LUISS
Libera Università
Internazionale
degli Studi Sociali
Guido Carli
Centro di metodologia
delle scienze sociali
LA QUESTIONE DEGLI “INDI” NEL PENSIERO DI
BARTOLOMÉ DE LAS CASAS
E FRANCISCO DE VITORIA
di Gregorio Alteri
Working Papers
n. 102, 2005
© 2005, Pubblicazioni a cura del Centro di Metodologia delle Scienze Sociali, Luiss Guido Carli,
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Luiss Guido Carli
LA QUESTIONE DEGLI “INDI” NEL PENSIERO DI
BARTOLOMÉ DE LAS CASAS
E FRANCISCO DE VITORIA
Gregorio Alteri
Bartolomé de Las Casas: il protettore degli indi
Francesco Guicciardini nella Storia d’Italia dedica alcune pagine ai viaggi per mare degli
spagnoli non trascurando gli effetti delle straordinarie scoperte compiute. Colpisce, nella lettura
di queste pagine, il giudizio espresso a proposito della semplicità degli abitanti delle nuove
terre. Lo storico, affascinato da questi uomini, ignari di avarizia ed ambizione, inesperti delle
cose e miti di costumi, sa che sono proprio queste ammirevoli condizioni a renderli impotenti,
come animali mansueti di fronte alle armi e alla civile organizzazione degli spagnoli. Sono
genti, infatti, “infelicissime, perché non avendo gli uomini né certa religione, né notizia di
lettere, non perizia di artifici, non armi, non arte di guerra, non scienza, non esperienza alcuna
delle cose” sono “facilissima preda di chiunque gli assalta”1.
Di questa semplicità di condizioni di vita e di costumi è forse più immediata la testimonianza
diretta di Bartolomé de Las Casas, frate domenicano, che della bontà di queste genti e della loro
capacità di vivere in armonia e senza avidità, si fece difensore e portavoce in Europa.
Las Casas arrivò nelle Indie nel 1502 e partecipò come cappellano militare a numerose
spedizioni per di colonizzazione. Durante una di queste, quella verso Caonao, fu così colpito
dagli atti truci e crudeli compiuti dai soldati nei confronti degli inerti indigeni, che essa costituì
una tappa importante per il suo percorso personale e spirituale di “conversione” destinata ad
essere perfezionata in un’altra occasione. Durante il giorno di Pentecoste del 1514, all’atto di
preparare il sermone che avrebbe dovuto pronunciare, fu colpito dal capitolo 34 dell’Ecclesiaste
che lo indusse a riflettere. “Sacrificare qualcosa di male acquisito è schernire Dio: le offerte dei
malvagi non sono gradite a Dio. Offrire un sacrificio con le sostanze del povero è come
immolare il figlio in presenza dal padre. Poco pane è il nutrimento dei poveri e chi osa
privarveli è un sanguinario. Uccide il prossimo chi gli sottrae il cibo”2. Fu allora che Las Casas
cominciò a considerare la miseria e lo stato di schiavitù in cui erano tenuti gli indiani, riflettere
sul fatto che i domenicani predicavano che non era possibile in coscienza possedere degli
indiani e che rifiutavano la confessione e l’assoluzione a chi avesse persistito in tale pratica,
finché, dopo qualche giorno di riflessione, si convinse che tutto ciò che si commetteva nelle
Indie nei confronti degli indiani era ingiusto e tirannico.
Ecco allora essere chiara l’entità della “conversione”, nient’altro che una presa di coscienza
della realtà: la missione che è stata affidata agli spagnoli nel Nuovo Mondo è compromessa.
Portare Cristo implica l’offerta del sacrificio eucaristico, ma questa offerta è stata mal acquisita.
Las Casas volle subito invertire tale processo di ingiustizia decidendo di tenere la sua predica su
questo argomento e di rinunciare subito agli indiani che possedeva per poter condannare in tutta
libertà il regime delle encomiendas.
Il progetto di Las Casas era però più ambizioso: recarsi a corte a difendere la causa degli
indiani oppressi, denunciando la pericolosa situazione in cui versavano gli Indi. Il cardinale De
Cisneros, illustre prelato francescano cui era stata affidata la reggenza3 in attesa che il Principe
1
F. GUICCIARDINI, Storia d’Italia, Sansoni, Firenze, 1919, p. 45.
B. LAS CASAS, Historia de las Indias, a cura di Juan Pérez de Tutela e Emilio Lopez Oto, vol. I,
Madrid, 1957, libro I, cap. 79.
3
Il Cardinale F. Ximenex de Cisneros fu coadiuvato nella reggenza dal precettore del principe Carlo,
il Cardinale Adriano di Utrecht, decano dell’Università di Lovanio e futuro papa Adriano VI.
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Carlo divenisse maggiorenne era stato già messo al corrente degli abusi messi in atto dagli
spagnoli dalle lettere ricevuti dai confratelli di Hispaniola e prese il provvedimento di
allontanare alcuni funzionari della corona dalle Indie con l’accusa di corruzione. Poi, nella
primavera seguente, Las Casas fu convocato a Madrid, dove i reggenti si erano trasferiti, per
discutere insieme ad alcuni letrados, di un’auspicata riforma dell’amministrazione d’oltremare.
Fra i giuristi spicca il nome del noto Palacios Rubios, ideatore del Requerimiento su mandato
della giunta convocata a Burgos nel 1512 da Ferdinando il Cattolico. Il requerimiento è
un’intimazione o “invito” a sottomettersi che era rivolto agli indi, già utilizzato in passato nelle
Canarie allo stesso scopo di intimare alle popolazioni autoctone la soggezione alla Corona. Non
esisteva un testo scritto fino all’elaborazione di Palacios Rubios, sebbene fosse utilizzato nel
Nuovo Mondo già dal 1503. Esso trovava il proprio fondamento teologico e giuridico
nell’ampia interpretazione della giurisdizione che la cristianità aveva sui domini degli
“infedeli”. Nella prima parte del testo di questa intimazione, infatti, veniva sommariamente
spiegato il diritto che Cristo aveva dato al papa e che quest’ultimo aveva trasmesso al re di
Castiglia, di esigere la sottomissione temporale degli interlocutori.
Con esso non si pretendeva una conversione, che era lasciata alla buona volontà e alla buona
disposizione degli indi. Si richiedeva, invece, il riconoscimento della nuova sovranità. E
l’intimazione pretendeva inevitabilmente il riconoscimento della Chiesa “come signora e
padrona dell’universo (VII)”4 che avrebbe assicurato agli indi “tutto l’amore e la carità, senza
sorta di servitù, molti privilegi ed esenzioni (VIII)”. In caso contrario sarebbero stati causa di
“guerra in tutti i luoghi e in tutti i modi, sottomissione al giogo della Chiesa e alle Loro
Altezze”5, visto che solo agli indi sarebbero stati da imputare “i danni e le morti che si
produrranno”6 e non a chi leggeva l’intimazione, o ai cavalieri che l’accompagnavano, o al re
(IX).
Las Casas non voleva sottrarre gli indigeni dalla sovranità spagnola, ma liberarli dagli
encomenderos per permettere che fossero ricostituiti i gruppi umani naturali d’origine. I rimedi
escogitati sono diversi; in primo luogo concedere l’assoluzione ai coloni pentiti dei loro crimini
ed abusi, a condizione che restituiscano i profitti male acquisiti. Inoltre sostituire l’istituto
dell’affidamento con una sorta di encomienda indivisa: gli indigeni, anziché essere affidati
personalmente ad ogni singolo colono, dovevano essere affidati al villaggio nel suo insieme, in
modo che nessuno potesse possedere indiani “propri”. Poi, per valorizzare le isole Las Casas
propose un ulteriore innovazione che avrebbe coinvolto anche i contadini spagnoli, che associati
agli indigeni affinché formassero delle comunità-famiglie in ragione di uno spagnolo ogni
cinque indiani con mogli e figli7 li avrebbero aiutati nel lavoro, con l’esempio e con l’incarico di
iniziare gli indi alle tecniche agricole e all’uso del denaro condividendone gli utili. Tutto
sarebbe culminato con un integrazione piena e completa, affinché quelle isole divenissero le
terre migliori e più ricche del mondo.
Il De Unico Modo e la bolla Sublimis Deus
Las Casas è debitore dell’interpretazione tomistica di Tommaso de Vio, detto il Caetano, che
mise in seria discussione la legittimazione del dominio del re cattolico e dei suoi sudditi sulle
popolazioni delle nuove terre. Caetano distingueva tre diversi tipi di relazione fra la cristianità e
i popoli pagani. Fra questi, alcuni sono di fatto e di diritto sudditi di principi cristiani: gli ebrei,
per esempio, vivendo in terre cristiane, rientrano in questa prima categoria. Altri sono sudditi di
diritto, perché abitanti terre un tempo appartenute all’impero Romano (è il caso dei popoli della
Palestina), ma non lo sono di fatto. In ultimo, esistono popoli che non possono essere sudditi di
4
S. BENSO, La conquista di un testo. Il Requerimento, Roma, 1989, p. III – 23.
Ibidem.
6
Ibidem.
7
Cf. B. LAS CASAS, Historia, cit., l. III, c. 129.
5
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principi cristiani né di fatto, né di diritto, vivendo in terre mai appartenute all’impero romano,
ed è il caso dei popoli americani. In aggiunta, i non credenti americani debbono essere
considerati “invincibilmente ignoranti”, perché mai poterono ascoltare la parola di Dio.
“Vincibilmente ignoranti” sono invece gli ebrei o i musulmani, che avendo già avuto tale
possibilità, sono per questo di tanto più colpevoli8.
La conclusione cui giungeva Caetano era perciò logica: a questa categoria di pagani spettano
per diritto naturale le proprie terre e i propri beni di cui non possono essere privati, perché il
diritto divino, che proviene dalla grazia, non cancella il diritto naturale che proviene dalla
ragione naturale: “Jus divinum quod est ex gratia non tollit jus humanum quod est ex naturali
ratione9”. Questo principio diviene fondamentale in Las Casas, il quale si scaglierà contro due
avversari: Enrico da Susa, cardinale di Ostia, già ricordato con l’appellativo di Ostiense,
sostenitore di una teocrazia assoluta in cui al papa, vicario di Cristo, spetta il dominio su tutte la
terra e in quello che ha di temporale e di spirituale, per cui i principi pagani sono degli
usurpatori e il papa può assegnare i loro domini al re cristiano che preferisca, e John Mair, che
insegnava alla Sorbona teologia scolastica, già dal 1510 sostenitore del giusto utilizzo delle armi
nei confronti dei pagani americani su imitazione dei metodi di conquista adottati dall’impero
romano.
Las Casas, nel De unico vocationis modo omnium gentium ad veram religionem (Dell’unico
modo di condurre alla religione tutte le genti), forse opera di esercitazione nel corso dei suoi
studi teologici10, esprime assai efficacemente l’essenza del suo messaggio religioso, che ha
elaborato dalla lettura del Vecchio e del Nuovo Testamento, da cui risulta che la guerra è
contraria all’insegnamento ed alle intenzioni di Cristo. Rifacendosi ad un brano tratto dal
Vangelo di Matteo, che dimostra come Cristo abbia istituito un modo dolce di insegnare agli
uomini e abbia invitato i suoi discepoli ad imitarlo. L’incompatibilità fra evangelizzazione e
guerra è resa evidente dalle è parole di Cristo: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi ed
aggravati, ed io vi darò riposo. Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me, che sono mite
ed umile di cuore, e troverete riposo per le anime vostre; […]” (Mt 11, 28-30). Per Las Casas
infatti, la parola di Dio va portata come hanno fatto gli apostoli, senza armi, senza denaro e
senza spendere forza corporale, in altra sostanza “come pecore in mezzo ai lupi”.
Alla base di questo rifiuto totale della costrizione e della violenza stanno i tradizionali
presupposti della fede: la “libera adesione” e “l’universalità”11 del diritto alla salvezza degli
uomini. Quest’ultimo è particolarmente importante per chi come il nostro domenicano, riteneva
da un punto di vista cristiano che non esistano nazioni o popoli privi di questo immenso e
gratuito beneficio della Provvidenza che è la Salvezza12; e da un punto di vista “umano” o
“antropologico” che non esistono province, regni o nazioni incapaci di recepire la dottrina
evangelica.
Tutti gli uomini, infatti, percorrono il cammino dell’esistenza movendosi nella direzione di
un fine. Questa tendenza degli uomini, però, è per Las Casas comune a tutti gli esseri in quanto
tali. La natura, essendo un riflesso della Sapienza divina, non solo per la necessità di ricercare
un’origine suprema di tutte le cose, quanto piuttosto per la necessità di trovarvi un fine, è
intrinsecamente orientata a Dio, in modo ordinato e “non violento”. La domanda dell’essere non
8
Cf. A. LAMACCHIA, Francisco de Vitoria e l’innovazione moderna del diritto delle genti, in
“Relectio De Indis. La questione degli Indios”, Levante, Bari, 1996, p. LIX.
9
Distinzione fondamentale fatta da san Tommaso d’Aquino fra natura e soprannatura. TOMMASO
D’AQUINO, Summa Theologica, Trad. it. a cura dei domenicani, Firenze, 1949, quaest. 10, a. 10.
10
Cf. M. MAHN – LOT, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli Indiani, Jaca Book., Milano, 1985, p.
81.
11
Cf. J. A. BARREDA, Diritto naturale e pedagogia della fede in Bartolomé de Las Casas, in Aa.Vv., I
diritti dell’uomo e la pace…”, cit., p. 191.
12
B. LAS CASAS, Del ùnico modo de atraer a todos los pueblos a la verdadera religion, trad. spagnola
del testo latino De unico vocationis modo, Mexico, 1942, cap. V, prologo, p. 3.
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è “da dove?” ma “verso dove?”, perché tutto in natura è orientato nella direzione del suo fine.
Quindi se il fine orienta l’essere, orienta, conseguentemente, anche il suo “attuarsi”13.
Tuttavia “l’uomo” è un essere “diverso” dagli altri. E’ una creatura razionale, superiore a
tutte le altre che non sono state fatte ad immagine e somiglianza di Dio. L’uomo è un essere
“ultimato in Dio”, finalizzato nella divinità e per questo motivo non gli è possibile prescindere
da Dio in nessun momento della sua esistenza. Nell’uomo lascasiano c’è Dio e man mano che
esso si avvicina al raggiungimento del suo fine, Dio gli si mostra sempre più evidente. Ma
l’uomo deve sentire, anche confusamente o nella sua forma più elementare l’idea di Dio. In ogni
uomo c’è una “insoddisfazione ontologica” che lo spinge a muoversi verso l’Essere che è
Pienezza. Poco importa a Las Casas che in questa prima fase di “insoddisfazione” questo Essere
venga indicato col nome di Dio, di Infinito o in altro modo. L’importante è che ogni uomo tenda
a dare con questo nome “soddisfazione” al desiderio più profondo della sua esistenza.
Se gli esseri inferiori si ordinano verso quelli superiori, l’imperfetto si ordina verso il
perfetto coi mezzi necessari per raggiungere il proprio fine, l’uomo è ordinato ad un fine
soprannaturale e la Provvidenza provvederà agli esseri razionali, che nell’ordinamento
dell’essere sono i più perfetti, e vi provvederà soavemente, dolcemente, in modo progressivo e
senza violenza.
Tutto ciò che si oppone alla razionalità dell’uomo, per Las Casas, è violento. Ecco allora che
introduce, insieme al principio di finalità nell’uomo, il principio di libertà. L’uomo per natura è
libero: “Tutte le nazioni del mondo hanno intelligenza e volontà, e quello che consegue da
entrambe queste potenze è il libero arbitrio e di conseguenza tutte hanno virtù ed abilità o
capacità alla buona inclinazione per essere indottrinate”14.
Ciò che rende l’uomo libero, dunque, è la ragione. Essere razionale è sinonimo di essere
libero, cioè di essere capace di auto-orientarsi al suo fine, dote propria dell’uomo, che, infatti, è
fatto a immagine di Dio. L’uomo non deve guardare alla propria libertà come ad un fine, ma al
fine, che egli è in grado di raggiungere proprio perché è libero e perché non è concepibile senza
libertà. Questo concetto di uomo, libero in quanto uomo, nella ricerca della Verità cristiana può
essere spiegato con le parole di un teologo moderno, J. Alfaro, per il quale, per divenire
autenticamente cristiani occorre prima essere autenticamente uomini, cioè pienamente padroni
delle proprie libertà15.
Alla radice di questa “libertà costitutiva naturale” c’è l’intelletto, per cui l’uomo non può
essere costretto o condotto in modo violento all’attuazione del proprio fine. Il modo “naturale”
attraverso il quale il principio di finalità si realizza è necessariamente un modo dolce, soave,
progressivo e quindi razionale. La violenza, invece, è innaturale, irrazionale e dunque inumana.
Quando si tratta della Fede cristiana, quindi, essendo essa il dono massimo che la
Provvidenza ci possa fare la soavità richiesta dall’intelletto umano deve potenziarsi,
proporzionalmente all’importanza del dono che ci è dato, cioè, massimamente. Questo è il
concetto dominante il De Unico Vocationis Modo omnium gentium ad veram religionem e
l’intera concezione della pedagogia della fede di Bartolomé Las Casas, per il quale la Fede non
può che essere insegnata dolcemente e progressivamente perché è essa stessa che lo richiede,
non potendo essere imposta. Imposizione significa violenza e dunque innaturalità. La fede
invece è un atto libero e volontario e per definizione rifiuta ogni coercizione
Il De unico vocationis modo, giustamente recensito come uno dei primi eruditi trattati di
missionologia e come “un’eccellente teoria delle missioni”16, è espressione assai significativa
oltre che completa ed originale dell’interpretazione che Las Casas dà al dovere cristiano di
13
Cf. J. A. BARREDA, Diritto naturale e pedagogia della fede in Bartolomé de Las Casas, in “I diritti
dell’uomo e la pace…”, cit., p. 193.
14
Brano dell’Apologética di Las Casas citato in J. A. BARREDA, testo citato, p. 196.
15
Cf. J. A. BARREDA, Diritto naturale e pedagogia della fede in Bartolomé de Las Casas, in Aa. Vv. I
diritti dell’uomo e la pace…”, cit., p. 198.
16
W. HENKEL, Le Missioni e la legislazione coloniale alla luce della prassi e della dottrina di Fray
bartolomè de las Casas, in Aa.Vv., I diritti dell’uomo e la pace…, cit, p. 379.
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predicare e comunicare la fede. Rifiutando ogni metodo pedagogico fondato sulla violenza e
sulla costrizione, perché rendono l’uomo violento ed indisposto ad accettare la fede, perché
l’uso della forza eccita le passioni, e cioè l’avversione e l’odio, Las Casas affronta il tema della
guerra e della pace, molto discussi dai suoi contemporanei. Egli presenta la guerra come un
omicidio comune, che rende gli uomini poveri, che distrugge le loro abitazioni, che danneggia
gli innocenti e che rende inclini all’odio. Un “multorum homicidium commune et latrocinium”17
da cui traggono origine tutti i mali e che deriva essa stessa da un grande male: l’avidità
dell’uomo.
La condanna della guerra in quanto tale, ma anche e soprattutto come mezzo di penetrazione
religiosa, coinvolge ogni forma di conquista armata della Spagna nelle Indie Occidentali, fino a
scuotere profondamente ogni concezione di “guerra religiosa” pretesto degli stati cristiani del
tempo per sottomettere preventivamente gli infedeli, dai quali ottenere poi la conversione18. Al
contrario uno solo è il modo in cui la Chiesa di Cristo può evangelizzare: nella pace, nella
semplicità, nella dolcezza, con la persuasione ragionata dell’intelletto, nella mansuetudine
dell’annuncio, e, soprattutto, con pazienza.
Il 2 giugno del 1537 Paolo III promulgò la bolla Sublimis Deus nella quale era detto che:
“considerando che gli indiani, essendo degli uomini a tutti gli effetti, non solo sono idonei a
ricevere la fede, ma anzi, da quanto ci dicono, la desiderano intensamente, dichiariamo, a
dispetto di qualsiasi opinione contraria, che i sudditi indiani non potranno in alcun modo essere
privati della loro libertà o del possesso dei propri beni, e che dovranno essere chiamati alla fede
di Gesù Cristo mediante la predicazione della Parola divina e l’esempio di vita virtuosa e
santa”19.
L’importanza di questa bolla fu subito evidente: la Chiesa si era pronunciata sul diritto di
ogni uomo, anche pagano, di conservare la libertà e circa il rifiuto che la Fede fosse imposta con
la forza. Il contenuto della bolla era un grande successo per chi come Las Casas sosteneva la
necessità dell’evangelizzazione pacifica trovando a sostegno di tali affermazioni l’autorevole
posizione del pontefice. La Sublimis Deus è così in accordo col De Unico Modo, infatti, che ha
indotto L. Hanke, autore di un’importante studio su Las Casas20, ad ipotizzare che il trattato
lascasiano possa essere stato scritto successivamente alla promulgazione della bolla pontificia.
Ciò che è certo, comunque, è che Las Casas, venuto in possesso di una copia di tale bolla la
pose al centro del De Unico Modo.
Las Casas e la Riforma delle Indie
La viva preoccupazione per la degenerazione dell’obiettivo primo della Conquista, vale a
dire l’evangelizzazione, emerge chiaramente dalla Brevissima Relazione sulla Distruzione delle
Indie scritta da Las Casas perché Carlo V potesse essere informato e indotto a prendere dei
provvedimenti. Tutte quelle infinite genti “di ogni genere, Dio le ha create semplici, senza
malvagità né doppiezze, obbedientissime e fedelissime ai loro signori naturali, e più di ogni
altre al mondo umili, pazienti, pacifiche e tranquille, aliene da risse e da baruffe, liti e
maldicenze, senza rancori, odi o desideri di vendetta”21, da non meritare supplizi, torture di
nessun genere e nemmeno l’estinzione della loro specie, d’intendimento chiaro, libero e vivace,
capaci di apprendere docilmente ogni insegnamento, con grandissima attitudine a “ricevere la
17
B. LAS CASAS, De unico vocationis modo, cit., p. 398.
Cf F. CANTÚ, testo citato, p. 69
19
A. DE LA HERA, El derecho de los Indios a la libertad y a la fe, in “Anuario de Historia del derecho
espanol”, 1956, pp. 5-97.
20
L. HANKE, Estudios sobre Fray Bartolomé de Las Casas Estudios sobre fray Bartolomé de las
Casas y sobre la lucha por la justicia en la conquista Española de América, Universidad Central de
Venezuela, Ediciones de la Biblioteca, Caracas 1968, p. 57-88.
21
Ibidem, p. 30
18
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nostra santa fede cattolica e ad acquisire costumi virtuosi”22 come nessun altro popolo creato da
Dio; dunque perché perdere di vista il fine fondamentale della presenza spagnola, la missione
cristiana di evangelizzazione?
Las Casas sa bene, però, che non basta denunciare, ma che occorre proporre rimedi,
alternative e correttivi. Avendo a Valladolid la possibilità di consultare le opere delle
biblioteche più ricche degli argomenti teologici e giuridici di cui ha bisogno a sostegno del suo
punto di vista, oltre che naturalmente avvalendosi della sua preziosa esperienza fatta in loco,
incomincia ad escogitare i suoi “remedios”. Ne elencò sedici, pur essendoci giunto solo
“l’Octavo”, il più importante, quello da cui dipendono tutti gli altri, proposto al re come
condizione indispensabile alla sopravvivenza del suo impero d’oltremare.
Per Las Casas il re deve dichiarare e giurare sulla propria fede di voler porre tutti gli indiani
sotto la propria sovranità diretta “in qualità di liberi vassalli”. I re di Castiglia hanno ricevuto in
affidamento questi regni dalla Santa Sede, perciò è tradire la propria missione delegare i propri
diritti e doveri a dei privati ripartendo i propri sudditi nel Nuovo Mondo e affidandoli loro in
encomienda. Las Casas è stato testimone nelle isole di Cuba e di Hispaniola di quanto questo
sistema sia esecrabile e nocivo e che anziché condurre gli indi ad amare gli spagnoli, la loro
fede ed il loro Dio, non fa che allontanarli, che convincerli ad aborrire la legge di un Dio che gli
permette di commettere tutte quelle nefandezze nei loro confronti, arrivando a detestare Dio,
causa di ogni loro sciagura. In questo Octavo remedio, compare il sunto del pensiero lascasiano:
“Tutti i popoli di questo Nuovo Mondo sono liberi e non cessano di esserlo al momento di
riconoscere Sua Maestà come Signore Universale”23.
In Carlo V quanto raccontato da Las Casas suscita una reazione emotiva immediata che si
concreterà nella decisione di portare avanti egli stesso delle ispezioni all’interno del Consiglio
delle Indie, i cui membri più indegni saranno esautorati24. In aggiunta a questo intervento reale,
anche le Cortes di Castiglia reclamano una migliore legislazione e nell’aprile 1542 si
raduneranno supplicando il re “di porre rimedio alle crudeltà che vengono perpetrate nelle Indie
ne confronti degli indiani; soltanto così Dio sarà servito meglio e le Indie si conserveranno e
non si spopoleranno più come sta accadendo ora”25.
La tanto auspicata riforma delle Indie, la cui necessità era avvertita da anni da Las Casas, è
dunque prossima e a questo scopo viene costituita una commissione alle cui sedute è spesso
presente anche Las Casas e nella prima delle quali egli dà lettura della Relaciòn. Durante le
sedute che verranno, leggerà i Remedios e, quando la Commissione si sposterà in Aragona
nell’estate del 1542, una Representaciòn pratica e teorica di contenuti così radicali che
difficilmente avrebbero potuto trovare applicazione. In questa teoria, tutti i conquistatori
avrebbero dovuto abbandonare metà di quanto si sono procurati in modo disonesto, se avessero
voluto restare nelle Indie. Il re avrebbe usato le somme ricavate per far partire altri coloni più
meritevoli, o per restituirli agli indiani defraudati. Nel caso però, che l’indiano defraudato fosse
già morto e senza eredi, il denaro sarebbe andato agli spagnoli che andavano a vivere nelle
Indie.
La Representaciòn prevedeva anche delle risposte ad alcuni obiezioni alla quale con molta
probabilità essa si esponeva: gli eventuali disordini che un tale insieme di misure avrebbe
provocato, poteva essere risolta mandando in Perù il vicerè della Nuova Spagna, Antonio de
Mendoza, un uomo, cioè, che gli indiani amano perché li difende, che avrebbe l’autorevolezza e
l’autorità necessaria a rimpatriare gli spagnoli più pericolosi e senza scrupoli.
22
Ibidem.
In B. LAS CASAS, Opùscolos, cartas y memoriales, a cura di J. Pérez de Tudela, in Obras escogidas
de Fray Bartolomé de Las Casas, vol. V, Madrid, 1958, pp. 68-69.
24
Cf. M. MAHN - LOT, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli Indiani, Jaca Book, Milano, 1985, p.
127.
25
Citato in J. MANZANO, La incorporaciòn de las Indias a la corona de Castilla, Madrid, 1948, p.
103.
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Dalla lettura delle suppliche di Las Casas, la Relaciòn, i Remedios e la Representaciòn,
anche Carlo V si persuase della necessità e dell’urgenza di riforme e affrettò le decisioni della
commissione, che nell’autunno del 1542 terminò l’elaborazione di leggi nuove sulle Indie,
promulgate a Barcellona il 20 novembre dello stesso anno e note col nome di Leyes Nuevas.
Nonostante l’intero pacchetto di Leggi Nuove fosse già frutto dell’influenza del pensiero, dei
consigli e dell’esperienza di Las Casas, quaranta disposizioni di esse furono completate l’anno
seguente, su insistenza del domenicano, da sette aggiunte.
Contro ogni aspettativa dei conquistatori e dei più potenti coloni delle Indie, che da tempo si
erano mobilitati affinché le encomiendas divenissero perpetue, visto che duravano solo un paio
di generazioni (in Messico per esempio), le Leggi Nuove ribaltarono completamente quelle che
da allora vennero ribattezzate le Leggi Antiche, cioè le Leggi di Burgos del 1512. L’istituto
dell’encomienda, se non completamente abolito, veniva radicalmente limitato: le encomiendas
vacanti erano cancellate, gli indi cui quelle si riferivano trasferiti alla Corona e si disponeva
anche che a nessun titolo se ne potessero creare delle nuove. Questo corpus legislativo, cercò
inoltre di trasformare le encomiendas de servicios in encomiendas de tributo, cioè di rimunerare
i servizi passati dei conquistatori trasferendo a costoro parte dei tributi pagati alla Corona dai
nativi, evitando a questi ultimi di fornire direttamente forza lavoro. La schiavitù infine veniva
completamente abolita affermando che i nativi erano considerati liberi vassalli.
Le leggi promulgate sotto l’influenza di Las Casas, come prevedibile, suscitarono negli
animi di chi era sostenitore e beneficiario dello status quo nelle Indie, violenti ed animosi
attacchi contro l’operato della commissione. Il provvedimento più contestato era quello che
vietava di trasmettere in eredità ai figli i terreni conquistati dai padri, accusato di rendere
impossibile l’evangelizzazione. Senza l’encomienda i coloni non avrebbero potuto vivere e non
sarebbero stati in grado di diffondere la Fede. Le violente proteste e le pressioni ricevute
indussero il re a cedere alle richieste dei coloni e a rivedere qualche provvedimento. Tuttavia è
innegabile il merito di Las Casas nella stesura delle Leggi Nuove che, mitigando il sistema delle
encomiendas, segnarono un grande passo in avanti, se non proprio verso l’affrancamento
completo ed incondizionato degli indigeni, almeno verso una riconsiderazione dei loro diritti e
del loro status giuridico.
La controversia di Valladolid. La grande polemica fra J.G. de Sepùlveda e Las Casas
Il dibattito fra i sostenitori dell’eguaglianza e dei partigiani dell’ineguaglianza fra indiani e
spagnoli toccò il culmine nella celebre controversia di Valladolid che, nel 1550, oppose Las
Casas al filosofo Juan Ginés de Sepulveda. La straordinarietà di questa controversia sta proprio
in questo: due punti di vista, per la prima volta dalla Conquista, possono confrontarsi,
argomentare, replicare e confutare ogni obiezione. A tale particolarità va poi aggiunto un altro
fatto importante per gli storici e i filosofi che si occuparono da allora in poi del problema dello
status degli indi: il dibattito avendo avuto concretamente luogo, poté essere verbalizzato,
ragione per la quale esso rappresenta una summa degli argomenti a sostegno di entrambe le tesi.
Si trattò di una lunga contesa svoltasi al cospetto di una junta, una giuria qualificata
nominata da Carlo V, il cui tema del contendere era l’argomento della legittimità (o
illegittimità) delle campagne spagnole in America, in cui la presa di possesso del Nuovo
Mondo, com’è noto, registrava sistematicamente atti di violenza contro gli indi. Ma all’atto
pratico traeva spunto da un fatto che aveva per protagonista il filosofo Sepùlveda cui era stato
negato il diritto di stampare un trattato che aveva per argomento le giuste cause di guerra contro
gli indiani, e che cercò, provocando il confronto, una sorta di appello a tale decisione.
Sepùlveda era un intellettuale di corte, cronista ufficiale dell’imperatore, considerato fra i più
valenti specialisti di Aristotele, di cui fu profondo conoscitore. Fu, infatti, autore di una
traduzione latina della Politica, corredata di un commentario e di una dedica per l’imperatore
premessa alla traduzione, in cui sembra essere radicata la convinzione della necessità della
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conoscenza di Aristotele per ogni principe cristiano26. Sepùlveda rappresenta infatti la voce
ufficiale della casa imperiale, che di fatto si rivelerà perdente, rigidamente ancorata ad una
gerarchia “naturale” voluta da Dio, nella quale coloro che “sono nati padroni” stanno al vertice e
coloro che “sono nati schiavi” stanno al margine inferiore di questa gerarchia naturale27. Una
volta dimostrato che gli spagnoli sono i padroni naturali e gli indigeni gli schiavi naturali di
“aristotelica memoria” la legittimità dell’assoggettamento violento esercitato dai conquistadores
viene da sé.
Questo in sintesi era il punto di vista di Sepùlveda, che non fondava le sue argomentazioni
solo su Aristotele, ma anche sul De regimine, a quell’epoca ancora erroneamente tutto attribuito
a san Tommaso d’Aquino, che invece scrisse solo il primo libro, ma di cui fu autore Tolomeo da
Lucca, il quale aggiunge, quale spiegazione della pretesa inferiorità naturale degli indi, anche
cause climatiche ed astrologiche.
Il suo trattato, il Democrates alter, Democrates secundus sive de iustis belli causis apud
Indos, per il quale non riuscì ad ottenere l’imprimatur, è interamente dominato dalla questione
della gerarchia naturale. Tutte le gerarchie, nonostante la diversità delle forma in cui si
manifestano, si basano sul medesimo principio, quello del dominio della perfezione
sull’imperfezione, della forza sulla debolezza e della virtù sul vizio. Sepùlveda, per meglio
chiarire il concetto, fornisce anche degli esempi: il corpo deve essere sottomesso all’anima, la
materia alla forma, i figli ai genitori, la donna all’uomo, lo schiavo al padrone. Le opposizioni
che formano l’universo mentale di Sepùlveda sono riscritte da Todorov in un saggio sulla
Conquista dell’America28 come una lunga serie di proporzioni che collega la contrapposizione
indiani/spagnoli a tante altre (bambini/padri, donne/uomini, animali/esseri umani,
ferocia/clemenza, intemperanza/temperanza, materia/forma, corpo/anima, appetito/ragione)
finendo per schematizzare il rapporto costante dei termini contrapposti nell’opposizione
male/bene cui sono ricondotte tutte le gerarchie presenti in natura.
L’equazione ripresa da Todorov, ma pronunciata da Sepùlveda nella controversia di
Valladolid e presente nel Democrates alter, induce l’erudito filosofo aristotelico ad una
considerazione logicamente consequenziale: gli indiani sono esseri inferiori per natura, sono
“gentes inhumanae a vita civili et a mitioribus moribus ac virtutibus abhorrentes”29, per cui il
loro assoggettamento agli spagnoli è, “secondo natura”, giusto. Infatti, parafrasando il discorso
di Valladolid, è legittimo assoggettare con la forza delle armi gli uomini la cui condizione
naturale è quella di dover obbedire agli altri, se essi rifiutano tale obbedienza e non vi è altro
rimedio a cui ricorrere (prima argomentazione a favore del bellum iustum). Ma è legittimo
anche mettere al bando il crimine abominevole consistente nel cibarsi di carne umana, che è
un’offesa alla natura, porre fine al culto dei demoni e al mostruoso rito del sacrificio umano
(secondo argomento). Ne consegue che salvare le vittime innocenti di quei mostruosi sacrifici
umani attraverso una guerra (terzo), è giustificato dalla necessità di propagare la fede cristiana
(quarto).
Gli spagnoli, constatata l’inferiorità indiana, hanno dunque il dovere morale di imporre loro
il bene, senza “preoccuparsi se è anche il loro punto di vista”30. Rifacendosi all’epistola numero
75 di sant’Agostino secondo cui la perdita di una sola anima, morta senza battesimo, supera in
gravità la morte di innumerevoli vittime, anche innocenti, sostiene che l’appartenenza alla
religione cristiana sia un valore assoluto, che giustifica anche una guerra.
Per Las Casas questa è una distorta interpretazione dell’epistola di sant’Agostino, perché
sarebbe senz’altro grave peccato mortale gettare un bambino in un pozzo per battezzarlo e
26
Cf. R. ANDREOTTI, La teoria del Bellum Iustum in Juan Ginés de Sepùlveda, antagonista di Las
Casas, in Aa. Vv., I diritti…, cit., p. 173.
27
Cf. T. TODOROV, La conquete de l’Amerique. La question de l’autre. Edition de Seuil, 1982. (Trad.
it. La conquista dell’America. Il problema dell’Altro., Einaudi, Torino, 1992, p. 184).
28
Cf. T. TODOROV, op. cit., p. 186.
29
Passo citato in R. ANDREOTTI, op. cit., p. 177.
30
T. TODOROV, op. cit., p. 187.
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salvargli l’anima, se per ciò il bambino dovesse morire; Infatti, non solo la morte di migliaia di
persone non è giustificata dalla salvezza di una persona, ma la morte di un solo uomo ha
maggior peso della sua salvezza.
La risposta di Las Casas agli argomenti di Sepùlveda a sostegno del bellum iustum si
concreta nel tentativo di classificazione di gran parte dei popoli amerindi, volendo dimostrare
che non appartenevano a quella categoria che Aristotele chiamava “schiavi naturali”. Contenuta
nell’Apologetica Historia, che si dimostra un’opera assai originale e completa di etnologia delle
popolazioni americane e non solo, la replica lascasiana fu pronunciata a Valladolid e fu talmente
ricca di argomenti che egli ebbe bisogno di cinque giorni consecutivi affinché potesse
esprimerla tutta. Essa infatti è una minuziosissima descrizione degli indi, corredata da citazioni
di circa trecentosettanta fonti diverse di autori antichi e moderni, e racconti dell’esperienza
personale maturata nelle Indie ed a contatto con i popoli in questione che invece a Sepùlveda
mancava del tutto.
Anche Las Casas parte da Aristotele e dal concetto che se gli schiavi naturali, creature
psicologicamente imperfette, sono assimilabili a tutti i popoli chiamati barbari, allora gli indiani,
che sono in qualche modo barbari devono per forza essere schiavi naturali. Capisce, però, che
questo ragionamento è viziato da un errore e sa che esso è dovuto al fatto che esiste
un’interpretazione dei passaggi relativi alla schiavitù e alla barbarie contenuti nella Politica in
grado di spiegare la natura degli indi che presuppone la descrizione di due tipi culturali diversi
ma chiamati da Aristotele allo stesso modo: barbari.
L’errore era insito in un uso generalizzato del termine, una categoria che non è in grado
neanche di operare una minima distinzione fra tribù così diverse nei comportamenti e nei
progressi culturali compiuti come gli Inca e le tribù antropofaghe caraibiche. Per usare la
metafora di Josè Acosta, il cui pensiero nella classificazione dei popoli amerindi riecheggia
quello di Las Casas, la categoria “barbaro” nella teoria della schiavitù naturale era insufficiente
perché non in grado di distinguere “un uovo da una castagna”31.
I barbari comunemente intesi, per Las Casas, sono individui così limitati nelle facoltà
mentali da agire in modo del tutto simile alle bestie, ma è chiaro che per lui, questa definizione
non può valere per gli indiani d’America. Allora distingueva altri tre significati del termine
“barbaro” potendo esso denotare sia i popoli che appaiono strani nel parlare e non conoscono
l’arte della scrittura, sia le genti che vivono senza leggi e senza organizzazione, ma soprattutto
coloro che mancano di vera religione e di fede cristiana. Quindi chi faceva uso di questa parola,
anche non convinto che tutti i non cristiani fossero culturalmente in difetto, si trovava a dire
molto di più di quanto volesse perché il termine sottintende un giudizio di valore negativo.
Il primo tipo di barbari, cioè gli individui che perdono il totale controllo di se stessi al punto
di avere la mente sopraffatta dalle passioni, è l’unica tipologia non applicabile alle razze, ma
agli individui, non poggiando tale distinzione su fattori culturali, giacché tale tipo di barbaro
poteva trovarsi anche nelle società più evolute ed era semplicemente un uomo crudele,
disumano, selvaggio, spietato e che agisce contro la ragione umana. La medesima categoria
includeva anche i coloni spagnoli in America che negli atti di crudeltà hanno superato tutti i
barbari.
Il secondo tipo era definito essenzialmente in termini di linguaggio. Il linguaggio conferisce
potere a chi lo utilizza: Adamo nominando tutte le cose create ne aveva acquisito il controllo, un
controllo esclusivo dell’uomo superiore a quello parziale cha alcune altre specie avrebbero
potuto avere sull’ambiente. Il linguaggio, inteso come condizione essenziale alla creazione di
una comunità civile, è il primo strumento di controllo e comprensione. Comunicando e
interagendo, grazie ad un linguaggio anche primitivo, le comunità, aggregazioni sorte
principalmente a scopo difensivo, riescono ad elevarsi al rango di comunità civili.
In Tommaso d’Aquino la razionalità dell’uomo si manifesta soprattutto nell’aggregazione
umana dapprima mediante la conversazione e dunque il linguaggio, poi con riti comunicativi
non propriamente linguistici come il commercio, gli scambi e altre attività umane razionali.
31
A. PAGDEN, op. cit., p. 161.
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Tuttavia, ogni definizione puramente linguistica della barbarie poteva solo essere relativa e a
tale proposito ricordava il monito di San Paolo: “Ora, se io non comprendo il significato delle
parole, io sarò un barbaro per colui che parla, e colui che parla sarà un barbaro per me” (Prima
lettera di san Paolo ai Corinti, 14.11) .
Volendo mantenere la distinzione linguistica aristotelica fra “barbari” e non barbari,
Tommaso d’Aquino sapeva che “barbarie” poteva intendersi in più di un significato. In uno era
sinonimo di estraneità o stranezza, e la barbarie in questa accezione era un concetto relativo
(secundum quid) , poiché “l’altro”, sebbene “alieno” rimane un umano. In un’altra accezione,
invece, la condizione di estraneità è dal genere umano, per cui barbaro è chi non sembra
appartenere alla razza umana nella sua generalità (simpliciter).
Per Las Casas, comunque, c’è uno stato di barbarie in cui gli uomini della stessa cultura non
riescono ad intendersi, perché, essendo il linguaggio una convenzione, se ostruiti i consueti
canali di comunicazione può verificarsi che singoli gruppi intendano le stesse cose con diversi
nomi. In questo caso all’interno di uno stesso gruppo culturale ci troveremmo di fronte a più
gruppi di barbari. Ma, la vera discriminante tra “barbari” e uomini civili, in tema di linguaggio è
il passaggio dalla lingua parlata alla lingua scritta. La conoscenza, per Las Casas, dipende dai
testi scritti; si può quindi riformulare la dicotomia fra uomini barbari e uomini civili, in termini
di capacità e possesso di un linguaggio scritto, suprema testimonianza di civiltà perché permette
agli uomini di poter esprimere ciò che pensano.
Per Sepùlveda il fatto che gli indiani non posseggano leggi scritte, testi scritti e monumenti
dedicati a fatti del passato dimostra che essi hanno costumi e istituzioni barbare. Las Casas,
allora, citando la Politica di Aristotele, fornisce l’esempio del secondo tipo di monarchia
asiatica spiegato dal filosofo greco. Si trattava di una monarchia sostenuta di propria spontanea
volontà da popoli giudicati barbari per natura e quindi abituati a costumi più servili dei greci32.
Per Las Casas non si tratta di un governo tirannico ma legittimo, sebbene non fondato su
istituzioni e leggi scritte, ma unicamente sul paternalismo di chi governa e la spontanea
obbedienza di chi è governato. Ricordava, insomma, un rapporto fra padre e figlio, e, siccome la
famiglia è l’origine dello stato, questo sistema di governo è perfettamente “naturale”, magari
classificabile come barbaro, ma come barbaro secundum quid.
Il barbaro simpliciter apparteneva alla terza sottocategoria ed era un individuo che a causa di
un intelligenza empia e perversa (impio et pessimo ingenio) era selvaggio, feroce, stolto e
refrattario ad ogni ragione. Apparteneva a popoli privi del tutto di leggi e senso della giustizia
che non praticavano l’amicizia né la vita di comunità. Ovviamente non vivevano in città intese
come organizzazioni politicamente compiute, ma nei boschi, sulle montagne o al limite in
compagnia soltanto delle loro donne, come fanno “gli animali selvatici”. Sono le tribù senza
leggi descritte da Omero, minaccia costante per gli uomini pacifici, perché “chi è per natura
asociale è anche amante della guerra”33. Questi, dunque, erano gli schiavi naturali che Aristotele
descrive nella Politica, non gli indiani. Non è impensabile – argomenta Las Casas – che
un’intera tribù sia composta da uomini di ingegno così perverso e bestiale? Se uomini tali, creati
“senza il lume della ragione” fossero presenti in natura in numero così vasto da poter comporre
anche una sola tribù, significherebbe che la stessa intenzione di Dio, nel crearli, avrebbe fallito.
Questa ipotesi allora diventava impensabile non solo per Las Casas, ma per i cristiani tutti.
Riguardo all’ultima categoria di barbari, quella comprendente i non cristiani, Las Casas,
sosteneva che tutti gli uomini, anche i filosofi eccelsi, se non compenetrati dai misteri della
cristianità, sono esposti alla più atroce barbarie ed ai vizi più turpi. Anche i romani facevano
parte dei non cristiani, e, sebbene lodati per le loro immense virtù politiche, si macchiarono di
atrocità ed orrendi crimini contro natura. E come loro anche gli indiani, quand’anche a
conoscenza delle tre parti della filosofia morale, cioè l’etica, la politica e l’economia (intesa da
32
Cf. B. LAS CASAS, Aqui se contiene una disputa o controversia, riportata in A. ALBONICO, op.cit.,
p. 842.
33
B. LAS CASAS, Argumentum apologiae adversus Genesium Sepulvedam theologum cordubensem
(1550) citato in A. PAGDEN, op. cit. , p. 170.
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Las Casas nell’accezione originaria di scienza dell’amministrazione domestica), il cui fine
ultimo è la convivenza civile degli uomini nella cooperazione pacifica, se fossero rimasti
all’oscuro della religione cristiana, non avrebbero potuto raggiungere la “felicità assoluta” né
dare uno scopo spirituale “supremo” alle loro esistenze. In tale sfortunato caso sarebbero restati
barbari, ma secundum quid.
Delle quattro categorie descritte solo due potevano descrivere gli indiani. Tutti gli indi si
potevano considerare non cristiani, ma in quanto gruppo culturale le tribù indiane
appartenevano alla seconda categoria. Erano tribù che vivevano secondo criteri politici e sociali,
vivevano in città, avevano re, giudici, leggi e praticavano il commercio. Se non fossero stati
esseri pienamente razionali, non avrebbero potuto concepire un organizzazione politica
complessa e tanto meno conservarla. Pur non avendo sistemi di scrittura e di conoscenza
posseduti da altri esseri civili erano però abili nelle arti meccaniche, ammetteva Las Casas.
Viceversa Sepùlveda aveva visto in quell’abilità limitata alle sole arti meccaniche un semplice
prodotto delle più comuni facoltà imitative di cui anche certi piccoli animali sono dotati. Al
contrario, Las Casas, pur riconoscendo l’inferiorità delle arti meccaniche rispetto alle arti
liberali, le riconduceva alla stessa matrice delle più nobili arti: l’intelletto operativo, cioè un uso
della facoltà decisionale di cui gli schiavi naturali sono privi. A dimostrazione di questa
affermazione portava ad esempio la capacità degli indiani di imparare dagli europei, le cui
forme culturali erano dagli stessi indi riconosciute superiori e quindi, una volta conosciute,
preferite. Questo dimostrava le loro innate capacità intellettuali, la loro innata anima razionale
dominata troppo spesso da condizioni climatiche ed ambientali tanto difficili e “preistoriche”
che (oggi) ne facevano non degli “schiavi naturali” ma dei “barbari secundum quid”, cioè dei
barbari solo se confrontati a chi, come gli spagnoli o cristiani in genere (i barbari di ieri), erano
innegabilmente più avanti nel percorso compiuto dal progresso umano.
Questi furono gli argomenti addotti da Las Casas nella controversia di Valladolid, al termine
della quale i giudici non presero alcuna decisione. Las Casas fu comunque persuaso di aver
vinto la disputa teologica contro Sepùlveda, e chi come lui era convinto della ineguaglianza
degli indi rispetto agli spagnoli, visto che nemmeno allora fu permessa la pubblicazione del
Democrates alter.
L’intervento di Francisco de Vitoria nel dibattito sulla natura degli indi
Francisco de Vitoria (1483-1546) è ricordato come uno dei più importanti filosofi e teologi
della Seconda Scolastica o Scolastica Rinascimentale sviluppatasi durante il XVI secolo (o siglo
de oro) in Spagna. Intervenne nella questione delle Indie nel corso della sua docenza
all’università di Salamanca presso la quale era usanza una volta all’anno organizzare una
relectio, cioè una sorta di lezione sui generis, alla quale assistevano non solo gli studenti del
corso, ma tutti gli studenti della facoltà e addirittura gli altri. Ebbene durante queste relectiones,
il relatore era invitato a esporre il proprio punto di vista sui temi più vari con una qualche
attinenza al corso di studi svolti o da svolgere. Per questo motivo, la Relectio de Indis risulta
interessante: il dibattito sulla natura degli indi, sulla legittimità del loro dominium e della
conquista degli spagnoli, investe i temi più ampi del potere civile, del potere ecclesiastico, del
diritto divino, umano e naturale.
Prima di Vitoria il diritto naturale era stato concepito come un logos divino comune a tutte le
cose (Eraclito) che è ragione universale ordinatrice. In seguito, poi, alla distinzione introdotta da
Platone e da Aristotele fra natura e legge (fysis e nomos) si distinguerà fra ciò che è giusto per
natura e ciò che lo è per legge, distinzione che muove dal presupposto che la legge naturale
preceda la legge positiva perché mentre quest’ultima trae la sua origine da un legislatore,
l’essenza del giusto per natura è immutabile.
Nel passaggio dal pensiero greco alla mentalità giuridica romana il “giusto” (dìkaion per i
greci) divenne “diritto” (ius) e quindi il dìkaion fýsei divenne ius naturale. Quello che era
“giusto” per natura divenne “diritto” naturale, “norma” di ciò che è giusto per natura. Con
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eccessiva sintesi si potrebbe dire che la norma ebbe la precedenza sul contenuto, vale a dire la
“cosa giusta”. Poi, la nozione di diritto naturale divenne piuttosto incerta, per Ulpiano “quod
natura omnia animali docuit”34 mentre per Gaio si identificava con la ragione naturale e col
diritto di tutti gli uomini cioè “delle genti”35. Nel Decretum Gratiani, del 1140, la più antica
raccolta di diritto della Chiesa36, è detto che il genere umano è retto da due leggi: prima di tutto
dal diritto naturale, che è contenuto nelle Sacre Scritture e nel Vangelo e poi dalla consuetudine.
Il diritto naturale così inteso non può riguardare tutti gli animali, come insegnava Ulpiano, ma
solo l’uomo e, derivando da Dio, lo obbliga in maniera assoluta, precedendo nella gerarchia tutti
gli altri diritti, in primo luogo la legge scritta e quella consuetudinaria. Quindi, qualsiasi precetto
convalidato dall’uso o vincolante in forza di una legge scritta, deve ritenersi invalido e nullo, se
è in contraddizione col diritto naturale37.
San Tommaso (1225 circa -1274) parte da un tentativo di giustificare le definizioni di Gaio e
Ulpiano, rifacendosi però ad Aristotele. Il diritto come “norma” (ius) torna ad essere diritto
come “ordine oggettivo”, come “iustum”, per cui sostiene che i romani chiamavano diritto ciò
che Aristotele chiama “giusto”. Dunque “diritto” significa “la cosa giusta da realizzare” e la
legge, regola e misura, può essere presente nelle cose sia dalla parte di chi regola e misura, sia
di ciò che è regolato e misurato. Poiché tutte le cose soggette alla divina provvidenza sono
regolate e misurate dalla legge eterna, è evidente che tutti ne partecipano in qualche modo. Fra
tutte le creature, però, quella razionale vi partecipa in misura più perfetta, poiché diviene essa
stessa partecipe della provvidenza, laddove, grazie alla sua natura razionale è in grado di
provvedere a se stessa e agli altri.
Questa partecipazione alla ragione eterna, dalla quale deriva la naturale inclinazione al fine e
all’atto che sono propri della creatura razionale, è chiamata “legge naturale”38. Nelle creature
irrazionali questa partecipazione si esprime mediante leggi fisiche e chimiche, nelle inclinazioni
naturali o nell’istinto; negli esseri razionali invece si esprime nella legge morale, cioè in ciò che
la ragione conosce come conveniente alla natura umana razionale e conducente al
raggiungimento del suo fine. Il primo principio della legge naturale per san Tommaso è: fare il
bene ed evitare il male39, in cui il buono è quello che tutti desiderano40. Da questo si fondano
tutti gli altri precetti, in cui la natura inclinazione è la discriminante essenziale ai fini della
comprensione di ciò che è bene e ciò che è male: tutte le cose verso le quali l’uomo si sente
“naturalmente incline” fanno parte del “bene”, tutte le cose contrarie a questa inclinazione
vengono invece considerate come cattive e da evitare, perché non sono desiderabili.
Dunque i precetti della legge naturale possono essere ordinati a seconda delle inclinazioni
naturali che realizzano. In primo luogo si trova nell’uomo la tendenza al bene secondo la natura
comune anche a tutte le altre “sostanze” che aspirano alla conservazione del proprio essere.
Dunque, in corrispondenza di questa inclinazione appartiene alla legge naturale tutto ciò che
assicura la vita dell’uomo e ne impedisce la distruzione. Ad un livello successivo c’è nell’uomo
l’inclinazione a tutta una varietà di beni più particolari, comune con gli altri animali. In questo
senso si possono includere nella legge naturale quelle cose che essa insegna a tutti gli animali41,
per esempio la tendenza alla riproduzione della specie e all’allevamento dei figli. Ad un terzo
34
ULPIANO, Digesto, I, I, 1. Citato in R. PIZZORNI, Lo Ius Gentium nel pensiero di Vitoria, in “I diritti
dell’uomo e la pace…”, cit., p. 571.
35
Cf. Ibidem, p. 577, nota n. 32.
36
Cf. Il diritto naturale nella dottrina sociale della Chiesa, editoriale de “La Civiltà Cattolica”, anno
140, Volume II, Quaderno 3336, 17 Giugno 1989, p. 523.
37
Anche Vitoria più avanti affermerà qualcosa di simile, laddove negherà la validità di una legge
“umana” in conflitto col diritto divino e naturale.
38
F. VALENTINI, Politica, in “Storia antologica dei problemi filosofici”, diretta da U. Spirito, Sansoni
Editore, Firenze, 1969, p. 6-7.
39
Cf. Il diritto naturale nella dottrina sociale della Chiesa, cit., p. 525.
40
Cf. F. VALENTINI, op. cit., p. 329.
41
“Quod natura omnia animalia docuit”, ovvero la definizione di Gaio.
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livello, infine, l’uomo ha una propria inclinazione al bene conforme alla propria natura
razionale, come la ricerca sulla verità nei riguardi di Dio o la vita associativa.
Il diritto naturale è, in questa concezione, il fondamento del diritto “positivo” per tre motivi.
Prima di tutto, perché una cosa può essere comandata dal legislatore solo se è giusta (iussum
quia iustum) e, viceversa, ogni legge ingiusta non è una legge ma una “corruzione della legge”
(legis corruptio)42. In secondo luogo, la legge naturale costituisce la spinta al formarsi della
legge positiva, perché il legislatore è tenuto a fare in modo che ciò che è giusto per natura lo
diventi anche per “legge”. In ultimo, perché la legge di natura costituisce un limite eticamente
insuperabile per il legislatore, non potendo il diritto positivo porsi in conflitto con quello
naturale, limite che si erge dunque anche contro l’arbitrio.
Per la “Scuola di Salamanca”, in cui tutti i membri condividevano la formazione “tomista”, il
metodo che permetteva di scoprire i principi primi della legge naturale si basava sul consenso43.
In base al consenso era, infatti, assai facile capire se un comportamento fosse naturale o
innaturale, bastando ai fini di tale comprensione verificare se la gran parte dei membri di una
stessa comunità si sentivano “naturalmente inclini” a comportarsi in certo modo.
Il fondamento del potere, nel pensiero politico di Vitoria, scaturisce dalla “naturale” socialità
dell’uomo. Questa, a sua volta, è la conseguenza di un altro fatto altrettanto caratteristico e
proprio dell’uomo: esso è l’unico animale a nascere inerme ed indifeso44, per questo il suo
istinto e le sue inclinazioni naturali lo portano ad associarsi e a dare vita ad una società, le cui
relazioni, che non possono che essere cooperative, gli permettono di sopperire a tutti i suoi
bisogni. Riprendendo la concezione tomistica della comunità politica come “moltitudo
ordinata”45, anche Vitoria osserva che essa promana dalla natura ed ha come fine la
conservazione e la tutela di essa stessa e dei membri che unisce. Per il perseguimento di questo
fine una comunità deve essere dotata di tutti i mezzi necessari, fra i quali, per primo, il potere.
Nessuna società sarebbe in grado di sopravvivere senza una forza o senza poteri pubblici che
provvedano a renderla ordinata, unitaria e vitale.
Il potere nelle mani del popolo che lo gestisce direttamente, però, è di impossibile e
pericolosa attuazione. I membri che compongono una comunità sono tutti uguali e liberi, per
questo possono orientarsi verso molteplici e, talvolta, configgenti finalità46. Per opportunità,
quindi, l’amministrazione del potere è affidata ad una o ad un gruppo ristretto di persone, non
privando questa concessione la comunità del potere stesso, che gli spetta per diritto naturale e
che è per definizione “legittimo”47. Quindi, non sono delle autorità superiori, il Papa o
l’Imperatore per esempio, a conferire il potere ai principi, ma la comunità stessa. L’autorità
politica viene dal diritto naturale, questo viene dall’autore della natura, Dio, perciò anche
l’autorità politica viene da Dio, ma è mediata attraverso la comunità, detentrice del potere, che
lo trasferisce al principe, non potere in quanto potestas, bensì potere in quanto auctoritas48.
Ogni pretesa superiorità dell’Impero e della Chiesa sul piano temporale è confutata,
“affermando la pienezza dello Stato nell’ordine naturale”49. Tale costruzione, infatti, mira a
contraddire quelli che sostengono che soltanto in abstracto il potere pubblico è di diritto divino,
42
TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologica, Trad. it. a cura dei domenicani, Firenze, 1949, quaest.
95, a.2.
43
Cf. A. PAGDEN, op. cit., p. 74
44
Cf. M. D’ADDIO, Storia delle dottrine politiche, Vol. I, ECIG, Genova, 1980 – 1989, p. 335.
45
Cf. A. LAMACCHIA, Francisco de Vitoria e l’innovazione moderna del diritto delle genti, in
“Relectio De Indis. La questione degli Indios”, Levante, Bari, 1996, p. XXXV.
46
Cf. S. QUADRI, Dottrine politiche nei teologi del ‘500, Universale Studium, 1962, p.32.
47
Cf. J.A. MARAVALL, I pensatori spagnoli del “secolo d’oro”, in “Storia delle idee politiche,
economiche e sociali”, Vol. III, diretta da L. Firpo, UTET, Torino, 1987, p. 654.
48
“Il Vitoria sulla base della nozione tommasiana di potestas, ovvero di potenzialità con certa
preminenza e autorità, avvicina fra loro fino a usare come sinonimi potestas e auctoritas”. A.
LAMACCHIA, Francisco de Vitoria e l’innovazione moderna del diritto delle genti, in “Relectio De Indis.
La questione degli Indios”, Levante, Bari, 1996, p. XXXIX.
49
Cf. J.A. MARAVALL, op. cit., p. 657.
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Centro di metodologia delle scienze sociali
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essendo in concreto un’istituzione umana e, allo stesso tempo, quelli che ritengono, all’estremo
opposto che tutti i poteri pubblici hanno un’origine divina “immediata”.
Così, allora anche la questione che si imponeva all’attenzione di Vitoria, quella dei popoli
“recenter inventis” si poteva risolvere sgombrando il campo da falsi pregiudizi sui quali in
precedenza essa era stata risolta. La mentalità teocratica che il Maestro di Salamanca aveva
cercato di confutare e che continuerà a mettere in discussione nella stessa relectio De Indis e,
allo stesso tempo, quella concezione imperialista e regalista che subordinava la potestà
ecclesiale allo Stato, erano due dei maggiori ostacoli alla soluzione della questione posta dalla
legittimità della presenza spagnola nelle Indie. Per eliminare all’origine questi ostacoli Vitoria
non può che appoggiarsi alla concezione tomistica che distingue fra natura e soprannatura e che
dà luogo a due ordini giuridici distinti: l’ordine “naturale” che sta a fondamento della società
civile e della sua auctoritas politica e l’ordine “di diritto divino”, quello della Ecclesia e
circoscritto all’ambito spirituale.
La Relectio de Indis
La Relectio De Indis, data alle stampe solo nel 1557, undici anni dopo la morte del suo
autore, circolante per anni sotto forma di manoscritto, intendeva rispondere ad una domanda:
qual era il giusto titolo alla conquista dell’America, ammesso che ne esistesse uno? Essa è
divisa in tre parti; nella prima parte si discute se i nativi avessero, prima dell’arrivo degli
spagnoli, titoli legittimi sulle loro terre, la seconda invece è interamente dedicata all’esame dei
titoli con cui si giustificava il dominio spagnolo oltremare e nella terza e ultima parte Vitoria
espone quei titoli che egli considera idonei a giustificare la presenza nelle Indie.
Nella prima parte in cui si chiedeva se gli indiani possedessero legittimamente un vero
dominium sui propri affari prima dell’arrivo degli spagnoli, Vitoria considera l’eventualità che
la risposta a questa domanda potesse essere negativa e pertanto divenisse legittimo privare gli
indi dei loro diritti naturali. In quest’ipotesi poteva essere possibile solo per quattro ragioni.
La prima di queste, per Vitoria, doveva senz’altro rifarsi ad una presunta “natura peccatrice”
degli indiani poggiando però sul presupposto, sbagliato, che ogni vero dominium sia fondato
sulla “grazia”50. Il dominio si basa invece sull’immagine di Dio. L’uomo è l’immagine di Dio
per natura (Homo est imago dei per natura […] ergo non perditur per peccatum mortale), cioè
in forza delle sue facoltà naturali e quindi, il peccato mortale non è di ostacolo al dominio civile.
Infatti, se un peccatore perdesse, per il fatto di aver offeso Dio, il suo dominio civile, perderebbe
anche quello naturale. In realtà, però, un peccatore non perde l’autorità sui suoi propri atti e
movimenti e mantiene, quindi, pieno diritto di difendere la propria vita. E se non si perde la
potestà spirituale col peccato mortale51, perché dovrebbe perdersi la potestà civile che è molto
meno fondata nella grazia di quella spirituale?
Allo stesso modo, l’infedeltà degli indi non è argomento atto a giustificare l’asservimento
indiano agli spagnoli perché la fede non deroga né al diritto naturale né al diritto degli uomini.
Essendo il dominio o di diritto naturale o derivato dal diritto degli uomini, non può esso perdersi
per mancanza di fede. Finalmente, insiste Vitoria, affermando questo principio si può far luce su
un errore comune, secondo il quale sarebbe giusto spogliare i saraceni e i giudei dei loro beni
50
Vitoria nega innanzitutto “che il fondamento del dominium poprietatis e jurisdictionis sia la grazia
o la carità. Dopo aver ricordato le affermazioni dei Pauperes de Lugduno, di Giovanni Wiclef e di
Armacano, fa seguire una briosa e serrata critica a base di argomenti scritturistici e di ragione che
occupano buona parte della prima sezione del De Indis”. S. QUADRI, Dottrine Politiche nei teologi del
‘500, Universale Studium, 1962, p.47.
51
Vitoria si riferisce in particolar modo ai cattivi preti che danno comunque l’eucaristia ed ai cattivi
vescovi che ordinano nuovi sacerdoti, come riconosce lo stesso Armacano. Cf. F. DE VITORIA, Relectio
de Indis, a cura di L. Perena, Consejo Superior de Investigaciones Cientificas, Madrid, 1989, p.66
15
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per il solo fatto di non essere cristiani. E’ un furto, avverte invece Vitoria, non meno che se i
derubati fossero cristiani52.
Un altro motivo per il quale gli indi non avrebbero potuto possedere un dominium legittimo
sui loro beni e affari poteva dipendere dalla loro irrazionalità. Essendo il dominio un diritto,
infatti, le creature irrazionali non ne avrebbero potuto godere, così come non godono di alcun
altro diritto. Gli animali sono creature irrazionali e non posseggono diritti. In caso contrario gli
uomini commetterebbero sempre dei furti, ogni qualvolta cogliessero dell’erba, privando in
questo modo il cervo della sua primaria fonte di cibo53. Si conferma per Vitoria la tesi di san
Tommaso (I, II, 1,1) secondo la quale uno è padrone dei suoi atti quando è capace di scegliere.
Come considerare allora i bambini, si domanda il teologo, che in apparenza si differenziano di
poco dagli esseri irrazionali?54 Anche i bambini, in realtà, sono immagine di Dio e non esistendo
propter alium, ma propter se si differenziano da qualunque altro essere irrazionale.
Infine, gli indiani non erano né dementi né minorati mentali caratterizzati da una razionalità
solo meccanica dimostrando un ordine razionale nei loro affari riconoscibile nell’adeguata
organizzazione delle città, della società, delle loro industrie (opificia) e dei loro commerci, e,
soprattutto, nella loro forma di religione.
Il fatto che i nativi vivessero in una città organizzata era, prova evidente della loro
razionalità. Come già per Aristotele, la città è per il teologo domenicano l’unità sociale più
grande e perfetta, ultima meta della naturale tendenza umana a formare comunità, che, nella sua
manifestazione più compiuta e perfetta, era anche il mezzo più adatto al perseguimento della
felicità, individuale e collettiva infatti, chi sceglieva la via dell’autosufficienza era o un Dio o
una bestia. Inoltre, l’esistenza di leggi e di sistemi giudiziari dimostrava le capacità
dell’intelletto speculativo indiano. Allo stesso modo il commercio e l’industria (opificia),
espedienti dell’uomo per sopperire alle deficienze della natura contribuivano a rendere più
“complessa” l’organizzazione sociale, aumentandone il grado di civiltà. Il commercio, per
esempio, è un mezzo per stabilire ciò che Vitoria chiama vitae communicationes, vale a dire i
canali tramite cui la conoscenza umana si trasmetteva di gruppo in gruppo. Il commercio è un
modo di sopperire alle proprie necessità scambiando dei beni, ma anche una sfumatura della
comunicazione fra gli uomini, origine della massima virtù umana: l’amicizia. A questo
proposito, un valido titolo di legittimità al dominio spagnolo sugli indi, poteva essere il fatto che
i nativi si rifiutassero di tenere aperti dei canali di comunicazione rifiutando di aprirsi agli
spagnoli (nella terza parte della relectio De Indis).
Infine, la religione: anch’essa per Vitoria apparteneva al mondo dell’invenzione.
Comprendere la verità su Dio è un atto di comprensione del Mondo Naturale tanto quanto
scoprire l’aratro o il fuoco. Anzi, era forse una comprensione maggiore, perché la religione dava
accesso ai misteri più profondi dell’universo. I Mexica e gli Inca avevano, addirittura, tutto ciò
che i cristiani comunemente intendono con la parola “Chiesa”: luoghi di culto e ministri di
culto, cioè mediatori fra Dio e gli uomini. Tutto ciò era la manifestazione che, pur essendosi
allontanati dalla verità, gli indiani sapevano che ne esisteva una e che andava ricercata.
Dunque, vivendo in una società dotata di tutti i requisiti essenziali alla vita civile, gli indi
non potevano essere privati dei propri diritti e dei propri possessi col pretesto che fossero
individui incapaci di scelte razionali.
Nell’analisi dei titoli che potrebbero essere esibiti a legittimare la Conquista ma che, in
realtà, non sono né legittimi, né validi, Vitoria demolisce la credenza in base alla quale si
52
Cf. Ibidem, p. 67.
F. DE VITORIA Relectio De Indis, cit. , p. 70.
54
Il dubbio di Vitoria è peraltro avvalorato da un passo citato nella relectio De Indis tratto dalla lettera
di san Paolo ai Galati (4, 1-3) in cui l’Apostolo afferma: “l’erede per tutto il tempo che è minorenne, pur
essendo padrone di tutto, non differisce per niente da un servo[…], così, anche noi quando eravamo
fanciulli eravamo sotto la schiavitù degli elementi del mondo.”
53
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riteneva l’Imperatore signore del mondo intero. Citando il De Regimine Principum55 e la
Politica di Aristotele, attribuisce il fondamento di questa proposizione al fatto che in natura è
una sola la cosa che domina sulle altre (il cuore sul corpo, la mente sull’anima). Visto che le
istituzioni non naturali per funzionare efficacemente debbono imitare la natura, allora deve
esserci un solo governatore al mondo per la stessa ragione per la quale c’è un solo Dio. Tuttavia,
sul piano del diritto naturale tutti gli uomini sono liberi, non esistendo uomo al quale la legge di
natura attribuisca il dominio del mondo intero. Anche la sovranità di Cristo su tutto il mondo
non riguardava la sfera temporale ma quella spirituale56.
Anche quel titolo fondato sull’autorità del Sommo Pontefice, ritenuto signore temporale di
tutto il mondo e per questo legittimato ad assegnare alla Corona di Spagna la sovranità su “quei
barbari” non può essere addotto. Vitoria, ha già trattato la questione del dominio temporale del
Papa nella sua prima relectio De Potestate Ecclesiae del 1532 (messa all’Indice insieme alla
seconda da Sisto V), nella quale contesta il dominio teocratico universale57, giungendo alla
conclusione, esposta brevemente nella relectio De Indis, che “il Papa non ha nessun potere
temporale su questi indi, né su altri infedeli”58, perché non ha potere temporale se non in ordine
a realtà spirituali (non habet potestatem temporalem nisi in ordine ad spiritualia). Anche
ammesso che abbia questa presunta potestà temporale diretta, su tutto il mondo, non potrebbe
cederla a principi “secolari”. Può, però, infrangere le leggi civili, se queste conducessero al
peccato, proprio perché il potere spirituale prevale, in caso di conflitto con quello temporale. Ma
sugli indi il Papa non ha alcuna potestà temporale (non habet potestatem spiritualem in illos).
Non può nemmeno sostenersi che per “diritto di scoprimento”o ius inventionis, le terre senza
padrone siano di chi le occupa perchè gli indi prima che arrivassero gli spagnoli erano
legittimamente signori nei loro affari nelle loro terre. Dunque, questo titolo non serve a
giustificare la legittimità, non più di quanto potrebbe servire “se fossero stati loro (gli indi) a
scoprire noi (spagnoli)59. E non sono titoli legittimi né il rifiuto colpevole di convertirsi al
cristianesimo né l’offesa arrecata a un re cristiano e, per Vitoria, la ragione è ben evidente. La
blasfemia è meno grave del peccato di infedeltà e non essendo imputabile agli indi il fatto di
essere infedeli perché come già visto “invincibilmente ignoranti” a maggior ragione non può
essere né rivendicabile né vendicabile la loro blasfemia. Ne consegue anche che se non si può
condurre una guerra giusta contro degli infedeli di tal specie (sebbene l’infedeltà sia per
Tommaso e i tomisti il più grave peccato di perversione morale) non si può nemmeno contro chi
si macchia di peccato mortale. Non è forse più grave un peccato mortale quello commesso da
chi sa di commetterlo piuttosto che quello commesso da chi ignora di peccare così gravemente?
Così si conclude questa sezione riservata ai titoli che non possono essere addotti per
legittimare la presenza nelle Indie. Chi giustificava, dunque, la conquista adducendo i titoli
contestati, secondo il Maestro, errava.
La terza sezione della Relectio De Indis: i titoli legittimi della Conquista
Nella terza parte delle relectio De Indis, Vitoria prende in esame i titoli legittimi e validi per
i quali gli spagnoli potevano esercitare la loro autorità sugli indi. Il primo titolo è chiamato
“della società e della comunicazione naturale”60. In base ad esso era consentito agli spagnoli
55
Vitoria attribuiva il De Regimine Principum ancora interamente a san Tommaso d’Aquino,
ignorando che solo il primo libro fu scritto dall’Aquinate e che esso fu completato da Tolomeo da Lucca.
56
Fu detto proprio da Cristo davanti a Pilato: “il mio regno non è di questo mondo”. Vangelo di
Giovanni (18, 36).
57
R. PIZZORNI, Lo Ius Gentium nel pensiero del Vitoria, in “I diritti dell’uomo e la pace…”, cit. p.
579.
58
F. DE VITORIA, Relectio De Indis, cit., p. 82.
59
Ibidem, p. 86.
60
F. DE VITORIA, Relectio De Indis, cit., p. 99.
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percorrere i territori delle Indie e lì rimanere finché non avessero arrecato danno agli indiani, i
quali, oltretutto non avrebbero potuto impedire loro di farlo. Questo diritto è attribuito agli
spagnoli dal diritto delle genti, che è per Vitoria, o diritto di natura o da esso derivato. Infatti
nelle Institutiones (I 2,1)61 è detto che il diritto delle genti è ciò che in base alla ragione naturale
è stabilito fra le genti. Ed è opinione condivisa da tutte le nazioni che i viaggiatori debbano
essere trattati bene perché è inumano maltrattarli e mal riceverli senza motivo. Inoltre, essendo
lecito tutto quello che non è proibito, che non arreca offesa o pregiudizio agli altri, e supposto
che questa emigrazione spagnola non sia né offensiva né dannosa, evidentemente essa è lecita.
Riguardo alla liceità dell’emigrazione, in quanto non soggetta a nessuna proibizione, valga ad
esempio il fatto che i francesi non possono proibire agli spagnoli di emigrare o stabilirsi in
Francia.
Sono diritto di natura anche i precetti che stabiliscono che i beni comuni, come l’aria,
l’acqua corrente, il mare, i fiumi, appartengono a tutti, perciò, secondo il diritto delle genti, le
navi possono attraccarvi e l’uso delle pubbliche vie di comunicazioni non può negarsi a
nessuno. Del resto, se non è negato ad altri indi, si chiede il Maestro, perché dovrebbero vietarlo
ai cristiani? Non c’è legge creata dagli uomini in grado di imporre tale divieto, perché, essendo
quanto detto lecito per il diritto divino e per il diritto naturale, tale legge sarebbe “inumana e
irrazionale” e quindi non avrebbe forza di legge.
Sempre riferendosi al primo titolo “della società e comunicazione naturale”, Vitoria prende
in considerazione il commercio. Lo scambio dei beni nei quali i due popoli abbondano non può
essere proibito dai rispettivi signori e governanti. Non è ammissibile, per la legge di natura, che
un uomo impedisca ad un suo simile di ottenere dei benefici. L’uomo “sociale” è buono, in
quanto non può che essere migliorato dalle relazioni cooperative di commercio e
comunicazione. Vitoria riadatta il celebre verso di Plauto in “non enim homini homo lupus est,
sed homo” 62 per questo alcuni suoi commentatori recenti riconoscono nel suo pensiero
cosmologico ed antropologico, la profonda influenza del Rinascimento italiano63.
La quarta proposizione tratta più specificamente delle altre del diritto delle genti, e nella
fattispecie del diritto di cittadinanza che dovrebbe spettare agli spagnoli che, qualora nati nelle
nuove terre, volessero diventare cittadini di quei paesi. E’, infatti, diritto delle genti
unanimemente accettato che chi nasce in una determinata città ne divenga cittadino, altrimenti
esisterebbero uomini senza cittadinanza e quindi privati del diritto naturale e delle genti.
Dunque, proibire ai figli degli spagnoli domiciliati nel Nuovo Mondo di prendere la cittadinanza
e di godere dei vantaggi di cui godono gli indi a casa loro, significherebbe violare lo ius gentium
e di conseguenza gli spagnoli potrebbero certamente addurre quest’argomento quale valido
titolo di legittimità della Conquista.
Infatti, “se gli indi volessero privare gli spagnoli di ciò che appartiene loro per diritto delle
genti”64 secondo Vitoria questi ultimi devono, innanzitutto con ragionamenti ed argomentazioni,
dimostrare che non vanno nel Nuovo Mondo ad arrecare danni e pregiudizi ai nativi, perché
(secondo un detto di Terenzio) “è da saggi tentare tutto prima con le parole”65. Ipotizzando però
61
In realtà il testo di Gaio nelle Institutiones (I, 2,1) recita così: “Quod vero naturalis ratio inter
omnes homines constituit, [...] vocatur ius gentium”. Cf. Corpus Iuris Civilis, tit. I., Ed. Krueger, ristampa
1954, p.1. Quindi Vitoria sostituisce a homines il termine gentes, intendendo non la natura umana
(homines), ma uno stato concreto della natura umana, vale a dire la società formata dalla comunità
universale di popoli e nazioni (le gentes). Più avanti si ritornerà sulla sostituzione dei due termini,
cercando di esaminarne,sommariamente, la rilevanza filosofico – giuridica.
62
F. DE VITORIA, Relectio De Indis, cit., p.102.
63
Per J.A. MARAVALL, Vitoria proviene da una sorta di “razionalismo cristiano”, sufficientemente
secolarizzato, che lo conduce a concepire una sorta di assolutismo “ottimista”, cioè un assolutismo
mitigato dalla bontà e dignità di cui l’essere umano è dotato. Cf. J.A. MARAVALL, I pensatori spagnoli
del “secolo d’oro”, in “Storia delle idee politiche, economiche e sociali”, diretta da L. Firpo, Vol. III,
UTET, Torino, 1987, p.653.
64
F. DE VITORIA, Relectio De Indis, cit., p. 103.
65
Ibidem.
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che gli indi non fossero convinti dalle argomentazioni, Vitoria introduce il concetto di uso della
forza in legittima difesa, sostenendo che gli spagnoli avrebbero comunque dovuto difendersi e
prendere tutte le precauzioni necessarie alla propria sicurezza, perché “è lecito respingere la
forza con la forza”, costruire fortificazioni e difese e con il consenso del principe, vendicarsi per
mezzo della guerra e mettere in pratica altri diritti di guerra. Per il Maestro, infatti, respingere
un’ingiustizia è causa di guerra giusta, e impedire agli spagnoli di godere del diritto delle genti è
senz’altro un’ingiustizia.
E se gli spagnoli non avessero il tempo di terminare i loro ragionamenti verbali? Se gli indi,
timorosi vedendo gli spagnoli armati e più potenti di loro, dessero loro la caccia? Gli spagnoli si
potrebbero difendere, ma senza eccedere, avendo moderazione e senza poter usare gli altri diritti
di guerra (ucciderli, saccheggiarli o occupare le loro città). Insomma, usando una terminologia
moderna, la risposta deve essere proporzionale alla minaccia e, nel caso degli indi, Vitoria
immagina senza essere mai stato nel Nuovo Mondo, che essa sia piccola cosa.
Troviamo, in questo passo una teoria della “guerra giusta” che, di fatto, è identica alle teorie
moderne. Secondo Vitoria, infatti, la guerra può essere giustificata solamente quando ha come
obiettivo la conservazione della pace, la riparazione di qualche torto o di qualche danno inflitto
alla comunità politica legittimata a difendersi. La guerra è “giusta” quando corrisponde al
fondamentale “diritto naturale” della comunità politica, ma anche dell’uomo in genere di
difendere, se necessario mediante la forza, la propria vita e quindi consiste in una giusta
sanzione nei confronti di chi aggredisce. Se il fine non può essere altro che il ripristino dello
status quo, precedente al danno o all’ingiuria subita, l’immediata conseguenza è che la guerra
non può arrecare al nemico danni di entità superiore di quelli che il “riparante” ha subito. Ecco
perché la reazione deve essere proporzionata all’offesa.
Oppure si poteva giustificare la Conquista per la necessità di “propagare la religione
cristiana”. Cristo ha insegnato che tutti i cristiani hanno il dovere di diffondere la sua parola in
tutto il mondo, insegnamento che pare in contrasto col “monopolio spagnolo”
dell’evangelizzazione nel Nuovo Mondo. Il Papa ha però piena facoltà di attribuire questo
compito a chi ritiene più adatto. Al Pontefice spetta curare la promozione del vangelo in tutto il
mondo, quindi, se ritenesse che nelle Indie avrebbero maggiore facilità nel farlo “solo” gli
spagnoli potrebbe proibirlo a tutti gli altri. In ciò che ritiene conveniente per la cristianità può
anche “ordinare” le cose temporali nonostante non sia “dominus civilis aut temporalis totius
orbis”. E’ la riaffermazione del principio in base a cui, pur non essendo signore temporale, in
merito e limitatamente a questioni di natura spirituale, può provvisoriamente avere potestà
temporali o civili.
Al fine di annunciare liberamente il Vangelo anche contro la volontà dei locali purché
almeno avvisati, si potrebbe, se necessario, fare guerra fin quando le condizioni minime di
sicurezza non fossero garantite. Sarebbe una guerra giusta, perché intrapresa al fine di eliminare
un’ingiustizia. Ma sull’opportunità di simili azioni, è bene riflettere di volta in volta. Se una di
tali guerre, benché giuste, sterminasse, mal disponesse o fosse occasione di saccheggio ai danni
degli indi, sortirebbe evidentemente effetti non voluti. Dunque, quando tutto è lecito non sempre
tutto è conveniente. Il timore espresso dal Maestro è proprio che, pur essendoci stato bisogno
dell’uso della forza e delle armi affinché gli spagnoli potessero rimanere nelle Indie, tale
utilizzo abbia travalicato i limiti del diritto e della morale (“timeo ne ultra res pregressa sit
quam ius fasque permittebant”)66.
Nel quinto titolo della parte seconda Vitoria negava che peccati come la sodomia e la
fornicazione potessero essere motivo di “guerra giusta” non avendo né i Re cristiani, né il Papa
giurisdizione sui non cristiani. Ci sono però peccati contro la legge di natura (il cannibalismo e i
sacrifici umani) per i quali la questione merita di essere approfondita.
Le teorie più accreditate all’epoca di Vitoria erano sostanzialmente due. Una spiegava il
cannibalismo con l’innato desiderio umano di vendetta e considerava mangiare i propri nemici
come un atto di massimo livore nei loro confronti. L’altra ricorreva alla presunta carenza di
66
F. DE VITORIA, Relectio De Indis, cit., p. 107.
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proteine dei cannibali indiani dovuta alla scarsità di bestie domestiche e selvatiche con cui
sopperire alla mancanza di questo principio nutritivo essenziale nell’alimentazione.
Per Vitoria, la ragione per cui gli uomini non si mangiano fra di loro va ricercata
nell’incapacità dei nativi americani di riconoscere quali cose presenti in natura possano
costituire cibo e quali no. Gli indi non capivano che l’uomo non appartiene all’uomo ma è una
creatura di Dio. I cannibali, violando la legge di natura che proibisce l’uccisione di uomini
innocenti, commettono peccato di ferocia e sovvertono la gerarchia naturale presente in natura
secondo cui le creature imperfette (gli animali e i vegetali) si piegano all’uso di quelle perfette
(l’uomo). Non capire questo, significava non capire le rigide categorie in cui la natura è divisa.
Per quanto riguarda invece i sacrifici umani, il senso comune potrebbe indurre a ritenere che
offrire a un dio quanto di più perfetto esistesse in natura, fosse non solo auspicabile ma dovuto.
Per Vitoria, però, Dio aveva destinato gli animali al sacrificio proprio perché non desiderava
vedere che le proprie creature fossero distrutte. Egli comunque ammetteva che l’esigenza di
rendere a Dio un sacrificio adeguato, quand’anche non fosse il vero Dio, era fortissima e forse
non innaturale, ma era prova della confusione che gli indi avevano riguardo alla realtà e alla
natura e che non erano riusciti a dedurre dai prima praecepta della legge di natura adeguati
codici comportamentali.
Dunque la mente degli indiani era difettosa. Una prova ulteriore era la mancanza, nella
cultura della maggior parte dei nativi, di arti e lettere, di un accurato sistema di agricoltura e di
altre cose che si rendono necessarie alla vita umana. In un titolo che potrebbe essere l’ottavo ed
ultimo della relectio De Indis, sebbene Vitoria riconosca che le conclusioni cui si giunge non si
possano affermare con sicurezza, il Maestro mette in discussione le istituzioni degli indi,
chiedendosi se davvero essi fossero in grado di costituire una repubblica legittima secondo i
normali limiti umani e politici.
Per capire l’incapacità indiana di tradurre in leggi i precetti della legge di natura, senza
contraddirne la razionalità affermata nella sezione prima della relectio, un concetto introdotto da
Vitoria diviene centrale: la distinzione fra razionalità in potentia e razionalità in actu. Gli
indiani erano in grado di compiere perfettamente alcuni atti razionali, ma psicologicamente
incapaci di eseguirne altri. Ciò era dovuto al fatto che essi erano “potenzialmente” razionali, ma
non lo erano ancora completamente. Dio non fa niente inutilmente (l’aveva già detto Aristotele
riferendosi alla natura: “natura nihil frustra facit”), quindi, una volta certi che, almeno
potenzialmente, un indiano possedesse la ragione umana, occorreva attendere, educarlo e
condurlo a sviluppare quella facoltà razionale comune a tutti gli uomini fino a che da potenziale
la ragione fosse messa in atto. Esattamente come i bambini, per la cui piena maturazione è
necessario un accurato processo educativo.
Il comportamento “innaturale” degli indiani si spiegava allora non in virtù di malformazioni
dell’intelletto, della struttura della mente indiana, in cui è convinto non esserci nulla di
sbagliato, ma con la cattiva e sbagliata influenza fino ad allora subite da quella mente, cioè con
la loro scarsa e “barbara educazione”, che, similmente ai “contadini spagnoli ben poco diversi
dai bruti animali”67 li faceva incapaci di una completa comprensione della realtà circostante.
Solo l’educazione poteva sviluppare l’intelletto speculativo degli indiani così da permettergli
di dedurre, autonomamente e con precisione, i secunda praecepta dalla legge di natura. Infatti, il
processo di deduzione dei secunda praecepta dai prima era un processo difficile e rischioso
anche per gli uomini pienamente razionali. I cristiani, tuttavia, poiché erano guidati dalla
Rivelazione, appartenevano all’unica categoria di uomini che, salvo essere ingannati dal
diavolo, più difficilmente si discostavano dalla corretta interpretazione delle leggi naturali.
La legittimità del dominio spagnolo, di conseguenza, è fatta dipendere, da Vitoria, dalla
transitorietà della condizione degli indi68. Fino a che essi restavano bambini, gli spagnoli
avrebbero dovuto occuparsene (accipere curam illorum).
67
68
F. DE VITORIA, Relectio De Indis, cit. p.70.
Cf. A. PAGDEN, op. cit., p. 126.
20
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Las Casas e Vitoria: differenze e analogie
Si può sostenere che l’intervento di Las Casas nella “questione delle Indie” abbia seguito due
linee di sviluppo. La prima è una linea pratica, attiva, tipica dell’uomo “esecutivo” che parte
dall’individuazione di un problema per il quale vengono avanzate soluzioni pratiche.
Coerentemente con questo pragmatismo, Las Casas fu interlocutore attivo e propositivo delle
audiencias, delle autorità, delle juntas, per l’attenzione delle quali compose sia “memoriali di
denuncia” che “memoriali di rimedi”69. L’intervento di Padre Las Casas, però, ha seguito, sia
contemporaneamente che in alternativa alla prima, anche una seconda linea direttrice, quella
della “riflessione radicale”, tipica, stavolta, di un uomo teorico che, non limitandosi alla ricerca
di soluzioni pratiche, propone anche rimedi teorici, espressi in modo omogeneo in un’unica
dottrina teologica e giuridica. Una dottrina ed una produzione storico-antropologica che, come
evidenzia I.Pérez Fernandez, autore di un’accurata Cronologia Comparata finalizzata alla
ricerca di (eventuali) influenze reciproche fra Las Casas e Vitoria, non fu mai accademica, da
professore universitario che espone il suo pensiero ed elabora i suoi scritti esercitando la sua
docenza, che infatti non sono “né manuali né libri di testo”70.
L’intervento di Vitoria, fu, al contrario, di natura puramente accademica, essendo il Maestro,
un dottore in teologia che consacrò la sua vita all’insegnamento, da giovane all’Università di
Parigi, transitoriamente nel famoso Collegio di San Gregorio a Valladolid e negli anni della
maturità all’Università di Salamanca.
Un altro dato abbastanza certo, in un analisi comparativa degli interventi dei due domenicani
nella questione delle Indie, è che quello di Las Casas si può considerare “anteriore,
contemporaneo e successivo” rispetto a quello di Vitoria. Las Casas, infatti, anche e soprattutto
per vicissitudini personali, si trovò coinvolto nella conoscenza dei problemi delle nuove terre,
degli indi e delle questioni, non solo giuridiche ad essi connesse, già dal febbraio 1502 quando
arrivò nel Nuovo Mondo, non disinteressandosene, di fatto, fino alla sua morte avvenuta nel
1566. Vitoria, invece, iniziò l’insegnamento teologico, unica attività per mezzo della quale rese
palese il suo punto di vista sulla questione “solamente” nel 1516, morendo, oltretutto
nell’agosto del 1546, vale a dire venti anni prima di Las Casas.
Tuttavia, gli autori che hanno studiato approfonditamente Vitoria e Las Casas, esaminandone
le possibili influenze che i due potrebbero aver esercitato l’un l’altro, sembrano concordare sul
fatto che, nel caso ce ne fossero state, sembra ben maggiore la dipendenza della dottrina
lascasiana da quella di Vitoria. T. Urdanoz definisce Las Casas “precursore e congiuntamente
fedele prosecutore dei principi di Vitoria”71; V.D. Carro dice che Las Casas si ispirava a Vitoria
e che le sue idee erano, in fondo, le stesse di Vitoria72 e, infine, L. Pereña, un altro grande
studioso e commentatore di Vitoria, sostiene che quest’ultimo sia stato il primo ispiratore delle
Leggi Nuove, che esprimevano sul piano politico la sua teoria indiana, ridimensionando dunque
l’influenza che Las Casas ebbe su tale legislazione, o comunque facendola dipendere dalla
conoscenza che il “Protettore di tutti gli indiani” aveva delle teorie vitoriane73.
C’è comunque chi sostiene esserci una fondamentale opposizione fra gli interventi dottrinari
di Las Casas e Vitoria. R. Menéndez Pidal afferma che il pensiero del Maestro non abbia nulla a
69
I. PÉREZ FERNANDEZ, Cronologia comparada del las intervenciones de Las Casas y Vitoria en los
asuntos de America. Pauta basica para la comparaciòn de sus doctrinas, in Aa.Vv., I diritti dell’uomo e
la pace…, cit. , p. 539.
70
Ibidem.
71
T. URDANOZ, Obras de Francisco de Vitoria. Relecciones Teologicas, BAC, Madrid, 1960, p. 511,
citato in I. PÉREZ FERNANDEZ, testo citato, p. 543.
72
Cf. V.D. CARRO, La teologia y los teologos – juristas españoles en la conquista de America, CSIC,
Madrid, 1944, vol. II p. 442 e p. 314, citato in I.O.R. FERNANDEZ, testo citato, p. 542.
73
Cf. L. PERENA, Misiòn de Espana en America 1540-1560, CSIC, Madrid, 1956, p. 6-7, citato in I.
PÉREZ FERNANDEZ, testo citato, p. 543.
21
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che a vedere con quello di Las Casas e che la differenza fra i due sia notevole74. Certamente,
comunque, l’influenza di Las Casas su Vitoria fu nulla. Valga a sostegno di questa affermazione
quanto Vitoria stesso afferma nella relectio de Indis, laddove dice di non aver visto niente
scritto e di non sapere di nessuno che sia intervenuto sulla questione75. Invece, altrettanto non si
può dire di Las Casas che, sebbene non abbia mai conosciuto di persona Vitoria, è probabile sia
statp attratto dalla sua fama fra i domenicani di Valladolid e di Salamanca. Non si conosce
nessuna corrispondenza fra i due domenicani relativa al periodo 1502-1523, quando Las Casas
si trovava nelle Indie e Vitoria in Spagna o a Parigi, né relativa agli anni 1523-1546, anni in cui
Las Casas rientrò numerose volte in Spagna dalle Indie e Vitoria continuò l’insegnamento
teologico presso l’Università di Valladolid (1523-1526) e di Salamanca (1526-1546). Las Casas
comunque potrebbe essere venuto a sapere di Vitoria dai suoi confratelli domenicani già a
partire dal 1540 (La Relectio De Indis come è noto fu esposta l’anno precedente),
dall’Arcivescovo Loyasa, al quale chiese un parere riguardo l’opportunità di battezzare gli
indiani che non avessero ricevuto una sufficiente catechesi che, a sua volta, rivolse il quesito a
Vitoria76, o successivamente quando Las Casas si recò di persona a Salamanca per reclutare
domenicani del Collegio di San Esteban da mandare in missione in America.
In ogni caso, il concetto di “barbaro secundum quid” lascasiano è assai simile e
complementare a quello di “essere dotato di razionalità soltanto in potentia e non in actu”
immaginato da Vitoria, perché essendo il termine di paragone un termine innegabilmente
connesso con il processo evolutivo del progresso umano, il barbaro immaginato da Las Casas
può emanciparsi nel corso del tempo. Questo equivale a dire che sono barbari, perché, come
anche per Vitoria, l’impatto di usanze perverse li rende tali, ma che la forza motrice del
progresso umano, la sapientia, cioè la conoscenza delle cose, così come aveva reso possibile
all’uomo preistorico e selvaggio di migliorare e di evolversi, avrebbe fatto altrettanto con gli
indiani che, in fondo, non erano così indietro nel percorso evolutivo cui ogni essere umano è
soggetto.
Per Vitoria e per Las Casas, la cultura era lo strumento con cui gli uomini potevano riuscire a
sfruttare “le potenzialità che Dio aveva immesso nella natura”77, per cui ad un certo punto,
anche gli indiani, più “giovani” degli altri popoli che invece erano in cima alla scala storicoevolutiva comune a tutte le genti, mediante la conversione, la cultura appunto, e l’insegnamento
di un popolo più vecchio (gli spagnoli) sarebbero divenuti pienamente razionali (in actu per
Vitoria e non più barbari, nemmeno secundum quid per Las Casas). Questa è, allora, la
maggiore delle somiglianze fra il pensiero di Las Casas e quello di Vitoria.
Per quello che riguarda, invece, le divergenze, due sembrano colpire più delle altre. La prima
di queste riguarda la diversa concezione del potere spirituale. Las Casas preferisce una sorta di
stato teocratico in cui il potere spirituale ordina il potere temporale. Si legge nel Trattato delle
Prove, scritto nel 1552: “Il pontefice romano ha, senz’alcun dubbio, un potere sugli infedeli.
[…] La Sede apostolica può dunque scegliere alcuni territori abitati da questi infedeli e
assegnarli a un re cristiano. […] Il re che la Sede apostolica ha scelto per esercitare nelle Indie il
ministero della predicazione della fede, doveva necessariamente essere investito della suprema
sovranità e della monarchia perpetua sui detti indiani ed essere nominato imperatore al di sopra
di molti re”78. Vitoria, invece, in più relectiones sostiene la subordinazione del potere spirituale
rispetto al potere temporale, a meno che l’autorità pontificia, occupandosi di questioni di natura
puramente spirituali, non abbia bisogno di una specie di “potestà temporale (civile) indiretta”.
74
R. MENÉNDEZ PIDAL, “Vitoria y Las Casas”, conferencia leida en Salamanca, en el centenario del
convento de San Esteban, el 19 de octubre de 1956 y publicada en El P. Las Casas y Vitoria , con otras
temas de los siglos XVI y XVII, Espansa – Calpe, Madrid, 1958, p. 18, citato in I. PÉREZ FERNANDEZ,
testo citato, p. 544.
75
Cf. F. DE VITORIA, Relectio De Indis, cit., p. 97.
76
Cf. I. PÉREZ FERNANDEZ, testo citato, p. 560.
77
A. PAGDEN, op. cit., p. 182.
78
Riportato in T. TODOROV, op. cit., p. 209.
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Inoltre, Vitoria smantella quella mentalità che allora pareva indiscutibile, chiarendo che non può
esserci nessun cittadino che abbia poteri illimitati o non ordinati alla comunità79 e che anche Las
Casas dava per acquisita.
La seconda grande differenza riguarda, invece, la maggiore tolleranza lascasiana nei
confronti di cannibalismo e sacrifici umani che per Las Casas non basterebbero a provocare una
guerra contro coloro che praticano queste usanze. In un primo tempo, Las Casas afferma che il
rimedio (la guerra) rischia di essere peggiore del male. Inoltre, ritiene che anche gli spagnoli
debbano avere rispetto per le usanze e le leggi di paesi stranieri e che non si possono biasimare i
cittadini, che nel tentativo di comportarsi in modo conforme alla legge e quindi da buoni
membri della stessa comunità, commettono atti che per gli spagnoli sono condannabili. Vitoria,
nel quinto titolo della terza parte, invece, legittima una guerra proprio in virtù della salvaguardia
di vite innocenti che “ingiustamente” vengono danneggiate da leggi tiranniche e disumane. Las
Casas ricorda ai suoi lettori dell’Apologética Historia che anche nella stessa religione cristiana
questo tipo di sacrifici non è del tutto sconosciuto. Dio lo ordinò ad Abramo, Jefte fu costretto a
sacrificare la propria figlia80 e Cristo fu sacrificato sulla croce dal Padre. Inoltre, per quello che
concerne il cannibalismo, Las Casas narra episodi nei quali la fame, la necessità e le avversità
spinsero anche gli spagnoli a mangiare parti dei loro compatrioti81. Ma, spingendosi più avanti
nell’argomentazione atta a non condannare il sacrificio umano, Las Casas, propone anche
“ragioni naturali”. In primo luogo la natura intuitiva della conoscenza che ogni uomo può avere
di Dio, poi il fatto che ogni uomo adori Dio secondo le proprie capacità, infine l’apprezzabile
desiderio di offrire a Dio quanto di più prezioso si abbia (la vita umana). Conseguenza
immediata di questo ragionamento è che gli indi hanno mostrato di avere rettitudine e religiosità
maggiore di tutte le altre nazioni, perché “le nazioni più religiose del mondo sono proprio quelle
che per il bene del popolo, offrono in sacrificio i loro figli”82 paragonabili nella tradizione
cristiana ai primi martiri cristiani che sacrificavano se stessi in nome di Dio.
Per questo, Todorov parla di Las Casas come dell’introduttore del “prospettivismo” in un
campo che per definizione lo esclude (la religione), definendo il sentimento religioso non per
mezzo di un contenuto assoluto ed universale, ma per mezzo dell’orientamento e dell’intensità
mediante i quali la religiosità e non più la religione si esprime. Anche Losada riconosce in Las
Casas “il vero precursore dell’accettazione di un pluralismo di razze, religioni e culture”83 al
contrario di Vitoria e Sepùlveda, sostenitori della superiorità della cultura cristiana che rende
uguali tutti gli uomini solo dopo la conversione al “Vero Dio”.
Vitoria, convinto che la salvezza cristiana sia un valore assoluto,è invece descritto dallo
stesso Todorov come l’introduttore di “una base legale alle guerre di colonizzazione che fino a
quel momento non ne avevano alcuna”84 visto che, sotto la copertura di un diritto internazionale
fondato sulla reciprocità, non riconosce alle due parti (indiani e spagnoli) alcuna eguaglianza.
Non c’è, infatti, nessuna concreta reciprocità “effettiva” se la libertà di predicare la propria
religione, che costituisce, aprioristicamente, un bonus communis totius orbis85, è riconosciuta
solo agli spagnoli e non anche agli indi.
79
Cf. A. LAMACCHIA, Francisco de Vitoria e l’innovazione moderna del diritto delle genti, in
“Relectio De Indis. La questione degli Indios”, Levante, Bari, 1996, p. XXXIII.
80
Episodio riportato nel Vecchio Testamento nel libro de Giudici (11, 30-40).
81
Cf. T. TODOROV, op. cit., p. 228.
82
Riportato da T. TODOROV, op. cit., p. 231
83
A. LOSADA, Sepùlveda – Las Casas – Vitoria. Mas coincidencias que divergiencias, in Aa.Vv., I
diritti dell’uomo e la pace...”, cit., p. 458.
84
T. TODOROV, op. cit., p. 182.
85
A. LOSADA, op. cit., p. 461.
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La teoria della “Pace Dinamica”
“Si ha la sensazione che Vitoria e la sua scuola si siano distinti per essere stati
esclusivamente promotori della teoria della guerra giusta. Ma la realtà è molto diversa. Non
s’impegnarono tanto a giustificare le guerre, quanto a rendere possibile una pace di giustizia e
libertà in un’Europa di violenze e repressioni istituzionalizzate”86. Con queste parole L. Pereña
mette in guardia da interpretazioni del pensiero internazionaliste di Francisco de Vitoria non
corrette e, allo stesso tempo, spiega la teoria della “Paz Dinamica”, corrispondente all’esatto
obiettivo di Vitoria e della sua scuola.
La pace è il fondamentale diritto dell’umanità di vivere nella giustizia, nella libertà e nella
solidarietà. Non è la semplice assenza di guerra o la mera combinazione di interessi nazionali
che si giovano di un fragile equilibrio di alleanze diplomatiche o militari. Per questo la pace non
è mai “fatta”, ma ha bisogno di essere costantemente mantenuta e salvaguardata, in accordo con
le condizioni sociali e storiche, in presenza delle quali ci si trova di volta in volta. La pace si
realizza attraverso la “storia” perché è un ordine umano e per questo relativo.
La pace, non è mai stabile, è, invece, un equilibrio che la storia ed il cambiare delle
condizioni che la realizzano rischiano di rendere sempre dipendente da alcune congiunture. La
“dinamicità” della pace rende necessaria una revisione costante di queste congiunture, cioè delle
opzioni realizzabili e delle attitudini dell’uomo, soggette a variazioni e ad evoluzioni
strettamente connesse con il passare del tempo e con il cambiamento delle condizioni storiche e
sociali di cui sono conseguenza.
La teoria della“guerra giusta” è, in realtà, lo sforzo di un teologo che cerca di segnalare le
condizioni morali relative a quella particolare congiuntura che è stato il Rinascimento Europeo.
Per questo sarebbe assurdo analizzarlo mediante “categorie” interpretative attuali, sebbene
alcuni concetti siano estremamente moderni. Questa, secondo Pereña è l’origine di tutte quelle
interpretazioni che vedono in Vitoria un bellicista, quando non addirittura il promotore di una
teoria sulla quale cinque secoli di colonialismo europeo hanno trovato fondamento. Diverse
furono, però, le condizioni che costituivano il contorno del pensiero vitoriano. Condizioni
irripetibili e peculiari di un momento, di una tappa di quel susseguirsi continuo di congiunture
che è la “storia”.
Il Vitoria “bellicista”, infatti, non è altro che un teologo che con estrema lucidità e con una
ricchissima cultura, non solo biblica o teologica, segnala le condizioni alle quali la pace doveva
essere adeguata. Per questo motivo, Vitoria, cerca di mettere al riparo la guerra dallo sterminio e
dall’annichilimento del vinto. Per questo se è necessario ricorrere alla guerra, occorre anche che
essa non passi i limiti imposti dalla mera reintegrazione dello status quo ante bellum, che non
serva ad imporre i diritti di guerra quando si può convivere pacificamente con i propri nemici e
che non deve mai far correre il rischio di trasformarsi in un rimedio peggiore del male che si
intende combattere.
Altrettanto evidente manifestazione della contrarietà di Vitoria ad ogni forma di ingiustizia e
di imperialismo è il fatto che, pur essendo cristiano, frate e teologo, ma prima ancora suddito
spagnolo di re Carlo, nega che sia il Papa, sia lo stesso imperatore Carlo V possano ritenersi
signori totius orbis. Il fatto che tutti i popoli, politicamente organizzati, formino una comunità
universale significa che anche il diritto alla libertà, all’indipendenza e alla cultura di ciascun
popolo è universale87. All’uguaglianza di ogni individuo nei confronti della natura corrisponde
l’eguaglianza di ogni popolo e di ogni società civile, tutti uguali di fronte al diritto naturale e
delle genti.
86
L. PEREÑA, La escuela de Francisco De Vitoria en la promocion de la paz, in Aa.Vv., I diritti
dell’uomo e la pace”, cit., p. 87.
87
R. HERNANDEZ, Derechos Humanos en Francisco de Vitoria. Antologìa, Editorial San Esteban,
Salamanca, 1984, p. 184.
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Quindi, anziché guardare a Vitoria come il teorico dell’imperialismo, si dovrebbe scorgere
nel Maestro salmantino colui che trasformò “l’istituzione della guerra”88 nel quadro del diritto
delle genti, umano e positivo, e per questo anche derogabile per volontà manifesta degli stati.
Ma, quello che conta è che in una communitas totius orbis in cui lo sviluppo del diritto delle
genti ha raggiunto unanime applicazione, non vi sono appigli ai quali fare riferimento per
intraprendere una guerra giusta fra i membri di quella communitas.
Si può accusare Vitoria – si chiede Pereña – di essere stato il primo promotore di una
“teologia della repressione” atta a legittimare la conquista delle Indie? E soprattutto, fu
realmente così neutrale intellettualmente per non voler compromettersi politicamente? Valgano,
come risposta a questi interrogativi le parole dello stesso Vitoria nella sua lettera al suo amico P.
Arcos, nella quale ricorda di essere accusato da alcuni “come scismatico, in quanto metto in
dubbio quello che il Papa fa” e che “altri si schierano con l’Imperatore, e dicono che giudico
responsabile sua Maestà e disapprovo la conquista delle Indie, e trovano chi li ascolta e li
appoggia”89. Aggiunge, più avanti, che se ambisse all’arcivescovato di Toledo, che era allora
vacante e glielo avrebbero dato se avesse affermato “l’innocenza di questi peruleros (che
tornano arricchiti dal Perù), senza dubbio alcuno non oserei farlo: mi si secchi la lingua e la
mano, prima che io dica o scriva cosa così disumana e priva di ogni senso cristiano”90.
E’ evidente allora che risulta difficile considerare Vitoria il promotore di una dottrina
coloniale moderna, quando fu il solo, forse, a riconoscere che la sovranità spagnola su quelle
colonie non fosse indefinita o perpetua, ma aveva un limite oggettivo e temporale: il
raggiungimento della piena emancipazione della mente degli indiani.
Le origini del diritto Internazionale nel pensiero di Vitoria
Alla fine del secolo XIX gli studiosi della dottrina internazionalistica di Francisco de Vitoria
hanno riconosciuto il merito che il Maestro ha avuto nella formazione del Diritto
Internazionale91 . Essenziale ed innovativa, a questo proposito, è la concezione universalistica
del mondo o totus orbis, cioè la visione del mondo come società universale di tutti i popoli
politicamente organizzati che vivono insieme sulla base del principio dì uguaglianza, che già
Vitoria aveva sostituito all’Imperum Christianum medievale. Riaffermando che l’uomo è
“radicalmente libero”, concepisce l’intera umanità come una communitas omnium gentium.
La comunità universale o omnium gentium si erge ad un livello superiore rispetto alla
Respublica christiana, perché quest’ultima non ha valore universale, e nemmeno unico. Nella
comunità organizzata di tutti i popoli (cristiani e non cristiani), tutte le nazioni godono degli
stessi diritti e sono soggetti agli stessi obblighi; tutti possono avere rapporti con altri popoli, con
autonomia ed indipendenza. Questa indipendenza significa libertà da ogni ingerenza del Papa e
dell’Imperatore che è più volte ribadita nelle relectiones vitoriane.
Per quello che concerne le basi del Diritto Internazionale, non intendiamo, ovviamente, che
il Maestro ci abbia lasciato un trattato o un manuale giuridico ma che sotto la denominazione di
Ius Gentium, abbia posto le premesse per una sua moderna formulazione.
Lo Ius Gentium dei romani, nelle due versioni lasciateci da Ulpiano e da Gaio ha interessato
gli studiosi di diritto e di morale, fra i quali anche l’Aquinate. Nel Commentario alla Summa,
allora, Vitoria, afferma che lo Ius Gentium “potius debet reponi sub iure positivo quam sub iure
88
L. PEREÑA, testo citato, p. 91.
F. DE VITORIA, Lettera al P. Arcos sulla Occupazione delle Indie (8 novembre 1534) in “Relectio
De Indis. La questione degli indios” Levante, Bari, 1996, p. 137.
90
Ibidem, p. 139.
91
Basti pensare che l’olandese Ugo Grozio, cui comunemente è attribuito il merito di essere
l’inventore del moderno Diritto Internazionale, nel De Jure Belli ac Pacis cita Vitoria circa 58 volte e nel
De Jure Proedae 68.
89
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naturali”92. Il fatto che sia un diritto positivo sta a significare, nell’interpretazione di Vitoria,
che provenga dal comune consenso di tutte le genti e di tutte le nazioni.
C’è però una contraddizione nella quale sembrerebbe cadere Vitoria, quando, più avanti
nella relectio, afferma che lo ius gentium “vel est ius naturale vel derivatur ex iure naturali”93 e
che si chiama diritto delle genti ciò che la ragione naturale costituisce fra le genti. Non più solo
diritto positivo ma anche naturale (invero non lo aveva escluso neanche nel Commentario a san
Tommaso, giacché quel potius quam è in antitesi con minus e non con la negazione
dell’appartenenza del diritto delle genti al diritto naturale).
Tuttavia, questa diversa definizione non va intesa come una contraddizione o una correzione.
Potrebbe essere dovuta, per esempio, alla necessità, presente nel De Indis, ma non nel
Commentario alla Secunda Secundae, di ricondurre il diritto delle genti al diritto naturale, non
esistendo, riguardo alla questione degli indi, diritto positivo. L’opinione maggiormente
condivisibile pare però essere quella che focalizza l’attenzione sulla terminologia attualmente in
uso che chiama Diritto internazionale quello che Vitoria e i suoi predecessori, in conformità alle
realtà a loro contemporanee, chiamavano ius gentium94.
Oggi, riteniamo l’insieme dei rapporti fra i popoli regolati dallo Ius Gentium e dal diritto
internazionale. Nel primo si possono comprendere sia i principi generali comuni fra i popoli, sia
gli usi e le consuetudini omnium gentium perché condivisi da tutti. Il Diritto Consuetudinario,
infatti, per i giuristi, è costituito dall’insieme di quei comportamenti uniformi e costanti che
sono ritenuti giuridicamente vincolanti e necessari, perché, pur non esistendo norme positive
che li impongano, sono accompagnati da quella che è chiamata opinio juris ac necessitatis.
L’altro diritto che contribuisce a regolare i rapporti fra i popoli, il Diritto Internazionale, è,
invece, un diritto veramente positivo, che trae origine dai trattati e dalle convenzioni
internazionali, manifestazione positiva della volontà dei soggetti di diritto internazionale e per
questo chiamato anche diritto pattizio.
Vitoria non poteva operare questa distinzione. Allora intende lo Ius Gentium unicamente
come diritto radicato nell’intimo dell’essere umano, che essendo “quod naturalis ratio inter
omnes gentes constituit” non può che valere sempre, dovunque e fra tutti gli uomini (semper,
ubique, apud omnes). Questa derivazione dalla ragione naturale significa che è anche un diritto
naturale derivato, così come dai prima praecepta derivano le conclusioni. Il Maestro è, però
consapevole della natura pattizia che regola i rapporti fra le nazioni, quindi, comprende tale
diritto di natura convenzionale, evidentemente positivo, all’interno del più comprensivo Diritto
delle Genti. Per questo afferma che “preferibilmente” (potius quam) lo Ius Gentium deve
considerarsi un diritto positivo.
“Preferibilmente” perché ponendo l’accento sul diritto positivo evita la troppo vasta
definizione di Ulpiano (quod natura omnia animalia docuit95) che impropriamente comprende
anche “animali bruti che non habent ius in se”. Ammettendo nella relectio De Indis una
derivazione del Diritto delle Genti dal diritto naturale, invece, Vitoria, vi include anche una
gamma di diritti che o sono “naturali o “derivati dal diritto naturale”, come il diritto
all’autonomia e all’indipendenza, all’integrità territoriale fino anche alla fedeltà alla parola data
(pacta sunt servanda).
Si può allora concludere con J. Castaño che Vitoria include nel Diritto delle Genti le norme
provenienti dal diritto naturale vero e proprio, dal diritto naturale derivato e dai patti e dalle
92
Commentarium in Secunda Secundae, 57, 3, n. 2, cit in J. CASTAÑO, Il diritto internazionale da
Francisco de Vitoria ad oggi, in Aa.Vv., I diritti dell’uomo e la pace…”, cit., p. 110.
93
F. DE VITORIA, Relectio De Indis, cit., p. 99.
94
Quest’ultima denominazione, peraltro, è rimasta nei giuristi di lingua francese che usano con lo
stesso significato sia Droit de gens sia Droit International.
95
ULPIANO, Digesto, I, I, 1. Citato in R. PIZZORNI, Lo Ius Gentium nel pensiero di Vitoria, in “I diritti
dell’uomo e la pace…”, cit., p. 571.
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convenzioni fra le nazioni atte a regolare i rapporti “fra tutti i popoli dell’orbe”96, potendo
considerarlo quindi fondatore di un Diritto Internazionale ante litteram.
E’ evidente però che il Diritto delle Genti in Vitoria è ancora troppo intessuto di
argomentazioni teologiche per cui, si deve considerare il Diritto Internazionale il frutto di un
organico sviluppo di teorie che hanno le radici nella triplice eredità lasciataci dall’antica cultura
mediterranea97 (in particolare dalle tre culle di grandi civiltà: Atene, Roma e Gerusalemme),
dall’opera dei pensatori spagnoli del Secolo d’Oro (in primis Vitoria) e dalla sua prima e
fondamentale “secolarizzazione” che dobbiamo a Grozio98.
96
Cf. R. PIZZORNI, Lo Ius Gentium nel pensiero di Vitoria, in “I diritti dell’uomo e la pace…”, cit., p.
571.
97
Cf. S. ROSENNE, The Influence of Judaism on the Development of International Law: An
Assessment, in “Religion and International Law”, edited by M.W. Janis and C.Evans, Martinus Nijhoff
Publishers, The Hague-Boston-London, 1999, p. 64.
98
Cf. H. McCOUBREY, Natural Law, Religion and the Development of International Law, in
“Religion and International Law”, cit., p. 183.
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