Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi XCVIII A cura di Susanne Pollack Il catalogo contempla immagini di opere tutte dedicate a un solo oggetto: lo strumento a corda. Come ogni strumento, esso richiede l’intervento della mano per adempiere alla sua funzione. Soltanto così si crea il suono delle corde che, invisibile e incorporeo, pervade lo spazio, riempiendolo di armonia. La mano da sola, però, può ben poco, se non si accompagna all’arte di colui che la muove. Orfeo, Apollo, Arione e Davide sono passati alla storia (del mito o dell’Antico Testamento) per la loro straordinaria capacità nel suonare uno strumento a corda: con il suono della lira Orfeo ammansisce gli animali feroci e induce alla commozione persino le divinità degli inferi; il citaredo Apollo sovrintende alle muse e con esse ai suoni del cosmo; Arione seda il mare in tempesta, mentre Davide riesce a placare con l’arpa la melancolia di re Saul. Le opere selezionate per la mostra e commentate nei saggi del catalogo mostrano come sia proprio quell’oggetto sonoro a determinare la vita di ciascuno dei quattro protagonisti. Viceversa, le loro figure e la loro storia influenzano la concezione dello strumento come simbolo dell’armonia in generale. Il dolce potere delle corde Orfeo, Apollo, Arione e Davide nella grafica tra Quattro e Cinquecento a cura di SUSANNE POLLACK ESTRATTO DAL CATALOGO The catalogue collects images of works dedicated to stringed instruments. The four main characters – Orpheus, Apollo, Arion and David – have a common extraordinary, and seemingly supernatural, ability to play them. The works selected for the exhibit and commented in the essays show how those particular musical objects determine their lives. From the other side, their figures and stories influence the idea of stringed instruments as symbols of harmony in general. Susanne Pollack ha studiato storia dell’arte e filologia romanza (italianistica) alle Università di Dresda, Firenze e Berlino. Da alcuni anni lavora presso il Kunsthistorisches Institut in Florenz – Max-PlanckInstitut. Si è occupata principalmente di grafica del Quattro e Cinquecento, concentrandosi in particolare sui processi dell’innovazione tecnica e iconografica, argomenti che ricompaiono nella sua tesi di dottorato, in corso di svolgimento all’Università di Berna, dedicata al caso dei cosiddetti Tarocchi del Mantegna. Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Cataloghi, vol. 98 2012, cm 21,5 ¥ 29, viii-180 pp. con 106 ill. n.t. di cui 58 a colori. √ 38,00 [isbn 978 88 222 6183 0] caSa editrice Casella postale 66 • 50123 Firenze [email protected] • [email protected] Tel. (+39) 055.65.30.684 Leo S. oLSchki P.O. Box 66 • 50123 Firenze Italy [email protected] • www.olschki.it Fax (+39) 055.65.30.214 LEO S. OLSCHKI FIRENZE 2012 Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi XCVIII Il dolce potere delle corde Orfeo, Apollo, Arione e Davide nella grafica tra Quattro e Cinquecento a cura di SUSANNE POLLACK LEO S. OLSCHKI FIRENZE 2012 Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze Soprintendente Cristina Acidini Direzione Amministrativa Silvia Sicuranza Direzione della mostra Marzia Faietti e Giorgio Marini Catalogo a cura di Susanne Pollack Saggi di Cristina Acidini, Marzia Faietti, Laura Goldenbaum, Almut Goldhahn, Jana Graul, Marion Heisterberg, Theresa Holler, Martina Papiro, Susanne Pollack, Gabriele Rossi Rognoni, Julia Saviello, Anna Schultz, Samuel Vitali, Gerhard Wolf, Lars Zieke Repertorio delle opere Elena Bonato Revisione dei testi Corinna T. Gallori Traduzioni Pier Gianni Piredda Fotografie delle opere del GDSU Roberto Palermo Allestimento Maurizio Bacci, Lucia Corrieri Verri, con l’assistenza di Massimo Pivetti e Paolo Rosa Restauro e montaggi Maurizio Boni, Luciano Mori Segreteria scientifica e organizzativa Maria Elena De Luca Documentazione Elisabetta Bandinelli Fossi Biblioteca Carla Basagni Segreteria amministrativa Antonia Adamo Gulizia, Antonella Poleggi Giovannelli Si desidera vivamente ringraziare per i prestiti concessi Beatrice Paolozzi Strozzi, Direttrice del Museo Nazionale del Bargello, Firenze Guglielmo Bartoletti, Direttore della Biblioteca Marucelliana, Firenze Marco Ternovec, Taipana (Udine) e per il sostegno alle ricerche Giulio Bora, Julian Brooks, Dominique Cordellier, Philippe Cordez, Heiko Damm, Corinna T. Gallori, Cristiana Garofalo, José Manuel Matilla Rodrı́guez, Bert W. Meijer, Guido Messling, Mario Ruffini, Elisabetta Scirocco, Anna Forlani Tempesti, Nicholas Turner, Tim Urban La mostra è stata realizzata anche grazie al contributo di Associazione Culturale MetaMorfosi ISBN 978 88 222 6183 0 Pietro Folena Presidente Vittorio Faustini Direttore Generale Elisa Massetti Responsabile Settore Mostre Segreteria organizzativa Guido Iodice Leonardo Ragozzino con la collaborazione di Fulvia Palacino Segreteria Presidenza Francesca Lilli Progetto grafico Domenico Laneve Consulenza legale Andrea Catizone Responsabile amministrativo Antonio Opromolla Trasporti Montenovi S.r.l., Roma Assicurazioni Insurance Placement Agency, Milano MetaMorfosi rivolge un ringraziamento particolare a Pietro Faustini, Sara Faustini, Maria Grazia Filippi, Camilla, Gianfranco e Lucrezia Folena, Carla Gobetti, Andrea Margaritelli, la famiglia Montenovi, Pina Ragionieri, Biancamaria Verde Sponsor ufficiale Sponsor tecnici INDICE CRISTINA ACIDINI, L’immagine di Orfeo nelle arti visive e nello spettacolo . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. MARZIA FAIETTI e SUSANNE POLLACK, Ascoltare con gli occhi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » PIETRO FOLENA, Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 1 5 7 IL DOLCE POTERE DELLE CORDE SUSANNE POLLACK, Il suono delle corde genera immagini. La lira nelle rappresentazioni italiane di Apollo e Orfeo (XV-XVI sec.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . GABRIELE ROSSI ROGNONI, La lira nel Rinascimento: una riscoperta? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » » 11 25 » 37 » » » 42 45 48 » » 59 64 » » » 75 81 84 » » 97 99 » » 105 109 ORFEO E GLI ANIMALI ALMUT GOLDHAHN, «Discordia concors»: Orfeo incanta gli animali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LARS ZIEKE, «Stimmung» e armonia. La visualizzazione dell’armonia delle sfere e dell’ordine cosmico nell’incisione di Hans Collaert «Orfeo tra gli animali e le Muse» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . MARION HEISTERBERG, Dal Parnaso al ritrovo degli animali. Considerazioni su una stampa del 1558 ELENA BONATO, Repertorio delle opere 1-8 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . APOLLO E LE MUSE JULIA SAVIELLO, «Mentis Apollineae vis has movet undique musas». Apollo e le Muse . . . . . . . . . ELENA BONATO, Repertorio delle opere 9-15 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . APOLLO SFIDA PAN E MARSIA MARTINA PAPIRO, Competere e giudicare. Apollo, Marsia, Pan e Mida . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . JANA GRAUL, Pittori «non» con tutto il cuore: artisti-musicisti nelle «Vite» di Vasari . . . . . . . . . . ELENA BONATO, Repertorio delle opere 16-26 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ARIONE IN MARE ANNA SCHULTZ, Arione: musicante in mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ELENA BONATO, Repertorio delle opere 27-29 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’ARPA DI DAVIDE ANNA SCHULTZ, Il potere di Dio nell’arpa di Davide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ELENA BONATO, Repertorio delle opere 30-34 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VIII INDICE LA PERDITA DI EURIDICE E LA MORTE DI ORFEO SAMUEL VITALI, L’impotenza delle corde: la perdita di Euridice e la morte di Orfeo . . MARZIA FAIETTI, Orfeo a Bologna e le divagazioni sul mito di Marcantonio Raimondi THERESA HOLLER, Dante, Orfeo ed Euridice. Sonorità poetiche nella «Commedia» . . . ELENA BONATO, Repertorio delle opere 35-42 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 117 . » 124 . » 131 . » 135 ORFEO DI BRONZO LAURA GOLDENBAUM, Bertoldo di Giovanni e il suo Orfeo in bronzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LAURA GOLDENBAUM, Il mito di Orfeo nelle placchette rinascimentali in bronzo . . . . . . . . . . . . . ELENA BONATO, Repertorio delle opere 43-48 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » » » 147 149 150 GERHARD WOLF, «Sappi l’immagine». Le metamorfosi di Orfeo da Ovidio a Rilke . . . . . . . . . . . . » 155 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 163 PAROLE COME MUSICA CRISTINA ACIDINI L’IMMAGINE DI ORFEO NELLE ARTI VISIVE E NELLO SPETTACOLO Il mito di Orfeo ha goduto di lunga e varia fortuna nelle arti figurative, a partire dall’antichità greca e romana per arrivare ai nostri giorni. Le fonti letterarie, rielaborate innumerevoli volte in poesia, in testi teatrali e in libretti per melodrammi, danno alimento al cristallizzarsi di memorabili immagini. Nell’arte antica, Orfeo compare quale cantore e musico che accompagnò la nave degli Argonauti guidati da Giasone alla conquista del vello d’Oro, salvando la nave dal canto insidioso delle Sirene. E anche Orfeo con la cetra che ammansisce le fiere selvatiche ricorre in incantevoli mosaici e pitture vascolari dell’area mediterranea, in cui il suonatore campeggia al centro di una corona di animali nostrali ed esotici: leoni, scimmie, uccelli d’ogni sorta (fig. 1 nel saggio di G. Rossi Rognoni). Nell’arte rinascimentale, con il ritorno e la diffusione della mitologia antica grazie all’appassionata rilettura delle fonti classiche, anzitutto di Virgilio e Ovidio, Orfeo venne estesamente rappresentato sia come figura a sé stante, sia nello svolgimento della sua storia di perdita dell’amata sposa Euridice. Nella Firenze del primo Umanesimo, dove nel tardo Quattrocento il Poliziano avrebbe dedicato a Orfeo la celebre Fabula poetica, Luca Della Robbia lo rappresentò circondato di uccelli e belve in una formella esagonale per la serie delle Arti (1437-39), già poste nel campanile di Giotto e ora nel Museo dell’Opera del Duomo: qui Orfeo impersona la Musica per antonomasia, e in particolare la capacità speciale che ha quest’arte di addolcire la selvatichezza naturale, in un processo che induce la civiltà negli uomini e la mansuetudine nelle bestie (fig. 1). Sempre a Firenze lo sventurato musicista trace è evocato da una statua marmorea di Baccio Bandinelli (1519) nel cortile di Palazzo Medici Riccardi (fig. 2 nel saggio di G. Rossi Rognoni). Commissionato da Leone X per Palazzo Vecchio al tempo del governo mediceo restaurato in Firenze, il citaredo che con la dolcezza irresistibile della sua musica doma Cerbero, il cane tricipite posto a guardia degli Inferi, proponeva in termini allegorici il potere persuasivo della famiglia Medici sui nemici anche più temibili. Fig. 1. LUCA DELLA ROBBIA, Orfeo incanta gli animali, 1437-1439, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. Con simili intenti celebrativi venne ritratto in sembianze d’Orfeo il duca Cosimo per mano di Agnolo Bronzino, in un quadro oggi nel Philadelphia Museum of Art (1539-1540 circa) (fig. 2). Cosimo si fece raffigurare di spalle, cosı̀ che la sua testa girata poggiasse sulla schiena di un atletico modello ignudo, mentre nell’ombra dello sfondo si intravedono le sagome di animali soggiogati dalla musica dello strumento – una lira da braccio – suonato dal giovane ma determinato duca di Firenze. Anche nell’arte d’oltre Appennino il mito di Orfeo trovò ampi spazi di rappresentazione, come nel dipinto di Giovanni Bellini del 1515 circa nella National Gallery di Washington, dove in una radura boschiva insieme con Orfeo e gli animali intenti ad ascoltarlo sono presenti altri personaggi dei miti silvani, come ninfe e un satiro. Nel medesimo museo, 2 Fig. 2. AGNOLO BRONZINO, Ritratto del duca Cosimo I in sembianze d’Orfeo, 1539-1540 circa, Philadelphia Museum of Fine Arts. un’intera serie di opere in bronzo con vari momenti del mito di Orfeo si deve al veronese Galeazzo Mondella detto il Moderno, a cavallo fra il Quattro e il Cinquecento (cat. 44-46). Incisioni di Francesco del Cossa, di Nicoletto da Modena (cat. 2), di Marcantonio Raimondi (cat. 40) e d’altri contribuirono, insieme con edizioni illustrate delle Metamorfosi di Ovidio (cat. 35a-c), a render noto e familiare nell’arco del Rinascimento il protagonista della triste vicenda. Morta infatti la fresca sposa Euridice – morsa da un serpente mentre sfuggiva all’inseguimento di Aristeo – Orfeo scese agli Inferi per chiedere a Plutone e a Persefone di far tornare con lui, viva, l’amata. La ottenne alla sola condizione di condurla fuori dell’Ade senza mai voltarsi indietro: ma Orfeo, ansioso, infranse quell’unico vincolo posto da Plutone e girandosi a guardare che Euridice lo seguisse, la perse per sempre. Folle di dolore Orfeo si lasciò infine uccidere e smembrare dalle Menadi, ebbre e feroci seguaci di Dioniso. La fatale storia d’amore e morte di Orfeo e della sposa perduta, cantata da Virgilio e da Ovidio, accese la fantasia di molti artisti. Il motivo iconografico dell’uscita dagli Inferi fu illustrato con fantasiosi dettagli in una tavola del tardo Quattrocento attribuita al poco noto pittore lucchese Michele Ciampanti (Firenze, CRISTINA ACIDINI collezione privata): nella rupestre desolazione della bocca dell’Inferno pagano, da cui i due scampati tentano la sortita, si affollano a ostacolarli diavoli in tutto uguali a quelli dell’imagerie cristiana, presi a prestito dall’iconografia tradizionale, e similmente costruita, del Cristo al Limbo. D’altronde, la contaminazione fra il tema mitologico e la diablerie fu messa in atto da pittori dei secoli successivi, espressi dal più visionario universo artistico fiammingo. Henri met de Bles detto il Civetta, nato a Bouvignes ma passato in Italia e morto a Ferrara nel 1560 circa, ambientò il suo Orfeo nell’Ade (San Francisco, M.H. de Young Memorial Museum, California Palace of the Legion of Honor) tra archi e grotte affocati e mostruosamente popolati. Il brussellino Jan Brueghel il Vecchio, accentuò i cupi caratteri infernali della scena, i cui bagliori di fiamma sono esaltati dal supporto in rame (1594; Firenze, Galleria Palatina). La scena di Orfeo che supplica Plutone fu compressa in un drammatico scorcio infuocato dal Tintoretto, in uno scomparto di soffitto veneziano oggi nella Galleria Estense di Modena (1541-1542 circa). Un intero ciclo di lunette rappresenta i diversi momenti del mito nel Corridoio d’Orfeo nel palazzo ducale di Sabbioneta. Ma fu soprattutto dal Seicento in poi, con l’affermarsi della poetica dei sentimenti dell’età barocca, che la coraggiosa discesa del cantore all’Erebo e il suo sfortunato ritorno divennero materia di ampia e varia rappresentazione, non senza il decisivo impulso della fortuna musicale e teatrale del mito, che ebbe un posto d’onore nel melodramma all’aprirsi del secolo con l’Euridice di Jacopo Peri e Giulio Caccini e l’Orfeo di Alessandro Striggio e Claudio Monteverdi. Pieter Paul Rubens raffigurò più di una volta con dovizia narrativa l’intensa scena nell’Ade, esprimendo negli sguardi e nei gesti dei quattro personaggi il concitato gioco di stati d’animo diversi: l’indulgenza di Persefone che concede il miracolo, lo riluttanza stupita di Plutone, la fretta di Orfeo di partire con la sposa, l’indugio della candida Euridice per voltarsi a guardare intenerita e grata i sovrani infernali. La toccante scena dell’appello accorato di Orfeo dinanzi ai regnanti dell’Oltretomba continuò a ispirare gli artisti anche nel secolo successivo. Nel 1763 Jean Restout dipinse una tela monumentale, destinata ad esser trasposta in arazzo dalla Manufacture des Gobelins di Parigi, in cui la scena era dilatata in un ambiente di rupi selvose, con le tre Parche intente a tessere le fila dei destini tra gli altri ministri del regno sotterraneo. Numerose variazioni artistiche, incardinate al patetismo dell’attimo cruciale del mito – lo sguardo amoroso eppure fatale di Orfeo, il repentino distacco di Euridice risucchiata dall’Ade – furono elaborate in L’IMMAGINE DI ORFEO NELLE ARTI VISIVE E NELLO SPETTACOLO area settentrionale tra il Barocco e il Neoclassicismo. Giovanni Antonio Burrini, uno dei massimi maestri bolognesi a cavallo dei due secoli, diede al suo Orfeo che perde Euridice (Vienna, Kunsthistorisches Museum) una dinamica concitata, che svelando i corpi nudi nella corsa attraverso la stretta gola rocciosa esalta le chiare forme sensuali di Euridice. Un contenuto pathos trascorre invece nell’Orfeo ed Euridice di Francesco Cervelli nella Fondazione Querini Stampalia a Venezia, cosı̀ come nelle due statue giovanili Antonio Canova per la villa Falier ai Pradazzi, oggi nel Museo Correr (1773), il cui ben risolto Orfeo fu replicato dal maestro stesso in una statua nel Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo. È questo l’intorno cronologico e culturale che ispira e accoglie l’opera lirica Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck su libretto di Ranieri de’ Calzabigi, rappresentata in prima assoluta al Burgtheater di Vienna il 5 ottobre 1762. La storia, qui, raggiunge un lieto fine di cui è artefice Amore in persona, commosso dalla disperazione di Orfeo. Non cosı̀ in Poliziano, che aveva mostrato lo strazio del suo eroe per mano delle Baccanti; non cosı̀ in Striggio per Monteverdi, dove il padre Apollo confortava Orfeo con l’assunzione in cielo. Nelle descrizioni degli ambienti infernali in cui si cala Orfeo tornando poi sui suoi passi con Euridice, le fosche tinte letterarie del librettista de’ Calzabigi si caricano di suggestioni visive rintracciabili nei quadri europei passati e presenti: «Orrida caverna al di là del fiume Cocito, offuscata poi in lontananza da un tenebroso fumo, illuminato dalle fiamme che ingombrano tutta quella orrida abitazione» (Atto II, Scena I); e «Oscura spelonca che forma un tortuoso laberinto ingombrato di massi staccati dalle rupi, che sono tutti coperti di sterpi e di piante selvaggie [sic]» (Atto III, Scena I). Non sempre e non da tutti gli artisti però fu accentuata la componente tenebrosa dell’incursione di Orfeo nel regno ctonio. Diversi quadri nell’arco dei secoli costruiscono per cosı̀ dire un percorso alternativo, ambientando la vicenda in paesaggi aperti e spaziosi e sciogliendone il nodo drammatico nell’ampio respiro di un naturalismo lirico. Il fiorentino Jacopo del Sellaio su un fronte di cassone, arredo destinato a una camera nuziale, dipinse il drammatico distacco tra i due sposi in una luminosa campagna, dominata da poggi verdeggianti su un arioso sfondo fluviale (1480 circa; Rotterdam, Museo Boijmans Van Beuningen). Tiziano, nel suo Orfeo e Euridice del 1508 (Bergamo, Accademia Carrara), pose in primo piano su una collina fiorita l’iconografia in verità rara della morte di Euridice, assalita da un serpente dalle forme di drago, e lontano, in un valloncello selvoso, la separazione dal disperato Orfeo. Niccolò dell’Abate a 3 Fontainebleau dipinse attorno alle figurette dei protagonisti un paesaggio fiabesco dalle luci mutevoli, tra tempesta e arcobaleno (1552 circa). In pieno Seicento, quando l’intitolazione storica o mitologica di un quadro di paesaggio valeva a conferirgli una dignità accademica che il soggetto di ‘genere’ ritenuto minore di per sé non avrebbe raggiunto, Nicolas Poussin intitolò ai due sfortunati amanti un Orphée et Eurydice (1659 circa; Parigi, Musée du Louvre) dove in una verde insenatura tra boschi e città lontane si consuma il dramma della morte della fanciulla, non percepito da Orfeo intento alla sua musica. In pieno XIX secolo Jean Baptiste-Camille Corot, nel tornare all’antico tema del viaggio della coppia dalla morte alla vita, diede ampio spazio alla romantica selva abitata dalle ombre dei defunti (1861; Houston, Museum of Fine Arts). L’emozione amorosa e dolorosa della perdita di Euridice lascia il posto alla tragedia nell’epilogo della storia di Orfeo: la morte violenta per mano delle seguaci invasate ed ebbre di Dioniso, le Menadi o Baccanti. Già dal Rinascimento il motivo circolava in tutta la sua conturbante ferocia di assassinio commesso da donne – se ne conosce un’incisione ferrarese del 1480 circa e un disegno di Albrecht Dürer del 1498 (fig. 4 e 5 nel saggio di S. Vitali) – ma fu entro il Romanticismo estremo che venne rappresentato con elegante crudezza, ad esempio dal francese Emile Lévy. La ripresa del tema coincise con la massima fioritura europea, specie d’impronta francese, del Simbolismo, in un clima di estenuato languore. Sulla falsariga dei versi virgiliani: «E mentre il capo di Orfeo, staccato dal collo e bianco come marmo, veniva travolto dai flutti, ‘‘Euridice!’’ invocava la voce da sola; e la sua lingua già fredda ripeteva: ‘‘Oh, mia povera Euridice!’’» (IV Georgica), la testa mozza di Orfeo, poggiata sulla cetra, divenne macabra protagonista. Gustave Moreau dipinse la testa amorosamente cullata da una giovane donna (1865; Parigi, Musée d’Orsay), Jean Delville ne immaginò l’approdo a terra dal fiume Ebro (1893), seguito da Alexandre Seon (1898). Entro la sensibilità appassionata e vigile dei movimenti artistici visionari di fine Ottocento, tutti i temi orfici continuarono a ispirare gli artisti europei: autori di immagini memorabili e struggenti, solo per esemplificare, furono l’inglese George Frederick Watts, il francese Gustave Moreau, il tedesco Anselm Feuerbach, e molti altri che nei decenni misero in figura o in segni l’idillio e il pathos del mito di Orfeo. Giunti fino a noi attraverso i movimenti del Novecento (tra cui si ricorda una linea ‘orfica’ entro il Cubismo secondo la definizione di Apollinaire), i personaggi Orfeo ed Euridice mostrano di godere nella repubblica delle lettere e delle arti di una cittadinanza senza scadenza, che ne fa nostri eterni contemporanei. ASCOLTARE CON GLI OCCHI La mostra odierna è dedicata a un oggetto: lo strumento a corda. Come tutti gli strumenti, esso necessita dell’intervento della mano per adempiere alla sua funzione. Solo cosı̀ si crea il suono delle corde, che poi, invisibile e incorporeo, pervade lo spazio, riempiendolo di armonia. Il potere dello strumento a corda di creare armonia ha ben poco di magico, piuttosto ha a che fare con le regole delle misure e delle proporzioni note sin dagli esperimenti di Pitagora con il monocordo, e valide ancora oggi. Tuttavia, l’azione del suonare uno strumento a corda non rientra tra i procedimenti meccanici, né tantomeno può essere eseguita da chiunque. Le opere esposte mostrano quattro dei più famosi maestri, tre dei quali personaggi mitici e un quarto dell’Antico Testamento: Orfeo, Apollo, Arione e Davide. Tutti suonano uno strumento a corda ed è evidente come sia proprio quell’oggetto sonoro a determinare la vita di ciascuno di essi: con il suono della lira Orfeo ammansisce gli animali feroci e induce alla commozione persino le divinità degli inferi; il citaredo Apollo dirige le muse e i suoni del cosmo; Arione placa il mare in tempesta, mentre Davide riesce a calmare con la sua arpa la melancolia di re Saul. Le opere selezionate invitano inoltre a riflettere sul legame tra musica e pittura. Il foglio di Jan Muller, scelto anche per la copertina del catalogo, documenta in modo esemplare le sfide e le potenzialità dell’opera figurativa nel tentativo di rendere leggibile il suono. Muller mostra Arione nell’atteggiamento tipico del musico ispirato, con il capo gettato indietro per percepire i suggerimenti che gli arrivano dall’alto. I suoni cosmici sono impercettibili all’orecchio umano e solo chi è ispirato dagli dei come Arione può sentirli: soltanto tramite il suono della sua lira, pertanto, noi possiamo cogliere un’eco dell’armonia celeste. Ciò che è impedito all’orecchio umano è concesso all’occhio – MARZIA FAIETTI almeno nell’incisione. Muller con grande virtuosismo rende i potenti suoni cosmici con una fitta spirale, le cui linee si propagano come onde sonore nell’intero spazio del cielo; il suo epicentro, e quindi l’origine del suono, si trova però alle spalle di Arione. In tal modo, l’idea dell’artista giunge alle sue estreme conseguenze: Arione riesce a sentire, ma non può vedere ciò che, viceversa, noi non siamo in grado di udire, ma che intuiamo osservando l’immagine. Questa premessa, intenzionalmente firmata a quattro mani, introduce un catalogo e una mostra che possono essere presi a corollario di quanto detto sopra: anche noi – il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e il Kunsthistorisches Institut in Florenz, Max-Planck-Institut – stiamo ricercando un’unione, tanto stretta quanto proficua, tra le nostre opere e le potenzialità culturali e creative di molti giovani studiosi, riproponendo il binomio tra strumento a corda (il GDSU) e intervento della mano (il KHI). Quanti vorranno visitare l’esposizione e leggere questo volume giudicheranno se il suono, cosı̀ restituito, sia armonioso e suadente. Questa mostra non sarebbe stata possibile senza la consueta attività, professionale e appassionata, dello staff del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, al quale vanno tutti i nostri ringraziamenti e la nostra affettuosa gratitudine, una gratitudine che estendiamo inoltre all’Associazione Culturale MetaMorfosi, per il suo generoso sostegno economico; ai gentili colleghi che hanno concesso prestiti per noi davvero determinanti; all’editore Daniele Olschki per l’impegno profuso nel portare a compimento il novantottesimo volume della storica collana dei cataloghi di mostra del GDSU; infine a tutti coloro, che con suggerimenti e consigli, hanno incoraggiato il nostro lavoro, migliorandone qualità e risultati. SUSANNE POLLACK PREMESSA MetaMorfosi, che in questi anni si è fatta conoscere per la produzione e l’organizzazione di mostre di alta qualità, già si è occupata del rapporto tra musica e arte figurativa nel Rinascimento, con l’eccezionale esposizione del Musico di Leonardo da Vinci ai Musei Capitolini di Roma. Siamo lieti di proseguire questo cammino, incontrando e sostenendo Il dolce potere delle corde, la mostra affascinante e originale predisposta nella collaborazione tra Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e Kunsthistorisches Institut in Florenz-Max Planck Institut – che segnerà l’estate fiorentina del 2012. Mettere al centro lo strumento a corda – «fragile» per definizione, come ricorda la curatrice Susanne Pollack –, e ripercorrere la forza (anzi: il «dolce potere») della sua musica nell’opera degli artisti del Rinascimento, è un’operazione culturale coraggiosa e importante, come dimostra questo catalogo. MetaMorfosi, col suo sostegno concreto, vuole rendere manifesto il bisogno che i privati e le associazioni di cittadini trovino le forme di un moderno mecenatismo, con l’obiettivo di accompagnare nel tempo istituzioni culturali prestigiose, come il GDSU e il KHI, di sostenere la loro ricerca, di incentivare i giovani che dedicano i propri studi con prospettive e punti di vista, ad un tempo, rigorosi e innovativi. L’incontro col GDSU, in particolare, e con l’eccellente Direttrice del Gabinetto, Marzia Faietti, ha facilitato questa collaborazione, mi auguro foriera di importanti sviluppi futuri. In un’epoca in cui il Potere si è spesso associato alla prepotenza, alla menzogna e all’arroganza, mi piace anche pensare che il «dolce potere» delle corde, e più in generale dell’arte e della cultura ci aiuti, come italiani e come europei, a mettere in luce la nostra parte migliore, e a valorizzare la nostra identità comune. PIETRO FOLENA Presidente Associazione MetaMorfosi IL DOLCE POTERE DELLE CORDE 2 SUSANNE POLLACK IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI. LA LIRA NELLE RAPPRESENTAZIONI ITALIANE DI APOLLO E ORFEO (XV-XVI SEC.) ARMONIA In seno alla famiglia degli strumenti musicali, quelli a corda si contraddistinguono per la loro straordinaria fragilità. L’esile collo di un violino o le delicate doghe di legno che formano la cassa armonica di un liuto richiedono una manipolazione delicata. La quintessenza della fragilità sono però le tese, sottili corde – ovvero proprio l’elemento centrale di questi strumenti musicali, indispensabile per la generazione del suono. Esse minacciano incessantemente di strapparsi anche fra mani virtuosistiche come quelle di Paganini, al cui violino durante l’esecuzione non di rado ne rimaneva soltanto una.1 Delicatezza, fragilità e lacerabilità non sono proprietà che si assocerebbero immediatamente al potere, come suggerisce invece il titolo della mostra, Il dolce potere delle corde. E tuttavia i quattro protagonisti – Orfeo, Apollo, Arione e Davide – attingono il loro potere proprio dallo strumento a corda. L’effetto del suono delle corde risiede nella loro forza generatrice d’armonia, che cosı̀ va a contrastare il caos. Ma cos’è realmente questa armonia? E come mai può essere suscitata o meglio incarnata proprio da uno strumento a corda? Il desiderio di sperimentazione sensoriale e quello di comprensibilità logica del principio proporzionale giocano un ruolo decisivo per rispondere a queste domande. Già nel tardo VI secolo a.C., Pitagora portò alla luce una conoscenza importantissima, che nei secoli successivi fu posta alla base di tutte le ulteriori teorie dell’armonia e i cui effetti perdureranno fino ai nostri giorni.2 Si tratta di una nozione fondamentale e di ampia portata, che tuttavia si può riassumere con poche parole: Pitagora e i suoi seguaci riuscirono a dimostrare che gli intervalli musicali potevano essere rappresentati attraverso rapporti numerici. Per provare questa conoscenza teorica ci si servı̀ soprattutto del monocordo, strumento costituito da una cassa di risonanza oblunga sulla quale è tesa una singola corda, che però può essere divisa mediante un sottostante ponticello modulabile. Se si fa risuonare una mezza, due terzi o tre quarti di corda, il suono è udibile rispettivamente in intervalli di ottava, quinta o quarta sulla tonica dell’intera corda. Il primo decisivo passo consisteva quindi nel decifrare il principio ordinatore matematico che sta alla base dell’armonia musicale; con ciò, da allora in avanti, essa poteva essere misurata. La scoperta del principio ordinatore matematicomusicale fu estesa dai pitagorici al cosmo. Le conoscenze acquisite attraverso gli esperimenti sull’armonia musicale servirono quindi da punto di partenza per lo sviluppo di un modello di armonia universale. Fondamento di questa applicazione analogica era l’assunto dei pitagorici che ogni pianeta, grazie al proprio movimento, genera un suono costante che dipende di volta in volta dalla sua velocità orbitale e dalla distanza dal centro dell’universo, ovvero dalla Terra. Le sette note dell’ottava furono correlate ai sette pianeti allora conosciuti. Trasposti nel linguaggio figurato del mito, i pianeti furono a loro volta equiparati alle note prodotte dalle sette corde della lira di Apollo: Apollo-Elios, dio del Sole, suonando la sua lira a sette corde fa quindi risuonare il cosmo.3 1 Per Niccolò Paganini le corde strappate non rappresentavano un problema, anzi offrivano l’occasione per dimostrare il suo straordinario virtuosismo, grazie al quale continuava a suonare sulle restanti senza interrompere l’esecuzione. In proposito si veda HAMMERSTEIN , 1994, pp. 7 sgg. 2 Non si sono conservati scritti dello stesso Pitagora, le sue presunte dottrine sono tramandate attraverso lavori di altri o mediante le vite di Pitagora scritte da Porfirio e Giamblico. Per la dottrina pitagorica dell’armonia e le sue ampie implicazioni si vedano almeno SPITZER, 1963; MEYER-BAER, 1970; HENINGER, 1974; SCHAVERNOCH, 1981; GUTHRIE, 1987; GODWIN, 1993; RANKIN, 2005, pp. 3-19. 3 Per l’equiparazione pianeti-corde si veda WYSS, 1996, pp. 27 sgg.; per l’Apollo che suona la lira cosmica si veda LÜCKE, 1999, s.v. Apollo, pp. 76-107, in part. p. 90. 12 In seguito, ai pianeti fu associato anche il canto delle muse, ben note come accompagnatrici di Apollo4 – il loro coro rappresenta la cosiddetta musica delle sfere, mentre la loro danza, condotta dalla lira di Apollo, è la perfetta coreografia del cosmo.5 L’idea di una concordanza tra ordine cosmico e musicale sopravvisse anche in epoca moderna, sviluppandosi ulteriormente, come mostra il frontespizio dell’edizione della Pratica Musicae di Franchino Gaffurio,6 apparsa nel 1496 a Milano – il secondo di tre trattati dell’influentissimo teorico musicale del tardo Quattrocento (fig. 1).7 Secondo Gaffurio lo schema doveva mostrare «il concordante ordine di muse, astri, modi e corde».8 Le linee curve che, per cosı̀ dire, rappresentano le corde della lira universale congiungono otto clipei dedicati alle muse, localizzati nel bordo sinistro dell’immagine, con altrettanti clipei posti sul lato opposto, in cui però si trovano i sette pianeti e il cielo delle stelle fisse. Mediante iscrizioni inserite nelle corde/linee, ogni coppia di muse e pianeti viene correlata a una nota e alla sua rispettiva tonalità.9 La nona musa, Talia, è assegnata alla Terra, la quale – immobile e perciò muta – non poteva essere inserita nel sistema di concordanze fra muse sonanti e pianeti.10 Essendo il centro del cosmo, la Terra occupa il centro del bordo inferiore, circondata da acqua, aria e fuoco (Aqua, Aer, Ignis) e dalle soprastanti orbite planetarie. Al centro del bordo superiore, e quindi secondo la logica dell’immagine al di sopra tutti i pianeti e del cielo delle stelle fisse, troneggia Apollo. I suoi piedi poggiano signorilmente sull’estremità caudale di un enorme mostro il cui corpo serpentiforme proteso verso il basso attraversa verticalmente le corde/linee per poggiare infine le sue tre teste sull’arco superiore del globo terrestre, collegando significativamente tra loro tutti gli elementi dell’immagine.11 In tal modo la ‘serpentina’ che tutto collega visualizza un principio cosmico partendo da un’esperienza facilmente verificabile, ovve- 4 Cosı̀ p. es. Platone (La Repubblica, 617 A-C) menziona le sirene come creatrici della musica delle sfere; Macrobio (Somnium Scipionis, II, 3, 1-4) equipara sirene e muse; Marziano Capella (De nuptiis Philologiae et Mercurii, I, 27-29) associa le muse alle sfere. 5 Nella fede cristiana rimase viva l’idea del suonatore cosmico di lira, tuttavia all’origine dell’armonia universale venne posto Dio e le muse furono sostituite dagli angeli (cfr. HAMMERSTEIN, 1962, pp. 116-136). 6 Qui si preferisce questa grafia a Gaffurius, Gaffori o Gafori. 7 Gli altri due trattati sono: Theoricum Musice, Napoli, 1480 e De Harmonia Musicorum Instrumentorum, Milano, 1518. Per il frontespizio della Practica Musicae si vedano CHASTEL, 1954, p. 48; WIND, 1958, pp. 265-269; MEYER-BAER, 1970, pp. 191 sgg.; HAAR, 1974, pp. 7-22; HENINGER, 1974, pp. 182 sg.; SCHRÖTER, 1977, pp. 376-380; PALISCA, 1985, pp. 171 sgg. 8 Quod Musae et Sydera et Modi atque Chordae invicem ordine conveniunt. Cosı̀ il titolo del capitolo del commento alla xilografia IL DOLCE POTERE DELLE CORDE Fig. 1. L’Armonia delle sfere, in FRANCHINO GAFFURIO, Pratica Musicae, Milano, 1496. ro che ogni singola corda pizzicata fa vibrare tutte le altre. Quando Apollo pizzica la corda superiore della lira cosmica, le vibrazioni vengono trasmesse da una sfera/corda all’altra, verso il basso, raggiungendo di conseguenza anche la tanto lontana terra. Oltre alle vibrazioni, che si trasmettono invisibilmen- che compare però soltanto un ventennio dopo, nel trattato De harmonia musicorum instrumentorum opus, Milano, 1518 (libro IV, 12, ff. 92v-94r). Citato da SCHRÖTER, 1977, p. 376. 9 Per questo ivi, pp. 378 sg. Inoltre, in accordo con le indicazioni di Plinio (Historia Naturalis, II, 20), le distanze fra i pianeti vengono indicate in toni e semitoni. 10 Gaffurio stesso spiega nel De harmonia musicorum instrumentorum (f. 93v) che per Cicerone le cose nella terra sarebbero mute, poiché essa non si muove. Per questo si veda WIND, 1958, p. 265. 11 Per il corpo serpentiforme avvolto su se stesso come simbolo dell’eternità si veda WIND, 1958, p. 266. James Haar lo paragona ad un archetto sulle corde della lira celeste o all’unica corda di un monocordo (cfr. HAAR, 1974, p. 14), mentre Claude Palisca lo interpreta come corda di monocordo (PALISCA, 1985, p. 173). Sulle tre teste del mostro, ovvero il Signum triciput, si vedano PANOFSKY, 1997, pp. 20 sgg.; WIND, 1958, pp. 265 sg. SUSANNE POLLACK – IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI 13 te da una corda all’altra, anche lo stesso corpo serpentiforme è un simbolo del principio qui discusso – l’impulso che un serpente riceve alla sua coda raggiunge anche l’altra estremità del corpo, ovvero la testa. Lo schema illustra quindi con estrema chiarezza il carattere di interconnessione della terra, e di tutte le sue creature viventi, all’insieme dell’universo.12 Il frontespizio è al contempo un commento per immagini al neoplatonismo fiorentino, che Gaffurio studiò approfonditamente.13 Per i neoplatonici la fede in una concordanza armonica tra cosmo e mondo sublunare era altrettanto fondamentale quanto l’idea che la costante discesa sulla terra di una forza spirituale fosse perfettamente conciliabile con la sua stabile presenza nella sommità del cielo.14 Come completamento per la gigante lira cosmica, dalle cui corde risuona la musica mundana o musica universalis, la lira appare anche, in forma di un moderno strumento a corda,15 quale attributo in mano di Apollo, che la tiene saldamente col braccio sinistro ben disteso. Una simile postura è insolita, giacché non consente di suonare lo strumento, e sembrerebbe negare la sua primaria ragion d’essere. L’esibizione dello strumento, staccata dalla funzione, ne sottolinea ancora di più lo status simbolico. Solo la rappresentazione frontale della lira, infatti, consente uno sguardo diretto su ciò che Gaffurio soprattutto vuole richiamare all’attenzione: le corde. Secondo il teorico musicale la cythara Apollinis è corredata esattamente da sette corde, perché sette è il numero della perfezione (septenarium numerum certa perfectione est dispositum).16 La tecnica della xilografia, con cui è realizzato il frontespizio di Gaffurio, consente solo in minima parte il ricorso a finezze. Rappresentare precisamente sette corde era in fondo una sfida impossibile; ma l’anonimo incisore non si diede per vinto: egli le delineò parallele su tutta la larghezza della copertura della cassa armonica, rassegnandosi al fatto che soltanto le tre corde mediane corressero lungo il ponticello, mentre le esterne finivano improvvisamente sul bordo dello strumento. Negando la correttezza organologica, questa soluzione di ripiego rivelava la priorità di quella simbolica. LO STRUMENTO NELL ’IMMAGINE 12 L’interconnessione musicale e soprattutto ritmica dell’essere umano al cosmo è un motivo piuttosto ricorrente, cosı̀ ad esempio Cassiodoro vedeva nel battito del polso e del cuore una sorta di anello di una catena ritmica che unisce l’essere umano al cosmo (CASSIODORO, Institutiones, II, 5). Per ulteriori esempi si veda TOUSSAINT , 2001, p. 122. 13 Cfr. PALISCA , 1985, pp. 168 sgg.; KINKELDEY , 1947, pp. 379382. 14 Cfr. WIND , 1958, p. 266. Per il principio della Fernwirkung (l’effetto a distanza) di Apollo si veda anche la nota 58 in questo testo. 15 Per considerazioni sull’identificazione di questo strumento, che non va inteso come un liuto, si veda FRINGS, 1999, p. 50. 16 GAFFURIO, De harmonia musicorum instrumetorum opus, libro IV, 12, f. 92r. Le sette corde inoltre dovrebbero simbolizzare le septem discrimina vocum, di cui parla Virgilio nel descrivere la kithara di Orfeo (Eneide, VI, 645). Nel commento di Servio a questo passo del poema i sette intervalli di nota furono rapportati al suono dei sette pianeti. 17 Per questa datazione si veda BURY , 2001, pp. 196 sgg. Il frontespizio di Gaffurio non costituisce un’eccezione, ma piuttosto conferma la regola secondo cui gli strumenti musicali, allorché vengono presentati mediante mezzi visivi, non sono semplici riproduzioni neutrali di casse di risonanza, ma possiedono anche un’enorme valenza connotativa. Qui si possono riconoscere facilmente determinati motivi spesso ricorrenti – come ad esempio le corde strappate. Il loro significato dipende soprattutto dal relativo contesto, il quale deve essere di volta in volta nuovamente valutato. Quello che si propone di seguito, partendo da una selezione di fogli tratti dalla mostra, è un percorso per orientarsi nel groviglio dei possibili impieghi degli strumenti a corda nel campo delle immagini. Verrà anche verificato quali conclusioni si possono trarre, dal punto di vista musicologico, dalle rappresentazioni. Un’incisione su rame di Agostino Carracci apparsa tra il 1585 e il 1590 17 mostra il drammatico e tragico momento in cui Orfeo perde per la seconda volta l’amata Euridice (cat. 39). Allorché ella fu uccisa dal morso di un serpente egli poté, grazie al suo canto accompagnato dalla lira, mettere in moto i poteri degli Inferi per resuscitare la sua sposa. La straordinaria concessione era però legata alla condizione che, durante il percorso di ritorno dagli Inferi e fino al raggiungimento dell’uscita di questi, Orfeo non avrebbe dovuto voltarsi a guardare Euridice: una prova che egli, com’è noto, non riuscı̀ a superare. Nell’incisione si vedono come le fiamme, raffigurate in modo estremamente vivace, afferrare il corpo nudo di Euridice, avvinghiandola e guizzando verso di lei, mentre già la mano di Orfeo non la può più trattenere. Il suo volto è impietrito in una maschera; dalla sua bocca non sgorga un canto soave, ma sfugge un grido disperato. E la sua portentosa lira? Giace al suolo, fuori dalla sua portata, cosicché il loro legame risulta spezzato. Il riccio dello strumento e il ginocchio di Orfeo sono però entrambi sostenuti da un masso, un parallelismo che in modo sottile chiarisce a chi appartiene lo strumento ‘senza padrone’. A prima vista pare trattarsi semplicemente di una viola di fine Cinquecento, 14 IL DOLCE POTERE DELLE CORDE che qui viene presentata all’osservatore in luogo di una lira antica. Ad uno sguardo più attento si nota però che lo strumento di Orfeo non ha corde – quindi non può più generare alcun suono prodigioso. La tremenda impotenza a cui Orfeo è esposto in questo momento, caratterizzato dalla perdita definitiva di Euridice, è stata efficacemente resa visibile da Agostino Carracci tramite lo strumento condannato al silenzio e privato della sua funzione.18 Non sono soltanto le corde a meritare grande attenzione. Un’incisione realizzata a inizio Cinquecento da Marcantonio Raimondi mostra in modo esemplare come anche il posizionamento degli strumenti musicali all’interno della composizione dell’immagine possa avere un significato fondamentale (cat. 13). Apollo suona la lira da braccio seduto su una pietra coperta da un cuscino d’erba. La sua nudità non è seriamente messa a rischio dallo svolazzante panno che porta annodato sulla spalla destra. Il piede sinistro del giovane dio poggia disinvolto su di un elmo, che rimanda come pars pro toto a un’armatura.19 Questa, a sua volta, richiama guerra, violenza e caos. Nella sfera d’influenza del dio però non c’è posto per questo. Egli non domina il mondo con la brutale forza delle armi, ma con il soave e ordinatore potere dei suoni delle corde, con l’armonia e la pace emananti dalle sette corde della lira.20 L’elmo gli è utile soltanto come poggiapiede, non gli occorre un’armatura per proteggere il suo corpo – in fondo non gli occorre neppure una veste. Il significato della nudità di Apollo non è circoscritto soltanto a un’opposizione all’armatura da guerra. Anche gli strumenti musicali rappresentati e, soprattutto, il loro posizionamento all’interno della struttura dell’immagine dischiudono un ulteriore piano di significato. Apollo è attorniato da tre fanciulle in piedi, una alla sua destra e due alla sua sinistra. Le due esterne si differenziano da quella mediana grazie all’acconciatura dei loro capelli, decorati da sottili nastrini, agli esili veli mediante i quali pretendono di nascondere le loro vergogne, e soprattutto perché entrambe recano un flauto nella mano sinistra. Al contrario di Apollo esse non sono però intente a suonare. Tengono il loro flauto sollevato vicino alla bocca come se avessero appena interrotto il loro suono e sospendessero un momento per ascoltare l’entrata dell’assolo di Apollo. Con il capo lieve- mente chino, i loro occhi seguono il tracciato dei flauti. La disposizione di questi strumenti non è affatto casuale: essi creano, grazie alla loro forma bislunga simile a una bacchetta, due chiare linee che nel loro prolungamento si incontrano a formare un angolo retto coincidente con il sesso di Apollo (fig. 2). Con ciò si allude alla facoltà riproduttiva e alla creatività artistica del dio, il quale fin dall’antichità era invocato con la supplice preghiera di donare l’ispirazione, in quanto suprema guida delle muse. Anche la posizione della lira da braccio non è casuale. È stato già osservato come la terza fanciulla, nuda e posizionata direttamente alla sinistra di Apollo, si differenzi dalle altre due suonanti il flauto. Con il dito indice della mano destra essa indica uno specchio concavo posto in cima un’asta che retta con la mano sinistra. Questa mano, a sua volta, è nascosta dietro le spalle 18 Agostino Carracci si riallaccia qui a una tradizione che assegna un significato alla corda mancante, strappata o allentata. Diffusamente, in proposito, si veda HAMMERSTEIN, 1994, pp. 7-88. Gli episodi di Orfeo che perde Euridice e della morte di Orfeo si prestano particolarmente a tematizzare l’impotenza del cantore attraverso il suo strumento. Per ulteriori esempi si veda il saggio di Samuel Vitali in questo catalogo. 19 La stessa postura compare anche in un disegno di Marcantonio Raimondi all’Ashmolean Museum, Oxford (inv. n. WA1945.102). 20 Esattamente il contrario avviene in una monumentale allegoria di Peter Paul Rubens che tematizza le conseguenze della guerra (L’allegoria della Guerra, 1638, Firenze, Palazzo Pitti): il dio Marte sta per schiacciare un liuto che giace al suolo. Fig. 2. MARCANTONIO RAIMONDI, Allegoria della musica, 15021504 circa, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. SUSANNE POLLACK – IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI 15 della flautista che le sta accanto. Lo specchio che consente la visione attraverso differenti piani temporali – passato, presente e futuro – è un attributo di Apollo, che è anche dio della profezia.21 Il fatto che la donna porti l’attributo del dio esprime già una privilegiata prossimità tra i due; entrambi gettano lo sguardo al di fuori dell’immagine, direttamente verso lo spettatore. Allo stesso tempo, però, lo specchio è anche un attributo di Venere quale dea della bellezza,22 e a questa assomiglia la bella di Raimondi anche per via dei capelli sciolti e svolazzanti al vento, della postura in perfetto contrapposto e della totale nudità.23 Questa nudità però è coperta dalla lira da braccio di Apollo: il cavigliere, che si trova alla stessa altezza del sesso maschile, copre esattamente le vergogne di lei, e appena un po’ su si trovano le dita che toccano le corde. L’archetto col quale Apollo suona la sua lira parte dal centro del suo corpo, l’ombelico, e termina a forma di uncino sulla curvatura destra del seno di lei, come volesse tirarla a sé. Particolare accentuazione viene data al capezzolo, sfiorato inferiormente dall’archetto e incorniciato dall’intaglio della cassa di risonanza. Quindi questa lira da braccio funge da tramite decisivo fra Apollo e la nuda Venere,24 ponendo in contatto punti espliciti dei loro corpi. Il processo di creazione artistica viene mostrato come atto creativo attraverso la postura che Apollo assume con la sua lira. All’Apollo musicante viene conferito un ruolo attivo: egli genera. Venere, la dea dell’amore, rimanda al fatto che solo chi ama può ricevere l’ispirazione da Apollo.25 Il tema della creazione artistica è molto rilevante per ogni artista, tanto più per un incisore come Marcantonio Raimondi, che lavora in una continua tensione tra la propria creazione, l’interpretazione e la riproduzione.26 Ed effettivamente Raimondi fa sı̀ che la flautista di sinistra, che tiene in mano proprio un foglio arrotolato, indichi col dito medio la sua firma. Questa consiste in un monogramma formato da una grande M entro cui è innestata una A per MarcAntonio e a cui è aggiunta una più piccola F per fecit.27 Il monogramma è posizionato esattamente nel mezzo del bordo inferiore, quindi in una perpendicolare direttamente al di sotto dell’organo riproduttivo di Apollo. Esso si rivela come un’abbreviazione della composizione dell’immagine, di cui ripete le linee principali: la lettera M, specularmente simmetrica, corrisponde ai corpi eretti delle due flautiste e alle due linee interne che nascono dai due flauti e si incontrano sull’organo genitale di Apollo. In corrispondenza Raimondi ha inserito all’interno della sua firma, esattamente poco sopra questo punto, la F allusiva del suo atto creativo, diversamente dal suo consueto monogramma, nel quale la F è addossata alla barra verticale destra della M, come si vede per esempio nella sua incisione il Parnaso (cat. 10).28 Tanto consapevolmente quanto sensibilmente, Raimondi si presenta come il primo fruitore dello spettacolo divino rappresentato, entrando egli stesso nel ciclo di ricezione e generazione tematizzato nell’immagine. 21 Apollo è rappresentato con uno specchio concavo anche in una serie di incisioni su rame, i cosiddetti Tarocchi del Mantegna (1465 circa). Marziano Capella, fra gli altri, descrive lo specchio come attributo di Apollo (De nuptiis, I, 68). 22 Quando lo specchio è presentato come attributo di Venere, esso è per lo più inteso come requisito per la cura della bellezza, in cui di solito la dea contempla la propria immagine. Il fatto che qui lo specchio sia orientato in lontananza può riferirsi alla sua funzione come attributo di Apollo. Per lo specchio come attributo di Venere si veda LÜCKE, 1999, s.v. Aphrodite, p. 60. 23 Per queste proprietà caratteristiche di Venere si veda ivi, pp. 55 sgg. 24 A favore di questa interpretazione si può ricordare che anche la Venere che appare nel Giudizio di Paride (Bartsch 339) inciso da Raimondi porta con sé uno specchio tenuto in alto. 25 Altri due fogli esposti in mostra, di un artista anonimo forse oltremontano attivo a Firenze (cat. 14) e di un artista anonimo spagnolo (cat. 12), tematizzano l’amore come presupposto per ricevere l’ispirazione artistica, come mostra anche il saggio di Julia Saviello in questo catalogo. 26 Cfr. fra gli altri GRAMMACINI e MEYER, 2009, in part. pp. 2737; KNAUS, 2010. 27 Lisa Pon scrive, senza fornire ulteriori indicazioni, che le lettere del monogramma secondo Vasari stanno per «Marc’Antonio de Francia», e con ciò verrebbe rappresentato un atto di gratitudine da parte di Marcantonio Raimondi nei confronti del suo maestro Fran- cesco Francia (PON, 2004, p. 78). Nella Vita del Vasari su Marcantonio Raimondi si può trovare però soltanto l’annotazione che Marcantonio Raimondi aveva conservato il nome aggiuntivo «de’ Franci», poiché aveva lavorato diversi anni presso Francesco Francia, dal quale fu molto ben voluto. Nessun accenno viene fatto al monogramma dell’incisore (VASARI, 1966-1997, V, p. 6). Che il monogramma MAF sia da leggersi piuttosto come «MarcAntonio fecit» è dimostrato fra l’altro dall’incisione L’arrampicatore (Bartsch 488), che riprende una figura del cartone di Michelangelo della Battaglia di Cascina. Qui Raimondi introduce per la prima volta la differenziazione fra disegnatore e incisore, fornendo le rispettive prestazioni attraverso le abbreviazioni corrispondenti: IV.MI.AG.Flo sta per «Invenit Michael Angelo Florentinus», integrata da MAF, che qui secondo logica va letto come «MarcAntonio fecit». Si vedano in proposito fra gli altri BÜTTNER, 2008, pp. 99-132, in part. p. 111; HÖPER, 2001, p. 54. 28 Solo in un’altra incisione (Bartsch 399) Raimondi impiega il monogramma con la F integrata nel mezzo della M; di solito egli aggiunge sempre la F alla perpendicolare destra della M (si veda p. es. Bartsch 11, 16, 115, 118, 247, 360, 371, 376, 377, 380, 385). Il rapporto di Raimondi con la sua firma varia di continuo nel corso della sua attività: oltre alle varianti del suo monogramma si trovano anche incisioni senza alcuna firma, oppure, dal 1515 circa, la firma è una tavoletta vuota. Si veda in proposito LANDAU e PARSHALL, 1994, pp. 142-146. 29 Sulla contesa tra Apollo e Marsia si veda il saggio di Martina Papiro in questo catalogo. Anche in un’incisione su rame di Giulio Sanuto del 1562 (cat. 16) va osservato il posizionamento dello strumento se si desidera comprendere più a fondo l’immagine. I tre fogli giustapposti mostrano, iniziando da destra e procedendo verso sinistra, quattro scene del mito di Apollo e Marsia; 29 tra di esse la gara 16 IL DOLCE POTERE DELLE CORDE musicale nella quale Marsia col flauto aveva osato sfidare – per sua propria disgrazia – Apollo alla lira, occupa la maggior parte dello spazio. Minerva e re Mida assistono alla scena come giudici di gara.30 Le successive immagini mostrano avvenimenti che sono l’immediata conseguenza del risultato negativo della gara: Marsia fu scorticato da Apollo come punizione per la sua superbia; Mida, che ritenne Marsia miglior musicista, ricevette dal dio orecchie d’asino e il barbiere del re, che era l’unico a sapere di questa penosa mutazione del corpo del suo signore, confidò questo segreto a una buca nella terra. Il modello per l’incisione di Sanuto era il coperchio di un clavicordo dipinto da Agnolo Bronzino tra il 1530 e il 1533, in cui egli comunque inserı̀ sullo sfondo motivi tratti da altri artisti. La sfida fra Apollo e Marsia (in altre versioni fra Apollo e Pan) è anche una sfida fra strumenti a corda e a fiato, quindi fra uno strumento che evoca proporzioni e armonia perfetti e uno i cui striduli e fischiettanti suoni sono associati a tutto ciò che è terreno, sfrenato, istintivo e inebriante.31 Fin dall’antichità il carattere degli strumenti si riflette nei corpi dei loro suonatori. Cosı̀ non è dato trovare alcuna rappresentazione della celebre sfida nella quale Apollo non sia reso come un bel giovinetto ben proporzionato e Marsia (o Pan) come il contendente inferiore anche sotto l’aspetto fisico. Lo stesso avviene nell’incisione di Giulio Sanuto, dove però l’analogia tra il corpo del musicista e il corpo dello strumento è sottilmente portata all’estremo. Come se il suo corpo dal petto fiacco avesse assecondato il desiderio del piffero 32 di ergersi liberamente verso il cielo, Marsia deve suonare lo strumento, che si staglia fiero verso l’alto, col capo completamente rovesciato. L’insolita posizione ha come conseguenza che il suo viso viene mostrato in forte scorcio dal basso, rinforzando cosı̀ l’effetto deformante delle guance gonfissime impegnate a suonare. Anche il resto del corpo di Marsia esibisce dei difetti: la testa è coperta da pochi capelli arruffati, il petto flaccido sta sopra un ventre incurantemente rilassato, mentre i genitali, esposti dalla posizione delle gambe divaricate, non sono coperti da una foglia ma da un germoglio. Apollo si presenta come il suo esat- to contrario sotto ogni aspetto. Il suo corpo ben proporzionato, adagiato con perfetta grazia su un masso, è disposto in modo obliquo di fronte a Marsia cosı̀ che egli volge all’osservatore la schiena, leggermente rivolto a destra. La testa, coronata da riccioli, è lievemente china e voltata verso destra in modo da mostrare il suo nobile profilo: centrale e frontale risulta cosı̀ il suo orecchio, teso all’ascolto. Lo strumento di Apollo, una lira da braccio, è quasi completamente coperto dal suo corpo. Là dove ne emergono delle parti, esse sono in evidente armonia con l’andamento dell’anatomia: si ha l’impressione che Apollo non strisci l’archetto soltanto sulle corde della lira, ma contemporaneamente anche su se stesso. L’esibita sovrapposizione tra i due corpi, che corrisponde a una strumentalizzazione del corpo di Apollo, allude all’antica concezione dell’uomo-lira. Cosı̀ come l’universo (macrocosmo), anche l’essere umano (microcosmo) fu inteso infatti come una lira armoniosa. La tradizione dell’equiparazione dell’essere umano – tutto o parziale – con uno strumento a corda risale all’antichità.33 Che l’essere umano fosse uno strumento accordato o accordabile, viene spiegato da Isidoro da Siviglia nei suoi Etymologiarum Libri mediante l’assonanza cor- delle parole cordis (battito cardiaco ritmico) e corda.34 Si potrebbero portare molti altri esempi.35 Una lira da braccio dalle fattezze variamente antropomorfe (fig. 3), datata intorno al 1511, documenta molto persuasivamente la concezione dell’uomo-lira, o meglio, in questo caso, la lira-uomo. Il piano armonico della cassa di risonanza è raffigurato come un torso femminile, il cavigliere sul collo come una dionisiaca smorfia maschile. Sul retro della lira il fondo invece è decorato da un torso virile, mentre il cavigliere mostra ora una maschera femminile. Nel primo è inoltre raffigurata una grande maschera maschile cosı̀ che l’osservatore può focalizzare o il torso o la faccia, alludendo in tal modo alla notissima teoria vitruviana delle proporzioni del corpo umano, in particolare quella sulle proporzioni della testa rispetto al resto del corpo.36 Al reciproco rapporto tra armonia cosmica e armonia del corpo umano fa 30 La presenza di Mida e Minerva alla sfida rimanda al commento su Dante di Cristoforo Landino, cfr. WYSS, 1996, p. 110. 31 Si veda in proposito p. es. FRIEDMAN , 1970, p. 81. 32 Lo studio del Bronzino al Louvre per la figura di Marsia lo mostra ancora con un flauto di Pan (cfr. in proposito WYSS, 1996, p. 110, fig. 82). 33 Per esempio Cicerone (De natura deorum, II, 149) illustra sulla base di una cetra la fonazione dell’uomo, dove la lingua funge da plettro, i denti da corde e le narici da tavola armonica. Plotino (Enneaden II, 3, 13) scrive che i disturbi del corpo e dell’anima sa- rebbero comparabili ad una lira ancora non cosı̀ ben accordata da riprodurre l’esatta armonia e da produrre le note giuste. Sant’Ambrogio (SANT’AMBROGIO, Exameron, VI, 9, 61) ha descritto i nervi come corde di uno strumento, tese tra il cervello e il resto del corpo. 34 Etymologiarum Libri, III, 22, 6: «Chordas autem dictas a corde, quia sicut pulsus est cordis in pectore, ita pulsus chordae in cithara». 35 Cfr. TOUSSAINT, 2001, p. 122. 36 VITRUVIO , De architectura libri decem, III, 1.3. SUSANNE POLLACK – IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI 17 riferimento l’iscrizione greca su una targhetta in avorio sul retro della lira: «L’uomo ha le odi quale medicina contro la malattia».37 La malattia, sia fisica che psichica, veniva considerata come un disturbo dell’armonia di corpo e anima. Per guarire, tale armonia doveva essere ricostituita. A tal fine ai pazienti veniva consigliato il terapeutico effetto della musica, in particolare quella prodotta da strumenti a corda – quale eco terrena della musica cosmica e quindi dell’armonia universale.38 Quando realizzò l’immagine che più tardi Sanuto impiegò come modello per la sua incisione, Bronzino conosceva certamente le teorie sullo stretto reciproco legame di musica e medicina che stava alla base del principio universale dell’armonia pitagorica. Esse furono sostenute con grande fervore nel Rinascimento soprattutto da Marsilio Ficino, uno dei più preminenti intellettuali dell’Accademia Fiorentina. Ficino stesso studiò medicina e si era fatto un nome per traduzioni e commenti di scritti antichi che si occupava- no di teorie dell’armonia universale. La scena dello scorticamento di Marsia da parte di Apollo, che si collega a sinistra con quella della sfida, deve essere vista in questo contesto. Qui non è mostrata alcuna barbarica orgia di violenza, com’è descritta fra l’altro da Ovidio; Apollo, concentrato ad operare con un piccolo coltello, ricorda piuttosto un medico che è in procinto di sezionare un cadavere a scopo di ricerca. Marsia non è «tutto una piaga» 39 e neppure si vede il suo volto urlante e terrorizzato come in molte altre rappresentazioni di questo mito. Il suo corpo giace al suolo senza catene; testa e busto sono sorretti da un macigno, dalle gambe piegate già accuratamente scorticate colano minuscoli rivoli di sangue. Soltanto il braccio destro di Marsia è fiaccamente sollevato, altrimenti sembrerebbe che ogni volontà di difesa si sia in lui già spenta. I cinque papaveri in primo piano fanno riferimento alla somministrazione di un anestetico che ha gettato Marsia in uno stato inerme e insensibile. Queste osservazioni evidenziano come qui più che lo scorticamento punitivo di un vivente si mette in scena un atto medico. Cosı̀ diventa chiaro che le due scienze, medicina e musica, sono da intendersi come discipline sorelle. Il musicare e il sezionare sono collegate ancora più strettamente laddove esse sono condotte da una e medesima persona, il giovane dio Apollo. Inoltre si noti come pure i gesti sono sorprendentemente simili: un braccio piegato e uno disteso, Apollo tiene il suo coltello cosı̀ come l’archetto della sua lira. Poco al di sopra del coltello, Marsia con il dito indice della mano destra, sollevata con le sue ultime forze, indica un punto del braccio di Apollo dal quale si può seguire il corso di una vena ben rilevata (fig. 4).40 Tanto presso i greci che fra i latini fu impiegata per indicare una vena, un tendine e/o un fascio muscolare, la stessa parola che per «corda» (met&qom e corda/chorda). La stessa analogia si ripete nell’Apollo musicante: la sua sinistra che sorregge la lira si stende proprio in linea col corso delle corde invisibili all’osservatore, cosa che conferma l’intenzione dell’artista.41 Naturalmente, non tutte le rappresentazioni di uno strumento rimandano a un rapporto cosı̀ complesso come nel caso delle opere di Raimondi o Sanuto appena discusse. Per alcune osservazioni, da 37 KTPGR IASQOR ERSIM AMHQXPOIR XAG (secondo la trascrizione in WINTERNITZ, 1979, p. 88). 38 Nel cristianesimo il più noto esempio di una tale pratica curativa è il racconto di Davide che suona l’arpa davanti a Saulo tormentato da uno spirito maligno. Si veda in proposito il saggio di Anne Schultz in questo volume. 39 OVIDIO , Metamorfosi, VI, v. 386. 40 Il forte interesse di Bronzino per l’anatomia umana traspare anche dal suo San Bartolomeo scorticato (1556, Roma, Galleria Nazionale di San Luca). Cfr. Monaco, in FIRENZE, 2010, p. 312, n. VI.9. 41 Al riguardo è interessante ricordare un’ulteriore opera di Bronzino, il Ritratto di Cosimo I in veste di Orfeo (1537-1539 circa, Philadelphia, Philadelphia Museum of Art), che gioca anch’essa con la sovrapposizione tra corpo e strumento. Forse anche Melchior Meier voleva alludere alle ‘corde del corpo’ quando nella sua stampa (cat. 20a) posizionò il coltello di Apollo proprio sul braccio scorticato di Marsia. Fig. 3. GIOVANNI D’ANDREA, Lira da Braccio, 1511 circa, Vienna, Kunsthistorisches Museum. 18 Fig. 4. GIULIO SANUTO, Apollo e Marsia (particolare), 1562, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. principio misteriose, si possono trovare semplici spiegazioni, le quali non escludono, ma neanche implicano necessariamente, un ulteriore piano di significato. La cauta presa di posizione tra i due poli rappresenta una grande sfida per gli storici dell’arte cosı̀ come per i musicologi. Cosı̀ per esempio una consueta prassi musicale, che allo spettatore odierno non è più familiare, può essere una spiegazione per una – a prima vista – enigmatica posizione di un musicista. Osservando un disegno attribuito a Hendrick de Clerk (cat. 17) può sorprendere che Marsia, durante la sfida con Apollo, suoni il flauto di Pan tenendolo al contrario.42 La rilettura del testo alla base del mito mostra però che l’artista non ha fatto altro che tradurre fedelmente in immagine un episodio che si può trovare per lo meno in due descrizioni antiche: tanto Igino che lo Pseudo-Apollodoro 43 riferiscono che nel momento in cui le Muse, incaricate del giudizio, vollero da principio dichiarare Marsia vincitore, Apollo dimostrò che egli poteva suonare il suo strumento al contrario e per di più poteva anche cantare. In entrambe le cose Marsia era irrimediabilmente sconfitto – e nel disegno in esame è esattamente questo che vediamo rappresentato. Talvolta anche i limiti tecnici dipendenti dai rispettivi mezzi impiegati in- 42 Marsia appare qui con zampe di caprone, quindi con le sembianze di Pan. Per l’interferenza tra Marsia e Pan si veda il saggio di Martina Papiro in questo catalogo, che ringrazio per avermi spiegato questo aspetto del disegno. IL DOLCE POTERE DELLE CORDE fluenzano la rappresentazione degli strumenti musicali. Cosı̀, le corde mancanti dalla lira di Orfeo sulla placchetta attribuita al misterioso Moderno (cat. 44) non hanno in alcun modo lo stesso potenziale enunciativo di quelle assenti dall’incisione di Carracci (cat. 39). La rappresentazione delle corde, quindi di una serie di sottilissime linee strettamente parallele, in lavori in bronzo e soprattutto in targhette di dimensioni cosı̀ contenute era a malapena possibile ed era prova di grande maestria, se vi si riusciva, come ad esempio nella più tarda e leggermente più grande rappresentazione del Parnaso di un ignoto incisore francese (cat. 47). Per un disegnatore la rappresentazione delle corde non costituiva un problema; però la raffigurazione della mano che afferra lo strumento e delle dita che avrebbero dovuto tenere le singole corde, cosı̀ come la rappresentazione prospetticamente scorciata degli stessi strumenti si rivelava non di rado un’insormontabile difficoltà, oppure offriva l’occasione di mostrare particolare abilità. Per illustrare una tecnica da lui sviluppata con l’ausilio della quale un oggetto poteva essere rappresentato prospetticamente, Albrecht Dürer nella sua Underweysung der Messung (Norimberga, 1525) scelse, certamente non a caso, un liuto (fig. 5). La pura quantità degli strumenti a corda, in particolare proprio di liuti, raffigurati in scorci audaci, poteva trovare la sua spiegazione parziale nel desiderio di dimostrare il proprio virtuosismo artistico. Fig. 5. Realizzazione del disegno prospettico di un liuto, in ALBRECHT DÜRER, Underweysung der Messungen, Norimberga, 1525. 43 IGINO, Fabulae, 165; Pseudo Apollodoro I, 4,2. SUSANNE POLLACK – IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI L’ATTUALIZZAZIONE DEGLI STRUMENTI ANTICHI Le rappresentazioni di strumenti musicali non sono rilevanti soltanto per la storia delle immagini, ma anche per quella della musica. Esse forniscono ai musicologi importanti informazioni sulla costruzione degli strumenti e sulla prassi musicale e, conseguentemente, hanno ottenuto forte attenzione come cosiddette immagini-fonte (Bildquellen). La ricerca ha avuto particolare riguardo per la lira da braccio (cat. 48), da sempre considerata lo strumento per eccellenza dell’alto Rinascimento italiano, che oggi può essere studiata soltanto sulla base di pochi esemplari, per di più relativamente tardi.44 Oltre alle immagini di angeli musicanti,45 sono in primo luogo quelle dei miti dei due celebri rapsodi dell’antichità, Apollo e Orfeo, che rendono possibile lo studio visivo della lira da braccio.46 L’ovvia domanda del perché questi cantori, a partire dalla fine del Quattrocento, al posto della lira antica suonino spesso una lira da braccio, viene talvolta spiegata con l’idea che a quel tempo la lira da braccio, per le sue caratteristiche organologiche e tecnicomusicali, fosse ritenuta uno strumento antico.47 Ritengo che debba essere riconsiderata una tale spiegazione relativa all’apparizione della lira da braccio nelle immagini del tardo Quattrocento, quindi proprio al momento presunto della sua nascita. Non sono forse piuttosto le immagini che mostrano la lira da braccio ovunque nelle mani degli antichi eroi ad aver prodotto l’idea – comunque non ritracciabile nei fonti scritte prima degli anni Cinquanta del Cinquecento – che si trattasse di uno strumento antico? L’immagine sarebbe quindi non il documento di un’interpretazione, ma l’avrebbe essa stessa, in alcuni casi, suggerita. Lo stadio delle conoscenze relative alla costruzione degli strumenti musicali antichi era a quel tempo già piuttosto avanzato, grazie allo studio di alcune sculture antiche, come ad esempio quelle dei sarcofagi.48 Difficilmente può essere sfuggito che nelle rappresentazioni degli antichi non vi sia alcuno strumento ad arco – l’archetto, provenien- 44 Cfr. in proposito BALDASSARRE , 1999, pp. 5-28; WINTERNITZ , 1979, pp. 86-98. 45 Per rappresentazioni di angeli con lira da braccio si veda POWERS , 2001, pp. 20-29. 46 Si aggiungano, ma ben più raramente, i seguenti suonatori di lira da braccio: il re salmista Davide; Omero; rappresentazioni allegoriche di Poesia e Armonia; famosi improvvisatori del tempo. Rappresentazioni della sola lira da braccio si trovano soprattutto in tarsie lignee. Nei trattati musicali contemporanei sono contenute soltanto poche illustrazioni dello strumento e relative alla fase tarda (cfr. WINTERNITZ, 1979, p. 91). 47 Vengono portati a prova della presunta antichità della lira da braccio: il numero delle corde, normalmente sette, e con ciò corrispondente esattamente al numero delle corde della leggendaria lira di Orfeo; le due corde di bordone dispiegate parallelamente sulla ta- 19 te dall’ambito culturale arabo-bizantino, fu infatti introdotto nella Spagna arabizzata e nell’Italia del sud soltanto nel X secolo. Osservando le rappresentazioni di Apollo o di Orfeo del tardo XV e del XVI secolo si nota altresı̀ che gli antichi eroi spesso venivano mostrati in abiti del tempo, quindi seguendo un’attualizzazione ben consapevole. In questo senso la rappresentazione di strumenti contemporanei il cui suono, a differenza di quello della lira antica non più usata, fosse familiare all’osservatore potrebbe anche essere stata scelta di proposito. Una simile ipotesi è sostenuta dal fatto che in queste immagini Apollo e Orfeo non suonano soltanto la lira da braccio al posto di quella antica, ma anche la viola (da braccio e da gamba), quindi uno strumento al quale non vennero mai attribuite origini antiche; essi però non suonano quasi mai il liuto, lo strumento considerato l’erede più nobile della lira antica.49 La prima immagine della sfida tra Apollo e Marsia in cui la lira antica viene sostituita dalla lira da braccio è, probabilmente, una xilografia dell’edizione veneziana del 1497 di una parafrasi in volgare delle Metamorfosi di Ovidio, opera di Giovanni Bonsignori (fig. 6).50 La sua analisi può illuminare sul motivo della sostituzione di uno strumento con un altro. Per quanto Fig. 6. ARTISTA VENEZIANO, Apollo e Marsia, in OVIDIO, Metamorphoseos Vulgare, Venezia, 1497. stiera, che ricordano l’antica kithara; e infine anche l’idea che l’antico plettro fosse un archetto, come p. es. in BALDASSARE, 1999, p. 17; WINTERNITZ, 1979, pp. 86 sg., 96. Anche la funzione musicale della lira da braccio, di accompagnare il canto improvvisato, avrebbe portato a pensare che fosse uno strumento antico (ibid.). 48 Si poteva p. es. dimostrare che Raffaello aveva studiato per l’affresco del Parnaso (Roma, Stanza della Segnatura, 1511) gli strumenti musicali del cosiddetto Sarcofago Mattei (Roma, Museo Nazionale, tardo III secolo). Cfr. WINTERNITZ, 1979, pp. 185-201. 49 Si veda in proposito anche il saggio di Gabriele Rossi Rognoni in questo volume. 50 L’ipotesi che questa sia la prima rappresentazione di Apollo che suona una lira da braccio in competizione con Marsia si trova in WINTERNITZ, 1979, pp. 89 sg. 20 IL DOLCE POTERE DELLE CORDE modesta possa apparire oggi all’osservatore la piccola xilografia, tanto grande era stato però il suo effetto all’epoca. Fin da principio destinato a un grande pubblico, il libro fu ripetutamente ripubblicato e le sue immagini servirono di riferimento agli artisti per la rappresentazione di scene tratte dalle Metamorfosi. Non soltanto Apollo ma anche Marsia suona qui uno strumento di quel tempo: al posto di un aulos c’è una cornamusa! Anche in questo caso si pone la domanda: quale motivo poteva avere questa sostituzione? La xilografia, che sul bordo inferiore a sinistra fu firmata dall’incisore con il monogramma «ia»,51 mostra non soltanto gli episodi della sfida e dello scorticamento, ma anche l’antefatto raccontato da Bonsignori. Atena suonava presso un banchetto di dei la sua «cialamella»,52 una scena su cui l’osservatore può gettare uno sguardo grazie a uno squarcio nel cielo appena sopra la linea dell’orizzonte, nella metà sinistra dell’immagine. La dea, cosı̀ riferisce ancora Bonsignori, non ottiene in alcun modo però l’atteso successo per la sua esecuzione, ma piuttosto viene derisa dagli dei. Delusa, abbandona il cielo e scende sulla terra, dove d’un tratto le si chiarisce il motivo delle risa, quando scorge rispecchiate nell’acqua le gote gonfiatesi per il suonare, che deformano il suo bel viso. Perciò ella, inorridita, getta il suo strumento. Proprio questo strumento, di lı̀ a poco, sarà trovato da Marsia che lo userà nella sfida con Apollo. Nell’incisione, Atena non ha ancora scoperto il suo riflesso e sta suonando la cornamusa in un ampio paesaggio collinare, che è lo stesso spazio degli altri protagonisti, Apollo e Marsia. Ciò che nel mito si sussegue nel tempo, nell’incisione viene mostrato simultaneamente. Atena e Marsia suonano contemporaneamente: sembra quasi che i due vogliano, unendo le forze, schierarsi contro il giovane dio. Apollo sta tutto solo tra i due suonatori totalmente immersi nell’esecuzione. La sua prova è finita, la lira da braccio è stata abbassata, l’archetto è sollevato in un modo che ricorda immancabilmente una spada, cosa che gli conferisce un’autorità da giudice. Con gli angoli della bocca ribassati, a esprimere il suo scetticismo o la sua sofferenza per il tormento ottico e acustico, egli guarda Atena confermando cosı̀ la sua reale presenza nella scena a dispetto della logica della narrazione. Nella metà destra dell’immagine si può vedere Apollo, ora soddisfatto e sorridente, scorticare Marsia nudo e urlante. Nel raffigurare il dio stesso come esecutore materiale della pena, l’inventore dell’incisione rompe con l’iconografia tradizionale. Sebbene in quasi tutti i testi antichi, cosı̀ come in quelli del Rinascimento, Apollo venga descritto proprio in questa funzione, nessun artista aveva mai osato lasciare che egli eseguisse con le proprie mani l’atroce atto. Il dio rimaneva sempre elegante osservatore della scena.53 In questa xilografia invece Apollo non è soltanto il giudice della competizione, ma anche l’esecutore della pena. Al di sotto della scena dello scorticamento giacciono, isolati dai suonatori, i loro strumenti musicali: la lira da braccio e la cornamusa, i veri antagonisti della sfida. Accanto alla cornamusa si trova la veste di Marsia, come un primo involucro sfilato dal suo corpo, al quale dovrà seguire la pelle.54 Questa si può vedere già appesa al di sopra della scena: come monito a una tale presunzione essa pende, in lontananza, in un tempio circolare. Tutti i richiami allo scorticamento all’interno dell’immagine consentono di rispondere facilmente alla questione sollevata prima. Perché dunque una cornamusa? Perché essa sostanzialmente non è altro che una pelle scuoiata e quindi nessun altro strumento a fiato poteva meglio alludere al destino del temerario Marsia. In fondo ne è essa stessa già un’incarnazione. E la lira da braccio che d’ora in avanti si vedrà spesso in mano ad Apollo? Si può sostenere che l’inventore dell’incisione l’abbia scelta con avvedutezza. Il fatto che la lira da braccio sia uno strumento a corda, che quindi può essere suonato solo con un archetto, può essere stato un aspetto importante. L’ipotesi è rafforzata dalle successive rappresentazioni del dio musicante: quando l’antica lira è sostituita da uno strumento a corda contemporaneo, anche se non sempre si tratta di una lira da braccio, di regola, per lo meno nelle rappresentazioni italiane, si trova uno strumento ad arco e non a pizzico come ad esempio il liuto.55 Come arma, l’arco è da sempre uno dei più importanti attributi del dio. Egli sconfisse il potente serpente Pitone con numerose frecce, le quali soltanto grazie alla tensione del suo arco poterono ottenere il loro effetto annientante; 56 il dio tirò per no- 51 La correlazione del monogramma «ia» a una concreta personalità artistica non è ancora riuscita, tuttavia si potrebbe sostenere che sia associabile all’incisore piuttosto che al disegnatore (cfr. BLATTNER, 1998, pp. 88-94). 52 Bonsignori denomina lo strumento di Atena e Marsia «cialamella» o «celemella», un tradizionale strumento a fiato in legno, quello di Apollo «cetira» e indica Marsia come «villano» (BONSIGNORI, 1497/2001, p. 316). 53 Cfr. in proposito WYSS, 1996, p. 84. 54 La veste di Marsia si trova anche in una tavola di Michelan- gelo Anselmi del secondo quarto del XVI secolo (Washington D.C., National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection), che si è chiaramente ispirata alla nostra xilografia veneziana. La cornamusa lı̀ accanto è flaccida, priva d’aria, di modo che l’analogia con la veste e quindi con lo scorticamento è ancor più evidente. 55 FRINGS , 1999, p. 50 nella sua ricerca di rappresentazioni di Apollo con liuto non ne ha rintracciato alcun esempio. 56 Si vedano p. es. CALLIMACO , Inni ad Apollo, 100 sgg.; OVIDIO, Metamorfosi, 1,443; APOLLODORO, Biblioteca, 1,4,1. 21 SUSANNE POLLACK – IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI ve giorni i suoi dardi appestati contro l’accampamento dei troiani per punirli.57 La doppia funzione dell’arco, di scagliare proiettili mortali e produrre musica soave, corrisponde all’ambivalenza di Apollo, musicista e punitore.58 Come la cornamusa nella xilografia suonata dallo sprovveduto Marsia incarna già il suo scorticamento, cosı̀ l’archetto ben sollevato rimanda già al ruolo punitivo del dio. La proprietà dell’arco di unire le differenti e tuttavia non separabili caratteristiche di Apollo traspare in tante rappresentazioni del dio intento a suonare uno strumento ad arco. Questa ambiguità viene tematizzata esplicitamente in un disegno di un anonimo maestro lombardo (cat. 23). In posa trionfalmente disinvolta, Apollo rivolge lo sguardo verso il pitone giacente ai suoi piedi trafitto di frecce. Nelle sue mani egli però non tiene arco e frecce, ma una viola da gamba e l’archetto, come se avesse sconfitto grazie a essi il terribile serpente. La rappresentazione di Apollo con uno strumento ad arco e non a pizzico si è stabilmente affermata, anche se il valore accordato al dettaglio va valutato caso per caso. Colpisce che lo stesso avvenga per Orfeo. Quando viene rappresentato con uno strumento contemporaneo egli suona per lo più uno strumento ad arco. Valgono qui le stesse considerazioni fatte per Apollo? 59 Ciò stupisce innanzitutto poiché Orfeo stesso non ha niente a che fare con arco e frecce. Tuttavia egli ha uno stretto rapporto con Apollo. Il suo portentoso strumento a corda gli fu consegnato dal dio, suo padre, che gli insegnò a suonarlo; 60 le immagini dei due citaredi sono da sempre strettamente intrecciate o addirittura intercambiabili. Ciò è mostrato molto chiaramente in un’incisione di un anonimo maestro del 1558 (cat. 5), in cui Orfeo che siede fra animali e suona la sua lira altri non è che l’Apollo del Parnaso di Raimondi, incisione apparsa circa quarant’anni prima, inserito in un contesto diverso (cat. 10).61 Baccio Bandinelli esalta l’affinità tra Apollo e Orfeo mediante un accostamento formale (fig. 2 nel saggio di G. Rossi Rognoni). Egli mostra il cantore in una posa simile a quella dell’Apollo del Belvedere.62 Solo mediante il ricorso al cane infernale Cerbero, che rimanda alla discesa di Orfeo all’Ade, può essere evitata la confusione. Se si rinuncia a tali allusioni, come ad esempio nella scultura in bronzo di Bertoldo di Giovanni, non si hanno più certezze sull’identità del personaggio raffigurato (cat. 43). Si vedano p. es. IGINO, Fabulae, 121; OMERO, Iliade, 1,45 sgg. L’insieme di sorriso e ira, di allegro e lugubre, clemenza e rigore nell’essere di Apollo si esprime anche nel suo ruolo di ApolloElio. I raggi del sole hanno da un lato un effetto mortale e annientante, dall’altro donano e consentono la vita. Inoltre essi illustrano, come anche le frecce e i suoni delle corde, il principio della Fernwirkung, cioè dell’essere presente malgrado una distanza spaziale; cosa, come già detto, tematizzata anche sul frontespizio di Gafurius e che rappresenta un elemento di collegamento fra le diverse caratteristiche di Apollo (Elio, Pitico, Musagete). 59 Fra le poche eccezioni a me note di rappresentazioni italiane nelle quali Orfeo viene mostrato con uno strumento a pizzico, sono: un disegno a penna raffigurante Orfeo e gli animali nell’Ovidio Maggiore di Arrigo Simintendi (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, MS Panciatichi 63, f. 86r), del 1370-1380 circa; un rilievo con lo stesso soggetto nel campanile fiorentino di Luca della Robbia, del 1437-1439; la Morte di Orfeo del 1470-1490 circa, un’incisione su rame di un maestro ferrarese probabilmente basata su un prototipo di Andrea Mantegna, di cui esiste un unico esemplare alla Kunsthalle di Amburgo (The illustrated Bartsch XXIV, 3, p. 155, fig. 4 nel saggio di S. Vitali); infine un disegno di un altro anonimo ferrarese del XV secolo (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe, Uff. 1394 E) (cat. 1). 60 Si vedano p. es. PINDARO , Pitica, 4,176 sg.; Mitografo vaticano, II 44; IGINO, Fabulae, 273,11. 61 Per l’incisione del 1558 si veda il contributo di Marion Heisterberg in questo catalogo. Il Parnaso del Raimondi viene citato anche sullo sfondo dell’Apollo e Marsia (cat. 16) di Giulio Sanuto – qui tuttavia privo di Apollo. 62 Vasari loda Bandinelli nella Vita a lui dedicata per aver imitato molto liberamente l’Apollo del Belvedere. Cfr. in proposito e per il significato politico della scultura, LANGEDIJK, 1976, pp. 33-52. 63 Cfr. WINTERNITZ, 1979, pp. 150-165, in part. p. 153. 64 WINTERNITZ, 1979, p. 95. La formula tanto spesso ricorrente «cantare ad lyram» altro non significa che cantare alla lira da braccio o improvvisare con qualche altro strumento a corda del tempo (cfr. PIETROPAOLO, 2003, pp. 1-287, in part. p. 5). I famosi improvvisatori, che si esibiscono pubblicamente, sono quasi sempre rappresentati o descritti con una lira da braccio, solo raramente con un liuto o un’arpa (cfr. in proposito MCGEE, 2003, pp. 31-707, in part. p. 34, 61; HAAR, 1986, pp. 76-997, in part. p. 78). La questione dell’italianità entra altrettanto in gioco: in certi circoli intellettuali fiorentini o romani l’improvvisazione musicale era considerata come «il vero stile italiano» in contrapposizione al repertorio scritto che veniva associato ai compositori stranieri dell’Europa settentrionale (cfr. MCGEE, 2003, p. 35; NOSOW, 2002, pp. 175-221). 57 58 L’ARTE DELL ’IMPROVVISAZIONE Se il rimando all’arco-arma può spiegare la preferenza per gli strumenti ad arco rispetto a quelli a pizzico, il fenomeno dello scambio in sé – fra strumenti contemporanei e antichi – e la motivazione che sta sullo sfondo non si possono cogliere in tutta la loro ampiezza ricorrendo alla stessa motivazione. È stato osservato che l’incremento delle rappresentazioni di Apollo e Orfeo nel tardo XV secolo e nel XVI è contemporaneo all’apparizione sulla scena dei cantori improvvisatori.63 Il canto improvvisato alla lira corrispondeva all’idea che gli archeologi della musica di allora avevano degli esercizi degli antichi rapsodi e poeti.64 Grazie alla sua funzione musicale di strumento d’accompagnamento per il canto solista improvvisato, la lira da braccio nelle mani di Apollo e Orfeo era predestinata a testimoniare la continuità di questa pratica musicale – cosa però da non confondere con la continuità dello strumento stesso! Cosı̀, quando nel 1480 a Mantova fu eseguita la Fabula di Orfeo 22 IL DOLCE POTERE DELLE CORDE di Angelo Poliziano, l’artista mimante Orfeo, Baccio Ugolino, uno dei più famosi improvvisatori del suo tempo, suonava una lira da braccio.65 Questo genere di esecuzioni influenzava a sua volta le arti visive – e viceversa.66 Che il liuto, in virtù della sua funzione musicale comparabile con la lira da braccio, quindi pensabile per lo stesso scopo, sia stato usato solo molto raramente nelle rappresentazioni dei mitici cantori, rafforza ancora una volta il significato dell’arco come criterio della scelta. La prassi dell’improvvisazione si fonde con l’imitazione dei famosi improvvisatori dell’antichità – e non soltanto sul palcoscenico. Il più fulgido esempio è senza dubbio Marsilio Ficino, che fu acclamato quale reincarnazione di Orfeo; egli meritava in effetti pienamente questa reputazione.67 Giovanni Corsi, biografo di Ficino, riferisce che egli cantava alla sua lira antiquo more, il che significa, probabilmente, che improvvisava la sua esecuzione mentre recitava gli inni orfici.68 Quale significato attribuisse Ficino all’antica prassi dell’improvvisazione, è mostrato dall’enumerazione delle attività che, secondo lui, rendevano d’oro il suo tempo: il canto di canzoni secondo l’uso antico alla lira orfica segna l’ultimo, culminante, elemento.69 Vi sono anche connessioni figurative del rapporto tra Ficino e Orfeo. Ad esempio, egli aveva fatto decorare la sua lira 70 con un’immagine di Orfeo tra gli animali selvatici.71 Infine, in questo contesto è anche interessante ricordare il busto di Ficino nel duomo di Firenze, realizzato nel 1521 da Andrea Ferrucci (fig. 7). La postura attribuita alla figura in pietra ricorda con tutta evidenza quella di un Orfeo musicante che tiene la lira. Però Ferrucci non si limita qui a presentare Ficino come alter Orpheus: sostituendo alla lira un libro di Platone, sulle cui pagine egli sembra suonare, offre da una parte un intelligente commento alla sua biografia – il ritrattato è senz’altro uno dei fondamentali rinnovatori del neoplatonismo – e dall’altra presenta l’agire orfico, incluso l’improvvisare, come essenziale del suo operare.72 Di tanti eminenti artisti, come il Verrocchio, Giorgione e il Parmigianino, vien detto da Vasari che suonavano strumenti a corda.73 Per alcuni si sottolinea inoltre l’attitudine a saper recitare all’improvviso. Un esempio straordinario è Leonardo da Vinci,74 che era uno dei più celebri suonatori di lira da braccio del suo tempo e che, secondo Vasari, poteva improvvisare allo strumento tanto cantando quanto poetando e avrebbe perfino costruito egli stesso una lira «in forma di un teschio di cavallo».75 Il fondamentale significato della musica come disciplina teorica e maestra di proporzioni e armonia per le arti visive è fuori discussione. Già Giovanni Paolo Lomazzo affermò nella sua Idea del tempio della pittura (1590) che artisti come Leonardo da Vinci, Michelangelo o Gaudenzio Ferrari «pervennero alla cognizione della proporzione armonica per via della musica e con la considerazione della fabrica del nostro corpo».76 Cfr. MCGEE, 2003, p. 32; PIRROTTA, 1969, p. 8. Cfr. RIETVELD, 2007, pp. 155-211. 67 Sulla questione della serietà della metafora in Ficino e in altri membri del circolo umanistico fiorentino, si veda WARDEN, 1982, pp. 85-1107, in part. p. 87. 68 «Orphei hymnos exposuit, miraque ut ferunt dulcedine ad lyram antiquo more cecinit», citato da WARDEN, 1982, p. 87. Janus Pannonius riferisce similmente: «Antiquum cytharae sonum et cantum et carmina Orphica oblivioni prius tradita luci restituisses». Cit., da ibid., si veda anche WALKER, 1953, pp. 100-1207, in part. p. 102. 69 «Hoc enim seculum tanquam aureum liberales disciplinas ferme iam exstinctas reduxit in lucem, grammaticum, poesim, oratoriam, picturam, sculpturam, architecturam, musicam, antiquum ad Orphicam Lyram carminum cantum», citato da WARDEN, 1982, p. 87. 70 HAAR, 1986, p. 35 presume che nel caso della lira di Ficino si tratti di un liuto o di una viola. 71 Naldo Naldi per questa immagine ha perfino scritto un verso dal titolo De Orpheo in ejus cythara picto. Cfr. in proposito CAPROTTI, 1987, pp. 19-287, in part. p. 22; WARDEN, 1982, p. 87. 72 Cfr. CHASTEL, 1954, p. 48. 73 Per gli artisti-musicisti nelle Vite di Vasari si vedano MCIVER , 1997 e il saggio di Jana Graul in questo catalogo, dove si trova anche una lista completa degli artisti da lui menzionati in questo contesto. 74 Cfr. WINTERNITZ , 1982c. 75 VASARI , 1966-1997, IV, pp. 16, 24. Per la lira costruita da Leonardo si veda VALLESE, 1998, pp. 405-424. 76 LOMAZZO, 1974, I, p. 343. Si vedano in proposito già WITTKOWER, 1949, pp. 104 sg.; PANOFSKY, 1955, pp. 88-98. 65 66 Fig. 7. ANDREA FERRUCCI, Busto di Marsilio Ficino, 1521, Firenze, Santa Maria del Fiore. SUSANNE POLLACK – IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI Quale ruolo giocò però la prassi dell’improvvisazione per le arti visive? 77 Un ostacolo al diretto confronto tra musicisti e coloro che operano nelle arti visive è il modo di presentare queste abilità. Mentre il musicista a causa del carattere effimero della sua arte deve per forza praticarla davanti ad un pubblico, normalmente i secondi non incontrano gli spettatori nell’atto della creazione. Come può l’operato del pittore corrispondere all’atto performativo del musicista improvvisatore o del poeta, ballerino e attore, la cui apparentemente spontanea perfezione manda in estasi il pubblico? Egli dovrebbe far partecipare il pubblico alla creazione delle sue opere. Affermare che ciò fosse assolutamente possibile era evidentemente l’intenzione di Giovan Battista Armenini nel raccontare, nel De’ Veri Precetti della Pittura (Ravenna, 1586), come egli stesso fu testimone dell’arte di Michelangelo («io ne viddi una volta in Roma mirabil prova»).78 Michelangelo aveva incontrato dietro San Pietro un giovane vasaio al quale era grato per avergli cotto alcune cose d’argilla e gli aveva offerto di soddisfare un suo desiderio. Questi gli portò immediatamente un foglio di carta chiedendogli di disegnargli un Ercole. Michelangelo lo accontentò immediatamente. Dopo aver assunto una posa dignitosa e posto il suo piede su un panchetto, disegnò in breve tempo l’Ercole. Quindi consegnò la sua opera al giovane, che era in piedi accanto a lui, e se ne andò. Armenini descrive il disegno con parole di ammirazione: Il qual dissegno, per quanto io conosceva allora, mi parve cosı̀ ben lineato, ombrato e finito, che passava ogni uso di minio et era un stupor grande a quelli che ciò ave[v]ano veduto fare in cosı̀ poco tempo, che altri vi avrebbero giudicato dentro la fatica di un mese, sı̀ che si può fare da questo giudizio quanto egli doveva essere facile in far le sue invenzioni. In questo racconto sono contenuti tutti gli ingredienti per presentare al lettore l’analogia con gli improvvisatori che si esibivano pubblicamente, chiamati anche cantipanca o cantastorie: un luogo pubblico, un panchetto, una pubblica esecuzione spontanea con risultato mirabilmente perfetto. Che Armenini cerchi proprio questa analogia non può certo meravi- Cfr. KORRICK, 2003, pp. 289-316. ARMENINI, 1988, pp. 92 sg. Questi aneddoti non si trovano in nessun’altra fonte del tempo. 79 Cfr. PARIGI , 1954, pp. 9-21. 80 Cfr. PIRROTTA, 1966, pp. 127-161, in part. p. 141. 81 Anche altre ‘tecniche veloci’, come ad esempio la pittura ad affresco, possono servire allo scopo. Per riflessioni sulla tecnica dell’affresco come dimostrazione della prontezza di un artista (cfr. 77 78 23 gliare, visto che i cantastorie venivano considerati gli improvvisatori per eccellenza ed erano stimatissimi socialmente. A Firenze essi furono fortemente favoriti dai Medici. Di Lorenzo de’ Medici, come anche di molti altri nobili, si racconta che si esercitava nel canto e nel poetare all’improvviso.79 Angelo Poliziano informava Lorenzo che suo figlio Piero faceva grandi progressi in quest’arte da lui tanto stimata,80 e ogni domenica Lorenzo stesso ascoltava davanti San Martino il suo improvvisatore prediletto, Antonio di Guido. Il disegno, se eseguito in modo agile e virtuoso,81 consentiva di misurarsi con i grandi improvvisatori musicanti del tempo, o meglio esso poteva costituire una prova stabile di quella mirabile facilità e prontezza che è fondamentale per l’essenza dell’improvvisazione. La facoltà di improvvisare è una prova di maestria. Che questa sia però il risultato di un duro lavoro, dovrebbe poter restare invisibile dietro la facciata della professionale facilità.82 Può esibirsi all’improvviso solo chi, attraverso infinito esercizio, ha creato nella sua mente un repertorio di innumerevoli possibilità combinatorie, alle quali egli può ricorrere in ogni occasione con successo. Direttamente collegato al racconto delle performance pubbliche di Michelangelo, Armenini descrive, in rapporto all’arte del disegno di Giulio Romano, proprio queste libere creazioni e composizioni tratte da un immaginario tesoro di motivi: Fu parimente [riferito a Michelangelo] Giulio Romano cosı̀ copioso e facile, che chi lo conobbe affermava che quando egli dissegnava da sé qualcosa si fosse, che si potea più presto dire che egli imitasse e che avesse inanzi a gli occhi ciò che faceva, che egli componesse di suo capo, perciò che era la sua maniera tanto conforme e prossimana alle scolture antiche di Roma che, per esservi stato studiosissimo sempre mentre era giovine, che ciò che deponeva e formava pareva esser proprio cavato da quelle. Anche Vasari loda questo artista come disegnatore e sottolinea la sua «facilità» e spontaneità, che si evidenzia soprattutto nei suoi schizzi realizzati di getto. Poiché i disegni di Giulio Romano mostrano più «vivacità, fierezza et affetto» dei suoi dipinti, dà a lo- DAMM, 2011). Per osservazioni generali in questo contesto si veda anche SUTHOR, 2010. 82 Sull’apparente facilità, il cui calcolo non può essere visto in alcun caso, scrive anche Baldassare Castiglione nel suo Cortigiano (1528): «Però si po’ dir quella esser vera arte che non pare esser arte: né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato». CASTIGLIONE , 1989, p. 59. 24 IL DOLCE POTERE DELLE CORDE ro la priorità.83 Uno sguardo a due suoi schizzi conferma questo straordinario talento (cat. 25 e 26). La spensierata agilità con la quale Apollo canta e improvvisa alla lira corrisponde del tutto alla raffinata 83 VASARI, 1966-1997, V, p. 60. leggerezza con cui Giulio Romano ha realizzato lo schizzo. I due fogli sono in questo caso, se cosı̀ si vuole, documento dello stesso atto, compiuto da Apollo e da Giulio Romano. MARZIA FAIETTI ORFEO A BOLOGNA E LE DIVAGAZIONI SUL MITO DI MARCANTONIO RAIMONDI A Lucio Dalla, Orfeo bolognese dei nostri giorni Tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento si verificò a Bologna un’ampia diffusione della mitografia di Orfeo in diverse espressioni artistiche. Essa trasse impulso da un insieme di fattori concomitanti, ciascuno dei quali contribuı̀ ad alimentare distinti filoni iconografici. I due famosi Concerti di Londra e Madrid dipinti da Lorenzo Costa 1 documentano in modo eloquente la passione musicale nutrita dall’ambiente di corte bolognese e condivisa da artisti quali Antonio da Crevalcore, Giovanni Battista Cavalletto, lo stesso Costa. Analoghe predilezioni avevano contagiato insigni letterati come Filippo Beroaldo e Giovanni Achillini detto il Filotèo: il primo incluse un elogio della musica nelle sue Orationes multifariae edite a Bologna nel 1500,2 mentre il secondo non mancò di elencare un folto gruppo di musici e di cantanti bolognesi in un passo del suo Viridario 3 terminato di scrivere nel 1504 e pubblicato nel 1513, probabilmente senza variazioni di rilievo rispetto alla prima stesura.4 Più sottilmente allusive a questo clima vivace di fervori musicali mi paiono alcune immagini disegnate dall’artista prediletto da Beroaldo, Francesco Raibolini detto Francia o il Francia – I tre musici all’Albertina di Vienna 5 –, oppure incise a bulino – I tre cantori e l’Allegoria della Musica 6 – e tracciate a penna – un Giovane in piedi con strumento musicale ora a Bayonne 7 – dal suo allievo Marcantonio Raimondi. Proprio a Marcantonio del resto spettò di immortalare il Filotèo in una stampa più o meno coeva al Viridario, ispirata al filone iconografico dell’Orfeo intento a suonare (fig. 1).8 Quel ritratto, poi, venne in seguito tenuto in considerazione da Amico Aspertini, cui spettò con ogni probabilità il disegno per il frontespizio dell’Opera Nuova Amorosa di Notturno Napolitano edita a Bologna da Girolamo Benedetti nel 1519, dove lo stesso poeta era effigiato nell’atto di suonare uno strumento musicale ad arco.9 Il modello orfico dell’ispirazione quasi divina dell’artista era stato accennato dall’umanista Beroaldo e più tardi sarà ripreso e sviluppato da Achille Bocchi.10 Non stupisce perciò che alcuni artefici bolognesi si sentissero lusingati dal paragone con l’eroe mitologico; un caso fu senza dubbio quello del pittore Biagio Pupini, al quale venne riservato un elogio sperticato nel Viridario: «[...] assimiglia Biasio Orpheo cantando, e col pennel Parrhasio».11 In un passo del successivo poema in terza rima denominato Fidele, il Filotèo fornisce una chiave di lettura che mi pare, almeno in parte, esplicativa del successo di Orfeo. Per il poeta bolognese l’identificazione tra Dioniso e Apollo poggia sull’autorità indiscussa di Aristotele e sembra trovare conferma nei tragici greci, ma è proprio tramite la figura di Orfeo – figlio di Dioniso-Fanes secondo la tradizione orfica e partecipe sia della natura apollinea che della natura 1 Rispettivamente alla National Gallery e al Thyssen Bornemisza Museum: si vedano le riproduzioni fotografiche in NEGRO e ROIO, 2001, p. 87, cat. n. 9; p. 101, cat. n. 23. 2 CHINES, 1998, pp. 110-116, per un’ampia bibliografia su Beroaldo e altri umanisti a Bologna. 3 FAIETTI , 1993, pp. 182-184; cfr. anche FRANZONI , 1990, pp. 296-297, 306 e nota 112. 4 VIRIDARIO, MDXIII. Sull’opera segnalo particolarmente PERINI, 1999, pp. 42-54, con bibliografia. 5 Sul disegno si vedano soprattutto Faietti, in BOLOGNA e VIENNA, 1988, pp. 258-260, n. 65; A. Gnann, in VENEZIA e VIENNA, 2004, pp. 46-47, n. 8, entrambi con bibliografia. 6 Bartsch 468 e 398. Per un primo orientamento sulle due stampe anche in relazione alla tematica si veda Faietti, in BOLOGNA e VIENNA, 1988, rispettivamente pp. 125-126, n. 18 e pp. 96-98, n. 4; per la seconda si legga inoltre SAN JUAN, 1983, pp. 197-198. 7 Bayonne, Musée Bonnat, inv. 1347 (cfr. K. Oberhuber, in BOLOGNA, 1988, p. 68, fig. 13 a p. 67). 8 Bartsch 469. Ritorno ultimamente sul ritratto in FAIETTI , 2010, p. 154 e nota 24 a pp. 154-155. 9 M. Faietti, in FAIETTI e SCAGLIETTI KELESCIAN , 1995, p. 339, VII. 1. 10 GIOMBI , 2001, p. 15. 11 VIRIDARIO, MDXIII, p. CLXXXVIII r. MARZIA FAIETTI – ORFEO A BOLOGNA E LE DIVAGAZIONI SUL MITO DI MARCANTONIO RAIMONDI 125 dionisiaca – che può rendersi possibile l’identificazione tra il dio dell’ebbrezza e dell’estasi mistica e il dio della luce e della poesia rivelatrice.12 Gli interessi musicali largamente diffusi, da un lato, e le riflessioni in sede letteraria e filosofica sull’ispirazione divina (o quasi) dell’artista e sulla sovrapposizione tra Apollo e Bacco mediata da Orfeo, dall’altro, non bastano da soli a dar conto della singolare fortuna goduta dal poeta tracio a Bologna tra Quattro e Cinquecento. Una terza, e non meno decisiva, motivazione è da rintracciare nella vasta circolazione dell’opera polizianesca e, ancora prima, nelle relazioni intrattenute da Angelo Poliziano con certi ambienti cittadini sin da quando, nel giugno del 1491, in compagnia di Giovanni Pico della Mirandola egli aveva avuto modo di ammirare le biblioteche bolognesi e le numerose iscrizioni antiche, entrando in contatto con alcuni collezionisti numismatici come Andrea Magnani e il pesarese Pandolfo Collenuccio.13 Non sarà stato dunque casuale che l’editio princeps delle Cose vulgare del Politiano, tra cui La festa di Orpheo, fosse edita nel 1494 a Bologna presso Platone Benedetti e con la cura di Alessandro Sarti; né sarà stata una semplice coincidenza che negli ambienti più coltivati fossero ben note sia le Georgiche di Virgilio che le Metamorfosi di Ovidio, ritenute tra le fonti principali dell’umanista toscano sul mito di Orfeo.14 Infatti, nello Studio cittadino riscuotevano un grande successo le lezioni dedicate sia a Omero che a Virgilio da Antonio Urceo detto Codro, ellenista convinto dell’unità organica della tradizione greco-latina e strenuo sostenitore del ritorno alle fonti,15 che in quella prestigiosa sede universitaria ricoprı̀ stabilmente un posto di lettore di grammatica, retorica e poetica, e in seguito anche di greco, dal 1482 al 1500.16 Quanto a Ovidio, i suoi Opera Omnia avevano visto la luce già nel 1471 per merito dell’associazione tra Francesco Dal Pozzo (il Puteolano), Annibale Malpigli e Baldassarre Azzoguidi; senza contare che quella data segnò quasi l’avvio di un susseguirsi inin- terrotto di edizioni di classici latini e greci, questi ultimi tradotti in lingua latina.17 Non meraviglia pertanto che in ambito bolognese a partire dagli anni Ottanta l’eroe mitico Orfeo fosse spesso raffigurato intento a suonare e attorniato dagli animali incantati dal suono della sua melodia, come in una prova su carta per un niello di Francesco Francia, a sua volta copiata da Peregrino da Cesena in una stampa a guisa di niello (niello-print).18 All’origine della prova del Francia è forse da porsi un disegno in controparte, ora agli Uffizi, realizzato nel corso 12 TRAVERSA , 1992, pp. 181-183. Per altre considerazioni sulla cultura orfico-sapienzale caratterizzante l’umanesimo bolognese e sul tema della musica si vedano ANSELMI e GIOMBI, 1988, pp. 10, 7. 13 DE MARIA , 1989, pp. 151-157, con bibliografia precedente. 14 Sull’Orfeo di Poliziano rinvio particolarmente, con ulteriori indicazioni bibliografiche, a BAUSI (a cura di), 1997, I, pp. 43-59 (testo della Fabula), II, pp. 145-177 (commento); TISSONI BENVENUTI, 2000 (II ed.). 15 RAIMONDI (1956), 1972, p. 73. 16 Per la vasta bibliografia su Codro (tra cui si segnala l’opera fondamentale di RAIMONDI, 1950; II ed. 1987) cfr. CHINES, 1998, pp. 125-150. 17 Cfr. GIOMBI , 2001, nota 35 a pp. 55-56, a proposito del catalogo delle pubblicazioni uscite tra il 1501 e il 1514 presso uno dei più attivi editori del periodo, Benedetto di Ettore Faelli, con cui collaborò in particolare Beroaldo (per conto di Faelli nel 1500 aveva infatti curato la stampa dell’Asino d’oro di Apuleio). 18 Cfr. M. Faietti, in BOLOGNA e VIENNA , 1988, pp. 327-328, n. 100 (HIND 204); p. 333, n. 112 (HIND 203), con bibliografia. Per un possibile influsso di Filostrato riscontrabile nella prova su carta del Francia si veda la tesi di SAN JUAN, 1983, pp. 150-151; nel Capitolo VI, intitolato Orpheus in ‘‘niello’’ and engraved prints, pp. 142-167, la studiosa analizza le due opere di cui sopra e altre ancora, alcune delle quali – il disegno degli Uffizi menzionato di seguito (cat. 1), e le due versioni di Orfeo ed Euridice di Marcantonio Raimondi rispettivamente Bartsch 282 e 295 (cat. 40) – considerate anche nel presente contributo, dove peraltro vengono formulate nuove ipotesi interpretative. Fig. 1. MARCANTONIO RAIMONDI, Ritratto di Giovanni Achillini, detto Il Filotèo, 1504-1505 circa, Vienna, Albertina, Grafische Sammlung. 126 del nono decennio con ogni probabilità a Bologna o tra Bologna e Ferrara da un artista di educazione ferrarese e di notevole levatura (cat. 1); esso è stato da tempo messo in relazione iconografica con la prova menzionata, anzi talvolta venne ascritto, ma senza ragioni davvero stringenti, allo stesso Raibolini.19 In un bulino inciso poco dopo la metà del primo decennio (fig. 2),20 Marcantonio si distingue dal filone iconografico cresciuto intorno al foglio degli Uffizi soprattutto per il singolare taglio compositivo: qui il poeta musico è raffigurato di tre quarti e di spalle, probabilmente per influsso del musico seduto a destra nel Trionfo della Morte dipinto da Lorenzo Costa nella Cappella Bentivoglio in San Giacomo Maggiore a Bologna.21 Viceversa qualche tempo prima, nella stampa ricordata poco fa,22 Raimondi aveva optato per un ri- LA PERDITA DI EURIDICE E LA MORTE DI ORFEO Fig. 2. MARCANTONIO RAIMONDI, Orfeo incanta gli animali, 1506 circa, Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings. tratto frontale del Filotèo forse per suggerire una più immediata associazione tra il letterato bolognese e la figura del poeta tracio. Eccentrico come di consueto, Amico Aspertini in un foglio che tuttavia oltrepassa i limiti temporali selezionati per questo contributo – siamo nel quarto decennio avanzato del Cinquecento – indugiò sulla drammatica morte di Euridice già morsa da un serpente e al cospetto, con ogni probabilità, di un disperato Aristeo che, inseguendola senza sosta, era stato l’involontaria causa di quella disgrazia (cat. 37). È possibile che Amico avesse tenuto presente la fabula di Poliziano e intendesse illustrare liberamente il momento appena successivo a quello in cui il bramoso pastore, bello come una statua apollinea (e in effetti Aristeo era figlio di Apollo), risponde alle grida della sventurata moglie di Orfeo, gridando a sua volta. Cosı̀, infatti, recitava la didascalia del testo originale con la descrizione dell’inseguimento di Euridice, che si svolgeva solo parzialmente davanti agli occhi degli spettatori: «Seguitando Aristeo Euridice, ella si fugge drento alla selva, dove punta dal serpente grida, e simile Aristeo».23 La consueta identificazione dell’uomo con Orfeo 24 potrebbe essere ancora valida immaginando l’adozione di una iconografia piuttosto rara da parte di Aspertini (fatto non insolito per l’artista bolognese) e comunque indipendente dal testo di Poliziano; nella fabula infatti Orfeo era messo al corrente della morte di Euridice da un pastore che gli riferiva l’episodio come già accaduto. Tuttavia il gesto pudico della giovane riversa per terra (che nasce da una rivisitazione della Venus pudica) sembra alludere ai suoi precedenti tentativi di sottrarsi alle bramosie del pastore, facendomi optare per una identificazione del personaggio con Aristeo e per la scelta consapevole da parte di Amico di un episodio del mito certamente più singolare e ancora meno frequente rispetto all’inseguimento di Euridice.25 Poco dopo un’edizione della fabula di Poliziano uscita a Firenze intorno al 1500 con il corredo di xilografie,26 Marcantonio raffigurò Orfeo accanto all’amata Euridice che aveva appena strappato dagli Infe- 19 E. Negro, in NEGRO e ROIO , 1998, pp. 98-100; ID . e EAD ., 2001, p. 14 (dove è ritenuto un probabile autoritratto). SAN JUAN, 1983, pp. 145-147, suggeriva una possibile paternità franciana, senza tuttavia pervenire a una certezza definitiva. 20 Bartsch 314. 21 Istituisco questo confronto in B OLOGNA e VIENNA , 1988, pp. 142-143, n. 27. 22 Bartsch 469. 23 TISSONI BENVENUTI , 2000, p. 148. 24 M. Faietti, in FAIETTI e SCAGLIETTI KELESCIAN , 1995, p. 313, n. 99, con bibliografia precedente; A. Zacchi, in BOLOGNA, 2008, p. 312, n. 128. 25 Viceversa, un caso di sicura identificazione della figura maschile con Orfeo, grazie all’attributo dello strumento musicale, è indicato da Samuel Vitali in questo stesso catalogo: si tratta del disegno di Hans Süss von Kulmbach datato 1518 raffigurante una simile scena di compianto alla vista del corpo riverso di Euridice morsa dal serpente. 26 RIETVELD , 2007, p. 161; le xilografie sono state riprodotte in ORLANDO (a cura di), 1976, pp. 107-128. MARZIA FAIETTI – ORFEO A BOLOGNA E LE DIVAGAZIONI SUL MITO DI MARCANTONIO RAIMONDI 127 ri grazie al suono di uno strumento musicale simile alla lira da braccio delle stampe fiorentine, piuttosto che alla lira consueta (fig. 3).27 La corona d’alloro sul capo di Orfeo sottolinea la sua funzione di poeta,28 mentre la bocca dischiusa suggerisce l’atto del cantare. L’atmosfera serena, sottolineata già da altri,29 induce a pensare che al suo canto poetico non fossero estranei quei «versi alegri» da Ovidio di cui dà conto la forma teatrale della fabula allestita dai familiari del cardinal Gonzaga in un manoscritto non pervenuto, ma forse da identificare con l’esemplare dell’edizione bolognese del 1494:30 Orpheo ritorna, redempta Euridice, cantando certi versi alegri che sono de Ovidio accommodati al proposito: Ite triumphales circum mea tempora lauri! Vicimus: Euridice reddita vita mihi est. [...].31 Le due figure, dall’aura soavemente all’antica memore delle creature franciane, sono allineate in primo piano su uno sfondo condotto a tratti paralleli che rinvia ai rilievi delicatamente bidimensionali dei nielli e concorre all’atmosfera sospesa di composizioni del Francia permeate da un romantico proto classicismo, come I tre musici già ricordati. È probabilmente questa, tra le immagini realizzate da Marcantonio, la più vicina allo spirito della fabula di Poliziano; il carattere teatrale della rappresentazione è accentuato dall’immanenza delle figure, allineate in primo piano come in un proscenio, e dal gioco sottile di rispondenze e opposizioni dei gesti e delle posture. Nelle composizioni più eleganti e rarefatte di Guido Reni, per rimanere in ambito bolognese, ritroveremo una simile concentrazione su due protagonisti di una storia sacra o mitologica, raffigurati in primo piano come su una ribalta e atteggiati secondo simmetriche rispondenze o intrecci e chiasmi compositivi più complessi sullo sfondo di un spazio descritto con economia di annotazioni naturalistiche – ho in mente, ad esempio, l’Adamo ed Eva del Musée des Beaux-Arts di Digione e l’Atalanta e Ippomene del Prado.32 L’Orfeo ed Euridice di Marcantonio si mostra peraltro assai più moderno dell’illustrazione con Orfeo nell’Ade nell’edizione fiorentina del 1500 circa, dove il poeta tracio conduce fuori dalla porta degli Inferi la sua giovane sposa, intenta a varcare la soglia di una costruzione cilindrica in mattoni.33 La caverna dell’Ade compare alle spalle di Euridice nel secondo bulino di Raimondi licenziato intorno al 1509-1510 (cat. 40),34 dunque già a Roma e a diretto contatto la cultura raffaellesca; in conseguenza di ciò la narrazione del mito non ricrea più l’atmosfera di una favola teatrale quattrocentesca, prediligendo una scena all’antica e un’umanità ideale e monumentale. Ma in questa nuova raffigurazione troviamo qualcosa di più qualora prestiamo attenzione al gioco degli sguardi dei due protagonisti: mentre nell’incisione precedente Euridice afferrava il braccio dello sposo e volgeva lo sguardo nella sua direzione, qui l’eroina è Bartsch 282. Su Orfeo incoronato come poeta: M. Faietti, in BOLOGNA e VIENNA, 1988, p. 91, n. 1; SCAVIZZI, 1982, p. 136 e RIETVELD, 2007, p. 276. 29 SCAVIZZI , 1982, p. 136; RIETVELD, 2007, p. 276. Entrambi gli studiosi scorgono sia nel bulino in esame che nella successiva versione Bartsch 295 (a proposito della quale si legga più avanti nel testo) il momento in cui i due amanti si lasciano alle spalle l’Ade e tornano felici alla vita, mentre Scavizzi in particolare sottolinea la vo- lontà di affermare attraverso le due immagini il potere dell’arte e della poesia. 30 Suggerivo questa possibile relazione in BOLOGNA e VIENNA , 1988, p. 91, n. 1. 31 Denominata ft1: cfr. TISSONI BENVENUTI , 2000, pp. 52-57, 168-184 (citazione a p. 180). 32 Riproduzioni fotografiche in PEPPER , 1988, fig. 57 e tav. IV. 33 ORLANDO (a cura di), 1976, illustrazione a p. 119. 34 Bartsch 295. 27 28 Fig. 3. MARCANTONIO RAIMONDI, Orfeo ed Euridice, 1500-1503 circa, Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings. 128 colta mentre sembra volgere il capo verso l’oscura entrata dell’Ade. Parrebbe un’incongruenza rispetto al mito, ma si tratta in realtà di una intenzionale, e significativa, deviazione che si ricollega a un’antica tradizione interpretativa di stampo allegorico. Per argomentare la mia tesi devo introdurre un’apparente deviazione dal discorso principale, accennando rapidamente, in primo luogo, all’identificazione della figura di Orfeo con Cristo, le cui lontane origini si rifanno almeno ai tempi di Clemente di Alessandria, Lattanzio, Eusebio e Cirillo di Alessandria.35 Nell’allegoresi medievale del mito orfico, per esempio nell’Ovidius moralizatus di Pierre Bersuire, se Orfeo è figura allegorica di Cristo, Euridice lo è dell’anima: Dic allegorice quod orpheus, filius solis est Christus, filius dei patris: qui a principio euridicen id est animam humanam per cartitatem & amorem duxit: ipsamque per specialem praerogativam a principio sibi coniunxit.36 LA PERDITA DI EURIDICE E LA MORTE DI ORFEO Un bulino con Cristo al Limbo (fig. 4),39 del periodo giovanile bolognese, rappresenta una sorta di anello di congiunzione, anche sotto il profilo cronologico, tra la prima e la seconda versione dell’Orfeo ed Euridice. L’ingresso della caverna che si apre alle spalle di Adamo preannuncia quello dell’Ade dietro Euridice nella stampa più tarda, mentre la nudità dei due progenitori, ancora legata a influssi franciani e, nella figura di Adamo, a echi düreriani,40 troverà una naturale evoluzione in senso classico nella nudità statuaria delle due corrispettive figure nell’incisione realizzata a Roma (si noti in particolare in Euridice il riferimento al tipo della Venus pudica). Nel Cristo al Limbo inoltre, se l’atteggiamento di Eva riconduce al tema della cacciata dal Paradiso, Cristo e Adamo sono disposti in modo simmetrico e speculare, ribadendo anche sotto il profilo visivo il legame tra il Figlio dell’Uomo e il primo uomo.41 Un’ulteriore assimilazione, quella che lega Orfeo ad Adamo, riesce particolarmente utile per comprendere il secondo bulino di Raimondi. A sua volta può vantare lontane ascendenze; infatti, di recente, a proposito di un verso del De paradiso di Ambrogio (7.35) dove si individua nella disobbedienza del progenitore la causa della sua morte, si è sottolineato come il testo ambrosiano rifletta i versi 485-493 della quarta Georgica in cui viene narrato di Orfeo dimentico, a sua volta, del divieto divino.37 Il poeta, dunque, si sarebbe macchiato di un peccato di disobbedienza al pari di Adamo. D’altra parte una lunga tradizione, risalente all’Ovide Moralisé, equiparava Euridice a Eva.38 Viene da chiedersi allora se Raimondi, ritraendo la giovane con il capo orientato verso l’ingresso degli Inferi, non volesse far ricadere la responsabilità della sua morte su di lei piuttosto che su Orfeo e se, nel far ciò, non gli tornasse utile il parallelismo con Eva. Sono propensa a rispondere in modo affermativo a tale quesito, sia per la spiccata predilezione verso l’allegoresi mitologica dell’ambiente umanistico bolognese, sia a causa del confronto con altre due opere di Marcantonio, che passo subito a considerare. Fig. 4. MARCANTONIO RAIMONDI, La Discesa al Limbo, 1504-1505 circa, Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings. 35 Per un’antologia di testi cfr. STORCH (a cura di), 1997, pp. 82142; si vedano anche IRWIN, 1985, pp. 51-62; GONZÁLEZ DELGADO, 2003, pp. 7-35. 36 BERCHORIUS , 1962, Liber X, Fo. LXXIII. Su Bersuire e Orfeo si legga VICARI, 1982, in part. pp. 71-72. 37 PASSARELLA , 2007, pp. 401-405. Ringrazio Loredana Chines per avermi segnalato questo contributo. FRIEDMAN, 1970, p. 125; RIETVELD, 2007, p. 67. Bartsch 41. 40 Su tali aspetti cfr. in particolare M. Faietti, in BOLOGNA , 1988, pp. 115-116, n. 13, con ulteriori rinvii bibliografici. Per un influsso del bulino di Dürer con Adamo ed Eva (Bartsch 1) sulla stampa di Marcantonio si veda SAN JUAN, 1983, pp. 162-163. 41 SCAVIZZI , 1982, p. 136, accenna, per la versione più tarda, a 38 39 MARZIA FAIETTI – ORFEO A BOLOGNA E LE DIVAGAZIONI SUL MITO DI MARCANTONIO RAIMONDI Qualche tempo dopo aver eseguito la versione più tarda dell’Orfeo ed Euridice, Marcantonio licenziava l’incisione con Adamo ed Eva (fig. 5) 42 ispirata a uno studio di Raffaello oggi all’Ashmolean Museum di Oxford, in cui la figura della progenitrice è solo accennata nel profilo della testa e nel braccio con cui porge il frutto ad Adamo.43 Nella stampa Marcantonio completò l’immagine adottando una postura delle gambe simile a quella della sua Euridice precedentemente incisa, ma non è dato sapere se egli perfezionasse una o più idee raffaellesche appena abbozzate (come nel disegno di Oxford) oppure se avesse a disposizione un modello più rifinito dell’Urbinate, ora perduto. Resta il fatto che esiste, almeno nella parte inferiore della figura, una parziale sovrapposizione tra l’Euridice dell’Orfeo ed Euridice (cat. 40) e l’Eva dell’Adamo ed Eva (fig. 5), che sarei tentata di riferire, almeno in via ipotetica, a Marcantonio; nel primo bulino infatti egli non parve tanto utilizzare studi di Raffaello quanto mostrare una certa attenzione verso le sue conquiste formali.44 A margine vorrei sottolineare come nel bulino con i due progenitori il braccio di Eva è ripiegato verso la spalla e non più rivolto verso Adamo nell’atto evidente di porgere il frutto proibito al suo compagno, come invece si verifica nel foglio di Oxford; questo cambiamento, forse dettato dalla scelta di fissare nella composizione l’attimo successivo all’offerta del frutto, suscita qualche ambiguità nella lettura dell’opera e un certo disorientamento (mi chiedo fino a che punto voluto) circa i ruoli ricoperti dai progenitori a proposito del peccato originale. Ma torniamo a Orfeo ed Euridice. Nel bulino realizzato a Roma Raimondi sembrerebbe ribaltare il mito e ascrivere alla sua Euridice la responsabilità principale dell’aver disobbedito al divieto divino volgendo il capo indietro. Si è detto che al parallelismo tra Orfeo e Adamo, entrambi peccatori per disobbedienza come già suggeriva Ambrogio, si era successivamente affiancata, almeno a partire dall’Ovide Moralisé, una rispondenza tra Euridice ed Eva, ambedue incappate in una fatale disobbedienza ai voleri divini. Dunque, di questa seconda rispondenza l’artista bolognese fu forse consapevole. Ma, riflettendo bene, la sua eroina greca aveva ceduto alla tentazione sol- un legame con la raffigurazione di Cristo al Limbo, interrogandosi su una possibile e alquanto ipotetica consapevolezza da parte di Marcantonio dell’identificazione tra Orfeo e Cristo. 42 Bartsch 1. 43 Inv. P II 539 verso: J.A. Gere e N. Turner, in LONDON , 1983, p. 98, n. 75. 129 Fig. 5. MARCANTONIO RAIMONDI, Adamo ed Eva, 1509-1510 circa, Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings. tanto per guardare dietro di sé, mentre Orfeo, come certo era ben noto all’incisore, si era voltato per rassicurarsi della presenza del suo amore. Agli artisti, che tanto spesso ambivano al paragone con il poeta tracio, la colpa del loro eroe doveva sembrare lieve, anzi lievissima. Avrebbero potuto persino piegare a loro favore l’interpretazione eticomorale del mito dovuta a Boezio nel De consolatione Philosophiae, un testo che a Bologna, ai tempi della giovinezza del nostro, circolava anche attraverso i Comentaria di Rodolfo Agricola. Del resto Boezio, ricordando come «Orpheus Euridicen suam / vidit, perdidit, occidit», aveva introdotto una premessa che riecheggiava sia il vicit Amor di Ovidio che l’Omnia vincit amor di Virgilio: «Quis legem det amantibus? / Maior lex amor est sibi».45 Per ulteriori considerazioni e raffronti: M. Faietti, in BOLO1988, pp. 175-177, n. 40. 45 Cito da GONZÁLEZ DELGADO , 2003, p. 16, vv. 50-51, 47-48. 44 GNA, 130 Tanto bastava a un artista per salvare se stesso, immedesimandosi nei panni di Orfeo, per amore di una donna; dell’amore o, forse ancora di più, della forza seduttiva dell’arte. I due bulini di Marcantonio con Orfeo ed Euridice, che dalla fabula polizianesca giungono all’interpretazione allegorica del mito e all’identificazione di Euridice con Eva, sembrereb- LA PERDITA DI EURIDICE E LA MORTE DI ORFEO bero registrare un passo indietro verso la tradizione ermeneutica medievale. In realtà, Raimondi, scagionando Orfeo in virtù della potenza ineluttabile dell’amore, finı̀ per affermare indirettamente l’autonomia del suo linguaggio formale, aggiornato sulle più recenti novità artistiche, e il potere sovrano delle immagini. GERHARD WOLF SAPPI L’IMMAGINE. LE METAMORFOSI DI ORFEO DA OVIDIO A RILKE Orfeo: figura inesauribile del mondo mediterraneo antico tra mito, religione e arte; filosofo-poeta della cosmogonia, che canta gli arcani dell’universo; vate teosofico venerato nei culti misterici; argonauta che salva la barca e i compagni con la sua voce; cantore la cui lira placa la natura, incantando non solo le bestie e gli alberi, ma anche dei, uomini e donne, e persino le ombre dell’Ade; amante tragico, che resuscita e perde una seconda volta la sua defunta sposa per colpa di uno sguardo proibito; traditore delle donne dilaniato dalle menadi. Figlio di Apollo per gli uni, più affine al suo fratello Dioniso per gli altri.1 Eschilo nella sua perduta tragedia Le Bassaridi vede nella fine del cantore una punizione per aver tradito i seguaci di Dioniso ed essersi associato al mondo di Apollo.2 Orfeo è infatti partecipe dei due poli (nella acutizzazione nietzschiana), caratterizzato da una tensione interna che non si può circoscrivere in una mito-biografia stabile: il mito lavora variandosi, crea tessuti con fili antichi e nuovi, perde le trame e le ricuce con altre, i poeti si appropriano del mito e lo raccontano in tanti modi.3 L’Orfeo dei poeti e il padre dell’orfismo sembrano a volte figure del tutto separate; il papiro con commento ai misteri trovato a Derveni (seconda metà del 5 sec. a.C.) e le Metamorfosi di Ovidio apparentemente non hanno nessun legame tra di loro. Ciononostante, nella figura del poetaamante che scende negli inferi per ritrovare la ‘sua’ Euridice, si sentono tutte le oscillazioni profonde del personaggio. E questo vale anche per le letture postclassiche del mito: la polarità si re-incontra tra la Fabula di Orfeo di Poliziano e un Pico della Mirandola che crede di essere iniziato al sapere orfico. Come è noto, la storia che ha reso famoso il nostro eroe dal tardo medioevo in poi si svolge in quattro tableau: la sua discesa negli inferi, dove canta davanti a Persefone e Ade; il suo cammino con 1 Cfr. THEWELEIT, 1988; MUNDT -ESPÍN, 2003; STORCH , 2006; AVANESSIAN, BRANDSTETTER e HOFMANN, 2010. 2 Cfr. DI MARCO , 1993. Euridice, ancora ombra, che perde girandosi prima di arrivare alla luce del giorno; il suo canto nella natura che muove le pietre, gli alberi e gli animali; e infine la sua morte crudele, dilaniato dalle donne trace. Sono episodi formulati relativamente tardi del mito e si trovano in versioni elaborate solo nel mondo latino, nelle Georgiche di Virgilio (IV, 453-527) e nelle Metamorfosi di Ovidio (libri X e XI, 1-84). Gli studiosi della letteratura antica hanno discusso in extenso la differenza sostanziale tra i due adattamenti della storia di Orfeo: 4 senza dubbio Ovidio risponde in modo raffinato, e a volte comico se non ironico, al tono solenne di Virgilio. Nelle Georgiche, la storia di Orfeo è inserita nell’elogio delle api e dell’apicultura, più precisamente al centro del racconto di Proteo, divinità marina dall’aspetto mutabile e onnivedente, che spiega ad Aristeo la ragione della scomparsa del suo sciame: è la punizione che subisce perché perseguitò la novella sposa di Orfeo, Euridice, che per sfuggirgli morı̀ morsa da un serpente sulla riva di un fiume. Nelle Georgiche Orfeo è l’amante disperato che, con la sua lamentatio cantata (il cui testo non è però riportato), convince gli dei degli inferi. Nel cammino verso la luce si gira incauto per vedere Euridice in un raptus demenziale, gesto perdonabile, come sostiene il verso, se non fosse che i Mani non sanno perdonare e gli avevano vietato di voltarsi, come Virgilio racconta quasi a ritroso, invertendo la seguenza temporale. Quando si accorge di svanire, Euridice ammette che lei e Orfeo sono perduti per tanto furore, ma non accusa l’amante. Le braccia di Orfeo che la cercano si aggrappano al vuoto. Egli non si riprenderà e lamenterà nella solitudine della natura, prima per sette mesi in una grotta poi verseggiando in paesaggi elegiaci: le tigri e gli alberi lo ascoltano, canta tristemente con lui un usignolo. Orfeo si oppone a un nuovo amore e perciò viene trucidato dalle donne 3 4 Cfr. SCHLESIER, 2010. Cfr. p. es. SEGAL, 1989; ANDERSON, 1982 e KLODT, 2004. 156 trace, nella notte della festa dionisiaca, e le sue membra vengono disperse. La testa portata via dal fiume Ebro continua a invocare il nome di Euridice con una lingua ormai fredda per la morte. La fine di Orfeo ha un’impostazione dionisiaca per un doppio motivo: non soltanto per la motivazione della vendetta delle baccanti (secondo alcune versioni, le donne lo uccidono per non essere state accettate nei misteri orfici),5 ma anche per la similitudine con la morte sciamanica del dio, il cui corpo era stato a sua volta smembrato e sparso nella natura. L’Orfeo di Virgilio è un exemplum dell’eccesso dell’amore individuale, del furor amoroso, mentre le Georgiche celebrano la società basata sulla coltivazione della natura, non sull’amore. Il principio del labor (Georg. I, 145: «labor vincit omnia») viene infatti evocato dal popolo delle api, mentre neanche nella morte Orfeo sembra volersi restituire al ciclo della natura, ma difende con una lingua ormai fredda il nome del suo amore. Lo scenario cambia fondamentalmente in Ovidio. Qui la storia di Orfeo non è più il nucleo inserito in un argomento sovraordinato, ma diventa essa stessa cornice di altri racconti, abbracciando tutto il decimo libro e una parte dell’undicesimo delle Metamorfosi. Il racconto di Orfeo è laconico, sorprende – come diversi studiosi hanno osservato – per una certa assenza di sentimento da parte del protagonista e per la mancanza di compassione suscitata dalle rime. Euridice muore in un solo verso, ancor prima che venga fatto il suo nome. Orfeo discende nell’Ade e si presenta, sı̀, davanti a Persefone e al re degli inferi, ma dove ci si aspetta un canto tanto ineffabile quanto commovente – e perciò taciuto da Virgilio – in Ovidio Orfeo diventa l’avvocato della propria causa in una orazione giuridica con argomenti topici sulla mortalità degli esseri umani. Comunque, vince la causa e mentre cerca la propria sposa tra le ombre recentemente arrivate, viene descritto, seguendo Virgilio, come il tempo degli inferi si interrompa, Sisifo si sieda sulla pietra e si fermi la ruota di Issione. L’ombra Euridice si presenta camminando a fatica a causa del morso del serpente e, mentre attraversano l’oscura galleria verso la superficie terrestre, Orfeo, da vero gentiluomo, si gira perché teme che la sua sposa sia troppo debole e anche per il desiderio di vederla. Ovidio poi riprende da Virgilio il motivo del vano abbraccio, che si presta anche alle raffigurazioni della scena, Euridice svanisce nel nulla senza lamentarsi; del resto, aggiunge il testo, come avrebbe potuto farlo, essendo tanto amata? 5 Cfr. il mitografo Conone nelle sue Diegesi (Dihegeseis) secondo SCHLESIER, 2010, p. 59, nota 23. PAROLE COME MUSICA Sette giorni (non mesi) di lutto seguono, tre anni passano durante i quali Orfeo decide di tenersi lontano dalle donne per fedeltà o delusione, comincia ad amare gli adolescenti e insegna la pratica dell’omofilia anche agli uomini di Tracia. A questo punto Ovidio pianifica il terzo tableau: Orfeo seduto su un prato in cima a una collina dove non vi è traccia d’ombra («umbra loco deerat»). Il luogo contrasta notevolmente con quello dove Orfeo verseggiava pochi versi prima, il mondo delle ombre. Le ombre arrivano però presto sulla distesa erbosa, portate dagli alberi che si radunano intorno a Orfeo, e trasformano il prato in un locus amoenus. Il testo si diverte nell’elencare ben ventisette tipi di piante, in molte delle quali si riconoscono esseri umani che hanno subito una metamorfosi: si risveglia la loro identità nascosta. In accordo con la situazione elegiaca Ovidio racconta solo la storia del cipresso, albero del lutto per antonomasia – e ‘frutto’ della metamorfosi di un amore tragico. Orfeo accorda quindi il suo strumento e comincia a cantare con un prologo leggermente ironico: annuncia di voler intonare un canto con uno stile assai leggero, perché non avrebbe trattato temi cosmogonici o eroici, ma storie di ragazzi amati dagli dei e di giovani donne punibili per passioni proibite. A questa introduzione fa seguire le favole di Ganimede; quella, più estesa, di Giacinto; dei Cerasti e delle Propètidi (un’eziologia della prostituzione); di Pigmalione e della sua statua d’avorio che diventa viva grazie a un generoso gesto di Venere; della loro discendente Mirra e del suo amore incestuoso per il padre; e di Adone, figlio di Mirra, nato dall’albero in cui la madre venne trasformata, cioè del giovane che incarna la bellezza e fu amato da Venere. La dea racconta a sua volta al giovane la storia di Atalanta e Ippomene e, poco dopo, lo vedrà morire ucciso da un cinghiale. Con la morte di Adone, il suo sangue mutato nei fiori fugaci degli anemoni e il lamento di Venere, si conclude il canto di Orfeo nel teatro della natura, canto che attirava con la lira e la voce gli alberi, le bestie e le pietre. Segue l’attacco delle baccanti. In un primo momento le pietre sono ancora vinte dal canto orfico, ma poi la strepitante musica dionisiaca delle donne lo sopraffà e cosı̀ le trace furibonde attaccano prima il pubblico del cantore e alla fine lo stesso Orfeo muore, ferito sotto il lancio incrociato di pietre, blocchi di terra, rami di alberi e strumenti agricoli. La natura lo compiange, gli alberi perdono le proprie foglie, i fiumi traboccano, mentre le membra del cantore-poeta vengono disperse. Anche in Ovidio la te- GERHARD WOLF – SAPPI L’IMMAGINE. LE METAMORFOSI DI ORFEO DA OVIDIO A RILKE 157 sta galleggia nel fiume Ebro, ma qui lo fa anche la lira: ambedue piangono. Mentre la lira piange senza parole («flebile nescio quid queritur lyra»), la lingua non pronuncia il nome di Euridice, ma mormora nelle acque e le rive danno l’eco.6 Insomma, si perdono le parole e non si capisce se Orfeo pianga la propria morte o piuttosto quella della consorte. Lira e testa raggiungono il mare e infine l’isola di Lesbo (dove Ovidio fa apparire un serpente che cerca di mordere la testa e viene pietrificato da Apollo), mentre l’ombra di Orfeo discende nell’Ade, dove riabbraccia, pieno di desiderio, la sua sposa. In un tono leggero, se non comico, i versi descrivono la vita di coppia negli inferi, dove i coniugi si guardano, si seguono e si girano l’uno verso l’altro senza nessun pericolo. Dioniso a sua volta punisce le baccanti perché hanno ucciso il vate dei suoi sacri arcani, trasformandole in sterpi e alberi bassi. Con l’apparizione e gli interventi di Apollo e Dioniso dopo la morte del protagonista, Ovidio sottolinea la doppia natura o il potenziale bilanciarsi dei due poli nella figura di Orfeo. Senza dubbio l’immagine di Orfeo che canta davanti agli animali e agli alberi, in un palcoscenico naturale creato dalla sua stessa arte, è modellata su quella di Apollo che suona la lira (ma non canta) davanti alle muse sul Parnaso. La lira, strumento di Apollo, che da Virgilio è menzionata solo una volta con l’espressione cava testudo (un riferimento all’invenzione da parte di Hermes, che la creò dal carpace di una tartaruga), diventerà invece un elemento chiave nelle Metamorfosi. In esse, la morte di Orfeo, risultato del conflitto tra due musiche (la sua e quella delle baccanti), è anche la fine della consonanza tra strumento e voce umana: la lira da sola può emanare un sentimento, ma il suo lamento rimane indeterminato; la lingua per conto suo perde le parole e i suoi singhiozzi si sciolgono nel mormorio del fiume. Sarà compito del poeta-autore, cioè Ovidio, di saperlo cantare con le proprie parole senza strumento e in questo l’episodio ovidiano di Orfeo assume una forte dimensione poetologica. Non si tratta di metamorfosi né nel caso del vate né in quello di Euridice, sebbene Ovidio inserisca qua e là un momento metamorfico e il canto orfico trasformi la natura, creando una pace temporanea tra le creature, facendo camminare gli alberi e piangere i sassi. Il canto di Orfeo è il racconto-cornice più lungo delle Metamorfosi e la parziale rinuncia alla forza evocativa di immagini ed emozioni nella cornice stessa è una strategia deliberata: nessuna parola sulla bellezza del cantante e della sua sposa, si tratta dell’amore coniugale moderato di un cantautore professionale che si intrattiene con ragazzi per consolarsi. Come si è detto, i versi talvolta hanno un sottotono ironico, diretto forse verso i poeti della Roma imperiale, Virgilio per primo, e il loro pathos, ma anche verso la celebrazione della vita matrimoniale dei codici morali augustei. Nella lieta quotidianità della coppia nell’Ade si prefigurano i finali lieti delle opere liriche della prima età moderna, sebbene questi ultimi saranno collocati in cielo o sulla terra, a partire da un Rinuccini che non menziona neanche il divieto di guardare indietro.7 Le Metamorfosi di Ovidio sono un’ékphrasis dell’instabilità delle forme tra i poli della pietrificazione e della liquefazione, un commento poetico al popolo delle statue nei fori e per le strade, negli stadi e teatri romani. Ovidio esplora le interazioni del polimorfismo della natura e di quello dell’arte, racconta il corpo umano che si trasforma, in un linguaggio poetico che spinge gli artisti a emularlo o superarlo, fino al gruppo di Apollo e Dafne del Bernini. Le scenografie del canto orfico descritte in Ovidio, sia per gli inferi (seguendo Virgilio) sia sulla collina con gli alberi e animali, sono tableaux velocemente abbozzati che non raggiungono il livello di elaborazione ed evocazione visiva di altri episodi delle Metamorfosi. Però nel cuore della tragedia amorosa di Orfeo c’è un momento puramente visivo: il suo sguardo nel girarsi verso Euridice «avidusque videndi | flexit amans oculos» (Met. X, 54-55). Non si tratta di un evento musicale/poetico né di un suo effetto, anzi i due amanti camminano nel silenzio assoluto («muta silentia»), ma dell’irruzione del vedere nelle tenebre del cammino («obscurus, caligine densus opaca») verso la luce: Orfeo che ha vinto con la musica, perderà con l’occhio. Sarà il punctum o contrappunto per le tante opere liriche che girano intorno a questo momento, che però rimane di per sé estraneo alla musica: point of no return, passaggio tra due strutture del tempo e dello spazio, punto di partenza «aus der Stille» per invenzioni musicali meravigliose come la famosa aria Che farò senza Euridice dell’opera di Gluck.8 Ma nella riduzione al momento, in questo Augenblick (batter d’occhio), tema fondamentale per Dante e Goethe che rimediteranno a loro modo il dramma di Orfeo,9 Cfr. SCHLESIER, 2010. Cfr. KLODT, 2004; HUSS, 2010; WISSMANN, 2010. 8 Cfr. sul problema anche KREMS, 2009. 9 Cfr. per Dante e Orfeo il saggio di Theresa Holler in questo catalogo. Qui mi riferisco piuttosto alla voglia (pericolosa) di immobilizzare il Momento: in Dante, per esempio, il desiderio di perdersi nello sguardo negli occhi di Beatrice invece di proseguire il cammino verso la visione finale della Trinità, che sarà pure istantanea, e in Goethe il concetto ancora più pericoloso di un momento di bellezza assoluta nel Faust dove si vorrebbe dire: «Verweile doch, Du bist so schön» (JOHANN WOLFGANG VON GOETHE, Faust I, V, 1700). 6 7 158 PAROLE COME MUSICA il mito non fa nascere un’immagine. Ricordiamo al contrario l’incontro di Perseo e Medusa, incontro mortale per lei che diventa immagine-oggetto e produce immagini; la moglie di Lot (in una storia di omosessualità, incesto e metamorfosi che farebbe ‘onore’ a Ovidio) trasformata in colonna di sale per aver guardato indietro verso la città ardente di Gomorra; la donna con il flusso di sangue che segue Cristo e guarisce toccando l’orlo della tunica del Salvatore facendolo girare verso di lei – donna identificata dalle leggende medievali con la stessa Veronica che in una sosta del cammino verso il Golgota offre il suo velo a Cristo e sul cui tessuto rimane l’impronta delle sembianze di lui: storie di incontri e sguardi tra vita e morte, aversio e adversio, turning points, da cui nascono immagini.10 Niente di questo tra Orfeo e Euridice, non rimane traccia dell’incontro tra questo corpo terrestre e un’ombra, solo lo stimolo di una disperazione che si trasforma in musica e poesia, mentre la figura della donna svanisce, disappare. Ma le immagini ci sono, su un altro piano. In primo luogo, ed è l’aspetto più ovvio, ci sono le raffigurazioni artistiche dell’incontro, tema piuttosto raro al di fuori dei cicli orfici.11 Qui mi limito a uno sguardo fugace al bulino di Raimondi (cat. 40) che riscrive l’incontro consapevole delle interpretazioni medievali di Ovidio come mostra il saggio di Marzia Faietti. In esso riecheggia l’identificazione di Euridice con Eva e di Orfeo con Adamo (che, ricordiamo, fu il re degli animali) o con Cristo, il nuovo Adamo, e le iconografie del lapsus, cioè del peccato originale, dell’espulsione dal Paradiso e di Cristo che torna dal Limbo. L’interpretazione grafica del testo di Ovidio da parte di Raimondi, lavorando sulla base della menzionata tradizione iconografica, presenta novità inaudite: un Orfeo che accompagna la sposa suonando la lira, una coppia già uscita dalle tenebre e non è Orfeo, bensı̀ Euridice, a guardare indietro verso la cava dell’abisso. L’immagine rimane ambigua: Euridice sembra consapevole che non si salverà dalla seconda morte, si assume forse la responsabilità dell’impresa fallita? Oppure è annoiata da un Orfeo che non si interessa di lei, che non la guarda: mentre Euridice si comporta come una Venere pudica, egli espone il suo corpo nudo quasi in una esibizione autocelebrativa e si concentra sull’atto di sfiorare il suo strumento con l’arco, proprio come se quest’ultimo fosse un sostituto di lei. L’Arte ha vinto l’amore, ma di amore canterà Orfeo, presto intrattenendosi con ragazzi. In secondo luogo ci sono le immagini ‘scritte’ che si nascondono – o meglio, si svelano – nel canto stesso di Orfeo. Negli episodi del canto, Ovidio dimostra tutta la sua arte ecfrastica, racconta di amori tragici e/o scandalosi, di corpi belli e mostruosi, di trasformazioni di membra e sangue in fiori, alberi, bestie e ancora fiori, ma racconta anche di una statua resa viva dall’amore e di un divino intervento sull’opera di un’artista, lo scultore Pigmalione.12 Questi è l’alter ego di Orfeo ed esiste un legame sottile tra scultura e musica, che Rilke definirà «il respiro delle statue»: 13 da un lato un amore perduto che allontana Orfeo dalle donne, suscitando il suo canto che incanta la natura; dall’altro un artista a sua volta frustrato dalle donne, che scolpisce un’opera di avorio la cui forza mimetica è tale da far innamorare il suo creatore. La corrispondenza speculare e antitetica tra i due artisti si nota fino nei dettagli, per esempio nel lavoro analogo del pollice del musicista e dello scultore: se il primo sfiora le corde con il pollice per sentire («sensit») l’accordo dei vari toni (Met. X, 145-146), il secondo tasta con il pollice il polso della statua («saliunt temptatae pollice venae»): corpus erat (X, 289). Ritmo e polso sono la base dei processi vitali secondo il sapere poetico, in linea con le teorie mediche antiche. Ovidio non insiste su un paragone tra udito e occhio, ma evoca un senso che abbraccia ambedue, cioè il tatto: come Orfeo tocca le corde, Pigmalione tocca di continuo la sua opera, fin quando essa non si riscalda, si ammorbidisce, sente a sua volta il bacio e arrossisce. Sebbene la storia dello scultore, posta al centro del canto di Orfeo, sembri una consolazione immaginaria per il protagonista del tragico racconto-cornice, le conseguenze dell’amore di Pigmalione non sono meno nefaste in un percorso transgenerazionale. Il desiderio insano di Mirra per il padre, nato da Paphos, a sua volta figlio dell’artista e della sua statua vivente ma senza nome, è simmetrico all’incestuoso rapporto di Pigmalione con la sua opera poiché, secondo un diffuso topos aristotelico, l’opera è figlia del suo autore. Perciò in Mirra può manifestarsi un desiderio per il proprio creatore che come frutto – nato dall’albero in cui fu tramutata – avrà Adone, bello come una statua, con cui si conclude il ciclo, perché anche l’amore di Venere per l’efebo ha una dimensione incestuosa.14 Ovidio ricorda il giovane paragonandolo a un amorino di quelli che si dipingono sulle tavole, cui mancherebbe solo la faretra (una volta aggiunta a lui o tolta a loro, sarebbero uguali), Cfr. WOLF, 2002. Per l’iconografia di Orfeo si vedano SCHRÖTER, 2004; BLUMENRÖDTER, 2004; KREMS , 2004; MUNDT-ESPÍN , 2003. 12 Cfr. VIARRE , 1964; ID ., 1968. Nella sua tarda poesia «Musik». Per la bellezza di Adone e le sue interpretazioni si veda MENNINGHAUS, 2003. 10 11 13 14 GERHARD WOLF – SAPPI L’IMMAGINE. LE METAMORFOSI DI ORFEO DA OVIDIO A RILKE 159 alla scultura si associa qui la pittura. In ultima analisi, Adone discende da Venere stessa che paga cosı̀ il prezzo per il dono fatto a Pigmalione – che come modello per la sua opera aveva naturalmente pensato a lei. Dopo la statua femminile animata, che ne occupa la parte centrale, il canto si conclude con l’esaltazione di un corpo maschile, incarnazione assoluta della bellezza, desiderato da Venere e Persefone, da donne, ma anche da uomini. Il mito conosciuto dal lettore di Ovidio vuole Adone amante di Venere per un terzo dell’anno e di Persefone per un altro: come Orfeo, anche lui sa attraversare la soglia degli inferi. E Venere proclama la «repetita mortis imago», cioè una festività annuale primaverile in suo onore, celebrata soprattutto dalle donne. Esse compiangevano e festeggiavano Adone con capelli e vestiti sciolti in una festa piuttosto dionisiaca, dedicata al desiderio femminile extraconiugale.15 Nelle Metamorfosi alla storia di Adone segue immediatamente quella di Orfeo, cosı̀ ben preparata dal suo proprio canto: si tratta di un gioco complesso di relazioni pericolose tra vita e morte, in cui le opere divine e umane si intrecciano, presentato ad animali e alberi in un canto di stile leggero, come lo definisce Orfeo e, con lui, l’autore che conosce bene il pubblico e i palcoscenici romani. Alla fine lo stesso Orfeo diventa quasi il personaggio di una rappresentazione teatrale (XI, 22), venerato dagli animali selvaggi ma cacciato come fosse una preda dalle donne di Tracia, in un’inversione dei ruoli tradizionali di una scena da anfiteatro. La fortuna della storia di Pigmalione di cui Victor Stoichita ha seguito le vicende in uno splendido libro,16 non sarà meno ricca e intensa di quella di Orfeo. La favola si dissocerà quasi del tutto dal suo contesto orfico e, naturalmente, la coppia dell’artista e della sua opera si presta più alle arti figurative che non alla musica. Però, in modo sottile il sottofondo musicale delle Metamorfosi persiste e viene portato in superficie dalle immagini medievali. Come abbiamo visto, Ovidio ha creato un parallelismo tra la lira e la statua attraverso il senso del tatto, cioè il tocco dell’artista. Pigmalione non canta, né suona uno strumento davanti alla sua statua: è la scena stessa a essere cantata. Cosı̀ il ritmo della canzone ha la sua parte nel far battere il polso nel corpo d’avorio, mentre invita il lettore a rendersi conto di un ulteriore livello dell’operazione poetologica. La musica che ascoltiamo consiste ‘solo’ di parole, la lira non suona, ma vie- ne simulata dal suono e dal ritmo dei versi: imitano il canto di una voce umana, accompagnato da uno strumento che evoca amori e morti vari, tra cui l’animazione di una statua, presentato ad alberi e animali. In questo modo la poesia si colloca tra musica e scultura. Mentre Ovidio accenna solo sottilmente all’analogia tra lo scultore e il cantore, il Pigmalione del medioevo intrattiene la sua opera in tutti i modi, come si legge nel Roman de la Rose e si vede nelle illustrazioni: ballando e cantando, adoperando un impressionante numero di strumenti musicali a corde, a fiato e a percussione, includendo spesso anche un orologio (cioè un automata). Come osserva Stoichita, a volte Pigmalione sembra più un giullare che non uno scultore e, sebbene l’animazione della statua rimanga opera divina, la musica contribuisce a far battere il «polso» (e il respiro) dell’amata opera, secondo un ancora più elaborato concetto di concordia tra musica e ritmi di vita, tra corde e cuore, sulla base della medicina galeniana.17 Pietro d’Abano, nel 1303, ritrova tutti gli accordi, la quarta, la quinta e l’ottava, nell’intensità e durata del polso e lo confronta esplicitamente con il suono della lira.18 Infine, nello stesso anno 1762 che vede la prima mise en scène dell’Orfeo ed Euridice di Gluck, Jean Jacques Rousseau scrive il melodramma Pygmalion in cui non è più un intervento divino a rendere viva la statua, ma la forza dell’arte e della musica – strumentale in questo caso. Il melodramma viene messo in scena per la prima volta solo nel 1775 a Parigi, un anno dopo la prima della versione francese dell’opera di Gluck. Nel 1776 Canova termina la sua prima opera monumentale, il gruppo marmoreo di Orfeo ed Euridice che cerca di eternizzare il famoso Augenblick. La seconda metà del Settecento è un periodo orfico e pigmalionico. Mentre nelle opere liriche si sperimentano nuove forme di interazione tra danza e canto, Lessing e Winckelmann riflettono sulla scultura e il suo rapporto con il tempo e la poesia. Nel 1778 Herder pubblica un libro sull’arte plastica, in cui elogia il senso del tatto, che porta nel titolo un riferimento a Pigmalione: Plastik: Einige Wahrnehmungen über Form und Gestalt aus Pygmalions bildendem Traume (Riga, 1778). Infine nel trattato La Lyra. Della natura e dell’effetto della poesia lirica (Die Lyra: Von der Natur und Wirkung der lyrischen Dichtung) pubblicato nel 1791, Herder torna sul rapporto tra musica e poesia, tema fondamentale per 15 Il famoso idillio XV di Teocrito ironizza sulla festa nel narrare delle Adonie di Siracusa. 16 Cfr. STOICHIT˛ A , 2008. 17 Cfr. ivi, pp. 44-54. Per il polso, il confronto tra corde e cuore e l’analogia corpo-lira si veda il saggio introduttivo di Susanne Pollack. 18 Cfr. ivi, p. 52 con bibliografia. 160 PAROLE COME MUSICA tutto il suo pensiero, per definire in modo paradossale la lirica – come genere letterario – un canto senza canto e lira. Secondo Herder la voce umana stessa consiste di ‘‘lira’’ e ‘‘flauto’’, facendo riferimento all’anatomia della laringe e alle sue corde vocali; 19 per l’autore l’origine della lingua è il suono che esprime emozioni e sentimenti in modo immediato. Perciò il ruolo di Orfeo, ossia del suo canto, può essere visto in due prospettive opposte: come un’arte arcaica, oggi superata, che in tempo remoto serviva per addomesticare le bestie (un’allegoria del ruolo della musica e della poesia nel processo della civilizzazione, analogamente a quanto troviamo nell’ars poetica di Orazio), o come profondo ri-cordare delle origini, un sapere sacro, reso presente nella letteratura in forma di salmi, òdi, elegie o altre poesie liriche. Quest’ultima è ovviamente l’opzione preferita da Herder, che nello stesso momento insiste sulla formazione e sul ruolo delle immagini nella costituzione del canto e della poesia. Il tema del rapporto tra le arti (musica e scultura in primo luogo) che si pone intorno alla figura di Orfeo non si esaurisce con l’epoca di Herder, Rousseau e Gluck, ma rimane un forte punto di riferimento per tutta la letteratura ottocentesca europea, per non parlare delle altre arti. Lo incontriamo di nuovo in Nietzsche e Rilke, per menzionare solo due importanti autori orfici. I Sonetti a Orfeo 20 sono il più esteso ciclo della letteratura tedesca moderna che faccia riferimento al mitico vate. Se in conclusione mi permetto alcune osservazioni sui sonetti, la ragione è duplice: per il sottile modo in cui Rilke riprende i temi individuati in Ovidio da un lato e per il ruolo delle immagini dall’altro.21 È noto che Rilke scrisse i sonetti nel febbraio del ’22 come se gli fossero stati dettati. Per il Natale del 1920 Baladine Klossowska (detta Merline) gli aveva donato un Ovidio in versione latina e francese, mentre l’8 novembre dell’anno seguente acquistò per lui la riproduzione di un disegno oggi ricondotto alla bottega di Cima da Conegliano (cat. 3), che fu affissa sopra la scrivania dove il poeta avrebbe composto i sonetti. Il foglio rappresenta un Orfeo giovane, dallo sguardo vuoto e dai capelli ricci, che – seduto ai piedi di un albero – tocca il suo strumento, una lira da braccio. Ci sono pochi animali intorno a lui, un uccello su un ramo,22 a destra una coppia di cervidi e di lepri: animali appena abbozzati o contornati, sembrano davvero «nati dal silenzio» come li descrive il primo sonetto che non esalta una ‘riunione’ di alberi come la scena in Ovidio, ma una singola pianta: «E si levò un albero. O elevazione pura. | Orfeo canta. O albero che nell’orecchio sale!» (I, 1). La poesia fa eco alla corrispondenza, nel disegno, tra albero e corpo che l’artista ha creato con il lungo busto di Orfeo, posto davanti al tronco. Tra la rigida gamba destra e lo strumento alzato in diagonale (appoggiato sul braccio sinistro, che a sua volta posa su un sasso, mentre l’altro tiene il tenero arco), si apre uno spazio in cui sono collocate le coppie di animali, mentre sopra la lira si estende un singolo ramo che termina in una corona di foglie simile a una nuvola. Corpo e tronco, gamba, lira e ramo formano lo spazio uditivo che coinvolge gli animali. Sebbene nei sonetti non si trovino riferimenti più espliciti a questo disegno o ad altre opere d’arte, le poesie di Rilke hanno una forte dimensione iconica, trattando l’immagine come alter ego della parola e del canto. Questo atteggiamento culmina nel breve e denso sonetto I, 9 con il verso: «Sappi l’immagine». Il sonetto insiste sul doppio regno dei vivi e dei morti: Orfeo con la sua lira, figura del poeta, abbraccia ambedue, e perciò ha accesso a un sapere profondo, oltre lo specchio. Orfeo in Rilke è un Narciso cosciente. «Sapere l’immagine» non significa tanto rendersi conto di un’illusione, ma accettare l’immagine come una fonte per la comprensione della natura umana tra (e oltre) la vita e la morte. Cosı̀, diventa necessariamente imperativo: sappi l’immagine, e siamo, per usare un’altra espressione di Herder, ancora nel regno dell’occhio dell’udito. I Sonetti a Orfeo sono stati composti in memoria di Wera Ouckama Knoop, danzatrice che morı̀ giovanissima alla fine dell’anno 1919. In una lettera alla contessa Sizzo (12 aprile 1913), Rilke scrive: Cfr. HERDER, 1877-1913, XXVII, p. 169. Per i Sonetti a Orfeo si veda anche il commento di LEISI, Goldhahn, uno smeriglio (= Merlin in tedesco) e quindi un riferimento a Baladine. 23 «In der Zeit, die ihr noch blieb, trieb Wera Musik, schliesslich zeichnete sie nur noch, als ob der versagte Tanz immer leiser, immer diskreter noch aus ihr ausgäbe» (SCHUSTER, 2007, p. 358; traduzione dell’autore). 19 20 1987. 21 Per le seguente osservazioni su Rilke si vedano AVANESSIAN , BRANDSTETTER e HOFMANN, 2010; SCHUSTER, 2007. 22 L’alter ego del cantore o, secondo l’interpretazione di Almut Nel tempo che restò a Wera [in cui non poteva più danzare a causa della sua malatia] esercitava la musica, e alla fine solamente disegnava come se la danza, non più concessa a lei, in forma sempre più discreta emanasse di lei.23 Queste righe contengono elementi di una fenomenologia del disegno che in modo più elaborato troviamo già nella conferenza su Rodin (1907). Se- GERHARD WOLF – SAPPI L’IMMAGINE. LE METAMORFOSI DI ORFEO DA OVIDIO A RILKE condo Rilke i fogli del maestro non hanno niente di effimero, incidentale o preparatorio: sono piuttosto qualcosa di definitivo che circoscrive in un niente un contorno rapido, preso quasi senza fiato dalla natura, contorno di un contorno ‘depositato’ da esso stesso, nelle più tenere e preziose linee che ci siano. Disegnare in questo senso è un’espressione ultima, ma, allo stesso momento, gesto non intenzionale, non rappresentativo, non traccia di un nome, ma puro movimento, di una danza libera di figure oniriche, tra fiore e corpo, metamorfosi appena tracciate su un foglio.24 Rilke tornerà sul disegno nel sonetto II, 18 («Danzatrice, d’ogni trascorrere | trasposizione nel passo») nell’ultima terzina: «E nelle immagini: non è rimasto il disegno | che l’oscura linea dei tuoi cigli | fulminea agli orli della giravolta imprimeva?». Il tema della danza (antica e moderna) si presta molto al mondo di Orfeo. Come Gabriele Brandstetter ha dimostrato, la danza è la forma artistica più congeniale al mito, basta pensare solo alla scena cruciale dell’Augenblick in cui Orfeo si gira verso Euridice: coreografia alla soglia tra l’incontrarsi e perdersi in uno spazio, definito o trasformato dalla seguenza dei movimenti, spazio transitorio creato dei corpi danzanti, figura del tempo. Cito Brandstetter: Le poesie di Rilke come l’opera di Gluck con il loro nuovo concetto della danza come parte dell’azione drammatica dimostrano, nel segno del mitico incantatore dei morti, quello che significa coreografia: apertura, formazione e descrizione di quello spazio che ha sempre già dismesso da se stesso il movimento del corpo vivo [...]: una scrittura di ricordo di quei corpi in movimento che non possono essere tenuti presente.25 161 in un dialogo continuo con il pensiero di Nietzsche, sta proprio nella partecipazione del vate al regno delle due divinità. Nella sua opera giovanile La Nascita della Tragedia dallo spirito della musica, il filosofo aveva confrontato la forza dionisiaca della musica alla forma apollinea della scultura, l’immersione nell’orgiastica pandemonia della natura al principio dell’individuazione, che si manifesta in un corpo solare e statuario. Anche se Nietzsche, in queste e altre opere, ritiene le due dimensioni inseparabilmente legate – anzi, il suo ideale sta proprio nella fusione delle due –, egli tuttavia mantiene il primato della musica. Non si tratta però di una musica cosmica apollinea come quella della concordia delle sfere, ma di una musica primordiale, musica del caos e del polimorfismo, distruttiva e procreativa nello stesso momento. Nei suoi commenti a Nietzsche il giovane Rilke scrive: E con ‘‘musica’’ non si intende quella prima oscura ragione [Ursache] della musica e perciò la ragione di tutta l’arte? Forza libera, mossa; abbondanza divina? Anche la pittura e la scultura hanno solo un senso: di interpretare quella musica, di consumarla nelle immagini.26 Rilke fa riferimento a due concetti diversi di musica: quella che, secondo Nietzsche, è anche danza e sta all’origine di tutte le arti e quella che è una di esse. I sonetti a Orfeo prendono vita dal tentativo di ricreare un canto orfico tra Dioniso e Apollo, in una permanente ricerca dell’equilibrio tra i flussi di energia e l’elaborazione di forma, tensione che si specchia nella scelta del sonetto stesso come forma letteraria, adattato e trasformato liberamente. Sono sonetti dedicati al citaredo, ma come si legge in I, 5: Siamo partiti dai connotati quasi inesauribili della figura di Orfeo nel mito e arrivati ai significati e alle interpretazioni quasi inesauribili del mito e dei suoi personaggi nella riflessione sugli incroci tra le arti nelle culture europee attraverso i secoli: tra musica strumentale e canto, opera lirica e melodramma, lirica e poesia epica, scultura, pittura e disegno, infine danza o balletto – e la lista non finisce qui, se pensiamo solo ai film più noti Orfeu negro o Orphée, se non agli elementi orfici meno espliciti nel cinema. Invece di proseguire in una simile esplorazione interpretativa, vorrei gettare un ultimo sguardo alla natura dialettica del personaggio di Orfeo tra Apollo e Dioniso. L’attrattività di Orfeo per Rilke, che si è formato I sonetti mappano, per cosı̀ dire, le oscillazioni della figura di Orfeo tra la dimensione sciamanica 27 e apollinea, ma essi superano o trasformano tale polarità in una ricchezza immaginativa, in cui l’immagine non è un derivato, ma sta alla base del processo poetico stesso, a fianco della musica. In tutto ciò, i sonetti si rivelano da un lato un’opera scritta con la riproduzione di un disegno davanti agli occhi e una grande sensibilità per le arti figurative in generale, dall’altro una profonda lettura delle Metamorfosi di Cfr. RILKE, 1984, pp. 85 sg. BRANDSTETTER, 2010, p. 197 (traduzione dell’autore). Qui si pensa all’opera di Gluck nella coreografia di Pina Bausch. 26 RILKE , 1927, VI, p. 1176 (traduzione dell’autore). 27 Cfr. I, 26, il sonetto conclusivo della prima parte ha un inizio apollineo, in cui Orfeo è visto come garante dell’ordine cosmico. Con la morte del citaredo il suo canto si incorpora nella natura: «Là ancora tu canti. | O Iddio perduto! Traccia che non ha misura! | Solo perché ti spartı̀ smembrandoti all’ultimo l’odio | siamo chi ode, adesso, e bocca della Natura». 24 25 Orfeo è: è sua la metamorfosi | in questi e quello; non ci diamo affanno | d’altri nomi: per tutte ad ogni volta | è Orfeo, se canta. Viene e va. 162 Ovidio: l’opera di Ovidio non solo contrappone al corso dei versi l’abisso del vedere (come vuole il mito di Orfeo), ma è un’inesauribile riflessione sulla stabilità e mutabilità delle forme, in cui si elabora una propria dimensione iconica, che a volte può essere comica o ironica. Dopo la morte di Orfeo e la vendetta di Dioniso, il Dio si sposta con i suoi seguaci alla corte di Mida, iniziato all’orfismo, dove ritrova il fuggitivo Sileno. Segue una competizione musicale tra Pan e Apollo davanti al re Mida, il primo suona il flauto di canne agresti, il secondo la lira. Segue la descrizione di Apollo che reca sul capo una corona di lauro e indossa vesti impreziosite dalla porpora di Tiro. Lo strumento im- PAROLE COME MUSICA pugnato nella mano sinistra è adorno di gemme e di avorio proveniente dall’India; nella destra tiene invece il plectrum: «artificis status ipse fuit» (Met. XI, 169), cioè dal solo aspetto si evince la qualità della sua musica. Tra gli spettatori e giudici della gara, oltre a Mida e ai suoi, figura anche il monte Tmolo, che si gira con le sue foreste per ascoltare Apollo. Soltanto Mida – proprio lui che era un seguace di Orfeo – non riesce a comprendere la superiorità del dio. Questo ne segnerà la condanna futura: la sua sembianza umana sarà da allora contaminata, anzi raccapricciosamente deturpata, da grosse orecchie di asino.