Potere e management strategico. Una relazione da ripensare1
Gianluca Colombo, Università dellʼInsubria e Università della Svizzera italiana
Sommario
Si riflette sulla dimensione del potere nei processi di governo strategico, ricostruendo, partendo tale relazione, i nessi tra management strategico, governo
e soggetto economico dʼimpresa. Si presentano e si connettono tre prospettive sullʼimpresa: la teoria del capitalismo azionario, quellʼistituzionale
dellʼeconomia aziendale italiana e quella del potere. Lʼarticolo parte da tre
prospettive normative per condurre in seguito unʼanalisi positiva. Si propongono due applicazioni: lʼimpresa in fase nascente e quella familiare. La conclusione torna ad essere normativa.
Introduzione
Coda (1988) include i fini dellʼimpresa nel concetto di strategia, preferendo
lʼimpostazione della scuola di business policy harvardiana, iniziata da Chandler (1962) e da Andrews (1971) a quella di Ansoff (1965) ed altri. La presa di
posizione ha conseguenze non banali, poiché secondo lʼautore non si tratta di
una semplice scelta definitoria.
“In realtà, invece, la questione non è così banale, perché sottende due diversi
modi di concepire il processo formulativo della strategia e, conseguentemente, lʼimpresa e lʼattività di governo della medesima” (Coda 1988, p. 22).
Secondo Coda, chi concepisce la strategia in senso stretto (o strumentale),
pone i fini al di fuori del processo strategico anche in termini temporali. I fini si
determinano prima delle strategie tese a realizzarli. La concezione allargata
della strategia propone un processo di governo unitario nel quale fini e mezzi
si determinano congiuntamente, definendo così anche lʼidentità dellʼimpresa.
A ben vedere la visione strumentale porterebbe a separare lʼattività di governo, riguardante soprattutto la scelta dei fini da quella di management strategico, volta alla predisposizione di mezzi e azioni per la realizzazione di tali fini.
La visione allargata integra invece governo e management strategico proponendo di conseguenza una visione più articolata e, forse, complessa dei contenuti, dei processi e, necessariamente, anche dei soggetti della strategia;
lʼintegrazione è semanticamente evidente nellʼespressione: “Governo strategico”. Una teoria del governo strategico non è concepibile senza porre direttamente in questione da un lato i fini, dallʼaltro il soggetto o i soggetti della strategia: attori-chiave è il termine impiegato da Coda (1988; p. 26). Secondo il
1
Sono debitore al Prof. Franco Bruni e al Prof. Giorgio Brosio, amici di passeggiate a Monginevro, durante le quali ho molto discusso le idee che da cui il presente scritto è originato.
Devo in particolare a Giorgio Brosio la citazione di Althusius. Degli errori, delle omissioni e dei
cattivi pensieri risponde come sempre, lʼautore.
1 nostro Autore, essi sono portatori delle idee-guida e dei valori che costituiscono lʼorientamento strategico dellʼimpresa. Il concetto di attore-chiave è sufficientemente ampio da essere applicabile a diverse configurazioni istituzionali.
Può essere costituito dallʼazionista (o dagli azionisti) di riferimento, dal capoazienda, dal team manageriale di vertice, dallʼimprenditore fondatore, da una
coalizione dei soggetti qui elencati, anche in funzione dei contesti normativi
dei diversi Paesi. Gli attori-chiave incarnano lʼorientamento strategico di fondo
ed influenzano quindi le politiche aziendali (la strategia in senso stretto); alcuni di essi, non necessariamente tutti, partecipano direttamente al processo di
formulazione strategica.
Lʼanalisi della dimensione soggettiva va approfondita estendendola agli attori
nel cui interesse lʼimpresa è governata. Dalla loro interazione emergono i fini
e le politiche dʼimpresa. Su questo punto si sono confrontate varie concezioni che richiamano visioni della natura dellʼimpresa radicalmente opposte, in
parte ideologiche e, quindi, difficilmente conciliabili. In qualche misura ad esse corrispondono anche diverse concezioni della natura umana e dellʼattività
economica. Al confronto tra queste concezioni e alle conseguenze sul governo strategico è dedicato il presente articolo, che rappresenta il tentativo di
mettere in dialogo tra loro alcune impostazioni di base di seguito definite in via
sintetica e sviluppate nei prossimi paragrafi. Lʼapproccio è perciò inizialmente
normativo (seguendo le indicazioni delle tre prospettive). In seguito si propone
una lettura positiva (come sono di fatto governate le imprese, da chi e per
quali fini). Nelle conclusioni, seguendo in parte lʼimpostazione di Martinet
(2009) si torna al piano normativo.
La prima visione è quella del capitalismo azionario (shareholder theory), secondo la quale, lʼimpresa è governata nellʼinteresse degli azionisti, espresso
in termini di valore nel medio – lungo periodo del capitale azionario. (Modigliani – Miller 1958).
La seconda visione concepisce lʼimpresa come istituto (organizzazione), soggetto terzo rispetto ai soggetti che la compongono e che con essa interagiscono (stakeholder). Ad essa corrisponde un insieme di teorie2 ben note agli
aziendalisti italiani poiché costituiscono lʼambiente culturale nel quale sono
cresciuti (Zappa, 1937 e 1957; Masini 1978). Nella sua formulazione radicale,
lʼimpresa è intesa come soggetto vivente, relativamente autonomo dagli stakeholder, pur dipendendo da essi per le risorse ampiamente intese (Vicari
1991).
Secondo la terza visione lʼimpresa è il terreno di scontro e dʼincontro di attori e
di coalizioni che mirano a raggiungere (consolidare) posizioni di potere e ad
estrarre benefici (rendite) (Hart 1995), che diventano fattori di rigidità istituzionale (Bebchuck and Roe 1999). Si tratta di un insieme molto articolato di teorie che privilegiano la dimensione politica dellʼimpresa e che, almeno indiret 2
La stakeholder theory è stata proposta nellʼambito del management strategico da Freeman
(1984)
2 tamente, si richiamano a teorie sociologiche e filosofiche molto note (Crozier e
Friedberg 1977; Bourdieu 1980, Foucault 1980).
Mediante il confronto e, se possibile, lʼintegrazione delle menzionate prospettive, si propone di ripensare il governo strategico delle imprese. Il resto
dellʼarticolo è organizzato come segue. Il paragrafo 1 illustra la shareholder
theory di cui si criticano semplificazioni e punti deboli, mentre si evidenziano
le condizioni perché essa possa contribuire ad un programma di democrazia
economica. Il paragrafo 2 presenta la teoria istituzionale dellʼimpresa, secondo lʼinsegnamento dellʼaziendalismo italiano. Si dimostrerà che la piena realizzazione dellʼimpresa-istituto è unʼeccezione nel panorama economico, poiché richiede condizioni assai severe in termini di leadership e di governo economico. Il paragrafo 3 tratta della dimensione politica della strategia, vista
come gioco tra attori e coalizioni allo scopo di conquistare o di conservare il
potere. In questa prospettiva lʼimpresa è uno spazio da occupare e uno strumento al servizio dʼinteressi particolari. Le tre prospettive sono poste in dialogo nel paragrafo 3, nel tentativo di costruire una teoria sufficientemente realistica del governo strategico. I paragrafi 5 e 6 discutono due casi particolari:
quello dellʼimpresa nascente che ancora manifesta lʼimpronta del fondatore e
quello dellʼimpresa familiare multi - generazionale. Si cercherà leggere questi
casi alla luce della prospettiva che emerge nel paragrafo 4.
1. Azionisti, governo delle imprese e democrazia economica Il diritto ad essere ricompensati sulla base dei risultati residuali (residual
claims) spetta agli azionisti ed è la base del diritto-dovere di governare
lʼimpresa (Harris and Raviv 1991; Schleifer and Vishny 1997). Lʼimpostazione
della shareholder theory è compatibile con la visione dellʼimpresa come nexus
of contracts (Fama 1980). Il contratto degli azionisti è caratterizzato da incertezza della rimunerazione che è dimensionata sui risultati economici
dellʼimpresa, mentre gli altri contratti, in una visione semplificata, prevedono
rimunerazioni predefinite. Per questa ragione agli azionisti è attribuito il dirittodovere di governare lʼimpresa. Essi sono, infatti, interessati più di altri stakeholder a governarla in modo da massimizzarne i risultati economici (valore per
lʼazionista) nel medio - lungo periodo; tramite tali risultati anche le attese degli
altri portatori dʼinteresse possono essere soddisfatte. Inoltre la soddisfazione
di questi ultimi è condizione per conseguire, nel tempo, risultati residuali adeguati. Lʼazione di governo si sostanzia nel controllo sulla dirigenza e nella definizione di un sistema dʼincentivi che induca i manager e gli altri stakeholder a
comportamenti “virtuosi”, vale a dire, funzionali alla massimizzazione del valore dellʼimpresa.
La teoria del capitalismo azionario, descritta in termini così sintetici e semplificati, appare ovviamente piuttosto irrealistica. Prima di procedere ad unʼanalisi
critica, sʼintrodurranno in successione alcune approssimazioni alla realtà del
moderno sistema economico fondato sulle società per azioni. Si dovrà anzitutto distinguere tra categorie di azionisti, per riflettere in seguito sui rispettivi
orizzonti temporali. Seguirà unʼanalisi del ruolo dei consigli dʼamministrazione
e, in particolare, degli amministratori indipendenti. Eliminando le eccessive
semplificazioni, si ottiene una teoria che illustra in modo abbastanza realistico
3 le relazioni tra azionisti e impresa, fornendo la base per alcune proposte di
modifica delle regole di corporate governance, finalizzate a rendere più efficace il governo da parte degli azionisti nelle società per azioni quotate. Il tema è
ripreso per cenni con riferimento alle società non quotate, nellʼambito del paragrafo 6.
La separazione tra proprietà e controllo è alla base dei problemi di agenzia
che costituiscono il principale fondamento della corporate governance (Hart
1995, pp 678 – 679). Per analizzare le relazioni tra azionisti ed impresa, mediata dalle strutture e dalle regole di corporate governance, è necessario far
riferimento ad una tipologia di strutture proprietarie, costruita sul grado di concentrazione proprietaria e sul potere di controllo. Da queste dimensioni dipende, infatti, lʼampiezza dei problemi dʼagenzia. Tra le molte tipologie possibili, quella di seguito indicata è appunto costruita sulle menzionate dimensioni:
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Controllo esercitato da un azionista unico;
Controllo da parte di unʼalleanza di azionisti;
Proprietà diffusa con quote rilevanti detenute da investitori istituzionali;
Proprietà diffusa con quote rilevanti detenute da investitori istituzionali
e presenza di associazioni di azionisti di minoranza (attivismo azionario);
Proprietà diffusa e scarso peso degli investitori istituzionali e delle associazioni di azionisti (azionista di minoranza isolato).
Come tutte le tipologie, anche quella proposta semplifica (astrae) rispetto alla
realtà. Ad esempio, lʼazionista di controllo può essere una persona fisica o,
frequentemente, una persona giuridica a sua volta caratterizzata da una struttura proprietaria corrispondente ad una delle classi sopra elencate. La comprensione del tipo di azionariato e, conseguentemente, dei contenuti del governo strategico e dei suoi processi richiede, quindi, di risalire nella catena di
controllo fino ad identificare il soggetto o i soggetti che nei fatti esercitano il
potere di determinare i fini dellʼazienda e di controllarne il comportamento
strategico; la persona (le persone) che potremmo definire dominus
dellʼimpresa.
Tale operazione non è sempre agevole a causa
dellʼarticolazione anche internazionale dei gruppi dʼimpresa. In alcuni Paesi le
cosiddette piramidi societarie sono caratterizzate da un grado piuttosto elevato dʼopacità, enfatizzato dalla combinazione, tra le controllanti, dʼimprese quotate e non quotate, caratterizzate quindi da diversi gradi di trasparenza (disclosure).
La tipologia sopradescritta consente tuttavia di valutare alcune caratteristiche
della proprietà e del suo rapporto con lʼimpresa. La possibilità di esercitare il
controllo sul management è massima nel caso dellʼazionista di controllo unico,
e minima nel caso di proprietà diffusa prevalentemente costituita da azionisti
isolati.
Possibilità di esercitare il controllo
1 0 Proprietà diffusa
4 Azionista unico
La concentrazione del potere nelle mani di un unico azionista determina anche le condizioni perché questi possa estrarre a benefici dai risultati
dʼimpresa, danneggiando in tal modo gli atri portatori dʼinteresse (lavoratori,
fornitori, clienti, e così via). Tale possibilità è ovviamente massima nel caso di
un solo azionista di controllo, mentre si riduce al minimo nel caso di proprietà
diffusa.
0
1
Azionista di controllo
Proprietà diffusa
Il fenomeno delle alleanze tra azionisti può in parte moderare lʼingerenza dei
controllanti sul governo strategico. Ad esempio ciascun partner esercita un
certo grado di sorveglianza sugli altri, rendendo più difficile lʼestrazione di benefici privati; la maggiore articolazione del soggetto controllante può però moltiplicare le situazioni di conflitto dʼinteresse.
Per una visione più realistica della proprietà, va considerata la sua dimensione psicologica che può indurre comportamenti non interamente spiegabili dalla quota di capitale posseduta, né dagli aspetti legali della proprietà medesima. La dimensione psicologica della proprietà introdotta negli studi di
management per studiare il rapporto tra lavoratore e impresa (Pierce, Kostova
e Dirks 1991) è stata poi assunta dagli studiosi dellʼimpresa familiare per
spiegare comportamenti virtuosi, come il sacrificio degli interessi economici
immediati per il bene dellʼimpresa (Hall e Koiranen 2006). Può anche dar luogo a fenomeni dʼintrappolamento (entrapment), che saranno meglio approfonditi, con riferimento allʼimpresa familiare, nel paragrafo 6. Eʼ una dimensione
che credo si estenda oltre le imprese familiari e che possa almeno in parte riguardare anche imprese a proprietà diffusa.
La teoria del capitalismo azionario ha subito varie critiche che cui non possono essere analizzate in dettaglio. Le posizioni principali si riassumono come
segue. Non sempre lʼazionista è il soggetto portatore dei maggiori rischi e
nemmeno del rischio generale dʼimpresa; non sempre, quindi, il più interessato a monitorare il management. Ciò vale tanto per la proprietà diffusa quanto
per quella concentrata seppure per cause differenti. Nel primo caso, il costo
del controllo potrebbe eccedere i benefici e lʼazionista preferisce vendere (uscire) piuttosto che agire in assemblea. Nel secondo caso, le strutture societarie possono essere disegnate in modo da ridurre la quota di controllo (e il
corrispondente rischio). Lʼazionista potrebbe far assumere allʼimpresa rischi
superiori a quelli che la generalità degli azionisti sarebbe disposta a sopportare. Similmente le alleanze tra azionisti consentono il controllo frazionando il
5 rischio, facendo quindi perdere efficacia alla relazione tra rischio e controllo.
La diluizione del rischio, senza perdita di controllo è ovviamente massimizzata
nelle piramidi societarie. In via generale, lʼazionista di controllo è spesso in
grado di trasferire sugli altri azionisti la maggior parte del rischio, pur conservando il potere di controllo. In tali circostanze è probabile che operino incentivi ad assumere rischi crescenti non coerenti con la ricerca del successo duraturo dellʼimpresa. In altre parole le strategie personali del controllante (dei
controllanti) possono configgere con gli interessi degli altri stakeholder (e in
particolare degli azionisti di minoranza). La protezione degli interessi legittimi
degli azionisti di minoranza e degli altri stakeholder è assai poco efficace nella
maggior parte dei sistemi di governance. Le recenti crisi dʼimpresa hanno dimostrato come gli interessi dei creditori siano spesso più protetti di quelli degli
azionisti di minoranza, nel presupposto infondato che questi ultimi, partecipando al governo, sono anche responsabili delle crisi e ne sopportano quindi
le conseguenze. In realtà in molti casi lʼinfluenza di alcune classi di creditori
sul governo strategico è assai superiore a quella degli azionisti di minoranza.
Si manifesta qui un altro caso evidente di distorsione delle regole costruite
secondo la teoria del capitalismo azionario. I principali creditori e gli azionisti
di maggioranza influiscono spesso direttamente sul governo strategico e sono, quindi, corresponsabili dei risultati dʼimpresa più della generalità degli azionisti su cui grava la maggior parte del rischio. Eʼ, infatti, noto che gli azionisti di controllo (e in molti casi anche i principali creditori) hanno voce
allʼinterno dei consigli dʼamministrazione, mentre gli altri azionisti possono al
più decidere di vendere le proprie azioni (voice versus exit). La scelta di vendere le proprie partecipazioni da parte dʼinvestitori istituzionali sarebbe una
decisione rilevante poiché esporrebbe lʼimpresa a possibilità di scalata, alla
modifica dei vertici aziendali ed al cambiamento dʼimpostazione strategica.
Tale scelta, ancorché spesso tardiva, sarebbe efficace solo se le imprese
quotate fossero effettivamente scalabili. La struttura proprietaria di molte imprese quotate e le regole prevalenti per le offerte pubbliche dʼacquisto non facilitano la cosiddetta contendibilità del controllo, minando così uno dei pilastri
della teoria del capitalismo azionario.
Da ultimo il potere dʼindirizzo e di controllo degli azionisti sui manager non è
sempre efficace, non risolvendo i ben noti problemi dʼagenzia. Se da un lato
un nucleo stabile di controllo sembra in grado di esprimere indirizzi strategici e
di monitorare lʼazione del gruppo dirigente, dallʼaltro tale configurazione di governo dà spesso luogo ad un ancor più grave problema dʼagenzia verso la
generalità degli azionisti, espropriati del diritto-dovere di governare, anche per
effetto di unʼevidente asimmetria informativa. Azionisti di controllo e manager
dispongono dʼinformazioni privilegiate sulle scelte strategiche, mentre il “mercato” valuta i risultati dellʼimpresa e le sue prospettive sulla base
dʼinformazioni parziali (e spesso rituali).
La scarsa trasparenza
dellʼinformativa societaria anche per le imprese quotate è uno dei principali
ostacoli allʼazione responsabile degli azionisti.
Si attribuisce spesso ai consiglieri indipendenti il compito di vegliare sugli interessi degli stakeholder deboli. In realtà tutti i consiglieri dovrebbero rappresentare in primo luogo lʼinteresse dellʼimpresa che è lʼunico a garantire
6 lʼequilibrata soddisfazione degli stakeholder. Nel concreto troppo spesso i
consiglieri si considerano rappresentanti di parte; sempre nel concreto
lʼindipendenza dei consiglieri risponde più a requisiti formali che sostanziali.
Sulla base delle considerazioni precedenti non è difficile elencare alcune misure finalizzate a creare le condizioni per un esercizio responsabile della funzione proprietaria nelle grandi imprese quotate.
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Consentire lʼaccesso ai mercati dei capitali solo alle imprese effettivamente scalabili e disporre lʼuscita dal mercato per le imprese che non
sono scalabili3.
Vietare o almeno penalizzare le piramidi societarie non solo perché distorcono la fisiologica relazione tra assunzione di rischio e diritto di governo, ma anche perché ostacolo la contendibilità del controllo. Un
modo per rendere costose le piramidi societarie è lʼeliminazione del
credito dʼimposta sui dividendi a favore di persone guridiche.
Ridurre i limiti oltre i quali scatta lʼobbligo di OPA, in modo da equilibrare il rapporto tra controllo, costo e rischio.
Rafforzare le prerogative dei consiglieri indipendenti e rendere più
stretti e cogenti i criteri per definire lʼindipendenza degli amministratori.
Rendere più stretti e cogenti i criteri per definire le situazioni di conflitto
dʼinteresse non solo degli amministratori, ma anche degli azionisti di rilievo.
Promuovere lʼassociazionismo tra azionisti di minoranza e lʼattivismo
azionario.
Scoraggiare gli acquisti speculativi, progettando incentivi e disincentivi
che favoriscono lʼinvestimento azionario di medio – lungo periodo.
Le misure elencate contribuiscono a definire un quadro istituzionale che incoraggia gli azionisti a svolgere con responsabilità la funzione proprietaria anche
nelle imprese quotate. In tal modo, da un lato si renderebbe la teoria del capitalismo azionario più coerente con le sue premesse e, soprattutto, con le esigenze di una moderna economia, dallʼaltro si promoverebbe quella democrazia economica che insieme con la democrazia politica continua a essere uno
dei pilastri della nostra civiltà. Le borse smetterebbero di essere il luogo in cui
si svolge un gioco un poʼ misterioso e spesso pericoloso per diventare finalmente il vero mercato degli investimenti azionari e del controllo delle imprese
(Rajan e Zingales 1998; 2003).
3 Di recente un ministro del governo britannico ha proposto di separare il prezzo del controllo
dal prezzo dellʼazione. I due componenti di prezzo avrebbero quotazioni distinte. Lʼazionista
potrebbe allora decidere se acquistare i diritti di partecipare al governo dellʼimpresa o accontentarsi dʼincassare dividendi ed eventuali plusvalenze. Lʼidea è a suo modo interessante, ma
forse sarebbe più semplice dividere i mercati. La Borsa principale andrebbe riservata alle imprese scalabili, mentre un secondo mercato sarebbe destinato alla quotazione di imprese che
per varie ragione non sono contendibili.
7 2. L’impresa – istituto e l’equilibrio tra stakeholder La definizione che Masini (1978) dà dʼistituto è:
“Un istituto si presenta come complesso di elementi e fattori, di energie e di risorse
personali e materiali. Esso è duraturo (impropriamente talora si dice “stabile” Il suo
permanere è della specie dinamica, sia per i fenomeni interni, sia per quelli di rapporti esterni con lʼambiente. Come complesso è ordinato (sorge, continua e si estingue)
secondo proprie leggi anche di varia specie (fisiche, sociologiche, economiche, religiose e così via) ed in multiforme combinazione” (p.11)4.
Comprendo forse solo ora il senso di questa frase, che dice a un tempo di più
e di meno di quello che per anni ho (abbiamo?) creduto. Il cuore del problema sta nella quantità di energia necessaria a far sorgere e a conservare
lʼistituto e, quindi, anche lʻimpresa. Più che una definizione positiva dʼistituto e
dʼimpresa, mi pare un programma, non solo scientifico, ma anche in un certo
modo politico. Il programma di ricerca è stato accolto da alcuni allievi del Maestro dando luogo ad una profilata forma dʼaziendalismo. Il programma politico è rimasto invece largamente disatteso. Su entrambe le dimensioni vale la
pena di riflettere.
Lʼenergia necessaria perché lʼinsieme dei soggetti partecipanti (stakeholder)
generi un nuovo soggetto dʼordine superiore, lʼimpresa – istituto appunto, è
una specie di big - bang organizzativo. Eʼ il miracolo che si ripete ogni volta
alla fondazione di una nuova impresa, che intorno alla visione
dellʼimprenditore fondatore diventa qualcosa di più del “semplice” nesso di
contratti. Il vitalismo dellʼimprenditorialità fu ben chiaro alla scuola austriaca
(in primis, Schumpeter 1933), ma fu guardato con perplessità anche dagli aziendalisti italiani degli anni ʼ50, che preferivano parlare di funzione imprenditoriale diffusa nellʼorganizzazione (si veda il paragrafo 5).
Anche unʼimpresa consolidata necessita un costante apporto energetico per
mantenere la coesione tra gli attori interni e con gli stakeholder. Vicari (1991;
p. 98) presenta la prospettiva dellʼimpresa vivente, proprio intorno al concetto
di entropia negativa, vale a dire di carica energetica che contrasta il degrado
entropico o, in altri termini, lʼinvecchiamento dellʼorganizzazione. Lʼimpresa,
concepita come sistema cognitivo (autopietico) è pur sempre sottoposta alla
seconda legge della termodinamica, vale a dire alla crescita dellʼentropia verso un valore massimo. Essa è misurata come indice di energia non disponibile allʼinterno del sistema in un dato momento. Lʼimpresa sistema cognitivo, è
un sistema chiuso, nei propri codici, nella propria cultura organizzativa, dipende da risorse esclusive, competenze e routine che si trasformano in fattori di
rigidità. Essa è, quindi, esposta al degrado entropico inarrestabile. Maggiore è
la quantità di lavoro svolto, più matura è lʼorganizzazione, maggiore è il degrado. Un aspetto dellʼinterpretazione “energetica” è tuttavia centrale per
lʼimpostazione di Vicari ed anche per la tesi qui sostenuta.
“Alcuni sistemi sono in grado di ridurre, annullare e, almeno temporaneamente, invertire il processo di degrado entropico al loro interno”. (…) “I sistemi auto-
4 Sottolineature
nel testo. 8 organizzatori, infatti, e tra questi spiccano quelli viventi, sono in grado dʼimportare
dallʼesterno una quantità di energia superiore o uguale a quella distrutta allʼinterno
del sistema. In termini assoluti vi è comunque distruzione di energia disponibile, ma
dal punto di vista del sistema considerato vi è invece una riduzione entropica. (…) I
sistemi sociali, le imprese in particolare, sanno sottrarsi al processo di degrado, almeno per un certo periodo di tempo, proprio in quanto, come gli altri sistemi viventi,
sono in grado dʼimportare attivamente entropia negativa. I sistemi viventi sono infatti
sistemi che, per usare unʼespressione efficace, riescono a produrre ordine, si nutrono
cioè di neghentropia” (pp. 98-99).
Indubbiamente lʼimportazione dʼenergia dallʼesterno richiede competenze, energie, risorse di vari attori sia interni sia esterni, che a loro volta sono catalizzati da una leadership capace di proporre la visione di lungo periodo in termini
a un tempo concreti e affascinanti. Il tema è stato sviluppato anche da Coda
(1988) nellʼorientamento strategico di fondo.
5
“Tutto questo non basta , perché nellʼorientamento strategico di fondo di unʼimpresa
ci sia unʼeffettiva focalizzazione di lungo periodo. Occorre altresì che la leadership
sia capace di rendere attuale lʼobiettivo della sopravvivenza di lungo periodo, sì che
questa diventi il motivatore di comportamenti quotidiani e sia concretamente operante. La sopravvivenza di lungo periodo è valore destinato a restare inoperante se non
è chiara la direzione di marcia; se questa non sprigiona un certo fascino e quindi non
ha una sua efficacia motivazionale e, infine, se non ha delle chiare implicazioni operative per lʼoggi”(p. 126-127).
Perché lʼimpresa sia istituto si richiede quindi una leadership visionaria capace di mobilitare risorse intorno al progetto strategico. Ciò a sua volta implica
comprensione delle forze in capo e degli interessi espressi dai vari stakeholder; in altre parole sono necessarie capacità politiche applicate alla ricerca
continua dellʼequilibrio istituzionale, anche mediante la proposta di nuove
strutture e regole di governo dellʼimpresa (Airoldi, Brunetti; Coda, 1988; pp.
99-100). Tale equilibrio non può che essere della specie dinamica in continua
tensione tra i poli dʼinteresse, secondo relazioni di tipo ago-antagonistico (Morin 1977; 1980; 1986; 2001; 2004; Martinet 2001; 2008).
La definizione di Masini (1978) può essere intesa come se lʼimpresa fosse
sempre un istituto; si tratta invece, a mio avviso, di un enunciato normativo.
Lʼimpresa dovrebbe essere un istituto; si pongono le condizioni perché essa
sia un istituto. Passando dal piano normativo a quello positivo, dobbiamo riconoscere che tali condizioni sono osservate solo in casi relativamente rari e
per tempi definiti. Per questo ho proposto di considerare lʼimpresa – istituto
ancor oggi come un programma di ricerca. Eʼ ancora fondamentale capire
come sʼinnesca il degrado di unʼorganizzazione, come tale degrado possa essere temporaneamente evitato, quando unʼorganizzazione degradata è recuperabile, quando i costi del risanamento sono giustificati e da quali punti di vi-
5 Si riferisce allʼimpostazione della gestione fiduciaria dellʼimpresa da parte degli attori – chiave, e cita Vitale (1988)
9 sta6; e ancora se sia preferibile rendere più agevole lo scioglimento del nesso
di contratti o, al contrario, se un certo livello di barriere allʼuscita, sia un incentivo al rinnovamento strategico. Credo tuttavia che sia utile riflettere anche
sulla dimensione politica della definizione dʼimpresa – istituto. Tale dimensione è in qualche modo evocata da Masini che, nelle note al cap. 10, critica le
impostazioni di governo economico adottate da alcuni Paesi7, tra cui lʼItalia (di
allora). Le preferenze di Masini sembrano andare al modello germanico, allora non ancora definito renano. Come già Masini suggeriva, la comprensione
dei modelli di governo delle imprese concretamente adottati dai vari Paesi,
non può prescindere da uno studio storico-giuridico del diritto societario e delle altre istituzioni regolatrici (agenzie, ecc.). I limiti del presente saggio (e del
suo autore) non consentono di entrare nello studio, che pure sarebbe interessantissimo, delle origini e dellʼevoluzione dei contesti giuridici e normativi che
modellano i sistemi di governance. Tale studio sarebbe ovviamente complementare e non sostitutivo dellʼanalisi economica applicata alla governance aziendale.8 Ad esempio il modello germanico (dei tempi di Masini ed in parte
anche di oggi) presenta il vantaggio di rappresentare meglio gli interessi di alcuni stakeholder (che altri modelli trascurano): lavoratori e collettività locali.
Non protegge, però, in modo adeguato gli interessi degli azionisti di minoranza (e nemmeno dei lavoratori con contratti atipici). Eʼ inoltre caratterizzato da
elevata rigidità istituzionale e, soprattutto, non facilità la contendibilità del controllo. Non sembrano esistere oggi assetti di governance ideali. Lo studio
delle radici di ciascun modello dovrebbe quindi sfociare anche in proposte di
riforma (talvolta radicale).
Le riforme indicate nel paragrafo precedente rafforzano la posizione degli azionisti delle grandi imprese quotate e creano incentivi allʼesercizio responsabile della funzione proprietaria. Con riferimento alla stessa classe dʼimprese,
e con i limiti di unʼanalisi non sufficientemente approfondita, si descrivono
brevemente di seguito i principi generali di corporate governance necessari a
rafforzare la dimensione istituzionale dellʼimpresa.
Anzitutto gli stakeholder non azionisti e, in particolare dei lavoratori, dovrebbero essere rappresentati negli organi di governo e di sindacato del governo economico. I lavoratori contribuiscono ai risultati economici dellʼimpresa, condividendone in parte il rischio; ciò fonda le prerogative di governo loro attribuite, e la rimunerazione basata sui risultati residuali. La sola partecipazione agli
utili, senza tali prerogative, è un errore dal profilo teorico9, poiché il diritto 6 Su
questi temi Coda ha prodotto studi ancor oggi di grande interesse; si veda ad esempio
Coda (1987).
7 Si veda in particolare la nota 20, pp. 297-298. Si rimanda anche a Masini 1955 – 60, par.
7.3. 8
Per uno studio storico comparato di alcuni modelli di governance si veda Charkham (1995)
9 La partecipazione agli utili senza cogestione è oggi discussa anche a livello politico. I termini
della discussione manifestano la scarsa preparazione economica (aziendale) di chi ne discute. Anzitutto non di cogestione si tratta, ma semmai di co-governo. Sempre la gestione è
svolta dagli organi aziendali (direttivi ed esecutivi) in collaborazione tra loro. La gestione strategica può prevedere anche il coinvolgimento di alcune classi di azionisti in relazione alla
struttura proprietaria dellʼimpresa. Di norma il governo strategico si forma attraverso il dibattito
10 dovere a governare lʼimpresa si fonda sulla rinuncia a rimunerazioni predefinite contrattualmente e, quindi, sul presupposto i governanti siano i più interessati al successo duraturo dellʼimpresa. Lʼesercizio, sia pure indiretto, delle prerogative di governo può rafforzare i sentimenti di proprietà psicologica. Non è
evidente, che la sola partecipazione agli utili ottenga lo stesso risultato.
Per contro, il principio che chi partecipa al governo condivide il rischio ed accede ai risultati residuali dovrebbe essere rafforzato da una maggiore flessibilità sul mercato del lavoro (sia in uscita sia in entrata). Come lʼazionista, anche il lavoratore dovrebbe avere la scelta concreta tra far sentire la propria
voce, attraverso forme indirette di partecipazione al governo, e “uscire”, ovvero disinvestire il proprio tempo, le proprie energie, la propria passione e le
proprie conoscenze da unʼimpresa in cui non crede più. Oggi in alcuni Paesi
la scelta di abbandonare lʼimpresa è ostacolata da evidenti lacune dei sistemi
di protezione sociale. Misure finalizzate a rendere effettiva la libertà di lavoro10
dovrebbero far parte delle agende dei governi almeno per gli Stati membri
dellʼUnione Europea.
Il rafforzamento delle legislazioni antitrust e delle autorità per la concorrenza è
necessario tanto quanto la riforma delle regole di corporate governance. Eʼ
del tutto evidente che lʼequilibrio istituzionale non è tale se è realizzato a scapito dei clienti. La storia economica dei nostri Paesi ha spesso raccontato di
grandi imprese, vere e proprie istituzioni, che hanno caratterizzato lʼeconomia
dʼinteri territori per generazioni. Spesso però tali imprese operavano in mercati protetti (monopoli naturali o legali). Il rafforzamento della dimensione istituzionale era sì risultato di leader illuminati, ma anche di rendite monopoliste
utilizzate per rimunerare azionisti (in molti casi pubblici) e lavoratori.
Lʼimpresa – istituto non può essere causa dʼinefficienze allocative; ciò va evitato inasprendo la legislazione antitrust e rafforzando le autorità di sorveglianza11.
Nella stessa direzione vanno le norme fallimentari; la tutela dei creditori, non
deve né impedire il risanamento dellʼimpresa, ove questo sia possibile, né determinare eccessive barriere allʼuscita. In altre termini, il legislatore fallimentare dovrebbe porsi lʼobiettivo difficile di tenere in equilibrio la tutela dei creditori,
con gli interessi di altri stakeholder al risanamento dellʼimpresa, rispettando
lʼefficienza dei mercati nella loro funzione allocativa.
Quando lʼimpresa non riesce ad essere istituto o quando cessa di esserlo, che
cosʼè o diventa? La stessa domanda può porsi come confronto tra teorie. Se
lʼimpresa non è un istituto e se non è (più) lo strumento per creare valore per
tra amministratori e manager. Il modo corretto di proporre il tema è se nei consigli
dʼamministrazione debbano essere rappresentati i lavoratori.
10 Tra le misure cui il testo fa riferimento non sarebbe da scartare lʼipotesi di un salario di cittadinanza (basic income). 11 Ben diverso è, ad esempio, il caso dellʼOlivetti ai tempi di Adriano. Si trattava non solo di
una grande istituzione che ha modellato da tanti punti di vista il proprio territorio, cercando,
pur tra molte difficoltà di realizzare un equilibrio istituzionale, ma anche di unʼimpresa innovativa operante in mercati caratterizzati da intensa rivalità.
11 gli azionisti, che cosʼè? Quale prospettiva alternativa si può proporre?
Lʼimpresa può anche essere vista come terreno di scontro tra gli interessi particolari di vari soggetti (anche in questʼaccezione si può utilizzare il termine
stakeholder); lʼimpresa può essere considerata la posta in un gioco di potere
tra attori interni ed esterni. A questa visione è dedicato il prossimo paragrafo.
3. Attori e potere: l’impresa campo di battaglia Masini (1978) rifiuta la categoria del potere, preferendo quella del servizio e
altre più funzionali al programma istituzionale che anima la sua opera.
“Nel nostro volume non si è mai usato il termine potere, poiché si giudica più pregnante quello di dovere rispetto a un compito assunto. Il termine che è proprio della
scienza politica, del diritto, della sociologia, non è stimolante per una costruzione di
una teoria dellʼazienda anche nella sua parte riguardante lʼorganismo personale coerente con i principi posti a fondamento di questo scritto” (p. 271, nota 4).
“La politica economica svolta da istituti pubblici territoriali non deve essere esercizio
di potere per governare dal centro persone e loro istituti primari; essa è esercizio di
dovere (compito, funzione) per lo sviluppo e il progresso di cui si fa cenno nel testo”
(p. 710, nota 2).
Anche Coda (1988) non ama la categoria del potere, che usa di solito in accezione negativa per identificare delle patologie aziendali.
“La ricerca del potere può assumere forme ben più gravi di strumentalizzazione
dellʼimpresa per finalità ad essa estranee”. “Eʼ interessante osservare come obiettivi
di prestigio e di potere si ammantano comunemente dellʼinteresse aziendale, data
anche la facilità con cui prestigio e potere personali degli attori-chiave si confondono
con quelli dellʼimpresa. Ciononostante non riesce difficile cogliere i segni di una sicura svalutazione dello scopo di reddito nellʼambito del finalismo dellʼimpresa” (p. 172)12
Riconoscere esplicitamente il potere tra le dimensioni dellʼagire strategico è
invece abituale negli scritti sulla leadership e fa parte della tradizione di business policy. Andrews (1965,1971) ad esempio propone il modello analitico
semplificato, noto come SWOT analisys, anche perché “riteneva che gli aspetti politici e sociali del processo di formulazione della strategia fossero così
importanti da rendere improduttiva lʼelaborazione di un modello analitico più
complesso per osservare gli aspetti economici e tecnologici del processo”
(Hofer and Schendel 1978:76).
Ansoff (1979:109-118) dedica un capitolo al potere, alle sue strutture e processi, poiché ritiene, che: “il potere condiziona i livelli di risultati ai quali lʼOSA
(organizzazione al servizio dellʼambiente) aspira, il livello di comportamento
che essa sceglie e il processo con cui cambia i livelli di comportamento
(p.109)”. I processi di potere possono essere vari (Ansoff identifica processi
coercitivi, consensuali e negoziali); lʼintensità del cambiamento strategico, la
12
Coda gradua il giudizio negativo ritenendo la ricerca di potere personale più disfunzionale
della ricerca di prestigio. Entrambe orientano gli attori-chiave verso comportamenti che penalizzano la dimensione istituzionale e lʼeconomicità. Lʼesempio proposto da Coda è quello del
Banco Ambrosiano.
12 velocità con cui esso si realizza dipendono largamente dalle strutture e dai
processi di potere in essere in unʼorganizzazione. Nellʼarticolazione delle ipotesi 7.1, 7.2, 7.3 e 7.4 (Ansoff 1979:117-118), Ansoff costruisce un modello
del potere e dei suoi effetti sulla gestione strategica. Ancor oggi la riflessione
di Ansoff si segnala per lucidità e realismo. Il medesimo autore dedica la sesta parte di Implanting Strategic Management al tema del cambiamento strategico, delle resistenze (comportamentali e sistemiche) al cambiamento e ai
metodi di gestione dello stesso (dalla discontinuità al cambiamento continuo)
(Ansoff 1984:523-610). La dimensione del potere pervade la riflessione di Ansoff che non a caso apre la parte sesta con una citazione di Machiavelli “Non
cʼè niente di più difficile da prendere in mano, di più pericoloso da guidare e di
più incerto successo che avviare un nuovo ordine di cose, perché
lʼinnovazione ha nemici in tutti quelli che hanno operato bene nelle vecchie
condizioni e tiepidi sostenitori in quelli che possono operare bene nelle nuove”
(Machiavelli, 1961).
In questi studi la dimensione politica è funzionale alla dimensione istituzionale, vale a dire al perdurare dellʼimpresa. Eʼ possibile però una lettura meno
positiva, secondo la quale lʼesercizio del potere diventa il fine delle strategie
degli attori organizzativi e il governo economico è strutturato in modo da facilitare la conservazione del potere. Masini (1978:42), per analizzare patologie
istituzionali simili a questa qui descritta, propone il concetto di soggetto economico improprio.
“ Nel concreto può manifestarsi che per condizioni personali, sociali, politiche di diritto positivo, e così via, non sia consentito a membri del soggetto economico di esercitare le prerogative o soddisfare le accennate attese. Tali persone fisiche restano ugualmente membri del soggetto economico, solo che altre persone dellʼinsieme o esterne si appropriano contro etica dei loro diritti con azioni illecite o con cosiddette azioni lecite secondo il diritto positivo vigente costruito però in contrasto coi fondamenti dellʼetica perenne o della scienza progredita. Nella dottrina si può investigare tale
fenomeno introducendo la nozione di soggetto economico improprio costituito dalle
accennate persone che esercitano per propri fini prerogative e conseguono attese
spettanti ai membri del soggetto economico”.13
La presenza di un soggetto economico improprio manifesta uno squilibrio istituzionale che mina le condizioni dʼeconomicità e, alla lunga, la stessa sopravvivenza dellʼimpresa. Forme varie di protezionismo (anche indiretto), sempre
collegate a malfunzionamenti dei mercati, possono consentire ad imprese
squilibrate dal profilo istituzionale di sopravvivere e di produrre risultati finanziari anche buoni. Per quanto a lungo possano durare tali situazioni di squilibrio istituzionale, si deve concludere che in questi casi lʼistituto cessa di esistere, poiché vengono meno i fini istituzionali e nessuno si riconoscere più nel
bene comune. Il principio della morte dellʼimpresa-istituto è identificabile nel
momento in cui le prerogative del soggetto economico sono usurpate da soggetti che esercitano il potere nel proprio esclusivo interesse. Lʼimpresa governata nellʼinteresse degli azionisti è compatibile con la visione istituzionale,
13 Sottolineature
nel testo.
13 poiché realizzando le condizioni indicate nei paragrafi 1 e 2, il bene inteso interesse degli azionisti converge con quello degli altri stakeholder, cominciando dai lavoratori. Allʼinterno di mercati efficienti e ben regolati (ad esempio
mediante una rigorosa legislazione antitrust) non è possibile perseguire
lʼinteresse degli azionisti, trascurando altri stakeholder.
Nei mercati imperfetti e sregolati che caratterizzano le nostre economie, è
possibile anche per tempi lunghi mantenere in vita organizzazioni che non rispondono né agli interessi (ben compresi) degli azionisti, né alle attese di altre
categorie di stakeholder. Si tratta evidentemente di organizzazioni la cui unica ragion dʼessere è produrre rimunerazioni dirette e indirette per chi riesce a
controllarle o anche semplicemente ad abitarle attraverso una relazione tipicamente parassitaria. Se i mercati (e i connessi regolatori) fossero efficienti
ed efficaci, tali organizzazioni non potrebbero mantenersi in vita per tempi
medi – lunghi, poiché gli azionisti e gli altri stakeholder farebbero loro mancare le risorse. Non è questa la situazione dei nostri mercati ed è quindi indispensabile prendere in considerazione anche le organizzazioni di questo tipo,
quelle che, parafrasando Ansoff (1979:17), si definiscono organizzazioni non
al servizio dellʼambiente (OnSA) o, ancor più nettamente, nemiche
dellʼambiente (ONA).
Gli esempi illustrati dal film The Corporation manifestano forse situazioni estreme nelle quali prevalgono comportamenti delittuosi, si rompono i rapporti
di fiducia tra impresa e portatori dʼinteresse esterni o tra impresa, azionisti e
lavoratori. Scandali grandi e piccoli punteggiano la storia economica e fanno
riflettere non tanto sui fondamenti dellʼagire collettivo quanto sugli anticorpi
(regole, strutture, interne ed esterne) che è necessario introdurre per scoraggiare i comportamenti opportunistici e promuovere quelli cooperativi.
Dai molti esempi che la storia pone alla nostra attenzione, si può trarre una
fondamentale lezione. Quando lʼorganizzazione perde ogni senso della missione nei confronti dellʼambiente, si riduce a puro gioco politico, ma di una politica senza ideali e totalmente autoreferenziale. Si tratta di una degenerazione possibile in ogni tipo di organizzazione (dallʼimpresa, alla chiesa, al partito
politico, allʼuniversità). Non è sempre facile impedire tale degenerazione, che
talvolta assume forme ambigue e si manifesta in modo strisciante e con sintomi iniziali non sempre ben riconoscibili. Chi ha responsabilità di governo in
unʼorganizzazione in fase nascente (vedi ad esempio il paragrafo 5) o nelle fasi
di transizione (vedi ad esempio il paragrafo 6) può cercare dʼinserire anticorpi
che ostacolano il decadimento istituzionale. La cultura organizzativa è spesso
il principale strumento di conservazione dinamica dei valori istituzionali; anche
le regole e le strutture di governo (e di sindacato) economico svolgono un ruolo fondamentale, così come la cura nella scelta degli attori-chiave, cominciando dai candidati alla successione. Chi svolge compiti direzionali di medio e
basso livello, chi ha mansioni tecniche, i semplici lavoratori esecutivi spesso
subiscono il decadimento istituzionale. Eʼ questo uno dei tanti casi in cui le
vittime sono però in parte colpevoli. Ogni attore organizzativo ha qualche
14 margine di manovra e qualche grado di libertà che gli consentono di resistere
(sia pure in modo parziale) ai meccanismi generatori e diffusori del degrado14.
Per quanto possa costare da punto di vista personale e familiare, ogni attore
ha la libertà estrema di abbandonare il gioco, cercandosi un nuovo cliente o
fornitore, un impiego altrove, un nuovo Paese cui donare le proprie energie e
le proprie risorse. Chi governa o regola i settori e i mercati ha la responsabilità di assicurare condizioni di flessibilità e mobilità che facilitino la scomparsa
delle OnSA (ONA) e la riallocazione delle risorse ad altre organizzazioni, anche se la riallocazione non è mai indolore e sacrifica nel breve non solo interessi ben protetti, ma anche interessi deboli.
4. Tre prospettive in dialogo Il capitalismo azionario e la teoria degli stakeholder propongono due visioni
dellʼimpresa apparentemente antitetiche; in realtà entrambe fanno riferimento
alla funzione sociale dellʼimpresa, seppure circoscrivendola con maggiore o
minore ampiezza ed attuandola mediante diversi meccanismi. Eʼ inoltre evidente che entrambe partono dallʼidea che le imprese siano organizzazioni al
servizio dellʼambiente. Nel primo caso tale servizio è mediato dalla ricchezza
creata per gli (e dagli) azionisti; nel secondo caso si prende in diretta considerazione un insieme variamente articolato di attese espresse dai portatori
dʼinteresse. Ad un sufficiente livello dʼastrazione le due prospettive sono quasi perfettamente compatibili. I titolari del capitale di rischio non sono proprietari della comunità dʼinteressi che si riconosce nellʼimpresa; non sono nemmeno titolari dellʼinsieme (nesso) di contratti, ma sono contraenti di un tipo
specifico di contratto. Sono semmai “condannati” a governare lʼimpresa (che
la sʼintenda come comunità o nesso di contratti). Il dibattito riguarda quindi
chi debba governare lʼimpresa ed anche questo problema è posto non tanto in
termini di legittimità, quanto di efficacia dellʼazione governo strategico rispetto
alla finalità di servire lʼambiente. Gli azionisti sono legittimati a governare
lʼimpresa, perché data la natura dei loro interessi e il tipo di rischio che caratterizza il loro contratto con lʼimpresa, si presume che il loro governo sia funzionale al successo duraturo dellʼimpresa e, quindi, alle sue capacità di rispondere anche alle attese della società. Lʼanalisi condotta nel paragrafo 1
consente di esprimere la medesima posizione teorica in termini condizionali.
Gli azionisti sono legittimati a governare, se la natura dei loro interessi, il tipo
di rischio che assumono e le condizioni di contesto regolamentare e normativo, fanno sì che sia ragionevole presumere che il loro governo massimizzi la
capacità dellʼimpresa di rispondere alle attese della società. Entrambe le proposizioni si radicano nella concezione fiduciaria della proprietà. Il proprietario
del capitale governa lʼimpresa come bene comune e ne è responsabile verso
la società. Tale visione non contrasta ovviamente la legittimità della proprietà
privata, ma la interpreta come servizio alla collettività. Questa concezione tipicamente europea (continentale) è ben riflessa nella Costituzione italiana, come emerge dallʼarticolo 42:
“La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o
14
In fondo è lʼantica lezione di Althusius (1614).
15 a privati.La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i
modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e
di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla
legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della sucessone legittima e testamentaria e i diritti dello Stato
sulle eredità”.
Il testo, come noto, è il risultato di un interessante dibattito (compromesso)
tra i componenti liberali, cattolici e social - comunisti, dellʼassemblea costituente e, in particolare, della terza sottocommissione della commissione per la
Costituzione. Ad esempio il relatore, On. Taviani, nel difendere lʼinserimento
in costituzione del riconoscimento della proprietà privata, spiega anche quali
orientamenti dovesse avere la legge regolatrice e imitatrice del diritto di proprietà. Si tratta in pratica di riconoscere alla proprietà privata una funzione
non solo personale, ma anche sociale, questʼultima definita non solo in negativo, ma anche in positivo.
“La proprietà privata non ha solo una funzione personale, ma anche sociale, che si
esplica non solo in senso negativo, ma anche in senso positivo; essa deve essere
esercitata conformemente allʼutilità sociale e al bene comune; e questo lo dice anche
la relazione Pesenti. Ciò vuol dire che, la proprietà privata deve essere inquadrata in
una visione organica della vita economica dello Stato”15.
Il cuore della discussione riguarda se la funzione sociale vada definita solo in
senso negativo e in questo caso la proprietà privata è quasi un male necessario, o anche in senso positivo, come strumento del bene comune. In questo
secondo caso è necessaria una visione organica della vita economica dello
Stato, che forse non mancava allʼepoca dellʼassemblea costituente, ma che
sembra ora smarrita e non solo in Italia. Il dibattito cui si accenna riguarda la
proprietà privata in generale e non la libertà dʼimpresa e i diritti degli azionisti.
Si può ben capire che se si riconosce alla generica proprietà privata una funzione sociale a maggior ragione tale funzione debba essere riconosciuta
allʼimpresa e, quindi, alla proprietà del capitale, i cui diritti sono esercitati per il
bene comune. Vale anche in questo caso la necessità dʼinquadrarli in una visione organica della vita economica dello Stato16.
Unʼefficace regolazione dei diritti di proprietà, inclusi quelli degli azionisti, dovrebbe bastare ad assicurare che il governo dellʼimpresa sia esercitato
nellʼinteresse del bene comune. Se i mercati delle condizioni produttive fossero ugualmente ben regolati, gli interessi degli stakeholder troverebbero possibilità di soddisfazione mediante la partecipazione a detti mercati. La loro partecipazione diretta al governo dellʼimpresa non sarebbe necessaria. Dʼaltro
canto in circostanze dʼinefficienza, rigidità dei medesimi mercati, anche la par 15
Resoconto sommario della seduta del 26 settembre 1946; III sottocommissione, commissione per la costituzione, assemblea costituente.
16
Ma ci si può oggi limitare ad una seppure organica visione della vita economica dello Stato? Non dovrebbe tale visione allargarsi e comprendere il mondo? Eʼ però possibile una visione senza leadership? Il caso non sʼè mai avverato e temo non possa avverarsi nemmeno
in futuro.
16 tecipazione al governo da parte degli stakeholder non garantirebbe una migliore protezione dei loro interessi. Sarebbe sempre difficile evitare coalizioni
di soggetti forti a scapito di quelli deboli. Lʼequilibrio istituzionale richiede
dunque tanto la progettazione e lʼattuazione di opportune regole e strutture di
governo, quanto una buona regolazione dei mercati dei fattori e dei prodotti. A
tali condizioni le teorie del capitalismo azionario e quelle del capitalismo sociale di mercato tendono a convergere (o almeno, diventano compatibili).
Tali teorie devono, entrambe, confrontarsi con la questione del potere, al fine
di proporre regole interne allʼorganizzazione e regole istituzionali esterne,
strutture di governo e di controllo che promuovano un uso a fini istituzionali
del potere. Ciò significa ad esempio facilitare la formazione di leadership
chiare anche nelle imprese a capitale ampiamente diffuso, ma anche
lʼintroduzione di contrappesi e strutture di controllo che ostacolino lʼabuso di
potere e contrastino il fenomeno assai noto in letteratura del delirio di onnipotenza (hybris) (Hayward and Hambrick 1997).
5. Il caso della nuova impresa In una recente opera collettiva, Lesca (2008:171) intitola il proprio contributo:
Le pouvoir cʼest aussi la capacité de voir ce que les autres ne voient pas. Eʼ
una delle manifestazioni del potere nelle nuove imprese. Lʼimprenditore –
fondatore sʼimpone sopra le normali condizioni di funzionamento dei mercati e
dei settori, per la capacità di vedere ciò che altri vedranno solo dopo che
lʼimpresa sarà realizzata. In questo consiste anzitutto il suo potere. Ciò basterebbe a fondare il potere “imprenditoriale” in una prospettiva multidimensionale. Le sue basi sono, infatti, ad un tempo cognitive (può perché sa), emotive
(può perché è curioso) ed dʼaltro genere ancora. Nello stesso volume LevyTandine e Paturel (2008:181-191) analizzano le molteplici relazioni tra potere
e imprenditorialità, anche se tali relazioni sono descritte in situazioni di accompagnamento (coaching) della nuova impresa. La struttura del loro contributo fornisce nondimeno unʼutile schematizzazione entro cui condurre la riflessione sulla funzionalità / disfunzionalità del potere quando lʼimpresa è allo
stato nascente.
Lʼimprenditore ha anzitutto potere sul proprio progetto che gli deriva
dallʼesperienza, dalle conoscenze, ma anche da una spinta passionale alla
creazione simile a quella con cui lʼartista domina ciò che sta creando.
Lʼanalogia con lʼopera di genio, dovrebbe far riflettere che spesso il progetto
acquista potere sullʼimprenditore, che ne è in fondo dominato, affascinato,
quasi sedotto. La lucida conoscenza, la prudente esperienza consentono di
dominare il progetto, laddove la passione inverte il verso della relazione di potere. A ben vedere non si tratta di miscelare gli ingredienti di questa relazione
(conoscenza, esperienza e passione), ma di connetterli in una relazione agoantagonista. Miscelandoli, infatti, sʼottiene sempre un risultato “grigio” a bassissimo potenziale energetico. La tensione tra il polo della conoscenza esperta e quello della passione produce invece lʼenergia sufficiente a far decollare il
progetto.
17 Da un altro punto di vista il potere dellʼimprenditore fondatore facilita lʼaccesso
alle risorse critiche per la fase di start-up, consentendo di ridurre il rischio di
fallimento o, in altre, parole di contrastare la debolezza del novizio (liabilities
of newness). In un lavoro seminale MacMillan (1986) attribuisce alla rete sociale dellʼimprenditore una funzione critica nelle fasi di start-up. Proprio la
partecipazione a reti sociali estese consente ad esempio agli imprenditori abituali (seriali e portfolio) di mobilitare risorse sui propri progetti imprenditoriali.
Possiamo quindi ipotizzare che le reti sociali forniscano ad alcuni soggetti il
potere sulle risorse senza averne la titolarità (accesso senza diritti di proprietà). La posizione dellʼimprenditore rispetto alla rete sociale è rilevante per capire la natura del suo potere. Una posizione centrale consente allʼimprenditore
di connettere informazioni che si formano allʼinterno dei confini della rete (entro quindi una definita specializzazione); la medesima posizione facilita la visibilità (per certi versi lʼaccesso) alle risorse della rete. Una posizione di collegamento tra reti sociali dà invece allʼimprenditore la possibilità di accedere ad
informazioni e risorse con un maggior grado di varietà; da tale possibilità dipende spesso il grado dʼinnovazione dellʼidea imprenditoriale.
Infine, lʼimprenditore ha il potere di formare lʼorientamento strategico di fondo
dellʼimpresa nascente condizionandola anche per un lungo periodo, poiché le
organizzazioni sono in genere path dependent. In questa fase lʼimprenditore
ha la possibilità dʼinserire contrappesi e anticorpi istituzionali ed organizzativi
che rafforzano lʼimpresa ed ostacolano lʼuso disfunzionale del potere. In tal
modo prepara la nuova impresa a rendersi autonoma. Il tema della continuità
/ discontinuità della relazione imprenditore impresa è stato affrontato in un bel
saggio di Gianni Lorenzoni (1988:162-176); è ancora un tema cruciale per
studiare il momento dellʼistituzionalizzazione di un progetto imprenditoriale.
Lʼimpresa avrà sempre bisogno di una funzione imprenditoriale, ma potrà far a
meno del soggetto che ha svolto tale funzione durante la fase di costituzione;
si tratterà in questo caso di unʼimpresa con un ben definito carattere istituzionale. Se questa transizione non avviene, lʼimpresa sarà sempre il progetto
mai completamente realizzato dei soggetti fondatori. La durabilità della nuova
impresa dipende, tra lʼaltro, dal successo di tale transizione. Eʼ questa la lezione che i nostri Maestri hanno proposto quando introducevano il concetto di
funzione imprenditoriale, versione italiana e più antica del corporate entrepreneurship (si veda ad esempio Masini, 1979: 52; 307).
6. Il caso dell’impresa familiare Nel caso delle imprese familiari abbiamo due istituti (famiglia ed impresa) che
si compenetrano; ciò accade anche ai rispettivi sistemi di potere. Il sistema di
potere interno alla famiglia e quello interno allʼimpresa sʼintrecciano, interagiscono, interferiscono. I risultati, molto positivi o pessimi, sono lʼeffetto di tali
processi di compenetrazione. Ogni sistema di potere può essere funzionale
allʼistituzionalizzazione dellʼorganizzazione cui si riferisce (la famiglia o
lʼimpresa). Nel caso della famiglia, tale istituzionalizzazione tende a far emergere un sentimento dinastico nei familiari, rafforzando lʼunità della famiglia anche con riferimento al ruolo che essa svolge nei confronti dellʼimpresa. Da un
certo punto di vista lʼimpresa diventa strumento dellʼaffermazione dinastica
18 della famiglia; questa visione strumentale può degenerare fino a far perdere il
rispetto per le finalità proprie dellʼimpresa. Sorge allora un impiego disfunzionale del potere che la famiglia esercita sullʼimpresa. In circostanze limite anche le generazioni passate esercitano una qualche forma di potere sulle generazioni correnti; la memoria dei predecessori può ad esempio indurre i familiari a non disinvestire dallʼimpresa anche quando lʼinvestimento produce perdite sistematiche. Eʼ un interessante fenomeno dʼintrappolamento (entrappment) recentemente studiato da Salvato, Chirico e Sharma (2007). Nel caso
dellʼimpresa, il sistema di potere, anche se in principio funzionale
allʼistituzionalizzazione della stessa, può degenerare nella dominazione di alcuni familiari su altri (appartenenti ad esempio a rami minoritari o a generazioni diverse); in tal caso il sistema di potere allʼinterno dellʼimpresa diventa
disfunzionale rispetto al perseguimento dei fini istituzionali della famiglia. Le
circostanze qui sommariamente indicate dovrebbero farci capire che la doppia
funzionalità del sistema di potere richiede una tensione costruttiva tra due poli
(quello familiare e quello dellʼimpresa). Tale tensione consente ad ogni polo
di far leva sulle risorse dellʼaltro polo, senza degenerare nellʼappiattimento
dellʼuno sui fini dellʼaltro o, nei casi peggiori, senza manifestazioni di doppio
declino istituzionale. Il tema richiama la visione di Vicari (1991) già discussa
nel paragrafo 2. Resta aperta la domanda se lʼaccoppiamento stretto tra famiglia ed impresa favorisca la produzione di entropia negativa o se, invece, la
rottura del nesso faciliti alʼassorbimento di nuove energie dallʼesterno, rallentando il degrado entropico. Gli studiosi delle imprese familiari tendono dare
una risposta positiva alla prima delle alternative, ma propongono anche soluzioni che, allentando il nesso (ad esempio mediante lʼapertura del capitale o la
partecipazione di non familiari agli organi di governo), conservino il carattere
familiare (ed anche il corrispondente assetto di potere) arricchendo nel contempo la gamma delle risorse a disposizione della famiglia e dellʼimpresa.
Seguendo la prospettiva qui indicata, si dovrebbero discutere le regole istituzionali a difesa degli interessi degli stakeholder il cui sistema si articola nel
caso di apertura dellʼimpresa familiare. Il punto sarà ripreso nella parte finale
del paragrafo.
La fisiologia dellʼimpresa familiare si basa sulla relazione ago-antagonista tra
famiglia e impresa ed è alimentata da sistemi di potere forti e non incompatibili a livello delle famiglie controllanti e delle imprese controllate. La relazione
ago-antagonista tra gli istituti è funzionale allʼistituzionalizzazione sia della famiglia (che si trasforma in dinastia) sia dellʼimpresa che assume prospettive di
durata indefinita. Il prevalere di un sistema di potere sullʼaltro manifesta, invece, un soggetto economico improprio o nella famiglia o nellʼimpresa.
Nel concreto come si realizza la tensione fisiologica tra famiglia ed impresa?
Strutture e meccanismi di governo della relazione sono proposti dalla letteratura accademica e consulenziale; una breve lista basti per orientare il lettore:
•
Istituzione dei consigli di famiglia come luoghi di socializzazione, dibattito ed anche come strumento che renda esplicito il sistema di potere
interno alla famiglia.
19 •
•
•
Formulazione di patti di famiglia come strumenti di regolazione dei rapporti tra famigliari secondo principi condivisi; essi svolgono anche la
funzione di formare una nuova cultura dei rapporti famiglia – impresa.
Da ultimo sono meccanismi di consolidamento, ma anche di dinamizzazione del sistema di potere, poiché da un lato facilitano la formazione
di leadership forti nella famiglia e nellʼimpresa e, dallʼaltro, regolano
lʼuscita e lʼingresso dei familiari nelle posizioni di governo e di direzione.
Lʼapertura del capitale a partner non familiari (fino allʼingresso in Borsa)
che consentono non solo lʼapporto di nuove risorse finanziarie e relazionali, ma anche di allentare il nesso famiglia – impresa, facilitando ad
esempio lʼuscita dei familiari e la formazione di nuovi sistemi di potere.
Si tratta qui di una potenzialità colta di rado, poiché le famiglie proprietarie strutturano le proprie partecipazioni proprio al fine di difendere il
controllo.
Lʼingresso negli organi di governo di esterni che comʼè ben noto apportano saperi, relazioni, obbligano a professionalizzare il funzionamento
dei consigli, e via dicendo. Va anche rilevato che gli esterni possono
svolgere un ruolo essenziale nella trasformazione del sistema di potere
e nel consolidamento delle alleanze tra familiari.
Le condizioni normative, regolamentari, di cultura economica definiscono il
quadro istituzionale entro cui la relazione famiglia-impresa si svolge; esse
contribuiscono quindi permettere oppure ad ostacolare lʼimpiego disfunzionale
del potere. Ovviamente nessun quadro normativo può imporre la tensione costruttiva tra famiglia ed impresa. Eʼ però possibile delineare un sistema di infrastrutture istituzionali che consenta di riconoscere e disincentivare le patologie della menzionata relazione, di riconoscere e premiare le relazioni fisiologiche. In linea generale le regole proposte nel paragrafo 1 sono utili anche per
le imprese familiari quotate; la conseguenza è che per quotare il capitale
dellʼimpresa, le famiglie proprietarie dovrebbero eliminare gli ostacoli alle acquisizioni anche ostili. Poiché si ridurrebbe considerevolmente il numero delle
imprese familiari quotate, si tratterebbe di concepire un mercato specializzato
nelle società a capitale concentrato17, definendo regole di governo e di controllo che difendano gli interessi degli stakeholder esterni alla famiglia controllante (altri azionisti, creditori, lavoratori e così via). Le imprese quotate su
questo mercato scambierebbero la non scalabilità con lʼaccettazione di regole
più severe sul rispetto delle attese degli altri stakeholder.
Conclusioni In questʼarticolo ho discusso il tema del governo strategico incrociando tre
prospettive teoriche: quella del capitalismo azionario, quella istituzionale
dellʼeconomia aziendale italiana, e quella dei sistemi di potere. Ho cercato di
dimostrare che una visione realistica del capitalismo azionario non è incompatibile con la visione dellʼeconomia aziendale italiana, purché sʼintroducono regole di corporate governance interne ed infrastrutture istituzionali esterne che
17 Eʼ
il mercato cui si accenna nella nota 3 a p.7.
20 promuovano il valore di medio lungo periodo dellʼimpresa; ciò infatti consente
di coniugare le finalità di azionisti e di altre categorie di portatori dʼinteresse.
Ho inoltre presentato i sistemi di potere come una visione complementare utile a comprendere quando tali sistemi siano funzionali allʼistituzionalizzazione
dellʼimpresa e quando, invece, giochino un ruolo disfunzionale. Ho poi presentato la nuova impresa e lʼimpresa familiare come casi emblematici per osservare lʼintreccio delle menzionate prospettive.
Lʼimpostazione scelta in questo scritto lascia aperta una questione cui desidero almeno accennare, partendo dalla domanda: che libertà hanno i soggetti
della strategia? La relazione tra governo strategico e libertà è problematica ed
è stata recentemente indagata in un numero speciale di Management International18. Due articoli in particolare sono illuminanti, quello di Franck Tannery
(2009:39-52) e quello di Alain Charles Martinet (2009:85-98). Il primo identifica le vie difficili, ma non impossibili, anzi necessarie, della libertà allʼinterno
del management strategico; lo stratega non può che essere libero poiché il
suo è un processo creativo, seppure vincolato. Il processo può assumere varie forme (o regimi strategici): di attualizzazione, di potenzializzazione, di virtualizzazione e di realizzazione. Martinet chiude il numero tematico proponendo la visione ambiziosa del management strategico come scienza noopolitica del concepibile, scienza dellʼartificiale certamente, ma anche politica e
normativa, poiché si pone lʼobiettivo di tendere verso ciò che è desiderabile e
possibile: ciò che appunto è concepibile. In questo testo programmatico, la
questione non è tanto quella dei gradi di libertà dello stratega, quanto di legittimare il governo strategico se ed in quanto contribuisce a liberare le persone.
In questa direzione, propongo alcune brevi riflessioni conclusive.
Già Coase (1937) fonda lʼimpresa su un vincolo di servitù, in base al quale il
lavoratore dipendente rinuncia alla libertà di decidere del proprio lavoro per
farsi coordinare allʼinterno di una gerarchia. Si tratta in parte di uno scambio
tra sicurezza e libertà; più in generale (ma non è questo lʼargomento di Coase) lʼindividuo riconosce che certi livelli di risultato (o certi beni) sono conseguibili convenientemente solo in forme associative o organizzate (nella visione
di Coase si tratta di un grumo di contratti che non è conveniente esplicitare).
La servitù volontaria (per contratto) è quindi il modo per accedere a tali livelli
di prestazione o a tali beni. Dʼaltro canto anche i manager, qualunque posizione occupino, non esercitano il potere gerarchico con arbitrio, ma seguendo
le leggi economiche. Si dovrebbe allora concludere che, fin dalle sue micro
fondazioni, lʼimpresa si legittima attraverso un duplice liberticidio: quello del
lavoratore e quello del dirigente? La polarizzazione tra libertà e necessità è
costitutiva della modernità come insegna, ad esempio, Foucault (2000). Il secolo dei lumi è ad un tempo il secolo delle leggi di natura ed il secolo della liberazione dalle superstizioni. I due poli non possono che essere in tensione
tra loro in una relazione ago-antagonista in cui sʼiscrivono pensiero ed azioni
umane. A tale relazione non sfugge la strategia che è il governo del possibile,
18
Les sciences de la gestion et la question de la liberté, Management International, vol. 13,
n. 3, Primavera 2009.
21 teso fino ai limiti dellʼutopia (del sogno imprenditoriale). A ben vedere, la determinazione congiunta di fini e strategie aziendali (Coda 1988) pone in primo
piano proprio la questione della libertà poiché traduce la visione in atti di governo strategico facendo emergere spazi di visione dallʼazione strategica. In
altre parole gli spazi di libertà si aprono laddove concorrono due principi: quello della realtà e quello della costruzione. Come mostra Avenier (1988:08;
1997), seguendo la lezione di Valéry (1957) sono anzitutto prospettive epistemologiche, prima ancora che principi teorici. Rispetto ai temi discussi in
questo scritto, la questione della libertà può essere articolata come segue.
Il capitalismo azionario non è necessariamente il luogo delle necessità e non
è quindi necessariamente un meccanismo liberticida. Può diventarlo (lo è stato talvolta) per carenza di conoscenze economiche diffuse e per
lʼacquiescenza di attori che in quanto esperti assumono il ruolo di orientare il
mercato. Si osserva, anche con riferimento ai mercati dei capitali, che la libertà si perde più spesso per colpevole rinuncia che non a seguito di violenze esterne; è la lezione del “Discorso sulla servitù volontaria” di La Boétie19.
La teoria istituzionale dellʼimpresa proposta dallʼeconomia aziendale italiana
richiede anzitutto la diffusione della libertà tra i portatori dʼinteresse; ma questa è impossibile senza che si diffondano contemporaneamente conoscenze e
cultura economiche. Anche per questa ragione, la teoria istituzionale è ancor
oggi un programma sia di ricerca, sia politico20.
Ogni sistema di potere, infine, ha una base di legittimazione in un principio di
necessità, che può assumere varie forme: la tradizione, le leggi economiche,
la scelta del male minore e così via. La congiunzione tra principio di libertà e
principio di realtà, invece, è sempre funzionale al ribaltamento del sistema di
potere vigente. Le infrastrutture e le regole istituzionali che promuovono la
flessibilità degli assetti istituzionali, promuovono anche la libertà nel governo
strategico.
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19
Del diritto alla resistenza già aveva scritto Althusius nella Politica (1614)
prospettiva complementare propone la liberazione dai condizionamenti del sistema
economico come è organizzato nei principali paesi (liberazione dalla ricchezza, e così via). Il
tema non può essere trattato in questo scritto. Per una ricognizione storica si rinvia a Todeschini (2004) La dialettica libero arbitrio – predestinazione nelle sue implicazioni economiche
è invece affrontata da Weber nel ben noto saggio sullʼetica puritana (Weber 1965)
20 Una
22 Andrews (1971), K. R. Andrews, The Concept of Corporate Strategy, R. Irwin.
1971.
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Potere e management strategico. Una relazione da ri