Istituti deflattivi e Contenzioso Fiscale
di Alberto Alfredo Ferrario e Marina Leogrande
Spese di giustizia: la lite temeraria
Il presente costituisce il terzo ed ultimo intervento di approfondimento in materia di spese
di giustizia. Nel primo sono stati esaminati i principi generali di maggiore rilievo, e, in
particolare, il caso della conciliazione; nel secondo è stato approfondito il tema delle
spese del giudizio qualora intervenga, nel corso dello stesso, l’annullamento dell’atto da
parte dell’Amministrazione Finanziaria. Infine, in questo terzo intervento, si approfondirà il
tema delle spese di giustizia nel caso sia stata instaurata una “lite temeraria”.
La disciplina della responsabilità aggravata e l’applicabilità al processo tributario
Come illustrato in diverse occasioni nei precedenti interventi, nel processo tributario vige
il principio della soccombenza, secondo il quale, in estrema sintesi, chi ha torto perde la
causa e paga le spese del giudizio.
Se la parte soccombente ha agito con mala fede o colpa grave e, per questo
comportamento ha provocato un danno alla controparte, oltre alle spese processuali, può
essere condannata, su istanza dell’altra parte, ad un’ulteriore somma per responsabilità
processuale aggravata che viene liquidata dal giudice nella sentenza.
Questo è quanto disposto dal primo comma dell’art.96 c.p.c..
Il secondo comma del medesimo articolo fa riferimento all’inesistenza, accertata dal
giudice su istanza della parte danneggiata, del diritto per cui è stato eseguito un
provvedimento cautelare, trascritta domanda giudiziale, iscritta ipoteca giudiziale, iniziata
o compiuta l’esecuzione forzata. In questa ipotesi il giudice condanna l’attore o il creditore
procedente al risarcimento dei danni perché ha agito senza l’ordinaria prudenza.
La L. n.69/09, recante una serie di modifiche al c.p.c., ha inserito il terzo comma all’art.96
c.p.c.. Tale norma stabilisce che:
il giudice, quando pronuncia sulle spese, in ogni caso e anche d’ufficio, può
condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una
somma equitativamente determinata.
Si ritiene che l’art.96 c.p.c. trovi integrale applicazione anche al processo tributario.
Invero, fermo restando il generale richiamo alle norme del c.p.c. in quanto compatibili,
contenuto nel co.2, art.1 del D.Lgs. n.546/92, la C.M. n.17/E/10, commentando il suddetto
articolo al paragrafo 2.9. non ne attesta espressamente la applicabilità, ma in premessa
chiarisce che:
“Nel commentare le singole disposizioni modificative del codice di procedura civile si
avrà modo di evidenziare quelle che non trovano applicazione nel processo tributario
dinanzi alle Commissioni Tributarie. In assenza di tale evidenziazione, si intende che
la disposizione commentata si applica anche al processo tributario”.
L’applicabilità al processo tributario dell’art.96 c.p.c. è confermata, inoltre, dalla dottrina e
dalla giurisprudenza prevalenti. Tra le pronunce più significative si segnala la sentenza
n.11/7/11 della CTR della Puglia. Di fronte al difetto di giurisdizione sollevato
dall’Amministrazione Finanziaria, la quale sosteneva che i profili risarcitori appartenevano
alla giurisdizione del giudice ordinario, la Commissione ha chiarito che:
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“la domanda di risarcimento proposta per responsabilità processuale aggravata può
essere conosciuta e decisa, nella sua globalità, soltanto dal giudice competente per il
merito della causa cui i pretesi danni si riferiscono, non solo perché nessun giudice
può giudicare la temerarietà processuale meglio di quello stesso che decide sulla
domanda e si assume temeraria, ma anche e soprattutto perché la valutazione del
presupposto della responsabilità processuale è così strettamente collegata con la
decisione di merito da comportare la possibilità, ove fosse separatamente condotta, di
un contrasto pratico di giudicati”.
La “temerarietà”
Affinché la lite possa essere giudicata “temeraria” è necessario che sussistano una serie
di condizioni.
 Il primo requisito richiesto dalla norma è quello della totale soccombenza della parte,
non essendo sufficiente una soccombenza solo parziale.
 Per quanto riguarda i requisiti soggettivi, il Legislatore fa riferimento alla mala fede e
alla colpa grave.
Si può affermare che un soggetto agisce con mala fede quando, consapevolmente, lede
diritti altrui, cercando di procurarsi dei vantaggi pregiudicando diritti altrui.
Il codice civile non fornisce una definizione di colpa grave. Senza voler scendere troppo
nel dettaglio e nei limiti dell’economia del presente intervento, tradizionalmente si suole
distinguere tra “colpa lieve” e “colpa grave”.
Colpa lieve
Colpa grave


Si incorrerebbe in una
responsabilità per colpa lieve
quando non sia stata utilizzata la
normale diligenza.
Invece, si è responsabili per colpa grave, se non sia
stata utilizzata la diligenza più comune, ossia anche
quella che utilizzerebbe qualcuno dotato di scarse
capacità. Si tratta, pertanto, di una condotta che, non
solo omette di osservare la normale diligenza del buon
padre di famiglia, ma anche quel grado minimo di
diligenza che comunemente tutti osservano.
Nella sentenza n.1082/97 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, dopo aver
condannato l’A.F. al risarcimento del danno ai sensi dell’art.96 c.p.c., hanno chiarito che
la difesa erariale ha un dovere di maggiore diligenza che le deriva proprio
dall’appartenere ad una pubblica istituzione e dall’essere portatrice dell’esigenza
generale di legalità dell’azione amministrativa.
La Corte di Cassazione, nella sentenza n.18824/06, ha affermato che:
“la condanna per responsabilità processuale aggravata, quale sanzione dell'inosservanza
del dovere di lealtà e probità cui ciascuna parte è tenuta, non può derivare solo dal fatto
della prospettazione di tesi giuridiche riconosciute errate dal giudice, occorrendo che
l'altra parte deduca e dimostri nell'indicato comportamento la ricorrenza del dolo o della
colpa grave, nel senso della consapevolezza, o dell'ignoranza, derivante dal mancato uso
di un minimo di diligenza, dell'infondatezza delle suddette tesi. Il carattere temerario della
lite, che costituisce presupposto della condanna al risarcimento dei danni, va ravvisato
nella coscienza dell'infondatezza della domanda e delle tesi sostenute, ovvero nel difetto
della normale diligenza per l'acquisizione di detta consapevolezza, non già nella mera
opinabilità del diritto fatto valere”.
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 Oltre alla sussistenza dei requisiti di cui sopra, affinché emerga la responsabilità di cui
all’art.96 c.p.c., co.1, è necessario che la parte soccombente abbia causato realmente
un danno all’altra parte e che la sussistenza dello stesso sia dimostrato in giudizio
dalla parte che lo ha sofferto.
La Corte di Cassazione, tra le altre, nella sentenza n.6637/92 ha affermato che è
necessario che la parte vittoriosa deduca e dimostri la concreta ed effettiva esistenza di
un danno in conseguenza del comportamento processuale della parte soccombente.
Quindi, in sostanza, la parte vittoriosa deve dimostrare che il comportamento scorretto della
controparte ha provocato un danno e deve altresì individuare il quantum dello stesso.
La condanna al pagamento di una somma equativamente determinata
La L. n.69/99 che ha modificato profondamente e in più punti il processo civile, come già
anticipato, ha inserito nell’art.96 c.p.c. il terzo comma.
Tale disposizione prevede che il giudice, al momento della pronuncia sulla ripartizione
delle spese di lite, anche d’ufficio, possa condannare la parte soccombente al pagamento
di una somma a favore della controparte determinata secondo equità.
Si tratta di una responsabilità diversa ed autonoma rispetto a quella “da lite temeraria” o
da “responsabilità aggravata” di cui al primo comma dell’articolo, dalla quale si distingue
per una serie di aspetti:
1.

Il giudice ha facoltà di procedere anche d’ufficio, mentre, nel primo comma, il
Legislatore prescrive la necessità che si proceda su istanza di parte.
2.

Mentre il primo comma richiede il sussistere di due requisiti soggettivi, la malafede o
la colpa grave, nel terzo comma non c’è alcun riferimento alla sussistenza di
particolari requisiti.
Ovviamente è necessario che la parte soccombente abbia adottato un comportamento
che il giudice ritiene essere scorretto.
Deve, quindi, sussistere una condotta colposa che non si risolve nella mera
soccombenza, ma deve essere tale in quanto viola il disposto di cui all’art.88 c.p.c. il
quale prevede che le parti e i loro difensori si comportino in giudizio con lealtà e probità
(Tribunale di Terni, sentenza del 17 maggio 2010).
Non solo: l’incipit del terzo comma recita “in ogni caso”. Ciò ci farebbe supporre che il
giudice ha la facoltà di condannare la parte soccombente al pagamento di una somma a
favore della controparte, appunto, in ogni caso, ossia secondo la sua mera discrezionalità.
3.

Nel caso della responsabilità ai sensi del terzo comma, non è necessaria la
dimostrazione del danno subito. È chiaro, quindi, che il giudice potrà fare diretto
riferimento agli atti di causa.
La Cassazione, con la sentenza n.17485/11, ha affermato che all’accoglimento della
domanda di risarcimento dei danni da lite temeraria non osta l’omessa deduzione e
dimostrazione dello specifico danno subito dalla parte vittoriosa, costituito dagli oneri che
questa ha dovuto affrontare per essere stata costretta a contrastare l’ingiustificata
iniziativa dell’avversario e dai disagi conseguenti a tale iniziativa, la cui esistenza e
quantificazione può essere desunta dalla comune esperienza. Viene quindi chiarito, con
portata innovativa, che il danno risarcibile non è soltanto quello patrimoniale, ma anche
quello non patrimoniale, costituito dalla lesione dell’equilibrio psico-fisico.
4.

Ultima differenza, diretta conseguenza del punto di cui sopra, sta nella “natura”
della somma di denaro. Mentre nel primo comma si parla espressamente di
“risarcimento del danno”, tale qualificazione non sussiste nel terzo comma, in cui si
parla genericamente di “una somma equativamente determinata a favore della
controparte”.
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Di certo, l’importanza del terzo comma è, in concreto, quella di permettere al giudice
la punizione di un comportamento scorretto della parte soccombente, prescindendo
da ogni qualificazione giuridica dello stesso, ed inoltre, dando la possibilità al giudice
di procedere d’ufficio, si consente di punire tale comportamento a prescindere dalle
prove offerte, o meno, dalla controparte.
DIFFERENZE
Responsabilità ex primo comma art.96 c.p.c.
Il giudice può procedere solo ad istanza di parte
È necessaria la malafede o la colpa grave
È necessaria la sussistenza di un danno
Si tratta di un risarcimento del danno
Responsabilità ex terzo comma art.96 c.p.c.
Il giudice può procedere anche d’ufficio
La norma non precisa gli elementi soggettivi
che devono sussistere
Non è richiesta la prova circa la sussistenza
del danno
Non è specificata la natura della somma di
denaro a cui è condannata la parte
soccombente
PUNTI IN COMUNE
1. La parte condannata al pagamento di una somma a favore dell’altra parte è quella
soccombente;
2. la parte soccombente deve aver assunto un comportamento scorretto.
La quantificazione del danno
Il carattere generico, si presume volutamente, del comma 3 dell’art.96 c.p.c. consente al
giudice di agire con ampia libertà, senza particolari vincoli di forma e di sostanza e senza
limiti circa la quantificazione del danno.
Si riportano alcune delle più significative sentenze in cui vengono individuati i criteri per la
quantificazione del danno.
Il Tribunale di Bari, nella sentenza del 25 maggio 2011 ha condiviso l’interpretazione
della norma secondo la quale le condotte realizzate da una parte condannata ai sensi
dell’art.96 c.p.c. costringono l’altra parte a subire un processo ingiustificato e, quindi,
eccessivo nella sua durata. Di conseguenza il danno sofferto dalla parte vittoriosa si
presenta analogo a quello relativo alla irragionevole durata del processo. Pertanto, se
manca la piena prova circa l’ammontare del danno, il giudice potrà quantificarlo in via
equitativa sulla base dei criteri elaborati per i processi irragionevolmente lunghi.
Si segnala la sentenza del 23 febbraio 2012 del Tribunale di Varese, il quale, ritenuti
sussistenti tutti i presupposti per l’applicazione di una condanna ai sensi dell’art.96 c.p.c.,
co.3, ha utilizzato come criterio per la quantificazione del danno il costo medio gravante
sulle parti per un anno di processo secondo i parametri comunitari.
Da ultimo, nella sentenza n.20995/11, la Corte di Cassazione, premesso che il
Legislatore consente il risarcimento di un danno anche non patrimoniale e appurato il
carattere temerario della lite, ha chiarito che un danno di natura non patrimoniale sofferto
dalla parte vittoriosa si concretizza in una lesione dell'equilibrio psico-fisico. Ossia:
“il danno rilevante ai sensi dell'art.96 c.p.c., può desumersi in base a nozioni di comune
esperienza anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole
durata del processo (art.111, Cost., co.2) e della L. n.89/01 (c.d. legge Pinto), secondo
cui, nella normalità dei casi e secondo l'id quod plerumque accidit, ingiustificate condotte
processuali, oltre a danni patrimoniali, causano ex se anche danni di natura psicologica,
che per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla
base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa”.
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Conclusioni
Il fine della disposizione di cui all’art.96 c.p.c. è quello di scoraggiare un utilizzo fittizio,
dilatorio e dispendioso del processo civile e tributario e di favorire l’utilizzo degli strumenti
alternativi per la soluzione delle controversie.
Tale finalità è stata maggiormente tutelata con l’introduzione del nuovo comma 3
dell’art.96 c.p.c. che ha rafforzato la portata applicativa della norma e ampliato le ipotesi
di condanna per responsabilità aggravata dando facoltà al giudice di esprimersi in merito
alla condanna al pagamento di una somma che, anche se non specificato dal Legislatore,
si presume derivare da un pregiudizio sofferto da scorretti comportamenti processuali.
Si è così ampliata la platea delle ipotesi di condanna per responsabilità aggravata
evitando la verifica sulla sussistenza dei presupposti richiesti per la responsabilità per lite
temeraria. Infatti, il semplice fatto che il terzo comma dell’art.96 c.p.c. non richieda la
dimostrazione del danno o della sua entità, dispensa la parte dal dover provare
circostanze talvolta di difficile dimostrazione.
Inoltre, la possibilità data al Giudice di intervenire d’ufficio permette all’istituto di avere
una reale valenza processuale e non di essere una mera “formula di stile” quasi d’obbligo
nelle richieste avanzate dalla parte vittoriosa. Occorrerà valutare l’impatto di tale norma
nella applicazione pratica che potranno fare le Commissioni tributarie tradizionalmente
piuttosto inclini alla compensazione delle spese di lite.
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