ROMA
TRE
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI
UNIVERSITÀ ROMA TRE
TRE
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI
QUINTERNI, 5
ROMA
DIPARTIMENTO DI STUDI
STORICO-ARTISTICI,
ARCHEOLOGICI E SULLA
CONSERVAZIONE
Quinterni, 5
DIPARTIMENTO DI STUDI STORICO-ARTISTICI, ARCHEOLOGICI E SULLA CONSERVAZIONE
GIORNATA DELLA RICERCA 2011
Roma, 7-8 giugno 2011
a cura di Rita Dolce e Antonello Frongia
LIBRO CO. ITALIA
Organizzazione della giornata: Rita Dolce, Antonello Frongia
Progettazione e realizzazione grafica: Fabrizio Musetti
Laboratorio Informatico – Dipartimento di Studi Storico-artistici, Archeologici e sulla Conservazione
© 2012 LIBROCO. ITALIA
via Borromeo, 48
50026 San Casciano V.P. (FI) – Italia
P.O. Box 23
Tel. +39-55-8228461 – Fax +39-55-8228462
E-mail: [email protected] – www.libroco.it
ISBN: 978-88-97684-08-4
Premessa
Da qualche anno, la “Giornata della Ricerca” è un appuntamento fisso nella vita del nostro
dipartimento. Fin dall’inizio è stata voluta per mettere in contatto tra di loro i colleghi, da quelli
più anziani ai nuovi arrivati: l’incremento del personale, tra ricercatori e professori delle due fasce,
è stato notevole negli ultimi tempi, fino a contare nel 2012, mentre va in stampa questo numero
di “Quinterni”, ventisei unità, distribuite in sei settori scientifico-disciplinari per gli archeologi e
in quattro per gli storici dell’arte. Inoltre gli ultimi anni hanno visto l’uscita dai ruoli universitari
di colleghi più anziani, spesso promotori di linee di ricerca che talvolta sono state raccolte dai più
giovani, e di conseguenza un notevole ricambio di studiosi. Presentare alcune delle proprie ricerche è
stato quindi per tutti noi un modo per informare, creare curiosità e collegamenti, mettere a confronto
metodologie in un contesto significativamente trasformato anche solo a partire dal primo anno in cui
si è deciso di dar vita a giornate come queste. Per lo stesso motivo le giornate sono sempre state aperte
ai dottorandi, in modo che anch’essi potessero venire a conoscenza, al di là degli incontri programmati
con i loro tutors e con il collegio dei docenti, delle possibili aperture che il confronto con tutti i
membri del dipartimento mette a loro disposizione. La scelta di pubblicare, in forma estremamente
sintetica, le relazioni in questi “Quinterni” è consequenziale: la collana, per la quale si è scelta fin
dall’inizio una veste tipografica sobria e caratterizzata da un understatement oggi forse un po’ fuori
moda ma che abbiamo consapevolmente deciso di conservare, vuole costituire una sorta di archivio
della ricerca promossa o comunque portata avanti nell’ambito del dipartimento.
Il taglio degli interventi che vi si possono leggere è assai diverso, come diverse, per temi e metodi,
sono le ricerche. Alcuni tra di noi hanno preferito illustrare percorsi individuali, presentando in un
vero e proprio contributo di taglio scientifico anche se necessariamente sintetico, i resoconti di ricerche
che corrispondono ad approfondimenti di temi indagati da anni; altri hanno scelto di esporre, invece
dei risultati, veri e propri progetti in fieri che coinvolgono non solo i colleghi del dipartimento ma
quelli di altre università o i dottorandi e i dottori di ricerca (è il caso, ad esempio, dei progetti PRIN,
ossia “Progetti di Rilevante Interesse Nazionale”, purtroppo sempre più difficili da ottenere e la cui
assegnazione è ogni volta assai aleatoria, ma che il nostro dipartimento è sempre riuscito a veder
finanziati anche se non nella loro totalità).
Carattere qualificante del nostro dipartimento è la pluridisciplinarità, esplicitata a partire già dal
titolo. La ricerca che vi si svolge riflette questo carattere composito, che include l’archeologia, la
storia dell’arte e i temi della conservazione; una pluralità di voci e di metodologie che, lungi dal
frammentarla, ne rendono più forte e più coesa la fisionomia. A partire dal prossimo anno, come
molti altri dipartimenti anche il nostro dovrà comunque, per rispondere ai requisiti di legge, fondersi
con altre realtà e trasformarsi, includendo tra l’altro tra le proprie competenze la gestione della
didattica, non più demandata ai “Collegi” e alle Facoltà ma parte integrante e qualificante dell’attività
dei dipartimenti. A questo appuntamento intendiamo presentarci con la massima disponibilità alla
collaborazione e al dialogo, consapevoli della necessità di mettere in relazione sempre più fruttuosa
le discipline dell’ambito umanistico e non solo. Ma siamo pienamente consapevoli che solo il
rafforzamento della nostra specificità e delle nostre competenze consentirà l’esito positivo di questa
impresa. Al nuovo dipartimento presentiamo il contributo della nostra ricerca, della quale “Quinterni”
come questo offrono la concreta testimonianza.
Ai colleghi Rita Dolce e Antonello Frongia, che hanno organizzato le giornate della ricerca 2011
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e hanno curato, con il fattivo e competente contributo di Fabrizio Musetti, la realizzazione di questo
numero di “Quinterni” va la mia personale gratitudine e quella di tutti i colleghi.
Liliana Barroero
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Nota dei curatori
L’iniziativa della Giornata della Ricerca promossa dal Dipartimento di Studi Storico-artistici,
Archeologici e sulla Conservazione – nata alcuni anni fa, prima che chi scrive vi approdasse – si realizza in un incontro dedicato alla reciproca conoscenza degli ambiti scientifici di ricerca dei Colleghi
e dei giovani studiosi in formazione. Si tratta di un’occasione per confrontare metodologie e tematiche anche lontane tra loro, di una opportunità per misurare collettivamente le latitudini temporali e
spaziali che il nostro Dipartimento accoglie al suo interno e di apprezzare le potenzialità e le risorse.
L’incarico di organizzare l’incontro e i relativi atti, che ci è stato proposto per l’anno 2011, è stato
assunto tenendo in conto questi tre aspetti nel corso di tutte le fasi di lavoro, nell’intento di favorire
partecipazione e scambi di opinioni al di là delle linee di ricerca e dei profili metodologici di ognuno di
noi. Il tentativo è stato quello di stimolare curiosità e interessi immediati per campi di conoscenza cronologicamente, geograficamente e culturalmente vari, eppure contestualmente presenti in questa occasione.
La risposta di partecipazione attiva sia ai lavori, che di necessità hanno occupato quasi due giornate, sia alla ricca discussione, che ha accompagnato buona parte delle sedute, sia infine agli atti, ci
pare un segnale significativo.
La presentazione dei contributi nell’edizione a stampa segue il criterio cronologico delle ricerche
presentate nei singoli interventi delle Giornate, per rendere chiaramente tangibile, fin dalla composizione dell’indice, l’ampia diacronia che connota la ricerca scientifica del Dipartimento, come anche
la varietà di campi archeologici e storico-artistici che ciascuno di noi sta indagando.
I contributi raccolti nei Quinterni restano dunque a testimoniare uno degli esiti di questo incontro, il
quarto di una preziosa iniziativa, non frequente in molte sedi universitarie italiane: un’occasione che richiama discretamente la centralità della ricerca nel lavoro e nell’impegno della comunità scientifica, nonché il
suo valore nella trasmissione di conoscenza e di coscienza critica alle generazioni in formazione.
Rita Dolce e Antonello Frongia
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Gli arredi lignei da Ebla: una questione aperta
I. LA DOCUMENTAZIONE
Gli intagli lignei dal Palazzo Reale G di Ebla costituiscono una testimonianza unica nel panorama
delle culture della Siria e della Mesopotamia del III millennio a. C. e ancora di recente citati come
la più antica attestazione di opere del genere; opere pur
rare, poiché realizzate in legno e nel caso di Ebla ritenute parti decorative di oggetti mobili, più precisamente
arredi mobili di lusso.
Si tratta di più di 500 reperti, a soggetti umani,
animali e mitici, ridotti in maggior parte in frammenti
minimi, dai 14 cm. ca. dell’unica figura pressoché completa fino ai 6 mm. di resti di un piede (fig. 1), originariamente parte di rilievi piani, a mezzo e a tutto tondo, di
alto livello tecnico e qualitativo, ove al legno si associa la
madreperla per inserzioni decorative fissate con bitume.
Del corpus sono attualmente allo studio i resti a
soggetto umano maschile e femminile individuati con
certezza, circa il 27% dell’intera documentazione recuperata, ai quali seguirà l’analisi e, laddove possibile, Fig. 1 – Tell Mardikh-Ebla. Palazzo Reale G, locus 2601
l’ipotesi ricostruttiva dei frammenti di abbigliamento, a) Personaggio maschile con insegne e copricapo regale
circa il 21%; tali dati ci forniscono già una indicazione b)Piede destro, con indicazione di quattro dita
significativa sulla entità di soggetti umani nel complesso di frammenti superstiti.
Un aspetto nel metodo d’indagine in corso riguarda la ricostruzione delle dimensioni originarie di singole
opere, a partire dai resti più ampi: se ne trae per il momento qualche indicazione per una scala dimensionale
non omogenea, ove per soggetti di stesso genere si rilevano misure differenziate. Casi evidenti sono quelli di
personaggi ove le altezze certe dei busti maschili (2,5 cm., 2,2 cm.) e della testa femminile (2,7 cm.) (fig. 2)
mostrano scarti apprezzabili nelle originarie dimensioni per le figure intere rispetto a quelle dei pochi
intagli più largamente conservati, tra i 14 e i 15 cm.,
come su fig. 1 (TM.74.G.1000).
Il prosieguo del lavoro su un ampio numero
di frammenti significativi da tutti i soggetti del
corpus potrebbe condurre a individuare serie di
figure di diverse scale, ed estendere il campo dei
Fig. 2 – Tell Mardikh-Ebla. Palazzo Reale G, locus 2601
tipi di “arredi” ai quali le opere appartenevano.
a) Resti di eroi incedenti verso destra
b)Testa e parte di busto di guerriero con elmo a lunghi guanciali La paziente ricostruzione realizzata da tempo di
c) Figura femminile con elaborata acconciatura a ciocche e alcuni resti lignei (della specie pomoideae, circomantello frangiato
scrivibile al pero e al melo, ancora d’uso nell’artigianato attuale) riconduce ad un tavolo, del quale restano tre assi del piano originariamente tenute
insieme da un sistema di forcelle in osso, e alle parti laterali di un seggio, in entrambi i casi con i rilievi
figurativi intagliati “a giorno” fissati ai listelli da chiodini o piccoli tenoni lungo le parti inferiori delle
fiancate degli arredi.
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II. CONDIZIONI E CONTESTO DI RITROVAMENTO
La produzione ad intaglio e l’ebanisteria in genere trova riscontro nei dati dei testi degli Archivi di Ebla,
ove si registra un numero rilevante di artigiani preposti alla lavorazione del legno (insieme a quelli dediti
ai metalli) da un minimo di 140 a un massimo di 260 tra falegnami e carpentieri lavoranti per il Palazzo.
Ciò che appare una delle questioni aperte e sulla quale si focalizza la ricerca in corso riguarda la tipologia e la funzione dei manufatti di lusso ai quali gli intagli appartenevano, forse non solo relative ad arredi
di ambienti palatini, come finora si è ritenuto. La combinazione di dati, pregressi e più recenti, d’ordine
archeologico e testuale ci permette infatti di riconsiderare l’interpretazione dei manufatti originari
partendo dalle relazioni spaziali ormai evidenti dell’Ala
Nord e degli adiacenti settori settentrionale e occidentale
del Palazzo G (fig. 3). Nel corso delle campagne di scavo
dal 2000 al 2007, anno conclusivo dell’esplorazione di questo settore palatino, si raggiunse in primo luogo l’esposizione
di due vani all’estremità Nord (L.8606 e L.8605) ove sui
pavimenti giacevano ancora preziosi resti della produzione
artistica di Ebla protosiriana (2400-2300 a. C. ca.), scampati
al saccheggio dopo la conquista della città, che qualificano
questo Quartiere non già come “periferico” ma a carattere Fig. 3 – Tell Mardikh-Ebla. Il Palazzo Reale G,
centrale nel sistema palatino; in secondo luogo, l’esposizio- veduta assonometrica
ne della comunicazione certa fra due vani maggiori, L.2601, sul pavimento del quale giacevano tutti i
frammenti lignei, e L.2586 ove fu recuperato un lotto di tavolette iscritte databili all’ultima fase del regno
di Ebla, prima della sua distruzione intorno al 2300 a. C., che indica una relazione non casuale tra i due
ambienti, supportata dal contenuto dei documenti scritti; in terzo luogo, nelle due campagne più recenti
in quell’area, l’esposizione di due vani (L.9583, L.9330) che rappresentano l’estremo lembo ancora conservato sul versante Ovest, di certo organici al Quartiere, e che hanno restituito dai pavimenti sculture
miniaturistiche a tutto tondo dal cuore ligneo e con rivestimento in oro e argento, di pregio intrinseco e
di alto valore simbolico nella concezione della regalità eblaita. È dunque questo un Quartiere ove confluivano manufatti di lusso di particolare eccellenza, tra i quali gli intagli lignei e forse immagini di personaggi
femminili illustri della dinastia regnante, nel caso della microsculture.
III. QUALE FUNZIONE DEL QUARTIERE NORD E QUALE DEI MANUFATTI LIGNEI?
Appare evidente dal complesso dei dati, dei quali qui solo alcuni richiamati e sommariamente, che
il Quartiere Nord/Nord-Ovest non prevedeva comunicazioni con la platea della Grande Corte a Sud
né con l’area residenziale privata e dei servizi, ad Est (fig. 3) ma verosimilmente a mio avviso un accesso
indipendente, ormai perduto, proprio sul versante Nord/Nord-Ovest; e che al di là del carattere regale
resta ancora aperta la definizione della sua funzione nell’economia del Palazzo G.
Su tale quesito e in relazione alle opere lignee oggetto della ricerca soccorrono i testi di registrazione di beni per manufatti pregiati rinvenuti proprio nel vano sopraccitato (L.2586) attiguo a quello di
giacitura degli intagli (L.2601): si tratta infatti di un “archivio speciale”, redatto secondo i filologi da
scribi diversi da quelli operanti nella cancelleria centrale e datato su base prosopografica poco prima
della rovina del regno di Ebla. Attiene per lo più testi di registrazione di consegne di oggetti preziosi in
oro e argento a re stranieri e ad alti funzionari dell’amministrazione palatina, riguardanti manufatti in
argento ed oro identificati dai termini come bardature e briglie di equidi, o connessi con gli apparati
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esornativi di carri da parata, produzione ben nota dai testi dell’Archivio maggiore palatino (L.2769) e
destinata a membri eminenti maschili e femminili della corte. Il destinatario più ricorrente è il primo
ministro dell’ultimo periodo del regno di Ebla, Ibbi-Zikir, noto dai documenti provenienti dall’Archivio centrale suddetto come massimo funzionario dell’apparato amministrativo, militare e politico
prima dell’epilogo di Ebla, in una rapida ascesa al suo potere personale. La relazione spaziale tra i due
vani e la presenza unitaria degli intagli lignei in uno di essi (L.2601) ha già indotto i filologi a correlare
il contenuto dei testi ai manufatti e a considerare quello spazio adibito alla conservazione di elementi
pregiati e di distinzione sociale di equipaggiamento per animali e carri; e trova ora conferme da ulteriori evidenze, archeologiche e testuali, che gettano una luce diversa sul carattere funzionale dell’intero
Quartiere. Si citano al riguardo in questa sede le attestazioni degli Archivi di preziosi carri da parata istoriati appannaggio dei massimi funzionari del regno e della regina madre; un anello in bronzo rinvenuto
nello stesso vano (L.9583) delle sculture miniaturistiche in oro e argento che richiama per tipologia,
dimensioni e fattura i passabriglie dei carri del Cimitero Reale di Ur e in specie delle tombe di Kish
della Mesopotamia coeva. Evidenze, queste, ed altre concorrenti da Ebla stessa e da centri maggiori
della Siria nella valle del Khabur per il commercio e la circolazione di equidi, che inducono a ipotizzare
che il settore Nord e Nord-Ovest dell’Ala Nord del Palazzo G fosse adibito a funzioni connesse a tale
ambito del patrimonio palatino e a ritenere il vano ove giacevano gli intagli lignei luogo deputato ad
accogliere temporaneamente manufatti di lusso appartenenti a diverse tipologie ma di certo comprese
quelle registrate nell’Archivio adiacente (L.2586).
Rita Dolce
BIBLIOGRAFIA
Le bibliografie qui indicate attengono solo parzialmente il supporto della ricerca in corso che ha esposizione
esaustiva e apparato bibliografico esauriente nel contributo all’edizione degli Atti della Rencontre Assyriologique
Internationale, Roma “La Sapienza”, 4-8 luglio 2011, in corso di stampa.
A. ARCHI, Gli Archivi di Ebla (ca. 2400-2350 a. C.): Archivi dell’Oriente antico, in «Archivi e Cultura» 29 N.S.
(1996), pp. 57-86.
A. ARCHI, The Regional State of Nagar According to the Texts of Ebla, in «Subartu» IV/2 (1998), pp. 1-15.
M.G. BIGA, Archive L.2586, in Eblaite Personal Names and Semitic Name-Giving (ARES 1), a cura di A. Archi,
Roma 1988, pp. 285-287.
M.G. BIGA, La struttura ed il funzionamento dei magazzini nei sistemi centralizzati in Mesopotamia ed in Siria:
alcuni dati dei testi del terzo millennio, in «Origini» 14 (1988-1989), pp. 585-594.
M.G. BIGA, Buried among the Living at Ebla? Funerary Practices and Rites in a XXIV Cent. B.C. Syrian Kingdom,
in Atti del Convegno Internazionale “Sepolti tra i vivi-Buried among the Living”, Roma, 26-29 Aprile 2006
(Scienze dell’Antichità 14), a cura di G. Bartoloni, M.G. Benedettini, Roma 2007-2008, pp. 249-275.
Dictionnaire de la Civilisation Mésopotamienne, a cura di C. Castel et al., Paris 2002, pp. 135-138, 537-539.
G. CONTI, Carri ed equipaggi nei testi di Ebla, in «Miscellanea Eblaitica» 4 (1997), pp. 23-71.
H. CRAWFORD, The Earliest Evidence from Mesopotamia, in The Furniture of Western Asia Ancient and Traditional,
a cura di G. Hermann, Mainz 1996, pp. 33-39.
P. MATTHIAE, Syrische Kunst, in Der Alte Orient (PKG XIV), a cura di W. Orthmann, Berlin 1975, pp. 466-473,
487-488.
P. MATTHIAE, Ebla à l’époque d’Akkad: Archéologie et Histoire, in «CRAIBL» (1976), pp. 190-215.
P. MATTHIAE, Le Palais Royal et les Archives d’Etat d’Ebla protosyrienne, «Akkadica» 2 (1977), pp. 2-19.
P. MATTHIAE, Ebla in the Period of the Amorite Dynasties and the Dynasty of Akkad: Recent Archaeological
Discoveries at Tell Mardikh (1975) (MANE I), Malibu 1979.
P. MATTHIAE, Ebla. Un impero ritrovato, II ed., Torino 1989.
P. MATTHIAE, Gli Archivi Reali di Ebla, Roma 2008.
P. MATTHIAE, The Standard of the maliktum of Ebla in the Royal Archives Period, in «ZA» 99 (2009), pp. 270-311.
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D. OATES, J. OATES, Ebla and Nagar, in Ina kibrāt erbetti. Studi di Archeologia orientale dedicati a Paolo
Matthiae, a cura di F. Baffi et al., Roma 2006, pp. 399-423 (401-404: pertinenti).
L.C. WATELIN, S. LANGDON, Excavations at Kish, IV, Paris 1934.
C.L. WOOLLEY, Ur Excavations II. The Royal Cemetery, London/Philadelphia 1934.
Attività di ricerca della cattedra di Paletnologia nel 2010
Nel 2010, le attività afferenti all’insegnamento di Paletnologia da me tenuto sono state essenzialmente tre:
1) la prosecuzione del survey nell’ambito del seminario sull’Appia Antica (coordinato assieme a
Daniele Manacorda, Maura Medri e Riccardo Santangeli);
2) la partecipazione degli studenti alla campagna di scavo di Fossa, in Abruzzo (v. Pennacchioni,
infra);
3) lo scavo nel sito di Colle Rotondo (Anzio), cui dedico questo breve intervento (sulle ricerche del
2009, qui presentate nel 2010, v. ora Guidi, Jaia, Cifani 2011).
Tra il 21.06.2010 e il 16.07.2010 è stata effettuata la prima campagna di scavo in località Colle
Rotondo, nel comune di Anzio.
Ai lavori sul campo, coordinati da me, da Alessandro Maria Jaia (Università di Roma La Sapienza)
e Gabriele Cifani (Università di Roma Tor Vergata) hanno preso parte circa 20 studenti dell’Università
di Roma Tre, affiancati dal dott. Fabrizio Felici, archeologo della società Parsifal.
I materiali raccolti sono stati depositati presso il Museo di Anzio, in accordo con la Soprintendenza
per i Beni Archeologici del Lazio e la direzione del Museo (dott.ssa Giusy Canzoneri) e grazie al coordinamento della dott.ssa Emanuela Fulceri, borsista dell’Università di Roma Tor Vergata.
Le indagini si sono concentrate su tre aree di scavo
(per la posizione vedi fig. 1).
AREA 1
Presso i resti dell’aggere maggiore dell’abitato, sul
limite; l’attività è consistita nella ripulitura di una sezione dell’aggere e nella realizzazione di due ampi sondaggi.
La struttura difensiva, che si presentava ancora intatta
Fig. 1 – Colle Rotondo (Anzio), aree di scavo
fino a circa dieci anni, è stata in larga parte sbancata negli
ultimi anni e ne sopravvive solo una ridotta porzione
dell’angolo settentrionale.
In questa area sono stati realizzati due ampi sondaggi tra la sezione e i bordi orientale ed occidentale che hanno individuato un ampio battuto di colore rosso con buche che conservano copiosi resti
di palo con pareti in graticcio ed argilla.
Alcuni resti di carboni riferibili ai pali della struttura sono stati campionati; minuti frammenti di
impasto non diagnostici, raccolti per lo più fuori contesto stratigrafico, sembrano comunque suggerire
una cronologia ad epoca protostorica della struttura lignea che sarebbe stata in un secondo momento
obliterata dalla costruzione dell’aggere difensivo, costruito secondo i canoni ben documentati in altri
abitati di età protostorica.
Lo studio delle quote ha permesso inoltre di notare che il piano di calpestio si trova a circa 50 cm
al di sopra dell’attuale strato di arativo della parte centrale del pianoro e questo aspetto, insieme ad
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ulteriori dati dalla Area 2 lascia intuire un accentuato fenomeno di erosione del paleosuolo e dei
depositi antropici, almeno nella parte centrale ed orientale del pianoro.
Le datazioni al C14 effettuate su due resti di pali carbonizzati presso il CEDAD (Università di
Lecce), hanno offerto i seguenti risultati:
CODICE CEDAD
CAMPIONE
DATAZIONE CALIBRATA
(LIVELLO DI CONFIDENZA 2s)
LTL6039A
US108
1020BC (95.4%) 810BC
LTL6040A
US106
930BC (95.4%) 790BC
Si può forse ipotizzare che il battuto, i pali e altri elementi lignei orizzontali facessero parte di
un grande apprestamento difensivo precedente gli aggeres tradizionali dell’età del ferro e del periodo
arcaico. Alla verifica di tale ipotesi sarà dedicata la prossima campagna di scavo.
AREA 2
Sondaggio di scavo effettuato nel settore centrale dell’abitato. Ha restituito una situazione stratigrafica
compromessa.
Sono state individuati i resti di alcune fosse scavate nel banco di tufo con frammisto un riempimento
contenente materiale ceramico di impasto, minuti frammenti di bucchero nero e tegole.
L’ipotesi di lavoro è che si tratti dei resti di possibili cisterne o fosse di scarico, scavate nel banco
di tufo ed originariamente a quote più basse rispetto al piano di calpestio e di cui sono rimaste solo
parte delle estremità inferiori a causa dell’erosione del pianoro che ha interessato anche parte del
banco di tufo.
AREA 3
Vi è stato rinvenuto un ampio e compatto strato di frammenti tegole chiaro sabbiose, ceramica
comune acroma, dolia e ceramica a vernice nera da riferire ai resti di strutture di epoca medio
repubblicana.
Un approfondimento sul lato settentrionale del quadrato ha rivelato la seguente sequenza stratigrafica: circa m. 0,6 di strato di terreno arativo che coprono circa m. 1,1 di strati antropici (con
ceramica prevalentemente di epoca romana medio repubblicana) e che coprono a loro volta il banco
naturale formato da un deposito piroclastico di tufo rosso litoide.
Appare indubbio pertanto che in questa area l’erosione del suolo manifesta caratteri meno accentuati
che nel resto dell’unità orografica.
Interessante il rinvenimento, in giacitura secondaria, di una punta di freccia in selce.
Parallela all’attività di scavo è proceduta quella del rilevamento dell’intero pianoro dell’abitato
antico, mediante stazione totale eseguito da Federico Nomi, Giulia Peresso e Gabriele Cifani.
Complessivamente sono stati battuti circa 1.300 punti comprensivi di quote la cui elaborazione
consentirà un’accurata planimetria dell’area, cui agganciare anche le coordinate dei saggi di scavo,
nonché di delineare un modello tridimensionale della sommità del pianoro.
Per quanto concerne i saggi di scavo, questi sono stati documentati mediante rilievi di dettaglio
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di ogni singola unità stratigrafica e mediante ortofotopiani eseguiti da Federico Nomi.
Alessandro Guidi
BIBLIOGRAFIA
A. GUIDI, A. JAIA, G. CIFANI, Nuove ricerche nel territorio di Colle Rotondo ad Anzio (Roma), in «Lazio e Sabina», n. 7
(Atti del Convegno, Roma, 9-11 marzo 2010), Roma 2011, pp. 371-380.
Attività di ricerca degli studenti dell’Università Roma Tre nella necropoli di Fossa (AQ)
Nell’estate 2010, il tirocinio formativo rivolto agli studenti, coordinato dalla cattedra di
Paletnologia (prof. Guidi, dott. Pennacchioni) in sintonia ed in collaborazione con la Soprintendenza
Archeologica d’Abruzzo (dott. D’Ercole), è stato effettuato nella necropoli vestina di Fossa (AQ). Vi
hanno preso parte 19 studenti organizzati in due turni, dal 19 luglio al 6 agosto.
La Necropoli, scoperta casualmente nel 1992 durante i lavori di scavo per la realizzazione di un’area
industriale, è stata oggetto di scavi regolari negli anni successivi (COSENTINO, D’ERCOLE, MIELI 2001) ed
ha restituito centinaia di tombe databili tra la fine del IX sec. a.C. ed il I secolo d.C.
La fase più antica (IX-VIII sec. a.C.) presenta generalmente grandi tumuli delimitati da circoli di
pietre, con una unica sepoltura centrale, ed una fila di monoliti di dimensioni decrescenti a partire
dal tumulo. Le tombe a fossa profonda sono rare.
Al VII sec. a.C. sono attribuibili tumuli di minori dimensioni privi di stele e spesso anche di margini,
con una o più sepolture all’interno mentre aumentano le tombe a fossa che saranno le sepolture più comuni
dal VI sec a.C.: si tratta per lo più di fosse rettangolari con margine delimitato da file di sassi, più raramente
rivestite ed in qualche caso con piano di deposizione realizzato con elementi litici (D’ERCOLE, BENELLI 2004).
Le ultime fasi di utilizzo della necropoli ricadono nell’età ellenistico-romana e presentano una
varietà di tombe a fossa (le ultime datate alla metà del I sec. a.C.) e a camera, queste ultime anche
monumentali, per le quali sono state utilizzate grandi lastre litiche; alcune di queste tombe sono
molto ricche ed alcune (al momento sono sei) hanno rivelato la presenza di letti rivestiti con osso
lavorato (D’ERCOLE, COPERSINO 2003).
Due tombe isolate ad incinerazione chiudono, nel I secolo d.C., l’uso della necropoli. Dalla foto
aerea dell’area di scavo della necropoli sono evidenti le strutture delle tombe a circolo della prima
età del ferro, in particolare la tomba 300 con un
diametro di crepidine di 18 m.; sulla sommità del
tumulo è impostata la tomba a camera 63 con sepolti
tre individui e cronologia desunta dagli elementi del
corredo tra la fine del II sec. a.C. e gli inizi del I sec.
d.C. (fig. 1).
L’attività di scavo in questo importante sito, ferma
da nove anni per mancanza di fondi, ha beneficiato nel
2010 di un contributo per il restauro delle strutture
danneggiate dal sisma del 6 aprile 2009.
È stato in questo modo possibile programmare una
campagna di scavi che si è avvalsa della collaborazione di Fig. 1 – Necropoli di Fossa, foto aerea
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numerosi studenti e laureandi di Roma Tre coordinati da chi scrive, con l’intento preciso di esplorare
una larga porzione di necropoli che potesse dare indicazioni sulla reale estensione dell’area adibita a
sepoltura e sulla presenza di settori, strade, delimitazioni.
L’area indagata, posizionata a sud-est del nucleo principale della necropoli su una porzione di terreno
leggermente sopraelevata rispetto al piano di deposizione dei tumuli più antichi, è di circa 200 mq. Qui sono
state rinvenute sette sepolture databili dalla prima età del ferro all’età arcaica ed un ampia area lastricata.
Una prima sepoltura, a ridosso della vecchia area di scavi, era segnalata da un grande masso avente
funzione di segnacolo e da una fila di pietre che delimitavano i bordi di una profonda fossa appena
disturbata su un lato lungo da una sepoltura infantile di età arcaica. Una sorta di sacello rivestito
e coperto da pietre conteneva una grande olla di impasto rosso con dipinti motivi geometrici in
bianco, sormontata da un coperchio dello stesso impasto rosso dipinto e con all’interno un attingitoio anch’esso in impasto rosso con superficie brillante e motivi
bianchi. Il ricco corredo, in parte posizionato su una banchina
laterale, si compone di elementi metallici che denotano l’importanza del defunto. Tra questi, le armi in ferro (una spada corta
con fodero ed un coltello), un attingitoio in lamina bronzea, un
bacile in bronzo e numerose fibule in ferro (fig. 2).
Sulla base delle caratteristiche la cronologia si attesta alla
fase 1B della necropoli di Fossa (metà VIII sec. a.C).
Un primo elemento di interesse è dato dal “servizio”
composto da dolio, attingitoio e coperchio (per la prima
volta attestato a Fossa in questa età). Un secondo dato è la
conferma della inumazione in fossa durante la prima età del
ferro. Alla mancanza dei resti dell’inumato non è ancora stata
data una interpretazione, in attesa delle analisi del terreno. Il
Fig. 2 – Tomba a fossa in fase di scavo
restauro del materiale è ancora in corso e la documentazione
porterà sicuramente nuovi e significativi elementi. Una tomba a circolo ed altri due tumuli, inquadrabili cronologicamente intorno al VII sec. a.C. hanno restituito scarsi elementi di corredo mentre
altre sepolture, troppo superficiali, erano gravemente danneggiate da lavori agricoli e quasi prive di
reperti (solo frammentini ceramici e metallici molto erosi).
Il proseguimento della pulizia nell’angolo nord-est del saggio ha portato a scoprire un ampio lastricato
formato da pietrame e ciottoli di piccole dimensioni. Infine, sul lato est è venuto in luce un allineamento di
pietre già notato in precedenti scavi, di incerta pertinenza
e cronologia (fig. 3).
Il materiale recuperato è stato sottoposto a pulizia
e restauro presso il laboratorio di Capestrano. Gli
studenti sono stati impegnati, a rotazione, sia nello
scavo che nella documentazione, sul campo ed in laboratorio, che nel restauro. L’opportunità di intervenire
in un sito di grande rilievo sia per estensione che per
importanza delle testimonianze rinvenute, ampiamente illustrate nei tre volumi editi a cura di Vincenzo Fig. 3 – La tomba a circolo, i due tumuli orientalizzanti e,
d’Ercole e collaboratori, ha fornito stimoli notevoli ai sullo sfondo, l'allineamento di pietre
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partecipanti ed arricchito il loro bagaglio culturale e professionale.
Hanno partecipato: Alessio Agostini, Martina Bernardi, Eugenia Cesare, Daniele Ciangola,
Cristina Cumbo, Davide De Giovanni, Stefano De Luca, Agnese Fiore, Federico Floridi, Ilaria
Frumenti, Cecilia Galleano, Cinzia Mereu, Flavia Piciarelli, Camilla Pintus, Michele Romano,
Francesco Silvestri, Andrea Simeoni, Michela Stefani, Mariele Valci.
Massimo Pennacchioni
BIBLIOGRAFIA
S. COSENTINO, V. D’ERCOLE, G. MIELI, La necropoli di Fossa, vol. I, Ascoli Piceno 2001.
V. D’ERCOLE, E. BENELLI, La necropoli di Fossa, vol. II, Sambuceto di S. Giovanni Teatino 2004.
V. D’ERCOLE, M. R. COPERSINO, La necropoli di Fossa, vol. IV, Sambuceto di S. Giovanni Teatino 2003.
Verso una storia della conservazione del Patrimonio Culturale in Cina
In Cina, fin da epoche assai remote il restauro è stato concepito come azione volta a mantenere costantemente integra l’immagine originale del manufatto nel corso del suo trasferimento al futuro, anche a costo di
sostituirne progressivamente ogni parte fino all’estremo limite della perdita della materia originale.
Salvatore Settis, riferendosi allo storico dell’arte cinese Wu Hong, ha recentemente affermato che
«nella cultura cinese manca il senso delle rovine, e i pittori e calligrafi cinesi si astennero dal rappresentarle; le eccezioni sono dovute a influssi della cultura europea. In Europa, al contrario, la presenza
delle rovine è vitale nella riflessione storica come nell’arte e nella letteratura». In Cina è certamente
mancata la vocazione pedagogica della rovina e ciò ha impedito lo svilupparsi del dibattito sull’autenticità dell’opera d’arte che invece in occidente trova un antico precedente nel noto paradosso di Teseo,
derivante dalle vicende riferite da Plutarco nella vita dell’eroe ateniese. La bibliografia cinese sulle fonti
della storia dell’arte e dell’archeologia è assai scarsa. Dopo gli studi pionieristici di Raphaël Petrucci nei
primi venti anni del Novecento, Mario Bussagli, a metà degli anni ’60, ha indagato le fonti e la letteratura
artistica cinese, seguito più tardi dallo studioso sino-francese François Cheng con il memorabile saggio
Vuoto e pieno: il linguaggio della pittura cinese. La storia del restauro del Novecento è stata ricostruita da
Jocelyne Fresnais nel volume La protezione del patrimonio nella Repubblica Popolare di Cina: 1949-1999.
Altro contributo fondamentale è il volume pubblicato nel 2003 dallo studioso sino-francese Zhang Liang
La nascita del concetto di patrimonio in Cina tra i secoli XIX e XX. Mancava tuttavia uno studio completo
delle fonti antiche relative alla storia delle tecniche artistiche e alla storia del restauro. Interessanti
spunti metodologici per una ricerca di questo tipo sono offerti dalla monumentale opera Scienza e
civiltà della Cina di Joseph Needham.
Terminata la Rivoluzione Culturale, e a seguito delle aperture verso l’Occidente, in Cina si diffondeva una concezione pseudo-scientifica del restauro e soltanto negli ultimi dieci anni si registrava
la nascita di un vero e proprio pensiero storico-critico, anche grazie alla recente traduzione in lingua
cinese della Teoria del Restauro di Brandi, sperimentata nell’ambito delle attività didattiche presso il
Sino-Italian Conservation Training Center diretto da chi scrive.
La fase iniziale della ricerca, di cui in questa sede vengono riferiti i primi risultati, è consistita
in uno spoglio delle fonti relativo ad un ampio arco temporale che va dal periodo delle Primavere e
Autunni (VIII sec. a. C.) fino alla prima metà del Novecento.
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Fin dalle epoche più remote (Dinastie Xia, Shang e Zhou), a partire dal secondo millennio, è
attestato un elevato grado di apprezzamento estetico del vasellame in bronzo e delle giade risalenti ad
epoche più antiche; minore attenzione era riservata ai manufatti in ceramica che non erano ritenuti
di pari valore ideologico e simbolico. Tali differenze tra diverse categorie di manufatti hanno condizionato fortemente le attenzioni e le cure per la loro conservazione e, in conseguenza, le metodologie
del restauro tradizionale che successivamente sono state messe a punto in Cina.
Lo studioso Ruan Yuan (1764-1849) riferisce delle diverse forme di considerazione che caratterizzano la storia del vasellame in bronzo in Cina: prima della Dinastia Han il manufatto in bronzo
era considerato un emblema del potere; dalla Dinastia Han alla Dinastia Song i ritrovamenti di vasi
arcaici erano considerati fatti eccezionali e portentosi.
Durante il Periodo delle Primavere e Autunni (770-256 a. C.) erano attive centinaia di scuole
dedicate alla produzione di manufatti. Il Kao Gong Ji (Manuale di tecniche metallurgiche) è il testo
più importante di quel periodo e riassume esperienze sulle diverse tecniche produttive dei manufatti
e riporta informazioni sui metodi di cura e di conservazione in relazione alle raccolte di antichità, con
particolare riferimento agli oggetti di metallo (bronzo, oro e argento). Già in quell’epoca erano praticate
la manutenzione e il restauro.
Altre attestazioni specifiche collegate alle pratiche di restauro si riscontrano nell’opera Lushi
Chunqiu (Annali del periodo delle Primavere e Autunni di Lu), compilata attorno al 239 a.C. in cui si
menzionano trattamenti specifici per i manufatti in bronzo.
Il primo trattato di estetica è il Gu Hua Pin Lu (Repertorio e classificazione degli antichi pittori),
opera attribuita a Xie He, pittore di ritratti attivo a Nanchino intorno al 500 d. C.
Nel trattato di Xie He sono riportate le 6 Leggi della pittura (Huìhuà Liùf ǎ) da alcuni studiosi
accostate ai Sei Rami della teoria indiana dell’arte. Vi è un accordo unanime circa il fatto che le Sei
Leggi di Xie He costituiscano il primo tentativo di teorizzazione dell’arte visiva cinese attraverso la
definizione del percorso che l’artista deve seguire per raggiungere produrre una vera opera d’arte:
1) lo spirito vitale del pittore deve essere trasferito dall’artista all’opera;
2) il pennello deve essere usato in modo essenziale;
3) nel ritrarre si deve essere fedeli alle forme a cui ci si ispira o che si copiano;
4) i colori devono essere conformi ai modelli;
5) ogni elemento della composizione deve avere un’idonea collocazione;
6) si deve favorire l’esercizio e l’esperienza attraverso la realizzazione di copie dei dipinti classici (affinché in questa fase possa verificarsi nell’allievo lo stesso fluire del Qi che avviene nel
Maestro e che crea movimento di vita e pertanto la vera creatività artistica).
Quando l’allievo avrà compreso il processo creativo che il Maestro vive in sé, solo allora potrà produrre
un’opera d’arte, ma non si tratterà, anche in quel caso, di un’opera completamente originale poiché in
essa sarà presente una parte derivante dal Maestro e così si perpetuerà la “trasmissione dello spirito degli
antichi”. Pertanto la copia non è affatto di secondaria importanza rispetto all’originale, poiché l’atto del
copiare è inevitabile ed è parte del processo di trasmissione del fenomeno di produzione dell’arte.
Nel testo Qimin Yaoshu (Principali tecniche per il raggiungimento del benessere per la gente), redatto
durante la Dinastia Wei Occidentali (535-557 d. C.), alcuni capitoli sono dedicati alla conservazione
antiquariale.
A partire dalla Dinastia Song (960-1279) si sviluppa l’interesse dei collezionisti, degli antiquari
e dei filologi per i vasi arcaici in perfetta continuità con le tradizioni precedenti. Nell’anno 1092 Lu
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Dalin (1046-1092) pubblica la monumentale opera Kao Gu Tu (Figure per lo studio delle cose antiche)
nella quale vengono illustrati e catalogati con criteri tipologici rigorosi ben 211 opere della collezione
imperiale e 37 manufatti provenienti da collezioni private.
Nell’antica letteratura cinese sono rari i testi dedicati in modo specifico alla tutela del patrimonio
culturale. Precisi riferimenti ai metodi di restauro e di manutenzione degli antichi edifici sono contenuti in opere come il Mengxi Bitan (Memorie di scambi epistolari), opera di Shen Guo(1031-1095)
ricca di notazioni scientifiche e tecnologiche o come il Duonengbishi(Manuale per la realizzazione di
ogni sorta di oggetto), scritto da Liu Ji(1311-1375) durante l’epoca Ming, nel quale sono descritte le
tecniche della colorazione della seta con estratti del tè verde.
Durante la Dinastia Song venne redatto il testo Huangshi (Storia della pittura), opera del poeta Mi
Fu, nel quale sono descritte in modo specifico le tecniche di impermeabilizzazione e di essiccazione
utilizzate sui dipinti su rotolo. Durante l’epoca Song erano diffuse le copie di manufatti in bronzo,
realizzate sul modello degli originali risalenti alle Dinastie Shang e Zhou.
In quel periodo inoltre era praticato lo studio epigrafico che stimolerà in maniera determinante
lo sviluppo dei procedimenti di restauro.
Durante la Dinastia Yuan (1271-1368 d. C.) la pratica della duplicazione dei manufatti antichi
perse importanza a causa delle lunghe guerre e la qualità dei risultati peggiorava rispetto alle repliche
che erano state prodotte durante la Dinastia Song.
Durante l’epoca Ming molte sculture subirono numerosi restauri integrativi. Uno dei casi più emblematici è quello riscontrato nelle straordinarie sculture del sito rupestre di Dazu nel quale sono conservate
ben 50.000 sculture e iscrizioni, localizzato nella Cina Centrale, presso la megalopoli di Chongqing.
Nel corso di un recente restauro della statua della divinità Guanyin detta “delle 1000 mani” sono
state scoperte numerose applicazioni parziali della doratura, certamente di restauro.
Il testo Zhuanghuangzhi(Trattato sui metodi di decorazione), redatto da Zhou Jiazhou(1522-1620)
durante la Dinastia Ming, descrive i processi di alterazione dei pigmenti bianchi.
Le tecniche operative del restauro per la porcellana, il bronzo, le antiche calligrafie e i dipinti
registrano un miglioramento progressivo fino alle Dinastie Ming e Qing.
Il periodo Qing costituì la fase di maggior ricchezza per il restauro delle antichità in Cina e ciò è
dovuto al forte interesse degli imperatori per le antichità. Il testo Regolamentazione per la tutela dei
beni culturali e dei siti storici, che costituisce il più antico documento normativo cinese in materia
di conservazione delle antichità, venne redatto durante il regno dell’Imperatore Xuantong (1909).
Nella prima metà del Novecento i contributi di Zhu Qiqian e Liang Sicheng (nell’ambito della
Società per lo Studio delle Costruzioni Cinesi) sono stati determinanti per lo sviluppo del concetto
cinese moderno di patrimonio storico costruito.
Di grande rilievo per quanto riguarda la storia delle tecniche costruttive dell’architettura fu la scoperta del manuale Yingzao fashi (Trattato dei metodi dell’architettura) scritto attorno al 1103, durante
la Dinastia Song da Li Jie (1065-1110), ritrovato nel 1919 da Zhu Qiqian nella Biblioteca Jiangnan
a Nanchino e successivamente studiato da Liang Sicheng.
Infine assume un ruolo centrale, per le prospettive di questa ricerca che sarà portata avanti da
altri, la “scoperta” compiuta qualche anno dei manoscritti di Wang Xu (1930-1997), studioso di
formazione autodidatta che nel 1984 divenne direttore della sezione di Conservazione dell’Istituto
di Archeologia dell’Accademia Sinica delle Scienze Sociali. Wang Xu dedicò tutta la vita alla ricerca
sulla storia dei tessuti in Cina, allo studio delle tecniche tradizionali ancora preservate e alla ricerca
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sulle problematiche di conservazione e restauro in questo delicatissimo ed importante settore. Fu
responsabile del recupero e del restauro nel caso di importanti ritrovamenti archeologici, quali la
tomba Chu a Mashan, Jiangling, le tombe Han a Mawangdui, Mancheng e Guangzhou e nel caso
del ritrovamento delle importantissime opere Tang nel Tempio di Famen.
La costituzione di una Fondazione in memoria di questo grande protagonista del Novecento
contribuirà a rafforzare in Cina la disciplina della storia del restauro.
Mario Micheli
Zhan Chang Fa (Chinese Academy of Cultural Heritage, Beijing, China)
BIBLIOGRAFIA
R. CIARLA, M. MICHELI, Il Centro di formazione per la conservazione ed il restauro del patrimonio storico-culturale
della Cina nord-occidentale a Xi’an – Repubblica Popolare Cinese. Oriente-Occidente: filosofie del restauro a confronto,
in «Faenza», I-III (1997), pp. 19-27.
ZHAO FENG (a cura di), Wang Xu and Textile Archaeology in China, Hong Kong 2001.
J. FRESNAIS, La protection du patrimoine en République populaire de Chine, 1949-1999, Paris 2001.
ZHANG LIANG, La naissance du concept de patrimoine en Chine. XIX-XXe siècles, Dijon-Quetigny 2003.
G. PASQUALOTTO, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Venezia 2004.
M. MICHELI e ZHAN CHANG FA (a cura di), La conservazione del Patrimonio Culturale in Cina. Storia di un
progetto di cooperazione, Roma 2006.
B. PEH T’I WEI, Yuan Ruan, 1764-1849. The Life And Work of a Major Scholar-Official in Nineteenth-Century
China Before the Opium War, Hong Kong 2006.
Mortalità materna nei rilievi funerari attici: un’ipotesi di lettura
La questione della donna nell’antichità classica è un argomento che ha affascinato generazioni di
studiosi, e la cui complessità risiede in parte nel fatto che le testimonianze, comunque sporadiche,
sono filtrate da autori maschili che scrivevano per un pubblico maschile. Che la donna avesse un
ruolo marginale nella società greca non è controvertibile, anche se è stato ridimensionato quel pessimismo che aleggiava sulla condizione femminile. Il suo ruolo sociale si risolveva nella legittimità della
filiazione; la sua sfera di competenza concerneva unicamente il privato della vita quotidiana, essendo
riservata la gestione del bene pubblico, della polis, all’uomo.
Le arti visive e soprattutto la pittura vascolare, con maggiore intensità a partire dall’inizio del V
secolo, certificano di fatto la dimensione privata della donna che, quando è rappresentata, appare più
frequentemente nel contesto domestico. I pittori scandiscono il ritmo della vita femminile secondo
immagini stereotipate, che mostrano la donna dedita all’igiene quotidiana o a imbellettarsi. Più rare
le raffigurazioni che la vedono occupata nelle sue mansioni specifiche o nella cura dei figli, o fuori
delle mura domestiche. Se associata a un uomo, le occasioni riguardano il rito delle nozze, il commiato del guerriero o l’intimità all’interno del gineceo, a rimarcare il benessere sociale della famiglia.
Al destino di morte riportano le scene in cui prende parte come membro dell’oikos. Nonostante la
letteratura misogina catalizzata su alcuni topoi, è ormai certo che la donna, legittimamente coniugata,
almeno all’interno della casa, godesse di maggiore libertà. A riprova, le scene domestiche decorano, nella
maggioranza dei casi, forme destinate all’uso femminile, lasciando i soggetti più lascivi, forse pertinenti
a etere, prostitute o schiave, a campire crateri e kylikes, destinati invece al pubblico virile dei simposi o
all’esportazione, e rivelando che anche i destinatari non erano sempre maschili.
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Con la ripresa della produzione di semata funerari negli ultimi
decenni del V secolo, provocata forse dagli eventi della guerra del
Peloponneso e dalla necessità di riqualificare la manodopera artigianale,
affluita ad Atene per i lavori dell’Acropoli, una più netta e diffusa affermazione dell’immagine della donna è percepibile anche nella selezione
dei soggetti che fregiano ora lekythoi, loutrophoroi, stele e naiskoi. I temi
non si discostano da quelli proposti dalla pittura vascolare, anche se la
destinazione del monumento determina la maggiore compostezza negli
schemata e la rarefazione dell’atmosfera dello sfondo, in genere privo di
quei riferimenti al contesto del gineceo, tangibili invece nella ceramica.
Limitandoci ai soggetti che vedono protagonista la donna sposata, ella
è più spesso seduta e in compagnia di una o più figure che precisano la
natura del momento e il suo valore simbolico: la funzione di despoina
della casa o quello di sposa. Tuttavia nel raffronto con la ceramica coeva, Fig. 1 – Naiskos funerario, Brauron,
Museo Archeologico
a fronte della pur omogenea gamma tematica, emerge, con forte evidenza, il carattere rilevante qui consegnato al tema della maternità; nei monumenti funerari si nota, cioè,
una più spiccata e ripetuta insistenza sulla dimensione materna che, come si è accennato, rimane invece
un motivo secondario nel repertorio vascolare al quale comunque queste scene rimandano.
La tematizzazione di donne perite per cause o per conseguenze concomitanti il parto compare già
nell’ultimo venticinquennio del V secolo. Lo schema con l’iconografia più diffusa prevede una figura
stante, in genere femminile, congiunta o ancella, con un infante in braccio. Accanto, assisa e in posizione rilevante, fa la sua comparsa un altro personaggio femminile, la madre. Talora le si affiancano
il figlio maggiore o la figlia. Esistono poi numerosi rilievi che oltre alla madre e al figlio mostrano
un più nutrito gruppo di personaggi complementari, familiari o domestici, in prevalenza femminili,
generalmente stanti, uno dei quali sorregge il neonato. In altri appare il marito. Tra il 400 e il 375 si
palesa un altro schema, assimilabile semanticamente ai precedenti, numericamente meno cospicuo,
nel quale si profila la madre seduta che abbraccia il neonato, tenuto in grembo. Meno frequente è la
raffigurazione della madre stante. Al quadro sinteticamente delineato nel quale concorrono ulteriori
variazioni sul tema, vanno aggiunti alcuni monumenti di piccolo formato, circoscrivibili agli anni 370-360, che drammatizzano la morte
per parto, mediante la raffigurazione della donna in preda alle doglie.
Chiedersi se tra i fattori che determinarono questo nuovo vigore
tributato alla figura femminile possa essere compreso l’accresciuto peso
sociale, acquisito dalla donna in un momento in cui la popolazione
maschile aveva subito una drastica riduzione a causa dalla guerra del
Peloponneso è una domanda lecita. Indagini demografiche hanno
dimostrato la forte incidenza di queste vicende nella diminuzione della
popolazione maschile ateniese e in generale di quella dell’intera Grecia
alla fine del V secolo con ripercussioni nel secolo successivo. Non
va inoltre trascurato l’effetto delle leggi periclee secondo le quali un
Ateniese poteva ritenersi cittadino solo se figlio di padre e di madre ateniesi: il che, in un certo senso, equivaleva a un timido riconoscimento Fig. 2 – Stele funeraria, Lyme Park,
Stockport, Cheshire
del ruolo sociale della donna.
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A un primo livello di lettura, la persistente presenza del bambino, o in taluni casi di più bambini, è
manifestamente funzionale a sottolineare la dignità di madre della defunta nei semata funerari, come nella
ceramica. Tuttavia la circostanza che spesso il bambino si identifichi con un neonato esige un’accentuazione di contenuto semantico, di fatto affidata alla riconoscibilità immediata dell’infante. Che in questi
casi si tratti di un neonato è infatti esplicitamente dichiarato dalle fasce, spargana, nelle quali, secondo
le fonti, il piccolo veniva avvolto al momento della nascita. Un’altra nota di autenticità è il berretto di
lana, non sempre rappresentato, che secondo la tradizione letteraria serviva a proteggere la piccola testa,
subito dopo il parto. La nascita comportava, a causa della scarse norme igieniche e della giovane età delle
madri, un elevato rischio sia per la partoriente sia per il nascituro e veniva posta sotto la tutela divina. La
non conoscenza delle regole dell’asepsi nell’ostetricia, idonee a ridurre i rischi batterici, e la mancanza di
antibiotici e di strumenti di diagnosi clinica comportavano un’altissima mortalità materna: circa il 14%. A
ciò si aggiunge che le immunodeficienze, originate anche dalla malnutrizione cui le donne erano soggette,
aumentavano il rischio di contrarre malattie endemiche, quali la malaria, e l’insorgenza di complicazioni.
I dati in nostro possesso confermano che l’aspettativa di vita femminile era inferiore a quella maschile.
Secondo le fonti, il parto si svolgeva probabilmente all’interno del gineceo, assistito dall’ostetrica: il medico
era sollecitato solo in caso di gravi complicazioni per la madre o il bambino. Il taglio cesareo era noto,
come conferma l’immaginario mitico, ma praticato solo dopo la morte della madre per estrarre il
feto. Si ricorreva dunque all’embriotomia per salvaguardare la vita della partoriente, qualora il feto
fosse già morto. Si esercitavano invece alcune operazioni ostetriche quali l’interruzione artificiale della
gravidanza a scopo terapeutico, o il riposizionamento cefalico del feto, se questo aveva conservato una
posizione non corretta, ma non completamente podalica. Il feto poteva essere estratto con strumenti
in grado di agevolarne l’uscita, ma anche di procurare lesioni al bambino e alla madre. Un elevato
tasso di complicanze contraddistingueva i parti gemellari e plurigemellari. A rischio era la vita della
madre per la febbre puerperale.
Riveste pertanto un particolare significato che l’indugiare sul tema della mortalità materna nei monumenti funerari si verifichi col profilarsi della difficile congiuntura della guerra del Peloponneso. Il dato è
importante non solo perché conferma che la donna era divenuta di necessità un riferimento obbligato per
una società ormai scollata nella quale la popolazione maschile era stata seriamente compromessa dalle perdite umane, prodotte dagli eventi bellici, ma soprattutto perché rileva che in questo drammatico frangente,
denso di conseguenze per la città di Atene, l’urgenza di sottolineare la peculiarità dell’individuo/cittadino
nella memoria della collettività e nella sua interazione con la comunità dei concittadini diventava più
pressante anche per il genere femminile. Sulla superficie dei monumenti funerari la tematizzazione della
morte per parto si reiterava caricandosi di valenze intrinseche che non erano riferibili tanto alla prospettiva
privata dell’esistenza femminile, ma che ambivano suggerirne la dimensione sociale, ribadirne il ruolo
“politico”. Nonostante le critiche sollevate sul binomio morte/guerra, l’intima connessione tra la donna e
la maternità veniva così a stigmatizzare il carattere civile del procreare. La polarità tra procreazione, qualità
distintiva femminile, e guerra, prerogativa maschile, tra oikos e polis, antinomia che sintetizzava il rapporto
uomo-donna, era stata ribadita da Euripide (Med. 248-251). Entrambi gli eventi erano avvertiti come un
aspetto dell’areté, poiché ambedue offrivano l’opportunità di completare la natura dell’attore, rispettivamente donna e uomo. È per questo che sui rilievi sono evocate solo le cause del decesso occorse in guerra
o per parto, inquadrando l’evento, in entrambe le evenienze, in un contesto atemporale.
Alexia Latini
18
BIBLIOGRAFIA
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des 4. Jahrhunderts v. Chr. und zur Funktion der gleichzeitigen Grabbauten, München 1997.
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Archéologique», 2005, pp. 27-54.
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N.H. DEMAND, Birth, Death, and Motherhood in Classical Greece, Baltimore 1994.
R. GARLAND, The Greek Way of Life: from Conception to Old Age, London 1990.
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Athenische Abteilung», Beiheft 10).
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C. WELLS, Ancient Obstetric Hazards and Female Mortality, in «Bulletin of the New York Academy of Medicine»,
51 (1975), pp. 1235-1249.
Le tombe rupestri “a tempio” in Etruria e in altre zone del Mediterraneo orientale
Le cosiddette tombe a tempio rappresentano indubbiamente il tipo più nobile ed elaborato fra le
tombe rupestri. Nella mia breve relazione tratterò comunque non solo tombe rupestri a tempio ma
anche altre tombe con facciate a tempio sia costruite
sia scavate in varie zone del Mediterraneo centrale
e orientale. Punto di partenza del mio intervento
sono necessariamente le tombe a tempio, a portico
e ad edicola dell’Etruria meridionale interna come le
Tombe doriche e la Tomba Lattanzi a Norchia, le
Tombe Ildebranda, Pola, della Sirena (fig. 1) e del
Tifone a Sovana – tutte databili in età ellenistica – e
alcune tombe di Sutri databili già in età romana
come la Tomba 64 della necropoli urbana.
Il fenomeno di dare alla facciata della tomba o
al monumento funerario l’aspetto di un tempio o –
in formato minore – di una edicola era ben diffuso Fig. 1 – Sovana, Tomba della Sirena
soprattutto nei decenni del primo ellenismo come
mostrano vari esempi nell’Etruria meridionale, nella Daunia, in Macedonia, Arcadia e sulle isole di
Rhodos e Thera, in Asia Minore (Licia, Caria, Paphlagonia), ad Alessandria e nella Cirenaica. Può
essere considerata una caratteristica soprattutto di alcune zone periferiche della cultura greca dove l’architettura funeraria aveva assunto una particolare tendenza verso una monumentalizzazione, eroizzazione e autorappresentazione del defunto. In alcune regioni come nella Licia le facciate rupestri potevano
assumere già in epoca preellenistica un’aspetto templare per caratterizzare in questa maniera la tomba
come sito sacrale cioè come “tempio funerario” di personaggi di spicco sociale ed eroizzare i defunti.
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ETRURIA
Norchia: Tombe doriche, Tomba Lattanzi
Sovana: Tomba Ildebranda, Tomba Pola; Tombe a edicola: della Sirena, del Tifone, dei Demoni
alati, Siena, Poggio Stanziale
Sutri: alcune tombe rupestri della necropoli urbana di epoca romana (Tomba 64)
Norchia: tombe doriche
Le facciate contigue delle cosiddette tombe doriche nella Valle dell’Acqualta – disegnate nell’Ottocento già dall’Ainsley e da Canina – si presentano in forma di tempietti gemelli, di ordine tuscanico,
distili in antis su un podio. La trabeazione accoglie un fregio dorico a metope con protomi di teste
femminili e geison a dentelli, mentre il geison obliquo è scolpito con una cyma recta su toro. In luogo dei
mutuli laterali si trovano acroteri a disco con gorgoneion e protomi leonine, incornicianti le complesse
e movimentate raffigurazioni di lotte e combattimento – variamente interpretate soprattutto in senso
mitologico (lotta davanti a Troia, uccisione dei Niobidi ecc.) – scolpite a forte rilievo e originalmente
colorate nei frontoni. Soprattutto nel portico sinistro si vedono resti di un fregio a rilievo stuccato
dipinto: processione con dignitari e demoni alati (confronto: T. del Tifone a Tarquinia) – fregio d’armi
con scudi, spade ed elmi appesi (confronti: T. Giglioli a Tarquinia e T. dei Rilievi a Cerveteri; tombe
a Paestum, Egnazia, in Macedonia e Tracia). La datazione di queste tombe gemelle oscillava una volta
fra il tardo quarto e la prima metà del II sec. Oggi prevale chiaramente – almeno per la prima fase
(frontoni) – una datazione fra la fine del IV e i primi decenni del III sec., mentre la seconda fase (fregio)
dovrebbe risalire al medio ellenismo. Del resto possiamo costatare qui una delle prime apparizioni del
fregio dorico a metope in Etruria (adottato probabilmente dalla Magna Grecia, forse tramite Roma).
Norchia: Tomba Lattanzi
La T. Lattanzi nella Valle del Biedano – in gran parte distrutta e attribuibile alla gens Churcle – può
essere classificata a doppio portico su alto podio, sul quale si sale per mezzo di una scala laterale, e mostra
un singolare prospetto a due piani, l’inferiore a colonne tuscaniche fra ante (una delle quali poggiante
sul dorso di una statua di leone o sfinge) e porta finta a rilievo sul fondo, il superiore a terrazzo col lato
di fondo movimentato da un finto portico a colonne con capitelli corinzio-italici. La ricca decorazione
del fregio consisteva soprattutto in animali fantastici (grifi) ed elementi floreali. Esistono confronti con
l’Archokrateion di Lindos (J.P. Oleson) e una tomba tardoarcaica a doppio portico a Barca in Cirenaica.
Fig. 2 – Sovana, Modello della Tomba Ildebranda
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Sovana: Tomba Ildebranda e Tomba Pola
Queste due tombe monumentali di Sovana – databili con grande probabilità alla prima metà del III sec.
– riprendono la tipologia a tempio con facciate su alto
podio rispettivamente a 6 e 8 colonne scanalate e stuccate su basi a doppio toro, fornite di capitelli a protomi
tra volute e soffitti a cassettoni.
Tomba Ildebranda. La Tomba Ildebranda (fig. 2) è
caratterizza ta dalla sua posizione panoramica con vista
sul colle della città, dal cubo a forma di T, dalla pianta
di tipo “peripteros sine postico”, dall’alto podio modanato con due scale laterali, da tre frontoni (anche sulla
fronte secondo la ricostruzione più recente), da colonne
con capitelli figurati, soffitto a lacunari, due fregi con ricca decorazione scultorea con animali fantastici
(grifi) ed elementi vegetali, dentelli e rosette e da una ricca policromia originale. Concetto ed ideologia
generale esprimono influssi dall’Asia Minore (cioè dai grandi Heroa e Mausolea come quello di Belevi). La
decorazione (cioè i fregi a tralci o “peopled scrolls” e i capitelli figurati) mostrano invece prevalentemente
influssi apulo-magnogreci.
Le tombe a edicola – studiate da A. Maggiani – di formato minore risalgono al primo e medio ellenismo cioè prevalentemente al III sec. coprendo un’arco cronologico dalla seconda metà del IV fino al primo
quarto del II sec. Le tombe del Tifone, della Sirena, dei Demoni Alati, Siena e sul Poggio Stanziale sono
in parte caratterizzate da un ricco apparato decorativo parzialmente figurato (Scilla, demoni alati, testa
femminile) – soprattutto nei frontoni – ma anche da decorazioni vegetali e da fregi dorici.
TOMBE A TEMPIO IN ALTRE ZONE DELL’ITALIA E DEL MEDITERRANEO ORIENTALE
APULIA-DAUNIA
Arpi: Tomba della Medusa (Tomba delle Anfore)
Canosa: Ipogeo Lagrasta II (Ipogei Lagrasta, Boccaforno, degli Ori, del Cerbero, Sant’Aloia)
Salapia: Tomba a camera con facciata
TARANTO
Naiskoi: Taranto
Confronti a Ceglie Messapica, Crotone, Grottaglie, Herakleia-Policoro, Lavello, Metaponto,
Palagiano, Rocavecchia (Canosa, Salapia. Lecce, Rudiae, Cirò, Locri?)
Tomba di Via Polibio a Taranto
CAMPANIA
Napoli: Ipogeo Cristallini, Ipogeo di Vico Traetta
ROMA
T. degli Scipioni
MACEDONIA
Lefkadia: Tomba Petsas
Verghina, Aghios Athanasios
TRACIA
Ingressi di tomba ad edicola (come a Canosa)
ILLIRIA/ALBANIA
A Basse-Selce tombe a portico, ad esedra con scale e ad edicola con frontone: tardo IV-prima
metà III sec.
ARCADIA
Alipheira: Tomba con facciata monumentale a frontone con acroteri
RHODOS, THERA E ISOLE GRECHE
Archokrateion a Lindos: a portico con due piani, ultimo quarto del III sec.
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Rhodini: “Ptolemaion” con base, semicolonne doriche e forse piramide sopra, fine III-inizio II sec.
Kastellorizo: cosidetta tomba licia ad edicola: fine IV sec.
Thera: tomba ad edicola
LICIA
Xanthos, Myra, Telmessos (“Tomba di Amyntas”: fine IV sec.), Pinara
Tombe semplici a tempio non prima del IV sec., normalmente con due colonne in antis o a peripteros
con influssi greco-ionici, anche con rilievi nel frontone (leone attacca toro), iscrizioni
CARIA
Kaunos
Tombe a tempio con facciata fino a 4 colonne e a edicola, frontoni con rilievi e acroteri, non
prima della metà del IV sec.
PAPHLAGONIA
Tombe a tempio, a portico e a edicola, frontoni con rilievi e sculture, influssi persiani e frigi,
dell’architettura lignea e dell’architettura greca templare
FRIGIA
Tombe e monumenti a tempio o con frontone già fra VIII e VI sec.
CAPPADOCIA
Tombe a tempio (dorico), a portico e ad edicola in periodo ellenistico
PERSIA
Tombe cruciformi a portico già in età tardoarcaica (dopo il 520)
PALESTINA/GERUSALEMME
Gerusalemme, Amman: periodo tardoellenistico e imperiale
CIRENAICA: Cirene, Barca
Tombe rupestri più antiche: seconda metà VI sec.
Tipi a tempio, a portico e a peristilio con colonne o pilastri dorici e capitelli dorici, ionici e eolici.
Rappresentano le tombe a tempio greco più antiche del Mediterraneo.
Nel periodo ellenistico tombe a tempio e a portico (reale o finto) con elementi dorici e ionici,
acroteri e scale esterne.
ALEXANDRIA: Necropoli Suk El Wardin
Grandi complessi tombali: scavati ma non di tipo rupestre diritte verso l’esterno
ZONA NABATEA-PETRA
Il culmine dello sviluppo delle tombe a tempio è rappresentato indubbiamente da quelle di Petra nella
Giordania nabatea scavate ed elaborate nell’arenaria rossastra e databili fra la metà del I sec. a. C. e la
prima metà del II sec. d.C. Fra le più di 600 tombe rupestri a Petra 18 appartengono a questa tipologia.
Di particolare importanza è il criterio della visibilità e funzione rappresentativa delle facciate tombali
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a tempio. Questi criteri si verificano per esempio nei casi degli ipogei napoletani e naturalmente delle
tombe rupestri in Etruria meridionale interna, nella Licia e Caria, nella Cirenaica e a Petra. Assai
diversa è la situazione in Apulia e in Macedonia dove il dromos e almeno buona parte della facciata tombale sono stati sotterrrati dopo il funerale o fra i vari funerali. Secondo M. Mazzei nel caso
dell’Ipogeo della Medusa ad Arpi probabilmente solo il frontone con l’acroterio rimaneva visibile
come sema. La distinzione tecnica fra “costruito” e “scavato”, dal punto di vista del messaggio della
tomba, non è determinante. Queste tombe erano caratteristiche soprattutto di società monarchiche e
oligarchiche e dovevano glorificare e fino ad un certo punto eroizzare il defunto. Conta soprattutto
l’aspetto esterno cioè il monumento e non tanto la tomba o deposizione propria. La forma di tempio
implica una assimilazione agli dei ed eroi e rimane visibile – specialmente in caso delle tombe rupestri – anche alle future generazioni. Questo fenomeno fu particolarmente diffuso in età ellenistica –
con alcuni precedenti nei periodi arcaico e classico – e si trova prevalentemente in regioni grecizzate
oppure non greche periferiche come in varie zone dell’Asia Minore, mentre manca quasi completamente nella Grecia propria. In vari casi iscrizioni indicano il nome del defunto e motivi decorativi
esprimono valori simbolici, ad esempio raffigurazioni di armi dovevano sottolineare l’importanza
della componente militare nella vita del defunto. Inoltre queste tombe sono spesso situate lungo le
strade principali d’ingresso rispettivamente d’uscita dalla città, in parte in contatto visivo con la città
e dominanti la zona circostante. È un fatto ben noto che durante il IV sec. e l’età ellenistica cresceva
la tendenza di eroizzare particolari individui o gruppi gentilizi e questa tendenza si manifesta in una
serie di Heroa soprattutto in Asia Minore come a Gölbasi-Trysa, Limyra, Mileto e Didyma ma anche
per esempio a Kos, Kalydon, Cirene e fino ad Ai Khanum in Afghanistan.
Stephan Steingraeber
BIBLIOGRAFIA
J. FEDAK, Monumental Tombs of the Hellenistic Age: A Study of selected Tombs from the Preclassical to the Early
Imperial Era, Toronto 1990.
D.C. KURTZ, J. BOARDMAN, Tod und Jenseits bei den Griechen, Mainz 1985.
H. LAUTER, Die Architektur des Hellenismus, Darmstadt 1986.
A. MAGGIANI, Tombe con prospetto architettonico nelle necropoli rupestri d’Etruria, in Tyrrhenoi Philotechnoi, Atti
della Giornata di studio (Viterbo 1990), a cura di M. Martelli, Roma 1994, pp. 119-159.
M. MAZZEI, Arpi. L’Ipogeo della Medusa, Bari 1995.
J.P. OLESON, The Sources of Innovation in Later Etruscan Tomb Design, Roma 1982.
S. STEINGRAEBER, New Discoveries and Research in the Field of Southern Etruscan Rock Tombs, in «Etruscan Studies»,
3 (1996), pp. 75-104.
S. STEINGRAEBER, Arpi – Apulien – Makedonien. Studien zum unteritalischen Grabwesen in hellenistischer Zeit, Mainz 2000.
La “Basilica Argentaria”: alcuni spunti di ricerca
I. LA “BASILICA ARGENTARIA”: TEMI GENERALI
Quella che qui si presenta è una ricerca appena iniziata, sorta nel più ampio ambito di una
Convenzione tra l’Università Roma Tre e la Sovraintendenza ai Beni Archeologici di Roma Capitale e,
in particolare, come proficua e amichevole collaborazione con il collega Roberto Meneghini. L’edificio
che oggi conosciamo con il nome di “Basilica Argentaria” ha avuto nel corso degli anni una curiosa sorte
ancillare, come parte del Foro di Cesare poiché è effettivamente unito a esso e visibile solo nel settore
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risparmiato per questo foro durante gli scavi degli anni Trenta del secolo scorso. In realtà, come si vedrà
poco oltre, esso è parte integrante del progetto del Foro di Traiano. Gli studi fondamentali di Carla
Maria Amici (AMICI 1991) sul Foro di Cesare hanno riguardato anche la “Basilica Argentaria”, ponendo
però la massima attenzione sul complesso forense e riservando alla “Basilica” una prima raccolta di dati
essenziali, uno studio strutturale relativo al piano terra e uno studio dello sviluppo degli elevati molto
suggestivo che, però, lascia in ombra le relazioni spaziali con gli altri edifici circostanti. In precedenza,
si possono citare le magistrali osservazioni di Matteo Della Corte (DELLA CORTE 1933) sui graffiti che
erano (purtroppo lo stato attuale non è dei migliori) presenti in gran numero sugli intonaci interni
dell’edificio; studio poi ripreso dalla collega Rita Volpe, che si spera di prossima edizione.
Il nome “Basilica Argentaria” è menzionato solo nei Cataloghi Regionari, nell’elenco degli edifici
pubblici della Regio VIII; si tratta, quindi di una fonte tarda rispetto alla costruzione che è da collocarsi
all’inizio del II secolo d. C., nell’ambito dei
lavori fatti per la costruzione del Foro di
Traiano. Il collegamento tra nome e resti
archeologici risale all’epoca degli sterri di
Via dei Fori Imperiali, ma l’identificazione
dell’edificio risulta essere ancora una questione aperta. Già nella ricostruzione planimetrica di Italo Gismondi e ora nell’ultima aggiornata del complesso dei Fori Imperiali (fig. 1)
si osserva nettamente lo stretto rapporto esistente tra l’emiciclo occidentale della piazza
Fig. 1 – La “Basilica Argentaria” nel contesto dei Fori Imperiali, secondo
l’ipotesi ricostruttiva proposta a seguito dei recenti scavi da R. Meneghini del Foro di Traiano e la “Basilica” nel tratto
in cui questa doveva definire lo spazio esterno all’emiciclo stesso, contraffortando la pendice collinare del Campidoglio. La “Basilica” non è altro
che un portico a due navate che piega con due angoli netti per assecondare l’andamento dell’esedra e,
probabilmente, continuava a nord, bordando anche l’emiciclo della Basilica Ulpia, per poi raggiungere
la piazza antistante l’ingresso del Foro di Traiano. Ciò che non si percepisce dalla sola visione planimetrica è la vera natura dell’edificio che, sviluppandosi su due piani, in realtà raccordava mediante
scale interne tre distinti livelli di percorrenza: la quota della piazza del Foro di Cesare (posta a 14 m.
s.l.m. ca., quindi più bassa di 3 m.), quella del clivus Argentarius, la strada di mezza costa che collegava
la zona del vecchio Foro con il colle capitolino (posta a quota 25,40 m. s.l.m. ca., quindi più alta di
8,5 m.) con quella interna della stessa “Basilica” che risulta essere uguale alla quota dei pavimenti
interni del Foro di Traiano (posti entrambi a 17 m. s.l.m. ca.).
In definitiva, quindi, la “Basilica” ci appare oggi come un ritaglio urbano, limitatamente comprensibile e coinvolto in interventi di scavo, con relative susseguenti sistemazioni di restauro e fruizione, finalizzati a tutt’altri punti di interesse. Una prima rassegna di temi ai fini di una nuova indagine
scientifica pone a monte dello studio complessivo l’analisi delle fasi costruttive di cui l’edificio reca
traccia: un primo blocco di lavoro che è stato già realizzato ed è qui di seguito sintetizzato da Claudio
Taffetani. Da questo primo passo ne discendono altri due: l’analisi tridimensionale del complesso e
le sue relazioni con gli elementi urbanistico-architettonici. Per quanto riguarda quest’ultimo punto,
risulterà fondamentale la collaborazione con altre équipes che già da molti anni lavorano nello stesso
gruppo di ricerca diretto da Roberto Meneghini, e in particolare con i colleghi Alessandro Delfino
24
e Valeria Di Cola che stanno studiando il Foro di Cesare, cui la “Basilica” è architettonicamente
legata (per gli studi già pubblicati si vedano: DELFINO et al. c.d.s., DELFINO 2008 e 2009); ma per
comprendere questo che è un tassello di un più vasto progetto sarà anche necessario aprire lo sguardo
sul contesto del Foro di Traiano e, anzi, su ciò che era all’esterno del foro stesso, dal lato dell’ingresso
principale verso la Via Flaminia, zona in cui i recenti scavi condotti davanti alla chiesa di S. Maria
di Loreto e quelli di Palazzo Valentini hanno portato nuovissimi dati (si vedano BALDASSARRI 20082009, LA ROCCA 2008-2009 e i contributi dei colleghi Roberto Egidi, Mirella Serlorenzi e Giovanni
Ricci nel recente Convegno: “L’Athenaeum di Adriano. Storia di un edificio dalla fondazione al XVII
secolo”, tenutosi a Roma il 22 settembre 2011).
Maura Medri
II. “BASILICA ARGENTARIA”:
AGGIORNAMENTI PLANIMETRICI, FASI DI COSTRUZIONE E INQUADRAMENTO
URBANISTICO
Il lavoro qui presentato è nato principalmente dalla necessità di realizzare una nuova documentazione grafica della “Basilica Argentaria” (MORSELLI 1993: 169-170). Partendo dall’osservazione
diretta delle strutture, si è deciso di progettare e di creare una nuova planimetria generale dell’edificio attraverso un rilievo topografico dell’area. Il prodotto di queste diverse operazioni si configura
come una serie di piante e di sezioni, suddivise per fasi costruttive, che documentano graficamente
le trasformazioni dell’edificio nel corso dei secoli, da prima della sua costruzione all’età medievale.
La prima fase illustra lo stato dell’area alla fine dell’epoca cesariana. Il limite settentrionale del Foro
di Cesare è rappresentato dalle propaggini tufacee del Campidoglio (FIORANI 1968: 101; AMICI 1991:
31 sgg.; MORSELLI 1995: 304), poiché in realtà le due absidi che chiudono la piazza a Nord e il retro
del podio del tempio di Venere Genitrice si addossano alle pendici del colle capitolino. In seguito,
durante l’impero di Domiziano, iniziano le prime operazioni di sbancamento del terreno retrostante
il foro cesariano e i lavori per il taglio della sella che all’epoca ancora univa i colli del Campidoglio
e del Quirinale (Aur. Vict. Caes. 29). A questo periodo corrisponde anche l’abbassamento generale
del piano di calpestio dell’area, che tuttavia sarà sempre ad una quota maggiore rispetto alla piazza
del foro cesariano. Una volta liberata la zona dal terreno della collina sovrastante, si costruisce un
possente muro in opera laterizia, sul prolungamento della parete di fondo del portico occidentale con
taberne, in modo tale da contenere la spinta delle terre della collina resecata. Ma è solo in epoca traianea che inizia la costruzione dell’edificio che oggi chiamiamo “Basilica Argentaria”, posto nella zona
nord-ovest del complesso cesariano e addossato al muro di sostruzione di fase precedente. La nuova
costruzione è a due piani ed è formata da due ambulacri che corrono parallelamente intorno al podio
del tempio di Venere Genitrice per poi proseguire verso Nord e quindi verso la piazza su cui si apriva
l’ingresso del Foro di Traiano. Gli ambulacri sono composti da due file di pilastri, la più interna in
opera laterizia, l’altra esterna verso il Tempio in blocchi di peperino, raccordati da una sequenza di
volte a crociera che poggiano sia su i pilastri stessi che sul muro di fondo. Anche i pavimenti sono
diversi: in opus spicatum all’interno e in lastroni quadrangolari in travertino nella parte esterna. La
differenza di livello esistente tra gli ambulacri e la piazza del Foro di Cesare viene risolta con due
gradinate che salgono dal livello di questo sino al piano della “Basilica Argentaria”. In un momento
successivo alla costruzione, e probabilmente in epoca Severiana (LANCASTER 2009: 29-32), si può far
risalire l’intervento di ristrutturazione dell’ambulacro più interno che viene rafforzato con una serie
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di pilastri di piccole dimensioni, appoggiati sia al muro di sostruzione contro il colle capitolino che
contro i pilastri in opera laterizia più grandi già esistenti. Anche questi nuovi pilastri sono costruiti
per sostenere una serie di volte a crociera che vanno così a creare un piano intermedio. L’incendio
che colpisce Roma nel 283 d. C. (CODICE TOPOGRAFICO 1940: 279), investe anche le strutture del
Foro di Cesare. A giudicare dalle zone interessate dai restauri, sembra che il complesso forense fosse
stato danneggiato gravemente. Gli interventi interessano la Curia, il portico occidentale e meridionale (MORSELLI-TORTORICI 1989: 138-148, 253), il Tempio di Venere Genitrice, alcuni ambienti
sul clivus Argentarius e anche parte della “Basilica Argentaria” (AMICI 1991: 145), dove l’intervento è
piuttosto articolato e sembra essere stato realizzato per volere dell’imperatore Massenzio. Viene ricostruito l’ambulacro esterno e si rinforza la struttura con una serie di contro pilastri in opera laterizia
collegati tra loro da arcate; nel contempo, si erige un possente muro in opera laterizia in corrispondenza della fronte del tempio di Venere Genitrice, inglobandone in parte le colonne del pronao, ed
unendo quest’ultimo ai due bracci del portico del Foro e quindi alla “Basilica Argentaria”. In epoca
tardo antica troviamo le prime testimonianze del cambio di funzione dell’edificio, un fenomeno
diffuso anche nel resto dei Fori Imperiali. Gli interventi di restauro della fine III-inizio IV secolo
all’interno del Foro di Cesare, se da un lato modificano in modo notevole l’aspetto delle costruzioni
delle fasi precedenti dall’altro ne garantiscono la conservazione (AMICI 1991: 13). All’interno dei due
ambulacri si costruiscono delle murature in opus vittatum che suddividono gli spazi in ambienti più
piccoli e allo stesso tempo impediscono il passaggio all’interno del portico. Nella porzione meridionale dell’ambulacro esterno si realizza una nuova pavimentazione in opus sectile composta di lastre di
marmi policromi più o meno regolari. Nei secoli successivi le architetture dell’intero complesso vivono un periodo di degrado e abbandono fino ad arrivare alla grande fase di spoliazione del IX secolo
che investe tutti i Fori Imperiali (MENEGHINI-SANTANGELI VALENZANI 2007: 125-126). A quest’ultima
fase appartengono le murature in opera laterizia ascrivibili all’epoca altomedievale che sono addossate
al retro del podio del Tempio di Venere Genitrice e che formano degli ambienti di tipo abitativo più
o meno regolari. Tali ambienti sono la testimonianza della completa trasformazione del complesso
antico, come si vede anche in altre parti dello stesso Foro di Cesare.
La “Basilica Argentaria”, nonostante la denominazione, quindi, è in realtà un portico di epoca
traianea attraverso il quale si estende verso nord-est il porticato cesariano-augusteo del Foro di
Cesare (AMICI 1991: 101). Il progetto dell’edificio, sebbene sembri un normale ampliamento di
un complesso monumentale più antico, nasconde al suo interno un disegno ben più articolato che
diviene maggiormente significativo se posto in relazione con l’intero contesto del settore nord dei
Fori Imperiali. La posizione appare defilata rispetto al resto del Foro di Cesare, poiché occupa la
parte retrostante il Tempio di Venere Genetrice, e marginale se si mette a confronto con il resto dei
complessi imperiali. A dispetto di questa circostanza, però, la “Basilica” occupa uno spazio strategico
tra l’impianto cesariano e quello traianeo. Infatti, il porticato garantisce la continuità dei percorsi
esterni. Una volta costruito, assicura il passaggio verso la parte retrostante dell’esedra sudoccidentale
della piazza del Foro di Traiano. Ciò è possibile dal momento che la “Basilica” si trova praticamente
alla medesima quota del complesso traianeo. Questa soluzione architettonica, quindi, rientrerebbe
nel disegno più esteso di una viabilità esterna del Foro di Traiano, compresa e prevista nel progetto
di Apollodoro di Damasco per la sistemazione dei percorsi di tutta la zona a ridosso del complesso,
cosa che risulterebbe confermata anche dai recenti ritrovamenti degli scavi di fronte alla chiesa di S.
Maria di Loreto, di cui si è fatto cenno poco sopra. Un ulteriore fattore da considerare è quello della
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relazione con il clivus Argentarius, che corre a mezza
costa sul pendio del colle capitolino, sopra la “Basilica
Argentaria”. Osservando la planimetria dell’area si può
vedere come la strada e l’edificio facciano sistema tra
loro, correndo in parallelo e adeguandosi al profilo del
colle retrostante. La “Basilica”, pertanto, viene a trovarsi
tra due vie di comunicazione: sopra il clivo e sotto la
via lastricata intorno al podio del Tempio, almeno fino
all’esedra sud-occidentale del Foro di Traiano. Una
soluzione architettonica assai simile a quella utilizzata
sul versante opposto in corrispondenza dei Mercati di
Traiano. A questo punto risulta totalmente evidente la
specularità dell’intervento progettuale traianeo messo in
atto dopo il taglio della sella tra i due colli, per il quale
le pendici vengono entrambe ridisegnate in un sistema
“a gradoni”, con strade di mezzacosta, via Biberatica e
clivus Argentarius, e percorrenze di fondo valle, sui lati
est e ovest della piazza forense (fig. 2).
Fig. 2 – Planimetria schematica ricostruttiva dei Fori
Imperiali, particolare della zona nord verso la Via
Flaminia, con montaggio provvisorio dei resti archeologici rinvenuti negli scavi di fronte alla chiesa di S. Maria
di Loreto e nell’area di Palazzo Valentini. Sono evidenziate le percorrenze esistenti alla quota della piazza del
Foro di Traiano e quelle a mezza costa lungo le pendici
del Quirinale e del Campidoglio
Claudio Taffetani
BIBLIOGRAFIA
C.M. AMICI, Il Foro di Cesare, Firenze 1991.
P. BALDASSARRI, Indagini archeologiche a Palazzo Valentini: domus di età imperiale ai margini del Foro Traiano, in
«Atti della Pontificia Romana di Archeologia», 81 (2008-2009), pp. 343-384.
Codice topografico della città di Roma, a cura di R. Valentini, G. Zucchetti, Roma 1940.
M. DELLA CORTE, Le iscrizioni graffite della Basilica Argentaria, in «BCom», (1933), pp. 111-130.
A. DELFINO, V. DI COLA, F. ROSATI, La statua equestre di Cesare: ipotesi ricostruttive, in «Scienze dell’Antichità»,
in corso di stampa.
A. DELFINO, Il Foro di Cesare nella fase cesariana e augustea, in Giulio Cesare. L’uomo, le imprese, il mito, pp. 52-54.
A. DELFINO, Il “primo” Foro di Cesare, in «Forma Urbis», 1 (2009), pp. 28-33.
G. FIORANI, Problemi architettonici del Foro di Cesare, in «Studi di Topografia Romana», V (1968), pp. 91-103.
Giulio Cesare. L’uomo, le imprese, il mito, a cura di G. Gentili, Milano 2008.
L.C. LANCASTER, Concrete Vaulted Construction in Imperial Rome. Innovation in Context, New York 2009.
E. LA ROCCA, Le domus nelle vicinanze del Foro di Traiano e le scuole per le arti liberali, in «Atti della Pontificia
Romana di Archeologia», 81 (2008-2009), pp. 385-398.
Lexicon Topographicum Urbis Romae, voll. I-VI, a cura di E. M. Steinby, Roma 1993-2000.
R. MENEGHINI, R. SANTANGELI VALENZANI, I Fori Imperiali. Gli scavi del Comune di Roma (1991-2007), Roma 2007.
C. MORSELLI, Basilica Argentaria, in «LTUR», I (1993), pp. 169-170.
C. MORSELLI, Forum Iulium, in «LTUR», II (1995), pp. 299-306.
C. MORSELLI, E. TORTORICI, Curia. Forum Iulium. Forum transitorium, Roma 1989.
A proposito delle Tre Grazie
Tra i gruppi statuari più celebri dell’antichità un posto di primo piano spetta alle Tre Grazie, raffigurate
nella forma di tre donne nude, che ballano l’una allacciata all’altra, le due laterali di fronte la centrale di tergo
(fig. 1). Nel gruppo di queste tre sorelle si riconosce la remota personificazione della forza generativa della
natura e insieme la bellezza che si produce nelle opere dell’uomo, associata all’amabilità e alla generosità.
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Secondo il grammatico Servio la nudità delle Grazie è giustificata dal
fatto che le tre sorelle devono essere senza macchia. Il loro schema iconografico incarna la loro stessa natura, secondo la quale il beneficio che ciascun
individuo è in grado di offrire gli sarà restituito in misura doppia, in virtù
del legame che unisce il favore alla riconoscenza.
Le Tre Grazie furono uno dei soggetti più popolari del repertorio artistico d’età romana. La loro immagine ornava gli spazi pubblici di templi,
terme e teatri; ma la grande maggioranza delle raffigurazioni si collocava in
ambiente privato, sulle pareti domestiche o nelle tombe.
Dopo un oblìo millenario le Tre Grazie entrarono nel repertorio
artistico rinascimentale dalla metà del Quattrocento (grazie alla scoperta
del celebre gruppo Colonna, ora a Siena) per quella loro caratteristica di
Fig. 1 – Le Tre Grazie (Parigi, Louvre) coniugare gli aspetti religiosi e mitologici del soggetto con quelli filosofici
ed anche con quelli più prosaici del mondo femminile e della gioia di vivere.
Ma questi aspetti non esauriscono la complessità del significato delle Grazie, le Cariti dei Greci.
Aglaia, Euphrosyne e Thalia esprimono già in età arcaica una triade concettuale che le accosta a
tre virtù umane: la bellezza, la saggezza e lo splendore. Le diverse varianti dei loro nomi ci svelano gli
aspetti lunari del gruppo, connessi con le fasi crescente e calante per le due laterali e con la fase della
luna piena, e al tempo stesso nuova, per la Grazia centrale: una luna dunque che c’è e non c’è, che
ora splende ed ora non si vede.
Il corso della luna descrive il cammino dell’uomo: il buio uterino, la venuta alla luce, la crescita, la
maturità, la consunzione, la morte e il ritorno al buio ctonio. L’unità e insieme l’articolazione del terzetto
rappresentano insomma il concetto di una condizione lunare ed umana scandita nel ciclo della danza da
una nascita e da un tramonto e da una pienezza dell’esistenza cui fa riscontro il vuoto dell’assenza.
Salvo rare eccezioni, la Grazia centrale è rivolta di spalle, ma volge la testa all’indietro. La prima
Grazia e la terza hanno spesso nelle mani qualcosa che viene offerto in dono: sappiamo da Pausania
che le Cariti esposte nell’agora di Elide recavano in mano rispettivamente una rosa, un astragalo e
un ramo di mirto. Rosa e mirto indicano il mondo di Afrodite nelle sue due facce legate alla vita (la
luna crescente, la rosa) e alla morte (la luna calante, il mirto). L’astragalo, cioè il dado della sorte,
caratterizza invece Aglaia nel ruolo di Fortuna.
Troviamo una conferma a questo approccio se intendiamo le Grazie, che appaiono connesse
anche ad Hekate, come l’altra faccia delle Parche. Ai due lati Klothò, la luna crescente, e Atropos, la
luna calante, filano e recidono la vita. Al centro è Lachesi, cioè la Fortuna che non può opporsi alla
ineluttabilità del fato, ma che può incidere sulla vita dei mortali.
Come Tyche (cioè Aglaia) è la Fortuna che dà in sorte e può essere colta, così Lachesi, che gli antichi chiamavano anche sors (la sorte), è la Fortuna, che presiede a ciò che può accadere. La Fortuna,
non il Fato, cui attengono invece le due Parche laterali: l’inizio, cioè la nascita, e la fine, cioè la morte,
sono infatti in mano al fato; tutto quello che sta in mezzo, cioè la vita, sta in mano alla fortuna. La
vita è dunque il transito tra questi due momenti del fato, attraverso il regno di Fortuna.
Di questa Grazia/Fortuna che non ha nulla in mano vediamo il corpo nudo di spalle, ma la sua testa
è girata in direzione di chi guarda, in genere verso destra, quindi con atteggiamento benigno. Grazia/
Fortuna non è bendata: il suo occhio ti può guardare, ma il suo sguardo è repentino e fugace. Ti può
cogliere, magari per un attimo, nel vortice della danza, e può incrociarsi con il tuo. Ma come la luna piena
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e nuova anche la Fortuna c’è e non c’è; e ti darà qualcosa solo se scatterà una scintilla nell’incrocio dei due
sguardi. È una condizione che non puoi governare, ma che, se si verifica, ti fa metaforicamente baciare
dalla Fortuna. Lei non ti dà qualcosa gratuitamente, come fanno le due sorelle, ma solo fortuitamente, se in
quel momento, e solo in quel momento, stabilisce con te un rapporto che non è di scambio, ma unidirezionale, fortuito. Tu non lo governi: puoi solo metterti in condizione che possa avvenire. La Fortuna è di
spalle. È il suo volto che guarda dietro di sé per incontrare te, o chi è al posto tuo. In quell’attimo fugace,
in cui lo sguardo e il gesto benigno della Fortuna sono inseparabili dalla sua luce, che è lo splendore di
Aglaia, lei ti mostra la sua schiena nuda e i suoi glutei.
La Grazia centrale incarna dunque, con le due sorelle, il senso del beneficio e della sua restituzione, ma
nella sua posizione, di schiena, e nel suo atteggiamento, maliziosamente rivolta all’indietro, esprime anche
la sua incerta relazione con l’individuo, oscillante tra ciò che si scambia in virtù di un patto e ciò che si
ottiene in virtù dell’imponderabilità della sorte.
L’impatto visivo del gruppo faceva perno sul fascino del triplice nudo femminile. È indubbio, tuttavia,
che il centro della scena sia occupato dalla pacifica ostentazione delle natiche della Grazia centrale, che
fanno da fulcro all’intera composizione. Se nella maggioranza dei casi aulici la raffigurazione dei glutei
non è oggetto di enfasi particolare, in alcune raffigurazioni l’ostentazione si fa invece evidente, quasi sfacciata, come in un rilievo del Museo Nazionale di Napoli.
Potrebbe trattarsi di un caso isolato, dal momento che qui
lo schema iconografico del gruppo è quello canonico delle
Ninfe piuttosto che delle Grazie. Ma la scena sulla fronte
di un sarcofago strigliato, oggi a Withington Hall (Gran
Bretagna) ci dice che non è così (fig. 2). Anche in questo
caso le Tre Grazie indossano un semplice mantello che
copre le gambe, ma ciò che balza agli occhi è piuttosto il
fatto che il panneggio nelle due Grazie laterali è allacciato Fig. 2 – Le Tre Grazie sulla fronte di un sarcofago
sul davanti in modo da lasciare scoperta la pancia; nella (Withington Hall, GB)
Grazia centrale, al contrario, lo schema inverso produce una voluta ostentazione dei glutei, che vengono
sottolineati dalla stoffa che, coprendo le gambe, li incornicia lasciandoli in vista. Che non si tratti di un
caso ce lo dimostra un altro rilievo funerario, dove il vestito della Grazia centrale si apre lungo la schiena
con l’evidente intenzione di porre in vista i glutei della dea.
Questa enfasi sembra ancora maldestramente riversata anche in un mosaico di Cherchel (Algeria), riferibile al IV secolo. Lo schema canonico appare ormai alterato. Colpisce però, nella modestia dell’esecuzione, la cura nella raffigurazione dei glutei, che anche di tre quarti occupano il centro della scena. Si direbbe
che ormai si sia perso il senso stesso della charis che ha caratterizzato per secoli il gruppo delle Grazie, ma
non il valore simbolico della Grazia centrale, cioè di Fortuna.
In questa esaltazione degli attributi di Aglaia/Fortuna, che “ci volta” e al tempo stesso “ci mostra le
spalle”, possiamo scorgere l’origine di un’espressione così diffusa nel parlare quotidiano italiano da essere
usata ormai senza volgarità: “avere culo”. L’attuale libertà linguistica ce la fa utilizzare con leggera ironia,
ignari forse di quanto siano antiche le origini di questa espressione. “Avere culo”, significa dunque avere
con sé la Fortuna, la luna che ti mostra le spalle ma ti guarda diritto negli occhi (non è una luna storta),
significa avere in sorte qualcosa di inatteso e di insperato, a volte la stessa chance della tua vita.
Daniele Manacorda
29
BIBLIOGRAFIA
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Pompeiopolis di Paflagonia. Un progetto di cooperazione tra la Ludwig-MaximiliansUniversität di Monaco e l’Università Roma Tre
IL PROGETTO DI RICERCA
Nel 2006 ha preso avvio un progetto internazionale di ricerca facente capo all’Institut für Klassische
Archäologie della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco, diretto da Lâtife Summerer e sostenuto dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft, incentrato sulla città di Pompeiopolis, nel territorio di
Tasköprü, distretto di Kastamonu.
La regione interna della Paflagonia, chiusa a sud da alte montagne, già in antico rappresentava un’area
isolata, occupata da estese foreste (fig. 1). Pompeiopolis venne fondata nel 65/64 a. C. da Cn. Pompeo
Magno, a suggello della fine degli scontri con Mitridate VI, nella vallata del fiume Amnias, un affluente dell’Halys, in un punto
strategico lungo la strada
che attraversava da ovest a
est la provincia di Ponto e
Bitinia; la sua importanza
economica doveva in gran
parte risiedere nello sfruttamento delle vicine miniere
di solfuro di arsenico. Già
nel 6/5 a. C. la Paflagonia
Fig. 1 – Carta geografica della regione pontica (Ch. Marek, Pontus et Bithynia: die römischen venne annessa alla neo-istiProvinzen im Norden Kleinasien, Mainz 2003)
tuita provincia di Galazia.
Dopo le distruzioni ascritte agli attacchi dei Goti, il tardo-antico sembra corrispondere a un periodo
tutt’altro che di stagnazione. Con la riorganizzazione amministrativa di Diocleziano la Paflagonia fu verosimilmente istituita a eparchia e compresa nella diocesi pontica. Nel Concilio di Nicea (325 d. C.) la città
è ricordata come sede vescovile. Sembra che a partire dagli inizi del VII sec. d. C. gli attacchi sasanidi, cui
fecero seguito le incursioni delle tribù arabe, abbiano condotto a un progressivo abbandono del sito.
30
Analisi geomagnetiche, sondaggi e scavi finalizzati alla conoscenza dell’estensione del nucleo
urbano, della originaria griglia urbanistica e delle emergenze monumentali, accompagnati dalla ricognizione del territorio, stanno portando alla ribalta un insediamento rimasto fino ad oggi oscuro,
circostanza questa solo in parte imputabile alla profonda manomissione degli edifici (l’utilizzo del sito
come cava si è protratto fino agli inizi del XX secolo). Alla penuria di informazioni ricavabili delle
fonti letterarie ha supplito la documentazione epigrafica, estesa dalla prima età imperiale al periodo
protobizantino (MAREK 1993). L’obiettivo primario della missione è quello di indagare la struttura
urbana di una città di fondazione romana, in una regione – l’Anatolia settentrionale –, di cui i processi di urbanizzazione e le relazioni con le grandi città di tradizione ellenistica di area microasiatica
occidentale risultano ancora scarsamente conosciuti.
LA PARTECIPAZIONE DI ROMA TRE AL PROGETTO
L’Università Roma Tre ha avuto in carico l’indagine dell’area alle pendici sud-orientali dello Zimbıllı
Tepe su cui si sviluppò la città. L’attività si è incentrata nello scavo dell’edificio costruito al limite dell’insediamento urbano, in un’area di verosimile destinazione residenziale sorta non lontano dal corso dell’Amnias. Lo scavo estensivo del complesso sta consentendo di indagare in maniera sistematica un esempio di
residenza privata in contesto regionale, venendo a colmare una lacuna delle nostre conoscenze sull’evoluzione della tipologia abitativa di tradizione greco-ellenistica. La ricerca nell’area del Ponto/Paflagonia non
risulta finora impostata: nella pressoché totalità dei contributi editi sono stati privilegiati gli apparati decorativi, laddove le dimore risultano per di più solo parzialmente indagate.
LO SCAVO DELL’IMPIANTO ABITATIVO (1984; 2008-2010)
Nel 1984 scavi di emergenza condotti dalla Direzione
del Museo di Kastamonu portarono alla luce un grande
ambiente rettangolare (A) pavimentato a mosaico, oggi
in gran parte crollato a causa del dilavamento del lato
della collina, affiancato a sud da un secondo ambiente
(B) rinvenuto privo di pavimentazione, e, parzialmente,
una corte (C). Nell’impossibilità di assicurarne la conservazione in situ della pavimentazione musiva del vano A,
si procedette a sezionare l’ordito e a deporlo su pannelli
di cemento armato, depositati nel magazzino del Museo
di Kastamonu. Chi varcava la soglia del vano dal corridoio D, veniva accolto da un’iscrizione beneaugurante
(«Entra, per il tuo bene») racchiusa all’interno di una
tabula ansata; sull’altro lato si colloca il vasto ambiente
quadrangolare E.
Le tre recenti campagne archeologiche hanno scoperto
un’area dell’edificio corrispondente a 570 mq. (SUMMERER
2011) (figg. 2-3). Lo scavo ha preso avvio dalla corte (C),
già in precedenza parzialmente indagata, che rappresenta
l’elemento qualificante del complesso avente funzione distri-
Fig. 2 – Pompeiopolis, complesso abitativo. L’area
scavata a chiusura della campagna 2010 (DFGProjekt Pompeiopolis, foto B. Maerzke, München)
Fig. 3 – Pianta generale del complesso abitativo
(elaborazione M. Brizzi)
31
butiva. In origine era circondata da portici con pavimentazione a piastrelle quadrate di terracotta; l’area
centrale era lasciata a giardino. Nel 2010 lo scavo è stato considerevolmente esteso in direzione della
collina: lungo il lato nord-occidentale del peristilio è stato messo in luce un vano di rappresentanza
(L) contiguo all’ambiente E, dotato, nella fase successiva a quella originaria, di un impianto di riscaldamento a ipocausto e verosimilmente pavimentato in opus sectile. A un determinato momento il
complesso venne organizzato su differenti quote tramite la costruzione, nel giardino del peristilio, di
due muri paralleli con funzione di terrazzamento.
Il tipo di casa a peristilio si presenta conforme al modello di abitazione, di tradizione greco-ellenistica, diffuso in tutta l’Asia Minore, tramandatosi nei secoli pressoché invariato e mantenutosi fino a
tutta l’epoca tardoantica, in cui spaziose corti, spesso circondate da bracci porticati e non raramente
dotate di nymphaea, potevano rappresentare lo snodo dell’organizzazione dell’abitazione. In un contesto come quello in questione l’assunzione del modello della casa a peristilio non manca di imporsi
quale marcatore del processo di ellenizzazione. A causa dell’incompletezza della planimetria, poco si
può dire dell’articolazione dell’abitazione, partitamente se essa fosse di tipo assiale o radiale, e anche
sulla funzionalità di molte delle strutture (finora sono noti tre grandi ambienti di rappresentanza).
Le sequenze stratigrafiche consentono di ricostruire le trasformazioni che hanno interessato l’organizzazione dell’impianto, il suo sviluppo planimetrico, la funzionalità degli spazi. Interventi di ristrutturazione, sostanziali rimaneggiamenti degli ambianti e modifiche dei percorsi, con conseguenti
trasformazioni d’uso che stravolgono l’assetto dell’impianto e la funzione degli spazi, denunciano
cambiamenti di destinazione rispetto al primitivo impianto, in linea con un trend evolutivo ben
documentato nell’edilizia privata tardoantica, sostanzialmente basato sulla frammentazione degli
spazi originari. Nell’area sistemata a giardino lo spazio viene frantumato attraverso la costruzione di un
corpo di fabbrica (I); successivamente la creazione di un sistema di canalizzazioni di smaltimento delle
acque provenienti da altre aree delle pendici del sito, collegato alle sistematiche spoliazioni dei muri del
primitivo impianto e a altre parziali demolizioni, appare da mettere in relazione con il radicale cambiamento delle modalità di occupazione dell’area prima del definitivo abbandono dell’edificio. La ceramica
più recente è stata datata al VI secolo d. C.
IL MOSAICO DEL VANO E
Il vano E ha restituito un mosaico pavimentale policromo (6,90×5,80 m.), formato da quattro distinti tappeti
a decoro geometrico e impaginato centripeto (i mosaici dell’abitazione sono stati presentati all’XI Colloquio
Internazionale sul mosaico antico, organizzato nell’ottobre
2009 a Bursa dall’Uludağ University Mosaic Research
Center, sotto l’egida dell’AIEMA). Nel riquadro figurato
centrale, tangente sugli angoli a quattro triangoli racchiudenti le personificazioni delle Stagioni, è compreso un
busto femminile raffigurato frontalmente, con testa diademata e circondata da un nimbo (fig. 4). Veste tunica ornata
Fig. 4 – Il pannello figurato al centro della da un clavus, e mantello. Due dita sorreggono un frutto; un
pavimentazione musiva dell’ambiente E a restauro ultimato (2010) (DFG-Projekt Pompeiopolis, ramo poggia sulla spalla destra. Nella figura va riconosciuta
una personificazione karpophoros, come anche indicano
foto B. Maerzke, München)
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i busti delle Stagioni ad essa collegati. La connessione con le personificazioni stagionali rimanda alla
personificazione di Ananeosis (reparatio/renovatio) legata al rinnovamento ciclico dell’anno. Una moneta
di Arcadio emessa dalla zecca di Costantinopoli (388-392 d. C.) è stata rinvenuta a contatto dell’ordito
musivo. Consone con quanto conosciamo della produzione figurativa tra la fine del IV e la prima metà
del V secolo, in particolare di quella riferibile agli anni di Teodosio II, l’accentuata stereometria della
testa, l’idealizzazione del volto, l’astrazione e la fissità dei tratti, la plasticità dei capelli a matassa. Al di
là di alcune cadute nel disegno, trapela l’elevata qualità formale del modello.
Dalla metà del III secolo si moltiplicano in contesti profani – prevalentemente domestici – raffigurazioni musive di personificazioni relative a concetti filosofici e a idee astratte; il picco è nel V secolo.
L’elenco di queste personificazioni è nutrito. Si tratta di figure – in forma di busto e non – genericamente connotate, con minimi cambiamenti adattabili alle più svariate astrazioni, che neppure sempre
necessitavano di venire “etichettate”. Nelle conversazioni tenute durante ricevimenti e simposi queste
immagini, oltre a potere costituire argomento di intrattenimento tra erudizione e piacere del gioco
intellettuale, dovevano fungere da richiamo, augurio, celebrazione del padrone di casa, in quanto collegabili a ideali attinenti alla sfera dell’individuo, sublimati in concetti astratti: temi quali la costruzione/
donazione, il benessere, la fecondità, il rinnovamento, ma anche il piacere e il lusso, dovevano essere
nelle corde dei committenti.
I significativi interventi di ristrutturazione e decorazione che hanno interessato alcuni degli
ambienti del complesso residenziale gettano nuova luce sulla percezione dello spazio domestico in
epoca tardoantica, contribuendo a confermare la qualità della vita cittadina nella parte orientale
dell’impero agli inizi del V secolo, caratterizzata da una ricchezza che non molto tempo prima il
vescovo di Cappadocia Basilio di Cesarea aveva stigmatizzato: dimore impreziosite da marmi pregiati,
da mosaici pavimentali e da decorazioni dorate nei soffitti, da affreschi su quelle pareti che restavano
prive di rivestimenti. Non diversamente da quanto gli scavi ci hanno restituito dei contesti abitativi
di Efeso e Afrodisia, di Antiochia come di Apamea, la fioritura dell’edilizia privata e le correlate
espressioni del lusso e del prestigio domestico si configurano come fenomeni caratterizzanti il quadro
urbano della Paflagonia di V secolo.
Luisa Musso
BIBLIOGRAFIA
CH. MAREK, Stadt, Ära und Territorium in Pontus-Bithynia und Nord-Galatia, Tübingen 1993.
Ludwig-Maximilians-Universität München, Institut für Klassische Archäologie, Pompeiopolis in Paphlagonien.
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Pompeiopolis I. Eine Zwischenbilanz aus der Metropole Paphlagoniens nach fünf Kampagnen (2006-2010), a cura
di L. Summerer, Langenweißbach 2011.
Osservazioni sulle iscrizioni cristiane di tridentum anteriori al VII secolo
La ricerca che si presenta è finalizzata all’edizione di un volume delle Inscriptiones Christianae
Italiae septimo saeculo antiquiores, dedicato a Tridentum e al suo territorio, che è stato affidato a
chi scrive, il quale una decina di anni fa aveva già pubblicato le epigrafi (per lo più inedite) trovate
nell’area della primitiva basilica di S. Vigilio (MAZZOLENI 2002). Attualmente sono stati raccolti ed
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elaborati molti dati, pur se non definitivi e ammontano a una quarantina le epigrafi note, per lo
più di Trento; fino a una ventina di anni fa, invece, i testi paleocristiani conosciuti in questo stesso
ambito territoriale erano molti di meno e indubbiamente essi hanno avuto un incremento notevole
in seguito alle indagini archeologiche condotte sotto la Cattedrale di S. Vigilio.
Le campagne di scavi svoltesi fra il 1964 e il 1977 portarono alla scoperta dell’aula primitiva di
culto, databile alla metà del VI secolo, che ebbe carattere martiriale e funerario e sorse al di sopra
della tomba del terzo vescovo trentino, Vigilio († 400) (ROGGER 1975, 1982, 1996). Si individuarono
almeno ottanta sepolture sotto il pavimento, tanto è vero che si parlò di una sorta di retrosanctos.
L’aula, che aveva tre ingressi ed era preceduta da un quadriportico, era rettangolare e mononave
(misurava 50 x 14 m.), con un presbiterio separato da cancelli, poi guastato dalla cripta eretta nell’XI
secolo. Le trentuno iscrizioni rinvenute (trenta latine e una greca) sono state musealizzate ed affisse
alle pareti, salvo quella del v(ir) s(pectabilis) Censorius, che è rimasta in situ. La nuova Cattedrale fu
costruita nel XIII secolo 2,50 m. sopra il livello dell’edificio paleocristiano.
L’iscrizione più nota del territorio trentino è probabilmente quella del pavimento a mosaico
frammentario del cosiddetto “sacello” del Doss Trento, oggi staccato e conservato al Castello del
Buonconsiglio: risalente alla prima metà – o alla metà – del VI secolo; si tratta di un testo di tipo
dedicatorio, che ricorda l’intitolazione dell’edificio ai santi medici Cosma e Damiano, fatta da
Laurentius, che si definisce cantor, ai tempi del vescovo Eugippio, altrimenti ignoto (CAILLET 1993).
In ambito urbano, invece, a S. Maria Maggiore si sono individuati resti di un’ecclesia urbana sotto
la chiesa del XVI secolo. Vi si riconobbero due fasi: la prima (con lacerti di pavimento musivo e un
resto di epigrafe) fu attribuita agli inizi del VI secolo con interventi spintisi fino a metà circa del VI.
Una seconda aula, triabsidata, sorse 1 m. sopra quella paleocristiana con il reimpiego di pezzi scultorei di VIII-IX secolo. Accanto al complesso si sviluppò un cimitero con tombe a cassa (MAZZOLENI
1993, CIURLETTI 2003, GOIO-ZOTTA s.d.).
Le altre testimonianze epigrafiche del territorio trentino sono
essenzialmente attestazioni di fedeli facenti parte di comunità
rurali. Ad esempio, dall’area limitrofa alla chiesa di S. Valentino
(vescovo e missionario della Rezia della metà del V secolo) a
Tenna, ora a Mezzocorona (Trento), proviene un frammento di
coperchio di sarcofago con un’iscrizione che si riferisce al diacono Mauro (CAVADA 1994). Altri coperchi più o meno mutili di
sarcofagi con grandi croci a rilievo, cristogrammi con o senza lettere apocalittiche e resti di iscrizioni sono conservati a Trento e a
Caldonazzo. In quest’ultima località una lastra mutila si riferisce
a due coniugi, Flamininu[s] e Iusta (CIURLETTI 2008) (fig. 1).
Per quanto attiene alla tipologia, le epigrafi sono per lo più funeFig. 1 – Ricostruzione grafica dell'iscrizione funeraria di Flamininus e Iusta, rarie e in minor percentuale musive votive o dedicatorie. La grafia
Caldonazzo (Trento), Chiesa di S. Sisto
usata è, come accade generalmente, la capitale attuaria rustica, mentre il materiale adoperato (soprattutto a Trento) consiste in grandi lastre di calcare locale, non levigato, ma
sommariamente lavorato a martellina, per cui la superficie è spesso scabra e di non agevole lettura, anche
per la presenza di sensibili segni di consunzione (forse una parte delle lastre chiudeva tombe poste nel
pavimento della Cattedrale trentina). I formulari sono quelli consueti, specie in epitaffi abbastanza tardi:
l’esordio è spesso hic requiescit, e per indicare il dies natalis, ossia il giorno della morte (e della sepoltura)
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si usa preferibilmente depositus (più raramente obire
e transire).
Riguardo alla lingua, come sempre si nota la
presenza di diversi volgarismi (soprattutto monottongazioni e caduta di aspirazioni e nasali, oltre
allo scambio fra le vocali i-e). L’onomastica presenta la maggior parte dei nomi di origine latina,
mentre due sono quelli greci e uno solo – Amaros
– è stato ricondotto, sia pure ipoteticamente, ad
una matrice siriana. Solo due sono i mestieri indicati: un custus basilice (!) (il presbitero Metronius)
(fig. 2) e un intendente siriano della regione di
Antiochia, 67_ , nella sola dedica in greco
finora nota.
Diversi risultano, invece, gli esponenti del Fig. 2 – Iscrizione del presbitero Metronius, Trento, Cripta
clero: otto a Trento (un vescovo, sei presbiteri, un del Duomo
diacono), due al Doss Trento (un vescovo e un cantore), un diacono a Tenna. In un caso ricorre la
data indizionale a Trento (questo solo elemento, come è noto, non consente di risalire a una cronologia precisa) (MAZZOLENI 2002), mentre in un altro essa è unita a una data consolare, in un’epigrafe di
Riva del Garda dell’anno 539 (GARZETTI 1986). In ogni modo, in genere le iscrizioni possono riferirsi
a un ambito cronologico compreso per lo più fra il V e il VI secolo.
Danilo Mazzoleni
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35
L’altare di Giovanni VII (706) e l’apertura della Porta Santa nell’antico San Pietro
È nell’esperienza di tutti come la distruzione di un monumento comprometta in modo irrimediabile non solo la nostra
capacità di figurarci in concreto la sua forma e le sue dimensioni, ma perdutane per sempre l’immagine e il significato in
un peculiare contesto venga meno anche la sua riconoscibilità
come modello di lunga durata e, in prospettiva, un decisivo
livello di lettura dei monumenti che lo hanno seguito.
Ho proposto di recente un’ipotesi ricostruttiva dell’Oratorio dedicato alla Theotokos che nel 706 papa Giovanni VII,
natione graecus, fece edificare all’interno dell’antico San Pietro
prescrivendo di esservi sepolto. Del sacello, notissimo per i
cicli musivi che lo decoravano, non era mai stata indagata
la forma architettonica. La mia restituzione si è basata sui
frammenti della decorazione scultorea, comprensivi di spolia
di eccezionale pregio, come alcune lastre di età severiana e
una coppia di colonne vitinee; su alcune iscrizioni superstiti o
Fig. 1 – Proposta di restituzione in 3D dell'Ora- note dalle fonti; e sul testo dell’epitaffio del pontefice tramantorio di Giovanni VII, a cura dell’Arch. Marco
dato dalla silloge Cantabrigense. Mi è stata di guida inoltre
Carpiceci (da Ballardini 2011)
l’accurata descrizione dell’oratorio, redatta in scriptura e in
pictura da Giacomo Grimaldi nei primi anni del Seicento, alla vigilia della demolizione dell’ultimo
tratto dell’antico San Pietro (BAV, Barb. lat 2732; Barb. lat 2733; Cap. di San Pietro H3; Biblioteca
Ambrosiana, ms. A 168 inf.; BNCF ms. II-III 173).
L’esito della ricerca ha premesso di restituire in 3D l’immagine dell’oratorio, stimolando delle
considerazioni sulla durata quasi millenaria del sacello e sul progressivo mutamento di funzione di
quel settore dell’antico San Pietro.
In effetti, proprio quel tratto iniziale della navata Nord della basilica aveva accumulato una formidabile memoria cultuale ospitando a partire dalla metà del X secolo la reliquia della Veronica e
divenendo dalla metà del XV il luogo di apertura del Giubileo e della sua Porta Santa.
Descrivo in breve l’oratorio secondo la mia ipotesi ricostruttiva, rinviando ogni argomentazione
allo studio da poco pubblicato (BALLARDINI 2011).
Il sacello di Giovanni VII era ricavato nell’angolo settentrionale di San Pietro, tamponando a sud
i primi tre intercolunni della navata con muri alti almeno 3,20 m. A Occidente un muro analogo era
interrotto da una porta architravata con il titulus all’antica del pontefice.
All’interno le pareti erano rivestite di crustae marmoree alternate a lesene con tralcio abitato di età
severiana, prese a modello da lastre scolpite ad hoc nelle officine di Giovanni VII.
L’altare, dedicato alla Theotokos, era addossato alla parete di fondo e cioè alla controfacciata della
basilica. Ne ho individuato un frammento, oggi nelle Grotte, che ai suoi tempi Grimaldi descrive e
disegna affisso all’interno dell’oratorio.
Il frammento di marmo frigio, su due lati finemente modanato, reca un’iscrizione dell’anno
783, aggiunta secondo la mia ipotesi, a lato della fenestella confessionis di un più antico altare a cassa.
Scolpita dunque in occasione di una ricognizione delle reliquie della Vergine, l’epigrafe nomina
36
Maria secondo un epiteto veterotestamentario che, nell’innografia bizantina, definisce la Theotokos
«Tempio di Dio» e «Santo dei Santi».
Al di sopra dell’altare, un archivolto era retto da una coppia di colonne vitinee che Giovanni,
figlio di Platone, l’ultimo curator Palatii a noi noto, era riuscito a procurarsi per assicurare alla
Vergine il fasto imperiale riservato in basilica solo all’altare dell’Apostolo.
Sopra l’edicola monumentale e fino alle capriate del tetto, si estendeva su tre registri la decorazione
musiva che ripercorreva la storia della salvezza dall’Annuciazione fino alla morte e resurrezione del Cristo.
Fuoco del ciclo figurativo era una nicchia – tra colonne di marmo nero – che accoglieva l’icona
musiva della Theotokos accompagnata dal papa donatore. L’icona della Vergine, una Blachernitissa in
abiti regali, priva del bambino ma con il grembo arrotondato, veniva ritualmente nascosta da cortine
appese all’asta infissa ai capitelli delle colonne.
Infine, nel pavimento, in asse con l’icona e con l’altare della Theotokos, Giovanni VII aveva prescritto di essere inumato. A mio avviso, proprio sotto la lastra dell’epitaffio, che in distici elegiaci
traduceva la devozione greca del pontefice in una lingua intessuta di occorrenze virgiliane, ma anche
di rinvii all’Akathistos, il più celebre inno bizantino dedicato alla Madre di Dio.
L’ubicazione della tomba è del resto allusa anche nel testo epigrafico, che cito nei primi quattro versi:
«Qui il presule Giovanni stabilì di essere sepolto e prescrisse di essere deposto sotto i piedi della
domina, affidando l’anima alla protezione della santa madre (sub tegmine matris) che vergine, non
sposata, ha partorito generando Dio».
È proprio il ruolo tutelare di Maria evocato nell’epitaffio di Giovanni con l’espressione «sub tegmine
matris» a spiegare la scelta del pontefice di farsi tumulare ai piedi dell’altare.
Interpreterei infatti l’espressione sub tegmine matris, così suggestivamente virgiliana, come il riferimento a una reliquia della Vergine conservata nell’altare dell’oratorio, una reliquia del Presepe, ma
forse anche del veneratissimo maphorion.
La sua presenza giustificherebbe anche l’iscrizione (nota dai disegni seicenteschi) posta sopra
l’archivolto dell’altare Domus Sanctae Dei Genitricis Mariae, che già Carlo Bertelli mise in relazione
con l’oikos costantinopolitano eretto da Leone I alle Blacherne per custodire il velo.
Se con l’apertura della porta santa e la distruzione dell’altare di Giovanni VII ci si premurò di
mettere in salvo e murare in una parete dell’antico sacello l’iscrizione incisa a lato della fenestella
confessionis dell’altare, una cura maggiore doveva essere stata riservata al suo prestigioso deposito di
reliquie.
Ora, come ci ricorda l’Alfarano, alla fine del XVI secolo di reliquie del
velo della Vergine nella basilica di San Pietro ne era consevata più d’una: la
più interessante mi sembra quella deposta nel 1479 nell’altare della cappella
fatta edificare da Sisto IV della Rovere.
Riservata al coro dei canonici della basilica, la cappella di Sisto IV dove
il papa prescrisse di essere inumato si apriva sulla navata esterna meridionale
della basilica ed era dotata di spolia di eccezionale pregio come la coppia di
colonne porfiretiche con i tetrarchi sulle quali si impostava l’arco absidale.
Proveniente dall’Ordine francescano, Sisto della Rovere – eponimo di papa
Sisto III (432-440), che a Roma eresse la prima basilica mariana della città – si Fig. 2 – BAV, Barb. lat.
2733, f. 130r, l'abside della
distinse per una speciale devozione alla Vergine.
cappella di Sisto IV in San
Fu lui a introdurre a Roma la festa della Concezione e all’Immacolata Pietro (da Galli 2009)
37
consacrò anche la cappella dove si fece seppellire: ai piedi dell’altare e in vista dell’abside, dominata
dall’immagine della Vergine «in corona angelorum» affrescata dal Perugino.
A tale proposito ha certo un significato che, contrariamente all’uso degli ecclesiastici, Sisto IV si sia
fatto inumare con i piedi verso l’altare e cioè idealmente con il volto all’immagine della Vergine.
È stato osservato come questa sepoltura, isolata su tutti i lati al centro del sacello, «segnasse una
vistosa anomalia rispetto alla consuetudine quattrocentesca dei sepolcri papali» (Galli 2009).
Se il celeberrimo monumento del Pollaiolo, commissionato da Giuliano della Rovere, fu portato a termine dieci anni dopo la scomparsa di Sisto (1494), nei fatti esso conferiva una forma – umanisticamente
sovraconnotata e per così dire “tridimensionale” – a un’idea che già Sisto IV aveva della propria sepoltura.
Johannes Burchardus, il maestro di cerimonie che, nella turbolenza dell’evento, si occupò delle
esequie del pontefice, ricorda nel dettaglio le disposizioni del papa.
Sisto volle essere inumato «nella sua cappella nuova, circa nel mezzo, piuttosto vicino all’altare»
asserendo i cardinali «ipsum defunctum locum huiusmodi in sepolturam suam sibi elegisse». E, prima
della messa in opera del monumento bronzeo, il tumulo doveva essere segnalato nel pavimento da
un semplice ed elegante epitaffio.
Forse una coincidenza o solo l’ultima volontà di un papa, ambizioso e potente, che morendo riprendeva il saio francescano, eleggendo la terra nuda come ultima dimora. E tuttavia un “programma” che ha
davvero molte analogie con le diposizioni di Giovanni VII, deposto «sub pedibus Domine».
Riterrei dunque plausibile che, alla vigilia del Giubileo 1475, Sisto IV, facendo rimuovere l’altare di Giovanni VII per aprire la nuova Porta Santa, abbia prelevato per sé la reliquia del velo della
Vergine, destinandola all’altare della propria cappella funeraria.
Come osserva Jacques Le Goff «il sacro è tenace» e il lungo prestigio della basilica Vaticana, eletta
per secoli a mausoleo dei pontefici romani, si conferma nella vitalità di un codice antico e di una
tradizione di modelli ineludibile, anche alle soglie del Rinascimento.
Antonella Ballardini
BIBLIOGRAFIA
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Ballardini, P. Pogliani, A Reconstruction of the Oratory of John VII (705-707), in Old St. Peter’s Conference (British
School at Rome, 22-25 marzo 2010), in corso di stampa.
A. BALLARDINI, Un oratorio per la Theotokos: Giovanni VII (705-707) committente a San Pietro, in Medioevo: i
committenti, Atti del XIII convegno internazionale di studi di Parma (21-26 settembre 2010), Parma-Milano
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A. GALLI, Monumento di Sisto IV. L’opera di Antonio del Pollaiolo 1484-1493, in Archivum Sancti Petri. Bollettino
d'archivio 6-7 (2009), p. 12.
Dalla Curia Senatus alla chiesa di Sant’Adriano. La riscoperta di un palinsesto architettonico
e pittorico perduto
La demolizione della chiesa di S. Adriano e dell’annesso convento dei Mercedari, finalizzata al ripristino
dell’antica Curia Senatus, fu consumata tra il 1932 e il 1937. Sotto i colpi dei “picconi del regime” che
in poco tempo abbatterono un intero quartiere post-rinascimentale, insediato tra i Fori, fu abbattuto in
poco tempo a vantaggio della Via dell’Impero e del recupero archeologico della Roma imperiale. I lavori
di smantellamento della chiesa barocca, diretti da Alfonso Bartoli, fecero riemergere, per poi annientarlo,
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un sorprendente palinsesto architettonico, riportando alla luce, a
quote diverse, tre basiliche precedenti: una della seconda metà del
XVI secolo, un’altra degli inizi del XII secolo e infine, al livello del
pavimento dioclezianeo, a più di sei metri dal piano barocco, i resti
della chiesa altomedievale.
La Curia Senatus-S. Adriano è uno dei nodi topografici più
rilevanti dell’intero complesso dell’area archeologica centrale, nonché uno dei monumenti più frequentati del Foro romano, ospitando da qualche anno esposizioni temporanee promosse dalla
Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma (SSBAR).
Tuttavia, fino ad oggi, questo monumento non è stato oggetto di
uno studio monografico volto a ripercorrere diacronicamente le sue
complesse vicende architettoniche e decorative.
Il progetto di ricerca “Dalla Curia Senatus alla Chiesa di S. Fig. 1 – Roma. Curia senatus, facciata
Adriano al Foro romano. Progetto
di realtà virtuale per la ricostruzione di tredici secoli di storia del
monumento” (responsabile scientifico Maria Luigia Fobelli), nasce
con l’intenzione di iniziare a colmare questa lacuna e si pone i
seguenti obiettivi: creazione di un ambiente virtuale per la fruizione
dell’architettura, della decorazione pittorica e degli arredi scultorei
dell’edificio in tutte le sue trasformazioni, dalla Curia Senatus dioclezianea allo smantellamento degli anni 1932-1939 della chiesa di
S. Adriano; ricostruzione e ricontestualizzazione delle decorazioni
pittoriche (IV-XVII secolo) attraverso l’uso e la sperimentazione di
diverse tecnologie digitali di restituzione visiva.
La prima fase del progetto, affrontata nel corso del 2011, si è concentrata sulla restituzione in 3D della fase altomedievale dell’edificio
(VII-XI secolo) e sulla ricostruzione della sua decorazione pittorica e
degli arredi liturgici.
Bartoli, della chiesa altomedievale, rinvenne l’emiciclo absidale, il
setto presbiteriale, il basso coro, una cappella esterna con dipinti murali
Fig. 2 – Roma. S. Adriano, planimetria e frammenti di pitture all’interno di
della chiesa altomedievale
quattro delle sei nicchie nelle pareti
perimetrali e in controfacciata. Questi frammenti sono gli unici a essere
sopravvissuti in situ perché aderenti alla muratura dioclezianea.
La trasformazione della Curia Senatus in chiesa, dedicata a
sant’Adriano, avvenne, secondo il Liber Pontificalis, nella prima
metà del VII secolo, per volere di Onorio I (625-638), figlio
dell’exconsul Petronio, ultimo senatore occidentale attestato dalle
fonti. Alla fine dell’VIII secolo, la chiesa fu oggetto di particolari
attenzioni da parte di Adriano I (772-795): fu dotata della cappella Fig. 3 – Ricostruzione 3D della sezione
nord-ovest della chiesa altoesterna, ricevette ingenti donazioni di suppellettili e arredi liturgici trasversale
medievale di S. Adriano (realizzata da
e fu trasformata in diaconia.
G. Di Benedetto, V. Valentini)
39
La conversione in chiesa e gli interventi successivi non alterarono i livelli e la morfologia dell’edificio dioclezianeo, la decorazione pittorica si inserì in spazi circoscritti, come le nicchie e brevi tratti
di parete, senza stravolgere il preesistente rivestimento in opus sectile.
La restituzione 3D della chiesa e la visualizzazione delle sue pitture nella fase altomedievale è
stata articolata in otto viste, messe a punto da chi scrive in collaborazione con Manuela Viscontini,
Valeria Valentini e l’architetto Gianni Di Benedetto, seguendo la metodologia sperimentata, a partire
dal 2006, per l’elaborazione dei volumi del progetto “Atlante. Percorsi visivi (La pittura medievale a
Roma, 312-1431. Corpus e Atlante)”, diretto da Maria Andaloro.
La decorazione dioclezianea in opus sectile delle pareti, che restò in opera fino alla metà del XVII
secolo, è stata ricostruita grazie alla consulenza di Alessandro Viscogliosi e Paola Zampa, sulla base
di un disegno (post 1515) attribuito ad Antonio da Sangallo il Giovane (1484-1546), scoperto da
Rodolfo Lanciani in un codice berlinese, oggi conservato presso il Kupferstichkabinett. L’assetto altomedievale dell’aula è stato invece ricreato attraverso lo studio della documentazione grafica e fotografica dei lavori condotti da Bartoli negli anni 1932-1937, conservata presso gli archivi della SSBAR, e
sulla base del lavoro imprescindibile di Adele Mancini, pubblicato nel 1968.
Per quanto riguarda la decorazione pittorica dell’edificio, va evidenziato che l’interno della chiesa
altomedievale non accolse un programma iconografico unitario, ma degli interventi pittorici isolati,
indipendenti gli uni dagli altri e caratterizzati dalla presenza di figure di committenti e donatori,
ritratti o ricordati in iscrizioni pictae. Queste pitture, pressoché ignorate dalla storiografia e databili
tra VIII e X secolo, sono oggi in uno stato frammentario, con una superficie pittorica depauperata
che ne rende ardua la lettura. Obiettivo primario della ricerca è quello di rendere leggibile ciò che
ineluttabilmente sta scomparendo sulle pareti della Curia, di registrare ogni minima traccia, di riconoscerla e arrivare a ricostituire il tessuto figurativo di cui era parte integrante, attraverso un lavoro
di decodifica attento a non varcare mai la soglia dell’invenzione.
Particolare attenzione è stata dedicata alle iscrizioni pictae conservate all’interno dei diversi contesti pittorici, che si sono rivelate documenti utili alla definizione del panorama socio politico di Roma
tra VIII e IX secolo. In questa sede vorrei portare l’attenzione su due dei dipinti murali analizzati.
Il primo, datato da Bartoli agli anni di Adriano I (772-795), è conservato alla base della seconda
nicchia della parete nord-ovest. Nel riquadro si legge la figura di Cristo affiancata da un santo e da
una santa, nei quali ho proposto di riconoscere i santi Adriano e la moglie Natalia. Ai piedi delle tre
figure stanti sono ritratti quattro piccoli personaggi inginocchiati, dalle sembianze due maschili e
due femminili. Accanto alla figura a sinistra dei piedi di Cristo è rimasta un’iscrizione letta da Bartoli
come: Gaiferius consul et dux. Un’attenta analisi di quanto resta del titulus ha indotto a proporre una
nuova trascrizione: Constan/t[inu]s con/s[u]l. La parola dux è oggi scomparsa. Constantinus, donatore
del pannello iconico, si è fatto qui ritrarre in compagnia della moglie e dei figli, emulando probabilmente il più famoso primicerius Teodoto, committente della cappella dei Santi Quirico e Giulitta
nella vicina Santa Maria Antiqua.
Bartoli ed altri hanno riconosciuto nel consul e dux Gaiferius, ora Costantinus, un personaggio di rango
senatorio, la cui presenza avvalorerebbe l’ipotesi che, nell’VIII secolo, l’aula fosse usata come chiesa e ancora come sede del Senato. In base agli studi più recenti di Brown, Arnaldi e Bulgarella, tuttavia, è assodato
che il Senato romano, in quanto istituzione, fosse entrato in crisi negli anni della guerra goto-bizantina
(535-553), per uscire di scena durante il pontificato di Gregorio Magno (590-604). Nella seconda metà
dell’VIII secolo il termine senatus riappare nelle epistole diplomatiche papali, ma con un’altra identità
40
rispetto al passato. Con la caduta di Ravenna nel 751, per mano longobarda, che segnò il definitivo crollo
dell’egemonia bizantina in Italia, cominciava di fatto il dominio temporale dei papi, i quali subentravano
al governo imperiale nell’amministrazione del ducato di Roma. I consul et duces che si incontrano con
crescente frequenza nelle fonti dall’VIII al X secolo sono ora espressione di un nuovo ordo senatorius,
composto dai più alti funzionari del palatium apostolico appartenenti alla nuova aristocrazia clericale. In
Constantinus consul et dux si è proposto di riconoscere uno di questi nuovi funzionari lateranensi,
probabilmente anche coinvolto nel patronato della diaconia di S. Adriano.
Il secondo dipinto analizzato è conservato nella prima nicchia della parete sud, in parte leggibile
attraverso il disegno preparatorio. Il tema raffigurato è quello dell’Ascensione, scandita in due registri: nel
superiore è rappresentato Cristo all’interno di una mandorla retta da quattro angeli, nell’inferiore restano
tracce dei dodici apostoli posti ai lati della Vergine. Chiude la scena in basso un’iscrizione dedicatoria a
lettere capitali: † De donis D(e)i et salbatori n(ost)r(i)s Ih(s)u Xr(ist)i et s(an)c(t)e D(e)i genetr(ic)is et beatorum
apos / tolorum atque et s(an)c(t)or(um) martyrum Petri, Iacopi, Chrysogoni et Anastasie. / [E]go Sergius peccator
consol et tabellio quem a nobiter feci, ame(n) (foglia). Mense martio, ind(ictione) X, die XX. Sulla paretina
laterale sinistra della nicchia si leggono, inoltre, tre santi stanti, posti su due registri. In quello inferiore
sono dipinte due figure accompagnate in alto dall’iscrizione che le identifica. I due tituli furono trascritti
da Augusto Campana nel seguente modo: [---]tissimus / [---]cleo[--]vato / [Sanctus Ch]romatius // † S(anctus)
Chryso / gonus. Del primo titulus si è proposta una lettura alternativa, che getta nuova luce sull’intera decorazione: [Sanc]tissimus / [dominus] Leo quar[tus] / [papa] romanus. La lettura trova riscontro nella figura di
pontefice dipinta al di sotto dell’iscrizione, immagine conforme a quella di Leone IV (847-855), dipinta
sulla parete d’ingresso della basilica inferiore di S. Clemente. L’identificazione di Leone IV ha consentito
finalmente di sciogliere l’indizione e decifrare la data di dedicazione della nicchia: 20 marzo 847, datando
ad annum, mensem e diem la decorazione soprastante.
Nel consul et tabellio Sergius, non altrimenti noto nelle fonti, va riconosciuto, invece, un esponente
del notariato romano, espressione della nuova e mutante realtà amministrativa della città alla metà
del IX secolo. I tabelliones Urbis Romae, eredi del collegio tabellionale romano-bizantino riorganizzato da Giustiniano, erano funzionari che rogavano contratti tra privati, di contro agli scrinarii Sanctae
Romanae Ecclesiae, scrittori ecclesiastici che redigevano atti pubblici alle dipendenze della cancelleria pontificia. Personaggi con questa doppia qualifica sono attestati nel Regesto Sublacense a partire
proprio dal IX secolo, ma la loro massima concentrazione si registra nel X secolo. Per il IX secolo
è infatti attestato, in un documento dell’837, il caso isolato di un Johannes in Dei nomine consul et
tabellio urbis Romae. Sergius, stando all’intervento promosso in S. Adriano, sembrerebbe confermare
l’ipotesi avanzata da Toubert che il doppio epiteto consul et tabellio fosse usato per designare i priori
della corporazione dei tabellioni. Il nostro è qui committente della decorazione di un’intera nicchia
dove accanto alla sua sottoscrizione appare anche l’immagine del pontefice in carica Leone IV, elementi che inducono a pensare che si trattasse, anche in questo caso, di un alto funzionario con una
posizione sociale prestigiosa ed anche un certo agio economico.
Constantinus e Sergius, personaggi finora ignorati dalla storiografia, testimoniano due importanti
tappe dell’ascesa e della programmatica affermazione delle nuove classi dirigenti laiche romane tra
VIII e IX secolo e sono attestati proprio in S. Adriano al Foro romano, in origine la Curia senatus,
luogo che per secoli ha accolto la vita politica della città di Roma.
Giulia Bordi
41
BIBLIOGRAFIA
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Anfiteatro Flavio: lo scavo di due ambienti del primo ordine
Il progetto nasce da una proposta fatta da una collega archeologa, Rossella Rea, che è il funzionario della Soprintendenza Archeologica di Roma che ha l’onore, e il pesante onere, di occuparsi
del Colosseo, e che sta avviando le complesse pratiche legate ai lavori di restauro finanziati dalla
sponsorizzazione di Della Valle. All’inizio la proposta era quella di riprendere un lavoro avviato
negli anni ’70 ma lasciato incompiuto e mai oggetto di pubblicazione, neppure preliminare, cioè
lo svuotamento dei grandi collettori che provvedevano allo smaltimento delle acque dall’enorme
invaso dell’Anfiteatro, e che con la fine della manutenzione del monumento si erano completamente
ostruiti. Il collettore settentrionale, sul quale si sarebbe dovuto concentrare il lavoro, è alto più di
un metro e ottanta e largo un metro e venti. Le poche notizie disponibili relative agli scavi degli
anni ’70 indicavano come l’interro fosse ricchissimo di materiali relativi alle fasi tardo antiche e
altomedievali di utilizzo del monumento. La proposta mi aveva interessato molto, poiché avrebbe
permesso di indagare proprio quella fase storica di passaggio dall’antichità all’alto medioevo che da
tempo costituisce il principale oggetto delle mie ricerche, e inoltre avrebbe consentito di approfondire i temi dei modi di formazione dei contesti archeologici e dell’interpretazione degli assemblaggi
ceramici all’interno di un contesto stratigrafico chiuso, che è pure un tema metodologico del quale
ho avuto modo di occuparmi. D’altra parte da tempo, nell’ambito degli insegnamenti del settore di
metodologie della ricerca archeologica, sentivamo l’esigenza di affiancare a quello di Populonia anche
un altro scavo con valenza didattica, indispensabile per dare a un maggior numero dei nostri studenti
quell’esperienza che, nel nostro lavoro, si può ottenere solo sul campo. L’avvio dei lavori di scavo era
42
però condizionato dal preventivo svuotamento del condotto, da parte della ditta che sta impostando
il cantiere di restauro, dell’acqua che ne riempie il fondo per un’altezza di quasi cinquanta cm. Questo
svuotamento non si è riusciti a realizzarlo, probabilmente a causa di un rialzamento della falda, che fa sì che
l’acqua ritorni man mano che si svuota. Questo contrattempo ha costretto a rivedere il progetto, essendo
comunque intenzione della Soprintendenza di Roma di mantenere questa collaborazione con il nostro
Dipartimento, anche in previsione di future iniziative, e presentando un grandissimo cantiere di restauro
come quello che si sta allestendo al Colosseo molte altre esigenze di indagini preliminari.
Di comune accordo con la collega Rea abbiamo quindi deciso di indirizzare lo scavo all’indagine di due
ambienti delle sostruzioni della cavea dell’anfiteatro, al primo ordine (cioè il piano terra del monumento)
e in particolare un sottoscala del cuneo III sul terzo anello e l’intero cuneo X (sottoscala, antistante corridoio radiale e parte del terzo anello). Questa scelta è derivata dall’incontro di opportunità scientifiche e
didattiche, da parte nostra, e di esigenze logistiche e conservative da parte della Soprintendenza. È infatti
nei progetti della Soprintendenza arrivare a rimettere in luce i piani antichi almeno in alcuni settori del
primo ordine del monumento, per ripropone la percorribilità originaria; la posizione degli ambienti selezionati, all’interno di un’area chiusa al pubblico, costituiva poi un elemento essenziale per l’installazione
del cantiere di scavo. Obiettivo scientifico dell’intervento era quello di ottenere dati sulle fasi medievali
di utilizzo del Colosseo, fasi i cui resti sono stati
quasi completamente cancellati nella “liberazione”
ottocentesca del monumento. I due ambienti
scelti per le indagini appartengono a tipologie
diverse e dovevano rispondere a domande storiche
diverse. L’ambiente del cuneo X è uno di quelli
utilizzati come stalla o fienile, come mostra anche
la presenza di una vasca e gli incassi per solai sulle
pareti. L’obiettivo dello scavo in questo caso era
quello di individuare gli strati in fase con questo
momento di utilizzo, in modo da precisarne
natura e funzione, datarlo su base archeologica Fig. 1 – Anfiteatro Flavio. L’ambiente del cuneo X in corso
e seguirne le trasformazioni; il piccolo sottoscala di scavo
del cuneo III invece appartiene a una tipologia di ambienti che non mostrano tracce di riutilizzo ma
che, si sperava, potesse fornire elementi per datare con precisione il momento della spoliazione della
pavimentazione del monumento.
Per quanto riguarda l’aspetto didattico, questo cambiamento di progetto presentava poi notevoli
vantaggi: innanzitutto la maggior ampiezza dell’area di scavo ha consentito di aumentare sensibilmente il numero degli studenti che hanno potuto partecipare, dai 18 previsti originariamente, a 35
che hanno partecipato, divisi nei due turni di tre settimane ciascuno in cui si è articolato lo scavo
(purtroppo molte altre richieste non hanno comunque potuto essere accolte, ma questo dimostra
il grande desiderio che c’è tra i nostri studenti di affiancare alla tradizionale attività didattica anche
esperienze pratiche e sul campo); inoltre, trattandosi di uno scavo metodologicamente molto più
“tradizionale”, è stato senz’altro più adatto a fornire una esperienza di base per studenti con poca o
nessuna pratica di scavo, consentendo loro di familiarizzarsi con attività quali il riconoscimento e il
rilevamento degli strati, l’esecuzioni di sezioni volanti e cumulative, la schedatura di strutture etc.,
che nelle condizioni particolari dello scavo nel collettore non avrebbero potuto essere svolte.
43
Formalmente lo scavo è stato una codirezione tra la Soprintendenza di Roma e il Dipartimento,
e direttori siamo Rossella Rea ed io; per coordinare il lavoro degli studenti è stato inoltre formato
un piccolo gruppo di lavoro composto da collaboratori con vasta esperienza di scavo e di studio dei
materiali: Monica Ceci, Giulia Facchin e Ilaria De Luca.
Lo scavo si è svolto dal 13 giugno al 23 luglio, con una “coda” a settembre per completare della
documentazione lasciata in sospeso; tutte le operazioni di documentazione, scavo, trasporto delle
terre all’interno del cantiere, lavaggio e inventariazione dei materiali, sono state eseguite dagli studenti di Roma Tre, mentre per le operazioni cantieristiche, la fornitura degli attrezzi e il trasporto
delle terre a discarica, grazie all’accordo con La Soprintendenza, ci siamo potuti appoggiare alla ditta
che cura la manutenzione del monumento. Questo aiuto è stato fondamentale, in quanto i costi di
queste operazioni, anche su uno scavo limitato come questo, superano ampiamente le disponibilità
dei fondi di ricerca annuali a disposizione del Dipartimento.
I risultati raggiunti sono andati al di là delle nostre aspettative, consentendoci di rispondere alle
domande storiche che ci eravamo posti.
Espongo ora brevemente una sintesi dei risultati raggiunti.
Nel cuneo III lo strato che riempie la spoliazione del pavimento antico, benché tagliato e disturbato da interventi posteriori, ha consentito di fissare la cronologia di questa spoliazione alla seconda
metà del XII secolo, in sincronia con quanto documentato anche nella parte più interna del cuneo
X, ambulacro e corridoio radiale. Più complessa la situazione nel sottoscala del cuneo X (fig. 1). Qui
lo scavo ha messo in luce diverse fasi di utilizzo dell’ambiente successive alla spoliazione della pavimentazione. Nel corso del XII secolo, subito dopo l’asportazione delle lastre pavimentali e quasi al
livello della fondazione flavia, l’ambiente venne chiuso sul lato aperto verso l’ambulacro con un muro
(di cui rimane solo una labile traccia) e pavimentato con un irregolare battuto. Sul lato di fondo,
a ridosso del muro antico che lo chiude, venne edificata una struttura, forse un bancone, costruita
con pietre irregolari e malta di calce, di cui rimane la parte più bassa. Un focolare, costituito da un
cerchio regolare di pietre, indica una possibile funzione abitativa per questo ambiente, testimonianza
dell’esistenza, ancora in pieno bassomedievo, di tipologie di edilizia residenziale precarie, sulle quali
la nostra documentazione, sia archeologica che scritta, è labilissima. Successivamente, nel corso della
prima metà del XIII secolo, l’ambiente subì una profonda modificazione: il livello di calpestio venne
rialzato fino a 30 cm. con un riporto di terra e sassi e con la creazione di un nuovo, irregolare, piano
di calpestio. La struttura a ridosso del muro di fondo e il muro di chiusura verso l’esterno vennero
rasati, mentre addossata alla parete Est venne costruita una nuova struttura, costituita da un muro
alto circa 1,20 m. e lungo circa 5 m., su cui poggia una vasca costituita da uno spesso strato di cocciopesto. È probabile che questa trasformazione abbia segnato un cambio di utilizzo dell’ambiente,
utilizzato ora come deposito, stalla, o per attività produttive ancora da chiarire. L’asportazione di gran
parte dei muri in blocchi della costruzione flavia che delimitavano l’ambiente, di cui lo scavo ha evidenziato le ampie fosse di spoliazione, segnò, nella seconda metà del XIII secolo, la fine dell’utilizzo
dell’ambiente, che venne ad essere coperto da depositi di limo, tagliati dagli sterri ottocenteschi. La
parte più alta della stratificazione era infine costituita dagli strati relativi al cantiere di restauro della
prima metà del XIX secolo.
Nell’ottobre 2011 ha preso avvio un seminario, su base volontaria, ma al quale partecipano tutti
gli studenti che hanno preso parte allo scavo, dove, con incontri periodici, si elaborano i diagrammi
stratigrafici e le piante di fase, si analizzano e schedano i materiali, si approfondiscono temi specifici,
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in modo da giungere in tempi brevi alla pubblicazione dei risultati dello scavo, e di consentire a tutti
gli studenti e neolaureati di parteciparvi e di veder riconosciuto il loro impegno.
Nelle intenzioni della Soprintendenza c’è la prosecuzione di questa collaborazione anche negli anni
prossimi, e la speranza, se la disponibilità dei finanziamenti lo consentirà, è di trasformare questo scavo
in un cantiere scuola stabile per gli studenti di Roma Tre.
Riccardo Santangeli Valenzani
L’incisione a Roma fra Cinquecento e Seicento. Paesaggio e veduta
La ricerca prende in esame alcune raccolte di incisioni raffiguranti paesaggi e vedute di Roma
antica e moderna di importanti incisori, da Hieronymus Cock a Giovanni Maggi, per cercare di
chiarire alcuni aspetti dello sviluppo e della diffusione dei modi di rappresentazione del paesaggio
fino a Paul Bril, l’uomo di punta del paesaggio cinquecentesco italiano di matrice nordica che, direttamente o no ed anche “in opposizione”, stimola i cambiamenti e che in ogni caso ci fa misurare la
distanza delle innovazioni di Annibale Carracci e Adam Elsheimer. Considerando alcuni problemi,
alcuni incroci di questioni, lacune e zone d’ombra negli studi sulla pittura di paesaggio a Roma nel
pieno Cinquecento ed anche la vitalità dei luoghi comuni e dei fraintendimenti che hanno per alcuni versi strutturato la visione di uno sviluppo della rappresentazione del paesaggio sostanzialmente
sulla linea veneta e su quella nord-europea, può essere utile riesaminare alcuni gruppi di incisioni
realizzate fra il 1540 e il 1570, cioè fino all’arrivo a Roma di Matthijs Bril, fratello maggiore di Paul.
Proprio intorno agli anni Quaranta il paesaggio compare, come genere autonomo, nella decorazione
dei palazzi, soprattutto all’interno dei fregi (Palazzo dei Conservatori, Villa Giulia, Appartamento di
Giulio III nei Palazzi Vaticani). Vi sono rappresentati in forma più o meno fedele monumenti antichi
e vedute di Roma, paesaggi d’invenzione in uno stile che possiamo definire schiettamente romano
e “raffaellesco” per mettere in risalto la presenza di un’altra direzione di sviluppo, che certamente si
incrocia anche con quella veneta e quella nord-europea, ma che cresce soprattutto sugli esempi di
Giulio, Polidoro e Perino (Sapori, in c.d.s.). La sua componente antiquaria trae molti motivi anche
da incisioni pubblicate da Antonio Salamanca e riflette, a mio parere, l’ambiente di Salamanca,
Francisco de Hollanda, dell’Accademia della Virtù, di Serlio e Ligorio. In questo contesto acquista
speciale rilievo la raccolta Prospettive et antichità di Roma, dedicate al cardinale Guido Ascanio Sforza di
Santafiora (1554-1557) di Michele Grechi o Michele Lucchese, allievo e collaboratore di Perino del
Vaga, in particolare studiata da Paola Picardi. Essa comprende incisioni di monumenti antichi sia allo
stato di rovina che idealmente ricostruiti, rappresentati anche in prospettiche scenografie, e motivi
decorativi dall’antico in gran parte copiate, con qualche aggiunta d’ambientazione o di staffage, da
rami di Nicolas Beatrizet, Agostino Veneziano, Androuet du Cercau e di altri incisori, alcuni ancora
anonimi. A queste si aggiungono alcune vedute romane di impostazione un po’ incerta, come l’Arco
dei Pantani e Castel S. Angelo, probabilmente opere originali di Grechi. Questi è sicuramente l’autore
delle incisioni rappresentati sistemi decorativi raffaelleschi.
Nella circolazione europea di invenzioni, incisioni, artisti ed in particolare fra coloro che lavorarono a Roma Etienne Dupérac, pittore, architetto, imprenditore e incisore francese, ha un posto
importante per le incisioni di paesaggio e di I Vestigi dell’antichità di Roma. È ancora problematico
cercare di precisare la cronologia dei disegni e delle incisioni di paesaggio sicuramente di sua mano
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così come di precisare le componenti della sua cultura. Oberhuber per primo individuò gli effetti di
un probabile soggiorno a Venezia, prima dell’arrivo a Roma verso il 1560; più di recente Lurin vi ha
visto i riflessi di Hans Bol e di Hans Sebald Lautensack. Qui voglio richiamare l’attenzione su alcune
incisioni della scuola di Fontainebleau, delle quali è nota la immediata diffusione anche in Italia, e
in particolare di Antonio Fantuzzi, datate o databili nei primi anni Quaranta, di Etienne Delaune e
di Jean Cousin il vecchio, databili intorno alla metà del secolo, che rappresentano dei paesaggi entro
ricche inquadrature ornamentali, derivanti dagli stucchi della Grande Galerie di Francesco I ed altri
ambienti del castello di Fontainebleau. Alcuni di questi paesaggi hanno caratteri italianizzanti, altri
decisamente nord-europei fra Germania e Paesi Bassi, ma, come ha osservato Zerner, non corrispondono in ogni caso a opere dipinte presenti nel castello. L’ipotesi che nel percorso di Dupérac avessero
un ruolo le incisioni della scuola di Fontainebleau e di quella di Parigi e in particolare le incisioni di
paesaggio sembra trovare dei riscontri nel confronto tra un Paesaggio incorniciato da satiri di Antonio
Fantuzzi e il Paesaggio con cavalieri di Dupérac, tra la Caccia agli uccelli di Etienne Delaune e il
Paesaggio con il cacciatore di anatre di Dupérac. Questi doveva aver visto opere di Campagnola e di
Tiziano a Venezia ma ne assimilò qualche carattere anche tramite Hieronymus Cock, come indica il
confronto fra il Paesaggio con Apollo e Dafne di Dupérac e il Il Settizodio e i ruderi severiani sul Palatino
di Cock, una delle 25 tavole dei Precipua Aliquot Romanae Antiquitatis Ruinarum Monimenta , eseguite almeno a partire dal 1546 e pubblicate ad Anversa nel 1551, modello per la rappresentazione
delle rovine romane di Dupérac.
Sia a Cock che a Dupérac, alla loro ricerca di una descrizione oggettiva degli edifici antichi, della
resa del contesto – più d’invenzione nel primo e più fedele nel secondo –, alla loro sensibilità paesistica nei dinamici effetti pittorici della luce e della atmosfera si è fatto riferimento per spiegare alcuni
aspetti della produzione grafica e pittorica di Girolamo Muziano divenuto famoso a Roma come il
“giovan de’ paesi” (Baglione). Il grande lavoro, così ricco di materiali, compiuto da Tosini sull’artista
pone molti stimolanti interrogativi sulla evoluzione del suo modo o meglio modi di rappresentazione del paesaggio e in particolare a Roma anche in rapporto alle incisioni. Innanzitutto sembra poco
probabile che Muziano , arrivato da Padova nel ’49, riuscisse ad ottenere autonome commissioni solo
un paio di anni dopo, quando era appena ventenne. Nei primi anni Cinquanta sono infatti collocati
la Natività di S. Caterina della Rota e gli affreschi (gravemente deperiti) di Rocca Sinibalda. Qui
i paesaggi dai panorami dolcemente ondulati, derivanti da Lambert Sustris, sembrano però poco
connessi con il robusto impianto paesistico della Natività. Se i modelli veneti rimasero per Muziano
quelli studiati negli anni Quaranta ci si può anche chiedere se egli condivida con Dupérac soltanto
una comune esperienza formativa in Veneto o anche delle direzioni di ricerca, ma certamente non si
possono anticipare gli effetti su Muziano del nuovo stile romano e “classico” che impronta i Vestigi
dell’antichità di Roma (1575) di Dupérac. Sono ancora infatti da chiarire la cronologia delle opere
tra il ’50 e il ’60 e le sostanziali differenze di costruzione. In primo luogo fra i disegni dalla metà del
Cinquanta fino a quelli con gli eremiti, incisi da Cort, caratterizzati da un impianto compositivo
monumentale in verticale e da una compressione verso il primo piano: orizzonte alto, repoussoirs
rialzati e scansione a forti dislivelli con quegli effetti di montagne impervie, forre e precipizi, rocce
aguzze, vegetazione folta ammirati anche dai fiamminghi, e le solari vedute panoramiche dipinte Villa
d’Este a lui riferite.
Giovanna Sapori
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I giardini di Giovanni Maggi
Insieme a Giacomo Lauro uno degli incisori di
vedute di Roma, di paesaggi e vedute di fantasia è
Giovanni Maggi, una figura finora poco studiata.
Incisore attivo sin dal 1595 per i maggiori stampatori, editori e commercianti di stampe del Seicento,
tra le sue prime opere sono da ricordare la serie dei
paesaggi (1595-1601) e quella più ricca dei giardini
(1601). Entrambi questi generi sono stati un’occasione per riflettere sull’importanza delle incisioni per la
Fig. 1 – G. Maggi, Veduta di un giardino, incisione, Roma,
diffusione di motivi e sul loro impiego nel lavoro pit- Biblioteca Nazionale Centrale
torico anche in diverse combinazioni. È nota infatti
la presenza nei cicli di motivi tratti dalle incisioni di Hieronymus Cock, Etienne Dupérac o i Sadeler. Per
il periodo che più ci interessa è importante considerare il grande successo dei disegni di Mattheijs e Paul
Bril e le incisioni che ne furono tratte prima di tutto da Antonio Tempesta. Questi collaborò come pittore
con Paul Bril e successivamente svolse un’autonoma attività di paesaggista.
Le incisioni di Giovanni Maggi che compongono la serie dei giardini, furono da lui disegnate ed incise
a bulino nel 1601. Tuttavia, non compaiono nei noti repertori di Nagler, Le Blanc né di Ehrle del 1915.
L’unico esemplare completo da me ritrovato a Roma è quello della Biblioteca Nazionale Centrale. Sia
questa serie che quella di collezione privata esaminata da Giorgetta sono privi di frontespizio e si compongono di dieci pezzi. Si tratta di un documento figurativo significativo nella storia del giardino poiché
fissa all’inizio del Seicento la prima rappresentazione a stampa di giardini in Italia, al contrario diffusa in
Europa già nel secolo precedente. Giovanni Maggi incide vedute di giardini, piazze e viali, ritratti dal vero
e/o d’invenzione, nelle quali il ruolo più importante viene dato alla rappresentazione del giardino (fig. 1).
Archi di verzura, vasche d’acqua o forse peschiere, e aiuole dalla partitura geometrica sono resi con un’attenzione al dettaglio che possiamo riscontrare solo nelle incisioni di paesaggio dello stesso Maggi. Meno
attenzione viene data invece alle ville, rappresentate solo in parte o usate come punto di fuga prospettico, e
ai personaggi, questi ultimi delineati attraverso l’utilizzo di poche linee di contorno e intenti a passeggiare
all’interno del giardino o a rilassarsi all’ombra di un gazebo “ante litteram”.
La mia ricerca è rivolta ad individuare e studiare i rapporti fra i giardini di Maggi e lo sviluppo dei modi
di rappresentazione dei giardini in pittura a Roma come ad esempio dagli affreschi di Villa d’Este a Tivoli
a quelli di Villa Mills al Palatino (derivanti da Tempesta). Più in generale mi propongo di precisarne i
modelli sia in ambito nord-europeo, ad esempio con l’opera di Vredeman de Vries edita nel 1583, sia in
ambito veneto, ma sempre di origine nordica, come quelle di Bordon e di Pozzoserrato.
È da sottolineare che solo una delle incisioni della serie reca in basso al centro il nome dell’editore
e commerciante di stampe Giovanni Orlandi, seguita dall’anno di edizione 1602, mentre le altre
presentano solo l’iscrizione con il nome di Giovanni Maggi e l’anno di esecuzione. A mio avviso, la
committenza della serie si potrebbe far risalire alla collaborazione, già a partire dal 1599-1600, tra
il Maggi e la famiglia Vaccari cioè i maggiori editori in quegli anni a Roma. È certo, infatti, che la
serie era in vendita almeno fino al 1614 nella bottega in Banchi alla Zecca vecchia poiché il catalogo
Vaccari (Indice e nota particolare di tutte le stampe di rame che si ritrovano al presente nella Stamperia
di Andrea e Michel’Angelo Vaccari in Roma…), registra “Vn libro di diece pezzi di Giardini diuersi,
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itagliati da Gio: Maggio”. Probabilmente l’Orlandi, che collaborò con il Maggi almeno fino al 1609,
ebbe occasione di stampare una sola tavola dei giardini, nello stesso anno in cui pubblicò anche il
Paesaggio con la cena in Emmaus di Maggi.
Ludovica Tiberti
BIBLIOGRAFIA
F. EHRLE, Roma al tempo di Urbano VIII: la pianta di Roma Maggi Maupin Losi del 1625 riprodotta da uno dei
due esemplari completi finora conosciuti, Roma 1915.
K. OBERHUBER, Hieronymus Cock, Battista Pittoni und Paolo Veronese in Maser, in Munuscula Discipulorum:
Festschrift fur Hans Kaufmann zum 70. Geburtstag, Berlin 1968, pp. 207-224.
J. BURGERS, In de Vier Winden. De prentuitgeverij van Hieronymus Cock 1507/10-1570, catalogo della mostra,
Rotterdam 1988.
H. ZERNER, L’art de la Renaissance en France. L’invention du classicisme, Paris 1996.
Il Rinascimento a Venezia e la pittura del Nord ai temi di Bellini, Dürer, Tiziano, a cura di B. Aikema e B. L.
Brown, catalogo della mostra Venezia, Milano 1999.
P. PICARDI, Gli affreschi del palazzo di Paolo III al Campidoglio: un salvataggio anomalo, in «Paragone», 55
(2004), pp. 3-26.
F. CAPPELLETTI, Paul Bril e la pittura di paesaggio a Roma, 1580-1630, Roma 2006.
S. BALLESI, Una famiglia di stampatori a Roma fra Cinque e Seicento: i Vaccari, in Il mercato delle stampe a Roma
(XVI-XIX secolo), a cura di G. Sapori, con la collaborazione di S. Amadio, Foligno 2008, pp. 57-85.
P. TOSINI, Girolamo Muziano 1532-1592. Dalla maniera alla natura, Roma 2008.
E. LURIN, Un homme entre deux mondes: Etienne Dupérac, peintres, graveur, architecte en Italie et en France
(c.1535?-1604)in Renaissance en France. Renaissance française?, a cura di H. Zerner e M. Bayard, Paris 2009,
pp. 37-59.
F. GIORGETTA, Hortus librorum liber hortorum: l’idea del giardino dal XV al XX secolo attraverso le fonti a stampa,
Milano 2010, vol. I, pp.173-177.
G. SAPORI, Paesaggio e cuir découpé nel fregio attorno alla metà de Cinquecento, in Il fregio dipinto nelle decorazioni
romane del Cinquecento, atti del convegno, Roma, in c.d.s.
Una famiglia di scultori, fonditori e mercanti di antichità: i Rondoni-Spagna
Non è certo ignota agli studiosi l’esistenza di nuclei familiari allargati che svolgono lo stesso mestiere.
Non solo sono da ricordare le reti parentali, certamente più celebri, dei pittori napoletani, ma certamente
le estese parentele di architetti, scultori e scalpellini lombardi, sulla cui galassia la bibliografia è nutrita,
soprattutto grazie agli studi recenti di Margherita Fratarcangeli di cui abbiamo tenuto il debito conto, sono
state osservate piuttosto come un fenomeno sociale e nella loro globalità, eccezion fatta per i più noti come
ad esempio i Della Porta.
Ricordava S. Pressouyre, nel suo scritto su François Duquesnoy dell’ormai lontano 1984, che
mancava, e a quanto pare ancora oggi manca, uno studio complessivo sulla famiglia allargata di fonditori Torrigiani-Censore a cui si debbono molte importanti opere bronzee della capitale tra la fine
del Cinquecento ed il pieno Seicento.
J. Montague, ne La scultura barocca romana (MONTAGUE 1991: 77), illustra le ragioni della scarsa attenzione data dagli studi ai numerosissimi scultori di secondo piano del XVII secolo, e di conseguenza anche ai
molti gruppi familiari di scultori che quasi mai accedono all’eccellenza stilistica e formale: «Secondo la teoria
artistica tradizionale Pittura, Scultura e Architettura sono tre sorelle nate dal Disegno, inteso sia in senso
tecnico sia come invenzione. Questo in teoria, ma nella pratica solo pochi scultori erano in grado di tracciare
sulla carta le proprie idee; questa incapacità non impediva loro di dar forma alle proprie invenzioni con la
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terracotta, o perfino, con disegni decisamente brutti: più spesso però, questo equivaleva all’accontentarsi di
realizzare disegni dati da altri artisti, pittori, architetti o […] da scultori dotati di maggiore inventiva. Non
è sorprendente che tale rapporto di dipendenza provochi un senso di scoraggiamento in chi voglia studiare
monograficamente un artista non di primo piano, poiché tali scultori non possono né debbono essere
considerati individualmente, ma vanno inquadrati come membri di un contesto artistico più ampio e in
rapporto a coloro che in ultima analisi erano i responsabili del progetto che essi si impegnano ad eseguire».
Non mi sono scoraggiata però di fronte a questa affermazione. È indubbio che l’analisi della produzione di scultori meno dotati e dipendenti dalla altrui progettazione, rende il problema attributivo molto
arduo da dipanare, ma non si può ignorare, né trascurare, che a loro si deve buona parte della realizzazione
dell’aspetto della decorazione pubblica e privata di Roma. La dipendenza dal progetto altrui è reale, sarebbe
ingenuo ignorarla, lo stesso vale per la non sempre ineccepibile qualità di esecuzione, ma per quale ragione
lasciarli in un limbo di indeterminatezza il cui massimo di acribia è la citazione del nome? Credo che a
questa parte di abile manualità si debba dare il contributo che merita.
Se dalla mancanza di autonomia inventiva dobbiamo inferire una assenza di commissioni di primaria
importanza, questa asserzione viene smentita, almeno nel caso della famiglia di cui abbiamo deciso di
occuparci e di cui abbiamo già dato un’iniziale informazione in due brevi saggi.
Occorre premettere che il capostipite della famiglia Rondoni è Alessandro, dapprima indicato nei
documenti come scalpellino e dopo brevissimo tempo, e per sempre come scultore, proviene da Como
dove nacque con ogni probabilità nel 1562 da Tommaso anch’egli scultore. È dunque parte di quell’onda
migratoria di lavoratori del marmo che dalle rive del Lario, dalle valli intorno a Lugano, dalla Val d’Intelvi
– sulle orme dei medievali Maestri Comacini – calavano nel centro Italia, dopo aver fatto tappa a Genova.
Roma era naturalmente la meta più ambita, soprattutto al finire del XVI secolo quando grandi imprese
urbanistiche e di arredo urbano erano in essere grazie ai pontificati di Sisto V e di Clemente VIII.
Allo scultore Alessandro Rondoni, morto a Roma nel 1634, si possono riferire solo due contributi
bibliografici specifici precedenti i nostri studi, oltre alle voci in alcuni repertori (Thieme Becker, Riccoboni,
Bacchi). Nel 2002 quello di C. M. Clifford Brown (CLIFFORD BROWN 2002) che rende noti i rapporti
intercorsi tra il Duca di Mantova Ferdinando Gonzaga e A. R. in qualità di mercante di antichità nonché
di suo figlio Francesco Rondoni che risiedette, in giovanissima età, presso la corte come restauratore. Il
saggio si basa sulla corrispondenza, in parte già resa nota da Antonino Bertolotti sul finire dell’Ottocento
(BERTOLOTTI 1885), tra il Granduca e il Rondoni Sr.
Il secondo contributo scientifico, più recente, di Loredana Lorizzo del 2009, indaga l’attività di
Alessandro Rondoni come mercante e restauratore del cardinale Ippolito Aldobrandini Jr. sulla base di
un documento notarile di vendita di statue antiche che anche noi pubblicavamo contemporaneamente.
Nel 1989, invece, Gino Corti (CORTI 1989), analizzava la committenza fiorentina a Roma tra 1610 e
1620 rendendo note le carte dell’ambasciatore Piero Guicciardini nelle quali compare più volte il nome di
Alessandro Rondoni in qualità di mercante e di restauratore.
Siamo partiti da questa scarna bibliografia e dai repertori, nonché dalle sempre utilissime schede di
Friedrich Noack, per affrontare l’arduo compito. Arduo anche perché regnava, e regna in parte ancora, una
relativa confusione fra la produzione ed il ruolo artistico di Alessandro sr. e quello dell’omonimo nipote
Alessandro jr. Del tutto trascurata è la figura di Francesco Rondoni così come quella di Giacomo e Carlo
Spagna come vedremo tra poco.
Considerata la totale inesistenza di riferimenti bibliografici nei saggi citati, si è affrontato il problema
con il metodo più agevole: una ricerca in rete, dalla quale sono scaturite le prime indicazioni interessanti
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cui sono seguite ricerche bibliografiche più approfondite che hanno dato come risultato primario oltre
una sessantina di riferimenti bibliografici sui vari componenti della famiglia. È da sottolineare che è
una bibliografia di seconda battuta, poiché si riferisce immediatamente al collezionismo di antichità.
Parallelamente si conduceva da parte nostra, oltre allo spoglio di vari documenti notarili presso
l’Archivio di Stato, una approfondita ricerca nell’Archivio Storico del Vicariato di Roma che ci ha
consentito di ricostruire per intero – ma la ricerca non è definitivamente conclusa – l’albero genealogico della famiglia Rondoni – Spagna, nonché di precisare date di nascita, di matrimoni e di morte
del tutto ignote dei componenti della famiglia, seguendone anche lo sviluppo economico e sociale.
La bibliografia, che ribadiamo nasconde il nome dei Rondoni e degli Spagna nelle note al testo, ci ha
permesso di redigere un rudimentale ma utile repertorio dei lavori cui presero parte o che effettuarono in
prima persona, cioè come autori presumibilmente del “progetto”.
ALBERO GENEALOGICO
Dall’albero genealogico che abbiamo ricostruito possiamo dedurre che, da un punto di vista esclusivamente sociale, il mestiere veniva tramandato di padre in figlio. Alessandro senior, il capostipite
di una famiglia mescidata tra lombardi e umbri per risolversi in un nucleo perfettamente assimilato
al tessuto romano, proveniva da Como; figlio di padre scultore (Tommaso, di cui non è noto nulla,
almeno dalle nostre ricerche) dapprima si imparenta con uno scalpellino di Narni, Giacomo Spagna,
a cui dà in moglie la propria primogenita Lucrezia, poi insegna il mestiere all’ultimogenito, unico
figlio maschio, Francesco.
Dall’unione di Lucrezia e Giacomo Spagna, ricca di figlie femmine, il terzogenito Carlo, anch’egli unico maschio, viene avviato alla professione probabilmente per un breve tempo dal padre, che
muore nel 1626, quando il figlio era solo tredicenne, e poi dallo zio Francesco e forse anche dal
nonno Alessandro.
Francesco, anch’egli unico figlio maschio di una progenie femminile di Alessandro, viene rapidamente inserito nella “azienda di famiglia”. Dal matrimonio tardivo di Francesco nasce Alessandro Jr.,
anch’egli avviato alla professione di scultore.
L’accorta primogenita di Alessandro, Lucrezia, rimasta prematuramente vedova e con molti figli a
carico, non solo continua la proficua attività di mercante d’antichità in cui si erano distinti sia il padre
sia il marito, ma procura che una delle figlie, Maddalena, sposi lo scultore Lorenese Claudio Adam
Brefort, così che la impresa di famiglia prosegua nella sua attività fondendosi con quella del proprio
figlio maschio Carlo Spagna, sulla cui imprecisa data di morte sto indagando.
Se la carriera dei maschi di famiglia segue consolidate prassi, meno usuale è la figura di Lucrezia
Rondoni che, con piglio manageriale, continua l’attività del marito defunto, come mercante di antichità e alla quale intendiamo riservare un’attenzione particolare. Non siamo in grado di determinare
se sia un’eccezione nel panorama dell’attività femminile, ma certo non è donna usuale.
L’articolato nucleo familiare ha un mercato imponente sia di vendita sia di restauro di antichità e
di realizzazioni scultoree in proprio.
Rapidamente scorrendo le commissioni di cui furono incaricati i vari componenti della famiglia
e che coprono un arco temporale che va dal 1590 c. al primo decennio del XVIII secolo, si nota
che svolsero un ruolo tutt’altro che secondario sia nel collezionismo di antichità e del loro restauro
sia nella realizzazione di opere autonome per le più importanti famiglie e imprese pubbliche e
private di Roma.
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A costo di essere pedanti citiamo:
ALESSANDRO SR.:
Alessandro Peretti Montalto
Altemps
Scipione Borghese
Ludovico Ludovisi
Asdrubale Mattei
Rodolfo Pio da Carpi
Ippolito Aldobrandini jr.
Ferdinando Gonzaga
Granduca di Toscana (Ferdinando de’ Medici)
Maurizio di Savoia
Lancellotti
FRANCESCO RONDONI
Famiglia Aldobrandini
Odoardo Farnese
Famiglia Barberini
Bernardino Spada
Certosa di S. Martino (conclude il lavoro iniziato da Cosimo Fanzago Æ da attribuirsi probabilmente
al figlio)
Michele Peretti
Camera Pontificia
Familia Massimo
Giulio Mazzarino
ALESSANDRO RONDONI JR.
S. Maria in Traspontina
Cappella Altieri in S. Maria in Campitelli
Famiglia Ginetti
Busti di Raffaello e di Annibale Carracci al Pantheon
Famiglia Altieri
Don Livio Odescalchi
Marchese del Carpio
S. Maria in Montesanto
Filippo V (o per il vicerè di Napoli Marchese del Carpio)
Famiglia Corsini
Giacomo Spagna
Alessandro Peretti Montalto
S. Agnese fuori le mura
Palazzo Montalto a S. Lorenzo in Lucina
Torre in Pietra
Bernini
Maurizio di Savoia (?)
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Camera Apostolica
Emanuele Pio di Savoia a Villa Rivaldi
Cappella della Vergine nella Chiesa dell’Annunziata a Sulmona (la famiglia Ginetti probabilmente
viene da Sulmona)
CARLO SPAGNA
Marino, collegiata di S. Barnaba
Bologna, altare per la chiesa di S. Barnaba, progetto di Bernini
Cappella Spada, S. Girolamo della carità, progetto di Borromini
Palazzo Carpegna
Altare maggiore di S. Andrea della Valle
Cappelle di S. Pietro e di S. Paolo in S. Agostino
Altare maggiore della chiesa dell’Umiltà, datato dalla critica al 1620, in tal caso andrà assegnato
ad Alessandro Rondoni (?) o converrà rivedere i documenti, qualora esistano.
Busti dei cardinali Cornaro, de Vives, Savenier, Antonio Barberini, Galamini e Roberto Bellarmino
nella chiesa dei re Magi di propaganda fide.
Su questo artista insiste un equivoco, o almeno a noi sembra. Non fa parte della celebre famiglia di
argentieri “Spagna” a cui si debbono riferire alcuni tra i migliori pezzi del XVII secolo. È però spesso menzionato nella bibliografia un “Carlo Spagna argentiere” che riteniamo semplicemente omonimo del nostro.
Particolare interesse riveste la figura di Francesco Rondoni che, a differenza del padre cui fu rifiutata la associazione alla Congregazione dei Virtuosi al Pantheon per essere «persona tanto licentiosa»,
nonostante la presentazione da parte del pittore Giovanni Guerra artifex della propaganda sistina
e amico dello scultore dai tempi della comune partecipazione alle imprese di Alessandro Peretti
Montalto, appartenne dal 1624 almeno fino al 1633 all’Accademia di San Luca nella quale riveste per
un paio di volte il ruolo di “festarolo” (abbiamo visto, al momento, soltanto i documenti reperibili
on line sul sito dell’Archivio dello Stato di Roma).
Fornite queste generali informazioni sulla famiglia occorre affrontare l’argomento più arduo: la
collazione delle opere a ciascuno pertinenti. Non è impresa facile soprattutto per quanto riguarda i
lavori di restauro. Ci vengono però in aiuto gli studi sulle collezioni di antichità.
Si tratta di lavorare su una estesa mole di bibliografia, nella quale i nomi degli autori di nostro
interesse sono per la maggior parte delle volte nascosti nelle note. Da questa prima rassegna si dovrà
poi passare a vagliare i fondi archivistici, spesso già studiati ma con un punto di vista diverso dal
nostro, volto sulla collezione e sul suo proprietario.
Occorrerà poi cercare di rintracciare le poche opere autonome citate dai documenti, qualora ciò
sia ancora possibile, e capire se, sulla base delle caratteristiche stilistiche evidenziate, se ne possano
aggiungere altre che sono disperse fra le anonime.
La questione finale è se valga la pena di affrontare questo impegnativo compito. Ritengo personalmente che ogni frammento che serva a ricomporre il quadro della cultura di un particolare
momento sia degno della massima considerazione, a maggior ragione quando, come nel nostro caso,
l’anonimato in cui sono caduti i membri delle due famiglie cela invece una fitta rete di importanti
rapporti con raffinati collezionisti.
Fiorenza Rangoni
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BIBLIOGRAFIA
A. BERTOLOTTI, Artisti in relazione coi Gonzaga Signori di Mantova, Modena 1885.
C.M. CLIFFORD BROWN, Alessandro Rondone scultore al servizio del Cardinale Duca Ferdinando Gonzaga, in
«Civiltà Mantovana», XXXVII/144 (2002), pp. 64-78.
G. CORTI, Il “Registro de’ mandati” dell’ambasciatore Granducale Piero Guicciardini e la committenza artistica
fiorentina a Roma nel secondo decennio del Seicento, in «Paragone», XL/473 (1989), pp. 109-146.
J. MONTAGUE, La scultura barocca romana, Torino 1991.
Conseguenze di un viaggio di Annibale Carracci nel 1602
Nel catalogo delle opere eseguite da Annibale Carracci durante il lungo soggiorno romano spicca un gruppo di dipinti contraddistinti da una tavolozza vivace, un colorito intenso, una condotta
pittorica libera e fluida che non si riscontrano solitamente in questa fase della maturità dall’artista.
Si tratta di opere riconducibili tutte al 1602-1603: l’Assunta per la cappella Cerasi di Santa Maria
del Popolo, la Venere dormiente di Chantilly, il perduto San Gregorio per la chiesa di San Gregorio
al Celio, la Fuga in Egitto per la cappella del palazzo di Pietro Aldobrandini, il Ritratto di Giovanni
Battista Agucchi della City Art Gallery di York. Così distante dalla reazione al soggiorno a Venezia
che Annibale aveva avuto nella seconda metà degli anni Ottanta del Cinquecento, questo improvviso
irrompere di accenti veneti e lombardi nel cuore di una stagione dominata dalla risposta alle opere
viste a Roma, a Michelangelo, a Raffaello, alla statuaria antica, resta apparentemente inspiegata:
tanto più che ancora oggi ci si ostina a definire quella fase della maturità con la denominazione di
“ideale classico”, intendendola appunto come una definitiva presa di distanza dai modelli del colorito
veneto e lombardo di Tiziano, Veronese, Correggio in nome di un’adesione indiscriminata al disegno
romano e a Raffaello.
Viceversa, come indicano i dati dello stile e le voci delle fonti più prossime, a partire dal trattato
dell’amico e sostenitore Giovanni Battista Agucchi, il percorso dell’Annibale maturo fu dominato
dall’obiettivo di «congiugnere insieme Disegno romano e Colorito lombardo»: dall’intento cioè di
coniugare tradizioni pittoriche diverse, e percepite ormai alla seconda metà del Cinquecento come
contrapposte, in piena coerenza con le ricerche parallele del fratello Agostino e del cugino Ludovico.
A partire dagli anni Ottanta la creazione dell’Accademia degli Incamminati aveva incarnato il progetto carraccesco di rispondere alla decadenza del tardo-manierismo coniando un linguaggio pittorico
fondato sul ritorno allo studio dal vero e appunto sulla combinazione di accenti regionali diversi,
ovvero sull’unione della componente veneziana, toscana, lombarda, romana, secondo quanto registrato, oltre che dai numerosi passi della Felsina Pittrice di Malvasia, anche da un testo precocissimo
come l’orazione funebre di Agostino pronunciata da Lucio Faberio nel 1603. È un programma che
anche negli anni successivi si svolge secondo tappe per nulla teoriche, ma rispondenti ogni volta a
concrete occasioni di studio: ed è appunto ad una di queste che oggi possiamo ricondurre anche il
repentino accendersi di note neovenete nel citato gruppo di opere databili al 1602-1603, nel corso
delle riflessioni su Michelangelo, su Raffaello, sulle statue antiche svolte da Annibale a Roma.
Databile con certezza alla primavera del 1602 è riemerso infatti, dalle pieghe del ricchissimo testo
di Malvasia, un viaggio a Venezia compiuto da Annibale con Ludovico nel corso dei mesi trascorsi
via da Roma all’indomani della morte del fratello, come indicato dalle fonti: ed è appunto a questa occasione che si devono ricondurre l’emergere di accenti neotizianeschi che Bellori coglieva nel
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San Gregorio e la critica più avvertita segnalava, pur senza poterli spiegare, negli studi grafici per la
parte bassa della pala Cerasi, le riprese dai paesaggi di Giorgione e Campagnola nei numerosi studi
a penna eseguiti da Annibale in questi anni tardi e i debiti nei confronti di quella tradizione che già
nel Seicento i conoscitori individuavano nei suoi paesaggi a partire dalle lunette Aldobrandini.
Agostino Carracci era morto a Parma nel febbraio del 1602: e a Parma Annibale si recò subito
dopo, rientrando a Roma solo alla fine di maggio con Ludovico, che lo aveva accompagnato poco
prima nel viaggio a Venezia. Anche questo nuovo passaggio parmense mostra di aver lasciato un
segno: le opere riviste in questa occasione si leggono in controluce nei dipinti eseguiti al ritorno a
Roma, che anche su questa base si possono scalare in una probabile sequenza.
In particolare la serie delle Pietà, composta dalle cosiddette Tre Marie della National Gallery di
Londra, dalla Pietà di Capodimonte, dalla Pietà di San Francesco a Ripa e dal piccolo rame di Vienna
con lo stesso soggetto – opere di cui non conosciamo una datazione certa – può essere ordinata a
partire dalle Tre Marie della National Gallery, che sono un dipinto ancora intimamente debitore del
modello della Pietà di Correggio, rivista da Annibale nella cappella Del Bono della chiesa parmense
di San Giovanni Evangelista, e dunque plausibilmente da collocarsi nel 1603. Subito dopo Annibale
deve avere messo a punto le prime idee per la Pietà di Capodimonte, che sappiamo proveniente
da palazzo Farnese ma di cui non si conosce l’originaria collocazione: i disegni di Windsor che
registrano questa prima fase mostrano infatti ancora un rapporto stretto con il modello della Pietà
Del Bono, laddove il quadro finito, lasciatosi ormai del tutto alle spalle la suggestione correggesca,
appare senz’altro da datarsi dopo il 1602 per l’intensità cromatica e la fluidità dell’esecuzione, e per
il rapporto strettissimo con la Deposizione di Caravaggio per la Vallicella, un dipinto di cui non si
conosce la datazione precisa ma che deve collocarsi tra il gennaio 1602, quando sono in atto lavori
sull’altare, e il settembre 1604, quando al nipote del committente viene restituito il quadro che la
pala di Caravaggio aveva sostituito. Con una probabile datazione nel 1603, il quadro di Caravaggio
costituisce un ante quem della pala di Annibale, che potrebbe essere stata eseguita tra il 1603 e il
1604, come già si suggeriva Denis Mahon.
Scarsamente considerato dalla critica e invece essenziale per ricostruire gli scambi di questi anni
tra Annibale e Caravaggio, il nesso tra la Deposizione Vittrice e la pala di Capodimonte va infatti
inteso senza dubbio nel senso di una risposta del primo alle invenzioni tanto più audaci del secondo,
che in questo caso devono aver spinto Annibale a confrontarsi sul terreno della sfida aperta con la
scultura e in particolare con la Pietà di Michelangelo.
Silvia Ginzburg
BIBLIOGRAFIA
M. CINOTTI, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, Bergamo 1983, pp. 493-496, n. 46.
K. GANZ, in The Drawings of Annibale Carracci, a cura di D. Benati e D. De Grazia, catalogo della mostra,
Washington 1999, n. 73.
S. GINZBURG, in Annibale Carracci, a cura di D. Benati e E. Riccomini, catalogo della mostra, Milano 2006,
nn. VIII.7, 8 e 17.
C. C. MALVASIA, Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi (Bologna 1678), edizione a cura di G. Zanotti, 2 voll.,
Bologna 1841.
Mostra dei Carracci: disegni, catalogo critico, a cura di D. Mahon, catalogo della mostra, Bologna 1956, p. 94, n. 123.
R. WITTKOWER, Drawings of the Carracci in the Collections of Her Majesty the Queen at Windsor Castle, London
1952, p. 147, n. 357 e tav. 75.
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Pittori e Virtuosi attraverso i disegni di Ottavio Leoni
Ottavio Leoni, detto il Padovano, va certamente annoverato tra
i grandi disegnatori italiani del XVII secolo. Figlio d’arte, poiché il
padre Ludovico fu medaglista e ceroplasta di grido, prima a Padova e
poi nella Roma di Gregorio XIII e Clemente VIII, nacque nel 1578
e fin da giovanissimo fu educato alla pratica del disegno, divenendone maestro nella Roma dei primi decenni del XVII secolo, e specializzandosi nel genere del Ritratto, tanto che, secondo Giovanni
Baglione, fonte di prima mano poiché ebbe modo di conoscere
personalmente l’artista: «ritrasse non solo li sommi Pontefici dei suoi
tempi, ma li Principi cardinali, e Signori titolati, e d’ogn’altra qualità pur che famosi fussero, sì religiosi come secolari, in diversi tempi».
Questa abbondante produzione ha singolari tangenze con le gallerie
dei Ritratti cinquecenteschi, di cui il padre fu protagonista, come sta Fig. 1 – Ottavio Leoni, Autoritratto
(Firenze Biblioteca Marucelliana)
emergendo da altri nostri studi in corso di pubblicazione, ma più ancora
con i moderni database di agenzie fotografiche, dal momento che l’artista, da un certo momento in poi,
scelse di numerare i propri Ritratti, datandoli ad mensem.
Si è scelto di concentrare l’attenzione su uno dei vertici della ritrattistica del Leoni: il codice H
conservato presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze. Su questo importante volume, tra i più noti
nella storia del disegno italiano, esiste un solo contributo monografico di Kruft, che risale al 1969 e
un affondo nel volume di Bernardina Sani. In entrambi i casi si è cercato di collocare stilisticamente
i singoli disegni all’interno del percorso di Ottavio, di ricostruire la biografia dei protagonisti del
volume, ma non ci si è occupati della committenza dell’album, del suo assemblaggio e della sua destinazione. Anzi, a questo proposito la critica ha sempre genericamente supposto che i disegni siano stati
montati insieme dopo la morte di Ottavio da un ignoto collezionista, probabilmente nella seconda
metà del XVII secolo. Molti interrogativi rimanevano dunque aperti anche su un pezzo centrale della
storia del disegno italiano e spero con questo lavoro di aver dato un piccolo contributo a sciogliere
alcuni di questi quesiti.
«Ottavio Leoni Romano detto il Padovanino della cui mano sono questi ritratti de virtuosi illustri
del suo tempo»: recita così la rubrica che correda ad indicem l’Autoritratto di spalle, a suggello della
serie di ventisette meravigliosi ritratti à trois crayons tutti di mano del Padovanino, che, rilegati insieme,
costituiscono come si diceva un volume di straordinario interesse.
Di spalle, ammiccante, l’artista si raffigura in una posa inconsueta: mentre si volta verso lo spettatore,
distogliendo gli occhi da un foglio che tiene in mano, forse un lavoro in fieri.
Molto diversa è questa immagine familiare, allusiva, quasi colloquiale, da quella ufficiale dell’Autoritratto che apre il medesimo volume, e che intende annoverare il Leoni tra i Pittori virtuosi del
suo tempo. Nell’Autoritratto di spalle invece non c’è retorica, sembra piuttosto di essere in presenza
di una firma, una vera e propria quarta di copertina con foto dell’autore, da far invidia ai best sellers
americani del secondo millennio. In questo senso ci aspetteremmo un fuori testo, invece il disegno si
pone a chiusura della serie di ritratti dei Poeti, come se Ottavio ne facesse parte.
Va innanzitutto detto che l’intero album sembra nascere da un progetto unitario e si presenta come
un’operazione editoriale in grande stile, come chiaramente suggerisce l’indice posto a chiusura del
55
volume, dove sono elencati i nomi dei protagonisti dei ritratti di per sé anonimi, suddivisi in quattro
categorie: pittori, scultori, matematici e poeti, e denominati “Virtuosi illustri”, come si diceva poc’anzi.
All’inizio di ciascuna arte inoltre la numerazione riparte dal principio. La grafia dell’indice, certamente seicentesca, appartiene con ogni evidenza ad un calligrafo, che trascrive da un elenco redatto
da chi ha assemblato il volume, come testimoniano alcuni errori riscontrati nella trascrizione.
Sembra inoltre significativo il fatto che i nomi degli effigiati vengano elencati in calce al volume, e
non apposti ciascuno ai margini del ritratto, o sul retro, come sovente avviene nei fogli sciolti di Ottavio.
Insomma, tutto sembra indicare che l’album è frutto di un preciso progetto. Già, ma quale? E di chi?
Fortunatamente uno degli ultimi fogli del volume riporta una bellissima filigrana, che ci aiuta
a far luce sulla data dell’album, consentendo di stabilire una cronologia molto alta per l’assemblaggio. Si tratta di un santo nimbato inginocchiato, recante una croce entro uno scudo. Ora, mi pare
di grandissimo interesse notare come la filigrana che affiora sul foglio dell’album della Biblioteca
Marucelliana compaia identica sulla carta dove è stampata un’incisione della prima edizione della
Galleria Giustiniana. Ci troviamo dunque a Roma intorno al 1630-1631, e nel medesimo ambiente
in cui visse e operò Ottavio Leoni, che scomparve proprio nel 1630.
Intorno a quest’epoca dovrebbe risalire anche il montaggio dei fogli nel volume che raccoglie i
disegni di Ottavio, che non può appartenere a un momento né troppo precedente né troppo successivo. L’assemblaggio dovrebbe essere avvenuto dunque quando l’artista era ancora in vita, o comunque
nell’arco di circa quindici anni dalla sua scomparsa; un’indicazione di primaria importanza poiché,
se anche non possiamo stabilire con certezza che l’album venne messo insieme dallo stesso Leoni, mi
pare evidente che il progetto vada assegnato ad una persona profondamente legata ad Ottavio.
Chi altri avrebbe avuto interesse a sottolineare così smaccatamente la paternità dei disegni da mettere
ben due Autoritratti dell’artista ad apertura e chiusura del volume? La fama e il consenso riscosso dal
Leoni nella Roma del tempo dovevano certamente essere internazionali, come testimoniano le ammirate
parole del suo biografo Giovanni Baglione (1642), tuttavia è difficile credere che un qualsiasi collezionista
avrebbe sottolineato il nome del Padovanino con tanta enfasi da mettere in rapporto i Virtuosi con la
biografia del pittore, come sembra indicare la citata legenda dell’indice, non abbiamo infatti nessun dato
che lasci ipotizzare che le opere di Ottavio, belle o brutte, si acquistassero all’epoca a gran prezzo per il
solo fatto di essere da lui eseguite, come invece era accaduto, per lo meno ad apertura di secolo, per
l’amico Caravaggio.
Sembra invece più plausibile che il progetto dell’album risalisse allo
stesso Padovanino, e che, se anche non fu lui a realizzarlo in prima persona, alla sua morte passasse nelle mani del figlio Ippolito al quale l’artista
aveva lasciato i «rami intagliati dei Pittori e Poeti».
Una volta chiarito l’ideatore del progetto, e cioè lo stesso Leoni, è
bene tentare di comprendere la sua destinazione. Una verifica con le quaranta lastre incise da Ottavio, oggi conservate alla Calcografia Nazionale,
può essere utile per capire se fosse prevista la pubblicazione a stampa del
volume. Di fatto solo alcuni dei 27 personaggi raccolti nell’album conoscono una traduzione grafica e, peraltro, come ha giustamente rilevato la
Fig. 2 – Ottavio Leoni, Ritratto Sani, i disegni non possono considerarsi matrici esatte delle incisioni, dal
di Michelangelo Merisi da
Caravaggio (Firenze, Biblioteca momento che queste non risultano in controparte, stampe e disegni furoMarucelliana)
no dunque realizzati autonomamente. Confrontando disegni e incisioni,
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ci si rende conto che le assenze pesano tanto quanto le presenze. Si avverte ad esempio la mancanza
della traduzione a stampa del Ritratto di Michelangelo Merisi da Caravaggio, che costituisce uno
dei pezzi più belli dei disegni della Marucelliana. Allo stesso modo sembra inspiegabile l’assenza di
Annibale e Agostino Carracci. Ma tra i pittori, Caravaggio e Annibale non sono gli unici a mancare
l’appuntamento con la stampa: accanto all’omissione di questi grandi personaggi, si registra l’assenza
dei ritratti dei pittori che, quantomeno ai nostri occhi, appaiono più strampalati nel contesto dei
Virtuosi di primo Seicento: i malnoti Girolamo Nanni, Domenico Ambrosino. Alla stessa stregua
anche tra i matematici si registra l’assenza di Cristoforo Scheiner, il cui astro tramontò velocemente.
Stando a queste considerazioni, con il senno di poi, e la critica di Giovan Battista Bellori in testa, la
scelta dei ritratti dei pittori destinati alla stampa, e dunque ad una maggior divulgazione, sembrerebbe
criticamente più canonica di quanto non appaia l’album della Marucelliana, sicché ad oggi non mi sembra
che si possa pacificamente affermare che si avesse in mente una pubblicazione del volume in quanto tale,
a meno di non prendere alla lettera il Baglione che narra della prematura morte di Ottavio, intossicato dai
materiali utilizzati per creare le lastre incise, e dunque immaginare il lavoro interrotto sul più bello.
Dal punto di vista della storia della critica dell’arte, la scelta dei Virtuosi appare, come si è accennato, a dir poco singolare. Se Annibale e Agostino Carracci, seguiti da Caravaggio, dal Cavalier
d’Arpino e da Giovanni Baglione, collegano immediatamente il pensiero di chi ha composto questi
fogli a quello di Giovan Battista Agucchi, di Vincenzo Giustiniani e di Giulio Mancini, dunque a
un’egemonia culturale e figurativa che godeva di un riconoscimento universale. Se Antonio Tempesta
e Cristoforo Roncalli rappresentavano due dei pittori più prolifici dell’Urbe nei primi decenni del
Seicento, ci si chiede cosa facciano i poco noti Gerolamo Nanni e il semisconosciuto Domenico
Ambrosini tra cotanto senno. D’altra parte i Ritratti di Simon Vouet e di Guercino raccontano di
un mondo che non è più lo stesso di quello di Caravaggio e dei suoi patroni, cui fanno invece riferimento i pittori elencati.
Analizzando poi gli scultori – il padre di Ottavio, Ludovico Leoni, un giovanissimo Gian Lorenzo
Bernini e Marcello Provenzale, intrinseco di Ottavio, tanto da essere nominato suo esecutore testamentario – è chiaro che siamo al cospetto di un album di famiglia. Questi fogli sembrano dunque
raccontare il mondo di Ottavio, e le scelte culturali che dovevano governarlo.
Spostando l’attenzione sulle date, questo testo viene a collocarsi agli esordi della critica romana del
Seicento, e costituisce un punto di vista straordinariamente autonomo rispetto a quella che oggi ci
aspetteremmo come la scena artistica romana dell’epoca di Ottavio. Invano
si cerca infatti una posizione critica tra quelle della Roma seicentesca a cui il
testo possa far riferimento.
Va innanzitutto tenuto presente che, se si tiene per buono il 1615-1645
come intervallo cronologico per l’assemblaggio dei disegni, i testi relativi alla
storia delle arti figurative a Roma erano davvero limitati. A stampa era apparso soltanto la Pittura trionfante del Gigli, che comunque non uscì a Roma,
ma a Venezia. Il Trattato dell’Agucchi non vide mai la luce, la Lettera sulla
pittura di Vincenzo Giustiniani fu pubblicata per la prima volta nel 1675 e
le Considerazioni sulla pittura di Giulio Mancini, vennero date alle stampe
soltanto a metà del Novecento. L’unico progetto critico in grande scala, dun3 – Ottavio Leoni,
que, era rappresentato dalle Vite del Baglione, composte intorno al 1635, che Fig.
Autoritratto di spalle (Firenze,
uscirono a Roma nel 1642. In ogni caso l’eclettismo delle biografie baglionesche Biblioteca Marucelliana)
57
non sembra rispecchiare il carattere gerarchico rappresentato da questo fiore di Virtuosi, dietro il quale si
cela un pensiero molto personale, maturato all’ombra di una cultura di marca strettamente accademica.
L’album sembra comunque non poter rappresentare gli interessi di nessuna delle maggiori istituzioni
culturali della Roma del tempo.
Scandagliando il terreno, tuttavia, per cercare una possibile chiave di volta della vicenda, un
personaggio è parso particolarmente enigmatico e insolito. Si tratta del gesuita tedesco Christoph
Scheiner (1573-1650), matematico e astronomo legato al Collegio Romano, dove fu docente dal
1624 al 1633. Sotto lo pseudonimo di “Apelles post tabulam”, scrisse tre lettere sulle macchie solari,
che aveva osservato nel marzo del 1610. Nell’inverno del 1611 Scheiner fece giungere la prima delle
tre lettere a Galileo chiedendo il parere dell’astronomo pisano. Il matematico toscano pubblicò le
sue tre lettere sull’argomento a Roma nel 1613, a cura dell’Accademia dei Lincei, di cui nel 1611
era entrato a fare parte. Fino a questo momento i rapporti tra i due matematici erano improntati a
grande stima, soltanto nel 1623 Galileo ebbe a lamentarsi di chi si era appropriato della scoperta dei
fenomeni celesti. Nonostante probabilmente lo scienziato pisano non alludesse a Scheiner, il gesuita,
in quel momento a Roma, docente nel Collegio Romano, se ne ebbe a male, schierandosi contro
l’astronomo nella Rosa Ursina del 1630. La vicenda non fu certamente di aiuto al Galilei, contro le
cui dottrine iniziava tre anni dopo il processo del Santo Uffizio.
Dal nostro punto di vista, la Rosa Ursina costituisce un documento interessantissimo per aprire
uno spiraglio sulle frequentazioni di Ottavio Leoni. Il trattato scientifico, come recita il titolo stesso e
dichiara apertamente la dedica, risulta una smaccata celebrazione di un personaggio eclettico e singolare,
Paolo Giordano Orsini II duca di Bracciano (1591-1646). Amico di letterati, Giovan Battista Marino e
Tommaso Stigliani gli dedicarono versi, egli stesso fu autore di liriche. Amatore d’arte, tra i suoi favoriti
figura Simon Vouet, con il quale entrò anche in rapporto epistolare nel 1621, quando l’artista si trovava a
Genova, il duca di Bracciano si dilettava egli stesso di pittura. Di grande interesse è notare come dall’Isola
d’Elba il 2 luglio 1621, l’Orsini chieda a Roma di inviargli «carta turchina per disegnare e carta grossa
bianca e del gesso […] un’ampolla di vernice et uno fiaschetto di olio di noce». Questi strumenti evocano
immediatamente i ritratti di Ottavio Leoni, che in effetti ritrasse ripetutamente il duca di Bracciano.
Fa parte del gruppo questo notevole foglio, conservato all’Accademia Colombaria, immagine
provocatoria, bizzarra, al limite della caricatura, certamente nata da un pensiero preciso, per la quale
la Sani ha ipotizzato addirittura un’ideazione comune tra Paolo Giordano e Ottavio.
Sembra dunque quello dell’Orsini il mondo che maggiormente il volume vuole illustrare. La storia sin qui narrata – parte del più ampio saggio “Virtuosi illustri del suo tempo”: novità e precisazioni
per Caravaggio, Ottavio Leoni e i volti della Roma caravaggesca, in Caravaggio. Mecenati e pittori, a
cura di M.C. Terzaghi, catalogo della mostra, Cinisello Balsamo 2010, pp. 15-57 – apre così a nuove
ricerche nella direzione della corte degli Orsini.
Maria Cristina Terzaghi
BIBLIOGRAFIA
R. LONGHI, Volti della Roma caravaggesca, in «Paragone», 21, 1951, pp. 35-39.
H.W. KRUFT, Ein Album mit Porträtzeichenungen Ottavio Leonis, in «Storia dell’Arte», 4, 1969, pp. 447-458.
B. SANI, La fatica virtuosa di Ottavio Leoni, Torino 2005.
M.C. TERZAGHI, “Virtuosi illustri del suo tempo”. Novità e precisazioni per Ottavio Leoni, Caravaggio e i volti della
Roma Caravaggesca, in Caravaggio. Mecenati e Pittori, a cura di M.C. Terzaghi, catalogo della mostra, Cinisello
Balsamo 2010, pp. 15-57.
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Pittura del Seicento e del Settecento. Ricerche in Umbria: l’antica diocesi di Perugia
Il programma di ricerca che sono stata incaricata di svolgere nel corso dell’anno accademico 20102011 è finalizzato alla prosecuzione degli studi sulla pittura in Umbria del Seicento e del Settecento,
di cui sono stati pubblicati 4 volumi, rispettivamente nel 1976, nel 1980, nel 2000 e nel 2006, e il
catalogo della mostra Pittura del Seicento. Ricerche in Umbria, nel 1989. In questi volumi sono confluiti i risultati delle ricerche condotte dal gruppo di studiosi composto da Bruno Toscano, Liliana
Barroero, Vittorio Casale, Giorgio Falcidia, Fiorella Pansecchi, Giovanna Sapori, cui si sono aggiunte
in un secondo momento Paola Caretta, Laura Carsillo e la sottoscritta.
L’area geografica oggetto della mia ricerca comprende la città di Perugia e il territorio dell’antica
diocesi. Considerate l’alta densità delle presenze storico-artistiche e la rilevante estensione del territorio, è stato necessario suddividere il lavoro in due parti: la prima, ancora in corso, interessa la città di
Perugia; la seconda, solo in parte avviata, il resto del territorio dell’antica diocesi.
Il Dipartimento al fine di agevolare le ricerche ha voluto avvalersi della collaborazione del Prof.
Francesco Federico Mancini, Direttore del Dipartimento di Scienze Umane e della Formazione
dell’Università degli Studi di Perugia, il quale ha individuato in Francesco Piagnani, dottorando presso il medesimo istituto, il collaboratore al progetto. Il gruppo
di lavoro quindi è formato da Barroero, Metelli, Sapori,
Toscano dell’Università Roma Tre, da Mancini, Piagnani
dell’Università di Perugia e dallo studioso Duccio Marignoli.
Il primo obiettivo che mi sono posta è stato quello di procedere alla ricognizione sistematica di tutte le testimonianze
pittoriche da ascrivere ai due secoli in esame, attraverso un’indagine topografica il più possibile capillare secondo il metodo
già ampiamente definito fin dall’inizio e praticato nel corso delle
ricerche precedenti. A tal fine, preso atto della composita realtà
geografica e storico-amministrativa del territorio, è stato necessario effettuare una serie di verifiche preliminari alla ricerca sul Fig. 1 – Carta della diocesi di Perugia a
partire dal 1600
campo.
Questa fase si è tradotta innanzitutto nella consultazione
delle carte militari IGM (scala 1:25 000); quindi nel reperimento di carte del XVII e XVIII secolo
relative all’intero territorio.
Le carte sono state utilizzate come strumento di supporto nella fase di verifica dei confini
dell’antica diocesi eseguita sia su base bibliografica e documentale sia con il parere di professori
del Dipartimento di Storia dell’Università di Perugia. Dagli studi si evince un dato fondamentale
ai fini della ricostruzione delle dinamiche legate ai confini diocesani, e cioè che nel 1600 con
la creazione della diocesi di Città della Pieve, voluta da Clemente VIII, a Perugia sarà sottratta una significativa porzione di territorio sul versante occidentale, comprendente località come
Castiglione del Lago (fig. 1).
L’esame delle carte antiche, e degli studi relativi, ha consentito anche di stilare un elenco completo dei toponimi delle località del territorio oggetto della mia ricerca, il cui totale si approssima alle
220 unità. Le località sono distribuite in un territorio suddiviso in 15 comuni (Perugia, Castiglione
del Lago, Città di Castello, Corciano, Deruta, Lisciano Niccone, Magione, Marsciano, Panicale,
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Passignano, Piegaro, Torgiano, Tuoro, Umbertide, Valfabbrica).
Contestualmente alla definizione dei confini, ho proceduto al reperimento della bibliografia e
della documentazione esistente relativa alla storia del territorio (MANCINI 1993).
Il progetto è stato presentato quindi alla direzione dell’Ufficio per i Beni culturali ecclesiastici
dell’Arcidiocesi di Perugia-Città della Pieve e alla direzione della Soprintendenza per i Beni storici,
artistici ed etnoantropologici dell’Umbria, con lo scopo di assicurare al gruppo di ricerca la massima
collaborazione e disponibilità da parte delle istituzioni responsabili della gestione, tutela e conservazione del patrimonio artistico del capoluogo e dei territori della provincia.
I rapporti con queste istituzioni hanno consentito di acquisire una buona parte del materiale
catalografico concernente i beni artistici di loro pertinenza.
Partendo da questo materiale ho potuto redigere un elenco dei luoghi (chiese, palazzi, musei) e
preparare una prima bozza di scheda corredata da fotografia delle opere documentate nei singoli edifici, in vista della fase successiva, quella della ricerca sul campo. Questo lavoro ha interessato anche
il territorio della diocesi.
Allo stato attuale delle ricerche (maggio 2011), considerando che l’opera di ricognizione è ancora in corso, il numero dei complessi ecclesiastici in città ammonta ad un totale di 40 unità. Circa
300 sono i reperti ivi conservati (di cui è in corso la schedatura). Da una stima approssimativa, nel
territorio risulta un totale di 82 edifici ecclesiastici recanti 300 reperti. Mentre il numero dei palazzi
e dei musei perugini si aggira intorno alle 30 unità. Per il calcolo dei reperti, si tenga conto che la
decorazione murale o su tela costituente un insieme è stata computata come unità.
Dal materiale bibliografico consultato è emerso che seppur divenuta città di provincia dello
Stato ecclesiastico, Perugia nel Seicento riuscirà a mantenere come centro culturale dello Stato della
Chiesa un ruolo decisivo, dovuto alla presenza della Università e delle accademie. Questo fenomeno
si protrarrà per tutto il XVIII secolo producendo conseguenze anche in ambito strettamente artistico
(SAPORI 2001).
Il caso di Perugia, infatti, è tra quelli in cui si registra la maggiore apertura verso l’esterno, rispetto
al resto dell’Umbria, e una più spiccata inclinazione alla riflessione autonoma e vivace.
In città arrivano opere o artisti dai centri maggiori – come Roma,
Bologna, Urbino, Firenze, Siena – e gli artisti locali recepiscono queste
importazioni o tali presenze anche come stimolo per compiere la propria formazione fuori dai confini provinciali (TOSCANO 1989).
Sintetizzando, si possono individuare due temi conduttori validi sia
per il XVII che per il XVIII secolo: quello relativo alla politica delle
importazioni di opere d’arte e alla presenza di artisti forestieri in città;
e quello concernente la formazione degli artisti perugini nei centri
maggiori fuori regione.
In merito al primo va registrato, per esempio, l’arrivo delle tele
di Federico Barocci, la cui opera eserciterà un’influenza notevole su
pittori perugini di fine XVI e inizio XVII secolo. Guarderanno l’opera
dell’urbinate artisti come Felice Pellegrini, che nel 1593 lascia una
copia della pala di Senigallia nell’Oratorio del Crocifisso, e Vincenzo
Fig. 2 – Giulio Cesare Angeli, S.
Filippo si congeda da S. Giacomo, Pellegrini, fratello di Felice.
Perugia, Oratorio di Sant’Agostino
Circa la tematica relativa agli artisti forestieri in città si segnala la
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presenza dei senesi Francesco Vanni e Ventura Salimbeni, che produrrà un forte impatto per esempio
su pittori come Simeone Ciburri, Benedetto Bandiera e Matteuccio Salvucci.
Più tardi va ricordato l’arrivo delle tele di Guido Reni nella Chiesa Nuova, di Lanfranco in San
Domenico e di Pietro da Cortona in San Filippo. Tra i pittori di tendenza classicista inviano pale
d’altare Giovan Francesco Romanelli e Andrea Sacchi a San Filippo e Giacinto Gimignani e François
Perrier a San Pietro.
Anche negli ultimi tre decenni del secolo si registrano apporti di artisti forestieri operosi in città.
Tra questi spicca il nome del genovese Giovanni Andrea Carlone, dalla cui pittura trarrà ispirazione
Giacinto Boccanera.
Relativamente alla seconda tendenza, che concerne i soggiorni di studio di perugini nei centri
maggiori, si segnalano i casi in cui si evidenzia un particolare interesse per i fiorentini residenti a
Roma o attratti dalle novità romane. Il novero dei perugini è composto da Giulio Cesare Angeli, dal
suo allievo Stefano Amadei, da Anton Maria Fabrizi e da Giovan Francesco Bassotti (fig. 2).
In questo ambito rientrano anche i casi di pittori cortoneschi formatisi a Roma, tra cui compare
il nome del perugino Paolo Gismondi, o di artisti operativi soprattutto fuori dai confini regionali,
come Domenico Cerrini e Luigi Scaramuccia, figlio di Giovanni Antonio.
Nel XVIII secolo, l’unico centro che in Umbria conserva ancora una qualche vitalità è Perugia,
dove l’esistenza dell’Accademia del Disegno e di una personalità eclettica come quella di Baldassarre
Orsini, pittore, architetto e scrittore, favoriscono un vivace dibattito culturale e una notevole fioritura artistica (CASALE 1990). La presenza dell’Accademia contribuisce inoltre a limitare il fenomeno
delle importazioni: tra gli accademici-pittori molto attivi in città e nel territorio si contano Giacinto
Boccanera, Mattia Batini e Giuseppe Laudati.
Gli indiscussi protagonisti del panorama artistico fino oltre la metà del secolo sono i locali
Pietro Carattoli (quadraturista) e Francesco Appiani, perugino il primo, anconetano, ma residente a
Perugia, il secondo, impegnati in importanti progetti decorativi sia in edifici ecclesiastici che gentilizi.
Sullo scorcio del secolo, anche gli interventi nel Duomo vedono all’opera soprattutto artisti locali.
Tra questi figura Vincenzo Monotti, accademico e allievo di Appiani, e Marcello Leopardi, di origine
marchigiana ma attivo principalmente a Perugia.
Tra le importazioni si registrano le tele di Francesco Trevisani a San Filippo, di Stefano Pozzi
e di Pierre Subleyras a Montemorcino Nuovo, e la pala di Gaetano Lapis nell’Oratorio dei Santi
Bernardino e Andrea. Mentre tra gli artisti forestieri presenti in loco si annoverano i marchigiani
Francesco Mancini e il suo allievo Sebastiano Ceccarini.
Dai sopralluoghi risulta che alcuni ambienti versano in pessime condizioni di conservazione,
come ad esempio la sagrestia dell’Oratorio di Sant’Agostino decorata da Appiani e Carattoli, le
cui tele raffiguranti le storie di S. Agostino in monocromo sono oggi provvisoriamente sistemate
sul pavimento.
La ricerca sul campo ha inoltre consentito di recuperare dipinti sistemati in luoghi non idonei
alla loro conservazione, per esempio in San Simone al Carmine, o di individuare opere dalla iconografia poco frequente come nel Convento di San Domenico, dove è conservata la tela raffigurante S.
Giacinto in fuga da Kiev con la statua della Madonna.
In conclusione, ricordo che l’obiettivo finale della ricerca è quello di precisare, attraverso i dovuti
approfondimenti di carattere storico, sociale, economico e geomorfologico, le dinamiche legate alla
distribuzione delle testimonianze d’arte in rapporto all’assetto geopolitico, dinamiche che una volta
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ultimate le indagini dovrebbero contribuire a restituire un quadro più composito di quanto oggi non
risulti dagli studi delle diverse identità culturali della città e del suo territorio.
Cecilia Metelli
BIBLIOGRAFIA
V. CASALE, La pittura del Settecento in Umbria, in La pittura in Italia. Il Settecento, a cura di G. Briganti, vol.
II, Milano 1990, pp. 351-370.
Perugia, a cura di M. Montella, con testi di G. Chiuini, F.F. Mancini, S. Stopponi, Perugia 1993.
G. SAPORI, Collezioni di centro, collezionisti di periferia, in Geografia del collezionismo. Italia e Francia tra il XVI
e il XVIII secolo. Atti delle giornate di studio dedicate a Giuliano Briganti, a cura di O. Bonfait, M. Hochmann,
L. Spezzaferro, B. Toscano, Roma 2001, pp. 41-59.
B. TOSCANO, La pittura del Seicento in Umbria, in La pittura in Italia. Il Seicento, vol. I, Milano 1989, pp. 361-381.
Per una storia del mercato dell’arte. Da Roma all’Europa e al Nuovo Mondo, tra la seconda
metà del secolo XVIII e la fine del XIX
Gli atti del convegno (giugno 2008) hanno rappresentato, come ho avuto modi di informare in
precedenza (Quinterni 4), la conclusione della ricerca cofinanziata nell’ambito dei “Progetti di ricerca
di rilevante interesse nazionale” (PRIN) dedicata alla pittura di storia nell’Italia preunitaria (Titolo del
volume: La pittura di storia in Italia. 1785-1870. Ricerche, quesiti, proposte, a cura di G. Capitelli e C.
Mazzarelli, Cinisello Balsamo, 2008; premessa di chi scrive alle pp. 9-11). Nella stessa sede comunicavo
di aver concentrato le ulteriori risorse finanziarie ottenute (un secondo cofinanziamento PRIN i cui fondi
sono stati resi disponibili nel febbraio 2010) all’approfondimento e al riordino degli studi sul Settecento
e sul primo Ottocento iniziati tempo addietro con Stefano Susinno, coinvolgendo anche in questo caso
nell’équipe studiosi che hanno condiviso quei percorsi e alcuni dottori di ricerca e ricercatori formatisi
presso il Dipartimento e che nel nostro Dipartimento e/o nella scuola dottorale hanno trovato un costante
punto di riferimento: Serenella Rolfi, Carla Mazzarelli, Stefano Grandesso, Alessandra Imbellone... La
prima ricerca PRIN scaturiva infatti da uno dei temi affrontati nella mostra Maestà di Roma. Da Napoleone
all’Unità (Roma 2003), dove la pittura di storia veniva individuata come uno degli ambiti che ancora
necessitavano di approfondimenti. Anche la seconda ricerca, quella che qui si espone sinteticamente, ha
origine da quell’esperienza (uno degli ultimi capitoli del catalogo, a cura di Giovanna Capitelli e Stefano
Grandesso, porta il titolo adottato per il programma della ricerca, “Roma fuori di Roma”) e non a caso vi
partecipano numerosi collaboratori già coinvolti nell’esposizione romana e nel relativo catalogo, e successivamente nella ricerca e nel volume dedicati alla pittura di storia. Come nel caso precedente, questo tema
deve molto alle intuizioni di Stefano Susinno, la cui vicenda umana di docente e di studioso si è conclusa
presso il nostro dipartimento, e del quale oggi si riconosce finalmente il contributo determinante per la
riconsiderazione del ruolo di Roma dal Settecento all’Unità: come ha scritto Marc Fumaroli, la città, “intimidatrice depositaria dell’Antico e museo d’Europa” fu anche centro esportatore di un modello culturale
“moderno” e non soltanto di reperti di scavo e di copie. Il ruolo di Roma nella cultura illuministica era
già stato rivendicato da André Chastel, ma quella sua intuizione era rimasta praticamente senza seguito. A
questo argomento ho dedicato un volume apparso di recente presso Einaudi, Le Arti e i Lumi (2011) alla
cui elaborazione accennavo in chiusura di Quaderni 4. Va detto che ancor più misconosciuta restava – e
resta tuttora – la funzione di conservazione della tradizione della Roma ottocentesca e della conseguente
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esportazione di un suo specifico modello nell’ambito delle arti figurative; funzione messa in ombra dagli
studi dedicati alle più innovative correnti che nel secolo XIX avevano investito l’Europa e toccato – seppur
marginalmente – anche l’Italia.
«Romae omnia venalia esse», a Roma ogni cosa è in vendita, è il motto giugurtino non privo di accenti
moralistici con cui il noto archeologo tedesco Michaelis commenta il mercato artistico romano, nel 1882,
in chiusura al suo formidabile repertorio di tutte le antichità approdate nel corso del secolo oltre Manica.
Il fervore dei negozianti che spogliano degli antichi marmi palazzi e sale della città eterna provoca negli
intellettuali ottocenteschi reazioni accesissime. Leopoldo Cicognara e Giovanni Gherardo de Rossi, che
sono spettatori di tale fenomeno, non tarderanno a definire gli operatori di questo mercato “uccelli di rapina” (1826). Referti come quelli qui menzionati aprono uno spiraglio sul mondo del commercio artistico
romano tra la metà del Settecento e l’Ottocento come particolarmente attivo e in fermento. Molte anime
tuttavia animano questo mondo. Il mercato di opere antiche continua ad essere affiancato da quello di
opere contemporanee, e l’attività dei suoi protagonisti – artisti, mercanti, periti, corrispondenti stranieri –
costituisce un aspetto particolarmente rilevante del sistema delle arti della Roma ottocentesca che appare,
specialmente nel suo complesso, ancora tutto da indagare.
Se infatti quanto al commercio di arte antica, il processo di smembramento del patrimonio artistico
della nobiltà romana è stato oggetto di numerose indagini particolari che hanno di volta in volta ricostruito
le singole alienazioni delle collezioni, molto invece resta da fare per mettere in rete queste informazioni e
sopratutto per collegarle con quanto è noto, o con quanto ancora oggi è solo parzialmente sondato, del
mercato della produzione artistica contemporanea e della sua organizzazione. La ricerca da poco avviata
interessa, nel suo complesso, i secoli XVIII e XIX, sottolineando le linee comuni e sviscerando i nodi
cruciali di svolta che separano la settecentesca cultura del mercato dei Grand-tourist da quella dei nuovi
acquirenti ottocenteschi giungendo così ad affrontare il campo di studi fino al 1870, anno che segna un
profondo cambiamento nella condizione della città eterna, che diviene allora Capitale dello stato italiano.
Fulcro della ricerca è la disamina dell’industria artistica (nei suoi momenti di produzione e di esportazione) non solo come motore di attività economiche che esercitano un’ effettiva incidenza sui mutamenti
del gusto, bensì anche sulle alterne fortune e sfortune dei modelli accademici, sull’incidenza di tali modelli
normativi nella creazione di collezioni private e nell’istituzione di musei pubblici, in Italia, in Europa e
nelle nascenti realtà collezionistiche, pubbliche e private, del Nuovo Mondo. Come si è già detto, gli
studiosi coinvolti sono da tempo impegnati in questo lavoro e hanno al loro attivo specifici contributi. La
collaborazione ormai pluriennale che si è stabilita in questo campo tra di loro agevola la discussione e il
confronto, a tutto vantaggio della concretezza dei risultati.
Il mercato artistico, la produzione ad esso legata, le migrazioni di opere e di protagonisti, gli acquisti privati e le iniziative “per la pubblica utilità” sono esaminati con uno scavo approfondito, condotto
secondo una prospettiva di maggior durata rispetto al taglio degli studi finora condotti. Si tratta infatti di
raccogliere, analizzare e inserire in un contesto storicamente e metodologicamente fondato le tematiche
indicate nel titolo del programma, senza partizioni regionali o nazionali.
Ciò non comporta la pericolosa, e storicamente deviante, omologazione nel considerare le differenti
aree politico-economiche dell’Italia pre-unitaria o dell’Europa delle grandi capitali. Il ruolo svolto da
Roma (e dall’Italia in generale) nella “diffusione dei modelli” e l’influsso dello “stile romano” in rapporto,
ad esempio, alla Francia, all’Inghilterra e alle nazioni tedesche; l’importanza di Venezia fino alla fine della
Repubblica e oltre; il ruolo di centri quali Firenze, Napoli e Bologna e gli stati preunitari ecc.; i contatti
(e i contrasti) tra le Accademie italiane e straniere sono elementi da tener presenti nella ricostruzione delle
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dinamiche dei rapporti tra le capitali europee dell’arte.
Di conseguenza, i passaggi individuati sono i seguenti, qui schematicamente indicati per esigenze di
chiarezza e di brevità:
- Anagrafe delle esportazioni di opere d’arte antiche e contemporanee per giungere ad un quadro
quantitativo attraverso lo spoglio delle fonti a stampa, con particolare attenzione ai primi periodici
specializzati, alla letteratura teorica, odeporica e periegetica
- Anagrafe dei mercanti, degli agenti e dei periti d’arte attivi sul mercato
- Regesto della produzione artistica contemporanea prodotta a Roma e nei centri italiani per il mercato straniero
- Regesto delle specializzazioni, dagli scultori agli scalpellini, dai copisti ai “praticanti” del restauro
d’integrazione, dai pittori ai miniatori e agli incisori
- Analisi dei principali mercati e dei principali intermediari, tenendo sempre ben presente l’intero
arco del collezionismo privato, nonché della costituzione dei pubblici musei stranieri.
Si aspira così a mettere in luce tutti quegli elementi che, pur se scarsamente presenti a una certa
storiografia artistica, risultano determinanti nel condizionare nel tempo – dai primi editti a tutela delle
città, delle collezioni e delle singole opere ai decenni immediatamente successivi all’Unità d’Italia – la
politica nei confronti del “Cultural Heritage” nell’Europa moderna.
Va detto che anche per i ricercatori stranieri la produzione scientifica italiana su questi temi è imprescindibile punto di riferimento. Per questo motivo è stata avviata una stretta collaborazione tra studiosi
italiani, inglesi, americani, tedeschi e francesi. Più episodica per ora quella con gli studiosi spagnoli e
russi, comunque in aumento grazie anche al maggiore accesso alle collezioni e agli archivi, e anch’essa
strettamente collegata con la ricerca italiana. Se un limite può essere individuato nello “stato dell’arte”,
questo è dato infatti dalla settorialità e dalla frammentarietà che nonostante tutto ancora lo caratterizzano.
Talvolta inoltre il carattere monotematico delle singole indagini fin qui compiute disegna una geografia
del mercato d’arte ancora frammentaria, che necessità di essere precisata.
Per quanto riguarda il gruppo da me coordinato, la scelta del campo d’azione è caduta sull’esame
del fenomeno del mercato artistico nel secolo XVIII, anche a motivo degli approfondimenti condotti
in questo ambito in occasione di recenti iniziative, mentre per l’età di Restaurazione questo preciso arco
cronologico è affidato ad altri studiosi, coordinati da Giovanna Capitelli che studia ormai da diversi anni
i decenni successivi alla prima restaurazione fino all’Unità d’Italia.
Lo stato frammentario dell’arte impone che i dati ora disponibili in ordine sparso siano ricondotti
all’interno di un sistema informatizzato che verrà completato con i risultati prodotti dalle singole unità.
Si mira a una indicizzazione secondo più categorie e a un riordino secondo i parametri ormai concordemente accettati in campo nazionale e internazionale (Scuola Normale Superiore di Pisa, Getty Research
Database, Art Past ecc.). Naturalmente resta irrinunciabile il momento dell’analisi e dell’interpretazione –
tenendo conto comunque del fatto che qui si propone una prima tranche di una più ampia ricerca – e che
si tradurrà in un convegno nei giorni 13-15 dicembre 2011 alla British School at Rome, seguito da atti la
cui pubblicazione è prevista per l’estate 2012. Ulteriore passaggio sarà un progetto di raggio europeo che
coinvolga organicamente le Università e le Istituzioni culturali presso i quali sono attivi alcuni tra gli interlocutori privilegiati già parzialmente coinvolti in questo progetto. Con molti di loro sono già avviate da
tempo forme di collaborazione che sarà di grande utilità trasformare in un rapporto di ricerca formalizzato.
Nel convegno del 13-15 dicembre, cui parteciperanno studiosi di circa venti istituzioni italiane e straniere, i temi individuati per questo primo rendiconto complessivo affrontano argomenti chiave quali La
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circolazione delle opere: fonti, strumenti e casi di studio; Il mercato artistico: intermediari e acquirenti; La scultura: ricezione, fortuna e diffusione; Modelli di gusto: dall’architettura alle arti applicate; La tradizione aulica
della pittura storica e sacra; La scuola di Roma per concludersi con l’esame delle diverse realtà collezionistiche
e accademiche che anche nel nuovo mondo individuano nel modello romano il proprio riferimento.
Liliana Barroero
BIBLIOGRAFIA
Intellettuali ed eruditi tra Roma e Firenze alla fine del Settecento (Ricerche di storia dell’arte 84.2004), a cura di
L. Barroero, O. Rossi Pinelli, Roma 2005.
La Città degli artisti nell’età di Pio VI (Roma Moderna e Contemporanea, X, 1-2), a cura di L. Barroero, S.
Susino, Roma 2002.
La pittura di storia in Italia. 1785-1870. Ricerche, quesiti, proposte, a cura di G. Capitelli, C. Mazzarelli,
Cinisello Balsamo 2008.
Il dibattito romano sulla riforma dell’insegnamento accademico negli anni Ottanta del
XVIII secolo e Le Accademie d’arte di Nikolaus Pevsner (1940)
Frammenti intorno ad un modello di accademia mediato tra la storia dell’insegnamento accademico e gli artisti. Una voce critica in difesa del modello “romano”/“italiano”. Alessandro Verri lettera
scritta da Roma il 26 gennaio 1780 al fratello Pietro a Milano:
«Ti ho scritto il senso che mi fa il Winckelmann. Io non reggo a quella lettura. Nelle scienze esatte
l’uomo può arditamente insegnare: la cosa è così; nelle belle arti non vi è dimostrazione, si tratta di
probabilità e di sentimenti; può darsi un disparere fra due uomini colti e sensibili, le opinioni sono
da annunziarsi con grazia, con dubitazione, e con modestia. I Tedeschi pretendono di conformare
al sistema militare le belle arti; il sig.r Heyne che non ho l’onore di conoscere si pone a comandar
l’esercito; io che non mi sento d’essere una recluta, e che pretendo di ragionare liberamente trovo una
ribellione ostinata verso quel Colonnello Heyne;
non mi quadra il Reggimento Winckelmann che
decide che Michel Angelo era secco, e mi sento
voglia di voltare il fucile verso questi pesanti e stivalati maestri che deturpano un campo coltivato
sinora dagli Italiani».
Corollario della lettera di Verri è il dibattito su
estratti di libri funzionali ad orientare il sistema delle
arti nel suo complesso. Le Opere di Mengs, pittore
consacrato dalla letteraria Accademia dell’Arcadia
nel 1780, auspice Giovanni Cristoforo Amaduzzi,
autore del Discorso del fine ed utilità delle Accademie
(1777), vennero recensite nel 1781 sulle «Efemeridi
letterarie». A fornirne un estratto critico fu Onorato Fig. 1 – Michael Köck, Riunione serale dell’Accademia della
Caetani chiamando in causa Algarotti e la riforma Pace, 1797, penna, inchiostro bruno, acquerello, rialzi di
biacca e tracce di matita su carta, 42,7 × 55,2 cm., Roma,
dell’istituto accademico clementino:
collezione Apolloni; iscritto e d. sullo scudo di Minerva:
«Sopra il ragionamento intorno le belle arti di Accademia della Pace 1797
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Madrid nel quale si anima lo stabilimento d’un’Accademia, non si può dir altro che ciocchè scrisse
il Conte Algarotti al Sig. Crespi, che non è a tali stabilimenti, che si deve la produzione de grandi
uomini. Tiziano, Giorgione non sono stati Accademici, e Tintoretto cacciato dalla scuola di Tiziano
da se solo divenne quel grandissimo pittore, quale nessuna Accademia ha formato di poi».
La posizione pubblicata sulle «Efemeridi letterarie» è alla base delle postille di Tommaso Puccini alle
Opere di Mengs, in anni in cui a Firenze, con Ferdinando III si tornava a ragionare sull’istituto accademico. Sappiamo che fu Onorato Caetani a stilare quell’estratto, per sua stessa ammissione in una lettera a
Girolamo Tiraboschi, e da Azara che quell’intervento, addebitò al gesuitismo dei suoi oppositori:
«Non ve dubbio che il Gesuitismo sia mescolato nella critica del libro di Mengs. So tutte le combricole
che fecero per screditarlo, e come cercarono il minchione di Monsignor Gaetani per testa di ferro. Il nome
mio incommoda troppo questa razza di gente per perdonarmi di avere fatto qualche poco di bene».
Il Ragionamento su l’Accademia delle Belle Arti di Madrid, inserito da José Nicolás de Azara nelle
Opere edite a Parma e Madrid nel 1780, fu nerbo della polemica:
«Per Accademia s’intende un’assemblea d’uomini i più esperti nelle Scienze, o nelle Arti coll’oggetto
d’investigare la verità, e di trovar regole fisse conducenti sempre al maggior progresso, e alla perfezione.
Ella è ben diversa dalla Scuola, in cui gli abili Maestri insegnano gli elementi delle Scienze, o delle Arti».
Nel testo si aggiungeva: «un’Accademia di queste Arti non deve comprendere soltanto l’esecuzione, ma deve occuparsi principalmente alla teoria, e alla speculazione delle regole». Azara aveva scritto
a Paolo Maria Paciaudi a proposito della curatela di quegli scritti:
«Gli altri tutti a bisognato farli in gran parte di nuovo, perchè Mengs scriveva i suoi pensieri quando gliene veniva voglia, sui straci, e sino sulle soprascrite delle lettere, e mai col fine di fare cose per
pubblicarsi. Il frammento poi sulle Arti di Spagna, e nell Academia di Madrid sono farina mia intieramente ed ho avute delle buone ragioni per usare di questa superchieria».
Le questioni di attribuzione del Ragionamento, come degli altri testi, pure sollevate in quegli anni,
in forma anonima (Innocenzo Ansaldi), sono accessorie rispetto al portato operativo di quegli stessi
scritti. Fu scontro aperto. Della risposta a Caetani si incaricò il presidente dell’Accademia di Parma,
Carlo Gastone della Torre di Rezzonico, in un «arringo» recitato in occasione della distribuzione dei
premi nel giugno del 1781.
Gesuitismo per Azara, per altri convinta rilettura di Algarotti. In quel contesto riemerge la lettura
attualizzante del Saggio sopra l’Accademia di Francia che è in Roma di Francesco Algarotti (1763); sul
Saggio, Giovan Battista Giovio scrisse nell’Elogio di Algarotti, contenuto nella prima edizione delle
Opere (1784): «sarà sempre un modello per le orazioni in aprimento dei consessi pittorici, ed insieme
una difesa dell’onore d’Italia».
I modelli “vivi” sparsi per l’Italia per Algarotti forniscono l’elenco positivo delle maniere, escludendo i cataloghi sottrattivi basati sui principi della riforma del gusto e la censura degli abusi;
Algarotti vi comprendeva anche gli artisti secondari e le «troppo ornate invenzioni del Longhena, o
le fantastiche del Guarini», adatte a «risvegliare gl’ingegni non abbastanza fecondi, o troppo severi»:
«In tanta varietà di maniere potrà il giovane appigliarsi a quella, a cui più lo chiamasse il proprio naturale, ovvero comporne una sua saporita e nuova, con che primeggiare forse un giorno anch’egli nel bel
campo della pittura. Dal vedere un pittor solo, per quanto egli sia eccellente, ne seguono i medesimi effetti,
che dal leggere un sol libro; che in troppo ristretti termini a confinar si viene la fantasia.»
Nel 1787 al dibattito si aggiungeva un nuovo titolo con l’Elogio di Pompeo Batoni, pubblicato
da Onofrio Boni sulle «Memorie per le belle Arti» (maggio 1787), e poi in volumetto autonomo
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nel luglio dello stesso anno per i tipi Pagliarini, con dedica al conte di Thurn Valsassina, ministro
di Giuseppe II, e comandante del corpo di Guardia di Lepoldo di Toscana. Batoni è un modello
di formazione percorribile da Roma, nell’anno di pubblicazione della quarta edizione delle Opere di
Mengs curate da Carlo Fea, per i tipi Pagliarini:
«E se alla fine di questo secolo abbiamo qualche speranza di rivedere i giorni felici dei Caracci, che
ben guardaronsi d’inceppare colla servitù delle regole il gusto dei loro scolari, lasciarono ad ognuno
libero il corso là dove il proprio talento chiamavalo, come non pochi valorosi Giovani, che bevono
agli stessi fonti del Batoni, ci danno speranza; tutto dovrassi al Genio immortale di questo celebre
Pittore, che ancor morto colle opere ne addita il vero cammino dell’Arte.»
Il passo su Batoni troverà modo di spiegarsi nel 1792, nella Storia pittorica di Lanzi, dove torna
gioco ricordare la sottolineatura sulla riforma dei Carracci che «fu opera non di un’accademia, ma di
una casa». La «riforma è andata tanto avanti, che è troppo», scrisse Boni in una delle lettere indirizzate
a Leonardo De Vegni sulle «Memorie per le belle Arti» del 1787, concludendo: il «giovine studente sa
cosa non deve fare, ma ignora ciò, che dovrebbe fare». Su quella conclusione s’innestava una proposta
basata sulle ragioni proprie alle arti figurative, secondo un principio espresso da Diderot: «è forse
possibile arrivare a ridurre le condizioni, i caratteri, le passioni, gli organismi diversi, a una semplice
questione di regole e di compasso?».
Lo spunto pratico offerto da Boni tornava alle Conference dell’accademia francese:
«esistevano già delle Accademie di Belle Arti: e della Reale di Pittura, e di Scultura di Parigi
esistono le Conferenze stampate nel 1669., fatte per ordine del gran Colbert dagli Artisti più celebri
d’allora. Dunque si ragionava anche allora sulle Belle Arti: anzi secondo me, se si ragionava per
tutto come in Francia, si ragionava benissimo. Si prendeva per tema della Conferenza un quadro di
Raffaelle, del Pussino, o di altro valent’uomo, o una statua antica, e vi si ragionava sopra da quegli
Artisti naturalmente con i termini dell’Arte, rilevandone le bellezze, senza il grave tuono Filosofico,
che credo certo non usassero, perché capivano che la bellezza ed il gusto nulla hanno che fare colla
Filosofia, come altra volta vi dissi coll’autorità di Eustachio Zannotti.»
All’inizio degli anni Novanta uno dei redattori delle «Memorie per le belle Arti», Giovanni
Gherardo De Rossi, ebbe modo di mettere in pratica quel modello cui Lanzi dedicò spazio nella
Storia pittorica della Italia ricordando la fondazione, «simile molto all’Accademia franzese», dell’Accademia di Portogallo, voluta dall’ambasciatore Alexandre de Souza Holstein e diretta da De Rossi
a Roma (1791).
L’attuazione di quell’idea media una pratica corrente tra gli stessi artisti. Tra i radi documenti
figurativi usciti dalle riunioni informali dell’Accademia della Pace riunitasi intorno a Felice Giani,
non pochi sono i disegni che traducono in figura quel «convien dire ciò, che l’Arte richiede positivamente di fare», che stava a cuore a Boni nel 1787; in anni più vicini all’articolo di Boni, a quello
stesso metodo si uniformò l’organizzazione di una delle accademie indipendenti, frequentate da un
allievo del vecchio Batoni, Gottlieb Puhlmann «insieme a un allievo di Batoni, uno della famiglia di
Mengs e un pensionante di Lichtenstein», dove «ognuno deve organizzare l’act che va disegnato per
tre domeniche». Dalle pagine delle «Memorie per le belle Arti», ci si provò a mediare una soluzione
«con i termini dell’Arte», praticata dagli stessi artisti.
Rimettere ordine tra gli studi particolari sulle accademie, potrà servire a rivedere il quadro d’insieme del vecchio saggio di Pevsner (1940) sul “secolo delle accademie” imperniato sull’opposizione tra
i “programmi d’istruzione” – i «legami che unirono il Winckelmann ai nuovi istituti» – e il motore
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“mercantile” della riforma istituzionale; dall’altra sull’inconciliabilità dell’antiaccademismo degli artisti
maturato nel XIX secolo, per Pevsner imperniato sul modello di Carstens che da Roma tagliò i ponti
con l’accademia di Berlino, e delle posizioni “élitarie” dello Sturm und Drang e dell’enciclopedismo
francese (PEVSNER 1982: 166, 168, 211).
Serenella Rolfi
BIBLIOGRAFIA
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J.N. DE AZARA, Ragionamento su l’Accademia delle Belle Arti di Madrid, in Opere di Antonio Raffaello Mengs,
vol. I, Parma 1780.
O. CAETANI, Titolo del saggio?, in «Efemeridi Letterarie», XI (17 marzo 1781), pp. 87-88.
G.B. GIOVIO, Elogio di Francesco Algarotti, in Opere, vol. X, Cremona 1784.
O. BONI, Elogio di Pompeo Girolamo Batoni, in «Memorie per le belle Arti», III (novembre 1787), p. CCXLIX.
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«Memorie per le belle Arti», III (maggio 1787), p. CVII ss.
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Carteggio di Pietro e Alessandro Verri dal 1 gennaio 1780 al 26 maggio 1781, a cura di G. Seregni, Milano 1940.
J. JORDÁN DE URRIES DE LA COLINA, La embajada de José Nicolás de Azara y la difusión del gusto neoclásico, in Roma y
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L. LANZI, Storia pittorica dell’Italia (1809), edizione a cura di M. Capucci, Firenze 1968.
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S. PASQUALI, Scrivere di architettura intorno al 1780: Andrea Memmo e Francesco Milizia tra il Veneto e Roma, in
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S. RUDOLPH, Felice Giani da Addacemico “de’ Pensieri” a Madonnero, in «Storia dell’arte», 29-31 (1977), pp. 175-190.
“Il mondo in una stanza”: esempi del collezionismo archeologico di stampo universale
tra il XIX e il XXI secolo
«Una delle più cose che io abbia avuto et che abbia è il mio studio, dal
quale mi sono proceduti tutti li honori e tutta la stima della mia persona. Il
quale intendo che sia non solamente dove sono i libri, ma tutto quello che
contengono le quattro stanze delli mezadi dove io sto ordinariamente, dove vi
sono cose esquisite, et tali che chi ben non le considera non lo potrebbe creder, così dei libri a stampa come de’ scritti a penna, instrumenti mathematici
et mecanici, statue così di marmo come di bronzo, pitture, minerali, pietre
secrete et altro, le qual tutte cose sono state raccolte da me con grandissimo
studio e fatica, però voglio anco che sii conservato et argomentato, acciò che
i nostri posteri possano godere e sentir beneficio di queste mie fatiche…» (DE
BENEDICTIS 1991).
Il brano del testamento del senatore veneziano Jacopo Contarini, datato
Fig. 1 – Antonio Raimondi 1 luglio 1596, documenta la composizione e lo spirito con il quale venivano
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costituite le collezioni di stampo universale sia in Italia che in Europa nel XVI secolo. Il modello per
l’homo universalis era la Naturalis historia di Plinio il Vecchio che, come è noto, riuniva in un’unica
compilazione le aspirazioni di conoscenza verso la natura ed i suoi fenomeni e verso l’essere umano ed
i suoi prodotti degni di essere ricordati. Ma mentre il collezionismo di stampo universale e le cosiddette “camere delle meraviglie” sono argomenti molto studiati fino agli sviluppi nel XVIII secolo (a
titolo esemplificativo si cita qui solo LUGLI 1983), altrettanto non si può dire della fase più recente,
quella che vede lo smembramento di tali raccolte e l’origine dei musei di storia naturale e dei musei
etnografici e antropologici.
Restringendo a questa seconda tipologia di museo la ricerca mira, in particolare, a due obiettivi:
1) censimento (in atto) delle raccolte museali esistenti in Italia che contengono materiali archeologici
di provenienza andina; 2) individuazione di casi di studio di particolare interesse, che consentano di
ricostruire le fasi di ingresso in museo di tali materiali. Il fine è quello di integrare la conoscenza del
collezionismo di antichità, non limitando il fenomeno all’interesse per i reperti classici.
Dopo la scoperta delle Americhe, la gara per inserire l’oggetto più raro ed esotico aveva aumentato il raggio d’azione dei collezionisti europei. La Spagna e gli ordini religiosi esercitarono, in tal
senso, un importante ruolo di mediazione (LAURENCICH-MINELLI 1985; PALMA VENETUCCI 2003;
EAD. 2006; EAD. 2007). Non manca, tuttavia, la presenza di singoli studiosi che hanno svolto un’importante funzione di tramite tra le conoscenze del vecchio e del nuovo mondo, ovvero tra il Perù e
Milano, come Antonio Raimondi (AIMI 2009) (fig. 1) o di collezionisti, come Ugo Canepa, meno
attenti al significato scientifico, ma decisivi per la costituzione di importanti nuclei collezionistici a
Rimini (BIORDI 1991; ID. 2000; ID. 2005). Su alcune realtà museali come le raccolte extraeuropee del
Castello Sforzesco di Milano (AIMI 1991; ID. 1993 e 1994), il sopracitato caso delle raccolte civiche di
Rimini e di altri musei dell’Emilia Romagna (SALVI 2007) o l’ancora più studiato Museo Nazionale
Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini di Roma (da BARONCELLI 1935 a LERARIO 2005) sono già
disponibili pubblicazioni sulla storia della formazione delle raccolte, per cui restano settori molto
circoscritti ancora da indagare. Parzialmente dissodato appare anche il campo della storia della formazione dei musei di antropologia che fanno capo ad istituzioni universitarie (tra i più noti ricordiamo
quello di Bologna e di Firenze), mentre di più difficile accesso sono i dati riguardanti le collezioni
connesse con istituzioni religiose (per un quadro d’insieme resta punto di partenza BIORDI 1990).
Questa realtà, particolarmente importante – basti ricordare che l’unica collezione pubblica a carattere
universale presente sul suolo italiano sono i Musei Vaticani – non sarà compresa in questa fase della
ricerca, perché richiederebbe tempi e strumenti diversi d’indagine rispetto a quelli preventivati. È
interessante, tuttavia, notare che mentre in Europa non viene meno (e anzi si rafforza, basti pensare
al Pavillon des Sessions del Louvre, inaugurato da Chirac nel 2000) l’aspirazione al museo universale
che, come è noto, si forma nel XIX secolo come riflesso del colonialismo e della competizione tra le
potenze occidentali, in Italia continua ancora oggi il fenomeno inverso, cioè quello della separazione
tra le culture, attraverso la creazione di strutture museali differenziate, innescato dall’Unità d’Italia.
La necessità di fornire riferimenti chiari e univoci alla nuova identità nazionale italiana portò,
nel momento della fondazione dei musei nazionali, a smembrare le collezioni “universali” in sedi
espositive diverse. Tale processo di “classificazione” del patrimonio culturale su cui fondare le radici
italiche è esemplificato dal caso ben noto della nascita del “Museo Preistorico ed Etnografico”, diretto
da Luigi Pigorini. La collezione raccolta nel Collegio Romano dal padre gesuita Athanasius Kircher,
a cui era stata unita per donazione, nel 1651, la raccolta di antichità romane del senatore Alfonso
69
Donnino de Toscanella (già nel Palazzo dei Conservatori) e che si era costantemente arricchita con
invii di materiali da parte dei gesuiti in missione in America Latina e in altre remote parti del mondo,
non fu mantenuta nell’integrità della sua formazione storica, ma se ne valorizzarono alcune sezioni
come quella preistorica, il cui ampliamento interessava particolarmente il Pigorini, mentre i materiali
classici furono trasferiti al Museo Nazionale Romano.
Tra le realtà museali di particolare interesse per la ricerca, oltre a quelle già ricordate, è da segnalare il “Museo delle Culture del Mondo” al Castello D’Albertis di Genova, che espone la collezione
di oggetti raccolti dal Capitano Enrico Alberto D’Albertis tra la fine dell’Ottocento ed i primi del
Novecento, nella sua stessa dimora.
Questo primo anno d’indagine è stato dedicato alla raccolta di materiali bibliografici che offrono
dati soprattutto per collezioni e musei dell’Italia centro-settentrionale. La ricerca continua nel reperimento della bibliografia specializzata e nel censimento delle realtà museali del centro-sud, dove ci si
aspettano risultati soprattutto in considerazione del particolare collegamento tra la Spagna (e quindi
le sue colonie dell’America del Sud e il viceregno del Perù) ed il Regno di Napoli, come appare da
un primo spoglio bibliografico (AIMI 1993).
Giuliana Calcani
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B. PALMA VENETUCCI, Dallo scavo al collezionismo. Un viaggio nel passato dal Medioevo all’Ottocento, Roma 2007.
Europa e America nel modernismo “transatlantico” di Walker Evans, 1928-1934
Lo scarso interesse che ha circondato sino ad oggi l’opera giovanile di Walker Evans costituisce un caso
storiografico tanto complesso quanto singolare. Nato nel 1903, Evans si dedicò precocemente agli studi
letterari e coltivò l’ambizione di divenire scrittore. Dall’aprile 1926 trascorse un anno di studio a Parigi,
dove studiò la lingua, approfondì la conoscenza della letteratura francese e frequentò la libreria Shakespeare
& Co. di Sylvia Beach, dove non era raro incontare James Joyce. Ritornato a New York nel 1927, tuttavia,
abbandonò progressivamente la scrittura, apparentemente sopraffatto dai propri modelli artistici.
I negativi e le stampe oggi conservati presso il Walker Evans Archive del Metropolitan Museum
di New York e presso il J. Paul Getty Museum di Los Angeles indicano che Evans iniziò a dedicarsi
con continuità alla fotografia nel 1928, privilegiando i temi della grande città: la nuova architettura
del grattacielo, il paesaggio creato dalla comunicazione pubblicitaria, la stratificazione sociale di New
York. Circa 500 negativi nella collezione del Metropolitan e 100 stampe in quella del Getty testimoniano che questo interesse per la metropoli si protrasse sino al 1934, allorché l’interesse di Evans si
spostò decisamente verso l’architettura “vernacolare” e la provincia. Fra il 1935 e il 1937 collaborò
con l’agenzia fotografica della Farm Security Administration, viaggiando negli stati dell’est e del
sud per documentare gli effetti della Depressione. Furono proprio le fotografie riprese nelle piccole
e medie città fra il 1930 e il 1936 a costituire l’ossatura di American Photographs, la retrospettiva
presentata al MoMA nel 1938 – la prima dedicata dal museo a un fotografo – che consacrò Evans
come uno dei maggiori interpreti della provincia americana e della “main street”. Fu poi la seconda,
influente retrospettiva del MoMA, curata da John Szarkowski nel 1971, a consolidare i contorni di
quello «stile documentario» frontale, austero e descrittivo che ancora oggi è unanimemente considerato il contributo più originale di Evans all’arte del Novecento.
In questo quadro dominato dalla maturità artistica raggiunta negli anni trenta con lavori che
affrontavano il tema dell’“americanità”, le fotografie d’esordio realizzate secondo un approccio a
prima vista “europeo” sono state relegate in una posizione sostanzialmente marginale. La storiografia
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dominante si è infatti concentrata su elementi stilistici come la prospettiva accidentale e la composizione “angolare”, imputando le prime prove newyorkesi alla fascinazione del giovane artista per
la “Nuova Visione” europea. Questa lettura è in realtà contraddetta dal sostanziale disinteresse di
Evans per la “Nuova Visione”, come del resto per il Costruttivismo e l’Astrattismo spesso richiamati
per inquadrare i suoi primi lavori. Al contrario, in varie occasioni espresse ammirazione per fotografi
come Mathew Brady, Paul Strand, Eugène Atget, August Sander, Ben Shahn, ma anche per aspetti
dell’opera di Alfred Stieglitz, Ralph Steiner, Henri Cartier-Bresson ed Erich Salomon.
In questo panorama variegato e frammentario si può cogliere la tipica tendenza di Evans a dissimulare i propri debiti nei confronti di altri artisti visuali, indicando piuttosto tra i propri ascendenti scrittori
come Flaubert e Baudelaire. Per una conoscenza più circostanziata della sua formazione visiva e del suo
interesse per la metropoli, la ricerca deve dunque prendere le mosse dalle opere effettivamente realizzate, considerando non solo le stampe fotografiche più note, ma anche la grande quantità di negativi
conservati nell’archivio, spesso non accompagnati da positivi. Se le fotografie sono solitamente “tracce”
del mondo e immagini di qualcosa, il compito primario dello storico è quello di restituire i modi con
i quali l’esperienza della realtà è stata trasformata dal fotografo in una rappresentazione bidimensionale
attraverso una serie di scelte tecniche ed estetiche, che corrispondono a interpretazioni culturali non
sempre riconducibili a princípi condivisi o a manifesti artistici.
Un primo, importante esempio in questa direzione è fornito da nove negativi conservati al
Metropolitan che mostrano il profilo di Manhattan ripreso dal ponte di Brooklyn. Su questo topos newyorkese Evans operò alcune torsioni visive che consentono già di individuare l’elaborazione di un’idea di città.
Eliminando il campo medio con la superficie dell’East River, queste vedute negano l’immagine pittoresca
di Manhattan come penisola naturale protesa sulle acque del fiume. A contraltare, le icone della razionalità
ingegneristica – il ponte ottocentesco e i nuovi grattacieli – vengono presentate come frammenti di un
collage disumanizzato, dal quale sono assenti gli spazi pubblici e la vita sociale.
Nel suo complesso, la serie rivela inoltre un ambizioso programma concettuale. Tutte le fotografie
risultano infatti incentrate sulla costruzione del 111 John Street Building, un grattacielo di 26 piani
da 3,5 milioni di dollari nel distretto finanziario di Manhattan. La cronaca immobiliare del «New
York Times» consente di datare i negativi all’autunno 1928, ma un’analisi comparativa rivela anche
che tutte le immagini, pur con alcune varianti compositive, sono state realizzate nel corso di alcuni
mesi da due specifici punti di ripresa. Il carattere sistematico di questa sequenza segnala perciò che le
primissime prove dell’artista a noi pervenute, sebbene a un primo sguardo stereotipate e frammentarie, rientrano in un progetto più ampio sull’immagine di New York, avviato nel pieno di un ciclo
edilizio che cambiò il volto della metropoli.
In sintonia con queste premesse, la ricerca ha teso anzitutto ad individuare i soggetti urbani di tutte le
fotografie realizzate in questo periodo iniziale – sino ad oggi rubricate come «studi formali», «composizioni» o «astrazioni» – nel tentativo di comprendere i criteri di trattamento messi in atto da Evans. L’analisi
comparativa delle fonti iconografiche – fotografie, vedute aeree, mappe, libri illustrati, materiali pubblicitari – incrociata con le cronache architettoniche – presenti soprattutto nella sezione immobiliare del «New
York Times» e nelle riviste di settore – ha consentito non solo di precisare i dati catalografici di moltissime
opere conservate al Metropolitan e al Getty e di individuare le modalità operative dell’artista, ma anche di
ricostruire la geografia simbolica sottesa al suo lavoro newyorkese.
Dalle maglie dell’archivio emerge dunque una mappa visiva di New York in un periodo cruciale
della sua crescita e del suo declino, a ridosso della drammatica crisi del 1929. Insistendo sui luoghi di
72
maggior attività immobiliare – il Financial District, 42nd Street, Central Park South – ma fotografando
edifici non ancora completati e facciate secondarie, tra il 1928 e il 1934 Evans accumulò un’iconografia
sospesa tra costruzione e distruzione, in una rappresentazione ironica del mito progressista degli anni
venti. Gli slogan pubblicitari, ritagliati dall’inquadratura, appaiono ridotti a frammenti di un babelico
sillabario; le persone, in particolare i lavoratori, sono colte in momenti inespressivi di sospensione o di
pausa – in una modalità diametralmente opposta a quella adottata da Lewis Hine nel 1930-1931 per
celebrare l’eroismo del lavoro nella costruzione dell’Empire State Building.
Ne emerge una tensione fra la descrizione documentaria della città e la formalizzazione dello spazio urbano, in sintonia con le ricerche di molti artisti del tempo. L’archivio rivela rimandi puntuali a
fotografie di Percy L. Sperr, Thurman Rotan, Ewing Galloway e Ira W. Martin pubblicate in riviste
dell’epoca. Ma la riflessione di Evans sull’“astrattezza” fisica e morale della città commerciale rivela
contatti non meno stretti con l’opera di artisti attivi nel campo delle arti grafiche – Louis Lozowick,
Arnold Rönnebeck, Howard Cook, Ernest Fiene, Mark Freeman – e di pittori successivamente unificati sotto la corrente del Precisionismo, come Charles Demuth, Stuart Davis, Charles Sheeler, George
Ault, Preston Dickinson e Stefan Hirsch. In generale, si tratta di artisti che articolarono un discorso
critico sulla metropoli e sull’estetica della macchina coniugando i principi del post-Cubismo a una
resa realista del linearismo industriale e tecnologico. Come ha suggerito Wanda Corn in un suggestivo
inquadramento di questa generazione di artisti, ad essere in gioco è una declinazione “transatlantica” del
modernismo, sviluppata in una dialettica continua – talvolta persino irrisolta – tra Europa ed America.
Forse non a caso, una delle prime fotografie pubblicate da Evans è una scena intitolata «Port of New
York», probabile citazione di un libro di Paul Rosenfeld apparso nel 1924 nel quale la metropoli viene
celebrata come la più europea delle città americane e come ponte ideale tra vecchio e nuovo continente.
L’aspetto più originale della ricerca di Evans si ritrova proprio nelle sequenze messe a punto per
riviste come «The Architectural Record», «The Hound & Horn» e «Creative Art» o per le esposizioni
alle quali partecipò, nelle quali la tradizionale narrazione fotografica si trova innervata dalle nuove
teorie sovietiche sul montaggio cinematografico. Lo sviluppo più avanzato di questa tendenza è dato
da una serie perduta di 36 fotografie «Spedite in Russia con W. Goldwater», testimoniata da un
elenco di didascalie di mano dell’artista. La ricostruzione della sequenza – resa possibile dal lavoro di
identificazione dei soggetti sopra illustrato – consente di individuare i contorni di un inedito “viaggio” all’interno di New York: un caleidoscopio di frammenti metropolitani strutturato da un ordine
narrativo rovesciato, nel quale il Chrysler Building, sintesi americana delle arti, dell’architettura e
dell’industria, viene presentato in un ambiguo stato di incompletezza confinante con il decadimento.
Con il progredire della Depressione, nel 1933-1934 Evans continuò a lavorare a New York spostandosi progressivamente verso 14th Street, South Street e West Street, dove il senso di abbandono e
di rovina stava diventando palpabile. È in questo laboratorio metropolitano, frequentato assiduamente nel corso degli anni cruciali di formazione, che l’artista ebbe modo di mettere a punto quello “stile
documentario”, allo stesso tempo descrittivo e interpretativo, che lo rese celebre negli anni successivi.
Antonello Frongia
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L’arte moltiplicata. La cultura visiva a Roma tra rotocalchi e riviste culturali negli
anni 1960-1980
Gli interventi di Laura D’Angelo e Elena Salza si inscrivono in un progetto di ricerca finanziato
dal MIUR nell’ambito del PRIN 2008. Il progetto, coordinato a livello nazionale da Antonello Negri
dell’Università di Milano, ha per tema La moltiplicazione dell’arte e le sue immagini. La cultura visiva
in Italia nell’epoca della riproducibilità tecnica: dalle riviste illustrate del secondo Ottocento a rotocalchi
e quotidiani della contemporaneità.
Si tratta dunque di una ricerca ampia alla quale collaborano, oltre all’unità locale di Roma Tre coordinata da Barbara Cinelli, le unità locali delle Università di Firenze e Udine, coordinate rispettivamente da
Maria Grazia Messina e Flavio Fergonzi.
L’unità romana – alla quale partecipano anche Giovanna Montani, Valentina Russo e Chiara
Fabi – ha scelto come tema specifico L’arte moltiplicata. La cultura visiva a Roma tra rotocalchi e riviste
culturali negli anni 1960-1980. Il segmento temporale è caratterizzato da una straordinaria vivacità dal
punto di vista della sperimentazione dei linguaggi artistici; nonostante gli anni Sessanta e Settanta siano
stati recentemente oggetto di una ripresa di interesse storiografico, i rotocalchi e in generale i periodici a
larga diffusione restano una fonte tuttora inesplorata per i decenni del dopoguerra. Si è dunque deciso
di focalizzare l’attenzione su alcune pubblicazioni
(«L’Espresso» ed «Epoca»), che testimoniano con
modalità e scelte redazionali diverse – ad esempio
con la presenza o meno di rubriche fisse, con il
ricorso o meno a nomi importanti della storia
e della critica contemporanea – la diffusione
di un’arte ormai inevitabilmente “moltiplicata”.
Questa presenza, numericamente rilevante, permette una lettura secondo due direzioni: in primo
luogo, una riflessione sull’immagine che della produzione artistica contemporanea viene fornita ai
lettori secondo un criterio che potremmo definire
Fig. 1 – R. Carrieri, I pittori a domicilio: Cassinari, in «Epoca», 1003 di consumo culturale; si tratta di un’immagine
(14/12/1969)
spesso dissonante e come fuori asse rispetto al
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quadro generale formato dalla successiva elaborazione storiografica. In secondo luogo, la considerazione
di questi periodici come repertori di possibili fonti, di suggestioni visive, come motori di diffusione delle
immagini di reportage o di cronaca destinate a circolare negli atelier e a coesistere accanto a veicoli di
trasmissione più tradizionale.
La ricerca è stata condotta dividendo il vasto campo di indagine in segmenti. Gli interventi qui pubblicati presentano nello specifico i primi esiti delle ricerche su «Epoca» nel decennio 1960-’69 (D’Angelo), e
su «L’Espresso» negli anni Sessanta (Salza). L’attenzione delle ricercatrici si è concentrata, per precisa scelta
metodologica, sulle immagini fotomeccaniche, che sono state oggetto di un imponente lavoro di schedatura. La raccolta dei dati è stata l’oggetto della prima fase della ricerca, attualmente giunta alle battute
conclusive. Al fine di rendere utilizzabile l’enorme repertorio di immagini all’interno della ricerca, i dati
schedati confluiscono in un database appositamente elaborato per una tipologia di immagini finora mai
utilizzata come fonte e che dunque richiede strumenti appropriati di catalogazione. Il carattere innovatore
e sperimentale del programma informatico permetterà, nei prossimi mesi, di passare dalla schedatura ad
una fase di condivisione dei dati raccolti dalle diverse unità, permettendo così una più intensa circolazione
di informazioni, ragionamenti e confronti fra i diversi gruppi locali.
Gli interventi qui pubblicati sono dunque da intendersi come prime riflessioni che poggiano
sull’esperienza diretta di una ricerca in fieri, riferibili ad uno stadio di elaborazione ancora suscettibile
di numerosi approfondimenti.
Laura Iamurri
«Epoca» 1960-1969: l’immagine dell’artista nell’Italia del miracolo economico
Lo spoglio, catalogazione e analisi dell’apparato iconografico del rotocalco Epoca per il decennio 1960’69, ha già prodotto risultati che seppur ancora parziali possono condurre a riflessioni significative. Lo studio su immagini la cui circolazione è garantita da un veicolo rilevante di comunicazione visiva consente di
determinare quale sia la percezione e la ricezione dell’arte contemporanea in uno strato diffuso di pubblico
non specializzato; ma soprattutto consente di intravedere interessanti sviluppi di ricerca nella definizione
di una “storia dell’arte”, parallela e alternativa a
quella che veniva in quegli anni scritta dai critici
di professione, e trasmessa su circuiti diversi e utilizzati da un pubblico che a quella data può ormai
definirsi “di massa”.
Difficile riassumere in breve, e con una ricerca
in corso d’opera, la linea editoriale di «Epoca»,
tratteggiarne la missione e individuarne nel dettaglio il pubblico; ma i dati finora raccolti consentono di affermare con una sufficiente plausibilità
come tra le sue pagine si affermassero, numero per
numero, i valori su cui si era costituita l’Italia liberata: il lavoro e la famiglia, al cui consolidamento Fig. 2 – R. Carrieri, I pittori a domicilio: Guttuso, in «Epoca» 992
anche l’arte fu chiamata a contribuire.
(28/09/1969)
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I luoghi redazionali privilegiati dalla ricerca
si individuano nelle due rubriche fisse: Italia
Domanda e Arte, dove i ritratti fotografici di
esponenti del mondo artistico internazionale, o
riproduzioni di loro opere, costituivano naturale e imprescindibile corredo della materia
giornalistica trattata. Queste due rassegne sono
accumunate dalla cadenza settimanale, causa/
conseguenza di una popolarità riscossa tra i
lettori, e dall’analogo formato delle immagini
usate, spesso minimale e in bianco e nero. In
queste rassegne, molto legate all’identità della
rivista, ricorre ciclicamente il medesimo grupFig. 3 – I malinconici amici di Viviani, in «Epoca», 673 (18/08/1963)
po di artisti, il cui censimento costituirà una
delle priorità della ricerca che seguirà la fase di catalogazione.
Italia domanda era una rubrica ideata da Cesare Zavattini, che ne ebbe la cura dal primo al quindicesimo numero; coinvolgeva personaggi celebri, dai registri ai letterati, per rispondere a questioni sollevate dai
lettori su argomenti di natura molto diversa, mostrando la piena sintonia tra il Neorealismo zavattiniano
e la visione editoriale di Arnoldo Mondadori. Tra il 1960 e la metà del 1962 l’artista, pittore o scultore
che sia, è sempre incluso (e naturalmente ritratto accanto alla risposta fornita) nella cerchia di “esperti” che
esprimevano i loro statement su interrogativi posti dai lettori a volte generici: Credete nel destino?, a volte
di tono più intellettualmente ambizioso e specialistico: Anche per gli artisti si parla di lancio pubblicitario.
Crede possibile questo tipo di successo? Che opinione ha dei critici?
Le “fototessere” a corredo dei piccoli contributi, oltre al compito di avvicinare alla comunità i volti di
personaggi affermati a cui erano chiamati a lasciarsi ispirare nella personale corsa al successo sociale, adempiono al compito di educare il pubblico all’arte giocando su tacite simmetrie visive tra la fisionomia degli
autori e il linguaggio per cui avevano acquisito la notorietà, coadiuvate talvolta da didascalie telegrafiche.
Si può citare l’esempio di De Chirico, «creatore della pittura metafisica», la cui espressione sospesa ed
enigmatica permetteva una associazione istintiva alla cifra della fortunata produzione metafisica a garanzia
di un’immediata e inconfutabile riconoscibilità. Quando Italia domanda verrà meno a questa istanza, sarà
il pubblico stesso a chiedere di conoscere il volto
degli autori proposti. Nell’agosto del ’63 «Epoca»
dedica a Giuseppe Viviani, assai sponsorizzato
dalle pagine della rivista, un ampio servizio a
colori in cui vengono riprodotti i suoi dipinti
sempre popolati da tristi personaggi, inclusi
animali, con grandi occhi mesti. Nel numero
successivo si registra la reazione del signor Fusari
di Roma, che in una lettera al direttore scriveva:
«Le informazioni, i commenti, le notizie sui
grandi avvenimenti del mondo sono necessarie
ed utili. Ma pagine come quelle dedicate ai cani
Fig. 4 – I malinconici amici di Viviani, in «Epoca», 673 (18/08/1963) di Viviani sono indispensabili». E denunciava
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contestualmente la mancanza di una foto
del pittore che, poi pubblicata, mostrava le
affinità fisiognomiche tra l’artista e le sue
patetiche creature.
Arte era invece una rubrica curata
da Raffaele Carrieri, collaboratore stabile
del settimanale fin dal primo numero,
poeta e critico d’arte residente a Milano,
città che diviene l’osservatorio esclusivo
da cui individuare gli artisti presentati ai
lettori. I protagonisti delle sue recensioni
sono ritratti in foto quasi segnaletiche,
che contrastano con il tono partecipe del
testo, dove, come un journal, si indugiava
Fig. 5 – Milano ha ricordato Giuseppe Viviani, in «Epoca», 853 (29/01/1967)
su aspetti biografici ed affettivi del personaggio e dell’autore stesso. Analogamente le immagini delle opere, riprodotte specialmente in occasione di
recensioni di mostre, non sembrano comunicare giudizi estetici, a stento hanno una valenza informativa,
e sono corredate da didascalie sintetiche e spesso imprecise. Questa combinazione di uno scritto impegnativo e di illustrazioni poco accattivanti induce a credere che la rubrica fosse stata pensata per un target se
non di specialisti quantomeno di appassionati, interessati, lettori che sapevano di poter trovare nella loro
rivista, nelle ultime pagine, articoli in sequenza, oltre a Arte, anche Libri e Teatro.
Viceversa negli articoli che Carrieri redige in occasione di eventi di particolare rilievo, spesso ancora
rubricati sotto il titolo Arte, il testo avanzava nel corpo della rivista, riducendosi al minimo ma arricchendosi di grandi immagini a colori con didascalie più eloquenti e con un titolo ad effetto, il tutto finalizzato
a raggiungere una più vasta audience. Questo tipo di servizi era inteso come elemento di grande suggestione
sul pubblico che, anche solo scorrendo distrattamente argomenti non di suo interesse precipuo, poteva
venire catturato da illustrazioni importanti, incorniciate da un messaggio succinto ma inequivocabile.
Ne è un esempio l’eloquente articolo Noi paghiamo per queste buffonate con cui Carrieri – che non firma
ma di cui si riconosce la prosa – commenta la XXXII Biennale di Venezia (fig. 1). Tra le fotografie che
analiticamente offrono le opere al severo giudizio del lettore ne campeggiano talune dal taglio studiato:
oltre ad una graziosa signora che «catalogo alla mano cerca di capire qualcosa», uno scatto significativo
ritrae una visitatrice, della quale si vedono solo le gambe, sufficienti, nella loro postura, per indovinare
l’atteggiamento smarrito di fronte al Dono per Apollo di Rauschenberg. La foto, di una singolare potenza
espressiva, riesce bene ad evocare il difficile impatto tra il pubblico borghese italiano, che manifestava in
quegli anni (anche incoraggiato dagli stessi rotocalchi) velleità di collezionismo, e l’arte americana che di lì
a poco avrebbe spostato oltreoceano il baricentro del mercato.
A partire dal 1967, con la nuova rubrica Artisti a domicilio e con altri spazi di argomento analogo,
Carrieri incrementa la propria presenza su «Epoca» sfruttando l’appeal di questa tipologia di servizi per
avvicinare al mondo delle arti una sempre più vasta porzione di pubblico e per imporre una sua visione
critica e una sua “scuderia” di autori. Le immagini infatti propongono diversi prototipi di artista a cui
ciascun italiano, dall’operaio all’avvocato, poteva sentirsi vicino: l’artista era un modello sociale universale,
perché possedeva la manualità che caratterizzava il mestiere delle classi meno abbienti ma anche le qualità
intellettuali dei ceti più elevati. Il critico mostra quindi con ottime foto appositamente realizzate, spesso
77
da Walter Mori con il copyright «Epoca», Giacomo Manzù come un artigiano emancipato in uno studioofficina, Renato Guttuso in posa da affermato maestro, e il pio Salvatore Messina dedito alle sue committenze religiose, per sconfessare quanti tra i lettori, per la maggior parte di ala cattolica, avessero potuto
credere che pittori e scultori fossero solo anticonformisti e senzadio. Un raffronto, anche superficiale, tra
le rassegne di Carrieri e la letteratura specialistica coeva o semplicemente, ad esempio, con gli ordinamenti
firmati da Palma Bucarelli negli stessi anni per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, restituisce la varietà
degli orizzonti lungo i quali si scala in questi anni il dialogo tra arte contemporanea e pubblico. Nel 1962,
mentre sulle pagine di «Epoca» si elogiano per due numeri consecutivi le retrospettive della XXXI Biennale
di Venezia, quella di Sironi in particolare, la soprintendente smantella dalle sale di Valle Giulia l’arte degli
anni Trenta, aggiornandosi sulle tendenze attuali e sugli autori stranieri che avevano da tempo rinunciato
al conforto della forma.
Gli sforzi di Carrieri, e della redazione che ne sosteneva le scelte, per desacralizzare in chiave demagogica l’immagine dell’artista, vacillano però sotto il peso di due fattori: da un lato la progressiva irruzione
di stimoli visivi provenienti da fonti sempre nuove, che nessun rotocalco poteva totalmente ignorare;
dall’altra il divario innegabile, che i lettori stessi reclamavano, tra il pubblico e quella vasta categoria
raggruppata sotto la comune denominazione di “artista”, che fosse attore, scrittore, pittore o scultore,
per ragioni culturali non dissimili a quelle che nel Seicento avevano condotto dei poveri parrocchiani ad
indignarsi di fronte alla Madonna dei Pellegrini di Caravaggio. Negli stessi anni in cui l’Italia inorridiva
alla vista della “dama bianca” che piangeva al funerale di Fausto Coppi, sostituendosi fino all’ultimo alla
consorte legittima Pablo Picasso era il celebrato ottantenne che impalmava donne più giovani fotografato
nel suo studio con la neo-moglie e musa. Un esempio nostrano è quello di Mario Schifano, menzionato
in un articolo di cronaca nera del 1966 come consumatore di marijuana necessaria, per sua ammissione,
«per stimolare la sua ispirazione di artista di avanguardia». Nello stesso testo si fa anche menzione delle
alte quotazioni raggiunte del giovane pittore, che compare ritratto in compagnia delle sue opere per ben
tre volte, in formato ¼ di pagina con un probabile buon ritorno di mercato.
Le fotografie riprodotte nei rotocalchi contribuivano alla consacrazione della “persona” in “personaggio”. In relazione all’immagine dell’artista, quando questi non poteva essere proposto come rassicurante
modello da imitare, specialmente negli anni a ridosso dei ’70, e diventa un’icona negativa, se ne ammettono i comportamenti spregiudicati in virtù del suo talento. In questo ultimo aspetto risiedeva l’insanabile
distanza degli artisti dal pubblico, ma anche l’origine della fascinazione che esercitavano, poiché il talento
era una qualità che neppure la volontà e l’impegno, doti che avevano permesso ad un tipografo nullatenente di diventare Arnoldo Mondadori, potevano garantire all’uomo comune. Il genio è anche sregolatezza, ed
«Epoca», nel 1962, si avvale della stravagante fisionomia di Salvator Dalì per fissare la declinazione “negativa” di estro, ammonendo i lettori che «non basta distinguersi dagli tutti gli altri in una maniera qualsiasi
per essere originali», in quanto si rischierebbe solo di rendersi ridicoli. E anche la didascalia indirettamente
ammonisce: Salvator Dalì: una vera personalità della pittura ma indubbiamente un eccentrico nella vita. In
questo ambito, ma in accezione opposta, deve intendersi la pubblicazione, nel 1963, dell’opera figurativa
La vendemmia di Gregorio Sciltian per il proposito di ribadire il carattere indefinibile della creatività,
annoverata tra le qualità emotive più che cognitive e per questo innate, anche quando dipinti o sculture
sembravano riprodurre fedelmente la realtà: «Anche la più fedele rappresentazione della realtà, insieme a
doti intellettive non comuni, richiede sempre e prima di tutto la capacità di comunicare emozioni ricevute,
al di là della pura intelligenza».
Il fattore “talento” poteva quindi soccorrere anche i redattori di politica e costume, per sottolineare
78
come esso fosse all’origine di tutte le arti o, di contro, come potesse costituire il plusvalore di personaggi
dediti ad attività imperniate esclusivamente sulle facoltà razionali: frequenti le occorrenze di immagini, da
un lato di cantanti, attori, scrittori e, dall’altro di politici, presentati in qualità di pittori dilettanti.
Una serie di servizi con illustrazioni di grande formato, spesso anche a colori, sono quelli a firma di
collaboratori come Grazia Livi, Lorenzo Bocchi, Guido Gerosa, Giuseppe Grazzini, nelle cui pagine trovano spazio i grandi nomi della pittura nazionale e internazionale – Braque, Utrillo, ma anche Soffici e
Morandi – che esulano dalle proposte di Carrieri, che comunque nonostante la grande enfasi portata sulle
immagini non possono essere considerate rassegne artistiche ma piuttosto articoli di costume. In virtù di
questo aspetto è paradossalmente concesso loro di spaziare con disinvoltura tra le categorie iconografiche
fino ad ora descritte: la creatività, la follia, la spiritualità sono qualità visivamente espresse dalle riproduzioni fotografiche, ma in un assetto che appare finalizzato soprattutto a dilettare il lettore. Non possedendo
rubriche a cadenza settimanale, si deve dedurre che la selezione dei pezzi proposti si basasse su criteri di
godibilità e che, in tale contesto, autori dissonanti seppur in linea con l’immaginario proposto, potessero
essere ben tollerati.
Laura D’Angelo
BIBLIOGRAFIA
Anche per gli artisti si parla di lancio pubblicitario. Crede possibile questo tipo di successo? Che opinione ha dei
critici?, in «Epoca», XI/512 (1960), pp. 6-7.
L. BOCCHI, Picasso alla terza colomba, in «Epoca», XII/546 (1961), pp. 80-85.
R. CARRIERI, Il genio di Sironi risplende nelle sue tele a Venezia, in «Epoca», XIII/614 (1962), pp. 90-91.
Credete nel destino, in «Epoca», XIII/599 (1962), p. 5.
In cosa consiste la personalità?, in «Epoca», XIII/615 (1962), p. 5.
I malinconici amici di Viviani, in «Epoca», XIV/673 (1963), pp. 34-37.
Noi paghiamo per queste buffonate, in «Epoca», XV/718 (1964), pp. 26-29.
Per essere artisti bisogna avere un’intelligenza eccezionale?, in «Epoca», XIV/672 (1963), p. 5.
F. SERRA, Perderà anche il figlio di Coppi?, in «Epoca», XI/502 (1960), pp. 83-85.
Tramonta a Venezia la pittura degli Informal, in «Epoca», XIII/613 (1962), pp. 62-65.
B. VANDANO, Le disavventure della baronessa, in «Epoca», XVII/829 (1966), pp. 70-72.
«L’Espresso». Strategie di moltiplicazione e consumo culturale delle immagini
Le immagini oggetto della ricerca sono rintracciabili nell’apparato iconografico a corredo di un nucleo
ben individuabile di rubriche. In primis la rubrica di critica d’arte, curata da Lionello Venturi sin dagli
esordi de «L’Espresso», affidata poi a Carlo Ludovico Ragghianti, affiancato da Pier Carlo Santini nel
1963, passata alla curatela di Giuliano Briganti nel 1965 fino al 1967; con l’avvio de «L’Espresso colore»,
viene sostituita nel supplemento dalla rubrica I Pittori curata da Briganti e Maurizio Calvesi, con la sezione
Incontri dedicata al ritratto fotografico e testuale di pittori, galleristi, critici e collezionisti, affiancata dal
1968 da quella Le mostre. Stesso rapporto di appartenenza funzionale al testo hanno le immagini riprodotte
nella rubrica d’architettura curata da Bruno Zevi, della quale sono state selezionate immagini pertinenti
al dibattito sull’arte pubblica e alla recensione di esposizioni e allestimenti. Al binomio arte-architettura si
affianca il mercato con la rubrica Il collezionista curata da Fabrizio Dentice, che la firma con lo pseudonimo
di Oberon, nome shakespeariano che sarà condiviso da Agata Benedetti che ne continua la curatela con lo
pseudonimo di Titania dal 1962 al 1967 nella rubrica Gli Antiquari del supplemento.
Al di là di questi luoghi redazionali, le strategie di moltiplicazione sottese alla riproduzione delle
79
immagini possono essere piuttosto isolate nelle sezioni dedicate alla cronaca mondana, all’attualità e alla politica, dove
l’autonomia dell’immagine contribuisce ad una sua ulteriore
significazione. La comprensione di queste modalità permette di
isolare alcuni nodi tematici e critici quali la diffusione dell’immagine dell’artista e della sua opera, ma anche di luoghi d’arte
all’interno di un sistema socio-politico ben riconoscibile. Una
moltiplicazione dunque che insiste in una riproduzione situata
ben oltre il corredo iconografico al testo.
Esemplificative di questa prassi sono le illustrazioni di Brunetta
Mateldi a corredo de Il lato debole, rubrica di moda e costume
curata da Camilla Cederna. Nel 1961 l’articolo Quadri a rate,
Fig. 1 – Illustrazione di Brunetta Mateldi
dedicata all’iniziativa della vendita rateale dedicato all’iniziativa di vendita rateale di quadri promossa da
di quadri promossa da Ivan Trivulzio, in Ivan Trivulzio, era accompagnato da un’illustrazione che ritraeva
«L’Espresso», VII/16 (1961), p. 24
il mercante nell’atto di tagliare una tela di Giuseppe Capogrossi
quasi per poterla vendere in parti separate (fig. 1).
L’anno successivo nella rubrica Il collezionista Dentice proponeva una fotografia ancora di Trivulzio
davanti ad un quadro di Carlo Levi a corredo dell’articolo Venderà Picasso agli operai con riferimento alla
pratica di mercato già oggetto dell’articolo della Cederna e dell’illustrazione di Brunetta.
Nella dialettica che intercorre tra una comunicazione dichiaratamente specialistica e una divulgazione apparentemente disinvolta, si attesta una tipologia di riproduzione funzionale a quel consumo
culturale delle immagini che il genere editoriale del rotocalco documenta.
Nel settembre 1962 Ragghianti rilasciava un’intervista titolata Il segreto di Mondrian. Ragghianti
spiega l’opera di un caposcuola della pittura moderna in occasione dell’uscita di Mondrian e l’arte del
XX secolo, il saggio vincitore quell’anno del Premio Viareggio per la critica. Accompagnavano l’intervista la riproduzione di tre immagini tratte dal volume: rispettivamente, Autoritratto (1900) e un
particolare del Nudo alla toilette (1912) in dialogo con lo schema figurativo tracciato da Ragghianti.
In questo caso l’attenzione era certamente dedicata alla presentazione delle qualità specifiche del
volume di un collaboratore, ma «L’Espresso» aveva già pubblicato una fotografia di Ragghianti con la
moglie e Carlo Levi a Viareggio a corredo dell’articolo di Marialivia Serini I premiati. Li ha letti anche
la Loren: in quell’occasione l’autrice non aveva potuto non far riferimento all’opinione di Sofia Loren
in merito: «Quel suo libro m’ha messo subito voglia
di aver un bel Mondrian nel mio soggiorno».
Non potendo mostrare un Mondrian nel soggiorno della Loren, si documenta la presenza di un
Picasso nell’abitazione di Paul Steffen (fig. 2): anziché sul sofà dell’analista, come Ragghianti titolerà la
sua recensione a Guernica. Genesis of a Painting di
Rudolf Arnheim, sopra al sofà di Steffen compare
una riproduzione di Guernica.
Picasso e Guernica costituiscono casi emblematici
Fig. 2 – Una riproduzione di Guernica nell’appartamento delle declinazioni che la riproduzione assume, capaci
del coreografo Paul Steffen a Roma, in «L’Espresso», VI/36
(1960), p. 11
di documentare la circolazione ed appropriazione
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dell’immagine del mito dell’artista da un lato e dell’opera-emblema dall’altro.
A trent’anni da Guernica, nel 1967 «L’Espresso colore» dedicava un ampio articolo a firma di
Nello Ajello dal titolo Come fu distrutta una città. Come nacque un capolavoro, con evidente riferimento, nuovamente, allo studio di Arnheim. Nonostante alcune delle immagini fossero tratte dal
reportage condotto da David Douglas Duncan presso La Californie, già apparso in «Life» nel 1961,
la sintassi compositiva e il montaggio delle immagini erano di natura diversa.
Se in «Life» la figura di Picasso veniva rappresentata con evocazione romantica e toni giocosi attraverso il divertissement con l’amico Manuel Pallares (Miguel Pallarès, in «Life» e «L’Espresso») qui le
tonalità mitiche della figura di Picasso si muovevano verso una connotazione propriamente politica
che non poteva essere se non quella del dipinto per la Guerra civile spagnola, corredato dagli studi di
donna piangente realizzati proprio durante la “genesi” del dipinto.
Ulteriore prova delle declinazioni e del ruolo strategico che la moltiplicazione assume sono le
immagini riprodotte nell’ambito degli articoli dei corrispondenti esteri.
La fotografia che ritrae Afro nel quartiere di Harlem a New York viene scelta da Mauro Calamandrei
come icona della fortuna dell’arte italiana negli Stati Uniti facendo del pittore l’italiano senza mandolino.
In apertura dell’articolo Calamandrei ricordava l’esordio della fortuna critica delle ricerche italiane del dopoguerra sancita dalla mostra curata da Alfred Barr e James T. Soby nel 1949 al MoMA
titolata XXth Century Italian Art e la mostra Five Italian Painters presso la galleria di Catherine
Viviano a New York che aveva ospitato, nel gennaio 1950, opere di Afro, Cagli, Guttuso, Morlotti
e Pizzinato. Siamo nel 1962 e proprio quell’anno usciva a firma di Dentice l’inchiesta L’ispirazione
gli affari la moda nell’arte italiana contemporanea; la seconda parte era dedicata a I convertiti della
generazione di mezzo tra i quali lo stesso Afro che, proprio durante il soggiorno americano degli anni
cinquanta, aveva trovato la sua forma, la conversione all’informale, e la sua fortuna. Già nel 1958
«Life» aveva dedicato ai Basaldella un ampio articolo con riferimento all’attività didattica dei due
artisti, rispettivamente presso il Mills College in California e ad Harvard.
Se da un lato la figura dell’artista veniva usata come simbolo del boom economico dell’Italia del
dopoguerra, dall’altro è l’immagine del museo ad essere importata come icona del miracolo americano e dell’eccezionale collezionismo statunitense che il MoMA e il Guggenheim incarnavano.
Il 22 maggio 1960, sempre a firma di Calamandrei, una pagina veniva dedicata all’asta organizzata a New York per il trentesimo anniversario della fondazione del MoMA. La settimana
successiva Calamandrei illustrava con una fotografia di una sala del Guggenheim Museum un
articolo dedicato al «Wall Street Journal» che rappresentava la «testimonianza più genuina del capitalismo illuminato americano» tanto quanto il Guggenheim, aperto al pubblico solo il 21 ottobre
1959, era il simbolo, culturale e politico, del collezionismo americano ma anche per sineddoche
dell’arte contemporanea. La stessa fotografia, seppur ridotta, veniva ripresa nel 1964 nella rubrica
Collezionista a corredo dell’articolo I musei americani si spostano come zingari con riferimento alle
vicende di alcune istituzioni museali americane.
Come foro ed agorà dell’arte contemporanea appariva il Guggenheim nella fotografia di
Michelangelo Durazzo, pubblicata a mezza pagina, a corredo degli appunti di un viaggio della durata di trenta giorni condotto nel 1963 da Arrigo Benedetti negli Stati Uniti. In queste annotazioni
Benedetti ricordava l’appuntamento a Boston proprio con uno dei fratelli Basaldella, Mirko, al quale
era stata affidata in quegli anni la direzione del Carpenter Center for the Visual Arts costruito da Le
Corbusier a Cambridge. Appuntamento forse per andare insieme a visitare l’Isabella Stewart Gardner
81
Museum a cui si riferisce scrivendo: «Si ha l’impressione di un incontro poco equilibrato tra tradizioni. Come se dopo una catastrofe che avesse distrutto l’Europa e l’Asia gli americani fossero intenti a
ricostruire un’immagine dei vecchi continenti da cui venne la loro civiltà».
Certamente il riferimento non è al museo newyorkese della fotografia di Durazzo, che avrebbe
piuttosto contribuito alla scossa elettrica subita durante il viaggio statunitense e citata nel titolo
dell’articolo; è pur vero, tuttavia, che il Guggenheim costituiva, anche grazie al progetto di Frank
Lloyd Wright, l’immagine di un tempio-monumento chiamato a raccogliere l’eredità dell’arte europea e a ricostruire l’immagine del vecchio continente.
Se è possibile parlare di esportazione e importazione di immagini legate a figure e luoghi dell’arte contemporanea con la conseguente creazione di un repertorio visivo di carattere culturale e politico, dall’altra
parte del Muro, ad Est, è certamente la figura di Renato Guttuso ad essere esportata, esempio di una
possibile conciliazione tra pratica artistica e fedeltà ad un realismo ritenuto necessario.
Nel 1961 Guttuso, in occasione della sua mostra antologica ospitata al Puskin di Mosca e all’Ermitage
di Leningrado, visitava alcuni artisti russi presso il quartiere Masterkaia a Mosca. L’altisonante titolazione
Guttuso dicci i nostri sbagli. Da ogni parte della Russia i pittori sono venuti a Mosca per discutere i suoi quadri
con cui Andrea Barbato presentava come corrispondente il memorabile incontro, anticipato anche in
prima pagina, e la centralità della fotografia che ritrae Guttuso con i pittori Ivan, Sasha e Andrej che
avevano sottoposto i loro quadri al suo giudizio, offrono il peso dell’evento.
Nell’aprile dello stesso anno, Manlio Del Bosco incontrava Ilja Ehrenburg a Roma e illustrava
l’intervista con una fotografia dello scrittore sovietico accanto ad una Natura morta di Guttuso. Un altro
ritratto di Eherenburg, questa volta in una galleria non specificata di Via del Babuino, accompagnava il passo
dedicato ad Isaak Babel, tratto dalla terza parte delle memorie di Eherenburg tradotte da Giovanni Crino.
Nuovamente con la traduzione di Crino veniva pubblicato nel 1962 un estratto dal quarto
volume delle memorie Uomini, anni, vita dedicato a Robert Rafailovič Fa’lk che, insieme a Chagall,
Malevich, Goncharova e Larionov, aveva preso parte alla stagione del Fante di Quadri.
Nell’intervento ad una conferenza all’università di Mosca di pochi mesi prima, posto in apertura
dell’articolo, lo scrittore aveva dichiarato: «Se i nostri giovani vedessero le opere dei pittori sovietici
degli anni venti (i vari Kandinski, Lisitski, Malevi[ch], Tatlin, Rodcenko etc), nascosti nei fondi della
galleria Tretiakov di Mosca, forse non cercherebbero di scoprire l’America». Corredava il brano il
ben noto Ritratto maschile con cravatta rossa di Fa’lk che chiariva, attraverso gli evidenti riferimenti a
Cézanne, a quale tipo di pittura moderna Eherenburg voleva riferirsi.
Fotografie della galleria Tretiakov accompagnavano la quinta parte del racconto di Aleksandr
Solzhenizin, apparso nel 1962 sulla rivista «Novyi Mir» e pubblicato in cinque episodi nel 1963
con la traduzione di Enzo Bettiza, già corrispondente da Mosca per «La Stampa», che collaborava
a «L’Espresso» con lo pseudonimo di Sarmatius. Ma ad essere riprodotte erano le sale della galleria
abitate da operai e contadine in visita, svelando quanto il dibattito tra realismo e astrattismo, che
aveva connotato la polemica figurativa del secondo dopoguerra, fosse ancora attuale.
Elena Salza
BIBLIOGRAFIA
N. AJELLO, Come fu distrutta una città. Come nacque un capolavoro, in «L’Espresso Colore», I/11 (1967), pp. 8-19.
A. BARBATO, Guttuso dicci i nostri sbagli. Da ogni parte della Russia i pittori sono venuti a Mosca per discutere i
suoi quadri, in «L’Espresso», VII/35 (1961), p. 11.
82
A. BENEDETTI, La scossa elettrica. Trenta giorni negli Stati Uniti, in «L’Espresso», IX/16 (1963), p.15.
M. CALAMANDREI, Gli accademisti dell’astrattismo. I ricchi americani si sono disputati Cézanne per televisione, in
«L’Espresso», VI/21 (1960), p. 10.
M. CALAMANDREI, Cento uomini una firma. Com’è fatto il giornale che ha più successo in America, in
«L’Espresso»,VI/22 (1960), p. 13.
M. CALAMANDREI, L’italiano senza mandolino. Come gli americani ci giudicano dopo due anni di miracolo economico, in «L’Espresso», VIII/3 (1962), p. 11.
C. CEDERNA, Quadri a rate, in «L’Espresso», VII/16 (1961), p. 24.
F. DENTICE, L’ispirazione gli affari la moda nell’arte italiana contemporanea. I convertiti della generazione di
mezzo, «L’Espresso», VIII/6 (1962), pp. 14-15.
I. EHRENBURG, M. DEL BOSCO, Ai giovani russi non piace la letteratura crudele. Un colloquio con Ilja Ehrenburg
di passaggio a Roma a proposito d’una nostra critica ai suoi giudizi sul Dottor Zivago, in «L’Espresso», VII/17
(1961), p. 13.
I. EHRENBURG, Il gaio silenzio di Babel, in «L’Espresso», VII/41 (1961), p. 17.
I. EHRENBURG, Il Fante di quadri. Ehrenburg nobilita l’opera di un pittore che non piaceva a Stalin, in
«L’Espresso»,VIII/20 (1962), pp. 18-19.
OBERON, Venderà Picasso agli operai, in «L’Espresso», VIII/14 (1962), p. 23.
C.L. RAGGHIANTI, Il segreto di Mondrian. Ragghianti spiega l’opera di un caposcuola della pittura moderna, in
«L’Espresso»,VIII/36 (1962), p. 15.
C.L. RAGGHIANTI, Un libro di Arnheim. Picasso sul sofà dell’analista, in «L’Espresso», VIII/13 (1963), p. 22.
M. SERINI, Mama’s Boy. Perché al coreografo Paul Steffen piace tanto abitare il nostro paese, in «L’Espresso», VI/36
(1960), p. 11.
M. SERINI, I premiati. Li ha letti anche la Loren, in «L’Espresso»,VIII/35 (1962), p. 13.
A. SOLZHENIZIN, Manca un uomo. Quasi un secondo rapporto Kruscev. La giornata di Ivan Denissovic, in
«L’Espresso», IX/2 (1963), pp. 14-15.
Star Brother Act in Art. Two Italian Artists, Afro and Mirko Make Hit Teaching in U.S. Colleges, in «Life»,
XXII/23 (1958), pp. 66-72.
The Surprise Picasso. Photographed by David Douglas Duncan, in «Life», XXV/17 (1961), pp. 60-69.
TITANIA, I musei americani si spostano come zingari, in «L’Espresso», X/29 (1964), p. 23.
83
Indice
Premessa
L. BARROERO
3
Nota dei curatori
R. DOLCE, A. FRONGIA
5
Gli arredi lignei da Ebla: una questione aperta
R. DOLCE
6
Attività di ricerca della cattedra di Paletnologia nel 2010
A. GUIDI
9
Attività di ricerca degli studenti dell’Università Roma Tre nella necropoli di Fossa (AQ)
M. PENNACCHIONI
11
Verso una storia della conservazione del Patrimonio Culturale in Cina
M. MICHELI, ZHAN CHANG FA
13
Mortalità materna nei rilievi funerari attici: un’ipotesi di lettura
A. LATINI
16
Le tombe rupestri “a tempio” in Etruria e in altre zone del Mediterraneo orientale
S. STEINGRAEBER
19
La “Basilica Argentaria”: alcuni spunti di ricerca
M. MEDRI, C. TAFFETANI
23
A proposito delle Tre Grazie
D. MANACORDA
27
Pompeiopolis di Paflagonia. Un progetto di cooperazione tra la Ludwig-Maximilians-Universität di
Monaco e l’Università Roma Tre
L. MUSSO
30
Osservazioni sulle iscrizioni cristiane di tridentum anteriori al VII secolo
D. MAZZOLENI
33
L’altare di Giovanni VII (706) e l’apertura della Porta Santa nell’antico San Pietro
A. BALLARDINI
36
Dalla Curia Senatus alla chiesa di Sant’Adriano. La riscoperta di un palinsesto architettonico e
pittorico perduto
G. BORDI
Anfiteatro Flavio: lo scavo di due ambienti del primo ordine
R. SANTANGELI VALENZANI
38
42
L’incisione a Roma fra Cinquecento e Seicento. Paesaggio e veduta
G. SAPORI, L. TIBERTI
45
Una famiglia di scultori, fonditori e mercanti di antichità: i Rondoni-Spagna
F. RANGONI
48
Conseguenze di un viaggio di Annibale Carracci nel 1602
S. GINZBURG
53
Pittori e Virtuosi attraverso i disegni di Ottavio Leoni
M.C. TERZAGHI
55
Pittura del Seicento e del Settecento. Ricerche in Umbria: l’antica diocesi di Perugia
C. METELLI
59
Per una storia del mercato dell’arte. Da Roma all’Europa e al Nuovo Mondo, tra la seconda metà
del secolo XVIII e la fine del XIX
L. BARROERO
62
Il dibattito romano sulla riforma dell’insegnamento accademico negli anni Ottanta del XVIII secolo e
Le Accademie d’arte di Nikolaus Pevsner (1940)
S. ROLFI
65
“Il mondo in una stanza”: esempi del collezionismo archeologico di stampo universale
tra il XIX e il XXI secolo
G. CALCANI
68
Europa e America nel modernismo “transatlantico” di Walker Evans, 1928-1934
A. FRONGIA
71
L’arte moltiplicata. La cultura visiva a Roma tra rotocalchi e riviste culturali negli anni 1960-1980
L. IAMURRI
74
«Epoca» 1960-1969: l’immagine dell’artista nell’Italia del miracolo economico
L. D’ANGELO
75
«L’Espresso»: strategie di moltiplicazione e consumo culturale delle immagini
E. SALZA
79
Finito di stampare nel mese di novembre 2012
presso 3emmegrafica snc - Firenze
per conto di LIBRO CO. ITALIA
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