un poco su se stessi, insomma restano veri, brucianti "problemi" sui quali vorrei ritornasse. Mi riferisco all'influenza del papato come crocevia tra politica nazionale e quadro internazionale (lei parla di questi primi cinquant'anni come espressione di una repubblica "guelfa" nel tempo della "guerra fredda "), e all' esplicito timore nei confronti di un'economia di mercato sottratta al primato della politica (laddove, alla luce delle note formulazioni circa la "società dei due terzi ", ritorna sopra l'emergenza dei cosiddetti" ceti medi ", sinora più evocati che studiati). Santarelli. Non vorrei andare molto più in là di quello che ho già scritto. Riferendomi fra l'altro al vecchio Labriola. Da parte mia ho risolto la questione quasi con una battuta: l'Italia ha luoghi santi, ma gli italiani se ne rendono conto, laicamente, troppo poco. Sul Papato come crocevia: questo continuerà ad essere vero; il sogno di "svaticanizzare" il paese corrisponde ad un pensiero debole e fragile. Altri interventi ne avremo e ne abbiamo ancora sulla fine del millennio, vedi finanziamenti alle scuole private o cattoliche, per non parlare delle virulente campagne contro la legge sull'aborto. L'espressione "repubblica guelfa" la derivo da Jemolo, è frutto degli anni della guerra fredda e delle crociate anticomuniste; la utilizzo poi in contrasto con la dichiarazione di decadenza o fine della prima repubblica. In realtà cade una forma di governo della repubblica, quella caratterizzata appunto dal predominio dello scudo crociato. "Società dei due terzi": è ormai un problema globale, con addentellati 27 e manifestazioni molto particolari in Italia. Le forze sociali e intellettuali più consapevoli, su questo problema sono in allarme, e questo può bastare almeno in sede storica. Forse oggi anche qualche fetta marginale dei ceti medi si sente minacciata nella sua sicurezza sociale. In ogni caso penso che si doveva dar conto di un problema aperto, del suo venire avanti attraverso le maglie del nostro Mezzogiorno e attraverso la stessa crescita, non solo numerica, ma un po' abnorme dei ceti intermedi, terziario finanziario ivi compreso. Voglio soltanto aggiungere che fare storia della repubblica, degli italiani in questi cinquanta anni, che pure ho vissuto, è stato per me una notevole e continua scoperta. La scoperta dell'Italia (si intitolava così un libro di Giorgio Bocca in pieno boom) non finisce qui. Al senso di consapevolezza critica del passato e dello stesso presente, torno ancora ad appellarmi. Del resto, sul piano cognitivo e politico, toccherà soprattutto alle giovani generazioni che vengono alla ribalta calarsi nel vivo del confronto ideale. 28 , MOBILITA BRACCIANTILE E SECOLARIZZAZIONE NELLA CULTURA PADANA GUASTALLA E MANTOVA ALLA FINE DEL XIX SECOLO 1 - Il lavoro itinerante Dalla metà del XIX secolo alla metà del successivo - guardata nel lungo periodo in cui avvenne la modernizzazione delle campagne - l'emigrazione appare di scarso rilievo quantitativo nella pianura a sud del Po. Eppure, negli ultimi tre decenni del XIX secolo la mobilità territoriale del bracciantato ebbe una parte fondamentale nel condizionare culture popolari e equilibri politici regionali, oltre che per fornire alla seconda rivoluzione industriale quella che Marx definì la "cavalleria leggera" del capitalismo. Senza una considerazione attenta di questi dati, si perdono importanti elementi di comprensione sulle trasformazioni sociali e culturali basilari per la politicizzazione degli ambienti popolari nelle campagne emiliane e padane. L'importanza del fenomeno è stata rilevata da Hobsbawm. MARCO FINCARDI Ha conseguito il diploma di specializzazione (D.E.A.) "Histoire et civilisation" presso l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, e il dottorato di ricerca "Crisi etrasformazione della società" presso l'Università di Torino. Insegnante di scuola media superiore, è attualmente ricercatore con una borsa di studio presso l'Università "Cà Foscari" di Venezia. "Perfino le migrazioni temporanee o stagionali di mietitori o costruttori di ferrovie italiani o irlandesi potevano spingersi ormai al disopra degli oceani. [00'] Poiché di ferrovie se ne costruivano dovunque, potevano non contare necessariamente sulla manodopera locale, ma sviluppare un corpo di lavoratori nomadi [00']. Nella maggior parte dei paesi industriali, questi erano reclutati fra i marginali e gli instabili, pronti a lavorar sodo in condizioni difficili per una buona paga, e a bersela o a giocarsela con altrettanta caparbietà, ben poco pensando all'avvenire. [00'] Per gli sterratori mobili, finito un grande progetto ne saltava sempre fuori un altro. Uomini liberi ai confini dell'industria, scandalo per le persone rispettabili di tutte le classi, eroi di un folklore non ufficiale di 31 mascolinità, essi recitavano più o meno la stessa parte dei marinai e dei minatori e cercatori di frontiera, benché guadagnassero meno degli uni e non avessero la speranza di far fortuna degli altri. Nelle società agrarie più tradizionali questi costruttori mobili formavano un ponte non irrilevante fra la vita rurale e quella industriale. Organizzati in gangs o squadre regolari sul modello dei mieti tori stagionali, guidati da un capitano eletto che negoziava le condizioni di lavoro e distribuiva i proventi del contratto, gruppi di contadini poveri d'Italia, di Croazia o d'Irlanda facevano la spola da un capo all'altro non solo di continenti, ma perfino di oceani, per fornire 1) ERIC J. HOBSBAWM, Il trionfo della borghesia 1848/1875, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 247-248. braccia ai costruttori di città, fabbriche o ferrovie."(l) In diversi paesi europei e americani, i nativi chiamavano rondinelle questi operai stagionali italiani - chiassosi, ma ammalati di nostalgia - che arrivavano e ripartivano secondo le fluttuazioni cicliche del mercato del lavoro, o addirittura condizionati, nei loro spostamenti per il mondo, dalla stagione dei raccolti al loro paese. 2) Oltre agli studi della Divisione generale di statistica del Ministero agricoltura, industria e commercio (da qui segnato con MAIC, DGS), per la provincia mantovana, mi rifaccio ad uno studio attento al dibattito sull'emigrazione, ma che non fa le dovute distinzioni tra l'emigrazione temporanea e quella definitiva: MARCO GANDINI, Questione sociale ed emigrazione nel mantovano. 1873-1896, Mantova, Biblioteca Archivio, 1984. I dati sui flussi migratori dalla bassa reggiana li ricavo dai passaporti rilasciati dalla Sottoprefettura di Guastalla (ASRE, PS Guastalla 1857-1886, B. 1867-1886 Passaporti esteo). I dati citati da Gandini sono ricavati principalmente da una fonte analoga, relativa alla provincia di Mantova. Una statistica ricavata dai passaporti ha due limiti: tra chi otteneva il documento vi erano persone che non partivano, mentre altre partivano clandestinamente senza il documento. Per l'emigrazione intereuropea il passaporto non era sempre indispensabile. Mancano finora studi sull'emigrazione temporanea all'estero dalla bassa padana. Il fenomeno, seppu,re iniziato precocemente, non ha avuto l'ampiezza quantitativa sviluppata nelle province dell' arco alpino, dove si è caratterizzata come un susseguirsi di esodi, prima ancora che le popolazioni appenniniche prendessero a loro volta strade simili. Poi, si tende a studiare la rilevanza degli emigranti nei paesi d'arrivo, piuttosto che in quelli di partenza. Rimane così occultato un aspetto dell'emigrazione, che ha avuto una consistente portata storica, con vistosi effetti sulle culture rurali della pianura emiliano-lombarda. Comunque, i dati attendibili sono di difficile reperimentoC2). Alla fine del secolo scorso, il responsabile sanitario dell'amministrazione provinciale di Mantova, in una dettagliata inchiesta statistica sulla povertà e sull' assistenza pubblica nel territorio di sua competenza, dichiarò "quasi impossibile ritrarre dai registri comunali notizie anche largamente approssimative dell'emigrazione temporanea, diretta specialmente in Francia ed in Germania", dal momento che si poteva giungere in quei paesi senza il 3) FRANCESCO BONSERVIZI, Inchiesta sulla pellagra in provincia di Mantova, prefazione di Cesare Lombroso, Mantova, Manuzio, 1899, p. 127. passaportoC3). Secondo uno studio sulla provincia reggiana negli anni sessanta, l'emigrazione temporanea dentro e fuori i confini d'Italia coinvolse per il 64,5% lavoratori industriali e solo per il 31,8% lavoratori agricoli; questi dati, desunti dal primo censimento nazionale e relativi all'emigrazione negli anni sessanta, non valutavano 32 ancora adeguatamente il fenomeno dell'emigrazione oltre frontiera(4). Secondo il prefetto Giacinto Scelsi: "Gli emigrati all'estero si recano per lo più in Francia, Austria e Germania, e pochissimi in America; quelli che emigrano nel Regno preferiscono le Maremme Toscane, La Spezia e le Province Meridionali dove si costruiscono strade ferrate"(5). Sedici anni dopo, uno studio sociale sulla provincia reggiana segnalava per la bassa pianura che "un importantissimo elemento di risorsa per la classe dei cameranti proviene ora dalla emigrazione temporaria, che nei Comuni inferiori della Provincia si effettua su larga scala, e permette agli stessi operai di spedire alle loro famiglie non tenui risparmi"(6). Lo stesso studio segnalava una popolazione bracciantile, le cui presenze nel Guastallese oscillavano notevolmente per i frequenti ingaggi nella costruzione di ferrovie in paesi esteri(7). 4) GIACINTO SCELSI, Statistica generale della provincia di Reggio nell'Emilia, Milano, Bernardoni, p. XXIX. 5) Ibid. 6) Atti della Commissione permanente per la pellagra nella provincia di Reggio per gli anni 1883-84, Reggio E., Calderini, 1886 p. 34. 7) Ibid., p. 48. 2. Badili per lo sviluppo del capitalismo industriale Coi mutamenti della geografia politica causati dalla guerra del 1859, le squadre bracciantili della bassa padana presero a migrare frequentemente a nord del Po, dove gli austriaci necessitavano di molta manodopera, per costruire in tempi rapidi nuove linee fortificate. Così, pure dopo la guerra del 1866 riprese massicciamente l'emigrazione bracciantile oltre i nuovi confini nazionali, dove gli austriaci apprestavano con urgenza il sistema difensivo del Trentino e di Trieste. Il flusso migratorio stagionale era particolarmente intenso dai paesi rivieraschi del Po, dove maggiore era l'eccedenza di manodopera bracciantile e dove i terrazzieri si erano da tempo adattati a questo genere di mobilità. Il sindaco di Gualtieri nell'inverno 1860 tentò di negare i passaporti ad alcune centinaia di terrazzieri che andavano a lavorare per l'Austria; ma una sollevazione popolare lo costrinse a recedere dal suo proposito patriotticO<8). Già negli anni settanta i braccianti della bassa padana si recavano in qualunque posto dell'Europa e dell'area mediterranea in cui fossero richiesti sterratori. Furono soprattutto agenti di compagnie ferroviarie a ingaggiarli, sapendo che le squadre della bassa padana erano ormai specializzate nella costruzione delle massicciate, e ben adattabili a quel genere di vita girovaga. In quel decennio, a molti di questi terrazzieri divennero familiari le vie ferrate che conduce- 8) ANTONIO BESACCHI, L'osservatore del giorno (manoscritto del XIX secolo conservato presso la Biblioteca "Maldotti" di Guastalla), voI. III. 33 9) MAIC, DGS, Statistica generale della emigrazione italiana (consultati 22 volI., relativi alle annate 1876, 1877-1878, 1879, 18801881, 1882, 1883, 1884-1885, 1886, 1887, 1888,1889,1890,1891,1892,1893,18941895,1896-1897,1898-1899,1900-1901, 1902-1903, 1904-1905, 1906-1907, 19081910), Roma, vari stampatori: Bodoniana, Aldina, Fratelli Centenari, Camera dei deputati, Tip. dell'Opinione, Tip. cooperativa romana, Bontempelli, Tip. nazionale Bertero, Civelli, dal 1878 al 1911 (i dati quantitativi vengono riportati in una successiva tabella). Su quanto la mobilità, nel XIX e XX secolo acceleri il mutamento della vita e della mentalità popolari in area padana, esu come tali mutamenti siano stati a lungo sottovalutati dagli studiosi, cfr. DAVID I. KERTZER, DENNIS P. HOGAN, MASSIMO MARCOLlN, Famiglia, economia e società. Cambiamenti demografici e trasformazioni della vita a Casalecchio di Reno (1861-1921), Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 107-149. 10) Atti della Commissione permanente per la pellagra nella provincia di Reggio per gli anni 1883-84, cit., pp. 34-35. 11) Oltre che dalle matrici dei passaporti, le direzioni prese dall'emigrazione della bassa padana sono segnalate dai giornali locali, in particolare dalla "Gazzetta di Guastalla". Sui dati dell'emigrazione emiliana: 34 vano fino all'Italia meridionale, alla Scandinavia e alla Russia. Pure l'emigrazione nell'Impero turco, cioè nelle coste orientali e africane del Mediterraneo, divenne una tappa frequente di questi esodi periodici. Nel 1882 e 1883 un centinaio di braccianti di Santa Vittoria e di Gualtieri andarono a costruire strade ferrate in Senegal. Dal 1866 al 1869 i pochi passaporti rilasciati dalla Sottoprefettura di Guastalla riguardarono in larga parte commercianti e ambulanti (suonatori, artigiani e piccoli rivenditori), che si recavano per lo più in Austria. Tra il marzo e il giugno del 1870, invece, la stessa Sottoprefettura rilasciò quasi trecento passaporti, tutti a giornalieri in partenza per l'Impero austro-ungarico. Da allora, il flusso delle migrazioni restò abbondante fino all'inizio del XX secolo, riguardando essenzialmente braccianti, che periodicamente - solitamente di anno in anno - rinnovavano il passaporto. Nel trentennio tra il 1876 e il 1906, nella bassa padana, che aveva una popolazione di circa 150.000 abitanti, furono rilasciati oltre 40.000 passaporti(91. Ci si può chiedere come apparissero a questi operai le briciole di cultura laica nazionale con cui la borghesia cercava con prudenza di modernizzare la cultura rurale. Per quanto la maggior parte di loro fossero poco istruiti o del tutto analfabeti, la loro esperienza di lavoro in diversi continenti avrebbe potuto trovare probabilmente angusta la retorica liberale di tanti notabili di provincia, con cui avevano spesso rapporti poco cordiali. Oltre tutto, l'emigrazione temporanea portava effettivamente un consistente flusso di denaro alle famiglie proletarie(lOl, incoraggiandole a rivendicare propri diritti e riconoscimento di un proprio rilevante ruolo sociale. Per un certo periodo, dalla seconda metà degli anni settanta al 1896, il flusso migratorio coinvolse anche famiglie coloniche dirette stabilmente in Argentina e Brasile. Come in altre zone padane e nel Veneto, negli anni della grande crisi agraria l'esodo delle famiglie coloniche commosse l'opinione pubblica. Ma nella bassa padana l'immagine degli emigranti rimase essenzialmente legata alle squadre di braccianti - tutti uomini maturi, raramente accompagnati dalla parente di uno di loro che si prestava come cuoca - che in primavera partivano per qualche regione dell'Europa centrale, facendo ritorno ad autunno inoltrato(ll). Attilio Magri, grande affittuale a Gonzaga, assimilava il carriolante mantovano ad un eroe del progresso, vedendolo legato ad un'agricoltura che si industrializzava e alle ferrovie che avanzavano. Cent'anni di emigrazione da Pavullo e dal Frignano (1860-1960), a cura di Maurizio Mariani, Giovanna Martelli e Giuliano Muzzioli, Pavullo, Amministrazione comunale, 1993; L'emigrazione emiliano-romagnola in Francia. Gli scaldini, i reggiani, i rocchesi, a cura di Giovanna Campani, Bologna, Consulta per l'emigrazione e l'immigrazione della Regione Emilia-Romagna, 1987. Sull'emigrazione mantovana: MARCO GANDINI, "La bojel" e l'emigrazione manto vana nella seconda metà dell'Ottocento, "Annali Istituto Cervi", V (1983); IDEM, Questione sociale ed emigrazione nel mantovano, Cit.; sull'emigrazione del secondo dopoguerra: GILBERTO CAVICCHIOLl, L'esodo dalle campagne del Mantovano, Mantova, Istituto mantovano per la storia del movimento di liberazione, 1991. 12) A. MAGRI, Il mio testamento agricolo (manoscritto del XIX secolo conservato presso la biblioteca comunale di Mantova), p. 304. ANDREA BALLETTI, GIULIO GATTI, Le condizioni dell'economia agraria nella provincia di Reggio Emilia, Reggio E., Calderini, 1888, pp. 257-258; cfr. LUIGI TANARI, Circondario di Guastalla, in Atti della Giunta per /'inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Roma, Forzani, 1881-1886, VoI. Il, fase. I, pp. 378, 381. Sulla notevole entità delle rimesse degli emigrati temporanei della bassa padana, cfr. Atti della Commissione permanente per la pellagra nella provincia di Reggio per gli anni 1883-84, cit., pp. 34-35. "Mancando lavori in paese o nei lontani contorni, emigrano temporariamente in compatte brigate, trasportando seco un paiuolo ogni dieci persone nella loro carriola spinta colla tracolla, laddove sanno esservi lavoro ragguardevole di arginature o tracciati ferroviari, non importa se entro i confini d'Italia, ma in Francia, in Germania, in Svizzera o in Russia, dove i lavori sono pagati a 40, a 50 cent.i l'ora, allettandosi così alla fatica minore ed ai relativamente grandi guadagni." (12) L'affinità col mestiere del terrazziere portò presto le squadre di braccianti a cercare lavoro come minatori, in Svizzera e Germania, soprattutto nella Lorena, poi anche in Pennsylvania. Ciò avvenne man mano che nell'Europa e nel Nord America la seconda rivoluzione industriale sviluppò l'industria pesante. 3. - La cariola, il treno, il vaporetto La partenza stagionale di centinaia di operai ed il loro ritorno da lunghi soggiorni in numerosi paesi lontani arrivò a condizionare non poco la cultura e gli equilibri sociali di alcuni paesi della bassa padana. A differenza dei braccianti obbligati, che lavoravano soltanto in agricoltura, senza spostarsi dal paese, e ricevendo retribuzioni prevalentemente in natura, questi operai erano pagati in denaro. I soldi di cui disponevano erano una rivoluzione nelle abitudini dei lavoratori e delle famiglie, che da padroni più o meno occasionali venivano compensati con residue quote di raccolto appena sufficienti alla sopravvivenza e a perpetuare rapporti paternalistici tra ricchi e poveri. Fuori dalla logica dell'autoconsumo, questi lavoratori non erano più integrabili nelle tradizioni contadine, ma avevano un peso nel determinare i costumi locali. La loro necessità di spendere per acquistare beni di consumo che i coloni possedevano in base ai loro contratti agricoli, e l'acquisita abitudine di comprare ciò che un contadino italiano non immaginava neppure di potersi permettere, spingeva molti a diffidare di loro, altri ad ammirarli. Gli studi socioeconomici sollecitati dall'Inchiesta Jacini li ritraevano come dei disadattati, elemento di squilibrio nelle comunità rurali. Per la provincia reggiana si distinguevano nettamente gli effetti dell' emigrazione dalla pianura o dall'Appennino: "Dalla nostra provincia non si emigra definitivamente; che in rari 36 casi: l'emigrante parte sempre colla speranza e col proposito di ritornare. Queste emigrazioni periodiche sono per lo più un bene per l'agricoltura, perché avvengono nella classe dei braccianti nelle zone del colle e della pianura e dei microscopici proprietari al monte e allontanano quindi una parte degli individui che facilmente si dedica ai furti campestri. I risparmi poi che gli emigranti della montagna riportano a casa giovano a migliorare la condizione economica in modo più stabile; gli emigrati della pianura imparano all'estero talvolta scostumatezze e vizi non compensati forse dal risveglio della mente e della cultura pratica che acquistano e non sempre i sudati risparmi vengono spesi con giudizio." (13) Il marchese Carlo Guerrieri Gonzaga, già deputato del collegio elettorale guastallese, notava che l'emigrazione temporanea metteva a repentaglio gli equilibri sociali tradizionali nella sua tenuta agricola, e probabilmente anche il suo ruolo paternalistico di notabile nel 13) A. BALLETTI, G. GATTI, Le condizioni dell'economia agraria, cit., pp. 257-258; cfr. L. TANARI, Circondario di Guastalla, cit., pp. 378, 381. Sulla notevole entità delle rimesse degli emigrati temporanei della bassa padana, cfr. Atti della Commissione permanente per la pellagra nella provincia di Reggio per gli anni 1883-1884, cit., pp. 34-35. villaggio di Palidano, in cui aveva i maggiori possedimenti: "Sopra 182 braccianti 48 erano stati a lavorare in Francia, e ne erano ritornati portando seco le leggende rivoluzionarie dell'89 e del '93. Undici assenti sono in Argentina. [... ] Essi non tollerano più ciò che pur tolleravano altre volte, perché tutto, intorno a loro, li eccita a voler star meglio: fumano, vanno all' osteria, giuocano. Tornando di Francia, dalla Svizzera, dalla Germania ne riportano seco le abitudini di quegli operai. [... ] L'andare e venire dalla Francia ha procurato da un lato dei risparmi e dall'altro dei vizi. I braccianti, che si sono così procurati un discreto peculio, sono fra i più ardenti fautori dello sciopero e dell'agitazione agraria". (14) L'arciprete don Luigi Parazzi, vicepresidente del Comizio agrario di Viadana, individuava nei braccianti avventizi la causa dell'urbanizzazione dei costumi rurali nei paesi vicini al Po: un fenomeno perturbatore che esasperava gli antagonismi tra ceti agiati e proletariato rurale. La caduta dei valori tradizionali, secondo questo sacerdote, poneva seri problemi di ordine pubblico a cui avrebbero 14) C.. GUERRIERI, I contadini d'una parrocchia mantovana. AI/'on. senatore Pasquale Vii/ari, in "Gazzetta di Mantova", 18 maggio 1885. Su Guerrieri, cfr. Memorie e lettere di Carlo Guerrieri Gonzaga, in "Rassegna storica del Risorgimento", Il (1915), n. 1; Memorialisti italiani, a cura di Renato Giusti, Mantova, L:arco, 1957, pp. 171-181; FEDERICO CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, Laterza, 1951. dovuto provvedere la polizia e gli uomini d'ordine, laici o religiosi che fossero. "È con vera compiacenza che si fa fede essere i campagnuoli stabilmente accordati coi Proprietari di fondi la classe più quieta, più contenuta, più relativamente agiata, e nella quale lo spirito di 37 famiglia, di compattezza morale è più vivo, e generalmente forte e fecondo di virtù. Al contrario i campagnuoli, o braccianti, che hanno un lavoro avventizio, sono la vera feccia della infima classe sociale, la gente più scostumata, sempre pronta al furto campestre, alle gozzoviglie, al far baccano, all'abbandonare vecchi genitori, spose e figliuoli, per darsi al vagabondaggio, al turpe accattonaggio, all'uscire del proprio paese in cerca di lavori lucrosi, onde soddisfare alle passioni più disoneste. Non è che costoro non trovino lavoro in ogni tempo dell'anno, generalmente parlando e fatta eccezione a speciali circostanze di territoriali sventure. Neppure è a dirsi che il loro lavoro non venga retribuito convenientemente; [... ] allucinati da esagerate notizie, che ricevono, di grossi lucri giornalieri all'estero, o ai lavori di costruzioni lontane di strade ferrate od altro, vi si recano spensierati, ed ivi dimorano lungo tempo scordati della famiglia, sciupando in stravizi il guadagno del loro lavoro, non compensando neppure le spese di viaggio che per lo più vengono loro anticipate o dai Municipj, o dai privati, a'quali le carpiscono o con strepiti o con mentite promesse e talora con minacce. Dopo lunghi mesi, rifiniti, sciancati, guasti più che dalle fatiche sostenute, dai vizj colà imparati o continuati, giungono a casa peggiori di prima, più insolenti, più svogliati, più irosi contro i proprietarj, più pretenziosi. È naturale così fatti proletarj, mestieranti della miseria, sieno guardati con diffidenza dai proprietarj stessi, e posposti sempre ad altri: è allora che essi si trovano qui senza lavoro; che si danno al furto campestre, al vivere a zonzo, alle spalle delle povere mogli, della pubblica beneficienza; finché viene per essi altra opportunità di dar le spalle al luogo nativo, per continuare la vita di prima. E gli è a questo modo che da alquanti anni abbiamo da una parte un numero straordinario di persone che si danno al fare il bracciante avventizio, e dall'altra parte un aumento sensibilissimo di figlie e spose derelitte, senza dire del decuplo almeno delle bettole riboccanti ognora di coteste criminose genti, che eruttano insolenze e bestemmie contro l'ordine pubblico, contro la proprietà, contro la moralità. Questo nero quadro delle condizioni di tal classe della nostra società, se merita se ne impensierisca chi sta a capo della cosa pubblica, esclude, a subordinato giudizio dello scrivente, la necessità di migliorare la condizione economica de' giornalieri campagnuoli, e ammette quella di pensare al rifiorimento della pubblica moralità. 38 Nel caso più concreto d'emigrazione non si esclude la probabilità che gli emigranti sieno sobillati da tal uni o interessati nella cosa, o vaghi di perturbare con essa l'ordine sociale." (15) Queste valutazioni sulla legittimità dei bisogni espressi dagli emigranti variavano anche secondo le alleanze sociali costruite nelle singole comunità, che facevano apparire più o meno legittimi i bisogni del proletariato. Diciotto capifamiglia - braccianti giornalieri ed artigiani - che nel primo semestre del 1876 avevano chiesto per le proprie famiglie una ottantina di passaporti per il brasile, erano qualificati dal sindaco democratico di Sermide uomini rispettabili e laboriosi, non "mossi dalla smania di divenire proprietari e dalle interessate insinuazioni di agenti arruolatori", ma che "emigrano nella lusinga di migliorare la loro condizione", qualificata "triste", perché "il lavoro dei braccianti è meschinamente retribuito." (16) 15) Archivio di stato di Mantova (ASMN), Atti della polizia italiana (API), B. 229, f. Comizi agrari, relazione del Comizio agrario del Distretto di Viadana al Prefetto di Man· tova, 21 agosto 1876. 16) ASMN, API, B. 229, f. Statistiche emigrazione, relazione dell'assessore anziano del municipio di Sermide (8 settembre 1876). 4 - La sfida dell'emigrare Nel 1876 l'emigrazione della bassa padana divenne improvvisamente il centro di un aspro dibattito politico sulla questione sociale, per effetto di una serie di mutazioni economiche, sociali e politiche, che segnarono una svolta epocale. Il primo governo della sinistra storica e il programma esposto da Depretis a Stradella - in particolare nella proposta di abolire la tassa sul macinato, ma anche in quella di allargare il suffragio elettorale - contribuirono a suscitare dibattiti, mobilitazioni e allarmi nei diversi ceti sociali. La concomitanza di perduranti allagamenti - causa della scarsità dei raccolti del mais, del grano e dei legumi - e di malattie che devastarono le coltivazioni del riso e della vite, fecero di quell'annata una delle peggiori, per la bassa padana. Gli agricoltori, e in particolare gli affittuali, già danneggiati dall'alluvione del 1872-1873, ne subirono le conseguenze e ridussero drasticamente le spese in manodopera e in migliorie fondiarie, decurtando i salari, e non assumendo braccianti nel periodo invernale. Anche gli allevamenti domestici dei bachi da seta, che per le famiglie dei lavoratori rurali costituivano una importante integrazione di reddito, vennero tralasciati, a causa della pebrina(l7). In una simile congiuntura, la crescita dell'emigrazione dei braccianti avventizi contagiò anche gli spesati, mettendo il panico tra gli imprenditori agricoli. L'arrivo nella bassa padana dell'incettatore 17) La situazione economico-sociale del 1876 era descritta dettagliatamente nella relazione del Comizio agrario del distretto di Sermide, inviata al prefetto di Mantova il 23 agosto 1876, in ASMN, API, B. 229, f. Comizi agrari. 39 18) M. GANDINI, Questione sociale ed emigrazione, ci!. 19) ENRICO PAGLIA, Conferenza pel miglioramento materiale e morale del contadino mantovano, a cura di Rinaldo Salvadori, in La boje! Ipotesi di ricerca, Mantova, Biblioteca archivio, 1983, p. 185. 20) Ibid., p. 186. 40 di manodopera Giacomo Grassi, agente che promuoveva emigrazioni nella colonia Alessandra, nello stato brasiliano del Paranà, creò in una parte della bassa reggiana e della provincia mantovana un fermento di vaste dimensioni: in un rincorrersi di voci e di smentite, di attese spropositate sui vantaggi che attendevano i lavoratori oltre l'atlantico, dal gennaio all'ottobre del 1876 in una vasta zona non si parlò d'altro. In molti paesi i capifamiglia disdirono i contratti colonici, si procurarono passaporti e fedi parrocchiali, e vendettero le masserizie. Si ebbe la generale sensazione che una parte consistente della popolazione rurale della provincia di Mantova e dei circondari emiliani di Guastalla, Mirandola e Carpi fosse sul punto di espatriare. Fissata la sua sede a Rolo, nel circondario guastallese, l'agente Grassi era cercato ovunque dai coloni, come il tramite verso il sogno di un paese dove ci fossero terra e abbondanza per tutti. Tutti i giornali della zona, assieme agli annunci pubblicitari di Grassi, pubblicarono articoli e corrispondenze sui pericoli che attendevano durante il viaggio e all'arrivo nei paesi tropicali i coloni inesperti, che non erano mai usciti dal proprio villaggio. Il quotidiano degli internazionalisti mantovani, "La Favilla", accusò gli agricoltori di aver ridotto in uno stato miserabile la popolazione rurale e di essere perciò i responsabili dell'esodo dalle campagne padane, che tutti temevano imminente. Con immediate polemiche tra chi le approvava e chi le condannava, queste argomentazioni del giornale dell'estrema sinistra ebbero un forte e durevole impatto sull'opinione pubblica(18). Il notabilato mantovano era propenso a vedere nella crescita del fenomeno migratorio una manifestazione d'irrequietezza sociale, non dovuta a bisogni materiali: "L'emigrazione stabile all'estero e principalmente al Brasile assunse anche tra noi negli ultimi anni il carattere più di una allucinazione epidemica che d'una necessità economica, poiché la maggior parte degli emigranti non furono reclutati tra i braccianti disobbligati, ma tra gli spesati, i piccoli possidenti e gl'indebitati."(19) Scorse perciò nel fermento che si era creato un "germe latente di dissoluzione sociale"(20) e cercò di serrare le file dell'imprenditoria agraria, per farle ritrovare il consenso dei ceti subalterni e per controbattere le critiche degli agitatori rivoluzionari. Affermando che in uno stato di precaria sopravvivenza non erano i coloni, ma i soli "giornalieri, principalmente se di debole costituzione o dediti al vizio", il Comizio agrario di Mantova fece presente alla prefettura che "La Favilla" sollevava una polemica esasperata con finalità sovversive: 21) IDEM, La provincia di Mantova, in Atti della Giunta sull'inchiesta agraria, eit., val. VI ,ase. f IV,p. 878 . 22) P. VILLARI, Leltere meridionali ed altri scritti, Firenze, Le Monnier, 1878, pp. 314. "Fomenta l'avversione alla laboriosità all'economia ed alle altre virtù domestiche e sociali degli agricoltori; e quel che è peggio la divisione degli animi e l'odio verso i proprietari. Tanto più dannosa riesce tale propaganda in quanto che la classe dei contadini è di scarsa istruzione, facile perciò ad essere ingannata e diffidente nell' accettare i consigli di persone sagge; le quali d'altronde non sono sempre le più zelanti nell'agguerrire i contadini contro le insidie deplorate, né le più coraggiose ad affrontare le questioni sociali."(21) Il deputato Pasquale Villari aveva avuto modo di notare a Boretto la consueta mobilità dei lavoratori della bassa padana, che coinvolgeva numerosi piccoli proprietari e artigiani, dalla vita non dissimile a quella dei braccianti avventizi: "Il contadino doveva assai spesso spendere e pagare per la terra più di quello che ne cavava. Per mettere in pari il suo bilancio, doveva andare a strappare giunchi sulle rive del Po, arrivando qualche volta fino a Ferrara, dormendo sugli argini, pigliando le febbri, tessendo stuoie l'inverno, e spesso non riuscendo con ciò a vincere la fame(22l. Ma percorrendo il circondario durante la campagna elettorale dell'autunno 1876, Villari constatò che il fenomeno della mobilità territoriale stava bruscamente ampliandosi di proporzioni e divenendo un fattore di instabilità sociale, anziché una valvola di sfogo. Villari vide in ciò un segnale che il mondo subalterno si stava mettendo in movimento, facendo mancare ai ceti superiori la certezza di avere la situazione sociale sotto controllo. Gli animi parevano disposti a riconoscere tutta la gravità e l'importanza della questione. E come non riconoscerla dinanzi alle domande insistenti, continue, di emigrare? Ci si raccontava di bande che passavano la notte, con bandiera spiegata, gridando: Viva l'America! Ci si raccontava di famiglie intere, che si apparecchiavano ad andar nel Brasile. Qualche Sindaco aveva detto loro: - Ma che fate? Voi avrete un viaggio lungo e penoso, a cui le donne, i bimbi, i vecchi non reggeranno; andrete in un paese dove troverete la febbre gialla. - E gli era stato risposto con calma: - Lo sappiamo. Ma 42 23) Ibid., pp. 314-315. Cfr. P. VILLARI, Discorso agli eleffori del Collegio di Guastalla, 27 settembre 1876, Ivi, pp. 296-302; "La Minoranza. Giornale di Reggio Emilia", 1, 8 e 15 ottobre 1876; "La Gazzetta di Guastalla", 8 ottobre 1876. 24) Il Deputato di Guastalla in pellegrinaggio pel suo Collegio, in "La Minoranza", 1 ottobre 1876. l'inverno si avvicina e abbiamo di fronte la fame. Peggio di così non ci può toccare. Ci assicuri contro la fame e non partiremo. E fu necessario tacere. Alcuni ci chiesero se in Italia vi erano terre deserte, dove si potesse trovare lavoro." (23) La mancata elezione di Villari nel collegio guastallese fu indicativa della posizione scomoda di chi avesse sposato la causa degli emigranti, anche da posizioni moderate. Già svantaggiato per i suoi legami con la destra storica, che non era più al governo, il professore napoletano divenne politicamente sospetto per il suo puntare il dito sulla questione sociale. Tra i suoi stessi sostenitori ci fu chi dichiarò "che le emigrazioni annuali dei braccianti succedono per capriccio e non per necessità." (24) 5 . I dubbi sulle cause dell'emigrazione 25) ASMN, API, B. 229, f. Statistica emigrazione e f. Comizi agrari. 44 La prefettura ed il Comizio agrario di Mantova, immediatamente sollecitati dal governo di Depretis, nell'estate promossero un'inchiesta capillare presso tutti i municipi e i Comizi agrari della provincia mantovana, per individuare le cause del problema ed i mezzi per risolverlo. Il questionario dell'inchiesta aveva una certa impostazione tendenziosa, per la prevenzione che mostrava verso i nuovi costumi popolari, specialmente nell'ultima domanda, in cui si chiedeva "Quali siano le abitudini dei coloni salariati e degli agricoltori avventizi rispettivamente; specificando se e in quale proporzione gli uni e gli altri frequentino le osterie ed altri luoghi pubblici, si abbandonino al dissipamento e alla gozzoviglia"(25). A diversi sindaci e presidenti di Comizi agrari di tendenza conservatrice, questa domanda apparve un invito ad esprimere pregiudizi verso il bracciantato. Descrissero perciò una situazione di salari adeguati, o addirittura sovrabbondanti, resi insufficienti dalle eccessive pretese o dalla viziosità dei lavoratori. Diversi interpellati espressero serie preoccupazioni che l'emigrazione, assottigliando l'offerta di lavoro bracciantile, causasse aumenti dei salari. Ma non mancarono voci discordanti che attribuirono le cause del malcontento agli affittuali, che omettevano le migliorie ai fondi, aggravando la generale disoccupazione invernale. Oppure ci fu chi suggerì l'estensione dei diritti civili, con l'adozione del suffragio universale e l'estensione dell'istruzione pubblica, per dare alla popolazione rurale quel senso d'appartenenza alla nazione dimostrato dai contadini di quei paesi europei verso cui gli emigrati si dirigevano. Le risposte variavano nettamente se a darle erano esponenti dell'imprenditoria agricola oppure esponenti delle libere professioni, in particolare medici. Il quadro della società mantovana che emergeva dall'inchiesta del 1876 era comunque di una popolazione rurale ancora sostanzialmente immersa nei costumi tradizionali, nonostante i mutamenti politicoeconomici e i nuovi comportamenti determinati dalla crescente presenza bracciantile. La classe dirigente locale riteneva accettabili le condizioni di vita dei coloni. Ma il riferimento per far ritenere un relativo benessere quello dei sal<rriati fissi, o dei mezzadri, era la miseria insostenibile degli avventizi, che rappresentava l'incubo delle famiglie coloniche e le rendeva facilmente accontentabili. Gli avventizi risultavano quasi sempre privi di lavoro nei mesi freddi e piovosi e per buona parte delle cattive annate. Le loro donne e i loro figli lavoravano solo durante la bella stagione, con salari inconsistenti. Da diversi paesi della bassa padana, donne e bambini passavano il Po e percorrevano molti chilometri, durante la bella stagione, per andare a lavorare nelle risaie del distretto di Ostiglia, retribuiti con 40-50 centesimi a giornata. Le case degli obbligati e degli avventizi erano ugualmente povere; sempre sovraffollate quelle dei secondi, che pagavano affitti sproporzionati al salario. L'abbigliamento era ritenuto appena bastante i reggere i rigori dell' inverno. La dissipatezza dei braccianti - denunciata dai compilatori del questionario con particolare riguardo agli avventizi - nelle concrete descrizioni delle loro "gozzoviglie" si riduceva a ben misera cosa. La situazione nei dintorni di Sermide - uno dei distretti in cui nel 1876 si era concentrata la domanda di emigrare, come conseguenza di ripetute inondazioni - mostrava un' economia stremata, più che una improvvisa dissoluzione dell'etica contadina tradizionale. "Come le condizioni economiche dei lavoratori avventizi sono tristi, non meno floride sono quelle dei salariati, ai quali si darà uno stentato nutrimento perché non mojano di fame. [... ] Il difetto stà nei mezzi e nel salario che non è mai congruo all'opera che viene prestata ed ai bisogni della famiglia di chi lo presta. Il contadino in generale e le masse agricole specialmente sono religiose di pratica; frequentano le Chiese per abitudine, non sono dediti a stravizii ed alle gozzoviglie; alle Domeniche soltanto vanno alle Osterie a bere 45 del vino che nel corso della settimana non usano; i loro costumi sono semplici, il progresso però e l'istruzione hanno influito a ingentilirli un poco e perciò è infiltrato anche in loro del lusso; unica abitudine che in generale ha attecchito fra loro è quella di fumare; ma la volontà di lavorare nel nostro contadino non fa difetto. in presenza delle suaccennate condizioni, l'emigrazione nel Mandamento non prese proporzioni gravi, moltissimi sono si muniti di fedi parrochiali dell'intera famiglia, molti hanno richiesto il passaporto per l'estero, ma fra l'idea di emigrare e l'andar via effettivamente 26) ASMN, API, B. 229, f. Comizi agrari, relazione del presidente del Comizio agrario di Sermide (23 agosto 1876). vi corre un abisso. Non sonovi sobillatori od istigatori all'emigrazione." (26) Ma dalle risposte al questionario appariva chiaro che il panico tra possidenti e affittuali era stato creato dalla percezione che quella prima grande ondata migratoria era stata solo un sintomo iniziale di una crisi di più vasta portata, che annunciava una generale trasformazione di comportamenti e atteggiamenti del proletariato rurale., Il sindaco di Ostiglia, nella zona risicola, era il più esplicito a descrivere un distacco dalla mentalità tradizionale e dai mestieri agricoli da parte delle nuove generazioni: "In quanto alla educazione della prole di tutti i Coloni tanto obbligati quanto avventizj consiste nell'avvezzarla per tempo alle occupazioni d'arginatura. Essi sono abitualmente operosi e le loro qualità educativo-politiche-morali-intellettive non potrebbero essere definite che con tinte grossolane conformi ai sentimenti di persone nate e vissute nell'ignoranza la più crassa, estranee quindi ad ogni delicata emozione che deriva da una coscienza del bene e dalla ripugnanza al male; vero è che nella loro ruvidezza di animo valsero in passato ad infrenarne gli eccessivi impulsi a danno sociale le dottrine religiose più tradizionalmente subite che intese, ma ormai le nuove tendenze dei tempi inspirate al civile progresso paralizzarono quei benefici effetti sulla generazione che passa, rendendole grave la disparità del suo stato da quello degli abbienti, da aspirare 27) Ivi, relazione del sindaco di Ostiglia (26 agosto 1876, riveduta e nuovamente inviata il 2 dicembre 1876). ad un benessere che non potendo conseguire in patria vorrebbero Essi trovare in lontane contrade, esponendosi anche a sagrifizi e pericoli purché facilmente vi riescano".(27) Solo una parte dei sindaci e agricoltori interpellati ammise che fossero le frustrazioni della condizione bracciantile - priva di gratificazioni nell'immediato e di speranze in un miglioramento futuro 46 - ad alienare questi lavoratori nell'ambiente rurale e a spingerli ad una scelta tra antagonismo verso i consueti equilibri comunitari, o accettazione della propria espulsione dall' agricoltura e dalla vita paesana: "Questo è il famoso dilemma a cui ricorre la disgraziata classe, che si abbandona alla panacea della emigrazione. Troppo generale è il movimento per poter supporre che solo l'abitudine alla gozzoviglia e la poca propensione al lavoro sospinga queste masse ad affrontare i pericoli di un lungo viaggio e l'incertezza di un fosco avvenire. Né i soli suggerimenti di persone interessate potrebbero avere tale forza ed efficacia di far abbandonare a questi terrieri, che non si allontanarono giammai più al di là dell'ombra del loro campanile, le antiche tradizioni e le care lusinghe della loro patria. Più potenti incentivi, che si riassumono nei bisogni della vita, debbono avere trascinato i voleri di costoro a tale ardita e straordinaria rivoluzione." (28) Le città padane, rimaste sostanzialmente calate nella dimensione di un' economia agricola, non offrivano alcuno sbocco ad un'immi- 28) ASMN, API, B. 229, f. Comizi agrari, relazione dell'ex presidente del Comizio agrario di Castiglione delle Stiviere (12 settembre 1876). grazione rurale. Per chi non riusciva a sostenere i disagi della periodica estromissione dall'attività agricola, la fuga in città era una strada preclusa; tentata sì, più volte, ma senza una prospettiva di inserimento per chi giungeva dalla campagna. Proprio questi campagnoli non assimilati dal tessuto urbano costituivano il maggiore contingente della città verso l'emigrazione oltre oceano. Nel 1881 il presidente del Comizio agrario mantovano constatava: "Continua pure l'immigrazione dei contadini in città, sebbene anch'essa sia ora notevolmente scemata, per una fallace speranza di pronti guadagni e coll'affidamento delle pigioni meno care in città che in campagna e della facilità di fruirvi delle elargizioni della pubblica e della privata beneficienza ed esercitarvi il minuto ladroneggio sui fondi suburbani." (29) La scelta di un'emigrazione temporanea all'estero cambiava al bracciante il mestiere, le abitudini, gli orizzonti mentali e le relazioni sociali; ma gli permetteva di non allontanare dal paese la famiglia 29) E. PAG LlA, Conferenza pel miglioramento materiale e morale del contadino mantovano, cit., p. 186. Cfr. ASMN, API, B. 229, f. Statistica emigrazione, relazione del sindaco di Mantova (I novembre 1876). e di non recidere le proprie radici culturali. Mantenere aperta nel paese una sfida con quelli che considerava i propri antagonisti sociali, diveniva anzi un elemento importante dell'identità dell'emigrante stagionale. Nell'inchiesta del 1876, il sindaco di Quingentole aveva 47 30) ASMN, API, B. 229, f. Statistiche emigrazione, relazione del sindaco di Quingentole, 17 ottobre 1876. 31) Sul ruolo decisivo degli emigranti stagionali nella formazione del movimento operaio in Italia, ANDREINA DE CLEMENTI, Appunti sulla formazione della classe operaia in Italia, "Quaderni storici", XI (1976), f. Il (n. 32), pp. 698-705; EMILIO FRANZINA, Operai, braccianti esocialisti nel Veneto bianco, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità ad oggi. Il Veneto, pp. 701-703. Sul rapporto tra conflittualità bracciantili e emigrazione nell'area padana: GUIDO CRAINZ, Padania. Il mondo dei braccianti dall'Ottocento alla fuga dalle campagne, Roma, Donzelli, 1994. 32) E. PAGLIA, La provincia di Mantova, cit., p. 879. 48 risposto: "I contadini sono quasi tutti analfabeti. Essi non hanno principi politici, perché non li conoscono, perché da secoli sono tenuti lontani dalla pubblica cosa, segregati dal civile consorzio, depressi, maltrattati, condannati a servire, servir sempre. Essi non hanno che un odio speciale per tutti gli abbienti perché in loro vedono i proprii oppressori; ed io credo che benedirebbero con feroce entusiasmo alla mano che li aiutasse a sollevarsi, da qualunque parte venisse". Quello descritto a Quingentole era ancora lo spirito delle jacqueries; ma proprio la mobilità geografica dei lavoratori e il diffondersi della moderna cultura associativa stavano modificando la prospettiva dei conflitti nella società rurale(30). Il formarsi delle prime aggregazioni politiche del proletariato rurale divenne un referente per questo genere di antagonismi(31). 6 - Paesi di "vagabondi" Tra il 1877 e il 1879, la grande proprietà mantovana si mobilitò nel tentativo di costituire un associazionismo rurale che coinvolgesse il bracciantato in una solida alleanza sociale sotto la tutela degli agrari, per recuperare la credibilità di un ordine sociale scosso dai fermenti che accompagnarono la grande ondata migratoria del 1876. Su sollecitazione del Comizio agrario di Mantova, l'aristocrazia terriera e i possidenti borghesi più in vista della provincia manto vana promossero ben tre istituzioni, tutte gravitanti attorno all'Accademia virgiliana di Mantova, finalizzate a procurare occupazione invernale dei lavoratori agricoli e ad incoraggiar:e tra loro il risparmio e il mutualismo previdenziale. L'inconcludenza di questi tentativi degli agrari mantovani fu ammessa dalla stessa Inchiesta Jacini: "Dura in tutta la sua triste realtà il bisogno di migliorare la condizione economica e morale del contadino, principalmente avventizio, non tanto per impedire 1'emigrazione dei malcontenti traviati o viziosi, quanto per trattenere i volonterosi e bene intenzionati." (32) L'astio degli imprenditori agricoli verso gli emigranti stagionali - più che da una propensione di questi operai a dissipare il salario ricevuto all'estero - potrebbe essere motivato da bisogni, costumi e idee che 1'estrema mobilità bracciantile immetteva nella sociabilità paesana. Solo Attilio Magri - affittuale educato a inserirsi nel mondo dei notabili e a divenire un imprenditore moderno proprio attraverso • l ~ I I I ! 33) A. MAGRI, 1/ mio testamento agrario (manoscritto del XIX secolo conservato presso la Biblioteca comunale di Mantova), pp. 304-305. 34) Sui processi di politicizzazione della sociabilità popolare in Italia, alla fine del XIX secolo, cfr. MARIA MALATESTA, 1/ concetto di sociabilità nel/a storia politica italiana del/'Ottocento, in "Dimensioni e problemi della ricerca storica", 1992, n. 1; GILLES PECOUT, Politisation et monde paysan en Toscane, ciI.; MAURIZIO RIDOLFI, 1/ partito del/a repubblica, Milano, Angeli, 1989; Idem, 1/ Psi e la nascita del partito di massa. 18921922, Roma-Bari, Laterza, 1992; FRANCO RAMELLA, Aspetti del/a socialità operaia nel/'Italia del/'Ottocento, in Storiografia francese e italiana a confronto sul fenomeno associativo, a cura di Maria Teresa Maiullari, Torino, Fondazione "L. Einaudi", 1990. 35) MARCO FINCARDI, L'associazionismo garibaldino in un'area padana, tra strategie politiche locali eextralocali, in "Bollettino del Museo del Risorgimento" (Bologna), XXXIX (1995). 36) CiI. in: M. GANDINI, Questione sociale ed emigrazione, ciI., pp. 50-51. i viaggi all'estero - non si mostrò prevenuto verso tali mutamenti del costume paesano e descrisse con chiarezza il ruolo di mediatore di cultura urbana che questo proletariato emergente assolveva nell'ambiente rurale: "Quando poi ritornano, sono essi che nelle riunioni serali e domenicali coi compaesani casalinghi - che essi chiamano gli invalidi - raccontando la miglior vita e il miglior trattamento degli operaj in confronto di quanto in patria, gettano i semi di quel malumore destinato prossimamente a produrre i propri frutti nella già febbrile quistione sociale." (33) Negli anni ottanta, i notabili avevano sotto gli occhi ciò che pochi anni prima poteva essere solo vagamente intuibile. L'inchiesta del 1876 temeva la devianza del bracciante avventizio e paventava che i paesi potessero essere contagiati dallo spirito ribellistico e dalla mancanza di parsimonia degli emigranti. Ma nell'inchiesta si condannava la «viziosità» dei comportamenti di alcuni individui; non si percepiva e non si riusciva a concepire una propensione dei proletari ad associarsi spontaneamente(34), o anche solo a muoversi collettivamente, senza che la loro mobilitazione fosse dovuta all'intervento di qualche notabile o a particolari condizioni di esasperazione popolare che ricorrentemente sfociavano in tumulti annonari. Nel Mantovano, un legame tra emigrazione e intensificazione delle agitazioni operaie divenne percepibile a partire dal 1876. Fu anche questa preoccupazione a spingere il governo ad ordinare con urgenza l'inchiesta provinciale sulle cause dell'emigrazione. Ed anche i successivi propositi del notabilato di dar vita a un associazionismo mutualistico rurale furono sollecitati da simili timori. Dal 1869 nella provincia si erano già registrati alcuni scioperi agrari. La propaganda rivoluzionaria era particolarmente intensa, soprattutto nel capoluogo ed in altri centri in cui esistevano solidi nuclei di reduci garibaldini con un ascendente tra le associazioni mutualistiche operaie(35). Nell'ottobre 1876 vennero affissi in tutta la provincia avvisi di un'assemblea domenicale da tenere a Mantova, "per tutti i lavoratori di ogni arte e mestiere [... ] per deliberare sul fatto dell'emigrazione, quei provvedimenti che saranno ritenuti del caso" (36). Alla riunione affluirono oltre duemila persone, in maggioranza accorse nella convinzione di garantirsi il modo per espatriare in breve tempo. I promotori del comizio popolare erano i redattori de "La Favilla", 50 che impostarono tutta la discussione sulla questione sociale e sulla necessità di associare i lavoratori, deludendo una parte delle aspettative del pubblico. Tra le deliberazioni dell'assembea, la prima prevedeva "di sospendere l'emigrazione". Si rivendicava poi l'abolizione della tassa gravante sui meno abbienti, a cominciare da quella sul macinato. Si sollecitava poLla concessione del suffragio universale. Ma la deliberazione più importante stabiliva "di istituire una associazione generale di tutti i lavoratori d'ogni arte e mestiere e tutti solidali", che aveva come scopo essenziale la rivendicazione di tariffe salariali di operai e braccianti. Il 10 dicembre del 1876 venne costituita ufficialmente l'Associazione generale dei lavoratori di città e campagna, patrocinata dal capitano garibaldino Francesco Siliprandi e diffusa soprattutto nella media pianura mantovana. Era la prima associazione di resistenza formata in Italia tra lavoratori rurali, originale anche nel tentativo di superare le barriere tra diversi mestieri, che ancora chiudevano l'associazionismo operaio nell'ottica corporativa. Subito fatta sorvegliare strettamente dal ministro degli interni Nicotera, l'associazione fu sciolta dalla polizia nella primavera successiva, appena accennò a promuovere vaste dimostrazioni bracciantili(37). Nel 1882, durante il primo grande sciopero agrario padano iniziato nel Gonzaghese e propagatosi in diverse province lungo il corso del Po - un volantino cantato e distribuito dai cantastorie nelle fiere recriminava - in rima - che gli operai, ex combattenti nelle guerre risorgimentali, si trovavano a cercare altre patrie all'estero, per riuscire a campare, a causa dell' esosità dei padroni. La canzone, scritta dal bracciante Cesare Rossi, di Bondeno di Gonzaga, era significamente intitolata Lamento di italiani prima di partire per lo stato felicissimo di Francia. Terminando con incitamenti insurrezionali, fu il documento sovversivo che sindaci e polizia si mobilitarono maggiormente a sequestrare, durante l'agitazione del 1882(38). Fino 37) ASMN, API, B. 481; Resoconto del Comizio popolare sull' emigrazione tenuto domenica 22 ottobre 1876 nell' Anfiteatro Virgiliano in Mantova, Ivi, Segna, 1876; M. Gandini, Questione sociale ed emigrazione, cit., pp. 49-54, 209-215, 219-222. 38) ASMN, API, B. 420. all'inizio del XIX secolo fu osservabile un'alternanza tra periodi di intensi flussi migratori e periodi di intense conflittualità sociali. La principale ondata migratoria fu quella degli anni seguiti alla sconfitta del movimento degli scioperi agrari sviluppato si tra il 1882 e il 1885. I rapporti tra emigranti stagionali e associazionismo classista rimasero intensi. Il movimento di resistenza e l'associazionismo proletario ebbero la maggiore intensità nei paesi limitrofi alle due 51 39) Sul rapporto tra conflitti sociali, legami comunitari ed emigrazione nell'Italia liberale, cfr. AAVV, Gli italiani fuori dall'Italia. Gli emigrati italiani nei movimenti operai dei paesi d'adozione (1880-1940), Milano, Angeli, 1983; FRANCO RAM EllA, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell'Ottocento, Torino, Einaudi, 1984; BRUNO CARTOSIO, Lavoratori negli Stati Uniti, Milano, Arcipelago, 1989; PATRIZIA AUDENINO, Un mestiere per partire. Tradizione migratoria, lavoro e comunità in una vallata alpina, Milano, Angeli, 1990; AAVV, Donne che vanno, donne che restano. Emigrazione e comportamenti femminili, a cura di Paola Corti, in "Annali Istituto Cervi", XII (1990); PAOLA CORTI, Paesi d'emigranti. Mestieri, itinerari, identità collettive, Milano, Angeli, 1990; RAUl MERZARIO, Il capitalismo nelle montagne. Strategie famigliari nella prima fase di industrializzazione del Comasco, Bologna, Il Mulino, 1989; MARCO PORCEllA, La fatica e la Merica, Genova, Sagep, 1986; L'emigrazione biellese fra Ottocento e Novecento, a cura di Valerio Castronovo, Milano, Electa, 1988, 2 volI. sponde del Po, dove si concentrava il bracciantato avventizio e aveva la massima frequenza il fenomeno dell'emigrazione temporanea. Faticarono invece a prendere vigore nei paesi dove più consistente era stata l'emigrazione permanente. Uno studio più approfondito di questi meccanismi socio-culturali richiede ricerche più approfondite, che partano dalla lettura di dati dettagliati(39). La bassa padana, negli ultimi tre decenni del XIX secolo, ebbe comunque l'aspetto di una terra d'emigrazione. In quel periodo, le partenze dai paesi limitrofi al Po costituirono una parte consistente dell'emigrazione in Lombardia ed una parte ben rilevante in Emilia, regione quest'ultima dove i flussi migratori erano limitati, grazie alla tenuta del sistema mezzadrile(40). Il tasso di crescita demografica, in rapida ascesa nel XIX secolo, nella bassa padana ebbe un brusco arresto dal 1876, a causa dell' emigrazione. L'emigrazione permanente caratterizzò soprattutto i paesi nella cui economia rurale prevaleva la presenza di micro-proprietari, duramente colpiti dalla crisi agraria. I distretti di Revere e di Sermide e i comuni di Poviglio e Boretto furono particolarmente interessati da questo fenomeno. Poco avvertibile risultò la flessione demografica nel distretto di Gonzaga, pure esso interessato da una discreta emigrazione temporanea e permanente, ma compensata dalla formazione del centro industriale di Suzzara. Solo dopo il 1896 la decisa ripresa dell'economia agricola locale abbassò sensibilmente il tasso d'emigrazione. 40) F. BONSERVIZI, Inchiesta sulla pellagra, ciI., pp. 128-129; COMMISSARIATO GENERALE DELL'EMIGRAZIONE, Annuario statistico dell'emigrazione italiana dal 1876 al 1925, con notizie sull'emigrazione negli anni 1869-1875, Roma, Comm. gen. emigrazione, 1926; MAIC, DGS, Statistica generale della emigrazione italiana, ciI.; ISTAT, Sviluppo della popolazione italiana dal 1861 al 1961, in "Annali di statistica", XCIV (1965), serie VIII, VoI. XVII, pp. 635-648; ATHOS BEllETTINI, La popolazione italiana. Un profilo storico, Torino, Einaudi, 1987, pp. 202-209. Comuni Gualtieri Boretto Poviglio Brescello ProVo di Reggio E. 52 Popolazione Circoli Socialisti Organismi aderenti alla Camera del Lavoro num. soci Proporzione su 1000 abito num. soci Proporzione su 1000 abit 6.316 3.808 5.537 4480 19 4 3 9 2.794 360 178 728 442 94 32 162 2 1 3 4 355 30 96 116 56 7 17 25 274495 425 33482 122 106 5.256 19 EMIGRAZIONE NEI CIRCONDARIO DISTRETTI DELLA BASSA PADANA A SUD DEl PO, TRA ENZA E PANARO Sermide 1876 1877 1878 1879 1880 1881 1882 1883 1884 1885 1886 1887 1888 1889 1890 1891 1892 1893 1894 1895 1896 1897 1898 1899 1900 1901 1902 1903 S. p 10 5 10 6 4 187 18 77 144 7 4 29 9 295 85 53 2137 169 222 299 339 146 120 43 99 20 43 85 73 72 139 266 13 81 77 12 7 17 20 1 29 1 39 182 109 27 64 Gonzaga Revere P. 5 143 143 112 39 16 40 53 251 430 132 71 1253 252 272 269 242 120 330 107 83 15 12 30 56 S. 5 2 2 46 1 27 3 142 140 9 22 11 1 3 3 13 23 111 71 37 213 Guastalla tol. Bassa Padana p S. P. S. p S. 219 97 313 599 85 113 123 87 85 140 84 19 32 17 36 22 23 35 7 5 102 40 59 97 18 56 373 251 428 410 51 81 21 10 7 79 24 27 206 46 245 277 824 575 251 554 172 55 5 357 236 259 180 120 603 755 919 589 323 175 203 172 137 92 171 18 218 278 431 85 14 14 410 791 645 533 455 284 370 21 15 168 299 282 67 229 95 337 563 2512 1157 451 4568 811 778 1036 1420 779 1074 468 422 207 223 216 298 670 836 324 298 245 765 886 1060 700 342 210 501 614 181 218 294 37 231 400 494 145 140 46 528 1547 1076 1025 1142 1 5 10 26 963 365 76 624 218 229 463 839 174 210 164 115 21 51 80 48 339 414 154 125 151 117 48 121 7 - Un biglietto di andata e ritorno I paesi in cui era dominante la presenza del bracciantato avventizio - in genere quelli immediatamente a ridosso del Po e quelli in cui era più diffusa la risaia stabile - si caratterizzarono maggiormente per una emigrazione temporanea all' estero, in stretto rapporto con una intensa crescita dell'associazionismo classista. Dal 1886 - subito dopo la repressione del movimento de "La boi!" - un rapido sviluppo di cooperative di lavoro fu esplicitamente motivato come una difesa delle comunità locali dallo spopolamento causato dall' emigrazione(41). Dopo un decennio, anche il movimento delle leghe bracciantili ebbe scopi analoghi. Si voleva impedire che 1'emigrazione - che lasciava le abitazioni del bracciantato abitate solo da donne, giovanissimi e anziani - deteriorasse i rapporti comunitari e famigliari tradizionali. 41) MANLlO BONACCIOLl, AMLETO RAGAZZI, Resistenza, cooperazione, previdenza nella provincia di Reggio Emilia (18861925), Reggio E., Cooperativa lavoranti tipografi, 1925, pp. 32-33, 185-187; La parola alle cifre, in "La Giustizia", 1 maggio 1905. Anche durante lunghi e travagliati soggiorni all'estero, i braccianti sollecitavano i parenti rimasti a casa, perché pagassero le loro quote 53 42) Numerose leltere in questo senso sono depositate in: Archivio comunale di Gualtieri, Cooperativa braccianti di S. Vittoria, B. 4. 43) Sugli scambi di sociabilità ed esperienze politiche tra i paesi da cui i lavoratori provenivano a quelli in cui arrivavano, cfr. GILLES PECOUT, Dalla Toscana alla Provenza. Emigrazione epoliticizzazione nelle campagne (1880-1910), in "Studi storici", 1990, n. 3; MARCO FINCARDI, Primo Maggio reggiano. Il formarsi della tradizione rossa emiliana, Reggio E., Camera del lavoro, 1990, Val I, pp. 269-289. 44) M. GANDINI, Questione sociale ed emigrazione, cit., pp. 69-86. 45) Socialisti e non, controluce. L'epistolario di Camillo Prampolini, Parma, La nazionale, 1966, pp. 285-286, 343; Archivio centrale dello Stato - Roma (ACS), Casellario politico (CP), Gioacchino Artoni. 54 nelle associazioni proletarie che avevano fondato, per mantenere questo essenziale punto di riferimento nel loro paese(42). Socialisti e radicali crearono già all'inizio degli anni ottanta delle reti provinciali di collegamento per questi organismi proletari paesani. Nei paesi in cui la forte concentrazione del bracciantato avventizio e la particolare incidenza dell'emigrazione temporanea si combinavano con una posizione favorevole rispetto alle vie di comunicazione, si ebbe anche un considerevole incremento della sociabilità ricreativa. Tali fenomeni mutarono durevolmente la vita comunitaria tradizionale, conferendo un nuovo assetto alla sociabilità paesana. Costumi e modi di pensare appresi all'estero furono portati nei paesi padani dagli emigranti stagionali. Ma i modi di vivere di cui si stavano appropriando i lavoratori, in quegli anni di rapide trasformazioni dei comportamenti collettivi, lasciavano le proprie impronte anche all'esterol43 ). Nonostante la difficoltà a reperire documentazione sulla vita degli emigrati all'estero, si possono fare a questo proposito alcuni esempi significativi. Nel 1888, dopo la repressione del movimento "La boi!", la costruzione delle ferrovie nel Costa Rica fu bloccata da uno sciopero durato parecchi mesi, condotto da un migliaio di operai padani, in massima parte provenienti dall'Oltrepò mantovanol44). In Pennsylvania, i minatori di Gualtieri promossero una società di mutuo soccorso, una filodrammatica, due cooperative ed il circolo socialista "Camillo Prampolini"(45). Distinguendosi da altri gruppi regionali di emigrati italiani, che appena possibile celebravano la festa patronale del paese d'origine, gli emigrati della bassa padana mostrarono fin dall'inizio un appassionato attaccamento alle ritualità dellO Maggio, che in patria erano vietate da Crispi. Si riunivano festosamente attorno a un'identità oppositiva, per reazione al senso di spaesamento provato in patria come all'estero; ma queste ritualità li portavano pure a costruire un sistema di relazioni più ampio dei loro ristretti gruppi paesani. A Zurigo - dove lo sciopero dello Maggio 1895 fu osservato essenzialmente dagli immigrati stranieri, che parteciparono alla dimostrazione raggruppati nei differenti gruppi etnici - l'esule Andrea Costa testimoniò di aver sentito l'odore di casa unendosi allo spezzone padano del corteo: "Anche l'Italia, l'Italia socialista, ha fatto sventolare la sua bandiera sovra il lungo corteo; anche l'Italia oppressa dai deplorati, ha dato il suo contingente di dimostranti. Eravamo più di un centinaio parte di Gualtieri, parte di Reggio e di Mantova; un bel gruppetto di soldati pieno d'entusiasmo". (46) Fu attorno alla sua rete di relazioni con questi nuclei della bassa padana che l'esule reggiano Antonio Vergnanini, spalleggiato dallo studente gualtierese Alessandro Mazzoli, creò il tessuto politicosindacale dell' organizzazione dei lavoratori italiani in Svizzera. Nel 1894, per i provvedimenti crispini contro l'associazionismo socialista e anarchico, quaranta braccianti di Gualtieri furono condannati ad alcuni mesi di carcere, per aver costituito nel loro paese la Lega socialista e aver dato un orientamento socialista alla locale Società operaia e alla filarmonica. Dalla Svizzera in cui abitualmente lavoravano, molti di loro si trasferirono negli Stati Uniti - dove già era presente un piccolo nucleo di minatori gualtieresi - per trascorrervi alcuni anni d'esilio. Alessandro Mazzoli - giovane discendente da una famiglia dell'aristocrazia reggiana, che era stato il loro leader a Gualtieri - si sottrasse pure lui alla cattura, rifugiandosi presso i compaesani in Svizzera. Da lì nel 1895 raggiunse i nuclei dei compaesani oltre l'Atlantico, con l'incarico di dare un più ampio respiro alle associazioni che questi avevano costituito in Pennsy1vania. Nel 1896, con la fondazione della Federazione socialista italiana negli Stati Uniti e del giornale "Il Proletario", dai precari circoli locali di questi immigrati emiliani prese forma la rete associativa che da allora collegò la sinistra italo-americana(47). Dopo alcuni anni, amnistiati dal reato associativo per cui erano stati condannati, i socialisti gualtieresi ripresero a far ritorno al paese. Nel 1899 Mazzoli divenne il primo sindaco socialista di Gualtieri; e poco dopo, appena i socialisti ebbero la maggioranza nell'amministrazione provinciale reggiana, ne divenne il presidente. Per i lavoratori della bassa padana all'estero, il mantenimento della propria identità d'origine si fissò prevalentemente su comportamenti e simbologie legati all'associazionismo classista. Ma nei loro paesi ebbe unà tendenza analoga anche l'emigrazione stagionale - maschile e femminile - all'interno della pianura padana. L'emigrazione stagionale delle mondarisi iniziò e andò intensificandosi dall'apparire della crisi agraria, con la drastica riduzione della risaia stabile nella bassa padana e nel distretto di Ostiglia, in cui precedentemente cercava lavoro il bracciantato di tutta l'area circostante. Una statistica 46) Da Zurigo. Tutti fratelli, "La Bandiera socialista" (Reggio E., numero unico degli esuli in Svizzera), 23 maggio 1895. 47) Sul ruolo degli emigrati gualtieresi nel movimento operaio americano, cfr. RUDOLPH J. VECOLl, Pane egiustizia. Breve storia del movimento operaio in America, in "Movimento operaio e socialista", XXII (1976), IDEM, The italian immigrants in the United States labor movement from 1880 to 1929, in Gli italiani fuori d'Italia. Gli emigrati italiani nei movimenti operai dei paesi d'adozione (1880-1940), Milano, Angeli, 1983; ELISABETTA VEZZOSI, La Federazione socialista italiana del Nord America (1911-1921), tesi di laurea, Università di Firenze, Facoltà di lettere e filosofia, a.a. 1979-1980; IDEM, 1/ socialismo indifferente. Immigrati italiani e Socialist Party negli Stati Uniti del primo Novecento, Roma, Edizioni lavoro, 1991; GRAZIA DORE, Socialismo italiano negli Stati Uniti, in "Rassegna di politica e di storia", XIV (1968), nn. 159-160-161-162; ANNA MARIA MARTELLONE, Per una storia della sinistra italiana negli Stati Uniti: riformismo e sindacalismo, 1880-1911, in Il movimento migratorio italiano dal/'unità nazionale ai giorni nostri, a cura di Franca Assante, Napoli, Istituto Italiano per la storia dei movimenti sociali e delle strutture sociali, 1976. 55 48) A. BALLETTI, G. GATTI, Le condizioni dell'economia agraria, cit., p. 257. Si trattava di oltre 1'1 % della popolazione complessiva della provincia, ma è facilmente presumibile che la gran parte di questo contingente provenisse dal circondario di Guastalla. 49) Archivio comunale di Gualtieri, Cooperativa braccianti di S. Vittoria, B. 2, circolare della Federazione delle cooperative, datata 29 gennaio 1892. 50) Lotte agrarie in Italia. La Federazione nazionale dei lavoratori della terra, a cura di Renato Zangheri, Milano, Fondazione Feltrinelli, 1960; M. BONACCIOLl, A. RAGAZZI, Resistenza, cooperazione, previdenza, cit. 51) LOUIS PEROUAS , Refus d'une religion, religion d'un refus en Umousin rural: 18801940, Paris, Editions de l'Eco le des hautes études en sciences sociales, 1985, pp. 6578; sull'importanza che l'emigrazione e i mutamenti della vita economico-sociale hanno avuto nel diffondere la secolarizzazione in Italia, cfr. SILVIO LANARO, L'Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Torino, Einaudi, 1988, pp. 127-129. relativa alla provincia reggiana nel 1887 indicava che "circa 2500 persone, presso a poco in egual numero maschi e femmine si recano ogni anno ne' territori di Mortara, Voghera e Pavia per la mondatura del riso"(48). Già nell'ultimo quindicennio del XIX secolo, la bassa padana costituì il maggiore serbatoio di manodopera stagionale per la Lomellina. Dal 1890 una rete capillare di cooperative di lavoro si formò nella bassa reggiana, modenese e mantovana, in risposta ad una legge da tempo sollecitata dalle associazioni bracciantili, che favoriva le società cooperative negli appalti di lavori pubblici. Il loro coordinamento venne gestito da Federazioni provinciali delle cooperative. Tali organismi si assunsero anche la gestione della mobilità di una parte sempre più consistente dei contingenti di mondarisi diretti dalla bassa padana in Lomellina e Piemonte(49). Nel 1901, quando fu costituita la struttura nazionale della Federterra, le sedi del suo ufficio statistica per l'emigrazione e del suo segretariato per l'emigrazione delle mondarisi furono fissate nella bassa padana; a dirigere questi due servizi, assieme ad altri importanti organismi sindacali della provincia reggiana, fu un operaio gualtierese: Nico Gasparini (50). 8 - Fede in un mondo da scoprire L'emigrazione, soprattutto quella temporanea, viene considerata dai sociologi della religione una delle principali cause sociali dell'indifferenza religiosa sviluppatasi nei secoli XIX e XX. Si tende cioè a cercare fuori dalla sfera ecclesiastica, nelle condizioni di vita delle popolazioni, le origini della secolarizzazione delle mentalità collettive(51). La mobilità geografica, contatti frequenti con l'ambiente cittadino, il distacco da attività rurali per un lavoro industriale, o un più generico cambiamento di mestiere, sono abitualmente fenomeni accompagnati da un distacco dalla mentalità tradizionale e dalla religiosità rurale. Gli emigrati rimanevano solitamente estranei alle feste ed ai luoghi di culto dei paesi stranieri, riconoscendosi malamente in simboli religiosi, chiese, santi e solennità diversi da quelli del proprio villaggio. Vivendo nei cantieri, trascuravano le pratiche religiose domenica; e nei giorni di paga frequentavano coi propri compagni di lavoro le bettole e talvolta i bordelli. Ritornando ai loro paesi, frequentavano poco la chiesa, dedicando 56 piuttosto i giorni festivi ai divertimenti. Prestavano generalmente minore attenzione ai riti di passaggio celebrati coi sacramenti, considerando distrattamente il senso di appartenenza alla chiesa cattolica. Ascoltavano con maggiore attenzione le novità culturali, che li rendevano scettici verso i dogmi di fede ed i principi morali del cattolicesimo, oltre che renderli poco riverenti all'autorità del sacerdote. Non era tanto l'emigrazione in sé, ma le abitudini sociali contratte dai lavoratori fuori dal proprio paese, ad allontanare dalla pratica religiosa e dai contatti col circuito parrocchiale. La nuova sociabilità laica poteva perciò trovare un solido supporto tra quegli operai che trascorrevano molti anni della propria vita percorrendo l'Europa ed altri continenti alla ricerca di lavoro. Ciò non toglie però che, in alcuni paesi a forte emigrazione, le simbologie religiose abbiano rafforzato la loro presa su quelli che restavano; in tal caso, mantenere in alta considerazione i simboli religiosi poteva diventare espressione della volontà di sopravvivenza della comunità locale, coinvolgendo talvolta anche gli emigrati nella riscoperta del potere aggregante della religione paesana. Uno studio storico-sociologico di Serge Bonnet, sui boscaioli delle Argonne nei secoli XVIII e XIX, analizza la religiosità in un ambiente di lavoratori migranti, abbastanza simile a quello della bassa padana bracciantile<52l. Per Bonnet, la scarsa propensione del bracciante/ manovalè verso la ritualità ecclesiastica è diretta conseguenza della sua debole integrazione sociale e religiosa, che lo spinge a cercare fuori dalle istituzioni tradizionali i riferimenti della propria identità. Questo proletariato, allontanandosi da abitudini domestiche e paesane che non gli garantivano più la sopravvivenza, nel XIX secolo sviluppò rapidamente proprie tradizioni fondate sulla mobilità. In alcune località delle Argonne, la decadenza delle cappelle rurali fu anche effetto dell'allontanamento fisico e culturale degli emigranti stagionali dalla ritualità cattolica di villaggio. La domenica di questo proletariato era trascorsa tra il lavoro e l'osteria. La vita di questi operai non era più scandita dalle settimane del calendario cristiano, ma dalle bisbocce per festeggiare i ritorni al paese, dopo mesi d'assenza. L'osservanza del precetto pasquale, così importante nel legare la popolazione cattolica alla parrocchia, era per questi operai difficoltosa; e quando anche avessero avuto modo di trascorrere la 52) SERGE BONNET, Les "sauvages" de Futeau, verriers et bucherons d'Argonne aux XVI/le et XIXe siècles, in Christianisme et monde ouvrier, a eura di François Bédarida e Jean Maitron, Pari s, Les éditions ouvrières, 1975 (Cahier du "Mouvement soeial", n. 1) pp. 187-222. 57 s= Pasqua al proprio paese, si mostravano poco propensi a confessarsi e comunicarsi. L'immersione nella sociabilità laica e i frequenti contatti con l'associazionismo democratico e anticlericale li portavano a disprezzare la religiosità di chi viveva nelle campagne e nei boschi, isolato dalla cultura urbana(53l. I notabili e il parroco avevano una presa molto limitata su questi sradicati, che traevano le fonti di sostentamento prevalentemente dall'esterno del proprio paese d'origine. Tale indipendenza suscitava verso la loro vita l'invidia e la curiosità dei compaesani, facendo di essi dei modelli per chi desiderava rompere e modificare la ripetitività dei costumi e dei rapporti paesani(54l. Tanto più che la morale rurale arcaica sembrava appartenere ad un mondo patriarcale che si stava disgregando con la tradizionale famiglia contadina, in cui era abitudine impartire a bambini e adulti un'educazione domestica intrisa di valori e simboli religiosi. Secondo Bonnet, dunque, nell' est della Francia fu la mobilità geografica - più che il diffondersi di nuove ideologie - il fattore modernizzante dei comportamenti collettivi, soprattutto alla fine del XIX secolo. I parroci della bassa padana sembrarono avere verso l'emigrazione stagionale le stesse preoccupazioni dei parroci delle Argonne citati da Bonnet. Nella Cronistoria della Parrocchia di Meletole, don Flaminio Longagnani ha riassunto le difficoltà incontrate dall' azione pastorale dei suoi predecessori, in un villaggio rurale interessato intensamente dalle migrazioni bracciantili: "Don Cantoni continua a deplorare la piaga della Emigrazione, che aumenta paurosamente, anche "se non è sempre la necessità economica a determinarla". Infatti egli dice che molti giovani emigrano per il solo desiderio di avventura, e per sottrarsi alla autorità domestica. Questi emigranti, infatti, ritornano dalla Svizzera, dalla Francia o dalla Germania "insubordinati e sprezzanti sia delle leggi divine che di quelle umane e domestiche". [00'] Varie cose avevano favorito e favorivano il diffondersi delle idee antireligiose e anticlericali, che già avevano costituito il pane della liberaI-massoneria. La emigrazione che, per ragione di lavoro, fin dal 1862 e seguenti, i nostri operai disoccupati erano costretti ad effettuare, portandosi in Francia, in Isvizzera, in Germania e anche in America del Nord, in mezzo a paesi protestanti, aveva favorito il diffondersi del concetto che i Preti e la Chiesa avevano sempre tenuto nella ignoranza il 53) Ibid., p. 215. 54) Ibid., pp. 217-218. 59 55) Manoscritto conservato presso l'Archivio diocesano di Reggio Emilia, VoI. III, pp. 93, 100-101. 56) ATTILIO BRUNIALTI, L'esodo degli italiani e la legge sull'emigrazione, in "Nuova antologia", Val. XLVI, luglio 1888, p. 96. 57) M. GANDINI, Questione sociale ed emigrazione, cit., pp. 65-66. 60 popolo, per meglio sfruttarlo assieme ai Capitalisti." (55) Appare quindi evidente la sfasatura tra gli atteggiamenti verso la religione di questi migranti e quelli propri dei migranti permanenti, soprattutto quelli provenienti dalle aree montane. Spesso, i secondi - almeno esteriormente - esasperavano il proprio conservatorismo identitario, anche in campo religioso, cercarido di fondare su determinati stereotipi, riguardanti le proprie tradizioni d'origine, una identità da giocare nei processi di adattamento nelle società straniere in cui cercavano di integrarsi. D'altronde, i vescovi di Guastalla e di Mantova, ed il loro clero, non assunsero verso l'emigrazione una sensibilità ed una capacità d'iniziativa raffrontabili a quella del vescovo di Piacenza, Giovan Battista Scalabrini. Un articolo della "Nuova antologia" descrisse con molta enfasi la partenza dalla provincia di Mantova di "interi villaggi col parroco in testa." (56) Si trattava di una immagine oleografica, palesemente esagerata. La partenza di parroci mantovani al seguito del loro gregge non trova riscontri negli archivi diocesani, né in quelli civili o nella stampa locale. Anche nell'area dell'Oltrepò, che fu la più interessata dall'emigrazione nella provincia mantovana, le numerose partenze non determinarono un calo della popolazione tale da ridurre - se non momentaneamente - l'alta densità demografica caratteristica della zona. I villaggi della bassa padana rimasero comunque sovrappopolati; ed i loro parroci rimasero tutti nella propria canonica, a cercare di garantire una stabilità a equilibri rurali tradizionali sempre più compromessi. Un impegno costante di molti parroci dell'Oltrepò mantovano fu invece quello di fornire consigli e informazioni ai parrocchiani che intendevano partire, o di tenere contatti tra gli emigrati e le famiglie; contatti resi difficoltosi dai precari canali di comunicazione e dalla scarsa familiarità della gente di campagna con la scrittura. In certi casi - almeno quando si trattava di famiglie coloniche, prive di esperienza nella mobilità geografica e professionale, ignare di qualunque cosa estranea alla realtà agricola locale - i parroci svolsero un ruolo di mediazione culturale per una parte dei lavoratori che abbandonavano il paese(57). In generale, le loro prediche cercavano di scoraggiare la mobilità. Tutte le notizie che ricevevano dal clero operante nei paesi dove i lavoratori si trasferivano, davano prospettive sconfortanti sulla conservazione della fede e della moralità tra gli emigrati. Una lettera pastorale del vescovo Giuseppe Sarto nel 1887 incitò parroci ad occuparsi dell'assistenza spirituale a chi desiderava partire, e ad intrattenere rapporti con quelli che dall'estero mantenevano contatti con la parrocchia in cui erano nati. Lo scritto del vescovo di Mantova non entrò nel merito delle condizioni economico-sociali che originavano l'emigrazione, limitando la riflessione alle conseguenze etico religiose del fenomeno. Ai parroci rivolgeva la raccomandazione di ammonire i fedeli sui rischi a cui sottoponevano la propria vita e la propria anima andando in America. A chi partiva, i parroci dovevano saper dare tutti i ragguagli su come contattare chiese e missionari cattolici all' estero, per poter conservare anche in un paese straniero la propria fede ed i propri riti religiosi. A questo scopo, ad ogni partente la parrocchia doveva rilasciare un certificato attestante i sacramenti ricevuti; ed ai capifamiglia o ai più devoti andava fornito il libretto del catechismo diocesand 58l . Ma le famiglie coloniche, che partivano con la benedizione del parroco, portando addosso immagini dei santi, erano quelle che in genere non facevano più ritorno, restando oltre oceano alla ricerca di terra da coltivare. Le loro partenze mettevano in crisi la vita parrocchiale, senza essere di stimolo a nuovi rapporti religiosi nelle comunità paesane. Nell'anno record dell'emigrazione, il 1891, a Borgofranco Po fu persino sospesa la sagra del santo patrono, talmente i sentimenti comunitari erano rimasti depressi per la recente partenza di numerose famiglie<59 l. 58) Archivio diocesano di Mantova, Fondo curia vescovile, Lettere pastorali (LP), Mons. G. Sarto, 19 agosto 1887. 59) "La Provincia di Mantova", 26 agosto 1891. 9 - Passaporti per il mondo nuovo A colmare gli scompensi che l'emigrazione creava nell'assetto comunitario tradizionale contribuì notevolmente il forte sviluppo dell'associazionismo democratico. Questo associazionismo creò nuove prassi solidaristiche, che supplivano all'indebolimento delle strutture familiari tradizionali, o alla caduta dei valori paternalistici, fino a pochi decenni prima vincolanti i proprietari a soccorrere i poveri. L'instaurarsi di questi nuovi sistemi di relazioni comunitarie si inserì nella generale crisi della pratica religiosa e dei legami parrocchiali e ne ampliò gli effetti. Delle solennità cattoliche, l'emigrante stagionale apprezzava solo il fermento profano ed i raduni popolari in occasione delle sagre: buone occasioni per fare baldoria 61 e per narrare o esibire ciò che si era visto o appreso nei viaggi. I periodici ritorni delle squadre di braccianti emigrati rivitalizzavano i divertimenti paesani, incrementando il diffondersi di spazi ricreativi profani. Impossibilitati a trovare uno spazio proprio negli immobili culti parrocchiali, trasferivano dalla sfera religiosa a quella del divertimento il piacere di riunirsi ed il bisogno di rafforzare le proprie relazioni comunitarie(60). Tali tendenze al mutamento della vita paesana furono ben visibili dove l'emigrazione temporanea era maggiormente diffusa. A Gualtieri, dove si concentrava larga parte dell'emigrazione stagionale industriale, si ebbe contemporaneamente la maggiore concentrazione dell' associazionismo proletario. Per avere una dimensione approssimativa del fenomeno, si tenga presente che, negli anni ottanta del secolo scorso, i lavoratori diretti temporaneamente all'estero da Gualtieri costituivano all'incirca i due terzi degli emigranti temporanei del circondario guastallese, un terzo di quelli della provincia reggiana e la metà di quelli della bassa padana. Si tenga pure presente che la popolazione gualtierese costituiva allora all'incirca il 10% di quella del circondario guastallese, il 2,4% di quella della provincia reggiana e il 4% di quella della bassa padana. L'emigrazione temporanea di braccianti avventizi, che andavano a fare gli sterratori o i minatori, raggiungeva quindi livelli elevatissimi. Gualtieri era un riferimento d'obbligo per ditte come la Colajanni di Genova, che reclutavano manovalanza per la costruzione di canali, porti, strade, ponti e soprattutto ferrovie, in ogni parte del mondo. L'emigrazione permanente da Gualtieri si mantenne invece nella media dei paesi della bassa padana. Tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, in tutta la zona, Gualtieri era il paese più citato dalla stampa laica e da quella cattolica, per la frequenza di funerali civili e per l'alto numero di bambini non battezzati. Ben quattro società o circoli del comune di Gualtieri furono tra i 194 rappresentati nel 1892 al congresso del Partito dei lavoratori tenuto si a Genova; al successivo congresso nazionale tenutosi a Reggio, nel 1893, le associazioni socialiste del comune di Gualtieri furono cinque (su complessive 295 nazionali). Si possono poi raffrontare i dati sull'associazionismo classista a Gualtieri, nel 1905, con quelli di tre comuni limitrofi, pure essi con una elevata emigrazione, ma a carattere permanente(61). 60) Sul ruolo degli emigrati nelle ritualità paesane: G.L. BRAVO, Festa contadina e società complessa, Milano, Angeli, 1984. 61) Fonte: litica della rente alla Socialista, Organizzazione economica e poProvincia di Reggio Emilia adeCamera del lavoro e al Partito "La Giustizia", 1 maggio 1905. 63 62) Archivio di stato di Reggio E., PS Guastalla 1857-1886, B. 1867-1886 Passaporti esteri. 63) ADOLFO ZAVARONI, La linea, la sezione, il circolo. L'organizzazione socialista reggiana dalle origini al fascismo, Reggio E., Quorum, 1990, pp. 137-140; FULVIO SIMONAZZI, ROLANDO CAVANDOLI, Gualtieri. Vita di una comunità, Ivi, Amministrazione comunale, 1983, pp. 165-173; SERAFINO PRATI, Una storia dentro la storia, "L'Almanacco", I (1982), n. 1. 64) Per una interessante comparazione tra l'economia rurale della bassa e della media pianura emiliana e della zona appenninica, in rapporto all'emigrazione e ai conflitti sociali: ASMN, API, B. 229, f. Comizi agrari, relazione del Comizio agrario di Modena (11 dicembre 1876). Cfr. Cent'anni di emigrazione da Pavullo e dal Frignano, cit., pp. 163165. 64 Nei comuni di Boretto e Poviglio, l'emigrazione aveva riguardato essenzialmente famiglie coloniche di piccoli proprietari e mezzadri, per lo più dirette stabilmente in Argentina e Brasile(62). Nel comune di Brescello avevano avuto un peso rilevante sia l'emigrazione permanente di famiglie coloniche. che quella temporanea di braccianti avventizi; ma il distacco massiccio dal paese era stato temperato dallo sviluppo di qualche attività industriale nel paese. A Brescello, ma ancora di più a Gualtieri, ci fu una considerevole adesione femminile all'associazionismo classista: un fenomeno che alla fine del XIX secolo era ancora insolito nelle campagne. Nelle famiglie bracciantili di quei paesi, la lontananza dei padri e dei fratelli, per buona parte dell'anno, aveva come conseguenza una più aperta partecipazione delle donne alla sociabilità paesana, soprattutto se esse - molto spesso si trattava di truciolaie - avevano una loro attività lavorativa indipendente(63) . Per individuare le condizioni in cui la mobilità'geografica divenne un radicale fattore di trasformazione sociale, è interessante mettere a confronto gli effetti culturali dell'emigrazione nella bassa padana con quelli riscontrabili per l'emigrazione dall' Appennino emiliano. In questa seconda area, la tradizionale transumanza, l'afflusso nella bassa padana durante i grandi lavori delle colture cerealicole, l'attrazione dei lavori industriali in Europa e in America svuotavano i villaggi e i borghi montanari dalla popolazione maschile adulta, per lunghi periodi. Si trattava essenzialmente di un'emigrazione temporanea, dato il tenace attaccamento delle popolazioni montanare ai loro paesi e ai fazzoletti di terra che quasi ogni famiglia possedeva(64). Anche gli emigranti dall' Appennino emiliano si caratterizzavano per una tendenza ad opinioni politiche radicali e spesso per uno spiccato anticlericalismo dei più giovani. Ma nei paesi regolarmente privati della popolazione maschile adulta, la tendenza all'associazionismo era scarsissima e particolarmente difficoltosa. Nei microscopici villaggi e casolari dell' Appennino, abitati in permanenza solo da donne, bambini e anziani, l'identità locale e le relazioni comunitarie si continuarono a proiettare tenacemente su una capillare rete di parrocchie. Le parrocchie dell' Appennino reggiano, nella maggior parte dei casi comprendevano all'incirca duecento anime: tutti gli abitanti erano quindi personalmente noti al parroco, spinto anche EMIGRAZIONE ALL'ESTERO DALLE PROVINCE DI MANTOVA E REGGIO, SECONDO I DATI UFFICIALI Emigranti 7000 ~ -I- 6000 I ~ r 5000 ~ ~I ~. ~ 4000 ~ 3000 2000 i 1000 r'4 . " . .~ . , . . , . . . . . . . 1876 1677 1878/ 1879 lB80 1881: ~ -vtlol .,.. m;;:i Fii . , . ~ 1882 18S3 1884! 1885 1866 1887 Oalla provincia di .antova ~ ....'W M 1888 1889 1890 ~ _-. 1891 1892 1893 D .~ '"' 'SII ~ _--. . . f 1894 1895 1898 Dalla provincia di Reggio Da' grafico IIlIarge come i lavoratori d.l1'Oltrepb ••ntavano • della bae_ resgiana abbiano fornito fino al 1894 ; contingenti più conai8tanti al1' •• igrazione dal'. riapettive province di Mantova e Reggio ~ lA 1'891 I I! I.. . . . E'• •; . ~ ~~ 1898 1899 r 1900 1901 1902 1903 1904 1905 ~ - __ (> Annl Dai circondari o distretti della bassa padana nelle rispettive province di Mantova e RegBio 65) MAIC, DGS, Circoscrizioni ecclesiastiche in relazione colle circoscrizioni amministrative, cit., pp. 264-266. 66) Su questi temi intervenne nel 1901 il deputato del collegio di Guastalla, Adelmo Sichel, nel congresso costitutivo della Federterra (Lotte agrarie in Italia, cit., p. 58; cfr. S. MARGINI, Cenni sull'agricoltura, cit., p. 26). Su scioperi etumulti contro i lavoratori veneli, nelle risaie della bassa mantovana, cfr. ASMN, API, B. 487. Sulle difficolla dell'organizzazione socialista ad avere una presenza regolare nella zona appenninica emiliana: ADOLFO ZAVARONI, La linea, la sezione, il circolo, cit.; M. FINCARDI, Primo Maggio reggiano. Il formarsi della tradizione rossa emiliana, Reggio E. Camere del lavoro di Reggio e Guastalla, VoI. Il, pp. 200-205; SANDRO SPREAFICO, La chiesa di Reggio Emilia tra antichi e nuovi regimi, VoI. Il, Bologna, Cappelli, 1982. 66 dalla povertà del proprio beneficio a cercare stretti rapporti coi parrocchiani(65). Nel XIX secolo si registrò quindi nella zona appenninica l'apparente paradosso di un' opinione pubblica orientata a sinistra e al laicismo, mentre le comunità locali rimanevano solidamente legate alla rete parrocchiale, nonostante la crisi che l'emigrazione provocava nei loro costumi tradizionali. All'inizio del XX secolo, quando la cultura del movimento operaio si diffuse dalla bassa padana a tutta la pianura emiliana, la zona appenninica vi si mantenne quasi impermeabile. Nelle povere comunità montanare, la cui agricoltura era scarsamente produttiva e difficilmente modernizzabile, con una proprietà fondiaria frazionata in modo esasperato, con microproprietà coltivate da chi non era idoneo ad emigrare, il principale antagonista di classe era normalmente l'usuraio, contro cui non era possibile combattere sindacalmente. Proprio per questa estraneità alla cultura organizzativa del movimento operaio, i lavoratori che in primavera scendevano dall'Appennino per la zappatura ed altre operazioni agricole nella bassa padana, erano spesso accolti con ostilità, perché considerati crumiri, come accadeva pure agli immigrati dal Veneto, per la stessa ragione(66). Dai primi anni del XX secolo, appena il clero promosse anche in montagna una rete associativa cooperativa e previdenziale gravitante sulle parrocchie, le identità paesane dell' Appennino emiliano si polarizzarono per lo più stabilmente nelle rappresentanze istituzionali del cattolicesimo politico, con una tendenza antitetica a quella della pianura. Gli inediti di "Benigno" Dall'archivio di Sereno Folloni riportiamo tre lettere di "Benigno" Giuseppe Dossetti. Folloni ha ottenuto tali lettere, scritte nella primavera del 1945, dalla famiglia dell'Ing. Domenico Piani. Piani, leader della Democrazia Cristiana in città, era stato esponente del PPI di Sturzo; sarà il primo Segretario provinciale della Democrazia Cristiana reggiana. Pur avendo scelto lo pseudonimo partigiano di "Fontana", notiamo che Dossetti si rivolge a lui alternando, per ragioni di sicurezza, i nomi di "Paolo" e "Graziano". Traspare infatti dalle missive la costante preoccupazione per la sorte di Piani, ormai sospettato dai fascisti, e dunque il timore di un arresto, che avrebbe significato probabile tortura e magari condanna a morte. Da poche settimane si era concluso il processo ad Angelo Zanti con l'avvenuta fucilazione dello stesso, e la condanna di Carlo Calvi, Luigi Ferrari e Gino Prandi alla pena capitale al momento sospesa. Ma anche la situazione in montagna è tutt'altro che facile; al proposito le parole di Dossetti sono di una chiarezza a cura di SALVATORE FANGAREGGI Tutta la corrispondenza partigiana - che veniva trasmessa a mezzo di staffette con l'obbligo in caso di pericolo di ingoiare il foglio - contiene esclusivamente i nomi di battaglia. È pertanto indispensabile, per la comprensione dei testi, l'identificazione delle persone citate. Monti: Col. Augusto Berti - Valori: Pietro Pollara - Eros: Oidimo Ferrari -Franceschini: Pasquale Marconi - Ermes: Ermanno Oossetti - Franchi: Gismondo Veroni - Pezzi: . Ettore Barchi - Marzi: Cesare Campioli Bianca: Lina Cecchini - Carlini: Sergio Vecchia - Rosario: Sandra Codazzi - Gabrielli: Antonio Grandi; - Mariani: conte Carlo Calvi di Coenzo -"Sandro" è il figlio Alessandro - Ferruccio: Alfio Ruggeroni - Marco di Rivalta: Edgardo Castagnetti.E' probabile che con "l'agronomo" Oossetti indicasse Mario Morelli (il padre di Giorgio Morelli "II Solitario"). Non si è in possesso, al momento, di elementi di identificazione per "Luca", "Bruno di Cella", "Ala", "Bianchi, l'ingegnere socialista" e il "Curato di Bianca". tale da non richiedere commento. Da qui l'utilità della presenza di un prestigioso esponente della resistenza cattolica come Domenico Piani da affiancare ai fratelli Dossetti e Pasquale Marconi. Si ha l'impressione che Dossetti non abbia la convinzioné della prossima fine del conflitto, che invece avverrà da lì a poche settimane e dubita della "fretta degli Alleati". 69 D'altronde il giorno di Pasqua vedrà ancora la cruenta battaglia di Cà Marastoni in cui saranno particolarmente impegnate le forze cattoliche con un duro contributo di sangue. Le relazioni di Dossetti a Piani appaiono di impietosa sincerità soprattutto in ordine ai contrasti con le forze comuniste per questioni di metodologia nella lotta. Le consegnamo nella loro integrità alla storia della lotta di liberazione. Caro Graziano, dopo la lettera tua portatami da Ala non ho più avuto nulla. Quindi non ho avuto risposta a quella mandatami a mezzo del Curato di (?) che mi aveva portato su il tuo biglietto e al quale avevo anche affidato i verbali delle riunioni tenute al Comando e la copia della dichiarazione presentata dai nostri rappresentanti delle tre Provincie. Spero che tu avrai ricevuto tutto. Ad ogni modo mi occorre che tu mi risponda su tutto: tu devi portare pazienza, ma i tuoi scritti devono essere un po' più diffusi sia nel rispondere ai miei, sia nel darmi notizia della situazione di costì. Ed ora eccoti alcuni dati e precisazioni: I) Anzitutto quanto a te: se tu proprio non vuoi venire su, tu devi almeno conservare da costì le funzioni di nostro Capo; esponendoti molto poco (perché io resto sempre convinto che tu sia gravemente indiziato) e cercando per contro di assicurare al massimo le informazioni necessarie a noi perché non perdiamo il contatto con gli sviluppi politici della pianura. II) Non tu (perché ripeto non devi farti pescare) ma qualche altro deve predisporre una rete di diffusione dei materiali propagandistici, che speriamo di mandare presto giù. Noi in proposito potremo fare molto (abbiamo ormai tutto, caratteri, macchina, proprio una macchina da stampa, inchiostri e carta; ci manca solo un compositore veloce, perché abbiamo solo degli apprendisti. Dovresti cercarlo e mandarlo su; potremmo anche pagarlo). III) Per Pasqua uscirà il primo numero del giornaletto (ciclostilato) della Brigata. Subito dopo prepareremo fogli di propaganda. Intanto 70 abbiamo ristampato quel foglio che era stato diffuso giù: "Alcune idee sulla Democrazia Cristiana". IV) Ti mando copia di una circolare, mandata ieri ai Parroci della zona. Scrivimi le tue osservazioni. Ne stiamo preparando un' altra per i dirigenti e un' altra per il movimento femminile. A proposito del quale movimento femminile, che qui si sta iniziando con successo, avremmo bisogno che Bianca si decidesse a venire su. V) Quanto alla situazione generale, qui vengono notizie contraddittorie: abbiamo sentito anche noi messaggi dei Comandi Alleati ai Partigiani, da vari indizi riteniamo che i tedeschi si apprestino a ritirarsi. Ma certo ci sono anche altri segni, i quali fanno pensare che gli alleati, soprattutto per ragioni politiche, non abbiano gran fretta nell' avanzare e occupare le provincie settentrionali. Vari rapporti pervenutici da Roma, sono in questo senso. Quindi bisogna mettere sul novero delle probabilità anche quella che, i tedeschi si ritirino, ma che prima della occupazione intercorra un certo spazio. Ora, prove sicure ci sono per ritenere che in questa eventualità i comunisti tenterebbero di instaurare almeno per alcuni giorni un regime militare loro (soprattutto valendosi delle SAP) e soprattutto di fare in via sommaria l'immediata epurazione che temono di non potere fare dopo. Dato questo, tu capisci quanto possa essere necessario di ricostruire in una maniera o nell' altra il nostro controllo sulle SAP della pianura. E' sempre più urgente il trovare un nostro da porre nel Comando SAP. VI) Come tu saprai vi è stato un rastrellamento o meglio puntata nella zona di Baiso-Carpineti. La SAP nonostante il copioso armamento (era stato loro distribuito da qualche giorno molto materiale fornito dalla Missione Americana di Ferruccio) hanno fatto una figura ignomignosa: ed erano parecchie centinaia. Marzi stesso che si trovava colà (mentre io ero purtroppo a letto) è venuto poi da me, ammettendo che le cose erano andate molto male e che si era rivalutata l' inefficenza militare delle SAP. Gli unici che hanno combattuto sono state le Fiamme Verdi: sei in tutto, quante erano nella zona (tra gli altri il nostro [grafia indecifrabile]. VII) Appena sarà possibile, mi recherò a Baiso e Carpineti. Qui i comunisti stanno compiendo non solo atti arbitrari continui (rapine, prelevamenti, uccisioni frequentissime) ma quel che è peggio stanno 71 conducendo una violentissima campagna intimidatoria contro i nostri: tra l'altro minacciano di disarmo e di morte ogni giovane che venga con noi. Ho già predisposto perché questi fatti vengano documentati (il rastrellamento, ha interrotto la Istruzione). Appena avrò un complesso adeguato di prove, sferrerò un'offensiva di estrema energia. Credo proprio che sia giunto il momento di rispondere alla violenza con l'energia, per far sentire che non siamo disposti a tollerare un nuovo fascismo. VIII) Da Roma, tramite il figlio di Bianchi (l'ingegnere socialista) arrivato cinque giorni fa in aereo, ci sono pervenuti sette milioni per saldare debiti contratti dai Partigiani sino al 31 dicembre. Oggi dovranno stabilire i criteri per la distibuzione. Prevedo battaglie. IX) La stessa persona (mi pare che costì si chiamasse Carloni) ci ha portato anche Istruzioni del Governo: purtroppo verbali. Ad ogni modo vi si parla tra l'altro di "Abolizione, là dove è possibile (7!), dei Commissari e militarizzazione delle formazioni". X) Oggi ci sarà riunione tra Comando Unico, Comando modenese e Comitato per decidere della insistente richiesta da parte dei modenesi di passare il nostro territorio, per la restrizione della loro zona, in seguito ai movimenti tedeschi. Purtroppo la nostra Brigata dovrà farne le spese. Anche per questo, ci sarà battaglia. XI) Vorrei approfittare della riunione, anche per ritornare sulle decisioni precedenti, circa la posizione dei Nostri al Comando, che ancora i Comunisti cercano di sabotare, non applicando in pratica il principio dellla nostra partecipazione ad ogni controllo. XII) Quanto allo scambio dei prigionieri, i comunisti (Marzi) compreso, forse sotto le insistenze di Eros, hanno fatto di tutto per impedire persino l'inizio delle trattative, complicando enormemente le richieste procedurali preliminari e approfittando del fatto che io ero legato al letto. Tanto per tua norma. Le trattative formalmente non sono ancora interrotte, ma ormai non vi è quasi nulla da sperare, tanto più che gli stessi inglesi della Missione (con un abuso di potere, perché esorbita dalle loro funzioni di collegamento) sono intervenuti per vietare lo scambio. XIII) Come forse saprai i nostri modenesi hanno istallato una Radio emittente ("Radio Emilia", onda di 41-42 metri: ore 7,45/12,15/13/72 queste due sono le trasmissioni meglio sentite; 19,45/23)- Collaboreremo anche noi - Bisogna che tu faccia fare molta propaganda. (Si ascolta meglio al mattino) Addio e tantissimi auguri per la Santa Pasqua. Benigno Tu dovresti sin da ora preparare una relazione molto dettagliata sulla nostra attività ab inizio sino ad oggi, sia come attività interna di Partito, sia come attività di C. L., sia come attività di liberazione. Ho visto che a Firenze, alcuni partiti hanno avuto un grande successo preparando in anticipo questa relazione, già stampata, e pubblicandola con qualche aggiunta, appena sono arrivati gli alleati. Tu solo puoi farla, almeno per il periodo fino al 30 novembre. Caro Graziano 22/3/mattina Ala mi ha portato ieri sera la tua del 17. Non ne sono soddisfatto. Dice e disdice. Perciò quanto alla tua situazione personale, ti ripeto formalmente che tu devi venire su e riprendere le tue funzioni di nostro Capo, interrotte il 30 novembre. In particolare non dovresti nemmeno lontanamente temere di mettermi in imbarazzo. lo non desidero altro. Per giunta ora ti scrivo da letto con una forma influenzale, ma in effetti anche per uno stato di esaurimento, che mi impedirà forse di lavorare. Quanto alla tua famiglia tu non devi preoccuparti: è con assoluta serietà che ti ripeto che tu potrai sistemarla ottimamente qui. Tu non puoi avere affatto l'idea delle condizioni della zona e della facilità del viaggio, almeno quando sia fatto a tappe senza fretta. Ti ripeto poi che noi ci impegnamo a provvedere quanto può essere necessario a te e ai tuoi. Per il cibo in particolare che può occorrere a te e alla tua famiglia, esso è già garantito con abbondanza. Vedrei dunque il tuo distacco da Reggio una difficoltà: cioé la possibilità per te di svolgere ancora un lavoro utile in pianura. Ma questa possibilità a mio giudizio ormai ti è venuta meno; Tu restando in basso sciupi con frammenti di attività, scarsamente efficaci e pericolosissimi tempo e capacità che potresti ben più utilmente e sistematicamente impiegare qui a vantaggio non solo della montagna, ma anche della pianura. Mi dici 73 che quando io sono salito, tu eri quasi deciso ad accompagnarmi. Non lo credo. lo allora non ti dissi nulla perché intendendo scendere, volevo tutelare al massimo il mio segreto. Ti abbraccio e ti aspetto, tuo Benigno Caro Paolo, non so se avrai avuto il mio biglietto di sabato scorso. Ti riassumo brevemente gli eventi degli ultimi giorni: ieri martedì abbiamo concluso le conversazioni comuni con il c.L. e del Comando Unico. I risultati sono per noi molto soddisfacenti, in quanto abbiamo conquistato varie posizioni. Dipenderà da noi ora esercitare un effettivo controllo in condizioni di parità con gli altri. Il C.U. è stato riorganizzato. I comunisti avevano proposto la sostituzione del Comandante: noi abbiamo potuto evitarla. Resta Monti comandante, Miro vice comandante, Eros commissario generale, Franceschini vice Comm. Gen .. Ma questi avrà un sostituto permanente, coi suoi stessi poteri e il suo diritto al voto in seno al Comando (sostituto abbiamo designato Ermes, mio fratello). Inoltre noi otteniamo un ispettore generale di tutte le Brigate, membro del comando con diritto di voto e funzione di relatore su tutte le questioni. Non abbiamo ancora designato la persona. Le Fiamme Verdi avranno per forza (dato. quello che mi hai comunicato tu) i loro commissari ma designati tutti da noi. Il Commissario Generale avrà un personale composto anche di elementi nostri: anzi a questo proposito stamani abbiamo designato un nostro come redattore dei giornali del Commissariato. Valori che era stato ignomignosamente sostituito al Comando della Polizia è stato nominato presidente di una commissione di inchiesta permanente del C.U., la quale è stata istituita apposta con la funzione di istruire tutti i processi e compiere con pieni poteri (anche sulla polizia) tutte le inchieste nei casi più gravi. Le S.A.P. della zona propriamente partigiana verranno progres74 ~ --./'-,) \ sivamente riassorbite nelle Formazioni; mentre quelle della zona subpartigiana sono poste alle dipendenze di un comando S.A.P. della montagna (composto da Franchi e Pezzi) alla sua volta dipendente dal C.U. Questo noi abbiamo richiesto, per sottrarre le S.A.P. dalla dipendenza dalle Brigate Garibaldi. I) I consigli comunali (che hanno dato così cattiva prova) se non sciolti saranno praticamente sostituiti dal C.L. che dovranno avere tutti i poteri, alle dipendenze del C.L. Montagna. Il) Inoltre tutta una serie di altre deliberazioni, rivolte a farci partecipare meglio al controllo delle Intendenze degli arruolamenti, ecc .. Mando, appena trascritti, tutti i verbali delle riunioni. E ora veniamo a noi. Con Franceschini e gli altri amici abbiamo deciso di costituire in montagna un centro politico nostro delle montagne ed un centro politico nostro provinciale. Abbiamo già impiantato l'ufficio. Stiamo impiantando qui la tipografia che serve a stampare giornali e manifesti per la montagna, per le Formazioni e per la pianura. Inoltre secondo quanto mi ha detto Marzi (che pare verrà anche lui a stare in montagna; a proposito io non gli ho ancora detto che sto qui) è probabile che il C. Provo almeno come organo deliberante si insedi in zona partigiana conservando a Reggio un semplice organo di esecuzione e di collegamento. In vista di questo: Ti prego categoricamente (anzi ti ordino in nome di tutti) di salire in montagna per assumere la direzione del nostro centro politico provinciale. III) Di non pensare a nessun ostacolo; noi provvederemo a darti finché occorra, quanto è giusto e doveroso che tu abbia per i bisogni tuoi e della tua famiglia. IV) Se credi, possiamo trovare in zona partigiana o sub partgiana una casa per tua moglie e i tuoi bambini. V) Però tu devi prima di partire, designare costì il nostro sostituto a Reggio nei seguenti organi: a) c.L. oppure organo esecutivo: per questo non fidarti di Luca che è un inconcludente. Cerca di ritrovare Carlini, oppure il nonno oppure l'agronomo, oppure un giovane sacerdote (per esempio il curato di Bianca che è disposto a lavorare) tu devi farlo subito e darmi assicurazioni in proposito. Tieni presente al riguardo che Marzi e i suoi ritengono 76 un tuo ritorno nel c.L. troppo pericoloso, non solo per te ma anche per loro. Marzi tuttavia ha accettato di incontrarsi con te, una volta. Si servirà del curato di Bianca come tramite. b) Un nostro rappresentante del Comm. S.A.P. alla peggio potrebbe essere Bruno di Cella per il quale ci potrebbe servire Rosario: oppure Marco di Rivalta; non vedo altri. c) Un nostro rappresentante al Com. piazza (per questo forse ho in lista io un elemento). Infine occorre che tu combini bene per una base di collegamento costì perché noi possiamo mandare o ricevere notizie dalla pianura. Ti mando copia della dichiarazione che d'accordo con Parma, Modena abbiamo presentato ai rispettivi c.L. I comunisti si sono riservati di rispondere. Con Modena siamo collegati quotidianamente. P.S. (15 - 3 - ' 45) Una prima copia di questa lettere doveva scendere ieri per la solita staffetta. Ma dato l'allarme in zona, non è partita che stamani e non so se ti perverrà. Ti mando quindi una seconda copia insieme ai verbali delle riunioni più importanti. Ho avuto stamani il tuo biglietto del giorno II. Mi dici che avete designato Luca: è un ingenuo e un arruffone. Può andare bene con i socialisti e non con i comunisti. Quanto a te ti ripeto che devi venire in montagna. Per il servizio di staffette che temo si sia interrotto rivolgiti alla moglie Pezzi che una volta alla settimana sale per incontrare il marito presso Gabrielli. Avverti la signora di Mariani che Sandro è su con me. Ed ora una cosa molto importante. I comunisti stanno facendo di tutto per mandare giù anni alle loro squadre sottraendole ad ogni controllo e facendone dei magazzini segreti (ne ho le prove). Gli inglesi hanno sospeso il rifornimento di armi anche per le Formazioni della montagna. Le F. V. avrebbero centocinquanta nuove reclute ora disarmate. Per contro la Missione Americana di Ferruccio (ufficiale italiano filocomunista) ha ottenuto un lancio per le S.A.P. reggiane e Modenesi. Sono state già mandate alla pianura molte armi, tra le quali trenta mitra americani e due mortai da 81. Bisogna che voi costì ne rivendichiate una parte per le nostre squadre di Cella, Montecchio, Poviglio, ecc. Per conto nostro cercheremo di ottenere la sospensione anzi la cessazione dei lanci per le S.A.P. della pianura e invece la ripresa dei rifornimenti per le formazioni della montagna. Il mio pensiero è che noi dobbiamo, per l'oggi e ancor più per il 77 domani, impedire l'accumularsi di altre armi in pianura. Scrivi il tuo parere in proposito. Ho saputo ancora che al c.u. è arrivato un milione per il Comitato da Roma. Ritengo che noi dovremmo preferire che esso rimanga qui anziché scendere a Reggio, dove non ne possiamo controllare l'impiego. lo caldeggierò questa soluzione. Benigno Cavriago - III elementare 1920-21 Primo a sinistra in seconda fila: Giuseppe Dossetti In prima fila secondo da destra con le bretelle: don Angelo Cocconcelli 78 Il nuovo curriculo di storia Il decreto Berlinguer sul programma di storia Tre giorni fa il ministro Berlinguer ha firmato a Firenze il decreto con cui introduce lo studio del '900 nella scuola. Non è che prima del decreto fosse proibito studiare il '900, ma era di fatto impossibile per noti problemi di curricolo: l'ampiezza del programma dell'ultimo anno, che comprende '800 e "900, fa sì che si arrivi al massimo alla seconda guerra mondiale. Però la 2a Guerra Mondiale, la Costituzione, la nascita della repubblica, sono argomenti di 50 anni fa, che noi adulti sentiamo come contemporanei perché abbiamo un'idea unitaria del '900; ma che un ragazzo di 16 o 18 anni registra nella sua mente allo stesso titolo del paleolitico superiore, mentre per lui la storia contemporanea reale è quella che egli vive. Quindi fare il '900 non può significare solo arrivare a fare la Resistenza. Siamo alla fine del secolo e dobbiamo cominciare a capire che la storia ANTONIO BRUSA Di ANTONIO BRUSA, docente di didattica della storia all'Università di Bari, segnaliamo le principali opere sull'argomento:Guida al manuale di storia, Roma, Editori Riuniti, 1985; 1/ laboratorio storico, Firenze, La Nuova Italia, 1991; 1/ manuale di storia, e 1/ programma di storia, Firenze, La Nuova Italia, 1991 ;La programmazione di storia, Firenze, La Nuova Italia, 1992. E' inoltre autore di numerosi saggi e articoli su libri e riviste specializzate, in particolare su "I viaggi di Erodoto", di cui è membro del comitato di direzione, ed è curatore delle seguenti raccolte di UD per docenti di storia delle scuole medie:Dal manuale al/a storia locale, Milano, Ed.Scolastiche Bruno Mondadori, 1992; Laboratorio, vo11.1, 2, 3, Milano, Ed.Scolastiche Bruno Mondadori, 1994, 1996. contemporanea deve essere vista anche secondo la definizione soggettiva dei ragazzi, cioè come la storia che essi vivono; ed è importante fare entrare nelle scuole un momento in cui ciò che essi sentono e di cui parlano diventa oggetto non solo del tema di attualità, ma di studio storico, su cui provare la bontà degli strumenti storici nel problematizzare, periodizzare, ragionare ecc. Per ottenere l'insegnamento del '900 nell'ultimo anno di ogni ciclo, però, il ministro ha fatto sì che già dall'anno venturo - a meno che il decreto venga ritirato, come io spero - i bambini di prima media avranno un programma che va dalla preistoria alla scoperta dell' America: ovvero, rispetto ad oggi, dovranno fare due anni in Il testo, rivisto dall' autore, riproduce la conferenza svoltasi il 7/11/96 nell' Aula Magna dell'ltg "C. Levi" di Reggio Emilia. Tale conferenza, assieme a quella di A. De Bernardi del 13/11/96 sulle rilevanze sto riografiche del '900, introduceva il corso di aggiornamento-laboratorio organizzato da Istoreco nel 1996/97, sul nuovo curriculo di storia nella secondaria superiore. 81 uno! Invece la nuova periodizzazione per le scuole superiori è: 1° anno: la storia dalle origini al II secolo d.C. 2° anno: dall'età dei Severi alla crisi del XIV secolo 3° anno: dalla metà del '300 alla metà del '600 4° anno: dalla metà del '600 a fine '800 5° anno: il '900. C'è dunque un programma molto, troppo pesante al biennio, dopodiché gli studenti sapranno benissimo il Barocco, visto che in terza si arriva solo al 1650 (poi dovrete girarvi i pollici chiedendovi cos'altro fare) mentre subito dopo dovrete rimettervi a correre perché in quarta non è uno scherzo arrivare da metà del '600 a fine '800! Che problema mette in luce il decreto Berlinguer, per le superiori e più an~ora per le medie? Mette in luce esattamente il problema del curricolo: cioè il fatto che se si ripete ad ogni ciclo scolastico tutta la storia generale, come si fa in Italia e come il decreto conferma, o si rende talmente affollata l'agenda dei contenuti da non potere mai fare niente in modo accettabile; oppure, come è il caso di questo decreto, per fare bene una cosa, si rovinano tutte le altre: come potranno gli insegnanti di prima media fare in 60 ore preistoria, storia antica e storia medievale non lo so proprio, e neppure immagino cosa potranno essere i manuali. IL CURRICOLO DI STORIA Questo decreto girava da un po' di tempo; avendo una copia del NEGLI ALTRI PAESI EUROPEI testo provvisorio, ho approfittato del fatto che dovevo tenere un seminario a Braunsweich, dove c'è il Centro internazionale di studi di didattica della storia, per svolgere lì una ricerca comparativa, e vedere come fanno il curricolo verticale di storia nelle altre parti d'Europa. Si può dire intanto che in Europa non ha spazio quella premessa che in Italia ha sempre impedito di ragionare, secondo la quale, "se non si segue la cronologia, allora è la morte della storia". Le esperienze europee sono talmente varie che ci dicono che la storia insegnata non muore, indipendentemente dalle diverse esperienze che si fanno. Quali sono gli elementi comuni che ho trovato nei programmi attualmente vigenti ? In primo luogo, la tendenza comune ai paesi maggiori è di evitare la ripetizione ciclica dei contenuti. Gli unici paesi che seguono il modello ciclico come l'Italia sono la Grecia e l'Albania: non sono esempi molto luminosi ... Tutti gli 82 altri paesi tendono invece a specializzare lo studio della storia secondo i diversi cicli di scolarità, sostanzialmente in questo modo: nella scuola elementare si fanno attività di conoscenza generale delle questioni storiche, fondazione dei pre-requisisti, immagini generali della storia e qualche quadro storico-sociale. Poi, la secondaria inferiore è il momento in cui fanno la storia generale, dal passato fino ai giorni nostri, ma con la fondamentale differenza, rispetto a noi, che la distribuiscono su quattro o su cinque anni: non c'è nessuno stato (se non la solita Grecia) che la fa in tre anni. Sottolineo questo aspetto perché fare la storia generale in tre anni significa condannarsi a quel dilemma che il decreto Berlinguer ha messo in evidenza, e di cui ho appena parlato. Rispetto alla situazione europea, la soluzione che si potrebbe attuare in Italia è ovvia: con l'elevamento dell'obbligo, noi avremmo un triennio più un biennio che ci permetterebbero di fare per bene, in cinque anni, la storia generale. Dunque in Europa la storia generale (come in matematica le addizioni) si fa una volta, per bene, poi non la si fa più rifare. Nelle scuole superiori dei paesi europei ci sono duy tendenze: una, assolutamente maggioritaria (Germania, Gran Bretagna, Belgio, Spagna, Svizzera e paesi dell'Europa settentrionale) che prevede temi d'approfondimento, con l'intento di coinvolgere studenti ormai maturi su temi e problemi di rilievo. L'altra tendenza, o se si vuole l'eccezione, è la Francia, che ripete il programma cronologico lineare, ma lo fa a partire dal '700: dal '700 al 1914 nel primo anno, dal 1914 al 1945 nel secondo, dal 1945 a oggi nell'ultimo anno. Un altro elemento comune a quasi tutti i paesi europei è l'impostazione di una didattica coinvolgente e attiva, tanto che in qualche modo si rovescia l'assunto della didattica italiana, che cerca di coinvolgere gli allievi, di farli giocare quando sono piccoli; e che poi, via via che crescono, considera finito il tempo dei giochi, e passa alla "storia vera", cioè alle lezioni frontali secondo il modello universitario. Anche in Europa esistono due modelli di insegnamento: quello tradizionale, dell'insegnante che entra, spiega, interroga; e quello moderno, dell'insegnante che fa apprendere secondo pratiche operative, cioè porta del materiale in classe, fa lavorare e discutere gli studenti, con una funzione prevalente di sollecitatore delle idee, coordinatore delle intelligenze, guida alla scoperta, organizzatore delle attività. Ma è questo secondo modello che gli stati propongono, 83 •• •• .--,. -.•• anche per le superiori, tanto che in alcuni Uinder tedeschi è previsto che gli studenti scelgano i programmi assieme ai professori: scelta guidata, sia chiaro, con voluminosi sussidi sui criteri di scelta dei contenuti. E queste scelte sono le più svariate: ad esempio in Westfalia-Renania uno dei quattro contenuti dell'ultimo anno è l'Ellenismo, e il fatto di non seguire la sequenza lineare non crea paure sul famoso "senso del tempo": un po' perché la trama generale se la sono già fatta prima, un po' perché ormai tutti gli studi di psicologia cognitiva, e le stesse esperienze dirette che abbiamo, ci dicono che il senso del tempo non si apprende perché tu insegnante spieghi i fatti nell'ordine cronologico, ma si apprende quando su un argomento proponi un'esercitazione che alleni a costruire il senso del tempo. I contenuti di storia nelle scuole superiori europee sono coinvolgenti per gli studenti, sono concepiti come strutture operative, non solo come conoscenze, e vengono selezionati in modo circoscritto: quattro all'anno, o in alcuni casi solo due. Queste esperienze europee dovrebbero valere per noi non certo come legge, ma come parametro di riferimento rispetto alle nostre preoccupazioni. Infatti, secondo me, un curricolo delle superiori dovrebbe essere LA STORIA DEGLI ACCADEMICI E LA STORIA A SCUO- composto da un numero limitato di unità didattiche (4 o 5), su LA: DUE LINGUE DIVERSE ... altrettanti nuclei di contenuti; da un certo numero di pratiche operative tra un'Unità Didattica e l'altra, e da una serie di altre attività che concernono l'acquisizione di strumenti inerenti il tempo, i documenti, la capacità di problematizzare. Di queste attività parlerò dopo. Diciamo intanto che l'asse portante dovrebbe essere l'insieme di questi 4 o 5 contenuti: con quali criteri sceglierli? Su questo ho l'esperienza del lavoro nella Commissione Brocca di cui faccio parte dal 1990. Da allora la commissione non è ancora riuscita a licenziare il programma definitivo di storia, perché quello che è uscito, e che forse qualcuno di voi segue, non è ancora soddisfacente. Perciò abbiamo continuato a riunirci e a litigare per cinque anni senza risultati: da una parte c'erano gli storici (Villari, Arnaldi, insomma i grandi della consulta degli storici), dall'altra i didattici, cioè io e un paio di insegnanti. Il ragionamento che fanno gli storici è il seguente: la storia è fatta di queste cose ... tra cui ci sono questi aspetti imprescindibili: allora, se vuoi sapere la storia, sono questi che devi imparare. Questo però è un ragionamento giusto, 86 dico io, se vuoi fare lo storico. Invece il ragionamento che fa, o che secondo me dovrebbe fare il docente, è un altro, poiché egli si trova di fronte un ragazzo che non deve fare lo storico, bensì imparare ad utilizzare le conoscenze storiche per arrangiarsi nel mondo contemporaneo, cioè per vivere nel suo mondo. Quindi io insegnante alla storia chiederò certo delle cose vere, profonde, importanti sul piano storico, ma: l) non ho interesse a chiedere tutte le cose importanti della storia; 2) mi interessa chiedere quelle cose che sono importanti in questo momento. Ecco perché il programma dovrebbe cambiare rapidamente: non c'è nulla di così deperibile come la didattica perché le cose importanti per l'attuale generazione di studenti sono diverse da quelle della generazione di quattro anni fa. Per il momento, i paesi attestati su questa impostazione sono Francia e Germania, che cambiano continuamente i programmi proprio perché hanno il polso di questi cambiamenti vorticosi delle generazioni che si succedono. L'Italia è il caso opposto: visto che i programmi di storia attualmente in vigore risalgono al 1960, si può supporre che se li si rifà adesso, dureranno altri quarant' anni, per cui gli storici che fanno i programmi tendono a pensare all'eternità. Accade così che noi cerchiamo alcune cose (quelle 4 o 5 di cui dicevo prima) mentre loro, gli storici, ne scelgono altre. Ma c'è un'altra questione che ci divide: supponiamo di avere deciso che uno degli oggetti importanti sia, ad esempio, la seconda guerra mondiale. Bene, voi sapete che, dal punto di vista didattico, non si è ancora detto niente, perché bisogna indicare ad esempio a quale livello di profondità, da quale prospettiva affrontare la 2a Guerra Mondiale. E qui si è rotta definitivamente la Commissione Brocca, perché gli storici hanno accettato di fare 4 o 5 argomenti l'anno, ma quando siamo andati a definirne il grado di analiticità, io proponevo di indicare solo le coordinate generali, e al suo interno una serie di temi che il docente sceglierà e combinerà come vuole, come riesce. Invece, dall' altra parte, gli storici dicevano: no, la 2a Guerra Mondiale è questa ... e partivano con un lungo elenco di sotto-contenuti. Il risultato era che il programma Brocca nella sua ultima versione aveva una somma di 200 contenuti per anno, che per 5 anni fanno 1000 contenuti (come, ad esempio, il patto di Monaco). Se si seguisse questa indicazione, un insegnante dovrebbe passare l'intero anno a 87 spiegare, al ritmo di tre contenuti all'ora. Questo mio ragionamento, che vedo incontra il vostro consenso, in Commissione veniva ripudiato, perché i professori universitari non hanno affatto l'idea che questo sia un problema. Dicevano infatti: ma no, basta accennare e poi passare avanti ... Ciò che non capisce il professore universitario - e che forse ha difficoltà a capire anche una larga parte dei docenti della scuola media - è che questo "accennare e passare avanti" ha senso per chi la storia la sa già, non per chi la storia deve impararla. Gli studenti, invece, percepiscono inequivocabilmente ciò che è trattato in fretta come qualcosa che non ha importanza, di cui non ha senso occuparsi. Non a caso, da varie rilevazione statistiche sappiamo che la storia, tra le varie discipline, non è né particolarmente amata, né particolarmente odiata, diciamo che è indifferente. E qui si apre la contraddizione tra una classe di adulti, e al suo interno una classe politica, che si strappa i capelli sull'importanza vitale della storia, e i giovani che sono sostanziale indifferenti di fronte alla storia e alla sua supposta importanza. Per questo è giusta ed è vitale la decisione collettiva di migliaia di vostri colleghi, e penso anche vostra, di dire: no, con i ragazzi adulti, all'ultima occasione che abbiamo per appassionarli a questa disciplina, per farne loro capire il senso, o ci fermiamo e discutiamo, oppure, se continuiamo a sfogliare il dizionario della storia, raccontando i fatti e magari facendo le prediche agli studenti perché non lo considerano importanti, ci condanniamo a perdere la battaglia dell'apprendimento. IL RAPPORTO TRA ABILITÀ E CONTENUTI 88 Torniamo alla questione di quei 4-5 contenuti l'anno (contenuti come, ad esempio, la 2a Guerra Mondiale, la nascita dello stato, o la rivoluzione francese). Il problema è il loro grado di finezza, ovvero quanto dobbiamo fare di questi argomenti. Lo schema che ora vedete (due spirali attorno a un tronco di cono rovesciato) è tratto dal curricolo nazionale inglese e rappresenta il loro curricolo verticale, che va dai sei anni fino a quella che per noi sarebbe la secondaria superiore (tenendo conto delle differenze del sistema scolastico inglese). Il tronco di cono rovesciato che vedete rappresenta le conoscenze. Allora, le 4 conoscenze che faremo all'inizio del curricolo verticale saranno conoscenze piccole. Ma che significa "conoscenze piccole"? Significa nuclei di sapere che saranno: a) molto generali; b) non numerosi; c) retti da modelli semplici; d) espressi in linguaggi accessibili. All'ultimo stadio della formazione, cioè nella parte alta del cono, le conoscenze saranno sempre 4 ma molto "grandi", cioè sorrette da una grande quantità di documenti, di pagine, di informazioni. Nel caso danese, addirittura, c'è da una parte un manualetto molto smilzo per tutti tre gli anni, e la gran parte del lavoro è occupato da soli due contenuti, uno di storia danese, l'altro di storia mondiale: hanno un'ampia libertà nella scelta di questi contenuti, ma una dettagliata definizione del numero di pagine, di fotografie, ecc. Questo è importante, perché entrando in una logica curricolare la quantità dei materiali non è un indice di memorizzazione, è indice di qualità delle abilità. Osservate le due spirali delio schema: una rappresenta le abilità specifiche, l'altra le abilità trasversali. Hanno questa forma perché sono sempre le stesse che si ripresentano, però a livelli più alti, cioè permettono all'allievo di gestire quantità di conoscenze sempre maggiori. Lo schema è basato dunque sul principio che all'aumentare delle abilità aumentino le conoscenze, e non viceversa. Apparentemente questo curricolo assomiglia a quello italiano: se diamo un nome a una conoscenza, ad esempio Annibale, questa occupa in terza elementare mezza paginetta, alla scuola media una pagina e mezzo, alle superiori dieci pagine, all'università il corso monografico. La somiglianza però è solo apparente, in realtà è l'esatto opposto: nella ciclicità italiana si aumentano le conoscenze e si suppone che per ciò stesso aumentino le abilità, cioè che lo studente impari a ragionare. Invece secondo gli inglesi è l'aumento delle capacità di ragionare che porta all'aumento delle conoscenze, come si vede facilmente dagli esempi delle loro Unità. In ciascuna ci sono i contenuti, gli esercizi, le operazioni che fa il docente, in forma di esempio: ebbene, nei modelli che ho visto, tutti previsti per Unit di 20 ore, non compare mai, per il docente, l'espressione "fa lezione", come non esiste, riferito allo studente, il verbo indifferenziato "studia", proprio perché tutto si basa sul "fare operazioni", ed è facendo operazioni di qualità sempre più alte che gli studenti possono masticare quantità di contenuti sempre più vasti e difficili. All'inizio del curricolo, oltre a dosare i contenuti, devo preoccuparmi soprattutto dei livelli di partenza degli studenti in termini di capacità. Ad esempio una ricerca di alcuni anni fa, svolta prima in Inghilterra poi in Italia, dimostrava che la maggior parte dei ragazzi 89 non possedeva un modello molto elementare come quello che tiene insieme le due figure fondamentali della produzione nel mondo contemporaneo, l'imprenditore e l'operaio: li posso rappresentare con due palline e due frecce: una freccia che rappresenta il salario, dall'imprenditore verso l'operaio, l'altra freccia in senso inverso che rappresenta il lavoro, le due variabili in correlazione tra loro. Le differenze dei punti di vista, delle attese dei due soggetti rispetto alla correlazione di queste due variabili spiega tutti i problemi sociali, almeno dal tumulto dei Ciompi ad oggi. Scoprire che il 75% dei ragazzi di 15 anni non sa gestire questo modello semplice significa che questi ragazzi, messi davanti a tre pagine di descrizione del tumulto dei Ciompi, non hanno la capacità di problematizzarle, cioè percepiscono quella vicenda come un'avventura, non dissimile da Cappuccetto rosso o Annibale, in cui qualcuno subisce catastrofi, vince o perde, ecc. Bisogna allora vedere all'inizio la capacità di gestire i testi che hanno gli studenti, e sulla base di questa regolare le operazioni da fare sulle pagine della prima DD, e dosare in termini progressivi sia le quantità di materiale sia le operazioni da far fare. LE ABILITÀ TRASVERSALI 90 Per abilità trasversali si intendono quelle che regolano i rapporti tra ragazzo e testo (scritto, iconico, ecc.) e non in una particolare materia, ma in tutte. Facciamo l'esempio dell'abilità di saper cercare delle notizie, a livelli sempre più autonomi. lo posso dire a un ragazzino: "a pagina x ci sono 5 notizie importanti su Napoleone: sottolineale". E' un esercizio di livello piuttosto basso di autonomia, in quanto sono indicate sia la pagine che il termine di controllo, cioè le 5 notizie, ed è "facile" l'oggetto, cioè Napoleone. Posso invece chiedergli di sottolineare, tra pag.30 e pag.70 del manuale, ciò che riguarda la formazione del mercato europeo tra '500 e '600. E' la stessa operazione, ma a livelli molto più alti: sfogliare 40 pagine da solo è un'abilità che, se non insegnata, egli non apprende da solo; lo stesso vale per la sottolineatura, che va insegnata, altrimenti poi mi arriva all'università e continua a sottolineare tutto. Imparare a cercare le informazioni riguardanti Napoleone o il mercato, poi, è un'operazione concettualmente analoga, ma di qualità totalmente diversa: è facile attribuire a Napoleone le informazioni a lui riferite, quand'anche le connessioni sul testo non siano di immediata evidenza. Invece per il mercato bisogna passare attraverso i concetti di domanda, offerta, traffici internazionali, ecc. Eppure il primo esercizio che faccio fare in 3a media a ragazzini che hanno seguito questo metodo è il seguente: dico loro che, siccome dobbiamo fare rapidamente l' '800, si divideranno in quattro gruppi: quello dell'economia, quello della società, quello della cultura, quello dei rapporti internazionali, e selezioneranno il materiale relativo alI' '800 (in tutto 150 pagine), col quale costruiranno un racconto, che ci servirà poi per altre operazioni. Quei ragazzi di 3a media lo fanno nello spazio di un paio di settimane, non perché siano più intelligenti dei loro coetanei, ma perché avevano fatto prima una serie di operazioni minime che li hanno messi in grado di operare con 150 pagine. Questo riguarda le abilità trasversali, ovvero, ripeto, quelle riferite al trattamento dei testi: selezionare, classificare, costruire scalette, racconti, problemi; distinguere tra testi argomentativi, descrittivi, o narrativi; saper porre domande adeguate al testo, sapere fare lo scanning, cioè prevedere dalla lettura veloce di un indice il contenuto di un testo; essere in grado di gestire le proprie capacità di lettura sapendo fare la lettura veloce, la lettura analitica, la lettura di ricerca, la lettura di piacere. Oltre alle abilità trasversali ci sono quelle specifiche, cioè disciplinari, sulle quali mi soffermerò dopo. Ora, invece, sull'importanza di tenere conto delle capacità iniziali degli studenti, vorrei sottolineare che quei ragazzi di 3a media che gestivano molte pagine sull'800 in tempo relativamente breve, all'inizio della la media avevano fatto una UD basata solo sulla gestione delle fotografie del primo capitolo, riguardante la preistoria. Questo perché si prevedeva che avessero scarse capacità di lettura, di utilizzazione dei documenti e di problematizzazione. Infatti, qui non siamo in un ambiente didattico di spiegazioni-interrogazioni, dove non ci si pone problemi di apprendimento, dove a rigore non c'è problema di curricolo ma solo di gestione di programma. Qui invece, in un ambiente didattico cooperativo-operativo, devo impostare il lavoro a partire dalle capacità del ragazzo: non per fermarmi a quelle capacità, ovviamente, ma perché se la didattica è un fatto di cooperazione tra me e lui, e se lui deve lavorare attivamente, deve poter partire dalle sue capacità per progredire; se il primo esercizio che gli propongo è tre metri al di sopra delle sue capacità, lui proverà dieci volte senza LE CAPACITÀ INIZIALI DEGLI STUDENTI, IL TEMPO A DISPOSIZIONE 91 riuscire e all'undicesima mi interpreterà nel modo più semplice e tradizionale: prof, io leggo e ti dico quello che ho capito. All'inizio del curricolo, perciò, anche se teoricamente potremmo lavorare in modo che gli studenti facciano la maggior parte delle cose che gli storici giudicano importanti relativamente al contenuto scelto, praticamente ciò non accade mai. Infatti, se voglio fare 4 UD, ho 15 ore teoriche per ciascuna (2 ore settimanali per 30 settimane di anno scolastico), che è un limite rigido da tenere come una cosa sacra all'inizio della programmazione, e in queste ore non posso tenere conto di tutte le rilevanze poste dallo storico, ma, come dicevo, all'inizio di la media potrò fare solo un aspetto della preistoria. Il resto, che lo storico giudica irrinunciabile, non lo farò, o al massimo sarà oggetto di una lezione frontale, che servirà solo a sgravarmi la coscienza. Per questo i contenuti iniziali saranno di bassissimo livello di approfondimento, anzi io sostengo che chi inizia una programmazione deve "bruciare" i primi contenuti (un po' come il primo giro di una partita a carte che serve a spiegare le regole al giocatore che non le conosce). Bisogna sacrificare all'altare dell'apprendimento le prime cose da fare: guai a farle "bene", cioè in modo approfondito, perché tutto il resto dopo non funziona. Partiamo da un livello "basso", poi procediamo a spirale, cercando di incrementare la quantità delle operazioni che il ragazzo deve fare sul manuale o su quant' altro voi porterete in classe, in modo che possa incrementare anche le conoscenze. Per riassumere, quando costruisco una programmazione curricolare, non devo pensare solo ai contenuti, ma devo definire prima alcune cose formali: 1) quanti contenuti e in quanto tempo; 2) quale sarà il loro livello di finezza; 3) quale è il livello di abilità di partenza degli studenti. Questo va stabilito in anticipo, a manuale chiuso, perché se poi lo apro e comincio a fare il "gioco della torre" su cosa scartare, non è possibile andare avanti perché sul manuale tutto è importante. Un criterio che ho proposto qualche anno fa è quello delle differenti scale spaziali, che serve anche per superare criticamente una condizione attuale dell'insegnamento, nel quale si mescolano solitamente in un'unica narrazione elementi di dimensione spazio-temporale totalmente diversi: eventi mondiali, europei, nazionali, qualche volta 92 locali. La maggior parte dei curricoli europei tende invece a differenziare questi diversi livelli, ad esempio in certi paesi si fa un anno storia mondiale, un altro anno la storia nazionale. Noi però potremmo utilizzare queste quattro dimensioni spaziali in modo diverso, facendo corrispondere a ciascuna di esse modelli di ampiezza e profondità diversa (questa, attenzione, è la condizione, altrimenti diventano quattro raccontini). Magari le DD possono differenziarsi anche perché una è di tipo economico, una di tipo politico, una riguarda una biografia, ecc. Ad esempio, nel primo anno di scuola superiore, potrei dire: l) La dimensione mondiale interessante è quella degli scambi intercontinentali basati su quelli che Maurice Lombard chiamava i prodotti strategici, cioè prodotti di alto valore sociale che possono andare in luoghi lontani e che non sono deperibili nel tempo. Ebbene, per lungo tempo molte di queste merci (oro, avorio, legni pregiati, schiavi) erano prodotte in Africa, arrivavano in Europa o nell'area mediterranea del vicino Oriente, dove venivano elaborate in vario modo; lì c'era anche una forte domanda per altri due prodotti strategici orientali (la seta e le spezie), per cui l'oro arrivato dall'Africa prendeva la strada dell'estremo Oriente, dove attivava un'altra economia. Questo è lo schema mondiale che funziona fino al 1500 d.C., dentro al quale potete mettere tanti soggetti: i Sumeri che l'hanno avviato, l'impero assiro, l'impero romano, bizantino, i Sassanidi, Carlo Magno. 2) Poi, sempre in classe prima, entrerei dentro una di queste regioni, il Mediterraneo. Qual è il fenomeno che mi interesserebbe? Potrebbe essere il Mediterraneo delle città, cioè l'urbanizzazione che si diffonde su tutte le coste del Mediterraneo, facendolo diventare un'area aggregata dalla civilizzazione urbana. Dal punto di vista del popolamento, delle lingue e delle religioni sono 500-600 città diversissime, ma tutte costellano le coste e attraverso i loro traffici mescolano merci, dei (ad esempio Afrodite, Istarte, Venere: la stessa, cambia solo il nome), strutture politiche: cioè sono poleis, ovvero società in cui l'aspetto fondamentale non è tanto la gestione del territorio - la polis ha un rapporto disastroso col territorio, che essa si limita a sfruttare, a differenza delle società idrauliche come l'Egitto, che vivono nella cura del territorio - quanto i rapporti umani che si sviluppano al ALLA DOMANDA SUi POSSiBiLI CRiTERi Di SELEZiONE DEi CONTENUTI. 93 proprio interno, quindi il problema della politica, e tra le città del Mediterraneo ci si scambia continuamente questo problema politico. Come esempio potrò prendere l'impero romano, o la polis greca, e lavorerò su questo. 3) Mi sposto poi a un livello nazionale, quello italiano, visto che siamo qui. In Italia potrei fare ad esempio l'argomento del popolamento italico, un argomento presente in tutti i manuali europei, perché all'Italia viene riservato un trattamento speciale proprio per il suo popolamento composito. Su questo le ultime ricerche ci raccontano una cosa straordinaria, cioè che tutto il variegato popolamento italico (Piceni, Etruschi, Iapigi, ecc) in realtà è un'invenzione, nel senso che tutti questi non sarebbero in realtà mai esistiti come popoli. Il libro di R.Perone, L'Italia alle soglie del protostorico, Laterza, 1996, sostiene infatti che attorno al 3000 a.c. la penisola italica era abitata da piccolissimi gruppi di 20-30 persone, bande che vivevano in nicchie, campavano dello sfruttamento del territorio e integravano l'alimentazione con la rapina a danno dei vicini. Col tempo da queste popolazioni si crearono degli aggregati e delle strutture gentilizie, che intorno al 1000 si costituirono in federazioni. Poi, di fronte all'arrivo dall'esterno dei Greci, che avevano una precisa identità di popolo, questi si dissero: ma perché non siamo anche noi un popolo? e quindi si inventarono un nome e una storia che non era mai esistita: si inventarono cioè di essere Piceni, Sanniti, Iapigi, ecc., ma queste cose iniziarono nell'VIII secolo e non avevano un passato, furono invenzioni politiche, per cui l'etnia fu un'invenzione politica, sulla quale poi si costruì una storia di rapporti politici che ebbe un esito politico. Questo è un esempio di contenuto sulla storia d'Italia come fatto politico di lunga durata, su cui potrei costruire la terza DD. 4) Poi, siccome siamo a Reggio Emilia e voglio che i ragazzi abbiano di questo territorio l'idea di un posto che anch'esso produce storia, farò un'DD di storia reggiana, che ovviamente io non conosco e non so quindi esemplificare, ma che certamente si può costruire in vari modi. Anche se l'ho improvvisato adesso, questo potrebbe essere un buon programma di storia antica: 4 DD della durata teorica di 15 ore ciascuno, con le diverse scale spaziali. Non so se avete mai visto quel documentario dal titolo "Potenze di IO" (Ed.Zanichelli) nel 94 quale inizialmente di vede l'universo grande come un punto; poi si entra e si vedono, successivamente, le galassie, il sistema solare, la terra, l'Italia, un prato e giù giù fino alle molecole, agli atomi, ai quark: ogni volta l'obiettivo si restringe di lO, facendo cambiare l'ordine dei problemi. Il legame tra i vari contenuti è di tipo formativo, non contenutistico: in quel documentario come nel nostro curricolo basato su differenti ordini di grandezza, il ragazzo impara che, secondo le diverse scale spaziali, deve cambiare ordine di problemi, per cui vedrà contenuti diversi. Quello spaziale è uno dei criteri di scelta dei contenuti, ma ce ne sono altri. Questo è importante, anzi è il motivo che fa sì che io stia qui, mentre, in generale, rifiuto di fare delle conferenze, delle lezioni frontali, che non trovo molto utili. Però, dove ci sono degli Istituti storici che funzionano, dove c'è la possibilità di mettere insieme degli insegnanti, allora vado volentieri, perché l'unica possibilità di risolvere questo problema è la cooperazione didattica. Hai detto bene: se l'DD è costruita veramente, tu più di una DD all' anno non costruirai. Allora l'unica soluzione è che attraverso la cooperazione e la razionalizzazione delle forze, ognuno di voi produca una o due DD l'anno, che col tempo vanno a formare un patrimonio comune sul quale potrai lavorare. Ce ne sono anche di già pronte e pubblicate (sui "I viaggi di Erodoto", sulla collana Laboratorio della B.Mondadori, su altre varie pubblicazioni), fatte dai gruppi di insegnanti che seguo io, da quelli che segue Maurizio Gusso, Ivo Mattozzi: è chiaro che poi le DD vanno adattate, combinate, modificate sulla base della propria situazione ed esigenze. In ogni SUL PROBLEMA DEI CARICHI DI LAVORO caso, io consiglio di procedere all'inizio col doppio binario, cioè di fare una parte del programma in modo tradizionale, e cominciare a innovare solo su una piccola parte, quella che si riesce. Il grosso del lavoro per il docente non dovrebbe essere quello di produrre, ma di prendere e combinare, adattare; poi, c'è la parte di creatività che verrà riservato a particolari momenti, ma è assurdo pretendere che uno sia creativo per 60 ore all'anno. E non bisogna aspettare, per costruire le DD, di avere il manuale perfetto, che non ci sarà mai. Questo tipo di lavoro si può fare su qualunque manuale, anzi, io mi sono convinto che in un certo senso, per imparare a fare le DD, più brutto è il manuale meglio è: fai prima, e se riesci a fare 95 "parlare" un brutto manuale, poi riesci su tutto. In un certo senso la povertà di strumenti didattici è uno stimolo, mentre avere materiali buoni può far pensare che tutto sia già risolto, mentre non è cOSÌ. In ogni caso, l'DD sul manuale è abbastanza semplice da costruire, più complicati sono altri tipi di DD. La continuità storica è in larga misura un mito. lo stesso come SULLA CONTINUITÀ STORICA, storico, se prima di fare una ricerca su un certo argomento dovessi SULLA NECESSITÀ DI SAPERE andare a prima, e a prima del prima, non fare mai la ricerca. Noi IL "PRIMA" PER CAPIRE storici "tagliamo", accontentandoci di poche sommarie indicazioni IL "POI, SUI "TAGLI". di precedenza, e poi andiamo direttamente sull'argomento. C'è piuttosto un'ideologia della formazione storica, che la presenta come padronanza di un continuum temporale che non sarebbe possibile interrompere. Ma questo è falso, e lo si può verificare a livello mondiale presso tutti coloro che studiano storia. E' dentro al problema storico, se lo costruisci correttamente, che troverai gli elementi di soluzione del problema stesso, e gli elementi per porre ulteriori interrogativi. In termini pratici, comunque, il consiglio è: taglia, anche drasticamente, e se hai dei problemi psicologici impiega due ore per lezioni di raccordo: ogni tanto, va bene anche la classica narrazione. Ma la questione del collegamento si pone in realtà in altri termini, come problema da affrontare con gli studenti. Ad esempio, dopo che avete lavorato su due contenuti storici staccati, poni l'interrogativo: come possiamo collegarli tra di loro? (ovviamente, supposto che siano collegabili). Infatti la formazione storica non consiste nel ricevere dal professore le cose che segnano la continuità, ma nel costruire storicamente i nessi tra un elemento e l'altro. L'idea illusoria della continuità storica produce poi note deformazioni di apprendimento: non è vero che dopo i greci vengano i romani, che dopo i romani vengano i longobardi, però il ragazzo apprende così. La formazione storica vera consiste proprio nel non cadere in quest'equivoco, in questa forma illusoria. Però, attenzione, questo non è meno vero quando entriamo in età più vicine a noi per le quali usiamo lenti di ingrandimento più approfondite. Perché quando dici "le conseguenze della prima guerra mondiale furono ... ", troverai solo due storici d'accordo, e tutti gli altri in disaccordo. Ciò che noi sappiamo, e di conseguenza ciò che è formazione stori~a, è la 98 natura probabilistica delle cause: non esiste in storia il rapporto diretto causa-effetto, ma esistono sciami causali, complicità tra effetti e cause, per cui ciò che bisogna apprendere è che ogni fenomeno storico esiste a livelli di molte dimensioni, ciascuna delle quali interagisce con i tempi successivi in modi che sono sia indipendenti sia in interazione tra di loro. Dietro il falso problema della continuità storica, c'è semmai un altro ordine di problemi, da affrontare molto laicamente: il problema dei fatti dovuti, quelli che "non si possono non sapere". Diciamo cioè che nella nostra società, come è doveroso che entrando in una casa si dica buon giorno, e che alla domanda chi è il presidente della repubblica si risponda Scalfaro, allo stesso modo si deve sapere chi è stato Dante, chi è stato Annibale ecc. Su questo, potremmo passare in rassegna all'inizio dell'anno, sul manuale, quali sono quelle 30 cose di cui bisogna conoscere l'esistenza: le mettiamo in evidenza e le sottoponiamo a un apprendimento tradizionalissimo, un gioco molto aperto con gli studenti, del tipo "ragazzi, queste cose le dovete sapere, magari le studiate a memoria, ci togliamo il pensiero e poi andiamo a fare formazione". Prima ho distinto abilità trasversali e abilità specifiche, e ho detto alcune cose sulle prime. Vorrei occuparmi ora delle seconde, che sono di due tipi: 1) le abilità riguardanti l'uso dei documenti, non però da finalizzare, come a volta mi capita di vedere fare, alla contemplazione del lavoro dello storico, tipo l'entrare nella bottega dello storico, o il vedere dietro le quinte. Si tratta piuttosto di un'abilità strettamente legata a uno dei più grandi e più antichi obiettivi degli insegnanti di storia: quello che tutti chiamate spirito critico. Ma che cosa vuoI dire spirito critico? E' la capacità di valutare lo statuto delle conoscenze. Ad esempio io dico che Mussolini fu un dittatore, e lo dico in quanto storico: cosa significa che lo dico in quanto storico? Non certo che ciò che dico io valga di più, bensì che se lo dico dal punto di vista storico è una conoscenza ottenuta attraverso la manipolazione documentaria, cioè una conoscenza di cui so rendere conto sia rispetto alla massa documentaria da cui è stata ricavata, sia rispetto ai metodi di utilizzazione, sia rispetto alla valutazione delle conoscenze che ho ottenuto spremendo quei documenti. Queste rende LE ABILITÀ SPECIFICHE: SUI DOCUMENTI, SUL TEMPO 99 criticabile la conoscenza storica, cioè permette di trasformare in problema tutto ciò che noi abbiamo dal punto di vista storico, e permette di valutare le conoscenze. In questo c'è una profonda istanza democratica della conoscenza, perché al fondo c'è un atteggiamento del tipo: questa conoscenza che io ho ottenuto potresti ottenerla anche tu se seguissi questo metodo, non è qualcosa di esoterico, è conseguita attraverso procedure comunicabili e trasparenti. Non credo però che avremo tempo di fare esemplificazioni sull'uso dei documenti, per i quali rinvio alla sezione specifica dei tre volumi del Laboratorio (op.cit.). 2) le abilità riguardanti il tempo, sulle quali mi soffermerò di più, visto che le vostre domande hanno toccato maggiormente questo aspetto. In primo luogo, da storici moderni, più che di tempo dovremmo parlare di tempo-spazio: infatti non esiste in storia il tempo in quanto tale, ma esiste sempre un tempo che definisce degli spazi: ad esempio il tempo del commercio mediterraneo individua uno spazio preciso, comprendente Mediterraneo, Oceano Indiano e Cina; il tempo dello stato individua uno spazio che all'inizio e fino all'800 è solo europeo, e che nel nostro secolo diventa uno spazio mondiale. Il tempo è sempre funzione dello spazio e viceversa, per noi storici. Inoltre il tempo è funzione dei problemi: il tempo, per gli storici, non è la cronologia, è il problema che crea il tempo. Ad esempio, vuoi vedere il rapporto uomo-donna ? Questo problema crea un tempo che va fino alle origini dell'umanità. Vuoi invece indagare il problema della rappresentanza ? Questo si pone con la rivoluzione francese, quindi su un arco temporale molto più breve. La capacità di correlare problemi e tempi, secondo me, è il vertice della formazione storica a cui si può giungere a livelli superiori, ed è un vertice di livello formativo molto importante da un punto di vista civico. Pensate a come normalmente si impostano i problemi rispetto a quanto accade tutti i giorni, da Tangentopoli alla violenza, sui quali si notano la difficoltà delle persone che ne parlano non adoperando strumenti storici. Se non riesci ad individuare gli spazi di pertinenza per la soluzione dei problemi, il problema che tu hai col tuo vicino che è, poniamo, di Bari, ti diventa un problema generale di rapporto nord-sud, mentre probabilmente è un problema molto particolare di scostumatezza individuale; o, viceversa, problemi di ordine generale 100 vengono visti sotto l'ottica di simpatia o antipatia personale, ed è il caso fondamentale dell'incultura politica che si va sviluppando a livello mondiale: pensate, abbiamo i più grandi problemi mai capitati nelle mani degli uomini - perché effettivamente siamo in società democratiche - e li gestiamo in termini di simpatia personale, per cui voto Clinton piuttosto che Dole perché mi dà fiducia, perché è serio, appunto i criteri che regolano la vita quotidiana. Insomma, la capacità del trovare i tempi e gli spazi pertinenti ai problemi è decisiva in quella che chiamiamo l'educazione storica al servizio della democrazia. Inoltre ciò mi permette una grandissima libertà di scelta dei contenuti storici: non è più una stranezza che in Germania si faccia l'Ellenismo all'ultimo anno delle superiori, se questo argomento serve a dare profondità storica a un problema importante come il significato di 'civilizzazione europea'. Ancora sul tempo, è possibile distinguere due tipi di abilità, che io chiamo cosÌ: 2.1) le abilità formali, cioè datare, costruire cronologie, usare tavole sinottiche, ecc., che sono già state ampiamente trattate dal prof. Ivo Mattozzi, e sulle quali trovate tante esercitazioni anche su questo testo (Laboratorio, cit.) 2.2) le abilità sostanziali, quelle che mi interessano di più, e che considero l'essenza del lavoro storico: lo storico costruisce il tempo mediante concetti. I concetti che servono di più agli studenti sono quelli che io chiamo le mappe storico-geografiche, di cui alcune sono fondamentali. Ad esempio, credo di essere riuscito ad organizzare tutta la storia generale in tre mappe, sulle quali si possono mettere i fatti man mano che li si incontra. La prima mappa è quella che ho chiamato mappa dell'Oceano Indiano, e che ho spiegato prima. L'Oceano Indiano, sul quale si scambiano prodotti e idee tra Oriente e Occidente, viene aperto dai TUTTA LA STORIA GENERALE IN TRE MAPPE STORICOGEOGRAFICHE Sumeri, con le loro barche rotonde sospinte dai venti Alisei. In seguito, tra il 500 a.C. e il 1500 d.C., questo Oceano funge da sistema di connessione tra i grandi imperi, ma il gioco è sempre lo stesso: l'Africa che produce, l'Europa come primo gestore, la Cina come secondo gestore. Bisogna vedere come funziona, e come e perché finisce questo circuito millenario. La rottura si ha con l'arrivo dei 101 portoghesi, che aprono la porta dell' Atlantico e si insediano direttamente nell'Oceano Indiano: ciò spiega la crisi dei primi due decenni del '500, e l'alleanza tra turchi, persiani, indiani, cristiani orientali e veneziani che si mettono insieme per cacciare i portoghesi, con la conseguente ripresa del Mediterraneo. Notate a questo proposito: se guardiamo i fenomeni nell'ottica del Mediterraneo, si vedono i turchi e gli europei che si combattono tra loro, mentre se assumiamo questa prospettiva mondiale vediamo una parte degli europei e gran parte dei popoli dell'Oceano Indiano che combattono insieme contro un'altra parte degli europei. In seguito, all'inizio del '600, arrivano nell'Oceano Indiano i popoli dell' Europa più occidentale, atlantici (Portogallo, Olanda, Inghilterra), poco sensibili a quello che accade sulla frontiera continentale e del Mediterraneo orientale, e invece molto sensibili a quanto accade nell'Oceano Indiano, e fanno fuori definitivamente i vecchi gestori degli scambi tra Oriente e Occidente. Da questo momento, dall'inizio del '600, inizia un altro modello, un' altra mappa, che ben conoscete: quella dell' Atlantico, cioè del commercio triangolare tra Europa (in particolare Inghilterra e Olanda), Africa, America, che regola il processo di accumulazione in larga parte del mondo. Il circuito parte da Inghilterra e Olanda che mandano perline e vecchi fucili in Africa in cambio di schiavi impiegati nelle piantagioni americane; dall' America tornano in Inghilterra canna da zucchero e cotone, alimentando un altro circuito: qui infatti arriva tutta la ricchezza della Francia più tutta la ricchezza dell'Oceano Indiano che prima gli Olandesi poi gli Inglesi hanno sottratto agli antichi gestori. Questa mappa rende conto di tutti i fatti di questo genere che accadono tra il '600 e la prima o la seconda guerra mondiale. Dentro questa mappa avviene il mutamento epocale della storia contemporanea: il centro del mondo, inizialmente a Londra, con la prima guerra mondiale si sposta a New York. La terza mappa, che inizia dopo la seconda guerra mondiale, vede la decadenza dell'Oceano Atlantico in favore del Pacifico, nuovo gestore della ricchezza mondiale con due grandi nuovi centri sulle sue opposte sponde: il Giappone e la California. In futuro non so cosa succederà. In questo modo, con queste tre mappe, ho creato delle grandi bacheche spazio-temporali, molto concrete (tre oceani), diverse dalle periodizzazioni tradizionali (il Rinascimento, il Barocco ... ), mappe 102 in cui andiamo a collocare dei fatti man mano che li impariamo: questo impero, questa battaglia, questo problema economico ... dove li mettiamo e perché? perché si passa da un modello all'altro ? e qual è il loro destino? cosa succede se il centro ridiventa l'Europa, o il solo Giappone ? L'insieme di queste tre mappe è il primo modello temporale, è la presentazione più semplice che io riesco a formulare della storia generale. Come vedete ve l'ho raccontata in dieci minuti; può essere oggetto di tre ore di lezione, ma anche di quadri, bacheche che secondo me sono molto più concrete della freccia del tempo, e aiutano di più anche in senso mnemonico. L'altra forma di strutturazione delle abilità spazio-temporali è ANCORA SUL TEMPO STORICO, I CONCETTI Charles Tilly, PERIODIZZANTI: LO STATO quella dei concetti periodizzanti. Faccio l'esempio del concetto di stato, uno dei più semplici, che trovate nell'opera di Lo stato moderno. Lo stato è un sistema di centralizzazione del potere con tre caratteristiche: l) l'unicità del potere, ovvero l'assenza di contropoteri interni: che non c'era al tempo dell'imperatore Federico II di Svevia, il quale, quando diceva qui comando io, trovava l'opposizione del papa, dei comuni, ecc., e avevano ragione tutti, nel senso che c'era una compresenza di poteri nello stesso territorio. 2) drenaggio delle risorse verso il centro: che non c'era affatto, contrariamente a quanto si dice comunemente, al tempo degli "esosi" Bizantini, o dell' "esoso" Carlo Magno: questi infatti riuscivano a raccogliere appena il 5% del prodotto interno lordo, come ci ricorda Carlo Cipolla. In secondo luogo, i sovrani medievali non drenavano un bel· niente, perché dovevano spostarsi per consumare in loco le ricchezze loro dovute, altrimenti non le avrebbero ottenute. 3) il monopolio della violenza legittima, interna ed esterna: cioè l'autorità centrale che concentra nelle sue mani l'autorità di portare la spada sia per regolare l'ordine interno (polizia) sia per difendere i confini (esercito). Lo stato non inventa niente, tutte queste funzioni esistevano da prima, ma esistevano separatamente. Se questo è il concetto, vediamo ora la periodizzazione che esso determina: 103 - secoli XI-XV- la formazione delle centralizzazioni: ad esempio, Federico II inventa la burocrazia, che centralizza alcune risorse; Filippo IV il Bello tenta di centralizzare il potere, ma quando cerca di centralizzare la violenza non ci riesce, tant' è vero che di lì a poco c'è la guerra dei 100 anni, con gli inglesi come contropotere sul suo territorio. - secolo XVI- nascita dello stato, in Europa: con Francia, Inghilterra, ma anche Milano, Firenze, Venezia, non conta la dimensione. Quindi in Europa nel '500 ci sono alcuni stati, mentre gli altri continuano come prima. Ma questa struttura riscuote successo e suscita un processo imitativo, per cui: - secoli XVII-XVIII- lo stato si afferma in tutta Europa: ovvero, tutti quelli che comandano in Europa, a qualsiasi titolo comandino (monarchie, repubbliche, città indipendenti), vogliono fare queste tre centralizzazioni. Il problema è che l'esistenza dello stato richiede non tanto le frontiere, ma i confini: infatti finché esiste una frontiera (che non è impermeabile, rigida, a differenza del confine), e una molteplicità di poteri territoriali, non c'è bisogno di alcun segnale per terra; ma quando su un territorio comanda uno solo, bisogna sapere i limiti esatti di quel territorio. E il sistema più diffuso tra le genti umane per fissare i confini è quello di ammazzarsi: è infatti rarissimo il caso di confini tracciati senza spargimento di sangue (vedi l'esempio recentissimo della Bosnia). Per questo, in quei due secoli c'è il massimo storico di bellicosità nella storia europea: circa 100 anni di guerra e 100 anni di pace, e alcune di queste guerre sono assolutamente comparabili per potenza distruttiva a quelle moderne (si vedano i lO milioni di morti e lo spopolamento di intere regioni dell'Europa centrale durante la guerra dei 30 anni). - sec.xIX- semplificazione del sistema degli Stati in Europa: all'inizio dell'800, lo stato si è affermato in tutta Europa, con circa 300 unità statali, che creano al posto del suddito un nuovo soggetto antropologico, il cittadino. Si pone allora il problema delle grandi potenze: cioè se lo stato deve avere una certa base di ricchezza, e se la forza dipende dal numero degli abitanti, stati troppo grandi diventano troppo potenti (vedi la Francia napoleonica), per cui ci deve essere un ordine di grandezza tale che assicuri un equilibrio. Entro questo processo, inverso rispetto al precedente, di accorpa104 mento di piccoli stati (per cui si passa da 300 a 30 Stati), si hanno i grandi movimenti di unificazione nazionale dell' '800, i due più grandi (italiano e tedesco) più altri minori. Polanij dice che questo periodo delle grandi potenze è quello che assicura il massimo periodo di pace in Europa: infatti su 100 anni ce ne sono solo 3 di guerra tra le potenze europee. In questo secolo, dunque, gli stati si affermano nel continente che diventa il centro del mondo. - sec.xX- lo stato si afferma nel mondo : all'inizio del nostro secolo, c'è in tutto il resto del mondo una corsa a fare altrettanto, per cui dai 40 stati di inizio secolo si arriva al numero attuale di 190, e tutto il mondo viene segnato da confini, escluso il continente antartico: prima c'erano spazi liberi tra gli stati, c'erano formazioni politiche non statuali, ora in tutto il pianeta non esistono più spazi non statuali. Quindi nel '900 noi abbiamo lo stato che è la forma di governo e di organizzazione dello spazio vincente sul pianeta. Ragionando sul lungo periodo, chiediamoci quali sono le ragioni del successo dello stato, da cosa dipende il gigantesco processo di imitazione che abbiamo indicato. Fondamentalmente la ragione è che funziona, cioè riesce a governare le grandi variabili del vivere complesso della società. Ma, ecco il paradosso attuale: alle soglie del 2000 noi abbiamo un mondo interamente suddiviso in stati, ma nessuno di essi è più in grado di risolvere al suo interno i problemi fondamentali: l' ambiente; la dinamica della popolazione, la guerra, il controllo della finanza, del capitale, del lavoro, o la questione dell'identità: tutti i grandi problemi, dal buco dell'ozono, all'arrivo degli immigrati, al "chi sono io", rimandano a organismi sovra-statuali. Questo concetto di stato mi fa capire un modo di vivere nella storia; divide il tempo in termini di periodizzazioni; e mi permette non di risolvere, ma di affrontare in modo corretto una serie di problemi, con una logica e un certo spirito critico: perché se arriva uno e dice "se mi eleggete vi risolvo il problema dell'ambiente", o "vi creo tanti posti di lavoro", vuoI dire che questa persona non si rende conto della dimensione spazio/temporale dei problemi, quanto meno non ha periodizzato correttamente la storia del mondo secondo il concetto visto ora. 105 Ecco cosa intendo per concetti: oltre a quello di stato ne posso prendere altri, quattro o cinque, ad esempio il rapporto con l'ambiente, il rapporto uomo-donna, la cittadinanza, la società: ognuno di questi concetti è tale che mi crea una diversa organizzazione del tempo e mi permette di capire dei problemi. Questo significa sapere cos'è il tempo storico. Mi rendo conto che per molti di noi è importante sapere cos'è il Rinascimento, il Barocco, ecc; però secondo me questo era vitale quando in Italia c'erano duecentomila persone letterate che avevano modulato la propria vita sulle letture, sull'idea del bello, ecc. Quando invece sono cinquanta milioni di italiani che devono entrare nella storia, il Barocco è importante, ma probabilmente non è così vitale come dei problemi, dei modi di organizzazione del tempo che toccano direttamente qualcosa che noi viviamo: lo stato, la popolazione, ecc. Dobbiamo chiederci se le periodizzazioni a cui siamo abituati (Medioevo, Umanesimo, Rinascimento, Barocco, Illuminismo, Romanticismo, Positivismo) funzionino rispetto agli studenti di oggi e ai problemi di oggi, o se non sia più corretto creare strutturazioni temporali nelle quali i problemi in cui vivono i giovani d'oggi e in cui viviamo anche noi creino un rapporto più forte tra quello che siamo e i problemi che viviamo. Lo schema seguente lo propongo a voi, ma in classe lo farei solo UN ALTRO CONCETTO PERIODIZZANTE: L'IMMAGI- verso la fine del curricolo, dopo avere già impostato l'analisi, a maglie più o meno larghe, di vari tipi di società: lo schema riguarda NE DELLA SOCIETÀ !'immagine che abbiamo della società. Una prima forma è quella a strati, o se volete piramidale, tipica dell' '800, condivisa da Marx, Weber, Comte: è il modello strutturale, a due piani, con sopra i datori di lavoro e sotto i prestatori di mano d'opera, che genera una serie di parole-concetti: classe, strato, ceto, ecc. E' l'immagine di una società che si è organizzata rispetto al problema della produzione, che definisce i diversi ruoli: proprietari dei mezzi di produzione, lavoratori o solo consumatori. Nel '900, dagli anni venti o trenta, si diffonde anche un altro modello, quello funzionale, tipico di Parsons, Keynes, composto da insiemi variamente correlati tra loro: scuola, industria, finanza, agricoltura, giustizia, amministrazione, ecc. Chiamiamo questo modello funzionale perché c'è un macro-sistema diviso in sotto106 ) insiemi, e la logica è quella di definire a cosa serva ciascuna parte, e in che relazioni stia rispetto alle altre. Il modello attuale è diverso: oggi la società si rappresenta come un insieme disordinato e casuale di punti (vedi la rappresentazione dei moti browniani), ovvero di individui, ciascuno dei quali crea propri sistemi di organizzazione, cioè di collegamento con gli altri punti, con reti variabili. Nel primo sistema sopra indicato io so immediatamente chi sono, sulla base della mia posizione nella sfera produttiva. Nel secondo sistema so dove sono e a cosa serve la mia collocazione per il funzionamento complessivo. Invece nel terzo sistema, quello attuale, sono uno che deve cercarsi gli elementi di relazione. Non si vive più in uno spazio i cui segnali siano connotatori di identità, di appartenenza, di sopravvivenza; ciascuno deve attraversare spazi, tempi, ecc., alla ricerca di quegli elementi e creandosi una specie di "elenco telefonico" mentale: un po' come il cacciatore preistorico, che doveva crearsi le mappe mentali del territorio. Questo produce problemi formativi decisivi perché in questa situazione, o gli individui vengono dotati di sistemi mentali sofisticati per gestire quello che ho chiamato "elenco telefonico", cioè la rete dei rapporti, o se non è così l'alternativa che l'individuo ha per vivere è quella di ricreare segni di riconoscimento nel territorio o nel gruppo di appartenenza. Per me l'analfabetismo di ritorno consiste nel fatto che i ragazzi, ma anche gli adulti, anche i ceti governativi italiani non hanno ricevuto nell'istruzione superiore schemi, strumenti adeguati per vivere in questo universo, per trovarvi un senso. In assenza di questi strumenti, l'individuo viene costretto a segnare, marcare il territorio come i cani. Così fanno le bande giovanili, con le bombolette a spruzzo, secondo un uso che nacque a New York per poi diffondersi come una moda. Ma lo stesso si fa a livello politico: se non ho schemi che mi permettano di gestire i processi di globalizzazione e al contempo di individualizzazione spinta attualmente in corso, dirò che per sopravvivere dobbiamo marcare questo territorio, e separare chi può stare dentro, e chi stando fuori non deve entrare. L'altro elemento di identità è il gruppo di appartenenza. Nella nota ricerca sui giovani di A.Cavalli (ora l'Istituto Cattaneo ha rifatto tale ricerca, e tra poco la pubblicherà), egli ha trovato esattamente questo: ragazzi che non hanno avuto la possibilità di una forte strutturazione spazio-temporale, regrediscono a livello 108 di territorio e di piccolo gruppo, rispetto al quale ci sono da una parte quelli che ne fanno parte, dall' altra tutti gli altri (la politica, i genitori, la scuola, ecc.), ed è nel gruppo che si creano gli elementi di razionalità minima per vivere. Che cos'è dunque la società? Nell'800 è stata quel modello, a metà del '900 è stata quell'altro, oggi probabilmente è questo. L'insieme di questi tre schemi è anch'esso un modo che mi permette di periodizzare ma al contempo di trovare qualcosa che serva a riflettere su ciò che accade. 110 Per lungo tempo terreno incontrastato dell'erudizione locale, la "microstoria" negli ultimi anni ha assunto una sua dignità scientifica conseguendo apprezzabili risultati anche dal punto di vista dell'analisi interpretativa. In questo nuovo filone di ricerca si colloca l'interessante ricerca di Cesare Grazioli dedicata alle vicende politiche di Scandiano nel quadriennio del primo dopoguerra. ALBERTO FERRABOSCHI Il libro, ricalcando l'ormai canonica periodizzazione del "biennio rosso" (1919-20) e "biennio nero" (1921-22), si articola in cinque brevi ma assai densi capitoli. Prendendo le mosse dalla parabola del socialismo scandianese del quale viene messo in evidenza la sostanziale fragilità all'interno del "prampolinismo", l'Autore passa ad esaminare nel secondo capitolo le nuove forme di presenza sociale e politica dei cattolici, delle quali viene colto l'anima "rurale" della sezione scandianese del partito popolare; all'amministrazione locale è invece dedicata il capitolo centrale del libro la cui analisi evidenzia i limiti strutturali di una gestione amministrativa, prima liberale e poi, dal 1920, socialista, forzatamente condizionata dalla crisi finanziaria e dalle pesanti ingerenze prefettizie. Nella quarta sezione, incentrata attorno all' ascesa del fascismo locale, Grazioli si confronta con il ritardo organizzativo e la fragilità politica del fascismo scandianese mentre nel capitolo conclusivo viene affrontato il problema dei limiti interpretativi del socialismo e del cattolicesimo politico di fronte della crescita del movimento fascista. Ben attento a collocare le vicende scandianesi all'interno dello scenario politico-culturale della provincia, l'Autore non manca di 113 soffermarsi su alcune peculiarità tali da rendere gli avvenimenti scandianesi un caso di studio particolarmente interessante. Come infatti è stato rilevato (Marco Sagrestani, Un collegio elettorale nell'età giolittiana: Correggio, Bologna, Li Causi Editore, 1984) la tradizione politica del collegio elettorale a cui Scandiano apparteneva, si distinse già nel corso dell'età giolittiana per essere una sorta d'isola liberale nel "mare rosso" dell'Emilia, consentendo l'elezione del deputato liberale Vittorio Cottafavi ininterrottamente dal 1900 al 1913. La relativa fragilità del movimento cooperativo scandianese con il conseguente indebolimento nel tessuto sociale consente pertanto a Grazioli di giustificare la sostanziale debolezza del socialismo prampoliniano nella terra del Boiardo. Al di là degli esiti ultimi del lavoro, resta sicuramente l'interesse per una metodologia di ricerca capace di avvalersi di fonti inedite quali i verbali processuali della pretura di Scandiano, grazie ai quali l'Autore ha potuto verificare il forte aumento del tasso di violenza politica a partire dal 1921. Se dunque il superamento della società "rurale" ottocentesca ed il passaggio verso la società di massa del primo dopoguerra rimane il nodo storiografico fondamentale su cui verificare la genesi ed il successivo sviluppo del "modello reggiano", non si può non salutare con particolare favore il contributo di Grazioli grazie al quale viene gettata nuova luce sulla complessità della "via reggiana" alla modemizzazione. CESARE GRAZIOLl, Anni rossi, anni neri, Ripatransone, Edizioni Sestante, 1995. 114 Le fonti letterarie possono essere utilizzate nella ricerca storica? E quale significato rivestono per lo storico contemporaneista? Una risposta a questi interrogativi può essere trovata nelle pagine della interessante pubblicazione curata dal Comune di Cavriago insieme all'Istoreco e dedicata alla letteratura del fenomeno resistenziale. Se il ricorso alle fonti letterarie costituisce una comune pratica metodologica per la storiografia di guerra, tuttavia le suggestioni della narrazione resistenziale possono contribuire a esemplificare le potenzialità innovative insite nei testi letterari per la ricerca storica; all'interno di una storiografia che, grazie ad importanti opere di sintesi come quella di Claudio Pavone, sembra avere ormai raggiunto una sua compiuta maturazione, la mediazione semantica consente di innervare con l'analisi delle mentalità e delle memorie collettive una ricerca destinata necessariamente a superare ogni impostazione événementielle. In questa prospettiva appaiono particolarmente condivisibili le osservazioni di Antonio Canovi sulla capacità della letteratura resistenzale di "comporre una riflessione contemporanea, tale da rimettere in circolo memorie già date per trapassate nel tempo presente"(p. XV), consentendo di indagare le mentalità dei combattenti ed al tempo stesso divenendo un antidoto alle sacre rappresentazioni. ALBERTO FERRABOSCH I Frutto di un paziente lavoro di schedatura effettuato da un gruppo di insegnanti e bibliotecari, il volume propone una serie di romanzi di derivazione sia resistenziale che fascista, composti in un arco cronologico che dal '45 giunge ai nostri giorni, offrendo una inedita 115 e suggestiva rivisitazione della Resistenza; la struttura pentapartita di ogni testo (nota bio-bibliografica, la trama, la costruzione dell'intreccio, il paesaggio e il simbolico, la retorica della violenza) consente infatti una interpretazione in chiave "memorialistica" dell'esperienza resistenziale rivissuta da gran parte dagli autori attraverso il filtro del linguaggio romanzato. In effetti, al di là della mediazione letteraria, nei testi di Fenoglio, Vittorini, Caproni, Bolis, Rimanelli, Mazzantini, Viganò e degli altri autori si coglie con chiarezza la tensione autobiografica che anima ed ispira le narrazioni degli ex combattenti per i quali, come osserva Stefano Calabrese, la "guerra civile" finisce per configurarsi come un incessante ed inviolabile rito di passaggio. Nata dunque con l'esplicita intenzione di conservare e costruire la memoria dell'esperienza resistenziale, è nella dimensione simbolica che la letteratura trova lo strumento più efficace per rappresentare l'universo di emozioni e sentimenti della guerra; risiede pertanto nella possibilità di sondare nel profondo della memoria collettiva, gettando una nuova luce sulle giustificazioni extrapolitiche alla base delle scelte resistenziali, l'importanza del recupero delle fonti letterarie per la storiografia sulla resistenza. S. Calabrese (a cura di), Parole in guerra. Romanzo e Resistenza, Modena, Mucchi Editore, 1996. 116 Il tragico e glorioso 1943 significò per l'Italia l'aggravarsi della sudditanza nei confronti dell' alleato germanico. Uno degli aspetti meno approfonditi finora dalle ricerche storiografiche è rappresentato dalla sorte di centinaia di migliaia di militari italiani situati nei vari fronti dello scacchiere bellico al momento dell' armistizio e catturati dalla Wermacht. SALVATORE FANGAREGGI Se la necessità di manodopera era una costante di rilievo per l'immane sforzo di produzione bellica delle truppe hitleriane, fu tuttavia elevatissimo il numero di soldati italiani impiegati nelle forze combattenti: un fenomeno che ha trovato nell' autore un attento e meticoloso ricercatore. Migliaia di documenti ritrovati e decifrati alla luce delle linee di politica militare del Terzo Reich, a partire dalle inflessibili direttive del generale Keitel, da cui può dedursi una ferrea quanto perfezionata organizzazione militare, nonostante le sorti della guerra, dopo le battaglie di Stalingrado e di El Alamein fossero ormai compromesse per il Terzo Reich. Lo studio di Giannocolo ha, può dirsi, carattere di completezza per quanto possibile nelle difficoltà di ricerca. Una certezza è, tra le altre, amara e inesorabile: mancano all' appello, a conti fatti, cinquantasettemila soldati italiani dei quali non si conoscerà mai la sorte. Al di là delle cifre, la ricerca si articola sulle modalità di reclutamento, sulle dure condizioni dei militari, sulla corrispondenza e la censura, queste ultime sorrette da una copiosa documentazione 117 fotografica. Altrettanto dicasi per la parte svolta dalla Croce Rossa, unica istituzione faticosamente e parzialmente tollerata dalla Germania. A sostegno dei risultati delle sue indagini, l' autore nella seconda parte del volume, tutta documentaria, propone l'esatta definizione di duemila formazioni germaniche, indicando con la sigla I.M.1. la presenza di internati italiani. Il libro di Giannocolo- che già aveva approfondito in un precedente volume la storia e le condizioni dei militari italiani internati nei campi di concentramento in Germania- pur nella sua essenzialità documentaria, ha il merito di indagare con lodevole originalità un fenomeno finora insufficentemente o quasi per nulla affrontato dai ricercatori. GIANNI GIANNOCOLO, I militari italiani nelle formazioni germaniche 1943-1945, Reggio Emilia, Unigraf ed. 1996. 118 , i~I I , L'ambigua transizione. I processi ai fascisti Pubblicata negli Stati Uniti nel 1991 (dall'University of North Carolina Press), sulla base di ricerche condotte negli anni ottanta, l'opera appare nelle librerie italiane con ritardo inspiegabile, un po' sospetto. Ciò ne limita abbastanza l'incisività rispetto ai dibattiti infiammati che le questioni relative a fascismo e resistenza continuano a sollevare, a mezzo secolo di di stanza. Vista la datazione, l'opera ignora le laceranti polemiche italiane sul "Chi sa parli" e quelle che hanno accompagnato i successi elettorali delle destre. Ma l'estraneità a certi livelli di polemica può essere un punto a favore di una ricerca storica condotta con criteri scientifici. A suo sfavore gioca invece notevolmente, sul piano storiografico, l'ignorare quasi del tutto la vicenda Gladio: condizione che permette all'autore di rivalutare nella sostanza, senza troppe cautele, un ruolo democratizzante degli Alleati epuratori, a fronte di colpevoli reticenze, omissioni e inefficienze degli italiani. Protezioni e benevolenze verso fascisti sarebbero state ricorrenti da parte di autorità e notabili legati a casa Savoia, talvolta presenti negli inglesi, poco riscontrabili negli americani. Solo in una nota si accenna a "un interesse partiColare" dell'O.S.S. all'incolumità del principe Junio Valerio Borghese. Sotto questo aspetto, il quadro interpretativo complessivo della vicenda appare già in buona parte da ridefinire, e diversi episodi da reinterpretare. Superficiali appaiono anche le considerazioni sulla riorganizzazione dei servizi segreti del Regno, nel 1944-45, specialmente in relazione al caso Rovatta (pp. 160-161). Dove invece l'autore si mostra meno benevolo verso gli Alleati è nel valutare il loro atteg- MARCO FINCARDI 121 giamento diffidente - analogo a quello dei governi monarchi ci- verso il movimento partigiano dell'Italia settentrionale: una dIffidenza che a Liberazione avvenuta si è convertita in atteggiamento repressivo. Tra gli ambienti compromessi col regime, Domenico ignora del tutto i religiosi: la loro posizione era difficilmente vagliabile dalla giustizia civile e può avere lasciato poche tracce archivistiche; ma pare poco probabile che tutte le fonti consultate dall'autore, soprattutto angloamericane, non ne facciano menzione. Anche dell' al1lJ1istia voluta da Togliatti si dà un'interpretazione piuttosto rozza e approssimativa. Il fatto·che a giudicare fatti tanto controversi sia un americano, pone talora il lettore italiano di fronte a analisi inconsuete e giudizi sorprendenti. Ci si trova pure di fronte a spigliatezze nei giudizi, che occasionalmente sconfinano nella superficialità. Diverse improprietà lessicali paiono dovute anche alla traduzione. Con tutti questi limiti che balzano all' occhio, Processo ai fascisti resta un'opera rilevante. In Italia è la prima completa e organica trattazione di questo argomento, a lungo eluso dalla storiografia, a causa di evidenti rimozioni dalla memoria nazionale. Il tema ha lungamente prodotto imbarazzi a una nazione, e in primo luogo alla sua classe dirigente, che - sostiene l'autore - negli anni quaranta non ha saputo regolare i conti con la propria storia, e ha dovuto perciò edulcorare o dimenticare molte immagini del proprio passato fascista. In Francia - dove l'epurazione c'è effettivamente stata, e ha perciò prodotto un'ampia pubblicistica - il dibattito è invece stato a lungo controverso e vivace. La breve durata del regime di. Vichy ha limitatamente compromesso la borghesia francese, e ciò ha facilitato la classe dirigente nel condurre i processi a criminali e collaborazionisti con determinazione e inflessibilità. In Italia, un ventennio di compromissioni delle classi dirigenti col fascismo ha fatto sì che queste adottassero ogni possibile reticenza e ostruzionismo nei processi ai fascisti, non attuandone, o tutt'al più vanificandone la messa in stato d'accusa; aiutate in questo da una vasta "zona grigia" di popolazione che col regime ha intrattenuto rapporti ambigui, magari occasionali, e dopo la guerra ha temuto di essere chiamata in causa. Al di sopra delle vicende italiane, il problema delle epurazioni nei cambi di regimi viene giustamente inquadrato anche sociologicamente, con frequenti e interessanti riflessioni, che hanno . però il limite di riferirsi genericamente a schieramenti ideologici, 122 più che alle quotidiane relazioni sociali instaurate da un potere totalitario. Il libro di Domenico evidenzia con chiarezza gli abili tentativi dei conservatori e le molteplici forme di opportunismo che hanno permesso alle élites sociali e a una grande massa di funzionari di mantenere influenza, autorità e potere dopo il crollo del regime. Si sofferma sulla "ovvia complicità col fascismo di industriali e imprenditori" (pur non interrogando si sui ruoli dei potentati economici determinanti per l'ascesa del fascismo, che vanno ben oltre la mera complicità). Vi vengono descritte nei loro molteplici aspetti le ambiguità e gli ostruzionismi che hanno impedito o vanificato la messa in stato d'accusa dei fascisti in quanto tali. Accanto alle posizioni dei vari partiti, anche la posizione del clero e del Vaticano viene esaminata in riferimento alle iniziative conciliatrici cattoliche, tese a evitare e delegittimare moralmente l'epurazione. E così pure '-è mostrata una gestione sensazionalistica e mistificante delle notizie sull' epurazione date dalla stampa, che ha orientato l'attenzione dell'opinione pubblica prevalentemente verso le colpe di figure strategicamente marginali del regime: su uomini e donne con ruoli appariscenti, più che sui reali detentori del potere. Una situazione - sottolinea ripetutamente l'autore - già riscontrabile nei lunghi mesi in cui il Centro-Nord dell'Italia è rimasto sottoposto al regime di terrore nazifascista, e al Centro-Sud l'epurazione era la questione al centro di qualunque dibattito politico. In quel periodo, i funzionari e i quadri militari di Salò non si sono sentiti minacciati dai blandi provvedimenti di defascistizzazione nella zona controllata dagli alleati e dai governi monarchici. Solo nel caso della fucilazione del questore di Roma Caruso, a fine settembre 1944, l'apparato di Salò ha mostrato una scomposta inquietudine, annunciando rappresaglie a Bologna, Reggio e Torino. A guerra conclusa, anche le corti speciali istituite nel Nord - decisamente più attive e motivate nell'opera di defascistizzazione - hanno messo sotto accusa i collaborazionisti, più che i fascisti in quanto tali. Domenico nota che rarissimi, e con conseguenze irrilevanti, sono stati i processi a squadristi per gli omicidi e le molteplici violenze dell'inizio degli anni venti. I gravi reati politici commessi nel ventennio sono stati di fatto ignorati; e così pure non sono stati toccati dai tribunali i profitti illeciti di regime, o le appropriazioni di edifici delle associazioni dei lavoratori da parte 124 del regime. Nella magistratura, le richieste di epurazione si sono immediatamente incagliate. E sono stati questi magistrati a giudicare indiziati di reati di cui molti di loro avrebbero potuto essere accusati. Così come sono stati questi magistrati a giudicare - spesso con atteggiamento ostile - i partigiani indiziati di reati durante e dopo la guerra di liberazione: un aspetto della questione su cui nel libro si trovano solo fugaci accenni, senza interrogativi sulla correttezza del metodo e sul significato politico complessivo di tali processi. La situazione dell'ordine pubblico nel dopoguerra e le esecuzioni sommarie di fascisti da parte di partigiani vengono chiaramente giudicate illegali e inquietanti, ma correttamente inquadrate nel loro contesto storico, raffrontate a paesi come Francia, Belgio, Norvegia e Filippine, dove violente sono state le ritorsioni spontanee contro i collaborazionisti. In questa prospettiva vengono pure inquadrati il dopoguerra emiliano e la sua "anomalia", raffrontati anche alle situazioni di altre regioni settentrionali dove 1'eliminazione fisica di fascisti ha toccato punte notevolmente più alte che in Emilia. ROY PALMER DOMENICO, Processo ai fascisti. 1943-1948. Storia di un'epurazione che non c'è stata, con una breve testimonianza di Alessandro Galante Garrone, Milano, Rizzoli, 1996. 125 Finito di stampare nel mese di novembre 1996 dali 'AGE grafico-editoriale, Reggio Emilia