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la Repubblica DOMENICA 22 GIUGNO 2014
LA CHIESA DI BERGOGLIO
La condanna
L’anatema di Francesco
“Scomunica per i mafiosi
sono adoratori del male”
Bergoglio in Calabria va all’attacco della ’ndrangheta
Mai un Pontefice si era espresso in modo così esplicito
<SEGUE DALLA PRIMA PAGINA
I PUNTI
DAL NOSTRO INVIATO
MARCO ANSALDO
CASSANO ALLO JONIO (COSENZA)
OLORO che nella loro vita hanno que-
«C
INCONCILIABILI
Mafioso e cristiano
sono termini
inconciliabili. Per
la Chiesa, chi
appartiene
alla mafia è da
considerarsi
pubblico
peccatore
NO ALLA COMUNIONE
Come pubblico
peccatore, il
mafioso è escluso
dalla comunione
con la Chiesa e non
è ammesso ai
sacramenti, fino a
che non si pente e
cambia vita
DIRITTO CANONICO
La non ammissione
ai sacramenti è
prevista
genericamente dal
Codice di diritto
canonico (can.
843,1) e come tale
si applica anche
al mafioso
sta strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati».
Mai un Papa aveva parlato di scomunica
ai mafiosi. Mai un Pontefice era stato così
esplicito nella condanna della criminalità organizzata. E mai direttamente da un altare.
Giovanni Paolo II lo aveva fatto nella Valle
dei Templi («Lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio
di Dio!»). Benedetto XVI al Politeama di Palermo («La mafia è una strada di morte, incompatibile con il Vangelo»). Francesco è
sceso nel cuore della ‘ndrangheta calabrese,
ha affrontato l’inferno dei boss, e ha dichiarato pubblicamente «scomunicati tutti i mafiosi».
«Quando non si adora il Signore si diventa adoratori del male — ha scandito il Pontefice argentino, interrompendo l’omelia che
stava leggendo sulla piana di Sibari davanti
a 250mila fedeli — come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza e la vostra
terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. Questo male va
combattuto, va allontanato. Bisogna dirgli
di no. La Chiesa, che so tanto impegnata nell’educare le coscienze, deve sempre di più
spendersi perché il bene possa prevalere».
Non è caso se la quarta tappa del pellegrinaggio di Francesco nell’Italia sofferente
(dopo Lampedusa, Cagliari e l’incontro con
i poveri ad Assisi) si svolge in Calabria. Il Papa ha infatti scelto con attenzione il suo
viaggio nel Sud, aggredito dal fenomeno
mafioso, per mostrare la vicinanza della
Chiesa a chi lotta contro la malavita. Una visita concordata con il vescovo Nunzio Galantino, prelevato pochi mesi fa proprio dalla diocesi Cassano allo Jonio e portato a Roma come nuovo segretario della Conferenza
episcopale italiana. «Vengo per chiedere
scusa», è difatti lo slogan sotto cui si svolge
l’evento, con il quale Francesco ha spiegato
ai calabresi il senso della decisione di togliere dalla loro terra un prelato tanto amato e
SUI BIMBI BASTA VIOLENZA
Prego per Cocò, non accada mai
più che i bimbi debbano subire
queste sofferenze: non siano
mai più vittime della ’ndrangheta
EDUCARE LE COSCIENZE
Questo male va combattuto,
bisogna dirgli di no. La Chiesa
deve sempre di più spendersi
perché il bene possa prevalere
capace, elevandolo a un incarico così delicato e centrale.
Conferma sulle parole del Papa don Davide Scito, docente di Diritto Canonico all’Università Pontificia della Santa Croce: «E’ la
prima volta che un Pontefice parla così esplicitamente di scomunica ai mafiosi». Sulla
questione nel 2010 venne redatto un documento della Cei, rimasto però a livello di proposta. «Penso che il Pontefice — aggiunge il
canonista — con queste parole fortissime e
senza precedenti, abbia voluto denunciare
e richiamare la gravità del comportamento
di tanti malavitosi che si spacciano per cattolici devoti. Francesco vuole dire che questa gente deve essere esclusa dalla comu-
nione con Dio. E lo ha detto con parole definitive e inequivocabili».
E con esplicita coerenza Francesco aveva
iniziato la sua visita in Calabria visitando il
carcere di Castrovillari. Partendo da un incontro molto commovente con il padre e le
nonne di Cocò Campolongo, il bambino di 3
anni bruciato il 20 gennaio scorso, vittima
innocente di una faida per il controllo del territorio. «Non accada mai più — ha detto Bergoglio — che i bambini debbano subire queste sofferenze, e non siano mai più vittime
della ‘ndrangheta». Il Papa ha inviato un saluto alla madre del piccolo, anch’essa in
un’altra casa circondariale, facendole giungere un messaggio: «Io prego sempre per
lui». E alle detenute del carcere, salutate e
baciate una per una, ha detto confortandole: «Anch’io faccio i miei sbagli e devo fare penitenza». In cattedrale, ha esortato con affetto i sacerdoti a lavorare come «buoni operai», e non come «impiegati».
Un altro gesto esplicito Francesco lo ha
compiuto lungo il tragitto in auto da Cassano allo Jonio verso Marina di Sibari, quando
ha compiuto una sosta davanti alla chiesa
dove il 3 marzo scorso fu assassinato a sprangate padre Lazzaro Longobardi. Il Papa e il
vescovo Galantino sono entrati in chiesa da
soli per pregare. «Padre Lazzaro — sono state le parole del segretario della Cei — ha pagato con la vita la sua coerenza e l’amore per
la Repubblica DOMENICA 22 GIUGNO 2014
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PER SAPERNE DI PIÙ
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L’INTERVISTA / DON LUIGI CIOTTI
“E ora basta omertà
il Papa chiude l’epoca
della Chiesa ambigua”
PAOLO RODARI
gli ultimi». In auto Bergoglio si è ancora fermato quando ha visto la scritta: “Qui vive un
piccolo angelo, fermati». Ha così dato un saluto e un abbraccio alla bambina microcefala che abita in quella casa.
All’ospedale San Giuseppe Moscati, ha
quindi visitato i malati e approfittato della
sosta per farsi rimuovere dalla mano un
frammento di legno rimastogli conficcato in
un dito. Un microintervento risolto dal primario, Francesco Nigro Imperiale, con una
pinzetta e chiuso con un cerotto.
Ancora parole dure contro la mafia sono
state pronunciate dallo stesso vescovo Galantino. «La malavita organizzata — ha detto il segretario della Cei — rallenta i proces-
si di crescita non solo economici. Si nutre di
coscienze addormentate e perciò conniventi. Anche la Chiesa talvolta per stanchezza
rallenta il suo passo». Galantino, ripetendo
le tre parole con cui aveva salutato il Pontefice («grazie, benvenuto e scusa») ha ricordato che la parola «scusa» venne pronunciata da Francesco nella lettera in cui informava i fedeli che avrebbe chiamato il vescovo di
Cassano a Roma, sottraendolo agli impegni
sul territorio. «Scusa devo chiederlo io oggi
— ha concluso Galantino — a tutte le persone che mi hanno chiesto di avvicinarla. Ci sarebbe voluta più di una giornata, per accontentarli tutti».
IN CARCERE
Papa Francesco
in una foto che
lo ritrae, ieri, con
i dipendenti
del carcere di
Castrovillari,
prima tappa
della visita del
Pontefice in
Calabria
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ROMA.Don Luigi Ciotti, due mesi fa il Papa l’ha incontrata assieme alla sua fondazione Libera nella veglia di preghiera nella ricorrenza della XIX Giornata in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Allora disse ai
mafiosi: «Convertitevi per non
finire all’inferno». Ieri, nella
messa celebrata sulla piana di
Sibari, ha invece alzato la voce
dicendo a braccio: «I mafiosi sono scomunicati!».
«Sono contento di queste parole. I mafiosi non hanno nulla
di cristiano. Sono in antitesi col
Vangelo. Ma direi non soltanto i
mafiosi, ma anche coloro che
fanno affari coi mafiosi. Il Papa
ha ribadito che certi comportamenti non possono che mettere
fuori dalla comunione con la
Chiesa».
Più volte Papa Bergoglio ha
tuonato contri i cristiani ipocriti, che parlano del Vangelo
senza viverlo…
«Infatti, ascoltando Francesco in Calabria mi sono subito
venute in mente le parole di don
Tonino Bello, quando diceva
che la Chiesa — e i cristiani con
essa — non può dimenticare
che la Parola non si annuncia
con le parole, ma con la vita, con
gesti e fatti».
L’annuncio è anzitutto testimonianza?
«L’evangelizzazione non avviene soltanto per ciò che si dice, ma anche per quello che si fa.
I gesti, le azioni, sono importanti. Lo stesso Francesco ieri ha
messo in pratica questa verità.
Ha parlato ed è andato anche a
trovare la gente fin nelle sue sofferenze. È stato coi carcerati e i
poveri. E quando ha parlato della mafia ha ricordato che esistono delle responsabilità che riguardano tutti, a cominciare
dai politici che troppe volte si sono mostrati conniventi».
Come si fa a dire se una persona è scomunicata perché mafiosa?
«La domanda è giusta. Non
sempre i comportamenti individuali sono evidenti. Ma spesso le cose si sanno. Anzi, in que-
sto senso è proprio il richiamo
del Papa a suonare come sprone
per la stessa Chiesa affinché
non sia tiepida bensì coraggiosa. Beninteso, non bisogna mai
dimenticare le tante cose belle
e positive che tanti cristiani
hanno fatto nei territori più difficili, nei luoghi dove la mafia ha
in mano tutto, dove è più potente. Nessuno deve dimenticare il
comportamento anche eroico
di tanta gente di Chiesa. Ma, insieme, occorre riconoscere che
ci sono state, e ci sono, anche
tante fragilità, zone d’ombra.
Quali?
«Alcune volte, purtroppo, la
Chiesa è rimasta alla finestra rispetto a certi comportamenti
lavandosene le mani. Altre volte, invece, è stata addirittura
complice. Sono ambiguità non
al servizio della verità. E ciò è
sempre un male, perché sono
comportamenti che tarpano le
ali alle energie migliori, a coloro
che, invece, vorrebbero mettere le proprie energie al servizio
della positività».
Comportamenti mafiosi sono
anche di coloro che pur sapendo non fanno nulla?
«Il problema non è soltanto
ascrivibile a chi fa il male, a chi
si rende colpevole di crimini. Ma
esiste anche un problema enorme di chi guarda il male compiersi e lascia fare. In troppi osservano da fuori ma non si spendono per il bene. Anche questa
omertà in fondo è mafia».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
“
I BOSS
Non sempre
la loro
condotta
mafiosa
è evidente.
Ma le cose
spesso
si sanno
lo stesso
I SILENZI
Esiste anche
il problema
enorme di
chi guarda il
male
compiersi e
lascia fare. È
mafia anche
questa
”
DON CIOTTI
Don Luigi Ciotti è il
fondatore di Libera
Cocò vittima innocente, con tutta la famiglia agli arresti
IL CASO
GIUSEPPE BALDESSARRO
COSENZA. Non è un caso se l’operazione l’hanno chiamata “Tsunami”. Se li sono portati via tutti, in un colpo solo. La legge ha
bussato alla porta degli Iannicelli, dei Campolongo e dei Lucera all’alba del 31 maggio 2011.
Tutti arrestati, tutti coinvolti in
storie di droga. Traffico, cessione e spaccio si leggeva nell’ordinanza di custodia cautelare notificata dai carabinieri di Cosenza. Tutti in manette su ordine
dei pm della Dda di Catanzaro, e
poi tutti anche condannati a pene pesanti dagli 8 ai 20 anni, su
sentenza dei giudici di primo e
secondo grado. Per questo Cocò,
il piccolo Nicola Campolongo di
tre anni, era stato affidato al
nonno, Giuseppe Iannicelli. Era
l’unico ed essere rimasto fuori.
L’unico a potersi prendere cura
di lui. Così credevano in molti, almeno lo credevano fino al 19
gennaio scorso, quando hanno
ammazzato e bruciato Cocò,
nonno Pino e la sua compagna
marocchina, zia Betty (Ibtissam) Taouss. Un massacro, consumatosi in poche ore. Attirati in
una trappola, uccisi con un colpo
di pistola alla testa, caricati sulla
loro stessa macchina e devastati
dalle fiamme appiccate con una
tanica di benzina per cancellare
le tracce.
Papa Francesco in Calabria c’è
venuto per lui, per Cocò, o me-
glio anche per Cocò. È andato
nelle strade per dire basta alla
violenza e alla ‘ndrangheta, per
dire che è tempo di cambiare.
Che Chiesa e mafie non possono
stare dalla stessa parte. In carcere ha parlato con le nonne del
I parenti del piccolo
ucciso dai clan devono
scontare dagli otto ai
vent’anni per droga
bambino. Poche parole di conforto per Maria Rosa Lucera (moglie di Giuseppe Iannicelli) e
Maria Marranghelli Marzella
(consuocera), entrambe ai domiciliari e con diversi anni anco-
LE VITTIME
Ibtissa Tousse e il piccolo Cocò
Campolongo, di tre anni, uccisi
e bruciati a Cassano sullo Jonio
ra da scontare. Anche loro travolte dallo Tsunami, con 12 e 8
anni da trascorrere recluse, come dice il processo d’appello. Ai
domiciliari ci sono loro e ci sono
ancora anche la madre di “Coco”, Antonia Maria, e la zia Simona. Le due sorelle sono in una
comunità protetta della provincia di Cosenza dove stanno provando a far crescere i rispettivi figli. Madri di quattro bambini piccoli, che come il loro fratellino o
cuginetto ne hanno già viste tante. E come tutti gli altri della famiglia che hanno già visto il carcere e le aule di tribunale, le manette e la violenza della ‘ndrangheta. Le due sorelle devono farsi dieci anni pure loro, per quella
maledetta droga che entrava ed
usciva da casa, che compravano
e vendevano. Famiglie devastate. Dietro le sbarre per 8 anni ci
dovrà stare anche il padre di
“Cocò”, Nicola Campolongo, che
aveva voluto dare al figlio il suo
stesso nome. In gabbia c’è finito
pure suo cugino Tommaso Iannicelli che di anni ne dovrà scontare 20 e lo zio Antonio Lucera.
Uno tsunami appunto, da cui
si sono salvati pochi: il più giovane dei figli di Iannicelli che si
chiama Giuseppe come il padre,
e poi una terza figlia femmina
che vive lontano dalla Calabria.
Per il resto l’uragano ha investito tutti. Devastante per molti, fatale per Cocò. La sua vita di bambino di 3 anni è volata via con la
velocità di un sparo, un colpo alla testa.
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Leggi l`articolo di Marco Ansaldo