Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi
XCVIII
A cura di
Susanne Pollack
Il catalogo contempla
immagini di opere tutte
dedicate a un solo oggetto:
lo strumento a corda. Come
ogni strumento, esso richiede
l’intervento della mano per
adempiere alla sua funzione. Soltanto così si crea il
suono delle corde che, invisibile e incorporeo, pervade
lo spazio, riempiendolo di
armonia. La mano da sola,
però, può ben poco, se non si accompagna all’arte di colui che la muove. Orfeo,
Apollo, Arione e Davide sono passati alla
storia (del mito o dell’Antico Testamento)
per la loro straordinaria capacità nel suonare uno strumento a corda: con il suono
della lira Orfeo ammansisce
gli animali feroci e induce
alla commozione persino le
divinità degli inferi; il citaredo Apollo sovrintende alle
muse e con esse ai suoni del
cosmo; Arione seda il mare
in tempesta, mentre Davide
riesce a placare con l’arpa
la melancolia di re Saul. Le
opere selezionate per la mostra e commentate nei saggi
del catalogo mostrano come sia proprio
quell’oggetto sonoro a determinare la
vita di ciascuno dei quattro protagonisti.
Viceversa, le loro figure e la loro storia influenzano la concezione dello strumento
come simbolo dell’armonia in generale.
Il dolce potere delle corde
Orfeo, Apollo, Arione e Davide
nella grafica tra Quattro e Cinquecento
a cura di
SUSANNE POLLACK
ESTRATTO
DAL
CATALOGO
The catalogue collects images of works dedicated to stringed instruments. The four main
characters – Orpheus, Apollo, Arion and David – have a common extraordinary, and seemingly
supernatural, ability to play them. The works selected for the exhibit and commented in the essays show how those particular musical objects determine their lives. From the other side, their
figures and stories influence the idea of stringed instruments as symbols of harmony in general.
Susanne Pollack ha studiato storia dell’arte e filologia romanza (italianistica) alle Università di Dresda,
Firenze e Berlino. Da alcuni anni lavora presso il Kunsthistorisches Institut in Florenz – Max-PlanckInstitut. Si è occupata principalmente di grafica del Quattro e Cinquecento, concentrandosi in particolare
sui processi dell’innovazione tecnica e iconografica, argomenti che ricompaiono nella sua tesi di dottorato,
in corso di svolgimento all’Università di Berna, dedicata al caso dei cosiddetti Tarocchi del Mantegna.
Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Cataloghi, vol. 98
2012, cm 21,5 ¥ 29, viii-180 pp. con 106 ill. n.t. di cui 58 a colori. √ 38,00
[isbn 978 88 222 6183 0]
caSa editrice
Casella postale 66 • 50123 Firenze
[email protected][email protected]
Tel. (+39) 055.65.30.684
Leo S. oLSchki
P.O. Box 66 • 50123 Firenze Italy
[email protected] • www.olschki.it
Fax (+39) 055.65.30.214
LEO S. OLSCHKI
FIRENZE
2012
Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi
XCVIII
Il dolce potere delle corde
Orfeo, Apollo, Arione e Davide
nella grafica tra Quattro e Cinquecento
a cura di
SUSANNE POLLACK
LEO S. OLSCHKI
FIRENZE
2012
Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico
e per il Polo Museale della città di Firenze
Soprintendente
Cristina Acidini
Direzione Amministrativa
Silvia Sicuranza
Direzione della mostra
Marzia Faietti e Giorgio Marini
Catalogo a cura di
Susanne Pollack
Saggi di
Cristina Acidini, Marzia Faietti, Laura Goldenbaum, Almut Goldhahn, Jana Graul, Marion Heisterberg, Theresa Holler,
Martina Papiro, Susanne Pollack, Gabriele Rossi Rognoni, Julia Saviello, Anna Schultz, Samuel Vitali, Gerhard Wolf, Lars Zieke
Repertorio delle opere
Elena Bonato
Revisione dei testi
Corinna T. Gallori
Traduzioni
Pier Gianni Piredda
Fotografie delle opere del GDSU
Roberto Palermo
Allestimento
Maurizio Bacci, Lucia Corrieri Verri, con l’assistenza di Massimo Pivetti e Paolo Rosa
Restauro e montaggi
Maurizio Boni, Luciano Mori
Segreteria scientifica e organizzativa
Maria Elena De Luca
Documentazione
Elisabetta Bandinelli Fossi
Biblioteca
Carla Basagni
Segreteria amministrativa
Antonia Adamo Gulizia, Antonella Poleggi Giovannelli
Si desidera vivamente ringraziare per i prestiti concessi
Beatrice Paolozzi Strozzi, Direttrice del Museo Nazionale del Bargello, Firenze
Guglielmo Bartoletti, Direttore della Biblioteca Marucelliana, Firenze
Marco Ternovec, Taipana (Udine)
e per il sostegno alle ricerche
Giulio Bora, Julian Brooks, Dominique Cordellier, Philippe Cordez, Heiko Damm, Corinna T. Gallori,
Cristiana Garofalo, José Manuel Matilla Rodrı́guez, Bert W. Meijer, Guido Messling, Mario Ruffini, Elisabetta Scirocco,
Anna Forlani Tempesti, Nicholas Turner, Tim Urban
La mostra è stata realizzata anche grazie al contributo di Associazione Culturale MetaMorfosi
ISBN 978 88 222 6183 0
Pietro Folena
Presidente
Vittorio Faustini
Direttore Generale
Elisa Massetti
Responsabile Settore Mostre
Segreteria organizzativa
Guido Iodice
Leonardo Ragozzino
con la collaborazione di
Fulvia Palacino
Segreteria Presidenza
Francesca Lilli
Progetto grafico
Domenico Laneve
Consulenza legale
Andrea Catizone
Responsabile amministrativo
Antonio Opromolla
Trasporti
Montenovi S.r.l., Roma
Assicurazioni
Insurance Placement Agency, Milano
MetaMorfosi rivolge un ringraziamento particolare a
Pietro Faustini, Sara Faustini, Maria Grazia Filippi,
Camilla, Gianfranco e Lucrezia Folena, Carla Gobetti, Andrea Margaritelli,
la famiglia Montenovi, Pina Ragionieri, Biancamaria Verde
Sponsor ufficiale
Sponsor tecnici
INDICE
CRISTINA ACIDINI, L’immagine di Orfeo nelle arti visive e nello spettacolo . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
MARZIA FAIETTI e SUSANNE POLLACK, Ascoltare con gli occhi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
PIETRO FOLENA, Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
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IL DOLCE POTERE DELLE CORDE
SUSANNE POLLACK, Il suono delle corde genera immagini. La lira nelle rappresentazioni italiane di
Apollo e Orfeo (XV-XVI sec.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
GABRIELE ROSSI ROGNONI, La lira nel Rinascimento: una riscoperta? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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ORFEO E GLI ANIMALI
ALMUT GOLDHAHN, «Discordia concors»: Orfeo incanta gli animali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
LARS ZIEKE, «Stimmung» e armonia. La visualizzazione dell’armonia delle sfere e dell’ordine cosmico
nell’incisione di Hans Collaert «Orfeo tra gli animali e le Muse» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
MARION HEISTERBERG, Dal Parnaso al ritrovo degli animali. Considerazioni su una stampa del 1558
ELENA BONATO, Repertorio delle opere 1-8 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
APOLLO E LE MUSE
JULIA SAVIELLO, «Mentis Apollineae vis has movet undique musas». Apollo e le Muse . . . . . . . . .
ELENA BONATO, Repertorio delle opere 9-15 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
APOLLO SFIDA PAN E MARSIA
MARTINA PAPIRO, Competere e giudicare. Apollo, Marsia, Pan e Mida . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
JANA GRAUL, Pittori «non» con tutto il cuore: artisti-musicisti nelle «Vite» di Vasari . . . . . . . . . .
ELENA BONATO, Repertorio delle opere 16-26 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ARIONE IN MARE
ANNA SCHULTZ, Arione: musicante in mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ELENA BONATO, Repertorio delle opere 27-29 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’ARPA DI DAVIDE
ANNA SCHULTZ, Il potere di Dio nell’arpa di Davide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ELENA BONATO, Repertorio delle opere 30-34 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
VIII
INDICE
LA PERDITA DI EURIDICE E LA MORTE DI ORFEO
SAMUEL VITALI, L’impotenza delle corde: la perdita di Euridice e la morte di Orfeo . .
MARZIA FAIETTI, Orfeo a Bologna e le divagazioni sul mito di Marcantonio Raimondi
THERESA HOLLER, Dante, Orfeo ed Euridice. Sonorità poetiche nella «Commedia» . . .
ELENA BONATO, Repertorio delle opere 35-42 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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ORFEO DI BRONZO
LAURA GOLDENBAUM, Bertoldo di Giovanni e il suo Orfeo in bronzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
LAURA GOLDENBAUM, Il mito di Orfeo nelle placchette rinascimentali in bronzo . . . . . . . . . . . . .
ELENA BONATO, Repertorio delle opere 43-48 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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GERHARD WOLF, «Sappi l’immagine». Le metamorfosi di Orfeo da Ovidio a Rilke . . . . . . . . . . . .
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Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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PAROLE COME MUSICA
CRISTINA ACIDINI
L’IMMAGINE DI ORFEO NELLE ARTI VISIVE E NELLO SPETTACOLO
Il mito di Orfeo ha goduto di lunga e varia fortuna
nelle arti figurative, a partire dall’antichità greca e romana per arrivare ai nostri giorni. Le fonti letterarie,
rielaborate innumerevoli volte in poesia, in testi teatrali e in libretti per melodrammi, danno alimento al
cristallizzarsi di memorabili immagini. Nell’arte antica, Orfeo compare quale cantore e musico che accompagnò la nave degli Argonauti guidati da Giasone alla
conquista del vello d’Oro, salvando la nave dal canto
insidioso delle Sirene. E anche Orfeo con la cetra che
ammansisce le fiere selvatiche ricorre in incantevoli
mosaici e pitture vascolari dell’area mediterranea, in
cui il suonatore campeggia al centro di una corona
di animali nostrali ed esotici: leoni, scimmie, uccelli
d’ogni sorta (fig. 1 nel saggio di G. Rossi Rognoni).
Nell’arte rinascimentale, con il ritorno e la diffusione della mitologia antica grazie all’appassionata rilettura delle fonti classiche, anzitutto di Virgilio e
Ovidio, Orfeo venne estesamente rappresentato sia
come figura a sé stante, sia nello svolgimento della
sua storia di perdita dell’amata sposa Euridice.
Nella Firenze del primo Umanesimo, dove nel
tardo Quattrocento il Poliziano avrebbe dedicato a
Orfeo la celebre Fabula poetica, Luca Della Robbia
lo rappresentò circondato di uccelli e belve in una
formella esagonale per la serie delle Arti (1437-39),
già poste nel campanile di Giotto e ora nel Museo
dell’Opera del Duomo: qui Orfeo impersona la Musica per antonomasia, e in particolare la capacità speciale che ha quest’arte di addolcire la selvatichezza
naturale, in un processo che induce la civiltà negli uomini e la mansuetudine nelle bestie (fig. 1).
Sempre a Firenze lo sventurato musicista trace è
evocato da una statua marmorea di Baccio Bandinelli
(1519) nel cortile di Palazzo Medici Riccardi (fig. 2
nel saggio di G. Rossi Rognoni). Commissionato da
Leone X per Palazzo Vecchio al tempo del governo
mediceo restaurato in Firenze, il citaredo che con la
dolcezza irresistibile della sua musica doma Cerbero,
il cane tricipite posto a guardia degli Inferi, proponeva in termini allegorici il potere persuasivo della famiglia Medici sui nemici anche più temibili.
Fig. 1. LUCA DELLA ROBBIA, Orfeo incanta gli animali, 1437-1439,
Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.
Con simili intenti celebrativi venne ritratto in
sembianze d’Orfeo il duca Cosimo per mano di
Agnolo Bronzino, in un quadro oggi nel Philadelphia
Museum of Art (1539-1540 circa) (fig. 2). Cosimo si
fece raffigurare di spalle, cosı̀ che la sua testa girata
poggiasse sulla schiena di un atletico modello ignudo,
mentre nell’ombra dello sfondo si intravedono le sagome di animali soggiogati dalla musica dello strumento – una lira da braccio – suonato dal giovane
ma determinato duca di Firenze.
Anche nell’arte d’oltre Appennino il mito di Orfeo trovò ampi spazi di rappresentazione, come nel
dipinto di Giovanni Bellini del 1515 circa nella National Gallery di Washington, dove in una radura boschiva insieme con Orfeo e gli animali intenti ad
ascoltarlo sono presenti altri personaggi dei miti silvani, come ninfe e un satiro. Nel medesimo museo,
2
Fig. 2. AGNOLO BRONZINO, Ritratto del duca Cosimo I in sembianze d’Orfeo, 1539-1540 circa, Philadelphia Museum of Fine Arts.
un’intera serie di opere in bronzo con vari momenti
del mito di Orfeo si deve al veronese Galeazzo Mondella detto il Moderno, a cavallo fra il Quattro e il
Cinquecento (cat. 44-46).
Incisioni di Francesco del Cossa, di Nicoletto da
Modena (cat. 2), di Marcantonio Raimondi (cat. 40) e
d’altri contribuirono, insieme con edizioni illustrate
delle Metamorfosi di Ovidio (cat. 35a-c), a render noto e familiare nell’arco del Rinascimento il protagonista della triste vicenda. Morta infatti la fresca sposa
Euridice – morsa da un serpente mentre sfuggiva all’inseguimento di Aristeo – Orfeo scese agli Inferi per
chiedere a Plutone e a Persefone di far tornare con
lui, viva, l’amata. La ottenne alla sola condizione di
condurla fuori dell’Ade senza mai voltarsi indietro:
ma Orfeo, ansioso, infranse quell’unico vincolo posto
da Plutone e girandosi a guardare che Euridice lo seguisse, la perse per sempre. Folle di dolore Orfeo si
lasciò infine uccidere e smembrare dalle Menadi, ebbre e feroci seguaci di Dioniso.
La fatale storia d’amore e morte di Orfeo e della
sposa perduta, cantata da Virgilio e da Ovidio, accese
la fantasia di molti artisti. Il motivo iconografico dell’uscita dagli Inferi fu illustrato con fantasiosi dettagli
in una tavola del tardo Quattrocento attribuita al poco noto pittore lucchese Michele Ciampanti (Firenze,
CRISTINA ACIDINI
collezione privata): nella rupestre desolazione della
bocca dell’Inferno pagano, da cui i due scampati tentano la sortita, si affollano a ostacolarli diavoli in tutto
uguali a quelli dell’imagerie cristiana, presi a prestito
dall’iconografia tradizionale, e similmente costruita,
del Cristo al Limbo. D’altronde, la contaminazione
fra il tema mitologico e la diablerie fu messa in atto
da pittori dei secoli successivi, espressi dal più visionario universo artistico fiammingo. Henri met de
Bles detto il Civetta, nato a Bouvignes ma passato
in Italia e morto a Ferrara nel 1560 circa, ambientò
il suo Orfeo nell’Ade (San Francisco, M.H. de Young
Memorial Museum, California Palace of the Legion
of Honor) tra archi e grotte affocati e mostruosamente popolati. Il brussellino Jan Brueghel il Vecchio, accentuò i cupi caratteri infernali della scena, i cui bagliori di fiamma sono esaltati dal supporto in rame
(1594; Firenze, Galleria Palatina).
La scena di Orfeo che supplica Plutone fu compressa in un drammatico scorcio infuocato dal Tintoretto, in uno scomparto di soffitto veneziano oggi
nella Galleria Estense di Modena (1541-1542 circa).
Un intero ciclo di lunette rappresenta i diversi
momenti del mito nel Corridoio d’Orfeo nel palazzo
ducale di Sabbioneta.
Ma fu soprattutto dal Seicento in poi, con l’affermarsi della poetica dei sentimenti dell’età barocca,
che la coraggiosa discesa del cantore all’Erebo e il
suo sfortunato ritorno divennero materia di ampia e
varia rappresentazione, non senza il decisivo impulso
della fortuna musicale e teatrale del mito, che ebbe un
posto d’onore nel melodramma all’aprirsi del secolo
con l’Euridice di Jacopo Peri e Giulio Caccini e l’Orfeo di Alessandro Striggio e Claudio Monteverdi.
Pieter Paul Rubens raffigurò più di una volta con
dovizia narrativa l’intensa scena nell’Ade, esprimendo negli sguardi e nei gesti dei quattro personaggi
il concitato gioco di stati d’animo diversi: l’indulgenza di Persefone che concede il miracolo, lo riluttanza
stupita di Plutone, la fretta di Orfeo di partire con la
sposa, l’indugio della candida Euridice per voltarsi a
guardare intenerita e grata i sovrani infernali. La toccante scena dell’appello accorato di Orfeo dinanzi ai
regnanti dell’Oltretomba continuò a ispirare gli artisti
anche nel secolo successivo. Nel 1763 Jean Restout
dipinse una tela monumentale, destinata ad esser trasposta in arazzo dalla Manufacture des Gobelins di
Parigi, in cui la scena era dilatata in un ambiente di
rupi selvose, con le tre Parche intente a tessere le fila
dei destini tra gli altri ministri del regno sotterraneo.
Numerose variazioni artistiche, incardinate al patetismo dell’attimo cruciale del mito – lo sguardo
amoroso eppure fatale di Orfeo, il repentino distacco
di Euridice risucchiata dall’Ade – furono elaborate in
L’IMMAGINE DI ORFEO NELLE ARTI VISIVE E NELLO SPETTACOLO
area settentrionale tra il Barocco e il Neoclassicismo.
Giovanni Antonio Burrini, uno dei massimi maestri
bolognesi a cavallo dei due secoli, diede al suo Orfeo
che perde Euridice (Vienna, Kunsthistorisches Museum) una dinamica concitata, che svelando i corpi
nudi nella corsa attraverso la stretta gola rocciosa
esalta le chiare forme sensuali di Euridice. Un contenuto pathos trascorre invece nell’Orfeo ed Euridice di
Francesco Cervelli nella Fondazione Querini Stampalia a Venezia, cosı̀ come nelle due statue giovanili Antonio Canova per la villa Falier ai Pradazzi, oggi nel
Museo Correr (1773), il cui ben risolto Orfeo fu replicato dal maestro stesso in una statua nel Museo
dell’Ermitage a San Pietroburgo.
È questo l’intorno cronologico e culturale che
ispira e accoglie l’opera lirica Orfeo ed Euridice di
Christoph Willibald Gluck su libretto di Ranieri de’
Calzabigi, rappresentata in prima assoluta al Burgtheater di Vienna il 5 ottobre 1762. La storia, qui,
raggiunge un lieto fine di cui è artefice Amore in persona, commosso dalla disperazione di Orfeo. Non cosı̀ in Poliziano, che aveva mostrato lo strazio del suo
eroe per mano delle Baccanti; non cosı̀ in Striggio per
Monteverdi, dove il padre Apollo confortava Orfeo
con l’assunzione in cielo. Nelle descrizioni degli ambienti infernali in cui si cala Orfeo tornando poi sui
suoi passi con Euridice, le fosche tinte letterarie del
librettista de’ Calzabigi si caricano di suggestioni visive rintracciabili nei quadri europei passati e presenti:
«Orrida caverna al di là del fiume Cocito, offuscata
poi in lontananza da un tenebroso fumo, illuminato
dalle fiamme che ingombrano tutta quella orrida abitazione» (Atto II, Scena I); e «Oscura spelonca che
forma un tortuoso laberinto ingombrato di massi
staccati dalle rupi, che sono tutti coperti di sterpi e
di piante selvaggie [sic]» (Atto III, Scena I).
Non sempre e non da tutti gli artisti però fu accentuata la componente tenebrosa dell’incursione di
Orfeo nel regno ctonio. Diversi quadri nell’arco dei
secoli costruiscono per cosı̀ dire un percorso alternativo, ambientando la vicenda in paesaggi aperti e spaziosi e sciogliendone il nodo drammatico nell’ampio
respiro di un naturalismo lirico. Il fiorentino Jacopo
del Sellaio su un fronte di cassone, arredo destinato
a una camera nuziale, dipinse il drammatico distacco
tra i due sposi in una luminosa campagna, dominata
da poggi verdeggianti su un arioso sfondo fluviale
(1480 circa; Rotterdam, Museo Boijmans Van Beuningen). Tiziano, nel suo Orfeo e Euridice del 1508
(Bergamo, Accademia Carrara), pose in primo piano
su una collina fiorita l’iconografia in verità rara della
morte di Euridice, assalita da un serpente dalle forme
di drago, e lontano, in un valloncello selvoso, la separazione dal disperato Orfeo. Niccolò dell’Abate a
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Fontainebleau dipinse attorno alle figurette dei protagonisti un paesaggio fiabesco dalle luci mutevoli, tra
tempesta e arcobaleno (1552 circa). In pieno Seicento, quando l’intitolazione storica o mitologica di un
quadro di paesaggio valeva a conferirgli una dignità
accademica che il soggetto di ‘genere’ ritenuto minore
di per sé non avrebbe raggiunto, Nicolas Poussin intitolò ai due sfortunati amanti un Orphée et Eurydice
(1659 circa; Parigi, Musée du Louvre) dove in una
verde insenatura tra boschi e città lontane si consuma
il dramma della morte della fanciulla, non percepito
da Orfeo intento alla sua musica. In pieno XIX secolo
Jean Baptiste-Camille Corot, nel tornare all’antico tema del viaggio della coppia dalla morte alla vita, diede
ampio spazio alla romantica selva abitata dalle ombre
dei defunti (1861; Houston, Museum of Fine Arts).
L’emozione amorosa e dolorosa della perdita di
Euridice lascia il posto alla tragedia nell’epilogo della
storia di Orfeo: la morte violenta per mano delle seguaci invasate ed ebbre di Dioniso, le Menadi o Baccanti. Già dal Rinascimento il motivo circolava in tutta la sua conturbante ferocia di assassinio commesso
da donne – se ne conosce un’incisione ferrarese del
1480 circa e un disegno di Albrecht Dürer del 1498
(fig. 4 e 5 nel saggio di S. Vitali) – ma fu entro il Romanticismo estremo che venne rappresentato con elegante crudezza, ad esempio dal francese Emile Lévy.
La ripresa del tema coincise con la massima fioritura
europea, specie d’impronta francese, del Simbolismo,
in un clima di estenuato languore. Sulla falsariga dei
versi virgiliani: «E mentre il capo di Orfeo, staccato
dal collo e bianco come marmo, veniva travolto dai
flutti, ‘‘Euridice!’’ invocava la voce da sola; e la sua
lingua già fredda ripeteva: ‘‘Oh, mia povera Euridice!’’» (IV Georgica), la testa mozza di Orfeo, poggiata
sulla cetra, divenne macabra protagonista. Gustave
Moreau dipinse la testa amorosamente cullata da
una giovane donna (1865; Parigi, Musée d’Orsay),
Jean Delville ne immaginò l’approdo a terra dal fiume
Ebro (1893), seguito da Alexandre Seon (1898).
Entro la sensibilità appassionata e vigile dei movimenti artistici visionari di fine Ottocento, tutti i temi
orfici continuarono a ispirare gli artisti europei: autori
di immagini memorabili e struggenti, solo per esemplificare, furono l’inglese George Frederick Watts,
il francese Gustave Moreau, il tedesco Anselm Feuerbach, e molti altri che nei decenni misero in figura o
in segni l’idillio e il pathos del mito di Orfeo. Giunti
fino a noi attraverso i movimenti del Novecento (tra
cui si ricorda una linea ‘orfica’ entro il Cubismo secondo la definizione di Apollinaire), i personaggi Orfeo ed Euridice mostrano di godere nella repubblica
delle lettere e delle arti di una cittadinanza senza scadenza, che ne fa nostri eterni contemporanei.
ASCOLTARE CON GLI OCCHI
La mostra odierna è dedicata a un oggetto: lo
strumento a corda. Come tutti gli strumenti, esso necessita dell’intervento della mano per adempiere alla
sua funzione. Solo cosı̀ si crea il suono delle corde,
che poi, invisibile e incorporeo, pervade lo spazio,
riempiendolo di armonia. Il potere dello strumento
a corda di creare armonia ha ben poco di magico,
piuttosto ha a che fare con le regole delle misure e
delle proporzioni note sin dagli esperimenti di Pitagora con il monocordo, e valide ancora oggi. Tuttavia, l’azione del suonare uno strumento a corda non
rientra tra i procedimenti meccanici, né tantomeno
può essere eseguita da chiunque.
Le opere esposte mostrano quattro dei più famosi
maestri, tre dei quali personaggi mitici e un quarto
dell’Antico Testamento: Orfeo, Apollo, Arione e Davide. Tutti suonano uno strumento a corda ed è evidente come sia proprio quell’oggetto sonoro a determinare la vita di ciascuno di essi: con il suono della
lira Orfeo ammansisce gli animali feroci e induce alla
commozione persino le divinità degli inferi; il citaredo Apollo dirige le muse e i suoni del cosmo; Arione
placa il mare in tempesta, mentre Davide riesce a calmare con la sua arpa la melancolia di re Saul.
Le opere selezionate invitano inoltre a riflettere sul
legame tra musica e pittura. Il foglio di Jan Muller,
scelto anche per la copertina del catalogo, documenta
in modo esemplare le sfide e le potenzialità dell’opera
figurativa nel tentativo di rendere leggibile il suono.
Muller mostra Arione nell’atteggiamento tipico del
musico ispirato, con il capo gettato indietro per percepire i suggerimenti che gli arrivano dall’alto. I suoni
cosmici sono impercettibili all’orecchio umano e solo
chi è ispirato dagli dei come Arione può sentirli: soltanto tramite il suono della sua lira, pertanto, noi possiamo cogliere un’eco dell’armonia celeste. Ciò che è
impedito all’orecchio umano è concesso all’occhio –
MARZIA FAIETTI
almeno nell’incisione. Muller con grande virtuosismo
rende i potenti suoni cosmici con una fitta spirale, le
cui linee si propagano come onde sonore nell’intero
spazio del cielo; il suo epicentro, e quindi l’origine
del suono, si trova però alle spalle di Arione. In tal modo, l’idea dell’artista giunge alle sue estreme conseguenze: Arione riesce a sentire, ma non può vedere
ciò che, viceversa, noi non siamo in grado di udire,
ma che intuiamo osservando l’immagine.
Questa premessa, intenzionalmente firmata a
quattro mani, introduce un catalogo e una mostra
che possono essere presi a corollario di quanto detto
sopra: anche noi – il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e il Kunsthistorisches Institut in Florenz,
Max-Planck-Institut – stiamo ricercando un’unione,
tanto stretta quanto proficua, tra le nostre opere e
le potenzialità culturali e creative di molti giovani studiosi, riproponendo il binomio tra strumento a corda
(il GDSU) e intervento della mano (il KHI). Quanti
vorranno visitare l’esposizione e leggere questo volume giudicheranno se il suono, cosı̀ restituito, sia armonioso e suadente.
Questa mostra non sarebbe stata possibile senza la consueta attività, professionale e appassionata,
dello staff del Gabinetto Disegni e Stampe degli
Uffizi, al quale vanno tutti i nostri ringraziamenti
e la nostra affettuosa gratitudine, una gratitudine
che estendiamo inoltre all’Associazione Culturale
MetaMorfosi, per il suo generoso sostegno economico; ai gentili colleghi che hanno concesso prestiti
per noi davvero determinanti; all’editore Daniele
Olschki per l’impegno profuso nel portare a compimento il novantottesimo volume della storica collana dei cataloghi di mostra del GDSU; infine a tutti
coloro, che con suggerimenti e consigli, hanno incoraggiato il nostro lavoro, migliorandone qualità
e risultati.
SUSANNE POLLACK
PREMESSA
MetaMorfosi, che in questi anni si è fatta conoscere per la produzione e l’organizzazione di mostre di
alta qualità, già si è occupata del rapporto tra musica
e arte figurativa nel Rinascimento, con l’eccezionale
esposizione del Musico di Leonardo da Vinci ai Musei
Capitolini di Roma. Siamo lieti di proseguire questo
cammino, incontrando e sostenendo Il dolce potere
delle corde, la mostra affascinante e originale predisposta nella collaborazione tra Gabinetto Disegni e
Stampe degli Uffizi e Kunsthistorisches Institut in
Florenz-Max Planck Institut – che segnerà l’estate
fiorentina del 2012. Mettere al centro lo strumento
a corda – «fragile» per definizione, come ricorda la
curatrice Susanne Pollack –, e ripercorrere la forza
(anzi: il «dolce potere») della sua musica nell’opera
degli artisti del Rinascimento, è un’operazione culturale coraggiosa e importante, come dimostra questo
catalogo.
MetaMorfosi, col suo sostegno concreto, vuole
rendere manifesto il bisogno che i privati e le associazioni di cittadini trovino le forme di un moderno mecenatismo, con l’obiettivo di accompagnare nel tempo istituzioni culturali prestigiose, come il GDSU e il
KHI, di sostenere la loro ricerca, di incentivare i giovani che dedicano i propri studi con prospettive e
punti di vista, ad un tempo, rigorosi e innovativi.
L’incontro col GDSU, in particolare, e con l’eccellente Direttrice del Gabinetto, Marzia Faietti, ha facilitato questa collaborazione, mi auguro foriera di importanti sviluppi futuri.
In un’epoca in cui il Potere si è spesso associato
alla prepotenza, alla menzogna e all’arroganza, mi
piace anche pensare che il «dolce potere» delle corde, e più in generale dell’arte e della cultura ci aiuti,
come italiani e come europei, a mettere in luce la nostra parte migliore, e a valorizzare la nostra identità
comune.
PIETRO FOLENA
Presidente Associazione MetaMorfosi
IL DOLCE POTERE DELLE CORDE
2
SUSANNE POLLACK
IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI.
LA LIRA NELLE RAPPRESENTAZIONI ITALIANE DI APOLLO E ORFEO
(XV-XVI SEC.)
ARMONIA
In seno alla famiglia degli strumenti musicali,
quelli a corda si contraddistinguono per la loro
straordinaria fragilità. L’esile collo di un violino o le
delicate doghe di legno che formano la cassa armonica di un liuto richiedono una manipolazione delicata.
La quintessenza della fragilità sono però le tese, sottili
corde – ovvero proprio l’elemento centrale di questi
strumenti musicali, indispensabile per la generazione
del suono. Esse minacciano incessantemente di strapparsi anche fra mani virtuosistiche come quelle di Paganini, al cui violino durante l’esecuzione non di rado
ne rimaneva soltanto una.1
Delicatezza, fragilità e lacerabilità non sono proprietà che si assocerebbero immediatamente al potere, come suggerisce invece il titolo della mostra, Il
dolce potere delle corde. E tuttavia i quattro protagonisti – Orfeo, Apollo, Arione e Davide – attingono il
loro potere proprio dallo strumento a corda. L’effetto del suono delle corde risiede nella loro forza generatrice d’armonia, che cosı̀ va a contrastare il caos.
Ma cos’è realmente questa armonia? E come mai può
essere suscitata o meglio incarnata proprio da uno
strumento a corda? Il desiderio di sperimentazione
sensoriale e quello di comprensibilità logica del principio proporzionale giocano un ruolo decisivo per rispondere a queste domande. Già nel tardo VI secolo
a.C., Pitagora portò alla luce una conoscenza importantissima, che nei secoli successivi fu posta alla base
di tutte le ulteriori teorie dell’armonia e i cui effetti
perdureranno fino ai nostri giorni.2 Si tratta di una
nozione fondamentale e di ampia portata, che tuttavia si può riassumere con poche parole: Pitagora e i
suoi seguaci riuscirono a dimostrare che gli intervalli
musicali potevano essere rappresentati attraverso
rapporti numerici. Per provare questa conoscenza
teorica ci si servı̀ soprattutto del monocordo, strumento costituito da una cassa di risonanza oblunga
sulla quale è tesa una singola corda, che però può essere divisa mediante un sottostante ponticello modulabile. Se si fa risuonare una mezza, due terzi o tre
quarti di corda, il suono è udibile rispettivamente
in intervalli di ottava, quinta o quarta sulla tonica dell’intera corda. Il primo decisivo passo consisteva
quindi nel decifrare il principio ordinatore matematico che sta alla base dell’armonia musicale; con ciò, da
allora in avanti, essa poteva essere misurata.
La scoperta del principio ordinatore matematicomusicale fu estesa dai pitagorici al cosmo. Le conoscenze acquisite attraverso gli esperimenti sull’armonia musicale servirono quindi da punto di partenza
per lo sviluppo di un modello di armonia universale.
Fondamento di questa applicazione analogica era
l’assunto dei pitagorici che ogni pianeta, grazie al
proprio movimento, genera un suono costante che
dipende di volta in volta dalla sua velocità orbitale
e dalla distanza dal centro dell’universo, ovvero dalla
Terra. Le sette note dell’ottava furono correlate ai
sette pianeti allora conosciuti. Trasposti nel linguaggio figurato del mito, i pianeti furono a loro volta
equiparati alle note prodotte dalle sette corde della
lira di Apollo: Apollo-Elios, dio del Sole, suonando
la sua lira a sette corde fa quindi risuonare il cosmo.3
1 Per Niccolò Paganini le corde strappate non rappresentavano
un problema, anzi offrivano l’occasione per dimostrare il suo straordinario virtuosismo, grazie al quale continuava a suonare sulle restanti senza interrompere l’esecuzione. In proposito si veda HAMMERSTEIN , 1994, pp. 7 sgg.
2 Non si sono conservati scritti dello stesso Pitagora, le sue presunte dottrine sono tramandate attraverso lavori di altri o mediante
le vite di Pitagora scritte da Porfirio e Giamblico. Per la dottrina pitagorica dell’armonia e le sue ampie implicazioni si vedano almeno
SPITZER, 1963; MEYER-BAER, 1970; HENINGER, 1974; SCHAVERNOCH,
1981; GUTHRIE, 1987; GODWIN, 1993; RANKIN, 2005, pp. 3-19.
3 Per l’equiparazione pianeti-corde si veda WYSS, 1996, pp. 27
sgg.; per l’Apollo che suona la lira cosmica si veda LÜCKE, 1999, s.v.
Apollo, pp. 76-107, in part. p. 90.
12
In seguito, ai pianeti fu associato anche il canto delle
muse, ben note come accompagnatrici di Apollo4 – il
loro coro rappresenta la cosiddetta musica delle sfere, mentre la loro danza, condotta dalla lira di Apollo, è la perfetta coreografia del cosmo.5
L’idea di una concordanza tra ordine cosmico e
musicale sopravvisse anche in epoca moderna, sviluppandosi ulteriormente, come mostra il frontespizio
dell’edizione della Pratica Musicae di Franchino Gaffurio,6 apparsa nel 1496 a Milano – il secondo di tre
trattati dell’influentissimo teorico musicale del tardo
Quattrocento (fig. 1).7 Secondo Gaffurio lo schema
doveva mostrare «il concordante ordine di muse,
astri, modi e corde».8 Le linee curve che, per cosı̀ dire, rappresentano le corde della lira universale congiungono otto clipei dedicati alle muse, localizzati
nel bordo sinistro dell’immagine, con altrettanti clipei posti sul lato opposto, in cui però si trovano i sette pianeti e il cielo delle stelle fisse. Mediante iscrizioni inserite nelle corde/linee, ogni coppia di muse e
pianeti viene correlata a una nota e alla sua rispettiva
tonalità.9 La nona musa, Talia, è assegnata alla Terra,
la quale – immobile e perciò muta – non poteva essere inserita nel sistema di concordanze fra muse sonanti e pianeti.10 Essendo il centro del cosmo, la Terra occupa il centro del bordo inferiore, circondata da
acqua, aria e fuoco (Aqua, Aer, Ignis) e dalle soprastanti orbite planetarie. Al centro del bordo superiore, e quindi secondo la logica dell’immagine al di
sopra tutti i pianeti e del cielo delle stelle fisse,
troneggia Apollo. I suoi piedi poggiano signorilmente
sull’estremità caudale di un enorme mostro il cui corpo serpentiforme proteso verso il basso attraversa
verticalmente le corde/linee per poggiare infine le
sue tre teste sull’arco superiore del globo terrestre,
collegando significativamente tra loro tutti gli elementi dell’immagine.11 In tal modo la ‘serpentina’
che tutto collega visualizza un principio cosmico partendo da un’esperienza facilmente verificabile, ovve-
4 Cosı̀ p. es. Platone (La Repubblica, 617 A-C) menziona le sirene come creatrici della musica delle sfere; Macrobio (Somnium Scipionis, II, 3, 1-4) equipara sirene e muse; Marziano Capella (De nuptiis Philologiae et Mercurii, I, 27-29) associa le muse alle sfere.
5 Nella fede cristiana rimase viva l’idea del suonatore cosmico
di lira, tuttavia all’origine dell’armonia universale venne posto Dio
e le muse furono sostituite dagli angeli (cfr. HAMMERSTEIN, 1962,
pp. 116-136).
6 Qui si preferisce questa grafia a Gaffurius, Gaffori o Gafori.
7 Gli altri due trattati sono: Theoricum Musice, Napoli, 1480 e
De Harmonia Musicorum Instrumentorum, Milano, 1518. Per il frontespizio della Practica Musicae si vedano CHASTEL, 1954, p. 48;
WIND, 1958, pp. 265-269; MEYER-BAER, 1970, pp. 191 sgg.; HAAR,
1974, pp. 7-22; HENINGER, 1974, pp. 182 sg.; SCHRÖTER, 1977,
pp. 376-380; PALISCA, 1985, pp. 171 sgg.
8 Quod Musae et Sydera et Modi atque Chordae invicem ordine
conveniunt. Cosı̀ il titolo del capitolo del commento alla xilografia
IL DOLCE POTERE DELLE CORDE
Fig. 1. L’Armonia delle sfere, in FRANCHINO GAFFURIO, Pratica
Musicae, Milano, 1496.
ro che ogni singola corda pizzicata fa vibrare tutte
le altre. Quando Apollo pizzica la corda superiore
della lira cosmica, le vibrazioni vengono trasmesse
da una sfera/corda all’altra, verso il basso, raggiungendo di conseguenza anche la tanto lontana terra.
Oltre alle vibrazioni, che si trasmettono invisibilmen-
che compare però soltanto un ventennio dopo, nel trattato De harmonia musicorum instrumentorum opus, Milano, 1518 (libro IV,
12, ff. 92v-94r). Citato da SCHRÖTER, 1977, p. 376.
9 Per questo ivi, pp. 378 sg. Inoltre, in accordo con le indicazioni di Plinio (Historia Naturalis, II, 20), le distanze fra i pianeti vengono indicate in toni e semitoni.
10 Gaffurio stesso spiega nel De harmonia musicorum instrumentorum (f. 93v) che per Cicerone le cose nella terra sarebbero
mute, poiché essa non si muove. Per questo si veda WIND, 1958,
p. 265.
11 Per il corpo serpentiforme avvolto su se stesso come simbolo
dell’eternità si veda WIND, 1958, p. 266. James Haar lo paragona ad
un archetto sulle corde della lira celeste o all’unica corda di un monocordo (cfr. HAAR, 1974, p. 14), mentre Claude Palisca lo interpreta
come corda di monocordo (PALISCA, 1985, p. 173). Sulle tre teste del
mostro, ovvero il Signum triciput, si vedano PANOFSKY, 1997, pp. 20
sgg.; WIND, 1958, pp. 265 sg.
SUSANNE POLLACK – IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI
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te da una corda all’altra, anche lo stesso corpo serpentiforme è un simbolo del principio qui discusso
– l’impulso che un serpente riceve alla sua coda raggiunge anche l’altra estremità del corpo, ovvero la testa. Lo schema illustra quindi con estrema chiarezza
il carattere di interconnessione della terra, e di tutte
le sue creature viventi, all’insieme dell’universo.12 Il
frontespizio è al contempo un commento per immagini al neoplatonismo fiorentino, che Gaffurio studiò
approfonditamente.13 Per i neoplatonici la fede in
una concordanza armonica tra cosmo e mondo sublunare era altrettanto fondamentale quanto l’idea
che la costante discesa sulla terra di una forza spirituale fosse perfettamente conciliabile con la sua stabile presenza nella sommità del cielo.14
Come completamento per la gigante lira cosmica,
dalle cui corde risuona la musica mundana o musica
universalis, la lira appare anche, in forma di un moderno strumento a corda,15 quale attributo in mano
di Apollo, che la tiene saldamente col braccio sinistro
ben disteso. Una simile postura è insolita, giacché
non consente di suonare lo strumento, e sembrerebbe negare la sua primaria ragion d’essere. L’esibizione dello strumento, staccata dalla funzione, ne sottolinea ancora di più lo status simbolico. Solo la
rappresentazione frontale della lira, infatti, consente
uno sguardo diretto su ciò che Gaffurio soprattutto
vuole richiamare all’attenzione: le corde. Secondo il
teorico musicale la cythara Apollinis è corredata esattamente da sette corde, perché sette è il numero della
perfezione (septenarium numerum certa perfectione
est dispositum).16 La tecnica della xilografia, con cui
è realizzato il frontespizio di Gaffurio, consente solo
in minima parte il ricorso a finezze. Rappresentare
precisamente sette corde era in fondo una sfida impossibile; ma l’anonimo incisore non si diede per vinto: egli le delineò parallele su tutta la larghezza della
copertura della cassa armonica, rassegnandosi al fatto
che soltanto le tre corde mediane corressero lungo il
ponticello, mentre le esterne finivano improvvisamente sul bordo dello strumento. Negando la correttezza organologica, questa soluzione di ripiego rivelava la priorità di quella simbolica.
LO
STRUMENTO NELL ’IMMAGINE
12 L’interconnessione musicale e soprattutto ritmica dell’essere
umano al cosmo è un motivo piuttosto ricorrente, cosı̀ ad esempio
Cassiodoro vedeva nel battito del polso e del cuore una sorta di
anello di una catena ritmica che unisce l’essere umano al cosmo (CASSIODORO, Institutiones, II, 5). Per ulteriori esempi si veda TOUSSAINT ,
2001, p. 122.
13 Cfr. PALISCA , 1985, pp. 168 sgg.; KINKELDEY , 1947, pp. 379382.
14 Cfr. WIND , 1958, p. 266. Per il principio della Fernwirkung
(l’effetto a distanza) di Apollo si veda anche la nota 58 in questo testo.
15 Per considerazioni sull’identificazione di questo strumento,
che non va inteso come un liuto, si veda FRINGS, 1999, p. 50.
16 GAFFURIO, De harmonia musicorum instrumetorum opus, libro IV, 12, f. 92r. Le sette corde inoltre dovrebbero simbolizzare
le septem discrimina vocum, di cui parla Virgilio nel descrivere la kithara di Orfeo (Eneide, VI, 645). Nel commento di Servio a questo
passo del poema i sette intervalli di nota furono rapportati al suono
dei sette pianeti.
17 Per questa datazione si veda BURY , 2001, pp. 196 sgg.
Il frontespizio di Gaffurio non costituisce un’eccezione, ma piuttosto conferma la regola secondo
cui gli strumenti musicali, allorché vengono presentati mediante mezzi visivi, non sono semplici riproduzioni neutrali di casse di risonanza, ma possiedono
anche un’enorme valenza connotativa. Qui si possono riconoscere facilmente determinati motivi spesso
ricorrenti – come ad esempio le corde strappate. Il
loro significato dipende soprattutto dal relativo contesto, il quale deve essere di volta in volta nuovamente valutato. Quello che si propone di seguito, partendo da una selezione di fogli tratti dalla mostra, è un
percorso per orientarsi nel groviglio dei possibili impieghi degli strumenti a corda nel campo delle immagini. Verrà anche verificato quali conclusioni si possono trarre, dal punto di vista musicologico, dalle
rappresentazioni.
Un’incisione su rame di Agostino Carracci apparsa tra il 1585 e il 1590 17 mostra il drammatico e tragico momento in cui Orfeo perde per la seconda volta l’amata Euridice (cat. 39). Allorché ella fu uccisa
dal morso di un serpente egli poté, grazie al suo canto
accompagnato dalla lira, mettere in moto i poteri degli Inferi per resuscitare la sua sposa. La straordinaria
concessione era però legata alla condizione che, durante il percorso di ritorno dagli Inferi e fino al raggiungimento dell’uscita di questi, Orfeo non avrebbe
dovuto voltarsi a guardare Euridice: una prova che
egli, com’è noto, non riuscı̀ a superare. Nell’incisione
si vedono come le fiamme, raffigurate in modo estremamente vivace, afferrare il corpo nudo di Euridice,
avvinghiandola e guizzando verso di lei, mentre già la
mano di Orfeo non la può più trattenere. Il suo volto
è impietrito in una maschera; dalla sua bocca non
sgorga un canto soave, ma sfugge un grido disperato.
E la sua portentosa lira? Giace al suolo, fuori dalla
sua portata, cosicché il loro legame risulta spezzato.
Il riccio dello strumento e il ginocchio di Orfeo sono
però entrambi sostenuti da un masso, un parallelismo
che in modo sottile chiarisce a chi appartiene lo strumento ‘senza padrone’. A prima vista pare trattarsi
semplicemente di una viola di fine Cinquecento,
14
IL DOLCE POTERE DELLE CORDE
che qui viene presentata all’osservatore in luogo di
una lira antica. Ad uno sguardo più attento si nota
però che lo strumento di Orfeo non ha corde – quindi non può più generare alcun suono prodigioso. La
tremenda impotenza a cui Orfeo è esposto in questo
momento, caratterizzato dalla perdita definitiva di
Euridice, è stata efficacemente resa visibile da Agostino Carracci tramite lo strumento condannato al silenzio e privato della sua funzione.18
Non sono soltanto le corde a meritare grande attenzione. Un’incisione realizzata a inizio Cinquecento
da Marcantonio Raimondi mostra in modo esemplare
come anche il posizionamento degli strumenti musicali all’interno della composizione dell’immagine possa avere un significato fondamentale (cat. 13). Apollo
suona la lira da braccio seduto su una pietra coperta
da un cuscino d’erba. La sua nudità non è seriamente
messa a rischio dallo svolazzante panno che porta annodato sulla spalla destra. Il piede sinistro del giovane dio poggia disinvolto su di un elmo, che rimanda
come pars pro toto a un’armatura.19 Questa, a sua
volta, richiama guerra, violenza e caos. Nella sfera
d’influenza del dio però non c’è posto per questo.
Egli non domina il mondo con la brutale forza delle
armi, ma con il soave e ordinatore potere dei suoni
delle corde, con l’armonia e la pace emananti dalle
sette corde della lira.20 L’elmo gli è utile soltanto come poggiapiede, non gli occorre un’armatura per
proteggere il suo corpo – in fondo non gli occorre
neppure una veste. Il significato della nudità di Apollo non è circoscritto soltanto a un’opposizione all’armatura da guerra. Anche gli strumenti musicali rappresentati e, soprattutto, il loro posizionamento
all’interno della struttura dell’immagine dischiudono
un ulteriore piano di significato. Apollo è attorniato
da tre fanciulle in piedi, una alla sua destra e due alla
sua sinistra. Le due esterne si differenziano da quella
mediana grazie all’acconciatura dei loro capelli, decorati da sottili nastrini, agli esili veli mediante i quali
pretendono di nascondere le loro vergogne, e soprattutto perché entrambe recano un flauto nella mano
sinistra. Al contrario di Apollo esse non sono però intente a suonare. Tengono il loro flauto sollevato vicino alla bocca come se avessero appena interrotto il
loro suono e sospendessero un momento per ascoltare l’entrata dell’assolo di Apollo. Con il capo lieve-
mente chino, i loro occhi seguono il tracciato dei flauti. La disposizione di questi strumenti non è affatto
casuale: essi creano, grazie alla loro forma bislunga simile a una bacchetta, due chiare linee che nel loro
prolungamento si incontrano a formare un angolo
retto coincidente con il sesso di Apollo (fig. 2). Con
ciò si allude alla facoltà riproduttiva e alla creatività
artistica del dio, il quale fin dall’antichità era invocato
con la supplice preghiera di donare l’ispirazione, in
quanto suprema guida delle muse. Anche la posizione della lira da braccio non è casuale. È stato già
osservato come la terza fanciulla, nuda e posizionata direttamente alla sinistra di Apollo, si differenzi
dalle altre due suonanti il flauto. Con il dito indice
della mano destra essa indica uno specchio concavo
posto in cima un’asta che retta con la mano sinistra.
Questa mano, a sua volta, è nascosta dietro le spalle
18 Agostino Carracci si riallaccia qui a una tradizione che assegna un significato alla corda mancante, strappata o allentata. Diffusamente, in proposito, si veda HAMMERSTEIN, 1994, pp. 7-88. Gli episodi di Orfeo che perde Euridice e della morte di Orfeo si prestano
particolarmente a tematizzare l’impotenza del cantore attraverso il
suo strumento. Per ulteriori esempi si veda il saggio di Samuel Vitali
in questo catalogo.
19 La stessa postura compare anche in un disegno di Marcantonio Raimondi all’Ashmolean Museum, Oxford (inv. n. WA1945.102).
20 Esattamente il contrario avviene in una monumentale allegoria di Peter Paul Rubens che tematizza le conseguenze della guerra
(L’allegoria della Guerra, 1638, Firenze, Palazzo Pitti): il dio Marte
sta per schiacciare un liuto che giace al suolo.
Fig. 2. MARCANTONIO RAIMONDI, Allegoria della musica, 15021504 circa, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi.
SUSANNE POLLACK – IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI
15
della flautista che le sta accanto. Lo specchio che
consente la visione attraverso differenti piani temporali – passato, presente e futuro – è un attributo di
Apollo, che è anche dio della profezia.21 Il fatto che
la donna porti l’attributo del dio esprime già una privilegiata prossimità tra i due; entrambi gettano lo
sguardo al di fuori dell’immagine, direttamente verso
lo spettatore. Allo stesso tempo, però, lo specchio è
anche un attributo di Venere quale dea della bellezza,22 e a questa assomiglia la bella di Raimondi anche
per via dei capelli sciolti e svolazzanti al vento, della
postura in perfetto contrapposto e della totale nudità.23 Questa nudità però è coperta dalla lira da braccio di Apollo: il cavigliere, che si trova alla stessa altezza del sesso maschile, copre esattamente le vergogne
di lei, e appena un po’ su si trovano le dita che toccano le corde. L’archetto col quale Apollo suona la sua
lira parte dal centro del suo corpo, l’ombelico, e termina a forma di uncino sulla curvatura destra del seno
di lei, come volesse tirarla a sé. Particolare accentuazione viene data al capezzolo, sfiorato inferiormente
dall’archetto e incorniciato dall’intaglio della cassa
di risonanza. Quindi questa lira da braccio funge da
tramite decisivo fra Apollo e la nuda Venere,24 ponendo in contatto punti espliciti dei loro corpi. Il processo di creazione artistica viene mostrato come atto
creativo attraverso la postura che Apollo assume
con la sua lira. All’Apollo musicante viene conferito
un ruolo attivo: egli genera. Venere, la dea dell’amore,
rimanda al fatto che solo chi ama può ricevere l’ispirazione da Apollo.25 Il tema della creazione artistica è
molto rilevante per ogni artista, tanto più per un incisore come Marcantonio Raimondi, che lavora in una
continua tensione tra la propria creazione, l’interpretazione e la riproduzione.26 Ed effettivamente Raimondi fa sı̀ che la flautista di sinistra, che tiene in
mano proprio un foglio arrotolato, indichi col dito
medio la sua firma. Questa consiste in un monogramma formato da una grande M entro cui è innestata
una A per MarcAntonio e a cui è aggiunta una più piccola F per fecit.27 Il monogramma è posizionato esattamente nel mezzo del bordo inferiore, quindi in una
perpendicolare direttamente al di sotto dell’organo riproduttivo di Apollo. Esso si rivela come un’abbreviazione della composizione dell’immagine, di cui ripete le linee principali: la lettera M, specularmente
simmetrica, corrisponde ai corpi eretti delle due flautiste e alle due linee interne che nascono dai due flauti
e si incontrano sull’organo genitale di Apollo. In corrispondenza Raimondi ha inserito all’interno della sua
firma, esattamente poco sopra questo punto, la F allusiva del suo atto creativo, diversamente dal suo consueto monogramma, nel quale la F è addossata alla
barra verticale destra della M, come si vede per esempio nella sua incisione il Parnaso (cat. 10).28 Tanto
consapevolmente quanto sensibilmente, Raimondi si
presenta come il primo fruitore dello spettacolo divino rappresentato, entrando egli stesso nel ciclo di ricezione e generazione tematizzato nell’immagine.
21 Apollo è rappresentato con uno specchio concavo anche in
una serie di incisioni su rame, i cosiddetti Tarocchi del Mantegna
(1465 circa). Marziano Capella, fra gli altri, descrive lo specchio
come attributo di Apollo (De nuptiis, I, 68).
22 Quando lo specchio è presentato come attributo di Venere,
esso è per lo più inteso come requisito per la cura della bellezza, in
cui di solito la dea contempla la propria immagine. Il fatto che qui lo
specchio sia orientato in lontananza può riferirsi alla sua funzione
come attributo di Apollo. Per lo specchio come attributo di Venere
si veda LÜCKE, 1999, s.v. Aphrodite, p. 60.
23 Per queste proprietà caratteristiche di Venere si veda ivi,
pp. 55 sgg.
24 A favore di questa interpretazione si può ricordare che anche
la Venere che appare nel Giudizio di Paride (Bartsch 339) inciso da
Raimondi porta con sé uno specchio tenuto in alto.
25 Altri due fogli esposti in mostra, di un artista anonimo forse
oltremontano attivo a Firenze (cat. 14) e di un artista anonimo spagnolo (cat. 12), tematizzano l’amore come presupposto per ricevere
l’ispirazione artistica, come mostra anche il saggio di Julia Saviello in
questo catalogo.
26 Cfr. fra gli altri GRAMMACINI e MEYER, 2009, in part. pp. 2737; KNAUS, 2010.
27 Lisa Pon scrive, senza fornire ulteriori indicazioni, che le lettere del monogramma secondo Vasari stanno per «Marc’Antonio de
Francia», e con ciò verrebbe rappresentato un atto di gratitudine da
parte di Marcantonio Raimondi nei confronti del suo maestro Fran-
cesco Francia (PON, 2004, p. 78). Nella Vita del Vasari su Marcantonio Raimondi si può trovare però soltanto l’annotazione che Marcantonio Raimondi aveva conservato il nome aggiuntivo «de’ Franci»,
poiché aveva lavorato diversi anni presso Francesco Francia, dal quale
fu molto ben voluto. Nessun accenno viene fatto al monogramma dell’incisore (VASARI, 1966-1997, V, p. 6). Che il monogramma MAF sia
da leggersi piuttosto come «MarcAntonio fecit» è dimostrato fra l’altro dall’incisione L’arrampicatore (Bartsch 488), che riprende una figura del cartone di Michelangelo della Battaglia di Cascina. Qui Raimondi introduce per la prima volta la differenziazione fra disegnatore
e incisore, fornendo le rispettive prestazioni attraverso le abbreviazioni corrispondenti: IV.MI.AG.Flo sta per «Invenit Michael Angelo
Florentinus», integrata da MAF, che qui secondo logica va letto come
«MarcAntonio fecit». Si vedano in proposito fra gli altri BÜTTNER,
2008, pp. 99-132, in part. p. 111; HÖPER, 2001, p. 54.
28 Solo in un’altra incisione (Bartsch 399) Raimondi impiega il
monogramma con la F integrata nel mezzo della M; di solito egli aggiunge sempre la F alla perpendicolare destra della M (si veda p. es.
Bartsch 11, 16, 115, 118, 247, 360, 371, 376, 377, 380, 385). Il rapporto di Raimondi con la sua firma varia di continuo nel corso della
sua attività: oltre alle varianti del suo monogramma si trovano anche
incisioni senza alcuna firma, oppure, dal 1515 circa, la firma è una
tavoletta vuota. Si veda in proposito LANDAU e PARSHALL, 1994,
pp. 142-146.
29 Sulla contesa tra Apollo e Marsia si veda il saggio di Martina
Papiro in questo catalogo.
Anche in un’incisione su rame di Giulio Sanuto
del 1562 (cat. 16) va osservato il posizionamento dello strumento se si desidera comprendere più a fondo
l’immagine. I tre fogli giustapposti mostrano, iniziando da destra e procedendo verso sinistra, quattro scene del mito di Apollo e Marsia; 29 tra di esse la gara
16
IL DOLCE POTERE DELLE CORDE
musicale nella quale Marsia col flauto aveva osato sfidare – per sua propria disgrazia – Apollo alla lira, occupa la maggior parte dello spazio. Minerva e re Mida assistono alla scena come giudici di gara.30 Le
successive immagini mostrano avvenimenti che sono
l’immediata conseguenza del risultato negativo della
gara: Marsia fu scorticato da Apollo come punizione
per la sua superbia; Mida, che ritenne Marsia miglior
musicista, ricevette dal dio orecchie d’asino e il barbiere del re, che era l’unico a sapere di questa penosa
mutazione del corpo del suo signore, confidò questo
segreto a una buca nella terra. Il modello per l’incisione di Sanuto era il coperchio di un clavicordo dipinto da Agnolo Bronzino tra il 1530 e il 1533, in cui
egli comunque inserı̀ sullo sfondo motivi tratti da altri artisti.
La sfida fra Apollo e Marsia (in altre versioni fra
Apollo e Pan) è anche una sfida fra strumenti a corda
e a fiato, quindi fra uno strumento che evoca proporzioni e armonia perfetti e uno i cui striduli e fischiettanti suoni sono associati a tutto ciò che è terreno,
sfrenato, istintivo e inebriante.31 Fin dall’antichità il
carattere degli strumenti si riflette nei corpi dei loro
suonatori. Cosı̀ non è dato trovare alcuna rappresentazione della celebre sfida nella quale Apollo non sia
reso come un bel giovinetto ben proporzionato e
Marsia (o Pan) come il contendente inferiore anche
sotto l’aspetto fisico. Lo stesso avviene nell’incisione
di Giulio Sanuto, dove però l’analogia tra il corpo
del musicista e il corpo dello strumento è sottilmente
portata all’estremo. Come se il suo corpo dal petto
fiacco avesse assecondato il desiderio del piffero 32
di ergersi liberamente verso il cielo, Marsia deve suonare lo strumento, che si staglia fiero verso l’alto, col
capo completamente rovesciato. L’insolita posizione
ha come conseguenza che il suo viso viene mostrato
in forte scorcio dal basso, rinforzando cosı̀ l’effetto
deformante delle guance gonfissime impegnate a suonare. Anche il resto del corpo di Marsia esibisce dei
difetti: la testa è coperta da pochi capelli arruffati, il
petto flaccido sta sopra un ventre incurantemente rilassato, mentre i genitali, esposti dalla posizione delle
gambe divaricate, non sono coperti da una foglia ma
da un germoglio. Apollo si presenta come il suo esat-
to contrario sotto ogni aspetto. Il suo corpo ben proporzionato, adagiato con perfetta grazia su un masso,
è disposto in modo obliquo di fronte a Marsia cosı̀
che egli volge all’osservatore la schiena, leggermente
rivolto a destra. La testa, coronata da riccioli, è lievemente china e voltata verso destra in modo da mostrare il suo nobile profilo: centrale e frontale risulta
cosı̀ il suo orecchio, teso all’ascolto.
Lo strumento di Apollo, una lira da braccio, è
quasi completamente coperto dal suo corpo. Là dove
ne emergono delle parti, esse sono in evidente armonia con l’andamento dell’anatomia: si ha l’impressione che Apollo non strisci l’archetto soltanto sulle corde della lira, ma contemporaneamente anche su se
stesso.
L’esibita sovrapposizione tra i due corpi, che corrisponde a una strumentalizzazione del corpo di
Apollo, allude all’antica concezione dell’uomo-lira.
Cosı̀ come l’universo (macrocosmo), anche l’essere
umano (microcosmo) fu inteso infatti come una lira
armoniosa. La tradizione dell’equiparazione dell’essere umano – tutto o parziale – con uno strumento a
corda risale all’antichità.33 Che l’essere umano fosse
uno strumento accordato o accordabile, viene spiegato da Isidoro da Siviglia nei suoi Etymologiarum Libri
mediante l’assonanza cor- delle parole cordis (battito
cardiaco ritmico) e corda.34 Si potrebbero portare
molti altri esempi.35
Una lira da braccio dalle fattezze variamente antropomorfe (fig. 3), datata intorno al 1511, documenta molto persuasivamente la concezione dell’uomo-lira, o meglio, in questo caso, la lira-uomo. Il piano
armonico della cassa di risonanza è raffigurato come
un torso femminile, il cavigliere sul collo come una
dionisiaca smorfia maschile. Sul retro della lira il fondo invece è decorato da un torso virile, mentre il
cavigliere mostra ora una maschera femminile. Nel
primo è inoltre raffigurata una grande maschera
maschile cosı̀ che l’osservatore può focalizzare o il
torso o la faccia, alludendo in tal modo alla notissima
teoria vitruviana delle proporzioni del corpo umano,
in particolare quella sulle proporzioni della testa rispetto al resto del corpo.36 Al reciproco rapporto
tra armonia cosmica e armonia del corpo umano fa
30 La presenza di Mida e Minerva alla sfida rimanda al commento su Dante di Cristoforo Landino, cfr. WYSS, 1996, p. 110.
31 Si veda in proposito p. es. FRIEDMAN , 1970, p. 81.
32 Lo studio del Bronzino al Louvre per la figura di Marsia lo
mostra ancora con un flauto di Pan (cfr. in proposito WYSS, 1996,
p. 110, fig. 82).
33 Per esempio Cicerone (De natura deorum, II, 149) illustra
sulla base di una cetra la fonazione dell’uomo, dove la lingua funge
da plettro, i denti da corde e le narici da tavola armonica. Plotino
(Enneaden II, 3, 13) scrive che i disturbi del corpo e dell’anima sa-
rebbero comparabili ad una lira ancora non cosı̀ ben accordata da
riprodurre l’esatta armonia e da produrre le note giuste. Sant’Ambrogio (SANT’AMBROGIO, Exameron, VI, 9, 61) ha descritto i nervi
come corde di uno strumento, tese tra il cervello e il resto del corpo.
34 Etymologiarum Libri, III, 22, 6: «Chordas autem dictas a
corde, quia sicut pulsus est cordis in pectore, ita pulsus chordae in
cithara».
35 Cfr. TOUSSAINT, 2001, p. 122.
36 VITRUVIO , De architectura libri decem, III, 1.3.
SUSANNE POLLACK – IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI
17
riferimento l’iscrizione greca su una targhetta in avorio sul retro della lira: «L’uomo ha le odi quale medicina contro la malattia».37 La malattia, sia fisica che
psichica, veniva considerata come un disturbo dell’armonia di corpo e anima. Per guarire, tale armonia
doveva essere ricostituita. A tal fine ai pazienti veniva
consigliato il terapeutico effetto della musica, in particolare quella prodotta da strumenti a corda – quale
eco terrena della musica cosmica e quindi dell’armonia universale.38
Quando realizzò l’immagine che più tardi Sanuto
impiegò come modello per la sua incisione, Bronzino
conosceva certamente le teorie sullo stretto reciproco
legame di musica e medicina che stava alla base del
principio universale dell’armonia pitagorica. Esse furono sostenute con grande fervore nel Rinascimento
soprattutto da Marsilio Ficino, uno dei più preminenti intellettuali dell’Accademia Fiorentina. Ficino
stesso studiò medicina e si era fatto un nome per traduzioni e commenti di scritti antichi che si occupava-
no di teorie dell’armonia universale. La scena dello
scorticamento di Marsia da parte di Apollo, che si
collega a sinistra con quella della sfida, deve essere vista in questo contesto. Qui non è mostrata alcuna
barbarica orgia di violenza, com’è descritta fra l’altro
da Ovidio; Apollo, concentrato ad operare con un
piccolo coltello, ricorda piuttosto un medico che è
in procinto di sezionare un cadavere a scopo di ricerca. Marsia non è «tutto una piaga» 39 e neppure si vede il suo volto urlante e terrorizzato come in molte
altre rappresentazioni di questo mito. Il suo corpo
giace al suolo senza catene; testa e busto sono sorretti
da un macigno, dalle gambe piegate già accuratamente scorticate colano minuscoli rivoli di sangue. Soltanto il braccio destro di Marsia è fiaccamente sollevato,
altrimenti sembrerebbe che ogni volontà di difesa si
sia in lui già spenta. I cinque papaveri in primo piano
fanno riferimento alla somministrazione di un anestetico che ha gettato Marsia in uno stato inerme e insensibile. Queste osservazioni evidenziano come qui
più che lo scorticamento punitivo di un vivente si
mette in scena un atto medico. Cosı̀ diventa chiaro
che le due scienze, medicina e musica, sono da intendersi come discipline sorelle. Il musicare e il sezionare sono collegate ancora più strettamente laddove esse sono condotte da una e medesima persona, il
giovane dio Apollo. Inoltre si noti come pure i gesti
sono sorprendentemente simili: un braccio piegato
e uno disteso, Apollo tiene il suo coltello cosı̀ come
l’archetto della sua lira. Poco al di sopra del coltello,
Marsia con il dito indice della mano destra, sollevata
con le sue ultime forze, indica un punto del braccio
di Apollo dal quale si può seguire il corso di una vena
ben rilevata (fig. 4).40 Tanto presso i greci che fra i
latini fu impiegata per indicare una vena, un tendine
e/o un fascio muscolare, la stessa parola che per «corda» (met&qom e corda/chorda). La stessa analogia si ripete nell’Apollo musicante: la sua sinistra che sorregge la lira si stende proprio in linea col corso delle
corde invisibili all’osservatore, cosa che conferma
l’intenzione dell’artista.41
Naturalmente, non tutte le rappresentazioni di
uno strumento rimandano a un rapporto cosı̀ complesso come nel caso delle opere di Raimondi o Sanuto appena discusse. Per alcune osservazioni, da
37 KTPGR IASQOR ERSIM AMHQXPOIR XAG (secondo la trascrizione in WINTERNITZ, 1979, p. 88).
38 Nel cristianesimo il più noto esempio di una tale pratica curativa è il racconto di Davide che suona l’arpa davanti a Saulo tormentato da uno spirito maligno. Si veda in proposito il saggio di
Anne Schultz in questo volume.
39 OVIDIO , Metamorfosi, VI, v. 386.
40 Il forte interesse di Bronzino per l’anatomia umana traspare anche dal suo San Bartolomeo scorticato (1556, Roma, Galleria
Nazionale di San Luca). Cfr. Monaco, in FIRENZE, 2010, p. 312,
n. VI.9.
41 Al riguardo è interessante ricordare un’ulteriore opera di
Bronzino, il Ritratto di Cosimo I in veste di Orfeo (1537-1539 circa,
Philadelphia, Philadelphia Museum of Art), che gioca anch’essa con
la sovrapposizione tra corpo e strumento. Forse anche Melchior
Meier voleva alludere alle ‘corde del corpo’ quando nella sua stampa
(cat. 20a) posizionò il coltello di Apollo proprio sul braccio scorticato di Marsia.
Fig. 3. GIOVANNI D’ANDREA, Lira da Braccio, 1511 circa, Vienna,
Kunsthistorisches Museum.
18
Fig. 4. GIULIO SANUTO, Apollo e Marsia (particolare), 1562, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi.
principio misteriose, si possono trovare semplici
spiegazioni, le quali non escludono, ma neanche implicano necessariamente, un ulteriore piano di significato. La cauta presa di posizione tra i due poli rappresenta una grande sfida per gli storici dell’arte cosı̀
come per i musicologi. Cosı̀ per esempio una consueta prassi musicale, che allo spettatore odierno non
è più familiare, può essere una spiegazione per una
– a prima vista – enigmatica posizione di un musicista. Osservando un disegno attribuito a Hendrick de
Clerk (cat. 17) può sorprendere che Marsia, durante
la sfida con Apollo, suoni il flauto di Pan tenendolo al
contrario.42 La rilettura del testo alla base del mito
mostra però che l’artista non ha fatto altro che tradurre fedelmente in immagine un episodio che si
può trovare per lo meno in due descrizioni antiche:
tanto Igino che lo Pseudo-Apollodoro 43 riferiscono
che nel momento in cui le Muse, incaricate del giudizio, vollero da principio dichiarare Marsia vincitore,
Apollo dimostrò che egli poteva suonare il suo strumento al contrario e per di più poteva anche cantare.
In entrambe le cose Marsia era irrimediabilmente
sconfitto – e nel disegno in esame è esattamente questo che vediamo rappresentato. Talvolta anche i limiti
tecnici dipendenti dai rispettivi mezzi impiegati in-
42 Marsia appare qui con zampe di caprone, quindi con le sembianze di Pan. Per l’interferenza tra Marsia e Pan si veda il saggio di
Martina Papiro in questo catalogo, che ringrazio per avermi spiegato
questo aspetto del disegno.
IL DOLCE POTERE DELLE CORDE
fluenzano la rappresentazione degli strumenti musicali. Cosı̀, le corde mancanti dalla lira di Orfeo sulla
placchetta attribuita al misterioso Moderno (cat. 44)
non hanno in alcun modo lo stesso potenziale enunciativo di quelle assenti dall’incisione di Carracci (cat.
39). La rappresentazione delle corde, quindi di una
serie di sottilissime linee strettamente parallele, in lavori in bronzo e soprattutto in targhette di dimensioni cosı̀ contenute era a malapena possibile ed era prova di grande maestria, se vi si riusciva, come ad
esempio nella più tarda e leggermente più grande
rappresentazione del Parnaso di un ignoto incisore
francese (cat. 47). Per un disegnatore la rappresentazione delle corde non costituiva un problema; però la
raffigurazione della mano che afferra lo strumento e
delle dita che avrebbero dovuto tenere le singole corde, cosı̀ come la rappresentazione prospetticamente
scorciata degli stessi strumenti si rivelava non di rado
un’insormontabile difficoltà, oppure offriva l’occasione di mostrare particolare abilità. Per illustrare una
tecnica da lui sviluppata con l’ausilio della quale un
oggetto poteva essere rappresentato prospetticamente, Albrecht Dürer nella sua Underweysung der Messung (Norimberga, 1525) scelse, certamente non a caso, un liuto (fig. 5). La pura quantità degli strumenti
a corda, in particolare proprio di liuti, raffigurati in
scorci audaci, poteva trovare la sua spiegazione parziale nel desiderio di dimostrare il proprio virtuosismo artistico.
Fig. 5. Realizzazione del disegno prospettico di un liuto, in ALBRECHT
DÜRER, Underweysung der Messungen, Norimberga, 1525.
43
IGINO, Fabulae, 165; Pseudo Apollodoro I, 4,2.
SUSANNE POLLACK – IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI
L’ATTUALIZZAZIONE
DEGLI STRUMENTI ANTICHI
Le rappresentazioni di strumenti musicali non sono rilevanti soltanto per la storia delle immagini, ma
anche per quella della musica. Esse forniscono ai musicologi importanti informazioni sulla costruzione
degli strumenti e sulla prassi musicale e, conseguentemente, hanno ottenuto forte attenzione come cosiddette immagini-fonte (Bildquellen). La ricerca ha avuto particolare riguardo per la lira da braccio (cat. 48),
da sempre considerata lo strumento per eccellenza
dell’alto Rinascimento italiano, che oggi può essere
studiata soltanto sulla base di pochi esemplari, per
di più relativamente tardi.44 Oltre alle immagini di angeli musicanti,45 sono in primo luogo quelle dei miti
dei due celebri rapsodi dell’antichità, Apollo e Orfeo,
che rendono possibile lo studio visivo della lira da
braccio.46 L’ovvia domanda del perché questi cantori,
a partire dalla fine del Quattrocento, al posto della lira
antica suonino spesso una lira da braccio, viene talvolta spiegata con l’idea che a quel tempo la lira da braccio, per le sue caratteristiche organologiche e tecnicomusicali, fosse ritenuta uno strumento antico.47
Ritengo che debba essere riconsiderata una tale
spiegazione relativa all’apparizione della lira da braccio nelle immagini del tardo Quattrocento, quindi
proprio al momento presunto della sua nascita.
Non sono forse piuttosto le immagini che mostrano
la lira da braccio ovunque nelle mani degli antichi
eroi ad aver prodotto l’idea – comunque non ritracciabile nei fonti scritte prima degli anni Cinquanta
del Cinquecento – che si trattasse di uno strumento
antico? L’immagine sarebbe quindi non il documento di un’interpretazione, ma l’avrebbe essa stessa, in
alcuni casi, suggerita. Lo stadio delle conoscenze relative alla costruzione degli strumenti musicali antichi
era a quel tempo già piuttosto avanzato, grazie allo
studio di alcune sculture antiche, come ad esempio
quelle dei sarcofagi.48 Difficilmente può essere sfuggito che nelle rappresentazioni degli antichi non vi
sia alcuno strumento ad arco – l’archetto, provenien-
44 Cfr. in proposito BALDASSARRE , 1999, pp. 5-28; WINTERNITZ ,
1979, pp. 86-98.
45 Per rappresentazioni di angeli con lira da braccio si veda POWERS , 2001, pp. 20-29.
46 Si aggiungano, ma ben più raramente, i seguenti suonatori di
lira da braccio: il re salmista Davide; Omero; rappresentazioni allegoriche di Poesia e Armonia; famosi improvvisatori del tempo. Rappresentazioni della sola lira da braccio si trovano soprattutto in tarsie lignee. Nei trattati musicali contemporanei sono contenute soltanto
poche illustrazioni dello strumento e relative alla fase tarda (cfr. WINTERNITZ, 1979, p. 91).
47 Vengono portati a prova della presunta antichità della lira da
braccio: il numero delle corde, normalmente sette, e con ciò corrispondente esattamente al numero delle corde della leggendaria lira
di Orfeo; le due corde di bordone dispiegate parallelamente sulla ta-
19
te dall’ambito culturale arabo-bizantino, fu infatti introdotto nella Spagna arabizzata e nell’Italia del sud
soltanto nel X secolo. Osservando le rappresentazioni
di Apollo o di Orfeo del tardo XV e del XVI secolo si
nota altresı̀ che gli antichi eroi spesso venivano mostrati in abiti del tempo, quindi seguendo un’attualizzazione ben consapevole. In questo senso la rappresentazione di strumenti contemporanei il cui suono,
a differenza di quello della lira antica non più usata,
fosse familiare all’osservatore potrebbe anche essere
stata scelta di proposito. Una simile ipotesi è sostenuta dal fatto che in queste immagini Apollo e Orfeo
non suonano soltanto la lira da braccio al posto di
quella antica, ma anche la viola (da braccio e da gamba), quindi uno strumento al quale non vennero mai
attribuite origini antiche; essi però non suonano quasi
mai il liuto, lo strumento considerato l’erede più nobile della lira antica.49
La prima immagine della sfida tra Apollo e Marsia in cui la lira antica viene sostituita dalla lira da
braccio è, probabilmente, una xilografia dell’edizione
veneziana del 1497 di una parafrasi in volgare delle
Metamorfosi di Ovidio, opera di Giovanni Bonsignori
(fig. 6).50 La sua analisi può illuminare sul motivo della
sostituzione di uno strumento con un altro. Per quanto
Fig. 6. ARTISTA VENEZIANO, Apollo e Marsia, in OVIDIO, Metamorphoseos Vulgare, Venezia, 1497.
stiera, che ricordano l’antica kithara; e infine anche l’idea che l’antico
plettro fosse un archetto, come p. es. in BALDASSARE, 1999, p. 17;
WINTERNITZ, 1979, pp. 86 sg., 96. Anche la funzione musicale della
lira da braccio, di accompagnare il canto improvvisato, avrebbe portato a pensare che fosse uno strumento antico (ibid.).
48 Si poteva p. es. dimostrare che Raffaello aveva studiato per
l’affresco del Parnaso (Roma, Stanza della Segnatura, 1511) gli strumenti musicali del cosiddetto Sarcofago Mattei (Roma, Museo Nazionale, tardo III secolo). Cfr. WINTERNITZ, 1979, pp. 185-201.
49 Si veda in proposito anche il saggio di Gabriele Rossi Rognoni in questo volume.
50 L’ipotesi che questa sia la prima rappresentazione di Apollo
che suona una lira da braccio in competizione con Marsia si trova in
WINTERNITZ, 1979, pp. 89 sg.
20
IL DOLCE POTERE DELLE CORDE
modesta possa apparire oggi all’osservatore la piccola
xilografia, tanto grande era stato però il suo effetto all’epoca. Fin da principio destinato a un grande pubblico, il libro fu ripetutamente ripubblicato e le sue immagini servirono di riferimento agli artisti per la
rappresentazione di scene tratte dalle Metamorfosi.
Non soltanto Apollo ma anche Marsia suona qui uno
strumento di quel tempo: al posto di un aulos c’è una
cornamusa! Anche in questo caso si pone la domanda:
quale motivo poteva avere questa sostituzione?
La xilografia, che sul bordo inferiore a sinistra fu
firmata dall’incisore con il monogramma «ia»,51 mostra non soltanto gli episodi della sfida e dello scorticamento, ma anche l’antefatto raccontato da Bonsignori. Atena suonava presso un banchetto di dei la
sua «cialamella»,52 una scena su cui l’osservatore
può gettare uno sguardo grazie a uno squarcio nel
cielo appena sopra la linea dell’orizzonte, nella metà
sinistra dell’immagine. La dea, cosı̀ riferisce ancora
Bonsignori, non ottiene in alcun modo però l’atteso
successo per la sua esecuzione, ma piuttosto viene derisa dagli dei. Delusa, abbandona il cielo e scende sulla terra, dove d’un tratto le si chiarisce il motivo delle
risa, quando scorge rispecchiate nell’acqua le gote
gonfiatesi per il suonare, che deformano il suo bel viso. Perciò ella, inorridita, getta il suo strumento. Proprio questo strumento, di lı̀ a poco, sarà trovato da
Marsia che lo userà nella sfida con Apollo. Nell’incisione, Atena non ha ancora scoperto il suo riflesso e
sta suonando la cornamusa in un ampio paesaggio
collinare, che è lo stesso spazio degli altri protagonisti, Apollo e Marsia. Ciò che nel mito si sussegue nel
tempo, nell’incisione viene mostrato simultaneamente. Atena e Marsia suonano contemporaneamente:
sembra quasi che i due vogliano, unendo le forze,
schierarsi contro il giovane dio. Apollo sta tutto solo
tra i due suonatori totalmente immersi nell’esecuzione. La sua prova è finita, la lira da braccio è stata abbassata, l’archetto è sollevato in un modo che ricorda
immancabilmente una spada, cosa che gli conferisce
un’autorità da giudice. Con gli angoli della bocca ribassati, a esprimere il suo scetticismo o la sua sofferenza per il tormento ottico e acustico, egli guarda
Atena confermando cosı̀ la sua reale presenza nella
scena a dispetto della logica della narrazione.
Nella metà destra dell’immagine si può vedere
Apollo, ora soddisfatto e sorridente, scorticare Marsia nudo e urlante. Nel raffigurare il dio stesso come
esecutore materiale della pena, l’inventore dell’incisione rompe con l’iconografia tradizionale. Sebbene
in quasi tutti i testi antichi, cosı̀ come in quelli del Rinascimento, Apollo venga descritto proprio in questa
funzione, nessun artista aveva mai osato lasciare che
egli eseguisse con le proprie mani l’atroce atto. Il
dio rimaneva sempre elegante osservatore della scena.53 In questa xilografia invece Apollo non è soltanto il giudice della competizione, ma anche l’esecutore
della pena. Al di sotto della scena dello scorticamento
giacciono, isolati dai suonatori, i loro strumenti musicali: la lira da braccio e la cornamusa, i veri antagonisti della sfida. Accanto alla cornamusa si trova la veste di Marsia, come un primo involucro sfilato dal
suo corpo, al quale dovrà seguire la pelle.54 Questa
si può vedere già appesa al di sopra della scena: come
monito a una tale presunzione essa pende, in lontananza, in un tempio circolare.
Tutti i richiami allo scorticamento all’interno dell’immagine consentono di rispondere facilmente alla
questione sollevata prima. Perché dunque una cornamusa? Perché essa sostanzialmente non è altro che
una pelle scuoiata e quindi nessun altro strumento
a fiato poteva meglio alludere al destino del temerario
Marsia. In fondo ne è essa stessa già un’incarnazione.
E la lira da braccio che d’ora in avanti si vedrà
spesso in mano ad Apollo? Si può sostenere che l’inventore dell’incisione l’abbia scelta con avvedutezza.
Il fatto che la lira da braccio sia uno strumento a corda, che quindi può essere suonato solo con un archetto, può essere stato un aspetto importante. L’ipotesi è
rafforzata dalle successive rappresentazioni del dio
musicante: quando l’antica lira è sostituita da uno
strumento a corda contemporaneo, anche se non
sempre si tratta di una lira da braccio, di regola,
per lo meno nelle rappresentazioni italiane, si trova
uno strumento ad arco e non a pizzico come ad esempio il liuto.55 Come arma, l’arco è da sempre uno dei
più importanti attributi del dio. Egli sconfisse il potente serpente Pitone con numerose frecce, le quali
soltanto grazie alla tensione del suo arco poterono ottenere il loro effetto annientante; 56 il dio tirò per no-
51 La correlazione del monogramma «ia» a una concreta personalità artistica non è ancora riuscita, tuttavia si potrebbe sostenere
che sia associabile all’incisore piuttosto che al disegnatore (cfr.
BLATTNER, 1998, pp. 88-94).
52 Bonsignori denomina lo strumento di Atena e Marsia «cialamella» o «celemella», un tradizionale strumento a fiato in legno,
quello di Apollo «cetira» e indica Marsia come «villano» (BONSIGNORI, 1497/2001, p. 316).
53 Cfr. in proposito WYSS, 1996, p. 84.
54 La veste di Marsia si trova anche in una tavola di Michelan-
gelo Anselmi del secondo quarto del XVI secolo (Washington D.C.,
National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection), che si è chiaramente ispirata alla nostra xilografia veneziana. La cornamusa lı̀ accanto è flaccida, priva d’aria, di modo che l’analogia con la veste e
quindi con lo scorticamento è ancor più evidente.
55 FRINGS , 1999, p. 50 nella sua ricerca di rappresentazioni di
Apollo con liuto non ne ha rintracciato alcun esempio.
56 Si vedano p. es. CALLIMACO , Inni ad Apollo, 100 sgg.; OVIDIO, Metamorfosi, 1,443; APOLLODORO, Biblioteca, 1,4,1.
21
SUSANNE POLLACK – IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI
ve giorni i suoi dardi appestati contro l’accampamento dei troiani per punirli.57 La doppia funzione dell’arco, di scagliare proiettili mortali e produrre musica soave, corrisponde all’ambivalenza di Apollo,
musicista e punitore.58 Come la cornamusa nella xilografia suonata dallo sprovveduto Marsia incarna già il
suo scorticamento, cosı̀ l’archetto ben sollevato rimanda già al ruolo punitivo del dio.
La proprietà dell’arco di unire le differenti e tuttavia non separabili caratteristiche di Apollo traspare
in tante rappresentazioni del dio intento a suonare
uno strumento ad arco. Questa ambiguità viene tematizzata esplicitamente in un disegno di un anonimo maestro lombardo (cat. 23). In posa trionfalmente disinvolta, Apollo rivolge lo sguardo verso il pitone
giacente ai suoi piedi trafitto di frecce. Nelle sue mani
egli però non tiene arco e frecce, ma una viola da
gamba e l’archetto, come se avesse sconfitto grazie
a essi il terribile serpente. La rappresentazione di
Apollo con uno strumento ad arco e non a pizzico
si è stabilmente affermata, anche se il valore accordato al dettaglio va valutato caso per caso.
Colpisce che lo stesso avvenga per Orfeo. Quando viene rappresentato con uno strumento contemporaneo egli suona per lo più uno strumento ad arco.
Valgono qui le stesse considerazioni fatte per Apollo? 59 Ciò stupisce innanzitutto poiché Orfeo stesso
non ha niente a che fare con arco e frecce. Tuttavia
egli ha uno stretto rapporto con Apollo. Il suo portentoso strumento a corda gli fu consegnato dal
dio, suo padre, che gli insegnò a suonarlo; 60 le immagini dei due citaredi sono da sempre strettamente intrecciate o addirittura intercambiabili. Ciò è mostrato
molto chiaramente in un’incisione di un anonimo
maestro del 1558 (cat. 5), in cui Orfeo che siede
fra animali e suona la sua lira altri non è che l’Apollo
del Parnaso di Raimondi, incisione apparsa circa quarant’anni prima, inserito in un contesto diverso (cat.
10).61 Baccio Bandinelli esalta l’affinità tra Apollo e
Orfeo mediante un accostamento formale (fig. 2 nel
saggio di G. Rossi Rognoni). Egli mostra il cantore
in una posa simile a quella dell’Apollo del Belvedere.62 Solo mediante il ricorso al cane infernale Cerbero, che rimanda alla discesa di Orfeo all’Ade, può
essere evitata la confusione. Se si rinuncia a tali
allusioni, come ad esempio nella scultura in bronzo
di Bertoldo di Giovanni, non si hanno più certezze
sull’identità del personaggio raffigurato (cat. 43).
Si vedano p. es. IGINO, Fabulae, 121; OMERO, Iliade, 1,45 sgg.
L’insieme di sorriso e ira, di allegro e lugubre, clemenza e rigore nell’essere di Apollo si esprime anche nel suo ruolo di ApolloElio. I raggi del sole hanno da un lato un effetto mortale e annientante, dall’altro donano e consentono la vita. Inoltre essi illustrano,
come anche le frecce e i suoni delle corde, il principio della Fernwirkung, cioè dell’essere presente malgrado una distanza spaziale; cosa,
come già detto, tematizzata anche sul frontespizio di Gafurius e che
rappresenta un elemento di collegamento fra le diverse caratteristiche di Apollo (Elio, Pitico, Musagete).
59 Fra le poche eccezioni a me note di rappresentazioni italiane
nelle quali Orfeo viene mostrato con uno strumento a pizzico, sono:
un disegno a penna raffigurante Orfeo e gli animali nell’Ovidio Maggiore di Arrigo Simintendi (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale,
MS Panciatichi 63, f. 86r), del 1370-1380 circa; un rilievo con lo
stesso soggetto nel campanile fiorentino di Luca della Robbia, del
1437-1439; la Morte di Orfeo del 1470-1490 circa, un’incisione su
rame di un maestro ferrarese probabilmente basata su un prototipo
di Andrea Mantegna, di cui esiste un unico esemplare alla Kunsthalle
di Amburgo (The illustrated Bartsch XXIV, 3, p. 155, fig. 4 nel saggio
di S. Vitali); infine un disegno di un altro anonimo ferrarese del XV
secolo (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe, Uff. 1394 E) (cat. 1).
60 Si vedano p. es. PINDARO , Pitica, 4,176 sg.; Mitografo vaticano, II 44; IGINO, Fabulae, 273,11.
61 Per l’incisione del 1558 si veda il contributo di Marion Heisterberg in questo catalogo. Il Parnaso del Raimondi viene citato anche sullo sfondo dell’Apollo e Marsia (cat. 16) di Giulio Sanuto – qui
tuttavia privo di Apollo.
62 Vasari loda Bandinelli nella Vita a lui dedicata per aver imitato molto liberamente l’Apollo del Belvedere. Cfr. in proposito e
per il significato politico della scultura, LANGEDIJK, 1976, pp. 33-52.
63 Cfr. WINTERNITZ, 1979, pp. 150-165, in part. p. 153.
64 WINTERNITZ, 1979, p. 95. La formula tanto spesso ricorrente
«cantare ad lyram» altro non significa che cantare alla lira da braccio
o improvvisare con qualche altro strumento a corda del tempo (cfr.
PIETROPAOLO, 2003, pp. 1-287, in part. p. 5). I famosi improvvisatori,
che si esibiscono pubblicamente, sono quasi sempre rappresentati o
descritti con una lira da braccio, solo raramente con un liuto o
un’arpa (cfr. in proposito MCGEE, 2003, pp. 31-707, in part. p. 34,
61; HAAR, 1986, pp. 76-997, in part. p. 78). La questione dell’italianità entra altrettanto in gioco: in certi circoli intellettuali fiorentini o
romani l’improvvisazione musicale era considerata come «il vero stile
italiano» in contrapposizione al repertorio scritto che veniva associato ai compositori stranieri dell’Europa settentrionale (cfr. MCGEE,
2003, p. 35; NOSOW, 2002, pp. 175-221).
57
58
L’ARTE
DELL ’IMPROVVISAZIONE
Se il rimando all’arco-arma può spiegare la preferenza per gli strumenti ad arco rispetto a quelli a pizzico, il fenomeno dello scambio in sé – fra strumenti
contemporanei e antichi – e la motivazione che sta
sullo sfondo non si possono cogliere in tutta la loro
ampiezza ricorrendo alla stessa motivazione. È stato
osservato che l’incremento delle rappresentazioni di
Apollo e Orfeo nel tardo XV secolo e nel XVI è contemporaneo all’apparizione sulla scena dei cantori
improvvisatori.63 Il canto improvvisato alla lira corrispondeva all’idea che gli archeologi della musica di
allora avevano degli esercizi degli antichi rapsodi e
poeti.64 Grazie alla sua funzione musicale di strumento d’accompagnamento per il canto solista improvvisato, la lira da braccio nelle mani di Apollo e Orfeo
era predestinata a testimoniare la continuità di questa
pratica musicale – cosa però da non confondere con
la continuità dello strumento stesso! Cosı̀, quando
nel 1480 a Mantova fu eseguita la Fabula di Orfeo
22
IL DOLCE POTERE DELLE CORDE
di Angelo Poliziano, l’artista mimante Orfeo, Baccio
Ugolino, uno dei più famosi improvvisatori del suo
tempo, suonava una lira da braccio.65 Questo genere
di esecuzioni influenzava a sua volta le arti visive – e
viceversa.66 Che il liuto, in virtù della sua funzione
musicale comparabile con la lira da braccio, quindi
pensabile per lo stesso scopo, sia stato usato solo
molto raramente nelle rappresentazioni dei mitici
cantori, rafforza ancora una volta il significato dell’arco come criterio della scelta.
La prassi dell’improvvisazione si fonde con l’imitazione dei famosi improvvisatori dell’antichità – e
non soltanto sul palcoscenico. Il più fulgido esempio
è senza dubbio Marsilio Ficino, che fu acclamato quale reincarnazione di Orfeo; egli meritava in effetti pienamente questa reputazione.67 Giovanni Corsi, biografo di Ficino, riferisce che egli cantava alla sua lira
antiquo more, il che significa, probabilmente, che improvvisava la sua esecuzione mentre recitava gli inni
orfici.68 Quale significato attribuisse Ficino all’antica
prassi dell’improvvisazione, è mostrato dall’enumerazione delle attività che, secondo lui, rendevano d’oro
il suo tempo: il canto di canzoni secondo l’uso antico
alla lira orfica segna l’ultimo, culminante, elemento.69
Vi sono anche connessioni figurative del rapporto
tra Ficino e Orfeo. Ad esempio, egli aveva fatto decorare la sua lira 70 con un’immagine di Orfeo tra gli
animali selvatici.71 Infine, in questo contesto è anche
interessante ricordare il busto di Ficino nel duomo
di Firenze, realizzato nel 1521 da Andrea Ferrucci
(fig. 7). La postura attribuita alla figura in pietra ricorda con tutta evidenza quella di un Orfeo musicante che tiene la lira. Però Ferrucci non si limita qui a
presentare Ficino come alter Orpheus: sostituendo alla lira un libro di Platone, sulle cui pagine egli sembra
suonare, offre da una parte un intelligente commento
alla sua biografia – il ritrattato è senz’altro uno dei
fondamentali rinnovatori del neoplatonismo – e dall’altra presenta l’agire orfico, incluso l’improvvisare,
come essenziale del suo operare.72
Di tanti eminenti artisti, come il Verrocchio,
Giorgione e il Parmigianino, vien detto da Vasari
che suonavano strumenti a corda.73 Per alcuni si sottolinea inoltre l’attitudine a saper recitare all’improvviso. Un esempio straordinario è Leonardo da Vinci,74 che era uno dei più celebri suonatori di lira da
braccio del suo tempo e che, secondo Vasari, poteva
improvvisare allo strumento tanto cantando quanto
poetando e avrebbe perfino costruito egli stesso una
lira «in forma di un teschio di cavallo».75 Il fondamentale significato della musica come disciplina teorica e maestra di proporzioni e armonia per le arti visive è fuori discussione. Già Giovanni Paolo Lomazzo
affermò nella sua Idea del tempio della pittura (1590)
che artisti come Leonardo da Vinci, Michelangelo o
Gaudenzio Ferrari «pervennero alla cognizione della
proporzione armonica per via della musica e con la
considerazione della fabrica del nostro corpo».76
Cfr. MCGEE, 2003, p. 32; PIRROTTA, 1969, p. 8.
Cfr. RIETVELD, 2007, pp. 155-211.
67 Sulla questione della serietà della metafora in Ficino e in altri
membri del circolo umanistico fiorentino, si veda WARDEN, 1982,
pp. 85-1107, in part. p. 87.
68 «Orphei hymnos exposuit, miraque ut ferunt dulcedine ad
lyram antiquo more cecinit», citato da WARDEN, 1982, p. 87. Janus
Pannonius riferisce similmente: «Antiquum cytharae sonum et cantum
et carmina Orphica oblivioni prius tradita luci restituisses». Cit., da
ibid., si veda anche WALKER, 1953, pp. 100-1207, in part. p. 102.
69 «Hoc enim seculum tanquam aureum liberales disciplinas
ferme iam exstinctas reduxit in lucem, grammaticum, poesim, oratoriam, picturam, sculpturam, architecturam, musicam, antiquum ad
Orphicam Lyram carminum cantum», citato da WARDEN, 1982, p. 87.
70 HAAR, 1986, p. 35 presume che nel caso della lira di Ficino si
tratti di un liuto o di una viola.
71 Naldo Naldi per questa immagine ha perfino scritto un verso
dal titolo De Orpheo in ejus cythara picto. Cfr. in proposito CAPROTTI,
1987, pp. 19-287, in part. p. 22; WARDEN, 1982, p. 87.
72 Cfr. CHASTEL, 1954, p. 48.
73 Per gli artisti-musicisti nelle Vite di Vasari si vedano MCIVER ,
1997 e il saggio di Jana Graul in questo catalogo, dove si trova anche
una lista completa degli artisti da lui menzionati in questo contesto.
74 Cfr. WINTERNITZ , 1982c.
75 VASARI , 1966-1997, IV, pp. 16, 24. Per la lira costruita da
Leonardo si veda VALLESE, 1998, pp. 405-424.
76 LOMAZZO, 1974, I, p. 343. Si vedano in proposito già WITTKOWER, 1949, pp. 104 sg.; PANOFSKY, 1955, pp. 88-98.
65
66
Fig. 7. ANDREA FERRUCCI, Busto di Marsilio Ficino, 1521, Firenze,
Santa Maria del Fiore.
SUSANNE POLLACK – IL SUONO DELLE CORDE GENERA IMMAGINI
Quale ruolo giocò però la prassi dell’improvvisazione per le arti visive? 77
Un ostacolo al diretto confronto tra musicisti e
coloro che operano nelle arti visive è il modo di presentare queste abilità. Mentre il musicista a causa del
carattere effimero della sua arte deve per forza praticarla davanti ad un pubblico, normalmente i secondi
non incontrano gli spettatori nell’atto della creazione.
Come può l’operato del pittore corrispondere all’atto
performativo del musicista improvvisatore o del poeta, ballerino e attore, la cui apparentemente spontanea perfezione manda in estasi il pubblico? Egli
dovrebbe far partecipare il pubblico alla creazione
delle sue opere. Affermare che ciò fosse assolutamente possibile era evidentemente l’intenzione di Giovan
Battista Armenini nel raccontare, nel De’ Veri Precetti
della Pittura (Ravenna, 1586), come egli stesso fu testimone dell’arte di Michelangelo («io ne viddi una
volta in Roma mirabil prova»).78
Michelangelo aveva incontrato dietro San Pietro
un giovane vasaio al quale era grato per avergli cotto
alcune cose d’argilla e gli aveva offerto di soddisfare
un suo desiderio. Questi gli portò immediatamente
un foglio di carta chiedendogli di disegnargli un Ercole. Michelangelo lo accontentò immediatamente.
Dopo aver assunto una posa dignitosa e posto il
suo piede su un panchetto, disegnò in breve tempo
l’Ercole. Quindi consegnò la sua opera al giovane,
che era in piedi accanto a lui, e se ne andò. Armenini
descrive il disegno con parole di ammirazione:
Il qual dissegno, per quanto io conosceva allora, mi
parve cosı̀ ben lineato, ombrato e finito, che passava ogni
uso di minio et era un stupor grande a quelli che ciò
ave[v]ano veduto fare in cosı̀ poco tempo, che altri vi
avrebbero giudicato dentro la fatica di un mese, sı̀ che si
può fare da questo giudizio quanto egli doveva essere facile in far le sue invenzioni.
In questo racconto sono contenuti tutti gli ingredienti per presentare al lettore l’analogia con gli improvvisatori che si esibivano pubblicamente, chiamati
anche cantipanca o cantastorie: un luogo pubblico,
un panchetto, una pubblica esecuzione spontanea
con risultato mirabilmente perfetto. Che Armenini
cerchi proprio questa analogia non può certo meravi-
Cfr. KORRICK, 2003, pp. 289-316.
ARMENINI, 1988, pp. 92 sg. Questi aneddoti non si trovano in
nessun’altra fonte del tempo.
79 Cfr. PARIGI , 1954, pp. 9-21.
80 Cfr. PIRROTTA, 1966, pp. 127-161, in part. p. 141.
81 Anche altre ‘tecniche veloci’, come ad esempio la pittura ad
affresco, possono servire allo scopo. Per riflessioni sulla tecnica dell’affresco come dimostrazione della prontezza di un artista (cfr.
77
78
23
gliare, visto che i cantastorie venivano considerati gli
improvvisatori per eccellenza ed erano stimatissimi
socialmente. A Firenze essi furono fortemente favoriti dai Medici. Di Lorenzo de’ Medici, come anche di
molti altri nobili, si racconta che si esercitava nel canto e nel poetare all’improvviso.79 Angelo Poliziano
informava Lorenzo che suo figlio Piero faceva grandi
progressi in quest’arte da lui tanto stimata,80 e ogni
domenica Lorenzo stesso ascoltava davanti San Martino il suo improvvisatore prediletto, Antonio di
Guido.
Il disegno, se eseguito in modo agile e virtuoso,81
consentiva di misurarsi con i grandi improvvisatori
musicanti del tempo, o meglio esso poteva costituire
una prova stabile di quella mirabile facilità e prontezza che è fondamentale per l’essenza dell’improvvisazione. La facoltà di improvvisare è una prova di maestria. Che questa sia però il risultato di un duro
lavoro, dovrebbe poter restare invisibile dietro la facciata della professionale facilità.82 Può esibirsi all’improvviso solo chi, attraverso infinito esercizio, ha
creato nella sua mente un repertorio di innumerevoli
possibilità combinatorie, alle quali egli può ricorrere
in ogni occasione con successo. Direttamente collegato al racconto delle performance pubbliche di Michelangelo, Armenini descrive, in rapporto all’arte del disegno di Giulio Romano, proprio queste libere
creazioni e composizioni tratte da un immaginario tesoro di motivi:
Fu parimente [riferito a Michelangelo] Giulio Romano cosı̀ copioso e facile, che chi lo conobbe affermava
che quando egli dissegnava da sé qualcosa si fosse, che
si potea più presto dire che egli imitasse e che avesse inanzi
a gli occhi ciò che faceva, che egli componesse di suo capo,
perciò che era la sua maniera tanto conforme e prossimana
alle scolture antiche di Roma che, per esservi stato studiosissimo sempre mentre era giovine, che ciò che deponeva e
formava pareva esser proprio cavato da quelle.
Anche Vasari loda questo artista come disegnatore e sottolinea la sua «facilità» e spontaneità, che si
evidenzia soprattutto nei suoi schizzi realizzati di getto. Poiché i disegni di Giulio Romano mostrano più
«vivacità, fierezza et affetto» dei suoi dipinti, dà a lo-
DAMM, 2011). Per osservazioni generali in questo contesto si veda anche SUTHOR, 2010.
82 Sull’apparente facilità, il cui calcolo non può essere visto in
alcun caso, scrive anche Baldassare Castiglione nel suo Cortigiano
(1528): «Però si po’ dir quella esser vera arte che non pare esser arte:
né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è
scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato». CASTIGLIONE , 1989, p. 59.
24
IL DOLCE POTERE DELLE CORDE
ro la priorità.83 Uno sguardo a due suoi schizzi conferma questo straordinario talento (cat. 25 e 26). La
spensierata agilità con la quale Apollo canta e improvvisa alla lira corrisponde del tutto alla raffinata
83
VASARI, 1966-1997, V, p. 60.
leggerezza con cui Giulio Romano ha realizzato lo
schizzo. I due fogli sono in questo caso, se cosı̀ si vuole, documento dello stesso atto, compiuto da Apollo
e da Giulio Romano.
MARZIA FAIETTI
ORFEO A BOLOGNA E LE DIVAGAZIONI
SUL MITO DI MARCANTONIO RAIMONDI
A Lucio Dalla, Orfeo bolognese dei nostri giorni
Tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento si verificò a Bologna un’ampia diffusione della
mitografia di Orfeo in diverse espressioni artistiche.
Essa trasse impulso da un insieme di fattori concomitanti, ciascuno dei quali contribuı̀ ad alimentare distinti filoni iconografici.
I due famosi Concerti di Londra e Madrid dipinti
da Lorenzo Costa 1 documentano in modo eloquente
la passione musicale nutrita dall’ambiente di corte
bolognese e condivisa da artisti quali Antonio da Crevalcore, Giovanni Battista Cavalletto, lo stesso Costa.
Analoghe predilezioni avevano contagiato insigni
letterati come Filippo Beroaldo e Giovanni Achillini
detto il Filotèo: il primo incluse un elogio della musica nelle sue Orationes multifariae edite a Bologna
nel 1500,2 mentre il secondo non mancò di elencare
un folto gruppo di musici e di cantanti bolognesi in
un passo del suo Viridario 3 terminato di scrivere
nel 1504 e pubblicato nel 1513, probabilmente senza
variazioni di rilievo rispetto alla prima stesura.4
Più sottilmente allusive a questo clima vivace di
fervori musicali mi paiono alcune immagini disegnate
dall’artista prediletto da Beroaldo, Francesco Raibolini detto Francia o il Francia – I tre musici all’Albertina di Vienna 5 –, oppure incise a bulino – I tre cantori e l’Allegoria della Musica 6 – e tracciate a penna –
un Giovane in piedi con strumento musicale ora a
Bayonne 7 – dal suo allievo Marcantonio Raimondi.
Proprio a Marcantonio del resto spettò di immortalare il Filotèo in una stampa più o meno coeva al
Viridario, ispirata al filone iconografico dell’Orfeo intento a suonare (fig. 1).8 Quel ritratto, poi, venne in
seguito tenuto in considerazione da Amico Aspertini,
cui spettò con ogni probabilità il disegno per il frontespizio dell’Opera Nuova Amorosa di Notturno Napolitano edita a Bologna da Girolamo Benedetti nel
1519, dove lo stesso poeta era effigiato nell’atto di
suonare uno strumento musicale ad arco.9
Il modello orfico dell’ispirazione quasi divina dell’artista era stato accennato dall’umanista Beroaldo e
più tardi sarà ripreso e sviluppato da Achille Bocchi.10 Non stupisce perciò che alcuni artefici bolognesi si sentissero lusingati dal paragone con l’eroe
mitologico; un caso fu senza dubbio quello del pittore Biagio Pupini, al quale venne riservato un elogio
sperticato nel Viridario: «[...] assimiglia Biasio Orpheo cantando, e col pennel Parrhasio».11
In un passo del successivo poema in terza rima
denominato Fidele, il Filotèo fornisce una chiave di
lettura che mi pare, almeno in parte, esplicativa del
successo di Orfeo. Per il poeta bolognese l’identificazione tra Dioniso e Apollo poggia sull’autorità indiscussa di Aristotele e sembra trovare conferma nei
tragici greci, ma è proprio tramite la figura di Orfeo
– figlio di Dioniso-Fanes secondo la tradizione orfica
e partecipe sia della natura apollinea che della natura
1 Rispettivamente alla National Gallery e al Thyssen Bornemisza Museum: si vedano le riproduzioni fotografiche in NEGRO e
ROIO, 2001, p. 87, cat. n. 9; p. 101, cat. n. 23.
2 CHINES, 1998, pp. 110-116, per un’ampia bibliografia su Beroaldo e altri umanisti a Bologna.
3 FAIETTI , 1993, pp. 182-184; cfr. anche FRANZONI , 1990, pp.
296-297, 306 e nota 112.
4 VIRIDARIO, MDXIII. Sull’opera segnalo particolarmente PERINI, 1999, pp. 42-54, con bibliografia.
5 Sul disegno si vedano soprattutto Faietti, in BOLOGNA e
VIENNA, 1988, pp. 258-260, n. 65; A. Gnann, in VENEZIA e VIENNA,
2004, pp. 46-47, n. 8, entrambi con bibliografia.
6 Bartsch 468 e 398. Per un primo orientamento sulle due
stampe anche in relazione alla tematica si veda Faietti, in BOLOGNA
e VIENNA, 1988, rispettivamente pp. 125-126, n. 18 e pp. 96-98, n. 4;
per la seconda si legga inoltre SAN JUAN, 1983, pp. 197-198.
7 Bayonne, Musée Bonnat, inv. 1347 (cfr. K. Oberhuber, in BOLOGNA, 1988, p. 68, fig. 13 a p. 67).
8 Bartsch 469. Ritorno ultimamente sul ritratto in FAIETTI ,
2010, p. 154 e nota 24 a pp. 154-155.
9 M. Faietti, in FAIETTI e SCAGLIETTI KELESCIAN , 1995, p. 339,
VII. 1.
10 GIOMBI , 2001, p. 15.
11 VIRIDARIO, MDXIII, p. CLXXXVIII r.
MARZIA FAIETTI – ORFEO A BOLOGNA E LE DIVAGAZIONI SUL MITO DI MARCANTONIO RAIMONDI
125
dionisiaca – che può rendersi possibile l’identificazione tra il dio dell’ebbrezza e dell’estasi mistica e il dio
della luce e della poesia rivelatrice.12
Gli interessi musicali largamente diffusi, da un lato, e le riflessioni in sede letteraria e filosofica sull’ispirazione divina (o quasi) dell’artista e sulla sovrapposizione tra Apollo e Bacco mediata da Orfeo,
dall’altro, non bastano da soli a dar conto della singolare fortuna goduta dal poeta tracio a Bologna tra
Quattro e Cinquecento.
Una terza, e non meno decisiva, motivazione è da
rintracciare nella vasta circolazione dell’opera polizianesca e, ancora prima, nelle relazioni intrattenute da
Angelo Poliziano con certi ambienti cittadini sin da
quando, nel giugno del 1491, in compagnia di Giovanni Pico della Mirandola egli aveva avuto modo
di ammirare le biblioteche bolognesi e le numerose
iscrizioni antiche, entrando in contatto con alcuni
collezionisti numismatici come Andrea Magnani e il
pesarese Pandolfo Collenuccio.13
Non sarà stato dunque casuale che l’editio princeps
delle Cose vulgare del Politiano, tra cui La festa di Orpheo, fosse edita nel 1494 a Bologna presso Platone
Benedetti e con la cura di Alessandro Sarti; né sarà stata una semplice coincidenza che negli ambienti più
coltivati fossero ben note sia le Georgiche di Virgilio
che le Metamorfosi di Ovidio, ritenute tra le fonti principali dell’umanista toscano sul mito di Orfeo.14
Infatti, nello Studio cittadino riscuotevano un
grande successo le lezioni dedicate sia a Omero che
a Virgilio da Antonio Urceo detto Codro, ellenista
convinto dell’unità organica della tradizione greco-latina e strenuo sostenitore del ritorno alle fonti,15 che in
quella prestigiosa sede universitaria ricoprı̀ stabilmente
un posto di lettore di grammatica, retorica e poetica, e
in seguito anche di greco, dal 1482 al 1500.16
Quanto a Ovidio, i suoi Opera Omnia avevano visto la luce già nel 1471 per merito dell’associazione
tra Francesco Dal Pozzo (il Puteolano), Annibale
Malpigli e Baldassarre Azzoguidi; senza contare che
quella data segnò quasi l’avvio di un susseguirsi inin-
terrotto di edizioni di classici latini e greci, questi ultimi tradotti in lingua latina.17
Non meraviglia pertanto che in ambito bolognese
a partire dagli anni Ottanta l’eroe mitico Orfeo fosse
spesso raffigurato intento a suonare e attorniato dagli
animali incantati dal suono della sua melodia, come
in una prova su carta per un niello di Francesco Francia, a sua volta copiata da Peregrino da Cesena in una
stampa a guisa di niello (niello-print).18 All’origine
della prova del Francia è forse da porsi un disegno
in controparte, ora agli Uffizi, realizzato nel corso
12 TRAVERSA , 1992, pp. 181-183. Per altre considerazioni sulla
cultura orfico-sapienzale caratterizzante l’umanesimo bolognese e
sul tema della musica si vedano ANSELMI e GIOMBI, 1988, pp. 10, 7.
13 DE MARIA , 1989, pp. 151-157, con bibliografia precedente.
14 Sull’Orfeo di Poliziano rinvio particolarmente, con ulteriori
indicazioni bibliografiche, a BAUSI (a cura di), 1997, I, pp. 43-59 (testo della Fabula), II, pp. 145-177 (commento); TISSONI BENVENUTI,
2000 (II ed.).
15 RAIMONDI (1956), 1972, p. 73.
16 Per la vasta bibliografia su Codro (tra cui si segnala l’opera
fondamentale di RAIMONDI, 1950; II ed. 1987) cfr. CHINES, 1998,
pp. 125-150.
17 Cfr. GIOMBI , 2001, nota 35 a pp. 55-56, a proposito del catalogo delle pubblicazioni uscite tra il 1501 e il 1514 presso uno dei
più attivi editori del periodo, Benedetto di Ettore Faelli, con cui collaborò in particolare Beroaldo (per conto di Faelli nel 1500 aveva infatti curato la stampa dell’Asino d’oro di Apuleio).
18 Cfr. M. Faietti, in BOLOGNA e VIENNA , 1988, pp. 327-328,
n. 100 (HIND 204); p. 333, n. 112 (HIND 203), con bibliografia.
Per un possibile influsso di Filostrato riscontrabile nella prova su
carta del Francia si veda la tesi di SAN JUAN, 1983, pp. 150-151;
nel Capitolo VI, intitolato Orpheus in ‘‘niello’’ and engraved prints,
pp. 142-167, la studiosa analizza le due opere di cui sopra e altre ancora, alcune delle quali – il disegno degli Uffizi menzionato di seguito
(cat. 1), e le due versioni di Orfeo ed Euridice di Marcantonio Raimondi rispettivamente Bartsch 282 e 295 (cat. 40) – considerate anche nel presente contributo, dove peraltro vengono formulate nuove
ipotesi interpretative.
Fig. 1. MARCANTONIO RAIMONDI, Ritratto di Giovanni Achillini,
detto Il Filotèo, 1504-1505 circa, Vienna, Albertina, Grafische
Sammlung.
126
del nono decennio con ogni probabilità a Bologna o
tra Bologna e Ferrara da un artista di educazione ferrarese e di notevole levatura (cat. 1); esso è stato da
tempo messo in relazione iconografica con la prova
menzionata, anzi talvolta venne ascritto, ma senza ragioni davvero stringenti, allo stesso Raibolini.19
In un bulino inciso poco dopo la metà del primo
decennio (fig. 2),20 Marcantonio si distingue dal filone
iconografico cresciuto intorno al foglio degli Uffizi soprattutto per il singolare taglio compositivo: qui il poeta
musico è raffigurato di tre quarti e di spalle, probabilmente per influsso del musico seduto a destra nel Trionfo della Morte dipinto da Lorenzo Costa nella Cappella
Bentivoglio in San Giacomo Maggiore a Bologna.21
Viceversa qualche tempo prima, nella stampa ricordata poco fa,22 Raimondi aveva optato per un ri-
LA PERDITA DI EURIDICE E LA MORTE DI ORFEO
Fig. 2. MARCANTONIO RAIMONDI, Orfeo incanta gli animali, 1506
circa, Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings.
tratto frontale del Filotèo forse per suggerire una più
immediata associazione tra il letterato bolognese e la
figura del poeta tracio.
Eccentrico come di consueto, Amico Aspertini in
un foglio che tuttavia oltrepassa i limiti temporali selezionati per questo contributo – siamo nel quarto
decennio avanzato del Cinquecento – indugiò sulla
drammatica morte di Euridice già morsa da un serpente e al cospetto, con ogni probabilità, di un disperato Aristeo che, inseguendola senza sosta, era stato
l’involontaria causa di quella disgrazia (cat. 37).
È possibile che Amico avesse tenuto presente la
fabula di Poliziano e intendesse illustrare liberamente
il momento appena successivo a quello in cui il bramoso pastore, bello come una statua apollinea (e in
effetti Aristeo era figlio di Apollo), risponde alle grida della sventurata moglie di Orfeo, gridando a sua
volta.
Cosı̀, infatti, recitava la didascalia del testo originale con la descrizione dell’inseguimento di Euridice,
che si svolgeva solo parzialmente davanti agli occhi
degli spettatori: «Seguitando Aristeo Euridice, ella
si fugge drento alla selva, dove punta dal serpente
grida, e simile Aristeo».23
La consueta identificazione dell’uomo con Orfeo 24 potrebbe essere ancora valida immaginando l’adozione di una iconografia piuttosto rara da parte di
Aspertini (fatto non insolito per l’artista bolognese) e
comunque indipendente dal testo di Poliziano; nella
fabula infatti Orfeo era messo al corrente della morte
di Euridice da un pastore che gli riferiva l’episodio
come già accaduto.
Tuttavia il gesto pudico della giovane riversa per
terra (che nasce da una rivisitazione della Venus pudica) sembra alludere ai suoi precedenti tentativi di sottrarsi alle bramosie del pastore, facendomi optare per
una identificazione del personaggio con Aristeo e per
la scelta consapevole da parte di Amico di un episodio del mito certamente più singolare e ancora meno
frequente rispetto all’inseguimento di Euridice.25
Poco dopo un’edizione della fabula di Poliziano
uscita a Firenze intorno al 1500 con il corredo di xilografie,26 Marcantonio raffigurò Orfeo accanto all’amata Euridice che aveva appena strappato dagli Infe-
19 E. Negro, in NEGRO e ROIO , 1998, pp. 98-100; ID . e EAD .,
2001, p. 14 (dove è ritenuto un probabile autoritratto). SAN JUAN,
1983, pp. 145-147, suggeriva una possibile paternità franciana, senza
tuttavia pervenire a una certezza definitiva.
20 Bartsch 314.
21 Istituisco questo confronto in B OLOGNA e VIENNA , 1988,
pp. 142-143, n. 27.
22 Bartsch 469.
23 TISSONI BENVENUTI , 2000, p. 148.
24 M. Faietti, in FAIETTI e SCAGLIETTI KELESCIAN , 1995, p. 313,
n. 99, con bibliografia precedente; A. Zacchi, in BOLOGNA, 2008,
p. 312, n. 128.
25 Viceversa, un caso di sicura identificazione della figura maschile con Orfeo, grazie all’attributo dello strumento musicale, è indicato da Samuel Vitali in questo stesso catalogo: si tratta del disegno
di Hans Süss von Kulmbach datato 1518 raffigurante una simile
scena di compianto alla vista del corpo riverso di Euridice morsa
dal serpente.
26 RIETVELD , 2007, p. 161; le xilografie sono state riprodotte in
ORLANDO (a cura di), 1976, pp. 107-128.
MARZIA FAIETTI – ORFEO A BOLOGNA E LE DIVAGAZIONI SUL MITO DI MARCANTONIO RAIMONDI
127
ri grazie al suono di uno strumento musicale simile
alla lira da braccio delle stampe fiorentine, piuttosto
che alla lira consueta (fig. 3).27
La corona d’alloro sul capo di Orfeo sottolinea la
sua funzione di poeta,28 mentre la bocca dischiusa
suggerisce l’atto del cantare. L’atmosfera serena, sottolineata già da altri,29 induce a pensare che al suo
canto poetico non fossero estranei quei «versi alegri»
da Ovidio di cui dà conto la forma teatrale della fabula allestita dai familiari del cardinal Gonzaga in un
manoscritto non pervenuto, ma forse da identificare
con l’esemplare dell’edizione bolognese del 1494:30
Orpheo ritorna, redempta Euridice, cantando certi
versi alegri che sono de Ovidio accommodati al proposito:
Ite triumphales circum mea tempora lauri! Vicimus: Euridice reddita vita mihi est. [...].31
Le due figure, dall’aura soavemente all’antica memore delle creature franciane, sono allineate in primo
piano su uno sfondo condotto a tratti paralleli che
rinvia ai rilievi delicatamente bidimensionali dei nielli
e concorre all’atmosfera sospesa di composizioni del
Francia permeate da un romantico proto classicismo,
come I tre musici già ricordati.
È probabilmente questa, tra le immagini realizzate da Marcantonio, la più vicina allo spirito della fabula di Poliziano; il carattere teatrale della rappresentazione è accentuato dall’immanenza delle figure,
allineate in primo piano come in un proscenio, e
dal gioco sottile di rispondenze e opposizioni dei gesti e delle posture.
Nelle composizioni più eleganti e rarefatte di
Guido Reni, per rimanere in ambito bolognese, ritroveremo una simile concentrazione su due protagonisti di una storia sacra o mitologica, raffigurati in primo piano come su una ribalta e atteggiati secondo
simmetriche rispondenze o intrecci e chiasmi compositivi più complessi sullo sfondo di un spazio descritto con economia di annotazioni naturalistiche – ho in
mente, ad esempio, l’Adamo ed Eva del Musée des
Beaux-Arts di Digione e l’Atalanta e Ippomene del
Prado.32
L’Orfeo ed Euridice di Marcantonio si mostra peraltro assai più moderno dell’illustrazione con Orfeo
nell’Ade nell’edizione fiorentina del 1500 circa, dove
il poeta tracio conduce fuori dalla porta degli Inferi la
sua giovane sposa, intenta a varcare la soglia di una
costruzione cilindrica in mattoni.33
La caverna dell’Ade compare alle spalle di Euridice nel secondo bulino di Raimondi licenziato intorno al 1509-1510 (cat. 40),34 dunque già a Roma e a
diretto contatto la cultura raffaellesca; in conseguenza di ciò la narrazione del mito non ricrea più l’atmosfera di una favola teatrale quattrocentesca, prediligendo una scena all’antica e un’umanità ideale e
monumentale.
Ma in questa nuova raffigurazione troviamo qualcosa di più qualora prestiamo attenzione al gioco degli sguardi dei due protagonisti: mentre nell’incisione
precedente Euridice afferrava il braccio dello sposo e
volgeva lo sguardo nella sua direzione, qui l’eroina è
Bartsch 282.
Su Orfeo incoronato come poeta: M. Faietti, in BOLOGNA e
VIENNA, 1988, p. 91, n. 1; SCAVIZZI, 1982, p. 136 e RIETVELD,
2007, p. 276.
29 SCAVIZZI , 1982, p. 136; RIETVELD, 2007, p. 276. Entrambi gli
studiosi scorgono sia nel bulino in esame che nella successiva versione Bartsch 295 (a proposito della quale si legga più avanti nel testo) il momento in cui i due amanti si lasciano alle spalle l’Ade e tornano felici alla vita, mentre Scavizzi in particolare sottolinea la vo-
lontà di affermare attraverso le due immagini il potere dell’arte e
della poesia.
30 Suggerivo questa possibile relazione in BOLOGNA e VIENNA ,
1988, p. 91, n. 1.
31 Denominata ft1: cfr. TISSONI BENVENUTI , 2000, pp. 52-57,
168-184 (citazione a p. 180).
32 Riproduzioni fotografiche in PEPPER , 1988, fig. 57 e tav. IV.
33 ORLANDO (a cura di), 1976, illustrazione a p. 119.
34 Bartsch 295.
27
28
Fig. 3. MARCANTONIO RAIMONDI, Orfeo ed Euridice, 1500-1503
circa, Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings.
128
colta mentre sembra volgere il capo verso l’oscura entrata dell’Ade. Parrebbe un’incongruenza rispetto al
mito, ma si tratta in realtà di una intenzionale, e significativa, deviazione che si ricollega a un’antica tradizione interpretativa di stampo allegorico.
Per argomentare la mia tesi devo introdurre
un’apparente deviazione dal discorso principale, accennando rapidamente, in primo luogo, all’identificazione della figura di Orfeo con Cristo, le cui lontane
origini si rifanno almeno ai tempi di Clemente di
Alessandria, Lattanzio, Eusebio e Cirillo di Alessandria.35
Nell’allegoresi medievale del mito orfico, per
esempio nell’Ovidius moralizatus di Pierre Bersuire,
se Orfeo è figura allegorica di Cristo, Euridice lo è
dell’anima:
Dic allegorice quod orpheus, filius solis est Christus,
filius dei patris: qui a principio euridicen id est animam
humanam per cartitatem & amorem duxit: ipsamque per
specialem praerogativam a principio sibi coniunxit.36
LA PERDITA DI EURIDICE E LA MORTE DI ORFEO
Un bulino con Cristo al Limbo (fig. 4),39 del periodo giovanile bolognese, rappresenta una sorta di
anello di congiunzione, anche sotto il profilo cronologico, tra la prima e la seconda versione dell’Orfeo ed
Euridice.
L’ingresso della caverna che si apre alle spalle di
Adamo preannuncia quello dell’Ade dietro Euridice
nella stampa più tarda, mentre la nudità dei due progenitori, ancora legata a influssi franciani e, nella figura di Adamo, a echi düreriani,40 troverà una naturale evoluzione in senso classico nella nudità statuaria
delle due corrispettive figure nell’incisione realizzata
a Roma (si noti in particolare in Euridice il riferimento al tipo della Venus pudica).
Nel Cristo al Limbo inoltre, se l’atteggiamento di
Eva riconduce al tema della cacciata dal Paradiso,
Cristo e Adamo sono disposti in modo simmetrico
e speculare, ribadendo anche sotto il profilo visivo
il legame tra il Figlio dell’Uomo e il primo uomo.41
Un’ulteriore assimilazione, quella che lega Orfeo
ad Adamo, riesce particolarmente utile per comprendere il secondo bulino di Raimondi. A sua volta può
vantare lontane ascendenze; infatti, di recente, a proposito di un verso del De paradiso di Ambrogio (7.35)
dove si individua nella disobbedienza del progenitore
la causa della sua morte, si è sottolineato come il testo
ambrosiano rifletta i versi 485-493 della quarta Georgica in cui viene narrato di Orfeo dimentico, a sua
volta, del divieto divino.37 Il poeta, dunque, si sarebbe macchiato di un peccato di disobbedienza al pari
di Adamo.
D’altra parte una lunga tradizione, risalente all’Ovide Moralisé, equiparava Euridice a Eva.38 Viene da
chiedersi allora se Raimondi, ritraendo la giovane con
il capo orientato verso l’ingresso degli Inferi, non volesse far ricadere la responsabilità della sua morte su
di lei piuttosto che su Orfeo e se, nel far ciò, non gli
tornasse utile il parallelismo con Eva.
Sono propensa a rispondere in modo affermativo a tale quesito, sia per la spiccata predilezione
verso l’allegoresi mitologica dell’ambiente umanistico bolognese, sia a causa del confronto con altre
due opere di Marcantonio, che passo subito a considerare.
Fig. 4. MARCANTONIO RAIMONDI, La Discesa al Limbo, 1504-1505
circa, Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings.
35 Per un’antologia di testi cfr. STORCH (a cura di), 1997, pp. 82142; si vedano anche IRWIN, 1985, pp. 51-62; GONZÁLEZ DELGADO,
2003, pp. 7-35.
36 BERCHORIUS , 1962, Liber X, Fo. LXXIII. Su Bersuire e Orfeo si legga VICARI, 1982, in part. pp. 71-72.
37 PASSARELLA , 2007, pp. 401-405. Ringrazio Loredana Chines
per avermi segnalato questo contributo.
FRIEDMAN, 1970, p. 125; RIETVELD, 2007, p. 67.
Bartsch 41.
40 Su tali aspetti cfr. in particolare M. Faietti, in BOLOGNA ,
1988, pp. 115-116, n. 13, con ulteriori rinvii bibliografici. Per un influsso del bulino di Dürer con Adamo ed Eva (Bartsch 1) sulla
stampa di Marcantonio si veda SAN JUAN, 1983, pp. 162-163.
41 SCAVIZZI , 1982, p. 136, accenna, per la versione più tarda, a
38
39
MARZIA FAIETTI – ORFEO A BOLOGNA E LE DIVAGAZIONI SUL MITO DI MARCANTONIO RAIMONDI
Qualche tempo dopo aver eseguito la versione
più tarda dell’Orfeo ed Euridice, Marcantonio licenziava l’incisione con Adamo ed Eva (fig. 5) 42 ispirata
a uno studio di Raffaello oggi all’Ashmolean Museum
di Oxford, in cui la figura della progenitrice è solo
accennata nel profilo della testa e nel braccio con
cui porge il frutto ad Adamo.43
Nella stampa Marcantonio completò l’immagine
adottando una postura delle gambe simile a quella
della sua Euridice precedentemente incisa, ma non
è dato sapere se egli perfezionasse una o più idee raffaellesche appena abbozzate (come nel disegno di
Oxford) oppure se avesse a disposizione un modello
più rifinito dell’Urbinate, ora perduto.
Resta il fatto che esiste, almeno nella parte inferiore della figura, una parziale sovrapposizione tra
l’Euridice dell’Orfeo ed Euridice (cat. 40) e l’Eva dell’Adamo ed Eva (fig. 5), che sarei tentata di riferire,
almeno in via ipotetica, a Marcantonio; nel primo bulino infatti egli non parve tanto utilizzare studi di Raffaello quanto mostrare una certa attenzione verso le
sue conquiste formali.44
A margine vorrei sottolineare come nel bulino
con i due progenitori il braccio di Eva è ripiegato verso la spalla e non più rivolto verso Adamo nell’atto
evidente di porgere il frutto proibito al suo compagno, come invece si verifica nel foglio di Oxford; questo cambiamento, forse dettato dalla scelta di fissare
nella composizione l’attimo successivo all’offerta del
frutto, suscita qualche ambiguità nella lettura dell’opera e un certo disorientamento (mi chiedo fino a
che punto voluto) circa i ruoli ricoperti dai progenitori a proposito del peccato originale.
Ma torniamo a Orfeo ed Euridice. Nel bulino
realizzato a Roma Raimondi sembrerebbe ribaltare
il mito e ascrivere alla sua Euridice la responsabilità
principale dell’aver disobbedito al divieto divino volgendo il capo indietro.
Si è detto che al parallelismo tra Orfeo e Adamo,
entrambi peccatori per disobbedienza come già suggeriva Ambrogio, si era successivamente affiancata,
almeno a partire dall’Ovide Moralisé, una rispondenza tra Euridice ed Eva, ambedue incappate in una fatale disobbedienza ai voleri divini.
Dunque, di questa seconda rispondenza l’artista
bolognese fu forse consapevole. Ma, riflettendo bene,
la sua eroina greca aveva ceduto alla tentazione sol-
un legame con la raffigurazione di Cristo al Limbo, interrogandosi su
una possibile e alquanto ipotetica consapevolezza da parte di Marcantonio dell’identificazione tra Orfeo e Cristo.
42 Bartsch 1.
43 Inv. P II 539 verso: J.A. Gere e N. Turner, in LONDON , 1983,
p. 98, n. 75.
129
Fig. 5. MARCANTONIO RAIMONDI, Adamo ed Eva, 1509-1510 circa, Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings.
tanto per guardare dietro di sé, mentre Orfeo, come
certo era ben noto all’incisore, si era voltato per rassicurarsi della presenza del suo amore.
Agli artisti, che tanto spesso ambivano al paragone con il poeta tracio, la colpa del loro eroe doveva
sembrare lieve, anzi lievissima. Avrebbero potuto
persino piegare a loro favore l’interpretazione eticomorale del mito dovuta a Boezio nel De consolatione
Philosophiae, un testo che a Bologna, ai tempi della
giovinezza del nostro, circolava anche attraverso i Comentaria di Rodolfo Agricola.
Del resto Boezio, ricordando come «Orpheus
Euridicen suam / vidit, perdidit, occidit», aveva introdotto una premessa che riecheggiava sia il vicit
Amor di Ovidio che l’Omnia vincit amor di Virgilio:
«Quis legem det amantibus? / Maior lex amor est
sibi».45
Per ulteriori considerazioni e raffronti: M. Faietti, in BOLO1988, pp. 175-177, n. 40.
45 Cito da GONZÁLEZ DELGADO , 2003, p. 16, vv. 50-51, 47-48.
44
GNA,
130
Tanto bastava a un artista per salvare se stesso,
immedesimandosi nei panni di Orfeo, per amore
di una donna; dell’amore o, forse ancora di più, della forza seduttiva dell’arte. I due bulini di Marcantonio con Orfeo ed Euridice, che dalla fabula polizianesca giungono all’interpretazione allegorica del mito
e all’identificazione di Euridice con Eva, sembrereb-
LA PERDITA DI EURIDICE E LA MORTE DI ORFEO
bero registrare un passo indietro verso la tradizione
ermeneutica medievale. In realtà, Raimondi, scagionando Orfeo in virtù della potenza ineluttabile dell’amore, finı̀ per affermare indirettamente l’autonomia del suo linguaggio formale, aggiornato sulle
più recenti novità artistiche, e il potere sovrano delle
immagini.
GERHARD WOLF
SAPPI L’IMMAGINE. LE METAMORFOSI DI ORFEO DA OVIDIO A RILKE
Orfeo: figura inesauribile del mondo mediterraneo antico tra mito, religione e arte; filosofo-poeta
della cosmogonia, che canta gli arcani dell’universo;
vate teosofico venerato nei culti misterici; argonauta
che salva la barca e i compagni con la sua voce; cantore la cui lira placa la natura, incantando non solo le
bestie e gli alberi, ma anche dei, uomini e donne, e
persino le ombre dell’Ade; amante tragico, che resuscita e perde una seconda volta la sua defunta sposa
per colpa di uno sguardo proibito; traditore delle
donne dilaniato dalle menadi. Figlio di Apollo per
gli uni, più affine al suo fratello Dioniso per gli altri.1
Eschilo nella sua perduta tragedia Le Bassaridi vede
nella fine del cantore una punizione per aver tradito
i seguaci di Dioniso ed essersi associato al mondo di
Apollo.2 Orfeo è infatti partecipe dei due poli (nella
acutizzazione nietzschiana), caratterizzato da una tensione interna che non si può circoscrivere in una mito-biografia stabile: il mito lavora variandosi, crea tessuti con fili antichi e nuovi, perde le trame e le ricuce
con altre, i poeti si appropriano del mito e lo raccontano in tanti modi.3 L’Orfeo dei poeti e il padre dell’orfismo sembrano a volte figure del tutto separate; il
papiro con commento ai misteri trovato a Derveni
(seconda metà del 5 sec. a.C.) e le Metamorfosi di
Ovidio apparentemente non hanno nessun legame
tra di loro. Ciononostante, nella figura del poetaamante che scende negli inferi per ritrovare la ‘sua’
Euridice, si sentono tutte le oscillazioni profonde
del personaggio. E questo vale anche per le letture
postclassiche del mito: la polarità si re-incontra tra
la Fabula di Orfeo di Poliziano e un Pico della Mirandola che crede di essere iniziato al sapere orfico.
Come è noto, la storia che ha reso famoso il nostro eroe dal tardo medioevo in poi si svolge in quattro tableau: la sua discesa negli inferi, dove canta davanti a Persefone e Ade; il suo cammino con
1 Cfr. THEWELEIT, 1988; MUNDT -ESPÍN, 2003; STORCH , 2006;
AVANESSIAN, BRANDSTETTER e HOFMANN, 2010.
2 Cfr. DI MARCO , 1993.
Euridice, ancora ombra, che perde girandosi prima
di arrivare alla luce del giorno; il suo canto nella natura che muove le pietre, gli alberi e gli animali; e infine la sua morte crudele, dilaniato dalle donne trace.
Sono episodi formulati relativamente tardi del mito e
si trovano in versioni elaborate solo nel mondo latino,
nelle Georgiche di Virgilio (IV, 453-527) e nelle Metamorfosi di Ovidio (libri X e XI, 1-84). Gli studiosi
della letteratura antica hanno discusso in extenso la
differenza sostanziale tra i due adattamenti della storia di Orfeo: 4 senza dubbio Ovidio risponde in modo
raffinato, e a volte comico se non ironico, al tono solenne di Virgilio. Nelle Georgiche, la storia di Orfeo è
inserita nell’elogio delle api e dell’apicultura, più precisamente al centro del racconto di Proteo, divinità
marina dall’aspetto mutabile e onnivedente, che spiega ad Aristeo la ragione della scomparsa del suo sciame: è la punizione che subisce perché perseguitò la
novella sposa di Orfeo, Euridice, che per sfuggirgli
morı̀ morsa da un serpente sulla riva di un fiume.
Nelle Georgiche Orfeo è l’amante disperato che,
con la sua lamentatio cantata (il cui testo non è però
riportato), convince gli dei degli inferi. Nel cammino
verso la luce si gira incauto per vedere Euridice in un
raptus demenziale, gesto perdonabile, come sostiene
il verso, se non fosse che i Mani non sanno perdonare
e gli avevano vietato di voltarsi, come Virgilio racconta quasi a ritroso, invertendo la seguenza temporale.
Quando si accorge di svanire, Euridice ammette
che lei e Orfeo sono perduti per tanto furore, ma
non accusa l’amante. Le braccia di Orfeo che la cercano si aggrappano al vuoto. Egli non si riprenderà e
lamenterà nella solitudine della natura, prima per sette mesi in una grotta poi verseggiando in paesaggi
elegiaci: le tigri e gli alberi lo ascoltano, canta tristemente con lui un usignolo. Orfeo si oppone a un
nuovo amore e perciò viene trucidato dalle donne
3
4
Cfr. SCHLESIER, 2010.
Cfr. p. es. SEGAL, 1989; ANDERSON, 1982 e KLODT, 2004.
156
trace, nella notte della festa dionisiaca, e le sue membra vengono disperse. La testa portata via dal fiume
Ebro continua a invocare il nome di Euridice con
una lingua ormai fredda per la morte. La fine di Orfeo ha un’impostazione dionisiaca per un doppio motivo: non soltanto per la motivazione della vendetta
delle baccanti (secondo alcune versioni, le donne lo
uccidono per non essere state accettate nei misteri orfici),5 ma anche per la similitudine con la morte sciamanica del dio, il cui corpo era stato a sua volta
smembrato e sparso nella natura. L’Orfeo di Virgilio
è un exemplum dell’eccesso dell’amore individuale,
del furor amoroso, mentre le Georgiche celebrano la
società basata sulla coltivazione della natura, non sull’amore. Il principio del labor (Georg. I, 145: «labor
vincit omnia») viene infatti evocato dal popolo delle
api, mentre neanche nella morte Orfeo sembra volersi restituire al ciclo della natura, ma difende con una
lingua ormai fredda il nome del suo amore.
Lo scenario cambia fondamentalmente in Ovidio.
Qui la storia di Orfeo non è più il nucleo inserito in
un argomento sovraordinato, ma diventa essa stessa
cornice di altri racconti, abbracciando tutto il decimo
libro e una parte dell’undicesimo delle Metamorfosi.
Il racconto di Orfeo è laconico, sorprende – come diversi studiosi hanno osservato – per una certa assenza
di sentimento da parte del protagonista e per la mancanza di compassione suscitata dalle rime. Euridice
muore in un solo verso, ancor prima che venga fatto
il suo nome. Orfeo discende nell’Ade e si presenta, sı̀,
davanti a Persefone e al re degli inferi, ma dove ci si
aspetta un canto tanto ineffabile quanto commovente
– e perciò taciuto da Virgilio – in Ovidio Orfeo diventa l’avvocato della propria causa in una orazione
giuridica con argomenti topici sulla mortalità degli
esseri umani. Comunque, vince la causa e mentre cerca la propria sposa tra le ombre recentemente arrivate, viene descritto, seguendo Virgilio, come il tempo
degli inferi si interrompa, Sisifo si sieda sulla pietra e
si fermi la ruota di Issione. L’ombra Euridice si presenta camminando a fatica a causa del morso del serpente e, mentre attraversano l’oscura galleria verso la
superficie terrestre, Orfeo, da vero gentiluomo, si gira perché teme che la sua sposa sia troppo debole e
anche per il desiderio di vederla. Ovidio poi riprende da Virgilio il motivo del vano abbraccio, che si
presta anche alle raffigurazioni della scena, Euridice
svanisce nel nulla senza lamentarsi; del resto, aggiunge il testo, come avrebbe potuto farlo, essendo tanto
amata?
5 Cfr. il mitografo Conone nelle sue Diegesi (Dihegeseis) secondo SCHLESIER, 2010, p. 59, nota 23.
PAROLE COME MUSICA
Sette giorni (non mesi) di lutto seguono, tre anni
passano durante i quali Orfeo decide di tenersi lontano dalle donne per fedeltà o delusione, comincia ad
amare gli adolescenti e insegna la pratica dell’omofilia
anche agli uomini di Tracia. A questo punto Ovidio
pianifica il terzo tableau: Orfeo seduto su un prato
in cima a una collina dove non vi è traccia d’ombra
(«umbra loco deerat»). Il luogo contrasta notevolmente con quello dove Orfeo verseggiava pochi versi
prima, il mondo delle ombre. Le ombre arrivano però presto sulla distesa erbosa, portate dagli alberi che
si radunano intorno a Orfeo, e trasformano il prato in
un locus amoenus. Il testo si diverte nell’elencare ben
ventisette tipi di piante, in molte delle quali si riconoscono esseri umani che hanno subito una metamorfosi: si risveglia la loro identità nascosta. In accordo con
la situazione elegiaca Ovidio racconta solo la storia
del cipresso, albero del lutto per antonomasia – e
‘frutto’ della metamorfosi di un amore tragico. Orfeo
accorda quindi il suo strumento e comincia a cantare
con un prologo leggermente ironico: annuncia di voler intonare un canto con uno stile assai leggero, perché non avrebbe trattato temi cosmogonici o eroici,
ma storie di ragazzi amati dagli dei e di giovani donne
punibili per passioni proibite. A questa introduzione
fa seguire le favole di Ganimede; quella, più estesa, di
Giacinto; dei Cerasti e delle Propètidi (un’eziologia
della prostituzione); di Pigmalione e della sua statua
d’avorio che diventa viva grazie a un generoso gesto
di Venere; della loro discendente Mirra e del suo
amore incestuoso per il padre; e di Adone, figlio di
Mirra, nato dall’albero in cui la madre venne trasformata, cioè del giovane che incarna la bellezza e fu
amato da Venere. La dea racconta a sua volta al giovane la storia di Atalanta e Ippomene e, poco dopo,
lo vedrà morire ucciso da un cinghiale.
Con la morte di Adone, il suo sangue mutato nei
fiori fugaci degli anemoni e il lamento di Venere, si
conclude il canto di Orfeo nel teatro della natura,
canto che attirava con la lira e la voce gli alberi, le bestie e le pietre. Segue l’attacco delle baccanti. In un
primo momento le pietre sono ancora vinte dal canto
orfico, ma poi la strepitante musica dionisiaca delle
donne lo sopraffà e cosı̀ le trace furibonde attaccano
prima il pubblico del cantore e alla fine lo stesso Orfeo muore, ferito sotto il lancio incrociato di pietre,
blocchi di terra, rami di alberi e strumenti agricoli.
La natura lo compiange, gli alberi perdono le proprie
foglie, i fiumi traboccano, mentre le membra del cantore-poeta vengono disperse. Anche in Ovidio la te-
GERHARD WOLF – SAPPI L’IMMAGINE. LE METAMORFOSI DI ORFEO DA OVIDIO A RILKE
157
sta galleggia nel fiume Ebro, ma qui lo fa anche la lira:
ambedue piangono. Mentre la lira piange senza parole
(«flebile nescio quid queritur lyra»), la lingua non pronuncia il nome di Euridice, ma mormora nelle acque e
le rive danno l’eco.6 Insomma, si perdono le parole e
non si capisce se Orfeo pianga la propria morte o piuttosto quella della consorte. Lira e testa raggiungono il
mare e infine l’isola di Lesbo (dove Ovidio fa apparire
un serpente che cerca di mordere la testa e viene pietrificato da Apollo), mentre l’ombra di Orfeo discende
nell’Ade, dove riabbraccia, pieno di desiderio, la sua
sposa. In un tono leggero, se non comico, i versi descrivono la vita di coppia negli inferi, dove i coniugi
si guardano, si seguono e si girano l’uno verso l’altro
senza nessun pericolo. Dioniso a sua volta punisce le
baccanti perché hanno ucciso il vate dei suoi sacri arcani, trasformandole in sterpi e alberi bassi.
Con l’apparizione e gli interventi di Apollo e Dioniso dopo la morte del protagonista, Ovidio sottolinea la doppia natura o il potenziale bilanciarsi dei
due poli nella figura di Orfeo. Senza dubbio l’immagine di Orfeo che canta davanti agli animali e agli alberi, in un palcoscenico naturale creato dalla sua stessa arte, è modellata su quella di Apollo che suona la
lira (ma non canta) davanti alle muse sul Parnaso. La
lira, strumento di Apollo, che da Virgilio è menzionata solo una volta con l’espressione cava testudo (un riferimento all’invenzione da parte di Hermes, che la
creò dal carpace di una tartaruga), diventerà invece
un elemento chiave nelle Metamorfosi. In esse, la
morte di Orfeo, risultato del conflitto tra due musiche (la sua e quella delle baccanti), è anche la fine
della consonanza tra strumento e voce umana: la lira
da sola può emanare un sentimento, ma il suo lamento rimane indeterminato; la lingua per conto suo perde le parole e i suoi singhiozzi si sciolgono nel mormorio del fiume. Sarà compito del poeta-autore,
cioè Ovidio, di saperlo cantare con le proprie parole
senza strumento e in questo l’episodio ovidiano di
Orfeo assume una forte dimensione poetologica.
Non si tratta di metamorfosi né nel caso del vate
né in quello di Euridice, sebbene Ovidio inserisca
qua e là un momento metamorfico e il canto orfico
trasformi la natura, creando una pace temporanea
tra le creature, facendo camminare gli alberi e piangere i sassi. Il canto di Orfeo è il racconto-cornice
più lungo delle Metamorfosi e la parziale rinuncia alla
forza evocativa di immagini ed emozioni nella cornice
stessa è una strategia deliberata: nessuna parola sulla
bellezza del cantante e della sua sposa, si tratta dell’amore coniugale moderato di un cantautore professionale che si intrattiene con ragazzi per consolarsi. Come
si è detto, i versi talvolta hanno un sottotono ironico,
diretto forse verso i poeti della Roma imperiale, Virgilio per primo, e il loro pathos, ma anche verso la celebrazione della vita matrimoniale dei codici morali augustei. Nella lieta quotidianità della coppia nell’Ade si
prefigurano i finali lieti delle opere liriche della prima
età moderna, sebbene questi ultimi saranno collocati
in cielo o sulla terra, a partire da un Rinuccini che
non menziona neanche il divieto di guardare indietro.7
Le Metamorfosi di Ovidio sono un’ékphrasis dell’instabilità delle forme tra i poli della pietrificazione
e della liquefazione, un commento poetico al popolo
delle statue nei fori e per le strade, negli stadi e teatri
romani. Ovidio esplora le interazioni del polimorfismo della natura e di quello dell’arte, racconta il corpo umano che si trasforma, in un linguaggio poetico
che spinge gli artisti a emularlo o superarlo, fino al
gruppo di Apollo e Dafne del Bernini. Le scenografie
del canto orfico descritte in Ovidio, sia per gli inferi
(seguendo Virgilio) sia sulla collina con gli alberi e
animali, sono tableaux velocemente abbozzati che
non raggiungono il livello di elaborazione ed evocazione visiva di altri episodi delle Metamorfosi. Però
nel cuore della tragedia amorosa di Orfeo c’è un momento puramente visivo: il suo sguardo nel girarsi
verso Euridice «avidusque videndi | flexit amans oculos» (Met. X, 54-55). Non si tratta di un evento musicale/poetico né di un suo effetto, anzi i due amanti
camminano nel silenzio assoluto («muta silentia»),
ma dell’irruzione del vedere nelle tenebre del cammino («obscurus, caligine densus opaca») verso la luce:
Orfeo che ha vinto con la musica, perderà con l’occhio. Sarà il punctum o contrappunto per le tante
opere liriche che girano intorno a questo momento,
che però rimane di per sé estraneo alla musica: point
of no return, passaggio tra due strutture del tempo e
dello spazio, punto di partenza «aus der Stille» per invenzioni musicali meravigliose come la famosa aria
Che farò senza Euridice dell’opera di Gluck.8 Ma nella
riduzione al momento, in questo Augenblick (batter
d’occhio), tema fondamentale per Dante e Goethe
che rimediteranno a loro modo il dramma di Orfeo,9
Cfr. SCHLESIER, 2010.
Cfr. KLODT, 2004; HUSS, 2010; WISSMANN, 2010.
8 Cfr. sul problema anche KREMS, 2009.
9 Cfr. per Dante e Orfeo il saggio di Theresa Holler in questo
catalogo. Qui mi riferisco piuttosto alla voglia (pericolosa) di immobilizzare il Momento: in Dante, per esempio, il desiderio di perdersi
nello sguardo negli occhi di Beatrice invece di proseguire il cammino
verso la visione finale della Trinità, che sarà pure istantanea, e in
Goethe il concetto ancora più pericoloso di un momento di bellezza
assoluta nel Faust dove si vorrebbe dire: «Verweile doch, Du bist so
schön» (JOHANN WOLFGANG VON GOETHE, Faust I, V, 1700).
6
7
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PAROLE COME MUSICA
il mito non fa nascere un’immagine. Ricordiamo al
contrario l’incontro di Perseo e Medusa, incontro
mortale per lei che diventa immagine-oggetto e produce immagini; la moglie di Lot (in una storia di
omosessualità, incesto e metamorfosi che farebbe
‘onore’ a Ovidio) trasformata in colonna di sale per
aver guardato indietro verso la città ardente di Gomorra; la donna con il flusso di sangue che segue Cristo e guarisce toccando l’orlo della tunica del Salvatore facendolo girare verso di lei – donna identificata
dalle leggende medievali con la stessa Veronica che
in una sosta del cammino verso il Golgota offre il
suo velo a Cristo e sul cui tessuto rimane l’impronta
delle sembianze di lui: storie di incontri e sguardi tra
vita e morte, aversio e adversio, turning points, da cui
nascono immagini.10 Niente di questo tra Orfeo e
Euridice, non rimane traccia dell’incontro tra questo
corpo terrestre e un’ombra, solo lo stimolo di una disperazione che si trasforma in musica e poesia, mentre la figura della donna svanisce, disappare.
Ma le immagini ci sono, su un altro piano. In primo luogo, ed è l’aspetto più ovvio, ci sono le raffigurazioni artistiche dell’incontro, tema piuttosto raro al
di fuori dei cicli orfici.11 Qui mi limito a uno sguardo
fugace al bulino di Raimondi (cat. 40) che riscrive
l’incontro consapevole delle interpretazioni medievali
di Ovidio come mostra il saggio di Marzia Faietti. In
esso riecheggia l’identificazione di Euridice con Eva e
di Orfeo con Adamo (che, ricordiamo, fu il re degli
animali) o con Cristo, il nuovo Adamo, e le iconografie del lapsus, cioè del peccato originale, dell’espulsione dal Paradiso e di Cristo che torna dal Limbo. L’interpretazione grafica del testo di Ovidio da parte di
Raimondi, lavorando sulla base della menzionata tradizione iconografica, presenta novità inaudite: un Orfeo che accompagna la sposa suonando la lira, una
coppia già uscita dalle tenebre e non è Orfeo, bensı̀
Euridice, a guardare indietro verso la cava dell’abisso. L’immagine rimane ambigua: Euridice sembra
consapevole che non si salverà dalla seconda morte,
si assume forse la responsabilità dell’impresa fallita?
Oppure è annoiata da un Orfeo che non si interessa
di lei, che non la guarda: mentre Euridice si comporta come una Venere pudica, egli espone il suo corpo
nudo quasi in una esibizione autocelebrativa e si concentra sull’atto di sfiorare il suo strumento con l’arco,
proprio come se quest’ultimo fosse un sostituto di lei.
L’Arte ha vinto l’amore, ma di amore canterà Orfeo,
presto intrattenendosi con ragazzi.
In secondo luogo ci sono le immagini ‘scritte’ che
si nascondono – o meglio, si svelano – nel canto stesso di Orfeo. Negli episodi del canto, Ovidio dimostra
tutta la sua arte ecfrastica, racconta di amori tragici
e/o scandalosi, di corpi belli e mostruosi, di trasformazioni di membra e sangue in fiori, alberi, bestie
e ancora fiori, ma racconta anche di una statua resa
viva dall’amore e di un divino intervento sull’opera
di un’artista, lo scultore Pigmalione.12 Questi è l’alter
ego di Orfeo ed esiste un legame sottile tra scultura e
musica, che Rilke definirà «il respiro delle statue»: 13
da un lato un amore perduto che allontana Orfeo dalle donne, suscitando il suo canto che incanta la natura; dall’altro un artista a sua volta frustrato dalle donne, che scolpisce un’opera di avorio la cui forza
mimetica è tale da far innamorare il suo creatore.
La corrispondenza speculare e antitetica tra i due artisti si nota fino nei dettagli, per esempio nel lavoro
analogo del pollice del musicista e dello scultore: se
il primo sfiora le corde con il pollice per sentire
(«sensit») l’accordo dei vari toni (Met. X, 145-146),
il secondo tasta con il pollice il polso della statua
(«saliunt temptatae pollice venae»): corpus erat (X,
289). Ritmo e polso sono la base dei processi vitali secondo il sapere poetico, in linea con le teorie mediche
antiche. Ovidio non insiste su un paragone tra udito e
occhio, ma evoca un senso che abbraccia ambedue,
cioè il tatto: come Orfeo tocca le corde, Pigmalione
tocca di continuo la sua opera, fin quando essa non
si riscalda, si ammorbidisce, sente a sua volta il bacio
e arrossisce. Sebbene la storia dello scultore, posta al
centro del canto di Orfeo, sembri una consolazione
immaginaria per il protagonista del tragico racconto-cornice, le conseguenze dell’amore di Pigmalione
non sono meno nefaste in un percorso transgenerazionale. Il desiderio insano di Mirra per il padre, nato
da Paphos, a sua volta figlio dell’artista e della sua
statua vivente ma senza nome, è simmetrico all’incestuoso rapporto di Pigmalione con la sua opera poiché, secondo un diffuso topos aristotelico, l’opera è
figlia del suo autore. Perciò in Mirra può manifestarsi
un desiderio per il proprio creatore che come frutto
– nato dall’albero in cui fu tramutata – avrà Adone,
bello come una statua, con cui si conclude il ciclo,
perché anche l’amore di Venere per l’efebo ha una
dimensione incestuosa.14 Ovidio ricorda il giovane
paragonandolo a un amorino di quelli che si dipingono sulle tavole, cui mancherebbe solo la faretra (una
volta aggiunta a lui o tolta a loro, sarebbero uguali),
Cfr. WOLF, 2002.
Per l’iconografia di Orfeo si vedano SCHRÖTER, 2004; BLUMENRÖDTER, 2004; KREMS , 2004; MUNDT-ESPÍN , 2003.
12 Cfr. VIARRE , 1964; ID ., 1968.
Nella sua tarda poesia «Musik».
Per la bellezza di Adone e le sue interpretazioni si veda MENNINGHAUS, 2003.
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GERHARD WOLF – SAPPI L’IMMAGINE. LE METAMORFOSI DI ORFEO DA OVIDIO A RILKE
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alla scultura si associa qui la pittura. In ultima analisi,
Adone discende da Venere stessa che paga cosı̀ il
prezzo per il dono fatto a Pigmalione – che come modello per la sua opera aveva naturalmente pensato a
lei. Dopo la statua femminile animata, che ne occupa
la parte centrale, il canto si conclude con l’esaltazione
di un corpo maschile, incarnazione assoluta della bellezza, desiderato da Venere e Persefone, da donne,
ma anche da uomini. Il mito conosciuto dal lettore
di Ovidio vuole Adone amante di Venere per un terzo dell’anno e di Persefone per un altro: come Orfeo,
anche lui sa attraversare la soglia degli inferi. E Venere proclama la «repetita mortis imago», cioè una festività annuale primaverile in suo onore, celebrata
soprattutto dalle donne. Esse compiangevano e festeggiavano Adone con capelli e vestiti sciolti in una
festa piuttosto dionisiaca, dedicata al desiderio femminile extraconiugale.15
Nelle Metamorfosi alla storia di Adone segue immediatamente quella di Orfeo, cosı̀ ben preparata dal
suo proprio canto: si tratta di un gioco complesso di
relazioni pericolose tra vita e morte, in cui le opere
divine e umane si intrecciano, presentato ad animali
e alberi in un canto di stile leggero, come lo definisce
Orfeo e, con lui, l’autore che conosce bene il pubblico e i palcoscenici romani. Alla fine lo stesso Orfeo
diventa quasi il personaggio di una rappresentazione
teatrale (XI, 22), venerato dagli animali selvaggi ma
cacciato come fosse una preda dalle donne di Tracia,
in un’inversione dei ruoli tradizionali di una scena da
anfiteatro.
La fortuna della storia di Pigmalione di cui Victor
Stoichita ha seguito le vicende in uno splendido libro,16 non sarà meno ricca e intensa di quella di Orfeo. La favola si dissocerà quasi del tutto dal suo contesto orfico e, naturalmente, la coppia dell’artista e
della sua opera si presta più alle arti figurative che
non alla musica. Però, in modo sottile il sottofondo
musicale delle Metamorfosi persiste e viene portato
in superficie dalle immagini medievali. Come abbiamo visto, Ovidio ha creato un parallelismo tra la lira
e la statua attraverso il senso del tatto, cioè il tocco
dell’artista. Pigmalione non canta, né suona uno strumento davanti alla sua statua: è la scena stessa a essere cantata. Cosı̀ il ritmo della canzone ha la sua parte
nel far battere il polso nel corpo d’avorio, mentre invita il lettore a rendersi conto di un ulteriore livello
dell’operazione poetologica. La musica che ascoltiamo consiste ‘solo’ di parole, la lira non suona, ma vie-
ne simulata dal suono e dal ritmo dei versi: imitano il
canto di una voce umana, accompagnato da uno
strumento che evoca amori e morti vari, tra cui l’animazione di una statua, presentato ad alberi e animali.
In questo modo la poesia si colloca tra musica e scultura.
Mentre Ovidio accenna solo sottilmente all’analogia tra lo scultore e il cantore, il Pigmalione del medioevo intrattiene la sua opera in tutti i modi, come si
legge nel Roman de la Rose e si vede nelle illustrazioni: ballando e cantando, adoperando un impressionante numero di strumenti musicali a corde, a fiato
e a percussione, includendo spesso anche un orologio
(cioè un automata). Come osserva Stoichita, a volte
Pigmalione sembra più un giullare che non uno scultore e, sebbene l’animazione della statua rimanga
opera divina, la musica contribuisce a far battere il
«polso» (e il respiro) dell’amata opera, secondo un
ancora più elaborato concetto di concordia tra musica e ritmi di vita, tra corde e cuore, sulla base della
medicina galeniana.17 Pietro d’Abano, nel 1303, ritrova tutti gli accordi, la quarta, la quinta e l’ottava,
nell’intensità e durata del polso e lo confronta esplicitamente con il suono della lira.18
Infine, nello stesso anno 1762 che vede la prima
mise en scène dell’Orfeo ed Euridice di Gluck, Jean
Jacques Rousseau scrive il melodramma Pygmalion
in cui non è più un intervento divino a rendere viva
la statua, ma la forza dell’arte e della musica – strumentale in questo caso. Il melodramma viene messo
in scena per la prima volta solo nel 1775 a Parigi,
un anno dopo la prima della versione francese dell’opera di Gluck. Nel 1776 Canova termina la sua prima
opera monumentale, il gruppo marmoreo di Orfeo ed
Euridice che cerca di eternizzare il famoso Augenblick. La seconda metà del Settecento è un periodo
orfico e pigmalionico. Mentre nelle opere liriche si
sperimentano nuove forme di interazione tra danza
e canto, Lessing e Winckelmann riflettono sulla scultura e il suo rapporto con il tempo e la poesia. Nel
1778 Herder pubblica un libro sull’arte plastica, in
cui elogia il senso del tatto, che porta nel titolo un riferimento a Pigmalione: Plastik: Einige Wahrnehmungen über Form und Gestalt aus Pygmalions bildendem Traume (Riga, 1778). Infine nel trattato La
Lyra. Della natura e dell’effetto della poesia lirica
(Die Lyra: Von der Natur und Wirkung der lyrischen
Dichtung) pubblicato nel 1791, Herder torna sul rapporto tra musica e poesia, tema fondamentale per
15 Il famoso idillio XV di Teocrito ironizza sulla festa nel narrare delle Adonie di Siracusa.
16 Cfr. STOICHIT˛ A , 2008.
17 Cfr. ivi, pp. 44-54. Per il polso, il confronto tra corde e cuore
e l’analogia corpo-lira si veda il saggio introduttivo di Susanne
Pollack.
18 Cfr. ivi, p. 52 con bibliografia.
160
PAROLE COME MUSICA
tutto il suo pensiero, per definire in modo paradossale la lirica – come genere letterario – un canto senza
canto e lira. Secondo Herder la voce umana stessa
consiste di ‘‘lira’’ e ‘‘flauto’’, facendo riferimento all’anatomia della laringe e alle sue corde vocali; 19
per l’autore l’origine della lingua è il suono che esprime emozioni e sentimenti in modo immediato. Perciò
il ruolo di Orfeo, ossia del suo canto, può essere visto
in due prospettive opposte: come un’arte arcaica, oggi superata, che in tempo remoto serviva per addomesticare le bestie (un’allegoria del ruolo della musica e della poesia nel processo della civilizzazione,
analogamente a quanto troviamo nell’ars poetica di
Orazio), o come profondo ri-cordare delle origini,
un sapere sacro, reso presente nella letteratura in forma di salmi, òdi, elegie o altre poesie liriche. Quest’ultima è ovviamente l’opzione preferita da Herder,
che nello stesso momento insiste sulla formazione e
sul ruolo delle immagini nella costituzione del canto
e della poesia.
Il tema del rapporto tra le arti (musica e scultura
in primo luogo) che si pone intorno alla figura di Orfeo non si esaurisce con l’epoca di Herder, Rousseau
e Gluck, ma rimane un forte punto di riferimento per
tutta la letteratura ottocentesca europea, per non parlare delle altre arti. Lo incontriamo di nuovo in
Nietzsche e Rilke, per menzionare solo due importanti autori orfici. I Sonetti a Orfeo 20 sono il più esteso ciclo della letteratura tedesca moderna che faccia
riferimento al mitico vate. Se in conclusione mi permetto alcune osservazioni sui sonetti, la ragione è duplice: per il sottile modo in cui Rilke riprende i temi
individuati in Ovidio da un lato e per il ruolo delle
immagini dall’altro.21
È noto che Rilke scrisse i sonetti nel febbraio del
’22 come se gli fossero stati dettati. Per il Natale del
1920 Baladine Klossowska (detta Merline) gli aveva
donato un Ovidio in versione latina e francese, mentre l’8 novembre dell’anno seguente acquistò per lui
la riproduzione di un disegno oggi ricondotto alla
bottega di Cima da Conegliano (cat. 3), che fu affissa
sopra la scrivania dove il poeta avrebbe composto i
sonetti. Il foglio rappresenta un Orfeo giovane, dallo
sguardo vuoto e dai capelli ricci, che – seduto ai piedi
di un albero – tocca il suo strumento, una lira da
braccio. Ci sono pochi animali intorno a lui, un uccello su un ramo,22 a destra una coppia di cervidi e di
lepri: animali appena abbozzati o contornati, sembrano davvero «nati dal silenzio» come li descrive il primo sonetto che non esalta una ‘riunione’ di alberi come la scena in Ovidio, ma una singola pianta: «E si
levò un albero. O elevazione pura. | Orfeo canta. O
albero che nell’orecchio sale!» (I, 1). La poesia fa
eco alla corrispondenza, nel disegno, tra albero e corpo che l’artista ha creato con il lungo busto di Orfeo,
posto davanti al tronco. Tra la rigida gamba destra
e lo strumento alzato in diagonale (appoggiato sul
braccio sinistro, che a sua volta posa su un sasso,
mentre l’altro tiene il tenero arco), si apre uno spazio
in cui sono collocate le coppie di animali, mentre sopra la lira si estende un singolo ramo che termina in
una corona di foglie simile a una nuvola. Corpo e
tronco, gamba, lira e ramo formano lo spazio uditivo
che coinvolge gli animali.
Sebbene nei sonetti non si trovino riferimenti più
espliciti a questo disegno o ad altre opere d’arte, le
poesie di Rilke hanno una forte dimensione iconica,
trattando l’immagine come alter ego della parola e
del canto. Questo atteggiamento culmina nel breve
e denso sonetto I, 9 con il verso: «Sappi l’immagine».
Il sonetto insiste sul doppio regno dei vivi e dei morti: Orfeo con la sua lira, figura del poeta, abbraccia
ambedue, e perciò ha accesso a un sapere profondo,
oltre lo specchio. Orfeo in Rilke è un Narciso cosciente. «Sapere l’immagine» non significa tanto rendersi conto di un’illusione, ma accettare l’immagine
come una fonte per la comprensione della natura
umana tra (e oltre) la vita e la morte. Cosı̀, diventa necessariamente imperativo: sappi l’immagine, e siamo,
per usare un’altra espressione di Herder, ancora nel
regno dell’occhio dell’udito.
I Sonetti a Orfeo sono stati composti in memoria
di Wera Ouckama Knoop, danzatrice che morı̀ giovanissima alla fine dell’anno 1919. In una lettera alla
contessa Sizzo (12 aprile 1913), Rilke scrive:
Cfr. HERDER, 1877-1913, XXVII, p. 169.
Per i Sonetti a Orfeo si veda anche il commento di LEISI,
Goldhahn, uno smeriglio (= Merlin in tedesco) e quindi un riferimento a Baladine.
23 «In der Zeit, die ihr noch blieb, trieb Wera Musik, schliesslich zeichnete sie nur noch, als ob der versagte Tanz immer leiser,
immer diskreter noch aus ihr ausgäbe» (SCHUSTER, 2007, p. 358; traduzione dell’autore).
19
20
1987.
21 Per le seguente osservazioni su Rilke si vedano AVANESSIAN ,
BRANDSTETTER e HOFMANN, 2010; SCHUSTER, 2007.
22 L’alter ego del cantore o, secondo l’interpretazione di Almut
Nel tempo che restò a Wera [in cui non poteva più
danzare a causa della sua malatia] esercitava la musica, e
alla fine solamente disegnava come se la danza, non più
concessa a lei, in forma sempre più discreta emanasse di
lei.23
Queste righe contengono elementi di una fenomenologia del disegno che in modo più elaborato
troviamo già nella conferenza su Rodin (1907). Se-
GERHARD WOLF – SAPPI L’IMMAGINE. LE METAMORFOSI DI ORFEO DA OVIDIO A RILKE
condo Rilke i fogli del maestro non hanno niente di
effimero, incidentale o preparatorio: sono piuttosto
qualcosa di definitivo che circoscrive in un niente
un contorno rapido, preso quasi senza fiato dalla natura, contorno di un contorno ‘depositato’ da esso
stesso, nelle più tenere e preziose linee che ci siano.
Disegnare in questo senso è un’espressione ultima,
ma, allo stesso momento, gesto non intenzionale,
non rappresentativo, non traccia di un nome, ma puro movimento, di una danza libera di figure oniriche,
tra fiore e corpo, metamorfosi appena tracciate su un
foglio.24 Rilke tornerà sul disegno nel sonetto II, 18
(«Danzatrice, d’ogni trascorrere | trasposizione nel
passo») nell’ultima terzina: «E nelle immagini: non
è rimasto il disegno | che l’oscura linea dei tuoi cigli |
fulminea agli orli della giravolta imprimeva?».
Il tema della danza (antica e moderna) si presta
molto al mondo di Orfeo. Come Gabriele Brandstetter ha dimostrato, la danza è la forma artistica più
congeniale al mito, basta pensare solo alla scena cruciale dell’Augenblick in cui Orfeo si gira verso Euridice: coreografia alla soglia tra l’incontrarsi e perdersi
in uno spazio, definito o trasformato dalla seguenza
dei movimenti, spazio transitorio creato dei corpi
danzanti, figura del tempo. Cito Brandstetter:
Le poesie di Rilke come l’opera di Gluck con il loro
nuovo concetto della danza come parte dell’azione drammatica dimostrano, nel segno del mitico incantatore dei
morti, quello che significa coreografia: apertura, formazione e descrizione di quello spazio che ha sempre già dismesso da se stesso il movimento del corpo vivo [...]: una scrittura di ricordo di quei corpi in movimento che non
possono essere tenuti presente.25
161
in un dialogo continuo con il pensiero di Nietzsche,
sta proprio nella partecipazione del vate al regno delle due divinità. Nella sua opera giovanile La Nascita
della Tragedia dallo spirito della musica, il filosofo
aveva confrontato la forza dionisiaca della musica alla
forma apollinea della scultura, l’immersione nell’orgiastica pandemonia della natura al principio dell’individuazione, che si manifesta in un corpo solare e
statuario. Anche se Nietzsche, in queste e altre opere,
ritiene le due dimensioni inseparabilmente legate
– anzi, il suo ideale sta proprio nella fusione delle
due –, egli tuttavia mantiene il primato della musica.
Non si tratta però di una musica cosmica apollinea
come quella della concordia delle sfere, ma di una
musica primordiale, musica del caos e del polimorfismo, distruttiva e procreativa nello stesso momento.
Nei suoi commenti a Nietzsche il giovane Rilke
scrive:
E con ‘‘musica’’ non si intende quella prima oscura ragione [Ursache] della musica e perciò la ragione di tutta
l’arte? Forza libera, mossa; abbondanza divina? Anche la
pittura e la scultura hanno solo un senso: di interpretare
quella musica, di consumarla nelle immagini.26
Rilke fa riferimento a due concetti diversi di musica: quella che, secondo Nietzsche, è anche danza e
sta all’origine di tutte le arti e quella che è una di esse.
I sonetti a Orfeo prendono vita dal tentativo di ricreare un canto orfico tra Dioniso e Apollo, in una
permanente ricerca dell’equilibrio tra i flussi di energia e l’elaborazione di forma, tensione che si specchia
nella scelta del sonetto stesso come forma letteraria,
adattato e trasformato liberamente. Sono sonetti dedicati al citaredo, ma come si legge in I, 5:
Siamo partiti dai connotati quasi inesauribili della
figura di Orfeo nel mito e arrivati ai significati e alle
interpretazioni quasi inesauribili del mito e dei suoi
personaggi nella riflessione sugli incroci tra le arti nelle culture europee attraverso i secoli: tra musica strumentale e canto, opera lirica e melodramma, lirica e
poesia epica, scultura, pittura e disegno, infine danza
o balletto – e la lista non finisce qui, se pensiamo solo
ai film più noti Orfeu negro o Orphée, se non agli elementi orfici meno espliciti nel cinema. Invece di proseguire in una simile esplorazione interpretativa, vorrei gettare un ultimo sguardo alla natura dialettica del
personaggio di Orfeo tra Apollo e Dioniso.
L’attrattività di Orfeo per Rilke, che si è formato
I sonetti mappano, per cosı̀ dire, le oscillazioni
della figura di Orfeo tra la dimensione sciamanica 27
e apollinea, ma essi superano o trasformano tale polarità in una ricchezza immaginativa, in cui l’immagine non è un derivato, ma sta alla base del processo
poetico stesso, a fianco della musica. In tutto ciò, i sonetti si rivelano da un lato un’opera scritta con la riproduzione di un disegno davanti agli occhi e una
grande sensibilità per le arti figurative in generale,
dall’altro una profonda lettura delle Metamorfosi di
Cfr. RILKE, 1984, pp. 85 sg.
BRANDSTETTER, 2010, p. 197 (traduzione dell’autore). Qui si
pensa all’opera di Gluck nella coreografia di Pina Bausch.
26 RILKE , 1927, VI, p. 1176 (traduzione dell’autore).
27 Cfr. I, 26, il sonetto conclusivo della prima parte ha un inizio
apollineo, in cui Orfeo è visto come garante dell’ordine cosmico. Con
la morte del citaredo il suo canto si incorpora nella natura: «Là ancora tu canti. | O Iddio perduto! Traccia che non ha misura! | Solo
perché ti spartı̀ smembrandoti all’ultimo l’odio | siamo chi ode,
adesso, e bocca della Natura».
24
25
Orfeo è: è sua la metamorfosi | in questi e quello; non
ci diamo affanno | d’altri nomi: per tutte ad ogni volta | è
Orfeo, se canta. Viene e va.
162
Ovidio: l’opera di Ovidio non solo contrappone al
corso dei versi l’abisso del vedere (come vuole il mito
di Orfeo), ma è un’inesauribile riflessione sulla stabilità e mutabilità delle forme, in cui si elabora una propria dimensione iconica, che a volte può essere comica
o ironica. Dopo la morte di Orfeo e la vendetta di Dioniso, il Dio si sposta con i suoi seguaci alla corte di Mida, iniziato all’orfismo, dove ritrova il fuggitivo Sileno.
Segue una competizione musicale tra Pan e Apollo davanti al re Mida, il primo suona il flauto di canne agresti, il secondo la lira. Segue la descrizione di Apollo
che reca sul capo una corona di lauro e indossa vesti
impreziosite dalla porpora di Tiro. Lo strumento im-
PAROLE COME MUSICA
pugnato nella mano sinistra è adorno di gemme e di
avorio proveniente dall’India; nella destra tiene invece
il plectrum: «artificis status ipse fuit» (Met. XI, 169),
cioè dal solo aspetto si evince la qualità della sua musica. Tra gli spettatori e giudici della gara, oltre a Mida
e ai suoi, figura anche il monte Tmolo, che si gira con
le sue foreste per ascoltare Apollo.
Soltanto Mida – proprio lui che era un seguace di
Orfeo – non riesce a comprendere la superiorità del
dio. Questo ne segnerà la condanna futura: la sua
sembianza umana sarà da allora contaminata, anzi
raccapricciosamente deturpata, da grosse orecchie
di asino.
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