UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA DIPARTIMENTO di GIURISPRUDENZA CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN Diritto Internazionale e dell’Unione Europea CICLO XXV TITOLO DELLA TESI IL CONCORSO ANOMALO NEL DIRITTO INTERNAZIONALE PENALE TUTOR Chiar.ma Prof.ssa Beatrice I. Bonafé DOTTORANDO Dott. Alessandro Bufalini COORDINATORE Chiar.mo Prof. Paolo Palchetti ANNO 2013 CAPITOLO PRIMO CENNI INTRODUTTIVI IN MATERIA DI CONCORSO DI PERSONE NEL DIRITTO INTERNAZIONALE PENALE. IN PARTICOLARE, IL CONCORSO ANOMALO. 1. Premessa……………………………………………………………………………….. p. 4 2. Modelli unitari e modelli differenziati………………………………………………… p. 9 3. Primi orientamenti del diritto internazionale penale: il processo di Norimberga…...... p. 14 4. L’opera di codificazione della Commissione di diritto internazionale……………….. p. 18 5. La Joint Criminal Enterprise………………………………………………………………….p. 22 6. L’impiego della Joint Criminal Enterprise da parte del Tribunale per il Ruanda…….p. 32 7. La Joint Criminal Enterprise davanti ad altri tribunali speciali “ibridi”: Sierra Leone, Timor Est, Cambogia, Libano…………………………………………………………p. 35 8. L’articolo 25 dello Statuto della Corte penale internazionale…………………………p. 40 9. Considerazioni conclusive e piano dell’indagine……………………………………...p. 45 CAPITOLO SECONDO LA JCE III E IL RISPETTO DEL PRINCIPIO NULLUM CRIMEN SINE LEGE 1. Premessa………………………………………………………………………………p. 49 2. Cenni sul principio di legalità nel diritto internazionale penale………………………p. 50 3. Il fondamento giuridico della figura alla luce della sentenza Tadić……………………..p. 57 4. Tentativi di riesame e riflessioni intorno al principio di legalità all’interno del Tribunale per la ex Iugoslavia…………………………………………………………………….p. 62 5. La Joint Criminal Enterprise davanti alle Camere cambogiane………………………p. 68 5.1. Negazione della natura consuetudinaria della JCE III …………………………...p. 72 5.2. L’esclusione della terza forma in nome del principio di legalità…………………p. 78 6. Considerazioni conclusive……………………………………………………………..p. 83 2 CAPITOLO TERZO LA JCE III E IL RISPETTO DEL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA NEI CRIMINI A DOLO SPECIALE 1. Premessa……………………………………………………………………………….p. 85 2. Responsabilità principale o accessoria?.........................................................................p. 86 3. JCE III e crimini a dolus specialis: una mens rea di difficile definizione…………….p. 94 4. JCE III e nullum crimen sine culpa..............................................................................p. 102 5. La compatibilità della JCE III con i crimini a dolus specialis nei tribunali ad hoc….p. 105 6. Il diverso orientamento del Tribunale speciale per il Libano………………………...p. 109 7. Considerazioni conclusive……………………………………………………………p. 114 CAPITOLO QUARTO IL CONCORSO ANOMALO NELLO STATUTO DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE 1. Premessa………………………………………………………………………………p. 116 2. Il ruolo del diritto consuetudinario nello Statuto della Corte penale internazionale….p. 118 3. I primi orientamenti della Corte penale internazionale in materia di concorso di persone……………………………………………………………………………………p. 124 4. L’applicazione della JCE III alla luce dei requisiti dell’articolo 30 dello Statuto della Corte penale internazionale……………………………………………………………………..p. 132 5. Considerazioni conclusive……………………………………………………………..p. 138 CONCLUSIONI………………………………………………………………………...p. 140 ELENCO DELLE OPERE CITATE……………………………………………………………p. 147 CASE-LAW…………………………………………………………………………….....p. 160 3 CAPITOLO PRIMO CENNI INTRODUTTIVI IN MATERIA DI CONCORSO DI PERSONE NEL DIRITTO INTERNAZIONALE PENALE. IN PARTICOLARE, IL CONCORSO ANOMALO. SOMMARIO: 1. Premessa; 2. Modelli unitari e modelli differenziati; 3. Primi orientamenti in materia di concorso di persone nel diritto internazionale penale: il processo di Norimberga; 4. L’opera di codificazione della Commissione di diritto internazionale; 5. La Joint Criminal Enterprise; 6. L’impiego della Joint Criminal Enterprise da parte del Tribunale per il Ruanda; 7. La Joint Criminal Enterprise davanti ad altri tribunali penali internazionalizzati: Sierra Leone, Timor Est, Cambogia, Libano; 8. L’articolo 25 dello Statuto della Corte penale internazionale; 9. Considerazioni conclusive e piano dell’indagine 1. Premessa Il problema della attribuzione della responsabilità penale per la partecipazione di un individuo ad un crimine commesso da una pluralità di persone e la necessaria differenziazione dei diversi gradi di contributo dei singoli, delle condotte tipiche e delle pene ha da sempre suscitato confronti accesi ed orientamenti contrastanti nel dibattito scientifico. Se la questione rimane controversa negli ordinamenti interni, che sappiamo aver raggiunto un grado di affinamento piuttosto elevato, è facile immaginare l’incertezza che domina nell’ordinamento internazionale. Le soluzioni avanzate si sono spesso espresse nel tentativo di trasporre a livello internazionale concetti giuridici di un diritto interno particolare o figure che potremmo definire ibride, nel senso di risultanti dalla fusione tra più e diversi istituti provenienti da culture giuridiche differenti. Per quanto tale atteggiamento dei giudici dei tribunali penali internazionali sia comprensibile ed anche in qualche modo inevitabile, nella nostra analisi si cercherà di tenere costantemente presente la peculiarità propria dei crimini internazionali e dei contesti storici e sociali nei quali avvengono. Si ritiene, infatti, che le forme di attribuzione ideali e più efficaci per il diritto internazionale penale non debbano forzosamente corrispondere a canoni e figure giuridiche di diritto interno, anzi si è convinti che debbano in qualche 4 modo distaccarsene trovando una propria autonomia in modo da meglio adattarsi alle condotte criminose tipiche di tale ordinamento. Sono proprio le particolarità del diritto internazionale penale a far ritenere opportuna tale impostazione. Infatti, sia da un punto di vista formale ci si riferisce in questo senso alle fonti da cui tale diritto trae forza giuridica sia da un punto di vista sostanziale - nel senso dei contesti e dei comportamenti criminosi tipici - il funzionamento e l’applicazione del diritto internazionale penale presentano peculiarità uniche. Per quel che riguarda il primo aspetto, se è vero che il diritto internazionale penale trova applicazione in rapporti di tipo verticale, come in qualsiasi processo penale, esso nondimeno trae la propria forza giuridica dalle medesime fonti del diritto internazionale pubblico, dunque da relazioni orizzontali tra Stati par in parem; inoltre, attingendo da istituti giuridici che si sono formati e sviluppati nei vari ordinamenti interni, porta con sé i contrasti e le differenze tra questi, in particolare tra i sistemi di civil law e quelli di common law. Tale ultimo aspetto, come vedremo, è particolarmente rilevante nello studio del nostro istituto giuridico (1). Quanto al secondo elemento, che abbiamo definito sostanziale, la specificità cui ci si riferisce è la natura intrinseca dei crimini internazionali che sono generalmente compiuti da un esteso numero di persone e attraverso un sistema diffuso di violenze. Per questa ragione è spesso difficile ricostruire i dati fattuali e concreti che permettano al giudice l’attribuzione certa delle responsabilità: i principali responsabili sono nella maggior parte dei casi i più distanti rispetto all’azione criminosa; le persone, invece, che concretamente hanno commesso il fatto sono spesso difficilmente individuabili; mentre la massa di funzionari di qualsiasi genere in posizione intermedia potrebbe difettare di un elemento psicologico pregnante della propria partecipazione o in alcune ipotesi non essere nemmeno a conoscenza, per negligenza, delle conseguenze della propria adesione all’apparato di governo criminale. A tutto ciò si aggiungano le teorie, sociologiche o di psicologia sociale, che fanno leva in qualche modo sulla riduzione della capacità cognitiva del singolo nei casi di (1) Una delle critiche che spesso viene rivolta al diritto internazionale penale è quella di essere il risultato di trasposizione di dottrine provenienti unicamente da sistemi giuridici occidentali e, quindi, difficilmente espressione di un diritto penale “cosmopolita”, quale pretenderebbe essere. Cfr. OSIEL, The Banality of Good: Aligning Incentives Against Mass Atrocity, in Columbia Law Review, vol.105, p. 1753. 5 mob violence, insistendo, da un lato sulla distanza fisica dal crimine (2) e dall’altro sul condizionamento operato sulla effettiva capacità di discernimento dell’individuo in comunità nelle quali il comportamento criminoso è la regola e quello deviante l’eccezione (3). Da un punto di vista giuridico, il problema diventa quello di trovare il giusto punto di equilibrio tra due esigenze contrapposte: incentrare la responsabilità sul singolo individuo, rischiando di avallare in qualche modo il sistema all’interno del quale questo si è mosso, o individuare una responsabilità del gruppo o della collettività che può al contrario fornire un’efficace protezione e schermo per il singolo agente che ha concretamente commesso i crimini o che ha in qualche modo agevolato l’attuazione di quelle violenze. Le soluzioni proposte dalla storica occasione offerta al tribunale di Norimberga si incentravano sostanzialmente su due diversi modi di intendere e di perseguire forme di responsabilità che risaltavano l’elemento collettivo: la conspiracy, intesa come il comune intento tra due o più persone di commettere un crimine (indipendentemente dal fatto che ciò avvenga, per questo definito “inchoate crime”) e la dichiarazione di criminalità rivolta alle organizzazioni in quanto tali (4). Nonostante la determinante “forza gravitazionale” (5) esercitata dai principi giuridici emersi nel processo di Norimberga, la giustizia penale (2) Si vedano al riguardo alcune interessanti considerazioni di BAUMAN, Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna, 1992, p.46:“L’aumento della distanza fisica e/o psichica tra l’azione e le sue conseguenze produce qualcosa di più che la sospensione dell’inibizione morale: esso annulla il significato morale dell’azione e con ciò previene ogni conflitto tra lo standard personale dell’accettabilità morale e l’immoralità delle conseguenze sociali dell’azione. Quando la maggior parte delle azioni sociologicamente significative viene mediata da una lunga catena di complessi rapporti di dipendenza causale e funzionale, i dilemmi morali scompaiono dalla vista e le occasioni di scrutinio e di scelta morale consapevole diventano sempre più rare.” Si aggiungano anche i noti esperimenti sulla spontanea adesione e l’atteggiamento conformistico rispetto a comportamenti collettivi e agli ordini criminali di un’autorità superiore, cfr. MILGRAM, Obedience to Authority: An Experimental View, New York, 1974 e HANEY, BANCKS, ZIMBARDO, Interpersonal Dynamics in a Simulated Prison, in International Journal of Criminology and Penology, 1983. Riflessioni illuminanti sul tema sono state compiute anche da Primo LEVI nella sua ultima opera, I sommersi e i salvati, Torino, 1986 e Hanna HARENDT, La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme, Milano, 1964 e Responsabilità e giudizio, Torino, 2004. (3) DRUMBL, Collective Violence and Individual Punishment: the Criminality of Mass Atrocity, in Northwestern University Law Review, vol. 99, n. 2, 2005, pp. 539-610. (4) L’articolo 6(a), come noto, si riferiva unicamente ai crimini contro l’umanità e si prevedeva che le condotte criminose potessero essere il risultato della partecipazione ad un piano comune o indotte da una cospirazione. L’art. 9 dello Statuto del tribunale di Norimberga permetteva invece di dichiarare criminali alcune delle organizzazioni naziste. Sugli individui, appartenenti alle stesse, ricadeva la responsabilità penale proprio in quanto membri di tali associazioni. (5) Espressione frequentemente utilizzata in dottrina e la cui formulazione originaria è da attribuirsi a Ronald Dworkin. Cfr. DWORKIN, Taking Rights Seriously, Londra, p. 186. 6 internazionale degli anni novanta ritornava con decisivo vigore alla centralità assoluta dell’individuo come destinatario di obblighi giuridici internazionali e si discostava dall’impostazione seguita nei processi successivi alla seconda guerra mondiale. Rimaneva esclusa, infatti, ogni forma di attribuzione della responsabilità per gli enti collettivi, quali organizzazioni o associazioni militari, politiche o amministrative. L’idea di una forma di responsabilità collettiva d’altronde contrasta con quel principio, ritenuto fondamentale, della personalità della responsabilità penale. È opportuno sottolineare, tuttavia, che ancora nella redazione dello statuto della Corte penale internazionale, la questione è stata oggetto di accesi dibattiti. L’inclusione nella giurisdizione della Corte delle persone giuridiche era fortemente sostenuta dalla Francia che riteneva tale soluzione potesse essere un efficace strumento compensativo per le vittime (6). Nella proposta finale, la Francia si limitava, però, a proporre la giurisdizione sulle società private, con l’esclusione degli Stati e di altri enti pubblici o senza scopi di lucro (7). Per quanto riguarda la conspiracy, l’istituto è stato restrittivamente ripreso dagli statuti dei tribunali ad hoc, per poi essere definitivamente abbandonato nello Statuto di Roma. Come vedremo, tuttavia, le soluzioni adottate si presentano come il risultato di un compromesso che tiene conto di alcuni caratteri e peculiarità di questa figura (8). In tema di responsabilità degli enti collettivi, un’importanza rilevante viene naturalmente ad assumere la responsabilità degli Stati di cui non ci occuperemo in questa sede ma che, pur operando in maniera separata ed autonoma (9), “may act in a complementary way and enhance the effectiveness of international criminal justice” (10). (6) U.N. Doc. A/CONF.183/C.1/L.3 (1998), art. 23, parr. 5 e 6. (7) U.N. Doc. A/CONF.183/C.1/WGGP/L.5 (1998). (8) Si veda infra, paragrafo 8 di questo capitolo. (9) Nel Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati, proprio per mantenere distinte le due forme di responsabilità, individuale e dello Stato, si è preferito parlare di violazioni di obblighi derivanti da norme fondamentali, piuttosto che riferirsi al concetto di “crimine”. Come è già stato osservato in dottrina, la differenza non si sostanzia naturalmente nella natura dei fatti da cui scaturisce la responsabilità, ma sui meccanismi di attribuzione attraverso i quali si esprime ed il tipo di sanzione. Cfr. VIVIANI, Crimini internazionali e responsabilità dei leader politici e militari, Milano, 2005, pp. 63-64. (10) BIANCHI, State Responsibility and Criminal Liability of Individuals, in CASSESE (Ed.), The Oxford Companion to International Criminal Justice, Oxford, 2009, p.24. Cfr. anche BONAFÉ, The Relationship between States and Indivdual Responsibility for International Crimes, Leiden-Boston, 2009; JØRGENSEN, The Responsibility of States for International Crimes, Oxford, 2000; ALVAREZ, Nuremberg Revisited: The Tadic Case, in European Journal of International Law, vol.7, no.2, 1996, in particolare pp. 260-264. 7 Nello specifico il presente studio sarà dedicato ad un particolare istituto concorsuale che ha conosciuto un importante successo nella giurisprudenza penale internazionale: quel meccanismo di attribuzione della responsabilità noto con il nome di Joint Criminal Enterprise (JCE) (11). In generale, si tratta di un modello ascrittivo della responsabilità individuale per crimini commessi da una pluralità di persone, quali tipicamente sono i crimini internazionali (12). Lo scopo di questo primo capitolo è quello di tracciare l’evoluzione nella disciplina del concorso di persone da Norimberga sino allo Statuto di Roma (13). Ci si soffermerà più a lungo evidentemente sulla JCE cercando di definire gli elementi costitutivi dell’istituto attraverso l’analisi della giurisprudenza penale internazionale e prestando di volta in volta una particolare attenzione al vero oggetto dell’indagine nel suo complesso, ovvero il c.d. concorso anomalo: espressione mutuata dalla nostra penalistica per indicare una forma concorsuale di responsabilità penale per il reato diverso da quello voluto dal preteso coautore. Prima di analizzare dunque l’evoluzione e le principali caratteristiche della JCE e osservare in che modo questa figura sia stata intesa e nel tempo definita nei suoi diversi elementi dalla giurisprudenza internazionale (in particolare del Tribunale per la ex Iugoslavia), ci sembra opportuno esporre, seppur in modo schematico, le diverse concezioni ed i modelli penalistici adottati negli ordinamenti nazionali in materia di concorso di persone e ripercorrere brevemente l’evoluzione sul punto del diritto internazionale. Si vedrà, inoltre, se e in che modo il concetto di JCE sia stato ripreso da altri tribunali penali internazionali o ibridi. Ci si occuperà, poi, di verificare se tale meccanismo di imputazione della responsabilità penale possa rientrare o meno (11) La sua formulazione abbreviata, JCE, è ormai di uso comune anche presso i tribunali. Ciò avvenne per la prima volta nella sentenza Prosecutor v. Babić. Cfr. HANN, The Development of the Concept of Joint Criminal Enterprise at the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, in International Criminal Law Review, n.5, 2005, p.170. L’A. parla, per tal motivo, di “terminus tecnhicus” entrato ormai nel comune linguaggio del diritto internazionale penale. In generale sui modelli ascrittivi del diritto internazionale penale, si veda BOAS, BISCHOFF, REID, Forms of Responsibility in International Criminal Law, Cambridge, 2007; VAN SLIEDREGT, Individual Criminal Responsibility in International Law, The Hague, 2003 e OSIEL, Modes of Participation in Mass Atrocity, in Cornell Int. Law Journal, n. 39, 2005. (12) Nelle classificazioni dottrinali vengon spesso definiti “reati a concorso tendenzialmente necessario”. (13) Ripercorrere insomma l’evoluzione ed il progressivo sviluppo delle tecniche normative in materia di concorso di persone nel diritto internazionale penale. Per una breve analisi di questa costante ricerca di modelli appropriati, si veda tra gli altri VAN DER WILT, The Continuous Quest for Proper Modes of Criminal Responsibility, in Journal of Int. Criminal Justice, vol. 7, n. 2, 2009. 8 nelle disposizioni rilevanti in materia contenute nello Statuto della Corte penale internazionale e, allo stesso tempo ma in senso in qualche modo opposto, quanto lo Statuto stesso e la prima giurisprudenza della Corte possano influire sul contenuto della norma internazionale penale in materia di concorso di persone. 2. Modelli unitari e modelli differenziati La disciplina del concorso di persone nel reato ha da sempre rappresentato uno dei temi più dibattuti e controversi del diritto penale sostanziale. Gli approcci nazionali all’istituto del concorso sono i più diversi e spesso oggetto di critiche e tentativi di riforma che sembrano non soddisfare mai pienamente l’esigenza del rispetto dei principi fondamentali del diritto penale. Tra questi, in particolare, il principio di colpevolezza e di tassatività. D’altronde, la criticità di tale questione è intrinseca alla sola idea di prevedere elementi collettivi in un campo del diritto fondato sul principio della responsabilità individuale personale. È il principio di colpevolezza, fondamento del diritto penale moderno, a sancire la personalità della responsabilità penale. Quest’ultima, a sua volta, si ispira ad un altro fondamentale principio del diritto penale moderno, quello dell’autonomia individuale, per il quale ogni individuo ha la piena libertà e capacità di scelta nelle proprie azioni. In nome di questo, dunque, ogni individuo dovrebbe essere ritenuto responsabile unicamente per il proprio comportamento e solo nei limiti in cui questo possa essere considerato colpevole. Nelle fattispecie criminose concorsuali, si pone allora il problema di conciliare il massimo rispetto dell’autonomia individuale e della responsabilità personale con le variegate forme di compartecipazione criminosa. In altre parole, si tratta di stabilire se ed entro quali limiti un individuo possa rispondere della condotta criminosa altrui negli illeciti risultanti da una criminalità di gruppo e da un’azione collettiva. Il concorso di persone nel reato è l’istituto penalistico cui è affidato il compito di trovare una soluzione a questa complessa questione. Inoltre, il particolare contenuto delle norme sul concorso di persone determina rilevanti conseguenze su altri istituti del diritto penale (il tentativo e le fattispecie di parte speciale). 9 La disciplina del concorso di persone si può poi facilmente porre in contrasto con un altro dei principi fondamentali di ogni sistema penale: il principio di tassatività e determinatezza della norma penale, più in generale qunidi con il principio di legalità. Il problema di questo potenziale contrasto, dovuto soprattutto all’estrema difficoltà di prevedere ogni specifica e possibile forma di partecipazione al crimine, è sentito al punto da aver portato alcuni autori a definire il concorso nel reato come “l'istituto impreciso per eccellenza” (14). A livello internazionale, come si vedrà meglio in seguito, tale connaturata imprecisione può portare ad inaccettabili conseguenze, ovvero alla possibile impunità di soggetti che hanno svolto un ruolo fondamentale nella commissione di crimini particolarmente efferati. Data la difficoltà nel determinare con sufficiente chiarezza e precisione la portata ed il contenuto delle norme che disciplinano il concorso all’interno di un sistema penale, le soluzioni adottate sono variegate e raggruppabili, solo per approssimazione, in due diversi modelli: unitari e differenziati. Al confine tra questi si situano altre soluzioni giuridiche, definite ibride o eclettiche, nelle quali la differenziazione delle condotte concorsuali non corrisponde necessariamente ad una diversificazione nel trattamento sanzionatorio. In altre parole, nei sistemi ibridi troviamo una differenziazione delle condotte a cui tuttavia non segue una graduazione delle pene (15). Esempio paradigmatico del modello unitario è proprio l’ordinamento italiano. L’articolo 110 del codice penale italiano non prevede, infatti, alcuna distinzione all’interno dell’istituto del concorso di persone nel reato tra le diverse possibili intensità e forme di partecipazione al crimine. Così recita la norma: “Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”. L’articolo 110 viene comunemente definito come una “clausola generale” volta a ricomprendere nel concorso qualsiasi condotta atipica dotata di una efficacia causale nei confronti (14) Cfr. AMATI, Principio di precisione e concorso di persone nel reato., in DELMASMARTY, FRONZA, LAMBERT-ABDELGAWAD, Les sources du droit international penal, Parigi, 2004, p.1. (15) Per un’ampia panoramica dei diversi modelli normativi Cfr. SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987. In generale sul concorso cfr. anche FIANDACA, MUSCO, Diritto Penale. Parte Generale, Bologna, 2009, p. 525. Secondo parte della dottrina “la tipicizzazione delle forme di concorso, con un maggior o minore grado di precisione, non risponde tanto all’esigenza di modulare la sanzione (…), quanto ad un preliminare bisogno di tassatività nella individuazione dei soggetti chiamati a rispondere, assieme all’autore in senso stretto, del reato realizzato in concorso”, si veda CAMAIONI, Il concorso di persone nel reato, Milano, 2009, pp. 5-6. 10 dell’evento lesivo, senza alcuna demarcazione tra forme “primarie” e “secondarie” di partecipazione. Questa clausola generale, da un lato, semplifica la complessa opera di codificazione delle innumerevoli fattispecie concorsuali possibili, dall’altro, rimette al giudice il difficile compito di individuarle caso per caso. In principio, questo modello si riteneva fondato sul concetto unitario di autore di matrice tedesca (Einheitstäterbegriff) che non prevede alcuna distinzione né di ruoli né di pene per tutti coloro che hanno tenuto una condotta causalmente collegata al fatto tipico. In realtà, questa concezione, che tende a dilatare la nozione di autore, sembra oggi superata dalla c.d. teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale, secondo la quale la tipicità dell’illecito sarebbe data dalla interazione dell’art. 110 con le fattispecie di parte speciale. In questa ricostruzione, a determinare la responsabilità penale sarebbe la convergenza dei contributi nella realizzazione del fatto tipico (16). Occorre subito sottolineare che, da uno studio comparato dei sistemi penali nazionali, tale modello risulta essere assolutamente minoritario. Inoltre, proposte e tentativi di riforma della nostra disciplina del concorso vengono avanzati ormai da molto tempo, seppur senza alcun risultato (17). In sostanza, un impianto come quello del codice italiano attribuisce un’equivalenza causale a tutte le condotte di partecipazione e sposta quindi un’eventuale distinzione del ruolo di ogni compartecipe sull’elemento soggettivo e sulla portata del contributo materiale (18). In altri termini, lo scopo sotteso alla nostra disposizione è quello di estendere la punibilità a tutte quelle condotte atipiche che presentano un nesso eziologico con il fatto criminoso, salvo poi distinguere a livello sanzionatorio i singoli contributi a seconda dell’entità degli stessi. (16) DELL’ANDRO, La fattispecie plurisoggettiva in diritto penale, Milano, 1956, 40 ss. Altra teoria dominante è quella dell’accessorietà secondo la quale ad una prima determinazione della forma tipica di autoria, conforme al modello legale, seguirebbe poi la rilevazione delle forme di “accessione” a quella dei contributi atipici. Cfr. LATAGLIATA, I principi del concorso di persone nel reato, Napoli, 1964, 67 ss. Infine, alcuni autori propendono piuttosto per una integrazione delle due teorie che utilizzate autonomamente risulterebbero entrambe e per motivi diversi poco soddisfacenti. Cfr. SEMINARA, op. cit., p. 290. (17) Tra i modelli unitari, a livello europeo, si può segnalare, insieme all’Italia, la Danimarca. (18) SEMINARA, op. cit., pp. 7-10. Secondo l’A. il modello unitario “da un lato pregiudica la funzione garantista delle fattispecie incriminatrici di parte speciale, dall’altro lato comporta il rischio di arbitri sia nella commisurazione giudiziale della pena dei concorrenti sia nella delimitazione delle condotte punibili a titolo di tentativo rispetto a quelle meramente preparatorie”. Peraltro, solo dalla lettura dei lavori preparatori si ricava che il criterio che determina il “concorrere” è quello causale. Di per sé la parola potrebbe ricomprendere una variegata gamma di condotte anche puramente espressione di un contributo psicologico. Secondo Vassalli, proprio a causa della sua indeterminatezza, si tratta della “disposizione più incostituzionale che esista nell’ordinamento italiano”, VASSALLI, Sul concorso di persone nel reato, in STILE (a cura di), La riforma della parte generale del codice penale, Napoli, 2003. 11 Per il suo elevato grado di imprecisione ed indeterminatezza, il modello in esame lascia un margine altissimo di discrezionalità al giudice nella distinzione delle diverse forme di partecipazione (19). La stessa indeterminatezza concede parimenti al giudice un’ampia discrezionalità nella commisurazione della pena (20). Un bilanciamento in senso oggettivista avviene nel nostro ordinamento attraverso l’art. 114 c.p. che prevede l’attenuante per il contributo di minima importanza, cui si aggiungono, naturalmente, le regole generali sulla commisurazione della pena di cui all’art. 133 c.p. (21). Il modello differenziato, pur con innumerevoli sfumature, è in assoluto il più diffuso tra gli ordinamenti penali nazionali. Tale sistema, proprio in nome di un maggior rispetto del principio di tassatività, opera una definizione e distinzione delle condotte concorsuali tipiche. Questo modello, peraltro, compie solitamente un’ulteriore diversificazione all’interno del concetto stesso di autoria: immediata, quella di chi realizza direttamente e personalmente la condotta criminosa; mediata, se è realizzata tramite un altro soggetto; ed infine, la coautoria, nella quale il soggetto commette il crimine congiuntamente ad altri individui. A differenza di quello unitario, dunque, il modello differenziato restringe la discrezionalità del giudice attenuandone il ruolo creativo. Due considerazioni, tuttavia, sembrano necessarie. Da un lato, occorre sottolineare che una tipizzazione più stringente può precludere la condanna di condotte che, seppur non tipizzate, appaiono meritevoli di sanzione. Dall’altro, e proprio in conseguenza di questo primo aspetto, l’impossibilità di prevedere con precisione l’infinita gamma di condotte concorsuali punibili lascia sempre un margine di discrezionalità giudiziale (22). Queste due criticità, che pur vanno tenute in dovuta considerazione, non sembrano intaccare l’idea che i modelli differenziati rappresentino in generale una maggior garanzia per l’imputato in termini di certezza, prevedibilità e determinatezza del dato normativo. (19) È interessante notare che il codice Zanardelli (1889), precedente al codice Rocco (1930), prevedeva invece un modello differenziato che si inseriva in una tradizione giuridica consolidata. (20) PELISSERO, Il contributo concorsuale tra tipicità del fatto ed esigenze di commisurazione della pena. Paradigmi teorici e modelli normativi, in Studi Marinucci, II, Milano, 2006, 1633 ss. (21) Cfr. SEMERARO, Concorso di persone nel reato e commisurazione della pena, Padova, 1986, 125 ss. (22) È stato correttamente osservato che nemmeno il modello differenziato è riuscito a risolvere in modo definitivo la complessità dei problemi giuridici posta dal concorso di persone, in particolare in relazione al contributo atipico. Cfr. INSOLERA, Concorso di persone nel reato, in Digesto discipline penalistiche, Agg., Torino, 2000, p. 67. 12 Anche quei sistemi che prevedono una distinzione normativa tra autori e complici, tuttavia, non sempre prevedono come diretta conseguenza di tale differenziazione un diverso trattamento sanzionatorio (23). Sono i modelli c.d. ibridi. Il diritto internazionale penale, evolutosi come vedremo da sistema unitario a modello differenziato, non presenta alcuna gradazione condivisa nella scala delle sanzioni. Nel tempo, come vedremo, si è infatti cercato di affinare e disciplinare con maggior precisione le diverse condotte di partecipazione criminosa senza tuttavia prevedere ancora alcuna conseguente distinzione sul piano sanzionatorio. In questo senso si può sostenere che, sebbene vi sia stata un’attenzione crescente nel disciplinare le condotte punibili in nome della determinatezza della norma incriminatrice, la differenziazione nel trattamento sanzionatorio è rimessa alla discrezionalità del giudice ed avviene solo nella fase decisoria e con le criticità già note in termini di tassatività e legalità. Per quel che riguarda lo specifico oggetto del nostro studio, le forme anomale del concorso di persone, sono necessarie alcune premesse di carattere generale. Quando si parla di concorso anomalo nel nostro ordinamento ci si riferisce all’articolo 116 del codice penale, che prevede una particolare forma di concorso per il reato diverso da quello voluto da taluno dei pretesi concorrenti (24). Si tratta dunque di un criterio di imputazione attraverso il quale tutti i compartecipi rispondono del reato realizzato dall’esecutore o dagli esecutori anche nel caso in cui questo sia diverso da quello concordato. Questa norma, per come originariamente pensata, era espressione di una vera e propria (e difficilmente accettabile) responsabilità obiettiva che sottolinea e denota il particolare rigore del nostro legislatore nei confronti di qualsiasi forma di criminalità organizzata. La Corte costituzionale, tuttavia, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità di tale disposizione con il principio di personalità della responsabilità penale contenuto nell’art. 27 della Costituzione, ha da tempo sottolineato l’elemento di colpevolezza implicito nella (23) Tra i paesi dove dalla differenziazione delle condotte discende un diverso trattamento sanzionatorio si possono citare i casi di Germania, Spagna e Russia. (24 ) Così recita l’articolo 116 cod. pen.: Art. 116. Reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti. Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione od omissione. Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave. 13 disposizione poiché il reato non voluto doveva “rappresentarsi nella psiche dell’agente nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto” (25). Fattispecie concorsuali di questo tipo, cosiddette anomale, non sono presenti in tutti gli ordinamenti giuridici. L’istituto ha invece trovato una sua definizione nel diritto internazionale penale proprio all’interno della teoria della Joint Criminal Enterprise. Tale modalità ascrittiva include infatti la possibilità di attribuire all’imputato crimini non inizialmente parte del disegno criminale ma che sono stati commessi in connessione con la sua esecuzione e la cui realizzazione poteva essere prevista dagli autori: si tratta della terza forma di Joint Criminal Enterprise. 3. Primi orientamenti in materia di concorso nel diritto internazionale penale: il processo di Norimberga La prima esperienza nella repressione penale di individui ritenuti colpevoli di crimini internazionali avvenne al termine del secondo conflitto mondiale. Le persone coinvolte a più livelli nel funzionamento della macchina burocratica ed amministrativa del Terzo Reich potevano essere contate sull’ordine delle centinaia di migliaia. All’interno di questo atroce ingranaggio umano, ogni singolo individuo, svolgendo il compito che la legge e la società del tempo gli avevano assegnato o non opponendosi a quanto da altri veniva deciso, aveva permesso la concretizzazione del più grande massacro della storia dell’uomo. La responsabilità penale, tuttavia, è personale e non può né deve essere confusa con colpe collettive (26). È noto come questo fondamentale principio penalistico fosse difficilmente conciliabile con alcune disposizioni dello Statuto del Tribunale di Norimberga. Gli articoli 9 e 10 prevedevano, infatti, un (25) Corte costituzionale, sentenza 1965/42. (26) Questo principio generale si sostanzia in due diversi aspetti: da un lato, è necessario un certo grado di colpevolezza del soggetto agente (concetto che trae sempre fondamento dal generale principio di autonomia decisionale dell’individuo); dall’altro, nessuno può essere ritenuto responsabile per crimini commessi da altri o ai quali non abbia in alcun modo partecipato (la c.d. responsabilità da fatto altrui). Da tale secondo principio deriva che un soggetto non può essere chiamato a rispondere di quanto commesso da un gruppo o un’organizzazione cui appartenga, a meno che non sia provata un propria responsabilità personale per un determinato atto od omissione. 14 meccanismo attraverso il quale la mera appartenenza ad un’organizzazione, dichiarata criminale dal Tribunale stesso, potesse avere una rilevanza penale (27). A fondamento di questa impostazione vi era la convinzione dell’impossibilità di perseguire e punire i criminali nazisti sulla base degli strumenti tradizionali del diritto penale. Il Tribunale, tuttavia, si rese immediatamente conto della pericolosità di un criterio di imputazione che, prevedendo una forma di responsabilità per associazione, difficilmente avrebbe potuto conciliarsi con i principi fondanti le teorie sulla responsabilità penale condivisi dalla maggior parte dei sistemi giuridici. Nella nota sentenza Göring et al., il Tribunale militare internazionale, infatti, ribadì il principio fondamentale della personalità della responsabilità penale. Ancor più importante ai fine di questa indagine, il Tribunale ricondusse la nozione di “organizzazione criminale” a quella di “accordo criminoso” (28). Infine, si introdusse un decisivo elemento soggettivo poiché i membri delle organizzazioni, per essere punibili, dovevano possedere la piena consapevolezza degli scopi criminosi del gruppo (29). A parte l’eccezione di non poco conto di cui sopra, poi attenuata come visto dallo stesso Tribunale, il principio della personalità della responsabilità penale è previsto all’articolo 6 dello Statuto del tribunale, ove si statuisce che: “The Tribunal […] have the power to try and punish persons who, acting in the interests of the European Axis countries, whether as individuals or as members of organizations, committed any of the following crimes”. E soprattutto, dopo aver elencato le categorie di crimini perseguibili, in quella stessa disposizione si stabilisce che: (27) L’articolo 9.1 recita: “At the trial of any individual member of any group or organization the Tribunal may declare (in connection with any act of which the individual may be convicted) that the group or organization of which the individual was a member was a criminal organization.” Mentre l’articolo 10 prevede che: “In cases where a group or organization is declared criminal by the Tribunal, the competent national authority of any Signatory shall have the right to bring individual to trial for membership therein before national, military or occupation courts. In any such case the criminal nature of the group or organization is considered proved and shall not be questioned.”. (28) Göring et al., Tribunale militare internazionale (IMT), 1 ottobre 1946, in Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, Nurnberg, 14 November 1945-1 October 1946, p. 256. (29) Ibidiem, p. 273. Cfr. BASSIOUNI, Le Fonti e il Contenuto del Diritto Penale Internazionale, Milano, 1999, pp. 37-40; CASSESE, International Criminal Law, Oxford, 2008, pp. 36-38. 15 “Leaders, organizers, instigators and accomplices participating in the formulation or execution of a common plan or conspiracy to commit any of the foregoing crimes are responsible for all acts performed by any persons in execution of such plan” L’art. 6 rappresenta una prima rudimentale disciplina del concorso di persone nel diritto internazionale penale ed è quindi all’origine delle moderne teorie in materia. Più in generale, tutta la giurisprudenza di Norimberga è il punto di riferimento da cui prende le mosse la giustizia penale internazionale, con gli adattamenti, le evoluzioni ed i cambiamenti che vedremo. I principi ed il corpo di regole emersi da quel Tribunale, e dai processi successivi, infatti, possono essere ritrovati negli statuti e nella giurisprudenza dei tribunali penali internazionali contemporanei. Questo fatto non è casuale, anzi l’istituzione stessa del Tribunale aveva come precipuo scopo “to set a precedent capable of serving the ends of justice for future generations”. Ai nostri fini, la disposizione in esame assume poi un’importanza fondamentale poiché è su di essa che la giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia, e in seguito degli altri tribunali internazionali o internazionalizzati, ha fondato la moderna e più articolata teoria del common criminal plan o common criminal purpose (oggi comunemente definita Joint Criminal Enterprise). I meccanismi scelti a Norimberga per reprimere penalmente la criminalità collettiva e sistematica della Germania nazista sono, dunque, sostanzialmente due: la dichiarazione di criminalità di un’organizzazione e la teoria anglosassone della conspiracy (30). Peraltro, queste figure hanno elementi comuni: entrambe prevedono una pluralità di persone che di comune accordo operano, organizzandosi o coordinando i propri sforzi, al fine di attuare gli scopi che il gruppo stesso si è prefisso. Tale assimilazione è ancor (30) Cfr. POMORSKI, Conspiracy and Criminal Organizations, in The Nuremberg Trial and International Law, Dordrecht, 1990. Sulla conspiracy in particolare, cfr. anche MEIERHENRICH, Conspiracy in International Law, in Annual Review of Law and Social Science, vol. 2, 2006, pp. 341-357; FICHTELBERG, Conspiracy and International Criminal Justice, in Criminal Law Forum, vol. 17 , n. 2, 2006, pp. 149-176. Le critiche a questo meccanismo di attribuzione della responsabilità sono state molteplici, in generale si può dire che “si trattava di un titolo ascrittivo dai contorni indefiniti, privo di un contenuto della condotta realmente afferrabile, e preordinato a sanzionare amplissimi settori dell’apparato politico-militare”, cfr. MANACORDA, Imputazione collettiva e responsabilità personale, Torino, 2008, p. 240. In generale, si veda anche MEYROWITZ, La répression des crimes contre l’humanité par les tribunaux allemands en application de la loi n. 10 du Conseil de Contrôle Allié, Paris, 2003. 16 più evidente nelle parole stesse del Tribunale, che definisce l’organizzazione criminale come una “conspiracy in action” (31). Tra i due modelli brevemente descritti nel paragrafo precedente sembra dunque che a Norimberga si sia scelto di seguire quello unitario, nel quale una distinzione tra complici ed autori principali non sussiste. Ciò sembra confermato anche dall’articolo II (2) del Control council Law n.10 che, pur riconoscendo diverse condotte partecipatorie (elemento non presente ad esempio nel nostro articolo 110 c. p. che abbiamo visto essere paradigmatico del modello unitario), sembra tuttavia ricomprenderle in un’unica forma di autoria: “Any person […] is deemed to have committed a crime […], if he was (a) a principal or (b) was an accessory to the commission of any such crime or ordered or abetted the same or (c) took a consenting part therein or (d) was connected with plans or enterprises involving its commission or (e) was a member of any organization or group connected with the commission of any such crime or (f) with reference to paragraph 1 (a) if he held a high political, civil or military (including General Staff) position in Germany or in one of its Allies, co-belligerents or satellites or held high position in the financial, industrial or economic life of any such country.” La caratteristica “unitaria” del modello si deduce facilmente dal fatto che, come emerge dalle prime parole della disposizione, tutte le condotte previste sono considerate forme di “commissione” del fatto criminoso. In altre parole, anche chi “was an accessory” “is deemed to have committed a crime”. Non vi sono invece riferimenti a forme di responsabilità concorsuale c.d. anomala e nemmeno norme che disciplinano l’elemento soggettivo richiesto per le diverse forme di compartecipazione criminosa. D’altronde le disposizioni risultano come detto piuttosto generiche. Tuttavia, è opportuno sin da ora sottolineare che la giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia ha intravisto, in alcuni casi affrontati dal Tribunale di Norimberga, forme di responsabilità per il reato diverso rispetto a quello voluto da uno dei pretesi coautori o concordato in precedenza tra gli stessi. In particolare, si tratta dei noti casi Essen Lynching e Borkum Island che verrano in seguito analizzati (32). (31) Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, Nurnberg, 14 November 1945-1 October 1946,, p. 270. (32) Si veda infra, cap. II, par. 3. 17 4. L’opera di codificazione della Commissione di diritto internazionale La Commissione di diritto internazionale (CDI) ha proceduto a più riprese a diversi tentativi di codificazione dei crimini internazionali e dei principi posti a loro fondamento. Già nel 1947, l’Assemblea generale aveva incaricato la CDI di elaborare un progetto di codice dei crimini internazionali (33). Si trattava in sostanza di codificare i principi emersi dalla giurisprudenza del Tribunale di Norimberga o contenuti nel suo statuto. Tuttavia, dal momento che in seno alla stessa Assemblea non era stato ancora raggiunto un accordo sulla definizione del crimine di aggressione, i primi due progetti, del 1951 e 1954, non vennero mai esaminati (34). Questi progetti seguirono alla adozione, da parte della CDI, dei Seven Nürnberg Principles of International Law, nei quali si riepilogavano e consolidavano i principi contenuti nella Carta di Londra prevedendo, in particolare, due precisazioni in materia di responsabilità individuale e compartecipazione criminosa: in primo luogo, che non rispondesse per l’esecuzione dell’ordine del superiore il sottoposto che non avesse alcuna possibilità di compiere una “moral choise” (Principio IV) e, in secondo luogo, il riconoscimento espresso della complicità come crimine internazionale (Principio VII) (35). Risulta chiaro quindi come gli sviluppi della “parte generale” siano piuttosto esigui. Al riguardo, anche il progetto di codice del 1954 “merely complemented the special offense, rather than providing any sort of ‘general part’”(36). L’esperienza di Norimberga e le questioni di non poco conto sollevate in merito al rispetto del principio di legalità fecero emergere in maniera lampante l’esigenza di redigere un codice dei crimini internazionali. Prevedere una chiara, precisa e determinata disciplina e descrizione degli elementi costitutivi dei crimini internazionali esistenti e dei principi di ‘parte generale’ (33) Risoluzione 177-II del 21 novembre 1947. (34) Il fatto che venga rimandato l’esame del progetto proprio per la mancanza di un accordo sulla definizione del crimine di aggressione, problema peraltro che resta irrisolto pure in seno alla Corte penale internazionale, mette in luce ancora una volta quanto detto nell’introduzione sulla stretta relazione esistente tra crimini internazionali e responsabilità degli Stati. (35) Commissione di diritto internazionale, Principles of International law recognized in the Charter of Nuremberg Tribunal and in the Judgement of the Tribunal, in Yearbook of the International Law Commission, 1950, vol.22. (36) Cfr. ESER, Individual Criminal Responsibility, in CASSESE, GAETA, JONES, (ed.), The Rome Statute of the International Criminal Court: A Commentary, Vol. I, Oxford, 2002, p.775. 18 in uno strumento convenzionale ed a carattere vincolante per gli Stati avrebbe garantito una maggior garanzia del principio nullum crimen sine lege (37). Contemporaneamente prendeva forma l’idea di prevedere un organo giurisdizionale permanente per l’applicazione di quel codice. Tuttavia, come detto, questi progetti non verranno nemmeno esaminati in seno all’Assemblea. Nel marzo del 1950, parallelamente al tentativo di codificazione dei crimini e sempre nell’ottica della creazione di un sistema penale internazionale permanente, venne quindi presentato, sempre da parte della CDI (ma da un diverso special rapporteur, Ricardo Alfaro), un primo progetto di statuto di una corte penale internazionale. Questo compito venne poi affidato ad un altro organo, uno special commettee, che presentò il proprio rapporto nel 1951, poi rivisto nel 1953 (38). Anche questo progetto venne in qualche modo accantonato dall’Assemblea generale. La ragione è sempre la mancanza di un accordo sulla definizione di aggressione. Aspetto quest’ultimo non sorprendente dal momento che il compito di definire l’aggressione era stato affidato a due organi distinti e separati che producevano testi diversi in momenti diversi. In breve, questa prima fase di codificazione del diritto internazionale penale, che aveva il chiaro intento di istituire una corte penale internazionale, si caratterizza per la sua frammentarietà che non sembra tuttavia casuale, ma piuttosto dovuta ad una mancanza di volontà politica (39). D’altronde, il contesto storico di aspra contrapposizione e conflittualità caratteristico del periodo della guerra fredda non poteva certamente essere fecondo per la codificazione di norme condivise sui crimini internazionali; nemmeno poteva favorire la creazione di un tribunale penale internazionale a (37) TANZI, Sul progetto ONU di codice dei crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità e sull’istituzione di un tribunale penale internazionale, in Critica Penale, 1993, pp. 6-7. (38) Report of the Committee on International Criminal Jurisdiction, UNGAOR, 7th Sess., Supp. No.12 at 21, UN Doc. A/26645 (1954). (39) Cfr. CASSESE, From Nuremberg to Rome: International Military Tribunals to the International Criminal Court, CASSESE., GAETA, JONES, (ed.), The Rome Statute of the International Criminal Court: A Commentary, op. cit., pp. 9-10. Per una dettagliata ricostruzione dei lavori paralleli per la codificazione dello Statuto di un tribunale penale internazionale e di un progetto di codice per i crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità, cfr. BASSIOUNI, A Draft International Criminal Code and Draft Statute for an International Criminal Tribunal, Dodrecht-Boston-Lancaster, 1987, pp.1-11. Una delle motivazioni politiche addotte riguarda proprio la ratio dell’opera di codificazione delle condotte criminose, ovvero, come detto, il rispetto del principio nulla poena sine lege. Si è sostenuto, infatti, che riconoscere negli anni immediatamente successivi al processo di Norimberga, la necessità di codificare le fattispecie tipiche di crimini internazionali, sarebbe stato un implicito riconoscimento dell’illegittimità del processo stesso. 19 carattere permanente e competente a giudicare i principali responsabili delle atrocità commesse in tempo di guerra. Un passo importante è stato invece compiuto dalla Commissione quasi quarant’anni più tardi con i due nuovi progetti del 1991 e del 1996. In particolare, per ciò che concerne il nostro specifico ambito, nel Progetto del 1991 appare la prima distinzione tra la commissione di un crimine internazionale ed altre forme di partecipazione (articolo 3, paragrafi 1 e 2). In questo documento non vengono però specificate le diverse forme di commissione, né stabilito se le forme di complicità debbano essere considerate come responsabilità accessorie in quanto dipendenti dalla responsabilità primaria del perpetrator o possano essere considerate fattispecie autonome che non richiedono l’effettiva commissione del crimine (40). Sulla questione, invece, della autonomia delle fattispecie rientranti nel concetto di complicità, il codice del 1996 stabilisce chiaramente che le forme di responsabilità accessoria sono punibili solo se il crimine è effettivamente commesso o, aspetto non secondario, almeno tentato (41). Nel commento al Progetto, infatti, si afferma in modo chiaro che “participation only entails responsibility when the crime is actually committed or at least attempted” (42). La previsione di tale principio ha l’effetto di escludere la rilevanza penale, dunque la punibilità, dell’istituto del tentativo di concorso. A differenza del Progetto del 1991, il nuovo sforzo di codificazione operato dalla CDI contiene una disciplina piuttosto dettagliata delle condotte di compartecipazione criminosa. È evidente l’esigenza di superare le lacune di “parte generale” che, come vedremo tra poco, nemmeno gli statuti dei tribunali ad hoc erano stati in grado di colmare. Dopo aver riaffermato all’articolo 2, paragrafo 3, lett. a), il principio della responsabilità individuale di chi intenzionalmente commette uno dei crimini previsti dal progetto, le lettere da (40) A parte questa critica, vi è in generale un consenso da parte degli Stati sui “Principi generali” del Progetto, che tuttavia rimangono piuttosto scarni. Vi si riconosce oltre alla responsabilità individuale, la irretroattività del codice, il ne bis in idem, la non applicazione dell’esimente dell’ordine del superiore. La maggior opposizione al codice, invece, concerne proprio i crimini e la natura del loro contenuto. La repressione di questi, infatti, era troppo intimamente connessa alla responsabilità degli Stati rendendo in tal modo ostili all’adozione del codice diversi rappresentanti dei governi. ESER, The Need for a General Part, in BASSIOUNI (ed.), Commentaries on the International Law Commission’s 1991 Draft Code of Crimes Against the Peace and Security of Mankind, 1993, p. 43. (41) Cfr. ESER, Individual Criminal Responsibility, op. cit., pp. 785-786. (42) ILC, Draft Code of Crimes against the Peace and Security of Mankind with commentaries, 1996, p.21. 20 b) a f) prevedono diverse forme di complicità (43). Le prime due, b) e c), riguardano forme di responsabilità del superiore: l’ordine e la c.d. command responsibility, poi ripresa all’articolo 6. La lettera d) è forse la forma di complicità più rilevante poiché prevede tutte le altre forme di compartecipazione criminosa che possono essere fatte rientrare nella categoria dell’ “aiding and abetting”. Il commento al Progetto di codice specifica poi il grado di contributo richiesto: per assistenza che faciliti “directly and substantially” la commissione del crimine deve intendersi “in some significant way” (44). Infine, le lettere e) ed f), prevedono forme concorsuali quali la pianificazione e la cospirazione oltre alla compartecipazione morale ricompresa nella fattispecie dell’istigazione. Sebbene il Progetto sia rimasto tale non si può negare l’importanza da questo assunta come sforzo di codificazione delle condotte tipiche del concorso nel reato nel diritto internazionale penale. Ciò è confermato dal fatto che questo costituisce, insieme al suo commentario, costante oggetto di riferimenti da parte della giurisprudenza. Inoltre, come vedremo, lo stesso art. 25 della Corte penale internazionale ricalca in maniera evidente la linea tracciata dall’art. 2 del Progetto del 1996. È opportuno sottolineare che la prima proposta di disciplinare una vera e propria “parte generale”, intitolata “General Principles of Criminal Law”, la si deve a quel diverso organo (comitato speciale) incaricato di redigere lo (43) Così recita l’articolo 2 del Progetto: Individual responsibility 1. A crime against the peace and security of mankind entails individual responsibility. 2. An individual shall be responsible for the crime of aggression in accordance with article 16. 3. An individual shall be responsible for a crime set out in article 17, 18, 19 or 20 if that individual: (a) Intentionally commits such a crime; (b) Orders the commission of such a crime which in fact occurs or is attempted; (c) Fails to prevent or repress the commission of such a crime in the circumstances set out in article 6; (d) Knowingly aids, abets or otherwise assists, directly and substantially, in the commission of such a crime, including providing the means for its commission; (e) Directly participates in planning or conspiring to commit such a crime which in fact occurs; (f) Directly and publicly incites another individual to commit such a crime which in fact occurs; (g) Attempts to commit such a crime by taking action commencing the execution of a crime which does not in fact occur because of circumstances independent of his intentions. (44) ILC, Draft Code of Crimes against the Peace and Security of Mankind with commentaries, 1996, p. 21. 21 statuto della Corte penale internazionale, nel suo rapporto del 1995 (45). In dottrina si è osservato che questa innovativa impostazione ha segnato l’arrivo dei penalisti in seno al comitato che fino a quel momento era composto esclusivamente da internazionalisti (46). Oltre all’articolata disposizione sulla responsabilità individuale (art. 25) che analizzeremo a più riprese in questa indagine, risultato della nuova impostazione è anche quello di prevedere una norma generale sulla mens rea, l’elemento soggettivo, tra i principi generali (che diventerà l’art. 30 dello Statuto della Corte) (47). 5. La Joint Criminal Enterprise A seguito dei tremendi conflitti esplosi nei territori della ex Iugoslavia e del Ruanda, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, agendo in forza del capitolo VII della Carta ONU, istituì, attraverso due risoluzioni, il Tribunale per la ex Iugoslavia (1993) ed il Tribunale per il Ruanda (1994) (48). Nonostante alcune critiche sollevate nei confronti della creazione di queste due distinte giurisdizioni internazionali, è indubbio che con i tribunali ad hoc si è aperta una nuova epoca per il diritto internazionale penale che approderà al Trattato di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale (CPI). Ai fini della presente indagine, è interessante prima di tutto notare che la competenza dei tribunali ad hoc non è limitata ai gradi più alti delle gerarchie militari e politiche, ma anche ai subordinati di qualsiasi livello in qualche modo coinvolti nei crimini perpetrati. Tuttavia, è anche opportuno precisare che, con il trascorrere degli anni, nella pratica i tribunali hanno rivolto la loro attenzione principalmente agli individui ai vertici dei sistemi criminali (49). Nello specifico, le disposizioni sulla responsabilità individuale contenute negli Statuti dei Tribunali per la ex Iugoslavia ed il Ruanda, così (45) Report of the Ad Hoc Committee on the Establishment of an International Criminal Court’, GAOR, Fiftieth Session, Supplement No. 22 (A/50/22). (46) SCHABAS, General Principles of Criminal Law in the ICC Statute, in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, vol.6, n.4, 2006, pp. 409 e ss.. (47) Si veda qualche osservazione sul punto in PIRAGOFF, ROBINSON, Article 30, in TRIFFTERER, Commentary on the Rome Statute of the International Criminal Court, 2 ed., Munchen, 2008, pp. 849-850. (48) S/RES/827 (1993); S/RES/955 (1994). (49) Cfr. METTRAUX, International Crimes and the Ad Hoc Tribunals, Oxford, 2008, p.274. 22 come l’art. 6 dello Statuto di Norimberga, vengono generalmente considerate corrispondenti a modelli unitari. Gli art. 7.1 e 6.1 dei due Statuti, rispettivamente del Tribunale per la ex Iugoslavia e del Ruanda, prevedono infatti che: “A person who planned, instigated, ordered, committed or otherwise aided and abetted in the planning, preparation or execution of a crime referred to in articles 2 to 5 of the present Statute, shall be individually responsible for the crime” Siamo di fronte ad una di quelle norme che, abbiamo visto, possono essere definite “clausole generali” poiché pongono sullo stesso piano autori e complici e ricomprendono, nel proprio ambito di applicazione, una serie di condotte partecipatorie atipiche collegate da un nesso causale con il fatto illecito. Una differenziazione è stata però in seguito compiuta. La giurisprudenza dei tribunali ad hoc, infatti, ha utilizzato il concetto di common criminal purpose o common plan per operare una distinzione tra autoria e forme di complicità o responsabilità secondaria. Si è ampliato il significato del termine “committed” per farvi rientrare alcune forme di violenza collettiva o di gruppo e si sono invece inquadrate nella figura dell’ “aiding and abetting” tutte quelle forme di responsabilità accessoria per le quali non si possa parlare di responsabilità primaria. Anche le altre tipiche condotte concorsuali, l’ordine, l’istigazione e la pianificazione del crimine, sono considerate forme di responsabilità accessoria. In presenza di determinate condizioni si è deciso quindi di considerare ogni membro appartenente ad un gruppo organizzato direttamente responsabile per i crimini commessi dal gruppo stesso e ricompresi in un piano comune e condiviso. In sostanza, non si richiede che colui che è parte di un gruppo criminale e ne condivida gli scopi abbia commesso fisicamente l’atto criminoso tipico. Potrà essere ritenuto autore del fatto criminoso e quindi rispondere di una responsabilità primaria per aver contribuito alla realizzazione del piano e aderito all’intento criminale del gruppo. Inoltre, in presenza di una serie di ulteriori condizioni che tra poco vedremo, un individuo può essere ritenuto responsabile di un evento non previsto originariamente nel piano comune ma che tuttavia rappresenta una naturale e prevedibile conseguenza di quel 23 progetto. Si tratta, in altre parole, di una forma di c.d. concorso anomalo. Questi sono i concetti fondanti la teoria della Joint Criminal Enterprise (50). È nella sentenza di appello del caso Tadić che la Joint Criminal Enterprise viene riconosciuta quale norma consuetudinaria “firmly established in customary International law” e viene delineata e descritta nei suoi elementi costitutivi (51). Peraltro in tale sentenza l’espressione JCE viene indifferentemente alternata a quelle di “common purpose” e “criminal enterprise”. Per identificare l’esatto contenuto di tale nozione è indispensabile riassumere brevemente i fatti che sono alla base dei casi analizzati. Duško Tadić, ufficiale di basso rango dell’esercito serbo-bosniaco, venne arrestato in Germania e tradotto davanti al Tribunale per rispondere di 31 capi di imputazione implicanti la commissione di gravi violazioni della Convenzione di Ginevra, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. I fatti rilevanti ai nostri fini riguardano unicamente quanto avvenuto nel villaggio di Jaskići, ove a seguito di un’operazione volta al trasferimento forzato di tutti gli uomini in età adulta, cinque di questi vennero trovati uccisi. Nonostante si riconoscesse la presenza dell’imputato nell’operazione e la sua partecipazione come membro del gruppo, nella pronuncia di primo grado non viene trovato alcun elemento probatorio al fine di stabilire che Tadić “had any part in the killing of the five men or any of them”. Si aggiunge, inoltre, che “it is accordingly a distinct possibility that it may have been the act of a quite distinct group of armed men” o, in alternativa, “the unauthorized and unforeseen act” (52) dello stesso gruppo cui apparteneva l’imputato, ma per il quale non potrebbe essere ritenuto direttamente responsabile. Davanti alla camera d’appello, tuttavia, tale posizione viene ribaltata. Si ritiene, infatti, che sulla base dello scopo e dell’oggetto del trattato, la giurisdizione del tribunale si dovesse estendere “to (50) È però interessante notare sin da ora che altri tribunali internazionali a carattere ibrido o misto hanno disciplinato la responsabilità individuale negli stessi termini degli Statuti dei Tribunali della ex Iugoslavia ed il Ruanda, e di conseguenza, seguito anche l’interpretazione che questi hanno dato della norma ed applicato dunque il concetto di Joint Criminal Enterprise. (51) ICTY, Prosecutor v. Tadić, IT-94-1, Appeals Chamber, Judgement, 15 luglio 1999, par. 220 e ss. Come si vedrà più diffusamente in seguito la JCE ha riscosso un enorme successo nella giurisorudenza penale internazionale e ha avuto un ruolo fondamentale nell’attività dei prosecutors, si veda PIACENTE, Importance of the Joint Criminal Enterprise Doctrine for the ICTY Prosecutorial Policy, in Journal of Int. Criminal Justice, vol. 2, n. 2, 2004. (52) Ibidem, par.187 24 all those responsible for serious violations of international humanitarian law”, e che lo Statuto non escludesse “ those modes of participating in the commission of crimes which occur where several persons having a common purpose embark on criminal activity that is then carried out either jointly or by some members of this plurality of persons” (53). Ciò nonostante tale forma di attribuzione della responsabilità non sia espressamente prevista dalla lettera dell’art. 7 (1) dello Statuto (54). Tra le diverse condotte previste da tale ultima disposizione, la camera si riferisce espressamente a quella di commissione del crimine. Si osserva, inoltre, come tale figura dovesse essere accolta in ragione della natura stessa dei crimini internazionali che“most of the time […] do not result from the criminal propensity of single individuals but constitute manifestations of collective criminality” (55). Nel prosieguo della sentenza la camera esplicita la propria nozione di common purpose liability, distinguendo quelle che sono ormai note come le tre forme di Joint Criminal Enterprise. Si sostiene, infatti, che attraverso un’attenta analisi della giurisprudenza successiva alla seconda guerra mondiale “the notion of common purpose encompasses three distinct categories of collective criminality” (56). Tali categorie hanno un elemento materiale, il c.d. actus reus, comune e suddiviso in tre distinti aspetti: una pluralità di persone (non necessariamente organizzate in una struttura militare, politica o amministrativa), l’esistenza di un piano comune che implichi la commissione di uno dei crimini previsti dallo Statuto, ed infine, la partecipazione dell’imputato al piano comune (questa, almeno nelle prime pronunce del tribunale, poteva esprimersi in una qualsiasi forma di partecipazione o contributo all’attuazione del progetto criminoso). Assume invece forme diverse l’elemento della mens rea. Nella prima categoria (JCE I) è richiesto un intento condiviso da tutti i membri di (53) Ibidem, par. 190. (54) Per comodità riportiamo ancora l’articolo 7 (1) dello Statuto del tribunale penale internazionale per la ex Iugoslavia che così dispone: “A person who planned, instigated, ordered, committed or otherwise aided and abetted in the planning, preparation or execution of a crime referred to in articles 2 to 5 of the present Statute, shall be individually responsible for the crime.” (55) Prosecutor v. Tadic, IT-94-1, cit., par. 191. (56) Ibidem, par.195. 25 commettere un certo crimine. La seconda (JCE II) viene solitamente definita “systemic form” e si riferisce al caso paradigmatico dei campi di concentramento; in questa ipotesi, l’accusato deve essere a conoscenza del sistema di maltrattamenti oltreché avere l’intento di favorirne la continuazione. La terza tipologia (JCE III) concerne crimini non previsti dal progetto comune. Essa richiede comunque l’intenzione di partecipare e perseguire l’attività criminale del gruppo o in ogni caso di contribuire alla materiale esecuzione di uno dei crimini. In quest’ultima forma di attribuzione della responsabilità, decisamente la più controversa, l’elemento psicologico è dato dalla prevedibilità che un membro del gruppo commetta il crimine in oggetto e, da parte dell’imputato, la consapevole assunzione del rischio che ciò accada (57). Come risulta evidente, la terza categoria di JCE richiede una mens rea piuttosto attenuata rispetto alle prime due. Si ritiene, normalmente, che tale elemento soggettivo corrisponda ad una forma di dolus eventualis. Una parte della dottrina, tuttavia, sostiene che siamo di fronte ad uno standard inferiore al dolo eventuale, cui appunto generalmente ci si riferisce per questa terza forma. In quest’ultimo, infatti, si prevede la consapevole accettazione del risultato ultimo dell’azione, non del semplice rischio (58). È proprio quest’ultima forma ad esser stata applicata nel caso Tadić nonché a costituire oggetto principale della presente indagine. Nel caso di specie, vi è in primo luogo la conferma che il piano criminoso, che prevedeva la rimozione forzata e su base etnica della popolazione locale dalle proprie abitazioni, non presumesse la commissione di alcun omicidio. A caratterizzare tale criterio di imputazione è il fatto che lo scopo comune fosse intenzionalmente raggiunto attraverso il compimento di altri atti inumani (vi era prova che lo stesso imputato avesse percosso diverse persone durante tale operazione). Ciò indicava che le uccisioni erano una prevedibile conseguenza della condotta dell’imputato e che questi avesse consapevolmente assunto il rischio della verificazione dell’evento. È interessante notare che, in un successivo caso in cui la terza forma ha trovato applicazione, l’utilizzo del (57) Ibidem, par. 227. (58) Sul punto si tornerà nel capitolo terzo. Cfr., in generale, SASSOLI, OLSON, The Judgement of the ICTY Appeals Chamber on the Merits in Tadić Case, in International Review of the Red Cross, n. 839, 2000, pp. 733-769; cfr. anche BOOT, Genocide, Crimes Against Humanity, War Crimes: Nullum Crimen Sine Lege and the Subject Matter Jurisdiction of the International Criminal Court, Antwerpen-Oxford-New York, 2002 pp. 292-293. Per una ricostruzione generale delle forme di partecipazione criminosa, si veda in italiano AMATI, CACCAMO, COSTI, FRONZA, VALLINI, Introduzione al diritto penale internazionale, Milano, 2006. 26 termine common purpose (di norma interscambiabile con quello di JCE) è stato volutamente evitato dai giudici del tribunale in quanto in questo caso il fatto criminoso trascende, a differenza di quanto accade nelle prime due forme, il piano comune (59). Nonostante sia la terza forma di JCE a costituire l’oggetto della nostra indagine, ci sembra opportuno ora descrivere in generale la teoria del “common purpose” per come intesa dai tribunali penali internazionali al fine di chiarirne l’impianto normativo e concettuale. La prima forma può essere tracciata attraverso il procedimento a carico di Milomir Stakić, fisico e uomo politico serbo, vice-presidente dell’assemblea municipale della città e provincia di Prijedor. Stakić assunse un ruolo centrale nella presa della città da parte delle forze serbe, al fine di sostituire i legittimi rappresentanti (cui fu impedito di entrare nei rispettivi uffici) con personalità fedeli al Serbian Democratic Party. Tale occupazione avvenne rapidamente e senza vittime nella notte tra il 29 ed il 30 aprile del 1992. Nel periodo successivo a questa data Stakić rivestì diversi ed importanti ruoli all’interno della regione, in particolare fu Presidente dell’Assemblea del popolo serbo della Municipalità di Prijedor, Presidente del Consiglio della difesa nazionale dei popoli della Municipalità di Prijedor e Presidente dell’unità di crisi della Municipalità di Prijedor. Le condizioni della popolazione non-serba deteriorano notevolmente. Oltre alla significativa presenza militare della polizia serba, molti civili vennero rimossi dai propri impieghi e vennero infine allestiti i tristemente noti campi di concentramento di Omarska, Keraterm e Trnopolje. La Camera d’appello, riprendendo le parole della Camera di primo grado, dimostra gli elementi materiali della condotta dell’imputato nel sostenere il piano criminoso, notando come Milomir Stakić “played a crucial role in the coordinated co-operation with the police and army in furtherance of the plan to establish a Serbian municipality in Prijedor” e che inoltre, l’imputato fosse “one of the main actors in the persecutorial campaign”, (59) Prosecutor v. Brđanin and Talić, Decision on Form of Further Aemended Indictment and Prosecution Application to Amend, Trial Chamber, 26 June 2001, par. 29. Cfr. VAN SLIEDREGT, The Criminal Responsibility of individuals for violations of International humanitarian law, The Hague, 2003, p.100. Secondo l’A., nella terza forma di JCE, definita anche come “collateral liability”, l’elemento psicologico differirebbe rispetto alle prime due forme in quanto non identico per tutti i co-autori ma risultante dal naturale e prevedibile atto, non previsto dal piano, di uno degli stessi. 27 “actively participated in setting up and running [the camps],” e “took an active role in the organisation of the massive displacement of the non-Serb population out of Prijedor municipality” (60). La mens rea, che riconduce il tipo di responsabilità penale dell’imputato ad una prima forma di JCE, veniva invece addotta ripetendo e confermando quanto contenuto nell’atto di accusa (indictment) e cioè che: “The accused Milomir STAKIC, and the other members of the joint criminal enterprise, each shared the state of mind required for the commission of each of these offences, more particularly, each, was aware that his or her conduct occurred in the context of an armed conflict and was part of a widespread or systematic attack directed against a civilian population” (61). E ancora riprendendo la Camera di prima istanza, “the Crisis Staff, presided over by Dr. Stakic, was responsible for establishing the Omarska, Keraterm and Trnopolje camps, and, as discussed before, that there was a coordinated cooperation between the Crisis Staff, later the War Presidency, and members of the police and the army in operating these camps” (62). Si conclude, quindi, che: “Trial Chamber’s factual findings demonstrate that the crimes of persecution, deportation, and forcible transfer were in fact committed in accordance with the Common Purpose of this joint criminal enterprise, and that the Appellant shared the intent to further this Common Purpose, and had the intent to commit the underlying crimes” (63). In merito invece alla seconda categoria di JCE, caso esemplificativo può essere quello che vede come imputato Milorad Krnojelać che, dall’aprile del 1992 all’agosto del 1993, ha svolto un ruolo di comando all’interno del campo di detenzione Foča Kazneno-Popravni Dom in Bosnia-Erzegovina. Nel (60) ICTY, Prosecutor v. Stakić, IT-97-24, Appeals Chamber, Judgement, 22 March 2006, par. 75 (61) Ibidem., par 79. (62) Ibidem., par. 81. (63) Ibidem., par. 84. 28 primo grado di giudizio viene accertata la responsabilità dell’imputato per aver assistito e incoraggiato la commissione di crimini contro l’umanità (“aiding and abetting”, art. 7(1) dello Statuto) e come superiore per non averne impedito o punito la commissione da parte di suoi sottoposti (“command responsiblity”, art. 7(3)). In appello veniva poi ribaltata la posizione assunta dai giudici di primo grado, ritenendo che la corretta applicazione della seconda forma di JCE, così come disciplinata nella sentenza Tadić, porterebbe a considerare l’imputato responsabile come coautore piuttosto che complice dei crimini. Secondo la camera non sarebbe infatti richiesto uno specifico accordo tra i partecipanti alla commissione dei crimini, ma la semplice consapevolezza da parte dell’imputato dell’esistenza del sistema di maltrattamenti e l’intenzione di favorirne la continuazione (64). È interessante riportare il ragionamento attraverso il quale la camera ravvisava l’emergere dell’elemento psicologico nel caso di specie: “The system worked because the camp staff and the military personnel who were involved in committing the crimes or who assisted the perpetrators were aware that the KP Dom facility had stopped operating as an ordinary prison when the Serb authorities arbitrarily incarcerated non-Serb civilians there following the fall of the town of Foĉa. From that point on, in the minds of the participants, the KP Dom had become a system for subjecting the mainly Muslim, non-Serb civilian detainees to inhumane living conditions and ill-treatment in breach of their fundamental rights on discriminatory grounds related to their origin”(65). Si individua, inoltre, un metodo per definire i limiti e l’ampiezza di un sistema di maltrattamenti ovvero si determina quali crimini debbano considerarsi parte dello stesso. Con le seguenti parole la camera sostiene, infatti, che “the most appropriate approach in this case would have been to limit the definition of the common purpose within the KP Dom “system” to the commission of those crimes which, given the context and evidence adduced, could be considered as common to all the offenders beyond all reasonable doubt”(66). (64) Prosecutor v. Krnojelać, IT-97-25, Appeals Chamber, Judgement, 17 Settembre 2003, parr. 97, 112. (65) Ibidem, par. 118. (66) Ibidem, par. 120. 29 Mentre nella seconda forma di JCE, l’ampiezza dello scopo criminale è di più facile delimitazione, coincidendo con il campo di concentramento stesso, nella prima e nella terza categoria risulta molto più complesso definirne i limiti (67). In un’altra nota applicazione della seconda categoria, si sottolinea il fatto che l’imputato dovesse rivestire “a certain position of authority in the camp” e, proprio per questo ruolo, non essere un soggetto facilmente sostituibile all’interno del sistema (68). Nello stesso caso si ribadisce che nella JCE II la dimostrazione dell’esistenza di“a more or less formal agreement between all participants is insignificant” (69). In tali circostanze, il funzionamento stesso del sistema è evidentemente il risultato di un intento condiviso. Si può concludere notando che il contributo psicologico del soggetto, assimilabile secondo il tribunale e gran parte della dottrina a quello della prima forma, sia sostanzialmente ricavato da elementi oggettivi: l’esistenza ed il funzionamento del campo e la posizione che l’imputato rivestiva all’interno dello stesso (70). Più in generale, sono necessarie alcune precisazioni in merito alle componenti costitutive dell’elemento materiale della JCE. Si è già sottolineato come la pluralità di persone appartenente al gruppo criminale non debba necessariamente essere organizzata in una struttura politica, militare o amministrativa; a ciò si deve aggiungere che la pubblica accusa non ha l’onere di produrre una lista dei partecipanti, ma può riferirsi in modo generico ad una categoria o un gruppo, qualora non sia possibile indicare i nominativi di tutti i componenti (71). Inoltre, non è richiesto che colui che direttamente commette il crimine sia parte della JCE, ma è sufficiente che il crimine sia imputabile anche ad un altro membro del gruppo che abbia agito in attuazione del piano comune attraverso il soggetto materialmente responsabile (72). (67) DANNER, MARTINEZ, Guilty Associations: Joint Criminal Enterprise, Command Responsibility, and the Development of International Criminal Law, in California Law Review, n.93, 2005, p.135. (68) ICTY, Prosecutor v. Kvoćka, IT-98-30/1, Appeals Chamber, Judgement, 28 febbraio 2005, parr. 137, 174, 248. (69) Ibidem, par. 209. (70) Cfr. HANN, The Develpoment, cit., p. 189. (71) ICTY, Prosecutor v. Blaskić, IT-95-14, Appeals Chamber, Judgement, 29 luglio 2004, par. 217. (72) ICTY, Prosecutor v. Brđanin, IT-99-36, Appeals Chamber, Judgement, 3 aprile 2007, par. 413. 30 Per quanto riguarda il progetto criminoso, abbiamo già visto nella sentenza Tadić come questo debba implicare la commissione di uno dei crimini previsto dallo Statuto ed essere dunque intrinsecamente criminale. La giurisprudenza successiva fornisce qualche indicazione ulteriore in relazione all’atteggiamento mentale del partecipante rispetto al piano comune: il soggetto, infatti, deve condividere gli scopi del piano e non solo esserne a conoscenza (73). Un altro aspetto rilevante riguarda la forma dell’accordo. La Trial Chamber nel caso Brđanin ha ritenuto necessaria la presenza di un “express agreement” tra il partecipante della JCE e chi compie materialmente il crimine (74). Riferendosi ancora una volta alla giurisprudenza successiva alla seconda guerra mondiale (75), i giudici del tribunale osservano in appello come non sia necessario un accordo esplicito tra il partecipante alla JCE e il non-partecipante che fisicamente ha compiuto l’atto criminale, ma sia piuttosto sufficiente un implicito comune intento rilevabile anche da comportamenti concludenti (76). Altro punto controverso concerne l’entità del contributo materiale del partecipe all’impresa criminale comune. Anche questo aspetto costituisce un rilevante elemento di distinguo rispetto alla figura dell’aiding and abetting. Per ora ci limitiamo ad osservare che tale apporto non deve avere una rilevanza tale per cui senza di esso il crimine non si sarebbe verificato (conditio sine qua non) né implicare la commissione di una parte costituente l’actus reus (77). Nell’originaria formulazione della sentenza Tadić si parla di un contributo alla commissione del crimine estremamente generico. Ci si riferisce, infatti ad“acts that in some way are directed to the furthering of the common plan or purpose” (78). Nella sentenza Kvoćka si è esclusa la più stringente soglia del (73) ICTY, Prosecutor v. Milutinović et al., IT-99-37-AR72, Decision on Dragoljub Ojdanić’s Motion Challenging Jurisdiction – Joint Criminal Enterprise, Appeals Chamber, 21 maggio 2003. Come vedremo, questo aspetto è rilevante per la distinzione della JCE rispetto alla figura dell’aiding and abetting. (74) ICTY, Prosecutor v. Brđanin, IT-99-36, TJ, 1 Settembre 2004, par. 262. Per una critica della sentenza, cfr. GUSTAFSON, The Requirement of an “Express Agreement” for Joint Criminal Enterprise Liability, in Journal of International Criminal Justice, vol.5, n.1, 2007, pp.134-158. (75) Altstötter and others, US Military Tribunal sitting at Nuremberg, 4 dicembre 1947, in Trials of War Criminals before the Nürnberg Military Tribunals under Control Conucil Law no. 10, vol. 3, pp. 954-1201 e Greifelt and others, US Military Tribunal sitting at Nuremberg, 10 marzo 1948, in Trials of War Criminals before the Nürnberg Military Tribunals under Control Conucil Law no. 10, vol. 5, pp. 88-169. (76) ICTY, Prosecutor v. Brđanin, cit., 3 April 2007, parr. 415-419. (77) ICTY, Prosecutor v. Kvoćka and others, cit., 28 February 2005, parr. 98-99. (78) ICTY, Prosecutor v. Tadić, cit., 15 July 1999, par. 192. 31 “substantial contribution” (79). Nel caso Brđanin, infine, si è statuito che il contributo alla Joint Criminal Enteprise deve essere almeno “significant”, ribadendo chiaramente che questo non dovesse essere né sostanziale né tanto meno necessario (80). Il fatto che una forma di responsabilità primaria, pur caratterizzata da un elemento soggettivo particolarmente intenso, preveda una componente materiale più attenuata rispetto alla figura dell’ “aiding and abetting” (responsabilità invece secondaria o accessoria), è un altro aspetto controverso della giurisprudenza in esame e che è stato oggetto di diverse critiche da parte della dottrina. 6. L’impiego della Joint Criminal Enterprise da parte del Tribunale penale internazionale per il Ruanda Il rapporto del Segretario Generale sull’istituzione del Tribunale per il Ruanda non contiene alcun riferimento sul ruolo che avrebbero dovuto avere le organizzazioni criminali ai fini della persecuzione dei crimini commessi (81). Al contrario, nel documento corrispondente relativo al Tribunale per la ex Iugoslavia, si afferma chiaramente che nessun giudizio si sarebbe espresso sulla criminosità di un’organizzazione in quanto tale e che quindi nessuna forma di responsabilità individuale avrebbe potuto sorgere come conseguenza immediata della appartenenza ad un gruppo o associazione (82). In Ruanda, la questione viene quindi affrontata in sede giudiziale. Nei casi rilevanti si ribadisce che imputazioni e responsabilità penali concernono i singoli individui. Nonostante ciò vengono però considerati inevitabili alcuni riferimenti espliciti alle organizzazioni militari o politiche, cui tali individui appartenevano ed all’interno delle quali operavano (83). (79) ICTY, Prosecutor v. Kvoćka and others, IT-98-30/1, AJ, 28 February 2005, par. 97. (80) ICTY, Prosecutor v. Brđanin, cit., 3 April 2007, par. 430. Al contrario, in dottrina è stato sostenuto che il contributo debba necessariamente essere “substantial”. Cfr. CASSESE, International Criminal Law, op. cit., p. 199. (81) UN Doc. S/1994/879 e S/1994/906. (82) UN Doc. S/25704, 3 May 1993, par. 51. (83) ICTR, Prosecutor v. Nsengiyumva, 96-12-I, Decision on the Defence Motion Objecting to the Jurisdiction of the Trial Chamber on the Amended Indictment, 13 aprile 2000, parr. 16-18, 35-36; ICTR, Prosecutor v. Kabiligi and Ntabakuze, 96-34-I, Trial Chamber III, Decision on the Defence Motions Objecting to a Lack of Jurisdiction and Seeking to Declare the Indictment Avoid ab initio, 13 April 2000, parr. 11. 32 Tuttavia, l’impostazione di fondo del Tribunale per il Ruanda per quel che concerne forme concorsuali di responsabilità penale legate alla partecipazione ad un gruppo o progetto criminale sembra inizialmente essere più cauta di quella dei giudici del Tribunale per la ex Iugoslavia. Al riguardo, possiamo osservare che nel caso Rutaganda la relazione tra l’alta posizione gerarchica dell’imputato all’interno dell’organizzazione (Interahamve) ed il fatto che quest’ultima fosse attivamente impegnata nel conflitto armato non viene considerata come prova sufficiente per stabilire la responsabilità personale del soggetto (84). In un primo momento, dunque, il tribunale appare diffidente nei confronti di forme di attribuzione della responsabilità fondate sulla partecipazione ad un gruppo criminale, relativamente a crimini commessi da altri membri del gruppo ma di cui l’imputato fosse a conoscenza. Il primo riconoscimento della possibilità di utilizzare la teoria della Joint Criminal Enterprise avviene solo nel 2004, nel caso Rwamakuba. In una decisione interlocutoria della Camera d’appello incentrata proprio sull’istituto in esame si sottolinea, riprendendo la giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia, che “customary international law recognized the application of the mode of liability of joint criminal enterprise to the crime of genocide before 1992” (85). Seppure questa affermazione confermi la natura consuetudinaria della norma, nel caso di specie non si ha una concreta applicazione della JCE in quanto l’imputato viene assolto per mancanza di prove. In questa stessa decisione viene però messa in discussione la corrispondenza dell’istituto in esame con la giurisprudenza successiva alla seconda guerra mondiale. Nelle parole della Camera: “the post-World II materials do not always fit neatly into the so-called “three categories” of joint criminal enterprise discussed in Tadić, in part because the tribunals’ judgements did not always dwell on the legal concepts of criminal responsibility, but simply concluded that, based on the evidence, the accused were “connected with”, “concerned in”, “inculpated in”, or “implicated in” war crime and crimes against humanty” (86). (84) VAN DEN HERIK, The contribution of the Rwanda Tribunal to the Development of International Law, Leiden-Boston, 2005; ICTR, Prosecutor v. Rutaganda, ICTR-96-3, Trial Chamber, Judgement, 6 dicembre 1999, parr. 439-442. (85) ICTR, Prosecutor v. Rwamakuba, Decision on Interlocutory Appeal Regarding Application of Joint Criminal Enterprise to the Crime of Genocide, ICTR-98-44C, Appeals Chamber, 22 ottobre 2004, par. 31. (86) Ibidem, par.24. 33 In seguito, nel caso Ntakiritumana, il tribunale sostiene espressamente che l’articolo 6(1) dovesse essere interpretato alla luce ed in modo conforme alla disposizione speculare contenuta nell’articolo 7(1) dello Statuto del Tribunale per la ex Iugoslavia. La Joint Criminal Enterprise deve quindi essere inclusa tra le forme di attribuzione della responsabilità individuale comprese in un’interpretazione estensiva della parola “committing”. Anche in questo caso tuttavia, l’istituto non viene concretamente utilizzato dai giudici in quanto non era stato adeguatamente definito nei suoi elementi costitutivi da parte dell’accusa nel corso del procedimento (87). In un altro e successivo caso, concernente i crimini di genocidio e sterminio, una delle camere di primo grado ha dismesso le suddette accuse nei confronti dell’imputato fondate sulla sua presunta partecipazione ad una JCE poiché non viene dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’intento del soggetto di essere parte del gruppo criminale (88). Infine, troviamo uno dei pochi casi in cui si ha l’effettiva applicazione del modello ascrittivo Joint Criminal Enterprise. Aloys Simba, ufficiale in pensione all’epoca dei fatti, non apparteneva o aveva alcun legame con il governo o altre strutture militari o politiche. Tuttavia, i massacri di cui veniva accusato, erano il risultato di una “highly coordinated operation” che aveva come unico scopo, comune a tutti i soggetti coinvolti, lo sterminio della popolazione Tutsi presente in alcune località del Ruanda meridionale (Kibeho Parish, Murambi Technical School, Cyanika Parish, Kaduha Parish e Ruhashya Commune) (89). In concreto, la sua partecipazione al gruppo criminale si esplica, secondo i giudici, in diversi “acts of assistance and encouragement of the physical perpetrators of the crimes” che ebbero un “substantial effect on the killings which followed”. Sul punto, la Camera d’appello non si discosta dalla posizione assunta nel primo grado di giudizio e conferma quindi la (87) ICTR, Prosecutor v. Elizaphan Ntakirutimana and Gérard Ntakirutimana, ICTR-96-16 e ICTR-96-17, Appeals Chamber, Judgement, 13 December 2004, par. 468. (88) ICTR, Prosecutor v. Mpambara, ICTR-01-65, Trial Chamber, Judgement, 11 September 2006, par. 113: “The evidence does not show beyond a reasonable doubt that the Accused actively participated in, or was present during, any stage of this attack. Nor has it been shown beyond a reasonable doubt that he ordered or encouraged anyone to participate in the attack. Furthermore, his alleged failures to act have not been shown beyond a reasonable doubt to be proof that he possessed the intent to be part of a joint criminal enterprise or that he substantially contributed to the crimes committed by other persons so as to be guilty of aiding and abetting.” (89) ICTR, Prosecutor v. Aloys Simba, ICTR-01-76, Trial Chamber, Judgement, 13 December 2005, parr. 401-402. 34 condanna a 25 anni di carcere per genocidio e sterminio come crimine contro l’umanità (90). Da questa breve analisi della giurisprudenza del Tribunale penale internazionale per il Ruanda emerge come la figura della JCE sia stata certamente utilizzata e considerata una delle forme di attribuzione della responsabilità rientrante, in quanto norma consuetudinaria, nelle forme di commissione del crimine contenute nell’articolo dello Statuto relativo alla responsabilità individuale (art.6(1)). Tuttavia, questo criterio di imputazione della responsabilità sembra essere stato usato con maggior cautela e meno frequenza rispetto a quanto avvenuto per i crimini commessi nella ex Iugoslavia. In conclusione, si è quindi osservato che la giurisprudenza dei tribunali ad hoc è univoca nel considerare la JCE, compresa la sua terza forma, una norma consuetudinaria e che le affermazioni contenute nella sentenza Tadić non vengono sostanzialmente messe in discussione. Inoltre, il modello prescelto dai redattori dello Statuto ha come visto una chiara natura unitaria, ma viene poi sviluppato in giurisprudenza nel senso almeno di una distinzione di massima tra autori e complici. 7. La Joint Criminal Enterprise davanti ad altri tribunali speciali “ibridi”: Sierra Leone, Timor Est, Cambogia e Libano L’articolo 6(1) dello Statuto della Corte speciale per la Sierra Leone coincide con la disposizione sulla responsabilità individuale che abbiamo già visto essere comune agli statuti dei Tribunali ad hoc per la ex Iugoslavia ed il Ruanda (rispettivamente: art.7(1); art. 6(1)). Forse anche sulla scorta di questo elemento testuale, i giudici di tale tribunale internazionale fanno espressamente rientrare il concetto di JCE tra le forme di attribuzione della responsabilità previste dallo Statuto. Si sostiene, infatti, che: “Article 6(1) of the Statute of the Special Court does not, in its proscriptive reach, limit criminal liability to only those persons who plan, instigate, order, (90) ICTR, Prosecutor v. Aloys Simba, ICTR-01-76, Appeals Chamber, Judgement, 27 November 2007, parr. 251-255, 295. 35 physically commit a crime or otherwise, aid and abet in its planning, preparation or execution. Its proscriptive ambit extends beyond that to prohibit the commission of offences through a joint criminal enterprise, in pursuit of the common plan to commit crimes punishable under the Statute” (91). In un altro caso affrontato dalla Corte l’esclusione dell’applicazione della JCE deriva da mere circostanze fattuali. Si ritiene infatti che il piano comune del gruppo, ovvero intraprendere qualsiasi azione necessaria ad ottenere il controllo politico sul territorio della Sierra Leone, ed in particolare sulla zona delle miniere di diamanti, “was not inherently criminal” (92). In appello, ripercorrendo e specificando la giurisprudenza rilevante del Tribunale per la ex Iugoslavia (93), si afferma invece che “the criminal purpose underlying the JCE can derive not only from its ultimate objective, but also from the means contemplated to acheive that objective. The objective and the means to achieve the objective constitute the common design or plan”(94). La giurisprudenza della Corte speciale conferma quindi l’applicazione della JCE, sulla scorta di quanto precedentemente affermato dal Tribunale per la ex Iugoslavia. Un’altra esperienza interessante è quella dei Panels speciali per Timor Est. Le norme contenute nelle disposizioni statutarie sulla responsabilità individuale e l’elemento psicologico del crimine (mens rea) riprendono pedissequamente la lettera degli articoli 25(3) e 30 dello statuto della Corte penale internazionale (95). Tali ultime disposizioni, che verranno analizzate nel paragrafo successivo, sono espressione, secondo molti autori, di un esplicito abbandono della dottrina della Joint Criminal Enterprise, o quanto meno della sua terza categoria. Tuttavia, e nonostante la suddetta corrispondenza delle (91) SCLS, Prosecutor v. Norman and others, Decision on Motion for Acquittal, SCLS-04-14T-473, Trial Chamber, 21 ottobre 2005, par.130. Nel caso di specie, tuttavia, non si riteneva provata l’esistenza di un piano comune oltre ogni ragionevole dubbio. Cfr. Prosecutor v. Norman and others, par. 803: “Although on the basis of the evidence adduced it appears that Norman, Fofana, Kondewa, may have acted in concert with each other, we find that there is no evidence upon which to conclude beyond reasonable doubt that they did so in order to further a common purpose, plan or design to commit criminal acts”. (92) Brima and others, SCLS-04-16, 21 giugno 2007, TJ, parr. 66-70 (93) Prosecutor v. Kvocka et al., cit., par.46; ICTY, Prosecutor v. Haradinaj, IT-04-84, Second Amended Indictment, 26 aprile 2006, par. 26. (94) SCLS, Prosecutor v. Brima and others, SCLS-04-16, 22 febbraio 2008, Appeals Chamber, Judgement, par.76. (95) UNTAET, Regulation 2000/15, sections 14.3(d) e 18. 36 disposizioni rilevanti, i Panels hanno ritenuto in diverse occasioni di dover applicare il concetto di Joint Criminal Enterprise, seppur ciò sia stato fatto, come osservato da alcuni, “with little analysis” (96). Infatti, nella maggior parte dei casi in cui la figura è stata applicata, non è apparso necessario spiegarne il contenuto o l’ampiezza, l’esatta portata ed il fondamento concettuale. Si è ritenuto sufficiente un riferimento generico alla teoria, rimandando quindi alla giurisprudenza precedente (97). In altre parole, quando si è proceduto ad un’analisi della forma di attribuzione della responsabilità prevista dalla partecipazione ad un gruppo criminale, non si è fatto altro che riprendere quanto stabilito dal Tribunale per la ex Iugoslavia. Nel caso Jose Cardoso, il Panel ha interpretato la disposizione contenuta nella sezione 14.3(d) (come detto, corrispondente all’articolo 25(3)(d) dello Statuto della Corte penale internazionale) riferendosi agli stessi elementi che il Tribunale per la ex Iugoslavia ha ritenuto necessari per applicare l’istituto della JCE (98). Nella giurisprudenza dei panels speciali per Timor Est si possono però trovare alcune affermazioni interessanti sugli elementi più controversi della teoria della JCE. In particolare, nel caso Francisco Perreira, insistendo sui rapporti “orizzontali” tra i partecipanti, i giudici hanno tracciato una distinzione tra la partecipazione al gruppo criminale e la responsabilità individuale legata ad un’altra condotta tipica del diritto internazionale penale: l’ordine. Si afferma, infatti, che “by adhering to a plan or a common (i.e. shared) purpose, the accused would further the criminal activity by lending moral support to someone else’s execution. Persisting in the geometrical representation, it is this horizontal will that would bind the co-perpetrator in joint criminal enterprise and not the will expressed by the order from the militia leader to the subordinate. The order is a “vertical” expression of will in the sense that it implies the presence of a hierarchy, of a leader and of subordinates and is not, by itself, a source of joint criminal responsibility” (99). (96) Cfr. GUSTAFSON, Joint Criminal Enterprise, in CASSESE (Ed.), The Oxford Companion to International Criminal Justice, Oxford-New York, 2009, p. 394. (97) SPSC, Prosecutor v. Joseph Leki, 5/2000, Judgement, 11 giugno 2001; SPSC, Prosecutor v. Augustinho da Costa, 7/2000, Judgement, 11 ottobre 2001; SPSC, Prosecutor v. Augusto Asameta Tavares, 2/2001, Judgement, 28 settembre 2001. (98) SPSC, Prosecutor v. Jose Cardoso, 4c/2001, Judgement, 5 aprile 2003, parr. 369-375. Le sentenze del tribunale della ex Iugoslavia cui ci si rfierisce in tali paragrafi sono: Tadić, Kronjelać e Vasiljević. (99) SPSC, Prosecutor v. Francisco Perreira, 34/2003, Judgement, 27 aprile 2005, 19-20. 37 Il passo è di notevole importanza poiché, anche se riferita all’ordine del superiore, può ugualmente offrire una distinzione, geometrica appunto, tra la teoria della JCE, così come affermata dai tribunali ad hoc e comunemente seguita dalla giurisprudenza internazionale, e la diversa teoria prescelta a fondamento della disciplina del concorso da parte della Corte penale internazionale, quella c.d. del dominio del fatto (o “control over the act”), dalla natura decisamente “verticale” e che esamineremo più avanti. Inoltre, il caso Anastacio Martins and Domingos Goncalves contiene un’interessante applicazione della terza forma di JCE, spesso duramente criticata in dottrina ed oggetto della nostra indagine. In particolare, il dolo tipico di questa fattispecie (indeterminatus, nelle parole dei Panels, o eventuale come solitamente definito) non sarebbe, ad avviso dei giudici, che una legittima variante del dolo diretto o di primo grado. In questa specifica accezione si ricomprendono nell’intenzione dell’autore una serie limitata, ma non definita, di eventi possibili (100). Ai fini della presente indagine risulta di estremo interesse osservare quanto accade di fronte alle Camere straordinarie cambogiane (Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia) istituite a seguito di lunghissime trattative tra il governo cambogiano e le Nazioni Unite, per perseguire i principali responsabili dei crimini commessi durante il regime di Pol Pot, in particolare negli anni dal 1975 al 1979. Le Camere cambogiane, infatti, hanno rimesso in discussione una giurisprudenza che, seppur oscillante e non sempre univoca, è rimasta costante punto di riferimento in materia di concorso di persone nel diritto internazionale penale. Occorre anzitutto sottolineare la corrispondenza tra la disposizione che statuisce le forme di attribuzione della responsabilità individuale dello Statuto delle Camere con il già noto articolo 7 (1) dello Statuto del Tribunale per la ex (100) SPSC, Prosecutor v. Anastacio Martins and Domingos Goncalves, 11/2001, Judgement, 13 Novembre2003, 14. “the intention to participate can hardly be placed in doubt, given the kind of action committed by the accused. Similarly, “the knowledge of the intention of the group to commit a crime” (14.3 of UNTAET Regulation 2000/15) is undisputable, if also it takes the shade of a dolus indeterminatus (which is still an epiphany of dolus directus) where the intention includes the option of a limited but not determined number of possibilities, […] the intention was clear and the adhesion to the plans so clearly outlined in the meeting of 2nd September implies the determination or acceptance of the inevitable results”. 38 Iugoslavia. L’articolo 29 recita, infatti: “Any suspect who planned, instigated, ordered, aided and abetted, or committed the crimes referred to in Article 3 new, 4, 5, 6, 7 and 8 of this law shall be individually responsible for the crime”. Nel corso della fase istruttoria del secondo processo contro alcuni dei principali capi politici del regime cambogiano (c.d. Democratic Kampuchea) si è posta la questione dell’applicabilità o meno della Joint Criminal Enterprise. La Camera preliminare di quella giurisdizione è approdata alla conclusione che, mentre le prime due forme di JCE possono certamente rientrare nell’ambito di applicazione della legge istitutiva, la terza va esclusa in quanto non avente carattere consuetudinario. Secondo la Camera preliminare la JCE III non aveva dunque natura consuetudinaria all’epoca dei fatti (101). L’assunto viene dimostrato attraverso una serrata critica della sentenza Tadić. Una rivisitazione peraltro che non è mai stata compiuta in precedenza, nemmeno in quei casi in cui la natura consuetudinaria della JCE è stata messa in discussione da parte delle difese degli imputati. La mancata applicazione della JCE III è da attribuire al necessario rispetto del principio di legalità (102). Ecco dunque riaffacciarsi una delle maggiori critiche che erano state rivolte alla JCE: l’incompatibilità dell’applicazione di tale istituto con il principio nullum crimen sine lege. Questo contrasto avrebbe una duplice origine: la dubbia natura consuetudinaria della norma e la difficoltà di ricondurre a principio generale un concetto che non è contenuto, come confermato anche dal Tribunale per la ex Iugoslavia, nella maggioranza degli ordinamenti nazionali. Infine, merita un breve riferimento la giurisprudenza del Tribunale speciale per il Libano. Vi si rinviene infatti un’esplicita esclusione (101) ECCC, Decision on the Appeals Against the Co-Investigative Judges Order on Joint Criminal Enterprise, D-97-15-9, Pre-Trial Chamber, 20 May 2010, parr. 75-87. Queste nello specifico le praole dei giudici della camera preliminare: “The Pre-Trial Chamber does not find that the authorities relied upon in Tadić, and as a result those relied upon in the impugned Order, constitute a sufficiently firm basis to conclude that JCE III formed part of customary international law at the time relevant” (par. 83). (102) Ibidem, “even if […], the third form of JCE was punishable in relation to international crimes […], the Pre-Trial Chamber is not satisfied that such liability was foreseeable to the Charged Persons in 1975-1979. […] The Pre-Trial Chamber has not been able to identify in the Cambodian Law, applicable at the relevant time, any provision that could have given notice to the Charged Persons that such extended form of responsibility was punishable as well. In such circumstances, the principle of legality requires the ECCC to refrain from relying on the extended form in its proceedings”, (par. 87). 39 dell’applicazione della JCE III a causa della sua potenziale incompatibilità con il principio di colpevolezza (103). In particolare, in una recente decisione la Camera d’appello del Tribunale non ha ammesso che una fattispecie concorsuale simile alla JCE III possa essere applicabile ai crimini a dolo speciale quali, nel caso di specie, il terrorismo. Diversa tesi sul punto era stata sostenuta dal Tribunale per la ex Iugoslavia che ne aveva appunto affermato la compatibilità. Il nuovo orientamento del Tribunale per il Libano solleva quindi un’ulteriore rilevante questione cruciale nella presente indagine e rispolvera quelle critiche che vedevano l’apparato concettuale sotteso alla JCE, ed alla sua terza forma in particolar modo, come scarsamente rispondente alle esigenze di garanzia del diritto penale e al rispetto del principio nullum crimen sine culpa. 6. L’articolo 25 dello Statuto della Corte penale internazionale Lo Statuto della Corte penale internazionale rappresenta il risultato di un lungo e travagliato processo (104). Le origini di tale percorso possono essere fatte risalire al primo tentativo di codificazione dei crimini internazionali intrapreso, all’inizio degli anni cinquanta, da parte della Commissione di diritto internazionale. In realtà, già nel 1937, la Società delle Nazioni aveva adottato una Convenzione contro il terrorismo il cui Protocollo conteneva uno Statuto per una Corte penale internazionale. Tuttavia, tale Convenzione non entrò mai in vigore poiché venne ratificata da uno solo Stato, l’India. Lo Statuto di Roma prevede, all’articolo 126(1), la sua entrata in vigore sessanta giorni dopo il raggiungimento della sessantesima ratifica. Sulla base di tale disposizione, lo Statuto ha dunque acquisito pieni effetti giuridici il primo luglio del 2002. Ad oggi, sono più di 120 gli Stati parte dello Statuto di Roma. Questo numero così elevato sancisce l’importanza e la portata epocale dell’istituzione di questo tribunale permanente. Non si può ignorare il fatto (103) Per la verità in dottrina era stata avanzata anche l’ipotesi di un contrasto con il principio di legalità in caso di applicazione della JCE in quanto modello ascrittivo estraneo al diritto penale libanese, si veda MILANOVIC, An Odd Couple, in Journal of Int. Criminal Justice, vol. 5, n. 5, 2007, pp. 1139-1152. (104) In generale, si veda tra gli altri, BASSIOUNI, The Legislative History of the International Criminal Court, New York, 2005. 40 però che tre dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Stati Uniti, Cina e Russia) non hanno ad oggi aderito allo Statuto di Roma. Occorre ribadire che la Corte penale internazionale, come i tribunali internazionali che l’hanno preceduta, si troverà ad accertare le responsabilità di coloro che hanno ricoperto posizioni di vertice all’interno di un apparato statale, militare o paramilitare. Difficilmente tra questi ultimi ci saranno gli esecutori materiali delle atrocità commesse. Si tratterà piuttosto nella maggior parte dei casi di coloro che hanno ideato ed organizzato la violenza collettiva. È necessario allora individuare i meccanismi di attribuzione della responsabilità più adeguati al fine di rispecchiare l’effettivo grado di partecipazione criminosa per questi soggetti. In altre parole, i capi militari o politici non potranno essere considerati complici di crimini commessi da altri, ma piuttosto, nel caso in cui venissero accertate le loro responsabilità, dovranno essere ritenuti autori, responsabili diretti e primari, dei crimini. Il Tribunale per la ex Iugoslavia ha già efficacemente sottolineato il paradosso cui si approderebbe con la prima soluzione che, in sostanza, “understate the degree of their criminal responsibility” (105). Quanto alla norma sulla responsabilità individuale contenuta nello Statuto, i primi due commi dell’art. 25 non fanno altro che ribadire il principio cardine della responsabilità individuale, con l’esclusione, nonostante alcune proposte in senso contrario, di ogni tipo di responsabilità penale delle persone giuridiche (106). A rivestire un ruolo centrale ai fini della nostra analisi è il terzo comma dell’art. 25 (107). Si è osservato nella pagine precedenti come la disciplina del (105) Cfr. Prosecutor v. Tadić, cit., 15 luglio 1999, par. 192. (106) Cfr. supra, par. 1. (107) Sembra utile riportare interamente la disposizione in esame, poiché sarà oggetto di costanti riferimenti nel corso del presente lavoro. Così, dunque, recita la lettera dell’art. 25: Individual criminal responsibility 1. The Court shall have jurisdiction over natural persons pursuant to this Statute. 2. A person who commits a crime within the jurisdiction of the Court shall be individually responsible and liable for punishment in accordance with this Statute. 3. In accordance with this Statute, a person shall be criminally responsible and liable for punishment for a crime within the jurisdiction of the Court if that person: (a) Commits such a crime, whether as an individual, jointly with another or through another person, regardless of whether that other person is criminally responsible; (b) Orders, solicits or induces the commission of such a crime which in fact occurs or is attempted; (c) For the purpose of facilitating the commission of such a crime, aids, abets or otherwise assists in its commission or its attempted commission, including providing the means for its commission; 41 concorso di persone nel diritto internazionale penale fosse, ancora negli anni novanta, ad uno stato piuttosto involuto. L’articolo 25 dello Statuto di Roma è il punto di approdo di un lungo processo di specificazione delle condotte punibili (108). In questo senso si può dire che la disposizione in esame si avvicina ad un modello differenziato di disciplina della compartecipazione criminosa (109). In realtà, non prevedendo questo alcuna distinzione quantitativa in merito all’entità della pena, appare piuttosto un modello ibrido non perfettamente inquadrabile in un sistema unitario o differenziato. Avendo scelto una mera bipartizione tra i modelli del concorso di persone, tuttavia, non possiamo che accostarlo al secondo. Da uno studio comparato degli ordinamenti interni, infatti, non risulta infrequente un’impostazione di questo tipo, nella quale ad una differenziazione delle condotte non corrisponde quella sanzionatoria. Il codice penale francese è un tipico esempio in tal senso. Come in qualsiasi modello differenziato che non preveda un distinto trattamento sanzionatorio, diversi criteri di giudizio potranno venire in rilievo unitamente alla condotta tipica: il contegno antecedente e successivo al crimine, il grado di colpevolezza o di pericolosità dell’imputato. Inoltre, e questo aspetto ha un valore significativo ai fini della nostra indagine, le condotte previste all’art. 25, par. 3, devono essere viste in un’ottica gerarchica e costituire quindi un elemento di rilievo al momento della commisurazione della pena da parte del giudice (110). (d) In any other way contributes to the commission or attempted commission of such a crime by a group of persons acting with a common purpose. Such contribution shall be intentional and shall either: (i) Be made with the aim of furthering the criminal activity or criminal purpose of the group, where such activity or purpose involves the commission of a crime within the jurisdiction of the Court; or (ii) Be made in the knowledge of the intention of the group to commit the crime; (e) In respect of the crime of genocide, directly and publicly incites others to commit genocide; (f) Attempts to commit such a crime by taking action that commences its execution by means of a substantial step, but the crime does not occur because of circumstances independent of the person's intentions. However, a person who abandons the effort to commit the crime or otherwise prevents the completion of the crime shall not be liable for punishment under this Statute for the attempt to commit that crime if that person completely and voluntarily gave up the criminal purpose. 4. No provision in this Statute relating to individual criminal responsibility shall affect the responsibility of States under international law. (108) Cfr. CASSESE, International Criminal Law, op. cit., p. 180. (109) Si parla di definitivo passaggio al modello differenziato in SCHABAS, An Introduction to the International Criminal Court, 3rd ed, Cambridge, 2007, p.81 e in AMBOS, Article 25: Individual Criminal Responsibility, in AA.VV., Commentary on the Rome Statute of the International Criminal Court, in TRIFFTERER, Monaco, 2008, p.750 (110) Cfr. tra gli altri, WERLE, Individual Criminal Responsibility in Article 25 ICC Statute, in Journal of International Criminal Justice, vol.5, n.4, 2007, pp. 953-975. E, soprattutto, il punto 42 Venendo alla descrizione delle fattispecie concorsuali, alla lettera a) del terzo comma dell’art. 25 si trova, innanzitutto, l’autoria. La disposizione in esame, come i modelli differenziati che abbiamo osservato in precedenza, distingue tre diverse forme di autoria. Si ha, in primo luogo, l’autoria immediata (“who committed such a crime as an individual”). È il caso questo in cui il soggetto, pur agendo con altre persone, perfeziona con la propria condotta tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, del crimine. In secondo luogo, vi è la coautoria, ovvero quella forma di responsabilità penale che discende dall’esecuzione congiunta dell’illecito (“jointly with another”). La coautoria si fonda sulla teoria del common design, per cui una rilevanza fondamentale è data all’incontro delle volontà dei soggetti coinvolti ed al comune intento criminale. Tuttavia, la condivisione di un piano criminale non è di per sé sufficiente a determinare la responsabilità primaria del coautore, ma sarà necessario stabilire anche il momento esatto in cui la condotta criminosa del soggetto si inserisce nell’esecuzione dello scopo criminale. Infine, si ha l’autoria mediata, nella quale l’autore commette il crimine “through another person”. In sostanza, l’esecutore materiale del crimine non è che uno strumento nelle mani del vero autore. In quest’ultima ipotesi assume quindi rilevanza lo status giuridico dell’esecutore materiale. Questi è normalmente un soggetto non punibile, o per usare un termine diffuso nei sistemi di common law, un innocent agent. Ipotesi classiche e riprese dallo Statuto di Roma sono: il minore (art. 26), l’individuo in stato di incapacità o di intossicazione (art. 31, lett. a) e b)), il fatto che questi abbia agito in legittima difesa o in stato di necessità (art. 31 lett. c)), o infine, l’ipotesi dell’errore di diritto o di fatto che non abbia permesso al soggetto di rendersi conto dell’illiceità del comportamento. Ma l’ipotesi certamente più interessante e che sembra aver già trovato riconoscimento nelle prime pronunce della Corte penale internazionale, riguarda il controllo o lo sfruttamento di un intero apparato o organizzazione attraverso cui il soggetto, che ne è a capo, commette il crimine. Questa ipotesi trova applicazione anche nel caso in cui gli autori materiali risultino capaci e punibili. L’importanza per il diritto internazionale penale di tale forma di autoria mediata è evidente se si pensa alla natura sistemica ed organizzata è stato recentemente confermato dalla stessa Corte, cfr. ICC, Prosecutor v. Thomas Lubanga Dyilo, Decision on the Confirmation of the Charges, 01/04-01/06, Pre-Trial Chamber I, 29 gennaio 2007 43 attraverso la quale le atrocità tipiche dei crimini internazionali vengono perpetrate (111). Le lettere b) e c) disciplinano, invece, forme di complicità o responsabilità secondaria. La prima disposizione si riferisce a colui che “ordina, sollecita o induce” la commissione del crimine, mentre la lett. c) prevede la forma di complicità tipica del diritto internazionale penale, l’aiding and abetting. In realtà, tutte le fattispecie previste nella lettera b) potevano essere ricomprese nell’ “abet” della lettera c) così evitando la ridondanza che in questo modo assume l’istituto della complicità. Questo risultato sarebbe dovuto, secondo alcuni, alla scarsa dimestichezza dei redattori dello Statuto con le figure giuridiche (tra questi appunto l’abetting) caratteristiche dei sistemi normativi di common law (112). L’ipotesi certamente più interessante al fine di determinare il discrimine tra autori e complici nei casi di criminalità collettiva è quella prevista dalla lett. d) che prevede la responsabilità di colui che “contributes to the commission or attempted commission of a crime by a group of persons acting with a common purpose”. Quello della criminalità organizzata è, infatti, una manifestazione delinquenziale caratteristica e tra le più inquietanti del mondo contemporaneo. Gli strumenti approntati dal diritto penale, anche a livello interno, si sono rivelati spesso insufficienti per inquadrare giuridicamente un fenomeno sociale di tale complessità. Si è già detto della rilevanza che assume l’elemento collettivo nel campo dei crimini internazionali e dell’importanza di trovare gli istituti giuridici più efficaci per “fotografare” il fenomeno ed attribuire le responsabilità in modo corrispondente all’effettivo ruolo svolto dal singolo all’interno del gruppo. Rispetto alle norme sul concorso di persone, sia questo inteso come espressione di coautoria o di responsabilità secondaria, lo scopo evidente di una fattispecie come quella prevista nella lett. d) non può che essere di semplificazione probatoria (113). Infatti, per quanto concerne l’elemento materiale, questa particolare forma di complicità pone l’accento, non sullo specifico crimine, ma sull’attività del gruppo. In sostanza, è l’apporto prestato all’attività del gruppo nel suo (111) Più diffusamente sulle diverse forme di autoria, cfr. AMATI, Concorso di persone nel diritto internazionale penale, Digesto delle Discipline penalistiche, Aggiornamento, Torino, 2005, pp. 131-132. (112) Cfr. SCHABAS, An Introduction, op. cit., p. 102. (113) Cfr. ARGIRÒ, La compartecipazione criminosa nello Statuto della Corte penale internazionale, Roma, 2005, p.22. 44 complesso a determinare la pericolosità della condotta piuttosto che il comportamento dell’individuo in relazione ad uno specifico fatto illecito. L’elemento soggettivo per questa forma di partecipazione al crimine è invece dato dalla condivisione del comune intento criminoso o, alternativamente, dall’intento specifico di facilitare l’attività criminale del gruppo (i) o dalla mera conoscenza degli scopi da questo perseguiti (ii). L’art. 25, par. 3, lett. d) è servito al Tribunale per la ex Iugoslavia per avvalorare la natura consuetudinaria della JCE e in una delle sue prime pronunce la Corte penale internazionale ha confermato che l’ipotesi concorsuale prevista alla lett. d) “is closely akin to the concept of joint criminal enterprise” (114). Tuttavia, la Corte ha anche specificato che la JCE non è un criterio utile ai fini della distinzione tra autori e complici. A questo fine, la Corte ha preferito utilizzare la teoria del “control over the crime” che insiste sulla capacità del soggetto di determinare la verificazione dell’evento criminoso, piuttosto che impiegare una teoria incentrata sulla componente soggettiva e l’elevato grado di partecipazione morale del soggetto quale quella della JCE. Inoltre le condotte previste dall’art. 25 sono state chiaramente inquadrate in ordine gerarchico e la lett. d) rappresenta in questo senso una forma di responsabilità accessoria e residuale rispetto alle altre. Ben distante dunque da una forma responsabilità primaria, di commissione del crimine, come la Joint Criminal Enteprise e le condotte contemplate alla lett. a) dell’art. 25. 9. Considerazioni conclusive e piano dell’indagine Da questa prima analisi della evoluzione del diritto internazionale penale in materia di concorso di persone risulta che, all’inzio degli anni novanta, nessuna norma scritta prevedeva espressamente un meccanismo di attribuzione della responsabilità come la JCE, e nemmeno di conseguenza della sua terza forma, c.d. anomala. D’altronde, le lacune di parte generale degli statuti dei tribunali ad hoc, ed in particolare proprio quelle relative alla disciplina del concorso, risultano evidenti dalla stessa esigua estensione delle disposizioni sulla responsabilità individuale. L’effetto di tale mancanza è (114) ICC, Prosecutor v. Lubanga, Decision on the Confirmation of Charges, cit., par. 335 45 quello di rimettere al giudice l’elaborazione del contenuto di quelle norme, affidandogli così il difficile compito di ricostruire e determinare il contenuto di istituti giuridici estremamente complessi e contenuti in disposizioni particolarmente concise. Ogni singolo istituto - e per quanto riguarda il concorso di persone abbiamo già evidenziato la rilevanza che esso assume nel diritto internazionale penale e le difficoltà insite nella sua disciplina - dovrà essere ricostruito attraverso la complessa opera di rilevazione di principi generali di diritto o attraverso la ricostruzione di una norma consuetudinaria (115). Questo è quanto hanno fatto i giudici nel determinare e ricostruire la natura consuetudinaria della JCE. Alla carenza di precisione legata al dato positivo contenuto nello Statuto, si deve peraltro aggiungere che, nel momento in cui il Tribunale per la ex Iugoslavia venne istituito, il diritto internazionale penale generale era ad uno stato decisamente primordiale e la sua elaborazione ancora piuttosto rudimentale. Un importante sviluppo in quasi tutti gli elementi - sostanziali e procedurali - del diritto internazionale penale deriva proprio dall’attività e dall’enorme sforzo interpretativo dei giudici dei tribunali ad hoc. È del resto inevitabile che, in un campo giuridico relativamente nuovo, uno spazio considerevole sia lasciato alla creatività del giudice, a maggior ragione in un sistema che fonda in larga parte la propria essenza su norme a carattere consuetudinario (116). La necessaria riconduzione alla consuetudine degli istituti giuridici applicati è opera imprescindibile per sottrarsi alla critica di infrangere il principio di legalità, di inventare un diritto “nuovo” che non trova fondamento nel diritto esistente, ma è piuttosto espressione della ricerca di facili soluzioni giudiziarie o di opportunismo politico (117). La ricostruzione di una norma consuetudinaria, tuttavia, non è un’operazione logica o matematica nella quale si sommano gli elementi di prassi e opinio juris a disposizione. E questo è vero al punto che si è sostenuto come spesso sembri che “rules laid down by judges have generated custom, rather than custom (115) Cfr. CASSESE, The Contribution of the ICTY to the Ascertainment of General Principles of Law Recognized by the Community of Nations, in YEE-TIEYA, International Law in the Post Cold War World, London-new York, 2001. (116) SHAHABUDDEEN, Judicial Creativity and Joint Criminal Enterprise, in DARCY, POWDERLY, Judicial Creativity at the International Criminal Tribunal, Oxford, 2010, pp. 187190. (117) Al riguardo, alcuni autori hanno parlato del diritto di Norimberga come avente “almost a constitutional function”. Cfr. METTRAUX, Judicial Inheritance: The Value and Significance of the Nuremberg Trial to Contemproary War Crimes Tribunals, in METTRAUX, Perspective on the Nuremberg Trial, Oxford-New York, 2008, p.609. 46 have generated the rules” (118). Quella creatività, insomma, ha potuto esprimersi con un certo grado di elasticità dovuto alla stessa indeterminatezza della norma consuetudinaria. Nel diritto internazionale penale, più che in qualsiasi altro settore del diritto internazionale, i giudici sono stati costretti, spesso utilizzando concetti metagiuridici, ad elaborare, costruire, precisare e fissare il contenuto delle norme consuetudinarie applicabili, interpretando norme di diritto positivo a dir poco succinte e precedenti sparuti o contrastanti. In questa operazione, al Tribunale per la ex Iugoslavia prima e in maggior misura, e a quello per il Ruanda poi, va riconosciuto l’encomiabile e fondamentale sforzo di aver costruito il moderno diritto internazionale penale. Nel caso della JCE si è visto poi che altre e diverse giurisdizioni penali dalla natura anche parzialmente internazionale hanno fatto proprio questo istituto. Tuttavia, la “creatività” giudiziaria alle origini di alcune figure giuridiche è stata spesso aspramente contestata per i suoi risultati e la JCE costituisce in tal senso uno degli esempi più classici. Basti pensare, più in generale, che nei corridoi del Tribunale per la ex Iugoslavia la sua sigla è stata da alcuni ironicamente tradotta in “Just Convict Everybody” (119), sottolineando la scarsa rispondenza ai principi fondamentali e alle più basilari garanzie del diritto penale. Recentemente, infatti, l’applicazione della terza categoria di JCE, che solleva indubbiamente una serie di problemi maggiori rispetto alle prime due, è stata messa in discussione di fronte a diverse giurisdizioni penali. Le Camere cambogiane ne hanno rilevato il contrasto con il principio di legalità. Il Tribunale per il Libano ha sollevato la questione della incompatibilità della JCE III con il principio di colpevolezza, in particolare nel caso in cui venga applicata ai crimini a dolo speciale. Infine, la Corte penale internazionale ha scelto un modello e una impostazione fondamentalmente diversa. Ci occuperemo nei prossimi capitoli di analizzare le critiche dottrinali all’istituto e di vagliare la fondatezza dei nuovi orientamenti giudiziali. Nel prossimo capitolo, il secondo, si affronterà la questione del potenziale contrasto dell’applicazione della JCE III con il principio nullum crimen sine lege; il terzo capitolo avrà ad oggetto la compatibilità o meno dell’applicazione della JCE (118) GRAY, The Nature and Sources of the Law, New York, 1931, p. 297. (119) Cfr. BADAR, Just Convict Everyone! Joint Perpetration from Tadić to Stakić and Back Again, in International Criminal Law Review, n.6, 2006. Tra i più critici anche OHLIN, Joint Criminal Confusion, in New Criminal Law Review, vol. 12, 2009, p. 406. 47 III con il principio di nullum crimen sine culpa in caso di crimini a dolo speciale; infine, si vedrà se la JCE III o altre forme concorsuali anomale possano trovare applicazione e in che forma all’interno della Corte penale internazionale e quale impatto può avere lo Statuto di Roma e la giurisprudenza della Corte sul contenuto della norma internazionale consuetudinaria che prevede la responsabilità penale per il concorso nel reato diverso da quello voluto. 48 CAPITOLO SECONDO LA JCE III E IL RISPETTO DEL PRINCIPIO NULLUM CRIMEN SINE LEGE 1. Premessa; 2. Cenni sul principio di legalità nel diritto internazionale penale; 3. Il fondamento giuridico della JCE III alla luce della sentenza Tadić; 4. Tentativi di riesame della figura e riflessioni intorno al principio di legalità all’interno del Tribunale per la ex Iugoslavia; 5. La Joint Criminal Enterprise davanti alle Camere cambogiane; 5.1. Negazione della natura consuetudinaria della JCE III; 5.2. L’esclusione della terza forma in nome del principio di legalità; 6. Considerazioni conclusive. SOMMARIO: 1. Premessa Nel presente capitolo si affronterà una delle questioni più dibattute e problematiche relative alla legittimità dell’applicazione del meccanismo di attribuzione della responsabilità della Joint Criminal Enterprise, in particolare della sua terza forma. Si tratta del potenziale contrasto della figura con il principio di legalità (120). In primo luogo, è opportuno definire, seppur succintamente, il ruolo che il principio di legalità occupa nel diritto internazionale penale. Nel farlo emergeranno alcune delle problematiche legate alla difficoltà di conciliare con tale principio norme per loro stessa natura non scritte e a carattere generale, create da entità statali ma che trovano applicazione nei confronti di individui. Si individueranno le diverse forme che il principio di legalità ha assunto nelle varie giurisdizioni che nel corso della storia si sono trovate a dover giudicare i crimini commessi in alcuni tra i più sanguinosi conflitti armati. Da questa analisi emerge la tendenza verso un’affermazione sempre più netta di tale principio, fino alla sua definitiva consacrazione tra i principi generali del diritto penale nello Statuto della Corte penale internazionale (121). Nel corso di questa breve indagine sul ruolo del principio di legalità nei tribunali (120) La ricostruzione storica sull’evoluzione del principio di legalità ed alcune delle riflessioni compiute nel presente capitolo sono tratte da BUFALINI, La rilevanza del diritto interno ai fini del rispetto del principio nullum crimen sine lege nel diritto internazionale penale, in Rivista di diritto internazionale, n. 3, 2012, pp. 786-801. L’analisi della decisione delle Camere cambogiane è stata in diverso modo condotta in BUFALINI, La Joint Criminal Enterprise davanti alle Camere cambogiane ed il rapporto tra norme consuetudinarie e principio di legalità, in Diritti Umani e Diritto Internazionale, vol.4, n.3, 2010, pp. 658-664. (121) Si veda in generale, WERLE, Principles of International Criminal Law, The Hague, 2005. 49 internazionali, una particolare attenzione riceveranno la giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia e della Corte europea dei diritti dell’uomo, poiché queste due giurisdizioni più di altre si sono trovate a confrontarsi con il problema del rapporto tra le norme consuetudinarie e il rispetto del principio del nullum crimen nel diritto internazionale penale. Parallelamente alle riflessioni compiute sul principio di legalità, si analizzerà il fondamento normativo dello specifico oggetto della nostra indagine: la terza forma di Joint Criminal Enterprise. Si ripercorreranno quindi le argomentazioni e la giurisprudenza internazionale e nazionale utilizzate dal Tribunale per la ex Iugoslavia nel caso Tadić per sostenere la natura consuetudinaria del criterio di attribuzione previsto dalla JCE III. Queste stesse tesi e riferimenti alla prassi giudiziale saranno rivisti nell’analisi critica che ne è stata fatta in una recente pronuncia delle Camere straordinarie cambogiane. Nella parte conclusiva del presente capitolo, si determinerà in definitiva se l’applicazione della JCE III risulta essere in contrasto con il principio di legalità. In primo luogo, dunque, si dovrà verificare se questo criterio di attribuzione rivestiva, all’epoca dei fatti in cui avrebbe dovuto o meno trovare applicazione, lo status di norma consuetudinaria. In secondo luogo, occorrerà determinare se tale natura della norma può considerarsi sufficiente per affermare il rispetto della sua applicazione con il principio del nullum crimen sine lege. In caso contrario, ovvero qualora la consuetudinarietà della norma non sia di per sé sufficiente, sarà necessario individuare quali altri criteri possono contribuire ad accertare tale compatibilità. Una particolare attenzione sarà dedicata al ruolo che in questo processo può essere rivestito dal diritto interno. 2. Cenni sul principio di legalità nel diritto internazionale penale Il principio di legalità è riconosciuto come principio cardine degli ordinamenti statali liberali. La sua affermazione nella maggior parte delle costituzioni nazionali come diritto fondamentale dell’individuo deriva dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), elaborata durante la Rivoluzione francese. D’altronde, se il diritto penale “is the legally limited 50 punitive power of the State” (122), il principio di legalità costituisce uno dei capisaldi, forse il più importante, dei limiti all’esercizio di quel potere. Tale principio riveste inoltre un ruolo fondamentale nel concretare l’effettiva separazione dei poteri, tra legislativo e giudiziario, tra chi ha il compito di determinare in modo chiaro le condotte punibili e chi ha il dovere di punire quelle e solo quelle. Il principio di legalità si sostanzia in due distinti divieti: condannare un individuo per un crimine che tale non era al tempo della commissione del fatto (nullum crimen sine lege), applicare una sanzione non prevista dalla legge (nulla poena sine lege). In ambito internazionale, il riconoscimento del principio di legalità è sancito espressamente sia a livello universale (art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966) sia a livello regionale (art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950) (123). Tuttavia non è sempre chiaro come il principio di legalità si concili con le norme del diritto internazionale penale (124). Alla luce di tale principio, infatti, come chiarito recentemente anche dalla Corte penale internazionale, le norme penali non devono solo essere previae, ma anche certae e strictae (125). Il diritto internazionale penale ha però per lo più origine consuetudinaria e la sua specificazione avviene nella maggior parte dei casi a livello giudiziale. D’altra parte, in questo specifico campo del diritto in costante e progressivo affinamento, il ruolo svolto dai giudici nella complessa specificazione delle norme penali e nella estenuante ricerca di certezza del diritto è stato fondamentale e ancor più decisivo forse che in qualsiasi altro ramo del diritto internazionale (126). Lo spazio lasciato alla attività interpretativa dei giudici, peraltro, non può essere visto come automaticamente in contrasto con il principio di legalità. Al contrario, e ciò risulta più evidente (122) VON LISZT, The Rationale for the Nullum Crimen Principle, in Journal of Int. Criminal Justice, vol. 5, 2007, p.1009. Riproduzione di parte delll’articolo Die deterministischen Gegner Zweckstrafe, in Die gesamte Strarechtswissenschaft, 1983, pp. 357-368. (123) È stato osservato che più in generale che il principio di legalità “is one of the rare provisions set out as a non-derogable norm in all of the major human rights conventions”. Cfr. SCHABAS, Article 22. Nullum crimen sine lege, in The International Criminal Court, A commentary to the Rome Statute, New York, 2010, p 403. (124) CASSESE, International Criminal Law, 2 ed., 2008, pp. 36-41. Cfr. anche LAMB, Nullum Crimen, Nulla Poena Sine Lege in International Criminal Law, in CASSESE, GAETA, JONES, The Rome Statute of the International Criminal Court: A Commentary, vol. I, Oxford, 2002, p. 733 e ss. (125) ICC, Prosecutor v. Thomas Lubanga Dyilo, cit., 29 gennaio 2007, par. 303. (126) Cfr. Sul punto, tra gli altri, ZAPPALÀ, Judicial Activism v. Judicial Restraint in International Criminal Justice, in CASSESE, The Oxford Companion to International Justice, Oxford, 2009, p. 221. 51 nei sistemi di common law, un certo margine di “creatività” è inevitabilmente “delegato” all’organo giudiziario, sia per la necessaria opera interpretativa che ogni dato normativo richiede, sia per evitare che una concezione eccessivamente restrittiva del principio di legalità impedisca lo sviluppo progressivo del diritto in sede giudiziale (127). L’opera creativa giudiziaria si rivela poi imprescindibile in un contesto come quello del diritto internazionale penale per la particolarità delle sue fonti (in termini di natura, di chiarezza e di rapporti tra le stesse) e per lo stato ancora “primitivo” del suo sviluppo (128). Naturalmente però, tale operazione deve avvenire, secondo le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo, “provided that the resultant development is consistent with the essence of the offence and could reasonably be foreseen” (129). Non è certo semplice però stabilire se e fino a che punto uno sviluppo progressivo del diritto rientri nell’essenza della condotta offensiva e nel ragionevolmente prevedibile. (127) Cfr. sul punto SHAHABUDDEEN, Does the principle of legality Stand in the way of Progressive Development of Law?, in Journal of Int. Criminal Justice, n. 2, 2004, pp. 10071017 e la nota giurisprudenza ivi citata. Si ricordano, in particolare, il celebre caso C.R. v. The United Kingdom, ove la Corte di Strasburgo ritiene che “the time has now arrived” per cui uno stupro venga considerato tale indipendentemente dalla relazione coniugale intercorrente tra imputato e vittima, cfr. ECHR, C.R. v. The United Kingdom, 20190/92, 22 novembre 1995. E ancora le altrettanto note decisioni del Tribunale per la ex Iugoslavia attraverso cui si affermò che crimini di guerra potevano essere commessi anche nel corso di un conflitto armato non internazionale (Tadic, 2 ottobre 1995) o che il sesso orale forzato costituisse una forma di stupro (Furundžija, 10 dicembre 1998). Si veda anche MERON, The Continuing Role of Custom in the Formation of International Humanitarian Law, in American Journal of Int. Law, vol. 90, 1996, pp. 238-247. In senso decisamente contrario una delle più autorevoli voci della penalistica italiana, opponendosi ad una certa tendenza che si andava affermando nella dottrina tedesca, si levava piuttosto critica: “non sembra esatto che gli elementi indeterminati siano più funzionali ad una migliore salvaguardia delle esigenze di difesa sociale e più adatti a cogliere il perenne rapporto di tensione dialettica intercorrente tra le esigenze sottese al principio di determinatezza e le esigenze di giustizia sostanziale. Infatti, tali elementi sono soltanto più idonei a favorire gli arbitrii del potere giudiziario”. BRICOLA, Rapporti civili. Articolo 25, 2° e 3° comma, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca G., 1981, p. 235. (128) DE HEMPTINNE, Réflexion sur l’évolution des rôle normatif et judiciaire du juge pénal international, in Revue trimestrielle des droits de l’homme, luglio 2011, p. 532. (129) ECHR, SW v United Kingdom, 20166/92, 22 novmebre 1995; CR v United Kingdom, cit.,, p. 363. E ancora piú recentemente, ECHR, Jorhic v. Germany, 74613/01, 12 luglio 2007, par. 101. Per alcuni spunti in generale sulla attività “creativa” dei giudici della Corte di Strasburgo, cfr. MAHONEY, Judicial Activism and Judicial Self-Restraint in the European Court of Human Rights: Two Sides of the Same Coin, in Human Rights Law Journal, vol. 11, n. 57, 1990; DE BLOIS, The Fundamental Freedom of the European Court of Human Rights, in LAWSON, DE BLOIS, The Dynamics of the Protection of Human Rights in Europe, 1994. In modo originale, difendendo l’autonomia propria delle definizioni contenute nella CEDU rispetto ai medesimi concetti espressi nelle legislazioni nazionali e in senso contrario a quanti criticano l’eccessivo spazio lasciato alla attività interpretativa dei giudici della Corte, cfr. LETSAS, The Truth in Autonomous Concepts: How To Interpret the ECHR, in European Journal of Int. Law, vol. 15, n. 2, 2004, pp. 279-305. 52 Su tale aspetto incide in maniera particolare un elemento che, unitamente al divieto di analogia (lex stricta) e alla non retroattività della legge penale (lex praevia), sostanzia e concretizza il principio di legalità. Si tratta del principio di tassatività o di sufficiente determinatezza (“principle of specifity”, lex certa). In astratto, tale principio sembra poter essere soddisfatto, almeno in parte e con l’inevitabile margine di indeterminatezza dato dalle possibili divergenti interpretazioni di un medesimo dato testuale, solo da un testo scritto. È stato invece osservato che nel caso delle norme consuetudinarie, dei principi generali di diritto e delle decisioni giudiziarie, esso “can only serve as a guiding doctrine, to be observed when interpreting the rules produced by these sources of law” (130). Oggi sembra difficile sostenere, vista anche la sua inclusione in quasi tutti i trattati sui diritti umani, che il principio di legalità non costituisca un diritto fondamentale dell’individuo e una norma di natura consuetudinaria (131). Al riguardo, il Tribunale per il Libano ha recentemente affermato che “it is warranted to hold that by now it has the status of a peremptory norm (jus cogens), imposing its observance both within domestic legal orders and at the international level” (132). Tuttavia, per diverse ragioni e in particolare per il ruolo che assumono le norme consuetudinarie nel diritto internazionale, è altrettanto chiaro che il principio di legalità assume, o ha assunto in questo campo, forme diverse da quelle attraverso cui viene solitamente inteso negli ordinamenti nazionali (133). Una volta affermato ciò rimane però il problema di capire quali siano queste forme e se tale principio sia destinato a rivestire un ruolo minore nei processi penali internazionali o, piuttosto, ad avvicinarsi alla fondamentale funzione di garanzia che esso svolge a livello interno. A tal proposito, non si può ignorare che nella giurisprudenza penale internazionale il principio di legalità non ha sempre avuto la centralità che (130) JESCHECK, The General Principles of International Criminal Law Set Out in Nuremberg, as Mirrored in the ICC Statute, in Journal of Int. Criminal Justice, vol. 2, 2004, p.41. (131) Per un accurato studio sul principio di legalità nel diritto internazionale penale, si veda in generale GALLANT, The principle of legality in international and comparative criminal law, 2009. (132) Special Tribunal for Lebanon, Appeals Chamber, Interlocutory Decision on the Applicable Law: Terrorism, Conspiracy, Homicide, Perpetration, Cumulative Charging, STL11-01/I, 16 febbraio 2011, par. 76. (133) CASSESE, International Criminal Law, op. cit., p. 36 e ss.; cfr. anche MUNIVRANA, The Principle of Legality in International Criminal Law, in JOSIPOVIC, (ed), Responsibility for War Crimes, Zagreb, 2005, p. 180. Lo stesso Tribunale per la ex Iugoslavia ha sottolineato che “the principles of legality in international criminal law are different from their related national legal systems with respect to their applications and standards”, cfr. ICTY, Prosecutor v. Delalic, IT-96-21, Trial Chamber, Judgement, 16 novembre 1998, par. 431. 53 attualmente riveste nello Statuto della Corte penale internazionale (134). Il suo riconoscimento è il risultato della progressiva e imponente affermazione di quella branca del diritto che va oggi comunemente sotto il nome di diritti umani. Con parole certamente più efficaci è stato lo stesso Tribunale per la ex Iugoslavia a segnare più in generale questo passaggio all’interno dei tribunali penali internazionali, affermando che “States-sovereignty oriented approach has been gradually supplanted by a human-being oriented approach” (135). In questa sede, non si indagheranno tuttavia i complessi rapporti tra diritti umani e diritto internazionale penale che hanno portato parte della dottrina a definire tale relazione un vero e proprio “paradoxe” (136). Ci si limiterà ora ad osservare che il diritto penale può essere visto allo stesso tempo come “a protection and a threat for fundamental rights and freedoms”, una possibile forma di protezione dei diritti violati delle vittime e la più potente minaccia alla libertà personale dell’individuo da parte di chi esercita lo ius puniendi, sia esso lo Stato o la Comunità internazionale. D’altro canto, anche i diritti umani “have both a defensive and an offensive role, a role of both neutralizing and triggering the criminal law” (137). Da un lato, nel contesto di un processo penale i diritti umani costituiscono una garanzia per l’individuo di fronte all’esercizio del potere repressivo dell’autorità, dall’altro quello stesso potere repressivo può essere invocato dalle vittime contro i responsabili delle violenze subite. Come si vedrà, questa relazione di difficile definizione si manifesta oggi nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che si è trovata più volte ad affrontare delicate questioni relative alla (134) Cfr. KREß, The International Criminal Court as a Turning Point in the History of International Criminal Justice, in CASSESE, (ed.), The Oxford Companion to International Criminal Justice, Oxford, 2009, p. 145. L’A. parla chiaramente di cambiamento epocale, senza precedenti. Cfr. anche OLASOLO, A Note on the Evolution of the Principle of Legality in International Criminal Law, Criminal Law Forum, 2007, pp 301-319. Alcuni autori, pur apprezzando l’affermazione del principio, ne temono tuttavia la portata che, congiuntamente al tentativo di una sempre maggior determinatezza delle norme, potrebbe impedire le necessarie evoluzioni normative, cfr. CASSESE, The Statute of the International Criminal Court: Some Preliminary Reflections, in European Journal of Int. Law, n. 10, 1999, pp. 157-158. Si veda anche CATENACCI, Legalità e tipicità del reato nello statuto della corte penale internazionale, Milano, 2003 e CAIANIELLO, FRONZA, Il principio di legalità nello statuto della corte penale internazionale, in CARLIZZI, DELLA MORTE, LAURENTI, MARCHESI, La corte penale internazionale. Problemi e prospettive, Napoli, 2003. (135) ICTY, Prosecutor v. Tadić, cit., 2 ottobre 1995. (136) DELMAS-MARTY, Le paradoxe pénal, in DELMAS-MARTY, LUCAS DE LEYSSAC, Libertés et droit fondamentaux, Paris, 1996, p. 368. (137) TULKENS, The Paradoxical Relationship between Criminal Law and Human Rights Law, in Journal of Int. Criminal Justice, n. 9, 2011, p. 579. 54 repressione di crimini internazionali, e legate spesso proprio al rispetto del nullum crimen (138). Il progressivo riconoscimento del principio di legalità può costituire un valido e tangibile esempio del lento processo di affermazione dei diritti umani (139). A Norimberga, la massima nullum crimen sine lege fu espressamente qualificata come “a principle of justice” (140). Non è chiaro, tuttavia, quale rilevanza fosse in definitiva attribuita a tale principio di giustizia (141). È stato osservato che il riferimento ad un generico concetto di giustizia, presente nella versione inglese della sentenza del Tribunale, viene meno nella versione francese dove al principio di legalità viene riconosciuta piuttosto la natura di “règle généralement suivie”. Inoltre, sempre nella versione francese, scompare interamente la successiva frase del testo inglese e russo ove chiaramente si statuiva che “the maxim has no application to the present facts”. Queste divergenze sottolineano probabilmente una sensibilità diversa del giudice francese con riguardo al principio di legalità (142). In definitiva, però, la posizione del Tribunale appariva orientata nel senso che, a causa della gravità ed atrocità dei crimini perpetrati, altri e più importanti principi di giustizia rispetto a quello di legalità dovessero prevalere per condurre alla punizione dei colpevoli. Al riguardo sono note le critiche e le problematiche sollevate dal fatto che i Tribunali militari internazionali di Norimberga e di Tokyo punirono condotte che non potevano certamente dirsi ricomprese nella categoria dei crimini internazionali al tempo della commissione dei fatti di causa. Tuttavia, la necessità di non lasciare impunite condotte ritenute inaccettabili anche se non previste dal diritto internazionale al momento della loro commissione (138) ECHR, Kolk and Kislyiy v. Estonia, 23052/04, 17 gennaio 2006; Korbely v. Hungary [GC], 9174/02, 19 settembre 2008; Jorgic v. Germany, cit., 12 Luglio 2007. Per un recente studio sugli intricati rapporti tra giurisdizioni penali, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e Corte di Strasburgo, cfr. SCHABAS, Synergy or Fragmentation? International Criminal Law and the European Convention on Human Rights, in Journal of Int. Cirminal Justicie, n. 9, 2011, pp. 609-632. (139) CASSESE, International Criminal Law, op. cit., pp. 39-41. L’A. sottolinea come l’affermazione e lo sviluppo dei diritti umani abbia elevato i diritti e le garanzie processuali dell’imputato ad interesse superiore rispetto alle esigenze repressive. (140)Tribunale militare internazionale, Göring et al., 1 ottobre 1946, in Trial of the Major War Criminals Before the International Military Tribunal, 14 November 1945 – 1 October 1946, Nuremberg, 1947, pp. 171 e 219. (141) ACQUAVIVA, At the Origins of Crimes Against Humanity. Clues to a Proper Understanding of the Nullum Crimen Principle in the Nuremberg Judgement, Journal of Int. Criminal Justice, 2011, p. 1 ss. (142) CASSESE, Crimes Against Humanity: Comments on Some Problematic Aspects, in BOISSON DE CHAZOURNES E GOWLLAND-DEBBAS (ed.), Liber Amicorum G. Abi-Saab, The Hague, 2001, pp. 432-435. 55 imponeva ai giudici di ritenere il principio di legalità cedevole di fronte ad esigenze repressive ritenute superiori. Nello Statuto del Tribunale per la ex Iugoslavia non è presente alcun riferimento esplicito al principio di legalità. Tuttavia, il Rapporto del Segretario Generale, a cui è allegato lo Statuto e alla luce del quale questo deve essere letto e interpretato, ne individua chiaramente la funzione con un esplicito riferimento al diritto consuetudinario. Al paragrafo 34 troviamo infatti che “the application of the principle nullum crimen sine lege requires that the international tribunal should apply rules of international humanitarian law which are beyond any doubt part of customary law”. E ancora al paragrafo 106 si dice, più in generale, che “is axiomatic that the International Tribunal must fully respect internationally recognized standards regarding the rights of the accused at all stages of its proceedings” (143). Pur se non espressamente previsto negli statuti di altri tribunali penali internazionali (ma piuttosto nei documenti che li hanno istituiti) sembra difficile negare che tale assunto non sia valido in seno a quelle giurisdizioni (144). Lo Statuto della Corte penale internazionale segna un passaggio fondamentale nella rilevanza del ruolo dei principi generali del diritto penale nell’applicazione del diritto internazionale penale, naturalmente anche in relazione al principio di legalità (145). Per la prima volta un tribunale internazionale è istituito per reprimere pro futuro, e non ex-post facto, la commissione di crimini internazionali. Inoltre, nonostante diversi aspetti problematici legati alla scarsa precisione di alcune norme (146), l’articolo 22 dello Statuto prevede espressamente, in prima posizione tra i principi generali (143) Rapporto del Segretario Generale UN Doc. S/25704, 3 maggio 1993, approvato dal Consiglio di Sicurezza, Ris. 827/1993, 25 maggio 1993. (144) Cfr. GRADONI, International Criminal Courts and Tribunals: Bound by Human Rights Norms…or Tied Down?, in Leiden Journal of Int. Law, n. 19, 2006, pp. 847-873. (145) A tal proposito è stato spesso osservato che con lo Statuto di Roma i penalisti segnano in modo definitivo il proprio ingresso nel campo del diritto internazionale penale, a discapito degli internazionalisti. È interessante al riguardo pensare ad alcuni dibattiti e incomprensioni tra gli esperti delle diverse discipline. Mentre la maggior parte dei penalisti saluta con apprezzamento o ha in passato auspicato la previsione di una parte generale dello Statuto e di una disciplina più esaustiva degli elementi costitutivi i crimini internazionali, tra gli internazionalisti si critica a volte la troppo dettagliata stesura degli articoli dello Statuto che definiscono i crimini internazionali, il limitato spazio lasciato nello Statuto alla consuetudine e una concezione troppo “stretta” del principio nullum crimen, tale da impedire al giudice di individuare il diritto applicabile sin anche nelle sue progressive evoluzioni. Per i primi si possono citare ESER, The Need for a General Part, op. cit.; tra i secondi, PELLET, Applicable Law, in CASSESE, GAETA, JONES, The Rome Statute of the International Criminal Court. A Commentary, Oxford, 2002, p. 1051 e ss. (146) AMBOS, Remarks on the General Part of International Criminal Law, in Journal of Int. Criminal Justice, n. 4, 2006, pp. 670-671. 56 del diritto penale, il rispetto del nullum crimen sine lege. Gli articoli 23 e 24 affermano invece le altre due fondamentali manifestazioni del principio di legalità: il nulla poena sine lege e la non-retroattività dell’applicazione delle norme penali (147). Più in generale, per ciò che riguarda il corpus dei diritti umani l’art. 21.3 stabilisce chiaramente che l’applicazione e l’interpretazione del diritto “must be consistent with internationally recognized human rights”. La centralità che il principio di legalità avrebbe assunto emergeva già dai lavori del Comitato ad hoc per l’istituzione della Corte penale internazionale, ove si ribadiva l’esigenza di definire con chiarezza e precisione i crimini oggetto di giurisdizione (148). Sul punto si può affermare, per inciso, che proprio l’esigenza di garantire al meglio il rispetto del principio di legalità ha fortemente incoraggiato lo sforzo di codificazione avvenuto con lo Statuto della Corte. 3. Il fondamento giuridico della JCE III alla luce della sentenza Tadić Una delle critiche più frequenti che sono state rivolte alla teoria della Joint Criminal Enterprise concerne la sua natura consuetudinaria (149). Non è in questa sede che ci occuperemo nello specifico di affrontare i problemi relativi al processo di individuazione delle norme consuetudinarie nel diritto internazionale penale, questione che ha da sempre suscitato una serie di perplessità e problematiche di non facile soluzione (150). Ci limitiamo per ora (147) Per un’analisi cfr. tra gli altri, CATENACCI, The Principle of Legality, in LATTANZI, SCHABAS, Essays on the Rome Statute of the International Criminal Court, vol. 2, pp. 85-102. (148) Report of the ad hoc Committee on the Establishment of an International Criminal Court, General Assembly, Fiftieth Session, Supplement No. 22 (A/50/22), 1995, par. 57: «As regards the specification of crimes, the view was expressed that a procedural instrument enumerating rather than defining the crimes would not meet the requirements of the principle of legality (nullum crimen sine lege and nulla poena sine lege) and that the constituent elements of each crime should be specified to avoid any ambiguity and to ensure full respect for the rights of the accused». (149) AMBOS, Internationales Straftrecht, Munchen, 2006, pp. 136 e ss.; BOGDAN, Individual Criminal Responsibility in the Execution of a “Joint Criminal Enterprise“ in the Jurisprudence of the Ad Hoc International Tribunal for the Former Yugoslavia”, in Int. Criminal Law Review, vol. 6, 2006, pp. 63-120; POWELS, Joint Criminal Enterprise: Criminal Liability by Prosecutorial Ingenuity and Judicial Creativity?, in Journal of Int. Criminal Justice, vol. 2, 2004, pp. 609-615. Pur non procedendo ad un’analisi della giurisprudenza dei Tribunali ad hoc, in questo senso pure WERLE, Individual Criminal Responsibility in Article 25 ICC Statute, op. cit., pp. 953-975. (150) Cfr. BASSIOUNI, Introduction to International Criminal Law, Ardsley, 2003. 57 ad osservare, in generale, che il riferimento ad un dato normativo non scritto, e il cui processo di rilevamento non segue canoni sempre omogenei, mette a dura prova il rispetto del principio di legalità. Ciò principalmente per due ragioni: da un lato, per le difficoltà insite appunto nella determinazione del diritto applicabile (151) e dall’altro, per le problematiche che concernono uno dei corollari più rilevanti del principio del nullum crimen, ovvero la concreta accessibilità del singolo alla conoscenza di tale legge non scritta. L’applicazione della Joint Criminal Enterprise, nelle parole del Tribunale per la ex Iugoslavia nella sentenza Tadić, si impone sostanzialmente attraverso due diverse considerazioni. In primo luogo, come visto nel primo capitolo, il suo impiego discenderebbe dalla necessaria lettura estensiva dell’art. 7 dello Statuto del Tribunale che, secondo i giudici, ricomprende nell’espressione “committing” la teoria della responsabilità per la partecipazione a un sodalizio criminale. In secondo luogo, l’applicabilità della JCE deriverebbe dalla natura consuetudinaria di tale meccanismo ascrittivo. Sul primo aspetto, la Camera d’appello sostiene che la necessaria lettura estensiva della disposizione sulla responsabilità individuale sorga come diretta conseguenza di tre diverse esigenze: i) lo scopo e l’oggetto dello Statuto di perseguire “all those responsible for serious violations of international humanitarian law” (corsivo nella sentenza), ii) la particolare natura e la dimensione collettiva dei crimini di guerra e di genocidio ed infine, iii) la copiosa giurisprudenza internazionale sulla criminalità di gruppo. Da quest’ultimo punto discenderebbe, in particolare, il secondo presupposto, ossia la natura consuetudinaria della norma. Le prime due esigenze, in realtà, non sembrano pertinenti al fine di identificare il diritto applicabile all’interno di un processo penale. Ciò per lo meno alla luce delle concezioni di tradizione liberale e illuminista a fondamento delle moderne teorie del garantismo penale cui sono ispirati, o comunque tendono, i sistemi giuridici contemporanei (152). Non pare (151) Tra gli altri, v. METTRAUX, International Crimes and the Ad Hoc Tribunals, op. cit., p. 14: “identifying customary international law is no exact science”. Cfr. anche, più in generale sulla controversa natura dei due elementi costitutivi e sull’incertezza che domina il processo di identificazione delle consuetudini, KAMMERHOFER, Uncertainty in the Formal Sources of International Law: Customary International Law and Some of Its Problems, in European Journal of Int. Law, vol. 15, n.3, 2004, pp. 523-553. (152) Si veda in generale, FERRAJOLI, Diritto e Ragione. Teoria del garantismo penale, decima edizione, Bari, 2011. 58 appropriato affermare, infatti, che l’esigenza di colpire i responsabili dei crimini e la complessa natura intrinseca a quegli stessi crimini possano determinare o meno l’esistenza di una norma. Una tale impostazione sembra in qualche modo confermare alcune voci particolarmente critiche che si sono levate sull’atteggiamento assunto da alcuni giudici del Tribunale per la ex Iugoslavia nell’interpretazione del proprio ruolo. Secondo parte della dottrina, infatti, “they consider that the aim of the international criminal judiciary is, above all, prosecution of international crimes”, mentre invece “[T]he latter is … the normal function of the Prosecutor in an adversarial procedure under the control of the judiciary. On the contrary, the function of every judicial body worthy of that name is to do justice according to (positive) law” (153). Sul punto torneremo più approfonditamente in seguito. Appare ora più importante concentrarsi sul terzo elemento: la giurisprudenza internazionale da cui discenderebbe la natura consuetudinaria della norma. L’affermazione della Camera d’appello del Tribunale per la ex Iugoslavia nella sentenza Tadić, infatti, non lascia spazio a dubbi in merito. È stato per l’appunto sostenuto che “the notion of common design as a form of accomplice liability is firmly established in customary international law” (154). A partire da tale sentenza, la JCE è stata costantemente applicata nella giurisprudenza di diversi tribunali penali internazionali, riferendosi a questo criterio di attribuzione della responsabilità nella sua espressione abbreviata (JCE, appunto) ad indicare, come sostenuto, un “«terminus technicus» well settled in international criminal law” (155). La richiesta di applicazione dell’istituto da parte dei Prosecutors del Tribunale ha riguardato più della metà degli atti d’accusa (156). La natura consuetudinaria della norma è stata messa in discussione solo in alcuni casi di fronte al Tribunale per la ex Iugoslavia e in nessuna occasione presso il Tribunale per il Ruanda. In tal senso, si può certamente dire che la (153) DEGAN, On the Sources of International Criminal Law, in Chinese Journal of Int. Law, vol. 4, n.1, 2005, p. 48. (154) ICTY, Prosecutor v. Tadic, cit., 15 July 1999, par. 220. (155) HAAN, The Development of the Concept of JCE at the ICTY, op. cit., p. 170. (156) DANNER, MARTINEZ, Guilty Associations: Joint Criminal Enterprise, Command Responsibility, and the Development of International Criminal Law, op. cit., p. 107. Lo studio parte dal primo atto di accusa contenente il riferimento alla JCE, in data 25 giugno 2005. 59 sentenza Tadić is “still, today, the cornerstone of the ICTY and ICTR case law on the notion of joint criminal enterprise” (157). Dal momento che l’art. 7 dello Statuto del Tribunale per la ex Iugoslavia non prevede espressamente una responsabilità per la partecipazione ad un piano criminoso, risulta piuttosto ovvio che nemmeno gli elementi costitutivi di tale fattispecie siano in questo previsti. Per determinare dunque il contenuto di tale norma consuetudinaria, la Camera d’appello procede ad un’analisi della “chiefly case law and a few instances of international legislation” (158). In primo luogo, i giudici inquadrano il peculiare contesto in cui sorge una responsabilità di siffatta natura. È quella che viene definita “mob violence”, particolare situazione in cui una pluralità di persone commette una serie di atti criminali di diversa specie per perseguire uno scopo comune, ma risulta pressoché impossibile stabilire “which acts were carried out by which perpetrator” o “the causal link between each act and the eventual harm caused to the victims” (159). Nel dimostrare la natura consuetudinaria della norma JCE III e per determinarne gli elementi costitutivi la Camera si riferisce a due casi tra quelli celebrati nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale (160). Il primo è una sentenza di un tribunale militare inglese riguardante tre prigionieri di guerra linciati nella città di Essen da una folla impazzita (è il noto caso Essen Lynching (161)). La decisione venne presa nei confronti del capitano tedesco Heyer e altri sei imputati, cinque dei quali civili. Tutti gli accusati furono ritenuti responsabili di crimini di guerra per il fatto di essere implicati nell’uccisione dei tre non identificati aviatori inglesi. Heyer aveva consegnato i (157) OLASOLO, The Individual Responsibility of Senior Political and Military Leaders as principals to International Crimes, Oxford-Portland, 2006, p. 49. (158) ICTY, Prosecutor v. Tadic, cit., 15 July 1999, par. 194. (159) ICTY, Prosecutor v. Tadic, cit., 15 July 1999, par. 205. (160) La giurisprudenza emersa dai processi di Norimberga e Tokyo, e dai “subsequent trials” rimane il riferimento normativo fondamentale per la determinazione del diritto consuetudinario. Le argomentazioni giuridiche ivi contenute hanno assunto una rilevanza fondamentale con la nascita dei tribunali ad hoc, tornando di estremo interesse anche per la dottrina, cfr.. tra gli altri METTRAUX, (ed), Perspectives on the Nuremberg Trial, Oxford University Press, Oxford, 2008; BOISTER, CRYER, The Tokyo International Military Tribunal: A Reappraisal, Oxford University Press, Oxford, 2008; TOTANI, The Tokyo War Crimes Trial: The Pursuit of Justice in the Wake of World War II, Harvard University Press, Cambridge, 2009. (161) Trial of Erich Heyer and Six Others British Military (Essen Lynching Case), British Military Court sitting at Essen, 18-19, 21-22 Dicembre 1945, in Law-Reports of Trials of War Criminals, The United Nations War Crimes Commission, Volume I, London, HMSO, 1947. 60 prigionieri di guerra ad un gruppo di soldati affinché venissero portati presso una vicina unità della Luftwaffe per essere interrogati. Nel corso di tale consegna, il capitano Heyer ordinò a voce alta, in modo da essere udito, che i propri soldati non interferissero nel caso la folla intendesse aggredire i prigionieri poiché, in ogni caso, avrebbero dovuto essere fucilati. Dopo essere stati picchiati e colpiti con sassi e bastoni da una folla sempre più numerosa, i prigionieri vennero gettati da un ponte. Due dei tre aviatori, ancora vivi dopo la caduta, furono uccisi da alcuni spari provenienti dal ponte. La Camera d’appello del Tribunale per la ex Iugoslavia ritenne che fosse corretto dedurre dalla sentenza di condanna nei confronti di Heyer e dei tre militari e tre civili tedeschi per aver preso parte alla violenza di massa, che non è necessario dimostrare l’intento di ciascun partecipe del piano criminale di voler uccidere i militari inglesi, ma piuttosto quello di commettere un atto criminoso (il maltrattamento dei prigionieri) la cui prevedibile conseguenza era l’uccisione degli stessi: “the convicted persons who simply struck a blow or implicitly incited the murder could have foreseen that others would kill the prisoners” (162). Il secondo caso è, invece, una sentenza di un tribunale militare statunitense: Kurt Goebell et al., meglio conosciuto come Borkum Island case. Si tratta ancora una volta di un massacro compiuto da una moltitudine di individui, soldati e civili, per le strade di Borkum. Si ritenne che “each one who participated in any degree in the conspiracy is guilty of murder” (163). Ancor più interessante ai nostri fini l’applicazione della nozione di “incidental felony” secondo cui in sostanza, “all those who assemble themselves together with an intent to commit a wrongful act, the execution of whereof makes probable, in the nature of things, a crime not specifically designed, but incidental to that which was the object of the confederacy, are responsible for such incidental crimes” (164). I giudici passarono poi ad analizzare alcuni casi italiani del periodo immediatamente successivo alla seconda Guerra mondiale. Si tratta di due sentenze relative a crimini di guerra commessi da civili o personale militare della Repubblica Sociale Italiana e alcune pronunce sull’applicabilità del (162) ICTY, Prosecutor v. Tadic, cit., 15 July 1999, par. 209. (163) Kurt Goebell et al., (Borkum Island Case), US Military Tribunal sitting at Nuremberg, 6 febbraio – 21 marzo 1946, in Trials of War Criminals before the Nürnberg Military Tribunals under Control Conucil Law no. 10, p. 1190. (164) Ibidem, 1192 61 decreto di amnistia del 22 giugno 1946. In tutti questi casi è innegabile, ad avviso della Camera d’appello, che si fosse applicato il principio per cui un individuo può essere ritenuto responsabile di un crimine non previsto dal piano comune, con il solo limite che “the event must have been predictable” (165). In conclusione della propria analisi, i giudici del Tribunale si riferirono a due strumenti normativi che contengono la nozione di common plan, espressa peraltro in maniera molto simile. Si tratta dell’art. 2(3)(c) della Convenzione internazionale per la repressione di atti terroristici dinamitardi, firmata a New York il 9 dicembre 1999 e dell’art. 25 dello Statuto della Corte penale internazionale. Nonostante i due trattati non fossero entrati in vigore al momento della decisione, essi avevano nondimeno, ad avviso del Tribunale, un significante valore giuridico in quanto espressione della opinio juris di una larga parte degli Stati della comunità internazionale (166). Sebbene questa ultima affermazione possa essere condivisibile, l’interpretazione che le prime pronunce della Corte penale internazionale hanno dato della disposizione sembra divergere dal concetto di JCE. 4. Tentativi di riesame della figura e riflessioni intorno al principio di legalità all’interno del Tribunale per la ex Iugoslavia Nel presente paragrafo si intende in primo luogo riesaminare brevemente alcune delle incertezze sulla natura e sugli elementi costitutivi della JCE. Questa analisi ha il precipuo scopo di mostrare che i confini di tale criterio di attribuzione e l’esatta portata del suo contenuto non sono sempre stata chiari e ben definiti, ma hanno piuttosto oscillato tra soluzioni diverse e spesso contrapposte. Allo stesso modo, anche l’atteggiamento che il Tribunale per la ex Iugoslavia ha assunto nei confronti del principio del nullum crimen mostra orientamenti non sempre univoci. In particolare, in relazione alla compatibilità con quel principio delle norme consuetudinarie. Nella giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia troviamo una serie di decisioni che, pur non mettendo in discussione la natura di norma consuetudinaria della JCE, hanno di volta in volta proposto nuove e diverse (165) ICTY, Prosecutor v. Tadic, cit., 15 July 1999, par. 218. (166) Ibidem, par. 223. 62 letture riguardo agli elementi costitutivi dell’istituto (167) o, in alcuni casi, hanno persino cercato di intraprendere l’utilizzo di altri e distinti meccanismi ascrittivi. Nel caso Brđanin è noto il tentativo della Camera di prima istanza di considerare l’elemento dell’accordo criminoso come un “express agreement” piuttosto che una qualsivoglia comunione di intenti anche tacita e manifestata dal semplice agire congiunto (168). La previsione di un accordo espresso è stata rigettata in appello, ove secondo alcuni la JCE sarebbe stata “reconcpetualized”, mostrando tratti della diversa teoria del dominio sul fatto (o “control over the crime”) che abbiamo visto esser stata prescelta dalla Corte penale internazionale (169). Nel primo grado di giudizio della sentenza Stakić, fu avanzata nuovamente l’ipotesi che fosse più opportuno applicare un diverso modello ascrittivo per la criminalità di gruppo, fondato appunto sul concetto di “control over the act” (170). Tale soluzione fu rigettata in appello. Ma venne, come detto, in qualche modo ripresa proprio nel secondo grado di giudizio del caso Brđanin dove si ritenne che i leader politici e militari non debbono necessariamente essere membri della JCE, ma possono piuttosto usare i propri sottoposti appartenenti all’impresa criminale comune, come “tools” per l’attuazione dei crimini (concetto assimilabile a quello di indirect perpetration, (167) Non molti anni fa, è stato osservato che la “joint criminal enterprise still remains one of the most contentious issues in their (i tribunali ad hoc) jurisprudential life and its contours have fluctuated a great deal over the years”. Cfr. METTRAUX, International Crimes, op. cit., p. 175. (168) Per alcune critiche a questa prima decisione, cfr. GUSTAFSON, The requirement of an “Express Agreement” for Joint Criminal Enterprise, op. cit.. Vedi anche O’ROURKE, Recent Development: Joint Criminal Enterprise and Brdanin: Misguided Overconnection, in Harvard Journal of Int. Law, n. 47, 2006, p. 323. (169) ICTY, Prosecutor v. Brdanin, cit., 3 Aprile 2007. Cfr. van SLIEDREGT, System Criminality at the ICTY, in NOLLKAEMPER, VAN DER WILT, System Criminality in International Law, Cambridge, 2009, pp. 196-200. L’A. osserva che “Those who currently stand trial before the ICTY differ fundamentally from the first generation of defendants, like Tadic. Those who have been convicted in recent years have occupied senior positions in military and paramilitary circles and have been structurally remote from the battlefield. This is problematic because liability theories like JCE have been modelled on those first generation cases where defendants were often personally implicated in committing crimes and present at – or at least not remote from – the scene of the crimes. The need for reconcpetualizing existing liability theories may thus be perfectly justified. However, caution is required, especially since neither tribunal has at its disposal a clear framework within which a theory of liability is shaped, but where at the same time the legality principle and the culpability principle unequivocally apply” (p. 200). (170) Per un commento alla sentenza, si veda OLASOLO, CEPEDA, “The Notion of Control of the Crime and Its Application by the ICTY in the Stakic Case”, in International Criminal Law Review, n. 4, 2004, pp. 475-526. 63 poi come vedremo ripreso dalla Corte penale internazionale nella propria concezione della teoria del dominio del fatto) (171). L’elemento di incertezza fondamentale, che contraddistingue l’intera giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia, è relativo alla natura stessa della JCE. In altre parole, si tratta di stabilire se la JCE debba essere intesa come forma di “principal liability” (autoria, coautoria, autoria mediata), come in definitiva è stato affermato proprio in una decisione che tra poco per altri motivi analizzeremo (172), o piuttosto come criterio di attribuzione di una responsabilità accessoria (173). Occorre notare sin da ora che l’elemento di incertezza sulla esatta natura della norma incriminatrice e sui propri elementi costitutivi assume un ruolo fondamentale nel difficile rapporto tra norma consuetudinaria e rispetto del principio di legalità. Uno dei corollari fondamentali di tale principio concerne infatti la determinatezza e la tassatività del precetto penale. La mancanza di precisione e di certezza in merito al contenuto della norma incide quindi negativamente sulla prevedibilità ed accessibilità della stessa da parte dell’individuo. Tornando però ora alla questione che piú ci interessa, la natura consuetudinaria della JCE III è stata messa in discussione una prima volta da una mozione dell’ufficio difensivo nel caso Milutinović et al., nello specifico dalla difesa dell’imputato Dragoljub Ojdanić (174). Secondo quest’ultima, l’applicazione della JCE III avrebbe violato il principio del nullum crimen. Nella giurisprudenza dei tribunali ad hoc, il principio di legalità assume tuttavia come in parte visto una propria specifica forma. In particolare, diretta conseguenza dell’essere giurisdizioni istituite ex post-facto, è che la competenza ratione materiae attribuita a questi tribunali concerne crimini già esistenti nel diritto internazionale. Tuttavia, mentre nella sentenza Tadić, dove per la prima volta si affronta anche il ruolo del principio di legalità all’interno del Tribunale, la Camera d’appello aveva assegnato un qualche ruolo (171) ICTY, Prosecutor v. Brđanin, cit., 3 aprile 2007, parr. 410-414. (172) ICTY, Ojdanić Decision, cit., 21 maggio 2003. La Camera d’appello ha affermato che secondo il diritto consuetudinario: esiste una forma di responsabilità per coloro che agiscono all’interno di una joint criminal enterprise o di un piano criminale comune; ci sono tre diverse forme, con i propri distinti elementi costitutivi; e infine, la JCE costituisce una forma di coperpetration, una coautoria, ovvero una responsabilta principale e non accessoria. (173) Cfr. sul punto OLASOLO, The Individual Responsibility of Senior Political and Military Leaders, op. cit., pp.43 e ss. e giurisprudenza ivi citata. Sul punto si veda infra, cap. III, par. 2. (174) ICTY, Milutinović et al., General Ojdanic’s Preliminary Motion Challenging Jurisdiction: Indirect Co-Perpetration, IT-05-87, 7 ottobre 2005. 64 nell’identificazione della legge applicabile anche ai trattati internazionali (175), nella decisione in esame il Tribunale sembra aver intrapreso una strada in parte diversa “limiting to customary international law the nullum crimen sine lege analysis” (176), sviluppando e chiarendo in tal senso una linea di tendenza che era già emersa in una nota e precedente decisione concernente gli attacchi contro obiettivi civili (177). Anche i requisiti che la Camera d’appello individua per determinare su quali violazioni del diritto umanitario debba esercitare la propria giurisdizione, differiscono in una certa misura da quelli che vedremo essersi affermati in altre decisioni (178). Nella richiesta della difesa Ojdanić, oltre a negare la natura di norma consuetudinaria della JCE, si sostiene che tale forma di attribuzione della responsabilità non è prevista dallo Statuto del Tribunale e la sua applicazione rappresenta quindi una violazione del principio nullum crimen sine lege (179). Nella nota decisione, tuttavia, il Tribunale conclude che lo Statuto non è “a meticulously detailed code” che prevede ogni possibile scenario o soluzione normativa. La Camera del Tribunale non procede dunque ad una rivalutazione della prassi proposta nella sentenza Tadić, ma semplicemente ribadisce che si (175) Nel rapporto del Segretario generale si parla di “existing international humanitarian law”, di natura consuetudinaria o pattizia. Le norme convenzionali, tuttavia, devono essere “beyond any doubt part of customary international law”. Cfr. Report of the Secretary General, S/25704, 3 maggio 1993, parr. 29-34. Nel caso Tadic, dove per la prima volta si pose il problema del diritto applicabile e del rispetto del principio di legalità, la camera d’appello commentando queste considerazioni contenute nel Report ha affermato che: “It should be emphasised again that the only reason behind the stated purpose of the drafters that the International Tribunal should apply customary International law was to avoid violating the principle of nullum crimen sine lege in the event that a party to a conflict did not adhere to a specific treaty (Report of the Secretary-General, par. 34). It follows that the International Tribunal is authorised to apply, in addition to customary international law, any treaty which: (i) was unquestionably binding on the parties at the time of the alleged offence; and (ii) was not in conflict with or derogating from peremptory norms of international law, as are most customary rules of international humanitarian law”. ICTY, Prosecutor v. Tadić, Decision on the Defence Motion for Interlocutory Appeal on Jurisdiction, IT-94-1-AR72, 2 ottobre 1995, par. 143. (176) Cfr. OLASOLO, International Criminal Court and International Tribunals: Substantive and Procedural Aspects, in JIMÉNEZ PIERNAS, (ed.), The Legal Practice in International Law and European Community Law, A Spanish Perspective, Leiden, 2007, pp. 174 e ss. L’ A. nota come questo passaggio abbia trovato successiva conferma, cfr. ICTY, Prosecutor v. Enver Hadzihasanović, Decision on Interolcutory Appeal Challenging Jurisdiction in Relation to Command Responsibility, 01-47-AR 72, Appeals Chamber, 16 luglio 2003 (177) ICTY, Prosecutor v. Strugar, Decision on Interlocutory Appeal, 01-42-AR72, Appeals Chamber, 22 novembre 2002, parr. 9-10-13. (178) ICTY, Prosecutor v. Tadić, Decision on the Defence Motion for Interlocutory Appeal on Jurisdiction, cit., 2 ottobre 1995, par. 94. La violazione deve essere “an infringment of a rule of international humanitarian law”; si deve trattare di una norma “customary in nature”; deve essere “serious”, ossia la violazione di una norma che protegga valori fondamentali e comporti gravi conseguenze per la vittima; tale violazione deve inoltre, sulla base del diritto consuetudinario o convenzionale esistente, implicare una responsabilità penale. (179) ICTY, Prosecutor v. Milutinović et al., General Ojdanic’s Preliminary Motion Challenging Jurisdiction: Indirect Co-Perpetration, 7 October 2005. 65 ritiene “satisfied that the state practice and opinio juris reviewed in that decision was sufficient to permit the conclusion that such norm existed in customary international law in 1992” (180). Un riesame della prassi riportata a fondamento della natura consuetudinaria della JCE III sarebbe stato certamente preferibile ad una mera statuizione di principio sulla correttezza di quanto determinato nella sentenza Tadić (181). Sul punto è interessante notare che, nella propria opinione separata, il presidente della Camera d’appello Mohamed Shahabuddeen, ha ritenuto che ciò che veniva statuito nella sentenza Tadić in materia di JCE dovesse essere considerato un mero obiter dictum, proprio poiché non era frutto di un’attenta ed esaustiva disamina della prassi e dell’opinio juris degli Stati (182). È stato osservato che l’impostazione seguita dal Tribunale, nel senso accennato di attribuire un ruolo assolutamente centrale alle norme consuetudinarie rispetto ai trattati, rappresenta in qualche modo una forma di ulteriore distacco e allontanamento del diritto internazionale penale rispetto al diritto penale interno (183). La sentenza introduce, al contrario, delle affermazioni importanti in merito al diritto applicabile, al rispetto del principio di legalità e al ruolo che a tal fine può essere assunto dal diritto interno. Il Tribunale sembra infatti assegnare un ruolo rilevante, ancorché non decisivo, al diritto interno nella determinazione della legge applicabile. Vengono individuate quattro condizioni per cui una forma di attribuzione della responsabilità penale internazionale possa essere applicata dai giudici del Tribunale: - “the form of liability in question must be explicitly or implicitly envisaged by the ICTY Statute; - it must have existed in customary international law; - the law providing for that form of liability must have been sufficiently accessible at the relevant time to anyone who acted in such a way; (180) ICTY, Decision on Dragoljub Ojdanic’s Motion Challenging Jurisdiction – Joint Criminal Enterprise, cit., 21 maggio 2003. (181) Sul punto cfr. POWELS, Joint Criminal Enterprise. Criminal Liability, op. cit., vol.2, n.2, 2004, p. 615. (182) Ojdanić Decision, cit., Separate Opinion of Judge Shahabuddeen, parr. 22-24. (183) OLASOLO, International Criminal Court, op. cit., p. 177. 66 - the accused person must have been able to foresee that his or her conduct was a penal offence (184)”. Ci interessano in particolare le ultime due condizioni, legate agli elementi della accessibilità e prevedibilità della norma applicabile. Dal ragionamento compiuto dai giudici nell’individuare questi quattro elementi, sembra che l’elemento dell’accessibilità della norma consuetudinaria possa dipendere, o piuttosto sia meglio garantito, da una corrispondenza del diritto internazionale al diritto interno. Le parole del Tribunale sono abbastanza chiare in merito. Infatti, “It [il Tribunale] does, as pointed out above, apply customary international law in relation to its jurisdiction ratione materiae. It may, however, have recourse to domestic law for the purpose of establishing that the accused could reasonably have known that the offence in question or the offence committed in the way charged in the indictment was prohibited and punishable” (185). Si tratta di quello che è stato definito un “proximity factor” (186) e che sembra rappresentare una delle garanzie del rispetto del principio di legalità nell’applicazione di una norma consuetudinaria. È stato osservato, infatti, che quanto emerge da questa giurisprudenza è che “the principle of legality […] compels the judge to look at custom from the standpoint of the individual” (187). Nella decisione la Camera ritiene che la JCE rispetti le quattro condizioni menzionate e sia “beyond doubt” parte del diritto consuetudinario (184) Par. 21. Queste quattro condizioni trovarono poi conferma proprio prima in una decisione concernente la responsabilità del superiore (ICTY, Prosecutor v. Hadzihasanovic, Decision on Interlocutory Appeal Challenging Jurisdiction in Relation to Command Responsibility, par. 32) e poi nel caso Stakic dove la camera d’appello escluse che il meccanismo ascrittivo “co-perpetration” facesse parte del diritto consuetudinario. ICTY, Prosecutor v. Stakic, 97-24-A, Appeals Chamber, Judgement , 22 marzo 2006, par. 62. (185) ICTY, Decision on Dragoljub Ojdanić’s Motion Challenging Jurisdiction: Joint Criminal Enterprise, Milutinovic et al.,cit., 21 May 2003, par. 40. Per un commento, si veda VAN DER WILT, in Annotated Leading Cases of International Criminal Tribunals: the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia 2003, KLUIP, SLUITER (ed.), vol. 14, 2008. (186) GRADONI, Nullum Crimen Sine Consuetudine – A few Observations on How the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia Has Been Identifying Custom, in Agorae Paper of the ESIL, 2004, p. 15. In questo senso vedi anche METTRAUX, International Crimes, op. cit., p. 13: “Even where the Tribunal is satisfied that a particular prohibition exists under customary international law, it must still establish that this prohibition applies to individual (and not only to States), that the standards that it sets out is sufficiently foreseeable and accessible to meet the requirements of the principle of legality”. (187) GRADONI, Nullum Crimen, op. cit., p. 15. 67 (188). Tuttavia, quest’ultimo riconoscimento non è sufficiente a garantire l’accessibilità e la prevedibilità di questa forma di attribuzione della responsabilità. Infatti, secondo il Tribunale per la ex Iugoslavia, l’esistenza di tale meccanismo ascrittivo nel diritto interno e la gravità dei crimini in oggetto hanno contribuito in modo determinante a stabilire che l’imputato fosse consapevole del fatto che i crimini commessi attraverso la propria partecipazione al piano criminale comune, seppur non direttamente voluti, gli sarebbe stati imputati (189). Tale ragionamento sembra dunque implicare che l’esistenza nel diritto interno di un modello di attribuzione della responsabilità simile alla JCE III riveste un qualche ruolo nella verifica del rispetto del principio di legalità. Occorre anche tener presente che in un’altra e successiva decisione il test che la norma consuetudinaria deve superare per garantire il rispetto del principio di legalità assume diversa natura. Nelle parole della Camera di primo grado del Tribunale per la ex Iugoslavia, infatti, “as long as it is clear that the form of responsibility in question existed in customary international law at the time of the commission of the substantive crime, a conviction pursuant to that form of responsibility necessarily complies with the nullum crimen sine lege” (190). Nel primo caso, dunque, il Tribunale ha dato un rilievo decisivo alla presenza nel diritto interno di un meccanismo di attribuzione della responsabilità assimilabile alla JCE; nel secondo, invece, i giudici sembrano sostenere che la natura consuetudinaria di una norma implica automaticamente la compatibilità di questa con il principio del nullum crimen sine lege. 5. La Joint Criminal Enterprise davanti alle Camere cambogiane Come si è accennato, il contrasto tra l’applicazione della JCE e il principio di legalità è recentemente emerso all’interno delle Camere (188) Da notare, tuttavia, la posizione separata sul punto del giudice Shahabudden. Cfr. The Prosecutor v. Tadić, cit., 15 July 1999, p. 150. (189) ICTY, Decision on Dragoljubic Ojdanic’s Motion Challenging Jurisdiction – Joint Criminal Enterprise, Prosecutor v. Milutinovic, Sainovic, Ojdanic, IT-99-37-AR72, cit., 21 maggio 2003. (190) ICTY, Decision on Ojdanic’s Motion Challenging Jurisdiction: Indirect Coperpetration, cit., 22 marzo 2006, par. 15. 68 straordinarie cambogiane (Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia, ECCC). Queste sono state istituite a seguito di lunghissime trattative tra il governo cambogiano e le Nazioni Unite (191), al fine di perseguire i principali responsabili dei crimini commessi durante il regime di Pol Pot negli anni dal 1975 al 1979. Le Camere sono incardinate nel sistema giurisdizionale cambogiano anche se la loro composizione è in parte internazionale (192). In generale, il criterio di attribuzione JCE ha trovato conferma anche davanti alle Camere cambogiane che ne hanno riconosciuto l’applicabilità nella propria giurisdizione. Secondo alcuni, in particolare, proprio le peculiarità della JCE, la sua capacità in sostanza di imputare le conseguenze di una politica criminale generalizzata a degli individui fisicamente distanti dalla scena del crimine, rende tale forma di attribuzione della responsabilità assolutamente indispensabile per perseguire i responsabili dei crimini commessi in Cambogia (193). Nel caso Duch, il primo presentato davanti alle Camere, i giudici di primo grado hanno emesso una sentenza di condanna a trent’anni (ridotta di cinque anni a causa dell’ingiusta detenzione dell’imputato durante il processo) per crimini contro l’umanità e gravi violazioni della Convenzione di Ginevra del 1949, proprio sulla base della seconda forma di JCE (JCE II). Non si sono, tuttavia, espressi sulla natura consuetudinaria e la potenziale applicazione da parte delle Camere della JCE III (194), non essendo rilevante al fine di decidere quello specifico caso. Nel successivo caso sottoposto alle Camere, si è riproposta la questione dell’applicazione della JCE III. Una decisione della Camera preliminare del 20 (191) Agreement between the United Nations and the Royal Government of Cambodia concerning the Prosecution under Cambodian Law of Crimes Committed during the period of Democratic Kampuchea, 6 giugno 2003. (192) Per un interessante studio su alcune delle principali problematiche legate alla creazione e al funzionamento delle camere e, in particolare, per quanto concerne alcuni aspetti legati alla loro imparzialità e indipendenza e ad alcuni innovativi elementi di procedura, cfr. Symposium: Cambodian Extraordinary Chambers: Justice at Long Last?, in Journal of Int. Criminal Justice, vol. 4, 2006, pp. 283-341, contributi di COCKAYNE, DE BERTODANO, INGADOTTIR, LEJMI, BOYLE, SLUITER, LINTON. Più in generale si veda anche, JORGENSEN, The Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia and the Progress of the “Khmer Rouge” Trials, Yearbook of Humanitarian Law 2008, pp. 373-389. (193) SCHARF, To JCE or not JCE? Insights from the Cambodian Tribunal, 23 giugno 2009, lezione tenuta presso The Grotius Centre a L’Aja, affermazioni riportate in MARSH, RAMSDEN, Joint Criminal Enterprise: Cambodia’s Reply to Tadic, in International Criminal Law Review, n.1, 2011, p. 139. (194) ECCC, Co-Prosecutor v. Kaing Guek Eav, alias Duch, 001/18/07/2007-ECCC/TC, Trial Chamber, Judgement, 26 luglio 2010. 69 maggio 2010, infatti, ha sollevato una serie di interessanti problematiche, legate proprio al potenziale contrasto dell’applicazione della JCE III con il principio di legalità, che hanno portato i giudici ad escluderne l’impiego. Nonostante ciò, i Co-prosecutors di quel tribunale hanno recentemente riproposto l’utilizzo della figura (195) e la Camera di primo grado ha ribadito, in modo piú conciso, quanto contenuto nella decisione che ci accingiamo ad analizzare (196). La decisione della Camera preliminare si colloca nell’ambito della fase istruttoria del processo contro alcuni dei principali capi politici del regime cambogiano (c.d. Democratic Kampuchea) per i crimini commessi tra il 1975 e il 1979, in particolare: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra ed altri crimini previsti dalla legge cambogiana quali l’omicidio, la tortura e la persecuzione per motivi religiosi (197). La pronuncia è stata adottata in seguito ad una complessa fase processuale prevalentemente scritta durata quasi due anni e avviata con il deposito da parte della difesa di uno degli imputati di una mozione tesa a far dichiarare la JCE inapplicabile al caso di specie. La richiesta era fondata sostanzialmente su di un presunto contrasto con il principio di legalità. A sostegno di tale tesi si negava la natura consuetudinaria della JCE e si sottolineava la mancata previsione normativa della stessa sia nella legge istitutiva delle Camere sia nella legge interna cambogiana. Inoltre, si sottolineava che la JCE non trova alcun riconoscimento nelle convenzioni delle quali la Cambogia è parte (198). L’8 dicembre 2009, i giudici istruttori, riprendendo le argomentazioni contenute nella già citata sentenza Tadić, hanno espresso l’opinione secondo cui va riconosciuta natura consuetudinaria al concetto di JCE. Di conseguenza, la sua applicazione da parte delle Camere cambogiane, per quanto concerne i (195) ECCC, Co-Prosecutor v. Ieng Thirith, Ieng Sary, Kieuh Samphan, Co-Prosecutors’ Request For the Trial Chamber to Consider JCE III As An Alternative Mode of Liability, Nuon et al., 002/10-09-2007, Trial Chamber, 17 giugno 2011. (196) ECCC, Decision on the Applicability of Joint Criminal Enterprise, Trial Chamber, 12 settembre 2011. (197) Articoli 3, 4, 5 e 6 della Law on the Establishment of the Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia, ECCC Law. (198) ECCC, Co-Prosecutor v. Ieng Thirith, Ieng Sary, Kieuh Samphan, Ieng Sary’ lawyers Motion against the application at the ECCC of the form of liability known as “Joint Criminal Enterprise”, 002/10-09-2007, 28 luglio 2008, parr. 18-33 70 crimini internazionali previsti nella legge istitutiva, non sarebbe in contrasto col principio del nullum crimen (199). Questo documento è stato oggetto di diverse impugnazioni da parte degli imputati. Le difese di questi, infatti, ne chiedevano l’annullamento, fondando la propria argomentazione sui seguenti elementi: l’ambiguità della sua formulazione; l’insufficienza della giurisprudenza Tadić a costituire un precedente su cui fondare la natura consuetudinaria della norma e a far rientrare la JCE in una forma di commissione del crimine (“committing”) sulla base dell’art. 29 della ECCC Law (tale disposizione rispecchia fedelmente gli articoli 7 dello Statuto del Tribunale per la ex Iugoslavia e 6 dello Statuto del Tribunale per il Ruanda); la mancanza di un riferimento normativo interno che prevedesse l’esistenza della seconda e della terza forma di JCE nel sistema penale cambogiano in vigore negli anni rilevanti; ed infine, l’impropria applicazione diretta del diritto internazionale consuetudinario in assenza di un meccanismo interno di incorporazione (200). Le parti civili ed i Co-Prosecutors ritenevano, al contrario, che la JCE fosse sancita da una norma consuetudinaria sin dagli anni ‘40 e che la sua applicazione in quanto norma di diritto internazionale generale dovesse essere automatica; le parti civili asserivano, inoltre, che la JCE esistesse come forma di attribuzione della responsabilità nel codice cambogiano del 1956 almeno nelle sue prime due espressioni (JCE I e II) e fosse prevista in tale quadro normativo con l’espressione ‘coaction and complicité’ (201). (199) ECCC, Order on Application at the ECCC of the Form of Liability Known as Joint Criminal Enterprise, 002/10-09-2007, Co-Investigating Judges, 8 dicembre 2009, parr. 12-23. (200) ECCC, Co-Prosecutors v. Ieng Sary, Ieng Thirith, Khieu Samphan, Ieng Sary’s appeal against the OCIJ’s order on the application at the ECCC of the form of liability known as joint criminal enterprise, 22 gennaio 2010, parr. 25-84; ECCC, Co-Prosecutors v. Ieng Sary, Ieng Thirith, Khieu Samphan, Ieng Thirith Defence Appeal against “Order on the Application at the ECCC of the Form of Liability Known as Joint Criminal Enterprise" of 8 December 2009, 18 gennaio 2010, parr. 9-75. (201) ECCC, Co-Prosecutors v. Ieng Sary, Ieng Thirith, Khieu Samphan, Co-Prosecutors' Joint Response to Ieng Sary, Ieng Thirith and Khieu Samphan's Appeal on Joint Criminal Enterprise, 19 febbraio 2010, parr. 32-64; ECCC, Co-Prosecutors v. Ieng Sary, Ieng Thirith, Khieu Samphan, Appeal Brief against the Order on the Application at the ECCC of the Form of Liability known as Joint Criminal Responsibilty, 8 gennaio 2010, parr. 7-13 71 5.1. Negazione della natura consuetudinaria della JCE III L’aspetto certamente più rilevante della decisione in esame concerne la conclusione cui questa approda, ovvero l’esclusione dell’applicazione della terza forma di JCE. Secondo la Camera preliminare la JCE III non aveva natura consuetudinaria all’epoca dei fatti (1975-1979). Ciò viene dimostrato attraverso una serrata critica della sentenza Tadić. Per quanto concerne la possibilità di inquadrare la JCE come principio generale di diritto le Camere cambogiane non sembrano discostarsi dalla posizione assunta dal Tribunale per la ex Iugoslavia. Nella sentenza Tadić, infatti, si afferma che la nozione di common purpose trova fondamento in diversi ordinamenti interni. Tuttavia si sostiene che - e questo sembra il corretto approccio anche ad avviso delle Camere cambogiane - all’affermazione della JCE III come principio generale di diritto si dovrebbe pervenire sulla base della sua diffusione nella maggior parte, se non in tutti, gli Stati. E la Camera d’appello del Tribunale per la ex Iugoslavia chiaramente afferma che non è questo il caso della JCE (202). La Camera cambogiana, pur confermando l’applicabilità delle prime due categorie di JCE, assume dunque un nuovo atteggiamento e sviluppa una propria analisi sulla terza, negandone in definitiva la natura consuetudinaria. Occorre rimarcare che le Camere cambogiane sono chiamate a giudicare eventi avvenuti tra il 1975 e il 1979. Per poter determinare la conoscibilità della norma incriminatrice da parte dell’imputato e dunque il rispetto del principio di legalità, le Camere possono quindi riferirsi unicamente alla prassi giurisprudenziale rilevante fino a quel periodo. Al contrario, il Tribunale per la ex Iugoslavia, come anche altri tribunali penali internazionali, può fondare i propri giudizi su di un arco temporale più esteso (203). Sembra però corretto affermare che “there were no relevant major developments in (202) ICTY, Prosecutor v. Tadic, cit., 15 July 1999, cit., par. 225. ECCC, Decision, cit., par. 85. (203) Nella recente decisone del Tribunale per il Libano sul terrorismo, che avremo modo di analizzare meglio e per altri motive nel capitolo seguente, sembra sostenersi chiaramente che le diverse conclusioni cui arriva il Tribunale, confermando la natura consuetudinaria della JCE (compresa la terza forma), sono dovute al diverso materiale giurisprudenziale disponibile. “Suffice to say that the Tribunal's current jurisdiction ratione temporis necessarily entails consideration of jurisprudence and legal developments unavailable to the ECCC, starting from the early I990s”, STL, Interocutory Decision on the applicable Law: Terrorism, Conspiracy, Homicide, Perpetration, Cumulative Charging, cit., 16 Febbraio 2011, nota 360, al par. 239. 72 international humanitarian law between 1975 and the establishment of the ICTY in 1993” (204). In altre parole, rilevare il fatto che la JCE debba essere applicata a dei crimini commessi in un periodo antecedente alla creazione dei tribunali ad hoc, non appare decisivo per negare la natura consuetudinaria di un meccanismo di attribuzione della responsabilità che si è affermato, secondo le parole del Tribunale per la ex Iugoslavia, già al termine del processo di Norimberga e dei “subsequent trials” (205). Ora, sembra difficile mettere in discussione l’assunto che la Carta di Norimberga, il Control Council Law n. 10 e tutti i processi successivi alla seconda Guerra mondiale costituiscano il nucleo essenziale delle norme sulla responsabilità penale individuale in diritto internazionale, e rappresentino, nei termini utilizzati proprio all’interno delle Camere cambogiane, “a Grotian Moment”, un cambiamento così fondamentale per il funzionamento del sistema internazionale da permettere la nascita, quasi istantanea, di nuove norme consuetudinarie (206). Nemmeno può essere negata la natura di “authoritative declaration of customary international law” della risoluzione dell’Assemblea generale in cui si affermano i principi emersi dal processo di Norimberga (207). Non molti anni or sono, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto la “universal validity” di quei principi (208). La natura consuetudinaria di questi ultimi è stata poi ribadita anche nella risoluzione del Consiglio di sicurezza con la quale è stato approvato lo Statuto del Tribunale per la ex Iugoslavia. In quest’ultimo si sottolinea però che troveranno applicazione solo quelle norme di diritto internazionale umanitario che “are beyond any doubt part of customary law”, pretendendo in tal modo (204) ECCC, Co-Prosecutors' Joint Response, cit., par. 8. (205) Cfr. sul punto anche DAMGAARD, Individual Criminal Responsiblity for Core International Crimes, New York, 2008, p. 132, ove si afferma chiaramente che “the origins of the JCE Doctrine can be found in the events surrounding the end of World War II”. (206) ECCC, Co-Prosecutors v. Ieng Sary, Ieng Thirith, Khieu Samphan, Co-Prosecutors’ Supplementary Observations on Joint Criminal Enterprise, 002/19-09-2007-ECCC/OCIJ, 31 dicembre 2009, cfr. SCHARF, Joint Criminal Enterprise, the Nuremberg Precedent, and the Concept of “Grotian Moment”, in ISAACS, VERNON, Accountability for Collective Wrongdoing, Cambridge, 2011, p. 121. (207) Affirmation of the Principles of International Law Recognized by the Charter of the Nuremberg Tribunal, G.A. Res. 95(I), U.N. GAOR, 1st Sess., U.N. Doc A/236, (Dec.11, 1946), pt. 2, at 1144. Cfr. sul punto, SCHARF, Seizing the “Grotian Moment”: Accelerated Formation of Customary International Law in Times of Fundamental Change, in Cornell Int. Law Journal, vol. 43, 2010, p. 454-455. In particolare, rileva ai nostri fini il principio VII, ove si afferma che: “Complicity in the commission of a crime against peace, a war crime, or a crime against humanity as set forth in Principle VI is a crime under international law”. (208) ECHR, Kolk and Kislyiy v. Estonia, Decision on Admissibility, 17 gennaio 2006. 73 un’elevata soglia di certezza nella determinazione della natura consuetudinaria di una norma (209). Si tratta allora di vedere se la terza categoria di Joint Criminal Enterprise possa essere ricompresa tra le forme di attribuzione della responsabilità emerse dalla giurisprudenza successiva al secondo conflitto mondiale e se questa si sia affermata oltre ogni ragionevole dubbio nel diritto internazionale consuetudinario. Le prime due forme, come detto, non hanno suscitato particolari critiche. È necessario, infatti, tener presente che il Tribunale di Norimberga ha impiegato espressioni molto simili al concetto essenziale di impresa criminale comune, come quelli di “common plan” o “common design”. Anche la Commissione di diritto internazionale nel suo primo progetto di codice del 1956 aveva previsto “the principle of individual criminal responsibility for formulating a plan or participating in a common plan or conspiracy to commit a crime” (210). Inoltre, e questo aspetto come vedremo assume un’importanza particolare ai nostri fini e nel merito della decisione, le Camere riconoscono anche che la “JCE has an underpinning in Cambodian Law. Co-perpetration was defined as “coaction” in the Codes of 1929 and 1956, and its most important requirement was a common agreement between the two coperpetrators”. Tuttavia, per quanto concerne forme di concorso anomalo, quale la JCE III, quella stessa nozione di “coaction” “did not encompass acts outside the agreement; these could only be punished as complicity” (211). Anche se i due modelli ascrittivi (JCE e coaction) non sono “exactly the same”, nel ragionamento dei giudici il fatto che un meccanismo di attribuzione della responsabilità assimilabile nei suoi elementi essenziali alla JCE sia previsto nell’ordinamento interno “may be relevant when determining whether it was foreseeable” (212). Occorre ricordare sul punto che la peculiarità della terza forma consiste nel prevedere una responsabilità in qualità di autore per un soggetto che non ha voluto l’evento, ma che avrebbe dovuto prevederlo come naturale conseguenza dell’attuazione del piano criminale, assumendo consapevolmente il rischio che (209) Report of the Secretary-General Pursuant to Paragraph 2 of Security Council Resolution 808, Security Council, parr. 34– 35, U.N. Doc. S/25704 (May 3, 1993). (210) ILC, Code of Offences against the Peace and Security of Mankind, in Yearbook of the International Law Commission, 1954, vol. II. (211) ECCC, Decision, cit. par. 41. (212) Ibidem, par. 45. 74 ciò accadesse. Non sembra dunque nemmeno condivisibile l’impostazione che appare ritenere necessario un approccio unitario al modello JCE e farne salva un’applicazione tout court, senza alcuna distinzione tra le diverse categorie, ritenendo che solo attraverso tale strumento “the court is able to effectuate the object and purposes of the ECCC” (213). Pur se comprese in un unico contenitore, le tre forme di JCE restano criteri di attribuzione della responsabilità distinti tra loro e che devono dunque essere analizzati distintamente. Più in generale, in materia penale risulta discutibile invocare le finalità del trattato per legittimare l’applicazione di norme incriminatrici che devono piuttosto trovare il proprio fondamento nel diritto esistente, sia questo di natura consuetudinaria o scritta. In altre parole, fondare l’applicabilità o meno di un meccanismo di attribuzione della responsabilità sulla necessità di colpire i principali responsabili di determinati crimini sembra equivalere ad un giudizio preventivo di colpevolezza di quei soggetti. Sul punto è stato giustamente osservato che “[L]egislature may create forms of liability based on public policy considerations. Judges may not create law by legislating from the Bench; they must simply apply law faithfully as it is handed to them by the legislators entrusted with drafting and adopting laws” (214). Ciò è stato sostenuto dallo stesso Tribunale per la ex Iugoslavia, quando ha affermato che: ‘‘[P]olicy considerations are inapposite as a basis for a theory of individual criminal responsibility’ (215). Si impone, dunque, un’analisi della giurisprudenza cui il Tribunale per la ex Iugoslavia ha fatto riferimento. (213) SCHEFFER, DINH, The Pre-Trial Chamber’s Significant Decision on Joint Criminal Enterprise for Individual Responsibility, Cambodia Tribunal Monitor, 3 giugno 2010. L’argomento è stato portato avanti anche di fronte alle camere cambogiane, in particolare, nel contributo come amicus curiae, del Professor Cassese: “JCE liability should be applied in appropriate cases at the Extraordinary Chambers to ensure accountability for the full gravity of crimes, where the exact role that each participant had in a common purpose may be obscured by the massive scale and complexity of the crime”. Amicus Curiae Brief of Professor Antonio Cassese and Members of the Journal of International Criminal Justice on Joint Criminal Enterprise Doctrine, 27 ottobre 2008, p. 8. (214) KARNAVAS, Joint Criminal Enterprise at the ECCC: A Critical Analysis of the Pre-Trial Chamber’s Decision Against the Application of JCE III and two Divergent Commentaries on the Same, in Criminal Law Forum, vol. 21, n. 3, 2010, pp.466-467. (215) Prosecutor v. Brdanin, cit., 3 April 2007, par. 421. cfr. anche OLASOLO, Joint Criminal Enterprise and its Extended Form: A Theory of Co-Perpetration Giving Rise to Principal Liability, A Notion of Accessorial Liability, or a Form of Partnership in Crime?, in Criminal Law Forum, n. 20, 2009, p. 285. 75 La prima decisione concerne il noto e già menzionato Essen Lynching Case. Nel processo, Heyer, sotto il cui comando era posta l’unità militare incaricata di custodire i tre britannici e portarli presso una delle unità aeronautiche militari tedesche, ha confessato di aver ordinato ai propri soldati “not to interfere with the crowd if they should molest the prisoners” durante tale tragitto. La pubblica accusa individuò, attraverso un’efficace metafora, tre momenti fondamentali della violenza collettiva. L’incitamento del capitano Heyer che “lit the match”, ogni singolo individuo della folla impazzita che diede “flame to the fuel” e l’esplosione finale sul ponte. Difficile negare che la metafora e in generale l’espressione usata dal Procuratore “concerned in the killing” risultano essere piuttosto vaghe, e non supportate da un “reasoned judgement”, da una sentenza che confermi l’esattezza di queste considerazioni e la loro portata (216). In altre parole, è arduo ricondurre questo precedente, una sentenza poco lineare e oscura nel suo fondamento giuridico, ad un complesso meccanismo ascrittivo come quello della JCE III. La Camera preliminare cambogiana ha riconosciuto che il caso può in astratto rivelarsi utile ai fini di un’identificazione delle origini di un criterio di imputazione analogo alla JCE III. Tuttavia ha correttamente concluso che “one cannot be certain” della forma di attribuzione della responsabilità in concreto impiegata, in assenza di elementi che chiariscano l’esatto ruolo dei partecipanti in quei crimini, come autori o complici, oppure lo standard dell’elemento soggettivo richiesto e il grado necessario di partecipazione materiale dell’imputato. Il secondo caso su cui la sentenza Tadić ha fatto leva per dimostrare l’origine consuetudinaria della terza forma di JCE è, come già visto, United States v. Kurt Goebell et. al., meglio conosciuto come caso Borkum Island. Riprendendo le parole dell’accusa, la Camera d’appello ribadisce che tutti gli imputati del caso di specie erano “cogs in the wheel of common design, all equally important, each cog doing the part assigned to it. And the wheel of wholesale murder could not turn without all the cogs” (217) . La Camera precisa, infine, che il sodalizio criminoso per cui tutti gli imputati sono stati ritenuti colpevoli concerne l’assalto ai prigionieri di guerra. Solo alcuni tra gli imputati però sono stati ritenuti responsabili degli omicidi “even where there (216) ECCC, Decision, cit., par. 79. (217) ICTY, Prosecutor v. Tadic, cit., 15 July 1999, par. 210 76 was no evidence that they had actually killed the prisoners”, ma in virtù del loro status, ruolo o condotta “were in a position to have predicted that the assault would lead to the killings of the victims by some of those participating in the assault” (218). La Camera d’appello del Tribunale per la ex Iugoslavia ha quindi ritenuto determinante l’interpretazione data dall’accusa assumendo che, dal momento che vi era stata una condanna degli imputati, la tesi accusatoria corrispondesse implicitamente a quella prescelta dai giudici della causa. Tuttavia, come recentemente affermato, “in the absence of a legal member to clearly describe the law applicable to such a complex case, the transcript does not reveal whether conflicting arguments were reconciled by resort to extend JCE responsibility or less expansive theories” (219). In entrambi i casi, sembra corretto quanto osservato in uno dei documenti sottoposti alle Camere da parte degli amici curiae, nel quale si sostiene che nessuna delle due sentenze è sufficientemente “clear on the role of each participant” ma piuttosto, come sembra essere avvenuto nella sentenza Tadić, “court’s findings must be inferred from the prosecution’s arguments and the eventual finding of guilt” (220). Da un lato, dunque, i due casi non sono chiari, nemmeno nelle parole delle pubbliche accuse, nel determinare l’esatta estensione e natura del criterio di imputazione prescelto; dall’altro, non abbiamo alcuna indicazione su quale fosse la posizione dei giudici al riguardo, né vi è modo di risalirvi, se non presumendo che, essendo giunti a una sentenza di condanna, la tesi accolta fosse quella dell’accusa. Per quanto concerne quella giurisprudenza nazionale, in particolare italiana, cui il Tribunale per la ex Iugoslavia ha attribuito una certa rilevanza, appare condivisibile quanto osservato in un ulteriore documento presentato dagli amici curiae e cioè che in quegli specifici casi, a differenza delle cause pendenti di fronte ai tribunali militari inglese e americani, “no international (218) Ibidem, par. 213 (219) CLARKE, Return to Borkum Island, Extended Joint Criminal Enterprise Responsibility in the Wake of World War II, Journal of Int. Criminal Justice, n. 9, 2011, p. 853. (220) Amicus curiae Brief on Joint Criminal Enterprise in the Matter of the Co-Prosecutors’ Appeal of the Closing Order Against Kaing Guek Eav “Duch” dated 8 August 2008, McGill University, 27 ottobre 2008, p. 10. Nonostante ciò, nel documento si sostiene che “there is some evidence to support the general existence of the third category of JCE already in the early years after the Second World War”. 77 law was relied upon, but exclusively the national law” (221). Non vi è dubbio, infatti, che non possano essere utilizzati alcuni sparuti casi nazionali a sostegno di una prassi diffusa a livello internazionale o dell’esistenza di un principio generale di diritto. 5.2. L’esclusione della terza forma in nome del principio di legalità Prima di entrare nel merito della decisione, e del ruolo in particolare svolto dal principio di legalità, occorre brevemente affrontare un ulteriore argomento a sostegno della non applicabilità della JCE (e non solo della sua terza forma), fondato sostanzialmente sulla natura di giurisdizione interna delle Camere cambogiane. È stato sostenuto infatti, che la Camera preliminare “made a fundamental error […] by failing to consider fully whether customary international law is directly applicable in Cambodia” (222). In tale tesi si sostiene che la Costituzione cambogiana non prevede un meccanismo di incorporazione diretta del diritto internazionale consuetudinario e che il legislatore di quello Stato non ha predisposto nessuna norma scritta che implichi l’applicazione della JCE. Mentre la prima considerazione è certamente vera, la seconda non sembra tenere in adeguata considerazione quanto previsto nell’art. 2 della ECCC Establishment Law e cioè che la Camere sono istituite per perseguire i principali responsabili “for the crimes and serious violations of Cambodian laws related to crimes, international humanitarian law and custom, and international conventions recognized by Cambodia”. Sul punto sembra criticabile la posizione per cui tale riferimento al diritto consuetudinario sarebbe troppo generale o che la violazione del diritto umanitario consuetudinario sarebbe relativa solo ai crimini internazionali e non alle forme di responsabilità per questi previste (223). Il ragionamento che ha portato la Camera preliminare ad escludere l’applicazione della JCE III sembra basarsi in sostanza sul rapporto tra norme consuetudinarie, principi generali di diritto e principio di legalità. I giudici ritengono che la norma consuetudinaria non fosse esistente al momento della (221) AMBOS, Amicus Curiae Brief in the Matter of the Co-prosecutors’ Appeal of the Closing Order agaisnt Kaing Guek Eav “Duch” Dated 8 August 2008, in Criminal Law Forum, n. 20, 2009, p. 386. (222) KARNAVAS, op. cit., p. 479. (223) KARNAVAS, op. cit., pp. 483-484. 78 commissione dei crimini. Inoltre, la Camera non ritiene di dover determinare se il particolare elemento soggettivo della JCE III sia previsto nella maggior parte dei sistemi giuridici rappresentativi della Comunità internazionale, dal momento che tale standard non trova alcun fondamento nel proprio diritto interno. La Camera preliminare, infatti, “has not been able to identify in the Cambodian law, applicable at the relevant time, any provision that could have given notice to the Charged Persons that such extended form of responsibility was punishable”. Per questo motivo, il rispetto del principio di legalità “requires the ECCC to refrain from relying on the extended form of JCE in its proceedings” (224). In altre parole, secondo la Camera preliminare, il rispetto del principio di legalità impone un qualche fondamento nel diritto nazionale, una qualche corrispondenza o coincidenza, seppur non perfetta, tra la norma internazionale, sia essa una consuetudine o un principio generale di diritto (la Camera, in realtà, sembra riferirsi solo a questi ultimi) e il diritto interno. Questa impostazione appare come abbiamo visto confliggente con una certa giurisprudenza dello stesso Tribunale per la ex Iugoslavia, ma soprattutto con quelli che sembrano essere gli ultimi orientamenti della Corte europea dei diritti umani. Alcune recenti pronunce della Corte, infatti, affermano che, anche in assenza di un riferimento al diritto internazionale nella normativa interna, l’esistenza stessa di quelle norme, siano esse pattizie o consuetudinarie, implica una loro conoscibilità da parte dell’individuo. Nella sentenza del 17 maggio 2010, resa nel caso Kononov v. Latvia, ad esempio, la Grande Camera, pur riconoscendo l’assenza nella legislazione interna in vigore all’epoca dei fatti di ogni riferimento alle regole e usi di guerra, ha ritenuto che “this cannot be decisive» poiché «international laws and customs of war were in 1944 sufficient, of themselves, to found individual criminal responsibility” (225). Nonostante anche la Corte di Strasburgo in alcune pronunce abbia dato maggior rilevanza alla normativa interna nel determinare il rispetto della accessibilità e prevedibilità della norma (226), in dottrina è stato osservato come l’orientamento volto ad attribuire assoluta predominanza, anche in materia penale, alle norme consuetudinarie rispetto a quelle interne, finanche in casi di (224) ECCC, Decision, cit., par. 87 (225) ECHR, Kononov v. Latvia, 36376/04, 17 maggio 2010, par. 237. (226) ECHR, Cantoni v. France, 17862/91,15 novembre 2006, parr. 33-35. 79 contrasto tra queste, sarebbe emerso proprio nella redazione dei trattati sui diritti umani nei quali chiaramente si afferma che la punizione di una determinata condotta può essere contenuta sia in una norma interna che in una norma di diritto internazionale (227). Sulla scia di questa linea interpretativa, parte della dottrina giunge ad affermare piuttosto chiaramente che “when only international criminal rules are at stake, or when those rules conflict with national criminal law, the requirements of accessibility and foreseeability may legitimately diminish to the point of fading away” (228). Questo approccio, tuttavia, non è del tutto condivisibile. Non appare sufficiente, infatti, nel corso di un procedimento penale limitare il giudizio alla valutazione della natura consuetudinaria o meno di una norma o all’esistenza di un determinato principio generale di diritto. Nemmeno sembra, tuttavia, che l’esistenza di una norma interna possa considerarsi sempre e comunque necessaria come requisito fondamentale al fine del rispetto del principio del nullum crimen, in particolare per determinare l’accessibilità e prevedibilità di una norma internazionale. Queste considerazioni si fondano su diverse ragioni. In primo luogo, la norma internazionale in oggetto non deve solo essere riconosciuta come tale, ma deve anche garantire un elevato grado di certezza nella determinazione del suo contenuto o quantomeno dei propri elementi costitutivi fondamentali. Il requisito della certezza e chiarezza della dispozione penale non inficia naturalmente il processo di accertamento della natura della stessa come consuetudine. Tale accertamento mantiene la propria autonomia e non può che richiedere i due tradizionali elementi (prassi e opinio juris). Tuttavia, da un lato il costante riconoscimento da parte dei giudici della esistenza di una consuetudine ne rafforza la certezza in merito alla loro stessa esistenza e dall’altro, la progressiva specificazione che gli stessi giudici compiono in merito al contenuto della norma ne garantisce l’esatta portata, i confini giuridici, in definitiva la sua determinatezza. (227) JESCHECK, International crimes, in Encyclopedia of Public International Law , vol. 8, 1985, p. 333. L’A. si esprime chiaramente in questi termini: “International declarations and treaties protecting human rights contain an express reference in relation to the principle of legality that criminal liability for an act may follow not only from the provisions of national law but also from international law”. (228) CASSESE, Balancing the Prosecution of Crimes against Humanity and Non-Retroactivity of Criminal Law, Journal of Int. Criminal Justice, n. 4, 2006, p. 417. 80 Nel caso della JCE III, nonostante permangano alcune incertezze, oggi si può dire che la giurisprudenza dei tribunali ad hoc e delle altre giurisdizioni presso cui la JCE ha trovato applicazione, ha reso tale modo di attribuzione della responsabilità sufficientemente certo nella sua natura consuetudinaria e piuttosto chiaro e determinato nel suo contenuto. È però plausibile che di fronte alle Camere cambogiane questi elementi non fossero considerati sufficientemente raggiunti al tempo della commissione dei fatti di causa, antecedenti a quella giurisprudenza. In secondo luogo, la norma deve soddisfare i requisiti della prevedibilità ed accessibilità. Nemmeno questo secondo elemento, tuttavia, può essere dato dalla semplice statuizione della natura consuetudinaria della norma. Allo stesso tempo non è altresì corretto un approccio che attribuisce unicamente alla previsione della condotta punibile nella legislazione interna il ruolo determinante per stabilire la “accesibility and foreseeability”. Riprendendo proprio le argomentazioni della sentenza Tadić, troviamo che “regardless of whether the specific national jurisdiction had law on point, the customary character of principles of JCE liability, borne out in a stream of decisions and legal instruments, would have sufficed” (229). Il fatto che la norma non sia prevista nella legislazione interna non appare dunque decisivo nel caso in cui questa abbia raggiunto un grado di affermazione soddisfacente nel diritto internazionale. D’altronde, nel disciplinare i crimini contro l’umanità, lo Statuto del Tribunale di Norimberga già prevedeva che sarebbero stati perseguiti anche in caso non fossero “in violation of the domestic law of the country where perpetrated” (230). Sembra quindi che l’accertamento dei requisiti della prevedibilità e dell’accessibilità, pur operando su di un piano diverso rispetto alla determinazione dell’esistenza di una consuetudine o di un principio generale di diritto, tenda a confondersi con quest’ultima operazione, dipendendo in un certo modo anche dal grado di attestazione della norma (231). Un ruolo in (229) Amicus Curiae Brief of Professor Antonio Cassese and Members of the Journal of International Criminal Justice on Joint Criminal Enterprise Doctrine, 27 ottobre 2008, par. 73. (230) Article 6(c), Charter of the Nuremberg Tribunal: Crimes against Humanity: namely, murder, extermination, enslavement, deportation, and other inhumane acts committed against any civilian population, before or during the war, or persecutions on political, racial, or religious grounds in execution of or in connection with any crime within the jurisdiction of the Tribunal, whether or not in violation of domestic law of the country where perpetrated. (231) In modo ancor più esplicito in tal senso, fino ad affermare una vera e propria sovrapposizione delle due operazioni, accertamento della norma e prevedibilità e accessibilità 81 questo senso, seppur non decisivo in assoluto per determinarne l’applicabilità o meno, può essere svolto dalla normativa interna, ma anche da altri fattori, quali una gravità tale della condotta da non poter essere ritenuta conforme ai principi di umanità (232). Infine, uno degli argomenti portati a sostegno dell’applicazione della JCE III presso le Camere cambogiane, concerne la necessaria “consistency” nell’impiego dei modelli di attribuzione della responsabilità di fronte alle diverse giurisdizioni penali internazionali. Una sorta di richiamo alla non frammentazione del diritto penale internazionale. Ancora una volta però si impongono alcune delle riflessioni compiute in merito alle norme consuetudinarie e alla loro applicazione nel diritto penale internazionale. Il principio di legalità costituisce il necessario filtro di individualizzazione della norma consuetudinaria, di adeguata soggettivazione e considerazione della specifica condizione in cui si trova l’individuo cui questa deve essere applicata. La diversa applicazione del diritto penale, o se si preferisce la frammentazione del diritto internazionale penale, rientra tra le soluzioni naturali della trasposizione in un processo nei confronti di un individuo di una norma creatasi a livello interstatale. Su questo primo punto non si mette quindi in discussione l’esistenza della norma, ma la sua potenziale non applicazione in determinate circostanze. Ma vi è anche un secondo aspetto che concerne la natura stessa della norma consuetudinaria e che più volte è emerso nel corso di questo studio. Il processo di identificazione di una norma consuetudinaria è come noto complesso e non rispetta regole precise; in questa complicata operazione appare talvolta difficile stabilire se la norma fosse già esistente nel momento in cui un tribunale l’ha riconosciuta come tale o se piuttosto sia stato quel riconoscimento a determinarne l’esistenza (233). Non appare dunque della stessa, cfr. GRADONI, L’attestation du droit in-ternational pénal coutumier dans la jurisprudence du Tribunal pour l’ex-Yugoslavie. « Régularités » et « règles », in DELMASMARTY, FRONZA, LAMBERT-ABDELGAWAD, Les sources du droit international pénal, Paris, 2004, p.74: “c’est la possibilité que l’individu connaisse la règle qui détermine finalement l’appartenance de cette dernière au droit international pénal coutumier”. (232) Nelle parole del Tribunale per la ex Iugoslavia, l’elemento della gravità della condotta puó avere una certa influenza nel determinare la determinatezza di una norma: “Once it is satisfied that a certain act or set of acts is indeed criminal under customary international law, the Trial Chamber must satisfy that this offence with which the accused is charged was defined with sufficient clarity under customary international law for its general nature, its criminal character and its approximate gravity to have been sufficiently foreseeable and accessible”. ICTY, Prosecutor v. Vasiljevic, IT-98-32, Trial Chamber, Judgement, 29 novembre 2002, par. 201. (233) GRAY, The Nature and Sources of the Law, op. cit., p. 297. “It has often been assumed, almost as a matter of course, that legal customs preceded judicial decisions, and that the latter 82 sorprendente che due distinte giurisdizioni, pur avendo a disposizione il medesimo materiale normativo, giungano a conclusioni opposte. In conclusione, occorre sottolineare che in entrambi i casi sinora portati davanti alle Camere i rappresentanti delle vittime si sono espressi in maniera contraria alla applicazione della JCE III. Qualcuno ha osservato che il senso di questo atteggiamento risiede nel fatto che nemmeno la incommensurabile gravità delle atrocità commesse dal regime di Pol Pot “should… provide justification for applying highly elastic concepts of criminal responsibility”; e in modo ancor più esplicito, si è detto che anche se la “JCE III may facilitate the conviction of those who participated in serious human rights violations”, questa tuttavia “it diminishes respect for international justice, weakens the significance of a tribunal’s finding of guilt and compromises the tribunal’s historical legacy” (234). Recentemente, come detto, la Camera di primo grado delle camere cambogiane ha ribadito in una breve decisione quanto affermato dalla PreTrial Chamber. La JCE III non costituiva all’epoca dei fatti né una norma consuetudinaria né un principio generale di diritto. 6. Considerazioni conclusive Il contenuto della decisione della Camera preliminare cambogiana ci è sembrato condivisibile nell’escludere la natura consuetudinaria della JCE III all’epoca dei fatti in causa e alla luce dunque della giurisprudenza successiva alla seconda Guerra mondiale. È altresì innegabile che, a seguito della costante giurisprudenza dei Tribunali ad hoc e di altre giurisdizioni penali (Sierra Leone, Timor Est, Libano) che hanno riconosciuto e applicato la JCE III specificandone nel tempo il contenuto, questa non possa che ritenersi oggi una norma di diritto consuetudinario. Quanto alle considerazioni compiute sul principio di legalità, sembra corretto l’atteggiamento delle Camere cambogiane nel separare la determinazione della natura della norma dalla valutazione sul rispetto del have but served to give expression to the former, but of this there appears to be little proof. It seems at least as probable that customs arose from judicial decisions” (234) MARSH, RAMSDEN, Joint Criminal Enterprise: Cambodia’s Reply to Tadic, op. cit., p. 154. 83 principio nullum crimen sine lege. Sembra invece meno condivisibile la centralità assoluta attribuita alla presenza nel diritto interno di una norma corrispondente a quella internazionale. Qualora la norma incriminatrice internazionale sia chiara e determinata in tutti i suoi elementi costitutivi non sarà certamente necessario un suo fondamento nell’ordinamento nazionale. Non per questo d’altra parte si deve negare l’importanza che questo riferimento al diritto interno può assumere nel determinare gli elementi della accessibilità e prevedibilità della norma. In caso di incertezza sul contenuto della stessa, infatti, il diritto interno può divenire un criterio e parametro decisivo per stabilire il rispetto del principio di legalità. Più in generale, anche se le due operazioni - identificazione di una norma consuetudinaria o di un principio generale di diritto e verifica di compatibilità con il principio nullum crimen sine lege - rimangono concettualmente e formalmente distinte, sembrano intimamente connesse una all’altra. Un elevato grado di attestazione di una norma e un livello accettabile di certezza e determinatezza riguardo agli elementi costitutivi della stessa possono rappresentare una sufficiente garanzia del rispetto del principio di legalità. In caso contrario, ovvero quando la natura e i confini della norma non sono chiari o risultano incerti, il rispetto del principio di legalità potrebbe richiedere ulteriori e diversi criteri e parametri di garanzia, tra i quali il diritto interno può assumere un ruolo decisivo. 84 CAPITOLO TERZO LA JCE III E IL RISPETTO DEL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA NEI CRIMINI A DOLO SPECIALE 1. Premessa; 2. Responsabilità principale o accessoria? ; 3. JCE III e crimini a dolus specialis: una mens rea di difficile definizione; 4. JCE III e nullum crimen sine culpa; 5. La compatibilità della JCE III con i crimini a dolus specialis nei tribunali ad hoc; 6. Il diverso orientamento del Tribunale speciale per il Libano; 7. Considerazioni conclusive. SOMMARIO: 1. Premessa In questo capitolo si cercherà di determinare la compatibilità dell’applicazione della JCE III con un altro principio fondamentale del diritto penale internazionale: il principio di colpevolezza. Si tratta, in particolare, di capire se può dirsi rispettato tale principio in caso di applicazione di questo criterio di imputazione ai crimini a dolo speciale. Questione anch’essa oggetto di numerose dispute dottrinali e recentemente riemersa a livello giurisprudenziale. Per poter affrontare tale complessa problematica definiremo, in primo luogo, quale tipo di responsabilità - primaria o secondaria - la giurisprudenza penale internazionale attribuisce alla particolare forma di concorso di persone prevista dall’istituto in esame. Infatti, la natura della responsabilità penale individuale della JCE III, se principale o accessoria, influisce in modo determinante sulle valutazioni che dovremo compiere in merito al rispetto del principio di colpevolezza nelle sue diverse declinazioni. Inoltre, si è già accennato alle diverse contraddizioni emerse sul punto nella giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia e che hanno in qualche modo influito sulla determinatezza della norma (235). Una volta compiuta quest’operazione si intraprenderà l’arduo compito di determinare il contenuto dell’elemento soggettivo della JCE III. Questo viene normalmente classificato come dolus eventualis, ma la sua natura non è sempre chiara e condivisa nelle interpretazioni che le diverse giurisdizioni penali internazionali ne hanno dato. Saranno inoltre messe in luce le difficoltà (235) Si veda supra, cap. II, par. 4. 85 che accompagnano la delimitazione e la definizione di un altro elemento soggettivo dalla natura particolare, quello dei crimini internazionali cosiddetti a dolus specialis. Come si vedrà, le problematiche interpretative legate all’esatta individuazione del contenuto di queste peculiari forme di mens rea derivano spesso dal diverso significato che a quelle espressioni (dolo eventuale, dolo speciale) viene attribuito negli ordinamenti nazionali, e in particolare dalle divergenze tra le due grandi famiglie di sistemi giuridici, quelli di civil law e quelli di common law. Approderemo quindi ad una delle questioni che più hanno tormentato dottrina e giurisprudenza e che rappresenta in definitiva il vero nodo che si intende sciogliere nel presente capitolo. Ci occuperemo di stabilire se l’applicazione di un meccanismo ascrittivo come la JCE III, con la sua particolare componente soggettiva, possa essere considerata compatibile o meno con quella peculiare categoria di crimini internazionali c.d. a dolo speciale, su tutti il crimine di genocidio. Le posizioni assunte dalla giurisprudenza non sono univoche. Nonostante interpretazioni non sempre concordanti, infatti, il Tribunale per la ex Iugoslavia ha riconosciuto a più riprese la possibilità di applicare un criterio di attribuzione come la JCE III ai crimini a dolus specialis. Tuttavia, in alcune ultime decisioni e sulla scorta di diversi sviluppi giurisprudenziali intrapresi da altri tribunali, l’assunto sembra essere stato messo in discussione all’interno dello stesso Tribunale per la ex Iugoslavia. Recentemente, infatti, dopo l’appena esaminato rifiuto di riconoscere la natura consuetudinaria della JCE III da parte delle Camere cambogiane (almeno all’epoca dei fatti in oggetto), il Tribunale per il Libano ha negato in modo piuttosto netto la possibilità di applicare la JCE III ai crimini a dolo speciale, riaprendo in questo modo il dibattito sulla questione. 2. Responsabilità principale o accessoria? Ai fini del presente capitolo il primo imprescindibile quesito cui è necessario rispondere concerne il tipo di responsabilità cui la JCE pertiene, sia essa quindi una responsabilità primaria o secondaria, o in altri termini, principale o accessoria. Non tutti i sistemi giuridici conoscono una tale distinzione (si è già fatto riferimento ai modelli unitari) né, tra gli ordinamenti 86 che operano siffatta differenziazione, si condivide una medesima linea di demarcazione tra i due diversi livelli di responsabilità (236). In via del tutto generale, si può comunque affermare che una responsabilità come “principal” ricade su colui che ha posto in essere una condotta da ritenersi causa immediata e diretta dell’offesa, mentre i diversi possibili “accomplices” sono coloro che, pur non avendo preso parte al compimento dell’actus reus (e nemmeno di una parte di esso), hanno in diverso modo partecipato alla realizzazione della fattispecie tipica favorendo, agevolando, istigando la commissione dell’offesa. Determinare se l’imputato debba ritenersi autore o complice di un certo crimine non è un’operazione meramente formalistica legata alla necessità dottrinale di classificare e categorizzare le condotte punibili. Il diverso tipo di responsabilità incide direttamente sul quantum della pena. Nel caso Vasiljević, la Camera d’appello del Tribunale per la ex Iugoslavia ha chiaramente affermato che “aiding and abetting is a form of responsibility which generally warrants a lower sentence than is appropriate to responsibility as a coperpetrator” (237). La pena venne quindi ridotta dai venti anni, fissati in primo grado, a quindici. Ma la valenza di una distinzione tra autori e complici è anche, se vogliamo, simbolica e stigmatizzante della gravità della condotta. Se un potente generale militare venisse condannato per aver “solo” agevolato la commissione di efferati crimini da parte dei suoi sottoposti, piuttosto che esserne ritenuto direttamente autore e responsabile, la percezione da parte delle vittime, e piú in generale dell’opinione pubblica, sarebbe probabilmente quella di un atteggiamento giudiziario assai indulgente o quanto meno incoerente e non aderente alla realtà. Le norme sulla responsabilità individuale contenute negli Statuti dei Tribunali ad hoc non determinano l’esistenza e l’eventuale portata di una tale distinzione, lasciando quindi ancora una volta il compito all’attività interpretativa dei giudici (238). (236) Si può rimandare alle differenze in merito tra, ad esempio, il diritto anglosassone e quello tedesco, cfr. HAMDORF, The Concept of Joint Criminal Enterprise and Domestic Modes of Liability for Parties to a Crime. A Comparison of German and English Law, in Journal of International Criminal Justice, n. 5, 2007, pp. 218-219. (237) ICTY, Prosecutor v. Vasiljević, IT-98-32, Appeals Chamber, Judgement, 25 febbraio 2004, par. 182. Concetti ribaditi anche in ICTY, Prosecutor v. Krstić, IT-98-33, Appeals Chamber, Judgement, 19 aprile 2004, par. 268. (238) ESER, Individual criminal Responsibility, op. cit., p. 786. L’A. evidenzia appunto come gli statuti del Tribunale per la ex Iugoslavia e per il Ruanda “lack a clear notion of perpetration and participation”. 87 Riprendendo nuovamente le parole del Tribunale per la ex Iugoslavia nella sentenza Tadić non è difficile accorgersi che la risposta al nostro quesito risulta contraddittoria. Nel qualificare la nozione di JCE si parla allo stesso tempo e indifferentemente di complicità e di coautoria. Come per altri motivi già osservato, infatti, nelle parole del Tribunale “the notion of common design as a form of accomplice liability is firmly established in customary international law” (239). Questa forma di complicità, di responsabilità qualificata quindi a prima vista come accessoria, veniva però poco prima inquadrata, forse piú chiaramente, come primaria. Si affermava, infatti, che “to hold criminally liable as a perpetrator only the person who materially performs the criminal act would disregard the role as co-perpetrators of all those who in some way made it possible for the perpetrator physically to carry out that criminal act” (240). Insomma, tutti i partecipanti dell’impresa criminale comune, e non solo chi ha materialmente commesso il fatto criminoso, sarebbero da considerare quali veri e propri autori, o meglio coautori. Due argomenti sembrano far propendere per questa seconda soluzione interpretativa. Da un lato, si potrebbe leggere il termine accomplice liability come generico e riferentesi semplicemente all’idea di compartecipazione criminosa. Nei sistemi di common law, infatti, questa espressione ricomprende sia gli autori che i complici. Dall’altro, la seconda affermazione è indubbiamente piú articolata e contiene una chiara scelta di politica criminale implicante una preferenza per un modello di coautoria piuttosto che di complicità (nel senso continentale del termine). Inoltre, come visto nel capitolo introduttivo, la lettera dell’art. 7(1) dello Statuto del Tribunale per la ex Iugoslavia fa rientrare questa disposizione in quei modelli unitari nei quali non è prevista alcuna distinzione, né di ruoli né di pene, tra tutti coloro che hanno tenuto una condotta causalmente collegata al fatto tipico. In questo senso, l’utilizzo di due termini apparentemente in contraddizione (accomplice liability nel senso di responsabilità accessoria e coperpetators nel senso di principals) potrebbe trovare una ragion d’essere. La prima espressione (accomplice liability) starebbe ad indicare una generica idea di compartecipazione criminosa mentre la seconda (co-perpetators), nel contesto di un modello unitario nel quale tutti i concorrenti nel reato sono (239) ICTY, Tadić, 15 luglio 1999, cit., par. 220. (240) ICTY, Tadić, 15 luglio 1999, cit., par. 192. 88 complici e coautori, non sarebbe intesa ad attribuire al termine l’accezione di principal in contrapposizione a quella di accessory, ma semplicemente di generico partecipe alla commissione del crimine. Una lettura, come detto, peraltro compatibile anche con la teoria anglosassone della responsabilità da common purpose, in cui all’interno di una generale e onnicomprensiva categoria di accomplice liability si possono poi distinguere principals e accessory. Questa sembrava dunque l’interpretazione piú plausibile e con ogni probabilità quella intesa dai giudici nel caso Tadić (241). Al contrario però la giurisprudenza dei tribunali ad hoc, anche all’interno dello stesso Tribunale per la ex Iugoslavia, ha utilizzato il concetto di common criminal purpose o common plan per operare una distinzione tra autoria e forme di complicità o responsabilità secondaria. Si è infatti esteso il significato del termine “committed” per farvi rientrare alcune forme di violenza collettiva o di gruppo e si sono invece inquadrate nella figura dell’aiding and abetting tutte quelle forme di responsabilità accessoria per le quali non si può parlare di responsabilità primaria. Questa interpretazione si è definitivamente imposta a partire dalla già per altre ragioni citata Decision on Dragoljub Ojdanić’s Motion Challenging Jurisdiction – Joint Criminal Enterprise del 21 maggio 2003. I giudici della Camera d’appello, interpretando le espressioni coperpetrator e accomplice liability diversamente rispetto al nostro tentativo di giustificare e riconciliare l’apparente contraddizione linguistica, risposero in questi termini al quesito su cui ci stiamo in questa sede interrogando: “it would seem […] that the Prosecution charges co-perpetration in such a joint criminal enterprise as a form of commission pursuant to Article 7(1) of the Statute, rather than as a form of accomplice liability” (242). A partire da questa decisione non vi sono più dubbi sulla natura della JCE come forma di responsabilità primaria, dal momento che tale impostazione è stata poi (241) Ciò sembra confermato in un recente documento sottoposto alla Camere cambogiane dal Professor Cassese, già citato nel capitolo precedente, Cassese Amicus Curiae, par. 5.2.2. Cfr. OLASOLO, Joint Criminal Enterprise and Its Extended Form, op. cit., pp. 272-274. Si veda anche la giurisprudenza ivi citata a conferma del nuovo “subjective approach” intrapreso dal Tribunale. Vedi in tal senso anche ZORZI GIUSTINIANI, The responsibility of Accomplices in the Case-law of the ad hoc Tribunals, in Criminal Law Forum, 2009, p. 420. (242) ICTY, Ojdanić Decision, cit., par. 20. In una rilevante sentenza di qualche anno dopo, tuttavia, si ritornava ancora una volta sul senso che dovesse essere attribuito al termine indicante quest’ultima forma di responsabilità: “this term has different meanings depending on the context and may refer to a co-perpetrator or an aider and abettor”, cfr. Prosecutor v. Krnojelac, cit., 17 settembre 2003, par. 70. 89 confermata in numerose sentenze del Tribunale per la ex Iugoslavia (243) e in seguito anche in seno al Tribunale per il Ruanda (244). Sebbene si operi questa differenziazione di ruoli e condotte tra coperpetrators (nel senso di coautori) e aiders and abettors (nel senso di complici), nemmeno può dirsi che la giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia opti per la teoria di matrice tedesca fondata sulla natura accessoria della partecipazione. Secondo tale ultimo principio, autore del reato è solamente colui che materialmente lo commette mentre tutti gli altri individui che, attraverso le più varie condotte, abbiano agevolato la commissione del crimine vengono considerati come partecipi o complici. Si ha quindi un’ azione principale accompagnata da diverse condotte secondarie. Come accennato, nella JCE l’approccio è differente e per un verso invece più simile a quella del codice penale italiano. Nonostante la distinzione (non prevista nel nostro ordinamento) tra autori e complici, l’evento criminoso derivante dal piano comune non si sostanzia in un’unica azione criminosa, fisicamente realizzata e compiuta da un singolo individuo, ma piuttosto è il risultato ultimo di una serie di condotte coordinate ai fini di un comune proposito. Quest’ultimo è stato determinato congiuntamente dalla somma dei diversi contributi partecipativi che per questo motivo vengono posti sul medesimo piano, senza distinzioni. In altre parole, la compartecipazione criminosa ha natura associativa e “le singole azioni perdono la loro individualità”, “divengono parti di un’unica operazione e costituiscono un fatto solo” e, di conseguenza, “appartengono a tutti e a ciascuno dei partecipanti” (245). La ratio di tale scelta sembra essere l’esigenza di un atteggiamento punitivo più severo. Questo deriverebbe proprio dal fatto che il coordinamento e reciproco sostegno tra più individui alla realizzazione di un piano criminale comporta un maggior disvalore della singola condotta: il semplice accostamento di diverse condotte individuali aventi un unico scopo criminoso determina una pericolosità sociale più intensa ed elevata. Altra confusione terminologica, cui vale la pena accennare, discende dall’impiego delle espressioni responsabilità diretta o indiretta. Negli (243) Tra cui Prosecutor v. Vasiljević, IT-98-32, Appeals Chamber, Judgement, 25 febbraio 2004 (244) Ad esempio, Prosecutor v. Aloys Simba, ICTR-01-76, Trial Chamber, Judgement, 13 dicembre 2005 (245) ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Milano, 2003, pp. 488-489. 90 ordinamenti nazionali normalmente queste corrispondono ai concetti di cui poco sopra di responsabilità primaria o accessoria. Tuttavia, come evidenziato in dottrina, nella giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia queste categorie sembrano essere state utilizzate in modo distinto e non sempre chiaro (246). La mancata corrispondenza - tra responsabilità diretta o indiretta e primaria o accessoria - sorge dalla necessità di mantenere distinte le condotte criminose contenute nell’art. 7(1) dalla responsabilità del superiore prevista dall’art. 7(3). Solo quest’ultima sarebbe, infatti, una forma di responsabilità indiretta (247). La differente impostazione, quanto meno terminologica, risiederebbe dunque nel considerare anche condotte quali la pianificazione, l’ordine, l’istigazione e il favoreggiamento come forme di responsabilità diretta, mentre nella concezione classica e comune agli ordinamenti nazionali, l’unica condotta a doversi ritenere effettivamente come responsabilità diretta risulta essere la commissione del crimine, concetto all’interno del quale viene ricompresa la JCE. Una volta determinata la natura di responsabilità penale primaria della JCE, la giurisprudenza dei tribunali ad hoc ha poi a più riprese specificato la differenza tra la forma di responsabilità di colui che partecipa in una Joint Criminal Enterprise e il mero complice (aider and abetter). In sostanza, tutte le decisioni ribadiscono ancora una volta, senza ulteriori disamine e in maniera ancor meno articolata, la sentenza Tadić. In quest’ultima si è affermato che il contributo materiale del complice si concreta in un atto o serie di atti specificamente volti a facilitare la commissione di un crimine, mentre per il partecipante della JCE è sufficiente una condotta che sia solo “in some way” rivolta alla prosecuzione del piano criminale. D’altra parte, però, mentre per l’aider and abetter è richiesta la consapevolezza (knowledge) di assistere alla commissione di un crimine, nel caso della JCE è necessaria l’intenzione di commettere il crimine, o quanto meno il piano criminale comune nel caso in cui l’evento non previsto dallo stesso fosse una prevedibile (foresight) conseguenza di questo (248). La distinzione in sostanza risiede nell’elemento (246) VAN SLIEDREGT, The Criminal Responsibility, op. cit, p. 59 (247) ICTY, Prosecutor v. Blaskić, Decision on Defence Motion to Dismiss the Indictment Based Upon Defects in the Form thereof (Vagueness/Lack of Adequate Notice of Charges), IT95-14-PT, Trial Chamber, 4 aprile 1997, par. 31. Si veda anche AMBOS, Superior Responsibility, in The Rome Statute, op. cit., p. 512 e BANTEKAS, The Contemporary Law of Superior Responsibility, in American Journal of Int. Law, vol. 93, n. 3, 1999. (248) “(i) The aider and abettor is always an accessory to a crime perpetrated by another person, the principal; (ii) In the case of aiding and abetting no proof is required of the 91 soggettivo. In altre parole, coloro che hanno condiviso l’intento criminoso del gruppo sono considerati autori dei crimini, compresi o prevedibili in quel piano, indipendentemente da una precisa determinazione dell’entità del loro singolo apporto materiale. Coloro invece che hanno contribuito in modo sostanziale, o persino determinante, alla realizzazione del piano, ma al contrario non ne hanno condiviso l’intento, avendone al limite mera consapevolezza dell’esistenza, non potranno essere considerati parte della Joint Criminal Enterprise, ma al più complici o accessori del crimine. Occorre tenere presente, tuttavia, che nella giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia possiamo rinvenire un tentativo, assai noto, di modificare il concetto di JCE. Nel caso Kvoćka prima (249), e in quello Stakić poi, infatti, la Camera di primo grado sembrava aver proposto, seppur in modo non molto chiaro, una lettura della JCE tale da riconoscere l’esistenza di diversi livelli di partecipazione al piano criminale. All’interno della stessa categoria JCE, si potevano distinguere, ad avviso della camera del Tribunale, i coautori (coperpetrators) della JCE e coloro che invece erano meri complici (accessories) per aver agevolato e favorito la JCE (aiders and abetters della JCE) (250). La Camera d’appello ha rigettato tale impostazione. Da un lato, ha negato l’esistenza nel diritto consuetudinario di un modello ascrittivo definito coperpetration e dall’altro, sulla base di un ragionamento formalistico e di elementare grammatica del diritto penale, ha ritenuto contradditorio e sbagliato sommare tra loro due diversi criteri di imputazione (co-perpetration o aiding existence of a common concerted plan, let alone of the pre-existence of such a plan. No plan or agreement is required: indeed, the principal may not even know about the accomplice’s contribution; (iii) The aider and abettor carries out acts specifically directed to assist, encourage or lend moral support to the perpetration of a certain specific crime (murder, extermination, rape, torture, wanton destruction of civilian property, etc.), and this support has a substantial effect upon the perpetration of the crime. By contrast, in the case of acting in pursuance of a common purpose or design, it is sufficient for the participant to perform acts that in some way are directed to the furthering of the common plan or purpose; (iv) In the case of aiding and abetting, the requisite mental element is knowledge that the acts performed by the aider and abettor assist the commission of a specific crime by the principal. By contrast, in the case of common purpose or design more is required (i.e., either intent to perpetrate the crime or intent to pursue the common criminal design plus foresight that those crimes outside the criminal common purpose were likely to be committed), as stated above”, Prosecutor v. Tadić, 15 luglio 1999, cit., par. 229. (249) ICTY, Prosecutor v. Kvoćka, IT-98-30/1, Trial Chamber, Judgement, 14 gennaio 2000, parr. 282-284. Cfr. OHLIN, Joint Intention to Commit International Crimes, in Chicago Journal of International Law, vol. 11, 2011, pp.714-715. (250) ICTY, Prosecutor v. Stakić, IT-97-24, Trial chamber, Judgement, 31 luglio 2003, par. 441. 92 and abetting in una JCE) (251). In dottrina si è invece da alcune parti sottolineato come in realtà il tentativo della Camera di primo grado potesse considerarsi apprezzabile. Per quanto concerne il primo aspetto, l’utilizzo in sostanza del concetto di co-perpetration, l’apprezzamento derivava dal tentativo di prendere in considerazione meccanismi ascrittivi diversi da quelli fondanti la JCE, ma comunque presenti in non poche culture giuridiche; in quanto al secondo, l’applicazione congiunta di diversi meccanismi ascrittivi, si è ritenuto che intenzione della Camera fosse quella di operare una maggior differenziazione delle condotte, atteggiamento che in linea di principio garantisce una maggior corrispondenza dei criteri di attribuzione alla complessa realtà della compartecipazione criminosa (252). Così, mentre l’offesa criminosa rimaneva indubbiamente una, potendosi trattare di crimini di guerra, crimini contro l’umanità o genocidio, i modelli ascrittivi sarebbero risultati moltiplicati: potendosi direttamente commettere il crimine o agevolarlo, ma anche commetterlo o agevolarlo all’interno di un’impresa criminale comune. La scelta di classificare le tre categorie di JCE unicamente come forme di responsabilità primaria crea una serie di problemi di non facile soluzione per quanto concerne la JCE III. In questa terza forma di JCE, infatti, lo standard richiesto per la componente psicologica risulta essere, come visto, assai attenuato. Per questo motivo, si è da più parti criticata un’impostazione come quella seguita dai tribunali ad hoc per cui anche nel caso della JCE III ci troveremmo di fronte a dei coautori. Si metterebbero infatti sullo stesso piano, senza alcuna distinzione, individui il cui grado di condivisione morale e di intenzione criminosa risulta essere sostanzialmente diverso (253).In particolare, nella JCE III si ritiene autore un soggetto il cui stato mentale non integra l’elemento soggettivo richiesto dal crimine in oggetto (254). È necessario precisare però che questo non significa che le pene non possano poi essere graduate a seconda del diverso ruolo individuale ed essere anche di significativa entità vista comunque l’eccezionale gravità della condotta. Per (251) ICTY, Prosecutor v. Stakić, IT-97-24-A, Appeal Chamber, Judgement, 22 marzo 2007, par. 59. (252) Cfr. sul punto OHLIN, Commentary, in KLIP, SLUITER, Annotated Leading Cases of International Criminal Tribunals, vol. 14, 2008, p. 750. Vedi anche OLASOLO, Reflections on the Treatment of the Notions of Control of the Crime and Joint Criminal Enterprise in the Stakic Appeal Judgement, in International criminal Law Review, vol. 7, 2007, p. 143. (253) OHLIN, Three Conceptual Problems with the Doctrine of Joint Criminal Enterprise, in Journal of International Criminal Justice, vol. 5, n.1, 2007, p. 83. (254) OLASOLO, The Criminal Responsibility of Senior Political, op. cit., pp. 260-261. 93 poter supportare o contrastare tali critiche, risulta in primo luogo necessario comprendere e definire il contenuto della mens rea prevista per la JCE III e per la particolare categoria di crimini dei quali ci si intende in questa sede occupare. 3. JCE III e crimini a dolus specialis: una mens rea di difficile definizione Prima di poter giungere ad affrontare il problema centrale del presente capitolo, ovvero determinare se vi è una violazione del principio di colpevolezza nell’applicazione della JCE III ai crimini a dolo speciale, occorre ancora una volta “scontrarsi” con alcune difficoltà definitorie e di classificazione. Ci riferiamo in questo caso all’elemento soggettivo dei due istituti oggetto della nostra analisi (JCE III e crimini a dolo speciale). La complessità deriva spesso dal comprendere che cosa esattamente si intenda con l’impiego di termini comuni ad alcuni sistemi giuridici ma magari sconosciuti, o anche solo diversamente intesi, in altri. Gli Statuti dei tribunali ad hoc non prevedono alcuna disposizione, alla stregua dell’art. 30 dello Statuto della Corte penale internazionale, che determini il contenuto di un elemento soggettivo generale comune ai crimini internazionali o ai meccanismi ascrittivi per questi previsti. Ancora una volta quindi viene demandato al giudice il compito di individuare tale fondamentale requisito. In primo luogo è necessario sottolineare che, similmente alla responsabilità del superiore, la JCE III costituisce un’eccezione al normale standard di mens rea richiesto per i crimini internazionali, sia questo riferito agli elementi del crimine o ai criteri di imputazione. Infatti, indipendentemente dal fatto che la specifica disposizione contenente gli elementi costitutivi dei crimini comprenda riferimenti alla componente soggettiva (willful, willfully, wantonly), non ci sono dubbi che, come nell’art. 30 CPI St, una volontà (intent) o almeno piena consapevolezza (knowledge) della condotta criminosa siano richiesti in capo all’agente. Nel caso della responsabilità del superiore, invece, l’elemento volitivo contiene una componente presuntiva e in una qualche misura oggettiva. Non si 94 richiede una concreta ed effettiva conoscenza della commissione di crimini da parte dei sottoposti ma è sufficiente la presenza di una “reason to know”. Allo stesso modo nella terza forma di JCE l’evento non è cercato o perseguito e nemmeno necessariamente conosciuto dall’agente, ma soltanto (ragionevolmente) prevedibile in quelle determinate circostanze. In entrambi i casi si ha una presunzione di “ragionevolezza” dell’azione individuale, una ragionevolezza obiettiva. Infatti, piuttosto che sulla determinazione del reale e concreto intento del soggetto agente, l’attenzione ricade su di una oggettiva possibilità di conoscere il risultato ultimo di una certa condotta (255). Se, in generale, la suddetta tendenza verso una oggettivazione della mens rea è indiscutibile, risulta ancora particolarmente complesso determinare l’esatto contenuto dell’elemento soggettivo della JCE III. La confusione deriva ancora una volta dal diverso significato che, a seconda dell’area giuridica di appartenenza, si è soliti attribuire ad alcuni termini. Per alcuni, compreso il Tribunale per la ex Iugoslavia, il dolus eventualis dei sistemi giuridici continentali sarebbe il corrispettivo della recklessness anglosassone (256), per altri un’affermazione di questo tipo è da ritenersi assolutamente erronea (257). Secondo questi ultimi, infatti, il concetto di recklessness sarebbe al più corrispondente o almeno assimilabile ad altro e diverso elemento soggettivo noto alla penalistica continentale, quello di colpa cosciente. Più in generale, è stato osservato come lo stesso concetto di dolus eventualis, che generalmente si ritiene essere l’elemento soggettivo della JCE III, “at different times and in different legal systems, acquired different connotations” (258). Questo naturalmente determina ulteriori incertezze ed incomprensioni tra gli stessi penalisti di estrazione continentale che pur possiedono una certa familiarità con tale istituto. Piuttosto che accrescere ulteriormente la confusione con l’analisi delle variegate interpretazioni che queste categorie giuridiche hanno assunto all’interno degli ordinamenti nazionali, cerchiamo di concentrarci sul nostro (255) SCHABAS, Mens Rea and the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, in New England Law Review, vol. 37, n.4, 2003, pp. 1015. (256) CASSESE, International Criminal Law, op. cit., p. 168. Tadic, 220. (257) FLETCHER, OHLIN, Reclaiming Fundamental Principles of Criminal Law in the Darfur Case, in Journal of Int. Criminal Justice, 3, 2005, p. 554. (258) WEIGEND, Intent, Mistake of Law, and Co-perpetration in Lubanga Decision on Confirmation of Charges, in Journal of Int. Criminal Justice, 6, 2008, p. 482. Cfr. Anche LUBAN, O’ SULLIVAN, STEWART, International and Transnational Criminal Law, Austin, 2009, p. 862. 95 specifico oggetto di studio e chiarire, se possibile, il contenuto della sua particolare mens rea. D’altronde, seppur naturalmente costruito su concetti già noti alla penalistica nazionale, il diritto internazionale penale mantiene una propria autonomia. Per questo motivo ci sembra opportuno premettere che può risultare fuorviante cercare di inquadrare ad ogni costo le sue peculiari figure giuridiche in quelle familiari al giurista nazionale. D’altro canto, però, nessun interprete può fare a meno di analizzare il dato normativo internazionale penale attraverso gli strumenti concettuali che gli appartengono e alla luce delle elaborazioni teoriche risultanti da un processo giurisprudenziale e da un confronto dottrinale a questi familiare, oltre che più lungo e perciò ad uno stato di affinamento ed elaborazione più avanzato. Così non potremo esimerci dal fare riferimento a concetti, letture interpretative e riflessioni proprie della penalistica italiana. Nello specifico, tale atteggiamento, a nostro avviso inevitabile, sembra essere di particolare interesse giacché tra i (pochi) riferimenti normativi dell’istituto JCE III compare, come visto, proprio l’art. 116 del codice penale italiano. La mens rea della JCE III si sostanzia in due diversi elementi: (i) l’intenzione di prendere parte al piano criminale comune e proseguirne il proposito criminoso e (ii) la prevedibilità della commissione di crimini diversi da quelli previsti nell’accordo iniziale (259). Nello specificare poi il contenuto di questa seconda componente, il Tribunale per la ex Iugoslavia afferma anche che non è necessario che il soggetto volesse il verificarsi di quel determinato risultato, ma è sufficiente piuttosto la consapevolezza che l’evento criminoso fosse una possibile conseguenza dell’insieme delle singole condotte dei membri del gruppo di cui faceva parte e di tale ipotetica possibilità avesse accettato il rischio (260). Nelle stesse parole del Tribunale si tratterebbe di una forma di dolo eventuale. Sulla correttezza di questa affermazione, come abbiamo accennato, non vi è accordo in dottrina. In sostanza le critiche vertono sul fatto che tale standard non richiederebbe una probabilità, magari anche (259) ICTY, Prosecutor v. Tadić, cit., 15 luglio 1999, par. 220: “(i) the intention to take part in a joint criminal enterprise and to further – individually and jointly – the criminal purposes of that enterprise; and (ii) the foreseeability of the possible commission by other members of the group of offences that do not constitute the object of the common criminal purpose”; (260) Ibidem:“[w]hat is required is a state of mind in which a person, although he did not intend to bring about a certain result, was aware that the actions of the group were most likely to lead to that result but nevertheless willingly took that risk. In other words, the so-called dolus eventualis is required (also called “advertent recklessness” in some national legal systems). 96 sostanziale, ma presuppone semplicemente che la commissione del crimine sia una “possible consequence” della condotta, parametrata insomma in termini di mera possibilità. Uno standard dunque così tenue da non poter essere, secondo tale orientamento, ricompreso in una fattispecie dolosa, ma piuttosto colposa (e in questo senso più simile al concetto di advertent recklessness) (261). In realtà, se prendiamo ad esempio l’ordinamento italiano, alquanto familiare con la particolare categoria del dolo eventuale, ci accorgiamo che, a livello di categorizzazione, il dolo eventuale può essere inteso anche come l’accettazione del rischio di una mera possibilità. Infatti, come da dottrina e giurisprudenza consolidata, “si ritengono altresì voluti i risultati del comportamento che sono stati previsti dal soggetto, anche soltanto come possibili” (262). Occorre tuttavia osservare che il dolo eventuale nell’ordinamento italiano nasce e si afferma a livello giurisprudenziale, ma la sua natura è stata e viene spesso messa in discussione e criticata in dottrina. In particolare, si ritiene appunto che corrisponda ad una condotta colposa più che all’espressione di una forma pur attenuata di volontà (263). Infatti, l’accettazione del rischio da parte dell’agente non rappresenta altro che la violazione di “una fondamentale regola cautelare, che non poteva non imporgli, date le premesse, di rimanere inerte, o, comunque, di agire diversamente” (264). In altri termini, secondo questa condivisibile lettura l’idea sottostante il rischio non sembra legata ad un’intenzione, ma piuttosto ad una grave negligenza. Il timore è che si finisca per prevedere una forma di dolus in re ipsa, “cioè di desumere il dolo soltanto dal fatto, con inevitabile utilizzazione di un inaccettabile meccanismo presuntivo” (265). Inoltre, affinché la componente soggettiva mantenga almeno una pur minima natura intenzionale “il requisito della prevedibilità dovrebbe essere sempre rapportato all’agente concreto” (266). Tuttavia, ciò non sembra essere sempre avvenuto nella giurisprudenza dei tribunali internazionali o ibridi che abbiamo visto applicare tale figura. Nella maggior parte dei casi si è richiesto (261) OLASOLO, Essays on International Criminal Justice, Oxford-Portland, 2012, p. 136. (262) ANTOLISEI, Manuale di diritto penale., op. cit., p. 309. (263) PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, p. 280. (264) MANNA, Colpa cosciente e dolo eventuale: l’indistinto confine e la crisi del principio di stretta legalità, in Indice Penale, n.1, 2010, p. 16. (265) Ibidem, p. 17. (266) MERENDA, L’elemento soggettivo nel crimine di genocidio, in MEZZETTI, (a cura di), Diritto penale internazionale. Casi e materiali, Torino, 2006, p. 98. 97 che il soggetto fosse “aware” (dunque concretamente consapevole) della prevedibile conseguenza criminosa dell’azione del gruppo, ma in altri la mera possibilità è sembrata sufficiente (267). Non più dunque una prevedibilità concreta, o almeno astratta, della verificazione dell’evento, ma la semplice eventualità che questo avvenga. L’ampiezza di un tale criterio di attribuzione sembra allargare eccessivamente le maglie della responsabilità penale. È di tutta evidenza, infatti, che i confini delle possibili conseguenze di una certa condotta sono infinitamente più ampi e indefiniti di quelli parametrati in termini di prevedibilità (268). In definitiva, si può forse affermare che la mens rea della JCE III non ha confini chiari e facilmente determinabili. In relazione alle categorie giuridiche della penalistica italiana, e ritenendo in generale accettabile l’assimilazione operata dal Tribunale per la ex Iugoslavia nel caso Tadić, tale elemento soggettivo, a seconda dell’applicazione che ne viene fatta, “oscillerebbe tra il nostro dolo eventuale e la colpa, anche incosciente” (269) che, solo per approssimazione, possono essere equiparati alla recklessness dei sistemi di common law. O meglio, comprendendo all’interno del concetto di recklessness un elemento volitivo (assente nei sistemi che conoscono quel particolare istituto) come l’accetazione del rischio (270), il Tribunale per la ex Iugoslavia ha notevolmente avvicinato tale criterio di imputazione (per sua natura colposo) ad uno intenzionale come il dolo eventuale. Le difficoltà nell’individuazione dell’elemento soggettivo emergono anche nei crimini a dolo speciale (271). Tali complessità definitorie sono state peraltro evidenziate in modo piuttosto esplicito dal Tribunale per il Ruanda. Nel primo e fondamentale caso sul genocidio, la stessa Camera di prima istanza ha infatti sottolineato che l’elemento soggettivo di tale crimine “is a (267) ICTY, Prosecutor v. Brđanin and Talić, Decision on Form of Further Amended Indictment and Prosecution Application to Amend, IT-99-36, Trial Chamber, 26 giugno 2001, par. 30. (268) In questo senso, DARCY, An Effective Measure of Bringing Justice: The Joint Criminal Enterprise Doctrine of the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, in The American University Law Review, vol. 20, n. 1, 2004, p. 187. (269) Ibidem. (270) ICTY, Prosecutor v. Blaskić, IT-95-14, Appelas Judgement, 29 luglio 2004, par. 41. Cfr. Sul punto BADAR, Rethinking Mens Rea in the Jurisprudence of the International Criminal Tribunals for the Former Yugoslavia and Ruanda, in OLUSANYA, Rethinking International Criminal Law, The Hague, 2007, pp. 15-18. (271) Si veda, per un interessante tentativo ricostruttivo, BADAR, Drawing the Boundaries of Mens Rea in the Jurisprudence of the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, in International Criminal Law Review, n. 6, 2006, p. 313. 98 mental factor which is difficult, even impossible, to determine” (272). Nel presente lavoro utilizzeremo indifferentemente i termini dolo speciale o specifico, poiché questa equiparazione sembra essere stata avallata dal Tribunale per la ex Iugoslavia (273). In dottrina, tuttavia, è stato più volte e correttamente sottolineato come tale corrispondenza sia lontano dall’essere perfetta (274). In generale, si può dire che i crimini a dolo speciale presentano un doppio elemento soggettivo. Il primo, ordinario requisito di ogni fattispecie criminosa (general intent), concerne l’intenzione di commettere un determinato crimine, un omicidio ad esempio. Il secondo elemento, addizionale, connota ulteriormente la commissione di quel crimine, nel caso del genocidio, ad esempio, l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo in quanto tale (275). L’intenzione di distruggere quel gruppo, infatti, in quanto tale (“as such”), deve essere fondata su specifici motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (276) e costituisce il “surplus of intent” (277) caratteristico e imprescindibile elemento del crimine di genocidio. Una mens rea così strutturata ha la funzione di anticipare la punibilità della condotta. Le condotte criminose accompagnate dall’intento di distruggere un determinato gruppo, infatti, sono orientate al futuro ma vengono punite, proprio per la gravità dell’obiettivo prefisso, in una fase (auspicabilmente) preparatoria (ma che deve comunque essere in prospettiva concretamente realizzabile) ( 278). Pur (272) ICTR, Prosecutor v. Akayesu, ICTR-96-4, Trial Chamber, 2 settembre 1998, par. 523 (273) ICTY, Prosecutor v. Jelisić, IT-95-10, Appeals Chamber, Judgement,5 luglio 2001, par. 51. (274) Cfr. SCHABAS, The Jelisić Case and the Mens Rea of the Crime of Genocide, in Leiden Journal of International Law, vol. 14, 2001, p.129; VALLINI, Intent, in CASSESE, The Oxford Companion to International Criminal Justice, Oxford, 2009, p. 377. (275) ICTR, Prosecutor v. Musema, ICTR-96-13A, Trial Chamber, Judgement,, 27 gennaio 2000, par. 167. Giurisprudenza successive ha confermato quanto già previsto dalla Commissione di diritto internazionale che il quantum della parte di gruppo che si mira ad eliminare deve essere “substantial”, ILC Report, Un GAOR, 51st session, UN Doc A/51/10 (1996), par. 89; cfr. anche LIPPMAN, Genocide, in BASSIOUNI, International Criminal Law, 3 ed, Leiden, 2008, p. 430 (e giurisprudenza ivi citata). (276) ICTY, Prosecutor v. Jelisić, IT-95-10-T, Trial Chamber, Judgement,14 Dicembre 1999, par. 67: “the special intent which characterises genocide supposes that the alleged perpetrator of the crime selects his victims because they are part of a group which he is seeking to destroy”. (277) ICTY, Prosecutor v. Stakić, Trial Judgement, IT-97-24-T, 31 luglio 2003, par. 520. (278) Cfr. TRIFFTERER, Genocide, Its Particular Intent to Destroy in Whole or in Part the Group as Such, in Leiden Jorunal of International Law, vol.14, 2001, p. 402: “before the perpetrator can realize his particular intent, he may be prosecuted for having this intent, however, only when this intent has become manifest by the commission of one of the acts defined as genocide”. La prima definzione del crimine di genocidio risale come noto a LEMKIN, Genocide as a Crime under International Law, in American Journal of International Law, n. 41, 1947. 99 anticipando la punibilità della condotta, le fattispecie a dolus specialis restringono il raggio della responsabilità penale richiedendo un elemento di prova aggiuntivo e caratterizzante il crimine. Questo aspetto, come vedremo, incide in modo sostanziale sulla risposta alla nostra domanda. Quella appena descritta sembra essere la struttura del crimine di genocidio per come intesa dalla giurisprudenza dei tribunali ad hoc e dalla dottrina maggioritaria ed è quindi quella che prenderemo a riferimento. Non possiamo, tuttavia, non spendere alcune parole per menzionare altri filoni interpretativi che in modi diversi negano o sminuiscono la rilevanza del dolo speciale nel genocidio, evidenziando in tal modo la complessità di tale forma di mens rea. Tra coloro che non riconoscono la natura di crimine a dolo speciale del genocidio, è stata da tempo avanzata l’ipotesi per cui una responsabilità primaria per questo crimine dovrebbe estendersi anche a coloro che sono “solo” consapevoli che la propria condotta contribuisce a mettere in pericolo l’esistenza di un determinato gruppo. L’intento specifico del genocidio sarebbe soddisfatto dalla mera knowledge della distruzione del gruppo (279). Giungendo allo stesso risultato, altra autorevole dottrina insiste sul fatto che l’elemento soggettivo caratterizzante il genocidio (l’intenzione di distruggere un determinato gruppo in quanto tale) non pertiene solo il singolo individuo, ma concerne piuttosto un gruppo, un’organizzazione, un’entità statale. Si tratta in definitiva di un’azione collettiva all’interno della quale si inserisce la condotta individuale. L’intento specifico da dimostrare sarebbe quello più generale dell’organizzazione, potremmo dire lo scopo politico (280). Infine, combinando queste due letture, vi è chi ha sostenuto che l’elemento soggettivo specifico dovrebbe essere dimostrato solo in capo ai top-level perpetrators, mentre per tutti gli altri, intermedi o di basso rango, la consapevolezza dell’altrui intento genocidaire dovrebbe bastare (281). Risulta chiaro da questa breve analisi (279) GREENAWALT, Rethinking Genocidal Intent: The Case for a Knowledge-Based Interpretation, in Columbia Law Review, vol. 99, 1999, pp. 2259-2294. L’A. ripercorre la genesi della definizione del crimine di genocidio, dimostrando che tale lettura non risulta incompatibile con il contenuto della norma. (280) VEST, A Structure-Based Concept of Genocidal Intent, in Journal of International Criminal Justice, vol.5, 2007, pp. 781-797. Critico verso questa ricostruzione SAFFERLING, The Special Intent Requirement in the Crime of Genocide, in SAFFERLING, CONZE (ed.), The Genocide Convention Sixty Years After Its Adoption, The Hague, 2010, pp. 172-173. (281) AMBOS, What does “intent to destroy” in genocide means?, in International Review of the Red Cross, vol. 91, 2009, pp. 833-858. L’A. approfondisce e chiarisce, da un punto di vista criminologico, la sua posizione in AMBOS, Criminologically Explained Reality of Genocide, Structure of the Offence and the “Intent to Destroy” Requirement, in SMEULERS, (ed.), 100 ricostruttiva delle varie tesi che hanno tentato di definire i confini e determinare la natura della componente soggettiva del genocidio che questa non appare di immediata e di facile individuazione. Seppur indubbiamente il più rilevante, il crimine di genocidio non è il solo crimine ad essere stato individuato dalla giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia come richiedente un dolo speciale. Troviamo, tra gli altri, innanzitutto, la persecuzione. L’atto criminoso implicante la commissione di questo particolare crimine contro l’umanità (un omicidio, ad esempio o una violenza sessuale) deve essere accompagnato dall’intento discriminatorio, politico, razziale o religioso, di colpire quell’individuo poiché appartenente a uno specifico gruppo (282). Anche la tortura, in quanto crimine autonomo, può essere considerata a dolo speciale. Questa fattispecie criminosa, infatti, prevede da un lato l’intenzione di causare delle sofferenze fisiche o mentali ai danni della vittima e dall’altro, lo specifico scopo “to obtain information or confession, to punish, intimidate or coerce the victim or a third person, or to discriminate, on any ground, against the victim or a third person” (283). Ancora, nella giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia rinveniamo, tra i crimini di guerra a dolo speciale, anche quello definito come “terror against the civilian population” che prevede oltre a una serie di atti di violenza rivolti ad individui che non prendono parte alle ostilità, l’elemento soggettivo specifico appunto di spargere il terrore tra la popolazione civile (284). Infine, distinto e autonomo rispetto al crimine di guerra cui appena accennato, il crimine di terrorismo che, per come recentemente interpretato dal Tribunale per il Libano, presenta anch’esso una componente psicologica addizionale: “the special intent to cause a state of terror” (285). In generale, come detto, si ritiene qui condivisibile l’impostazione seguita dalla giurisprudenza penale internazionale e maggioritaria in dottrina Collective Violence and International Criminal Justice, An Interdisciplinary Approach, Antwerpen-Oxford-Portland, 2010, pp.153-173. (282) ICTY, Prosecutor v. Blaskic, cit., 29 luglio 2004, par. 164. (283) ICTY, Prosecutor v. Limaj, IT-03-66, Trial Chamber, Judgement 30 novembre 2005, par. 235. (284) ICTY, Prosecutor v. Galić, IT-98-29, Trial Chamber, Judgement, 5 dicembre 2003, par. 133. (285) STL, Interlocutory Decision on the Applicable Law: Terrorism, Conspiracy, Homicide, Perpetration, Cumulative Charging, cit., 16 Febbraio 2011, par. 145. 101 che afferma la necessaria presenza di una doppia componente soggettiva in questa particolare categoria di crimini. 4. JCE III e Nullum Crimen Sine Culpa Il principio di colpevolezza è un principio cardine negli ordinamenti penali nazionali e può essere considerato un principio generale di diritto nel diritto internazionale penale. A Norimberga, si espresse chiaramente l’idea che “one of the most important (of well settled legal principles) is that criminal guilt is personal” (286). Inoltre, e per l’ennesima volta, è la sentenza Tadić a dover essere richiamata. Vi troviamo, infatti, che: “in international law as much as in national systems, the foundation of criminal responsibility is the principle of personal culpability: nobody may be held criminally responsible for acts or transactions in which he has not personally engaged or in some other way participated (nullum crimen sine culpa)” (287). Il principio nullum crimen sine culpa presuppone, in altre parole, che la responsabilità penale derivi da un comportamento colpevole (intenzionale o negligente) e da una condotta che possa essere imputata al soggetto. La ratio e l’importanza di tale principio risiede nell’evitare, da un lato, forme di responsabilità oggettiva e dall’altro, ipotesi di responsabilità per fatto altrui. Non punire un individuo senza averne provato il personale coinvolgimento materiale e psicologico e non ammettere forme di responsabilità collettiva. Ma non solo. Si tratta anche di graduare le responsabilità e le conseguenti pene in misura corrispondente e coerente con il quantum di colpevolezza del soggetto agente (288). Una volta definito in termini generali che cosa si intenda con tale (286)International Military Tribunal, Judgment, in Trial of the MajorWar Criminals before the International Military Tribunal, Nuremberg, 14 November 1945 – 1 ottobre 1946, p. 256. Cfr. anche JESCHECK, The General Principles of International Criminal, op. cit., p. 45. (287) ICTY, Prosecutor v. Tadić, cit., 15 luglio 1999, par. 186. (288) Sul punto vedi, OHLIN, Group Think: The Law of Conspiracy and Collective Reason, in The Journal of Criminal Law and Criminology, vol. 98, n.1, 2008, p. 161. Non sembra invece particolarmente legato al paradigma penale della responsabilità personale e colpevole DRUMBL, Pluralizing International Criminal Justice, in Michigan Law Review, vol. 103, 2005, pp. 115116: “criminal law systems focused on individual responsibility may be ill-suited to promote accountability for collective wrongdoing”. Anche perché “it does not appear that individualized guilt dissipates the spectre of collective blame” (p. 123). Cfr anche DRUMBL, 102 principio è necessario capire - e l’operazione risulta certamente più complessa se e quando l’applicazione di un determinato modello ascrittivo o di un particolare elemento soggettivo ne rappresenta una violazione. Autorevole e copiosa dottrina ha, infatti, messo in discussione la compatibilità della JCE III con il principio di colpevolezza. Secondo alcuni il contrasto sarebbe addirittura “obvious”. Tale conclusione deriva dal fatto che: “if, according to JCE III, all members of a criminal enterprise incur criminal responsibility even for criminal acts by some members which have not been agreed upon by all members before the commission but are, nonetheless, attributed to all of them on the basis of foreseeability, the previous agreement or plan of the participants as the basis of reciprocal attribution and, thus, a general principle in the law of co-perpetration is abolished” (289). Si sostiene, in altri termini, che la terza forma di JCE si avvicina pericolosamente ad una forma di responsabilità collettiva, in cui la mera appartenenza dell’agente ad uno specifico gruppo politico o militare implica una sua colpevolezza (290). L’istituto declinerebbe pericolosamente verso modelli di diritto penale dell’autore piuttosto che del fatto. Come abbiamo visto nel primo capitolo, tuttavia, le soluzioni che gli ordinamenti giuridici hanno scelto nel tempo per determinare la disciplina del concorso di persone sembrano essere svariate, complesse e spesso anche in contraddizione tra loro. Risulta difficile condividere, come nella dottrina da ultimo citata, riferimenti a un principio generale della coautoria che possa considerarsi comune a tutti o quasi gli ordinamenti giuridici. La JCE III richiama, nelle stesse parole del Tribunale per la ex Iugoslavia, il nostro art. 116 del codice penale oltre che naturalmente essere fondata più in generale sulla teoria anglosassone del common purpose. La particolare forma di concorso, c.d. anomalo, contenuta nella nostra disposizione prevede Collective Responsibility and Postconflict Justice, in ISAACS, VERNON, Accountability for Collective Wrongdoing, Cambridge, 2011, pp. 23-60. (289) AMBOS, Amicus Curiae Brief in the Matter of the Co-Prosecutors Appeal of the Closing Order against Kaing Guek Eav “Duch” Dated 8 August 2008, in Criminal Law Forum, 2009, p. 370. (290) AMBOS, Joint Criminal Enterprise and Command Responsibility, in Journal of International Criminal Justice, 2007, vol.1, n.5, p. 167. Cfr. Anche METTRAUX, International Crimes and the ad hoc Tribunals, op. cit., p. 292-293: “there is indeed a real risk, for instance, that knowledge of the alleged criminal purpose of that enterprise be inferred mainly, if not solely, from the accused’s association with members of that enterprise (even where loosely defined) and that rather secondary participants may be handed sentences disproportionate to their actual contribution to that enterprise by reason of the “natural and foreseeable” consequences trigger embedded in that concept.” 103 esattamente una forma di responsabilità per l’evento non voluto, per la commissione di un reato da parte degli esecutori materiali diverso da quello concordato. Anche se l’art. 116 mirava originariamente a prevedere una forma di responsabilità obiettiva, inammissibile proprio poiché in contrasto con il principio di colpevolezza, la nostra giurisprudenza ha nel tempo chiarito come tale norma dovesse essere intesa, restringendone nel tempo l’ambito di applicazione. La condotta colpevole discenderebbe dal fatto che, “il reato diverso o più grave debba potere rappresentarsi alla psiche dell’agente nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto” (291). Per garantire il rispetto del principio di colpevolezza è necessario un ulteriore requisito, ribadito più volte in dottrina e consacrato dalla giurisprudenza: il giudizio di prevedibilità del reato diverso deve essere valutato “alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto, utilizzando il parametro dell’homo eiusdem condicionis et professionis” (292). Il criterio di imputazione non sembra essere quindi inaccettabile se interpretato alla stregua dei suddetti principi. Insomma, è difficile sostenere che l’applicazione della JCE III, premesso sempre che la prevedibilità sia valutata alla luce del caso concreto, sia automaticamente e per se in contrasto con il principio di colpevolezza. Nel nostro ordinamento, come in quello tedesco, il principio ha rango costituzionale (art. 27 Cost.) e l’art. 116, pur con incertezze, critiche ed interpretazioni non sempre univoche, ha superato più volte il vaglio di costituzionalità davanti all’organo a ciò preposto (293). Come abbiamo visto poi, lo stesso criterio di imputazione è piuttosto noto a diversi sistemi di common law, pur se in questi ultimi il concetto di accomplice liability è inteso (291) Corte costituzionale italiana, sentenza n. 42 del 1965. (292) ROMANO, GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, 3 ed., Milano, 2005, p. 243. (293) Nonostante le numerose critiche che vengono rivolte al nostro impianto normativo in tema di concorso, (cfr. DONINI, Il concorso di persone nel progetto Grosso, in AA.VV., (a cura di) DE MAGLIE, SEMINARA, La riforma del codice penale, Parte generale, Milano, 2002), questa medesima autorevole dottrina sottolineava, a ragione ci sembra, i vantaggi che possono derivare da una impostazione unitaria come la nostra “in cui molto agilmente la discrezionalità ha potuto sostituire le piú onerose, e talvolta, inutili fatiche in cui il giudice è impegnato laddove la legislazione impone un distinto titolo di reato, con correlativa pena astratta, al partecipe rispetto all’autore”, cfr. DONINI, La partecipazione al reato tra responsabilità per fatto proprio e responsabilità per fatto altrui, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1984, p. 177. 104 in senso ampio e può ricomprendere sia principals che accessories (294). Il criterio di imputazione JCE, come più volte detto, rientra invece nell’alveo di una responsabilità primaria. Diversa questione è poi domandarsi se l’utilizzo di tale modello ascrittivo nel diritto internazionale penale sia consolidato nel diritto consuetudinario e auspicabile in termini di opportunità politica. Sul primo punto abbiamo già diffusamente trattato nel precedente capitolo ed il suo fondamento ci è sembrato discutibile. Sul secondo aspetto, i difensori della figura avanzano spesso ragioni di politica criminale che sembrano condivisibili. Risulta spesso difficile che i soggetti in posizione apicale di un qualsiasi gruppo di potere, istituzionale o meno che sia, siano a conoscenza di ogni elemento costitutivo del fatto criminoso. Può essere quindi opportuno prevedere standard più tenui che permettano l’imputazione anche solo sulla base di una mera rappresentazione dell’evento e l’accettazione del rischio che questo si concretizzi (295). La questione sembra essere diversa però quando tale criterio di imputazione voglia applicarsi ai crimini a dolo speciale. 5. La compatibilità della JCE III con i crimini a dolus specialis nei tribunali ad hoc Il Tribunale per la ex Iugoslavia ha riconosciuto l’applicabilità della JCE III ai crimini a dolus specialis. Non sarebbe necessario, in caso di genocidio ad esempio, dimostrare che l’agente abbia agito con l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Sarebbe piuttosto sufficiente, ad avviso del Tribunale, che tale sia la volontà specifica dell’esecutore materiale del crimine non previsto dal piano comune, ma comunque naturale e prevedibile conseguenza dell’azione concertata. La Camera d’appello del Tribunale sottolinea, infatti, che la JCE III è un modo di attribuzione della responsabilità e non un elemento del crimine. In quanto criterio di imputazione, tra l’altro specificamente pensato per attribuire ad un (294) LAFAVE, SCOTT, Substantive Criminal Law, St. Paul Minn., 1986, p. 590. (295) CASSESE, The Proper Limits of Individual Responsibility under the Doctrine of JCE, in Journal of International Criminal Justice, vol.1, n. 5, 2007, pp.117-118. Cfr. anche MERENDA, L’elemento soggettivo nello statuto della corte penale internazionale, in MEZZETTI, (a cura di), Diritto penale internazionale. Studi, Torino, 2008, p. 82 e VAN DER WILT, Joint Criminal Enterprise: Possibilities and Limitations, in Journal of Int. Criminal Justice, vol. 5, n.1, 2007. 105 soggetto la responsabilità di un crimine che non ha voluto, possiede appunto una propria e apposita mens rea attraverso la quale si può imputare un crimine commesso da altri ad un soggetto che ha aderito all’impresa criminale comune (296). Come altri meccanismi ascrittivi (aiding and abetting o la responsabilità del superiore), prosegue la Corte, la JCE III “do not require proof of intent to commit” (297), ma al contrario, ed è questa la sua peculiarità, uno standard volitivo attenuato. Insomma, “provided that the standard applicable to that head of liability, i.e. “reasonably foreseeable and natural consequences” is established, criminal liability can attach to an accused for any crime that falls outside of an agreed upon joint criminal enterprise” (298). Anche in dottrina è stata riconosciuta la possibilità di impiegare la JCE III come criterio di imputazione per il crimine di genocidio. Condividendo l’impostazione della Camera d’appello del Tribunale per la ex Iugoslavia, infatti, si è affermato che nel caso della JCE III, la prova della particolare mens rea di questo criterio di imputazione in capo all’imputato “is the only thing he needs to meet to be held responsible for an offence committed by another person, the physical perpetrator” (299). Altri, nel giustificare tale compatibilità propongono di modificare quella che abbiamo visto essere diventata la natura di responsabilità primaria della JCE. Si sostiene, infatti, che se l’agente non possiede l’intento genocidaire, ma è tuttavia consapevole che qualcuno dei componenti del gruppo potrebbe agire in tal senso, non possa essere considerato un coautore del crimine ma piuttosto un complice. Ancora una volta si tende qui a vedere la JCE, nel modo in cui forse era stata pensata nella sentenza Tadić, come forma di responsabilità per la partecipazione ad un piano (296) ICTY, Prosecutor v. Brđanin, IT-99-36-A, Decision on Interlocutory Appeal, Appeals Chamber, 19 marzo 2004, par. 5: “the third category of joint criminal enterprise is, as with other forms of criminal liability, such as command responsibility or aiding and abetting, not an element of a particular crime. It is a mode of liability through which an accused may be criminally responsible despite not being the direct perpetrator of the offence. An accused convicted of a crime under the third category of joint criminal enterprise need not be shown to have intended to commit the crime or even have known with certainty that the crime was to be committed. Rather, it is sufficient that the accused entered into a joint criminal enterprise to commit a different crime with the awareness that the commission of that agreed upon crime made it reasonably foreseeable to him that the crime charged would be committed by other members of the joint criminal enterpirse, and it was committed”. Vedi anche ICTY, Prosecutor v. Milosevic, IT-02-54, Decision on Motion for Judgement of Acquittal, Trial Chamber, 16 giugno 2004, par. 291 e ss. (297) Ibidem, par. 7. (298) Ibidem, par. 9. (299) DORIA, The Relationship between Complicity Modes of Liability and Specific Intent Crimes in the Law and Practice of the ICTY, in DORIA, GASSER, BASSIOUNI, The Legal Regime of the International Criminal Court. Essays in Honour of Professor Igor Blishchenko, Leiden, 2009, p. 150. 106 criminale all’interno della quale si può poi essere imputati come autori o complici (300). Ma come abbiamo visto non è in questo modo che la figura è stata in definitiva intesa dai tribunali penali internazionali. La JCE è una forma di commissione del crimine, di responsabilità primaria. Che si possa poi essere complici, accessori, nel crimine di genocidio, è stato confermato in modo piuttosto chiaro anche dal Tribunale per il Ruanda. Nel caso Akayesu, troviamo infatti che “an accomplice to genocide need not necessarily possess the dolus specialis of genocide, namely the specific intent to destroy, in whole or in part, a national, ethnic, racial or religious group, as such” (301). Alcune decisioni della Camera di primo grado del Tribunale per la ex Iugoslavia, tuttavia, non sembravano aver adottato lo stesso approccio visto poco sopra in merito alla compatibilità tra JCE III e genocidio. Secondo questo diverso orientamento, in definitiva abbandonato dal Tribunale, la JCE III chiaramente“falls short of the threshold needed to satisfy the specific intent” (302). Inoltre, nel caso Krstić, la contrastante posizione assunta delle camere è inversa. Mentre in primo grado si era sostenuto che la specifica mens rea del genocidio potesse essere dedotta dal fatto che Krstić fosse consapevole dell’intento genocidario dei propri sottoposti e degli altri appartenenti all’esercito serbo-bosniaco, la Camera d’appello ha imputato al generale serbo di aver “solo” aiutato ed agevolato la commissione del genocidio a Srebrenica, evitando di applicare la JCE III, per l’impossibilita di provare il dolus specialis genocidiario dell’accusato. In dottrina la soluzione è sembrata a molti preferibile. Vi è per esempio chi ha sostenuto, in modo piuttosto netto, che l’applicazione della JCE III sconvolgerebbe completamente la natura stessa del crimine di genocidio “for the sake of encompassing within its terms as many (300) VAN SLIEDREGT, Joint Criminal Enterprise as a Pathway to Convicting Individuals for genocide, in Journal of International Criminal Justice, vol. 5, n. 1, 2007, pp. 281 e ss.. Avverte il pericolo che “si equiparino indebitamente le posizioni dei concorrenti, anche se fondate su presupposti soggettivi irriducibilmente diversi” anche MERENDA, L’elemento soggettivo nel crimine di genocidio, op. cit., p. 100. (301) ICTR, Prosecutor v. Akayesu, ICTR-96-4-T, 2 settembre 1998, par. 540. Diversa e complessa questione è poi quella di distinguere la complicità nel genocidio (aiding and abetting) come criterio di imputazione dalla complicità nel genocidio intesa come crimine, vedi sul punto EBOE-OSUJI, “Complicity in Genocide” versus “Aiding and Abetting in Genocide”, in Journal of Int. Criminal Justice, n.3, 2005, pp. 56-81. (302) ICTY, Prosecutor v. Brđanin, Decision on Motion for Acquittal pursuant to Rule 98bis, IT-99-36, Appeals Chamber, 29 novembre 2003, par. 57. Cfr. anche ICTY, Prosecutor v. Stakić, cit., 31 luglio 2003, par. 530., cfr. ICTY, Prosecutor v. Krstić, cit., 19 aprile 2004, parr. 134 e ss. 107 categories and degrees of criminal envolvment as possible” (303). Questa prima e piú restrittiva lettura ha poi trovato decisa conferma, come vedremo, di fronte al Tribunale speciale per il Libano. Come già osservato, il Tribunale per il Ruanda ha confermato quanto statuito dal Tribunale per la ex Iugoslavia in merito alla natura consuetudinaria della JCE e alla sua applicabilità ai crimini internazionali. Nonostante l’atteggiamento in generale più cauto del Tribunale per il Ruanda nei confronti del nostro istituto (304), la Camera d’appello ha confermato anche la posizione assunta dal Tribunale per la ex Iugoslavia sulla questione in esame, affermando, in modo piuttosto conciso, di non vedere particolari ragioni che possano escludere l’applicazione della JCE al crimine di genocidio (305). Quando invece il Tribunale non ha ritenuto applicabile la JCE ciò è avvenuto sulla base di ragioni procedurali (306). Non possiamo, tuttavia, rinvenire nella giurisprudenza del Tribunale per il Ruanda nessuna chiara ed esplicativa argomentazione a favore della suddetta compatibilità. Occorre da ultimo sottolineare che recentemente l’applicazione della JCE III ai crimini a dolo specifico è stata rimessa in discussione anche all’interno dello stesso Tribunale per la ex Iugoslavia, proprio alla luce dei nuovi sviluppi giurisprudenziali. Nel caso Karadžić si è sostenuto appunto che l’interpretazione che il Tribunale ha sino ad oggi dato in merito alla compatibilità di un criterio di imputazione caratterizzato dal dolo eventuale e i crimini a dolo specifico è stato “superseded by more recent events” (307). Tali recenti sviluppi sarebbero costituiti dalle ultime decisioni delle camere cambogiane e del Tribunale per il Libano. Appare, tuttavia, improbabile che il Tribunale per la ex Iugoslavia modifichi la propria posizione sul punto. La Camera di prima istanza ha già osservato, infatti, che “there is clear Appeals Chamber authority to the effect that convictions for genocide, which is a (303) METTRAUX, International Crimes, op. cit., 2005, p. 215. E poi ancora, dal punto di vista del soggetto agente si potrebbe anche dire che “he should be shown to have had the genocidal intent personally”. (304) Vedi supra Cap. I, par. 6. (305) ICTR, Prosecutor v. Rwamakuba, Decision on Interlocutory Appeal Regarding Application of Joint Criminal Enterprise to the Crime of Genocide, ICTR-98-44-AR72.4, 22 ottobre 2004, par. 29. (306) ICTR, Prosecutor v. Gacumbitsi, ICTR-2001-64, Trial Chamber, Judgement, 17 giugno 2004, par. 289: “the Chamber cannot make a finding on such allegation since it was not pleaded clearly enough to allow the Accused to defend himself adequately”. Vedi anche SCHABAS, Genocide in International Law, 2 ed, Cambridge, 2009, p. 354. (307) ICTY, Prosecutor v. Karadžić, Motion to Strike JCE III Allegations as to Specific Intent Crimes, IT-95-5/18, Trial Chamber, 22 Febbraio 2011, par. 7. 108 specific intent crime, can be entered on the basis of the third form of joint criminal enterprise liability” (308). 6. Il diverso orientamento del Tribunale speciale per il Libano Il 16 febbraio 2011, la Camera d’appello del Tribunale speciale per il Libano ha emesso un’interessante decisione, cui per altri motivi si è già accennato, nel contesto del procedimento di convalida del primo atto d’accusa formulato dal Procuratore del Tribunale. La decisione, in particolare in tema di terrorismo, è destinata a costituire un punto di riferimento per la giurisprudenza oltre che terreno di confronto per la dottrina. Pur riconoscendo, infatti, che l’opinione prevalente in dottrina respinge l’esistenza di una definizione generalmente condivisa del crimine di terrorismo, la Camera afferma che tale definizione è gradualmente emersa a livello consuetudinario (309). Inoltre, tra le altre questioni in esame nella decisione, il Tribunale si è pronunciato sulla possibilità o meno di utilizzare la forma di attribuzione della responsabilità Joint Criminal Enterprise, ed in particolare la sua terza variante, ai crimini a dolo specifico. Naturalmente, è questo secondo aspetto che ora ci interessa. La Camera ribadisce quanto già affermato nella giurisprudenza dei tribunali ad hoc sulla natura consuetudinaria di tale forma di attribuzione della responsabilità. Nonostante il concetto di JCE sia formalmente sconosciuto al diritto libanese, i modi di attribuzione della responsabilità per la criminalità collettiva da questo previsti vi si sovrappongono rendendo, ad avviso della Camera, applicabile questo criterio di imputazione senza infrangere il principio di legalità. Nella decisione, tuttavia, si nega la possibilità di applicare la terza forma di JCE ad un crimine a dolo specifico come il terrorismo. In modo abbastanza sorprendente il Tribunale per il Libano contraddice quanto è stato (308) ICTY, Prosecutor v. Karadzić, Decision on the Accused’s Motion to Strike JCE III Allegations as to Specific Intent Crimes, IT-95-5/18 Trial Chamber, 8 aprile 2011, par. 3. (309) Essa ricomprenderebbe tre elementi: 1) la commissione di un atto criminale o la minaccia di commetterlo; 2) l’intento di diffondere il panico tra la popolazione o di costringere direttamente o indirettamente un’autorità nazionale o internazionale a tenere o meno un determinato comportamento; 3) un elemento transnazionale come componente dell’atto criminoso, cfr. STL, Interlocutory Decision on the Applicable Law: Terrorism, Conspiracy, Homicide, Perpetration, Cumulative Charging, cit. 16 Febbraio 2011, par. 85. 109 più volte affermato nella giurisprudenza dei tribunali ad hoc. Nelle perentorie parole della decisione “the better approach under international criminal law is not to allow convictions under JCE III for special intent crimes like terrorism” (310). Ad avviso dei giudici, il dolus eventualis della JCE III sarebbe incompatibile con qualsiasi crimine a dolo specifico. Tale incompatibilità sembra intrinseca alla stessa natura della JCE III, nella quale l’imputato non condivide l’intento criminoso dell’esecutore materiale. Questa, come sappiamo, è la peculiarità propria della JCE III e che la differenzia dalle prime due categorie ove la condizione mentale dell’imputato, partecipe dell’impresa criminale, è la stessa dell’esecutore materiale. L’anomalia della JCE III sarebbe di considerare autore di un crimine a dolus specialis un individuo che non possiede l’atteggiamento psicologico richiesto; al più, nelle parole della Camera, gli si potrebbe addossare una responsabilità secondaria, come complice. Il diritto penale libanese non prevede l’incompatibilità in oggetto, dal momento che il dolo eventuale “is considered to be equivalent to direct intent (dol direct)” (311). In questo caso, dunque, l’applicazione del diritto internazionale, risultando più favorevole all’accusato, si impone. In altre parole, e per maggior chiarezza, ad avviso dei giudici della Camera d’appello del Tribunale, all’imputato che avesse previsto l’eventualità che un altro componente dell’impresa criminale comune commettesse un atto terroristico e, accettandone il rischio, non si fosse allontanato dal gruppo o non avesse impedito il verificarsi dell’evento criminoso, potrebbe essere attribuita al massimo una responsabilità secondaria o accessoria. La sua condotta dovrebbe essere inquadrata “as a form of assistance to the terrorist act, not as a form of perpetration” (312). Il problema, come abbiamo visto, non è nuovo. L’interpretazione dominante all’interno dei tribunali ad hoc, infatti, non è andata esente da critiche in dottrina e ha subito diversi tentativi di modifica all’interno di quegli stessi organi giurisdizionali. Si tratta di capire in buona sostanza se è ipotizzabile la commissione di un crimine che richiede un dolo specifico, attraverso un meccanismo di attribuzione della responsabilità la cui componente soggettiva oscilla tra il dolo eventuale e la colpa. In altre parole, ad esempio, si potrebbe punire per aver commesso un genocidio quel soggetto (310) Ibidem, par. 249. (311) Ibidem, par. 232. (312) Ibidem, par. 249. 110 che, partecipando ad una JCE, avrebbe potuto prevedere l’eliminazione o il tentativo di eliminare in tutto o in parte un gruppo etnico come naturale conseguenza di un’operazione di pulizia etnica? La nuova lettura intrapresa dal Tribunale solleva alcuni aspetti problematici cui vale la pena in primo luogo accennare. In particolare, le perplessità insistono sull’opportunità di prevedere modi di attribuzione della responsabilità diversi a seconda del crimine in questione. L’assenza di corrispondenza tra crimini e criteri di imputazione creerebbe un’incertezza giuridica, incidendo in tal modo negativamente sul rispetto del principio di legalità (313). Altra problematica, legata anch’essa a un’esigenza di certezza giuridica, concerne la difficoltà di inquadrare in modo preciso la categoria dei crimini a dolo speciale. Abbiamo visto in precedenza come per diversi motivi l’elemento soggettivo dei c.d. crimini a dolo speciale presenti diverse complessità definitorie e si sia prestato a letture interpretative contrastanti. Si è in quella stessa sede menzionato tra questi crimini quelli che sembrano essere stati riconosciuti come appartenenti a tale categoria dai tribunali penali internazionali (in particolare, dal Tribunale per la ex Iugoslavia). In dottrina, tuttavia, si sostiene che la categoria sia più ampia e che tale ampiezza dipenda in sostanza dalla definizione che si intende conferire a quella particolare mens rea. Entrambe queste criticità, certamente esistenti, sembrano superabili. Se è vero che prevedere dei criteri di imputazione validi e comuni a tutti i crimini internazionali crea minori problemi interpretativi e garantisce probabilmente in questo modo una maggior certezza del diritto, nemmeno si può dire che una mancanza di uniformità risulti insostenibile. Al contrario, un’impostazione che preveda una differenziazione nell’applicazione dei criteri di imputazione a seconda del particolare crimine cui questi si riferiscono appare più coerente con le complessità e le specifiche caratteristiche dei diversi crimini internazionali e indica un sistema allo stesso tempo più sofisticato e dinamico. L’incertezza attuale troverà le proprie risposte nel momento in cui il giudice interno o internazionale chiarirà quali crimini internazionali (su alcuni non ha ancora avuto la possibilità di pronunciarsi) rientrino nella suddetta categoria escludendo di conseguenza per questi l’applicazione della JCE III. (313) Cfr. GILLET, SCHUSTER, Fast-track Justice, The Special Tribunal for Lebanon Defines Terrorism, in Journal of International Criminal Justice, n.9, 2011, p. 1016. 111 La soluzione avanzata dal Tribunale per il Libano appare per diversi motivi preferibile. A tal fine, e come in parte già detto, è sufficiente infatti fare riferimento alle particolari caratteristiche dei crimini a dolo speciale. Se pensiamo al genocidio, considerato, proprio per la gravità insita nel particolare disvalore della sua mens rea, il crimine dei crimini, o al terrorismo e le enormi difficoltà definitorie che esso presenta, ci rendiamo immediatamente conto della peculiarità di questi crimini (314). Questa deriva da un elemento soggettivo in entrambi i casi fortemente caratterizzante il crimine e connotato fondamentale per l’imputazione dello stesso. È evidente che quel particolare elemento soggettivo renderà più difficile in sede processuale l’imputazione del crimine a dolus specialis, qualsiasi esso sia. D’altronde ciò è stato affermato anche dalla Camera d’appello del Tribunale per la ex Iugoslavia (315) e sembra coerente con la particolare e maggiore gravità e pericolosità sociale di suddetti crimini, o comunque con la previsione normativa di una componente soggettiva addizionale. In questo senso e in altre parole, appare anche piuttosto intuitivo che, se il dolus specialis, per sua stessa natura, “demands that the perpetrator clearly seeks to produce the act charged” (316), la dimostrazione dell’esistenza dello stesso in capo al soggetto agente sembra essere difficilmente soddisfatta da un atteggiamento psicologico di dolo solo eventuale o di colpa pur grave. Naturalmente in mancanza della dimostrazione in capo all’individuo dell’intento specifico del crimine, si potranno sempre applicare altre fattispecie criminose. Sul punto ci sembrava quindi condivisibile l’atteggiamento assunto dalla Camera di primo grado del Tribunale per la ex Iugoslavia nel sostenere che, con l’applicazione della terza forma di JCE, il dolus specialis del crimine di genocidio sarebbe “so watered down that it is extinguished” (317). Inoltre, e più in generale, come già osservato in dottrina, scopo del modello ascrittivo JCE è punire come responsabili primari di un determinato crimine individui che non lo hanno materialmente commesso (o almeno non in tutti i suoi elementi materiali), ma aderendo all’impresa criminale comune hanno (314) ICTY, Prosecutor v. Jelisić, cit., 14 dicembre 1999, par. 66: “it is in fact the mens rea which gives genocide its special character and distinguishes it from ordinary crimes and other crimes against international humanitarian law”. (315) ICTY, Prosecutor v. Krstić, cit., 19 aprile 2004, par. 140: “The gravity of genocide is reflected in the stringent requirements which must be satisfied before this conviction is imposed”. (316) ICTR, Prosecutor v. Akayesu, cit., 2 settembre 1998, par. 498. (317) ICTY, Prosecutor v. Stakić, cit., 31 luglio 2003, par. 530. 112 condiviso con gli altri compartecipi l’intento di commettere quel crimine. Nella JCE III, tuttavia, questa attribuzione di responsabilità primaria non sembra giustificabile dal momento che “there is no shared intention among the members of the Joint Criminal Enterprise to have the incidental crimes committed” (318). In altre parole, la mancata realizzazione da parte del soggetto agente dell’elemento materiale del crimine non viene per così dire sostituita dalla presenza di una forte componente soggettiva, di una volontà comune di commettere l’illecito, dal momento che per definizione l’evento non è voluto. La contraddizione emerge anche da un raffronto tra il diverso atteggiamento mentale dei due soggetti: chi materialmente commette il crimine e colui cui viene imputato quello stesso crimine attraverso il criterio JCE III. Il modello prevede, come detto più volte, uno stato mentale diverso tra i due agenti, ma una responsabilità primaria identica e per il medesimo evento criminoso, ragion per cui sembra condivisibile che “the ‘distance’ between the subjective element of the two offenders must not be so dramatic as in the case of crimes requiring special intent” (319). In sostanza non sembra appropriato, almeno per i crimini a dolo speciale, mettere sullo stesso piano colui che intenzionalmente ha posto in essere la condotta criminosa ed un diverso soggetto su cui incombe invece una responsabilità per negligenza o imprudenza (320). La “distanza” nel grado di coinvolgimento mentale tra i due soggetti raggiungerebbe dimensioni difficilmente accettabili. In generale, l’idea essenziale di prevedere forme di responsabilità per il concorso con altri nella commissione di un crimine è certamente legata alla maggior pericolosità sociale dell’agire collettivo e alla conseguente necessità di colpire tali condotte come facessero parte di un unico disegno, un’unica azione nella quale convergono, aumentandone le potenzialità distruttive, le singole condotte. Questo, tuttavia, non può discostare il giudice dai fondamentali principi del diritto penale, tra i quali quello di colpevolezza, nella sua già vista essenza di responsabilità personale e colpevole. La ratio fondamentale di tale principio è proprio quella di evitare forme di responsabilità collettiva, nelle quali si perde di vista la necessità di dimostrare la partecipazione materiale e psicologica dell’individuo allo specifico crimine in oggetto e si tende piuttosto (318) OLASOLO, Essays on International Criminal Justice, op. cit., p. 140. (319) CASSESE, The Proper Limits of Individual Responsibility under the Doctrine of JCE, op. cit, p. 121. (320) Cfr. in tal senso anora OHLIN, Three Conceptual Problems with the Doctrine of Joint Criminal Enterprise, op. cit., p. 83 113 a confonderla e farla discendere dalla presenza fisica in un certo luogo o dalla generica contribuzione all’azione del gruppo. 7. Considerazioni conclusive Nel presente capitolo si è affrontato il problema del rapporto tra JCE III e principio di colpevolezza, in particolare la compatibilità dell’applicazione di questa figura ai crimini c.d. a dolus specialis. Per poter trovare una risposta al nostro quesito, ci si è in primo luogo occupati di determinare la natura della responsabilità penale derivante dalla JCE. Come si è visto, nonostante una giurisprudenza inizialmente poco chiara, non vi è più dubbio alcuno ormai che la JCE nel suo insieme, in quanto meccanismo di attribuzione della responsabilità penale, sia una forma di responsabilità primaria o principale. Si sono poi illustrato le contraddizioni e le discordanze emerse in dottrina e giurisprudenza nel definire il contenuto della componente soggettiva dei due istituti giuridici di cui in definitiva si vuole determinare l’eventuale compatibilità: il dolus eventualis della JCE III e il dolus specialis di alcuni crimini internazionali. Attraverso questa analisi risulta chiaro che la JCE III non può essere considerata automaticamente in contrasto con il principio di colpevolezza, essendo criteri di imputazione simili consacrati in diversi sistemi giuridici nazionali moderni. Venendo poi ad analizzare in che modo la giurisprudenza ha affrontato e risolto la particolare questione oggetto del presente studio, si è in primo luogo osservato come i tribunali ad hoc abbiano, in una cospicua serie di decisioni, affermato la compatibilità del modello ascrittivo JCE III con i crimini a dolo speciale. Questa impostazione viene giustificata sostenendo che la previsione di un criterio di imputazione della responsabilità come la JCE III deriva proprio dall’esigenza di attribuire ad un soggetto la responsabilità di un evento non voluto, ma prevedibile. Una volta accertata l’esistenza di un tale meccanismo ascrittivo nel diritto internazionale penale questo non potrà che applicarsi a tutti i crimini internazionali. 114 La giurisprudenza più recente nega tuttavia la compatibilità della JCE III con i crimini a dolo specifico, insistendo sulle peculiarità di questi crimini e, in particolare, sul decisivo ruolo che l’elemento soggettivo riveste nel caratterizzarli e determinarne la specialità. Un criterio di imputazione con una mens rea come quella della JCE III non sembra compatibile con la suddetta specialità per lo meno se attraverso di esso si intende attribuire una responsabilità principale. Inoltre, anche in un’ottica di adeguamento sanzionatorio del diverso ruolo dei compartecipi dell’impresa criminale comune, la JCE III non sembra in generale essere in grado di rispecchiare la reale gravità delle condotte in questo specifico contesto. Nel contesto di un modello differenziato come quello che nel tempo si è cercato di costruire nel diritto internazionale penale, un meccanismo ascrittivo di tale natura potrebbe al massimo essere utilizzato per forme di complicità o responsabilità secondaria. In questa ipotesi le problematiche sollevate in relazione al potenziale contrasto con il principio di colpevolezza sono decisamente attenuate. In questa nuova veste la JCE III sarebbe assimilabile ad altri noti modelli ascrittivi indiretti (quali la command responsiblity) ed potrebbe quindi applicata in quanto forma di complicità ai crimini a dolo speciale. 115 CAPITOLO QUARTO IL CONCORSO ANOMALO NELLO STATUTO DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE 1. Premessa; 2. Il ruolo del diritto consuetudinario nello Statuto della Corte penale internazionale; 3. I primi orientamenti della Corte penale internazionale in materia di concorso di persone nell’intepretare l’articolo 25 dello Statuto della Corte penale internazionale ; 4. Possibile compatibilità della mens rea della JCE III con l’articolo 30 dello Statuto della Corte penale internazionale; 5. Considerazioni conclusive. SOMMARIO: 1. Premessa I recenti indirizzi giurisprudenziali intrapresi da parte delle Camere straordinarie cambogiane e del Tribunale speciale per il Libano hanno rimesso in discussione l’applicazione della fattispecie concorsuale JCE III nel diritto internazionale penale, concretizzando in qualche modo le critiche avanzate da parte della dottrina in merito al rispetto di due principi fondamentali del garantismo penale: legalità e colpevolezza. Per capire quale ruolo possa in futuro rivestire siffatto criterio di imputazione, è dunque ora fondamentale cercare di determinare se la JCE III, o più in generale un criterio di imputazione per il reato diverso da quello voluto dal preteso coautore, possa trovare applicazione da parte della Corte penale internazionale. In una diversa prospettiva è interessante anche capire in che modo le previsioni dello Statuto di Roma e l’attività della Corte penale internazionale influiscono sulla norma consuetudinaria che disciplina il concorso anomalo nel diritto internazionale penale. Nelle prime decisioni la Corte ha già chiarito che, al fine di individuare il criterio distintivo tra forme di responsabilità primaria e responsabilità accessoria, intende seguire la teoria di matrice tedesca del “control over the crime” piuttosto che quella proposta dal Tribunale per la ex Iugoslavia. Dato il diverso impianto teorico e normativo, e vista soprattutto l’origine pattizia dello Statuto di Roma, potrebbe sembrare di scarsa utilità cercare di vedere quale rilevanza può essere attribuita alla giurisprudenza di altre giurisdizioni penali internazionali. Tuttavia, la giurisprudenza penale internazionale, ed in particolare quella dei tribunali ad hoc, rappresenta il corpus normativo più evoluto ed affinato nel frastagliato ambito del diritto internazionale penale ed un riferimento costante per le altre giurisdizioni nazionali o internazionali 116 chiamate a pronunciarsi sulla comissione di crimini internazionali. Questo ruolo di riferimento diviene ancor più rilevante nel caso in cui le decisioni richiamate rispecchino o presumano rispecchiare il diritto internazionale consuetudinario esistente. Tale rilevanza, d’altronde, è accentuata dal fatto che consuetudini e principi generali di diritto rientrano tra le fonti del diritto applicabile dalla Corte ex art. 21 (in particolare, quando vi sia una lacuna nello Statuto) e che in ogni caso le regole sull’interpretazione dei trattati impongono di tenere in considerazione anche il diritto consuetudinario esistente in quanto insieme di norme che trovano applicazione nelle relazioni tra le parti (art. 31.3 c)), Convenzione di Vienna). È inoltre inevitabile che lo Statuto di Roma e la giurisprudenza della Corte penale internazionale siano chiamati a dare un contributo essenziale alla definizione e graduale elaborazione delle norme del diritto internazionale penale. Da un lato, infatti, seppur l’impiego della JCE sia stato già chiaramente escluso dalla Corte ai fini della distinzione tra responsabilità primaria e accessoria, si potrebbe forse sostenere la possibilità di un suo eventuale e futuro utilizzo in quanto norma consuetudinaria ampiamente consolidata nel diritto internazionale penale. Dall’altro è opportuno verificare come le decisioni della Corte e l’interpretazione dello Statuto possano influire sul contenuto di quella norma consuetudinaria. In primo luogo, si può ipotizzare che la JCE venga ripresa all’interno delle forme di responsabilità individuale primaria disciplinate dall’art. 25 (3)(a). In particolare, tra i tre distinti criteri di imputazione per la commissione del crimine contenute nella norma, essa potrebbe essere impiegata, non all’interno della semplice autoria immediata (“as an individual” o direct perpetration), ma piuttosto, evidentemente, nella seconda previsione, la coautoria, la commissione quindi del crimine “jointly” con un altro soggetto (co-perpetration) o, nel caso si utilizzi un non membro della JCE per perpetrare il crimine, nella forma della autoria mediata, “through another person” (indirect perpetration). In secondo luogo, si può immaginare un impiego della JCE come forma di responsabilità accessoria. Nonostante non sia questa la natura che il Tribunale per la ex Iugoslavia avesse previsto per tale meccanismo ascrittivo, l’art. 25 (3)(d), espressione di una chiara influenza di istituti giuridici di 117 provenienza anglosassone, contiene tra le forme di partecipazione al crimine, la nota teoria del “common purpose”, del piano criminale comune, elemento cardine della teoria della JCE e che sembra a quest’ultima richiamare. Potrebbe quindi darsi che in quel contesto di responsabilità comunque accessoria la JCE III e i suoi elementi costitutivi, e la possibilità in altri termini di impiegare una forma di responsablità concorsuale anomala, vengano ripresi ed utilizzati per definire il contenuto della norma. Questa operazione, per quanto formalmente possibile, sembra difficile a verificarsi nella pratica. La chiara scelta della Corte a favore di una diversa teoria del concorso a scapito della JCE fa ritenere difficile un suo impiego, seppur sotto spoglie in parte diverse. Inoltre, un altro elemento critico assume centrale rilevanza: la compatibilità del particolare elemento soggettivo che abbiamo visto caratterizzare la terza forma di JCE con il mental element disciplinato dall’art. 30 dello Statuto. 2. Il ruolo del diritto consuetudinario nello Statuto della Corte penale internazionale Nonostante le perplessità già espresse sulla natura consuetudinaria della JCE e le conferme a queste criticità che sono in qualche modo arrivate da parte di alcune giurisdizioni penali internazionali e che hanno riguardato proprio la terza categoria, è come detto difficile negare che la costante affermazione di tale modello ascrittivo nei vari tribunali penali internazionali o misti (da ultimo il Tribunale per il Libano (321)) non sia una sufficiente garanzia della affermata natura di consuetudine internazionale assunta da tale norma. Si potrà forse un giorno parlare, nel caso in cui nessun altro giudice interno o, a maggior ragione, internazionale seguisse la particolare impostazione in materia di concorso di persone posta a fondamento della JCE e preferisse piuttosto adottare il nuovo approccio seguito dai giudici della Corte penale internazionale, di un processo di disconoscimento della norma e quindi di desuetudine. Sino al compimento di un siffatto processo, tuttavia, la JCE non può che considerarsi a tutti gli effetti una norma consuetudinaria. Si pone di conseguenza il problema di capire se e come tale natura consuetudinaria possa (321) STL, Interlocutory Decision on the Applicable Law: Terrorism, Conspiracy, Homicide, Perpetration, Cumulative Charging, cit., 16 febbraio 2011. 118 comportare l’applicazione della JCE all’interno della Corte penale internazionale. Se, in altri termini, vi potrebbe essere spazio per un riutilizzo della JCE ed in particolare proprio della sua terza variante che, a differenza delle prime due, sembra difficilmente conciliarsi con le disposizioni statutarie. Come detto, infatti, se un margine per il suo impiego può essere intravisto attraverso la lettura dell’art. 25 dello Statuto che disciplina la responsabilità individuale, ci sembra difficile sostenere una compatibilità della JCE III con la norma sulla componente soggettiva dei crimini internazionali (art. 30). Ma procediamo con ordine. È in primo luogo utile riportare quanto disciplinato all’art. 21 dello Statuto che, dopo aver statuito che la Corte applica in primo luogo lo Statuto stesso e gli Elementi dei crimini, prevede alla lettera b) del suo primo comma che troveranno applicazione “in the second place” e “where appropriate”, oltre ai trattati applicabili, “the principles and rules of international law, including the established principles of the international law of armed conflict”. Nonostante non compaiano le parole consuetudine o norme consuetudinarie, il riferimento a queste sembra sufficientemente chiaro. Infatti, anche se una delle idee fondanti ed ispiratrici nella stesura dello Statuto è stata quella di attribuire assoluta centralità al principio di legalità e, quasi come necessaria conseguenza, al ruolo di primo piano delle disposizioni statutarie e del dato scritto rispetto alle norme non scritte, non si è potuto rinunciare ad un riferimento, seppur di secondo ordine, all’insieme delle norme che, dal diritto dell’Aia passando per quello di Ginevra fino alla giurisprudenza dei tribunali ad hoc, sono state individuate come ossatura e fondamento del diritto internazionale umanitario e, sotto diversa forma e misura, del diritto internazionale penale. È invece di opinione decisamente contraria in merito al ruolo del diritto non scritto, chi sostiene l’assoluta irrilevanza delle consuetudini nel sistema delle fonti della Corte e sottolinea piuttosto la totale assenza dell’espressione “customary international law” nello Statuto e l’irrisorio effetto normativo dell’inciso, saltuariamente rinvenibile, “laws and customs of war”, utilizzato solo come cappello introduttivo per crimini che vengono poi specificamente descritti nei relativi articoli (artt. 8(2)(b) e 8(2)(e) dello Statuto). Abbastanza sorprendentemente, tale autorevole dottrina non compie alcun riferimento all’art. 21, ed in particolare alla sua lettera b) e a quei“principles and rules of 119 international law” che sembrano difficilmente riferirsi a qualcosa di diverso dalle norme consuetudinarie. Questi autori, più in generale, costruiscono la propria argomentazione sul fondamentale principio per cui il diritto consuetudinario “is an anathema in the criminal courts of every civilized society” (322). Sembrano prendere le mosse da questo assunto per giungere alla conclusione che più vi si conforma, affermando in definitiva che le consuetudini non trovano spazio alcuno nello Statuto della Corte. Tuttavia, se il principio della riserva di legge (della natura quindi rigorosamente scritta della disposizione penale), è certamente un caposaldo negli ordinamenti penali interni, in particolare in quelli occidentali che hanno da tempo sposato le più avanzate teorie del garantismo penale di matrice liberale, e dovrebbe forse essere un’aspirazione per tutti gli ordinamenti penali (323), tale rigida impostazione non tiene adeguatamente conto della diversità e dell’evoluzione storica del diritto penale a livello internazionale. Questo ha origine e si è nel tempo formato attraverso la ricostruzione e lo sviluppo del diritto consuetudinario. Più nello specifico e da un punto di vista formale, tale tesi non tiene conto del dato normativo contenuto nello Statuto e dell’atteggiamento più in generale dei giudici internazionali nei confronti delle norme consuetudinarie. D’altronde, la natura stessa delle norme consuetudinarie, la loro mutevolezza e flessibilità, seppur causa di una evidente tensione rispetto al fondamentale rispetto del principio di legalità, ha allo stesso tempo permesso ad un sistema complesso e composito, come quello relativo alla repressione dei crimini internazionali, di adattarsi alle cangianti situazioni ed ai mutamenti sociali e storici, adeguando il diritto a tali cambiamenti nel tentativo di rispecchiarne le evoluzioni. Per quanto dunque si sia cercato di ridurre in modo significativo e certamente apprezzabile il ruolo delle norme consuetudinarie, questo processo non sembra essersi ancora del tutto completato. L’inserimento dell’inciso “as appropriate”, non previsto nella prima stesura della disposizione (324) è certamente espressione di un atteggiamento piuttosto cauto nei confronti (322) FLETCHER, OHLIN, Reclaiming Fundamental Principles of Criminal Law, op. cit., pp. 558-559. (323) Si è parlato, infatti, di sistema-limite (o ideale) per indicare che tassatività e determinatezza delle norme, mai concretamente realizzabili in assoluto, sono un ideale da perseguire più che una concretizzabile realtà. L’A. arriva a stigmatizzare come ingenua la concezione beccariana per cui il giudice potesse divenire un mero automa applicatore del dato legislativo. Cfr. FERRAJOLI, Diritto e ragione, op. cit., p. 10 e ss. (324) UN/Doc. A/CONF.183/C.1/L.76/Add. 2. p. 17. 120 dell’applicazione del diritto internazionale generale e dell’utilizzo, più in generale, di norme non espressamente previste dallo Statuto (325). Questa impostazione risulta quindi assai prudente, ma lascia pur sempre un margine di applicazione anche al diritto non scritto. Permane, però, una certa confusione nell’interpretazione della norma. Diverse perplessità sorgono, ad esempio, dall’impiego del termine principles che sembra trovare un duplice significato all’interno dell’art. 21. Queste incertezze derivano, d’altronde, dalla stessa difficoltà di determinare la natura e l’origine di questa particolare fonte del diritto internazionale. La duplice natura dei principi generali di diritto, spesso affermata in dottrina ma meno evidente nella giurisprudenza internazionale, sembra aver trovato un chiaro riconoscimento nello Statuto della Corte penale internazionale (326). Alla lettera b), infatti, questi sembrano menzionati come principi propri dell’ordinamento internazionale, assimilati o quasi sovrapposti alle norme consuetudinarie, mentre alla lettera c) appaiono piuttosto essere principi di diritto penale emergenti dalla comparazione tra i vari ordinamenti (327). In generale, comunque, ci sembra condivisibile e giusto affermare che l’espressione “principles and rules of international law” sia una chiara “invitation to apply customary international law” (328). Ove appropriato naturalmente. D’altronde, il diritto di origine consuetudinaria ha avuto un ruolo fondamentale nello specifico campo del diritto internazionale umanitario e la Corte ha già fatto riferimento alla Convenzioni dell’Aia o di Ginevra o ai protocolli addizionali, parte delle cui norme sono considerate rispecchiare il diritto consuetudinario esistente. Lo ha fatto, in particolare, per determinare le nozioni di conflitto (325) Questo atteggiamento sembra in qualche modo confermato dalla stessa Corte, nel rifiutare di applicare di considerare “automatically applicable” le norme procedurali emerse dalla giurisprudenza dei tribunali ad hoc “without detailed analysis”, cfr. ICC, Prosecutor v. Lubanga, Decision Regarding the Practices Used to Prepare and Familiarize Witnessess for Giving Testimony at Trial, ICC-01/04-01/06, Trial Chamber I, 30 Novembre 2007, par. 44. (326) Si veda, in generale, CALIGIURI, La ricostruzione di principi generali di diritto da parte dei tribunali penali internazionali, in Rivista di diritto internazionale, n.4, 2007, pp. 1079 ss.. (327) Si veda sul punto, MCAULIFFE DEGUZMANN, Article 21. Applicable law, in TRIFFTERER, Commentary on the Rome Statute of the International Criminal Court, 2° ed. Munchen, 2008, pp. 706-707. (328) SCHABAS, Article 21. Applicable Law, in The International Criminal, cit., p. 391 e AMBOS, La construcción de una parte general de derecho penal internacional. Contribuciones de América Latina, Alemania y Espaňa, Montevideo, 2005, p. 16. 121 armato internazionale e non internazionale (329) o per la definizione di territori occupati (330). Peraltro, il richiamo alla consuetudine, seppur attenuato e saggiamente ristretto da parte degli estensori dello Statuto, è probabilmente dovuto alla perdurante imprecisione di alcune disposizioni e termini giuridici. Si tratta di norme che si caratterizzano criticamente vuoi per la loro propria indeterminatezza vuoi per il riferirsi a nozioni che non trovano una definizione all’interno dello Statuto stesso e che impongono quindi di trovare altre regole giuridiche che aiutino l’interprete a determinarne il contenuto ( 331). Per quanto criticabile, è questo il risultato di soluzioni di compromesso raggiunte al momento dell’estensione delle disposizioni statutarie che lasciano al giudice un margine di discrezionalità nella determinazione di alcuni elementi costitutivi del crimine, attraverso l’opera di ricostruzione di consuetudini e principi generali di diritto nella quale la rilevazione della norma e la creazione della stessa tendono spesso a confondersi (332). La maggior discrezionalità, infatti, deriva dalla natura stessa della norma consuetudinaria se comparata con il dato scritto. Quest’ultimo, infatti, seppur impreciso, riduce lo spazio di intervento giudiziario e rappresenta quindi una più intensa garanzia dei diritti dell’imputato. Tuttavia, e ciò sia detto per inciso, anche dove è stato raggiunto un accettabile grado di definizione delle condotte punibili, e l’articolo 25 in questo senso rappresenta un esempio rispetto alla vaghezza degli statuti dei tribunali ad hoc, rimane un inevitabile spazio di discrezionalità giudiziaria che, sia pure ridotta, è connaturata ed inerente allo stesso discorso giuridico in quanto convenzione linguistica suscettibile di interpretazioni divergenti ed incertezze terminologiche. (329) ICC, Decision on the Confirmation of Charges, Lubanga, cit., 29 gennaio 2007, parr. 208-209. (330) ICC, Prosecutor v. Bemba, Decision Pursuant to Article 61(7)(a) and (b) of the Rome Statute on the Charges of the Prosecutor Against Jean-Pierre Bemba Gombo, ICC-01/0501/08, 15 giugno 2009, par. 317, nota 389 e par. 78, nota 101. (331) In parte in tal senso alcune considerazioni di CARACCIOLO, Applicable Law, in LATTANZI, SCHABAS, Essays on the Rome Statute of International Criminal Court, vol.1, L’Aquila, 1999, pp. 226-227. (332) In relazione alla determinazione dei principi generali di diritto ciò è stato in parte affermato dallo stesso Tribunale per la ex Iugoslavia, nel caso ICTY, Prosecutor c. Kupreskić, IT-95-16, Trial Chamber, Judgement, 14 gennaio 2000, par. 669: “in this search for and examination of the relevant legal standards, and the consequent enunciation of the principles (common to the various legal systems of the world) applicable at the International level, the Trial Chamber might be deemed to set out a sort of ius praetorium. However, its powers in finding the law are of course far more limited than those belonging to the Roman praetor, under the International Tribunal’s Statute, the Trial Chamber must apply lex lata i.e. existing law, although it has broad powers in determining such law”. 122 Una volta accertato che le norme internazionali non scritte svolgono una qualche funzione nel sistema delle fonti della Corte penale internazionale, occorre capire quale sia la portata di tale rilevanza e attraverso quali strumenti interpretativi questa possa emergere. Sul punto qualche indicazione ci è stata fornita dalla stessa Corte la quale ha affermato che i principi e le regole di diritto internazionale (art. 21 (1)(b)) e i principi generali di diritto (art. 21 (1)(c)) “can only be applied when the following two conditions are met: (i) there is a lacuna in the written law contained in the Statute, the Elements of Crimes and the Rules; and (ii) such lacuna cannot be filled by the application of the criteria provided for in artiche 31 and 32 of the Vienna Convention on the Law of the Treaties and article 21 (3) of the Statute” (333). Quest’ultimo riferimento all’art. 21, par. 3, che assume un importante rilievo ai fini della tesi che si intende avanzare, concerne la compatiblità dell’attività interpretativa del giudice con i diritti umani generalmente riconosciuti. Questo dunque il ruolo delle consuetudini all’interno dello Statuto: si applicano solo se vi è una lacuna e salvo il caso in cui tale lacuna non possa essere colmata attraverso le regole sull’interpretazione dei trattati o il riferimento ai diritti umani generalmente riconosciuti. L’art. 25 è una norma piuttosto dettagliata che in principio non contiene lacune che debbano essere colmate. Non contiene, però, la definizione di ogni singolo elemento costitutivo dei diversi criteri di imputazione previsti. Questi non potranno che essere ricostruiti per via interpretativa alla luce del diritto internazionale consuetudinario per la determinazione del quale abbiamo già visto il ruolo centrale assunto della giurisprudenza dei tribunali ad hoc e degli altri tribunali penali internazionali. L’applicazione delle norme di diritto internazionale non scritto che emergono dalla giurisprudenza internazionale non potranno quindi trovare automatica e diretta applicazione (334), ma dovranno essere prese in considerazione nell’interpretazione del trattato istitutivo in quanto norme rilevanti applicabili nelle relazioni tra le parti (alla luce dell’art. 31(3)(c) della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati). È allora necessario domandarsi se la JCE, nello specifico la sua terza forma, possa rientrare o trovare una qualche applicazione attraverso (333) ICC, The Prosecutor v. Omar Hassan Ahmad Al Bashir, Decision on the Prosecution’s Application for a Warrant of Arrest against Omar Hassan Ahmad Al Bashir, Pre-Trial Chamber I, ICC-02/05-01/09-3, 4 marzo 2009, par. 126. (334) Tra gli altri, WERLE, Individual Criminal Responsibility in Article 25 ICC Statute, op. cit., p. 961. 123 l’interpretazione della norma che riguarda la responsabilità individuale: l’articolo 25. 3. I primi orientamenti della Corte penale internazionale in materia di concorso di persone Si è già visto nel primo capitolo che l’art. 25 dello Statuto della Corte penale internazionale, per la sua formulazione, rappresenta un passaggio decisivo verso una maggiore differenziazione delle condotte concorsuali (335). È sufficiente al riguardo notare che la norma sulla responsabilità individuale contenuta negli statuti dei tribunali ad hoc si esprimeva attraverso un’unica e onnicomprensiva proposizione, mentre nello Statuto di Roma la corrispondente norma è declinata in quasi un’intera pagina. Attraverso l’art. 25 si sostanzia in pratica il definitivo passaggio da un modello unitario ad uno differenziato. Rimane però da capire come verranno interpretate quelle disposizioni e quale tra le complesse e svariate teorie del concorso di persone saranno preferite dai giudici della Corte. Già dalle prime pronunce possiamo trarre alcune indicazioni importanti, forse decisive, sulle scelte di politica criminale compiute per disciplinare la complessa materia del concorso di persone ed anche, più nello specifico, cercare di capire quale spazio sia eventualmente riservato alle forme concorsuali anomale oggetto del nostro studio. Il primo elemento di interesse lo si può trarre dalla decisione di una Camera preliminare della Corte per la conferma dei capi di imputazione a carico di Lubanga Dyilo, leader ribelle dell’Union des Patriotes Congolais (UPC) e comandante in capo del braccio militare di tale organizzazione, le Forces Patriotiques pour la Libération du Congo (FPLC). Nella decisione viene confermata l’accusa a carico dell’imputato per aver coscritto ed impiegato attivamente nelle ostilità ragazzi di età inferiore ai quindici anni. La responsabilità individuale di Lubanga Dyilo viene fatta discendere dall’art. 25 (3)(a) dello Statuto come “co-perpetrator”. Quest’ultimo termine, e la diversa impostazione ad esso sottesa, non aveva invece trovato successo davanti al Tribunale per la ex Iugoslavia. Abbiamo visto, infatti, che la Camera d’appello di quel Tribunale ha negato che tale criterio di imputazione facesse parte del (335) Si veda supra, cap. I, par. 8. 124 diritto consuetudinario e potesse dunque trovare applicazione, preferendo in definitiva la JCE (336). L’impostazione della Pre-Trial Chamber I della Corte penale internazionale è opposta. Il concetto di co-perpetration viene ripreso e sviluppato; si respinge invece quanto era stato sostenuto dai rappresentanti delle vittime (337) e in dottrina (338), ovvero che l’art. 25 (3)(a) si riferisse al concetto di JCE in quanto forma di coautoria e responsabilità primaria. La diversa lettura della Corte non può però mettere in discussione un istituto che ha trovato larga applicazione davanti alla maggior parte delle giurisdizioni penali internazionali. Questa presa di posizione potrebbe comunque incidere sul contenuto della norma consuetudinaria e modificarne in qualche modo la natura. In generale, la Corte riconosce che vi sono tre diversi approcci attraverso i quali si può affrontare il problema della distinzione tra autori (principals) e complici (accessories) nelle variegate teorie del concorso di persone: quello oggettivo, soggettivo e del c.d. “control over the crime”. Attraverso un’interpretazione sistematica delle norme che, nelle parole della Corte, “requires excluding at least those interpretations of the Statute in which application would engender an asystematic corpus juris of unrelated norms”, si escludono le prime due possibili soluzioni, preferendo in definitiva la terza. Le interpretazioni che si porrebbero per diversi motivi in contrasto con una lettura sistematica dello Statuto concernono dunque le teorie che insistono, ai fini della distinzione tra autori e complici, sugli elementi materiali o oggettivi del crimine o, al contrario, sulla componente soggettiva. L’approccio oggettivo - che si incentra sulla necessaria presenza di un contributo materiale e tangibile del soggetto alla commissione del crimine viene scartato proprio alla luce della norma contenuta nell’art. 25 (3)(a), nel passaggio in cui si riferisce alla “commission through another person” (o indirect perpetration): se è possibile che chi non abbia materialmente commesso alcun elemento oggettivo costitutivo del crimine, ma lo abbia invece perpetrato attraverso un’altra persona, possa ritenersi autore principale dello stesso, ne discende un’automatica incompatibilità dello Statuto con una teoria (336) ICTY, Prosecutor v. Stakić, cit., 22 marzo 2006, par. 62. Si veda anche OLASOLO, Reflections on the Treatment of the Notions of Control of the Crime and Joint Criminal Enterprise in the Stakić Appeal Judgement, in International Criminal Law Review, vol. 7, 2007. (337) ICC, Decision on the Confirmation, Lubanga, cit., 29 gennaio 2007, parr. 520-526. (338) CASSESE, International Criminal Law, op. cit., p. 212. 125 oggettiva della responsabilità. Similmente alla scelta compiuta dal Tribunale per la ex Iugoslavia nello sposare la teoria della JCE, l’aver fisicamente commesso gli elementi oggettivi del crimine non può costituire il discrimine tra autori e complici. In altre parole, e vedremo a quali condizioni, può rispondere di una responsabilità primaria anche colui che non ha materialmente compiuto l’atto criminoso o una parte essenziale dello stesso, anche qualora si trovasse fisicamente distante dal luogo della commissione del crimine (339). L’impostazione soggettiva - il cui impianto pone al centro della distinzione tra autoria e complicità l’elemento interiore e psicologico - sarebbe invece in contrasto con la disposizione contenuta nell’articolo 25(3)(d) sull’accessorietà. Quest’utlima prevede una forma di responsabilità accessoria, e in nessun caso primaria, per coloro che hanno intenzionalmente contribuito alla commissione del crimine da parte di altri soggetti del gruppo di cui anch’essi facevano parte. Questa impostazione è palesemente in contrasto con l’impianto della JCE che li vorrebbe autori ed imputabili quindi di una responsabilità principale. Infatti, in una concezione del concorso fondata sull’elemento soggettivo, che la Corte come detto preferisce scartare, “those who know of the intent of a group of persons to commit a crime, and who then aim to further this criminal activity by intentionally contributing to its commission, should be considered principals rather than accessories to a crime” (340). Quest’ultimo rigettato approccio è esattamente quello prescelto nella costruzione della teoria del concorso posta a fondamento della JCE. La JCE rientra infatti chiaramente tra gli approcci soggettivi alla disciplina del concorso di persone nel reato. La Corte prende invece come riferimento e guida la dottrina, di matrice tedesca, del “control over the act”, nel caso di specie un “joint control over the crime” (341); si tratta della c.d. teoria del dominio del fatto elaborata dal giurista Claus Roxin e espressamente citata nella sentenza. Questo esplicito riferimento peraltro era già stato fatto, ma come visto con diversa sorte, nel (339) Si veda in generale, OLASOLO, Developments in the Distinction between Principal and Accesorial Liability in Light of the First case law of the International Criminal Court, in STAHN, SLUITER (eds.), The Emerging Practice of the International Criminal Court, Leiden, 2009, pp. 339-359. (340) ICC, Decision on the confirmation of Charges, Lubanga, cit., 29 gennaio 2007, par. 329. (341) ICC, Decision on the confirmation of Charges, Lubanga, cit., 29 Gennaio 2007, parr.316-339. Cfr. FLETCHER, New Court, Old Dogmatik, in Journal of Int. Criminal Justice, vol. 9, n.1, 2011, pp. 179-190. 126 caso Stakić, di fronte al Tribunale per la ex Iugoslavia (342). L’impostazione seguita dalla Corte crea un meccanismo di attribuzione della responsabilità particolarmente adatto a colpire come attori principali, coloro che, sebbene distanti fisicamente dal crimine, hanno esercitato un fondamentale ruolo di direzione e di controllo nella commissione del fatto criminoso (343). La Corte ha dunque scelto un diverso impianto concettuale per disciplinare la responsabilità individuale e le forme di partecipazione nella commissione di crimini internazionali. Tale impianto è stato recentemente confermato nella prima sentenza della Camera di primo grado dopo quasi dieci anni dall’istituzione della Corte stessa. Seguendo l’orientamento adottato in modo univoco dalle diverse Camere preliminari, la Camera di primo grado conferma chiaramente l’impostazione di fondo per cui “the accused does not need to be present at the scene of the crime, so long as he exercised, jointly with others, control over the crime” (344). La Camera precisa anche il contenuto degli elementi costitutivi di tale criterio di imputazione fondato sulla teoria del dominio del fatto. L’actus reus è composto da due elementi: (i) l’esistenza di un accordo o piano condiviso tra due o più persone per la commissione di crimini e (ii) il contributo essenziale dell’imputato alla commissione del crimine in oggetto (345). Il primo elemento è quindi speculare a quanto previsto nella teoria della JCE. Esso esalta e sottolinea la componente collettiva e associativa della realizzazione del crimine. Il secondo elemento è invece relativo al contributo materiale del soggetto alla realizzazione del crimine e si differenzia da quanto si è visto (342) ICTY, Prosecutor v. Stakić, cit., 22 marzo 2006. (343) Cfr. in tal senso, GULIYEVA, The concept of Joint Criminal Enterprise and ICC Jurisdiction, 2008, p. 67. Per quanto questa impostazione possa presentare diversi pregi nell’attribuire una centralità assoluta al potere esercitato dai capi sui propri sottoposti, in altre parole al dominio del fatto, rimane tuttavia complesso nella pratica distinguere questo tipo di responsabilità da altre previste dall’art. 25 e note al diritto internazionale penale in generale. Ci si riferisce in particolare a diverse condotte disciplinate dall’art. 25: la responsabilità prevista per colui che ordina (orders), sollecita (solicits) o induce (induces) altri alla commissione del crimine. Anche nelle più recenti pronunce dei tribunali ad hoc, peraltro, si è proceduto ad individuare alcuni criteri oggettivi in qualche modo assimiliabili al “control over the crime”. Si è per esempio fatto riferimento al ruolo centrale dell’imputato nelle operazioni criminali, all’esercizio di un’influenza decisiva sui propri sottoposti o infine ad un vero e proprio potere di controllo e direzione nei confronti di coloro che hanno materialmente commesso il crimine, cfr. ICTR, Prosecutor v. Seromba, ICTR-2001-66-A, Appeals Chamber, Judgement,12 marzo 2008, parr. 161-171; ICTY, Prosecutor v. Milan Lukic e Sredoje Lukic, IT-98-32/1,Trial Chamber, Judgement, 20 luglio 2009, par. 899. (344) ICC, Prosecutor v. Lubanga Dyilo, Situation in the Democratic Republic of the Congo, Judgement Pursuant to Article 74, ICC-01/04-01/06-2842, Trial Chamber I, Lubanga, 14 Marzo 2012, par. 1005. (345) Ibidem, par. 1006. 127 caratterizzare sul punto la JCE. Questo presenta infatti un’intensità decisamente più rilevante e in questo senso restrittiva del raggio di operatività della responsabilità individuale rispetto alla JCE, richiedendo che il contributo sia essenziale, e non più solo sostanziale. Occorre qui brevemente ricordare la differenza di fondo tra le tre forme di JCE. Le prime due sono delle forme piuttosto classiche di coautoria, in cui il preteso coautore condivide l’atteggiamento psicologico del soggetto materialmente autore del crimine, mentre la terza è fondata su uno scarto tra l’elemento psicologico di chi commette il crimine ed il preteso coautore. Alla luce di ciò, risulta in concreto difficile intravedere una diversità sostanziale, al momento della concreta applicazione di questi criteri di imputazione, tra le prime due forme di JCE e le forme di coautoria, o responsabilità primaria, previste dalla lettera a) dell’art. 25. Difficilmente i meccanismi ascrittivi delle forme concorsuali di JCE I e II, c.d. “basic” e “systemic", nelle quali l’atteggiamento psicologico del preteso coautore rispecchia quello di chi materialmente commette il crimine, non sarebbero ricompresi nella prevista commissione “jointly with another or through another person” (coperpetration o indirect perpetration). Così sembrerebbe rivedendo i casi in cui le prime due forme di JCE hanno trovato applicazione e così è stato sostenuto anche in dottrina (346). Nella concreta applicazione delle JCE I e II, infatti, il particolare ruolo del soggetto e la sua posizione apicale, che fanno presumere una componente soggettiva speculare a quella dell’esecutore materiale, implicano anche un contributo essenziale a livello materiale nel senso di una direzione o un controllo dell’azione criminosa. Tuttavia, è necessario ancora una volta sottolineare l’importante differenza formale che emerge tra la scelta compiuta dalla Corte penale internazionale nell’interpretare l’art. 25 lett. a) e la JCE. Tale rilevante discordanza concerne come detto proprio la componente materiale o oggettiva del criterio di imputazione. Si era già brevemente accennato (347) che una delle criticità emerse in seguito alla formulazione della teoria della JCE verteva sul contributo materiale per questa previsto. Infatti, l’elemento oggettivo, pur (346) MANACORDA, MELONI, Indirect Perpetration versus Joint Criminal Enterprise. Concurring Approaches in the Practice of International Criminal Law?, in Journal of International Criminal Justice, vol. 9, n.1, 2011, si veda anche in tal senso GOY, Individual Criminal Responsibility before the International Criminal Court, A Comparison with the Ad Hoc Tribunals, in International Criminal Law Review, vol. 12, 2012, pp. 1-70. (347) Supra, Cap. I, par. 5. 128 bilanciato in qualche modo da una componente soggettiva (almeno nelle prime due forme) particolarmente intensa, prevede una soglia inferiore a quelle forme di complicità o responsabilità secondaria contenute nella condotta dell’“aiding and abetting”. Nel primo caso (la JCE), nonostante si tratti di una responsabilità primaria, è richiesto un contributo solo “significant” (in un primo momento sembrava addirittura sufficiente un qualsiasi tipo di partecipazione, un contributo alquanto generico: “in some way”), mentre nel secondo caso (aiding and abetting), pur trattandosi di un’ipotesi di responsabilità secondaria, l’apporto materiale deve essere “substantial” che, come chiarito in giurisprudenza, sembra avere un’intensità maggiore. È proprio nel determinare il contenuto e la portata dell’actus reus che la Corte penale internazionale esclude ogni utilizzo della JCE nei termini di una responsabilità primaria. Confermando la giurisprudenza delle Camere preliminari I e II, la Camera di primo grado ha statuito chiaramente che il contributo “must be essential”, motivando questa scelta in modo piuttosto chiaro e con parole che meritano di essere riportate poiché non lasciano spazio a dubbi sulle ragioni di tale opzione. Secondo i giudici, infatti, “lowering that threshold would deprive the notion of principal liability of its capacity to express the blameworthiness of those persons who are the most responsible for the most serious crimes of international concern” (348). Il contributo essenziale non significa naturalmente aver materialmente commesso il crimine o parte dei suoi elementi costitutivi ma comprende anzi, e soprattutto, secondo la teoria del dominio del fatto, coloro che “control or mastermind its commission because they decide whether and how the offence will be committed” (349). L’orientamento della Corte potrebbe esercitare una decisiva influenza sul contenuto della norma consuetudinaria che prevede forme concorsuali anomale (JCE III) sino a modificarne la natura, inquadrandola come responsabilità accessoria. Nonostante, infatti, non sia questa la natura che il Tribunale per la ex Iugoslavia aveva previsto per tale meccanismo ascrittivo, l’art. 25, comma terzo, lett. d), espressione di una chiara influenza di istituti (348) ICC, Prosecutor v. Lubanga Dyilo, Situation in the Democratic Republic of the Congo, Judgement Pursuant to Article 74, cit., 14 Marzo 2012, par. 999. (349) Ibidem, par. 1003. Contrario all’idea che lo Statuto di Roma richieda un contributo essenziale il giudice Fulford. ICC, Prosecutor v. Lubanga Dyilo, Situation in the Democratic Republic of the Congo Judgement Pursuant to Article 74, cit., Judge Fulford, Separate and Dissenting Opinion, parr. 9-18. 129 giuridici di provenienza anglosassone, contiene tra le forme di partecipazione al crimine, la nota teoria del “common purpose”, del piano criminale comune, elemento cardine e fondamento della teoria della JCE. Potrebbe quindi darsi che in quel contesto di responsabilità comunque accessoria la JCE III ed i suoi elementi costitutivi vengano ripresi ed utilizzati per definire il contenuto della norma. Il richiamo alla teoria del “common purpose” potrebbe portare i giudici a ricostruire quella norma, la lett. d) dell’art. 25, alla luce della regola consuetudinaria JCE. D’altronde, nella stessa sentenza Tadić si diceva che l’art. 25 (3)(d) contiene una nozione sostanzialmente assimilabile alla JCE (350) e, soprattutto, la Pre-Trial Chamber I della Corte penale internazionale ha in un caso confermato questa lettura, affermando che l’ipotesi concorsuale prevista alla lett. d) “is closely akin to the concept of joint criminal enterprise or the common purpose doctrine adopted by the jurisprudence of the ICTY” (351). Il concetto di “common purpose” è stato come detto ritenuto analogo ed intercambiabile con quello di JCE. La sua previsione normativa all’interno dello Statuto quindi può far pensare ad un espresso richiamo alla teoria elaborata dal Tribunale per la ex Iugoslavia. Anche se la formulazione della teoria della JCE da parte del Tribunale per la ex Iugoslavia è successiva alla stesura dello Statuto di Roma che prende piuttosto come riferimento in materia la Convenzione internazionale per la repressione degli attentati terroristici per mezzo di esplosivo del 1997 (352), si può immaginare che il lavoro ricostruttivo e di specificazione della teoria compiuto dalla giurisprudenza penale internazionale degli anni novanta venga riutilizzato come riferimento anche all’interno della Corte. È verosimile inoltre che le scelte compiute dalla Corte in materia, in particolare prevedere la partecipazione ad un sodalizio criminale come espressione di una responsabilità secondaria, influisca sul contenuto della (350) ICTY, Tadić, cit., par. 222. (351) ICC, Decision on the Confirmation, Lubanga, cit., par. 335. (352) International Convention for the Suppression of Terrorist Bombings, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 15 dicembre 1997, art. 2, par.4, lett. c): “In any other way contributes to the commission of one or more offences as set forth in paragraph 1, 2 or 3 of the present article by a group of persons acting with a common purpose; such contribution shall be intentional and either be made with the aim of furthering the general criminal activity or purpose of the group or be made in the knowledge of the intention of the group to commit the offence or offences concerned”. È questa una formulazione piuttosto complessa e dibattuta, risultato di una lunga negoziazione tra chi pretendeva l’inclusione del concetto di consiparcy e chi vi si opponeva. 130 norma consuetudinaria che ha finora disciplinato l’istituto riconducendola ad una forma di complicità. Seppur sotto spoglie in parte diverse, la JCE potrebbe quindi essere ripresa sotto le diverse spoglie di una responsabilità accessoria. La natura accessoria della responsabilità nella JCE è già stata ripetutamente proposta in dottrina e avanzata in giurisprudenza, in particolar modo proprio per la terza categoria. D’altra parte è possibile che il nuovo orientamento della Corte, congiuntamente agli orientamenti giurisprudenziali visti in precedenza che hanno in diverso modo messo in discussione la natura di responsabilità primaria della JCE, conduca alla modifica della norma consuetudinaria in questione. Una volta escluso che una teoria come quella della JCE possa trovare applicazione tra le fattispecie concorsuali previste dall’art. 25 in qualità di responsabilità primaria, rimane ai nostri fini importante capire se vi è comunque spazio per una componente soggettiva assimilabile a quella che si è visto caratterizzare la JCE III, visto che l’istituto potrebbe essere ripreso sotto forma di responsabilità accessoria. Questa operazione risulta utile, più in generale, al fine di determinare se potranno trovare comunque applicazione forme anomale di concorso, indipendentemente dall’utilizzo di un impianto concettuale speculare a quello fondante la JCE. 4. L’applicazione della JCE III alla luce dei requisiti dell’articolo 30 dello Statuto della Corte penale internazionale L’art. 30 è un altro tangibile segno del più volte richiamato tentativo di dotare lo Statuto della Corte penale internazionale di una vera e propria parte generale (353). Esso rappresenta, infatti, una norma a carattere generale che contiene, “unless otherwise provided”, la componente soggettiva dei crimini internazionali e dei criteri di imputazione per essi previsti. Tale componente psicologica è composta dalla nota endiadi contenuta nel par. 1, ovvero dai due elementi psicologici: “intent and knowledge”. È stata la Corte stessa a (353) CLARK, Drafting a General Part to a Penal Code: Some Thoughts Inspired by the Negotiations on the Rome Statute of the International Criminal Court and by the Court’s First Substantive Law Decision in the Lubanga Dyilo Confirmation Proceedings, in Criminal Law Forum, vol. 19, n. 4, 2008, pp. 519- 552. 131 confermare che questi debbano operare congiuntamente ed essere quindi entrambi presenti perché possa dirsi soddisfatto il principio per cui “actus non facit reum nisi mens sit rea” (354), l’esistenza in altre parole di un coinvolgimento psichico del soggetto agente alla commissione del crimine. Più nello specifico il riferimento congiunto indica che la presenza di un elemento volitivo è comunque necessaria. Come viene chiarito nei parr. 2 e 3 dell’art. 30, queste due componenti agiscono sì congiuntamente, ma con variegati tipi di relazione rispetto ai tre diversi elementi costitutivi dell’actus reus: la condotta, le conseguenze e le circostanze (355). La condotta, infatti, deve essere sempre intenzionale (“intent”), mentre l’esistenza di una determinata circostanza è sufficiente che sia presente alla mente dell’imputato (“knowledge”). Per ciò che riguarda le conseguenze, infine, possono essere volute (“intent”), ma può anche bastare per queste la consapevolezza che si verificheranno nel corso normale degli eventi (“knowledge”). Su questo ultimo aspetto, come vedremo, si concentrano la maggior parte dei problemi interpretativi legati all’eventualità di forme concorsuali anomale. Si tratta ora di capire se tale disposizione risulti essere ostativa all’applicazione di forme concorsuali anomale assimilabili alla JCE III. Occorre, in particolare, domandarsi se quel particolare elemento soggettivo caratterizzante la JCE III che abbiamo visto oscillare, a seconda delle interpretazioni, tra un “dolus eventualis” di stampo continentale ed una “advertent recklessness” di matrice anglosassone sia compatibile con la lettera dell’art. 30. La linea di demarcazione tra questi standard soggettivi peraltro non è apparsa sempre netta. Su quest’ultimo aspetto è opportuno fare chiarezza. La Pre-Trial Chamber I della Corte ha infatti spiegato con precisione la differenza tra questi (354) ICC, Decision on the Confirmation of Charges, Lubanga, cit., par. 351. (355) Si è osservato in dottrina come tale impostazione segni il passaggio da una “offence analysis” in cui l’attenzione è concentrata sul singolo crimine che può essere doloso, colposo o comunque avere una propria specifica componente soggettiva, ad una “element analysis” che può richiedere invece per ogni singola componente materiale del crimine un diverso elemento soggettivo, cfr. BADAR, The Mental Element in the Rome Statute of the International Criminal Court: A Commentary From a Comparative Law Perspective, in Criminal Law Forum, vol. 19, 2008, p. 476. Si veda anche, più in generale, VON HEBEL, What are Elements of Crimes?, in LEE, The International Criminal Court. Elements of Crimes and Rules of Procedure and Evidence, 2001, pp. 13-40; ESER, Mental Element – Mistake of Fact and Mistake of Law, in CASSESE, GAETA, JONES, The Rome Statute, cit., pp. 889-948; CLARK, The Mental Element in International Criminal Law; The Rome Statute of the International Criminal Court and the Elements of Offences, in Criminal Law Forum, n.3, 2001. 132 due elementi soggettivi che abbiamo visto non esser stata sempre evidente nella giurisprudenza del Tribunale per la ex Iugoslavia. Secondo la Camera, l’accettazione delle conseguenze della propria condotta da parte dell’imputato, prevista dall’art. 30, comprenderebbe il dolo eventuale, ma escluderebbe al contrario la “advertent recklessness” dei sistemi di common law poiché quest’ultima non richiede che l’imputato si riconcili con l’eventuale verificazione dell’evento (356). Insomma, la necessaria presenza dell’elemento volitivo, richiesto dalla congiunzione di “intent and knowledge”, escluderebbe la recklessness. D’altronde anche nel nostro ordinamento il dolo eventuale rientra a tutti gli effetti tra le condotte intenzionali, dolose appunto, poiché queste ricomprendono non solo il “voluto” ma anche il “preveduto”. Secondo la Camera, quindi, avremmo tre diversi gradi di dolo che rientrerebbero nella componente soggettiva disciplinata dallo Statuto: il dolus directus di primo grado, il dolus directus di secondo grado ed infine il dolus eventualis. Nel primo caso, il soggetto intraprende la propria condotta attiva o omissiva “with the concrete intent” di causare la verificazione dell’evento o di parte della sua componente materiale; nel secondo, è assente questa intenzione diretta a causare l’evento o una sua parte materiale, ma vi è la coscienza che questi effetti saranno il necessario risultato della propria azione od omissione; e infine nella terza ipotesi, l’imputato è consapevole del rischio che la verificazione dell’evento criminoso o di parte di esso “may occur” come possibile risultato della propria condotta ed accetta il rischio che ciò accada riconciliando se stesso con questa ipotesi (357). Secondo questa pronuncia, dunque, anche il dolus eventualis, in quanto componente a tutti gli effetti dolosa rientrerebbe nella disciplina dell’art. 30 (e con esso quindi quei modelli ascrittivi che lo prevedono) (358). Le posizioni delle Camere preliminari della Corte, tuttavia, divergono nettamente sulla questione. Nella prima sentenza di condanna della Camera di primo grado, infatti, l’impostazione viene ribaltata e viene piuttosto ripresa quella già fatta propria dalla Pre-Trial Chamber II in un altro caso sottoposto (356) ICC, Prosecutor v. Lubanga Dyilo, Situation in the Democratic Republic of the Congo, Judgement Pursuant to Article 74, cit., 14 Marzo 2012, par. 438 (357) ICC, Decision on the Confirmation of Charges, Lubanga, cit., 29 gennaio 2007, parr. 351-352. (358) Questo orientamento ha trovato poi conferma in ICC, Prosecutor v. Germain Katanga and Mathieu Ngudjolo Chui, ICC-01/04-01/07-717, Decision on the Confirmation of Charges, Pre-Trial Chamber I, 30 settembre 2008, par. 530. 133 alla Corte (359). Si sostiene che la lettera dell’art. 30 decisamente “excludes the concept of dolus eventualis”. In particolare, farebbe in definitiva propendere per questa ipotesi l’uso dell’espressione “will occur” (dell’art. 30, par. 2, lett. b)) riferito alle conseguenze (in questo caso, certe) della propria condotta in contrapposizione a quel “may occur” (una semplice possibilità) che abbiamo appena visto essere presente in quel particolare elemento soggettivo (360). Questa era stata appunto una delle strade seguite dalle Camere preliminari nel richiedere che vi fosse la consapevolezza di una “virtual certainty” che l’evento criminoso si verificasse. In altre parole, si è ritenuto che un’interpretazione letterale della norma, in particolare il riferimento ad una conseguenza che accadrà nel corso ordinario degli eventi, renda necessario uno “standard of occurrence […] close to certainty” (361). Inoltre, si osserva come l’esclusione della “recklessness” e di forme di “dolus eventualis” risulti chiaramente dai lavori preparatori, ove i riferimenti a queste categorie sono stati in definitiva eliminati (362). L’apprezzabile codificazione di una norma generale sulla mens rea dei crimini internazionali non sembra quindi aver risolto in modo definitivo i problemi legati a tale componente soggettiva. Al contrario permane una numerosa serie di incertezze interpretative che si rispecchiano in quelle che abbiamo ora visto essere le oscillanti prese di posizione nelle prime pronunce della Corte. La Camera d’appello non ha ancora avuto modo di esprimersi sulla controversa interpretazione dell’art. 30 ed è comunque opportuno ricordare che le camere all’interno della Corte non sono obbligate a seguire i propri precedenti. Secondo l’art. 22, par. 2, infatti, “The Court may apply principles and rules of law as interpreted in its previous decisions”. È dunque verosimile che posizioni oscillanti e contradditorie continuino a presentarsi nelle pronunce della Corte. (359) ICC, Prosecutor v. Jean-Pierre Bemba Gombo Situation in the Central African Republic, cit., 15 giugno 2009, parr. 364-369. (360) ICC, Prosecutor v. Lubanga Dyilo Situation in the Democratic Republic of the Congo, Judgement Pursuant to Article 74, cit., 14 Marzo 2012, par. 1011. (361) ICC, Prosecutor v. Jean-Pierre Bemba Gombo, Situation in the Central African Republic in the Case of The, Bemba, cit., 15 giugno 2009, par. 362; e ICC, Prosecutor v. Abdallah Banda Abakaer Nourain and Saleh Mohammed Jerbo Jamus, Corrigendum of the “Decision on the Confirmation of Charges”, ICC-02/05-03/09-121-Corr-Red), Pre-Trail Chamber I, 7 marzo 2011, par. 156. (362) ICC, Prosecutor v. Jean-Pierre Bemba Gombo,Situation in the Central African Republic, ICC-01/05-01/08-424, Pre-Trail Chamber II, 15 giugno 2009, parr. 364-368. 134 In generale, sembra condivisibile ritenere che la lettera restrittiva dell’art. 30 escluda l’applicazione del dolo eventuale così come della “advertent recklessnes” anglosassone. Tuttavia, è allo stesso modo corretto affermare che questa disposizione, proprio in quanto clausola generale, si applica ai casi in cui non ci siano previsioni diverse e più specifiche all’interno della definizione stessa degli elementi costitutivi dei singoli crimini o di altri criteri di imputazione. Questo approccio sembra suffragato dall’inciso “unless otherwise provided”, cui si è fugacemente accennato nell’introdurre l’art. 30 e che sembra aprire le porte ad eventuali diverse componenti soggettive previste da altre norme statutarie. Per quanto previsto da altre disposizioni dello Statuto risulta evidente infatti che, ove queste prevedano standard psicologici più attenuati, costituiscono delle legittime eccezioni statutarie alla regola generale. Tra queste, in particolare, la responsabilità del superiore e la sua ipotesi colposa contenuta nel celebre, e discusso, “should have known”. Standard quest’ultimo certamente più basso di quello previsto dall’art. 30. Per quel concerne invece le norme consuetudinarie, al fine di determinarne il possibile ruolo si ripropone ancora una volta la questione, intrecciata in questo caso con i problemi legati alla colpevolezza, della funzione del principio di legalità per come inteso nel diritto internazionale penale e soprattutto, nello specifico, nello Statuto della Corte. Ancora una volta, dunque, risulta determinante stabilire se e in quale misura le consuetudini possano trovare diretta applicazione davanti alla Corte penale internazionale o attraverso l’interpretazione delle disposizioni statutarie. È stato infatti sostenuto che l’espressione “unless otherwise provided”, incipit dell’art. 30, rappresenta un chiaro riferimento a tutto ciò che è previsto e contenuto nelle norme di diritto internazionale generale. In altre parole, si potrebbe far rientrare nell’ambito del diritto applicabile criteri di imputazione che, pur non previsti dallo Statuto, abbiano una chiara origine consuetudinaria (363). La nostra JCE III, o un criterio a questo assimilabile, potrebbe rappresentare in tal senso un esempio. (363) WERLE, JESSBERGER, “Unless Otherwise Provided”: Article 30 of the ICC Statute and the Mental Element of Crimes under International Criminal Law, in Journal of Int. Criminal Justice, vol. 3, 2005, pp. 35-55. Tesi condivisa recentemente anche da WIRTH, Co-perpetration in the Lubanga Trial Judgement, in Journal of Int. Crimnal Justice, vol. 10, n.4, 2012, pp. 971995. 135 Questa posizione non sembra condivisibile. Le norme consuetudinarie hanno, secondo la lettera stessa dello Statuto, un ruolo importante tra le fonti del diritto applicabile dalla Corte. Queste, tuttavia, si collocano in una posizione sussidiaria rispetto alle norme statutarie e a quanto previsto negli Elementi dei Crimini. Inoltre, si è già accennato nel secondo capitolo al nuovo preponderante ruolo del principio del nullum crimen sine lege all’interno dello Statuto che, a differenza di altre passate esperienze, si colloca tra i principi fondamentali di garanzia dell’imputato con un’evidente predilezione per il dato scritto, le norme statutarie, e una rilevante riduzione dello spazio lasciato alle norme consuetudinarie e ai principi generali di diritto. Il diritto non scritto, tuttavia, può risultare decisivo per interpretare norme ambigue contenute nello Statuto o per determinare il significato di termini che non trovano all’interno dello stesso una propria definizione. Altrimenti consuetudini e principi generali sarebbero stati chiaramente esclusi dal sistema delle fonti, cosa che abbiamo visto non essersi verificata. Muovendo da queste premesse ci siamo in primo luogo domandati se all’interno dell’art. 25 si poteva intravedere una qualche possibile applicazione della JCE. In tal senso, ci è parso che il riferimento al “common purpose” contenuto nella lett. d) potesse costituire un’eventuale via per poter far rientrare l’impianto della JCE, pur sotto forma di responsabilità accessoria, nelle maglie dell’art. 25. Diverso però è il caso dell’art. 30. Secondo l’analisi che ne è stata fatta, e che ha al momento trovato conferma nelle parole della Corte, forme di dolo eventuale o addirittura colpose non sarebbero ricomprese nella lettera della norma. Rimane allora il dubbio che, come autorevolmente sostenuto, le norme consuetudinarie possano essere richiamate e trovare applicazione attraverso la locuzione “unless otherwise provided” di cui in definitiva ci stiamo occupando di circoscrivere la portata. Per quanto concerne altre disposizioni dello Statuto che prevedono soglie attenuate di partecipazione psichica del soggetto (su tutte, abbiamo detto, la responsabilità del superiore), non vi sono dubbi che queste eventuali eccezioni, in quanto scritte ed esplicite, sono pienamente legittime e rispettose del principio di legalità. Per le norme consuetudinarie ci sembra necessaria una cautela maggiore. L’applicazione di queste è, infatti, da negare qualora in aperto 136 contrasto con la lettera delle norme statutarie, in particolare qualora prevedano un trattamento più sfavorevole per l’imputato. Questa cautela è necessaria nonostante l’ambiguità dell’espressione “unless otherwise provided” che, seppur rappresenti una chiara apertura a elementi soggettivi diversi da quello generale, non sembra poter essere estesa a tal punto da farvi rientrare qualsiasi norma di diritto consuetudinario. Quanto meno non quelle che contengono una disciplina sfavorevole all’imputato. In altre parole, quanto sia “altrimenti previsto” da norme di diritto internazionale consuetudinario non può andare contro la lettera stessa dello Statuto e ancor meno, nel farlo, prevedere un trattamento più severo. Il rischio di un’impostazione di questo tipo è duplice. Da un lato, si estende ancora una volta la discrezionalità del giudice nel determinare il contenuto delle norme consuetudinarie ed il connesso rischio di eccessiva arbitrarietà nella scelta del diritto applicabile. Obiettivo dello Statuto e della prevalenza del dato scritto è proprio quello di ridurre, nei limiti del possibile, tale potenziale arbitrarietà. Dall’altro, si opererebbe un’inaccettabile inversione nella gerarchia delle fonti prevista dall’art. 21. Lo Statuto verrebbe in rilievo solo ove non vi sia una norma consuetudinaria che preveda una diversa componente soggettiva (364). Queste critiche sembrano essere avvalorate dai principi generali di diritto penale che hanno trovato definitiva consacrazione all’interno dello Statuto e, in generale, dall’impianto normativo del nuovo sistema su cui già ci siamo soffermati. Sempre all’interno dell’art. 22 sul rispetto del nullum crimen sine lege, al secondo paragrafo troviamo infatti altri due principi profondamente radicati nella cultura giuridica della maggior parte degli ordinamenti nazionali: l’obbligo di una interpretazione restrittiva delle leggi penali (“the definition of a crime shall be strictly construed”) e il principio del favor rei, alla luce del quale nel dubbio la norma penale va interpretata in favore dell’imputato. Quest’ultimo aspetto è inoltre avvalorato dal fatto che nel colmare le lacune dello Statuto, oltre alle norme sull’intepretazione dei trattati, debba in ogni caso essere tenuto in adeguata considerazione il par. 3 dell’art. 21 ovvero la compatiblità dell’attività interpretativa del giudice con i diritti umani generalmente riconosciuti. (364) Si arriva addirittura a parlare dell’art. 30 come di una “default rule”, applicabile solo quando non vi siano altre norme dello Statuto o di diritto internazionale generale, ibidem, p. 55. 137 5. Considerazioni conclusive In quest’ultimo capitolo abbiamo visto intrecciarsi le due questioni fondamentali intorno alle quali è stata condotta l’intera ricerca sull’istituto del concorso anomalo nel diritto internazionale penale. Per capire, infatti, se tali fattispecie concorsuali possano essere in futuro contemplate nella giurisprudenza della Corte penale internazionale, si è dovuto ancora una volta verificarne la compatibilità con il principio di colpevolezza e quello di legalità. Per quanto riguarda il principio del nullum crimen sine culpa risulta, da un’attenta disamina ed interpretazione letterale delle disposizioni statutarie, che un elemento soggettivo quale quello previsto dalla JCE III, o eventuali simili criteri di imputazione, non sono compatibili con la lettera delle norme rilevanti, in particolare con la norma generale sulla mens rea. Si è poi posto a più riprese il problema di determinare in concreto che ruolo possano svolgere le norme consuetudinarie, la cui natura è difficile oggi negare alla JCE, nell’interpretazione dello Statuto. Infatti, la lettera d) dell’art. 25, che richiama il concetto di “common purpose”, potrebbe essere vista come un esplicito riferimento alla teoria della JCE, pur sotto le diverse spoglie di una responsabilità non più primaria bensì accessoria. Inoltre, l’art. 30 contiene un’apertura a componenti soggettive “otherwise provided” che potrebbe lasciare spazio all’applicazione delle norme di diritto internazionale generale. È però opportuno concludere che questo inciso si riferisce ad altre disposizioni statutarie che prevedono, per un determinato crimine o criterio di imputazione, una mens rea diversa da quella contemplata dall’art. 30. L’enigmatico inciso non può al contrario essere utilizzato come viatico per l’applicazione di norme consuetudinarie che, in quanto includenti standard soggettivi attenuati, risultano in contrasto con il dato testuale della disposizione statutaria e contrari quindi ad un’interpretazione restrittiva delle norme penali e al fondamentale principio penalistico del favor rei. In conclusione, la norma consuetudinaria contenente la JCE è difficilmente inquadrabile nella lettera delle disposizioni statutarie e risulta al momento esclusa anche nelle interpretazioni giudiziali. Ci si può allora chiedere se il nuovo orientamento della Corte – in particolare le specificazioni compiute in merito al tipo di responsabilità prevista per la partecipazione ad un 138 sodalizio criminoso e all’elemento soggettivo richiesto per lo stesso – può incidere sul contenuto della norma consuetudinaria formatasi sul concorso anomalo e in generale sulla teoria del common purpose nel diritto internazionale penale. Si può immaginare, infatti, che la Corte circoscriva tale criterio di imputazione, limitandone la natura ad una forma di responsabilità secondaria e definendo la componente psicologica nei termini di una prevedibilità della verificazione dell’evento, non più probabile o solo possibile, ma quasi certa. 139 CONCLUSIONI Una delle questioni più complesse e da tempo al centro del dibattito scientifico nel diritto internazionale penale concerne la disciplina del concorso di persone. L’importanza che tale istituto penalistico assume in questo particolare campo del diritto internazionale deriva dalla natura stessa dei crimini internazionali. Questi, infatti, vengono solitamente definiti «a concorso tendenzialmente necessario» poiché, seppur realizzabili in astratto anche da un singolo ed isolato individuo, sono nella maggior parte dei casi il risultato della cooperazione e interazione tra più soggetti facenti parte di un gruppo o di un piano criminale. La presente indagine si è quindi concentrata sullo studio dei modelli ascrittivi utilizzati dalla giurisprudenza internazionale al fine di determinare la responsabilità penale di un individuo per la commissione di un crimine internazionale attraverso la partecipazione ad un’organizzazione criminale o, più in generale, ad un sodalizio criminoso. Si è in altre parole analizzato l’istituto del concorso di persone nel reato ed il modo in cui questo è stato codificato, interpretato ed applicato nella giurisprudenza penale internazionale. In particolare, l’indagine si è concentrata su quelle forme c.d. di concorso anomalo nel tentativo di capire quale ruolo questo istituto rivesta nel diritto internazionale penale. I problemi sollevati da questo particolare criterio di imputazione attengono al rispetto di due principi fondamentali del diritto penale moderno di tradizione illuministica e liberale. Si tratta del principio di legalità (nullum crimen sine lege) per il quale nessuno può essere punito per un crimine che tale non era al momento della sua commissione, ed il principio di colpevolezza (nullum crimen sine culpa) secondo cui la responsabilità penale è personale e colpevole. Questa non può quindi sorgere per atti che il soggetto non ha commesso o alla commissione dei quali non ha in alcun modo partecipato, né in mancanza di un nesso psichico tra il fatto illecito ed il comportamento individuale. Per quel che riguarda il rispetto del principio di legalità alcune difficoltà sono emerse in merito al contenuto della norma internazionale sul concorso anomalo. Questa sembra esser stata intesa ed applicata in modo non sempre univoco, incidendo in tal modo sulla sua determinatezza e tassatività. Oltre ai 140 complessi problemi definitori, si è ancor prima posta la questione di determinare la natura pattizia o consuetudinaria della norma internazionale che prevede questa particolare tipologia di concorso (o JCE III). La JCE (compresa la sua terza forma) è stata riconosciuta dal Tribunale per la ex Iugoslavia come meccanismo ascrittivo ampiamente consolidato nel diritto internazionale consuetudinario. Nonostante le critiche dottrinali a questo assunto e diversi tentativi giudiziali di modificare la figura, rivisitandone il contenuto, questo istituto è stato costantemente applicato anche da numerose altre giurisdizioni internazionali o miste. È sufficiente far riferimento al Tribunale internazionale penale per il Ruanda, alla Corte speciale per la Sierra Leone, ai Panels speciali per i gravi crimini commessi a Timor Est, ma anche al Tribunale per il Libano o a quello irakeno che ha condannato Saddam Hussein e alcuni membri del suo regime. Recentemente le Camere straordinarie cambogiane hanno negato l’applicabilità della terza categoria di JCE (JCE III), escludendo che una forma di attribuzione della responsabilità di tale natura fosse contenuta in una norma consuetudinaria all’epoca dei fatti oggetto del giudizio. La natura consuetudinaria della JCE era già stata peraltro messa in discussione davanti al Tribunale per la ex Iugoslavia; non si era però mai proceduto ad un riesame della giurisprudenza e della prassi che i giudici del Tribunale nel caso Tadić hanno posto a fondamento della natura consuetudinaria della JCE. Ad avviso delle Camere cambogiane, quella giurisprudenza non sarebbe sufficiente, per numero e per difformità di contenuto rispetto agli elementi costitutivi individuati dal Tribunale per la ex Iugoslavia, al fine di sostenere la natura consuetudinaria della JCE III. Il nuovo orientamento delle Camere, seppur isolato, sembra quindi mettere in discussione quanto era stato a più riprese affermato dal Tribunale per la ex Iugoslavia e da diverse altre giurisdizioni internazionali. A questo si aggiunga il nuovo approccio intrapreso dalla Corte penale internazionale che ha al momento escluso che tale meccanismo ascrittivo rientri tra quelli applicabili. Per determinare invece la compatibilità della JCE con il principio di colpevolezza, si è posta in primo luogo la questione di stabilire se l’istituto prevedesse una forma di responsabilità principale o accessoria. In altre parole, si è cercato di determinare se il partecipante del gruppo o progetto criminale fosse da ritenere coautore o meramente complice del crimine. Dopo alcune 141 incertezze e decisioni giudiziarie non sempre univoche (dovute anche alle difficoltà e incongruenze terminologiche esistenti tra la diverse famiglie giuridiche), sembra in definitiva che la JCE costituisca una forma di responsabilità primaria. Questo ha suscitato diverse perplessità proprio per quel che concerne la sua terza forma. L’elemento soggettivo particolarmente attenuato e il contributo materiale minimo previsto per la JCE III, infatti, rendono questo criterio di imputazione più adatto a far sorgere una forma di complicità o responsabilità secondaria piuttosto che di autoria. Una volta accertato che la JCE III costituisce una forma di responsabilità primaria, è ancor più criticabile prevedere che un criterio di imputazione di tale natura possa trovare applicazione in caso di crimini c.d. a dolo speciale (in particolare, per il crimine di genocidio). Questo era l’orientamento assunto dai tribunali ad hoc. Il Tribunale per il Libano, però, ha recentemente negato che la terza forma di JCE possa essere applicata a quei crimini che presentano un elemento soggettivo addizionale e specifico. Quest’ultimo, infatti, difficilmente potrebbe essere ritenuto compatibile con un dolo solo eventuale quale quello previsto nella JCE III. Si è infine determinato quale ruolo possa essere eventualmente svolto dalla JCE III all’interno dello Statuto della Corte penale internazionale. In questa analisi, i problemi riguardanti il sistema delle fonti, intrinsecamente connessi al rispetto del principio di legalità, e quelli relativi alla particolare componente soggettiva della JCE III, vengono ripresi e sembrano in qualche modo intrecciarsi sino a sovrapporsi. Le prime pronunce della Corte offrono certamente indicazioni interessanti, seppur non sempre univoche, sul modo in cui i giudici interpreteranno la disciplina della responsabilità individuale e le fattispecie concorsuali previste dall’art. 25, nonché la norma a carattere generale sull’elemento soggettivo contenuta nell’art. 30. Si è sostanzialmente condivisa l’impostazione ultima della camera di primo grado della Corte che tende ad escludere l’applicazione della JCE III, sia come forma di responsabilità primaria prevista alla lett. a), che come responsabilità accessoria, nonostante il richiamo esplicito alla teoria del common purpose contenuto nella lett. d). Il diritto non scritto svolge, infatti, all’interno della Corte penale internazionale, una funzione secondaria e complementare alle norme statutarie. La rilevanza di consuetudini e principi generali di diritto emerge solamente in caso di lacune dello Statuto o a fini interpretativi. Le norme consuetudinarie 142 invece non possono essere richiamate ed applicate in contrasto con il dato scritto espresso dalle disposizioni statutarie che si collocano al vertice della gerarchia delle fonti ed esprimono, in quanto fonte primaria, la centralità assunta dal principio di legalità all’interno della Corte penale internazionale. Le consuetudini internazionali non potranno poi in nessun caso trovare applicazione qualora prevedano una disciplina ed un trattamento sfavorevole per l’imputato rispetto al dato normativo scritto. Alla luce di quanto emerso dalla presente analisi, l’istituto in esame solleva non poche questioni di carattere generale, mostrando alcuni dei limiti e delle complessità cui il diritto internazionale penale ha dovuto far fronte nella propria evoluzione degli ultimi anni. Queste criticità sorgono ed evolvono prevalentemente intorno alla formazione ed al ruolo delle norme consuetudinarie e incidono sulla coerenza e unità dell’intero sistema. Abbiamo visto, infatti, che il Tribunale per la ex Iugoslavia e le Camere straordinarie cambogiane sono giunti a conclusioni contrastanti in merito alla nozione consuetudinaria di coautoria nel diritto internazionale penale. Allo stesso modo il Tribunale per il Libano ha contraddetto quanto già più volte affermato in merito alla compatibilità della JCE III con i crimini a dolo speciale. Secondo autorevole dottrina, le contraddittorie interpretazioni assunte dal Tribunale per la ex Iugoslavia e dalle Camere cambogiane sulla natura consuetudinaria o meno della JCE III, non sarebbero poi così problematiche poiché avrebbero in fondo “little practical effect on the unity of international criminal law in general” (365). Ci sembra però che l’incidenza di orientamenti giurisprudenziali difformi e cangianti nel tempo e nello spazio incida in modo preoccupante sulla prevedibilità ed accessibilità della norma da parte di altri soggetti nei confronti dei quali potrebbe un giorno trovare applicazione - in altre parole sul rispetto del principio di legalità. La problematica in esame discende probabilmente dalla natura stessa di tale processo ed in particolare dalla preponderante incidenza delle decisioni giudiziali nella formazione del diritto non scritto nel diritto internazionale penale. Infatti, ai fini della ricostruzione delle consuetudini e dei principi generali di diritto, oltre allo studio comparatistico che cerca di individuare un minimo comune denominatore tra la svariata gamma di soluzioni che ogni (365) POCAR, The International Proliferation of Criminal Jurisdictions Revisited: Uniting or Fragmenting International Law?, in Coexistence, Cooperation and Solidarity: liber amicorum Rüdiger Wolfrum, vol. II, HESTERMEYER et al. (eds.), Leiden-Boston, 2012, p. 1720. 143 ordinamento nazionale adotta in materia penale, una notevole ed eccezionale attenzione viene dedicata alla giurisprudenza degli altri tribunali penali internazionali. L’affermazione del diritto di creazione giurisprudenziale dipende poi dalla quantità e dalla continuità delle conferme che riesce ad ottenere presso altre giurisdizioni. In altre parole, l’effettività di una norma internazionale non scritta, in questo particolare campo del diritto internazionale, sembra essere strettamente legata al grado di attestazione che quella norma riesce ad ottenere di fronte ad altri giudici internazionali. In quest’ottica, il valore del precedente, seppur non vincolante, assume una centralità assoluta. La ricostruzione delle norme consuetudinarie da parte dei tribunali ad hoc si è infatti prevalentemente incentrata sulla giurisprudenza dei tribunali istituti a seguito della seconda Guerra mondiale. Prassi ed opinio juris degli Stati sembrano rimanere in secondo piano ed emergere solo ad abundatiam e a mero sostegno di precedenti giudiziali che affermano la natura consuetudinaria di una norma o che, pur non affermandola, ne possano costituire un fondamento. La ricostruzione delle norme consuetudinarie, in questo campo del diritto internazionale più che in altri, ha forse regole diverse e assume un’origine prettamente giurisprudenziale. Queste peculiarità si sono concretamente espresse in diverse forme che presentano alcune criticità. Da un lato tale singolarità ha generato un utilizzo potenzialmente distorto della case-law, il cui richiamo è spesso servito per attribuire natura consuetudinaria a norme che non erano sufficientemente, o affatto, suffragate da prassi ed opinio degli Stati e in alcuni casi nemmeno da numerosi precedenti. Dall’altro, in caso di assenza di precedenti rilevanti, ha lasciato spazio ad un’ampia attività creativa degli organi giudiziari che si è espressa nella affermazione di nuove norme giuridiche dalla presunta natura consuetudinaria sulla base di (inevitabilmente soggettive) considerazioni di umanità o di giustizia (366). Nel caso della JCE III appare evidente che i giudici abbiano accuratamente scelto e selezionato i (pochi) precedenti che potevano permettere di affermare la natura consuetudinaria di una determinata norma, ignorando la prassi contraria o anche solo parzialmente divergente. Più in generale, in alcuni casi le posizioni “avanguardiste” o “creative” dei giudici (366) In tal senso e con toni ancor più critici, DEGAN, On the Sources of International Criminal Law, op. cit., pp. 75 e ss. 144 hanno trovato successive ed importanti conferme nell’atteggiamento degli Stati e di altre giurisdizioni. Si pensi all’esempio più noto e importante, della irrilevanza della natura internazionale o meno di un conflitto per la commissione dei crimini di guerra. In altre ipotesi, tuttavia, tale atteggiamento ha mostrato tutti i suoi limiti non trovando conferma nella prassi degli Stati e facendo sorgere contrasti ed incertezze in merito alla natura consuetudinaria di una norma e dunque alla legittimità della sua applicazione (367). La presente indagine mostra che la JCE III rientra in questa seconda e problematica ipotesi. L’oscillante giurisprudenza internazionale sui modelli ascrittivi e lo Statuto stesso della Corte penale internazionale sembrano confermare questa lettura. Se è vero, infatti, che quest’ultimo non rappresenta una codificazione del diritto consuetudinario esistente, nemmeno può ignorarsi che esprima il massimo punto di convergenza di un numero ormai (inaspettatamente) consistente di Stati delle diverse aree del mondo sul contenuto dei principi generali del diritto penale, degli elementi costitutivi dei crimini e dei criteri di imputazione della responsabilità nella giustizia penale internazionale. A riprova dell’influenza che le decisioni della Corte assumono nella determinazione del contenuto delle norme consuetudinarie è forse sufficiente osservare la più recente giurisprudenza del Tribunale per il Ruanda e del Tribunale per la ex Iugoslavia. Infatti, pur non utilizzando espressamente i concetti fatti propri dalla Corte penale internazionale quali quello di coperpetration o di indirect perpetration, si prospettano forme di commissione del crimine a queste assimilabili. Assumono infatti uno spiccato rilievo criteri oggettivi, quali il ruolo centrale dell’imputato nella commissione del crimine, la sua influenza e soprattutto il controllo e la direzione da questi esercitati sull’esecutore materiale, che sembrano richiamare la teoria del “control over the crime”, piuttosto che l’impostazione soggettiva posta a fondamento della (367) In questa prospettiva sembra opportuno riportare alcune considerazioni compiute in dottrina in merito alla peculiarità del processo di formazione del diritto consuetudinario rispetto al diritto scritto: “Nel diritto scritto è la norma a condizionare il comportamento. Essa, infatti, viene prodotta proprio allo scopo di indirizzare le condotte dei consociati secondo modelli normativi prestabiliti. Nel diritto consuetudinario, si assiste piuttosto al procedimento logico inverso. È il comportamento a condizionare la norma, nel senso che la norma si deduce dai comportamenti che sono posti in essere al fine di costituirne osservanza. Il diritto consuetudinario quindi si desume dalla pratica, nella presupposizione che il comportamento dei soggetti, uniforme e ripetuto nel tempo, costituisca la fattispecie di carattere materiale di una regola di diritto.” , CANNIZZARO, Diritto internazionale, Torino, 2012, p. 108. 145 JCE (368). Le pronunce cui si fa qui riferimento possono allora essere viste come una diretta influenza sulla giurisprudenza dei tribunali ad hoc del nuovo percorso intrapreso nelle primissime decisioni della Corte penale internazionale in materia di coautoria. L’esigenza di ricorrere a criteri simili a quelli utilizzati nell’applicazione della teoria del dominio del fatto mostra forse la sentita necessità di un’adeguata coerenza e certezza giuridica nell’applicazione delle norme internazionali penali. Questa tendenza all’uniformità, infatti, garantisce in maggior misura la prevedibilità e l’accessibilità da parte dell’individuo della norma penale e riduce di conseguenza la potenziale arbitrarietà del giudice nel determinare il contenuto del diritto applicabile. La tendenza dei più recenti indirizzi giurisprudenziali dei tribunali ad hoc a conformarsi, o quanto meno avvicinarsi, ad alcune direttrici tracciate dalla Corte mostra anche il centrale ruolo da quest’ultima assunto nella interpretazione delle norme penali internazionali. In prospettiva ciò segna anche, nonostante l’assenza di un formale collegamento strutturale tra le diverse giurisdizioni penali internazionali, la possibilità che la giurisprudenza dell’unico tribunale penale internazionale a vocazione universale diventi guida e riferimento per tutti i giudici che si trovino a giudicare soggetti imputati della commissione di crimini internazionali. In conclusione, l’attività interpretativa della Corte influirà notevolmente sulla norma consuetudinaria relativa al concorso di persone. In particolare, è ipotizzabile un nuovo inquadramento del concorso anomalo nei termini di una responsabilità accessoria e una modifica dell’elemento soggettivo che lo renda maggiormente aderente al principio di colpevolezza. (368) ICTR, Prosecutor v. Gacumbitsi, ICTR-2001-64-A, Appeals Chamber, Judgement, 7 luglio 2006, par. 60; ICTR, Prosecutor v. Emmanuel Ndindabahizi, ICTR-01-71-A, Appeals Chamber, Judgement, 16 gennaio 2007, par.123; ICTR, Prosecutor v. Athanase Seromba, cit., 12 marzo 2008, par. 161; ICTY, Prosecutor v. Astrit Haraqija and Bajrush Morina, IT-04-84R77.4, Judgement on Allegations of Contempt, Trial Chamber I, 17 dicembre 2008, parr. 101102; ICTY, Prosecutor v. Milan Lukic and Sredoje Lukic, IT-98-32/1-T, Trial Chamber III, Judgement, 20 luglio 2009, par. 899; ICTR, Prosecutor v. Callixte Kalimanzira, ICTR-05-88A, Appeals Chamber, Judgement, 20 ottobre 2010, par. 219; ICTR, Prosecutor v. Emmanuel Rukundo, ICTR-2001-70-A, Appeals Chamber, Judgement, 20 ottobre 2010, parr. 174-175. 146 ELENCO DELLE OPERE CITATE OPERE MONOGRAFICHE Amati, E., Caccamo, V., Costi, M., Fronza, E., Vallini, A., Introduzione al diritto penale internazionale, Milano, 2006 Ambos, K., Internationales Strafrecht, Munchen, 2006 Ambos, K., Tema actuales del derecho penal internacional. Contribuciones de América Latina, Alemania y Espaňa, Montevideo, 2005 Antolisei, F., Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003 Arendt, H., La banalità del male. 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Nsengiyumva, 96-12-I, Trial Chamber III, Decision on the Defence Motion Objecting to the Jurisdiction of the Trial Chamber on the Amended Indictment, 13 aprile 2000 Prosecutor v. Gacumbitsi, ICTR-2001-64, Trial Chamber, Judgement, 17 giugno 2004 Prosecutor v. Rwamakuba, Decision on Interlocutory Appeal Regarding Application of Joint Criminal Enterprise to the Crime of Genocide, ICTR-9844C, Appeals Chamber, 22 ottobre 2004 Prosecutor v. Elizaphan Ntakirutimana and Gérard Ntakirutimana, ICTR-9616 e ICTR-96-17, Appeals Chamber, Judgement, 13 dicembre 2004 Prosecutor v. Aloys Simba, ICTR-01-76, Trial Chamber, Judgment, 13 dicembre 2005 Prosecutor v. Gacumbitsi, ICTR-2001-64, Appeals Chamber, Judgement, 7 luglio 2006 Prosecutor v. Mpambara, ICTR-01-65, Trial Chamber, Judgment, 11 settembre 2006 Prosecutor v. Emmanuel Ndindabahizi, ICTR-01-71-A, Appeals Chamber, Judgement, 16 gennaio 2007 Prosecutor v. Aloys Simba, ICTR-01-76, Appeals Chamber, Judgment, 27 novembre 2007 Prosecutor v. Seromba, ICTR-2001-66-A, Appeals Chamber, Judgement, 12 marzo 2008 Prosecutor v. Callixte Kalimanzira, ICTR-05-88-A, Appeals Chamber, Judgement, 20 ottobre 2010 Prosecutor v. Emmanuel Rukundo, ICTR-2001-70-A, Appeals Chamber, Judgement, 20 ottobre 2010 SPECIAL COURT FOR SIERRA LEONE Prosecutor v. Norman and others, Decision on Motion for Acquittal, SCLS-0414-T-473, Trial Chamber, 21 ottobre 2005 163 Prosecutor v. Brima and others, SCLS-04-16, Appeals Chamber, Judgement, 22 febbraio 2008 Prosecutor v. Sesay, Kallon and Gbao (RUF Case), Trial Chamber, Judgement, 25 febbraio 2009 Prosecutor v. Sesay, Kallon and Gbao (RUF Case), Appeals Chamber Judgement, 26 ottobre 2009 EXTRAORDINARY CHAMBERS IN THE COURTS OF CAMBODIA Amicus curiae Brief on Joint Criminal Enterprise in the Matter of the CoProsecutors’ Appeal of the Closing Order Against Kaing Guek Eav “Duch” dated 8 August 2008, McGill University, 27 ottobre 2008 Amicus Curiae Brief of Professor Kai Ambos in the Matter of the Coprosecutors’ Appeal of the Closing Order agaisnt Kaing Guek Eav “Duch” Dated 8 August 2008, 27 ottobre 2008 Amicus Curiae Brief of Professor Antonio Cassese and Members of the Journal of International Criminal Justice on Joint Criminal Enterprise Doctrine, 27 ottobre 2008 Co-Prosecutors v. Ieng Sary, Ieng Thirith, Khieu Samphan, Order on Application at the ECCC of the Form of Liability Known as Joint Criminal Enterprise, 002/19-09-2007, Co-Investigating Judges, 8 dicembre 2009 Co-Prosecutors v. 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Ieng Sary, Ieng Thirith, Khieu Samphan, Co-Prosecutors' Joint Response to Ieng Sary, Ieng Thirith and Khieu Samphan's Appeal on Joint Criminal Enterprise, 002/19-09-2007-ECCC/OCIJ, 19 febbraio 2010 Co-Prosecutors v. Ieng Sary, Ieng Thirith, Khieu Samphan, Decision on the Appeals Against the Co-Investigative Judges Order on Joint Criminal Enterprise, 002/19-09-2007, Pre-Trial Chamber, 20 May 2010 Co-Prosecutor v. Kaing Guek Eav, alias Duch, 001/18/07/2007-ECCC/TC, Trial Chamber, Judgement, 26 July 2010 Co-Prosecutor v. Ieng Thirith, Ieng Sary, Kieuh Samphan, Co-Prosecutors’ Request For the Trial Chamber to Consider JCE III As An Alternative Mode of Liability, Nuon et al., 002/10-09-2007, Trial Chamber, 17 giugno 2011 SPECIAL PANELS FOR SERIOUS CRIMES IN EAST TIMOR Prosecutor v. Joseph Leki, 5/2000, Judgement, 11 giugno 2001 Prosecutor v. Augusto Asameta Tavares, 2/2001, Judgement, 28 settembre 2001 Prosecutor v. Augustinho da Costa, 7/2000, Judgement, 11 ottobre 2001 Prosecutor v. Jose Cardoso, 4c/2001, Judgement, 5 aprile 2003 Prosecutor v. Anastacio Martins and Domingos Goncalves, 11/2001, Judgement, 13 novembre 2003 Prosecutor v. Francisco Perreira, 34/2003, Judgement, 27 aprile 2005 SPECIAL TRIBUNAL FOR LEBANON Interlocutory Decision on the Applicable Law: Terrorism, Conspiracy, Homicide, Perpetration, Cumulative Chamber, 16 febbraio 2011 165 Charging, STL-11-01/I, Appeals INTERNATIONAL MILITARY TRIBUNAL AND SUBSEQUENT NUREMBERG TRIALS Göring et al., 1 ottobre 1946, Trial of the Major War Criminals Before the International Military Tribunal, 14 November 1945 – 1 October 1946, Nuremberg, 1947 Altstötter and others, US Military Tribunal sitting at Nuremberg, 4 dicembre 1947, Trial of Erich Heyer and Six Others British Military (Essen Lynching Case), British Military Court sitting at Essen, 18-19, 21-22 Dicembre 1945 Kurt Goebell et al. 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