Il libro Summer è da poco arrivata a Londra dalla Nuova Zelanda. Ha i capelli rossi, una gran voglia di vivere e un’intensa passione per la musica di Vivaldi. Si guadagna da vivere suonando il violino in serate occasionali o nelle stazioni della metropolitana. Ed è qui che la nota Dominik, un giovane professore universitario catturato dal fascino di quella musica. L’ascolta da lontano, di nascosto, estasiato. Quando Summer viene aggredita e il suo prezioso violino finisce distrutto, sarà Dominik a offrirsi di sostituirglielo. Summer, in cambio, dovrà solo suonare per lui in un concerto privato. Comincia così una relazione impetuosa e sempre al limite, tanto imprevedibile quanto profonda e inarrestabile. Summer non ha niente da perdere. Anzi, forse è il momento di fare i conti con se stessa, con il suo lato oscuro e sempre negato. Anche a costo di scoprire che al piacere si accompagna, inevitabilmente, il dolore. Ma quanto può durare una relazione nata da una passione così totale e divorante? L’autore Vina Jackson è uno pseudonimo. Vina Jackson 80 DAYS: IL COLORE DELLA PASSIONE Traduzione di Eloisa Banfi Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale. 80 Days: Il colore della passione 1 Una ragazza e il suo violino Do la colpa a Vivaldi. Più in particolare, al mio CD delle Quattro stagioni, che adesso giace a faccia in giù sul comodino, accanto a Darren, il mio ragazzo, che dorme russando piano. Abbiamo litigato quando lui è rientrato alle tre del mattino da un viaggio di lavoro e mi ha trovata distesa sul parquet del suo salotto, nuda e intenta ad ascoltare musica al volume più alto consentito dall’impianto stereo. Ovvero altissimo. Il presto dell’Estate, il Concerto n. 2 in Sol minore, stava per entrare nel vivo quando Darren spalancò la porta. Non mi accorsi del suo ingresso finché non sentii sulla spalla destra la suola della sua scarpa scuotermi. Aprii gli occhi e lo vidi chino su di me. Aveva acceso le luci e il CD si era improvvisamente zittito. «Che cazzo stai facendo?» chiese. «Ascolto la musica» risposi con un filo di voce. «Questo lo sento! L’ho sentito fin dalla strada!» urlò. Era stato a New York e aveva un aspetto straordinariamente fresco e riposato per uno appena sbarcato da un lungo volo. Indossava metà del suo abito da ufficio – camicia bianca immacolata, cintura di pelle e pantaloni blu scuro a righine sottili – e teneva la giacca ripiegata sul braccio. Stringeva con forza l’impugnatura del trolley. Evidentemente stava piovendo, anche se io non me n’ero accorta, dato l’altissimo volume della musica. La valigia era lucida di pioggia, che scorreva via in rivoletti e si raccoglieva in una pozza sul pavimento di legno proprio accanto alle mie cosce. La parte inferiore dei suoi pantaloni era bagnata e gli aderiva alle gambe. Girando la testa verso la scarpa di Darren, scorsi due centimetri di polpaccio umido. Lui emanava un odore muschiato, un misto di sudore, pioggia, lucido da scarpe e cuoio. Alcune gocce d’acqua scivolarono dalla scarpa sul mio braccio. Vivaldi produceva immancabilmente un effetto molto particolare su di me e né l’ora antelucana né l’espressione irritata sul volto di Darren bastarono a distrarmi dalla sensazione di calore che si diffondeva rapida lungo il mio corpo, accendendomi come sempre il fuoco nelle vene. Mi voltai, mentre la sua scarpa premeva ancora leggermente sul mio braccio destro, e risalii con la mano sinistra lungo la gamba dei pantaloni. Lui fece un passo indietro, come se si fosse scottato, e scrollò la testa. «Cristo santo, Summer…» Trascinò il trolley contro la parete accanto alla rastrelliera dei CD, tolse le Quattro stagioni dal lettore e poi si diresse verso la sua stanza. Pensai per un istante di alzarmi e di seguirlo, ma lasciai perdere. Non avrei potuto averla vinta in una discussione con Darren senza i vestiti addosso. Speravo che, se avessi continuato a rimanere distesa immobile, sarei riuscita a disinnescare la sua rabbia rendendomi meno visibile: in fondo, se non mi fossi alzata, il mio corpo nudo in posizione orizzontale si sarebbe mimetizzato meglio con il pavimento. Udii il rumore dell’anta dell’armadio che si apriva e il familiare ticchettio delle grucce di legno che cozzavano l’una contro l’altra mentre lui appendeva la giacca. Stavamo insieme da sei mesi e non l’avevo mai visto gettare il cappotto su una sedia o sullo schienale del divano, come avrebbe fatto una persona normale. Appendeva la giacca nell’armadio, poi si sedeva per sfilarsi le scarpe, si toglieva i gemelli, si sbottonava la camicia e la buttava direttamente nel cesto della biancheria sporca, quindi si levava la cintura e la metteva sull’apposita rastrelliera di metallo nell’armadio, accanto a una mezza dozzina di altre cinture in tonalità sobrie di blu, nero e marrone. Indossava slip firmati, il genere che preferivo in un uomo, minuscoli short di cotone elasticizzato con una spessa fascia in vita. Adoravo il modo provocante in cui aderivano al suo corpo, anche se con mio perenne disappunto lui si metteva sempre una vestaglia e non girava mai per casa con addosso solo la biancheria intima. Diversamente da me, che stavo bene nella mia pelle, Darren si sentiva offeso dalla nudità. Ci eravamo conosciuti a un concerto l’estate precedente. Per me si era trattato di una grande occasione: uno dei violinisti si era ammalato e io ero stata ingaggiata all’ultimo minuto per suonare nell’orchestra un pezzo di Arvo Pärt… che peraltro detestavo. Lo trovavo sconnesso e monotono, ma per un posto regolare su un palcoscenico vero, ancorché piccolo, avrei suonato anche Justin Bieber, fingendo persino di divertirmi. Darren era tra il pubblico e lo spettacolo gli era piaciuto. Aveva una fissazione per le rosse e in seguito mi confessò che non era riuscito a vedermi in faccia a causa dell’angolazione del palco, ma in compenso aveva goduto di una magnifica visione della sommità dei miei capelli. Disse che risplendevano sotto i riflettori quasi fossi avvolta dalle fiamme. Aveva ordinato dello champagne e aveva usato i suoi contatti con gli organizzatori del concerto per incontrarmi dietro le quinte. Non mi piace lo champagne, ma lo bevvi comunque, perché lui era alto, affascinante e quanto di più vicino a un vero fan avessi mai avuto. Gli chiesi che cosa avrebbe fatto se mi fossero mancati i denti davanti o se non gli fossi piaciuta per qualche altra ragione, e lui rispose che ci avrebbe provato con la percussionista, che non aveva i capelli rossi ma era comunque piuttosto attraente. Poche ore dopo ero ubriaca e distesa nella camera della sua casa di Ealing, a chiedermi come fossi finita a letto con un uomo che aveva appeso la giacca e sistemato le scarpe in perfetto allineamento. Comunque, aveva un uccello bello grosso e un appartamento carino, e anche se scoprii che detestava tutta la musica che io invece amavo, nei mesi successivi passammo insieme la maggior parte dei weekend. Sfortunatamente per me, trascorremmo troppo poco di quel tempo a letto e decisamente troppo in giro per mostre d’arte intellettualoidi che a me non piacevano e che, ne ero convinta, Darren non capiva. Gli uomini che mi vedevano suonare nei luoghi tradizionalmente destinati alla musica classica invece che nei pub o nelle stazioni della metropolitana sembravano commettere lo stesso errore di Darren, convinti che io possedessi tutte le caratteristiche che associavano a una violinista classica. Secondo loro, avrei dovuto essere beneducata, perbene, colta, istruita, signorile e aggraziata, con un guardaroba pieno di abiti semplici ed eleganti da indossare sul palcoscenico, nessuno dei quali volgare o succinto. Avrei dovuto portare tacchi bassi ed essere inconsapevole dell’effetto suscitato dalle mie caviglie sottili. In realtà, avevo un unico abito lungo per i concerti, che avevo comprato per dieci sterline in un negozio vintage di Brick Lane e avevo fatto modificare da una sarta. Era di velluto nero, a collo alto e con una profonda scollatura sulla schiena, ma la sera in cui avevo conosciuto Darren era in lavanderia, così avevo acquistato un tubino da Selfridges con la carta di credito e avevo nascosto le etichette nella biancheria intima. Grazie al cielo, Darren era un amante composto e non aveva lasciato macchie né su di me né sull’abito, per cui il giorno dopo avevo potuto restituirlo senza problemi. L’appartamento in cui trascorrevo le notti dei giorni feriali si trovava in un condominio a Whitechapel. In realtà, più che un appartamento, era una stanza dotata di un letto singolo abbastanza largo, uno stand appendiabiti che fungeva da armadio, un piccolo lavello, un frigorifero e un fornello elettrico. Il bagno era in fondo al corridoio, in comune con altre quattro persone che incontravo occasionalmente, ma che in genere si facevano gli affari loro. Nonostante si trovasse in un quartiere modesto e il palazzo fosse fatiscente, non mi sarei mai potuta permettere di abitarvi, se non avessi fatto un patto con l’affittuario, conosciuto in un bar dopo una visita al British Museum. Non mi aveva mai spiegato perché volesse affittare la stanza per una cifra inferiore a quella che pagava lui, ma m’immaginavo che sotto le assi del pavimento ci fosse un cadavere oppure un nascondiglio di polverina bianca, e spesso la notte non riuscivo a prendere sonno aspettando di sentire i passi di una squadra speciale anticrimine che faceva irruzione nel corridoio. Darren non era mai stato a casa mia, un po’ perché avevo la sensazione che non si sarebbe azzardato a metter piede nell’atrio prima di aver fatto sterilizzare l’intero edificio e un po’ perché mi piaceva che una parte della mia vita fosse solo mia. Inconsciamente, forse, sapevo che la nostra relazione non sarebbe durata e non avevo voglia di ritrovarmi con un amante scaricato che lanciava sassi contro la mia finestra nel cuore della notte. Lui mi aveva proposto più di una volta di trasferirmi a casa sua, così avrei risparmiato i soldi dell’affitto e avrei potuto comprare un violino più bello o pagare le lezioni di musica, ma io avevo rifiutato. Detesto vivere con altra gente, soprattutto con gli amanti, e avrei preferito arrotondare le mie entrate di notte all’angolo della strada piuttosto che farmi mantenere da un fidanzato. Udii lo scatto attutito della custodia dei gemelli che si chiudeva, serrai le palpebre e strinsi le gambe nel tentativo di rendermi invisibile. Lui tornò in salotto e mi passò accanto per andare in cucina. Sentii lo scroscio dell’acqua nel lavello, il lieve sibilo del gas e, dopo qualche minuto, il suono del bollitore. Aveva uno di quei bollitori moderni ma dal funzionamento antiquato che doveva essere riscaldato sul fornello finché non emetteva un fischio. Non riuscivo a capire perché non potesse comprarsene uno elettrico, ma lui sosteneva che l’acqua, scaldata così, aveva un sapore diverso e che una tazza di tè come si deve doveva essere preparata con dell’acqua come si deve. Io non bevo tè. Il solo odore mi dà il voltastomaco. Bevo caffè, ma Darren si rifiutava di prepararmelo dopo le sette di sera: era convinto che mi tenesse sveglia e diceva che la mia inquietudine notturna teneva sveglio anche lui. Mi rilassai sul pavimento e finsi di essere altrove, rallentando il ritmo del respiro nel tentativo di rimanere immobile, come un cadavere. «Non riesco nemmeno a parlarti quando sei in questo stato, Summer.» La sua voce arrivò fluttuando dalla cucina, incorporea. Era una delle cose che più mi piacevano di lui, la ricca tonalità del suo accento da scuola d’élite, a volte tranquilla e calda, altre fredda e dura. Sentii un’ondata di calore tra le cosce, allora strinsi le gambe più che potevo, pensando a quando Darren aveva steso un asciugamano sotto di noi l’unica volta che avevamo scopato sul pavimento del salotto. Odiava il disordine. «Quale stato?» chiesi, senza aprire gli occhi. «Questo! Nuda e distesa per terra come una pazza! Alzati e mettiti addosso qualcosa, cazzo.» Bevve l’ultimo sorso di tè e io, nel sentire il lieve schiocco che faceva deglutendo, lo immaginai in ginocchio con la bocca tra le mie cosce. Il pensiero mi fece arrossire. A Darren non piaceva leccarmi, a meno che non fossi appena uscita dalla doccia, e anche in quel caso la sua lingua era riluttante e cedeva il posto alle dita alla prima occasione. Preferiva usare un dito solo e non l’aveva presa bene quando avevo allungato la mano per invitarlo a mettermene dentro due. «Cristo, Summer» aveva detto, «se continui così a trent’anni sarai sfondata.» Poi era andato in cucina e si era lavato le mani con il detersivo per i piatti prima di tornare a letto e sdraiarsi su un fianco, addormentandosi con la schiena rivolta verso di me, mentre io, sveglia, fissavo il soffitto. A giudicare dallo sciacquio vigoroso doveva essersi lavato le braccia fino ai gomiti, come un veterinario pronto a far nascere un vitello, o un sacerdote in procinto di compiere un sacrificio. Da allora mi ero astenuta dall’incoraggiarlo a riprovare con più dita. Darren mise la tazza nel lavello e mi passò di nuovo accanto, questa volta diretto in camera. Dopo che fu scomparso alla vista, aspettai un attimo prima di alzarmi in piedi, imbarazzata al pensiero di quanto gli sarei sembrata oscena nella mia nudità, anche se a quel punto mi ero ormai del tutto ridestata dalla trance indotta da Vivaldi e il corpo iniziava a dolermi e a essere percorso dai brividi. «Vieni a letto, quando sei pronta» mi disse lui. Sentii che finiva di svestirsi e si coricava. Allora mi infilai la biancheria intima e aspettai che il suo respiro si facesse profondo e regolare prima di scivolare tra le lenzuola accanto a lui. Avevo quattro anni quando sentii per la prima volta le Quattro stagioni. Mia madre e i miei fratelli erano andati a trovare mia nonna per il weekend. Io mi ero rifiutata di partire senza mio padre, che non poteva venire per impegni di lavoro. Mi ero aggrappata a lui e avevo cominciato a urlare, mentre insieme a mia madre cercava di convincermi a salire in auto. Alla fine avevano ceduto e mi avevano consentito di rimanere a casa. Mio padre aveva permesso che saltassi la scuola materna e mi aveva portata con sé al lavoro. Avevo passato tre splendidi giorni di libertà quasi totale scorrazzando per la sua officina, arrampicandomi su mucchi di pneumatici e inalando l’aria che sapeva di gomma mentre lo osservavo sollevare con il cric le macchine e infilarcisi sotto, lasciando sporgere solo le gambe. Stavo sempre vicino a lui, perché avevo una tremenda paura che un giorno il cric potesse cedere facendogli cadere l’auto addosso e tagliandolo in due. Non so se fosse per arroganza o per stupidità, fatto sta che anche così piccola pensavo che io sarei stata capace di salvarlo, che con la giusta dose di adrenalina sarei riuscita a sollevare la vettura per i pochi secondi necessari a liberarlo. Dopo che aveva finito di lavorare, salivamo sul suo furgone e iniziavamo il lungo tragitto di ritorno verso casa, facendo una sosta per un cono gelato, anche se in genere non mi era concesso mangiare dolci prima di cena. Mio padre ordinava sempre malaga, mentre io sceglievo un gusto diverso ogni volta, oppure due mezze palline di gusti diversi. Una notte in cui non riuscivo a dormire ero andata in salotto e lo avevo trovato sdraiato al buio, apparentemente addormentato, anche se non respirava come uno che dorme. Aveva preso il giradischi dal garage e io sentivo il lieve fruscio della puntina a ogni giro del disco. «Ciao, piccola» disse. «Che cosa stai facendo?» chiesi. «Ascolto la musica» rispose, come se fosse la cosa più normale del mondo. Mi sdraiai accanto a lui avvertendo il calore del suo corpo vicino al mio e il lieve sentore della gomma nuova mescolato a quello della pasta lavamani. Chiusi gli occhi e rimasi immobile, finché il pavimento scomparve e rimanemmo solo io, sospesa nel buio, e il suono delle Quattro stagioni sul giradischi. In seguito avevo chiesto a mio padre di mettere quel disco più volte, forse perché ero convinta che il mio nome – Summer, “estate” – derivasse proprio da uno dei quattro concerti, una teoria che i miei genitori non confermarono mai. L’entusiasmo era stato tale che per il mio successivo compleanno mio padre mi regalò un violino e fece in modo che prendessi lezioni. Ero sempre stata una bambina impaziente e piuttosto indipendente, il genere di persona che potrebbe non essere adatta a frequentare lezioni dopo la scuola o a studiare musica, ma io desideravo moltissimo, più di ogni altra cosa al mondo, suonare qualcosa che mi consentisse di volare via come la notte in cui avevo ascoltato Vivaldi. Così, dalla prima volta in cui misi le mie piccole mani sull’archetto e sullo strumento, non smisi di esercitarmi tutte le volte che potevo. Mia madre cominciò a preoccuparsi che diventasse un’ossessione e avrebbe voluto togliermi il violino per un po’, in modo che mi dedicassi di più ai compiti e magari mi facessi qualche amica, ma io rifiutai con decisione di separarmi dal mio strumento. Con l’archetto in mano avevo la sensazione di poter prendere il volo in qualunque momento. Senza di esso non ero niente, solo un corpo come tutti gli altri, ancorata al suolo come un masso. Superai rapidamente tutti i livelli dei libri di musica per principianti e a nove anni suonavo con una maestria che andava ben oltre le aspettative della mia stupefatta insegnante di musica della scuola. Mio padre fece in modo che prendessi lezioni aggiuntive da un vecchio gentiluomo olandese, Hendrik Van der Vliet, che abitava a due vie di distanza da noi e usciva raramente di casa. Era un uomo alto, incredibilmente magro, che si muoveva con difficoltà, come se fosse attaccato a dei fili e fosse circondato da una sostanza più densa dell’aria; sembrava una cavalletta che nuota nel miele. Quando prendeva in mano il violino, il suo corpo diventava liquido. Guardare i movimenti delle sue braccia era come vedere un’onda che si gonfia e si rompe nel mare. La musica fluiva dentro e fuori di lui come la marea. A differenza di Mrs Drummond, la mia insegnante di musica della scuola, che si era dimostrata stupita e scettica riguardo ai miei progressi, Mr Van der Vliet sembrava indifferente. Parlava di rado e non sorrideva mai. Benché vivessimo in un piccolo centro della Nuova Zelanda, Te Aroha, poche persone lo conoscevano e, per quanto ne sapevo, non aveva altri allievi. Mio padre mi disse che un tempo aveva suonato nella Royal Concertgebouw Orchestra di Amsterdam diretta da Bernard Haitink e che aveva abbandonato la carriera per trasferirsi in Nuova Zelanda dopo aver conosciuto una donna del luogo a uno dei suoi concerti. Lei era morta in un incidente d’auto il giorno in cui ero nata io. Come Mr Van der Vliet, anche mio padre era un uomo tranquillo, ma si interessava alla gente e conosceva tutti a Te Aroha. Prima o poi anche alla persona più schiva capitava di trovarsi con una gomma a terra, che fosse di un’auto, di una moto o di un tosaerba e, vista la fama che si era fatto di accettare anche le riparazioni più insignificanti, mio padre era spesso impegnato in questo o quel lavoretto per gli abitanti della nostra cittadina. Tra questi, Mr Van der Vliet, che un giorno era entrato nell’officina per far riparare la ruota di una bicicletta e ne era uscito con un’allieva di violino. Provavo una sorta di curiosa lealtà nei suoi confronti, come se in qualche modo fossi responsabile della sua felicità, dato che ero venuta al mondo il giorno in cui sua moglie era morta. Mi sentivo in dovere di compiacerlo e sotto la sua guida mi esercitavo finché non mi facevano male le braccia e mi si consumavano i polpastrelli. A scuola non ero né particolarmente amata né emarginata. I voti erano nella media e io non mi distinguevo in alcun modo tranne che in musica, materia nella quale le lezioni private unite al talento mi permettevano di collocarmi ben al di sopra dei miei coetanei. Mrs Drummond mi ignorava, forse temendo che la mia bravura avrebbe fatto sentire inadeguati o invidiosi i compagni. Tutte le sere andavo nel garage e suonavo il violino o ascoltavo dischi, di solito al buio, fluttuando con la mente nel repertorio classico. Talvolta mio padre si univa a me. Quasi mai parlavamo, ma io mi sentivo sempre vicina a lui grazie all’esperienza condivisa dell’ascolto, o forse a causa della nostra reciproca eccentricità. Evitavo le feste e non socializzavo granché. Di conseguenza, le esperienze sessuali con i ragazzi della mia età erano limitate. Ancor prima dell’adolescenza, però, avvertii dentro di me una tensione, il primo segnale di quello che in seguito sarebbe diventato un robusto appetito sessuale. Suonare il violino sembrava acuire i miei sensi. Era come se le distrazioni annegassero nei suoni e tutto sparisse ai margini della percezione, tranne la sensazione del mio corpo. Con l’adolescenza cominciai ad associare questa sensazione all’eccitazione sessuale. Mi chiedevo perché il desiderio si risvegliasse in me con tanta facilità e per quale motivo la musica avesse un effetto così potente. Ho sempre temuto che i miei impulsi fossero eccessivi, anormali. La mia relazione con Darren mi spinse a domandarmelo anche più spesso di prima. Mr Van der Vliet mi trattava come se fossi uno strumento. Mi spostava le braccia nella posizione corretta o mi metteva una mano sulla schiena per farmi stare diritta, come se fossi fatta di legno invece che di carne. Sembrava del tutto inconsapevole del proprio tocco, quasi che io fossi un’estensione del suo corpo. Non si comportò mai in modo meno che corretto e casto, eppure, a dispetto di ciò e nonostante la sua età, il suo odore lievemente acre e il suo viso ossuto, iniziai a provare qualcosa per lui. Era insolitamente alto, più alto di mio padre, forse intorno ai due metri, e torreggiava sopra di me. Se adesso non supero il metro e sessantacinque, da adolescente gli arrivavo a malapena al petto. Iniziai ad aspettare con ansia le lezioni per ragioni che andavano oltre il piacere di perfezionare il mio modo di suonare. Di tanto in tanto fingevo di prendere una stecca o facevo un movimento goffo del polso nella speranza che lui mi toccasse la mano per correggermi. «Summer» mi disse un giorno con voce sommessa, «se continui a fare così non ti darò più lezioni.» Non suonai mai più una nota sbagliata. Fino a quella sera, poche ore prima che Darren e io litigassimo per via delle Quattro stagioni. Stavo suonando una serie di brani con un aspirante gruppo di blues rock in un bar di Camden Town, quando all’improvviso mi si erano irrigidite le dita e avevo mancato una nota. Nessuno degli altri membri della band se n’era accorto e, fatta eccezione per un pugno di fan sfegatati di Chris, il cantante e chitarrista, la maggior parte del pubblico ci ignorava. Era una serata dal vivo che cadeva di mercoledì e la gente che frequentava il locale durante la settimana era persino più distratta degli ubriachi del sabato sera, perciò a parte i sostenitori irriducibili, il resto degli avventori era lì solo per farsi una birra e due chiacchiere, non certo per ascoltare musica. Chris mi aveva detto di non preoccuparmi. Lui suonava sia la viola sia la chitarra, anche se aveva quasi abbandonato il primo strumento per cercare di conquistarsi un maggior appeal commerciale con il secondo. Avevamo entrambi una passione per gli strumenti a corda e per questa ragione tra noi si era creata una sorta di legame. «Capita a tutti, dolcezza» aveva detto. Ma non a me. Ero mortificata. Me n’ero andata senza bere un bicchiere insieme agli altri del gruppo e con la metropolitana avevo raggiunto l’appartamento di Darren a Ealing, dove ero entrata usando il mazzo di chiavi di riserva. Avendo fatto confusione con gli orari dei voli, pensavo che lui sarebbe arrivato la mattina dopo aver preso l’ultimo aereo e sarebbe andato in ufficio senza passare da casa, dandomi così l’opportunità di dormire in un letto comodo tutta la notte e di ascoltare un po’ di musica. Un’altra delle ragioni per cui continuavo a frequentarlo era la qualità dell’impianto stereo del suo appartamento, nonché la superficie di pavimento libera su cui potersi sdraiare. Darren era una delle poche persone di mia conoscenza ad avere ancora un vero stereo, completo di lettore CD, e a casa mia non c’era abbastanza spazio per stare sdraiata per terra, a meno di non infilare la testa nella credenza. Dopo qualche ora di Vivaldi in loop, avevo concluso che la nostra relazione, benché piacevole, stava soffocando la mia vena creativa. Sei mesi di arte moderata, musica moderata, barbecue moderati con altre coppie moderate e sesso moderato mi avevano portata a dare uno strattone alla catena che avevo acconsentito a farmi mettere al collo, un cappio che mi ero fabbricata con le mie stesse mani. Dovevo trovare un modo per uscirne. In genere Darren aveva il sonno leggero, ma dopo i voli di rientro da New York prendeva regolarmente un sonnifero per evitare il jetlag. Vedevo baluginare il blister vuoto nel cestino della cartastraccia. Persino alle quattro del mattino aveva scrupolosamente gettato la confezione nella spazzatura invece di lasciarla sul comodino fino al giorno dopo. I l CD di Vivaldi era a faccia in giù accanto all’abat-jour. Per Darren lasciare un CD fuori dalla custodia era la più grande espressione di disappunto. Nonostante il sonnifero, ero sorpresa che riuscisse a dormire con il disco che rischiava di graffiarsi accanto a lui. Sgattaiolai fuori dal letto all’alba, dopo aver dormito al massimo un paio d’ore, e gli lasciai un biglietto sul bancone della cucina. “Scusa per il rumore. Dormi bene. Ti chiamo ecc.” Presi la Central Line della metropolitana in direzione del West End senza sapere esattamente dove stessi andando. Il mio monolocale era perennemente in disordine e non mi piaceva esercitarmi lì troppo spesso, perché le pareti erano sottili e avevo paura che gli inquilini della stanza accanto prima o poi si stancassero del rumore, per quanto piacevole (o, almeno, così speravo che fosse). Smaniavo dalla voglia di suonare, se non altro per sfogare le emozioni che si erano accumulate durante la notte. All’altezza di Shepherd’s Bush la metropolitana era piena zeppa. Avevo scelto di rimanere in piedi all’estremità del vagone, appoggiata a uno dei sedili pieghevoli vicini alla porta, perché era più comodo che stare seduta con la custodia del violino tra le gambe. Adesso ero schiacciata in mezzo a una calca di impiegati sudati, sempre più numerosi a ogni fermata, ogni volto più infelice del precedente. Indossavo l’abito lungo di velluto nero che mi ero messa la sera prima per il concerto con la band e un paio di Dr Martens di pelle rosso ciliegia. In occasione dei concerti di musica classica mettevo le scarpe con i tacchi, ma preferivo sostituirle con gli anfibi per il ritorno a casa perché avevo l’impressione che conferissero una nota di minacciosa baldanza ai miei passi mentre camminavo per l’East End la sera tardi. In piedi, a testa alta, immaginavo che, vestita in quel modo, la maggior parte della gente sul vagone, o almeno quelli che riuscivano a vedermi nella calca, sospettassero che stessi tornando a casa dopo una notte di passione. Vaffanculo. Avrei tanto voluto essere reduce da una notte di passione. Con Darren sempre in giro per lavoro e io a suonare in tutte le serate che riuscivo a procurarmi, era quasi un mese che non scopavamo. E quando lo facevamo, raggiungevo raramente l’orgasmo e solo dopo essermi toccata in fretta e con imbarazzo, cercando disperatamente di godere e preoccupata del fatto che masturbarmi dopo il sesso facesse sentire il mio partner inadeguato. E tuttavia lo facevo lo stesso, anche se sospettavo che lui si sentisse davvero inadeguato, perché altrimenti avrei finito per passare le successive ventiquattr’ore insoddisfatta e tesa. A Marble Arch salì un muratore. L’estremità del vagone era già stipata di gente e gli altri passeggeri lo guardarono storto mentre cercava di guadagnarsi un posto in un angolo vicino alla porta davanti a me. Era alto, muscoloso, e aveva dovuto rattrappirsi per permettere alla porta di richiudersi alle sue spalle. «Andate avanti, per favore» disse un passeggero in tono forzatamente cortese. Nessuno si mosse. Sempre beneducata, spostai il violino per fare un po’ di spazio, togliendo ogni schermo tra me e l’uomo. Il treno ripartì con uno scossone, facendo perdere l’equilibrio ai passeggeri. Lui fu sbalzato in avanti e io irrigidii la schiena per rimanere in equilibrio. Per un momento sentii il suo busto premere contro di me. Indossava una camicia di cotone a maniche lunghe, un gilet catarifrangente e un paio di jeans scoloriti. Non era grasso, ma era massiccio, come un giocatore di rugby fuori allenamento, e, pigiato in quel vagone con le braccia alzate per reggersi al sostegno sopra la sua testa, dava l’impressione di indossare vestiti leggermente troppo piccoli per la sua taglia. Chiusi gli occhi e immaginai come potesse essere sotto i jeans. Non avevo avuto modo di guardarlo sotto la cintura quando era salito, ma la mano con cui si teneva al corrimano era grande e tozza, per cui pensai che la stessa cosa dovesse valere per il rigonfiamento nei pantaloni. Entrammo nella stazione di Bond Street e una biondina con il viso atteggiato a una cupa determinazione si preparò a infilarsi nel vagone affollato. Pensiero fugace: il treno avrebbe sussultato di nuovo ripartendo? Sì. L’uomo incespicò verso di me e io, in un impeto di audacia, strinsi le cosce e percepii il suo corpo che si irrigidiva. La biondina iniziò a farsi largo, dando una gomitata nella schiena al muratore mentre estraeva un libro dalla borsa voluminosa. Lui mi si avvicinò per lasciarle un po’ di spazio, o forse voleva semplicemente godersi la vicinanza dei nostri corpi. Strinsi le cosce con più forza. Il treno sobbalzò di nuovo. Lui si rilassò. Adesso il suo corpo premeva con decisione contro il mio e io, incoraggiata da quella vicinanza apparentemente casuale, protesi leggermente il bacino, cosicché adesso i suoi jeans mi toccavano l’interno della gamba. Lui spostò la mano dal sostegno sopra la testa alla parete del vagone appena sopra la mia spalla; adesso sembrava quasi che ci stessimo abbracciando. Immaginai di sentire il fiato che gli si mozzava in gola e il battito che accelerava, anche se qualunque possibile rumore fu inghiottito dal fracasso del treno che correva dentro il tunnel. Il cuore mi batteva forte, e provai una fitta di paura, temendo di essermi spinta troppo in là. Che cosa avrei fatto se quell’uomo mi avesse rivolto la parola? E se mi avesse baciata? Mi chiesi come sarebbe stato avere la sua lingua in bocca, se fosse uno che sapeva baciare, il tipo che faceva guizzare la lingua dentro e fuori come una lucertola, o se invece mi avrebbe afferrata per i capelli facendomi reclinare la testa all’indietro per baciarmi e prendersi quello che voleva. Sentii un’ondata di calore umido tra le cosce e mi resi conto, con un misto di imbarazzo e piacere, di avere le mutandine bagnate. Per fortuna avevo resistito all’impulso di uscire senza biancheria intima quella mattina, infilandomi un paio di slip che avevo lasciato a casa di Darren. L’uomo muscoloso adesso si era voltato verso di me, cercando di incrociare il mio sguardo, ma io tenni gli occhi bassi e assunsi un’espressione impassibile, come se la pressione del suo corpo contro il mio non fosse nulla di sconveniente, nulla di diverso da quello che mi capitava ogni giorno in metropolitana. Temendo ciò che sarebbe potuto succedere se fossi rimasta intrappolata un solo minuto di più fra la parete del vagone e quell’uomo, sgusciai sotto il suo braccio e scesi dal treno a Chancery Lane senza voltarmi. Mi chiesi se mi avrebbe seguita. Chancery Lane era una stazione tranquilla; dopo il nostro contatto sul vagone, gli sarebbe potuto venire in mente ogni genere di servizietto clandestino, facilitato dal mio abito che non avrebbe frapposto ostacoli. Ma il treno ripartì portandosi via il mio uomo muscoloso. Una volta uscita dalla metropolitana, avevo intenzione di andare al ristorante francese all’angolo dove servivano le migliori uova alla Benedict che avessi mai mangiato da quando avevo lasciato la Nuova Zelanda. La prima volta, avevo detto allo chef che la sua era la colazione più buona di tutta Londra. «Lo so» aveva ribattuto. Capivo perché gli inglesi detestavano i francesi: sono un popolo di spocchiosi, ma a me la cosa piace, e tornavo in quel ristorante più spesso che potevo. Adesso, però, troppo agitata per far caso alla direzione da prendere, svoltai a destra invece che a sinistra. In ogni caso il locale francese non apriva fino alle nove. Forse avrei trovato un posticino tranquillo ai Gray Inn’s Gardens; avrei potuto suonare un po’ prima di far colazione. Mentre camminavo in cerca del vicolo privo di cartello stradale che portava ai giardini, mi resi conto di trovarmi proprio a Holborn, davanti al locale di striptease in cui ero stata qualche settimana dopo il mio arrivo in Gran Bretagna. C’ero andata con Charlotte, una ragazza con cui avevo lavorato per un breve periodo mentre giravo per l’Outback australiano e che avevo incontrato di nuovo in un ostello durante la mia prima sera a Londra. Lei aveva sentito dire che lì ballare era il modo più facile per fare soldi. Passavi un paio di mesi in qualche bettola e poi trovavi lavoro in uno dei locali chic di Mayfair, dove le celebrità e i calciatori ti avrebbero infilato manciate di banconote nel perizoma come fossero coriandoli. Charlotte mi aveva portata con sé in quel locale per dargli un’occhiata e vedere se riusciva a trovare un lavoro. Con mio disappunto, l’uomo che ci aveva accolte nell’ingresso con la moquette rossa non ci aveva fatte entrare, come mi sarei aspettata, in una stanza piena di signore poco vestite che si divertivano ballando, ma ci aveva portate nel suo ufficio attraverso una porta laterale. Aveva chiesto a Charlotte di parlargli delle sue esperienze precedenti, che non esistevano, a meno che non si volessero contare come tali le esibizioni di ballo sui tavoli nei nightclub. Poi l’aveva squadrata da capo a piedi come un fantino avrebbe fatto con un cavallo a una fiera del bestiame. Dopodiché aveva fatto la stessa cosa con me. «Sei in cerca di un lavoro anche tu, tesoro?» «No, grazie» risposi. «Ne ho già uno. Sono qui solo per accompagnare la mia amica.» «Niente palpeggiamenti. Li sbattiamo fuori, se ci provano» aggiunse speranzoso. Scossi la testa. Avevo preso in considerazione la possibilità di vendere il mio corpo, ma, a parte i rischi, avrei preferito prostituirmi. In qualche modo, mi sembrava più onesto. Trovavo che lo spogliarello fosse un po’ artefatto. Perché spingersi fino a un certo punto e non fare il servizio completo? In ogni caso, avevo bisogno di avere le serate libere per i concerti e mi serviva un lavoro che mi lasciasse energia per suonare. Charlotte era rimasta circa un mese in quel locale, prima di essere licenziata dopo che una delle altre ragazze aveva spifferato che era uscita con due clienti. Una coppia giovane. «Con l’aria innocente come piace a te» mi aveva detto Charlotte. Erano arrivati un venerdì sera tardi, lui su di giri e la sua ragazza elettrizzata e civettuola, come se non avesse mai visto il corpo di un’altra donna. Il ragazzo si era offerto di pagare un ballo e lei si era guardata intorno nel locale e poi aveva scelto Charlotte. Forse perché non aveva ancora nessun orpello adatto a una spogliarellista o perché non aveva le unghie finte come le altre ballerine. Era ciò che la distingueva. Charlotte era l’unica spogliarellista che non sembrava tale. Era bastato qualche istante a far eccitare la ragazza, e lui era diventato paonazzo. Charlotte si divertiva a traviare gli innocenti ed era stata lusingata dalla loro reazione al modo in cui lei muoveva il corpo. Si era protesa in avanti, colmando la distanza che la separava da loro. «Vi va di venire da me?» aveva sussurrato all’orecchio di entrambi. Dopo un primo imbarazzo i due avevano finito per accettare e tutti e tre si erano stipati sul sedile posteriore di un taxi, diretti all’appartamento di Charlotte a Vauxhall. La sua proposta di andare invece a casa della coppia era stata liquidata in modo sbrigativo. La faccia della sua coinquilina, mi aveva raccontato poi, sarebbe stata da fotografare, quando la mattina dopo aveva aperto la porta della sua camera senza bussare per portarle una tazza di tè e l’aveva trovata a letto non con uno sconosciuto, ma con due. Adesso sentivo raramente Charlotte. Londra aveva un modo tutto suo di inghiottire la gente, e mantenere i contatti non era mai stato il mio forte. Però quel locale me lo ricordavo. Si trovava non in fondo a un vicolo buio, come ci si sarebbe potuti aspettare, ma sulla via principale, tra un fast food e un negozio di articoli sportivi. Poco più avanti c’era un ristorante italiano dov’ero andata una volta per un appuntamento, reso memorabile dal fatto che avevo accidentalmente bruciato il menu tenendolo aperto sopra la candela al centro del tavolo. La porta d’ingresso era un po’ arretrata rispetto alla strada e l’insegna non era illuminata al neon, ma comunque se si guardava bene il posto, con la sua vetrina oscurata e il nome piuttosto squallido – Sweethearts –, non c’era possibilità di sbagliarsi sul fatto che si trattasse di un locale di striptease. Presa da un’improvvisa curiosità, strinsi forte la custodia del violino, feci un passo avanti e spinsi la porta. Era chiusa. Sbarrata. Il che non era poi così strano, visto che erano le otto e mezzo di un giovedì mattina. Spinsi ancora, sperando che si aprisse. Niente. Due uomini su un furgone bianco rallentarono e abbassarono il finestrino. «Torna all’ora di pranzo, dolcezza» mi urlò uno dei due, con un’espressione più di compassione che di attrazione. Con il vestito nero e i residui del pesante trucco da rockettara della sera prima, probabilmente avevo l’aria di una ragazza disperata in cerca di un lavoro. E se lo fossi stata davvero? Adesso ero affamata e avevo la gola secca. Le braccia cominciavano a dolermi, visto che continuavo a stringere la custodia del violino con forza, com’ero solita fare quand’ero turbata o stressata. Non ebbi il coraggio di andare al ristorante francese senza essermi fatta una doccia e con addosso gli abiti del giorno prima. Non volevo che lo chef pensasse male di me. Presi la metropolitana per tornare a Whitechapel, camminai fino al mio appartamento, mi sfilai il vestito e mi rannicchiai nel letto. La sveglia era puntata sulle tre del pomeriggio, così sarei potuta tornare sottoterra e suonare per i pendolari dell’ora di punta. Persino nei giorni peggiori, quelli in cui le dita erano così goffe da sembrare salsicce e il cervello come immerso nella colla, trovavo sempre il modo di esibirmi da qualche parte, fosse pure in un parco davanti a un pubblico di piccioni. Non era tanto perché fossi ambiziosa o mirassi a fare carriera nel mondo della musica, anche se naturalmente sognavo di essere notata e ingaggiata e di poter suonare al Lincoln Center o al Royal Festival Hall. No, era solo perché non potevo farne a meno. Mi svegliai alle tre, riposata e con una visione delle cose molto più positiva. Sono un’ottimista per natura. Ci vogliono un certo grado di follia o un atteggiamento molto positivo o un pizzico di entrambi per indurre una persona a trasferirsi dall’altra parte del mondo con nient’altro che una valigia, un conto in banca in rosso e il sogno di farcela. I miei malumori non duravano mai a lungo. Avevo un guardaroba pieno di vestiti per suonare in strada, la maggior parte recuperati nei mercatini e comprati su eBay, dato che non avevo troppi soldi. Mettevo raramente i jeans perché, avendo la vita molto più stretta dei fianchi, detestavo provarmi i pantaloni, così indossavo quasi sempre gonne e abiti. Avevo un paio di jeans tagliati al ginocchio per i giorni da cowboy, quando suonavo musica country, ma quella era una giornata da Vivaldi, il che imponeva un look più classico. Il vestito di velluto nero sarebbe stato l’ideale, ma era appallottolato sul pavimento dove l’avevo lasciato quella mattina e aveva bisogno di un altro giro in lavanderia. Presi invece una gonna nera a coda di pesce e una camicetta di seta color crema con un delicato colletto di pizzo che avevo trovato in un negozio vintage, lo stesso dove avevo comprato il vestito nero. Misi dei collant opachi e un paio di stivaletti alla caviglia con le stringhe e il tacco basso. L’effetto, speravo, era pudico, gotico-vittoriano, il genere di look che io amavo e Darren detestava; era convinto che il vintage fosse uno stile per aspiranti alternativi che si lavavano poco. Quando arrivai a Tottenham Court Road, la stazione dove si trovava il mio posto prestabilito per suonare, la folla dei pendolari aveva appena iniziato a infittirsi. Mi sistemai vicino al muro ai piedi della prima rampa di scale mobili. Su una rivista avevo letto uno studio secondo il quale la gente era più disposta a dare qualcosa a un musicista di strada se aveva avuto prima qualche secondo per decidere di mettere mano al portafoglio. Quindi la mia postazione era perfetta, perché i pendolari mi guardavano mentre scendevano con la scala mobile e avevano l’opportunità di tirar fuori il denaro prima di passare oltre. Non ero proprio sul loro percorso, comunque, e la cosa sembrava funzionare con i londinesi, ai quali piaceva avere la sensazione di aver fatto la scelta di spostarsi di lato per lasciar cadere gli spiccioli nella custodia del violino. Sapevo che avrei dovuto cercare il contatto visivo e sorridere per ringraziare le persone che mi davano le monete, ma ero così persa nella musica che spesso me ne dimenticavo. Mentre suonavo Vivaldi, non avrei potuto connettermi con nessuno. Se nella stazione fosse scattato l’allarme antincendio, probabilmente non me ne sarei neanche accorta. Appoggiavo il violino sotto il mento e nel giro di qualche minuto i pendolari scomparivano. Tottenham Court Road scompariva. Rimanevamo solo io e Vivaldi in loop. Suonai finché le braccia cominciarono a farmi male e lo stomaco si mise a brontolare, indizi certi del fatto che mi ero fermata più a lungo del previsto. Arrivai a casa alle dieci di sera. Contai i soldi solo il mattino dopo e mi accorsi che c’era una banconota rossa nuova di zecca ripiegata con cura all’interno di un piccolo strappo nella fodera di velluto della custodia. Qualcuno mi aveva dato cinquanta sterline. 2 Un uomo e i suoi desideri Le maree del caso si muovono in modo curioso. Talvolta aveva la sensazione che la sua vita fosse scivolata via come un fiume, il suo corso tortuoso troppo spesso influenzato da eventi o persone casuali, e che lui non ne avesse mai avuto il controllo, limitandosi a lasciarsi trasportare dall’infanzia all’adolescenza e poi verso le acque tranquille della mezza età, come un marinaio ubriaco su mari ignoti. Ma non erano tutti sulla stessa barca? Forse lui si era semplicemente dimostrato un navigatore migliore e le tempeste lungo la rotta non erano state troppo violente. La lezione di quel giorno era durata più del solito: troppe domande da parte degli studenti ne avevano interrotto il flusso. Non che questo fosse un problema per lui. Più domande facevano e più obiezioni sollevavano, meglio era. Significava che erano attenti, interessati all’argomento. Il che non succedeva sempre. Quell’anno accademico c’era un buon gruppo di studenti, uno stimolante mix di stranieri e inglesi nella giusta proporzione, che lo teneva vigile e allerta. A differenza di altri professori, lui variava molto i suoi corsi, se non altro per evitare le trappole della noia e della ripetitività. Quel trimestre i suoi seminari di letteratura comparata esploravano il ricorrere del tema del suicidio e della morte negli scrittori degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, esaminando i romanzi dell’americano F. Scott Fitzgerald, del francese Drieu La Rochelle, spesso erroneamente etichettato come fascista, e dell’italiano Cesare Pavese. L’argomento non era particolarmente allegro, ma sembrava toccare un nervo scoperto in buona parte del suo pubblico, soprattutto femminile. Colpa di Sylvia Plath, concluse. Almeno finché non avesse spinto troppi di loro a mettere la testa nel forno per emulazione, pensò sorridendo. Lui non aveva bisogno di lavorare. Una decina d’anni prima, dopo la morte di suo padre, aveva ereditato una somma considerevole. Non si sarebbe mai aspettato una cosa del genere. Il loro non era stato un rapporto facile e per molto tempo lui aveva immaginato che a ereditare sarebbero stati i suoi fratelli, con cui non aveva contatti regolari né molto in comune. Era stata una piacevole sorpresa. Un’altra di quelle svolte impreviste sulla strada della vita. Dopo la lezione aveva incontrato un paio di studenti nel suo ufficio, prendendo accordi per futuri seminari e rispondendo alle loro domande, e aveva scoperto di avere poco tempo. Secondo i suoi piani, sarebbe dovuto andare a vedere un nuovo film al cinema Curzon West End, allo spettacolo del tardo pomeriggio, ma a questo punto era impossibile. Poco male. L’avrebbe visto nel weekend. Il suo cellulare vibrò ed emise un bip, scivolando di lato sulla scrivania come un granchio. Lui lo prese in mano. C’era un messaggio. “Ci vediamo? C.” Dominik sospirò. Sì? No? La sua storia con Claudia durava da un anno e lui non sapeva bene cosa pensare di quella relazione, o di lei. Tecnicamente era in una botte di ferro, dato che tutto era cominciato dopo che Claudia aveva finito di frequentare le sue lezioni. Solo pochi giorni dopo, si badi bene. Quindi dal punto di vista etico non c’erano problemi, ma lui non era più sicuro di volere che la cosa continuasse. Decise di non rispondere subito. Un po’ di tempo per riflettere. Prese la logora giacca di pelle nera dal gancio sul muro, mise i libri e i fogli della lezione nella borsa di iuta e scese in strada. Ben coperto contro il vento gelido che soffiava dal fiume, si incamminò in direzione della metropolitana. Era già quasi buio, l’oscurità grigio piombo dell’autunno londinese. La folla si faceva minacciosa a mano a mano che l’ora di punta si avvicinava, fiotti di pendolari si affrettavano in entrambe le direzioni, lambendolo anonimamente. In genere a quell’ora Dominik era già lontano dal centro. Era un po’ come vedere un altro aspetto della città, una dimensione insolita in cui il mondo robotico del lavoro prendeva il sopravvento, opprimente e plumbeo, fuori posto. Accettò distrattamente il quotidiano gratuito che qualcuno gli porgeva ed entrò nella stazione. Claudia era tedesca, una finta rossa, e una scopata favolosa. Il suo corpo spesso sapeva di olio di cocco per via della crema profumata che si spalmava sulla pelle. Dopo una notte a letto con lei di solito Dominik si ritrovava con un lieve mal di testa a causa di quell’odore. Non che passassero spesso le notti insieme. Scopavano, chiacchieravano svogliatamente e poi si separavano fino alla volta successiva. Era una relazione così. Niente legami, niente domande, nulla di esclusivo. Un puro soddisfacimento delle loro reciproche necessità, con proprietà quasi terapeutiche. Dominik ci era finito dentro un po’ per caso; senza dubbio lei aveva dato dei segnali, un via libera di qualche tipo nei primissimi giorni, e lui era consapevole di non aver fatto deliberatamente il primo passo. Talvolta le cose vanno proprio così. Il treno si fermò mentre lui continuava a sognare a occhi aperti. Era arrivato alla fermata in cui doveva cambiare per prendere la Northern Line attraverso un altro labirinto di corridoi. Detestava la metropolitana, ma la lealtà verso gli anni in cui era stato meno ricco gli impediva quasi sempre di prendere un taxi per andare e tornare dall’università. Avrebbe potuto usare la macchina, e al diavolo la congestion charge, ma la zona dell’università era afflitta da una cronica mancanza di parcheggi, per non parlare dell’ingorgo in Finchley Road che lo mandava regolarmente in bestia. Il familiare odore dell’ora di punta – sudore, rassegnazione e depressione – di tanto in tanto gli assaliva i sensi, mentre lui si dirigeva verso la scala mobile e udiva il suono di una musica lontana. Il barista aveva servito loro le ordinazioni all’esterno. Il solito espresso doppio per lui e una variante piuttosto sofisticata di un cappuccino con aggiunte pseudoitaliane per Claudia. Lei si era accesa una sigaretta dopo che lui, pur non fumando, non aveva fatto obiezioni in proposito. «Allora, sei soddisfatta del corso?» le aveva chiesto. «Sì» aveva risposto lei. «Adesso cos’hai in programma? Rimani a Londra a studiare?» «Forse.» Aveva gli occhi verdi e i capelli rosso scuro legati in uno chignon, ammesso che si chiamasse ancora così. Una sottile frangetta le ricadeva sulla fronte. «Mi piacerebbe fare un dottorato, ma non penso di essere ancora pronta. Forse insegnerò da qualche parte. Tedesco. Mi è stato chiesto da più di una persona.» «Non letteratura?» indagò Dominik. «Non credo» rispose Claudia. «Peccato.» «Perché?» domandò lei con un sorriso interrogativo. «Penso che tu sia piuttosto brava.» «Davvero?» «Sì.» «Sei gentile a dirlo.» Dominik bevve un sorso di caffè. Era bollente, forte e dolce. Ci aveva messo quattro zollette di zucchero e l’aveva mescolato fino a eliminare qualsiasi traccia dell’originario gusto amaro. «Figurati.» «Penso che le tue lezioni fossero bellissime» osservò lei, abbassando lo sguardo e quasi sbattendo le ciglia, anche se lui non era sicuro che l’avesse fatto davvero per via della penombra in cui era immerso il loro tavolino. Forse se l’era solo immaginato. «Facevi sempre domande interessanti, dimostrando di avere una buona padronanza dell’argomento.» «Tu hai una passione profonda… per i libri» precisò lei in fretta. «Lo spero» commentò Dominik. Lei alzò gli occhi e lui notò che era arrossita dal collo fino allo spettacolare solco tra i seni, compressi da un reggiseno push up bianco che faceva risaltare lo splendore del décolleté. Indossava sempre camicette bianche aderenti, strette in vita, che enfatizzavano la sua opulenza. Il segnale era inequivocabile. Ecco perché lei gli aveva proposto di vedersi per bere qualcosa! Non aveva niente a che fare con questioni accademiche. Adesso era evidente. Dominik trattenne il respiro per un momento, mentre valutava la situazione. Accidenti se era attraente e – pensiero fugace – erano passati un paio di decenni dall’ultima volta in cui era stato a letto con una tedesca, quando lui era un adolescente e Christel più vecchia di dieci anni: un divario generazionale, come l’aveva percepito allora nella sua ignoranza. Dopodiché aveva sperimentato diverse nazionalità femminili nella sua immatura esplorazione della geografia del piacere. Perché no? Mosse lentamente la mano sul tavolino e le sfiorò le dita. Unghie lunghe e appuntite, dipinte di scarlatto, e due grossi anelli, di cui uno con un piccolo diamante. Lei abbassò lo sguardo sulla propria mano, rispondendo all’implicita domanda di Dominik. «Sono fidanzata da un anno. Lui è tornato a casa. Ci vediamo di tanto in tanto, neppure tutti i mesi. Non sono più tanto sicura che sia una cosa seria. Nel caso in cui tu te lo stessi chiedendo.» Dominik si stava godendo il modo in cui il suo accento tedesco modulava le parole. «Capisco.» Il palmo delle mani di Claudia era stranamente caldo. «Tu non porti nessun anello?» chiese lei. «No» rispose Dominik. Un’ora dopo erano nella stanza di Claudia a Shoreditch, con il chiasso della folla dei clienti di un nightclub nel seminterrato che entrava dalla finestra aperta. «Vieni» le disse. Si baciarono. L’alito di lei era un cocktail di sigaretta, cappuccino, desiderio e intima passione. Claudia trattenne il respiro quando lui le accarezzò la vita e premette il petto contro il suo, percependo il turgore dei capezzoli che tradiva la sua eccitazione. Poi espirò sulla pelle tesa del suo collo quando le infilò delicatamente la lingua nell’incavo dell’orecchio sinistro, le mordicchiò il lobo e la leccò mentre lei si tendeva per il piacere e l’aspettativa. Chiuse gli occhi. Dominik cominciò a sbottonarle la camicetta bianca mentre lei tratteneva di nuovo il respiro. La stoffa sottile era così attillata che lui si chiese come facesse a respirare. Un bottone dopo l’altro, le liberò la pelle morbida; i lembi della camicetta si aprirono con abbandono. I suoi seni erano uno spettacolo gioioso. Ripide colline in cui avrebbe potuto nascondersi, anche se in circostanze normali le sue preferenze andavano a un’opulenza meno sfacciata. Claudia era una ragazza imponente sotto ogni aspetto: dalla personalità alla naturale esuberanza, alle curve piene del corpo. La mano di lei indugiò sul rigonfiamento dei suoi pantaloni. Lui fece un passo indietro: non aveva alcuna fretta di essere spogliato. Allungò una mano e infilò un paio di dita nei suoi capelli color fuoco, incontrando la delicata resistenza di decine di forcine che tenevano in ordine l’acconciatura. Sospirando, iniziò a toglierle con movimenti deliberatamente lenti, liberando le ciocche a una a una e guardandole ricadere sulle spalle di Claudia e nascondere le spalline sottili del reggiseno. Erano quelli i momenti per cui viveva. La quiete prima della tempesta. Il rituale dello svelamento. La consapevolezza che il punto di non ritorno era stato ormai raggiunto e che adesso la scopata sarebbe stata inevitabile. Dominik voleva assaporare ogni istante, rallentare il più possibile, imprimersi nei neuroni ogni ricordo, visioni nuove di zecca che dalla punta delle dita si propagavano per il suo corpo, lungo il membro che diventava duro, fino al cervello, aggirando il nervo ottico e fissandosi nella sua mente in un modo tutto speciale, che le rendeva indimenticabili e immortali. Un archivio della memoria a cui avrebbe potuto attingere, traendone piacere, per una vita intera. Fece un respiro profondo, cogliendo un lieve sentore di olio di cocco. «Che profumo usi?» le chiese, incuriosito da quella fragranza insolita. «Oh, quello» disse Claudia con un sorriso seducente. «Non è un profumo. È la crema che mi metto tutte le mattine. Mi lascia la pelle morbida. Non ti piace?» «È particolare, devo ammetterlo» rispose lui. Poi aggiunse: «Sei tu». Ci si sarebbe abituato in fretta. Curioso come ogni donna avesse un odore caratteristico, una sorta di firma, un delicato equilibrio sensoriale tra aroma naturale e profumi e oli artificiali, dolce e aspro al tempo stesso. Claudia si sganciò il reggiseno liberando il seno, sorprendentemente alto e sodo. Le mani di Dominik scivolarono verso i suoi capezzoli bruni ed eretti. Un giorno avrebbe goduto nello stringerli tra le forcine e si sarebbe eccitato nell’osservare il dolore e il piacere che passavano nei suoi occhi velati di lacrime. «Durante le lezioni ti ho sorpreso spesso a fissarmi, sai?» gli disse Claudia. «Davvero?» «Oh, sì» rispose lei con un sorriso. «Se lo dici tu» commentò lui in tono malizioso. E come avrebbe potuto non fissarla? Indossava sempre gonne cortissime e si sedeva immancabilmente in prima fila nell’aula semicircolare, accavallando e disaccavallando le gambe inguainate nei collant con un abbandono gioioso e noncurante e osservando tranquilla il suo sguardo errante con un sorriso enigmatico sulle labbra carnose. «Allora lasciati guardare» disse Dominik. La studiò mentre si slacciava la gonna a motivi Burberry, lasciandola cadere sul pavimento e facendo un passo avanti per liberarsene, con ancora addosso gli stivali di pelle marrone al ginocchio. Aveva le cosce forti, ma proporzionate alla sua alta statura e mentre stava lì in piedi immobile, con il seno nudo in tutto il suo imperioso splendore, le culottes nere aderenti, le autoreggenti in tinta e gli stivali di pelle lucida, aveva l’aria di un’amazzone guerriera. Fiera ma arrendevole. Aggressiva ma pronta a sottomettersi. Si guardarono negli occhi. «Tocca a te» gli ordinò. Dominik si slacciò la camicia e la lasciò cadere sulla moquette mentre lei osservava attentamente. Sulle labbra di Claudia aleggiò un sorriso complice, ma lui rimase impassibile e le intimò con lo sguardo di continuare a spogliarsi. Lei si piegò in avanti, abbassò la cerniera degli stivali e li scalciò via in rapida successione. Quindi arrotolò le sottili autoreggenti di nylon alle caviglie e se le tolse. Stava per levarsi anche le culottes quando Dominik alzò una mano. «Aspetta» disse. Lei si fermò. Lui le girò intorno e si inginocchiò infilando un dito nell’elastico delle mutandine e ammirando la solidità e la rotonda perfezione delle sue natiche da quel nuovo punto di vista, i nei che punteggiavano qua e là la sua schiena nuda. Le tirò giù le culottes, rivelando il biancore del suo sedere sodo. Poi le diede un colpetto sul polpaccio e lei sollevò i piedi per farsi togliere le mutandine, che lui appallottolò e gettò dall’altra parte della stanza. Dominik si alzò, rimanendo alle sue spalle. Adesso lei era completamente nuda. «Girati» le disse. Era depilata in modo integrale, il monte di Venere insolitamente prominente con la fessura ben delineata, una linea retta geometrica tra due sottili crinali di carne. Lui allungò una mano verso la fica, percependone il calore. Poi le fece scivolare dentro un dito con insolenza. Era tutta bagnata. La guardò negli occhi, cercando il desiderio. «Scopami» gli disse Claudia. «Pensavo che non me l’avresti mai chiesto.» Mentre percorreva il corridoio in direzione del marciapiede della Northern Line scortato dalla folla dell’ora di punta come un prigioniero sorvegliato a vista, Dominik udì una melodia familiare. Il suono di un violino si fece strada verso di lui attraverso il sordo rumore dei viaggiatori serali, finché all’improvviso si rese conto che qualcuno in lontananza stava suonando la seconda parte delle Quattro stagioni, anche se solo la partitura per violino, senza l’animato contrappunto dell’orchestra. Ma il timbro era così penetrante che non aveva bisogno del supporto di un’orchestra. Dominik affrettò il passo, mentre la musica inondava le sue orecchie. All’incrocio di quattro gallerie, in uno spazio più ampio in cui due rampe di scale mobili parallele inghiottivano torrenti di pendolari e li vomitavano nelle profondità del sistema di trasporto sotterraneo, una giovane donna suonava il violino a occhi chiusi. I capelli rossi le ricadevano sulle spalle come un alone, elettrici. Dominik si fermò, a disagio, bloccando la strada alla folla dell’ora di punta. Alla fine si spostò in un angolo dove non intralciava il flusso e osservò la musicista più da vicino. No, non aveva l’amplificatore. La ricchezza del suono era dovuta solo all’acustica di quel punto e al vigoroso glissando del suo archetto sulle corde. “Accidenti se è brava” pensò. Era molto tempo che non ascoltava musica classica suonata dal vivo. Quando era bambino, sua madre gli aveva regalato un abbonamento a una serie di concerti che si tenevano il sabato mattina al Théâtre du Châtelet di Parigi, la città in cui suo padre aveva avviato un’attività e dove tutta la famiglia era vissuta per dieci anni. Per sei mesi, generalmente usando i concerti del mattino come una specie di prova generale di quelli che si tenevano la sera destinati a un pubblico adulto, l’orchestra e i solisti ospiti avevano offerto una straordinaria introduzione al mondo e al repertorio della musica classica. Dominik ne era rimasto affascinato e in seguito, con grande stupore di suo padre, aveva speso gran parte dei pochi soldi che aveva per comprare dischi (erano ancora gli anni del glorioso vinile): Čajkovskij, Grieg, Mendelssohn, Rachmaninov, Berlioz e Prokof’ev erano tra le figure principali del suo pantheon personale. Sarebbero trascorsi altri dieci anni prima del suo passaggio al rock, quando Bob Dylan aveva sperimentato l’accompagnamento di strumenti elettrici e lui aveva cominciato a farsi crescere i capelli, come al solito in ritardo nell’aderire a mode e tendenze. Ancora adesso, quando viaggiava in macchina, ascoltava sempre musica classica. Lo rasserenava, gli schiariva le idee, metteva a tacere gli insulti degli altri automobilisti causati dalla sua guida spesso impaziente. La giovane violinista teneva gli occhi chiusi e si dondolava leggermente da una parte all’altra, fondendosi con la melodia. Indossava una gonna nera al ginocchio e una camicetta color crema con il colletto vittoriano che riluceva debolmente sotto l’illuminazione artificiale del tunnel e scivolava sul suo corpo senza rivelarne le forme. Dominik fu immediatamente conquistato dal delicato pallore del suo collo e dalla fragilità del suo polso che si piegava per accompagnare con enfasi il movimento dell’archetto. Il violino aveva l’aria di essere vecchio, rattoppato con il nastro adesivo e ormai prossimo alla rottamazione, ma il colore del legno si intonava perfettamente con quello della fiera capigliatura della musicista. Dominik rimase fermo ad ascoltare per cinque minuti buoni, il tempo come congelato. Ignorando il flusso dei pendolari che si affrettavano verso esistenze e impegni anonimi, guardava la violinista con rapita attenzione mentre lei eseguiva le complesse melodie di Vivaldi con passione e con un completo disinteresse per ciò che la circondava, per il pubblico involontario o per la logora fodera della custodia dello strumento ai suoi piedi, dove si stavano lentamente accumulando le monete (anche se, finché Dominik si trattenne ad ascoltare affascinato, nessuno fece un’offerta). La giovane non aprì mai gli occhi, persa nella trance, la mente inghiottita dal mondo dei suoni, volando con le ali della musica. Dominik chiuse gli occhi a propria volta, cercando inconsciamente di unirsi a lei in quel suo universo privato dove la melodia cancellava ogni altra cosa. Ma continuava a riaprirli, desideroso di cogliere il modo in cui il corpo della giovane si muoveva impercettibilmente, ogni tendine dei suoi invisibili muscoli teso nell’estasi dell’alterità. Accidenti, moriva dalla voglia di sapere che cosa stesse provando in quel momento, mentalmente e fisicamente. La violinista stava arrivando velocemente alla fine dell’allegro dell’Inverno. Dominik tirò fuori il portafoglio dalla tasca interna della giacca di pelle e frugò in cerca di una banconota. Aveva prelevato a un bancomat prima di andare all’università. Esitò un attimo tra venti e cinquanta sterline, guardò la giovane donna dai capelli rossi e seguì l’onda nascente del movimento che attraversava il suo corpo mentre il polso si piegava a una strana angolatura per appoggiare l’archetto sulle corde. Per un istante la seta della sua camicetta si tese fin quasi a strapparsi, aderendo alla schiena e rivelando il sottostante reggiseno nero. Dominik avvertì una tensione nel basso ventre, che non poté attribuire alla musica. Prese la banconota da cinquanta sterline e la mise in fretta nella custodia del violino, seppellendola sotto le monete perché non attirasse l’attenzione di qualche avido passante. Il tutto senza che la giovane desse segno di averlo visto. Se ne andò proprio nel momento in cui la musica cessava e gli abituali rumori della metropolitana riprendevano il sopravvento, mentre i pendolari continuavano a fluire in tutte le direzioni. Più tardi, rientrato a casa, si sdraiò sul divano ad ascoltare una registrazione dei concerti di Vivaldi recuperata da uno dei suoi scaffali, un CD che non toglieva dalla custodia da anni. Non ricordava nemmeno di averlo comprato. Forse gliel’avevano dato in omaggio con qualche rivista. Ripensò alla giovane violinista con gli occhi chiusi (chissà di che colore erano) mentre suonava con trasporto, e si chiese che odore potesse avere. La mente divagò, immaginando la fessura di Claudia, la sua profondità, le sue dita che la esploravano, il cazzo che le premeva contro, la volta in cui lei gli aveva chiesto di scoparla con il pugno e il modo in cui la sua mano era scivolata senza sforzo nel recesso bagnato, poi i gemiti di lei, l’urlo sulla punta della lingua e le unghie conficcate selvaggiamente nella pelle sensibile della sua schiena. Trattenendo il respiro, decise che la prossima volta che avesse scopato Claudia avrebbe messo quella musica. Sul serio. Anche se nella sua mente non era Claudia che stava scopando. Il giorno successivo non aveva lezione; nel suo orario tutti i corsi erano concentrati in due giorni della settimana. Eppure, d’impulso, Dominik uscì di casa all’ora di punta e andò alla stazione di Tottenham Court Road. Voleva rivedere la giovane musicista. Forse scoprire di che colore aveva gli occhi. Capire quali altri pezzi aveva nel suo repertorio. Vedere se si vestiva in modo diverso a seconda della giornata o del tipo di musica. Ma lei non c’era. Al suo posto un tizio con i capelli lunghi e unti e l’atteggiamento arrogante infliggeva agli indifferenti passanti una versione malamente suonata di Wonderwall degli Oasis, seguita da una versione ancora più penosa di Roxanne dei Police. Dominik imprecò sottovoce. Speranzoso, tornò alla stazione per cinque sere consecutive. Ma si imbatté solo in una serie di artisti che suonavano – più o meno bene – Dylan e gli Eagles o cantavano pezzi d’opera con un accompagnamento orchestrale preregistrato. Nessuna violinista. Sapeva che i suonatori di strada avevano ore e luoghi prestabiliti per esibirsi, ma non aveva modo di scoprire quali fossero quelli della giovane violinista. Per quello che ne sapeva, avrebbe anche potuto essere un’abusiva e non ricomparire mai più. Alla fine, telefonò a Claudia. Sembrò una scopata vendicativa, come se lui dovesse punirla perché non era un’altra; le ordinò di mettersi a quattro zampe e la prese con più violenza del solito. Lei non disse nulla, ma lui sapeva che non le piaceva. Allungò le mani sopra la sua schiena, le afferrò brutalmente i polsi e glielo infilò dentro più a fondo che poteva, fregandosene del fatto che lei non era eccitata, godendosi il calore bruciante dei suoi più remoti recessi mentre si muoveva con regolarità meccanica, guardando con gusto perverso il suo culo che cedeva sotto i suoi affondi, una visione pornografica nella quale sguazzò senza vergogna. Se avesse avuto una terza mano, l’avrebbe presa per i capelli tirandole indietro la testa con violenza. Perché a volte era così furioso? Claudia non aveva fatto niente di male. Forse si stava stancando di lei ed era arrivato il momento di lasciarla. Ma per chi? «Ti piace farmi male?» gli chiese Claudia più tardi mentre bevevano un drink a letto, esausti, sudati, stravolti. «A volte sì» rispose Dominik. «Sai che non m’importa, vero?» disse lei. Lui sospirò. «Lo so. Forse è per questo che lo faccio. Ma ciò significa che ti piace?» domandò lui. «Non ne sono sicura.» Poi il silenzio che spesso li divideva dopo il sesso scese tra loro, e scivolarono nel sonno. Lei se ne andò la mattina presto, lasciando un messaggio di scuse, che alludeva a un colloquio di qualche genere, e una macchia di tinta per capelli sul cuscino come uniche tracce della sua presenza lì durante la notte. Passò un mese, durante il quale Dominik non ascoltò più musica classica quando era a casa da solo. Non sembrava la cosa giusta da fare. Si stava avvicinando la fine del trimestre e lui avvertiva l’urgenza di fare un viaggio. Amsterdam? Venezia? Un altro continente? Seattle? New Orleans? Per qualche ragione tutte quelle mete che un tempo aveva apertamente vagheggiato non esercitavano più la stessa attrazione. Era uno stato d’animo che lo turbava profondamente e che aveva provato di rado in passato. Claudia era tornata ad Hannover per trascorrere qualche settimana con la sua famiglia e lui non aveva l’energia di cercare un’altra con cui divertirsi e scopare, né riusciva a pensare a una donna del suo passato con cui desiderasse rimettersi in contatto. Non era nemmeno dell’umore giusto per frequentare amici o parenti. C’erano giorni in cui arrivava addirittura a pensare che il suo potere di seduzione l’avesse abbandonato. Mentre andava a vedere un film al National Film Theatre nel South Bank, prese un quotidiano gratuito da un uomo davanti all’ingresso della stazione di Waterloo e senza pensarci lo infilò nella borsa di iuta, dimenticandosene completamente fino a metà pomeriggio del giorno dopo. Sfogliando il giornale, Dominik si imbatté in una notizia di cronaca locale che non aveva trovato posto sul “Guardian” del mattino. Si trovava nella sezione Notizie dalla metropolitana, che in genere riportava storie di oggetti smarriti strampalati o aneddoti insulsi su animali domestici e pendolari arrabbiati. A quanto pareva, il giorno prima una violinista di strada era rimasta involontariamente coinvolta in una rissa, mentre suonava nella stazione di Tottenham Court Road. Un gruppo di tifosi ubriachi di una squadra di calcio locale che erano diretti a una partita allo stadio di Wembley avevano scatenato un violento tafferuglio, costringendo i funzionari del trasporto pubblico a intervenire con la forza; sebbene non coinvolta direttamente, la giovane era stata presa a spintoni e aveva perso il suo strumento, che era stato calpestato e distrutto durante lo scontro. Dominik lesse il trafiletto due volte, correndo con gli occhi alla chiusa. Il nome della donna era Summer. Summer Zahova. Nonostante il cognome dell’Europa orientale, a quanto pareva era neozelandese. Doveva essere lei. Tottenham Court Road, il violino… Chi altri poteva essere? Era improbabile che la giovane tornasse a suonare dato che non aveva più il suo strumento, perciò le occasioni di incontrarla di nuovo, per non dire di ascoltare la sua musica, erano svanite come la neve al sole. Dominik si appoggiò allo schienale della sedia e senza volerlo appallottolò il giornale, gettandolo a terra in un impeto di rabbia. Aveva un nome: Summer. Si ricordò che qualche anno prima aveva “pedinato” in modo nient’affatto invasivo un’ex amante su Internet, solo per sapere che cosa ne era stato di lei dopo la fine della loro storia. Si era trattato di stalking a senso unico, dal momento che lei era rimasta del tutto all’oscuro della sua discreta sorveglianza. Andò nel suo studio, avviò il computer e cercò su Google il nome della musicista. C’erano pochissimi risultati, che però rivelavano che lei aveva un profilo su Facebook. La foto allegata era semplice e vecchia di qualche anno, ma lui riconobbe subito la giovane violinista. Forse era stata scattata in Nuova Zelanda, il che lo indusse a chiedersi da quanto tempo lei fosse a Londra, o in Inghilterra. Aveva un’aria rilassata e le sue labbra, non contratte nello sforzo di suonare il violino, erano dipinte di un rosso brillante. Dominik non poté fare a meno di chiedersi come sarebbe stato avere l’uccello dentro quella bocca deliziosa. La pagina di Summer Zahova era in parte protetta e lui non riuscì a dare un’occhiata alla bacheca né alla lista dei suoi amici. A parte il nome, la città d’origine e la residenza a Londra, i dettagli personali erano scarsi: un interesse dichiarato sia per gli uomini sia per le donne, un elenco di compositori classici e qualche artista pop. Nessun accenno a libri o film; chiaramente, non era il genere di persona che passava molto tempo su Facebook. Se non altro, adesso lui aveva un punto di partenza. Quella sera, dopo aver valutato una serie di pro e contro, Dominik tornò al suo portatile, si registrò su Facebook e creò un nuovo account con un nome falso, inserendoci il minimo possibile di dati personali, cosa che in confronto faceva sembrare la pagina di Summer ricca di dettagli. Esitò sulla scelta della foto, prendendo in considerazione la possibilità di scaricare l’immagine di qualcuno con un’elaborata maschera di carnevale, ma alla fine lasciò lo spazio vuoto. Sarebbe risultato un po’ melodrammatico. A suo parere, il testo di per sé era abbastanza intrigante ed enigmatico. Adesso, con la sua nuova identità, digitò un messaggio per Summer: Cara Summer Zahova, mi è dispiaciuto moltissimo apprendere della tua disavventura. Sono un grande ammiratore del tuo talento musicale, e per essere sicuro che tu possa continuare a esercitarti vorrei regalarti un violino nuovo. Ti va di accettare la mia offerta e le mie condizioni? Evitò deliberatamente di firmarsi e cliccò sul tasto INVIA. 3 Una ragazza e il suo culo Fissai i pezzi del mio violino con una strana sensazione di distacco. Senza lo strumento tra le mani era come se non fossi davvero presente, come se osservassi la scena dall’alto. “Dissociazione” l’aveva chiamata il mio consulente per l’orientamento al liceo, quando avevo cercato di spiegargli come mi sentivo nei momenti in cui non tenevo in mano un violino. Io preferivo pensare ai miei strani voli mentali dentro e fuori dalla musica come a una specie di magia, anche se immaginavo che la mia capacità di scomparire nella melodia, in realtà, fosse solo l’accresciuta consapevolezza in una parte del cervello, risultante da una sorta di desiderio molto concentrato. Avrei potuto piangere, se fossi stata il tipo che piangeva. Non che non rimanessi turbata dagli eventi, ma avevo un modo diverso di affrontare le emozioni: i sentimenti penetravano in me a poco a poco e in genere si sfogavano attraverso l’archetto del violino o altre manifestazioni fisiche, come il sesso arrabbiato ed emotivo o le furiose nuotate in piscina. «Spiacente, dolcezza» aveva farfugliato uno degli ubriachi, avvicinandosi barcollante e alitandomi in faccia il suo fiato puzzolente di alcol. Quel giorno c’era una partita da qualche parte in città e due gruppi di supporter vestiti con i colori della loro squadra e appartenenti a tifoserie avversarie si erano scontrati nella stazione della metropolitana mentre andavano allo stadio. Il tafferuglio era scoppiato a pochi metri dal punto in cui stavo suonando. Come al solito, ero così immersa nella musica che non avevo sentito le parole che si erano scambiati e che avevano scatenato la rissa. Non mi ero nemmeno accorta dello scontro finché un uomo grande e grosso non mi era venuto addosso, facendo volare il violino contro il muro, rovesciando la custodia e mandando le monete a rotolare dappertutto come biglie nel cortile di una scuola. La stazione di Tottenham Court Road è sempre affollata e ben sorvegliata. Un paio di corpulenti funzionari del trasporto pubblico avevano diviso i contendenti e minacciato di chiamare la polizia. I bollenti spiriti si erano rapidamente calmati e i tifosi erano scomparsi come ratti nei meandri della stazione, precipitandosi giù dalle scale mobili e lungo le gallerie, rendendosi forse conto che, se avessero indugiato ancora, avrebbero fatto tardi alla partita, o addirittura sarebbero stati arrestati. Mi afflosciai contro la parete dove poco prima stavo suonando Bittersweet Symphony e mi strinsi al petto il violino rotto come se fosse un bambino. Non era uno strumento costoso, ma aveva un suono bellissimo e mi sarebbe mancato. Mio padre l’aveva comprato usato in un negozio di Te Aroha e me l’aveva regalato per Natale cinque anni prima. Preferisco i violini di seconda mano e mio padre ha sempre avuto fiuto, una particolare abilità nello scegliere, in mezzo a un mucchio di robaccia, lo strumento che poteva ancora essere utile. Per lui era diventata un’abitudine comprarmi i violini – un po’ come mia madre e mia sorella mi compravano abiti e libri che pensavano potessero piacermi – e ognuno di essi era perfetto. Mi piaceva immaginare le persone che l’avevano suonato prima di me, il modo in cui l’avevano tenuto, le mani per cui era passato; tutti i precedenti proprietari avevano lasciato un frammento della loro storia, un pizzico di amore, di perdita e di follia nella cassa dello strumento, emozioni che io potevo tirar fuori dalle corde. Quel violino aveva viaggiato attraverso la Nuova Zelanda e poi attraverso il mondo insieme a me. Era sicuramente agli sgoccioli; avevo dovuto ripararlo con il nastro adesivo in un paio di punti in cui aveva preso un colpo nel corso del lungo viaggio verso Londra l’anno precedente, ma il suono era ancora puro e tra le mie braccia era perfetto. Trovare un sostituto sarebbe stato un incubo. Darren aveva spesso insistito perché lo assicurassi, ma io non avevo mai avuto il denaro per farlo. Non potevo permettermi un altro violino, né nuovo né usato, né buono né scadente. Perlustrare i mercatini in cerca di un affare avrebbe potuto richiedere settimane e non riuscivo a indurmi a comprarlo su eBay senza prima averlo tenuto in mano e averne ascoltato il suono. Mentre mi aggiravo per la stazione della metropolitana raccogliendo le monete sparpagliate ovunque, con il violino distrutto in mano, mi sentii una miserabile. Uno dei funzionari del trasporto pubblico mi chiese i dettagli per scrivere il rapporto sull’incidente e fu chiaramente contrariato dalle poche informazioni che potei fornirgli. «Non è una buona osservatrice, eh?» commentò beffardo. «No» risposi, fissando le sue mani grassocce mentre tamburellava sul taccuino. Aveva le dita pallide e tozze, simili a qualcosa che si guarderebbe con disgusto se lo si trovasse infilzato su uno stuzzicadenti sopra un vassoio a un ricevimento. Quelle erano le mani di una persona che non suonava uno strumento musicale né sedava risse molto spesso. A dir la verità, io detesto il calcio, anche se non lo ammetterei mai chiacchierando con un inglese. Come regola generale, i calciatori sono troppo fini per i miei gusti. Durante le partite di rugby, perlomeno, posso dimenticarmi lo sport e concentrarmi sulle cosce forti e muscolose degli attaccanti e sui calzoncini che si sollevano minacciando di rivelare natiche straordinariamente sode. Non pratico nessun gioco di squadra, preferendo sport più individuali come il nuoto, la corsa e il sollevamento pesi in palestra, che mi consente di tenere allenate le braccia per affrontare lunghe sessioni di musica. Alla fine, riuscii a recuperare tutte le mie cose, a infilare i pezzi del violino nella custodia e sfuggire allo sguardo corrucciato e vigile dei funzionari del trasporto pubblico. Avevo raccolto meno di dieci sterline dai pendolari di passaggio prima che i teppisti mi distruggessero il violino. Era passato un mese da quando il misterioso passante mi aveva lasciato cinquanta sterline. Avevo ancora la banconota, nascosta al sicuro nel cassetto della biancheria intima, anche se Dio solo sapeva quanto avessi disperatamente bisogno di spenderla. Avevo aumentato le ore di servizio alla caffetteria dove lavoravo part-time, ma da qualche settimana non avevo un ingaggio pagato, e nonostante vivessi di cibo da fast food e spaghetti in scatola avevo dovuto intaccare i miei risparmi per pagare l’affitto dell’ultimo mese. Avevo visto Darren solo una volta dopo la nostra lite su Vivaldi e gli avevo spiegato, probabilmente male, che attraversavo un momento di difficoltà e avevo bisogno di una pausa nella nostra relazione per concentrarmi sulla musica. «Mi stai lasciando per stare con un violino?» Darren sembrava incredulo. Era benestante, di bell’aspetto e in età da matrimonio; nessuno aveva mai rotto con lui. «Solo una pausa.» Fissai la gamba di uno dei suoi alti sgabelli d’acciaio di design. Non riuscivo a guardarlo negli occhi. «Nessuno si prende solo una pausa, Summer. Frequenti qualcun altro? Chris della band?» Mi prese una mano tra le sue. «Accidenti, hai i palmi freddi» disse. Mi guardai le dita. Le mani sono sempre state la parte di me che preferisco. Ho le dita lunghe e molto sottili: dita da pianista, come dice mia madre. Sentii un’improvvisa ondata di affetto per Darren e mi girai verso di lui. Gli passai una mano tra i capelli folti, tirandoglieli appena. «Ahi» disse. «Non fare così.» Si protese verso di me e mi baciò. Le sue labbra erano asciutte, il suo tocco esitante. Non fece alcun gesto per attirarmi a sé. La sua bocca sapeva di tè e io provai un immediato moto di repulsione. Lo respinsi e mi alzai, preparandomi a prendere il violino e la borsa in cui c’erano un po’ di biancheria intima, uno spazzolino da denti, le poche cose che tenevo in un cassetto nel suo appartamento. «Ehi, dici di no al sesso?» chiese in tono beffardo. «Non mi sento bene» risposi. «E così, per la prima volta nella sua vita, Miss Summer Zahova ha mal di testa.» Adesso era in piedi anche lui, con le mani sui fianchi come una madre che rimprovera un bambino capriccioso. Presi la custodia del violino e la borsa, mi girai e me ne andai. Indossavo i vestiti che gli piacevano di meno – Converse alte rosse, pantaloncini di jeans, collant opachi e una maglietta con un teschio – e mentre aprivo la porta mi sentii più me stessa di quanto mi fossi sentita da mesi, come se mi fossi liberata di un peso. «Summer…» Darren mi corse dietro e mi trattenne per un braccio, facendomi girare verso di lui. «Ti chiamo, okay?» disse. «Va bene.» Me ne andai senza voltarmi, immaginando che lui mi stesse guardando dileguarmi giù per le scale. Udii il clic della serratura della porta proprio mentre giravo l’angolo della rampa successiva, ormai fuori dalla vista. Da allora mi aveva chiamata regolarmente, all’inizio tutte le sere e poi due o tre volte alla settimana, dato che io ignoravo i suoi messaggi. Un paio di volte mi aveva telefonato alle tre del mattino, ubriaco, farfugliando messaggi incomprensibili sulla segreteria telefonica. “Mi manchi, piccola.” Non mi aveva mai chiamata “piccola” – in effetti, diceva di detestare quella parola – e io iniziai a chiedermi se l’avessi mai conosciuto davvero. Di sicuro non avrei telefonato a Darren adesso, anche se sapevo che avrebbe colto al volo l’occasione di comprarmi un violino nuovo. Detestava quello vecchio, convinto che fosse uno strumento scadente, non adatto a una violinista classica. Detestava anche che suonassi per la strada, ritenendola una cosa indegna di me, anche se io sapevo che era soprattutto preoccupato per la mia sicurezza personale. E a ragione, avrebbe detto adesso. Rimasi ferma all’incrocio fuori dalla stazione della metropolitana, con il traffico che sfrecciava e i passanti che sgomitavano in tutte le direzioni, e riflettei sul da farsi. Non avevo nessun amico a Londra, a parte le coppie che Darren e io avevamo frequentato in occasione di cene e di inaugurazioni di gallerie d’arte, ma, per quanto fossero piacevoli, si trattava di amici più suoi che miei. Anche se avessi voluto contattarne qualcuno, non avevo i loro numeri di telefono. Era stato Darren a organizzare tutte le uscite. Io mi ero semplicemente aggregata. Tirai fuori il cellulare e feci scorrere i numeri della rubrica. Pensai di chiamare Chris. Era un musicista, avrebbe capito – anzi, si sarebbe arrabbiato se avesse scoperto che avevo esitato a telefonargli – ma non potevo tollerare la comprensione o, peggio, la pietà. Sarei crollata e a quel punto non sarei riuscita a combinare niente. Charlotte. L’amica del locale di striptease. Non la vedevo da un anno e non avevo più sue notizie, a parte qualche post su Facebook, ma confidavo nel fatto che, se non altro, mi avrebbe tirata su di morale, distraendomi dalla catastrofe del violino. Premetti il tasto CHIAMA del cellulare. Il telefono squillò. Rispose una voce maschile, sensuale e assonnata, come di uno che si fosse appena svegliato in modo alquanto piacevole. «Pronto?» dissi. Faticavo a sentire sopra il frastuono del traffico. «Mi scusi» mi affrettai ad aggiungere, «devo aver fatto il numero sbagliato. Cerco Charlotte.» «Oh, è qui» disse l’uomo. «Solo che in questo momento è impegnata.» «Posso parlarle? Può dirle che sono Summer?» «Ah… Summer, Charlotte sarebbe felicissima di parlarti, ne sono certo, ma in questo momento ha la bocca piena.» Sentii una risatina e rumori soffocati, poi la voce di Charlotte. «Summer, tesoro!» esclamò. «Sono passati secoli!» Altri rumori, e poi un gemito soffocato. «Charlotte? Ci sei?» Un altro gemito. Altri rumori indistinti. «Rimani in linea» mi disse Charlotte. «Dammi un minuto.» Il rumore attutito di una mano che copriva il microfono e, in sottofondo, una risatina maschile di gola. «Smettila» sentii che sussurrava. «Summer è un’amica.» Poi tornò a rivolgersi a me. «Scusami, tesoro, Jasper stava cercando di distrarmi. Come stai? È passato un sacco di tempo.» Li immaginai a letto insieme e provai una fitta di invidia. Charlotte era l’unica ragazza di mia conoscenza che fosse dotata di una carica sessuale che sembrava rivaleggiare con la mia, ed era disinibita come io non ero mai stata. Aveva una vitalità sfacciata e l’energia di cui è carica l’atmosfera dopo una tempesta tropicale, con il suo calore umido e il suo rigoglio esuberante. Mi venne in mente la volta in cui eravamo andate in un sexy shop di Soho poche ore prima del colloquio al locale di striptease vicino a Chancery Lane. Un po’ imbarazzata, io l’avevo osservata mentre esaminava dildi di tutte le forme e dimensioni, sfregandoseli contro la pelle sottile all’interno del polso per capire che sensazione davano. Si era persino avvicinata all’uomo dall’aria annoiata che stava alla cassa e gli aveva chiesto delle batterie, che poi aveva inserito con un movimento esperto alla base di due vibratori, simili ma leggermente diversi. La punta di uno dei due era piatta, mentre quella dell’altro terminava con una specie di sporgenza fatta apposta per massaggiare il clitoride durante la vibrazione. Si era passata uno di quei giocattoli vibranti sul braccio, poi aveva fatto la stessa cosa con l’altro, quindi si era rivolta di nuovo all’uomo alla cassa. «Secondo lei, qual è meglio?» Lui l’aveva fissata come se fosse un’aliena. Io sarei voluta sprofondare. «Non. Lo. So» aveva risposto lui, facendo una pausa tra una parola e l’altra per consentirle di afferrare meglio il concetto. «Come fa a non saperlo?» aveva detto lei, nient’affatto scoraggiata dal tono scorbutico del tizio. «Lavora qui.» «Io non ho la vagina.» Charlotte aveva subito tirato fuori la carta di credito e aveva comprato entrambi i vibratori. Eravamo uscite dal negozio e lei si era fermata di colpo davanti a una di quelle toilette pubbliche che sembrano navicelle spaziali e si aprono con un pulsante laterale. Sospettavo che venissero usate raramente per il vero scopo per cui erano state progettate. «Non ti dispiace, vero?» aveva detto Charlotte, entrando e premendo il pulsante di chiusura prima che io potessi replicare. Ero rimasta fuori, arrossendo violentemente nell’immaginarmela dentro quel cubicolo con le mutandine abbassate e intenta prima a infilarsi dentro uno dei due vibratori e poi a passarselo intorno al clitoride. Era uscita cinque minuti dopo, sorridendo. «Il migliore è quello con la punta piatta» aveva commentato. «Vuoi fare un giro? Ho portato detergente e salviette. E il lubrificante.» «No, grazie» avevo risposto, chiedendomi che cosa avrebbe pensato la gente che passava se avesse sentito la nostra conversazione. Con mia sorpresa, l’immagine di Charlotte che si masturbava nella toilette mi aveva eccitata. Non gliel’avrei detto, ma di sicuro il lubrificante non sarebbe stato necessario. «Come vuoi» aveva ribattuto lei noncurante, lasciando cadere i vibratori nella borsetta. Nonostante il violino fracassato e la stretta al cuore che provavo pensandoci, immaginare Charlotte nuda all’altro capo del telefono, le lunghe gambe abbronzate allargate distrattamente sul letto sotto lo sguardo attento di Jasper, mi eccitò. «Sto bene» dissi mentendo, e poi le raccontai quello che era successo nella metropolitana. «Oddio, poverina. Vieni qui. Per te butterò fuori dal letto Jasper.» Mi mandò un SMS con l’indirizzo e nel giro di un’ora ero accoccolata su una sedia a dondolo nel salotto del suo appartamento di Notting Hill, intenta a sorseggiare un espresso doppio da una delicata tazzina di porcellana con piattino abbinato. La situazione di Charlotte era decisamente cambiata dall’ultima volta che l’avevo vista. «Allora ballare rende?» le chiesi guardando la stanza spaziosa, il pavimento di legno lucido e il grande televisore a schermo piatto appeso alla parete. «Santo cielo, no» rispose lei, spegnendo la macchina per il caffè. «Era orribile. Non guadagnavo niente e mi hanno licenziata di nuovo.» Prese la sua tazzina e si diresse verso il divano. Sospettavo che i suoi capelli castani adesso lunghissimi e perfettamente lisci fossero dovuti alle extension, ma constatai con piacere che non aveva ancora le unghie finte. Charlotte non era una persona timida, ma aveva classe. «Gioco a poker online» aggiunse poi, accennando con la testa al grande Mac che stava sulla scrivania in un angolo della stanza. «Ho fatto un sacco di soldi.» In fondo al corridoio si aprì una porta da cui uscì del vapore: presumibilmente si trattava del bagno. Mentre mi osservava girare la testa in quella direzione, Charlotte fece un sorriso languido. «Jasper» spiegò. «Si sta facendo la doccia.» «Vi frequentate da molto?» «Da abbastanza» rispose con un ampio sorriso, mentre lui entrava nel salotto con passo indolente. Era uno degli uomini più belli che avessi mai visto. Capelli neri e folti, ancora umidi per la doccia, cosce snelle inguainate in un paio di jeans tagliati al ginocchio, una camicia sportiva con tutti i bottoni slacciati a rivelare addominali scolpiti e una sottile striscia di peli che scendeva fino all’inguine. Rimase in piedi in silenzio vicino alla cucina, sfregandosi i capelli con un asciugamano, come se stesse aspettando qualcosa. «Fammi congedare questo delizioso ragazzo» mi disse Charlotte strizzandomi l’occhio e alzandosi dal divano. La vidi estrarre un fascio di banconote da una busta su uno dei ripiani della libreria e metterglielo in mano. Lui prese il denaro e se lo infilò con discrezione nella tasca posteriore dei jeans, senza preoccuparsi di contarlo. «Grazie» le disse Jasper. «È stato un vero piacere.» «Il piacere è stato mio» replicò lei, aprendo la porta e baciandolo dolcemente su entrambe le guance per salutarlo. «È una frase che ho sempre voluto dire» commentò poi, lasciandosi cadere di nuovo sul divano. «È un…?» «Gigolò?» disse, finendo la frase al mio posto. «Sì.» «Ma sono sicura che avresti potuto…» «Rimorchiare qualcuno?» concluse, anticipandomi di nuovo. «È probabile. Ma mi piace pagare. Mettermi nei panni di chi sta dall’altra parte, se capisci ciò che voglio dire. E poi non devo preoccuparmi di tutte le altre stronzate.» Mi rendevo perfettamente conto del fascino di una simile situazione. In quel momento – anzi, in realtà, in quasi qualunque altro momento – avrei ucciso per una scopata senza sensi di colpa, senza complicazioni e senza dolore. «Hai impegni per stasera?» mi chiese all’improvviso. «No» risposi, scuotendo la testa. «Perfetto. Voglio portarti fuori.» Protestai che non ero dell’umore giusto e che non avevo né vestiti adatti né denaro. Inoltre, detestavo i nightclub, pieni di ragazze che sbattevano le ciglia finte per rimediare un drink e di vecchi che cercavano di palparti senza darlo a vedere. «Servirà a distrarti. Offro io. Ho la mise che fa per te. E poi questo posto è diverso. Ti piacerà.» Qualche ora dopo ero a bordo di una grande barca ancorata sul Tamigi che una volta al mese si trasformava in un fetish club. «Che cosa vuol dire esattamente fetish?» avevo chiesto nervosa a Charlotte. «Oh, niente di che» aveva risposto lei. «Le persone indossano meno vestiti del solito, ma alla loro maniera. E sono più simpatiche.» Mi aveva fatto un sorriso radioso e mi aveva detto di rilassarmi con un tono che lasciava intendere che stavo facendo esattamente l’opposto. Indossavo un corsetto azzurro con le stecche, culottes con i merletti e calze con una cucitura blu che andava dalla coscia alla caviglia e finiva dentro scarpe color argento con il tacco a stiletto. Charlotte mi aveva cotonato i capelli in una massa di riccioli, raddoppiando il volume già consistente della mia zazzera rossa, poi mi aveva messo sulla testa un cappello a cilindro inclinato in modo sbarazzino. Mi aveva accuratamente profilato gli occhi con una generosa dose di eyeliner nero, mi aveva messo un rossetto vivace e lucido sulle labbra, e mi aveva passato un po’ di vaselina sulle guance per dar loro una lieve luminosità argentea. Il corsetto era un po’ troppo grande per me e lei aveva dovuto stringermelo in vita, mentre le scarpe erano piccole e mi rendevano difficile camminare, ma l’effetto complessivo, speravo, era piacevole. «Wow!» aveva esclamato Charlotte, squadrandomi dalla testa ai piedi dopo aver finito di agghindarmi. «Sei eccitante.» Mi ero avvicinata goffamente allo specchio. Accidenti, alla fine di quella serata avrei avuto un terribile mal di piedi: le scarpe stringevano già. Avevo constatato con piacere che la definizione che Charlotte aveva dato di me era appropriata, anche se non l’avrei ammesso a voce alta, in ossequio a presunte regole di comportamento. Avevo assunto, anzi, un’aria modesta. La ragazza nello specchio non mi assomigliava molto. Era più simile a una sorella maggiore ribelle con addosso un costume da burlesque. Il corsetto, benché un po’ largo, mi costringeva a stare più dritta e anche se avvertivo una punta di nervosismo all’idea di uscire vestita in quel modo, in quella specie di nuova pelle, immaginavo che la postura eretta da ballerina mi avrebbe fatta sentire più sicura di me. Charlotte si era spogliata completamente di fronte a me e si era unta il corpo con il lubrificante, poi mi aveva chiesto di aiutarla a infilarsi un abitino di latex giallo brillante con due fulmini rossi che correvano ai lati del busto fino alla vita. Il vestito aveva una profonda scollatura che metteva in mostra quasi tutto il seno generoso e un provocante accenno di capezzoli, fasciati strettamente dalla stoffa. Il lubrificante era aromatizzato alla cannella e per un attimo avevo avuto la tentazione di dare una leccata a Charlotte. Avevo notato che non indossava le mutandine, anche se l’abito le copriva a malapena il culo. La mia amica era sfacciata, non c’erano dubbi, ma io ammiravo la sua sicurezza e, dopo una giornata passata con lei, stavo cominciando ad abituarmici. Era una delle poche persone di mia conoscenza che faceva esattamente quello che le andava di fare, infischiandosene di ciò che pensavano gli altri. Io con le mie scarpe troppo piccole tacco tredici e lei con le sue altissime zeppe rosse eravamo state costrette ad aggrapparci l’una all’altra, ridacchiando, per scendere la ripida scaletta di metallo che portava alla barca. «Non preoccuparti» mi aveva assicurato Charlotte, «ti sentirai a tuo agio prima di quanto pensi.» Ah sì? Era circa mezzanotte quando arrivammo e il club era animatissimo. Un po’ imbarazzata, mi tolsi la giacca e mi unii alla festa esibendo più corpo nudo di quanto fossi abituata a fare, ma Charlotte continuava a ripetere che mi sarei trovata benissimo. Mostrammo i biglietti all’ingresso e in cambio ci misero un timbro sul polso, poi lasciammo i cappotti al guardaroba e salimmo barcollando una rampa di scale, attraversammo una porta a due battenti e ci ritrovammo nel bar principale. Fu una specie di assalto per i sensi. Ovunque c’erano uomini e donne con mise stravaganti. Il latex abbondava, ma non mancavano la lingerie vecchio stile, i cilindri e le marsine, le uniformi militari; c’era persino un uomo che portava solo un anello fallico, con il pene flaccido che sobbalzava allegramente a ogni passo. Una donna bassa con indosso soltanto una gonna voluminosa e il seno che ballonzolava liberamente fendeva la folla tenendo in mano un guinzaglio alla cui estremità c’era un uomo molto alto e magro, con le spalle e la schiena così curve che lei se lo tirava dietro senza sforzo. Mi fece venire in mente Mr Van der Vliet. Seduto da solo su uno dei divanetti c’era un uomo piccolo, o forse una donna androgina, che indossava un body di lattice e una maschera. Charlotte non era stata del tutto precisa quando aveva descritto gli amanti del fetish come gente con meno vestiti. Certo, molti di loro non indossavano quasi niente, e lo facevano con disinvoltura, ma parecchi portavano elaborati costumi che coprivano ogni centimetro di pelle, e ciononostante riuscivano a essere sensuali. Gli abiti da carnevale dozzinali e i vestiti di tutti i giorni erano banditi, un dettaglio raffinato che elevava quasi tutti i presenti da pacchiani a teatrali. «Che cosa bevi, tesoro?» mi chiese Charlotte, distogliendo la mia attenzione dalla folla. Mi sforzavo di non fissare le persone, ma avevo la sensazione di essere finita sul set di un film per soli adulti o di aver imboccato un corridoio verso un universo parallelo dove tutti erano come Charlotte e non si preoccupavano affatto di quello che il resto del mondo avrebbe pensato di loro. Sulla mia mise, comunque, la mia amica ci aveva azzeccato. Non solo mi sentivo a mio agio, ma ero anche una di quelle vestite in modo più sobrio. Con ogni probabilità erano convinti che fossi assolutamente pudica. Quel pensiero mi tranquillizzava. In genere, nelle riunioni tra amici o nelle occasioni sociali, mi preoccupavo di risultare strana, con il mio atteggiamento disinvolto riguardo al sesso e ai rapporti con gli altri. Nessuno mi aveva mai considerata pudica. «Solo acqua per me, grazie» risposi. Non volevo approfittare della generosità di Charlotte e desideravo godermi quello spettacolo con la mente lucida, così il mattino dopo non mi sarei svegliata pensando che era stato solo un sogno. Charlotte si strinse nelle spalle e tornò qualche minuto dopo con due bicchieri. «Vieni» mi disse. «Ti faccio fare un giro.» Mi prese per mano e mi condusse attraverso un’altra porta a due battenti che immetteva sulla prua scoperta della barca, dove c’era un gruppetto di uomini con indosso pesanti giacche militari dall’aria sexy che fumavano o prendevano una boccata d’aria, o entrambe le cose. Le donne, che in genere erano più svestite, erano raggruppate intorno alle stufe a gas in mezzo al ponte. Due di loro indossavano gonne di latex con la parte posteriore tagliata e le loro natiche pallide splendevano sotto le luci artificiali come lune gemelle basse nel cielo. Mi spostai di lato e rimasi immobile per un momento, stringendo la mano di Charlotte e fissando il Tamigi che si snodava nella notte come un lungo nastro nero, insinuandosi discreto tra le due parti della città. L’acqua sembrava densa e vischiosa, e lambiva il fianco della barca con un leggero sciabordio. Il Waterloo Bridge era alle nostre spalle, il Blackfriars Bridge davanti a noi, mentre le luci del Tower Bridge erano appena visibili sullo sfondo, come un’oscura promessa di cose a venire. Sentii Charlotte che rabbrividiva. «Andiamo» disse. «Fa freddo qui fuori.» Ritornammo sui nostri passi oltrepassando di nuovo la porta a due battenti e il bar principale e, attraverso un’altra serie di porte, raggiungemmo una pista da ballo. Guardai a bocca aperta una donna bellissima con i capelli neri e un’aria vampiresca versarsi addosso della benzina e poi soffiare una vampata di fuoco sopra la testa, ballando una pole dance al ritmo di una canzone hard rock. Trasudava sesso. Accanto a Charlotte e in presenza di così tante persone che sembravano non vergognarsi del proprio corpo e, anzi, essere orgogliose della propria sessualità, sentii, per la prima volta in vita mia, che forse non ero un’anomalia. O quantomeno che, se lo ero, c’erano altri come me. Un uomo alto ai bordi della pista da ballo attirò il mio sguardo. Indossava un paio di leggings azzurri coperti di paillette, alti stivali da cavallerizzo, una giacca militare rossa e oro e un berretto in tinta. Teneva un frustino in una mano e un bicchiere nell’altra e chiacchierava animatamente con una ragazza dall’aspetto gotico che indossava hot pants di latex e aveva lunghi capelli neri con una ciocca bianca sulla fronte. I leggings dell’uomo nascondevano a malapena il grosso rigonfiamento in mezzo alle gambe, e io mi immobilizzai per un attimo, affascinata. Avevo visto un paio di leggings simili nella vetrina di un negozio di abbigliamento femminile, ma su quell’uomo l’effetto era decisamente virile. Charlotte mi tirò la mano. «Dopo» mi sussurrò all’orecchio, lanciando un’occhiata al tizio con i leggings. «Lo spettacolo è in corso. Il che significa che al piano di sotto la situazione sarà tranquilla.» Mi condusse lungo un piccolo corridoio con tende di velluto rosso, poi in un bar più piccolo, pieno di gente che si godeva la festa, e infine giù per una rampa di scale. «Questo è il dungeon, la “segreta”, l’alcova sadomaso» disse. La stanza non aveva l’aspetto che pensavo dovesse avere una segreta, anche se in realtà non avevo idea di come dovesse essere una segreta moderna né che esistesse una cosa del genere. Mi fermai e mi guardai intorno, assorbendo tutti i particolari, nel caso in cui non avessi mai più rivisto un posto simile. L’arredamento era come quello del bar al piano di sopra, ma con qualche elemento in più dall’aspetto strano. C’era una grande croce rossa imbottita, che in realtà aveva piuttosto la forma di una X, alla quale era appoggiata una donna nuda con le gambe e le braccia spalancate, mentre un’altra donna la picchiava con uno strumento che Charlotte chiamò “flagellatore”. Non riuscivo a vederne l’impugnatura, stretta nella mano della donna, ma invece di una sola striscia di cuoio, come una frusta, aveva parecchie strisce di pelle morbida. La donna che teneva il flagellatore alternava le frustate sul culo della compagna a carezze con il palmo della mano, e talvolta le sfiorava il corpo con le strisce di pelle. La donna sulla croce gemeva di piacere e si inarcava involontariamente, mentre quella con il flagellatore le si avvicinava spesso per sussurrarle qualcosa all’orecchio: parole dolci, immaginavo. Sorrideva, rideva e si chinava verso la compagna sulla croce. Erano circondate da un gruppetto di osservatori attenti, ma parevano in un mondo tutto loro, come se uno schermo invisibile le avesse separate dalla gente che guardava. Quella scena mi avrebbe sconvolta se l’avessi vista in una fotografia o se ne avessi letto una piccante descrizione su un giornale. Avevo sentito parlare di cose simili, naturalmente, ma le avevo archiviate in un angolo della mente, lo stesso in cui mettevo le storie di gente che correva all’ospedale dopo uno sfortunato incidente con un criceto e il tubo di un aspirapolvere; immaginavo che qualcuno finisse in situazioni del genere, ma pensavo che perlopiù si trattasse di leggende metropolitane o di eccessi di eccentricità. Le persone lì, invece, sembravano tutte normali e carine, anche se avevano le stesse mise stravaganti che si vedevano ovunque su quella barca. Mi avvicinai un po’ per vedere meglio. Sì, la donna che prendeva le frustate se la stava decisamente spassando. Non so cosa avrei dato per sapere che cosa provava. E l’atto del frustare in sé – l’alzarsi e l’abbattersi del flagellatore – era preciso, ritmico, orchestrato ad arte. Una scena piuttosto bella. Charlotte, notando il mio interesse, si avvicinò a un uomo in piedi vicino alla croce e gli batté un colpetto sulla spalla, poi mi chiamò con un cenno. «Mark» gli disse, «lei è Summer. È la sua prima volta.» Lui mi squadrò con uno sguardo più compiaciuto che rapace. «Carino il corsetto!» disse, baciandomi su entrambe le guance. Era piuttosto basso e grasso e si stava stempiando, ma aveva un viso amichevole e un bagliore affascinante negli occhi. Indossava pesanti stivali, un grembiule di gomma e una vestaglia. Il grembiule aveva parecchie tasche, piene di attrezzi che, a una prima occhiata, sembravano simili al flagellatore. «Grazie» risposi. «Vieni qui spesso?» «Non tanto quanto vorrei» rispose lui ridendo, mentre io arrossivo. «Mark è il padrone del dungeon» spiegò Charlotte. «In sostanza» disse lui «mi assicuro che tutto quaggiù fili liscio e che nessuno faccia il cazzone.» Annuii, spostando il peso da una gamba all’altra. I piedi cominciavano a farmi male sul serio. Mi guardai intorno in cerca di una sedia libera, ma non vidi nulla a parte una struttura metallica con una parte piatta imbottita che mi arrivava circa all’altezza della vita e che sospettavo non fosse un sedile. «Posso sedermi lì?» chiesi, indicando la struttura con un cenno della testa. «No» rispose Charlotte. «Non ci si può sedere sull’attrezzatura. Qualcuno potrebbe volerla usare.» Poi si illuminò. «Oooh!» esclamò, lanciandomi un sorriso malizioso e dando un colpetto nelle costole a Mark. «Potresti darle una sculacciata, Mark. Così potrebbe far riposare i piedi.» Mark mi guardò. «Per me sarebbe un piacere» commentò «se la signora gradisse.» «Oh, no… Grazie, ma non sono sicura.» Mark replicò educatamente: «Nessun problema», mentre Charlotte insisteva: «Dài… Di che cosa hai paura? Lui è un esperto. Prova». Guardai di nuovo la donna sulla croce, che adesso sembrava in estasi, indifferente allo spettacolo che offriva agli astanti. Avrei voluto essere anch’io come lei, così coraggiosa e incurante. Se me ne fossi infischiata dell’opinione degli altri, probabilmente non avrei passato più di una notte con Darren. «Io rimango vicina a te» aggiunse Charlotte, che senza dubbio si era accorta che stavo per cedere. «Che cosa potrebbe mai succederti?» E che cazzo! Lì nessuno avrebbe pensato male di me e io ne avrei approfittato per sdraiarmi un po’. E poi ero curiosa. Se fosse stato così brutto, tutta quella gente non l’avrebbe fatto. «Okay» dissi, accennando un sorriso. «Proverò.» Charlotte si dimenò, in preda all’eccitazione. «Quale strumento preferisci?» chiese Mark, indicando con un gesto della mano gli attrezzi nelle tasche del suo grembiule. Seguii i suoi movimenti. Pur non essendo alto, aveva mani grandi dall’aria solida, tipiche di una persona che svolge un lavoro manuale invece di rammollirsi digitando sulla tastiera di un computer. Charlotte seguì il mio sguardo con interesse. «Credo che Summer preferisca le mani nude, Mark» disse. Io annuii. Poi lei mi condusse verso la struttura metallica imbottita, che sembrava una panca. Con gentilezza Mark mi fece voltare in modo da guardarmi in faccia. «Va bene» disse. «Comincerò con molta delicatezza. Se, in qualunque momento, ti senti a disagio, basta che alzi una mano e io smetterò subito. Charlotte rimarrà qui, accanto a te. Capito?» «Sì» risposi. «Okay, bene» disse lui. «Però le culottes con i merletti non sono adatte. Ti dispiace se te le tolgo?» Trattenni il fiato. Accidenti! In che situazione mi ero andata a cacciare? Del resto sapevo che, ovviamente, non sarebbe stata la stessa cosa con addosso biancheria intima elaborata. E poi la stanza era piena di gente nuda, per cui nessuno avrebbe fatto caso a me. «Fai pure.» Mi girai e mi piegai in avanti sulla struttura imbottita, alleggerendo il peso sui piedi e provando un immediato sollievo. La vita e il busto erano appoggiati all’imbottitura centrale, mentre ai lati c’erano due ulteriori imbottiture su cui distendere le braccia e impugnature da stringere con le mani. Sentii un dito che si infilava sotto l’elastico delle culottes e me le sfilava con gentilezza facendole scivolare lungo le cosce e i polpacci inguainati nelle calze. Mark mi sollevò prima un piede e poi l’altro, aiutandomi a toglierle. Avevo le gambe spalancate e immaginai che lui, accucciato ai miei piedi, avesse una visuale completa del mio corpo. Sentii le guance imporporarsi, ma cominciavo già ad arrendermi e ad avvertire un piacevole calore irradiarsi dalle parti basse. Lui si rialzò in piedi e Charlotte mi strinse la mano. Per un attimo non sentii niente, a parte la lieve carezza dell’aria sul sedere nudo e – immaginai – gli occhi di sconosciuti sulla mia carne esposta. Poi un palmo forte si chiuse a coppa sulla mia natica destra, con un delicato movimento circolare, seguito da un’impercettibile brezza quando la mano si alzò, per poi abbassarsi di nuovo e colpirmi prima su una natica e poi sull’altra. Un bruciore acuto. Quindi il tocco leggero della mano fresca di Mark sulla mia carne ardente, per accarezzarla, lenirla. Un altro soffio d’aria mentre la mano si alzava nuovamente. E un sussulto quando mi colpì, questa volta con più forza. Strinsi le sbarre di metallo, inarcai la schiena, premetti le cosce contro l’imbottitura e sentii un’altra vampata di rossore mentre mi rendevo conto di essere bagnata fradicia e immaginavo che Mark vedesse la mia eccitazione, ne sentisse l’odore. Si rendeva conto che il mio corpo iniziava a cedere sotto il suo tocco, mentre io inarcavo ancora di più la schiena per offrirmi alle sue mani. Un altro colpo, molto più forte, davvero doloroso. Il bruciore acuto mi fece sobbalzare e per una frazione di secondo pensai di chiedergli di smettere, ma poi la sua mano fu nuovamente su di me, proprio nel punto in cui mi aveva colpita, e il dolore si trasformò in una sensazione calda che mi attraversò la spina dorsale fino alla nuca. Continuando a tenermi una mano sul culo, Mark risalì con l’altra lungo la schiena e, allargando le dita, me la infilò tra i capelli e diede uno strattone, prima delicatamente, poi con più forza. Mi ritrovai in un’altra dimensione. La stanza si allontanò. Gli sguardi degli estranei svanirono. Charlotte scomparve. C’eravamo solo io e la sensazione della sua mano che mi tirava i capelli mentre inarcavo il corpo e gemevo sotto i suoi colpi. Poi tornai al presente. Due mani appoggiate con delicatezza sulle mie natiche doloranti e Charlotte che mi stringeva la mano. Il rumore della stanza cominciò di nuovo a filtrare nella mia coscienza. Voci, musica, cubetti di ghiaccio che tintinnavano nei bicchieri e il suono di qualcun altro che veniva sculacciato. «Tutto okay, tesoro? Sei ancora tra noi? Wow» disse Charlotte, presumo a Mark, «è partita come un razzo.» «Sì» le fece eco lui, «ha un talento naturale.» Girai la testa per sorridergli e quindi cercai di rimettermi in piedi, ma scoprii di non riuscire a camminare. Barcollavo come un puledro appena nato ed ero palesemente eccitata, bagnata tra le cosce. Ero imbarazzata dall’intensità della mia reazione, ma né Mark né Charlotte né gli altri spettatori sembravano minimamente stupiti o sorpresi. Per loro era un normale evento da weekend (forse addirittura quotidiano). «Vieni qui, tigre» disse Mark, mettendomi un braccio intorno alla vita e guidandomi verso una sedia che si era liberata solo perché un’occhiataccia sua e di Charlotte avevano indotto l’occupante a balzare in piedi e allontanarsi. Mi sedetti e Mark mi accarezzò i capelli, facendomi appoggiare la testa e un fianco alla sua coscia. Il grembiule di gomma era freddo e strano sulla mia faccia e uno degli attrezzi mi premeva fastidiosamente contro il braccio. Sentii che mi stavo allontanando di nuovo mentre lui mi passava le dita tra i capelli, e le loro voci mi arrivavano come dal fondo di un tunnel. «Credo che dovresti riportarla a casa» disse Mark a Charlotte. «Ha bevuto parecchio?» «Nemmeno un goccio. Solo acqua minerale. Hai iniziato una vergine.» «Che meraviglia!» ridacchiò lui. «Ha l’aria di essersela spassata parecchio» commentò Charlotte «e non le ho neppure fatto vedere la stanza delle coppie.» Mi addormentai appoggiata alla spalla di Charlotte sul taxi che ci riportava al suo appartamento. La mattina dopo, quando mi svegliai, indossavo ancora il corsetto, di cui erano stati allentati i lacci. Il cuscino era coperto di brillantini e macchiato di eyeliner nero. Mi sembrava di essere in preda ai postumi di una sbornia, anche se non avevo bevuto alcolici. «’giorno, splendore» disse Charlotte dalla cucina. «Ti ho fatto il caffè.» Entrai nella stanza strascicando i piedi, ma la sola prospettiva di una dose di caffeina bastò a farmi sentire subito più sveglia. «Wow» disse Charlotte, «quella mise ti stava meglio ieri.» «Grazie» ribattei. «Non si può dire lo stesso della tua.» Charlotte era in piedi in mezzo alla stanza, con un piattino di porcellana in una mano e una tazzina di espresso nell’altra. Era completamente nuda. «Non indosso vestiti se posso farne a meno» disse. «E quand’è che non puoi farne a meno?» le chiesi. «Quando friggo» rispose lei «o quando ho gentiluomini in visita. Mi metto i vestiti così loro possono togliermeli. Sembra che ai maschietti piaccia.» In quel momento mi venne in mente che Charlotte era di Alice Springs e, ancora una volta, non potei fare a meno di stupirmi che una persona tanto cosmopolita potesse essere cresciuta nell’Outback australiano. «Sei di buonumore.» «Ho già fatto un po’ di soldi, oggi» disse, lanciando un’occhiata al computer «e ho dormito bene sapendo che ieri sera ti ho aperto la mente.» Sorrideva raggiante, mentre io mi sentivo un po’ strana. Niente, a parte la musica, mi aveva mai fatto provare un’emozione simile: un’epifania di distacco e piacere che si era fatta strada attraverso il dolore. Scacciai quel pensiero. «La suoneria del tuo cellulare sveglierebbe i morti. Potresti anche sceglierne una migliore.» «È Vivaldi, ignorante» dissi. Lei si strinse nelle spalle. Tirai fuori il telefono dalla borsa e controllai le chiamate perse. Darren. Dieci volte la sera prima e un’altra dozzina quella mattina. Doveva aver saputo del violino. Lanciai un’occhiata all’orologio sopra il forno della cucina. Erano le tre del pomeriggio. Avevo dormito quasi tutto il giorno. «Rimani un’altra notte» disse Charlotte. «Cucinerò per te. Non ho mai nemmeno acceso il forno in questa casa.» Mi lasciò nel suo appartamento in modo che potessi lavarmi e riposare e uscì a fare la spesa per la cena. Mi feci un bagno e poi passai mezz’ora a districare i nodi nei capelli. Alla fine, stanca di aspettare, mandai un SMS a Charlotte per chiederle se potevo usare il suo computer. “Certo” rispose. “Non c’è la password.” Mossi il mouse per riportare in vita lo schermo. Controllai la posta su Gmail. Ignorai i messaggi di Darren e l’inevitabile spam. Poi mi collegai a Facebook. Un messaggio nella posta in arrivo. Esitai ad aprirlo, pensando che si trattasse di nuovo di Darren, ma in realtà veniva da un profilo che non riconobbi, senza foto. Cliccai sul messaggio, vagamente incuriosita. Un’introduzione educata. Quindi: … vorrei regalarti un violino nuovo. Ti va di accettare la mia offerta e le mie condizioni? Cliccai sul profilo, ma era quasi completamente vuoto, a parte la residenza – Londra – nei dati personali. Il nome era solo un’iniziale: D. Naturalmente pensai a Darren, ma quello non era il suo stile. Chi altri poteva essere? Derek? Donald? Diablo? Passai mentalmente in rassegna le persone che avrebbero potuto sapere del violino e farmi un’offerta del genere, ma non mi venne in mente nessuno. L’unica persona che conosceva tutti i particolari dell’incidente era il funzionario del trasporto pubblico con le mani grassocce, che aveva l’aria di essere romantico come la sua professione, ossia per niente. Se il violino mi fosse stato rubato o, peggio, lasciato “impiccato” sulla soglia di casa, avrei potuto temere che dietro tutto ciò ci fosse uno stalker online, ma il messaggio non mi sembrava malevolo. Si era accesa una scintilla che, per quanto ci provassi, non riuscivo a spegnere. Rimasi a fissare lo schermo per dieci minuti, senza venirne a capo, finché Charlotte non entrò rumorosamente in casa carica di sacchetti della spesa. «Mi auguro che tu non sia vegetariana» gridò, «perché ho comprato solo carne.» Le assicurai che le mie preferenze erano per le bistecche e poi la chiamai per farle leggere la mail. Lei guardò lo schermo, inarcò un sopracciglio e fece un sorrisetto. «Quale offerta?» chiese. «E quali condizioni?» «Non lo so. Devo rispondere?» «Be’, sarebbe un inizio. Dài… rispondigli.» «Come fai a sapere che è un uomo?» «Ma certo che è un uomo. C’è scritto “maschio dominante” a caratteri cubitali in quel messaggio. Probabilmente è qualcuno che ti ha vista suonare e si è arrapato.» Ci pensai un attimo, poi cliccai su RISPONDI e scrissi: Buonasera, grazie per le gentili parole. Qual è la tua offerta? E le condizioni? Saluti, Summer Zahova La risposta arrivò nel giro di qualche minuto. Sarei onorato di rispondere in modo esauriente alle tue domande. Incontriamoci. Una richiesta platealmente priva di sfumature interrogative. Sfidando il buonsenso, e incalzata da Charlotte, fissai un appuntamento con lo sconosciuto: a mezzogiorno del giorno successivo. Ero in ritardo di dieci minuti. Lui aveva suggerito di vederci in un caffè italiano che stava in St Katharine Docks. Avevo fatto finta di conoscere il posto, anche se non era vero, risparmiandomi così di dover proporre un’alternativa. Quando arrivai, scoprii che si trovava in mezzo all’acqua. Percorrendo la passeggiata lungo i dock, mi accorsi che la strada era chiusa per lavori, per cui fui costretta a tornare indietro e a fare un altro giro. Sul molo c’ero solo io e mentre camminavo avanti e indietro, disorientata come una formica che si trova la strada sbarrata da una briciola, immaginai che lo sconosciuto mi stesse osservando seduto comodamente nel caffè. Indossavo gli abiti meno sexy che ero riuscita a trovare nel guardaroba di Charlotte, per non dargli un’impressione sbagliata. Avevo dormito troppo e non avevo avuto il tempo di tornare a casa mia a cambiarmi. Charlotte mi aveva trovato un abito blu a righine sottili di lana e tessuto elasticizzato, che aveva comprato in occasione di un brevissimo intermezzo lavorativo come addetta alla reception di uno studio legale prima di cominciare la sua carriera di giocatrice di poker online. Mi arrivava appena sotto il ginocchio ed era accollato, con quattro bottoncini sul petto in stile militare. Era un po’ stretto sulle cosce, ma morbido in vita, e io lo indossavo con una sottile cintura color crema, gli stivaletti alla caviglia con le stringhe, che fortunatamente portavo il giorno della rissa in metropolitana, e un paio di autoreggenti color carne, sulla cui confezione c’era scritto: “Leggermente lucide. Effetto nudo”. «Penserà che voglio scoparmelo, se vede queste calze» avevo detto a Charlotte. «Be’, forse vorrai scopartelo» aveva ribattuto lei. Poi mi aveva detto di non fare la sciocca: mi sarei dovuta chinare fino a terra per mostrare che cosa avevo sotto il vestito, attraverso lo spacco, il quale per fortuna era piuttosto basso. Ciò rendeva un po’ più difficile camminare, ma significava che nessuno si sarebbe accorto che non indossavo biancheria intima. Sì, perché Charlotte si era rifiutata di farmi uscire con gli slip addosso, dal momento che la stoffa del vestito lasciava vedere il segno delle mutandine. Mi ero arresa sulla porta, come un soldato che consegna la bandiera al nemico. Mi aveva prestato anche il suo cappotto di lana color crema, ammonendomi di non dimenticarlo in giro perché era molto costoso. La stoffa era impregnata di un profumo muschiato che non era proprio il mio genere e, dato che Charlotte aveva indossato quel cappotto sopra l’abito di latex alla serata fetish, anche dell’aroma di cannella del lubrificante. Comunque, fui molto contenta di averlo addosso, perché nel frattempo aveva cominciato a piovere a dirotto. Avevo con me l’ombrello rosso di Charlotte e, quando lo aprii, mi sentii come una prostituta che cercava di attirare l’attenzione: l’unica nota di colore in un mare di nero e grigio. Perlustrai l’interno del locale dell’appuntamento. Niente di speciale, ma dall’aspetto dell’italiano che stava dietro il bancone immaginai che il caffè dovesse essere buono. Quello che servono negli aeroporti del resto d’Europa è meglio di qualunque surrogato che si possa trovare in Inghilterra. Un’altra delle cose che non avrei mai detto a un inglese, un popolo di bevitori di tè. Un bancone, pochi tavolini e sedie. Una scala a giorno saliva verso un’altra sala. Guardai fuori dalla vetrina. Una visione perfetta dei dock. Lui doveva sicuramente avermi vista arrivare, se era qui. Non scorgendo nessuno al pianoterra, presi la scala che portava al piano superiore. Non c’era nessuno nemmeno lì, a parte una donna di mezza età che leggeva un giornale davanti ai resti di un cappuccino. Il cellulare vibrò. Ci eravamo scambiati i numeri in caso di ritardi o contrattempi. “Sono giù” diceva il messaggio. Maledizione. Scesi, cercando di dissimulare il nervosismo, e notai un tavolo dietro la scala a giorno da cui si vedeva perfettamente il sotto dei gradini di legno ben spaziati tra loro. L’uomo seduto al tavolo, con l’angolazione e il grado di attenzione giusti, molto probabilmente aveva visto benissimo sotto il mio vestito. Avvertii una fitta di eccitazione al pensiero di aver appena offerto a quello sconosciuto la visione del mio corpo completamente nudo. Poi mi vergognai. Avrei fatto meglio a ricompormi, e in fretta. Lui sorrise, senza un’ombra di disappunto per il mio ritardo e senza lasciar trapelare il minimo segno di aver appena sbirciato sotto la mia gonna mentre salivo goffamente le scale. «Tu sei Summer.» Non era una domanda. Aveva gli occhi scuri, penetranti, ma indecifrabili. «Sì» risposi, allungando la mano per stringere la sua, come in un incontro d’affari. Ricordai l’aria sicura che mi aveva dato il corsetto e raddrizzai le spalle di proposito. Lui mi diede una stretta rapida e formale, ma salda. «Mi chiamo Dominik. Grazie per essere venuta.» Le sue mani erano calde e forti, persino più grandi di quelle di Mark. Arrossii a quel pensiero e mi affrettai a sedermi. «Posso ordinarti qualcosa?» mi chiese. «Un marocchino, se lo fanno. Oppure un espresso doppio» risposi, sperando che il tono di voce non tradisse il mio nervosismo. Lui si alzò dirigendosi al bancone e mentre mi passava accanto percepii il suo odore. Non sapeva di acqua di colonia, ma aveva solo un lievissimo sentore di muschio, l’odore della pelle calda. Trovo che ci sia qualcosa di molto virile in un uomo che non si mette il profumo, nella sua pelle non adulterata da prodotti artificiali. Dominik era il tipo d’uomo che immaginavo fumasse sigari e si radesse con un rasoio a lama libera. Lo guardai mentre ordinava i caffè. Era abbastanza alto – un po’ più di un metro e ottanta, calcolai – e snello, ma non eccessivamente muscoloso. Aveva le braccia e la schiena scolpite di un nuotatore. Un uomo molto sexy, nonostante l’atteggiamento freddo. O forse proprio per quello. Ho sempre preferito gli uomini che non sorridono né cercano a tutti i costi di far colpo su di me. Quando chiese al barista una zuccheriera, lo fece con estrema educazione. Aveva una voce profonda e ricca, da scuola di lusso – il genere che preferisco – ma aveva un’inflessione particolare e mi chiesi se fosse inglese. Ho un’autentica fissazione per gli accenti, forse perché vengo da un altro paese. In ogni caso cercai di darmi un contegno e di non lasciar trapelare che lo trovavo attraente, mettendolo così in una posizione di vantaggio. Indossava un maglione a coste marrone scuro con il collo alto che sembrava comodo e morbido, forse di cachemire, un paio di jeans scuri e scarpe di pelle lucidate di recente. Il suo abbigliamento e i suoi modi non rivelavano niente di particolare, a parte il fatto che pareva un uomo gradevole e non pericoloso. Perlomeno, “pericoloso” nel senso di “psicopatico”. Forse pericoloso in altri sensi. Presi il cellulare dalla borsa e mandai un SMS a Charlotte per dirle che non mi aveva ancora fatta a pezzi. Lui tornò con un vassoio e io feci per alzarmi e aiutarlo a posare le tazze sul tavolo, ma lui mi segnalò di stare ferma e, tenendo il vassoio in equilibrio con una mano, mi mise davanti la mia tazza di caffè con l’altra. Mentre lo faceva, mi si avvicinò un po’ più del necessario per offrirmi lo zucchero e mi sfiorò il braccio con la mano, prolungando il contatto abbastanza da sollecitare una mia reazione, di approvazione o disapprovazione, ma poi tolse la mano e io finsi di non essermene accorta. Scossi la testa per rifiutare lo zucchero, aspettandomi che commentasse con il solito “Sei già abbastanza dolce”, ma non lo fece. Rimanemmo seduti in un silenzio stranamente confortevole, mentre lui metteva una zolletta di zucchero nel caffè, poi una seconda, una terza e infine una quarta. Aveva le unghie molto curate, ma tagliate squadrate, per cui l’effetto era virile, anziché effeminato. La pelle era lievemente olivastra, non avrei saputo dire se per natura o per effetto di una recente abbronzatura. Tolse il cucchiaino dalla tazza con grande cura e lo appoggiò sul piattino, guardandosi la mano mentre lo faceva, come se il suo sguardo avesse potuto impedire che una goccia cadesse sulla tovaglia. Al polso destro portava un orologio d’argento: il modello antiquato con le lancette, non quello digitale. Ho sempre trovato difficile stabilire l’età delle persone, soprattutto degli uomini, ma immaginai che Dominik avesse passato i quaranta: probabilmente non ne aveva più di quarantacinque, a meno che non ne dimostrasse di meno. Se aveva un violino, non l’aveva portato con sé. Si appoggiò allo schienale della sedia. Un altro attimo di silenzio. «Allora, Summer Zahova» disse poi, pronunciando le sillabe come se le stesse assaporando, una alla volta. Gli osservai le labbra, che sembravano straordinariamente morbide, anche se la linea della bocca era decisa. «Probabilmente ti stai chiedendo chi sono e che significato ha tutto questo.» Annuii e bevvi un sorso di caffè. Era persino meglio di quanto mi aspettassi. «Un ottimo caffè» osservai. «Sì» replicò. Sul viso gli comparve un’espressione perplessa. Aspettai che continuasse. «Vorrei sostituire il tuo violino.» «In cambio di cosa?» gli chiesi, protendendomi verso di lui con interesse. Anche lui si protese verso di me, i suoi palmi adesso appoggiati sul tavolino, le dita allargate, quasi a sfiorare le mie, un gesto che mi invitava a toccarlo. Avvertii una lievissima zaffata di caffè nel suo alito e, come mi era successo quando Charlotte si era cosparsa di lubrificante alla cannella, provai l’impulso di avvicinarmi e leccarlo. «Vorrei che tu suonassi per me. Vivaldi, magari?» Si appoggiò di nuovo allo schienale della sedia, pigramente, con un lieve sorriso sulle labbra, come se avesse notato che ero attratta da lui e mi stesse stuzzicando. Quello era un gioco a cui si poteva giocare in due. Raddrizzai le spalle e lo guardai negli occhi, fingendo di non notare l’eccitazione che stava aumentando tra noi e assumendo l’espressione di chi è perso nei propri pensieri, mentre valutavo la sua bizzarra offerta come uno avrebbe fatto con una proposta d’affari. Ricordai l’ultima volta in cui avevo suonato le Quattro stagioni, il pomeriggio dopo la lite con Darren. Era stato in quell’occasione che qualcuno aveva messo cinquanta sterline nella custodia del mio violino. Probabilmente Dominik, immaginai adesso. Lo sentii muovere le gambe sotto il tavolino e vidi un lampo attraversargli lo sguardo. Soddisfazione? Desiderio? Forse non sembravo così controllata come avevo sperato. Arrossii quando le nostre gambe si toccarono e mi resi conto di essere seduta a ginocchia divaricate come un uomo. La mia astinenza durava ormai da un mese e mi sarei scopata una delle gambe del tavolo, ma non era necessario che lui lo sapesse. Dominik continuò: «Solo una volta, per cominciare, e potrai avere il violino. Deciderò io il posto, ma tu sarai comprensibilmente preoccupata per la tua sicurezza. Sentiti libera di portare un’amica, se preferisci». Annuii. Avevo deciso di accettare la sua proposta, ma avevo bisogno di guadagnare un po’ di tempo per rifletterci sopra. I sottintesi della sua offerta erano ovvi, e la sua arroganza era irritante, ma mio malgrado trovavo Dominik attraente e avevo disperatamente bisogno di un violino. «Bene, Summer Zahova, vuol dire che accetti?» «Sì.» Ci avrei riflettuto sopra più tardi e, se necessario, avrei rinunciato via mail. Ordinò altri due caffè senza consultarmi. La sua presunzione mi irritò e feci per protestare, ma volevo un altro caffè e sarebbe sembrato sciocco rifiutare adesso, per poi prenderne uno prima di uscire dal locale. Sorseggiammo la bevanda, parlammo del tempo e ci soffermammo brevemente su dettagli insignificanti delle nostre vite normali. In realtà la mia vita non era più tanto normale, senza il violino. «Ti manca il violino?» All’improvviso provai una strana emozione, come se senza un archetto e uno strumento con cui sfogare le sensazioni che si accumulavano dentro di me avessi potuto spezzarmi in due, esplodere, essere consumata da un fuoco interno. Rimasi in silenzio. «Bene, allora dovremmo farlo presto. Forse la settimana prossima. Mi terrò in contatto con te per confermare il posto e procurerò il violino per l’occasione, e poi, se tutto sarà di mia soddisfazione, potremo andare a comprare uno strumento più definitivo.» Mi dissi d’accordo, ignorando di nuovo il suo tono arrogante, quasi sprezzante e, tenendo per me le mie riserve, almeno per il momento, presi il cappotto dalla sedia. Uscimmo dal caffè e ci avviammo a piedi insieme finché le nostre strade non si separarono. Ci salutammo con un educato arrivederci. «Summer» mi chiamò mentre mi allontanavo. «Sì?» risposi. «Mettiti un vestito nero.» 4 Un uomo e il suo quartetto d’archi Dominik era sempre stato un attento lettore di thriller di spionaggio e aveva memorizzato alcune delle fondamentali tattiche da spia apprese dai molti libri che aveva divorato avidamente. Di conseguenza, si era seduto nel caffè al pianoterra in una posizione arretrata, un angolo vicino alle scale dove aveva una buona visuale della porta ma non era immediatamente visibile a causa del riverbero della luce esterna. In quel caso, comunque, non c’era stato bisogno di una via di fuga. L’aveva vista entrare, con qualche minuto di ritardo e lievemente ansimante, e guardarsi intorno con fare distratto nel locale pressoché deserto pervaso dal penetrante aroma del caffè e dal rumore della macchina per l’espresso. Si era reso conto che lei non l’aveva notato nel suo angolo ed era quindi salita a cercarlo al primo piano con il tubino blu che, a ogni passo, si allargava e si stringeva intorno alle sue cosce, offrendogli una chiara visuale sotto la gonna prima che l’oscurità tra le sue gambe gli impedisse ulteriori esplorazioni. Dominik aveva sempre avuto una tendenza al voyeurismo e quell’involontario, anche se troppo breve, svelamento dei recessi di lei era stato una gioia e una mirabile promessa di delizie future. Senza la distrazione del violino e senza l’effetto ipnotico della musica, adesso poteva concentrarsi sull’aspetto fisico della giovane: la massa fiammeggiante dei capelli, il vitino di vespa e un che di mascolino nel modo di muoversi. Si accorse che non era alta quanto gli era sembrata sotto il soffitto basso dell’affollato corridoio della metropolitana. Pur non essendo una bellezza da passerella, attirava l’attenzione, sia in mezzo alla folla sia da sola, mentre camminava sul molo o entrava trafelata nel caffè. Sì, era diversa, e la cosa lo intrigava parecchio. Rintracciò il suo numero sulla rubrica e le mandò un messaggio, avvisandola dov’era. Lei scese le scale, sul viso un lievissimo rossore per l’imbarazzo di non averlo visto subito. Adesso era di fronte a lui. «Tu sei Summer» le disse e si presentò, invitandola a sedersi. Lei lo fece. Dominik percepì un lieve sentore di cannella. Non era la fragranza che si sarebbe aspettato da lei. Pensava che al pallore della sua carnagione si sarebbe intonato meglio un profumo con una nota verde forte, secca, discreta, furtiva. Oh, be’… Guardò Summer negli occhi. Lei sostenne il suo sguardo, spavalda ma curiosa, sicura di sé e leggermente divertita. Era una persona molto determinata, questo era chiaro. Il che avrebbe potuto rivelarsi alquanto interessante. Si esaminarono a vicenda in silenzio, osservando, giudicando, soppesando, facendo ipotesi. Come giocatori di scacchi prima di una partita, cercavano il punto debole dell’avversario, la breccia attraverso cui penetrare per invadere il campo avversario. Poi Dominik si alzò per andare a fare le ordinazioni al bancone e aspettò che il barista preparasse il vassoio. Nel frattempo Summer mandò in fretta un SMS a qualcuno, probabilmente per rassicurare un’amica che stava bene e che lui, almeno a prima vista, non era né un serial killer da manuale né un viscido da primato. Dominik si concesse un sorrisetto. A quanto pareva, aveva superato l’esame iniziale. Adesso la palla era nella sua metà del campo. Tornato al tavolo con i caffè, spiegò a Summer che cosa intendeva proporle, delineando i contorni di un’iniziativa apparentemente lineare, mentre nella sua mente prendeva lentamente forma un piano più complesso. Le fantasie erano scatenate, le visioni si precisavano come una foto Polaroid che emerge da uno sfondo nero. Quanto lontano poteva spingersi? Quanto lontano l’avrebbe portata? Mezz’ora dopo, mentre si congedavano, un po’ a disagio per tutto il non detto che ancora aleggiava tra loro, Dominik si rese conto che ce l’aveva duro; la sua erezione premeva contro la stoffa dei jeans mentre la guardava allontanarsi ancheggiando lungo la passeggiata di St Katharine Docks in direzione del Tower Bridge. Lei non si girò nemmeno una volta, ma Dominik sapeva che era consapevole del suo sguardo che la seguiva. Oh, quella sì che era una sfida interessante… Rischiosa ed eccitante, eppure… Pur avendo passato la maggior parte della vita nel regno dei libri, Dominik non era solo una fonte di sapere, per quanto teorico a volte potesse sembrare, ma era anche un uomo d’azione. Durante l’università aveva trascorso ore in biblioteca per poi passare senza sforzo alla pista delle gare di atletica. Era stato un ottimo saltatore, sia in alto sia in lungo, e anche un eccezionale corridore sulla media distanza e nelle corse campestri, anche se riusciva meno bene negli sport di squadra, perché faceva fatica a entrare in sintonia con gli altri. Non vedeva alcuna contraddizione in quelle due sfere distinte della propria esistenza. Per anni la sua vita sessuale era stata tradizionale, addirittura conservatrice. Non era mai stato una gran perdita per le sue compagne di letto, nemmeno da giovane, quando aveva la tendenza a idealizzare alcune donne e a innamorarsi di quelle che non poteva avere con sconcertante regolarità. Come amante, riteneva di essere nella media: non esageratamente fantasioso, ma tenero. Essendo un introverso, non si era mai preoccupato davvero di come lo considerassero le donne con cui andava a letto. Il sesso era un’occupazione tra le tante, necessaria, certo, ma era solo una parte della complessa trama dell’esistenza, accanto ai libri, all’arte e al cibo. Fino al giorno in cui aveva conosciuto Kathryn. Naturalmente aveva letto il marchese de Sade e molti dei moderni classici dell’erotismo. Consumava materiale pornografico (e ne ricavava periodici orgasmi) e sapeva dei rapporti sadomaso, della dominazione, della sottomissione e della gamma di perversioni esistenti, come pure dell’armamentario degli appassionati di fetish, ma tutto ciò non era mai entrato davvero nella sua realtà quotidiana. Era qualcosa di astratto, remoto, qualcosa in cui altri indulgevano. Lui osservava con interesse intellettuale quel mondo parallelo, che però non lo attirava, non esercitava alcun richiamo concreto su di lui. Anche Kathryn era docente universitaria, benché di un’altra materia, e si erano conosciuti a un congresso nelle Midlands: un divertito scambio di sguardi nel corso di una delle sue lezioni principali, seguito da una conversazione impacciata nel bar affollato. Tornati a Londra, erano diventati amanti, anche se lei era sposata e Dominik aveva una relazione stabile con un’altra donna. La maggior parte dei loro incontri si era svolta in alberghi a ore o sulla moquette del piccolo ufficio di Dominik tra l’ora dell’aperitivo e quella dell’ultimo treno in partenza da Charing Cross verso i sobborghi meridionali. Ogni minuto era risultato prezioso e il sesso era stato una rivelazione per entrambi, come se tutte le loro esperienze precedenti avessero portato a quel momento. Frenetico, violento, disperato, compulsivo come una droga. In ginocchio sulla spessa moquette marrone chiaro, lei sotto di lui, entrambi ansimanti, quasi senza fiato, con la sua erezione che, a ogni colpo, la penetrava sempre più in profondità, gli occhi di lei chiusi per il godimento, Dominik aveva fatto una pausa e si era impresso quel momento nella mente. Immagazzinando ricordi. Chiedendosi se un giorno nel futuro (fra quanto tempo?) avrebbe dovuto risolversi a evocare quella particolare immagine per gratificarsi nel deserto della propria solitudine. Aveva osservato il rossore che si irradiava dal collo fino alla sommità dei piccoli seni di Kathryn, ascoltando i gemiti dei loro amplessi, oscenamente amplificati dalle pareti dell’ufficio vuoto. Gli ansiti che sfuggivano dalle labbra contratte di lei mentre respirava con un ritmo simile a quello di uno staccato musicale. Il velo di sudore sulla sua fronte, un’immagine speculare delle gocce che iniziavano a imperlargli il petto, le braccia, le gambe, tutto il corpo mentre si alzava e si abbassava gioiosamente sopra e dentro di lei. «Oddio» gemette lei. «Sì» concordò Dominik, stabilizzando il ritmo dei suoi affondi, ogni singolo sussurro di Kathryn una resa volontaria alle estreme conseguenze del loro desiderio. Lei chiuse gli occhi e fece un profondo sospiro. «Va tutto bene?» le chiese, rallentando il ritmo, preoccupato. «Sì. Sì…» «Vuoi che faccia più piano? Che sia più delicato?» «No» rispose Kathryn, la voce roca e tesa. «Continua. Ancora. Ti prego.» Dominik cambiò posizione per alleviare la pressione sulle ginocchia, perse l’equilibrio per un attimo e per poco non le cadde addosso; spostando d’istinto le mani avanti in cerca di appoggio, le sfiorò i polsi con le dita. Li strinse. A quel contatto il corpo di lei fu percorso da un sussulto nervoso, quasi elettrico. «Mm…» «Che cosa c’è?» «Oh… niente…» Ma il suo sguardo diceva qualcos’altro. Lei lo fissava negli occhi, esplorando i recessi della sua anima con domande? No, con una richiesta, un’implorazione? Una supplicante inchiodata alla croce della loro scopata. Per tutta risposta, lui le strinse i polsi più forte che poté e le spostò le braccia in alto, sopra la testa, continuando a muoversi dentro di lei, inchiodandola al pavimento come una farfalla nella teca di un entomologo. Adesso lei aveva le guance di un rosso acceso. “Deve farle male” pensò lui, ma i suoi deboli gemiti di piacere sembravano invitarlo ad aumentare la pressione, ad abusare del suo corpo. Lei lo fissò di nuovo, a lungo, senza parlare ma con una richiesta impossibile da equivocare. “Ancora.” Lui le tolse le mani dai polsi sottili, temendo di averle lasciato dei lividi, e gliele fece scorrere lungo le braccia alzate fino a raggiungere la gola e a circondarla come un gioiello, un girocollo stretto. Il battito del cuore di Kathryn – il suo segno vitale – si irradiava dalla superficie della sua pelle alla punta delle dita contratte di lui. Lei fece un respiro profondissimo e gridò: «Più forte». Lui era spaventato e al tempo stesso eccitato; il suo membro duro come il marmo affondato dentro di lei crebbe ancora, enorme, e riempì la cavità morbida e bagnata di Kathryn, mentre le sue dita si stringevano intorno alla gola iniziando a soffocarla. Il viso di lei assunse tutti i colori dell’arcobaleno. Kathryn venne con un grido rauco, un suono quasi mascolino di abominevole trionfo. Quando Dominik allentò la stretta, lei espirò selvaggiamente. Per tutto quel tempo lui aveva continuato a scoparla, sbattendole dentro il cazzo senza tregua come una macchina, impietoso, crudele, sfrenato. Adesso chiuse gli occhi e finalmente si concesse di godere: fu come se tutto il suo corpo esplodesse in una fiammata. Una sensazione elementare. Primitiva. Probabilmente l’orgasmo più intenso che avesse mai avuto. Dopo, fradici di sudore, con gli occhi che già correvano all’orologio pensando all’ultimo treno, lei gli disse: «Sai, mi ero sempre chiesta come fosse… il sesso violento. Sei stato davvero bravo». «Non l’avevo mai provato prima. Certo, ne avevo letto, ma era solo teoria, solo parole, concetti su una pagina.» «Sapevo che avrei potuto fidarmi di te, che non ti saresti spinto troppo oltre.» «Non volevo farti male. Non ti farei mai del male.» Lei gli si era avvicinata, appoggiandogli la testa sulla spalla, e aveva sussurrato: «Lo so». Erano cominciate così settimane di sperimentazione sessuale in cui Kathryn a poco a poco aveva svelato i suoi desideri più segreti, le sue fantasie più profonde, il fuoco interiore che tradiva la sua attitudine alla sottomissione. Non era masochista, nient’affatto, ma la ricerca del dolore, del superamento dei limiti, era inequivocabilmente presente, lo era stata per molti anni, dormiente sotto la patina esterna di educazione e buone maniere, e non aveva mai avuto l’opportunità di liberarsi. Dominik era stato il primo a riconoscere in lei quel tratto e lo aveva istintivamente incanalato nella giusta direzione, dominandola e, così facendo, liberandola. Aveva letto romanzi, conosceva storie, ma questo non era il classico cliché padrone-schiava, dominatoresottomessa. In quella situazione erano coinvolti entrambi e insieme avevano scavato sotto la superficie, strato dopo strato, arrivando alle fondamenta del desiderio e dell’attrazione sessuale. Non c’era alcuna necessità di tutto l’armamentario che un tempo veniva associato a quel nuovo territorio di godimento spinto all’eccesso: il latex, la pelle, gli strumenti barocchi e crudeli. Ormai avevano entrambi aperto gli occhi e Dominik, almeno, sapeva che non sarebbe mai più riuscito a chiuderli. Era stato anche, inevitabilmente, l’inizio della fine della loro relazione clandestina. A ogni passo che li avvicinava all’abisso del non ritorno, a ogni nuova improvvisazione e a ogni movimento che li allontanava dal fiume tranquillo del sesso convenzionale, lui vedeva i semi del dubbio attecchire nella mente di Kathryn. La paura di dove tutto ciò avrebbe potuto portarli. Alla fine Kathryn aveva ceduto al peso della realtà, dell’appartenenza borghese, di una laurea in Letteratura a Cambridge e di un matrimonio noioso con un uomo gentile ma privo di fantasia, e aveva deciso di chiudere. Non si erano mai più parlati ed entrambi avevano fatto in modo di non incontrarsi casualmente a cerimonie o eventi, finché con il marito non si erano trasferiti fuori città e lei si era ritirata dall’insegnamento. Dominik, però, aveva scoperchiato il vaso di Pandora e l’intero vasto mondo si era trasformato in una giungla piena di deliziose tentazioni. E la consapevolezza che con Kathryn aveva raggiunto un’altra dimensione, che nella vita c’erano più cose di quante avesse creduto, non l’avrebbe mai più abbandonato. Per prima cosa Dominik sapeva di dover mettere Summer alla prova, accertandosi della sua disponibilità, della sua propensione a giocare. Aveva già capito che era una che pensava con la propria testa e che non sarebbe stata sensibile a una manipolazione grossolana o al ricatto. Voleva che lei si lanciasse nell’avventura, nell’esperimento, con la piena consapevolezza dei rischi e delle conseguenze. Non stava cercando una marionetta di cui avrebbe potuto manovrare i fili a piacimento, una mera comparsa. Voleva una complice che provasse lo stesso brivido che provava lui. Dalla brevità del loro incontro e dalle molte cose non dette lei doveva aver già capito che il violino era solo un’esca, che quello a cui mirava andava oltre la musica. Forse non un patto con il diavolo – Dominik non si vedeva in quel ruolo machiavellico – ma un gioco in cui entrambi i partecipanti avrebbero potuto giocare l’uno contro l’altro fino alla fine. In realtà lui non aveva la minima idea del fine che voleva raggiungere. Sì, c’era un’oscurità che desiderava sondare, ma non sapeva ancora quanto profonda potesse essere. Telefonò a un conoscente che bazzicava gli ambienti di un conservatorio nella City e poteva rispondere alle sue domande. Sì, c’era un negozio dove avrebbe potuto noleggiare un violino di discreta qualità per un giorno, una settimana o anche un mese e, sì, lui sapeva qual era il posto migliore dove mettere un annuncio rivolto a musicisti classici in cerca di un ingaggio. «Tieni presente che è per una festa molto privata» puntualizzò Dominik. «Potrebbero trovare da ridire sul fatto di essere bendati?» All’altro capo del telefono il suo interlocutore sghignazzò. «Accidenti! Credo che mi piacerebbe essere invitato a questa festa!» commentò. Poi, ritornando serio, aggiunse: «Se conoscono il pezzo che devono suonare e la paga è buona, sono sicuro che potrete raggiungere un accordo soddisfacente. Magari è meglio non citare il particolare della benda nell’annuncio». «Capisco» disse Dominik. «Fammi sapere com’è andata» aggiunse l’altro. «A questo punto sono molto curioso.» «Ti terrò informato, Victor. Promesso.» Il giorno successivo andò al negozio che gli era stato consigliato. Era a metà di Denmark Street, nel West End, vicinissimo a Charing Cross Road. Da fuori, come la maggior parte degli altri negozi della via che un tempo era chiamata Tin Pan Alley, sembrava vendere solo chitarre elettriche, bassi e amplificatori; nella vetrina non erano esposti altri strumenti. Credendo di aver ricevuto un’informazione sbagliata, Dominik entrò nel negozio con una certa esitazione, ma la vista di una grande teca di vetro in cui erano esposti una mezza dozzina di violini lo rassicurò subito. Una ragazza dietro il bancone lo salutò. Aveva capelli corvini, chiaramente tinti, che le arrivavano alla vita, jeans aderenti come una seconda pelle e il viso pesantemente truccato su cui risaltava la bocca scarlatta. Esibiva un vistoso piercing al naso e le sue orecchie erano cariche di orecchini di varie fogge. Per un attimo Dominik si divertì a immaginare gli altri piercing che molto probabilmente aveva. Tra i suoi desideri di sempre c’era quello di scoparsi una donna con un piercing ai genitali, o magari ai capezzoli, ma finora gli era capitato solo un piercing all’ombelico, che purtroppo non si era rivelato abbastanza erotico per i suoi gusti. C’era sicuramente un che di scadente o, meglio, proletario nei piercing all’ombelico. «Mi hanno detto che noleggiate strumenti musicali» disse Dominik. «Esatto, signore.» «Mi serve un violino» spiegò. La ragazza dark indicò la teca di vetro. «Scelga pure.» «Sono tutti a noleggio?» «Sì, ma chiediamo un deposito cauzionale in contanti o con la carta di credito, e un documento di identità.» «Naturalmente» convenne Dominik. Portava sempre con sé il passaporto nella tasca interna della giacca, una vecchia abitudine che non aveva mai perso. «Posso dare un’occhiata più da vicino?» «Certo.» La commessa scelse una chiave tra le tante che pendevano da una catena attaccata al registratore di cassa e aprì la teca. «Non me ne intendo molto di violini, temo. Sto facendo un favore a un’amica. Suona soprattutto musica classica, comunque. Lei ne sa più di me, per caso?» «Non molto. Sono più il tipo da musica rock, elettrica» rispose la ragazza con un sorriso. Le sue labbra risaltavano come fari nella notte. «Capisco. Be’, quale di questi è considerato il migliore?» «Suppongo quello più caro.» «Mi pare sensato» commentò Dominik. «Non è scientifico, comunque» replicò la commessa con un sorriso civettuolo. «Già.» Gli porse uno dei violini. Sembrava vecchio, con il legno arancione brunito dall’uso di generazioni di proprietari precedenti e scintillante sotto le luci al neon del negozio. Dominik prese in mano lo strumento con aria pensierosa. Era molto più leggero di quanto si sarebbe aspettato. Suppose che la sua sonorità dipendesse da chi lo suonava. Per un momento si irritò con se stesso. Avrebbe dovuto farsi dare qualche informazione in più sui violini prima di andare in quel negozio. Doveva essere sembrato un dilettante totale. Passò le dita sul bordo dello strumento. «Lei suona qualcosa?» chiese alla commessa. La T-shirt le era scivolata giù dalla spalla destra e lui occhieggiò un grande tatuaggio. «La chitarra» rispose lei. «Ma da bambina sono stata costretta a prendere lezioni di violoncello. Forse un giorno ricomincerò a suonarlo.» Dalle fantasie sui presunti piercing della ragazza Dominik passò velocemente a un immaginario filmino privato di lei su un palco con il violoncello tra le gambe. Sorrise al pensiero e disse bruscamente: «Prendo questo. Diciamo per una settimana?». «Perfetto» confermò la commessa, tirando fuori un blocchetto e mettendosi a calcolare l’importo del noleggio, mentre Dominik continuava a fissarle la spalla nuda, seguendo con gli occhi i fiori neri, verdi e rossi del tatuaggio e accorgendosi nel frattempo che aveva anche una minuscola lacrima tatuata sotto l’occhio sinistro. Nel negozio c’era un viavai di altri clienti, serviti da un commesso che indossava un abbigliamento dark, in sintonia con quello della collega, ed esibiva un taglio di capelli geometrico e minimalista. Alla fine la ragazza alzò lo sguardo, lanciando un’ultima occhiata alla colonna di numeri. Il violino veniva noleggiato insieme alla sua custodia. Tornato a casa, Dominik appoggiò con cura il costoso strumento su uno dei divani e andò a controllare sul computer le previsioni del tempo per la settimana. Per il primo episodio dell’avventura che aveva in mente avrebbe preferito non essere in un luogo chiuso. Quello sarebbe venuto dopo, quando la prudenza non sarebbe stata mai troppa e gli eventi sarebbero potuti degenerare in esibizioni illecite, se effettuate in pubblico. Le previsioni erano buone. Niente pioggia, perlomeno nei quattro giorni successivi. Mandò a Summer un SMS con il giorno, l’ora e il posto del loro prossimo incontro. La risposta arrivò nel giro di mezz’ora. Lei era libera e ancora disponibile. “Devo portare uno spartito?” si informò. “Non credo. Suonerai Vivaldi.” Su Hampstead Heath – un grande parco pubblico nella zona nord di Londra – splendeva il sole e gli uccelli cinguettavano, mentre sfrecciavano avanti e indietro contro l’orizzonte. Era mattina presto e l’aria era pungente. Summer era uscita dalla metropolitana a Belsize Park e si era incamminata giù per la collina, oltrepassando il Royal Free Hospital, il negozio della catena Marks & Spencer che era stato costruito sul sito di un vecchio cinema, la fila di negozi in South End Road, la bancarella di frutta e verdura vicino all’ingresso della stazione ferroviaria, arrivando infine al parcheggio dove lei e Dominik avevano convenuto di incontrarsi. Era già stata in quel parco alcuni mesi prima con alcuni amici per un picnic durante il weekend. Nel parcheggio c’era solo un’auto, u n a BMW grigio metallizzato, e da lontano lei riconobbe il profilo di Dominik seduto al posto di guida. Stava leggendo un libro. Come da istruzioni, Summer indossava un abito nero – quello di velluto, che le lasciava la schiena scoperta – e per proteggersi dal freddo si era messa il cappotto che non aveva ancora restituito a Charlotte. Lui la vide arrivare, aprì la portiera e rimase ad aspettarla in piedi accanto all’auto, mentre lei camminava con difficoltà sul ghiaino di quel parcheggio municipale improvvisato, che nei giorni festivi ospitava un luna park. Le guardò i piedi, notando i tacchi alti. Le sue scarpe d’ordinanza per le esibizioni. Lui era vestito tutto di nero: maglione a girocollo di cachemire e pantaloni con la piega. «Forse avresti dovuto metterti un paio di stivali» commentò. «Dobbiamo fare un pezzo di strada in mezzo all’erba per raggiungere la nostra destinazione.» «Mi dispiace» disse Summer. «C’è ancora parecchia rugiada a quest’ora del mattino. Ti si bagneranno le scarpe. Può anche darsi che si rovinino. Dovresti togliertele. Vedo che indossi collant o calze. Ti dispiace?» «Nient’affatto. Calze, in realtà.» «Bene.» Dominik sorrise. «Autoreggenti o giarrettiere?» Summer si sentì arrossire. Un pizzico di sfacciataggine la spinse a ribattere: «Tu cosa avresti preferito?». «Una risposta perfetta» commentò Dominik, senza aggiungere altro. Poi aprì la portiera posteriore dell’auto e prese dal sedile una custodia da violino nera e lucida. Summer rabbrividì. Lui premette il telecomando per chiudere la BMW e indicò la vasta distesa erbosa che si estendeva al di là della bassa recinzione del parcheggio. «Seguimi.» Quando arrivarono sull’erba, Summer si tolse le scarpe. Dominik aveva ragione: il terreno era umido e cedevole. Dopo pochi minuti la sensazione divenne abbastanza piacevole. Lui la precedeva, facendo strada. Oltrepassarono gli stagni, attraversarono un ponticello che dava sulla zona dei laghetti balneabili e risalirono un sentiero. A quel punto lei dovette rimettersi le scarpe perché i ciottoli le si conficcavano dolorosamente nelle piante dei piedi. La sensazione del nylon bagnato delle calze contro il cuoio duro delle scarpe era sgradevole, ma presto arrivarono a un’altra distesa erbosa e lei si sfilò di nuovo le scarpe tenendole per il cinturino in una mano e seguendo Dominik, che camminava a passo sostenuto e deciso. Si chiese dove fossero diretti. Non conosceva quella zona del parco, ma per qualche ragione si fidava di quell’uomo. Una sensazione istintiva. Non credeva che lui la stesse attirando in qualche oscuro recesso dei boschi per approfittarsi di lei. Il pensiero di una simile eventualità non la preoccupava affatto. Per qualche centinaio di metri la chioma degli alberi nascose l’azzurro del cielo e il calore del sole, poi furono di nuovo alla luce. Uno spiazzo circolare completamente aperto. Una distesa infinita di verde, come un’isola che emerge da un mare agitato, un lieve pendio e, in cima, un padiglione per l’orchestra. Il ferro battuto foggiato in un antiquato stile vittoriano e le colonnine punteggiate qua e là di ruggine si affacciavano su una distesa meravigliosamente deserta. Summer trattenne il fiato. Era bellissimo, davvero, un posto perfetto, stranamente deserto e misterioso. Adesso capiva perché lui aveva scelto quell’ora del mattino. Non ci sarebbero stati spettatori, o comunque pochissimi, a meno che il suono del violino non avesse cominciato ad attirare qualcuno da altre zone del parco. Dominik fece un inchino e indicò la struttura. «Eccoci arrivati.» Le porse la custodia del violino e lei salì i gradini di pietra che conducevano al palco. Dominik si sistemò in un angolo, appoggiandosi con noncuranza a una delle colonnine di metallo. Summer provò un fugace moto di ribellione. Perché stava obbedendo ai dannati ordini di quell’uomo, mostrandosi così docile e sottomessa? Una parte di lei avrebbe voluto puntare i piedi e dire: “No” o “Scordatelo”, ma un’altra parte, di cui non conosceva l’esistenza fino a poco tempo prima, le sussurrò seducente all’orecchio di stare al gioco. “Di’ di sì.” Si paralizzò. Poi si riscosse, si portò al centro del palco e aprì la custodia del violino. Lo strumento sembrava magnifico, molto meglio del suo vecchio violino ormai distrutto. Mentre percorreva avidamente con le dita il legno brunito, il manico, le corde, colse lo sguardo di lui. «È solo uno strumento provvisorio» disse Dominik. «Quando avremo definito le cose con reciproca soddisfazione, ti procurerò un violino definitivo, di qualità migliore.» In quel momento Summer non riusciva a immaginare di poter tenere tra le mani uno strumento migliore di quello. Il peso, l’equilibrio, le curve… tutto sembrava assolutamente perfetto. «Suona per me» le ordinò. Lei si sfilò il cappotto, lasciandolo cadere a terra. A quel punto il freddo mattutino sulla sua schiena nuda era solo una brezza gentile mentre lei prendeva posizione, dimentica del posto in cui si trovava, di quell’innaturale isolamento, dei sottintesi della relazione – sì, sapeva che sarebbe diventata una relazione – con quell’uomo intrigante e pericoloso. Si chinò in avanti per prendere l’archetto dalla custodia che aveva appoggiato sul pavimento, permettendo a Dominik – lo sapeva benissimo – di cogliere il movimento del suo seno sotto la stoffa. Non metteva mai il reggiseno con il vestito nero. Summer gli lanciò un’occhiata – lui se ne stava lì, in paziente attesa, il volto imperturbabile – e poi iniziò ad accordare il violino. Aveva un suono così pieno e ricco che si propagò per tutto il padiglione, mentre ogni nota fluttuava verso il soffitto della struttura e si riverberava come un’eco silenziosa. Poi cominciò a suonare Vivaldi. Ormai conosceva a memoria quei quattro concerti. Erano il suo pezzo forte sia quando si esibiva in strada o davanti agli amici sia quando si esercitava. La musica vecchia di secoli faceva cantare il suo cuore e, mentre la suonava, gli occhi sempre chiusi, poteva evocare i paesaggi del Rinascimento italiano che aveva visto in così tanti quadri, il dispiegarsi della vita della natura e degli elementi. Stranamente quei sogni a occhi aperti ispirati da Vivaldi erano popolati da poche persone, anche se lei non si era mai preoccupata di trovare una spiegazione per quel fatto bizzarro, quell’omissione dal sapore freudiano. Il tempo si fermò. I suoni che uscivano in quel momento dal violino erano davvero stupendi e Summer sentì che stava scoprendo una nuova e finora inesplorata dimensione della musica. Non aveva mai suonato così bene, rilassata, trovando la verità al centro della melodia, cavalcandone l’onda, lasciandosi risucchiare dal suo vortice. Era bello quasi quanto il sesso. Quando iniziò il terzo concerto, aprì brevemente gli occhi per guardare Dominik. Era sempre lì, nello stesso posto, immobile, pensieroso, gli occhi ipnoticamente fissi su di lei. Si ricordò che una volta qualcuno le aveva detto che la forma del suo corpo ricordava quella del violino: vita stretta, fianchi generosi. Era questo che lui stava vedendo sotto la stoffa del vestito di velluto nero? Notò un gruppetto di passanti ai margini della radura, senza dubbio attirati da quella musica. Spettatori anonimi. Fece un respiro profondo, gratificata e al tempo stesso contrariata dal fatto che non fosse più un’esibizione per una sola persona. Terminò l’esecuzione del terzo concerto e smise di suonare. L’incantesimo si era rotto. Un paio di donne in tenuta da jogging applaudirono da lontano. Un uomo risalì in sella alla bici e riprese il suo giro nel parco. Dominik tossì con discrezione. «Il quarto concerto è tecnicamente un po’ più difficile» si giustificò Summer. «Non sono sicura di riuscire a suonarlo bene senza lo spartito» spiegò. «Nessun problema» disse Dominik. Summer aspettava il suo giudizio. Lui continuava a fissarla. Su di lei iniziò a scendere un pesante silenzio. Sentì il freddo del mattino morderle la pelle nuda. Rabbrividì. Lui non reagì. Dominik non le staccò gli occhi di dosso, mentre lei diventava sempre più nervosa. La musica e la sua esecuzione erano state sublimi: esattamente come aveva sperato. Portarla lì a suonare era stata un’idea brillante e l’assolo gli aveva suscitato una serie di potenti emozioni, un senso di connessione estremamente intimo. Adesso avrebbe voluto sapere come sarebbe stata la sensazione della pelle di lei, la curva morbida delle sue spalle sotto le sue dita, a contatto con la sua lingua, i milioni di segreti celati da quel vestito. Riusciva già a immaginare la forma del suo corpo. Aveva sempre rimpianto di non aver imparato a leggere la musica o a suonare uno strumento quando era più giovane, e sapeva che adesso sarebbe stato troppo tardi per cominciare, eppure sentiva che Summer era uno strumento che lui avrebbe potuto suonare per ore. E l’avrebbe fatto. «È stato bellissimo.» «Grazie, gentile signore.» Lei non poté trattenersi dal prenderlo in giro. Forse perché in quel momento era sommamente felice. Dominik si accigliò. Aveva notato il sollievo sul volto di Summer quando le aveva comunicato il proprio verdetto, ma lei era ancora tesa: lo intuiva dalla posizione delle spalle e dalla mascella contratta. Forse sapeva che quello era solo l’inizio. Che ci sarebbe stato altro. «Avrai il violino» le disse. «Sei sicuro che non posso tenere questo?» protestò lei, accarezzando il lungo manico liscio con fare possessivo. «È meraviglioso.» «Non ne dubito, ma, come ho detto, te ne troverò uno migliore. Te lo meriti.» «Davvero?» «Sì.» Il tono era deciso. Dominik non avrebbe accettato ulteriori discussioni. Si avvicinò a Summer, raccolse da terra il cappotto e l’aiutò a indossarlo. Poi tornarono all’auto, dove lei gli restituì il violino. Avrebbe avuto moltissime domande da fargli, ma non sapeva da dove cominciare. Lui le indicò il sedile del passeggero. «Siediti accanto a me» le ordinò. Lei obbedì. Aveva temuto che l’interno dell’auto puzzasse di tabacco – Dominik aveva l’aria del fumatore – ma non era così. C’era un odore lievemente muschiato, ma non sgradevole. Dominik avvertì la sua vicinanza mentre si sedeva al volante. Lei non sapeva più di cannella e l’unico odore che lui riuscì a distinguere fu un vago sentore del sapone con cui doveva essersi lavata quella mattina. Dolce, pulito, rassicurante. Percepiva il calore del suo corpo irradiarsi da sotto il cappotto. «La prossima volta che suonerai per me, avrai il tuo violino, quello che adesso andrò a cercarti, uno strumento che ti si adatterà come un guanto, Summer. Il prezzo non è un problema» disse. «Okay» replicò lei. «Adesso parlami della tua prima volta con un uomo, del sesso.» Per un attimo Summer sembrò colta alla sprovvista dalla brutalità della domanda e Dominik pensò di essersi sbagliato: forse lei non avrebbe retto il suo gioco. Summer tacque, raccogliendo i pensieri e i ricordi. In fondo, per quanto in un modo inconsueto, era già intima con quell’uomo e non avrebbe avuto senso tirarsi indietro adesso. Il parabrezza dell’auto si stava appannando e Dominik accese l’aria condizionata. Lei gli raccontò la sua prima volta. Lo strumento era stato costruito da un certo Pierre Bailly a Parigi nel 1900 e gli costò una cifra esorbitante. Aveva attirato la sua attenzione sul catalogo di un rivenditore specializzato. Il colore del legno virava verso il giallo più che verso l’arancione o il marrone, una sfumatura riposante che evocava serenità e pazienza, ma che in realtà custodiva più di un secolo di melodie ed esperienza. Il proprietario del piccolo negozio nella Burlington Arcade rimase sorpreso che Dominik non volesse suonarlo prima di acquistarlo e, sulle prime, sembrò non credergli quando lui gli spiegò che lo comprava per una conoscente. Sapeva di avere le dita lunghe, dita da musicista – glielo avevano fatto notare molti amici e molte donne che aveva conosciuto – ma aveva forse l’aria di uno che suonava? Il violino, poi! Il costoso strumento aveva un certificato di provenienza che elencava tutti coloro che l’avevano posseduto negli ultimi centododici anni. Erano stati solo cinque, perlopiù con nomi stranieri che evocavano un passato di guerre e migrazioni continentali. L’ultima proprietaria si chiamava Edwina Christiansen. Dopo la sua morte, gli spiegò il proprietario del negozio, gli eredi avevano venduto il violino all’asta, dove lui lo aveva acquistato insieme ad altri oggetti di minor valore. Quando Dominik gli chiese se fosse in grado di fornirgli ulteriori informazioni sulla defunta Miss Christiansen, l’uomo rispose di no. Il violino Bailly non era provvisto di custodia e Dominik ne ordinò una online, nuova di zecca, perché aveva la sensazione che per Summer sarebbe stato meglio non far sapere a tutti che possedeva uno strumento prezioso portandolo in giro in una custodia visibilmente antica. Dominik era sempre stato un tipo molto pratico, oltre che prudente. Quando la custodia arrivò, lui trasferì il violino nella sua nuova dimora e lo imballò con cura prima di affidarlo a un corriere che l’avrebbe recapitato a Summer Zahova nell’appartamento che condivideva con altre persone nell’East End. Le istruzioni erano chiare: lei avrebbe dovuto firmare personalmente la ricevuta. La avvertì dell’imminente consegna e le chiese di avvertirlo, una volta avvenuta. Ricevette da Summer un SMS di una sola parola: “Bellissimo”. Nella lettera che accompagnava il prezioso pacco Dominik la esortava a esercitarsi il più possibile, fino al momento in cui le avrebbe chiesto di suonare di nuovo per lui, e le vietava di esibirsi in pubblico, per il momento, e meno che mai nella metropolitana. Adesso lui doveva procedere con l’organizzazione della parte successiva del piano. Il suo annuncio nella bacheca del conservatorio dedicata agli ingaggi richiedeva tre musicisti, preferibilmente sotto i trent’anni, abituati a suonare in un quartetto d’archi e disponibili per un’unica esibizione in una cornice insolita e con pochissimo tempo per le prove. La discrezione sarebbe stata adeguatamente ricompensata. Si chiedeva di allegare alla propria candidatura anche una foto. Solo una delle risposte che ricevette presentava tutti i requisiti: un gruppo di studenti del secondo anno che si era esibito per tutto il primo anno come quartetto, ma al quale adesso mancava un membro, la seconda violinista, tornata poche settimane prima nella natia Lituania. I due maschi, che suonavano uno il violino e l’altro la viola, erano presentabili, mentre la violoncellista, una giovane con una massa di riccioli biondi, era decisamente carina. Tutte le altre candidature erano di solisti che avevano suonato raramente insieme ad altri, per cui la scelta si rivelò piuttosto facile. Prima di organizzare un colloquio formale con i tre studenti selezionati, Dominik mandò loro il questionario preparato per l’occasione e, dopo aver ricevuto tutte risposte positive, come si era aspettato (visto il sostanzioso compenso che poteva offrire), fece in modo di parlare con loro su Skype, ponendo le ultime domande e valutando le reazioni ad alcune delle richieste più insolite. Avrebbero dovuto vestirsi completamente di nero e fare una rapida prova con il quarto musicista; per l’esibizione vera e propria, inoltre, sarebbero stati bendati. Avrebbero firmato un documento che li avrebbe costretti al pagamento di una penale nel caso in cui avessero lasciato trapelare informazioni sul concerto privato che avrebbero tenuto. Non avrebbero più dovuto cercare di mettersi in contatto né con lui né con il quarto membro del quartetto dopo l’esibizione. Tutti e tre i musicisti rimasero sconcertati da quella proposta, ma il compenso economico bastò a fugare i loro dubbi. La violoncellista suggerì a Domink un posto che avrebbe potuto essere affittato per l’occasione, la cripta di una chiesa sconsacrata dove l’acustica era perfetta per gli strumenti ad arco e che “garantisce totale privacy per qualunque cosa lei abbia in mente”. Sembrava quasi sapere che casa sua non era adatta allo scopo. Come aveva fatto a intuire che cosa aveva in mente? si chiese, notando una scintilla di divertimento negli occhi della giovane bionda. Fu scelto il repertorio e lui prese nota dei dati dei tre musicisti prima di concludere la chiamata. Adesso che era tutto a posto, poteva decidere la data. Prese il telefono. «Summer?» «Sì.» «Sono Dominik. Suonerai di nuovo per me la settimana prossima» la informò, precisando il luogo e l’ora. Le fece, inoltre, sapere che cosa avrebbe suonato e aggiunse che avrebbe fatto parte di un quartetto e che avrebbe potuto provare per due ore insieme agli altri prima del concerto privato. «Due ore non sono molte» gli fece notare lei. «Lo so, ma è un pezzo che gli altri tre conoscono bene, il che renderà le cose un po’ più facili.» «Okay» accettò Summer. Poi aggiunse: «Il Bailly sarà divino in una cripta». «Non ne dubito» disse Dominik. «E…» «E?» «Suonerai nuda.» 5 Una ragazza e i suoi ricordi Dominik mi aveva chiesto di raccontargli della mia prima volta. In seguito, ripensandoci, mi parve strano che avessi accettato di parlargliene, ma suonare le Quattro stagioni mi aveva fatta precipitare in uno stato onirico, come sempre. Diedi la colpa a questo. Ecco ciò che gli raccontai. «Ho fatto le mie prime esperienze sessuali da sola. Masturbandomi. Ho cominciato da piccola. Prima delle mie amiche, credo, anche se non ne ho mai parlato con nessuno. Mi vergognavo sempre un po’. In realtà, non sapevo quello che stavo facendo. Non venivo neanche, perlomeno i primi anni. «Quando suono, come forse hai notato, la musica mi induce una sorta di trance, per cui a un certo punto mi isolo in un mondo che è solo mio. Non appena smetto, però, tutto torna a sommergermi come un’onda di piena. Vedi, suonare il violino ha sempre avuto un effetto fisico su di me, una specie di sfogo, ma al contempo sembra acuirmi i sensi.» Lanciai un’occhiata a Dominik, per sondare le sue reazioni. Aveva abbassato lo schienale del sedile e stava sdraiato, rilassato. Mi sdraiai anch’io, inalando il profumo della sua auto, un odore di pulito e di fresco che tendevo ad associare ai proprietari delle BMW. L’interno della macchina era immacolato, privo di personalità: nessuna traccia di uno spuntino consumato di recente, della fondina di una pistola o di involucri sospetti, solo il libro che stava leggendo posato sul cruscotto. Dominik non mi guardò, si limitò a fissare davanti a sé. Aveva l’aria di chi è completamente a proprio agio, come se fosse immerso nella meditazione. Nonostante la stranezza della situazione, la sua reazione, o piuttosto la mancanza di reazioni, mi tranquillizzò. Stavo rivelando segreti che non avevo mai confidato a nessuno, ma il modo in cui lui si confondeva con l’auto mi dava quasi l’impressione di parlare a me stessa. Proseguii. «Talvolta suonavo nuda, con la finestra aperta, godendomi l’aria fredda sulla pelle. Lasciavo le luci accese e le tende aperte, immaginando che i vicini potessero vedermi suonare il violino senza niente addosso. Se mi hanno vista, non ne hanno mai fatto cenno. «La cosa andò avanti per un po’ e io finii per passare così tanto tempo da sola che, quando iniziai il liceo, mia madre si preoccupò che potessi diventare paranoica e ossessiva, e cercò di indurmi a praticare uno sport scolastico o a frequentare un corso di teatro. Voleva che facessi qualcosa di “normale”. Litigammo e alla fine fu lei a spuntarla, anche se mi concesse di scegliere lo sport a cui dedicarmi. «Optai per il nuoto, soprattutto per farle un dispetto, perché sapevo che avrebbe voluto qualcosa di più “sociale”, come l’hockey o il netball, ma io vinsi quel round sostenendo che braccia più forti mi sarebbero state utili per suonare il violino.» Dominik fece un sorrisetto mentre gli raccontavo quel particolare, ma rimase in silenzio, aspettando pazientemente che proseguissi. «Scoprii che nuotare mi faceva praticamente lo stesso effetto che suonare il violino. Mi piacevano la sensazione dell’acqua e il modo in cui il tempo scompariva, una bracciata dopo l’altra. Non sono mai stata molto veloce, ma avrei potuto nuotare all’infinito. Nuotavo così a lungo e con tale facilità che il mio istruttore doveva darmi un colpetto sulla spalla per dirmi che l’allenamento era finito e potevo andare a casa. «Era un bel ragazzo ed era stato campione regionale quando andava alle superiori. Aveva smesso di gareggiare nel momento in cui aveva cessato di vincere. Era diventato istruttore, ma aveva ancora il fisico del campione. Indossava la tenuta regolamentare da bagnino: pantaloncini corti, T-shirt e fischietto per darsi un tono. Io perlopiù lo ignoravo. Pensavo che si desse un po’ troppe arie e che la cosa, in qualche modo, non gli si addicesse. Era come se stesse recitando una parte. Tutte le altre ragazze gli sbavavano dietro. Non so quanti anni avesse. Era più grande di me, comunque. «Alla fine, è stato lui. Il mio istruttore di nuoto. La mia prima volta.» Lanciai un’altra occhiata a Dominik. La sua espressione era impassibile, divertita. «Continua» disse. «Un pomeriggio lui non mi fermò. Mi lasciò continuare a nuotare. Dopo non so quante vasche mi resi conto all’improvviso che stava facendo buio e che ero rimasta sola nella piscina. Tutti gli altri se n’erano andati. Quando uscii dalla vasca, lui mi disse che voleva vedere se avrei continuato a nuotare finché non mi avesse fermata. «Presi l’asciugamano e mi diressi negli spogliatoi, e quando iniziai ad asciugarmi mi resi conto che ero… be’… eccitata. In realtà non riuscivo a capire bene che cosa fosse, ma era una sensazione così forte che non potei aspettare di arrivare a casa. Mi stavo toccando quando mi accorsi che lui mi osservava dalla porta dello spogliatoio. Forse mi ero dimenticata di chiuderla. «Non mi fermai. Avrei dovuto farlo, immagino, ma il modo in cui lui mi guardava… Continuai a toccarmi. E fu la prima volta che ebbi un orgasmo. Mentre lui mi guardava. «Poi, dopo avermi vista godere, entrò nello spogliatoio. E quando tirò fuori l’uccello non riuscii a smettere di guardarlo. «“Non ne avevi mai visto uno, vero?” mi disse. «Risposi di no. «Poi mi chiese se mi sarebbe piaciuto sentirlo dentro, e io dissi di sì.» Mi girai verso Dominik, per vedere se voleva che continuassi. Lui si riscosse dalle sue fantasticherie quasi subito. «Bene» disse, riportando il sedile in posizione verticale. «Questo è tutto ciò che volevo sapere. Un’altra volta, magari, potrai raccontarmi i particolari.» «Certo» ribattei e armeggiai con la leva per riportare anche il mio sedile in posizione verticale. Forse il fatto di raccontare la mia storia a quell’uomo avrebbe dovuto mettermi a disagio, ma non fu così. Anzi, mi sentivo più leggera dopo aver affidato a Dominik il peso di segreti passati. «Dove vuoi che ti accompagni?» «Alla stazione della metropolitana va benissimo, grazie.» «Perfetto.» Ero disposta a raccontare a Dominik i dettagli della mia vita sessuale, ma non a fargli vedere dove abitavo, e comunque non ero ancora sicura che lui volesse saperlo. Non avrei più dovuto preoccuparmi di difendere la mia privacy con lui. Nel giro di una settimana mi aveva chiesto l’indirizzo di casa e mi aveva indicato una data e un’ora in cui avrei dovuto farmi trovare nell’appartamento per firmare la ricevuta di un pacco. Prima di dirgli dove abitavo, esitai. A parte il tizio che consegnava le pizze nella via, sarebbe stato l’unico uomo di Londra ad avere i miei dati personali. Lui, però, doveva spedirmi qualcosa e se mi fossi rifiutata di dargli il mio recapito sarei sembrata sgarbata o paranoica. Il pacco, come mi aspettavo, era il violino che mi aveva promesso. Data la qualità dello strumento provvisorio che mi aveva fornito per il concerto di Vivaldi al parco, pensavo che avrebbe scelto qualcosa di bello, ma non mi sarei mai immaginata uno strumento di tale splendore. Era un Bailly di prim’ordine, il legno di un giallo caldo, quasi caramello, il colore di un vasetto di miele di manuka osservato controluce. Mi fece venire in mente la Nuova Zelanda, le sfumature dorate del fiume Waihou quando il sole si riflette sulla sua superficie. Secondo il certificato accluso, l’ultima proprietaria era stata una certa Miss Edwina Christiansen. Curiosa come sempre delle storie riguardanti i miei violini, cercai informazioni su Google, ma non trovai niente. Oh, be’, la mia immaginazione avrebbe avuto di che sbizzarrirsi. La custodia era nuovissima, nera con la fodera di velluto rosso scuro. Un po’ morbosa per i miei gusti, e per niente intonata al colore caldo del Bailly, ma Dominik sembrava un tipo sveglio e non romantico nel senso deteriore del termine, così supposi che quella custodia fosse solo un modo per mascherare il valore di ciò che conteneva. C’era una lettera di istruzioni allegata: avrei dovuto fargli sapere di aver ricevuto il violino e poi esercitarmi il più possibile, ma senza esibirmi in pubblico. E avrei dovuto aspettare ulteriori istruzioni. Esercitarmi e aspettare. Esercitarmi con il Bailly era una gioia. Lo strumento mi si adattava alla perfezione, come se il mio corpo si fosse trasformato per accoglierlo. Avevo chiesto un periodo di aspettativa agli organizzatori delle esibizioni in strada e loro, viste le circostanze – la rissa in cui ero rimasta coinvolta in metropolitana – si erano mostrati molto comprensivi. Suonavo il Bailly tutto il giorno, meglio di quanto avessi mai suonato prima; la musica usciva dalle mie dita come se fosse intrappolata dentro di me e il violino di Dominik fosse la chiave per liberarla. Aspettare era tutt’altra cosa. Sono paziente per natura e ho sempre preferito gli sport di resistenza. Tuttavia, avrei voluto sapere in che cosa esattamente mi stavo impegnando. Ero convinta che nessuno desse niente per niente, perciò presumevo che Dominik volesse un ritorno dal suo investimento; decisi, così, di considerare il violino un prestito anziché un regalo, almeno finché non avessi capito i termini di pagamento. Lui aveva proposto un accordo di reciproca soddisfazione, non di fare di me la sua mantenuta. L’avrei respinto senza esitazione se l’avesse fatto. Eppure, finché non sapevo che cosa voleva, non potevo decidere se gliel’avrei concesso oppure no. Non ero in cerca di una nuova relazione, non così presto dopo Darren. Speravo di rimanere single per un po’. E Dominik non sembrava un uomo in cerca di una ragazza. Era riservato, solitario; non aveva l’aria disperata di chi va a caccia di una partner. Ripensai al suo contatto iniziale via mail. Un po’ da imbranato, forse, uno con una ricca collezione di porno artistici sul PC, ma non il tipo con un profilo su un sito per cuori solitari. Se non voleva uscire con me, che cosa voleva? Guardai di nuovo il violino, feci scorrere le dita sulla curva aggraziata del manico e immaginai che dovesse costare una cifra nell’ordine delle decine di migliaia di sterline. A fronte di un simile investimento che genere di ritorno, e di quale entità, si aspettava Dominik? Che cosa avrebbe soddisfatto un uomo simile? Il sesso? Era la risposta più ovvia. Ma, pensai, non quella giusta. Un uomo alla ricerca del sesso si sarebbe limitato a invitarmi a cena. Un mecenate desideroso di sostenere una giovane musicista senza mezzi mi avrebbe mandato il violino senza tutto quello sfoggio di teatralità. L’approccio di Dominik nascondeva qualcos’altro. Lui non aveva l’aria dello psicopatico, ma sembrava godere del gioco che stava facendo, qualunque esso fosse. Mi chiesi se avesse in mente uno scopo, un fine partita, oppure se fosse solo ricco e annoiato. Avrei potuto restituire il violino, ovviamente, e forse sarebbe stata la cosa giusta da fare. Ma non era solo lo strumento a interessarmi; in realtà, ero curiosa. Quale sarebbe stata la prossima mossa di Dominik? Pochi giorni dopo squillò il telefono. Lui parlò prima che avessi la possibilità di dire “pronto”. In altre circostanze la cosa mi avrebbe dato fastidio, ma questa volta decisi di starlo a sentire. «Summer?» «Sì.» Mi informò freddamente che avrei suonato per lui la settimana successiva, nel pomeriggio. Il Quartetto per archi n. 1 di Bedřich Smetana, fortunatamente un pezzo che mi piaceva e mi era abbastanza familiare, dato che era uno dei preferiti di Mr Van der Vliet. Mi sarei esibita insieme ad altri tre musicisti che conoscevano benissimo quel brano, poiché a quanto pareva il violinista e il violista l’avevano eseguito varie volte. Non avrei dovuto preoccuparmi per la mia privacy o per la discrezione degli altri membri del quartetto, dal momento che si erano impegnati a non rivelare alcun particolare di quell’evento. Il che era una fortuna, visto che avrei suonato nuda. Ai miei colleghi musicisti sarebbe stato chiesto di bendarsi gli occhi prima che io mi spogliassi, per cui Dominik sarebbe stato il solo a vedermi nuda. Non appena ebbe finito di parlare, mi sentii invadere da un’ondata di calore. Avrei dovuto rifiutare, immaginai ancora una volta. Mi aveva appena chiesto di punto in bianco di spogliarmi di fronte a lui. Ma se gli avessi detto di no, non avrei mai saputo che cos’aveva in mente. E poi, pensai oziosamente, in fondo quello sarebbe stato il nostro terzo appuntamento. Visto che talvolta finivo a letto con un uomo al primo appuntamento, non faceva poi tanta differenza, a parte il fatto che avevo accettato in anticipo. Avevo accettato? Dominik non aveva detto che voleva scoparmi. Forse voleva solo guardarmi. Il pensiero mi stuzzicò parecchio, e nonostante tutti i miei sforzi per ignorare la sensazione scoprii di essere eccitata e bagnata. D’altronde, non c’era da stupirsi: ero così stravolta dalla perdita del violino e da tutti gli eventi che ne erano conseguiti che non avevo avuto il tempo di vedere nessuno. Non scopavo dall’ultima volta con Darren. Però mi dava fastidio il pensiero che Dominik avesse questo effetto. Gli dava un vantaggio su di me in qualunque trattativa avesse in mente di condurre. Nuda, con lui che mi guardava, temevo che avrebbe capito l’effetto che mi faceva. Dopo le rivelazioni in auto, quel giorno ad Hampstead Heath, dubitavo che ne sarebbe rimasto sorpreso. Probabilmente stavo per offrirgli proprio la reazione che si aspettava. Se quello doveva essere uno scontro di volontà, allora gli avevo fornito tutte le munizioni di cui aveva bisogno. Una settimana dopo mi recai nel posto indicatomi da Dominik, una cripta privata in Central London. Non la conoscevo, ma non mi stupii che esistesse un luogo simile. Londra è una città piena di sorprese. Lui mi aveva dato l’indirizzo quando mi aveva telefonato, consigliandomi di non andare a vederla prima per non rovinare la spontaneità dell’esibizione. Avevo preso in considerazione di andarci lo stesso, ma mi sentivo stranamente obbligata a seguire le sue istruzioni alla lettera. Aveva comprato il violino e in fin dei conti quello era il suo concerto. La cripta era nascosta in una via laterale: l’unico indizio della sua esistenza era una piccola targa di ottone sullo stipite sinistro di una porta di legno. Spinsi il battente con circospezione ed entrai, scoprendo una ripida scala che si immergeva in una pozza di oscurità. Poco prima mi ero tolta le scarpe basse e avevo indossato quelle con il tacco, e adesso inciampai sui gradini di pietra sconnessi, persi l’equilibrio e per poco non ruzzolai in fondo alle scale, mentre cercavo invano un corrimano sulla parete alla mia destra. Mi si fermò il respiro in gola. Non si trattava di paura, anche se il buonsenso diceva che avrei dovuto essere nervosa, che avrei dovuto dire a qualcuno dove andavo, fare in modo che un’amica mi telefonasse a un’ora stabilita. Ma non avevo parlato con nessuno del Bailly né della cripta, nemmeno con Charlotte. Questa svolta nella mia vita sembrava troppo strana perché potessi condividerla con qualcuno. Inoltre, pensai stringendomi nelle spalle, se Dominik avesse voluto uccidermi aveva già avuto più di un’occasione per farlo. La stretta allo stomaco e il battito accelerato non erano imputabili solo al nervosismo. Ero eccitata. Suonare con tre musicisti nuovi sarebbe stata una sfida, questo era certo, ma avevo provato il pezzo fino a poterlo eseguire al meglio in qualunque circostanza. E sapevo che Dominik non avrebbe tratto alcun piacere da un pomeriggio che non si fosse svolto come lui voleva. Qualunque cosa avesse in serbo, ero certa che avesse pianificato ogni dettaglio – inclusa la mia esibizione – in modo da ottenere la perfezione. C’era, poi, la faccenda della mia nudità, ovviamente, ma il pensiero di suonare nuda per Dominik in realtà mi eccitava più di quanto mi infastidisse. Ero sempre stata un po’ esibizionista, un’informazione che lui aveva evidentemente ricavato dal racconto della mia prima esperienza sessuale e di cui aveva fatto tesoro. Eppure ero ancora un po’ reticente, in parte, immaginavo, per il pensiero di mostrarmi svestita in pubblico. Mi piaceva camminare nuda per casa, ma spogliarmi deliberatamente per un estraneo era tutt’altra cosa. Non ero sicura di riuscire ad affrontarla. Ero combattuta. Se mi fossi rifiutata, gli avrei fatto capire che mi aveva turbata, che mi aveva irritata; ma se avessi accettato, lui avrebbe avuto il coltello dalla parte del manico. E poi, in un angolo della mente, c’era un pensiero di cui non riuscivo a liberarmi: tutta quella situazione mi eccitava sessualmente. Ma perché? Che cosa c’era che non andava in me? Decisi di prepararmi perlomeno all’eventualità di dovermi togliere i vestiti. Poi, quando sarebbe arrivato il momento di farlo davvero, avrei valutato la situazione. Mi ero preparata con impegno per l’evento, non solo dal punto di vista musicale. Quella mattina mi ero fatta la doccia con calma, mi ero accuratamente depilata le gambe e poi avevo fatto una riflessione sulla zona inguinale. Radermi o non radermi? Questo era il dilemma. Darren mi preferiva completamente rasata, motivo per cui, in un piccolo gesto di ribellione, mi ero fatta ricrescere i peli. Tanto, difficilmente lui avrebbe avuto ancora occasione di indugiare tra le mie gambe. Dominik che cosa avrebbe preferito? mi ero chiesta. Era un uomo insolito, che fino a quel momento aveva mostrato una predilezione per l’opulenza, per i dettagli, e sospettavo che i suoi gusti sessuali propendessero per l’esotico. Forse i peli gli sarebbero piaciuti. Il lieve odore muschiato, la copertura. La mia mente si perse in meandri oscuri, pensieri che il buonsenso richiamò subito indietro. Mi affrettai ad allontanare quelle fantasie. Dominik aveva già avuto più di un’occasione di guardarmi nell’anima. Per fortuna, gli altri membri del quartetto sarebbero stati bendati e non avrebbero potuto assistere a quello spettacolo. Alla fine avevo stabilito di dare solo una spuntatina ai peli, decidendo di mantenere un ultimo schermo a difesa della mia privacy, appena un centimetro o due. Non sarei rimasta completamente nuda sotto lo sguardo di quell’uomo, non ancora. Lentamente arrivai in fondo alla scala, trovai un’altra porta di legno e l’aprii. Fui subito investita dall’aria pesante e dolciastra che aleggiava all’interno della cripta ed ebbi l’impressione di trovarmi in un sepolcro sotterraneo. La stanza era alta, ma stretta e il soffitto ad archi dava una claustrofobica sensazione di chiuso. Ripensai al dungeon del club fetish dov’ero stata con Charlotte. Questa cripta rispondeva meglio all’idea che mi ero fatta di una segreta. Le pareti erano illuminate da una fioca luce elettrica che contrastava singolarmente con l’atmosfera antica del luogo, e c’era un odore di candele accese da poco. Faceva piuttosto freddo, anche se ero sicura che là dove c’era un interruttore della luce doveva esserci anche un sistema di riscaldamento. Forse Dominik aveva ordinato di spegnerlo perché l’ambiente sembrasse più autentico. O forse voleva vedere la reazione della mia pelle a contatto con l’aria fredda. Strinsi forte la custodia del Bailly e respinsi quel pensiero. Vidi i tre musicisti sulla pedana centrale leggermente rialzata e mi diressi verso di loro, con i tacchi che battevano sul pavimento di pietra e rimandavano echi musicali. All’improvviso il mio nervosismo si trasformò in gioia: l’acustica era davvero incredibile e il Bailly sarebbe risuonato in modo straordinario lì sotto. Ben presto Dominik avrebbe assistito al concerto della sua vita. Almeno quello potevo garantirlo. Come previsto, di lui non c’era traccia. Mi presentai agli altri musicisti e sulle prime la conversazione stentò a decollare: la situazione era assolutamente fuori dell’ordinario per tutti. Indossavano abiti neri, camicie bianche immacolate e papillon neri. Due di loro, il violinista e il violista, erano soggetti piuttosto silenziosi. La violoncellista, che disse di chiamarsi Lauralynn, sembrava la leader del gruppo e parlò per tutti e tre. Era sicura di sé, ma non arrogante. Americana, di New York, era a Londra per studiare musica. Era alta, con le gambe lunghe e un’aria da amazzone, vestita come gli uomini, con camicia e papillon, ma indossava una marsina corta, tagliata in modo da mettere in risalto la vita e i fianchi. Con la criniera di capelli biondi e i lineamenti delicati, era un curioso mix di virilità e femminilità, ed era molto attraente. «Così conosci Dominik?» mi informai. «E tu?» ribatté evasiva. La fugace espressione di divertita malizia che le passò sul volto mi fece pensare che Dominik le avesse rivelato più cose di quelle che aveva detto a me riguardo al suo piano, anche se lei continuava a eludere tutte le mie domande. Alla fine, smisi di chiedere e mi decisi a cominciare le prove del concerto. Non avevamo molto tempo. Il brano che avremmo suonato era piuttosto intenso, un po’ cupo, una scelta eccellente per quell’ambiente, e Dominik aveva ragione: Lauralynn e i suoi due timidi compagni lo conoscevano bene. Udii i passi di Dominik prima di accorgermi che stava arrivando, le scarpe che percuotevano con un rumore secco il pavimento di pietra, uno staccato di tamburo che si sovrapponeva al prolungato e lacerante Mi armonico dell’ultimo movimento che stavo suonando mentre lui si avvicinava al palco. Mi fece un cenno d’intesa con la testa e poi segnalò ai musicisti di mettersi la benda sugli occhi. Loro obbedirono. Evidentemente non gli aveva detto che sarei stata nuda durante il concerto. Poi salì sul palco e mi sussurrò all’orecchio quello che avrei dovuto fare. Le sue labbra mi sfiorarono appena il lobo e io arrossii. «Puoi spogliarti.» Questa volta indossavo un vestito nero corto invece di quello lungo di velluto, perché attirava meno l’attenzione durante un tragitto diurno in metropolitana. Era un modello con una spallina sola e una cerniera laterale nascosta, e aderiva perfettamente al mio corpo. Avevo evitato di mettermi il reggiseno, così quando mi fossi spogliata – se mai l’avessi fatto – non sarebbero rimasti i segni delle spalline sulla pelle. Ero stata sul punto di non mettermi nemmeno le mutandine per la stessa ragione, ma avevo cambiato idea all’ultimo momento, cosa di cui ero stata ben contenta quando l’orlo del vestito mi era risalito lungo le cosce mentre allungavo la gamba per colmare l’ampio divario tra la banchina e il treno alla stazione di Bank. Dominik si allontanò e si accomodò su una sedia sistemata davanti al palco. Mi fissava con aria impassibile dietro l’abituale espressione educata, protetto da un sottile muro di riservatezza che supponevo nascondesse una natura molto più animalesca di quanto si intravedeva al primo sguardo. Mi sarebbe piaciuto provare a far breccia in quel muro, costasse quel che costasse. Respirai a fondo e mi decisi. Sostenendo lo sguardo di Dominik, feci scivolare una mano lungo il fianco e abbassai la cerniera. Che a un certo punto si bloccò. Un bagliore infiammò i suoi occhi, mentre lottavo contro il vestito. E quello sulla faccia di Lauralynn era un sorriso malizioso? Riusciva a vedermi nonostante la spessa benda? Avvampai immaginando anche il suo sguardo sul mio corpo. Dovevo essere rossa come un peperone. Avevo sperato di riuscire almeno a lasciar cadere il vestito con un unico movimento fluido, come fanno sempre le protagoniste dei film. Forse avrei dovuto fare qualche prova. In ogni caso, adesso avrei preferito morire, piuttosto che chiedere aiuto a Dominik. Alla fine, mi liberai maldestramente dell’abito e arrossii ulteriormente, quando mi resi conto che mi sarei dovuta chinare per togliermi le mutandine. Mi voltai leggermente, per nascondere il seno penzolante, prima di accorgermi di quanto dovesse sembrare sciocca quella mia reticenza, visto che sapevo di dover suonare nuda davanti a lui. Alla fine presi il violino, vincendo l’improvviso impulso di usarlo per coprirmi il corpo, mi raddrizzai e iniziai a suonare. Vaffanculo la nudità e vaffanculo Dominik. Un lampo di irritazione mi passò sul volto prima che la musica avesse la meglio. La prossima volta, se ce ne fosse stata una, non mi sarei mostrata così vulnerabile nello spogliarmi. Quando la musica finì, allentai la presa sul manico del violino, quindi abbassai lo strumento, deponendolo al mio fianco. Di fronte a me Dominik applaudiva con deliberata lentezza e un sorriso enigmatico. Mi resi conto che la mano con cui tenevo l’archetto stava tremando, mentre io ansimavo e avevo la fronte madida di sudore, come se avessi appena finito di correre una maratona. Probabilmente era stato proprio così, anche se non mi ero accorta di niente mentre suonavo, la testa piena di pensieri sull’Europa orientale, Edwina Christiansen e tutte le storie che il Bailly doveva custodire dentro di sé. Mi chiesi quando mi sarei potuta permettere una breve vacanza. Vista la mia situazione economica, avevo potuto viaggiare per l’Europa molto meno di quanto mi sarebbe piaciuto. Dominik interruppe le mie divagazioni con un colpetto di tosse. «Grazie» disse. Gli feci un cenno d’intesa con la testa. «Puoi andare, adesso. Ti accompagnerei volentieri alla porta, ma devo congedare gli altri musicisti e sistemare le questioni relative al loro compenso. Immagino che tu sia in grado di uscire di qui senza problemi.» «Certo.» Mi rimisi il vestito, affettando una nonchalance che ero ben lungi dal provare, e ignorai la battuta sull’uscire senza problemi. Forse Dominik sapeva che all’arrivo ero quasi ruzzolata giù dalle scale. «Grazie» dissi agli altri musicisti, tutti ancora seduti e bendati, in attesa delle istruzioni di Dominik. Avevano evidentemente ricevuto precisi ragguagli su come si sarebbe svolta la sequenza degli eventi e su come avrebbero dovuto comportarsi. Ancora una volta, avrei voluto sapere che cosa aveva fatto esattamente Dominik per assicurarsi la loro obbedienza. Era questo l’effetto che produceva sulle persone? Soprattutto sulle ragazze? Lauralynn non mi era affatto sembrata un tipo obbediente. Tutto il contrario. Avevo notato il modo in cui stringeva il violoncello tra le cosce e, ripensandoci, mi venne in mente che, a dispetto di una presa in apparenza delicata intorno al manico, aveva suonato lo strumento quasi con crudeltà, come se volesse estrarne la melodia a forza. La ragazza fece un altro sorriso malizioso, rivolto direttamente a me; questa volta fui sicura che fosse complice del gioco o riuscisse in qualche modo a vedermi attraverso la benda. Presi il violino, mi voltai e mi diressi verso l’uscita, con l’aria più professionale che riuscii ad assumere. Avevamo reciprocamente rispettato i termini del nostro accordo; io avevo il mio violino, lui aveva avuto il suo concerto nudo. Aprii la porta che conduceva alla base delle scale e mi fermai, appoggiandomi al muro di pietra per riordinare i pensieri. Era davvero così? Il nostro accordo era chiuso? Avrei dovuto esserne contenta, ma non riuscivo a liberarmi da una persistente sensazione di rimpianto. Era come se non gli avessi dato abbastanza in cambio dello strumento. Charlotte avrebbe detto che ci avevo guadagnato, ma io mi sentivo in qualche modo incompleta. Feci un respiro e iniziai a salire le scale senza voltarmi. Arrivai nel mio appartamento di Whitechapel, lieta di non incontrare nessuno nel corridoio e nel bagno comune. I miei vicini erano fuori. Bene. Non sarei stata costretta alle consuete chiacchiere di circostanza né mi sarei dovuta preoccupare, vedendomi scomparire in fretta nella mia stanza, del sospetto di tutti su quanto mi apprestavo a fare per dar sfogo all’ormai quasi dolorosa eccitazione che mi aveva turbata lungo tutto il tragitto verso casa. Non appena ebbi chiuso la porta con un calcio, mi misi una mano tra le gambe e mi infilai dentro l’indice per lubrificarlo prima di iniziare a toccarmi con veloci massaggi circolari. Lanciai un’occhiata al portatile, riflettendo se guardare un video su un sito pornografico per accelerare un po’ le cose. Darren odiava vedermi guardare pornografia. Una volta mi aveva sorpresa con una rivista che avevo trovato sotto il suo materasso e mi aveva tenuto il broncio per tutta la sera. Quando gli avevo chiesto che cosa lo avesse turbato tanto, lui aveva risposto che sapeva che le donne si masturbavano, ma non pensava che lo facessero in quel modo. Non avevo mai capito se fosse geloso o se ritenesse che ero poco femminile. Da quando avevamo rotto, comunque, la ritrovata libertà di fare quello che volevo mi dava un brivido particolare. E tuttavia, nello stato in cui ero in quel momento, non mi ci sarebbe voluto molto a raggiungere l’orgasmo: non valeva la pena perdere tempo a trovare un video di mio gusto. Invece, mi misi a ripensare a quello che era successo nel pomeriggio. Mi venne in mente all’improvviso come mi si erano induriti i capezzoli per l’aria fredda della cripta… o era stato per lo sguardo di Dominik? E per quello di Lauralynn? Aprii la finestra con la mano sinistra, senza smettere di toccarmi con la destra, poi abbassai la cerniera del vestito – ovviamente, questa volta, con facilità – e me lo tolsi in fretta. Dopo il concerto non mi ero rimessa le mutandine: piuttosto che contorcermi davanti a Dominik per infilarmele, le avevo gettate nella borsa. Così adesso ero completamente nuda, a parte le scarpe con il tacco, e mi godevo l’aria fredda che entrava dai vetri aperti e mi accarezzava il corpo. Chiusi gli occhi, e invece di buttarmi sul letto come facevo di solito, allargai le gambe e mi toccai davanti a un pubblico immaginario davanti alla finestra. Ciò che mi fece godere fu il ricordo dell’ultimo ordine di Dominik, il tono della sua voce mentre mi abbassavo per sganciare il cinturino delle scarpe. “No. Tienile addosso.” Non si era trattato di una sfida; non c’erano sfumature interrogative nel suo tono, nessun dubbio che io potessi non fare quello che lui mi diceva, anche se non mi ritenevo in alcun modo una persona docile. Quel senso di autorità, per una ragione che non ero in grado di spiegare, mi mandò in estasi. Venni in fretta, con fitte di acuto piacere che dal centro del corpo si irradiavano in ogni direzione, riscaldandomi piacevolmente. A pensarci bene, ero sempre stata così. Ricordai come mi eccitava Mr Van der Vliet, il piacere che provavo nel seguire alla lettera le sue indicazioni durante le lezioni, per quanto lui non fosse affatto bello in senso tradizionale. O come mi ero eccitata quando il mio istruttore di nuoto mi aveva detto che voleva vedere quanto avrei nuotato se lui non mi avesse detto di fermarmi. O come mi ero sentita quando il padrone d e l dungeon mi aveva sculacciata nel club fetish. Che cosa significava tutto ciò? Mi sdraiai sul letto e cercai di allontanare quei pensieri, poi caddi in un sonno agitato. Mi svegliai che era sera, ancora turbata. E ancora eccitata. Cercai di reprimere quella sensazione, ma a quanto pareva non riuscivo a pensare ad altro. Neppure toccarmi di nuovo servì a placare la mia insoddisfazione. Il tono imperioso di Dominik, la sua abitudine di dare istruzioni tanto precise continuavano a tornarmi in mente. Persino il modo con cui mi aveva comunicato l’indirizzo della cripta mi aveva fatto eccitare. Pensai di chiamarlo, ma scartai subito l’idea. Che cosa avrei detto? “Ti prego, Dominik, dimmi cosa devo fare?” No. A parte l’assurdità della cosa, avrei avuto più potere se non gli avessi lasciato intendere quanta influenza aveva su di me. Quel fugace lampo di bramosia nel suo sguardo… Sapevo che alla fine avrebbe chiamato; non sarebbe riuscito a resistere e avrebbe architettato qualcos’altro. E, per quanto mi desse fastidio giocare in difesa, mi sarebbe piaciuto quando l’avrebbe fatto. Per adesso, comunque, avrei dovuto trovare un altro modo per soddisfare il mio desiderio sessuale. Riflettei se chiamare Charlotte, ma non ero ancora pronta a condividere questa parte della mia vita. Il club fetish. Era un’idea folle, però forse potevo andarci da sola, giusto per dare un’occhiata. Non capivo bene cosa mi stesse succedendo, questa nuova sensazione di audacia che da una parte mi spaventava, ma dall’altra mi elettrizzava. Se non mi fossi trovata bene, me ne sarei sempre potuta andare. Mi ero sentita al sicuro in quel luogo, a differenza che nei club del West End, che risultavano sgradevoli anche per chi, come me, era in grado di badare a se stessa, pieni com’erano di ragazzi ubriachi sempre pronti a palpare e molestare tutte le ragazze che cercavano di avvicinarsi al bar o ai bagni da sole. Nonostante il club fetish fosse frequentato da persone che non si facevano problemi, o forse proprio per questo, i clienti mi erano sembrati rispettosi, non squallidi. Sì, era il genere di posto dove sarei potuta andare da sola. Da una veloce ricerca su Google appresi che il club dov’ero stata con Charlotte era attivo solo il primo sabato del mese, e quel giorno era giovedì. Nessuno dei club più importanti era aperto, ma trovai un link a un locale più piccolo, non lontano da Whitechapel in taxi, che vantava un dungeon e “aree giochi” non meglio specificate, oltre a un’atmosfera intima e accogliente. C’era un codice di abbigliamento con alcune rigide regole alle quali attenersi. Avrei dovuto trovare una mise che soddisfacesse quei requisiti. Non volevo sembrare fuori posto. Erano le undici di sera. La festa doveva essere sul punto di cominciare. Prenotai un taxi, poi rovistai nel mio guardaroba e tirai fuori alcuni capi che mi parevano adatti e me li provai davanti allo specchio. Scelsi una gonna a tubino blu marina, con la vita alta e grandi bottoni bianchi davanti e dietro ai quali erano attaccate larghe bretelle che si incrociavano sulla schiena e davanti scendevano dritte sui seni. L’avevo comprata in saldo in un negozio che vendeva abiti anni Cinquanta in Holloway Road, nella zona nord di Londra, e l’avevo indossata alla festa di compleanno in costume della mia vicina qualche tempo prima, insieme a una camicetta bianca con il collo alto, un berretto da marinaio da quattro soldi ma non pacchiano e scarpe di velluto rosso con il tacco. Quella sera evitai la camicetta e misi invece un reggiseno rosso in tinta con le scarpe. Sarebbe andato bene come abbigliamento fetish? “Probabilmente no” pensai, ricordando le mise stravaganti della notte passata con Charlotte. Se volevo essere in tono con l’ambiente e attirare meno l’attenzione, avrei dovuto essere più svestita. Mi guardai un’ultima volta allo specchio e mi tolsi il reggiseno. Le bretelle erano tese sul seno, lo sorreggevano e coprivano i capezzoli e, comunque, non avevo già trascorso la maggior parte di quella giornata senza vestiti? Indossai una giacca per il tragitto in taxi e provai un inebriante brivido di libertà al pensiero che sotto ero mezza nuda. All’ingresso del club una ragazza dall’aria cordiale con i capelli neri e il piercing al naso prese la mia giacca. Quando mi chiese di porgerle il polso per mettere il timbro notai che aveva una minuscola lacrima tatuata sotto l’occhio sinistro. Mi chiesi quali altri segreti nascondesse sotto la giacca dello smoking di latex con le maniche lunghe. Il latex. Se avessi preso l’abitudine di frequentare posti simili, forse avrei dovuto investire un po’ di soldi nell’acquisto di qualche capo di questo materiale, anche se non ero del tutto certa che la gomma lucida facesse per me. Charlotte aveva avuto enormi difficoltà a infilarsi e sfilarsi il vestito, e avevo la sensazione che il fatto di non riuscire a spogliarsi sarebbe stato un problema per me e per i miei desideri sessuali. Anche se preferisco affrontare le situazioni nuove e sconosciute da sobria, mi fermai al bar per bere un drink e ambientarmi. Con in mano un Bloody Mary speziato al punto giusto, attraversai la piccola pista da ballo, dove c’erano solo alcuni clienti che chiacchieravano, e mi diressi verso il dungeon, in una stanza separata. L’ingresso era aperto, ma nascosto alla vista da un paio di paraventi verdi, simili a quelli che si vedono intorno ai letti in ospedale. Interessante. La maggior parte dei clienti del locale si trovava lì dentro. Alcuni erano seduti su sedie lungo le pareti e parlavano a bassa voce; altri erano in piedi più vicini all’azione, ma qualche passo indietro rispetto agli attori sulla scena. C’erano alcuni cartelli – semplici fogli A4 stampati – appesi qua e là. NON diceva uno, e un altro, lapidario: CHIEDERE. PRIMA. Quegli avvisi mi fecero sentire stranamente rassicurata. Diverse coppie di “giocatori” e un trio erano impegnati in atti di, immaginai, violenza consensuale di varia intensità che prevedeva l’uso di differenti strumenti e attrezzature. La mia attenzione fu subito attratta dai rumori che si udivano in quella stanza – il colpo secco di una verga, il rumore più attutito di un flagellatore, come quello che avevo visto in mano alla donna la sera con Charlotte – e dal modo in cui il suono e il ritmo mutavano a seconda dei movimenti di chi maneggiava gli INTERROMPETE UNA SCENA strumenti e della ferocia che ci metteva. Senza rendermene conto mi ero avvicinata parecchio al trio: due uomini che picchiavano una terza persona che sulle prime pensai fosse un uomo, per via del corpo squadrato e della testa completamente rasata, anche se poi mi sembrò di vedere la curva dei seni che premevano contro l’imbottitura della croce alla quale era legata e udii il suono acuto di un gemito femminile. Uomo, donna, forse nessuno dei due, forse un po’ di entrambi. Una creatura bellissima e, comunque, che cosa importava il genere? Non molto, in un posto simile. Dimenticandomi degli avvisi appesi alle pareti, mi avvicinai ulteriormente per vedere meglio. Trovavo la scena scioccante, ma al tempo stesso affascinante. Sentii una mano toccarmi dolcemente la spalla da dietro, poi una voce all’orecchio. «Meravigliosi, vero?» sussurrò. «Sì.» «Non avvicinarti troppo. Potresti rompere l’incantesimo.» Guardai di nuovo i tre. Sembravano persi in un’altra dimensione, un luogo che, in qualche modo, era ancora nella stanza ma al tempo stesso non ne faceva parte. Era come se ciascuno di loro fosse impegnato in un viaggio personalissimo e intimo. Ovunque fossero, avrei voluto unirmi a loro. Il proprietario della voce forse intuì il mio desiderio. «Ti piacerebbe giocare?» disse. Esitai un attimo. Non ci eravamo neppure presentati e lui, o lei, si mostrava così diretto. Forse, però, era proprio quello di cui avevo bisogno, e nessuno l’avrebbe mai saputo. «Sì, mi piacerebbe.» Una mano prese la mia e mi condusse verso una delle strutture libere del dungeon, un’altra croce. «Spogliati.» La risposta del mio corpo fu immediata; era praticamente lo stesso ordine che mi aveva dato Dominik poco prima, quel giorno, e io fui invasa dal desiderio, lussuria allo stato puro, forse la brama di qualcosa di più, anche se non sapevo ancora di cosa. Abbassai le bretelle, liberando i seni, e mi sfilai la gonna, eccitata dalla consapevolezza che un pubblico di estranei mi stava guardando, godendosi lo spettacolo. Allargai braccia e gambe sulla croce, completamente nuda per la terza volta quel giorno. Stava diventando un’abitudine. I polsi furono imprigionati in lacci di cuoio stretti con decisione, anche se non in modo doloroso. Non mi furono comunicati né una safeword – una “parola di sicurezza” – né un gesto da fare per bloccare l’azione. Il mio misterioso partner, comunque, sembrava abbastanza esperto, a giudicare dalla disinvoltura con cui si muoveva, e se le cose fossero andate troppo oltre avrei urlato: “Basta!”. Avevo bevuto solo un drink, ero nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e mi trovavo in una stanza piena di gente che sarebbe potuta intervenire in caso di necessità. Mi rilassai contro la croce e aspettai i colpi. Che arrivarono. Più forti, questa volta, molto più forti della mia ultima “sculacciata” e senza la rassicurante carezza sul culo che Mark aveva fatto seguire a ogni colpo, alleviando in parte il dolore. Sussultai, sobbalzando a ogni sferzata che colpiva non solo le natiche, ma anche i fianchi. Lui, o lei – non ne ero sicura e non avevo tentato di scoprirlo, preferendo mantenere anonima quell’esperienza – usava certamente uno strumento di qualche genere, ma non avrei saputo dire quale. Il rumore sembrava quello di un flagellatore, ma la sensazione era di una cosa più solida e rigida, molto più dura delle morbide strisce di pelle attaccate alla corta impugnatura di quell’attrezzo. Mi si riempirono gli occhi di lacrime che presero a scorrermi sulle guance, e io mi resi conto che più contraevo il corpo per contrastare il dolore, più sentivo male. Così mi rilassai. Cercai di trovare il luogo, ovunque esso fosse, in cui gli altri sembravano rifugiarsi. Immaginai il mio corpo fondersi con la mano, con il flagellatore o con qualunque cosa fosse quella che mi stava colpendo. Ascoltai lo schiocco secco dei colpi, il battito ritmico della musica del mio partner e alla fine, mentre il dolore si attenuava, diventai parte della sua danza, non una sua vittima, e provai una sensazione di pace. Poi i lacci che mi legavano i polsi vennero sciolti. Delicate carezze sfiorarono le mie parti colpite, che bruciavano lievemente a ogni tocco. Una risata sommessa, un altro sussurro all’orecchio, e la voce scomparve tra la folla. Rimasi lì, distesa sulla croce, immobile, per non so quanto tempo, finché non mi riscossi, mi rivestii e chiamai un taxi. Avevo ottenuto quello per cui ero venuta. L’avevo ottenuto, vero? Quella sensazione di pace, di fuga in un’altra dimensione, quella diversa consapevolezza che era stata il mio rifugio, la mia casa in un certo senso, fin da quando ne avevo memoria. Tornata nel mio appartamento, crollai sul letto e, nonostante il dolore pulsante, dormii meglio che nelle settimane precedenti. Fu solo il mattino dopo che, davanti allo specchio del bagno, notai i lividi. Un arabesco quasi elegante di segni più o meno evidenti mi attraversava il sedere e i fianchi e, a un esame più attento nello specchio a figura intera della camera, scoprii l’impronta di una mano su una delle natiche. Cazzo. Speravo che Dominik lasciasse passare parecchi giorni prima di richiamarmi. 6 Un uomo e la sua lussuria Dominik guidava in preda a una sorta di stordimento, ripercorrendo mentalmente ogni singolo istante di quel pomeriggio. Senza far troppo caso alla strada, diresse meccanicamente la BMW nel labirinto di lavori in corso intorno a Paddington, avanzando con lentezza esasperante verso la Westway. Il colore della pelle di lei. Il pallore soprannaturale. Le migliaia di sfumature che passavano senza soluzione di continuità da una tonalità di bianco all’altra, con impercettibili velature di rosa, grigio e beige chiarissimo che reclamavano a gran voce il bacio del sole. L’intricata geografia di nei e imperfezioni minori che punteggiava la sua pelle. Il modo in cui la luce artificiale della cripta sottolineava le sue curve, danzando sopra la loro superficie, accentuando le zone d’ombra, il bagliore dei muscoli sotto la sottile protezione della carne, i tendini dei polpacci mentre si muoveva impercettibilmente per raggiungere un’altra nota, il modo in cui il bordo arrotondato del violino premeva contro il suo collo, la velocità delle dita che percorrevano le corde mentre l’altra mano manovrava con energia l’archetto planando sullo strumento come un guerriero in volo. Per poco Dominik non perse l’uscita e per un attimo fu costretto a mettere da parte i ricordi mentre svoltava bruscamente, scatenando il clacson del guidatore di una Fiat vicina, infuriato per quella manovra azzardata. Gli avevano sempre detto che assomigliava a un giocatore di poker, perché raramente lasciava trapelare i propri sentimenti in pubblico, meno che mai quelli più intimi. Aveva osservato lo spettacolo in religioso silenzio, il viso una maschera, vigile, concentrato sulla musica e su tutte le sue sottili sfumature, intento a cogliere i movimenti dei musicisti a mano a mano che procedevano nella loro magnifica esecuzione, vestiti di nero e di bianco. Summer, naturalmente, svestita. Era stato una sorta di rituale. Una sinfonia di contrasti tra gli abiti da sera scuri con le camicie bianche formali e l’audace nudità di Summer impegnata in un corpo a corpo con il suo strumento per estrarne ogni singola nota, ogni frammento di melodia, cavalcando e domando la musica. A un certo punto, una minuscola perla di sudore le era scivolata dalla punta del naso, aveva sfiorato uno dei suoi capezzoli turgidi ed era caduta sul pavimento di pietra della cripta a pochi centimetri dalle scarpe, quelle con i tacchi alti che lui le aveva ingiunto di tenere addosso. Forse il rituale sarebbe stato ancora più eccitante, pensò Dominik, se le avesse chiesto di mettersi un paio di autoreggenti. Nere, ovviamente. O forse no. Lui aveva osservato tutto con un misto di desiderio ardente e autocontrollo che gli scorreva sotto la pelle. Al pari di un grande inquisitore a un festino particolare – sommamente distaccato in apparenza, come qualunque ipotetico spettatore avrebbe potuto confermare, ma febbrilmente coinvolto – con la mente correva senza freni, i pensieri un folle turbinio, mentre osservava, esaminava, sondava, interrogava. Tutto con l’aggraziato accompagnamento delle immortali melodie che quel quartetto improvvisato aveva suonato con tanta maestria, evocando visioni e parole come la musica migliore non manca mai di fare. La forma dei seni di lei, la delicatezza delle loro dimensioni, il solco lievissimo che li separava, la mezzaluna di oscurità sottostante come una promessa di altri segreti, la minuscola fessura dell’ombelico, la fenditura verticale che puntava come una freccia verso il territorio del suo sesso. Dominik aveva apprezzato il fatto che, a differenza di tante giovani donne, lei non fosse completamente depilata, la sottile copertura di peli pubici ben curati in scure tonalità di castano rossiccio a mo’ di necessaria barriera ai suoi possedimenti più intimi. Un giorno, aveva deciso, lui l’avrebbe depilata. Con le sue mani. Ma avrebbe riservato quel compito a un’occasione molto speciale. Una cerimonia. Una celebrazione. Lo Stige, al di là del quale lei sarebbe stata per sempre ancora più nuda per lui. Aperta. Esposta. Sua. La solidità delle sue cosce, la lunghezza dei polpacci, le cicatrici quasi invisibili su un ginocchio – indubbio retaggio di qualche zuffa infantile – la vita sorprendentemente stretta, quasi che la sua morbidissima carne fosse stata plasmata da un corsetto vittoriano come il bronzo fuso nello stampo di uno scultore. Adesso la strada saliva attraverso Hampstead e l’auto si infilò sotto una tettoia di alberi con i rami bassi che emergevano dalle distese del parco. Dominik fece un profondo respiro, archiviando nella sua mente ogni suono e visione seducente per crearsi un album di emozioni da sfogliare nelle giornate uggiose. A quel punto era su strade familiari e gli venne in mente distrattamente il lieve sorriso sulle labbra della giovane violoncellista, di cui non riusciva a ricordare il nome, mentre si sistemava la benda di velluto nero e gli lanciava un’ultima occhiata prima di piombare nella sua personale oscurità. La scintilla nei suoi occhi, come se sapesse che cosa stava per succedere, come se avesse intuito la natura dei suoi piani. Si era persino ritrovato a pensare fugacemente che gli avesse strizzato l’occhio con complice malizia. E poi il rossore sul volto di Summer quando era venuto il momento di spogliarsi, dopo che gli altri musicisti si erano bendati, il modo in cui si era girata per togliersi le mutandine, mostrandogli la rotondità del culo pallido in tutto il suo splendore, il solco tra le natiche mentre si piegava in avanti rivelando una minuscola valle di ombre. Quindi si era voltata di nuovo verso di lui e per un attimo aveva portato il violino davanti ai genitali come se volesse nascondersi al suo sguardo, anche se sapeva fin troppo bene che avrebbe dovuto suonare in piedi e non avrebbe potuto custodire la propria privacy se non per un breve momento. Dominik era già sicuro che avrebbe goduto di quei ricordi per molto tempo. Mentre parcheggiava l’auto, abbassò lo sguardo. Ce l’aveva duro. Si versò un bicchiere di acqua minerale e sprofondò nella sua sedia da scrivania di pelle nera, la mente piena di pensieri su Summer. Sospirò, bevve un sorso d’acqua assaporando il delizioso freddo sulla lingua. Le immagini di Summer che suonava nuda si fondevano con visioni di Kathryn sotto di lui in un letto, sul pavimento, contro un muro. Mentre facevano l’amore, scopavano, il velo di sudore sulla pelle, i ricordi, il dolore e il piacere. Una volta a lei era sfuggito un gemito di disgusto e insieme di aspettativa quando lui l’aveva penetrata da dietro, lo sguardo fisso sul buco del suo culo con intensità pornografica e pensieri di sodomia che gli si affollavano nella mente già turbata. Quel suono aveva avuto l’effetto di un catalizzatore e lui l’aveva colpita con forza su una natica per due volte di seguito con tale violenza che qualche secondo dopo sulla sua pelle candida e delicata era comparsa l’impronta rossa della mano, come un’istantanea che emergeva dalla carta fotografica. Lei aveva urlato per la sorpresa. Così lui l’aveva colpita di nuovo, questa volta sull’altra natica mentre sentiva Kathryn contrarsi come una morsa intorno al suo membro che la esplorava, indizio fin troppo chiaro dell’effetto che i colpi avevano su di lei. Il fatto era che non aveva mai sculacciato una donna, né per scherzo né per rabbia. Non ne aveva mai sentito il bisogno e non ci aveva mai pensato. Non si era mai nemmeno sculacciato da solo per esplorare i risvolti sessuali di quel gesto o per un capriccio passeggero. Sapeva che era una pratica diffusa. I romanzi vittoriani che parlavano di rapporti tra servette e signori erano pieni di cose del genere, e non gli era sfuggito che gli attori porno tenevano spesso una mano sul culo della partner mentre la scopavano, ma aveva pensato che fosse una specie di convenzione, qualcosa che si faceva a effetto davanti alla telecamera, magari per variare la monotonia del su e giù meccanico dell’assalto genitale. Più tardi aveva chiesto a Kathryn: «Ti ho fatto male?». «Per niente.» «Davvero? Ti è piaciuto, allora?» «Io… non lo so. Faceva parte del momento, credo.» «Non so perché l’ho fatto» aveva ammesso Dominik. «L’ho fatto e basta. Un impulso spontaneo.» «Va tutto bene» aveva detto Kathryn. «Non è un problema.» Erano sul pavimento del suo studio, sdraiati sulla moquette, ancora ansimanti. «Girati» le aveva detto. «Lasciati guardare.» Kathryn si era girata su un fianco offrendogli la vista del suo culo perfetto. Dominik lo esaminò. Il segno della mano sulla natica era già quasi scomparso. Il fatto che l’impronta del sesso svanisse così rapidamente dai tratti di una persona e che fosse impossibile sapere che cos’aveva fatto in privato dopo che si era rimessa gli abiti e aveva rivestito i panni delle convenzioni civili era una cosa che non smetteva mai di stupirlo. Era come se, nel suo intimo, lui avesse desiderato che gli uomini e le donne fossero marchiati dal sesso che avevano condiviso, che fosse sempre scritto a chiare lettere sulla loro faccia. Comunque, adesso il contorno delle sue cinque dita sul sedere di Kathryn era solo un ricordo. «Il segno se n’è quasi andato.» «Bene» aveva detto lei. «Avrei avuto parecchie difficoltà a spiegarlo a mio marito!» In seguito, nel corso della loro breve relazione, quando era riuscito a sottrarre Kathryn al suo matrimonio per un intero fine settimana, e avevano trovato un pretesto per occupare una stanza in un albergo di Brighton di fronte al mare senza mai vedere la luce del giorno o la spiaggia, lui l’aveva marchiata sul culo con furia selvaggia e lei si era poi lamentata di un dolore sordo e persistente quando si era seduta a tavola in un vicino ristorante affacciato sulla passeggiata a mare. Dominik si era stupito del modo compulsivo con cui l’aveva colpita e lì per lì se n’era vergognato: la violenza contro le donne gli dava la nausea. Prima di allora non gli era mai passato per la testa di picchiare un’amante. Stavano forse scivolando verso un rapporto sculacciatore-sculacciata? Da dove gli veniva quell’impulso a dominare, a esprimere i suoi desideri più profondi in modo violento? Kathryn, però, non aveva mai sollevato obiezioni. La cosa lo aveva disorientato dopo che si erano lasciati. Che cosa provasse lei nel momento in cui lui la picchiava era rimasta una domanda senza risposta. Si abbassò la lampo dei pantaloni, liberando l’erezione e osservando il motivo appena accennato di vene che percorrevano l’asta del suo uccello durissimo, la fessura sulla punta, il tessuto cicatriziale della circoncisione e le ombre più scure della carne sotto il glande. Pensò al pallido balenare delle natiche ben fatte e fragili di Summer mentre si spogliava prima di immergersi nella musica. Mise la mano intorno al cazzo e iniziò a muoverla su e giù. Immaginò il rumore che avrebbero fatto i testicoli schiaffeggiando il culo sodo di Summer e il suono delle sue mani che si abbattevano secche su di lei, il modo in cui la pelle sarebbe stata percorsa da fremiti sotto i colpi ripetuti, le melodie che sarebbe stato capace di estrarle dalle labbra contratte. Chiuse gli occhi. La sua fantasia correva ormai a briglie sciolte e le immagini riempivano uno schermo gigantesco. Venne. Sì, Dominik lo sapeva, quando sarebbe arrivato il momento, avrebbe di sicuro sculacciato la violinista Summer Zahova. “Ma allora sculacci solo le donne che desideri ancora dopo la prima scopata. Quelle che vuoi ardentemente. Quelle speciali.” Dominik lasciò passare solo quarantott’ore prima di rimettersi in contatto con Summer. Continuava a ripensare agli incontri precedenti. L’istinto gli diceva che lei non si era imbarcata in quell’avventura ambigua solo per avere il violino, il costoso Bailly che lui le aveva regalato e la cui sonorità cristallina aveva dominato quel pomeriggio nella cripta con intensa e melodiosa chiarezza. Questa storia, o perlomeno ciò che essa stava velocemente diventando, non era una transazione tra benefattore e beneficata, tra un uomo in preda alla lussuria e una giovane donna con un atteggiamento flessibile nei confronti della moralità. Lui aveva scorto qualcosa negli occhi di lei fin dalla prima volta in cui si erano incontrati. Una curiosità, una sfida inespressa, una disponibilità a correre rischi irragionevoli per mantenere vivo il fuoco interiore. O almeno era così che Dominik si spiegava le parole e i gesti di Summer, nonché la facilità con cui aveva aderito alle sue insolite richieste. Lei non era una puttana dilettante che lo faceva per denaro, o per il violino. Ovviamente lui la voleva. E parecchio. Il modo in cui aveva suonato per lui, nuda, con un velo di rossore sulle guance quando si era spogliata, finché il divino fluire della musica aveva fatto sparire le sue ultime riserve e lei era rimasta in piedi a suonare con orgoglioso esibizionismo… Era innegabile. Lo aveva rivelato la lieve curva delle labbra durante tutta quella particolare esecuzione. Lei si era sentita in pace con se stessa, fluttuante in qualche strano e privato luogo della mente, dimentica di ciò che la circondava o delle circostanze. Si era eccitata. Dominik adesso sapeva che non voleva solo portarsela a letto: voleva di più. Quello sarebbe stato soltanto l’inizio della storia. Alla fine la chiamò nella tarda mattinata di sabato, quando sapeva che lei era impegnata nel suo lavoro parttime in una caffetteria di Hoxton. Voleva che la conversazione fosse breve per non darle la possibilità di fare ulteriori domande. Senza dubbio nel locale ci sarebbe stato parecchio da fare. Il cellulare suonò a lungo. Poi, alla fine, Summer rispose. Sembrava andare di fretta. «Sì?» «Sono io.» Dominik sapeva che non aveva più bisogno di dire il proprio nome. «Lo so» replicò lei con calma. «Sono al lavoro. Non posso stare molto al telefono.» «Capisco.» «Aspettavo la tua chiamata.» «Davvero?» «Sì.» «Voglio che suoni di nuovo per me.» «Ah.» «Lunedì. Diciamo nel primo pomeriggio.» Prevedendo che, con tutta probabilità, lei sarebbe stata libera e disponibile, lui aveva già prenotato la cripta. «Stesso posto.» Concordarono l’ora. «Questa volta suonerai da sola.» «Okay.» «Non vedo l’ora.» «Anch’io. Devo preparare un pezzo particolare?» «No, scegli pure quello che vuoi. Vorrei che mi stupissi.» «Bene. Che cosa devo mettermi?» «Scegli tu, ma indossa un paio di calze nere. Autoreggenti.» «Lo farò.» «E le scarpe nere con il tacco.» Nella sua mente si stavano già materializzando le immagini. «Naturalmente.» Dominik era passato a prendere le chiavi della cripta la sera prima e aveva dato una generosa mancia al custode per assicurarsi che, come la prima volta, non ci sarebbe stato nessuno a origliare dietro la porta chiusa per tutto il tempo in cui sarebbero rimasti lì. Adesso scese in fretta la scala stretta e ripida, spinse il battente e fu investito dall’odore di chiuso e stantio del locale sotterraneo, seguito da un tenue sentore di cera, ricordo sbiadito di candele consumate e di preghiere da tempo dimenticate. Scrutando nell’oscurità, tastò con la mano il freddo muro di pietra prima a sinistra e poi a destra, e finalmente trovò l’interruttore della luce. Si era dimenticato che si trovava sul lato sbagliato della porta. Spinse verso l’alto la levetta di plastica finché la cripta fu avvolta da un tenue chiarore, non accecante ma discreto, vellutato, l’illuminazione perfetta per l’occasione. Dominik era sempre stato ordinato, preciso, attento ai dettagli, e quello era un rituale che aveva ripercorso mentalmente infinite volte dopo la telefonata con Summer di sabato, quando avevano organizzato l’incontro di quel giorno. Diede un’occhiata all’orologio, un costoso TAG Heuer d’argento, e radunò in fretta alcune sedie sparse in giro, mettendole contro la parete di fondo. Alzò lo sguardo verso il soffitto e notò una fila di faretti. Tornò sui suoi passi, prese una delle sedie, la portò al centro della cripta, ci salì sopra con cautela perché era instabile sul pavimento di pietra irregolare, e regolò la posizione del faretto centrale in modo che illuminasse una zona precisa. Per aumentare l’effetto, svitò leggermente i due faretti laterali. Sì, adesso era molto meglio. Guardò di nuovo l’orologio. Summer era in ritardo di un paio di minuti. Si trastullò per qualche istante con l’idea di rimproverarla e di punirla in qualche modo per quella trasgressione, ma decise di non farne niente nel momento in cui sentì un leggero bussare alla porta. «Avanti» disse a voce alta. Lei indossava di nuovo l’abito nero corto, con un coprispalle di lana grigia lavorato a maglia, e stringeva saldamente la custodia del violino. I tacchi la facevano sembrare più alta. «Mi dispiace» sbottò. «C’erano ritardi sulla Jubilee Line.» «Non importa» ribatté Dominik. «Abbiamo tutto il tempo che vogliamo.» La guardò negli occhi. Lei sostenne il suo sguardo, si tolse il coprispalle e si guardò intorno in cerca di un posto dove appoggiarlo, non volendo lasciarlo cadere sul pavimento. «Dallo pure a me» disse Dominik, allungando una mano. Summer glielo porse. La lana era ancora tiepida per il prolungato contatto con il suo corpo. Lui si portò l’indumento al naso, senza vergogna, e lo annusò in cerca del suo odore, una nota verde e pungente appena percettibile sotto il profumo. Mentre lei lo osservava, Dominik si girò e andò a posare il coprispalle su una delle sedie che aveva spostato in fondo. Poi ritornò da lei. «Che cosa suonerai?» le chiese. Summer rispose con fare esitante. «Be’… in realtà si tratta di una specie di improvvisazione basata sull’ouverture Le Ebridi, nota anche come La grotta di Fingal. Sono una grande appassionata di quel concerto di Mendelssohn, ma è molto tecnico e io non ne padroneggio ancora tutte le sottigliezze. Questo ha melodie ugualmente straordinarie, così nel corso degli anni mi sono divertita a suonarlo, anche se è scritto per un’orchestra e non per violino solo. Spero che non ti dispiaccia se non mi attengo a un repertorio strettamente classico.» «Andrà benissimo» commentò Dominik. Summer sorrise. Nei giorni precedenti si era tormentata parecchio sulla scelta della musica. Poi alzò lo sguardo al soffitto e notò che Dominik aveva sistemato le luci in modo che uno dei faretti proiettasse un incandescente alone bianco sul pavimento di pietra, e si rese conto che quello sarebbe stato il suo “palcoscenico”, il punto in cui lui voleva che lei suonasse quel giorno. Fece un paio di passi in quella direzione. Dominik la seguì con lo sguardo, attento ai suoi movimenti, al modo con cui le gambe danzavano eleganti sul pavimento nonostante l’evidente scomodità dei tacchi alti sulla scabra superficie di pietra. Proprio quando lui stava per comunicarle le istruzioni successive, Summer appoggiò con delicatezza la custodia del violino per terra e abbassò la cerniera del vestito nero. Dominik sorrise. Aveva anticipato il suo ordine, aveva intuito che desiderava che suonasse di nuovo nuda, anche se questa volta non ci sarebbero stati altri musicisti al suo fianco. Oggi lui sarebbe stato l’unica persona vestita. L’abito scivolò giù, scoprendole il busto, poi con un rapido movimento dei fianchi Summer se ne liberò lasciandolo atterrare ai suoi piedi, ripiegato come una fisarmonica. Non indossava biancheria intima. Solo le calze nere che si fermavano a metà delle cosce lattee. E le scarpe nere firmate, tacco tredici. Dominik immaginò che Summer possedesse poche scarpe eleganti. Lei alzò gli occhi, guardandolo fisso. «Questo è ciò che volevi.» Non era una domanda. Era una constatazione. Lui annuì. Lei rimase in piedi nel cerchio di luce, la schiena dritta, orgogliosa, consapevole della sfrontatezza con cui si offriva. Alle proprie condizioni piuttosto che a quelle di lui. Il freddo emanato dalle vecchie pietre della cripta le avvolse il corpo, i capezzoli le diventarono turgidi e si bagnò in mezzo alle cosce. Dominik trattenne il fiato. «Vieni qui» le ordinò. Summer esitò per una frazione di secondo, poi uscì dal cerchio di luce dove era stata inequivocabilmente in mostra e gli si avvicinò. Mentre si muoveva lentamente, nella scarsa luce Dominik notò una sottile linea che le correva lungo un fianco, un rossore che andava dal sedere alla vita sottile. Strinse gli occhi per vedere meglio, pensando sulle prime che fosse solo un’ombra creata dal passaggio del corpo dalla luce del faretto alla più accogliente penombra. No, era senza dubbio una specie di macchia sulla pelle di cui lui non si era accorto la volta precedente, quando lei si era girata per togliersi le mutandine. Dominik si accigliò. «Voltati. Voglio vederti la schiena.» Summer trattenne il fiato. Sapeva che i segni lasciati sulle sue natiche dall’ultima serata al club erano ancora visibili. Li aveva notati quella mattina allo specchio mentre si preparava per venire all’appuntamento con Domink. Aveva creduto che sarebbero scomparsi prima, ma non era stato così. Ecco perché poco fa era stata tanto attenta a non mostrare la schiena. Fu percorsa da un brivido di apprensione, non sapendo come lui avrebbe reagito, anche se una parte di lei avrebbe voluto esibirgli spudoratamente il marchio della propria perversione. Sospirando, obbedì. «Che cosa sono quelli?» volle sapere Dominik. «Segni» rispose lei. «Chi te li ha fatti?» «Qualcuno.» «Ha un nome, questo qualcuno?» «Non lo so. Un nome significherebbe qualcosa per te? Non mi sono presentata. Non ho voluto farlo.» «Ti ha fatto male?» «Un po’, ma non per molto.» «Sei una masochista?» «Non di solito. Io…» Summer si interruppe, ci pensò sopra un attimo, quindi continuò: «Non l’ho fatto per il dolore». «Perché, allora?» la incalzò Dominik. «Avevo bisogno dell’eccitazione…» «Quando?» indagò, anche se pensava di conoscere la risposta. «Subito dopo aver suonato per te l’altro giorno, con il quartetto» confermò lei. «Allora sei una puttana masochista?» le chiese. Summer sorrise a quelle parole. Aveva sentito Charlotte usare la stessa espressione per descrivere una delle sue conoscenze al club sulla barca. Si fermò a riflettere. Era una puttana masochista? L’aveva tollerato, in alcuni momenti se l’era persino goduto, ma il dolore era stato soltanto un veicolo, il mezzo capace di trasportarla nell’altra dimensione, non il motivo per cui aveva cercato quell’esperienza. «No.» «Allora solo una puttana?» «Può darsi.» Mentre lo diceva, anche se in parte era una battuta, Summer si rese conto di aver oltrepassato un metaforico Rubicone e seppe che per Dominik valeva la stessa cosa. Raddrizzò istintivamente la schiena, mettendo in mostra il seno sodo. Percepiva lo sguardo di lui che esaminava il reticolo di linee e lividi sbiaditi sul suo culo, il marchio temporaneo della sgualdrina che viveva in lei. Dominik stava riflettendo, il ritmo regolare del suo respiro un delicato sibilo nell’atmosfera pesante della cripta. «È stato qualcosa più di una sculacciata» osservò. «Lo so» disse Summer. «Avvicinati.» Lei obbedì. Adesso gli era tanto vicina da percepire il calore del suo corpo. «Chinati.» Lei lo fece, consapevole dello spettacolo che offriva. «Allarga le gambe.» Adesso lui poteva vedere non solo i segni, ma anche le sue parti intime. Sentì la mano di Dominik toccarle la natica sinistra, delicata come una carezza mentre esplorava la superficie della pelle, un guanto che scorreva sulle curve del suo corpo. Il palmo era bollente. Ma anche la sua pelle lo era. Lui indugiò, seguendo le linee rosee che le attraversavano le natiche ed esplorando le isole sparse di lividi bruni e gialli. Poi un dito scese piano nel solco tra le natiche, sfiorando lo sfintere esposto e pulsante mentre lei tratteneva il respiro, scivolando sul perineo, al che lei sussultò, e arrivando con deliberata lentezza alla sua fessura. Sapeva di essere già bagnata e non provò alcuna vergogna nell’essere così esposta sia fisicamente sia psicologicamente. Il tocco di Dominik, le sue parole, il suo modo di fare la eccitavano da morire. Dunque, che problema c’era? La mano si ritrasse. Per un attimo la mancanza del contatto fu intollerabile. Non stava smettendo, vero? Poteva essere tanto crudele? E lei aveva desiderato una simile crudeltà? «Ti piace, vero?» Summer non rispose, lottando contro il desiderio di dirgli quanto le piacesse. «Dimmelo» la incalzò, la voce un sussurro a malapena udibile che le accarezzava le orecchie. «Sì» rispose lei alla fine. «Sì, mi piace.» Dominik indietreggiò, le girò intorno. Si sarebbe preso il suo tempo. Guardò il corpo di lei da vicino, notò il calore animalesco che emanava: Summer stava quasi sudando, nonostante il freddo. Si accorse dell’effetto che le sue parole avevano su di lei. “Interessante” pensò Dominik. «Perché?» «Non lo so.» Lui la incalzò ancora. «Dimmi quello che desideri.» A Summer facevano male le gambe, ma non si mosse. Rimase dov’era, godendosi le impercettibili correnti d’aria che le accarezzavano il corpo mentre Dominik continuava a girarle intorno, avvicinandosi ancora, ma senza toccarla. «Dimmi quello che vuoi, Summer.» «Voglio che mi tocchi.» Aveva parlato in tono sommesso, ma sapeva che Dominik riusciva a sentirla. Aveva davvero intenzione di costringerla a implorarlo? «A voce più alta. Dillo a voce più alta.» Sì, a quanto pare sì. Il corpo di lei si mosse impercettibilmente a quelle parole. Un segnale microscopico, ma inequivocabile, della sua eccitazione. Gli avrebbe chiesto di scoparla. Ne era quasi sicuro. E non aveva nessuna fretta. Aspettò. «Toccami, ti prego» disse lei. Finalmente. Lui indietreggiò, soddisfatto della disperazione e del bisogno che trasparivano dalla sua voce. «Prima suonerai.» Il corpo di Summer tremò per il desiderio represso. Si raddrizzò lentamente, consapevole che lui stava giocando con lei e incapace di difendersi. Tornò nel cerchio di luce e finalmente si girò a guardarlo. «Un’improvvisazione sui temi della Grotta di Fingal di Mendelssohn» disse, con un lieve inchino. Poi si piegò sulle ginocchia e con tutta la grazia di cui era capace in quella condizione di nudità allungò la mano per prendere la custodia che aveva appoggiato sul pavimento. La aprì e ne estrasse lo strumento. Era consapevole dello sguardo di Dominik sui suoi genitali, come se il voyeur che era in lui sperasse che, mentre si accucciava, le labbra della sua fessura si schiudessero, rivelando l’eccitazione crescente. Al solo pensiero la temperatura del suo corpo salì, allontanando il freddo della cripta che aveva ricominciato a farsi sentire. La patina giallo-arancio dello strumento quasi brillava sotto il raggio di luce dal quale Summer era avvolta. Lei aggiustò la presa sull’archetto e attaccò il brano, a occhi chiusi. Ogni volta che suonava quella particolare musica immaginava onde che si frangevano contro la costa rocciosa di un aspro fiordo, con la schiuma che si levava simile a bruma sullo sfondo di un cielo grigio spazzato dal vento. Per Summer ogni pezzo musicale aveva il proprio paesaggio, ed era lì che spesso veniva trasportata mentre suonava, sospinta da venti esotici in un viaggio della mente. Sapeva che la grotta di Fingal del mondo reale era associata al Selciato del gigante, ma non c’era mai stata. La fantasia, però, spesso bastava a colmare la lacuna. Sentì il proprio respiro affannoso rallentare, il corpo rilassarsi. Il tempo si fermò. Dietro l’ipnotico schermo della musica e della propria deliberata cecità – per la quale non servivano bende – Summer percepiva la presenza di Dominik. L’intensità del suo silenzio, il suono ovattato e lontano del suo respiro. Sapeva che lui non stava semplicemente ascoltando ogni nota prodotta dal suo violino, ma la stava osservando, ed era consapevole di quegli occhi penetranti che percorrevano le geometrie del suo corpo come un esploratore che si addentra in territori sconosciuti, inchiodandola alla sua mappa immaginaria come un entomologo che classifica una farfalla, e godendosi la sua vulnerabilità, il dono del suo corpo. Summer concluse la sua esecuzione con un ostentato movimento del polso. Il suono indugiò un istante, quasi che i muri di pietra riverberassero ancora l’eco della melodia. Poi scese un silenzio così assoluto da farle credere, per un attimo, di essere rimasta sola nella cripta. Ma quando riaprì gli occhi vide Dominik, immobile nello stesso punto dove l’aveva lasciato, l’ombra di un sorriso soddisfatto sulle labbra. Lui alzò le mani e le batté con deliberata lentezza, in segno di apprezzamento. «Brava» disse. Summer annuì, accettando il complimento come se fosse su un palco. Si chinò per rimettere nella custodia il violino, consapevole della lieve oscillazione dei suoi seni durante quel movimento. Poi guardò Dominik, in attesa che dicesse qualcos’altro, ma lui taceva. Si passò la lingua sulle labbra secche e pensò che il calore emanato dal proprio corpo doveva formare una sorta di alone intorno a lei, facendola assomigliare all’extraterrestre di un film di fantascienza o a uno scienziato atomico investito da una fuga radioattiva causata da una catastrofe nucleare. «Splendido» commentò infine Dominik. «Ti riferisci a me o alla musica?» ribatté Summer caustica. «A entrambi.» «È gentile da parte tua» disse lei. «Posso vestirmi, adesso?» Lui rimase impassibile. «No.» Poi si mosse verso di lei, con la grazia e la pericolosità di una pantera che dà la caccia alla sua preda. Summer incontrò il suo sguardo. Non volle arretrare e il suo corpo fu percorso da una nuova, intensa ondata di calore a mano a mano che Dominik si avvicinava. Lui la prese per una spalla, la fece voltare e la spinse davanti a sé, contro la parete della cripta. Le mise una mano alla base della schiena per farla inarcare. Il suo tocco le diede una scossa di piacere. Avrebbe voluto girarsi per vederlo in faccia, ma sapeva che lui avrebbe disapprovato. Tenne lo sguardo inchiodato sul pavimento, cogliendo con la coda dell’occhio la sporgenza delle grandi labbra. Udì un fruscio e cercò di interpretarlo, ma prima di capire che cosa stava succedendo percepì il calore del suo cazzo in mezzo alle gambe, vicinissimo. Se Summer si fosse mossa anche solo impercettibilmente, lo avrebbe sentito dentro di sé. Ma lui non le aveva ancora chiesto di farlo. «È questo che vuoi?» chiese Dominik. «Dimmelo.» «Sì» sussurrò lei. Non era sicura che sarebbe riuscita a trattenere un gemito se avesse parlato a voce più alta. «Sì, cosa?» Summer non avrebbe aspettato ulteriormente. Si inarcò all’indietro, premendo il proprio corpo contro di lui, ma non appena lo fece, percependo per un istante il pulsare dell’erezione di Dominik tra le proprie cosce, lui le afferrò i capelli con un gesto fulmineo e la spinse via, allontanandola da sé. «No» disse con voce roca. «Voglio che tu me lo chieda. Dimmi che cosa vuoi.» «Scopami. Ti prego, scopami. Voglio che mi scopi.» Lui la prese per i capelli e la attirò verso di sé, penetrandola in fretta con un unico movimento. Era così bagnata che lui affondò senza fatica, arrivando al centro del suo corpo. Lei si abbandonò alla sensazione, godendosi il modo con cui la riempiva, chiedendosi se fosse già completamente eretto o se sarebbe cresciuto ancora dentro di lei, diventando più grosso e più duro come spesso accadeva agli uomini. In ogni caso, era già meravigliosamente grosso. Dominik iniziò a muoversi. Il membro di lui si adattava perfettamente alla sua vagina, pensò Summer, abbandonandosi alle sensazioni che cominciavano a inondarla, mentre la mano di lui sulla vita continuava a tenerla in posizione. «Dillo di nuovo» le ordinò Dominik, percependo il suo contrarsi e affondando ancora di più con una spinta violenta, quasi brutale, simile all’impeto di un ariete. «Ah» fu l’unica cosa che Summer riuscì a dire. «Stiamo scopando» disse lui. «Sì» sospirò lei. «Lo so.» «Ed è quello che volevi?» Lei annuì, mentre un altro colpo violento per poco non le faceva sbattere la fronte contro la parete. «Rispondimi» disse lui. «Sì.» «Sì, cosa?» «Sì, è quello che volevo.» «E che cosa volevi?» Sì, stava diventando più grosso dentro di lei, la apriva, la riempiva. Forzava il centro del suo corpo perché si arrendesse. «Volevo che tu mi scopassi.» «Perché?» «Perché sono una puttana.» «Bene.» Lui accelerò il ritmo. Non c’era niente di tenero in questo, lo sapevano entrambi; era pura lussuria animalesca, ma in quel momento andava bene così. La loro prima volta. Il potente desiderio sessuale che nelle passate settimane era rimasto insoddisfatto era finalmente esploso, trovando appagamento. Dominik l’afferrò di nuovo per i capelli, tirandole indietro la testa con violenza, cavalcandola, montandola come un cavallo. Summer sussultò. La sua mente fu attraversata da sensazioni insolite, era confusa e quasi in preda al panico. Quel rapporto sessuale era inquietante e, al tempo stesso, gradito. All’improvviso lei si rese conto che lui non si era messo il preservativo, anche se avrebbe dovuto saperlo fin dall’inizio, perché aveva sentito il suo membro che le si offriva senza alcuna copertura. La stava scopando senza protezione. Persino con Darren aveva sempre insistito perché usasse il preservativo. Adesso però era troppo tardi, ma ci sarebbe stato modo di rimediare in seguito; sapeva che esisteva la cosiddetta “pillola del giorno dopo”. Il respiro di Dominik diventò affannoso, irregolare. Mentre veniva come un torrente dentro di lei, la colpì violentemente su una natica con la mano sinistra. Il bruciore fu immediato e doloroso, ma svanì in fretta, anche se il marchio delle sue dita le avrebbe segnato la pelle per ore. Rimase dentro di lei ancora per un po’, poi si ritrasse. Summer si sentì improvvisamente svuotata, non più invasa, piena fino all’orlo. Addirittura incompleta. Fece per raddrizzarsi, ma il tocco deciso della mano di Dominik alla base della schiena le lasciò intendere che doveva rimanere in quella posizione. Aperta ed esposta. Sorrise tra sé: Dominik era un uomo che veniva in silenzio. Lei faceva una netta distinzione tra gli uomini che godevano senza dire una parola e quelli che lo facevano a gran voce e aveva sempre preferito i primi. Nell’apice del piacere c’è un tempo per parlare e un tempo per tacere. A quel punto Dominik disse: «Vedo il mio sperma gocciolare fuori di te, colarti lungo le cosce, brillare sui tuoi peli, far risplendere la tua pelle… È una visione meravigliosa». «Non è oscena?» azzardò lei. «Al contrario, è bellissima. Non la dimenticherò mai. Se avessi una macchina fotografica, la immortalerei.» «E poi mi ricatteresti? Lividi e tutto?» «Forse i segni accentuano l’effetto comprensivo» commentò Dominik. «Avresti… voluto che non ti mostrassi i lividi?» chiese Summer. «Nient’affatto» rispose lui. «Alzati, adesso. Prendi le tue cose e il violino. Ti porto a casa mia.» «E se avessi altri progetti?» chiese Summer. «Non ce li hai» ribatté Dominik. Con la coda dell’occhio lei lo osservò allacciarsi la cintura nera di pelle dei calzoni. Era stata scopata, ma non gli aveva ancora visto l’uccello. La casa di lui sapeva di libri. Mentre seguiva Dominik lungo il corridoio pieno di scaffali, Summer riusciva a vedere solo file e file di volumi, i cui dorsi si fondevano in un arcobaleno di colori. Passando davanti a una serie di porte che si aprivano su entrambi i lati del corridoio, notò che tutte le stanze erano piene di scansie. Non aveva mai visto una casa così ricca di libri. Si chiese se lui li avesse letti tutti. «No» disse lui. «No, cosa?» «No, non li ho letti tutti. È ciò che stavi pensando, vero?» Dominik le leggeva nel pensiero, oppure quella era la prima cosa che tutti si chiedevano entrando in casa sua? Prima che potesse darsi una risposta, con una mossa repentina lui la prese in braccio, la portò verso il suo studio e, dopo averne aperto la porta con un piede, si diresse verso la scrivania e la depose al centro del piano di legno, sul quale c’erano solo un contenitore con alcuni oggetti di cancelleria, una pila di fogli in un angolo e una lampada da tavolo con il diffusore conico e il braccio orientabile. Seduta di fronte a lui, ancora impregnata dell’odore della cripta e del sesso impetuoso sotto l’abito stropicciato, lei si sentiva nervosa. «Tirati su il vestito» le ordinò Dominik «e allarga le gambe.» Summer obbedì, acutamente consapevole del proprio culo nudo sulla scrivania e del fatto che non si era lavata, che era ancora piena del suo sperma. Lui l’afferrò per le cosce all’altezza delle natiche e la tirò verso di sé: adesso lei era sdraiata, con il sedere sul bordo della scrivania. Poi si girò verso un letto basso addossato alla parete (“Un letto nello studio” pensò Summer. “Che uomo bizzarro”), prese un cuscino, le sollevò delicatamente la testa e glielo mise sotto. Quindi avvicinò la lampada, l’accese e orientò la luce proprio sulla sua fica. Summer fece un profondo respiro. Non era mai stata così aperta, in mostra, esposta. Non era pudica, non insisteva per farlo con le luci spente, ma questo era un livello di esibizionismo completamente diverso. Lui tirò a sé la sedia da scrivania, si sedette e le fissò la fica umida, ancora aperta dopo la recente scopata. «Masturbati» le disse. «Voglio guardare.» Summer esitò. Questo era molto più intenso, molto più intimo che scopare. Conosceva appena quell’uomo, ma la eccitava moltissimo stare davanti a lui con le gambe oscenamente spalancate e una luce puntata sulla sua parte più intima. Dominik si appoggiò allo schienale della sedia, l’espressione al tempo stesso concentrata e interessata, mentre le dita di Summer si muovevano con perizia tra le sue pieghe interne ed esterne, avvolgendo il clitoride in rapidi cerchi, con mosse abili e precisamente orchestrate come quelle con cui suonava il violino. Lui osservava con interesse il modo in cui lei reagiva ai suoi commenti e alle sue istruzioni, alle richieste di andare più veloce o di rallentare, alle promesse di ciò che le avrebbe fatto in seguito. Fu una di quelle promesse a farla venire con impeto, mentre un gemito soffocato le sfuggiva dalle labbra e il suo corpo era scosso dai brividi. Dalla sua posizione privilegiata Dominik poté vedere i muscoli della vagina di Summer contrarsi e stabilì che non stava fingendo… anche se un’eventualità del genere non gli sarebbe parsa possibile. La sollevò in un abbraccio, avvolgendosi le sue gambe intorno alla vita e premendosi la sua fica bagnata contro i vestiti. «Baciami» le disse. “Ha labbra insolitamente morbide per un uomo” pensò lei. Mentre lui le infilava la lingua in bocca, insinuandosi con delicatezza tra le sue labbra, e raggiungeva la sua lingua intrecciandosi a essa, la sua mano le abbassava la cerniera del vestito. Adesso sentiva il sapore di Dominik, un cocktail di impressioni senza una nota dominante, il lieve sentore di menta dell’alito, il vigore mascolino del corpo stretto al suo. Non percepì traccia di profumo o di dopobarba. Era come addentrarsi in un territorio nuovo, un paese straniero che lei non aveva mai esplorato prima. «Alza le braccia» le ordinò lui. Le sfilò il vestito dalla testa scompigliandole i capelli e la fece piegare all’indietro, per cui lei fu costretta ad abbassare le gambe e si ritrovò in piedi sul pavimento, mentre le sue mani iniziavano a percorrerle la pelle nuda, accarezzandola, esplorandola dappertutto, sulla schiena, sulle spalle, sul culo segnato dai lividi. Poi la prese per il mento e la attirò a sé per un secondo bacio… Ma il primo si era mai interrotto? Lei non se n’era accorta. La spinse sul letto. Summer si lasciò cadere all’indietro e lo guardò mentre si spogliava. Prima la camicia, quindi i pantaloni, che scalciò via, e infine i boxer neri. Summer vide il suo pene, grosso, eretto, percorso da vene in rilievo. Dominik la tirò sul bordo del letto, poi si inginocchiò, le allargò le gambe e fece scorrere lentamente la punta di un dito dalla caviglia all’interno della coscia, fino a lambirle la fica. Il corpo di lei rabbrividì in risposta a quel tocco. Lui le sfiorò con le labbra la parte interna della coscia e la stuzzicò baciandola ovunque tranne che nel punto in cui lei desiderava essere baciata. Summer gemette eccitata, inarcandosi verso di lui. Lui si scostò, fece una pausa lasciandola agonizzare e poi affondò il viso tra le sue gambe. Lei sospirò con malcelato piacere, percorsa dai brividi mentre la lingua di lui iniziava a esplorarla. Per un attimo si ritrasse davanti all’ardore di lui – era sporca, non avendo avuto modo di lavarsi dopo la scopata – ma poi si ricordò che era stato lui a montarla, e se lui non se ne preoccupava, perché avrebbe dovuto preoccuparsene lei? Le sensazioni che le dava la sua lingua diventarono così intense da cancellare tutto il resto, qualunque altro pensiero, mentre lei fluttuava, si librava, fuori controllo, in bilico tra il giorno e la notte, tra la vita e la morte, in quella zona dove contano solo i sensi, in cui il piacere e il dolore si fondono in un divino oblio. Alla fine lui riemerse dall’oscuro triangolo del suo piacere e le si mise sopra. «Sì» disse Summer. In silenzio Dominik la penetrò, riempiendola di nuovo, fendendola con il suo cazzo grosso e duro, affondando dentro di lei in un assalto che non le lasciò respiro e che parve durare un’eternità, mentre le sue mani la esploravano ovunque, senza tralasciare nemmeno un angolo del suo corpo, orchestrando il crescendo del loro desiderio. La lingua di lui un istante prima era nella conchiglia dell’orecchio e l’istante dopo nell’incavo del collo, i suoi denti le mordicchiavano delicatamente un lobo, una mano le afferrava una ciocca e l’altra le stringeva le natiche, poi entrambe le mani gliele allargavano per un breve momento. Dominik si muoveva dentro e fuori di lei e ogni affondo era un ulteriore passo verso una destinazione ignota ma allettante. Summer non aveva dubbi sul fatto che lui fosse esperto, visto com’era capace di prenderla con furia o di giocare con lei lentamente come in quel momento. Quanti altri volti avrebbe rivelato? Infine lui venne. Con un ruggito, un verso inarticolato, animalesco. Summer sospirò mentre lui si fermava gradualmente e riprendeva fiato. Mr Silenzio aveva infine gettato la maschera… 7 Una ragazza e una cameriera Stava calando la sera e gli ultimi raggi di sole gettavano un caldo bagliore sul viso di Dominik, avvolgendolo in una luce che non gli si addiceva. Circondato da un alone innaturale nella luce morente del crepuscolo dava l’impressione di non appartenere al mondo normale, anche se in esso pareva agire con totale disinvoltura. Forse era solo perché i suoi lineamenti scuri e decisi si adattavano meglio a un’atmosfera più fredda. Dominik era attraente, certo, ma pensai che il pallido chiarore della cripta gli si addicesse di più. Era appoggiato con noncuranza allo stipite della porta e il suo corpo gettava una lunga ombra sulla veranda davanti a casa dove adesso mi trovavo, in piedi, un gradino più in basso rispetto a lui, pronta ad andar via. Gli avevo detto che quella sera dovevo lavorare, anche se non era vero, per evitare di trovarmi in imbarazzo se mi avesse chiesto di rimanere. O se non me lo avesse chiesto. La lieve brezza che soffiava sul prato portava con sé il vago sentore dei libri allineati nel corridoio e su ogni parete della sua casa. Quei volumi sembravano far parte di lui in modo così indissolubile che per un attimo avevo immaginato che la sua pelle assomigliasse alla pergamena, anche se in realtà era come quella di qualunque altro uomo. Le sue labbra, invece, erano inconsuetamente e piacevolmente morbide. La raccolta di libri di Dominik era stata una sorpresa per me, che avevo sempre associato la bibliomania a persone disordinate, docenti pazzi e tipi dall’aspetto più marcatamente accademico. Avrei detto che Dominik fosse un professionista rampante della City, che lavorasse nel campo della finanza, non certo il professore universitario che lui mi aveva confessato di essere, quando gli avevo chiesto perché la sua casa somigliava a una biblioteca. A giudicare dalle scarpe lucide e dal denaro che presumevo avesse, visto che si era potuto permettere di comprarmi un violino di prim’ordine e di organizzare il concerto con il quartetto, mi sarei aspettata un appartamento monocromo a Bloomsbury o nel Canary Wharf con accessori d’acciaio inox e un arredamento in varie sfumature di grigio metallizzato e nero, i colori della sua auto. E invece la sua era una casa vera, con uno studio, una cucina a sé stante e libri dappertutto, di tutti i colori e le dimensioni, un caleidoscopio letterario lungo le pareti. Sulle prime avevo addirittura pensato che avesse anche un gatto, acciambellato da qualche parte a osservarmi da un rifugio sicuro sugli scaffali, ma poi mi ero resa conto che non era il tipo: non sarebbe stato capace di convivere con un animale domestico che gli circolava tra i piedi, incontrollato, meno che mai con una creatura così indipendente come un felino. Dominik non era eccessivamente riservato né sembrava voler nascondere qualcosa, eppure aveva rivelato pochissimi dettagli della sua vita, della routine quotidiana che scandiva le sue giornate al di fuori dei nostri incontri. Amava la sua privacy, supponevo, e del resto lo capivo benissimo, visto quant’ero riluttante a invitare gente a casa mia. Ero stupita che mi avesse portata lì. Anche se, in qualche modo, i libri contribuivano a renderlo più umano: se non aveva una storia personale, perlomeno sembrava trarre piacere dal collezionare le storie degli altri. Forse non era poi tanto diverso da me, che amavo immaginare le storie che si celavano nei violini e nella musica che suonavo, associando a ciascuna di esse un diverso corollario di immagini e di avventure. A quel pensiero Dominik mi piacque ancora di più. Non eravamo poi così diversi, lui e io, anche se a un osservatore casuale saremmo necessariamente sembrati tali. Ripensai all’abilità con cui mi aveva toccata, dopo aver insistito per guardarmi mentre mi masturbavo. Fui percorsa da un brivido. Non potevo certo negare di averlo fatto con parecchi uomini – avevo avuto una dose più che generosa di incontri casuali e di appuntamenti combinati online in momenti di particolare solitudine – ma nessuno di loro mi aveva mai esaminata in quel modo, osservandomi attentamente mentre mi accarezzavo il clitoride sotto la luce calda di una lampada da tavolo, come un medico, ma senza traccia di distacco clinico. Dominik non aveva pudore e sembrava godere nel privarne anche me, uno strato dopo l’altro. Era come se stesse memorizzando una scena che intendeva rappresentare di nuovo nei minimi dettagli in seguito. Mi aveva chiesto di rallentare e di andare più veloce, di aumentare o diminuire la pressione. Non tanto per eccitarmi, riflettei, ma per valutare la mia reazione, per vedere a quali stimoli il mio corpo rispondeva e che cosa, invece, non funzionava. Mi aveva tenuta in esposizione davanti a sé come uno scienziato con un nuovo esemplare da studiare. Mi ero quasi aspettata che si mettesse a prendere appunti. «Un giorno» aveva detto «ti guarderò di nuovo mentre ti tocchi e ti chiederò di metterti un dito nel culo.» Erano state quelle parole a farmi godere. Per me non è facile raggiungere l’orgasmo, soprattutto con un nuovo amante, ma l’idea che lui mi guardasse, la direzione che i suoi pensieri sembravano prendere, l’oscenità delle sue richieste… Dominik toccava corde che non sapevo nemmeno di avere. Aveva detto che non suonava uno strumento, ma io ritenevo che probabilmente sarebbe stato un buon musicista. Sì, pensai, l’avrei sicuramente rivisto. Spostai il peso da un piede all’altro e allentai la stretta sulla custodia del violino. Non sembrava ancora pronto a lasciarmi andare. Aspettai pazientemente che parlasse. «Credo che la prossima volta lascerò a te l’iniziativa» disse infine. Rimasi in silenzio per un attimo, riflettendo. Un altro cambiamento di tattica. Proprio quando pensavo di averlo capito. «E se organizzo qualcosa che non ti piace?» ribattei. Dominik si strinse nelle spalle. «Organizzare qualcosa che non mi piace ti farebbe godere?» Ci pensai su. No, sicuramente no. Se ci fossimo visti di nuovo, avrei senza dubbio voluto che entrambi ci divertissimo. Era normale, no? Eppure, non ero ancora sicura di che cosa lui volesse esattamente da me, o di che cosa io volessi da lui, il che avrebbe reso difficile fare un programma per l’appuntamento successivo. Feci segno di no con la testa, improvvisamente a corto di parole. «Proprio come pensavo. Aspetterò la tua chiamata.» Annuii, lo salutai e mi girai per andarmene. «Summer» mi chiamò quando avevo quasi raggiunto il cancello. «Sì?» «Decidi pure tu la data e il posto – qui, se ti fa piacere – ma io sceglierò l’ora e sistemerò alcuni dettagli minori.» «D’accordo.» Mi concessi un sorrisetto mentre mi voltavo per andarmene. Dominik non aveva potuto fare a meno di assumere il controllo. Mi stupii nel constatare che preferivo così. Tornai a casa con la mente in subbuglio. Presto sarebbe stato buio, per cui accantonai l’idea di fare una passeggiata ad Hampstead Heath per schiarirmi le idee, anche se un po’ di movimento all’aria aperta era esattamente ciò di cui avrei avuto bisogno. Il sesso era stato grandioso. Eccitante come non mai. Avevo i muscoli un po’ indolenziti, soprattutto quelli dei polpacci, probabilmente per via della posizione in cui Dominik mi aveva messa nella cripta. Ero rimasta in piedi con le gambe doloranti per un’eternità mentre lui mi girava intorno prima di scoparmi. Be’, mi stava bene, visto che non avevo voluto ammettere che stavo scomoda. E poi il modo in cui mi aveva presa, subito dopo che mi ero masturbata, ancora piena del suo sperma, senza che avessi potuto farmi una doccia. Non ero nemmeno andata in bagno per darmi una rinfrescata. Ricordai il modo in cui, appena entrata in casa, mi aveva presa in braccio e condotta nel suo studio, mettendomi sulla scrivania e facendomi allargare le gambe. Avevo dovuto soffocare una risatina quando mi ero resa conto che in realtà mi stava portando in braccio oltre la soglia. Per ironia della sorte, era stato il sesso più romantico che avessi mai fatto, anche se non avevamo usato il preservativo, una regola sulla quale di solito non transigo. Sarei dovuta andare a fare un test. Era stupido, lo so, ma il calore del suo uccello, il modo rude con cui mi aveva scopata, come un uomo posseduto, tirandomi per i capelli quasi stesse montando una giumenta, aveva spazzato via tutto il buonsenso che mi era rimasto. Non c’era da stupirsi che fossi indolenzita. Forse Dominik era un po’ arrogante, ma a letto era magnifico, e nient’affatto egoista. In ambito sessuale, non aveva l’arroganza caratteristica degli uomini molto sicuri di sé. Mi infilai sotto la doccia non appena entrai in casa, continuando a ripensare a quel pomeriggio mentre lavavo via ogni traccia dell’avventura. Poi, scorgendo nello specchio del bagno i lividi ancora debolmente visibili, mi chiesi se Dominik ne avesse aggiunto qualcuno di suo. Per fortuna, non avevo segni sui polsi o sugli avambracci, ma solo in zone coperte dai vestiti, e comunque nessuno di quei segni era così brutto da non poter essere giustificato dalla goffaggine: “Ho sbattuto contro una porta”, “Sono caduta”. Mi chiesi come facessero le persone che frequentavano i club fetish. Come riuscivano a conciliare i loro passatempi notturni (e forse anche diurni) con la vita quotidiana? Ero sicura che per alcuni di loro si trattasse di episodi occasionali, ma secondo Charlotte non era così per tutti: Londra era piena di uomini e donne che si trovavano a proprio agio con i rispettivi partner seduti davanti alla tv con un piatto di curry in una mano e una frusta nell’altra. Stavo per aggiungermi alla schiera? Non con Dominik, o almeno così pensavo. Fino a quel momento non aveva tirato fuori né fruste né manette, anche se mi ero chiesta se avrebbe potuto farlo, visto l’interesse che aveva mostrato per i miei lividi. Ero rimasta un po’ delusa quando non mi aveva legata, appesa al soffitto o imprigionata in qualche aggeggio che pensavo potesse tenere nascosto in casa. Avevo visto solo lo studio e la cucina, non la camera da letto. Strano che ci fosse un letto nello studio. Lui aveva detto che gli serviva per pensare. Pensare a cosa? A come confondermi ulteriormente e sedurmi, immaginai. Più ci pensavo, più scoprivo di essermi infilata in un labirinto senza una via d’uscita praticabile. A parte la difficoltà di venire a capo della mia personale rivoluzione sessuale e di capire quanto quel nuovo mondo di devianza in cui ero incappata per caso mi si adattasse, non sapevo che cosa fare con Dominik. Il pensiero di chiamarlo per organizzare il nostro prossimo incontro mi lasciava perplessa. Era un compito semplicissimo, ma più ci riflettevo, più arrivavo alla conclusione che, nonostante la stravaganza del suo comportamento fino a quel momento, mi era piaciuto il modo con cui mi dava ordini. Avevo apprezzato la chiarezza delle sue istruzioni e mi ero goduta la sorpresa. Attendevo, con eccitazione, di scoprire quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Considerazioni del genere, immaginai, avrebbero fatto rivoltare le suffragette nella tomba. Per non dire delle sculacciate e delle frustate… Riflettei se telefonare al mio amico Chris. Stava lavorando a tempo pieno alla registrazione del primo CD della band e non lo vedevo da mesi, anche se ci eravamo scambiati qualche mail. Darren era sempre stato geloso della nostra amicizia e per il quieto vivere io avevo gradualmente diradato i contatti. Adesso me ne pentivo. Chris era sempre stato la mia spalla, il mio appoggio, il mio rifugio quando avevo bisogno di qualcuno che capisse le mie stranezze e le difficoltà dell’aver intrapreso un percorso professionale creativo. Ma era impossibile spiegargli tutto questo. Era un tipo protettivo; sapevo che si sarebbe insospettito di un uomo che mi faceva regali costosi e mi chiedeva di spogliarmi davanti a lui in cripte sotterranee. Mi sarei insospettita anch’io, se qualcuno mi avesse riferito una storia del genere. Decisi, allora, di chiamare Charlotte. Quello era pane per i suoi denti. «Ehi, dolcezza» disse. «Come va?» Questa volta era sola. Meno male. Mi avrebbe dato fastidio se ci fosse stato qualcun altro a origliare il mio racconto. «Ti ricordi il tizio che mi ha mandato la mail? Quella con l’“offerta” a determinate “condizioni”?» «Sì sì» rispose lei, improvvisamente attentissima. Le raccontai tutto: il Bailly, la cripta, la nudità, ogni cosa. Descrissi Dominik e le sue strane istruzioni. «Non mi sorprende affatto» concluse Charlotte. «Che cosa vuoi dire? Questa storia è folle.» «No, non lo è. Lui è solo un dominatore.» «Un dominatore?» «Sì. Sono tutti così: arroganti, vogliono avere il controllo. A quanto pare ti piace, però.» «Mm.» «Come hai detto che si chiama?» «Dominik.» Charlotte scoppiò a ridere. «Be’, è quanto mai appropriato» disse. «Allora, che cosa dovrei dirgli per l’appuntamento?» «Questo dipende solo da quello che vuoi tu.» Ci riflettei. Davvero non sapevo che cosa volevo da lui. Qualcosa, certo. Non riuscivo a togliermelo dalla testa, ma perché? «Non ne sono sicura» risposi. «È per questo che ti ho telefonato.» «Oh, be’» disse Charlotte, pragmatica come sempre «se non scopri quello che vuoi non lo otterrai mai.» Un consiglio piuttosto sensato. Dopodiché aggiunse: «Non gli farà male aspettare un po’. Magari una settimana o due. Proponigli di suonare di nuovo per lui, nuda ovviamente, visto che lo eccita tanto, e a casa sua… a meno che tu non voglia invitarlo da te. Così penserà che tu abbia ributtato la palla nel suo campo. Cosa che non hai fatto, ovviamente.» Potevo quasi vedere il sorrisetto che le si allargava sul volto. «Okay» risposi. «E, nel frattempo, puoi venire a servire a una festicciola che ho in programma per la settimana prossima, se ne hai voglia.» «Servire?» «Come cameriera. Gli ospiti sono tutti appassionati di fetish. Posso presentarti a qualcuno e così capirai se ti piace davvero essere dominata. Dirò a tutti che stai solo provando per una sera, e se non ti piace puoi toglierti il grembiule e unirti alla festa. Ho ingaggiato dei veri e propri sottomessi. Faranno loro tutto il lavoro pesante. Tu puoi limitarti a portare in giro qualche vassoio e a essere sexy.» «Essere sexy? Che cosa dovrei mettermi?» «Oh, non lo so, usa la fantasia. Perché non chiami il tuo fidanzato ricco e gli chiedi di comprarti qualcosa?» «Non è il mio fidanzato! E non ho nessuna intenzione di chiedergli niente.» «Ehi, non scaldarti. Ti sto solo prendendo in giro. Come sei suscettibile!» «E va bene» cedetti controvoglia. «Verrò.» «Perfetto» disse Charlotte. «Però magari potresti dirglielo, per vedere come reagisce. Ci vediamo sabato. Ah, mi riporti il cappotto, per favore?» Aspettai tre giorni prima di chiamare Dominik. «Summer» rispose lui, prima che potessi aprir bocca. «Il nostro appuntamento» gli dissi. «Che ne dici di mercoledì prossimo?» Dominik rimase in silenzio e io udii un frusciare di pagine. Probabilmente stava controllando l’agenda. «Va bene. Sono libero. Che cosa avevi in mente? Così posso organizzare le cose.» «Suonerò di nuovo per te, a casa tua.» «Scelta eccellente.» Sembrava apprezzare la proposta, e io mi rilassai. Discutemmo la scelta della musica. Avevo pensato di suonare qualcosa di diverso, visto che l’improvvisazione nella cripta gli era piaciuta: per esempio, un pezzo che non conosceva del compositore neozelandese Ross Harris, oppure qualcosa di estraneo al repertorio classico, magari Daniel D. Alla fine, però, in preda al nervosismo, accettai la sua scelta: una parte dell’ultimo movimento del concerto per violino di Max Bruch. «Allora ci vediamo» dissi con allegria forzata. Odio parlare al telefono. «Summer» disse mentre stavo per riagganciare. Voleva sempre avere l’ultima parola. «Sì?» «Sei libera sabato sera?» «Mi dispiace, ho un impegno.» «Capisco. Non importa.» Sembrava deluso e io mi chiesi se avesse sperato di vedermi prima. Poi mi venne in mente il consiglio di Charlotte di parlargli della festa. «A dire la verità» dissi «sono invitata a una festa un po’ insolita.» «Mm. In che senso?» Sembrava divertito, non infastidito, così continuai. «È a casa della mia amica Charlotte, quella che mi ha portata al club fetish.» «Amica interessante, a quanto pare.» «Infatti. Lei… be’… mi ha chiesto di partecipare come cameriera.» «Come cameriera? Senza retribuzione, immagino.» «Credo di sì. Non abbiamo parlato di soldi.» «Per dirla con le tue parole, è solo per l’eccitazione, allora?» «Immagino di sì. Sì.» «Curioso.» Non ero sicura che significava l’approvazione. Quel venerdì ricevetti un altro pacco. Sempre da Dominik. Dovetti di nuovo firmare la ricevuta, ma questa volta lui non si era assicurato che io fossi in casa. Doveva aver pensato che ci sarei stata, oppure semplicemente aveva rischiato, ma era comunque un dettaglio che mi infastidiva un po’. Mi metteva a disagio il fatto che lui riuscisse a prevedere così bene le mie mosse. Dentro un’anonima scatola di cartone c’era un pacchetto più piccolo avvolto nella carta velina bianca e chiuso da un nastro nero. Lo aprii con cura, ripiegando la carta e mettendola ordinatamente da parte. All’interno c’era un sacchetto di raso nero, che conteneva un corsetto dello stesso colore. Era qualcosa di completamente diverso dai modelli pacchiani che avevo visto nei negozi di biancheria intima economica. Provvisto di stecche d’acciaio, aveva i fianchi larghi e sagomati e la vita stretta in modo da mettere in risalto le forme di chi lo indossava. Le parti di raso erano intervallate da sottili inserti di velluto, secondo un motivo geometrico art déco che sarebbe stato perfetto per una stella del cinema degli anni Trenta. Un capo decisamente bello e raffinato, che però sembrava un po’ corto. Quando me lo provai e mi guardai nello specchio, mi resi conto che si fermava sotto il seno, anziché coprirlo. Se l’avessi indossato senza il reggipetto o senza le coppette copricapezzolo, avrei avuto il seno completamente esposto. L’idea mi eccitò. A pensarci bene, però, sembrava improbabile che Dominik volesse che io suonassi per lui parzialmente vestita, quando mi aveva già vista nuda. Tra l’altro, non pareva molto interessato a quello che indossavo, anche se, secondo me, gli piaceva osservare i piccoli cambiamenti delle mise che sceglievo a seconda delle occasioni. Quel corsetto era più nel mio stile che nel suo. In cerca di qualche ulteriore indizio, frugai in mezzo alla carta che imbottiva la scatola e trovai altri due pacchetti più piccoli e un biglietto. Sul biglietto c’era scritto: “Indossali per me. D”. In uno dei pacchetti c’erano un paio di culottes bianche con i merletti, un paio di calze e delle giarrettiere. Le calze erano di quelle di un tempo, di nylon con la cucitura: ne avevo sempre sentito parlare, ma non le avevo mai viste. Erano scivolose, leggermente ruvide, e non avevano nulla a che vedere con i collant morbidi ed elastici a cui ero abituata. L’altro pacchetto conteneva un grembiulino di cotone bianco con il bordo di pizzo. C’era anche un copricapo abbinato, grande quanto un piattino. Un costume da cameriera. Per sabato. Per la festa di Charlotte. Non c’era traccia di scarpe. O Dominik se n’era dimenticato, il che sembrava improbabile, oppure aveva giustamente pensato che le avessi già. In effetti possedevo un paio di scarpe nere a stiletto con un alto plateau e un intarsio di pizzo bianco che avevo comprato di seconda mano da un’ex ballerina di cage dance di Hackney che aveva smesso di ballare per fare la modista e che perciò vendeva tutte le sue scarpe. Sarebbero state perfette, anche se scomode, con quel tacco così alto. Ma ero disposta a fare dei sacrifici, non tanto in ossequio alla moda quanto per avere il look giusto. In fondo alla scatola trovai qualcos’altro: una campanella. La forma era quella della campana di una chiesa, ma il batacchio era poco più lungo del mio dito. Quando la scossi emise un suono straordinariamente cristallino, più simile al profondo rintocco di uno strumento a percussione che allo scampanellio acuto del collarino di un gatto o del campanello di una bicicletta. La buona educazione avrebbe imposto di far sapere a Dominik che avevo ricevuto il pacco, ma non volevo incoraggiare i suoi regali. Ero già abbastanza in debito con lui per via del violino. Detto questo, avevo la netta sensazione che lui avesse comprato tutte quelle cose non per me, ma per se stesso, per potermi immaginare vestita così e inebriarsi del potere di avermi costretta a servire il cibo a seno nudo come una coniglietta, anche se molto più raffinata. Immaginai che la campanella fosse destinata agli ospiti, per reclamare i miei servigi. Alla fine non gli feci sapere niente. Non avevo intenzione di tenerlo sulle spine, ma non sapevo che cosa dirgli. E comunque non gli avrebbe fatto male rimanere con il dubbio di aver sbagliato a dare per scontata la mia presenza in casa e che il pacco fosse stato restituito al negozio. Mandai, invece, un SMS a Charlotte per avere la conferma che la mise sarebbe stata appropriata e non avrebbe offeso nessuno degli ospiti. “Ok se vengo in topless?” “Certo. Non vedo l’ora.” Rimisi tutto nella scatola, la chiusi e la sistemai in un angolo della stanza, dove rimase a fissarmi con aria di rimprovero, come se al suo interno fosse intrappolata una creatura solitaria in attesa di essere liberata. Il mattino dopo, per non pensare ai vestiti e alla festa di Charlotte, andai a nuotare alla piscina del quartiere con gli auricolari impermeabili che suonavano Emilie Autumn in loop. Poi feci un giro in Brick Lane e mi fermai a fare colazione nel mio caffè preferito in Bacon Street (nome quanto mai appropriato alla circostanza). Il locale era anche un negozio di abiti vintage, pieno di capi risalenti addirittura all’inizio del Novecento, ed era quindi pervaso da un odore dolciastro e lievemente polveroso di cose vecchie che ricordava un po’ quello dei libri di Dominik. Per quanto fosse ancora presto (in genere mi svegliavo molto più tardi), la via era già affollata: su entrambi i lati c’erano stand appendiabiti pieni di vestiti e oggetti di antiquariato e cianfrusaglie disposti su coperte sopra il marciapiede, chaise-longue leopardate accanto a sedie da ufficio, bancarelle di cibo che vendevano di tutto, dalle costolette alla brace a frullati di frutta serviti in gusci di cocco. L’atmosfera vibrava dell’energia dei commercianti e dell’entusiasmo dei turisti che visitavano quella zona per la prima volta. Mentre mi facevo largo tra zelanti venditori e cacciatori di curiosità, notai che le mie recenti avventure sessuali mi avevano aperto la mente anche in un altro senso. In precedenza avevo guardato le giacche, i berretti militari e le maschere antigas in vendita su molte bancarelle pensando che gli acquirenti fossero collezionisti di cimeli che dovevano frequentare mercatini come quello con insolita regolarità. Adesso, invece, quelle stesse cose mi apparivano non più come oggetti da collezione, ma come capi d’abbigliamento fetish: le giacche e i berretti militari erano tanto amati da quelli che Charlotte avrebbe definito “dominatori” nei club in cui ero stata, mentre le maschere erano destinate sia ai cosiddetti sottomessi sia a tizi punk dall’aspetto asessuato ma con un evidente interesse per la moda fetish. Certa com’ero che gli altri passanti non notassero questi particolari, avevo la piacevole sensazione di essere entrata a far parte di un club segreto, una società di persone che vivevano ai margini del mondo, ignote a chiunque altro. Mi resi conto anche, con una punta di nervosismo, che non avrei più potuto togliermi dalla testa simili pensieri. Senza volerlo, avevo imboccato una strada da cui non sarei più stata capace di tornare indietro, neppure se lo avessi voluto. Rimasi seduta nel caffè per buona parte della giornata, osservando l’andirivieni degli altri clienti e chiedendomi chi di loro – se mai ce n’era qualcuno – facesse parte di quel mondo segreto e se riconoscesse in me uno spirito affine (quasi che gli outsider fossero attratti gli uni dagli altri al pari delle oche prima dell’inesorabile migrazione stagionale verso sud), oppure se i vestiti di tutti i giorni mi facessero sembrare del tutto normale. Fu con questo spirito di rassegnazione al cammino che ormai avevo intrapreso che non solo mi infilai la mise che Dominik mi aveva regalato per la sera della festa, ma la indossai proprio come lui avrebbe voluto, lasciando il seno scoperto. Mi ci volle quasi un’ora per allacciare il corsetto, secondo le istruzioni allegate alla confezione, anche se non riuscii in nessun modo a stringerlo a dovere. Una volta pronta, uscii, presi la Hammersmith and City Line da Whitechapel a Ladbroke Grover e mi diressi a casa di Charlotte. Mi ero infilata un lungo soprabito rosso, godendo al pensiero che, sotto quella copertura, ero una persona completamente diversa, la vera me stessa, libera dalle convenzioni sociali che imponevano, per esempio, di indossare un reggiseno per uscire. Tutta la mia audacia svanì quando, a casa di Charlotte, dovetti togliermi il soprabito. Ero arrivata presto apposta, per potermi ambientare e recuperare l’autocontrollo prima che sopraggiungessero gli ospiti. Alla fine feci un profondo respiro e, affettando una calma olimpica, per non offrire a Charlotte il destro di prendermi in giro, mi liberai del soprabito. «Che bel corsetto!» esclamò lei. «Grazie.» Non le dissi che era un regalo di Dominik. «Devi stringerlo un po’, però. Vieni qui.» Mi fece girare verso la parete. «Appoggiati con le mani al muro.» Mi venne in mente la scena di sesso nella cripta, quando Dominik mi aveva fatta mettere più o meno nella stessa posizione. Avrei voluto che lui fosse lì, per scoparmi di nuovo in quel modo. Al solo pensiero mi si indurirono i capezzoli e divennero ancora più turgidi quando mi resi conto che probabilmente il “servizio” di quella sera mi avrebbe stuzzicata; in tal caso, con la mise che indossavo, mi sarebbe stato piuttosto difficile nascondere l’effetto che la festa aveva su di me. Dominik ci aveva pensato? Era un buon osservatore e io sapevo che aveva preso nota di quello che mi eccitava, ma non ero sicura che avesse previsto che fare la cameriera, soprattutto vestita in quel modo, mi avrebbe stimolata sessualmente. Voleva che mi eccitassi in sua assenza, con le conseguenze che avrebbero potuto derivarne? Oppure voleva solo esercitare il controllo, vedere se avrei obbedito alle sue istruzioni sempre più pressanti? L’argomento dell’esclusività non era stato sollevato. Era decisamente troppo presto. Non ero nemmeno certa che la nostra fosse una relazione. «Te la stai spassando, eh?» Ero così persa nei pensieri che non m’ero accorta che Charlotte stava stringendo i lacci del corsetto. «Trattieni il fiato.» Sussultai quando lei mi mise un piede sulla schiena e poi tirò con tutta la forza che aveva. Adesso che era allacciato nel modo giusto, il corsetto mi dava una sensazione completamente diversa: costretta com’ero a tenere la schiena perfettamente dritta, avevo la piacevolissima impressione di essere stretta in un abbraccio mozzafiato. Dominik aveva evidentemente azzeccato la taglia, anche se sapevo che i lacci consentivano un minimo di gioco. Per fortuna, poi, indossavo già le scarpe abbinate alla mise, perché a quel punto mi sarebbe stato impossibile chinarmi. Se quella sera avessi dovuto raccogliere qualcosa da terra sarei stata costretta ad accucciarmi, tenendo la schiena dritta. La sola idea mi arrapò e a quel punto ero sicura che Charlotte aveva percepito l’odore della mia eccitazione, piegata com’era davanti a me per sistemarmi le calze. Trascorsi la maggior parte della serata in cucina, disponendo il cibo sui vassoi e godendomi una volta tanto la possibilità di essere più creativa che nel mio lavoro part-time alla caffetteria, dove il cuoco esigeva che i suoi ordini fossero eseguiti alla lettera. Ogni volta che la campanella suonava, mi affrettavo a rispondere e negli andirivieni tra il salotto e la cucina ne approfittavo per seguire lo svolgimento della festa, dove, a ogni rabbocco del bicchiere che tenevano in mano, i pittoreschi ospiti di Charlotte erano sempre più stretti gli uni agli altri e sempre meno vestiti. C’era grossomodo lo stesso numero di uomini e di donne, quasi tutti abbigliati come i partecipanti alla festa del club fetish sulla barca: perlopiù latex e biancheria intima. Uno degli uomini era vestito da cameriera – una divisa striminzita rosa shocking e un grembiulino con i merletti – ma da come si comportava era chiaro che non aveva un ruolo di servizio. Anche se Charlotte mi aveva assicurato che non sarei stata sola in cucina e non avrei dovuto svolgere mansioni pesanti, in realtà ero l’unica ospite a lavorare. Ogni volta che, a causa del corsetto, faticavo a respirare o ero costretta a chinarmi o ad accucciarmi goffamente, avevo la sensazione che Dominik controllasse i miei movimenti, come se avesse il potere di modificare persino il modo in cui il mio petto si alzava e si abbassava, imprigionato in quell’armatura di raso e acciaio. Ogni volta che la campanella suonava, e io correvo a portar via un piatto o a riempire un bicchiere di vino, immaginavo che a suonare fosse Dominik e, come travolta da una violenta ondata di desiderio, mi perdevo in fantasie sui vari modi in cui mi avrebbe presa e usata lui. Charlotte mi osservava incuriosita. «Ho una sorpresa per te, più tardi» mi sussurrò in un orecchio mentre le riempivo il bicchiere. Aveva suonato la campanella per chiamarmi più volte di chiunque altro, quella sera. «Davvero?» ribattei, senza grande interesse. Le fantasie che occupavano i miei pensieri erano francamente più eccitanti di qualunque cosa lei potesse avere in mente. La cena era terminata. Adesso Charlotte era seduta sulle ginocchia di un uomo che riconobbi. Mi ci volle qualche minuto per ricordare dove l’avevo visto. Era il tizio che indossava i leggings con le paillette e il berretto militare che avevo notato al club fetish sulla barca, prima che entrassimo nel dungeon. Charlotte sapeva che ero stata attratta da lui, ne ero sicura. Mi chiesi se l’avesse invitato di proposito, e se si fosse seduta in grembo a lui solo per irritarmi. Un pensiero un po’ sciocco, forse – non avevo scambiato neanche una parola con quel tipo – ma era già capitato in passato che Charlotte flirtasse con uomini che mi piacevano. Penso che trovasse divertente osservare la mia reazione, per cui feci del mio meglio per sembrare impassibile. Ero in cucina, intenta a distribuire il dessert nelle coppette, quando udii l’inconfondibile suono di una viola provenire dal salotto, mentre gli invitati di Charlotte abbassavano la voce, disponendosi ad ascoltare la musica. Chris. Era una delle cover che suonavamo insieme, quella che avevamo eseguito la sera in cui lo avevo presentato a Charlotte. In seguito loro due si erano visti, e la cosa aveva fatto infuriare me e messo in imbarazzo Chris, anche se la nostra amicizia non aveva mai avuto il minimo sottinteso sessuale, un fatto davvero singolare, dal momento che immaginavo di scopare praticamente con chiunque, persino con il lattaio. Era bello avere un amico con cui, invece, potevo rilassarmi senza preoccuparmi delle conseguenze. Che cosa avrebbe pensato di me, adesso? Il pezzo finì e io udii il tintinnio acuto della campanella che sovrastava il fragore degli applausi. Era di sicuro Charlotte che chiedeva il dessert. Presi più coppette che potei e le portai in salotto, sia perché la campanella di Dominik mi attraeva come il canto ammaliatore di una sirena sia perché sapevo che Charlotte mi stava sfidando e non avevo alcuna intenzione di dargliela vinta. Non mi sarei rifugiata in cucina né avrei cercato di nascondermi, e Chris sarebbe dovuto farsene una ragione. Quando entrai in salotto lui sgranò gli occhi. Gli lanciai una rapida occhiata e poi abbassai lo sguardo, sperando che afferrasse il messaggio e non dicesse una parola. Non lo fece. Fu Charlotte a rompere il silenzio. «Che ne pensi della nostra cameriera?» chiese a Chris. «Penso che sia adorabile» rispose lui senza esitare. Poi ricominciò a suonare, mettendo fine alla conversazione. Con un sospiro di sollievo tornai in cucina. Grazie al cielo esistevano i buoni amici. Decisi che non avrei mai più abbandonato Chris, a prescindere da ciò che qualunque futuro amante avrebbe potuto pensare della nostra relazione platonica. Alla fine della sua esibizione, mentre stava per andarsene, lui si fermò da me in cucina, chiaramente scioccato dal comportamento degli ospiti di Charlotte, che adesso stavano facendo baldoria in salotto come gli sfrenati commensali di un banchetto romano. L’atmosfera era carica di tensione sessuale e io sospettavo che il menu prevedesse un’orgia… subito dopo il dessert. «Sum» disse, fissandomi con decisione negli occhi per non guardarmi il seno nudo «conosci questa gente?» «Be’, non proprio, solo Charlotte.» Era la verità, in fondo. Lei non mi aveva presentata per nome ai suoi ospiti, com’era naturale vista la mia funzione alla festa. Adesso che ci riflettevo, era strano come il ruolo che Charlotte mi aveva attribuito mi avesse fagocitato nel momento stesso in cui mi ero messa il grembiule e avevo sentito suonare la campanella. «Tutto un po’ strano, no? Senti» mormorò poi, lanciando un’occhiata a una ragazza in topless che stava apertamente accarezzando una coscia dell’uomo con la divisa rosa da cameriera «se avevi tanto bisogno di soldi, avrei potuto darti una mano. Avresti dovuto chiamarmi.» Sentii un tuffo al cuore. Chris era convinto che lo facessi per soldi. Non riuscii a confessargli che lavoravo vestita in quel modo gratis. Come avrei potuto spiegargli l’assoluta insensatezza di una cosa del genere? Annuii in silenzio, vergognandomi troppo per guardarlo negli occhi. Lui mi strinse una spalla con tenerezza. «Devo andare, piccola. Ho un concerto, più tardi. Ti abbraccerei, ma… be’, vedi… sarebbe imbarazzante.» Mi si riempirono gli occhi di lacrime. Chris era sempre stato l’unica persona che sembrava capirmi. Non so cos’avrei fatto se avessi perso la sua comprensione. Si protese verso di me, evitando accuratamente di toccarmi il seno, e mi diede un casto bacio sulla guancia. «Chiamami, okay? Oppure, se ti va, fatti vedere più tardi, quando… ehm… hai finito qui.» «Okay» risposi. «Ci vediamo.» Se ne andò e la campanella suonò di nuovo. Charlotte formulò la sua richiesta in un attimo, visto che era impegnata: in ginocchio sul pavimento, nuda, aveva la testa in mezzo alle cosce di un’altra ragazza. Aspettò che avessi dato una bella occhiata alla scena prima di chiedermi di portarle un cucchiaio e un’altra coppetta di gelato. Cosa che feci subito. «Rimani lì» disse poi. «Voglio che guardi.» Non mi mossi, e non solo perché lei mi aveva intimato di restare. Charlotte stava elegantemente riempiendo di gelato la vagina della sua compagna per poi affondarci la lingua e succhiarlo. L’altra sussultava a ogni brusco passaggio dal caldo al freddo, dimostrando di godersela parecchio. Anche l’uomo del club che poco prima aveva tenuto Charlotte sulle ginocchia assisteva allo spettacolo, con un evidente rigonfiamento in mezzo alle gambe. Avrei voluto abbassargli la cerniera e tirarglielo fuori, ma non lo feci, non so se per lealtà nei confronti di Dominik, visto che ero ancora costretta nelle stecche del suo busto, o perché non mi pareva appropriato comportarmi in modo così sfacciato, dato il mio ruolo di cameriera. Charlotte girò la testa e incontrò lo sguardo dell’uomo alle sue spalle, annuì in segno di approvazione e poi allargò le lunghe gambe. Lui si tolse i jeans liberando l’erezione; non portava biancheria intima. Aveva un pene molto bello, perfettamente eretto, di colore uniforme e di dimensioni promettenti: una scultura marmorea degna di una galleria d’arte. L’uomo si chinò a prendere un preservativo da una delle tasche dei jeans, quindi si inginocchiò quel tanto che bastava per penetrare Charlotte da dietro. Mentre lui affondava dentro di lei, la mia amica aveva il volto pervaso da un’espressione di piacere puro, da una sorta di estasi mistica. Persa com’era nella sensazione di quel grosso membro che la riempiva, si era dimenticata di me. In quel momento la perdonai. Charlotte era schiava dei propri desideri almeno quanto io lo ero dei miei, ed era bellissima in quegli attimi di passione. Raccolsi la ciotola vuota e il cucchiaio, quindi tornai in cucina. La campanella non suonò più, ma io rimasi in attesa, stretta nel corsetto e nelle scarpe a stiletto che mi facevano dolere i piedi. Il disagio mi diede una sensazione di pace, simile a quella che provavo dopo essermi fatta decine di vasche in piscina. Alla fine gli ospiti se ne andarono e Charlotte mi chiamò un taxi. «Tutto okay, dolcezza?» mi chiese, cingendomi affettuosamente le spalle con un braccio. «Sì» risposi. «In realtà, mi è piaciuto.» «Bene» disse lei. Rimase in piedi sui gradini dell’ingresso avvolta in un lenzuolo – unica protezione dallo sguardo curioso del tassista – e mi guardò scomparire nell’oscurità. Dominik mi telefonò il giorno dopo, per confermare il nostro appuntamento. «C’è qualcosa di diverso nella tua voce» mi disse. «Sì» confermai. «Raccontami.» Credetti di percepire una punta di preoccupazione, ma non potevo esserne sicura. Benché non sapessi se fosse davvero in ansia per me o se si trattasse di un’altra mossa del suo gioco, mi sentii spinta ad assecondare la sua richiesta esattamente come mi ero sentita costretta ad accorrere al suono della campanella. Gli raccontai del corsetto e di Charlotte, e di quello che avevo provato guardandola mentre la penetravano da dietro. Il giorno prima del nostro incontro mi mandò un SMS: “Vieni domani sera alle dieci. Avrai un pubblico. Più di una persona”. 8 Un uomo e il suo ospite Era una stanza della casa di Dominik che Summer non aveva ancora visto. All’ultimo piano, nel sottotetto. Un tempo forse era una soffitta, ma era stata completamente ristrutturata. Solo due delle pareti erano coperte da scaffali, perlopiù occupati da file di libri con la costa ingiallita e da riviste di cinema; lo scaffale più alto sulla parete di sinistra era ingombro di volumi più antichi rilegati in pelle, molti dei quali con titoli francesi. Summer non ebbe l’opportunità di osservarli più da vicino né di curiosare ulteriormente. Non c’erano finestre e la luce proveniva da due lucernari quadrati che si aprivano nel soffitto. Per il resto la stanza era vuota, come se Dominik l’avesse deliberatamente lasciata priva di arredi o oggetti che avrebbero potuto distrarre. Dominik le aveva chiesto di presentarsi alle dieci di sera. A differenza dei precedenti incontri stabiliti dal contratto non scritto che regolava i loro rapporti, quella sarebbe stata un’esibizione notturna anziché diurna. Lui l’aveva accolta alla porta e le aveva dato un rapido bacio sulla guancia. La sua espressione era imperscrutabile come al solito e Summer aveva evitato di fargli domande, sapendo che sarebbe stato perfettamente inutile. Si era pertanto limitata a seguirlo su per le scale, fino all’ultimo piano. «Siamo arrivati» aveva annunciato lui. Summer appoggiò la custodia del violino sul pavimento di legno. «Adesso?» chiese a Dominik. «Sì, adesso» annuì lui. Moriva dalla voglia di chiedergli chi ci sarebbe stato oltre a lui, ma si trattenne. Cominciava ad avvertire fitte di eccitazione percorrerle il corpo al pensiero del pubblico che avrebbe assistito alla sua esibizione, spiando ogni suo gesto e movimento. Si tolse i vestiti: un paio di vecchi jeans e una maglietta bianca aderente. Dominik le aveva detto che questa volta non ci sarebbe stato bisogno di abiti particolari. Né calze né tacchi alti. Si sarebbe esibita completamente nuda. Lui sembrava godere di quell’alternanza di nudo e vestito nello svolgersi delle sue esibizioni, che organizzava come un direttore d’orchestra folle ma puntiglioso. Summer era in piedi di fronte a lui, nuda. Per un attimo desiderò che Dominik la prendesse subito, carponi sul pavimento, ma poi si rese conto che lui non l’avrebbe fatto prima che lei avesse suonato la musica che lo eccitava tanto. Si erano accordati in anticipo sul programma: l’assolo dell’ultimo movimento del concerto per violino di Max Bruch. Lui la scrutava attentamente. La stanza era calda e avvolta nella penombra. «Hai un rossetto nuovo?» indagò, guardandole le labbra. Era un buon osservatore. Summer era solita cambiare rossetto nel corso della giornata, passando a un rosso più scuro verso sera. Era un’abitudine che aveva da anni e che le dava modo di percepire meglio la transizione dal giorno alla notte. «Non proprio» rispose lei. «Alla sera uso una tonalità più scura e calda.» «Interessante» commentò lui, con aria pensierosa. «Hai portato il rossetto con te?» «Porto sempre con me sia quello da giorno sia quello da sera, naturalmente» rispose lei, indicando la borsetta sul pavimento, accanto ai jeans e alla maglietta. Dominik si avvicinò, aprì la borsetta e prese i due tubetti, osservandoli con attenzione per capirne le tonalità. «Notte e giorno» disse poi. «Sì» confermò Summer. Mise giù uno dei due tubetti e aprì l’altro, girandolo per far uscire la punta scura e lucida del rossetto. Aveva scelto il colore notturno. «Vieni qui» le ordinò. Summer obbedì, senza sapere che cosa avesse in mente. «Raddrizza la schiena» le disse. Summer lo fece, spingendo in avanti il seno. Dominik le si avvicinò con il rossetto in mano e iniziò a dipingerle con cura i capezzoli che si stavano indurendo: prima uno, poi l’altro. Summer sussultò. Dipinta. Decorata. Esagerata. Abbassò lo sguardo. Aveva un aspetto così sfacciato. Sorrise, ammirando la perversione della fantasia di Dominik. Ma lui non aveva ancora finito. Fece un passo indietro, la guardò negli occhi e disse: «Allarga le gambe» e si piegò su un ginocchio, sempre con il rossetto in mano. Le intimò di guardare davanti a sé e non in basso. Lei lo sentì entrare con un dito nel suo recesso umido e schiuderle le labbra, per poi farvi scorrere sopra il rossetto, dipingendole la fica. Fu percorsa da un tremito e per un momento oscillò sulle gambe. Poteva solo immaginare che aspetto avesse. Dominik si rialzò. Adesso era truccata per l’imminente esibizione. «La grande meretrice di Babilonia» commentò Dominik. «Dipinta. Perfetta.» Scioccata da quella scena, Summer non trovò nulla da dire. Poi lui tirò fuori una striscia di stoffa nera da una delle tasche dei pantaloni e le bendò gli occhi. «Non saprò chi è presente?» protestò senza convinzione. «No.» «Una sola persona o più d’una?» «Sta a te immaginarlo» rispose Dominik. Un’altra variante nel rituale. Summer trattenne il respiro mentre rifletteva sulle implicazioni di quella situazione. «Adesso ti lascerò» disse Dominik. «Puoi provare il brano che dovrai suonare, se lo desideri. Tornerò con il mio ospite… o ospiti…» Lei notò la deliberata ironia nella sua voce. «Tra un quarto d’ora sarò di nuovo qui, e non da solo. Busserò alla porta tre volte e poi entrerò. Quindi tu suonerai per noi. Hai capito?» Summer fece un cenno d’assenso. Dominik uscì dalla stanza. Lei prese il violino e iniziò ad accordarlo. Dominik aveva chiesto a Victor di lasciare le scarpe al piano di sotto, perciò, quando entrarono nella mansarda, Summer non riuscì a capire dal fruscio dei loro piedi scalzi in quanti fossero. Alla vista di Summer in tutto il suo splendore, con il violino in mano e le parti intime evidenziate dal rossetto scarlatto, Victor fece un sorriso raggiante e si girò verso Dominik per manifestare il proprio apprezzamento con lo sguardo. Sapeva che non gli era consentito parlare. Sin da quando lo aveva aiutato a mettere insieme il quartetto d’archi per il concerto nella cripta, Victor aveva assillato Dominik per capire che cosa stesse architettando. Dominik sospettava che l’amico e Lauralynn fossero qualcosa di più che semplici conoscenti e che passassero parecchio tempo insieme. Victor era sempre stato una presenza ambigua nel campus e nella vita sociale universitaria di Dominik. Aveva complicatissime origini esteuropee che sembravano cambiare capricciosamente a seconda dell’interlocutore a cui raccontava la propria storia. Era un professore a contratto di filosofia che si spostava da un’università all’altra senza mai rimanervi molto a lungo; pur essendo un accademico di basso profilo, incantava il suo uditorio con brillante astuzia, simulato entusiasmo e astruse teorie che, non si sa come, riusciva a farsi pubblicare su riviste esclusive. Era di corporatura media, con i capelli sale e pepe e una corta barbetta mefistofelica che curava con precisione maniacale. Dominik non prestava molto ascolto ai pettegolezzi, ma sapeva che quelli su Victor erano numerosissimi e spesso platealmente inventati. Era il tipo a cui rivolgersi per intrighi e intrallazzi libertini, perché, a quanto si diceva, aveva un curriculum piuttosto nutrito di storie con studentesse. Una volta il direttore di un dipartimento aveva accennato con riprovazione al fatto che le laureande che volevano Victor come relatore della tesi dovevano prestare particolari servigi extracurricolari. In effetti, si era notato che le sue studentesse erano quasi tutte molto carine. Era da un po’ che Victor cercava di estorcere a Dominik informazioni sul suo “progetto”, come lo chiamava lui, e alla fine Dominik aveva ceduto e ammesso l’esistenza di Summer, descrivendo il gioco che stava facendo con lei, ma senza sbilanciarsi sui particolari più intimi. «Devo vederla» aveva detto Victor. «Assolutamente.» «È molto affascinante, sono d’accordo» aveva ribattuto Dominik. «Forse…» «Non “forse”, vecchio mio. Devi farmela vedere. Anche una volta sola. Pensi che lei acconsentirebbe?» «Be’, finora ha sempre acconsentito, o comunque ha tollerato tutte le stranezze a cui l’ho sottoposta» aveva ammesso Dominik. «Parteciperò solo da spettatore, beninteso. Anche se non disinteressato, ovviamente. Non c’è forse un voyeur nascosto in ognuno di noi?» «Eh, sì» aveva ammesso Dominik. «Glielo chiederai? Per favore.» «Talvolta il suo consenso non si esprime a parole. Lo presumo io. Oppure glielo leggo negli occhi, nei gesti.» «Ah» aveva commentato Victor. «Allora lo farai, Dominik? Sono molto affascinato dal tema del tuo esperimento.» «Esperimento?» «Perché, non lo è?» «Sì, suppongo che lo si possa considerare anche così.» «Bene. Allora noi due ci capiamo, vero?» «Tu la guarderai suonare, e basta. Capito?» «Sì, vecchio mio, certo.» Victor si tormentava distrattamente la barbetta, mentre Summer suonava. I suoi capezzoli rosso scuro assomigliavano a bersagli, illuminati com’erano dalla luce della luna che pioveva dai lucernari avvolgendola in un misterioso alone che sembrava fare da contrappunto al suono, mentre la melodia si dispiegava in tortuosi meandri e vie traverse prima di raggiungere la perfezione della sua destinazione finale. La musica le scorreva sotto la pelle, trascinandola con sé, e i due uomini la osservavano in silenziosa condivisione. Summer si rendeva conto di essere osservata e percepiva gli sguardi di chi si stava beando delle sue attrattive fisiche e della sua vulnerabilità. Era difficile dire chi avesse il controllo di quella situazione. Dal ritmo del respiro di Victor che gli stava accanto Dominik capì che l’amico era folgorato quanto lui. Summer nuda produceva quell’effetto e la sua postura eretta dava la sensazione che lei si stesse sfacciatamente offrendo per essere usata, esaminata, o saccheggiata. Un pensiero folle gli attraversò la mente. No, certamente no. Oppure… forse? Si morse la lingua. Summer concluse il pezzo con un inutile virtuosismo. L’incantesimo si ruppe e Victor fece per applaudire, ma Dominik lo bloccò subito con un gesto e si portò un dito alle labbra per ricordargli la consegna del silenzio. Summer non doveva sapere quante persone erano presenti. I due uomini si scambiarono uno sguardo. Dominik ebbe l’impressione che Victor lo stesse incoraggiando. O era la sua immaginazione? Summer era in attesa, orgogliosamente nuda, con il violino lungo un fianco. Lo sguardo di Dominik le scivolò sulla vita, poi scese più in basso. Percepiva la sua fessura nascosta dietro la peluria ricciuta. Avanzò verso di lei, le tolse di mano il violino e lo appoggiò con cura per terra, in un punto in cui non avrebbe corso il rischio di essere danneggiato. «Ti voglio, Summer» le disse. «Mi hai fatto venire voglia di te.» Lei era ancora bendata, per cui Dominik non poté leggere la sua reazione nello sguardo. Le mise una mano sul seno. Il capezzolo era turgido. Una risposta più che sufficiente. Le avvicinò la bocca all’orecchio e sussurrò: «Voglio prenderti adesso, qui». Gli sembrò di cogliere un impercettibile cenno di assenso, anche se non poteva esserne sicuro. «E ci sarà qualcuno a guardare…» Il petto di Summer si sollevò, mentre lei inspirava profondamente. Dominik la sentì rabbrividire. Le mise la mano sulla spalla sinistra, esercitando una leggera pressione. «Inginocchiati, carponi.» E la scopò. Victor assistette alla scena in perfetto silenzio, affascinato dallo spettacolo del grosso cazzo di Dominik che scivolava dentro e fuori la fessura di Summer, penetrandola con decisione. Osservò il ritmo del respiro di lei mentre veniva scopata, l’oscillare dei seni che si muovevano a tempo con le spinte di Dominik, lo schiocco dei testicoli di lui a ogni nuovo affondo. Si asciugò il sudore dalla fronte e si toccò fugacemente attraverso la stoffa dei pantaloni di velluto verde a coste. Con la coda dell’occhio Dominik colse l’eccitazione del collega e notò l’ampio sorriso sul suo volto, ma ben presto la sua attenzione fu attratta dal modo in cui, per l’impatto del suo uccello dentro di lei, l’apertura anale di Summer si allargava: era come se un’onda, formatasi al centro della sua vagina, si muovesse esternamente in cerchi concentrici e una volta raggiunto il sedere si propagasse poi in tutto il corpo, dando vita alla superficie della sua pelle mentre la cresta del piacere si frangeva dentro di lei. Dominik non poté fare a meno di pensare che un giorno avrebbe voluto scoparla proprio in quel buco. Perso nelle sue fantasticherie, non si era accorto che, nel frattempo, Victor si era mosso, portandosi davanti a Summer. Per un attimo, credette che l’amico stesse per tirar fuori l’uccello e metterglielo in bocca – nella classica “posizione dello spiedo”, com’era volgarmente chiamata – e fece per protestare, ma Victor si limitò a estrarre un fazzoletto per asciugare il sudore sulla fronte di Summer con estrema delicatezza, rivolgendo a Dominik un sorriso beato. Rendendosi conto che non era Dominik a detergerle la fronte, Summer si irrigidì per un istante e lui sentì i muscoli della vagina stringersi intorno al suo membro con forza eccessiva. Mentre la sua mente iniziava a correre, riempiendosi di immagini impossibili e indecenti e di ricordi, Dominik rifletté freneticamente di aver letto da qualche parte – nel marchese De Sade? – che quando le donne muoiono in preda agli spasimi del sesso, i muscoli vaginali si paralizzano e un uomo può rimanere intrappolato dentro di loro, come preso in una morsa; oppure si trattava di un racconto pornografico che parlava di donne e cani? Quel ricordo scioccante lo colpì come un fulmine e lui venne con violenza, quasi disgustato dai propri pensieri. Quando alzò lo sguardo, Victor era uscito dalla stanza. Sotto di lui, Summer sembrava annaspare in cerca d’aria. «Stai bene?» le chiese sollecito, uscendo da lei. «Sì» rispose Summer ansimando. Poi si lasciò cadere a peso morto sul pavimento, esausta. «Ti ha eccitata sapere che ci stavano osservando?» volle sapere lui. Lei si tolse la benda e si girò per guardarlo in faccia. Era arrossita. «Da morire» confessò, e abbassò lo sguardo. Dominik adesso sapeva come funzionava la sua mente, in che modo il suo corpo rispondeva allo sguardo di un voyeur. Summer, invece, non era ancora sicura di dove lui l’avrebbe portata. Era la fine del trimestre all’università e Dominik aveva accettato da tempo di partecipare come oratore a un congresso all’estero; aveva persino organizzato di prendersi qualche giorno di vacanza nella città dove si sarebbe tenuto. Quando Summer gli chiese quando avrebbero potuto vedersi di nuovo, lui la informò della sua imminente partenza. Lei si mostrò visibilmente delusa. Erano in cucina, al pianoterra, a mangiare pane e burro dopo la scopata nella mansarda. Summer, ancora oscenamente gocciolante, si era infilata la maglietta ma, su richiesta di Dominik, non aveva indossato i jeans, per cui sedeva con le natiche nude sulla sedia di metallo vicino al piano di lavoro di granito, dove lui aveva appoggiato i piatti e un paio di bicchieri di succo di pompelmo. Il motivo intrecciato della sedia le si imprimeva nella carne dandole un’acuta consapevolezza della propria nudità. Senza dubbio Dominik si sarebbe goduto la visione di un’altra serie di segni provvisori sul suo culo quando alla fine lei si sarebbe alzata e lo avrebbe preceduto sulle scale per andare a recuperare i jeans. Lui aveva ripreso il suo consueto atteggiamento distaccato e pareva incapace di affrontare qualunque argomento importante, meno che mai di dirle che cosa voleva da lei nel lungo periodo. Summer, che era un tipo pragmatico e amava vivere alla giornata, pensava tuttavia che quando fosse arrivato il momento giusto Dominik glielo avrebbe fatto sapere. Per ora si limitava a chiacchierare del più e del meno. Lei avrebbe voluto indurlo a parlare di sé, del suo passato, nel tentativo di capire meglio quel bizzarro uomo, il cui riserbo e la cui distanza, forse, facevano parte del gioco. Se, da una parte, si sentiva enormemente attratta da lui, dall’altra però avvertiva in lui qualcosa di tenebroso, un’oscurità che l’affascinava e al tempo stesso la spaventava. Ogni passo di quella strana relazione sembrava la misteriosa tappa di un viaggio verso una destinazione che lei non riusciva ancora a immaginare. «Sei mai stata a Roma?» le chiese tanto per parlare. «No» rispose Summer. «Ci sono parecchi posti in Europa in cui non sono stata. Quando sono arrivata qui dalla Nuova Zelanda, avevo giurato che avrei approfittato dell’occasione per viaggiare in lungo e in largo, ma ho sempre pochi soldi, per cui mi sono spostata raramente. Una volta sono andata a Parigi per una settimana con un piccolo gruppo rock con cui suono ogni tanto, ma questo è tutto.» «Ti è piaciuta?» «Sì, moltissimo. Il cibo era divino, i musei straordinari, l’atmosfera elettrizzante, ma siccome suonavo con gente che non conoscevo bene – ero un rimpiazzo dell’ultimo momento – ho passato un sacco di tempo a provare, perciò non ho potuto vedere tutti i posti che avrei desiderato. Mi sono ripromessa di tornare a Parigi per visitare la città come si deve. Un giorno.» «Se non sbaglio a Parigi ci sono dei club intriganti.» «Fetish?» indagò Summer. «No» disse Dominik. «Li chiamano club di scambisti. Sono posti in cui succede praticamente di tutto.» «Ci sei mai stato?» «No. Non ho mai avuto la persona giusta da portarci.» Che cos’era, un velato invito? si chiese lei. «Ce n’è uno famoso che si chiama Les chandelles, le candele. È un locale elegantissimo, nient’affatto sordido» precisò lui con un lieve sorriso. Poi lasciò cadere l’argomento. Che uomo irritante. Proprio quando lei avrebbe voluto fargli un sacco di domande! Stava pensando di portarla in quel club e di ordinarle di esibirsi? Solo musica? O anche sesso? Magari una scopata in pubblico? A due o con altre persone? L’immaginazione di Summer correva sfrenata. «Che cosa pensi di fare, mentre io sono via? Qualche altra avventura fetish?» le chiese Dominik. «Per il momento niente» rispose Summer, anche se era quasi certa che qualcosa sarebbe successo. Era inevitabile. Ogni singola fibra del suo corpo era in tensione e lei sapeva che l’eccitazione e la curiosità l’avrebbero portata su una china pericolosa, a mano a mano che l’impulso fosse cresciuto. Anche Dominik ne era perfettamente consapevole. L’espressione del suo volto si fece più seria. «Sai che non mi devi niente» le disse. «Sei libera di vivere la tua vita in mia assenza, anche se avrei da chiederti una cosa sola.» «E cioè?» «Vorrei che tu mi dicessi tutto quello che fai, oltre alle normali banalità della vita quotidiana, tipo lavorare, dormire, suonare con il tuo piccolo gruppo. Scrivimi. Dettagliatamente. Fammi rapporto. Con una mail, un SMS o persino un’antiquata lettera, se ne hai il tempo. Farai questo per me?» Summer acconsentì. «Posso darti un passaggio a casa?» Lei rifiutò. Abitava a pochi minuti da una stazione della Northern Line e aveva bisogno di riflettere, prendendo per un po’ le distanze da lui. Dominik aveva respinto l’offerta dell’Università La Sapienza di Roma, che gli aveva proposto di alloggiare in un albergo nei pressi dell’ateneo. Preferiva scegliersi da solo la propria sistemazione e così aveva prenotato una stanza in un hotel a quattro stelle nei pressi di via Manzoni, a dieci minuti di taxi dalla stazione Termini, dove sarebbe arrivato con la navetta dall’aeroporto. Avrebbe partecipato al congresso, dove avrebbe tenuto la sua lezione di letteratura comparata sugli “Aspetti della disperazione nella letteratura fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Novecento”, concentrandosi su Cesare Pavese, un esponente della lunga serie di scrittori che si erano suicidati per le ragioni sbagliate. Un argomento poco allegro sul quale però lui era diventato una specie di autorità. Avrebbe socializzato con i colleghi stranieri, trascorrendo però anche un po’ di tempo da solo per riflettere su quelle settimane con Summer. Doveva chiarirsi le idee, analizzare i propri sentimenti e decidere in che direzione voleva che quella storia andasse. Sentiva di dover risolvere moltissimi conflitti interiori. Troppi. Le cose potevano complicarsi. Il secondo giorno del suo soggiorno romano, dopo il discorso di apertura, si era unito a un gruppo di altri oratori e partecipanti e aveva cenato in un ristorante dalle parti di Campo dei Fiori, dove le fragoline di bosco avevano il giusto grado di asprezza e sapore, completato ed esaltato dallo zucchero di cui erano cosparse. «Buone, vero?» Dall’altra parte dello stretto tavolo rettangolare una donna con i capelli scuri che non gli era stata presentata stava sorridendo a Dominik. Lui alzò lo sguardo, abbandonando per un attimo la stupenda sinfonia di sapori e colori che aveva nel piatto. «Deliziose» confermò. «Le coltivano sulle pendici dei monti» continuò lei. «Non nei boschi, come si sente dire.» «Ah.» «Mi è piaciuto moltissimo il suo intervento. È un tema interessante.» «Grazie.» «Mi è piaciuto anche il libro su Scott Fitzgerald che ha scritto tre anni fa. Un argomento molto romantico, vero?» «Grazie di nuovo. È sempre una piacevole sorpresa incontrare qualcuno che ha letto davvero quello che scrivo.» «Conosce bene Roma, professore?» chiese la donna mentre il cameriere serviva il caffè. «Non particolarmente» rispose lui. «Ci sono stato un paio di volte, ma temo di non essere un granché come turista. Non sono un patito di chiese e rovine. Però mi piacciono l’atmosfera, le persone. Si può percepire la storia anche senza un tour de force culturale.» «È perfino meglio» commentò la donna. «È un bene avere le proprie idee, senza seguire la corrente. Comunque, io mi chiamo Alessandra» aggiunse. «Vivo a Pescara, ma lavoro all’Università di Firenze. Insegno Letteratura antica.» «Interessante.» «Quanto si ferma a Roma?» chiese Alessandra. «Altri cinque giorni.» Il congresso finiva il giorno successivo e lui non aveva programmi per il dopo. Aveva pensato di rilassarsi, di godersi il cibo e il clima e di concedersi un po’ di tempo per riflettere. «Se vuole, posso portarla in giro. Mostrarle la vera Roma, fuori dalle rotte turistiche. Niente chiese, prometto. Che ne dice?» “Perché no?” pensò Dominik. Alessandra aveva una zazzera di ricci neri ribelli e la sua pelle abbronzata conteneva una calda promessa. Non era forse stato chiaro con Summer sul fatto che ciò che si stava sviluppando tra loro non aveva il carattere dell’esclusività? Sapeva di non averle chiesto niente né lei aveva preteso alcunché da lui. In quella fase si poteva parlare di un’avventura, non di una relazione. «Dico di sì» rispose ad Alessandra. «È una bellissima idea.» «Conosce Trastevere?» s’informò lei. «Lo conoscerò presto, spero» sorrise Dominik. La seduzione è soprattutto un gioco tra uomini e donne adulti, quando nessuna delle due parti è consapevole di chi sia il seduttore e chi il sedotto. Questo è ciò che emerse con Alessandra di Pescara. Il fatto che finissero nella stanza di lei fu solo una questione di comodità geografica, dal momento che il bar in cui bevvero l’ultimo drink (Martini dolce per lei e la solita CocaCola senza ghiaccio per lui, astemio più per gusto che per principio: il sapore dell’alcol non gli era mai piaciuto, neppure quand’era giovane) era più vicino al piccolo albergo di charme di lei che all’impersonale hotel di lusso di lui. Il telefono di Dominik vibrò non appena lui entrò nella suite tenendo Alessandra per mano, dopo averla baciata in ascensore e averle fugacemente toccato il sedere attraverso la sottile stoffa della gonna. Si scusò con lei, adducendo a pretesto importanti questioni d’affari estranee al mondo accademico, e lesse l’SMS che gli era appena arrivato. Era di Summer. “Mi sento svuotata” diceva. “Continuo a pensare ai tuoi desideri perversi. Confusa, arrapata, un po’ persa.” Era firmato “S.”. Mentre Alessandra andava in bagno a darsi una rassettata, Dominik uscì sul balcone affacciato sui colli romani e, nell’aria calda della notte, rispose al messaggio. “Fa’ quello che devi, ma raccontami tutto quando torno. Assumi la tua natura. Consideralo un consiglio piuttosto che un ordine. D.” Rientrò nella stanza, scostando le lunghe tende fluttuanti della portafinestra. Alessandra lo stava aspettando con due bicchieri. Quello per lei sembrava contenere vino bianco, quello per lui acqua minerale. Si era slacciata i primi due bottoni della camicetta bianca, rivelando la parte superiore del seno generoso, e sedeva su una sedia. La porta della camera da letto alla sua destra era semiaperta, un’oscura caverna invitante. Dominik le si avvicinò, si mise alle sue spalle e le prese i capelli tra le mani, affondando le dita tra i suoi riccioli ribelli. Quando iniziò a tirarglieli, Alessandra gemette piano. Lui lasciò la presa, si piegò su di lei e la baciò sulla nuca, circondandole il collo con le mani. «Sì» disse Alessandra con il respiro affannoso. Sempre in piedi dietro di lei, Dominik percepiva il calore del suo corpo. «Sì, ovvero?» chiese. «Ovvero scopiamo, no?» «Certo» confermò Dominik, facendo scivolare le mani dentro la camicetta e prendendole i seni. Il cuore le batteva forte, un tambureggiare a fior di pelle. Sfregò il pollice contro i capezzoli turgidi. A giudicare dalla carnagione di Alessandra, dovevano essere marrone scuro. Gli venne in mente la delicata armonia di beige e rosa dei capezzoli di Kathryn e il fatto che di rado si indurissero; quindi pensò al colore marrone chiaro e alla superficie più ruvida di quelli di Summer, e infine ricordò i seni di altre donne che popolavano il suo passato, quelle che erano venute, quelle che se n’erano andate, quelle che lui aveva amato, desiderato, abbandonato, tradito, ferito. Tolse la camicetta ad Alessandra con un gesto brusco, come se fosse in preda alla rabbia perché in quella stanza c’era lei e non un’altra donna. Perché la sua pelle era scura anziché consumata dal pallore. Perché parlava con un pittoresco accento straniero che gli ricordava l’inflessione neozelandese di Summer. Sapeva che non avrebbe dovuto incolpare Alessandra perché aveva un corpo opulento, invece che una vita sottile sopra fianchi generosi. Era solo il corpo sbagliato al momento giusto, ma ciò non faceva di lei il nemico. Alessandra allungò una mano verso i suoi pantaloni e gli tirò fuori il cazzo semieretto, poi lo prese nella bocca calda e umida. Maledizione, pensò lui, Summer non glielo aveva ancora succhiato. Significava qualcosa, o era solo perché lui non l’aveva mai invitata a farlo? Alessandra cominciò a stuzzicargli il glande con la lingua, muovendola abilmente in una danza eccitante e sfiorandogli con i denti la pelle delicata. Con una mossa rapida e una spinta violenta Dominik glielo ficcò più in fondo che poteva. Per un attimo ebbe la sensazione che l’avrebbe soffocata e il lampo di paura e disapprovazione che scorse negli occhi di lei lo gelò, ma non gli impedì di continuare. Sapeva che era solo la rabbia a dettare la violenza dei suoi gesti. Una profonda irritazione per il fatto che Alessandra non era la donna con cui avrebbe voluto essere in quel momento: Summer. Dominik si calmò e, dopo essere uscito dalla bocca di lei, si svestì e andò a stendersi sul letto. Alessandra si svestì a propria volta e lo raggiunse. Sapevano entrambi che sarebbe stata una scopata rude, violenta, un rapporto meccanico senza romanticismo né tenerezza. Andava bene così a tutti e due. Sarebbe stata l’unica volta. Un errore, forse. Estranei che si aggrappano a un salvagente nel buio. Forse anche lei desiderava le braccia e l’uccello di un altro, pensò Dominik, per cui il rapporto di quella notte non avrebbe significato niente. Il mattino dopo si sarebbero separati scambiandosi poche parole e andando ognuno per la propria strada. Dominik non aveva in programma di tornare a Roma nell’immediato. Quando furono entrambi sul letto, lui le si buttò addosso, pelle contro pelle, le allargò le gambe e la penetrò. Senza una parola. In sottofondo il suo cellulare vibrò di nuovo, ma Dominik avrebbe letto il messaggio di Summer solo la mattina dopo. “E sia. S.” Summer era preoccupata per lo stato delle sue finanze. Adesso che aveva smesso di suonare nella metropolitana, lo stipendio e le mance della caffetteria dove lavorava part-time non bastavano. La band si era presa una pausa: Chris improvvisava pezzi nuovi in uno studio fuori Londra, nella casa di campagna di un amico, e lei aveva inciso le sue brevi parti per violino alcune settimane prima, ma non sarebbe stata pagata finché non avessero cominciato a guadagnare con quelle registrazioni. Stava intaccando i suoi risparmi, peraltro minimi. Troppi taxi per andare in posti lontani: Hampstead, i club fetish e così via. Appuntamenti e destinazioni a cui non poteva recarsi con i mezzi pubblici senza sentirsi a disagio. E non aveva alcuna intenzione di chiedere aiuto a Dominik. Né a nessun altro, se è per quello. Aveva sentito dire che al conservatorio di Kensington c’era una bacheca con annunci di lavoro, per ingaggi in serate uniche o per insegnare. Quando arrivò, trovò l’atrio principale quasi deserto e si rese conto che era la fine del trimestre. Maledizione. Qualunque annuncio ci fosse stato nella bacheca probabilmente sarebbe stato vecchio e ormai superato! Si avvicinò alla parete in fondo per esaminare i messaggi attaccati con le puntine e i biglietti da visita disseminati qua e là, tirò fuori dalla borsa un blocchetto e si appuntò alcuni numeri, controllando le date per evitare di perdere tempo con offerte ormai vecchie. In mezzo alle richieste di lezioni di violino per i bambini dei sobborghi e a una penuria di ingaggi ben remunerati per complessi d’archi (“Portate il vestito da sera e venite truccate”) che suonassero in registrazioni televisive con gruppi rock in cerca di credibilità classica, notò un messaggio dall’aria familiare e capì come aveva fatto Dominik a trovare i tre musicisti che l’avevano accompagnata nella cripta. Sorrise. Tutte le strade portano a Roma… Poi ebbe un attimo di esitazione quando vide che il numero di telefono in realtà non era quello di Dominik. Forse usava un altro numero a seconda delle occasioni o delle necessità. Registrò l’informazione. «Cerchi un lavoro?» le disse all’orecchio la voce melodiosa di una ragazza. Summer si girò per guardarla in faccia. «Sì, ma non c’è una gran scelta, vero?» La giovane era insolitamente alta, aveva i capelli biondi tinti ed era magnifica con il giubbotto di pelle nera e i jeans neri aderenti infilati in stivaletti lucidi dal tacco vertiginoso. C’era qualcosa di familiare in lei: il sorriso ironico all’angolo della bocca, il modo in cui osservava Summer con freddo divertimento e un presunto senso di superiorità. «Quello è interessante, vero?» osservò la ragazza indicando l’annuncio che aveva attirato l’attenzione di Summer. «Sì. Un po’ misterioso» commentò Summer. «Mi sa che è superato» disse l’altra «ma si sono dimenticati di toglierlo dalla bacheca.» «Probabile» rispose Summer. «Non mi riconosci?» chiese la bionda. A quel punto Summer si ricordò e arrossì. Era la violoncellista della cripta. «Oh, Laura, vero?» «Lauralynn. Mi dispiace di esserti rimasta così poco impressa, ma immagino che tu avessi la testa da un’altra parte. Senza dubbio pensavi alla musica, vero?» Il tono malizioso nella sua voce era inequivocabile e Summer si ricordò di aver pensato che Lauralynn fosse riuscita a vederla nuda nonostante la benda. «Abbiamo suonato bene insieme, credo. Anche se non potevamo vederti» sottolineò Lauralynn in tono provocatorio. «È vero» concordò Summer. Avevano instaurato in fretta una solida intesa musicale nonostante la situazione bizzarra. «Che cosa stai cercando?» le chiese Lauralynn. «Un lavoro. Qualunque cosa, a dire la verità. Preferibilmente nel campo della musica. Sono un po’ a corto di soldi» ammise Summer. «Capisco. Be’, le cose più interessanti non le trovi qui. Non studi al conservatorio, vero? Gli ingaggi migliori di solito si ottengono con il passaparola.» «Ah.» «Prendiamo un caffè?» propose Lauralynn. «Al piano superiore c’è una caffetteria carina e, visto che è la fine del trimestre, non ci sarà molta gente. Possiamo fare due chiacchiere in pace.» Summer accettò e seguì Lauralynn lungo la scalinata che lei aveva imboccato con decisione. I jeans le mettevano in risalto il sedere, fasciandolo stretto come una seconda pelle. Summer non era mai stata attratta dalle donne, ma questa ragazza bionda aveva un fascino innegabile, un’aria di autorità e sicurezza che aveva incontrato di rado persino negli uomini. Legarono in fretta, scoprendo di aver vissuto alcuni anni in Australia nello stesso periodo, anche se in città diverse, e di conoscere gli stessi luoghi di ritrovo musicali. Summer si sentiva rilassata e bendisposta verso Lauralynn, nonostante l’atteggiamento un po’ manipolatorio che percepiva istintivamente in lei. Dopo due caffè decisero di passare a un prosecco. Lauralynn insistette per offrire la bottiglia. «Quanto sei flessibile?» chiese poi a Summer di punto in bianco, dopo un ozioso scambio di battute sull’acustica delle sale di Sydney. «“Flessibile” in che senso?» indagò Summer, non riuscendo a capire a cosa si stesse riferendo Lauralynn e se la domanda nascondesse un doppio senso. «Riguardo al posto in cui vivere.» «Ragionevolmente flessibile, direi» rispose Summer. «So che c’è un posto di violinista vacante in un’orchestra. Credo che tu sia abbastanza brava. Sono sicura che passeresti l’audizione brillantemente. Anche bendata» disse scoppiando a ridere. «Sembra magnifico.» «Però è a New York. E cercano qualcuno disposto a firmare un contratto di almeno un anno.» «Ah.» «Sono in contatto con la persona che si occupa del reclutamento. Anche lei è neozelandese, perciò avete qualcosa in comune. Mi sarebbe piaciuto tornare per un po’ a New York, ma in questo momento non ci sono richieste per una violoncellista.» «Non lo so.» «È per lui che esiti?» «Lui?» «Il tuo uomo, il tuo benefattore, potremmo dire. Oppure è il tuo padrone?» «Nient’affatto» protestò Summer. «Le cose non stanno così.» «Non devi fingere, sai? Ho intuito quello che succedeva tra voi due, nella cripta. Voleva che tu fossi nuda, vero? Lo ha eccitato vederti suonare in quel modo mentre noi eravamo tutti vestiti, no?» Summer deglutì a fatica. «Ha eccitato anche te, vero?» la incalzò Lauralynn. Summer si rifugiò nel silenzio. Bevve un sorso di prosecco, che a quel punto era diventato tiepido. «Come facevi a saperlo?» le chiese. «Non lo sapevo» rispose Lauralynn. «L’ho intuito. È stato un mio amico con gusti un po’ particolari a mettere quell’annuncio per conto del tuo uomo – sono amici – e così ho immaginato che tutta la faccenda fosse quantomeno poco ortodossa. Ma non pensare che disapprovi. Ci sono dentro anch’io.» Sorrise con aria cospiratoria. «Dimmi di più» la esortò Summer. 9 Una ragazza e la sua nuova amica «Posso fare di meglio» disse Lauralynn. «Te lo mostrerò.» Eravamo ancora nella caffetteria del conservatorio a parlare dei gusti particolari di Lauralynn. Lei allungò sul tavolo un braccio sottile e mi sfiorò l’interno del polso con la punta delle dita. Sussultai. Non capivo se stesse affermando qualcosa oppure se dovessi interpretarlo come un invito, ma a cosa? «Hai mai visto una dominatrice in azione?» «Un paio di volte» risposi «ma solo nei club. Non, ehm… in privato.» Eravamo alla seconda bottiglia di prosecco ed ero abbastanza sicura di averne bevuto io la maggior parte – oppure Lauralynn reggeva l’alcol in modo straordinario – dal momento che ero piuttosto alticcia mentre lei sembrava del tutto sobria. «Dovresti perfezionare la tua educazione con un assaggio dell’altra metà del cielo. Non è una cosa riservata agli uomini, sai.» Inarcò un sopracciglio pronunciando la parola “assaggio” e io arrossii. Non ero abituata a flirtare con le donne e mi sentivo decisamente inadeguata. La situazione mi ricordava il primo incontro con Dominik al caffè di St Katharine Docks. Seduti uno di fronte all’altra, intenti a soppesarci, mentre infuriava una lotta silenziosa tra dominanza e sottomissione, attrazione e orgoglio. «Ah, e di cosa si tratta?» «Sta a te scoprirlo. Non vorrei rovinarti la sorpresa.» Aveva tolto la mano dal mio polso e adesso faceva scorrere l’indice sul bordo del bicchiere, con movimenti circolari deliberatamente lenti. Notò che osservavo il movimento del suo dito, la pressione decisa e ostinata sul vetro, e fece un sorriso lascivo. «Stai pensando al tuo uomo» mi chiese «oppure a me?» Riflettei su Dominik. È vero, ci eravamo detti d’accordo sul fatto che eravamo entrambi liberi di esplorare i nostri desideri, e io lo stavo tenendo aggiornato sui dettagli delle mie esperienze, come mi aveva chiesto, ma non ero sicura di come si sarebbe sentito se mi fossi fatta deliberatamente dominare da un’altra persona, anziché limitarmi a scopate occasionali o a puntate nei club. Sembrava una cosa diversa. Soprattutto perché la proposta veniva da Lauralynn, che era stata ingaggiata da Dominik solo poco tempo prima e tecnicamente era ancora legata a lui, pensai, dal momento che si era impegnata a non divulgare i dettagli della nostra esibizione segreta. In effetti, non sarei stata capace di affrontare quell’argomento con Dominik. Era impossibile informarlo del mio incontro con Lauralynn senza coinvolgere anche lei. Lui aveva previsto che io e gli altri membri del quartetto non ci saremmo rivisti mai più, ne ero certa. Se avessi voluto accettare l’offerta di Lauralynn, avrei dovuto disobbedire alla sua volontà. Quel pensiero mi fece provare un brivido di ribellione. Dominik non mi possedeva. E poi il potere che aveva su di me arrivava solo fin dove glielo permettevo io. Inoltre, non mi aveva mai ordinato specificamente di non fare sesso, o qualunque altra cosa lei avesse in mente, con Lauralynn. Ripensai al modo in cui i jeans le scolpivano il culo e al sorriso malizioso che le aleggiava sulle labbra. Avrei scommesso che c’era un che di lascivo in lei. A parte un paio di pomiciate e di palpeggiamenti esitanti, non ero mai stata con una donna. Avrei voluto provare, ma non avevo osato spingere oltre le situazioni in cui mi ero trovata, indipendentemente da quanto sembrassero promettenti. Adesso il prosecco e l’evidente sicurezza sessuale di Lauralynn mi rendevano più intraprendente. Lei, in ogni caso, aveva coraggio a sufficienza per tutte e due. «Non è il mio uomo» protestai, guardandola negli occhi. «Bene.» Dieci minuti dopo eravamo su un taxi dirette al suo appartamento in South Kensington. Quando arrivammo, pensai che sembrava passarsela bene. La casa era vecchia, come quasi tutto a Londra, ma molto più grande della maggior parte degli appartamenti che avevo visto, ed era su due piani. L’interno era come me lo aspettavo: essenziale, raffinato, dominato dal bianco, privo di fronzoli e orpelli. L’effetto avrebbe potuto essere freddo, ma in Lauralynn c’era una vena ironica e io ero convinta che quella della regina di ghiaccio fosse un po’ una posa. La sua vera personalità era più calda, ci avrei scommesso. Mi osservò mentre mi guardavo intorno. «Controllo del rumore» disse. «Ecco perché mi sono trasferita qui.» «Controllo del rumore?» «C’è un buon isolamento acustico.» «Ah.» «Non si sentono le urla.» Di nuovo quel sorrisetto malizioso. «I miei vicini continuavano a lamentarsi, così sono stata costretta ad andarmene» continuò, con un’alzata di spalle. Repressi un sorriso. Mi divertiva sempre osservare come il quotidiano e l’osceno entravano in collisione. Visto da fuori, il mondo di cui ora facevo parte sembrava oscuramente e naturalmente affascinante, eppure i pervertiti dovevano conciliare le proprie attività “collaterali” con la routine quotidiana che li accomunava a tutti gli altri… pagare l’affitto, giustificare la presenza di strani aggeggi ai coinquilini e ai padroni di casa, imparare a praticare la loro arte talvolta nei luoghi più ordinari. Lauralynn scomparve in cucina e io sentii il tintinnio del ghiaccio che cadeva in un bicchiere e il sibilo smorzato di una bottiglia che veniva aperta. «Accomodati» disse, porgendomi un pesante bicchiere di vetro e indicando un gigantesco divano angolare di pelle color crema che occupava quasi due pareti del salotto. «Vado a mettermi qualcosa di più… adatto.» Annuii e bevvi un sorso dal bicchiere. Acqua minerale. Forse si era accorta che il prosecco mi aveva un po’ stordita. L’alcol e le perversioni sessuali fisicamente più impegnative non sono una saggia combinazione. Ecco perché mi ero fidata con tanta facilità di Dominik e del suo modo di usare il mio corpo: sapevo che non beveva. Lauralynn si girò verso di me prima di salire le scale. «A proposito, Summer.» «Sì?» «Sta arrivando un amico.» Dopodiché scomparve per una ventina di minuti, lasciandomi da sola a rimuginare. In attesa di sentire il suono del campanello, mi chiesi che cosa avrei fatto se l’amico fosse arrivato prima che lei tornasse. Feci un salto nel bagno al pianterreno per darmi una rinfrescata. Lauralynn avrebbe fatto sesso con me? mi chiesi, dandomi una lavata veloce a scopo preventivo. O si aspettava che fossi io a prendere l’iniziativa con lei? Ero piuttosto brava nella fellatio, una pratica che mi piaceva in modo particolare perché mi consentiva di sondare le profondità di un uomo e di dargli tanto piacere da fargli dimenticare tutto il resto, tenendolo prigioniero della mia bocca anche se ero io quella in ginocchio. Non avevo, invece, mai leccato una donna e non ero affatto sicura di come si dovesse procedere. Feci una smorfia al pensiero di quanto fosse difficile per i miei amanti portarmi all’orgasmo: era necessario un mix abilmente studiato di sensazioni fisiche e mentali e, anche così, non era detto che funzionasse. Sarei stata in grado di far godere Lauralynn? Non sapevo nemmeno se quell’eventualità facesse parte dello scenario imminente. Da quel poco che avevo capito, il rapporto tra i sottomessi, o schiavi, e le loro dominatrici non era di natura sessuale; era, piuttosto, uno scambio totale di potere, una complessa alternanza e combinazione di servizio e adorazione da una parte e una forma di benevolo, teatrale esercizio dell’autorità dall’altra. In situazioni del genere sembrava che a condurre il gioco fosse la dominatrice, ma in realtà di solito lei faceva un notevole sforzo per capire la particolare psicologia di ciascun cliente e dargli esattamente ciò che voleva. Non era un compito facile da nessun punto di vista, anche se probabilmente per Lauralynn era un lavoro, il che avrebbe spiegato l’appartamento costoso e l’arredamento impersonale e facile da pulire. Udendo il rumore dei suoi tacchi sulle scale, finii alla svelta di lavarmi. Quando uscii dal bagno, lei stava andando ad aprire la porta d’ingresso. Indossava una tuta aderente di latex, che le stava magnificamente, e un paio di stivaletti con il tacco così alto che mi stupii riuscisse a camminare senza cadere. I capelli, stirati e lucidati, le ricadevano addosso come una pesante cortina bionda che oscillava a ogni movimento. Sembrava il personaggio di un film di supereroi. Una dea. Capivo benissimo perché un uomo potesse adorare Lauralynn. Persino i fiori si sarebbero inchinati con deferenza al suo passaggio, pensai. «Marcus» disse all’uomo sulla porta. Si era scostata di lato perché potessi vederlo. Era di statura e corporatura medie, con i capelli castano scuro, abbastanza carino ma niente di particolare. Era vestito in modo impersonale – jeans dal taglio ordinario e una camicia a maniche corte con il colletto ben stirato – e non aveva tratti distintivi e caratterizzanti. Era il genere di persona impossibile da identificare con certezza in un confronto all’americana. «Padrona» disse lui in tono riverente, chinando la testa per baciarle la mano. «Entra.» Lauralynn gli voltò le spalle con fare imperioso e lui la seguì dentro l’appartamento come una marionetta agli ordini di un burattinaio. Ci presentò e lui baciò la mano anche a me. Il gesto mi era completamente estraneo e mi sentii imbarazzata da quella manifestazione di servilismo. Avrei voluto spiegargli che non ero una dominatrice, ma l’espressione sul viso di Lauralynn me lo impedì. Era il suo show e io avrei recitato qualunque ruolo mi avesse assegnato. Marcus e io la seguimmo in silenzio, fermandoci alla base delle scale. «In ginocchio» disse a Marcus, il quale obbedì all’istante. «E non guardarle sotto la gonna.» Dunque era stata stabilita una specie di gerarchia, con Lauralynn al posto di comando, io nei panni di una specie di complice e Marcus come sottomesso di Lauralynn, schiavo o servo… non ne sapevo ancora abbastanza per capire la differenza, ammesso che ce ne fosse una. «Siediti, Summer» mi disse, quando fummo nella camera al piano di sopra, e indicò il letto a due piazze tutto nero, un cambiamento radicale rispetto al bianco che dominava al piano di sotto. Forse lei non permetteva agli uomini di raggiungere l’orgasmo qui, riflettei, altrimenti sarebbe stato arduo tenere pulite le lenzuola. Mi sedetti. «Lavale i piedi» ordinò Lauralynn a Marcus, che era ancora in ginocchio e aspettava istruzioni con la prontezza ansiosa di un cane in attesa dell’osso. Mi piegai in avanti per togliermi le scarpe. «No» mi fermò lei. «Lo farà lui.» Sempre in ginocchio, Marcus si diresse verso il bagno annesso alla stanza, dove evidentemente c’erano un catino e un asciugamano. Sospettai che avesse già fatto una cosa del genere. Tornò, tenendo con cautela il catino in una mano e l’asciugamano elegantemente drappeggiato su un braccio, come un cameriere. Mi prese un piede, tolse la scarpa e iniziò le abluzioni, con la testa girata di lato e lo sguardo fisso sul pavimento, per non correre il minimo rischio di dare una sbirciata sotto la mia gonna. Il suo tocco era gentile e, a giudicare dall’abilità con cui riusciva ad agire alla cieca, anche esperto; forse nella sua altra vita lavorava in un centro estetico. Per quanto fosse abbastanza piacevole, tutta quella procedura mi faceva sentire terribilmente a disagio. Cercai di sembrare soddisfatta, non volendo dare a Marcus l’impressione di non apprezzare i suoi sforzi. Lauralynn mi fissava con uno sguardo rapace, camminando avanti e indietro per la stanza, sinuosa come una pantera nella sua tuta di latex, così lucida che mi ci sarei potuta specchiare. Adesso teneva in mano uno scudiscio che di tanto in tanto agitava verso di noi con uno svolazzo: una minaccia o una promessa. Marcus finì di lavarmi i piedi e io tirai un sospiro di sollievo. «Grazie» dissi cortese all’uomo inginocchiato davanti a me. «Non ringraziarlo» intervenne Lauralynn. Mise lo scudiscio sotto il mento dell’uomo e gli fece sollevare la testa. «Alzati.» Lui obbedì. «Togliti i vestiti.» Lui si sfilò la camicia e i jeans docilmente. Era un bell’uomo, niente da dire. Tutto al posto giusto. Aveva fattezze regolari, era snello, ma non so perché non lo trovavo minimamente attraente. Mentre Lauralynn mi toglieva il fiato e mi faceva battere forte il cuore, Marcus mi suscitava sentimenti che oscillavano tra l’ambivalenza e la repulsione. Aveva un’aria così vulnerabile, mentre se ne stava lì senza vestiti per ordine di lei, più nudo del nudo, come un leone tosato dal cacciatore. Era questo che la gente vedeva quando mi guardava mentre mi facevo dominare? mi chiesi. Forse sì. Forse molto dipendeva dalle inclinazioni particolari dello spettatore. Evidentemente, il mio temperamento sessuale non includeva l’attrazione per gli uomini sottomessi. Il che, considerata la storia delle mie relazioni, non avrebbe dovuto sorprendermi. Immaginavo che anche gli altri avessero le loro manie e i loro stimoli. «Sali sul letto» sbraitò Lauralynn a Marcus, girandogli intorno come un gatto con la preda. Lui si affrettò a obbedire. Lei si protese per mettergli una benda sugli occhi e poi si assicurò che fosse ben stretta con una lieve carezza, come si farebbe con un animale domestico che sta per essere punito. «Adesso te ne starai qui buono e aspetterai che torniamo.» Mi fece cenno di seguirla in bagno. Chiuse la porta, si accucciò, aprì l’armadietto sotto il lavandino e tirò fuori due grossi dildi neri da sacchetti di plastica con la zip, ognuno attaccato a un’imbragatura. Strap-on. Un articolo che avevo visto nei sex shop e nei film porno, ma mai dal vero. Naturalmente avevo assistito a rapporti tra ragazze ai festini dove ero stata, ma la penetrazione, adesso che ci pensavo, era sempre stata eterosessuale. Vergognandomi un po’, mi sarebbe piaciuto vedere due donne o due uomini impegnati in un rapporto del genere. Lauralynn mi porse uno dei due strapon. «Mettitelo» disse. «Oddio, non posso scoparlo!» «Ti stupirai di quello che puoi fare. E a lui piace. Stai per fargli un favore, credimi.» Mi lanciò un’altra occhiata e la sua espressione si ammorbidì. «E va bene» disse, «ti lascerò scegliere. Che cosa preferisci: davanti o dietro?» «Davanti, per favore» risposi, sicura che avrei preferito non farlo e basta, ma prendendo comunque l’imbragatura che mi porgeva. Era decisamente pesante e sembrava scomoda. Sarebbe stato un compito impegnativo. «Devo spogliarmi?» «No. Non gli è permesso vedere una donna nuda. Tieni addosso i vestiti, nel caso in cui la benda si sposti.» Che senso aveva una cosa del genere? mi chiesi. Supposi che il fatto di non poterla mai vedere nuda, vulnerabile, facesse sembrare Lauralynn ancora più irraggiungibile ai suoi sottomessi. Dopo esserci messe l’imbragatura tornammo in camera da letto, dove Marcus ci aspettava carponi, offrendosi pazientemente al nostro uso. Deglutii. Non ero sicura che ce l’avrei fatta, ma, arrivata a quel punto, non volevo far fare una figuraccia a Lauralynn tirandomi indietro proprio adesso. Lei aveva un aspetto magnifico, con lo strap-on. Lo portava con la disinvoltura di chi ha davvero l’uccello. In un certo senso, immagino che fosse proprio così. All’improvviso avrei voluto essere al posto di Marcus. Avrei voluto stare carponi, prostrata davanti a lei, sentendo il suo grosso cazzo nero entrarmi dentro con prepotenza. Sarebbe rimasto sempre duro, pensai con una fitta di invidia e poi di rabbia. Marcus aveva preso il mio posto, e la cosa non mi piaceva. Non riuscii a vedere la mia immagine riflessa in uno specchio, ma mi sentivo goffa e indecente, stupida perfino, con l’imbragatura sopra i vestiti. Era troppo ingombrante e mi stava larga in vita, per cui sobbalzava in modo assurdo a ogni passo. Lauralynn era già dietro di lui. Lo aveva fatto spostare in modo da avere il suo culo davanti a sé. La osservai infilarsi un guanto da chirurgo e cospargere l’indice e il medio di lubrificante. Al rumore del guanto di lattice che aderiva con uno schiocco alla mano di lei, Marcus gemette pregustando quello che sarebbe accaduto e inarcò la schiena offrendosi come una cagna in calore e ansioso di essere montato. Lei gli infilò nell’ano prima un dito e poi due, con evidente piacere. «Come si dice, schiavo ingrato?» urlò. «Oh, grazie, padrona, grazie!» Marcus iniziò a muoversi avanti e indietro intorno alle dita di Lauralynn, sbattendo con forza i testicoli contro il palmo aperto della sua mano. Lei mi fece cenno di salire sul letto davanti a Marcus. «Apri la bocca e succhia il cazzo di Miss Summer, schiavo.» Io mi protesi leggermente, in modo che lui potesse arrivarci, e lo guardai mentre cominciava a leccare avidamente la punta del mio dildo. Iniziai a muovere in avanti il bacino. «Sei pronto per il mio cazzo, adesso?» disse Lauralynn, tirando fuori le dita dal suo ano e togliendosi con cura il guanto. Notai che aveva steso un piccolo asciugamano sul letto, proprio sotto il pene di Marcus, che adesso era completamente eretto. Ecco come faceva a non sporcare le lenzuola. Lui emise un gemito – un verso gutturale misto di dolore e piacere – nel momento in cui lei lo penetrò, trafiggendolo con il suo dildo e muovendosi avanti e indietro come uno stantuffo. Lauralynn mi guardò, sostenendo il mio sguardo. «Fottilo» disse. Io ero eccitata e furiosa al tempo stesso. Avrei voluto che Lauralynn scopasse me, non quest’uomo ridicolo e lamentoso che stava sul suo letto. Avrei dovuto esserci io a gambe larghe davanti a lei, non lui. Lo afferrai per la benda e lo tirai verso di me, soffocandolo con la punta del mio cazzo. “Ecco cosa si prova!” avrei voluto urlare. “Ti piace, eh, sfigato che non sei altro?” Sentii che era scosso dai conati e allentai la presa, ma lui continuò a succhiarmi, prendendo il dildo più in fondo che poteva. Lauralynn si allungò sopra di lui e mi afferrò per le spalle, sbattendoglielo nel culo con un’ultima, tremenda spinta finale. Lui staccò la bocca dal mio cazzo e venne con un urlo, spruzzando sperma sull’asciugamano e mancandomi la gonna di un soffio. Lauralynn estrasse delicatamente il dildo dalla stretta dello sfintere di Marcus e guardò il suo sottomesso crollare sul letto come un sacco. Si chinò e gli tolse la benda, poi gli arruffò i capelli con un gesto affettuoso. «Bravo ragazzo» disse. «Ti è piaciuto?» «Oh, sì, padrona.» «Padrone» ribatté lei, enfatizzando il plurale. Io mi accigliai, poi la seguii in bagno lasciando che Marcus si riprendesse. «Allora, Summer Zahova» mi disse Lauralynn con un sorrisetto compiaciuto mentre si slacciava l’imbragatura, «dopotutto non sei così sottomessa, eh?» Due ore dopo ero a casa mia, rannicchiata sul letto a fissare l’assai poco panoramico muro di mattoni dell’edificio adiacente, come se avessi potuto ricavarne un’illuminazione. La reclutatrice neozelandese di cui Lauralynn mi aveva parlato mi aveva lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica per organizzare un’audizione in vista dell’ingaggio a New York. In realtà io non le avevo mandato la mia candidatura, ma Lauralynn doveva averle fatto avere comunque i miei dati subito dopo che me n’ero andata. Desideravo andare a New York da sempre e sognavo un’occasione come questa da anni, ma proprio adesso cominciavo ad ambientarmi a Londra, a crearmi una vita che finalmente mi si adattava, anche se ancora in modo confuso: quella con Dominik, e ora con Lauralynn. In questo momento, comunque, non sapevo più chi ero, o chi volevo essere. L’unica cosa di cui ero sicura era il mio violino, il mio meraviglioso Bailly, ma anche quello in fondo non sembrava del tutto mio. Non sarei mai riuscita a prenderlo in mano senza pensare a Dominik. Mi sentivo tremendamente in colpa per la mia avventura con Lauralynn. L’unica cosa che Dominik mi aveva chiesto era di essere onesta con lui e io non lo ero stata, o perlomeno avevo consapevolmente pianificato di non esserlo. Come avrei potuto raccontargli dell’esperienza con lo schiavo di Lauralynn e lo strap-on? Era un tale abisso rispetto a tutto quello che lui sapeva di me. Avrebbe pensato di non conoscermi affatto. Il mio turno alla caffetteria sarebbe cominciato di lì a due ore e non potevo permettermi di mostrarmi distratta. Sapevo di non essere stata del mio solito umore allegro e brillante nelle settimane precedenti, presa com’ero da tutti gli avvenimenti accaduti nella mia vita privata. L’ultima volta che avevo lavorato era stato il giorno dopo l’esibizione a casa di Dominik e la cosa mi aveva lasciata così scossa che avevo rotto due bicchieri ed evidentemente avevo dato a qualcuno il resto sbagliato, visto che alla chiusura mancavano venti sterline e quel giorno la cassa era stata perlopiù sotto la mia responsabilità. Per tirarmi su di morale, indossai tuta e scarpe da ginnastica e andai a fare jogging. Corsi da casa mia al Tower Bridge e poi lungo il Tamigi, quindi attraversai il Millennium Bridge e completai il circuito dall’altra parte. Convinta mi aiutasse nella mia decisione, ascoltavo con gli auricolari musica americana, l’ultimo album dei Black Keys. Era uno dei gruppi preferiti di Chris. Lui e io ci eravamo conosciuti proprio al loro concerto all’Hackney Empire, una settimana dopo il mio arrivo a Londra. Quando tornai telefonai a Chris, solo per sentire la sua voce, ma lui non rispose. Non lo vedevo dalla festa di Charlotte e più mi immergevo nel mondo del fetish, più mi preoccupavo che non sarei riuscita a colmare la distanza, a far combaciare di nuovo le due parti della mia vita e a mantener viva la nostra amicizia senza dovergli tenere nascosta la parte di me che credevo avrebbe disapprovato. Correre mi aveva aiutata a calmarmi un po’, ma quando arrivai al lavoro ero ancora uno straccio. Tentai di non pensare ad altro che al monotono ronzio della macchina per il caffè, al rumore metallico di quando inserivo il filtro e poi al morbido gorgoglio del latte scaldato con il vapore. La mia particolare capacità di autoipnosi prese rapidamente il sopravvento, per cui, quando entrò un gruppo di uomini che si sedettero a un tavolo senza aspettare di essere fatti accomodare, io ero completamente assorbita da una lunga serie di ordinazioni di cappuccini e caffellatte. Quando finalmente mi accorsi di loro, immaginai che fossero funzionari di banca o responsabili vendite, a giudicare dagli abiti e dall’aria arrogante. «Summer, puoi darci una mano, per favore?» Mi riscossi subito dalle mie fantasticherie. Uno degli altri camerieri era ancora in pausa e il mio capo, che era occupato a fare il conto a un tavolo, mi indicò i nuovi arrivati con un cenno della testa. Io smisi di fare i caffè per un attimo e portai loro il menu. Un paio di loro erano già alticci, notai: sghignazzavano ad alta voce e avevano il volto arrossato. Forse una bottiglia di champagne in ufficio, per festeggiare la conclusione di un affare importante. Quello che sembrava il leader del gruppetto mi afferrò per il polso mentre stavo per allontanarmi dal tavolo. «Ehi, tesoro, è il compleanno del nostro amico, qui» disse, indicando un uomo con l’aria sobria e imbarazzata seduto dall’altra parte del tavolo. «Forse potresti portarci qualcosa di speciale, se capisci cosa intendo.» Mi liberai discretamente dalla stretta e gli feci il sorriso più dolce del mondo. «Ma certo» dissi. «Un cameriere arriverà subito e vi dirà tutto sulle nostre specialità.» Feci per allontanarmi. Senza dubbio le ordinazioni di caffè si stavano accumulando e i clienti di solito erano piuttosto impazienti di avere la loro dose di caffeina, soprattutto se era da portar via. «Oh, no» ribatté lui. «Perché non rimani e ci parli tu delle vostre specialità, tesoro?» Il festeggiato si accorse del mio imbarazzo e intervenne. «Non fa servizio al nostro tavolo» sibilò all’amico ubriaco. «Lasciala in pace.» Il suono della sua voce evocò l’ombra di un ricordo nella mia mente. Tutt’a un tratto capii. Il festeggiato era il tizio anonimo che mi aveva frustata al club fetish di East London dov’ero andata da sola, dopo la prima volta che avevo suonato nuda per Dominik. Avrei riconosciuto la sua voce ovunque: mi si era impressa a fuoco nella memoria insieme a tutta quell’esperienza, che all’epoca era ancora nuova per me. Un lampo attraversò il volto dell’uomo nello stesso momento in cui, immaginai, attraversava il mio. Mi aveva riconosciuta. Ci scambiammo un’occhiata un po’ troppo lunga, facendo così capire al suo amico che non eravamo completi estranei. «Aspetta un attimo: voi due vi conoscete?» Lo disse a voce molto alta e gli altri clienti si zittirono, pur evitando educatamente di non fissarci. Il festeggiato arrossì violentemente e l’altro trasalì, forse perché aveva appena ricevuto un calcio sotto il tavolo. «Rob, sta’ zitto.» Ma Rob se ne guardò bene, infuriato per il mio evidente disprezzo. «Ah, ci sono!» urlò, sbattendo una mano sul tavolo con tanta foga da far volare in aria una forchetta. «Sei la tizia del club di sciroccati dove andiamo! Bel culo, piccola, niente da dire.» Allungò la mano per darmi una palpata, ma io mi ritrassi prima che potesse toccarmi, urtandogli il braccio. Il grosso gemello della sua camicia si impigliò nella tovaglia del tavolo accanto, a cui lui diede uno strattone, facendola scivolare a terra insieme a una bottiglia di vino che si rovesciò sulle gambe di una donna seduta a quel tavolo. Era vino rosso e, a giudicare dall’eleganza di chi l’aveva ordinato, costoso. La donna scattò in piedi e io colsi al volo l’occasione di dileguarmi, con la scusa di accompagnarla in bagno a smacchiarsi i vestiti. Rimasi nascosta più a lungo che potei e la donna fu gentilissima. «Non è stata colpa sua» mi disse, sfregando la camicetta con aria abbacchiata. «Conosco quel tizio per motivi di lavoro. È un coglione.» “Che finezza” pensai, lanciandole un’occhiata. Il mio capo era intervenuto al tavolo proprio mentre io mi rifugiavo in bagno e sapevo che avrebbe assunto il controllo della situazione, anche se probabilmente la strategia sarebbe stata della serie “il cliente ha sempre ragione”. Sicuramente non avrebbe fatto pagare il vino alla donna che si era macchiata i vestiti e molto probabilmente nemmeno il pasto, per un totale di circa duecento sterline. Non ero certa di riuscire a sfangarla, questa volta. Decisi che avrei affrontato la situazione, una volta che i clienti se ne fossero andati. Rob aveva un’espressione compiaciuta. Il mio capo, invece, tratteneva a stento l’ira sotto una maschera di gentilezza. «Summer» mi chiamò quando le acque si furono un po’ calmate, «vieni qui.» Indicò con un cenno della testa il suo ufficio. «Senti» disse quando fummo dentro, «quello che fai nella tua vita privata sono affari tuoi, e io so che quel tizio è uno stronzo…» feci per intervenire, ma lui alzò una mano per fermarmi «… ma quando la tua vita privata diventa pubblica, nel mio locale, allora sono anche affari miei. Non posso più tenerti a lavorare qui, Summer.» «Ma non è stata colpa mia! Ha cercato di toccarmi! Che cosa ti aspettavi che facessi?» «Be’, forse se tu fossi stata un po’ più… discreta… non sarebbe successo.» «Che cosa intendi con “discreta”?» «Come ho già detto, Summer, quello che fai fuori dal lavoro sono affari tuoi, non miei, ma stai attenta, va bene? Finirai per cacciarti nei guai.» «Perché, perdere il lavoro non è già un guaio?» «Mi dispiace, davvero.» Presi la borsa e me ne andai. Accidenti a quel fottuto bastardo e alle sue mani maldestre! Adesso ero fregata. Avevo già chiesto una proroga per l’affitto e non volevo dare al padrone di casa una buona ragione per sbattermi fuori, visto anche il prezzo di favore che mi veniva concesso. Un altro ritardo nel pagamento avrebbe potuto essere la goccia che faceva traboccare il vaso. Merda. Non potevo chiamare Chris, perché avrei dovuto spiegargli quello che era successo e non volevo offrirgli il destro per disapprovare il mio stile di vita. Avrei potuto telefonare ai miei genitori in Nuova Zelanda, ma temevo che si preoccupassero; per di più, avevo detto loro che me la cavavo benissimo, in modo che non mi assillassero per farmi tornare a casa. Charlotte avrebbe potuto aiutarmi, pensai, ma ero troppo orgogliosa per chiederle del denaro e inoltre avevo la sensazione che avrebbe potuto usare i miei problemi economici contro di me. C’era il lavoro a New York, con uno stipendio garantito, ma prima dovevo passare l’audizione e sapevo che la competizione sarebbe stata feroce. Rimaneva solo Dominik. Non intendevo chiedergli un prestito – mai e poi mai – ma avevo un disperato bisogno di vederlo. Il solo fatto di sentire la sua voce avrebbe alleviato i miei problemi, mi avrebbe aiutato a trovare una via d’uscita. Avevo i tendini e i muscoli tesi allo spasimo, la mente sopraffatta dall’ansia. Solo Dominik sarebbe stato in grado di allentare la tensione, assumendo il controllo del mio corpo e della mia mente e scopandomi con quell’assurda combinazione di rabbia e dolcezza che mi faceva sentire così viva e in pace con me stessa. Non ero sicura, però, di riuscire ad affrontarlo, a così poca distanza da ciò che era successo con Lauralynn. Avrei dovuto parlargli, confessargli tutto. La prospettiva mi dava la nausea, ma era l’unica soluzione, altrimenti avrei continuato a rimuginarci sopra, e il senso di colpa avrebbe avuto inevitabili ripercussioni anche sul rapporto con il mio violino e con la musica, cosa che non potevo permettere. Se non fossi più riuscita a suonare, avrei semplicemente cessato di esistere. Quando arrivai a casa, mi feci una doccia e scelsi un abbigliamento adatto a un campus universitario, ma che al tempo stesso facesse capire a Dominik che ero sua. Indossai, quindi, i jeans e la maglietta che portavo l’ultima volta che ci eravamo visti e un paio di ballerine, e mi misi il rossetto più chiaro, quello da giorno. Cercai su Google le università della zona nord di Londra e riuscii a identificare il corso di letteratura tenuto da Dominik. Immaginai che in facoltà ci fosse una bacheca con affisso l’orario delle lezioni, come al conservatorio. Lo avrei trovato. Mi ci volle un po’ per individuare l’aula, ma alla fine ci arrivai, proprio mentre iniziava la lezione. Era un corso molto frequentato, perlopiù da ragazze, alcune delle quali davvero attraenti e con lo sguardo acceso di desiderio puntato su Dominik, il quale si stava schiarendo la voce prima di cominciare a parlare. Avvertii un’acuta fitta di gelosia e mi sedetti proprio davanti, in modo da entrare nel suo campo visivo. Avrei voluto alzarmi in piedi e urlare: “È mio!”, ma non lo feci, sapendo che lui non mi apparteneva più di quanto non gli appartenessi io. Gli ci volle qualche minuto per accorgersi di me, distratto com’era dalla lezione. Quando mi vide, un lampo gli attraversò lo sguardo – rabbia? desiderio? – ma poi i suoi lineamenti si distesero e continuò a parlare come se non esistessi. Non avevo letto il libro di cui stava trattando, ma mi lasciai trascinare dal ritmo delle sue parole, dalla musicalità del suo eloquio. Era come un direttore d’orchestra che cominciava in sordina, aumentava a poco a poco il ritmo e finiva in calando. Non c’era da stupirsi che le sue lezioni fossero così frequentate. Di tanto in tanto mi lanciava un’occhiata e io rimanevo immobile, seduta in silenzio, ma speravo che avrebbe ricordato l’ultima volta in cui mi aveva vista vestita così e lui aveva usato il mio rossetto più scuro per dipingermi i capezzoli e le labbra della fica, marchiandomi, facendomi sua. La lezione finì e gli studenti iniziarono a uscire. Trattenni il fiato. Non avrei potuto far finta di niente, se lui avesse deciso semplicemente di ignorarmi. «Summer» disse a bassa voce, in mezzo al rumore di borse e libri. Mi alzai e scesi i gradini verso il centro dell’aula-anfiteatro, dove lui stava riponendo gli appunti della sua lezione. Sollevò lo sguardo e mi lanciò un’occhiata ostile. «Perché sei venuta?» «Avevo bisogno di vederti.» La sua espressione si ammorbidì un po’, forse perché aveva notato il mio turbamento. «Per quale ragione?» Mi sedetti sul primo gradino dell’anfiteatro e gli raccontai tutto: Lauralynn, lo schiavo, il dildo che gli avevo ficcato selvaggiamente in bocca, godendone, e il fatto che, a dispetto di tutto, quello che volevo era che lui, Dominik, mi possedesse. Volevo essere sua. Gli dissi ogni cosa, tranne la prospettiva di lavoro a New York e il dettaglio che ero rimasta disoccupata. Persino lì, seduta al centro del suo mondo, ai suoi piedi, ero ancora troppo orgogliosa per farlo. «Non saresti dovuta venire, Summer» disse. Prese la borsa e uscì. Il suo messaggio arrivò più tardi, quand’ero già rientrata a casa. Ero sdraiata sul letto abbracciata alla custodia del violino, sperando contro ogni speranza che, qualunque cosa fosse successa tra me e lui, Dominik mi avrebbe lasciato tenere il Bailly. Mi vergognavo moltissimo di riuscire ad accettare qualunque cosa da quell’uomo. Il cellulare segnalò l’arrivo di un SMS. Delle scuse. “Mi dispiace. Sono stato colto di sorpresa. Perdonami.” “Okay” risposi. “Ti esibiresti ancora per me?” “Sì.” I dettagli riguardanti la data, l’ora e l’indirizzo arrivarono in un messaggio successivo. Il giorno dopo, in un altro posto, non a casa sua. Questa volta Dominik chiedeva a me di portare il pubblico. Di selezionarlo. Una prova della mia capacità di recupero? Immaginai che suonare di nuovo per lui fosse un modo per replicare il modello dei nostri ultimi appuntamenti riusciti, se si potevano definire così. Stava cercando di riportare indietro il tempo, rimettendoci sulla strada che avevamo intrapreso. Pensai a chi invitare. Non Lauralynn. Avrebbe significato aggiungere la beffa al danno. In realtà rimaneva solo Charlotte, per quanto esitassi a coinvolgerla in quest’occasione delicata. Aveva la tendenza a impadronirsi delle situazioni e non era abbastanza sensibile da accorgersi se la relazione tra me e Dominik era tesa, ma era la mia unica possibilità. Avevo conosciuto altre persone negli ambienti fetish, ma in quel genere di ritrovi non si andava mai oltre il breve spazio del piacere per stringere un rapporto più significativo che potesse chiamarsi amicizia. «Oh, fantastico!» esclamò Charlotte, quando la invitai. «Posso portare un amico?» «Credo di sì» risposi. Dominik aveva parlato di pubblico e sarebbe stato imbarazzante se mi fossi limitata a invitare Charlotte. Se fosse venuta sola, avrebbe sicuramente interferito. Quello che desideravo davvero era scopare Dominik, ma volevo anche dimostrargli che potevamo far funzionare il nostro strano rapporto. Se lui aveva chiesto un pubblico, l’avrebbe avuto. Indossai l’abito lungo di velluto nero, quello che mi ero messa per il concerto nel parco, e presi il Bailly. Lui non mi aveva detto esplicitamente di portarlo, pensai aggrottando la fronte, ma mi aveva chiesto di esibirmi per lui, perciò ero sicura di dover suonare. E poi mi sentivo incompleta senza il violino. L’indirizzo era nella zona nord di Londra, un appartamento anonimo: una grande zona giorno con una cucina e un bagno, tutto piuttosto sciccoso, anche se sobriamente arredato con una coppia di divani di pelle, alcuni tappeti e un tavolino di vetro al centro. Nell’angolo più lontano c’era un enorme letto matrimoniale. C’era un sacco di gente, dato che Charlotte si era presentata con quindici persone, tra cui il bellissimo gigolò, Jasper. Veniva pagato a ore? E Chris. Oddio, ma cosa le era venuto in mente? Dominik, però, sembrava piuttosto contento, notai con sollievo. Mi venne incontro e mi baciò con calore sulle labbra, dandomi una stretta affettuosa alle spalle. «Summer» disse dolcemente. Il sollievo sul suo volto era pari al mio. Forse aveva pensato che non mi sarei presentata. Chris e Charlotte parlavano fitto fitto dall’altra parte della stanza, insieme a Jasper. Erano impegnati in una specie di riunione privata e non mi avevano vista. Bene. Così avrei potuto parlare con Dominik. Ma, prima che riuscissi ad aprire bocca per proporre di ritirarci in un angolo tranquillo anche solo per qualche minuto, soltanto noi due, Charlotte ci piombò addosso e mi gettò le braccia al collo. «Summer!» urlò. «Adesso la festa può cominciare.» Anche Chris mi abbracciò e mi diede un bacio affettuoso sulla guancia. Sul volto di Dominik passò un lampo di frustrazione, subito sostituito dall’abituale compostezza. Scomparve in cucina, seguito da Charlotte che aveva un’espressione più maliziosa del solito. Che cosa stava tramando? Mi guardai intorno nella stanza piena di coppie, la maggior parte poco vestite ma nessuna ancora in attività, nonostante l’atmosfera erotica che si respirava. Non sembrava affatto lo stile di Dominik. Mi chiesi quanto di suo ci fosse in quella situazione e quanto di Charlotte. Sospettavo che la responsabilità fosse soprattutto della mia amica. Non importava. Presto avrei cominciato a suonare e mi sarei dimenticata di tutti. Chris sembrava contento di vedermi e cercava di coinvolgermi in una conversazione, ma l’unica cosa a cui riuscivo a pensare erano Charlotte e Dominik in cucina. Parevano impegnati in uno strano dialogo, ma di cosa potevano parlare se non di me? Dominik aveva un’espressione indecifrabile, ma dalla piega dura della sua bocca avrei detto che fosse contrariato per qualcosa, e Charlotte non la finiva più di blaterare, qualunque fosse l’argomento. «Pianeta Terra a Summer… Vogliamo riscaldarci un po’?» Chris mi stava scuotendo una spalla. «Ah, certo» risposi, prendendo il violino e dirigendomi dove lui aveva lasciato la viola. Pensavo che quello sarebbe stato il nostro palcoscenico improvvisato. A quel punto sentii Dominik chiamarmi. «Summer, vieni qui.» Appoggiai il mio strumento vicino a quello di Chris e mi avvicinai a Dominik. «Stasera non ti esibirai. Non con il violino, almeno.» Si protese verso di me e mi baciò sulla bocca. Colsi lo sguardo di Charlotte con la coda dell’occhio, proprio mentre Dominik si scostava. Aveva l’aria compiaciuta. Di qualunque cosa avessero discusso, aveva vinto lei. Lui era contrariato e nervoso. Percepivo il calore del suo corpo. Non mi sarei sorpresa di vederlo sputar fumo dalle narici. Da qualche parte nella stanza qualcuno fece scattare un accendino. Io trasalii. Charlotte aveva tirato fuori un sacchetto che conteneva una corda e vari accessori. Mi ricordai che mi aveva raccontato che stava leggendo qualcosa in proposito. Mi augurai che si fosse documentata in modo serio e non volesse impiccare chiunque glielo lasciasse fare. Spostò il tavolino di vetro e ci salì sopra, offrendo a tutti la visione delle sue gambe lunghe e del suo culo, fasciati in un abito bianco lungo che sotto la luce risultava completamente trasparente. Non indossava biancheria intima – del resto non la indossavo neppure io – e dovevo ammettere che aveva delle gambe strepitose. Dominik mi strinse una mano con fare rassicurante. Ma io non ero affatto rassicurata. Nel frattempo Charlotte era scesa dal tavolino e lo stava togliendo di mezzo. Aveva attaccato un lungo pezzo di corda a un anello metallico fissato al soffitto. «Farai questo per me?» disse Dominik. Non sapevo ancora che cosa voleva che facessi, ma, di qualunque cosa si trattasse, l’avrei fatta. Non mi fidavo di Charlotte, quando si comportava come stasera. Invece mi fidavo di Dominik, anche se agiva in modo strano. Charlotte mi prese per le spalle e mi guidò sotto la corda. «Solleva le braccia e non preoccuparti… ti piacerà.» Immaginai che stesse per appendermi. «Prima toglile il vestito» disse una voce proveniente da uno dei divani. Charlotte obbedì e, prima che io alzassi le braccia, mi abbassò le spalline e la lampo sulla schiena. Il vestito cadde sul pavimento. Ancora una volta mi ritrovavo nuda davanti a un pubblico, una sensazione cui ormai ero abituata. Per fortuna, non c’era traccia di Chris tra gli spettatori. Forse si era stancato di aspettare oppure era rimasto scioccato dagli invitati, che erano sempre più arrapati, e se n’era andato. Alzai le braccia, come Charlotte mi aveva detto di fare, e sentii la corda sfregarmi la pelle, mentre me l’avvolgeva intorno a ciascun polso a mo’ di manette e poi vi infilava dentro un dito per accertarsi che non fosse troppo stretta. Forse aveva un cuore, dopotutto. «È okay?» mi chiese. «Non stringe troppo?» «Va bene» risposi. I miei piedi erano ancora saldamente poggiati a terra e, anche se non potevo muovermi, le braccia erano leggermente piegate in modo che la posizione non diventasse scomoda troppo rapidamente. «È tutta tua» disse Charlotte a Dominik in tono cospiratorio. Sentii l’acqua scorrere nella stanza accanto, poi il rumore di una porta che si apriva e si chiudeva. Chris. Era solo andato in bagno. Merda. «Ehi» disse a Dominik, «che cazzo stai facendo?» Aveva un tono rabbioso. Non aveva fatto a me quella domanda. L’aveva fatta a Dominik. Non riusciva a capire che non mi stavo opponendo a quella situazione, che era una mia scelta, che stavo agendo di mia spontanea volontà, non solo in ossequio al capriccio di qualunque uomo con cui mi capitava di stare? A un tratto mi infuriai con lui perché non mi capiva, perché voleva che corrispondessi alle sue aspettative. «Vaffanculo, Chris! Sto bene! Stiamo tutti bene. Tu non capisci e basta.» «Summer, ma ti vedi? Sei diventata un maledetto fenomeno da baraccone! Siete fortunati che vi lascio tutti qui ai vostri giochetti malati e non chiamo la polizia.» Prese la viola e la giacca e uscì come una furia, sbattendo la porta. «Wow» disse la voce dal divano che aveva parlato prima. «Ecco perché non bisognerebbe invitare i fan del sesso “tradizionale” alle feste fetish.» Qualcuno rise e la tensione si allentò. Vaffanculo. Il corpo era mio e io ci facevo quello che volevo, o che Dominik voleva che ci facessi. Lui mi accarezzò i capelli, mi baciò di nuovo, con tenerezza, e mi toccò il seno. «Sicura che è tutto okay?» disse. «Sì, è più che okay.» Volevo solo che iniziasse, che mi scopasse e poi mi slegasse, liberandomi le braccia doloranti e lasciandomi suonare il Bailly. Poi Dominik tirò fuori un rasoio. 10 Un uomo e la sua tenebra La temperatura stava salendo. Nella stanza piena di fumo. Nelle loro menti. Chris se n’era andato, ma le sue parole continuavano a risuonare nella testa di Summer. Una parte di lei sentiva il bruciore delle sue accuse, ma un’altra, più maliziosa e irresponsabile, era furiosa con lui per aver avuto la faccia tosta di criticarla e di credere di capire la natura contraddittoria dei suoi impulsi. Summer sospirò, spostando il peso da un piede all’altro, e osservò Dominik che, al capo opposto della stanza, era intento a parlare con Charlotte, facendo vagare le mani sul suo corpo ormai quasi svestito. Accanto a loro c’era Jasper, completamente nudo e con un’erezione spettacolare, che si toccava pigramente con una mano e con l’altra giocava tra le cosce di Charlotte. Le carezze dei due uomini tra i quali era bloccata non sembravano turbare l’amica, che pareva avere il pieno controllo di quella bizzarra situazione. Dominik, tutto vestito di nero, si era tolto solo la giacca – la sua unica concessione alle circostanze – e il suo maglione di cachemire con lo scollo rotondo sfregava contro il seno di Charlotte che gli si stringeva addosso. Nella penombra Summer riusciva a vedere, e a sentire, le altre coppie sparpagliate per la stanza, sul pavimento, sul divano e persino sul grande tavolo rettangolare. Erano tutti impegnati in qualche genere di attività sessuale: sussurri, gemiti, amplessi. Le dita di qualcuno che le passava accanto le sfiorarono i capelli, ma lei non si girò e chiunque fosse il proprietario di quella mano non indugiò, proseguendo verso un altro groviglio di membra. I suoi occhi non si staccavano dal terzetto formato da Dominik, Charlotte e Jasper. Di che cosa stavano parlando? Di lei? La sua mente correva frenetica. Quella che avrebbe dovuto essere un’ulteriore fase della partita che stava volontariamente giocando con Dominik le era sfuggita di mano. Di tanto in tanto i membri del terzetto cospiratore si giravano per lanciarle un’occhiata e Summer aveva l’impressione che ridessero di lei come di una marionetta dimenticata. Fu sopraffatta dai ricordi: lei che suonava per Dominik da sola sul palco ad Hampstead, poi nuda con il quartetto d’archi bendato, quindi nuda, ma sola, nella cripta, quando lui alla fine l’aveva scopata; c’era poi stata la volta, ancora bruciante nella sua memoria, in cui lui l’aveva bendata, l’aveva fatta esibire di fronte a uno spettatore invisibile (adesso era convinta che fosse uno solo, e il suo istinto le diceva che si trattava di un uomo) e infine l’aveva fottuta frettolosamente davanti a quell’estraneo di cui a tutt’oggi non sapeva nulla. E adesso c’era questa festa. Che cosa aveva sperato? Che cosa si era aspettata? Una sorta di crudele progressione nel rituale del loro strano rapporto? Senza dubbio, mentre lui era al congresso in Italia, aveva sentito la sua mancanza. Le erano mancati la sua tranquilla certezza, i suoi ordini pacati ma perentori. Il suo corpo le aveva dato conferma di ciò e lei aveva cercato una compensazione avventurandosi da sola sulla scena fetish. Avrebbe voluto che quella fosse una serata speciale, non solo una variante delle precedenti, un perverso evento teatrale. Summer rabbrividì, sentendo ancora la lama affilata del rasoio che le passava sul pube. Abbassando lo sguardo, vide la superficie liscia dei suoi genitali. Fremette, scioccata dalla visione di quella nudità estrema. Si sarebbe mai abituata a non provare disagio per essere stata depilata davanti a tutti, messa a nudo nel modo più umiliante? Aveva nutrito la vaga speranza che dopo averla esibita in quel modo, Dominik le avrebbe liberato le mani e le avrebbe permesso di suonare per gli invitati, ma Charlotte si era in qualche modo impadronita della serata e lei era stata lasciata lì, non proprio appesa, ma nuda e inutile, una mera spettatrice del fluire delle ondate di lussuria cui aveva involontariamente dato vita, dello sfogarsi del desiderio tra gli invitati. Nella sua testa una vocina urlava: “Dominik, scopami, prendimi, davanti a tutti, adesso, subito”, ma le parole non riuscivano a superare il muro inviolabile delle sue labbra sigillate. Perché, nonostante tutto quello che aveva fatto con lui, sentiva che sarebbe stato umiliante esprimere quel desiderio a voce alta. Nel suo intimo sapeva che non doveva essere lei a chiedere, a implorare, ma che l’ordine doveva venire da Dominik. Vide Charlotte piegare la testa e baciare Dominik sulle labbra. Jasper si avvicinò e iniziò a mordicchiarle il lobo dell’orecchio. I gemiti di una coppia invisibile che si dimenava sul tappeto proprio dietro di lei riecheggiarono nella stanza. Udendo quei rumori soffocati, Dominik si sciolse dall’abbraccio di Charlotte e si avvicinò a Summer, slegandola senza dire una parola. Lei abbassò le braccia, grata che lui l’avesse liberata prima che le venissero i crampi. Poi Dominik la baciò sulla fronte con immensa tenerezza, e Charlotte li raggiunse. «Eri bellissima, mia cara» le disse, accarezzandole una guancia. «Meravigliosa.» Summer sperò che Dominik adesso si sarebbe dedicato a lei, ma Charlotte, tallonata da Jasper che esibiva ancora la sua splendida erezione, prese per mano Dominik come se volesse portarselo via. Lì in piedi, nuda, mentre il sangue riprendeva a circolarle nelle braccia, Summer sentì una fitta di gelosia davanti all’evidente riluttanza dell’amica a lasciare Dominik. Non sapeva che, in un senso bizzarro che lei non avrebbe saputo spiegare, quell’uomo era suo? Di Summer? Perché non si toglieva dai piedi? Alla fine, Dominik disse: «Credo di aver bisogno di un altro drink. Qualcuno vuole qualcosa da bere? Summer, un po’ d’acqua?». Lei annuì e lui si diresse verso la cucina, scavalcando corpi e facendo lo slalom tra le varie attività carnali in corso. Mentre lui si allontanava, Charlotte le sussurrò nell’orecchio: «Mi piace il tuo tipo, dolcezza. Me lo presti?». Scioccata da quella richiesta, Summer rimase in silenzio, ribollendo di rabbia. In altre circostanze, in un bar o a una festa normale, in qualunque altro posto tranne che in quella stanza piena di gente in calore che scopava e si palpava selvaggiamente, eccitata dalla sua esibizione forzata e dalla cerimonia della rasatura, avrebbe obiettato a voce alta, ma la natura perversa di quell’atmosfera di eccessi glielo impedì. Era forse la strana etichetta delle orge? Dentro di sé, però, era furiosa. Come poteva, Charlotte? Non era sua amica? Nel frattempo Dominik tornò con i bicchieri. Porse l’acqua a Summer che la bevve d’un fiato, con le labbra riarse. Charlotte, seguita da Jasper come dalla sua ombra, mise un braccio intorno alla vita di Dominik con fare possessivo. «Divertente, vero?» disse. Quelle parole fecero scattare in Summer un momento di follia. O di rancore. Restituì il bicchiere a Dominik, si girò per guardare Jasper in faccia e gli prese in mano il cazzo con aria spudorata. «Sì, molto» disse. «Una cosa tra amici, no?» «Così intima» sottolineò Charlotte con un sorriso divertito, notando il gesto di Summer. Da qualche parte nella stanza qualcuno raggiunse l’orgasmo con un sommesso sospiro di resa. Il cazzo di Jasper era caldo e straordinariamente duro. Non ne aveva mai tenuto in mano uno così duro, pensò. Mentre lo stringeva, vide l’ombra di un sorriso passare sul volto di Jasper e avvertì un’ondata di calore e di desiderio. Summer si rifiutò di guardare Dominik per sondarne la reazione. Si inginocchiò, prese in bocca quel grosso membro vellutato e sentì che cresceva ancora. «Così, ragazza» sentì che Charlotte diceva e percepì gli occhi di Dominik inchiodati su di lei. Summer si chiese fugacemente che sapore avesse l’uccello di Dominik. Non lo aveva ancora preso in bocca e si domandò perché. Si concentrò di nuovo su quello che stava facendo, usando la lingua e le labbra per giocare con Jasper, succhiandolo, leccandolo, mordicchiandolo delicatamente, accordando il proprio ritmo a quello delle pulsazioni che avvertiva nell’asta, come il lontano tambureggiare di una giungla esotica. Con la coda dell’occhio notò la mano di Charlotte muoversi verso la cintura di Dominik, senza dubbio con l’intenzione di imitarla. Avvertì un’acuta fitta di gelosia. Era decisa a far godere Jasper. Ma anche il piano migliore può andare in fumo con facilità e proprio mentre sentiva un lieve fremito percorrere il corpo atletico del gigolò in un’onda che probabilmente avrebbe terminato la corsa nella sua bocca, lui si staccò dolcemente da lei, lasciandole le labbra aperte in una O interrogativa di muto disappunto, la fece alzare in piedi e la portò sul vicino divano ora libero. Mentre Dominik e Charlotte stavano in piedi seminudi – lei con il corsetto e le calze, lui con i calzoni abbassati ma le mutande ancora addosso – Jasper e Summer erano nudi, i loro corpi immagini speculari di pallore e desiderio. Summer si mise carponi, esponendosi agli sguardi di tutti. Udì il rumore di un preservativo che veniva scartato e infilato con una mossa esperta, poi Jasper allargò le gambe e si mise dietro di lei, con il membro eretto che danzava tentatore davanti alla sua apertura. Summer fece un respiro profondo, girò la testa e intercettò lo sguardo incupito di Dominik che fissava la scena, poi sentì il grosso membro del gigolò entrare dentro di lei con un unico movimento, allargandola e riempiendola con la sua virilità. Accidenti, se era grosso! Summer espirò, come se tutta l’aria che aveva nei polmoni fosse stata spinta fuori dalla potenza e dalla decisione dell’affondo di Jasper. Mentre lui iniziava a muoversi, lei staccò la spina e lasciò che il suo corpo fluttuasse in un mare di nulla, abbandonandosi al momento, rinunciando a ogni difesa, incurante, pronta a qualunque cosa fosse successa, volutamente inerme, un giocattolo consenziente sulle onde di un desiderio sfrenato. Chiuse gli occhi. La carne era come un superconduttore, i pensieri erano nuvole evanescenti, le cellule grigie si erano momentaneamente fermate, la volontà aveva ceduto al potente fuoco del desiderio. In un remoto angolo della mente (o dell’anima?) immaginò di trovarsi nel corpo di Dominik, non per guardare come, con ogni probabilità, Charlotte gli stava facendo un pompino da manuale, ma per vedere come i suoi occhi erano ipnoticamente fissi su di lei che si faceva scopare da Jasper. Oh, come doveva guardare il membro del gigolò che la penetrava in profondità, le affondava dentro, le faceva comparire un velo di sudore sul labbro superiore e le riduceva il respiro a un ansito spezzato. “Guarda, Dominik, guarda: ecco come mi scopa un altro e mi scopa bene, e tu vorresti essere al suo posto, vero? Oh, com’è duro. Oh, come mi possiede. Oh, come mi fa tremare, fremere, sussultare. Mi scopa forte, e poi ancora più forte. Senza mai fermarsi. Come una macchina. Come un guerriero.” Le sfuggì un grido roco di piacere e si rese conto che a eccitarla non erano solo i movimenti regolari di Jasper dentro di lei, ma era la consapevolezza che Dominik la stava guardando. E poi venne. Gridando. Dopo un attimo sentì che anche Jasper godeva dentro di lei, percepì il calore del suo sperma attraverso la sottile barriera del preservativo e a un tratto fu attraversata da un pensiero folle – “Sono pazza? Sono malata?” – mentre si chiedeva che sapore avrebbe avuto lo sperma di Dominik se lei gli avesse succhiato l’uccello fino a farlo venire. I pensieri assurdi avevano il potere di fare capolino nella mente nei momenti più inopportuni. Fece un respiro profondo quando Jasper uscì da lei e si alzò, con il pene adesso floscio, ma pur sempre imponente. Chiuse gli occhi, sentendo un’ondata di rimorso mescolarsi al piacere. Non voleva più sapere o vedere che cosa stavano facendo Dominik e Charlotte. Era stanca, stanchissima. Si rannicchiò, nascose il volto nella pelle del divano e iniziò a singhiozzare in silenzio. Mentre lei giaceva così, tutt’intorno l’orgia stava giungendo al termine. «Sono deluso» disse Dominik. «Non era quello che volevi?» gli chiese Summer. Era il giorno dopo e loro erano seduti al caffè dove si erano incontrati la prima volta, in St Katharine Docks. Era sera, i pendolari combattevano contro l’ora di punta e le auto rombavano passando sul ponte vicino. «Non volevi guardarmi mentre mi facevo scopare da un altro e…?» «No.» Dominik interruppe le sue parole rabbiose e concitate. «Assolutamente no.» «E allora che cosa volevi?» disse Summer, quasi urlando, con un’espressione addolorata e confusa sul viso. Poi, prima che lui potesse rispondere, aggiunse, spinta da un demone interiore che la faceva parlare in preda all’ira e al dolore: «Sono sicura che ti ha eccitato, però. Vero?». Lui distolse un attimo lo sguardo. «Sì» ammise a voce bassa, come se si dichiarasse colpevole di un’accusa minore. «Ecco, vedi!» esclamò Summer con una punta di trionfo. «Non so più quello che voglio» disse Dominik. «Non ci credo» ribatté Summer, ancora in preda alla rabbia. «Pensavo che avessimo un accordo.» «Davvero?» «Che io sia dannato, sì.» «Oh, lo sarai senz’altro.» «Perché sei così aggressiva?» chiese Dominik, rendendosi conto che la conversazione stava prendendo una brutta piega. «Così adesso la colpa è mia perché mi sono spinta troppo oltre, vero?» «Non è quello che ho detto.» «E chi è quello che si è fatto palpare da Charlotte come se io non esistessi e non fossi là legata, nuda e rasata come una schiava?» continuò lei. «Non ho mai pensato a te come a una schiava, non ci penso ora né ci penserò in futuro» ribatté lui. «Ma non hai problemi a trattarmi come tale» lo rimproverò Summer con un singulto. «Non sono una schiava e mai lo sarò.» Dominik intervenne, cercando di riprendere il controllo della situazione. «Ho solo pensato che svilendoti con quel… gigolò, tu abbia deluso sia me sia te stessa, ecco tutto.» Summer rimase in silenzio, con gli occhi pieni di lacrime di vergogna e di stizza. Per un attimo pensò di gettargli in faccia l’acqua del bicchiere che aveva in mano, ma si trattenne. «Non ti ho mai fatto promesse» disse alla fine. «Non te l’ho mai chiesto.» «È stato un… impulso improvviso. Non sono riuscita a controllarmi» cercò di giustificarsi lei, ma poi gli si scagliò contro di nuovo. «Tu mi hai messa in quella situazione e poi mi hai abbandonata. È stato come se avessi scatenato i miei demoni e te ne fossi andato lontano, lasciandomi sola con… Dio sa cosa. Non so come spiegartelo, Dominik.» «Lo so. È stata anche colpa mia. Posso solo scusarmi.» «Scuse accettate.» Summer bevve un sorso d’acqua. Il ghiaccio si era ormai sciolto e l’acqua era tiepida. Tra loro scese il silenzio. «Allora…» disse alla fine Dominik. «Sì.» «Vorresti continuare?» «Continuare cosa?» chiese Summer. «A vedermi.» «In quale veste?» «Amante, amica, complice nel piacere. Scegli tu.» Summer esitò. «Non lo so» rispose poi. «Non lo so proprio.» «Capisco» annuì Dominik rassegnato. «Davvero.» «È così complicato» commentò Summer. «Lo è. Da una parte ti voglio. Moltissimo, Summer. Non solo come un’amante, o come un giocattolo, ma come qualcosa di più. Dall’altra, ho difficoltà a spiegare quest’attrazione e il motivo per cui è diventata perversa così in fretta.» «Già» disse Summer. «Non una proposta di matrimonio, eh?» Sorrise. «No» confermò lui. «Magari un accordo di qualche tipo?» «Pensavo che l’avessimo già.» «Forse» replicò lui. «E chiaramente non funziona, vero? Troppe incognite.» Sospirarono all’unisono e la cosa li fece sorridere. Almeno riuscivano a cogliere il lato umoristico della faccenda. «Forse dovremmo smettere di vederci per un po’.» A prescindere da chi dei due aveva effettivamente pronunciato quelle parole, le avevano comunque entrambi sulla punta della lingua. «Vuoi che ti restituisca il violino?» chiese Summer. «Certo che no. È sempre stato tuo. Senza condizioni.» «Grazie. Davvero. È il regalo più straordinario che abbia mai ricevuto.» «Te lo meriti cento volte. La musica che hai creato per me è stata indimenticabile.» «Sia vestita sia svestita?» «Sì, sia vestita sia svestita.» «E allora?» «E allora aspettiamo; riflettiamo; vediamo che cosa succederà e quando, se mai succederà qualcosa.» «Nessuna promessa?» «Nessuna promessa.» Dominik mise una banconota da cinque sterline sul tavolo e con il cuore pesante guardò Summer uscire dal caffè e la sua silhouette scomparire gradualmente nell’oscurità. Abbassò lo sguardo sull’orologio, il TAG Heuer d’argento che si era comprato anni prima per festeggiare la nomina a professore. Si concentrò non sull’ora – era quel momento indistinto in cui la sera scivola nella notte – ma sulla data. Erano passati quaranta giorni da quando aveva visto Summer la prima volta mentre suonava il vecchio violino alla stazione della metropolitana di Tottenham Court Road. Una data da ricordare. L’appuntamento con la persona che si occupava di reclutare i musicisti cha ancora mancavano per l’orchestra in America andò particolarmente bene e meno di una settimana dopo Summer atterrò all’aeroporto JFK di New York, dopo aver lasciato senza rimpianti il monolocale di Whitechapel. Non aveva salutato Charlotte né nessun altro dei suoi conoscenti, a parte Chris, al quale aveva cercato di spiegare il suo comportamento meglio che aveva potuto, perché voleva la sua approvazione. Non aveva chiamato Dominik, anche se, al di là di tutte le altre ragioni, la tentazione di avere l’ultima parola era stata fortissima. Chi l’aveva ingaggiata le aveva offerto una sistemazione temporanea in un appartamento in condivisione con altri musicisti stranieri dell’orchestra poco lontano dalla Bowery. Era la prima volta che vedeva New York e mentre il taxi si avvicinava al Midtown Tunnel Summer scorse la skyline di Manhattan, grandiosa come in quasi tutti i film che aveva visto. Rimase senza fiato. Quello era sicuramente il modo migliore di cominciare una nuova vita, pensò Summer. Il lento tragitto nel traffico appena fuori dall’aeroporto le aveva offerto una visione di periferie tutte uguali, ma adesso, attraverso i finestrini sporchi del taxi, i suoi occhi si fissarono sul profilo lontano di edifici imponenti e di punti di riferimento riconoscibili, e lei sentì un moto di gioia e di speranza. La prima settimana a New York – tra prove urgenti con l’orchestra, disbrigo delle formalità burocratiche per il soggiorno e necessità di ambientarsi nella peculiare geografia del Lower East Side e abituarsi alla vita in quella città singolare e straordinaria – le lasciò pochissimo tempo libero. I suoi coinquilini se ne stavano per conto loro, il che non costituiva affatto un problema per Summer, che a stento aveva saputo il nome dei suoi vicini di casa a Londra. Si avvicinava rapidamente il giorno della sua prima esibizione in pubblico insieme alla nuova orchestra, la Gramercy Symphonia, nell’ambito di una stagione di concerti in un auditorium che era stato recentemente restituito al suo antico splendore. Avrebbero suonato una sinfonia di Mahler che lei sentiva in qualche modo estranea, motivo per cui trovava difficile infondere sentimento nell’esecuzione. Per fortuna era solo uno degli oltre dieci violini della sezione degli archi e aveva abbastanza tecnica per passare inosservata in mezzo agli altri senza attirare l’attenzione sulla propria mancanza di empatia per il pezzo. Nell’arco di quindici giorni avrebbero suonato pezzi tratti per la maggior parte dal repertorio classico: Beethoven, Brahms e una serie di opere dei romantici russi. Summer li aspettava con ansia, anche se lo stesso non poteva dirsi per il concerto finale della stagione, un brano di Penderecki, che costituiva una specie di incubo per i suonatori di archi e non le piaceva nemmeno un po’: stridente, impersonale e, almeno così pareva a lei, terribilmente pretenzioso. Comunque mancava ancora del tempo per questo appuntamento. Prima di allora avrebbe cercato di divertirsi. Il clima a New York era insolitamente mite, anche se Summer sembrava aver preso l’abitudine di incappare in acquazzoni stagionali nelle rare occasioni in cui si spingeva oltre il Greenwich Village o SoHo. Il modo in cui i leggeri abiti di cotone inzuppati le si incollavano addosso mentre si affrettava a trovare un riparo o tornava a casa sotto la pioggia le ricordava la tarda primavera della Nuova Zelanda. Si trattava di una sensazione strana, che nulla aveva a che fare con la nostalgia: era come se quella che stava vivendo fosse un’esistenza completamente diversa. Non sentiva alcun bisogno di uscire per socializzare, conoscere uomini o farsi una scopata. Era una vacanza, ecco cos’era. La sera, nella solitudine della sua stanza scarsamente arredata, rimaneva in ascolto dei rumori della strada, le sirene che ululavano nella notte squarciando di tanto in tanto la coltre di silenzio: ogni suono era il respiro di quella città per lei nuova. Talvolta, attraverso la sottile parete divisoria, sentiva i rumori di due persone che facevano l’amore nella stanza accanto: una coppia di suonatori di strumenti a fiato originari della Croazia, che lei pensava fossero marito e moglie. Si trattava di un piccolo recital di voci straniere, sussurri soffocati, l’inevitabile cigolio delle molle del letto e respiri affannosi. Poi arrivava l’immancabile grido squillante della flautista che veniva in un profluvio di imprecazioni in croato, o almeno tali parevano a Summer mentre ascoltava con attenzione i loro movimenti e cercava di immaginarsi lo spettacolo del cazzo e della fica che combattevano tra le lenzuola e il potente martellare dell’uccello del trombettista che scopava la moglie. Summer l’aveva visto spesso girare disinvoltamente per casa con addosso solo la biancheria intima: era basso e peloso e il suo pene sembrava tendere la stoffa dei boxer fino al punto di rottura. Pensava che non fosse circonciso e immaginava il modo in cui la punta del suo membro emergeva dalle pieghe della carne quando raggiungeva la piena erezione. E ogni volta bandiva dalla sua mente il ricordo dei vari peni, circoncisi o meno, che aveva conosciuto. Poi si masturbava, aprendosi le labbra della vagina e suonando con dita sottili ed esperte la solita melodia. Oh, c’erano parecchi vantaggi a essere una musicista… La musica che traeva dal proprio corpo fluiva nella stanza come un torrente, portando piacere e oblio e trascinando via il persistente dolore che lei provava pensando a Dominik. Il primo concerto della stagione era imminente e Summer e i suoi colleghi erano costretti a passare la maggior parte dei fine settimana a provare in uno scantinato umido nei pressi del Battery Park, ripetendo la loro parte fino alla nausea. Si lavò la faccia con l’acqua fredda nel bagno dello spazio per le prove e fu una delle ultime ad andarsene. La luce morente del giorno sbiadiva sull’Hudson. In quel momento i suoi unici desideri erano qualcosa da mangiare – magari un sashimi preso da ToTo in Thompson Street – e una buona notte di sonno. Mentre emergeva dallo scantinato e stava per incamminarsi verso nord si sentì chiamare. «Summer? Summer Zahova?» Si girò e vide un uomo attraente di mezza età, di altezza media, con i capelli sale e pepe tagliati corti e una barba curatissima dello stesso colore. Indossava una giacca estiva a righine azzurre, pantaloni neri e scarpe dello stesso colore lucidissime. Summer non lo conosceva. «Sì?» «Mi scusi se la disturbo, ma ho assistito alle prove, grazie ad alcune conoscenze nell’ambito dell’orchestra, e sono rimasto molto colpito.» Aveva una voce ricca e profonda, con un’inflessione insolita. Non era americano, ma lei non riuscì a stabilire che accento avesse. «Siamo ancora all’inizio» disse Summer. «Il direttore ci sta facendo lavorare per ottenere una maggiore coesione.» «Lo so» ribatté l’uomo. «Ci vuole tempo. Ho esperienza di orchestre, ma secondo me lei si è integrata bene, anche in questa fase iniziale.» «Come fa a sapere che sono nuova?» «Me l’hanno detto.» «Chi?» «Diciamo solo che abbiamo amici in comune» rispose con un ampio sorriso. «Ah» commentò Summer, e fece per andarsene. «Ha un violino bellissimo» aggiunse l’uomo, lo sguardo fisso sulla custodia che lei teneva nella mano destra. Summer indossava una minigonna di pelle, una cintura stretta in vita con una fibbia enorme, niente calze e stivali marroni che le arrivavano a metà polpaccio. «Un Bailly, mi verrebbe da dire.» «Sì» confermò Summer, aprendosi in un sorriso per aver riconosciuto un appassionato come lei. «Senta» proseguì lui, «visto che lei è nuova qui, mi stavo chiedendo se le andrebbe di unirsi a me e ad alcuni amici, domani sera, per una piccola festa. Si tratta perlopiù di persone dell’ambiente musicale, per cui si sentirebbe a casa. New York è una grande città e di sicuro lei non si sarà ancora fatta molti amici, vero? Non sarà niente di speciale: solo qualche drink in un bar e poi magari facciamo un salto da me per quattro chiacchiere; ho un appartamento in affitto. Potrà andarsene quando vuole.» «Dove abita?» indagò Summer. «In un attico a Tribeca» rispose l’uomo. «Vivo a New York solo pochi mesi all’anno, ma tengo l’appartamento. Di solito sto a Londra.» «Posso pensarci?» disse Summer. «Dubito che le prove di domani finiranno prima delle sette. Dove vi incontrate?» L’uomo le porse il suo biglietto da visita: VICTOR RITTENBERG, DOTTORE DI RICERCA. “Dev’essere dell’Europa orientale” pensò Summer. «Da dove viene?» gli chiese. «Oh, è una storia complicata. Magari un giorno…» «Ma le origini?» «Ucraina» rispose lui. Quella piccola informazione la rassicurò. «Anche i miei nonni venivano da lì» spiegò Summer. «Emigrarono in Australia e poi in Nuova Zelanda. Non li ho mai conosciuti. Il mio cognome è originario di quelle parti.» «E così abbiamo qualcos’altro in comune» commentò Victor, con un sorriso enigmatico. «Suppongo di sì» ribatté Summer. «Conosce il Raccoon Lodge in Warren Street, a Tribeca?» «No.» «Ci troviamo lì. Domani dalle sette e mezzo in poi. Se lo ricorderà?» «Certo» disse Summer. «Magnifico.» Victor le rivolse un cenno di saluto e si incamminò nella direzione opposta a quella in cui andava lei. “Perché no?” pensò Summer. Non poteva fare l’eremita all’infinito, e cercò di immaginare chi potessero essere gli amici che aveva in comune con quell’uomo. Victor sedusse Summer gradualmente, usando tutta la sua astuzia. Sulla base di quello che era venuto a sapere di lei dai racconti sporadici di Dominik in risposta alle sue domande casuali si era reso conto che quella ragazza, che ne fosse consapevole o meno, aveva i tratti tipici della sottomessa. Era stata una meravigliosa coincidenza che Lauralynn, la sua vecchia complice, l’avesse indirizzata verso quel lavoro a New York proprio nello stesso periodo in cui lui si era trasferito nella Grande Mela in seguito ad accordi presi tempo prima, quando aveva accettato un incarico all’Hunter College per tenere un corso sulla filosofia posthegeliana. Libertino di lungo corso, Victor era anche un fine conoscitore dei sottomessi e padroneggiava i molti modi per manipolarli e attirarli a sé nella maniera più subdola, sfruttando le loro debolezze e giocando con le loro esigenze. Da come Summer era volontariamente caduta tra le braccia di Dominik e da ciò che aveva osservato nell’unica occasione in cui aveva potuto vederla in azione, aveva capito quali erano i tasti giusti da premere, i centri nervosi da stimolare, le corde invisibili da manovrare. Sfruttando la sua solitudine di nuova arrivata a New York, Victor portò alla luce la naturale sottomissione della ragazza con circospezione, un passo alla volta, ora incoraggiando la sua vena esibizionista, ora assecondando la sconsiderata forma di orgoglio che la spingeva a mettersi in imbarazzanti situazioni di natura sessuale per puro capriccio. In confronto a lui, lei era una dilettante e non si rese mai conto di essere manipolata. Victor sapeva che l’esperienza con Dominik aveva infiammato i desideri di Summer e ne aveva acuito i bisogni sessuali. New York era una grande città dove la solitudine poteva farsi sentire. Dominik era dall’altra parte dell’oceano e lei era lì, indifesa, sola. In occasione della prima serata passata insieme, alla festa nel suo attico di Tribeca, Victor rivelò cautamente il proprio interesse per il sadomasochismo, portando la conversazione su certi club privati a Manhattan e nel New Jersey. Notò la reazione di Summer, il desiderio che le ardeva negli occhi, l’incapacità di negare le proprie inclinazioni sessuali. Il fuoco era stato acceso e in breve lei si trovò irresistibilmente e ineluttabilmente attratta verso quella fiamma come una falena verso la luce. Per quanto ci provasse, non poteva resistere alla voce del suo corpo, alla complessa ragnatela che Victor stava tessendo. Summer sentiva la mancanza di Dominik, dei suoi strani giochi sessuali e del piacere che aveva tratto dall’assecondare il suo volere. La voce di Victor era diversa, il suo tono era fermo e intransigente, privo della morbida inflessione di Dominik, eppure se chiudeva gli occhi Summer riusciva quasi a immaginare che a darle ordini fosse Dominik, che fosse lui a piegare la sua volontà. Si rese conto in fretta che Victor sapeva su di lei più cose di quante avrebbe dovuto sapere e iniziò a sospettare che la sua informatrice fosse Lauralynn. Non era un’ingenua, ma voleva vedere dove tutto ciò avrebbe portato. Non poteva più ignorare il richiamo delle fantasie perverse e il canto di sirena del suo corpo desideroso. Al loro terzo incontro, in un bar buio di Lafayette Street, Summer scoprì di trovarsi a proprio agio con la sottile opera di adescamento che Victor stava conducendo e fu tutt’altro che sorpresa quando, nel bel mezzo di una conversazione su quanto fossero brutte le forme più moderne di musica classica (anche se lei mostrava un indulgente apprezzamento per l’opera di Philip Glass, che invece Victor non sopportava), lui le chiese di punto in bianco: «Hai già servito, vero?». Lei annuì. «Tu sei un dominatore, giusto?» Victor sorrise. Il tempo dei giochetti psicologici era finito. «Penso che tu e io ci capiamo, Summer» disse Victor, mettendole una mano sulle sue. Sì, si capivano; il mondo reale, quel mondo segreto intorno al quale lei aveva girato freneticamente come una gallina decapitata, la stava chiamando di nuovo, seducendola con una melodia soave. Pur sapendo di aver imboccato una strada senza via d’uscita, si va avanti lo stesso, perché non farlo significherebbe rimanere incompleti. L’incontro successivo con Victor avvenne dopo una lunga sessione di prove, due giorni prima dell’esibizione che avrebbe inaugurato la nuova stagione concertistica. Summer era euforica: la musica fluiva senza sforzo e il suono del suo meraviglioso Bailly adesso si fondeva armoniosamente con il resto dell’orchestra. Aveva lavorato sodo e l’impegno stava dando i suoi frutti. Con l’adrenalina che le scorreva nelle vene, si sentiva pronta ad affrontare qualunque dannata perversione Victor avesse in mente. Anzi, non vedeva l’ora. L’appuntamento era in un dungeon improvvisato nel seminterrato di un imponente edificio di mattoni rossi nei quartieri alti, ad appena un isolato dalla Lexington. Le era stato detto di presentarsi alle otto di sera e lei aveva deciso di mettersi il corsetto già usato quando aveva fatto la cameriera a Londra; le sembrava passata un’eternità da quella festa a casa di Charlotte. Indossando un capo che Dominik aveva comprato per lei, Summer poteva immaginare che si trattasse di una festa a cui lui le aveva chiesto di partecipare e fingere di comportarsi come se stesse obbedendo ai suoi desideri. Mentre si preparava, si meravigliò di nuovo della morbidezza della stoffa. L’accarezzò con le dita e non poté fare a meno di pensare a lui. Perché era così difficile dimenticarlo? Quel pensiero insistente fu accantonato quando il suo cellulare vibrò. La limousine che Victor aveva mandato a prenderla aspettava in strada. Anche questa volta, infilò il lungo soprabito rosso. Faceva caldo per un capo simile, ma la copriva fino alle caviglie, nascondendo lo scioccante spettacolo del corsetto, dei seni in mostra e delle calze nere che le era stato detto di indossare e che le arrivavano a metà delle cosce lasciando scoperta la pelle lattea fino al tanga quasi invisibile. Aveva notato, con un certo disappunto, che i peli del pube stavano iniziando a ricrescere in ciuffi disordinati, ma non aveva avuto tempo di porvi rimedio. Victor indossava un elegante smoking, al pari di tutti gli ospiti maschi, mentre le donne sfoggiavano abiti di alta sartoria di tutte le sfumature pastello. Qualcuno le prese il soprabito e Summer si sentì a disagio perché era l’unica donna a seno nudo nella grande sala da pranzo, affollata di ospiti che bevevano e fumavano. Nell’aria aleggiava una spessa nube di fumo di sigari e sigarette. «L’ultima arrivata» annunciò Victor. «Questa è Summer. Da oggi si unirà al nostro piccolo gruppo privato. Ci è stata molto raccomandata.» “Raccomandata da chi?” si chiese Summer. Percepì gli occhi di una ventina di persone che la fissavano, esaminandola e soppesandola. Sentì i capezzoli che si indurivano. «Vogliamo andare?» disse Victor, indicando la porta del seminterrato con un gesto teatrale. Summer seguì il movimento della mano di lui e si avviò, in equilibrio precario sui tacchi alti. Adesso che il momento si avvicinava, le girava un po’ la testa. Era la prima volta che si ritrovava in una scena fetish dopo l’orgia di Londra che aveva portato alla separazione da Dominik. Una decina di scalini conducevano a una grande cantina ben illuminata con le pareti ricoperte di tappeti dall’aria esotica. Sapeva come si chiamavano ma adesso il termine le sfuggiva, distratta com’era dalla vista di sei donne che se ne stavano in piedi in cerchio al centro di quel dungeon improvvisato. Erano tutte nude dalla vita in giù. Niente biancheria intima né calze né scarpe. Avevano la parte superiore del corpo coperta da indumenti di vario genere – camicette, magliette, sottili top di seta – tutti più o meno trasparenti e i capelli – dal biondo platino al nero corvino – raccolti in uno chignon. Summer era l’unica rossa del gruppo. Due di loro indossavano un sottile girocollo di velluto, mentre le altre portavano veri e propri collari di metallo, o simili a quelli dei cani con borchie; una esibiva una fascia di cuoio chiusa da un pesante lucchetto. Schiave? Gli ospiti si riversarono nel dungeon e si disposero lungo le pareti. «Come vedi, mia cara» Victor le era arrivato silenziosamente accanto e le stava sussurrando all’orecchio, «non sei sola.» Summer fece per replicare, ma lui si portò velocemente un dito alle labbra imponendole il silenzio. Parlare non rientrava nel suo ruolo. Le accarezzò un fianco, tirandole l’elastico del minuscolo tanga. «Mostrati» le intimò. Summer si sfilò il tanga. «Il resto» continuò lui. Lei lanciò un’occhiata alle altre donne, nude dalla vita in giù, e comprese l’ordine. Consapevole di avere gli occhi di tutti puntati addosso e cercando di rimanere in equilibrio, arrotolò le calze e, dopo essersi liberata delle scarpe, se le sfilò. Victor non si offrì di aiutarla. Il pavimento era freddo. Pietra. Adesso era nuda, a parte il corsetto stretto in vita che le sosteneva il seno, offerto agli occhi di tutti. Guardando le donne in cerchio, messe in mostra come lei, Summer si rese conto di quanto tutte loro fossero tremendamente oscene. La nudità era naturale, anche in pubblico, ma qui si trattava di qualcos’altro, una parodia dell’erotismo, un’abile forma di umiliazione. Un lieve tocco sulla spalla la sospinse verso le donne in mostra, che si scostarono per accoglierla nel cerchio. Notò che erano tutte depilate. Con la pelle liscissima, come se la depilazione fosse permanente. Un atto cui, a un certo punto, si erano sottoposte per sottolineare il loro ruolo di schiave, la perdita del potere. Si sentì sciatta. Proprio mentre quel pensiero le attraversava il cervello Victor disse: «Dovresti curarti di più, Summer. La tua fica è in disordine. In futuro dovrai essere completamente depilata. Più tardi ti punirò». Le leggeva nella mente? Summer arrossì. Qualcuno strofinò un fiammifero e lei fremette, temendo per un attimo che fosse l’inizio di qualche rituale doloroso, ma era solo una persona che si accendeva una sigaretta. «Allora, Summer, ti unisci a noi» disse Victor, girandole intorno. Le infilò una mano tra i capelli, mentre posava l’altra su una delle sue natiche. «Sì» mormorò Summer. «Sì, signore!» ruggì lui, colpendola con forza sulla natica destra. Summer sobbalzò. Gli spettatori trattennero il fiato. Una delle donne che osservavano la scena fece un sorriso laido da regina cattiva delle fiabe. Summer ne scorse un’altra che si leccava le labbra. Pregustando la scena? «Sì, signore» disse docile, vincendo la riluttanza a entrare nel ruolo con tanta facilità. «Bene» disse lui. «Conosci le regole: ci servirai; non farai domande; ci mostrerai rispetto. Capito?» «Sì, signore.» Ormai aveva imparato come rispondere. Le afferrò un capezzolo e lo strinse con forza. Summer trattenne il respiro per controllare il dolore. Victor adesso era alle sue spalle e le sue parole le martellavano le orecchie. «Sei una piccola troia.» Quando lei non replicò, lui la sculacciò con forza. «Sono una piccola troia.» «“Sono una piccola troia” e poi?» Un altro colpo e un’altra fitta di dolore. «Sono una piccola troia, signore» si corresse lei. «Così va meglio.» Ci fu un momento di silenzio e con la coda dell’occhio Summer vide che una delle schiave faceva un sorrisetto compiaciuto. Stavano ridendo di lei? Victor continuò: «Ti piace che tutti vedano il tuo corpo, vero, troia? Ti piace essere guardata, essere esibita?». «Sì, signore, mi piace» rispose lei. «Ti comporterai bene, allora.» «Grazie, signore.» «Da questo momento, ti possiedo» dichiarò Victor. Summer avrebbe voluto protestare. Da un lato c’era qualcosa di terribilmente eccitante in quell’idea, ma dall’altro una parte della sua personalità si ribellava. Per il momento, però, mentre lei se ne stava in piedi in quel dungeon, con le tette e la fica mal rasata esposte agli sguardi di tutti, bagnata tra le cosce a conferma della sua eccitazione, quelle erano solo parole. Summer si sentì baldanzosa, pronta ad affrontare tutto ciò che il futuro le avrebbe riservato. 11 Una ragazza e il suo padrone La prima sculacciata fu così violenta che io capii subito che il segno mi sarebbe rimasto per ore, bordato di rosa come la versione infantile di un disegno astratto. Deglutii con forza. Avevo tutti gli sguardi puntati addosso: aspettavano la mia reazione, forse sperando di vedermi trasalire. Mi limitai a stringere i denti. Non gli avrei dato quella soddisfazione. Non ancora, perlomeno. Nella voce di Victor c’era una durezza mai colta in precedenza, come se la sua vera natura stesse emergendo solo adesso. Mi aveva fatto togliere tutto ciò che indossavo, a parte il corsetto, lasciandomi esposta come piaceva a lui. “Signore” qui, “signore” là, autoritario, incalzante. Obbedivo alle sue istruzioni, anche se il modo in cui dovevo rivolgermi a lui mi irritava. Dominik non mi aveva mai chiesto di chiamarlo “signore”. Avevo sempre pensato che fosse un termine stupido, che trasformava una situazione piccante in una farsa. Cercai di mantenere la mia dignità, nonostante quella messinscena dozzinale. Rimasi immobile in quella parata di schiave. La bionda esile con il seno piccolo, la brunetta olivastra con il sedere basso, quella con i capelli color topo, le curve generose e una vistosa voglia sulla natica destra, quella alta, quella bassa, quella rotondetta. E poi io, la rossa con il corsetto che attirava ancora di più l’attenzione sulla sua sessualità, sui capezzoli turgidi, sulla fica bagnata e pronta. «In ginocchio» disse una voce. Questa volta non era Victor, che si era allontanato per unirsi agli altri ospiti, confondendosi nella folla di uomini e donne. Ci inginocchiammo tutte. «Giù la testa.» Le schiave accanto a me obbedirono, sfiorando con il mento il pavimento di pietra. Se questa era la completa subordinazione, non faceva per me. Abbassai la testa, tenendola comunque a distanza dal suolo. Sentii un piede sulla base della schiena che mi spingeva giù per costringermi a inarcarmi e a sollevare il sedere, esponendolo ulteriormente. «Quel culo ha l’aria molto invitante» disse una donna. «La vita così stretta lo mette ancora più in risalto.» Il piede si ritrasse. Lucide scarpe scure e tacchi alti tredici centimetri iniziarono a passeggiare intorno a me e alle altre schiave: gli ospiti si muovevano in mezzo a noi giudicando, valutando la merce. Con la coda dell’occhio vidi qualcuno inginocchiarsi accanto a me; una mano mi soppesò il seno. Un altro ospite invisibile mi fece scivolare un dito nel solco tra le natiche, me lo infilò nella fica per vedere quant’era bagnata, poi lo ritrasse per tastarmi l’ano. Io mi contrassi, tentando di impedirglielo, ma lui riuscì a introdursi lo stesso per un attimo. Rimasi stupita che ci fosse riuscito senza usare il lubrificante. Certo, la posizione in cui stavo, con le parti intime completamente esposte, rendeva la cosa più facile. «Non è stata usata granché, qui» commentò, poi mi diede una pacca sul sedere prima di passare a un altro dei corpi in mostra. D’un tratto sentii il respiro di Victor nel mio orecchio. «Ti piace essere esibita, eh, Summer?» commentò in tono divertito. «Ti dà una scossa. Lo capisco da quanto sei bagnata. Non puoi nasconderlo. Non hai nessuna vergogna?» Ero fradicia e senza dubbio dovevo essere arrossita mentre lui continuava a esaminarmi. «Può essere usata?» chiese uno dei presenti. Un uomo. «Non del tutto» rispose Victor. «Per oggi solo la bocca. Ho in serbo cose più interessanti per lei.» «Per me va benissimo» replicò l’altro. «Lei gode a essere messa in mostra, usata in pubblico» continuò Victor. Udii un fruscio: era lui che trascinava un piede sul pavimento, a pochi centimetri dal mio naso; una lievissima zoppia rendeva riconoscibile il suo passo. Ero furiosa, ma non potevo manifestarlo. Victor mi mise una mano sotto il mento costringendomi ad alzare la testa, poi mi posizionò all’altezza del cavallo dei pantaloni dell’uomo che aveva parlato prima e che nel frattempo aveva abbassato la cerniera e stava tirando fuori l’uccello, avvicinandomelo alla bocca. Percepii un lieve odore di urina e per poco non vomitai, ma Victor mi prese saldamente per le spalle, costringendomi a fare quello che voleva. Aprii la bocca. Lo sconosciuto aveva un cazzo corto e grosso. Iniziò a muoversi velocemente, tenendomi per i capelli e costringendomi a prenderlo fino in fondo, come se fossi avida di succhiarglielo. Venne in fretta, spruzzandomi lo sperma in gola. Poi mi tenne ferma, rifiutandosi di ritrarsi finché non ebbi deglutito, riluttante, dopo essermi pulita la bocca. Alla fine mi lasciò andare. Il sapore amaro della sua sborra non se ne andava e avrei voluto precipitarmi in bagno per sfregarmi la lingua. In quel momento avrei fatto i gargarismi con l’acido, pur di eliminare quel gusto. Mi guardai intorno: tutte le altre infelici schiave venivano usate, scopate in bocca dagli ospiti maschi o montate da dietro come pezzi di carne, a parte quella con i capelli color topo che mi faceva pensare a una casalinga dei sobborghi. Lei era occupata a leccare una donna che teneva il vestito di seta scarlatta sollevato fino alla vita ed emetteva acuti strilli da uccellino ogni volta che la lingua della schiava le toccava il clitoride o un’altra zona erogena. Non ebbi il tempo di analizzare ulteriormente quella situazione perché Victor mi ordinò di sdraiarmi sulla schiena, dopo aver steso una spessa coperta sul pavimento di pietra. Mi fece allargare le gambe e avanzò verso di me con i pantaloni abbassati e l’uccello di dimensioni più che rispettabili già inguainato nel preservativo. A differenza di Dominik, aveva scelto di proteggersi. Non si fidava del fatto che fossi sana, oppure era stato Dominik a comportarsi da irresponsabile? Mi penetrò con forza e cominciò a scoparmi. D’un tratto mi resi conto che sebbene avessi scelto di consegnare il mio corpo alla sua volontà, ero ancora padrona della mia mente e potevo fare quello che volevo. Cercai nella mia testa quel posto speciale che mi avrebbe consentito di allontanarmi da tutto, se non fisicamente, almeno mentalmente. Presto ciò che mi circondava sbiadì, gli uomini, le donne e le schiave scivolarono in una sorta di assenza: i corpi, i grugniti, tutto. Chiusi gli occhi, abbandonai la presa sulla realtà e mi lasciai sommergere dalle ondate di desiderio. Victor venne in fretta e fece due passi indietro. Ebbi appena il tempo di riprendermi che mi trovai la bocca invasa dal pene di un altro uomo. Una diversa sfumatura di rosa e marrone, una grossa punta, un altro lieve odore, questa volta di sapone alle erbe. Non volli guardare l’uomo a cui apparteneva quel membro. Che importanza aveva? Lo succhiai fingendo che mi piacesse. Il resto della serata trascorse in una nebbia indistinta. Uomini anonimi. Donne che davano ordini con una punta di crudeltà e un leggero malessere che emanava dai loro corpi profumati. Ben presto mi staccai dal mio io pensante; la mia mente e il mio corpo inserirono il pilota automatico. Quando alla fine mi guardai intorno, la folla di ospiti si era quasi dispersa, mentre gli ultimi ritardatari se ne andavano o si ricomponevano. Era rimasto solo il nostro cerchio di schiave al centro della stanza: sporche, esauste, rassegnate. Qualcuno mi diede un colpetto sulla testa come si farebbe con un cagnolino. «Brava, Summer. Ti sei rivelata davvero promettente.» Era Victor. Il suo commentò mi stupì. Sapevo di essere stata distaccata, distante, meccanica, fredda, come un’attrice sul set. Di un film porno, per la precisione. «Vieni» mi disse, allungando una mano per aiutarmi a rimettermi in piedi dalla mia posizione indecente. Aveva recuperato il mio soprabito e me lo mise sulle spalle. Fuori dall’edificio la limousine ci stava aspettando. Il tragitto si svolse in silenzio. La stanchezza assoluta, mentale e fisica, riduce una persona uno zombie. Giornate trascorse a provare – mediamente due esibizioni alla settimana – e, tutte le volte che ero libera, una chiamata di Victor. Ovviamente avrei potuto dire di no, avrei dovuto dire di no, fargli sapere che si stava spingendo troppo in là e che io non volevo più partecipare ai giochi da lui organizzati con tanta deliberata malizia, ma mi resi conto che una parte di me bramava altri incontri con una specie di curiosità morbosa. Come se stessi mettendo alla prova i miei limiti. Ogni appuntamento era un ulteriore ponte gettato sul fiume, una sfida verso la quale il mio corpo veniva irresistibilmente attratto. Stavo perdendo il controllo. Senza Dominik ad ancorarmi ero come una barca alla deriva in mari aperti e inesplorati, alla mercé di venti e tempeste. Non avevo nulla cui aggrapparmi, nessuna bussola per orientarmi, e il violino non era lo strumento giusto per quella situazione. Avevamo un direttore d’orchestra ospite venezuelano che era a New York per una rassegna di opere di compositori russi postromantici e ci stava facendo lavorare duramente. Il nostro modo di suonare non lo soddisfaceva: voleva più verve e più colore. La sezione degli archi era la più tartassata. Mentre, infatti, la sezione degli ottoni, prevalentemente maschile, sembrava più abile nel variare l’enfasi, noi suonatori di strumenti ad arco eravamo abituati a un’interpretazione più discreta della musica. Inoltre molti di noi, in ragione delle loro radici est-europee, avevano acquisito abitudini musicali che, soprattutto nell’esecuzione di brani molto noti, non potevano essere facilmente modificate con l’aggiunta di ulteriore virtuosismo. Le prove di quel pomeriggio erano state estenuanti e il direttore aveva criticato piuttosto aspramente i nostri sforzi. Mentre camminavo lungo la Broadway diretta a casa il mio cellulare si mise a vibrare. Era Chris, di passaggio a Manhattan. La sua band era stata ingaggiata per un breve tour in locali rock minori sull’East Coast e lui era in procinto di partire per Boston. A quanto pareva, aveva cercato di chiamarmi il giorno prima per invitarmi a suonare insieme a loro in un concerto in Bleecker Street, ma mi ricordai che il mio telefono era rimasto scarico o spento per parecchi giorni, visto che ero impegnata tra le prove con il venezuelano e le richieste di Victor. «Ci sei mancata» disse Chris dopo i convenevoli iniziali. «Sono sicura che non è vero» ribattei. Non suonavo mai in tutti i pezzi quando la band si esibiva. Un violino aggiunge un sound particolare a un gruppo rock, ma se viene usato in modo eccessivo c’è il rischio di scivolare nel country. «E invece sì» ribatté Chris. «Sia come persona sia come musicista.» «Ah, l’adulazione ti aprirà tutte le porte.» Chris sarebbe rimasto in città solo per quella sera. Ci mettemmo d’accordo per vederci non appena mi fossi fatta una doccia e cambiata dopo quella giornata estenuante. A entrambi piaceva la cucina giapponese. Talvolta giudico le persone dai loro gusti in fatto di cibo e di rado approvo quelli che sostengono di non amare il pesce crudo o la tartare o le ostriche. Vigliacchi culinari, secondo me. Il sushi bar era il ToTo, un piccolo locale normalmente frequentato da pochissimi clienti, dal momento che funzionava soprattutto come takeaway. Di conseguenza, il cuoco sottoccupato era sempre generoso con le porzioni. «Allora, com’è l’ambiente classico?» mi chiese Chris mentre sorseggiavamo il primo sakè della serata. «Mi stressa parecchio, questo è certo. Il direttore con cui stiamo lavorando adesso è una specie di tiranno. Molto esigente e lunatico.» «Non ti ho sempre detto che noi rockettari siamo assai più civilizzati di voi parrucconi classici?» «Sì sì, me l’hai detto, Chris.» Praticamente ogni volta che parlavamo. Quella battuta era ormai diventata una specie di cliché, ma io cercai lo stesso di sorridere. «Hai l’aria stanca, Summer.» «Sono stanca, infatti.» «Va tutto bene?» mi chiese poi, con l’aria preoccupata. «È solo stanchezza. Sono impegnatissima con l’orchestra e non dormo bene.» «Tutto qui?» «Che altro dovrebbe esserci? Ho le borse sotto gli occhi?» Chris sorrise. La mia vecchia spalla, una persona a cui non potevo mentire. «Sai a che cosa mi riferisco. Allora… che mi dici delle tue… avventure? Ti conosco, Summer.» Presi un boccone di tonno pinna gialla con i bastoncini. Chris sapeva quasi tutto quello che era successo a Londra con Dominik. Be’, forse non ogni singolo dettaglio: una ragazza ha il suo amor proprio. Aveva sicuramente capito che la mia venuta a New York con così poco preavviso era stata una specie di fuga. «Non dirmi che ti ha seguita fin qui! Non può essere.» Intinse un California Roll nella ciotola di salsa di soia e wasabi. «No» risposi. «Non lui.» Poi, vincendo la riluttanza a rivelare quello che provavo, aggiunsi: «Magari fosse lui». «Che cosa vuoi dire, Summer?» «Ho incontrato un altro uomo. Simile… ma peggio, credo. Non è facile da spiegare.» «Che cosa c’è in te che attira questi bastardi, Summer? Non ho mai pensato che tu fossi una masochista.» Rimasi in silenzio. «Senti, Darren era un coglione, lo so, ma i tizi da cui adesso sembri stranamente attratta sono pericolosi.» «È vero» confermai. «E allora perché lo fai?» Stava perdendo la pazienza. Perché succedeva tutte le volte che ci vedevamo? «Non faccio uso di droghe, come sai. Be’, a parte qualche spinello. Forse questa cosa è una specie di droga. Mi dà lo sballo. È come se mettessi una mano tra le fiamme per vedere fino a dove posso spingermi, rimanendo in equilibrio tra dolore e piacere. Non è poi tanto brutto, Chris… anche se so che non ci credi. Ognuno ha i suoi gusti. Non criticare prima di provare.» «Sarà… Non penso che faccia per me. Tu sei matta, ragazza mia.» «Può darsi, Chris, però mi conosci. Prendi l’amico tuo con il difetto suo.» «Ma sei felice?» mi chiese alla fine, mentre la cameriera sparecchiava e ci portava quadratini di una torta all’ananas offerta dal locale. Evitai di rispondere, ma il mio sguardo mi tradì, temo. Ci spostammo in un bar nelle vicinanze per una birra prima di salutarci, su una nota di incertezza. «Fatti viva» mi disse Chris. «Hai il mio numero. Ogni volta che ne hai voglia. O se c’è un problema. Torniamo in Inghilterra alla fine della settimana prossima, ma io ci sarò sempre per te, Summer. Credimi.» Era notte. L’atmosfera del Greenwich Village era elettrica e la musica inondava le vie strette di melodie sconosciute e lievemente cacofoniche. I rumori di una grande città. Avevo un disperato bisogno di dormire. Il concerto di musiche di Prokof’ev in uno dei luoghi più eleganti di Manhattan fu un trionfo. Tutto andò alla perfezione, giustificando la tortura delle prove e la tensione tra il direttore e i membri dell’orchestra. Il mio assolo di poche battute nel secondo movimento fluì come un sogno che diventa realtà, e il giovane maestro mi gratificò persino di una strizzata d’occhio in segno di approvazione mentre eseguivamo le note finali. Il mio buonumore svanì in fretta quando trovai Victor ad attendermi all’ingresso degli artisti. «Perché ci hai messo tanto? Il concerto è finito più di un’ora fa» mi fece notare. «C’è stata una piccola festa» risposi. «È andato straordinariamente bene. Nessuno se l’aspettava» gli spiegai. Lui aggrottò le sopracciglia. Mi fece cenno di incamminarmi insieme a lui e imboccammo la Third Avenue verso nord. Forse perché portavo i tacchi alti, ma all’improvviso Victor mi sembrò più basso. «Dove stiamo andando?» gli chiesi. Ero ancora un po’ stordita dall’effetto combinato del vermut bevuto per festeggiare con l’euforia per l’esibizione quasi perfetta. «Non preoccuparti» replicò lui brusco. A cosa stava pensando? Indossavo l’abito di velluto nero da concerto e normale biancheria intima. Niente autoreggenti o calze con la giarrettiera, ma un paio di collant. E un golf leggero che avevo comprato il giorno prima all’Ann Taylor Loft. Il corsetto di Dominik, che Victor spesso mi faceva indossare per i nostri incontri, era chiuso in un cassetto del mio comò. Forse era solo un’occasione sociale. Anche se, conoscendo Victor, ne dubitavo. «Hai con te un rossetto?» mi chiese, mentre camminavamo lungo la Third. «Sì.» Ce l’avevo. Le ragazze sono sempre ragazze. Poi il fugace ricordo di un recente episodio con il rossetto “protagonista” mi attraversò la mente. E a un tratto capii. Quella sera nella mansarda di Dominik lo spettatore segreto doveva essere stato Victor, il quale mi aveva vista dipinta come la grande meretrice di Babilonia, per usare le parole di Dominik. Il luogo dell’incontro era un albergo di una grande catena nella zona di Gramercy Park. L’ultimo piano dell’edificio sfiorava il cielo, con un baldacchino di brillanti luci al neon e una foresta di finestrelle piccole come quelle di una casa di bambole affacciate sulla notte. Mi diede l’impressione di una cupa fortezza. Una fortezza o una segreta? Oddio, sembrava che non riuscissi a pensare ad altro. Il portiere di notte si tolse il cappello in segno di saluto mentre noi entravamo nella hall e ci dirigevamo verso gli ascensori. Ne prendemmo uno sulla sinistra che portava direttamente all’attico. Non era accessibile al pubblico e per usarlo era necessaria una chiave, che Victor estrasse da una tasca. Salimmo in un silenzio teso. Le porte dell’ascensore si aprirono su un gigantesco atrio dove c’era solo un grande sedile di pelle sul quale gli ospiti avevano appoggiato soprabiti e borse. Mi tolsi il golf e lasciai con riluttanza la custodia del violino. Da lì passammo in un’enorme stanza con finestre panoramiche da cui si vedeva lo splendido spettacolo di Manhattan illuminata. C’era un sacco di gente, che si aggirava con un drink in mano. In un angolo c’era una piccola area soprelevata, una specie di palco, e alla sua sinistra una serie di porte che senza dubbio immettevano nelle altre stanze della suite. Stavo per dirigermi verso il piccolo bar ben fornito di bottiglie, bicchieri e secchielli del ghiaccio quando Victor mi fermò. «Non devi bere, Summer. Voglio che tu sia al tuo meglio» disse. Feci per protestare – mi credeva forse un’ubriacona? – ma proprio in quel momento uno sconosciuto con uno smoking che lo faceva sembrare più un cameriere che un uomo elegante si avvicinò e strinse calorosamente la mano a Victor. Mi squadrò dalla testa ai piedi e, come se io non esistessi, commentò: «Molto carina, mio caro Victor. Davvero molto carina. Una schiava bellissima». Il mio primo impulso fu di sferrargli un calcio, ma mi trattenni. Era così che mi aveva presentata Victor? Non ero e non sarei mai stata una schiava. Ero io, Summer Zahova, una persona con una mente propria, una sottomessa, non una schiava. L’idea in sé non mi creava problemi. Sapevo che c’erano uomini e donne disposti a darsi totalmente in quel modo, ma non era il mio caso. Victor sorrise all’uomo, chiaramente compiaciuto. Il bastardo. Mi diede un colpetto sul sedere con disgustosa condiscendenza. «Vero? Non è uno schianto?» Entrambi mi trattavano alla stregua di un oggetto d’arredamento. «Spunterà un buon prezzo» disse uno dei due, ma io ero talmente ottenebrata che non capii chi avesse pronunciato quelle parole. Sentii Victor afferrarmi per un polso. Mi si snebbiò il cervello e lo guardai in faccia. «Farai quello che ti si dice, Summer. Intesi? So che dentro di te sei combattuta, e lo capisco perfettamente. Ma so anche che sei in conflitto con la tua natura e che un giorno verrai a patti con essa. Il desiderio di essere esibita, di essere prostituita pubblicamente, è parte di te. Ti fa sentire viva, ti permette di fare esperienze che non hai mai fatto prima. La tua resistenza deriva solo da antiquate regole sociali, dall’educazione. Tu sei nata per servire. Ed è quando lo fai che esprimi il massimo della tua bellezza. Tutto quello che voglio è portare allo scoperto questa bellezza, vederti fiorire, vederti assumere la tua condizione.» Le parole di Victor erano profondamente inquietanti, ma avevano un fondo di verità che non potevo negare. Nei momenti di eccesso il mio corpo mi tradiva. La droga della sottomissione esercitava un richiamo potente ed era come se comparisse la vera Summer, sfrenata, spudorata, svergognata, una parte di me di cui godevo ma che mi faceva paura, portandomi a temere che un giorno mi sarei spinta troppo in là, che il fascino del pericolo sarebbe diventato più forte dello spirito di autoconservazione. La mia metà animalesca anelava all’oblio sessuale, mentre la metà razionale dubitava dei motivi che stavano dietro a ciò. Si dice spesso che la maggior parte degli uomini ragiona con l’uccello; nel mio caso, ero guidata dall’insaziabilità della mia fica, anche se paradossalmente quella brama era in parte mentale. Ciò di cui avevo bisogno era non tanto un uomo, o più uomini, che mi possedessero e mi usassero, quanto piuttosto il nirvana che raggiungevo quando mi abbandonavo al sesso senza senso, degradandomi e umiliandomi, e che mi faceva sentire più viva di qualunque altra cosa. Forse mi sarei dovuta dedicare al free climbing. Ero consapevole delle mie contraddizioni, le accettavo, ma il fatto di accettarle non rendeva affatto le cose più facili. Mentre mi si snebbiava la mente, si udì un bisbigliare nella stanza, parole non dette che annunciavano che il momento era arrivato. Scortata dallo sconosciuto in smoking e da Victor fui condotta al piccolo palco dall’altra parte della sala, dove mi spogliarono velocemente. Ricordo di aver pensato quanto dovessi apparire goffa mentre mi toglievano gli assai poco attraenti collant, ma accadde tutto così in fretta che non ebbi modo di protestare. Lo sconosciuto, che era il maestro di cerimonie di quella bizzarra serata, agitò le braccia con un gesto ostentato e annunciò: «Questa è la schiava Summer, proprietà del padrone Victor. Sarete d’accordo, ne sono certo, che si tratta di uno splendido esemplare. Carnagione pallida» mi indicò «e un culo squisitamente tornito». Mi fece cenno di girarmi e mostrare il sedere agli astanti. Si udirono respiri profondi. Avevo già nuovi ammiratori. Un colpetto sulla spalla mi indicò che dovevo girarmi di nuovo verso il pubblico. La maggior parte erano uomini, ma si vedevano anche alcune donne che indossavano abiti da sera ricercati. Sembravano tutte normali; evidentemente quella sera non c’erano altre schiave. Il maestro di cerimonie mi passò una mano sul seno sinistro e lo sollevò, mostrandolo, esibendone la forma. «Piccolo, ma a suo modo voluttuoso» disse, abbassando la mano per rimarcare come la mia vita sottile accentuasse le curve del seno e del culo. «Un meraviglioso corpo come quelli di una volta… o forse dovrei definirlo “classico”?» Deglutii a vuoto. L’uomo mi risparmiò di arrossire, evitando di descrivere la mia fica adesso impeccabilmente depilata. Il pubblico poteva comunque vederla e in quella situazione le parole di elogio non avrebbero fatto alcuna differenza. «Un esemplare straordinario, i nostri complimenti al padrone Victor, che ancora una volta ci fornisce un corpo perfetto e notevole per singolarità. Mi hanno informato che non è stato ancora violato come si deve, il che dovrebbe costituire un ulteriore elemento di fascino.» “Violato?” Oh, cazzo, ma che cosa aveva in mente? Dietro di me, una mano guizzò tra le mie gambe costringendomi ad allargarle. Era Victor. Riconoscevo il suo tocco. Adesso ero completamente in mostra e sentivo addosso lo sguardo di almeno una ventina di uomini che mi esaminavano, soppesandomi e godendosi la mia assoluta vulnerabilità. “Oh, Dominik, che cos’hai creato?” Ma sapevo che quella creatura esisteva già prima: lui l’aveva percepita e l’aveva portata in vita. Aveva portato in vita me. La mia mente era attraversata da pensieri frenetici. In preda allo stordimento, seguii l’“asta” come una semplice spettatrice. Nella mia testa si susseguivano immagini di brutti film visti un secolo prima, di romanzi sul sadomasochismo che mi avevano solleticato la fantasia, spingendomi a raffigurarmi in qualche mercato arabo o africano, con vortici di sabbia che si levavano tutt’intorno, mentre mercanti di schiavi tarchiati e dalla pelle scura reclamizzavano la mia merce, mani che mi tastavano, dita che mi tenevano aperta a forza perché gli astanti vedessero il mio interno rosa in contrasto con il pallore della carnagione. Forse in quei sogni a occhi aperti indossavo un velo, e forse no, ma all’orizzonte di quelle fantasticherie ero sempre più nuda del nudo, tremendamente esposta, con le parti intime offerte agli occhi di tutti. Oppure ero trascinata dentro una gabbia di bambù sul ponte di una nave corsara, vittima di un rapimento sui mari e in procinto di essere comprata da qualche principe orientale per il suo svago, destinata al suo affollato harem. Era questo che significava diventare una schiava? Le offerte partirono da cinquecento dollari. Fu una donna a cominciare. Non ero sicura di poter servire una donna. Avevo fantasticato su Lauralynn, è vero, ma da ciò che avevo visto fino a quel momento preferivo la dominazione maschile. Ben presto intervenne un coro di voci maschili e le offerte si susseguirono rapidamente. Ogni volta che qualcuno rilanciava, i miei occhi guizzavano tra la folla nel tentativo di distinguere la faccia di chi offriva una cifra per me, ma l’azione era troppo veloce e il pubblico si trasformò in una giungla di voci e lineamenti sconosciuti. Finalmente, la battaglia tra i due che rilanciavano più spesso terminò e le voci si zittirono. Il vincitore sembrava davvero un mercante arabo, comunque orientale. Indossava un abito antiquato, anche se di ottimo taglio, e portava gli occhiali. Era stempiato, tarchiato e la piega delle sue labbra tradiva una vena di crudeltà. Il mio nuovo padrone? Perché mai Victor avrebbe voluto cedermi a lui? Di certo non per i soldi. Aveva offerto solo duemilacinquecento dollari. Una somma lusinghiera, niente da dire, ma ben lungi dal rappresentare il reale valore di una donna. Victor tirò fuori un collare e me lo mise. «È tutta tua per la prossima ora» disse poi al fortunato vincitore. Allora era una transazione solo temporanea, un fatto eccezionale. Alla fine sarei tornata nelle mani di Victor. Un’altra mossa del gioco a cui stavamo giocando, mentre esploravamo le nostre tenebre. L’uomo che aveva fatto l’offerta più alta mi prese per mano, impossessandosi del suo trofeo, e mi guidò verso una porta. Entrammo in una grande stanza. Lui mi spinse sul letto, si chiuse l’uscio alle spalle e cominciò a spogliarsi. Mi scopò. Mi usò. E quando ebbe finito uscì dalla stanza senza una parola, lasciandomi aperta, inebetita dall’implacabile martellamento che mi aveva appena inflitto, ignorandomi totalmente. Trattenni il fiato. Abbandonata come una bambola di stracci in una casa giocattolo. Udivo i rumori attutiti della festa privata che si svolgeva al di là della porta, il tintinnio dei bicchieri, il brusio delle conversazioni. Parlavano forse di me, discutendo la mia performance, come mi ero classificata? Era finita? Oppure nella stanza sarebbe entrato un altro sconosciuto per prendere il testimone del gioco a premi “scopa la nuova schiava”? Ma non successe niente. Provai un’ondata di sollievo mista a un’inspiegabile delusione. Avevo raggiunto un’altra tappa nella mia personale esplorazione della perversione. Ero ancora lì, insoddisfatta, relativamente intatta, tutto considerato. Quanto in là mi sarei spinta prima di averne abbastanza? Entrò Victor. Non si complimentò con me né commentò quello che era successo. «Alzati» mi disse, e io obbedii docilmente. Non avevo voglia di mettermi a discutere con lui. Teneva in mano il rossetto che aveva preso dalla mia borsa. Mi si avvicinò brandendolo come una specie di arma inoffensiva. «Stai dritta» mi ordinò e io percepii il suo alito caldo sulla pelle nuda. Cominciò a scrivermi sul corpo. Tentai di dare un’occhiata in basso, ma lui fece un verso di disapprovazione come se non fosse affar mio. Il rossetto danzava sulla parte anteriore del mio corpo; poi Victor mi fece girare e continuò a tracciare i suoi geroglifici, qualunque cosa fossero, sulla curva del mio sedere. Quando ebbe terminato, fece un passo indietro per ammirare la sua opera, tirò fuori una piccola macchina fotografica digitale dalla tasca della giacca e si mise a scattare foto. Il risultato sembrò piacergli. Mi condusse verso la porta, facendomi capire che dovevo tornare in mezzo agli ospiti. Mi sentivo debole, prosciugata dall’assalto che avevo appena subito, senza alcuna voglia di discutere. Mentre entravo nella grande sala con le gigantesche vetrate sulle luci di Manhattan vidi la gente girarsi e fissarmi sorridendo, con lascivi sguardi di apprezzamento. Non sapevo cosa fare. Continuare a camminare? In quale direzione? Rimanere immobile? La mano di Victor sulla spalla mi bloccò. Quando tutti i presenti ebbero visto le iscrizioni sul mio corpo, lui disse: «Puoi vestirti. Per stasera abbiamo finito». Mi infilai l’abito nero e, frastornata com’ero, per poco non mi dimenticai del violino. Fuori dall’albergo Victor fermò un taxi, mi ci spinse dentro e diede all’autista il mio indirizzo. Non salì con me, limitandosi a dire: «Ti chiamo. Tieniti pronta». La prima cosa che feci una volta arrivata a casa fu spogliarmi e guardarmi nello specchio a figura intera del bagno. Per fortuna non c’era in giro nessuno dei miei coinquilini. Le grosse lettere rosse mi segnavano la pelle come un marchio d’infamia. Sull’addome c’era scritto TROIA, sui genitali SCHIAVA e dietro, a caratteri cubitali che riuscii a decifrare solo con fatica a causa della posizione, PROPRIETÀ DEL PADRONE. Mi sentii male. Mi ci sarebbero voluti tre giorni di docce, bagni e vigorosi sfregamenti per sentirmi di nuovo pulita. Victor mi chiamò la mattina dopo. «Ti è piaciuto, vero?» Gli risposi di no. «Dici così, Summer, ma posso assicurarti che la tua espressione ti smentiva. E anche il modo in cui reagisce sempre il tuo corpo.» «Io…» tentai di protestare debolmente. «Sei fatta per questo» mi interruppe Victor «e ce la spasseremo alla grande. Ti addestrerò. Sarai perfetta.» Un fiotto di bile mi salì in gola. Provai la terribile sensazione di essere su un treno in corsa, incapace di cambiarne la destinazione, incatenata alle ruote sferraglianti mentre il convoglio sfrecciava sui binari. «E la prossima volta» riuscivo a percepire il gusto che Victor provava nel pronunciare queste parole «lo renderemo ufficiale. Ti registreremo.» «Registrarmi?» indagai. «Esiste un registro degli schiavi. Non preoccuparti… solo le persone del giro sapranno che sei tu. Ti verranno assegnati un numero e un nome. Sarà il nostro segreto. Pensavo a Schiava Elena. Suona bene.» «E questo che cosa implica?» Ero combattuta tra l’indignazione e la curiosità. «Implica che accetterai pienamente di essere di mia proprietà, di portare in permanenza il mio collare.» «Non sono sicura di essere pronta» dissi. «Oh, sì che lo sei» continuò lui. «Potrai scegliere tra un anello o un tatuaggio nelle parti più intime, con il tuo numero o codice a barre, che indica la tua condizione e appartenenza. Naturalmente, potrà vederlo solo chi fa parte del giro.» Mentre lo ascoltavo, provai un misto di vergogna ed eccitazione. Figurarsi se nel Ventunesimo secolo potevano succedere cose del genere! Eppure la tentazione era forte: mi stava già solleticando i sensi e l’immaginazione, smorzata solo dalla dura e realistica consapevolezza che avrei perso la preziosa indipendenza faticosamente conquistata negli anni. «Quando?» chiesi. Victor gongolò. Mi leggeva come un libro aperto. «Te lo farò sapere.» Chiuse la telefonata, lasciandomi in sospeso. Crollai sul letto. Non c’erano prove per una settimana. Un sacco di tempo da ingannare, un sacco di tempo per pensare. Cercai di leggere, ma le parole di qualsiasi libro prendessi in mano si sfocavano ed ero incapace di concentrarmi sulla trama. Né arrivò il sonno a darmi tregua dalla tempesta che infuriava dentro di me. Aspettai la telefonata di Victor per due giorni. Per passare il tempo, passeggiai per il Greenwich Village e cercai di distrarmi facendo shopping e andando a vedere stupidi film d’azione nella speranza di tenere la mente occupata, ma la chiamata non arrivava. Era evidente che lui mi stava tenendo sulla corda di proposito, per essere sicuro che, quando finalmente si sarebbe fatto vivo, io sarei stata consumata dal desiderio. Ogni volta che mi sedevo davanti allo schermo di un cinema, mettevo il telefono in vibrazione nella speranza di ricevere notizie durante il film, ma invano. Cominciavo ad aver paura dei miei stessi pensieri, spaventata dall’inevitabilità della strada che avevo imboccato. Poi, alle tre di un tiepido mattino, con le finestre spalancate su New York e il suono regolare delle sirene delle ambulanze e della polizia in sottofondo, mi venne un’idea. Un’ultima scommessa. Mettere la decisione nelle mani di un altro. Londra era avanti di cinque ore, per cui avrei potuto ragionevolmente fare una telefonata. Chiamai Chris, sperando che non avesse il cellulare spento e non fosse impegnato nelle prove per un concerto a Camden Town o a Hoxton. Il telefono squillò a vuoto per un’eternità. Stavo per riagganciare, quando lui finalmente rispose. «Ciao, Chris!» «Ciao, tesoro. Sei tornata?» «No, sono ancora nella Grande Mela.» «Come stai?» «Ho i nervi a pezzi» confessai. «Le cose non vanno un po’ meglio?» «No. Forse vanno addirittura peggio. Mi conosci: a volte sono io stessa il mio peggior nemico.» «Lo so.» Ci fu un attimo di silenzio. «Summer? Torna a Londra. Molla tutto e parti. Ti aiuterò, se ne avrai bisogno, lo sai.» «Non posso.» «E quindi?» Esitai, ripetendomi in silenzio ogni singola parola con la lingua riarsa, e poi mi buttai. «Posso chiederti un grosso favore?» «Certo. Qualunque cosa.» «Puoi contattare Dominik? Dirgli dove sono?» «Tutto qui?» «Tutto qui.» Un lancio di dadi. Dominik avrebbe risposto? 12 Un uomo e la sua malinconia Scopavano regolarmente, in modo frettoloso. Dominik aveva una forte carica sessuale, anche se all’occorrenza poteva facilmente rinunciare ai piaceri carnali per concentrarsi su altri obiettivi: dai progetti di ricerca ai vari impegni letterari a cui partecipava con regolarità. Dopo la partenza di Summer aveva pochissimo altro con cui occupare le giornate. Le sue lezioni si svolgevano secondo uno schema collaudato, anche se lui stava attento a variare il materiale per tener viva l’attenzione. Aveva parecchi appunti già pronti e un’intelligenza abbastanza vivace da consentirgli di prepararsi rapidamente. Preferiva di gran lunga improvvisare su qualunque argomento. Le studentesse che aveva in quel momento erano assai poco interessanti, almeno per quanto riguardava eventuali attività collaterali; nessuna lo attraeva in quel modo. In realtà Dominik non cercava una relazione con una studentessa: era una cosa troppo rischiosa. Lasciava quel genere di avventure a docenti con meno scrupoli, come Victor, il quale era scomparso dall’università per accettare un incarico a New York. Però era pur sempre un uomo e, anche se non avrebbe preso alcuna iniziativa – perlomeno fino alla fine dei corsi – non poteva fare a meno di notare le ragazze che gli sorridevano con fare invitante quando incrociavano il suo sguardo. Dominik aveva immaginato un periodo di astensione sessuale, una proverbiale “magra”, per compensare l’improvvisa partenza di Summer, e in un certo senso l’aveva pregustato, ci si era crogiolato, aspettando con ansia le sere di solitudine per mettersi in pari con il materiale da leggere, una nuova serie di libri che erano sembrati molto promettenti quando erano arrivati per posta poche settimane prima, ma che erano rimasti a prendere polvere mentre lui si dedicava completamente a escogitare nuove scene per Summer. Poi era arrivata Charlotte, che si era presentata a una delle sue lezioni serali al City Lit, il centro di formazione per adulti. Dominik non aveva creduto nemmeno per un attimo che fosse capitata nella sua classe per caso, dopo essersi scoperta un improvviso e travolgente interesse per la letteratura del primo Novecento. Sapeva che lei lo aveva seguito, senza dubbio ferita nell’orgoglio per lo scarso entusiasmo che lui aveva dimostrato nei suoi confronti la sera in cui aveva depilato Summer. Il fatto che Charlotte fosse arrivata al punto di procurarsi e leggere uno dei suoi libri lo aveva stupito, ma non lusingato. Capiva benissimo che lei voleva qualcosa e stava facendo di tutto per averlo. Alla fine avevano avuto una storia, limitandosi semplicemente a seguire i loro appetiti sessuali. Non avevano mai formalizzato verbalmente la loro relazione. Talvolta Dominik si chiedeva che cosa lei volesse da lui. Non denaro: ne aveva più che a sufficienza. Non sesso: sapeva che continuava a vedere Jasper di tanto in tanto e, sospettava, anche altri uomini con regolarità. La cosa lo lasciava del tutto indifferente. Aveva quasi l’impressione che Charlotte volesse solo indispettirlo, provocarlo, per essere sicura che non dimenticasse Summer. Notò che aveva cominciato a depilarsi i genitali, per cui ogni volta che la vedeva nuda ripensava immediatamente a Summer appena rasata, a quel rituale che, quando lo aveva ideato, gli era sembrato perfetto, il crescendo conclusivo della loro orchestra di lussuria, un atto di depravazione che chissà come gli era sfuggito di mano, facendo sì che la sua fantasia si ritorcesse contro di lui e si trasformasse in un evento che li aveva divisi invece di unirli. Era per questo che scopava Charlotte in modo più violento. La prendeva ogni volta che ne aveva voglia: lei, del resto, era sempre consenziente e sembrava trarne piacere. Indulgeva raramente al cunnilingus, anche se si trattava di una pratica che di solito gli piaceva. Avrebbe potuto leccare la fica di Summer per giorni, finché lei non lo avesse implorato di smettere, ma non toccava Charlotte con la lingua e non intendeva cambiare idea. Lei non ne parlava mai e continuava a fargli pompini con stupefacente regolarità. Talvolta, solo per farle dispetto, tratteneva l’orgasmo, mentre lei lo succhiava fino a farsi dolere la mascella, troppo orgogliosa per rinunciare, per ammettere di non essere riuscita a far godere un uomo con la bocca. Charlotte era abbastanza attraente, ma, sebbene il suo uccello rispondesse prontamente alla presenza fisica di lei, la sua mente rimaneva indifferente. Dominik la trovava insulsa, una specie di bambola, senza nulla di originale, di unico o sorprendente. Era come se non avesse personalità. Forse tutto dipendeva dal fatto che lui era attratto da donne più complesse. Il suo profumo di cannella, poi, gli faceva venire il mal di testa. Dominik sospirò. Non avrebbe dovuto essere così crudele. Non era colpa di Charlotte se non era Summer, se i loro gusti sessuali non si armonizzavano del tutto. Se lei aveva fatto scattare la scintilla che aveva dato il via alla loro relazione, lui si era lasciato coinvolgere, per cui era parte in causa tanto quanto lei. Charlotte si girò, sospirando piano nel sonno e rannicchiandosi contro di lui, il sedere contro il suo inguine. Dominik provò un moto d’affetto. L’unico momento in cui Charlotte sembrava davvero autentica, priva di malizia, era quando dormiva. La circondò con un braccio e scivolò in un sonno inquieto. Era ossessionato dai sogni più perversi. In tutti c’era Summer, in molti c’erano Jasper o altri uomini senza volto che la scopavano, i genitali oscenamente esposti, l’asta dell’uccello di uno sconosciuto che la montava, il viso di lei un ritratto dell’estasi, il corpo scosso dall’orgasmo, mentre lui assisteva inerme, escluso, messo da parte, consumato dalla gelosia. Talvolta se la immaginava mentre veniva scopata da una legione di uomini, uno dopo l’altro, ciascuno che la riempiva del suo seme mentre lui se ne stava in disparte, impotente e dimenticato. La mattina dopo questi sogni si chiedeva immancabilmente dove fosse Summer e fino a che punto stesse perseguendo i propri desideri senza di lui. Sapeva di essere stato lui a iniziare tutto, a scoprire la ribollente pozza di sottomissione, il profondo abisso di tenebra che c’era dentro di lei. Gli mancavano le mail e i vari SMS con cui Summer lo informava delle sue avventure. È vero, erano stati un modo per domare la propria gelosia – non la possedeva, anche se avrebbe voluto – ma anche per tenerla d’occhio mentre lei esplorava la sua nuova natura. Per assicurarsi che avesse il controllo delle situazioni in cui si lasciava andare, che non si spingesse troppo in là. Fin dove sarebbe arrivata? si chiedeva. Avrebbe mai tracciato una linea sulla sabbia? E dov’era questa linea? Fu dopo uno di questi sogni, un giorno in cui era particolarmente turbato, che Charlotte gli diede addosso. «Non progetti mai scene per me» gli disse. «Nessun concerto nuda, nessuna scopata davanti a spettatori, né corde, né esibizioni in pubblico. Non facciamo mai niente.» Aveva ragione. Non aveva mai fatto nessuna di quelle cose con Charlotte, ma solo perché lei non gliele ispirava, al contrario di Kathryn o di Summer. Si strinse nelle spalle. «Che cosa vuoi che faccia?» Lei si infuriò. «Qualunque cosa! Qualunque cosa che non sia scoparmi e basta. Che razza di dominatore sei?» Mentre parlava spruzzava goccioline di saliva. Dominik guardava la sua bocca muoversi con uno strano distacco, ricordando un documentario sulla natura che aveva visto recentemente, in cui c’era un animale con una cavità orale gigantesca. Gli aveva fatto venire in mente Charlotte. Lei lo attaccava spesso, infiammata dall’evidente disinteresse di lui. Tutte le volte che Charlotte perdeva la sua preziosa compostezza Dominik sentiva il brivido di trionfo che nasce da una battaglia vinta. Alla fine aveva accettato di andare con lei in un club di scambisti, anche per la curiosità di vedere come fosse un locale del genere. Non aveva mai trovato la persona giusta con cui andarci (tranne una volta a New York, anni prima, quando lo scambismo era ancora una novità): o la ragazza era troppo puritana e si sarebbe ritratta con ripugnanza davanti a un’idea simile o i suoi sentimenti romantici per lei gli rendevano insopportabile il pensiero di cederla a un altro uomo. Forse Charlotte era la persona giusta con cui partecipare a una serata di scambisti. E poi la prospettiva di avere rapporti sessuali in pubblico avrebbe distratto Charlotte dall’idea fissa di essere dominata da Dominik. Lui non provava quel genere di inclinazione verso di lei, né aveva alcun desiderio di sculacciarla o di piegarla alla sua volontà. Charlotte era un’edonista, una giocatrice d’azzardo; le piaceva provare qualunque cosa le capitasse a tiro, solo per il gusto di farlo. Stava soddisfacendo un capriccio, non si stava sottomettendo a lui, e la cosa non ispirava Dominik. Charlotte non lo turbava come lo aveva turbato Summer. Il club era in un centro industriale nella zona sud di Londra, nascosto tra una serie di fabbriche secondarie e di vecchi palazzi di uffici. Aveva un’insegna sobria, l’unica luce all’esterno dell’edificio, eccetto i fari dei rari taxi che andavano e venivano per portare o prendere i clienti. Furono accolti sulla porta dal direttore del locale, un tipo dall’aria affettata che indossava un abito completo di cravatta nonostante la temperatura soffocante del piccolo atrio. Sembrò apprezzare Charlotte, squadrandola da capo a piedi come fosse un cavallo da corsa, mentre lanciò a Dominik un’occhiata distratta, limitandosi a tollerarne la presenza. Dominik pagò la cifra esorbitante del biglietto d’ingresso e declinò l’offerta di una tessera annuale, che tra l’altro gli avrebbe dato diritto a uno sconto sui biglietti per una crociera nel Mediterraneo riservata alle coppie in programma per l’anno successivo. Tanto lui soffriva il mal di mare. Non riusciva a pensare a una prospettiva più terrificante di una settimana a bordo di una nave in una situazione del genere, senza nessuna via di fuga se non gettarsi in mare. Un’eventualità che avrebbe anche potuto prendere in considerazione, pensò, mentre un altro uomo vestito in modo identico al primo prendeva loro i soprabiti e i cellulari. Dominik stava per obiettare che avrebbe avuto bisogno del suo telefono più tardi per chiamare un taxi, quando l’uomo indicò con la mano un cartello che vietava l’uso di apparecchi dotati di macchina fotografica. Furono scortati all’interno del club e presentati a Suzanne, una hostess che promise di mostrar loro il posto e aiutarli a sentirsi a loro agio. «Benvenuti!» disse con un’allegria che pareva spontanea. Charlotte rispose al saluto con entusiasmo, mentre Dominik si limitò ad annuire. Suzanne era giovane, poco più che ventenne, immaginò lui. Era bassa e un po’ in carne. Sfortunatamente l’uniforme non le donava affatto: il corto top rosa e la minigonna stile tutù non contribuivano certo a migliorare il suo aspetto. «È la prima volta, ragazzi?» continuò, incerta se rivolgersi a Dominik o a Charlotte. Nella maggior parte delle situazioni come quella, suppose lui, doveva emergere piuttosto chiaramente quale dei due membri della coppia era l’elemento trainante. Forse nel loro caso non era così. «Sì» rispose Charlotte tranquillamente, salvando Suzanne dall’imbarazzo. «Non vediamo l’ora.» La hostess indicò con la mano paffuta il bar al livello inferiore, dove avrebbero potuto prendere qualcosa da bere. Poi li accompagnò al piano superiore, dove c’erano un altro bar più piccolo e un’“area giochi”, un labirinto di corridoi bui con una serie di stanze di varie dimensioni. Alcune erano chiaramente destinate alle orge, dal momento che potevano ospitare venti persone. Altre assomigliavano piuttosto a piccoli séparé, per due o tre coppie al massimo. La maggior parte delle stanze erano aperte, per cui chiunque avrebbe potuto guardare o unirsi, ma un paio di quelle più piccole erano provviste di una porta con la serratura, per consentire a una coppia in cerca di tranquillità di chiudersi dentro. Suzanne descrisse le caratteristiche di tutte le stanze, senza alcun imbarazzo. Non sembrava affatto a disagio né per l’uniforme che indossava né per il ruolo che aveva al club. Dominik lasciò vagare lo sguardo nel locale, notando i pali nella zona del bar, che invitavano i clienti a ballare come spogliarellisti improvvisati dopo aver bevuto la giusta quantità di alcol. Si augurò che lo facessero solo le donne. Una serie di divani delimitavano una zona salotto accanto al bar e in un angolo, appesa al soffitto, c’era un’attrezzatura che assomigliava a un’altalena, fatta di una larga rete che permetteva di girare intorno al corpo di chi vi stava dentro, che era saldamente legato mani e piedi, incapace di liberarsi. Ovunque c’erano ciotole trasparenti piene di preservativi in confezioni colorate; ce n’erano abbastanza per un mese di scopate in un club pieno di gente, pensò Dominik. Davano al locale un aspetto stranamente allegro, come vasi di caramelle nello studio di un medico. Accanto alle stanze c’era una sottile cortina nera fissata al soffitto che ricadeva fino a terra, con un’apertura su un lato in modo da formare una tenda di fortuna. Era piena di buchi, alcuni delle dimensioni di un occhio, altri di un pugno, in modo che gli spettatori potessero guardare all’interno oppure allungare un braccio e afferrare qualunque cosa fosse a portata di mano. Dominik spiò all’interno. Non c’era nessuno. «È sempre così tranquillo fino a mezzanotte» disse Suzanne in tono di scuse «ma poi l’ambiente si scalda. Tra un’oretta ci sarà parecchio movimento.» Dominik represse una smorfia. Non aveva mai capito che cosa ci fosse di tanto eccitante nel guardare la gente che scopava in pubblico, e il pensiero di tutto quel sesso senza senso gli fece venire in mente Jasper e Summer, un’immagine che non riusciva a togliersi dalla testa. La sua personale inclinazione voyeuristica richiedeva un legame con l’oggetto dell’osservazione, un contratto non scritto, un accordo che permetteva o invitava a guardare. Senza alcuna connessione con i partecipanti, lo spettacolo non lo toccava più di un documentario sull’accoppiamento degli animali. Charlotte, invece, aveva una visione completamente diversa. A lei piaceva la sensazione fisica del sesso in sé, godeva nel mostrare la propria audacia e il proprio fascino indulgendo in esibizioni pubbliche e adorava dare spettacolo. Lo scambismo era uno dei suoi passatempi preferiti. Aveva già cominciato a gironzolare nella zona del bar, lanciando occhiate alle poche persone intorno al bancone: un ragazzo e una ragazza, che evitavano qualunque contatto visivo se non quello tra loro due, un uomo corpulento con una polo e una cintura di finta pelle, che sembrava solo e occhieggiava le hostess con il tutù rosa, e una coppia indiana più anziana, che aveva l’aria di venire al club tutte le settimane. Charlotte ordinò da bere per tutti e due: un cocktail per sé e una Pepsi per lui. Dominik le si sedette accanto e sorseggiò la bibita mentre lei attaccava bottone con tutti quelli che si avvicinavano. Suzanne aveva ragione: il club stava cominciando ad animarsi. Fino a quel momento lui non aveva notato nessuna che lo attraesse. C’erano parecchie ragazze carine, ma erano perlopiù vestite in modo assurdamente volgare, con miniabiti sintetici, una quantità eccessiva di trucco e l’abbronzatura finta. Nessuna che lo interessasse. Gli altri clienti erano noiosi oppure repellenti. «Hai intenzione di rimanertene seduto qui?» gli sibilò Charlotte. «Vai a divertirti» le rispose, del tutto disinteressato. «Magari ti raggiungo più tardi.» Non se lo fece ripetere due volte. Si dileguò in mezzo alla folla, facendo balenare una visione delle sue natiche mentre scivolava giù dallo sgabello, le lunghe gambe abbronzate messe in risalto dall’abitino bianco. Un paio di uomini cominciarono subito a ronzarle intorno, come mosche attratte dal miele. Dominik non batté ciglio mentre lei gli lanciava occhiate malevole, prendendo per mano prima un uomo e poi l’altro. Nessuno dei due era un granché. Uno era il tizio con la polo e la cintura di finta pelle che stava al bar da solo. L’altro era più giovane, ma tendente alla pinguedine, con il doppio mento e la pancia che strabordava dalla camicia. Charlotte li guidò verso l’altalena nell’angolo e ci si arrampicò sopra, sdraiandosi supina con le gambe aperte. Non indossava le mutandine, per cui i suoi genitali erano completamente esposti. Dominik si avvicinò, spinto più che altro dalla curiosità. I due uomini legarono Charlotte. Lei si afferrò con le mani alle corde che pendevano dal soffitto sopra la sua testa. Era una partecipante più che consenziente all’esperimento. L’uomo con la polo si era slacciato la cintura e aveva iniziato a toccarsi l’uccello ancora flaccido. L’uomo corpulento, con i pantaloni alle caviglie e i lembi della camicia a coprirgli il sedere, tirò fuori il membro eretto e, aperta una delle confezioni colorate, si infilò un preservativo, poi fece un passo avanti, portandosi tra le lunghe gambe di Charlotte e tirando verso di sé l’altalena per poterla penetrare. Dominik si avvicinò ulteriormente e osservò il pene dell’uomo entrare nella fica di Charlotte. Lei lo guardò, l’espressione maliziosa sostituita dalla lussuria, dal bisogno, un bisogno più pressante di quello di dimostrare qualcosa, di ferirlo. Lo stava ferendo? Dominik immaginò che fosse quella la sua intenzione, ma lui si sentiva del tutto distaccato, nient’affatto turbato da quella situazione. Rimase a guardare mentre entrambi gli uomini la riempivano, prima l’uno poi l’altro, i cazzi che entravano e uscivano, ricoperti delle secrezioni di Charlotte. Sentì lei che gemeva forte senza fare alcuno sforzo per nascondere il piacere. Si era radunata una folla; parecchi uomini si erano slacciati i pantaloni e stavano in piedi vicino a lei, accarezzandosi i genitali. Alcuni si avvicinarono per toccarla, facendo guizzare le mani ovunque. Dominik non fece alcun tentativo di fermarli. Charlotte aveva le mani libere e avrebbe potuto respingere da sola qualunque attenzione non gradita; inoltre, se avesse voluto, avrebbe potuto gridare. Invece sembrava godere di quelle attenzioni, con la bocca aperta e un’espressione di desiderio lascivo sul volto. Lui cercò di immaginarsi Summer al posto di Charlotte, mentre ignorava i suoi desideri e si offriva alle mani di quegli estranei, con le gambe spalancate per farsi scopare da altri uomini. Ricordò come si era data a Jasper, come gliel’aveva preso in bocca e poi si era inginocchiata sul divano con le gambe aperte, come un animale pronto a essere montato. Perlomeno pensare a Summer gli fece provare qualcosa, gli evitò quell’ottusa assenza di consapevolezza, quel vuoto indifferente che si impadroniva di lui quando lei non c’era. Dominik non rimase a guardare Charlotte. Si fece largo tra gli spettatori di quello spettacolo depravato e scese le scale verso il bar sottostante, dove, ignorando gli sforzi delle hostess di fare conversazione e le attenzioni di donne occasionali in cerca di una scopata facile, aspettò che lei terminasse la sua esibizione. Alla fine Charlotte tornò a sedersi accanto a lui. Mentre si issava sullo sgabello, l’abito le risalì sulle cosce e lei non fece niente per nascondere la fica oscenamente nuda, gonfia, bagnata. Anzi, allargò con noncuranza le gambe perché lui potesse guardare meglio. «Non c’è alcun bisogno di tutto questo» disse Dominik, distogliendo lo sguardo. «Cazzo, che cosa c’è che non va? Come pensavi che sarebbe stato?» «Charlotte, non me ne importa niente di chi scopi. Sei libera di fare quello che ti pare. Pensavo che lo sapessi.» «Però ti importava di chi scopava la tua preziosa Summer.» «Tu non sei Summer.» «E nemmeno voglio esserlo! Quella troietta smidollata. Non le importa di niente se non del suo prezioso violino. Ti stava usando per quello, giocava con te. Non lo capisci? Credi che le importasse di chi scopava? Che gliene fregasse un cazzo di te?» Dominik sentì un improvviso desiderio di darle un ceffone, di guardare il suo viso deformato dal dolore, ma non aveva mai picchiato una donna, e mai l’avrebbe fatto, non in quel modo, almeno. Si alzò e se ne andò a grandi passi. Le scuse – o la cosa più vicina a esse che Charlotte riuscisse a esprimere – arrivarono il mattino dopo, per SMS. “Vieni a trovarmi?” Lui non le doveva molto più di quello. I termini del loro rapporto erano chiari: si scopavano, si ferivano. Summer era sempre al centro, scomparsa dalla vita di entrambi ma nondimeno presente; la sua assenza era una ferita aperta che nessuno dei due riusciva a smettere di toccare. Dominik andò a trovarla. La scopò ancora, più crudelmente che mai. Chiuse gli occhi e immaginò che i capelli di Charlotte fossero rossi anziché castani, la sua vita più stretta e le gambe più corte, la pelle color latte anziché abbronzata, il sedere tornito; immaginò che rabbrividisse al suo tocco. Sentì l’uccello crescere, diventare ancora più duro dentro di lei mentre pensava a Summer, e si riempì di rabbia, perché Charlotte non era la donna che lui avrebbe voluto che fosse. Alzò una mano e la sculacciò con forza, poi la colpì di nuovo, guardò la sua pelle arrossarsi e continuò a colpirla. Lei gli si strofinò contro in estasi, offrendogli il culo per essere usata. La guardò spingersi contro di lui e ricordò quanto gli fosse sembrato invitante l’ano di Summer, il modo in cui lei aveva goduto la prima volta, quando le aveva detto che avrebbe voluto vederla masturbarsi il culo. Rimpianse di non aver violato quel territorio vergine di Summer prima che lei scomparisse. L’aveva tenuto in serbo, progettando di consacrarlo a un rituale, esattamente come aveva riservato a sé la depilazione della sua fica. Si piegò in avanti, sputò sull’ano di Charlotte per lubrificarlo, spinse delicatamente il pollice contro lo sfintere e iniziò ad allargarlo, stupendosi di quanto fosse stretto. Lei sobbalzò in avanti, sottraendosi al suo tocco, e poi, quando lui ebbe tolto la mano, gli si avvicinò di nuovo, cercò il suo uccello e se lo fece scivolare nella fica umida. Dominik rimase sorpreso. Nonostante la sua sessualità disinibita, Charlotte evidentemente non era una fan del sesso anale. La penetrò con un affondo violento e si perse nei propri pensieri mentre lei si muoveva per andargli incontro, poi la sentì urlare mentre veniva. Uscì da lei con cautela, si tolse il preservativo e lo buttò via senza farsi vedere, prima che lei si accorgesse che era vuoto. Non aveva raggiunto l’orgasmo. Charlotte si rannicchiò pigramente sul letto e Dominik rimase sdraiato accanto a lei, accarezzandole la pelle liscia. «Non avevi mai fatto una cosa del genere» gli disse, la voce vellutata, ammorbidita dal piacere appena raggiunto. «No» ribatté lui, incapace di aggiungere altro. «Senti, non prendertela a male…» «Non lo farò. Che cosa c’è?» «Che genere di dominatore sei? Di solito non sembri volermi… dominare.» Dominik rifletté. «Non sono mai stato un tipo da “scena”, con tutti i simboli e gli stereotipi connessi» rispose. «Né mi interessa in alcun modo provocare dolore.» Notò i suoi glutei ancora arrossati e aggiunse: «Di solito». «Vorresti provare?» chiese lei. «Fammi contenta.» «Che cosa vuoi?» le chiese con una punta di impazienza. «La corda. Percosse. Sorprendimi.» «Non credi che chiedere al tuo dominatore di dominarti non sia molto da sottomessa?» Charlotte si strinse nelle spalle. «Ma tanto tu non sei un vero dominatore, no?» Adesso lo stava prendendo in giro. «Va bene.» «Va bene?» «Avrai la tua scena.» Dominik rifletté. Non aveva voglia di fare del male a Charlotte. La stava usando quanto lei usava lui. Né se la sentiva di inscenare uno stupido atto di dominazione che non gli apparteneva. La loro relazione era diventata ridicola, sordida, una parodia di se stessa, una farsa di quello che aveva condiviso con Summer. Eppure, lei gli faceva pressione. E lui avrebbe reagito. Aspettò che Charlotte fosse sotto la doccia, prima di frugare nella sua grossa borsa firmata in cerca del cellulare. Come aveva previsto, non aveva una password. Charlotte era aperta in tutti i sensi. Fece scorrere i messaggi di altri uomini, indifferente. Una sequela di “Ehi, piccola” o “Ciao, bellissima”. Trovò il numero di Jasper, se lo appuntò e, una volta a casa, gli telefonò. «Pronto?» «Jasper?» chiese Dominik. «Sì?» Il tono del ragazzo era esitante. Dominik sorrise tra sé. Evidentemente quello era il telefono di lavoro; forse si stava chiedendo se stesse parlando con un cliente maschio. «Sono Dominik. Ci siamo incontrati a una festa di recente. C’erano Charlotte, e Summer.» «Ah, sì.» Dominik provò un attimo di irritazione nell’udire la voce di Jasper rianimarsi sentendo pronunciare il nome di Summer. «Cosa posso fare per te?» «Ho in mente qualcosa di speciale per Charlotte. Credo che le farebbe piacere se partecipassi anche tu. Naturalmente ti pagherò.» «Ne sarei felice. Quando?» «Domani?» Sentì un fruscio di pagine. Jasper stava controllando l’agenda. «Sono libero, e non vedo l’ora.» Dominik discusse i dettagli dell’accordo. Poi mandò un SMS a Charlotte. “Domani sera, da te. Tieniti pronta.” “Oh, che bello” rispose lei. “Che cosa devo mettermi?” Dominik represse l’impulso di rispondere: “Chi se ne frega”. Poi, in un impeto di dolore e di rabbia, decise di optare per il massimo dell’umiliazione: “Un’uniforme scolastica” le scrisse. Incontrò Jasper fuori dall’appartamento di Charlotte e gli spiegò le regole fondamentali. Al comando c’era Dominik, su richiesta di Charlotte. «Ehi, sei tu quello che paga» disse Jasper. «Qualunque giochetto tu abbia in mente per me va bene.» In piedi fuori dalla porta, complici dell’imminente sottomissione di Charlotte, suonarono il campanello. Dominik non aveva ancora invitato Charlotte a casa sua. Non si sentiva a proprio agio all’idea di averla lì. Voleva tenersi a una certa distanza. Lei venne ad aprire, con indosso una minigonna scozzese, una camicetta bianca, calze al ginocchio e scarpe nere chiuse con il tacco basso. Aveva seguito le sue istruzioni alla lettera, notò Dominik osservando i capelli raccolti a coda di cavallo e gli occhiali neri dalla montatura spessa. Non se lo aspettava, e si stupì della propria reazione. Gli stava venendo dolorosamente duro. Forse non sarebbe stato un compito tanto ingrato, dopotutto. Quando vide Jasper, Charlotte fece un ampio sorriso, che il gigolò le restituì con aria complice. “Come me e Summer” pensò Dominik con una fitta. «Salve, signori» li salutò Charlotte pudica, con un leggero inchino. «Siamo venuti a punirti» disse Dominik «perché sei una ragazza cattiva.» Fece una smorfia al suono della propria voce, alla natura estranea di quelle parole. Lo sguardo di Charlotte fu attraversato da un lampo di piacere. Dominik entrò in casa, scivolò alle sue spalle e le mise una mano alla base della schiena. «Piegati in avanti» le disse. «Mostrami il culo.» Charlotte ridacchiò, obbedendo prontamente. Dominik le camminò intorno. Prima che potesse scacciare il pensiero, ricordò quando Summer era rimasta in piedi davanti a lui nella cripta, piegata in avanti, quasi riluttante, forse spaventata, ma facendo quello che le era stato detto, perché lui glielo aveva chiesto. Perché si fosse sentita obbligata a farlo, lui non lo sapeva. Forse la motivazione che la muoveva non era poi così diversa da quella che muoveva lui, anche se di segno opposto: l’anelito alla sottomissione che era in lei attraeva come una calamita la potente vena dominatrice che viveva in lui. Charlotte iniziò ad agitarsi. A differenza di Summer, che era rimasta immobile come una statua, incapace di muoversi dopo essersi offerta, Charlotte recitava un ruolo ed era a disagio, impaziente di assistere alla mossa successiva di quel gioco assurdo. A Dominik venne una mezza idea di sedersi, limitandosi a guardare Jasper che la scopava. Tra l’altro quella pareva essere l’unica cosa che lei voleva davvero. Ma no. Aveva chiesto di essere dominata, e quello avrebbe avuto. Le infilò un dito sotto le mutandine, abbassandogliele con un movimento brusco. In genere Charlotte non portava biancheria intima, ma per l’occasione indossava un paio di semplici mutandine bianche di cotone. Parte integrante della recita. «Allarga le gambe.» Lei lo fece, tentando poi di raddrizzarsi, cosa che Dominik non le permise. Tutte le volte che cercava di rimettersi dritta, per alleviare la posizione scomoda, lui la teneva giù premendole la mano sulla base della schiena. Fece un cenno a Jasper. «Scopala. Adesso. Niente preliminari. Non perdere tempo. Fallo e basta.» Guardò il giovane che liberava la sua imponente erezione e si metteva un preservativo. Lei sospirò di piacere, non appena sentì il grosso pene di Jasper che le entrava dentro. Dominik si allontanò un attimo per cercare del lubrificante nella camera da letto di Charlotte. Lo trovò. Alla cannella. Tipico. Tornò in salotto e vide che Jasper aveva fatto spostare Charlotte sul divano, in modo che potesse appoggiarsi ai cuscini. Riportò entrambi al centro della stanza. Charlotte mugolò. Di dolore? Dominik scoprì che gli era venuto duro a quel pensiero. Si versò un po’ di lubrificante sulle dita, poi appoggiò una mano sul culo di Charlotte, le allargò le natiche con il palmo e le inserì l’indice nell’ano. Lei sobbalzò, ma non protestò; lui sentì i muscoli dello sfintere irrigidirsi, stringendogli il dito in una morsa. La sua erezione crebbe in risposta al contrarsi di lei, l’uccello durissimo che tendeva al limite la stoffa dei pantaloni. Attraverso la sottile parete che divideva l’ano di Charlotte dalla vagina Dominik sentiva il grosso uccello di Jasper martellarla come un ariete lanciato contro un bastione. Infilò un altro dito e iniziò a seguire il ritmo del gigolò, scopandole il culo con crescente ferocia. Charlotte cominciò a dimenarsi, incapace di trovare un appoggio stabile sotto l’implacabile assalto congiunto dei due uomini. Molto lentamente Dominik sfilò le dita, sentendo i muscoli di lei pulsare e rilassarsi. Poi fece cenno a Jasper di uscire da Charlotte e la raddrizzò. Lei aveva gli occhi pieni di lacrime. «Brava ragazza» disse. «Adesso che abbiamo allargato per bene il tuo delizioso buco, possiamo fare sul serio.» Charlotte chinò la testa, annuendo. La prese in braccio e si diresse verso la camera da letto, ricordandosi di quando aveva invitato Summer a casa sua, l’aveva portata nello studio e l’aveva guardata masturbarsi davanti a lui sdraiata sulla scrivania. «Mettiti carponi» ordinò in tono autoritario. Lei obbedì, a testa bassa, senza guardarlo. «Aspetta qui» aggiunse. Dominik si girò verso Jasper, che si stava togliendo il preservativo per mettersene uno nuovo. «Non toccarla.» Tornò in salotto, prese il lubrificante e si fermò in bagno a lavarsi le mani. Si guardò nello specchio, fissando il proprio riflesso per un momento. Che cos’era diventato? Scacciò quel pensiero e tornò in camera da letto, dove Charlotte e Jasper stavano aspettando: lei con ancora indosso l’uniforme scolastica, le mutandine arrotolate alle caviglie, la minigonna scozzese sollevata sul sedere, lui in piedi, completamente nudo, i jeans e la maglietta ordinatamente appoggiati sul cassettone di Charlotte. Dominik si avvicinò, la prese per i capelli e le tirò indietro la testa. «Sto per scoparti il culo» le disse piano nell’orecchio. Lei non replicò. Anche se l’espressione di disappunto sul suo volto rivelava che aveva la sensazione di essere stata imbrogliata, non avrebbe detto a Dominik che il sesso anale non era tra i suoi giochi preferiti e che di solito non le piaceva per niente. Le sollevò la gonna e le fece allargare le gambe. Erano lunghe e slanciate, le gambe di una puledra da monta. Le passò un dito tra le grandi labbra, infilandoglielo dentro. Era bagnata, ancora umida dopo la scopata con Jasper, che adesso era immobile accanto a lei, in silenzio, il membro eretto. Spruzzò una dose generosa di lubrificante tra le natiche di Charlotte, la vide rabbrividire per la sensazione di freddo e sentì che gli veniva duro. Si slacciò la cintura dei pantaloni. Era ancora completamente vestito. Tirò fuori l’uccello e lo avvicinò al culo di lei, percependo il calore emanato dal suo corpo. Quindi si infilò un preservativo e spinse delicatamente la punta del suo membro contro lo sfintere, penetrandola con una certa fatica. «Rilassati, dolcezza» le disse. Jasper si chinò ad accarezzarla. «È tutto okay, piccola.» Dominik lanciò un’occhiata a Charlotte e Jasper. Lei gli aveva appoggiato la testa sul petto, il viso rilassato. Lui le lisciava piano i capelli. “Che romantici” pensò Dominik, rendendosi conto che l’avevano dimenticato, che in quella situazione lui non era altro che un cazzo qualunque. Avrebbe potuto essere un dildo, una persona qualsiasi con indosso uno strapon. Non riusciva a biasimarla. Né gli importava niente di lei. Si tolse il preservativo e si riallacciò i pantaloni, lanciando un’occhiata a Jasper mentre usciva dalla stanza, pronto a rassicurare il gigolò che poteva andare avanti con Charlotte se lo desiderava; il loro accordo era stato rispettato. Ma Jasper si era già sdraiato sul letto, abbracciando Charlotte. Nel giro di qualche minuto Dominik li udì ansimare. Passando per il salotto si guardò intorno. Sentì una fitta al pensiero che Summer non l’aveva mai invitato a casa sua, l’ultimo baluardo della sua privacy. Charlotte non si faceva quegli scrupoli e riceveva gente di ogni genere che le faceva visita regolarmente. Il salotto era pressoché vuoto, una stanza piuttosto grande con un unico divano, una sedia a dondolo e un angolo adibito a ufficio con un Mac. Nella cucina c’era un grande piano di lavoro sul quale faceva bella mostra di sé uno dei modelli più costosi di macchina per il caffè. I neozelandesi erano fissati con gli espressi e i cappuccini, ancor più degli italiani che in pratica li avevano inventati. Dominik notò una lucina lampeggiante sopra la macchina per il caffè. Possibile? No. Certo che no. Si avvicinò per guardare meglio. Era il telefonino di Charlotte, con la videocamera accesa. Stava registrando. Lo prese in mano, interruppe la registrazione e guardò il filmato. Charlotte aveva ripreso la scena, o almeno la parte che si era svolta in salotto. Quella troia impudente. Vedersi ripreso diede a Dominik una strana sensazione. Quando gli era capitato di fare sesso in una stanza con uno specchio e si era visto riflesso, aveva sempre distolto lo sguardo. Non aveva alcun desiderio di guardarsi mentre scopava. Charlotte era riuscita a riprendere la maggior parte dell’azione. Aveva puntato la videocamera sul pavimento al centro del salotto, non sul divano né sulla camera da letto. Aveva indovinato dove si sarebbe svolta la scena. Forse Dominik non era un gran mistero, dopotutto. Cancellò il video e rimise il telefono dove l’aveva trovato, lasciando la videocamera spenta. Lei avrebbe potuto accorgersi, naturalmente, che era stata manomessa, anche se quel genere di apparecchi spesso si spegnevano da soli. Recuperò la giacca dal bracciolo del divano. Aveva già pagato il gigolò, perciò era a posto. Qualunque eventuale costo aggiuntivo per le attività svolte dopo che lui se n’era andato era un problema di Charlotte. Poi gli venne in mente una cosa. Che cos’altro aveva filmato? Tornò indietro, prese il telefono e controllò i video salvati. Erano in ordine cronologico. Uno portava la data dell’ultima serata che aveva trascorso con Summer, prima della discussione al caffè. La volta in cui lui l’aveva depilata e Jasper l’aveva scopata davanti ai suoi occhi. Schiacciò il tasto PLAY con il cuore pesante. L’immagine era piccola, ma nitida. Charlotte aveva filmato davvero Jasper e Summer che scopavano. Sapeva che cosa sarebbe successo? Lo aveva pagato per farlo? Aveva organizzato tutto? La videocamera del portatile doveva essere stata posizionata in mezzo ai cuscini del divano, o forse sul davanzale della finestra. L’angolo di ripresa aveva colto la faccia di Summer, la sua espressione a metà tra il piacere e il dolore. Forse l’uccello del gigolò era troppo grosso per lei. Un paio di volte aveva lanciato un’occhiata dietro di sé. Stava cercando lui, Dominik? Riguardò più volte il video, incapace di staccare gli occhi dallo spettacolo che Charlotte aveva ripreso senza il consenso di Summer, ne era certo. Premette alcuni tasti, mandò il video al proprio indirizzo di posta elettronica e lo cancellò dal telefono di Charlotte, che poi rimise al suo posto. Non gli importava che lei capisse di essere stata scoperta. Non voleva più rivederla. Uscì dall’appartamento senza voltarsi. Era ormai sera tardi. Si mise al volante della BMW ed emise un profondo respiro prima di inserire la retromarcia e fare cautamente manovra per uscire dallo spazio in cui aveva parcheggiato. Quando era arrivato la via era pressoché deserta, mentre adesso era piena di automobili; tutti gli abitanti del tranquillo quartiere di Charlotte erano rientrati a casa dal lavoro. Era intrappolato tra un’altra BMW davanti e una dietro. Tre in fila. L’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era rompere un fanalino dell’auto. Guardò dentro le case mentre guidava lentamente verso la strada principale, dove avrebbe incrociato la A41 per dirigersi verso Finchley Road attraversando l’Hampstead Heath. Osservò le luci accese nelle camere da letto e nei salotti, vide una silhouette sottile, probabilmente una donna, dare un’occhiata in strada e poi chiudere le tende. Ripensò a Summer. Mentre schivava le auto che arrivavano in direzione opposta lungo la via ed evitava per un pelo un gatto che gli era schizzato davanti attraversando la strada, rivide l’immagine di lei che lo guardava lanciandosi un’occhiata alle spalle finché Jasper la riempiva. Si chiese se la casa di Charlotte fosse l’unica a ospitare piaceri insoliti quella sera, o se vi indulgessero in segreto anche gli altri abitanti dei sobborghi. Tornato a casa, si spogliò in fretta e crollò sul letto, senza neppure farsi la doccia. Il mattino dopo doveva scrivere una recensione. 13 Un uomo e una ragazza La telefonata di Victor arrivò il giorno dopo. «Summer?» «Sì?» «Devi essere pronta tra un’ora. Una macchina verrà a prenderti a mezzogiorno.» Riagganciò senza aspettare la mia risposta. Reagii a quella telefonata nello stesso modo in cui avevo reagito a tutte le altre: come un soldatino a molla avviato lungo una strada da cui adesso pareva impossibile allontanarsi. Un registro degli schiavi? Era un’idea assurda; non poteva essere vero. Di lì a poco mi sarei svegliata e avrei scoperto che era tutto un sogno. Ciononostante, mi feci la doccia e mi depilai con cura, come Victor mi aveva ordinato. Meglio non dargli un motivo per volerlo fare lui. Con un rasoio in mano, dubitavo che sarebbe stato delicato come Dominik. Dominik. Mi avrebbe chiamata? Pensare a lui mi diede una stretta al cuore. Lui avrebbe capito. Dominik e Victor avevano un nucleo comune, ma, a differenza di Victor, Dominik non voleva spezzarmi, o essere servito in modo insensato. Voleva qualcosa di più. Voleva che io lo scegliessi. Arrivò la macchina, una vettura lunghissima con i vetri oscurati, simile a quelle che si vedono nei film sulla mafia. Non mi preoccupai di guardare fuori dal finestrino per vedere dove mi stava portando Victor questa volta. Un altro indirizzo anonimo, un altro dungeon improvvisato. Che cosa importava? Avevo scelto di andarci. Non avrei avuto bisogno di chiamare la polizia per denunciare il mio rapimento. Il cellulare vibrò, a malapena udibile sopra il rombo del motore. Poiché temevo che Victor mi chiamasse durante una prova, lo tenevo sempre in modalità vibrazione o silenziosa. Il direttore d’orchestra o gli organizzatori dei concerti si sarebbero infuriati se lo squillo di un telefono avesse interrotto l’esecuzione di un pezzo, e si sarebbero alterati ancora di più se Victor mi avesse chiesto di presentarmi immediatamente e io mi fossi sentita obbligata a metter giù il violino e a obbedire. Frugai nella borsa in cerca del cellulare per controllare chi avesse chiamato. Era Dominik? Mi irrigidii per la paura. C’era una telecamera nell’auto? Un microfono da cui Victor avrebbe potuto sentire le mie telefonate? Mi protesi nel tentativo di vedere in faccia l’autista, ma la visione era ostacolata dal pannello di vetro fumé che separava i sedili anteriori da quelli posteriori. Poteva persino darsi che alla guida ci fosse Victor; era proprio il genere di trucchetto che lo divertiva un mondo. L’auto iniziò a rallentare e attraverso il finestrino vidi Victor in attesa sul marciapiede. Dunque l’autista non era lui. Da un momento all’altro mi avrebbe aperto la portiera; non avevo il tempo né di telefonare né di mandare un SMS o di controllare se a chiamare fosse stato Dominik. L’unica cosa che potevo fare era spegnere il cellulare in modo che non vibrasse di nuovo, con il rischio che Victor si insospettisse. Potevo solo sperare che Dominik, sempre che fosse lui, continuasse a provare e che a un certo punto del bizzarro scenario predisposto da Victor, qualunque esso fosse, io riuscissi in qualche modo a raggiungerlo. Victor mi aprì la portiera e mi tese la mano per aiutarmi a scendere. Paradossalmente, mi offese più degli atti sessuali che mi aveva imposto, e a cui mi ero sottomessa. Avrei voluto alzarmi, torreggiare sopra di lui e buttarlo a terra con una spinta, ma non lo feci. Non potei. Mi limitai ad accettare la sua mano e a seguirlo docilmente. Eravamo nel suo attico di Tribeca. Per l’occasione era stato trasformato nella parodia di un harem. Cuscini ornati ovunque, veli di chiffon colorato drappeggiati sul soffitto. Uomini e donne – le padrone e i padroni – erano vestiti in un modo che doveva enfatizzare il loro “rango”, ma che io trovai assolutamente ridicolo. «China la testa, schiava» mi sibilò all’orecchio Victor. Obbedii, con un fremito di soddisfazione. Dunque sembravo troppo sicura di me con la testa alta e le spalle dritte. Bene. Victor mi prese la borsa. «Spogliati!» mi intimò. La mia piccola ribellione evidentemente l’aveva fatto arrabbiare. Mi tolsi il vestito e glielo porsi. Sotto non portavo niente. A che pro? Se infatti riuscivo a sfilarmi un abito con mosse quasi eleganti, nel dimenarmi per togliere le mutandine mi sentivo molto stupida. Così, in quei giorni, rinunciavo a indossarle. «Qui non ti servirà nessun accessorio» disse, portando via il vestito e la borsa. Grazie al cielo avevo lasciato a casa il violino. Avevo la sensazione che mi mancasse qualcosa senza la custodia tra le braccia, ma almeno il Bailly era al sicuro. Ero terrorizzata che Victor si accorgesse di quanto ci tenevo e tentasse di distruggerlo. Non credevo che avrebbe potuto piegarmi, ma se mi avesse portato via lo strumento senza dubbio ci sarebbe riuscito. Costretta a tenere la testa bassa, potevo vedere solo il pavimento e catturare fugaci scorci delle persone presenti. Tesi le orecchie per non perdere i brandelli di conversazione che riuscivo a cogliere. «È l’ultima preda di Victor» disse una brunetta pigramente allungata in mezzo ai cuscini vicino a me. Riuscivo a vederla solo con la coda dell’occhio. Era truccata come una star del cinema degli anni Quaranta, con le labbra dipinte di rosso e un elegante caschetto. «Sembra altezzosa, questo è certo» replicò il suo compagno, un uomo alto e snello con baffetti appena accennati, come una traccia di sporco sul labbro che non era stata lavata via. «Victor troverà il modo di piegarla. Lo fa sempre.» Notai che Victor infilava il mio vestito e la borsa, con dentro il cellulare, nel mobile bar e chiudeva l’anta con una minuscola chiave che poi si infilò in tasca. Si girò verso di me con un sorriso trionfante. «Oggi cominciano i preparativi. La cerimonia domani.» “Oh, Dominik” pensai. “Dove sei?” Dominik sapeva che Chris era sempre stato amico intimo di Summer. Si erano conosciuti subito dopo che lei era arrivata a Londra dalla Nuova Zelanda. Entrambi erano musicisti e talvolta lei aveva suonato con il suo piccolo gruppo rock. Eppure non gli era mai venuto in mente di contattare Chris dopo l’improvvisa scomparsa di Summer. Ovviamente aveva cercato di rintracciarla, ma il suo numero di telefono non risultava attivo, e quando era andato nel suo appartamento di Whitechapel, il padrone di casa gli aveva rabbiosamente comunicato che Summer se n’era andata senza preavviso. Qualcosa dentro di lui – forse l’orgoglio, il dolore – gli aveva impedito di fare ulteriori indagini. Nessuna donna l’aveva mai turbato tanto. Summer si era resa disponibile e aveva acconsentito ai suoi giochi e alle attività sessuali spesso fantasiose in cui entrambi erano chiaramente coinvolti, questo sì. Eppure lui aveva sempre avuto la sensazione che lei si stesse trattenendo, che stesse controllando il proprio nucleo di tenebra, forzandogli la mano in modi che lui non riusciva ad afferrare. Perciò quando Chris lo chiamò, fu colto alla sprovvista. Perché non l’aveva chiamato lei? «A New York?» chiese. «Sì, è quello che ho detto.» «E cosa vuole?» «E come cazzo faccio a saperlo? Dirti dov’è, immagino. Come amico di Summer, questa faccenda non mi piace per niente» disse Chris, sempre più irritato. «Tutti i suoi problemi sembrano essere iniziati da quando ti ha incontrato, perciò lasciati dire che non sei nella mia top ten, Dominik. E se posso esprimere francamente il mio parere, preferirei che Summer ti stesse ben lontana.» Dominik rifletté su quelle informazioni esplorando con lo sguardo lo studio, dove si trovava quando aveva risposto alla telefonata, intento a scrivere la prima bozza di una recensione per una rivista accademica. Il letto era coperto di libri e fogli. «Sta bene?» si informò. «No, non sta affatto bene, se vuoi saperlo. Ha problemi. È tutto quello che so. Non mi ha detto altro. Solo di contattarti per farti sapere dov’è.» New York, una città che Dominik aveva sempre amato e che era diventata un labirinto di ricordi di donne e relazioni passate. Fu travolto da una serie di immagini: l’hotel Algonquin e le sue minuscole stanze con i mobili antichi in cui non c’era spazio nemmeno per girarsi, figuriamoci per sculacciare qualcuno; l’Oyster Bar sotto la Grand Central; l’hotel Iroquois con camere più grandi ma di un’eleganza un po’ appannata, dove non era raro vedere scarafaggi correre lungo i muri. Ripensò al Taste of Sushi sulla 13 th Street, dove il cibo giapponese era stato una rivelazione ma il bagno puzzava come una fogna e non avrebbe mai superato l’ispezione dell’ufficio di igiene; al club Le Trapeze nel Flatiron District dove aveva portato Pamela, l’impiegata di banca di Boston, e l’aveva guardata abbandonarsi alle sue fantasie più segrete; al vicino hotel Gershwin, dove nella sua stanza c’era una riproduzione di Picasso sopra il letto che lui non aveva potuto fare a meno di fissare tutte le volte che aveva scopato nella posizione del missionario e aveva inevitabilmente alzato la testa. Ah, New York. E adesso Summer era lì, di sua spontanea volontà. Non perché ce l’aveva portata lui per farle una sorpresa o per farla divertire. Dominik si riscosse, sentendo Chris respirare pesantemente all’altro capo della linea. «Hai un numero di telefono dove posso chiamarla? Puoi darmelo?» Per quanto riluttante, Chris glielo diede e Dominik lo annotò in un angolo dei suoi appunti. Tra i due scese un silenzio imbarazzato ed entrambi furono molto sollevati quando riagganciarono. Seduto sulla sedia di pelle nera davanti allo schermo del computer, Dominik osservò con distacco il cursore che lampeggiava nel punto della frase in cui si era interrotto per rispondere al telefono. Dopo aver fatto un respiro profondo, si decise a comporre il numero che Chris gli aveva dato. Il telefono squillò a vuoto. Dominik guardò l’orologio per controllare la differenza di orario con New York. Là era ancora giorno. Forse Summer stava lavorando e non poteva rispondere. Chissà, magari aveva trovato un lavoro nell’ambito della musica. Il Bailly avrebbe aiutato. Riagganciò. Un’onda di sentimenti contraddittori lo travolse. Cercò di concentrarsi sul lavoro, ma le sottili differenze nei rapporti tra scrittori inglesi e americani che vivevano a Parigi sulla Rive Gauche durante gli anni dell’esistenzialismo non riuscivano più ad attirare la sua attenzione, così lasciò perdere e si mise a camminare per lo studio. Quando ritenne di aver lasciato passare abbastanza tempo, rifece il numero di Summer. Il telefono prese a squillare e l’intervallo tra un suono e l’altro parve dilatarsi, diventando una specie di eternità. Stava per riagganciare quando partì l’avviso registrato della compagnia telefonica: il cliente era irraggiungibile, ma era possibile registrare un messaggio. Dominik scandì con calma le parole, cercando di tenere sotto controllo il panico. “Summer… sono io… Dominik… Richiamami. Per favore. Niente giochetti. Voglio solo sentirti.” Poi, ripensandoci, aggiunse: “Se non puoi farlo per qualunque ragione, mandami un SMS o lasciami un messaggio sulla segreteria. Mi manchi terribilmente”. Riagganciò con riluttanza. Un’ora dopo si collegò a Internet e guardò i voli per New York. Ce n’erano diversi in partenza da Heathrow la mattina presto, che arrivavano intorno a mezzogiorno, ora locale. D’impulso prenotò un posto in business class su uno di questi. Sperava che Summer l’avrebbe contattato prima della partenza, dal momento che non aveva la più pallida idea di dove trovarla. Un caso di speranza contro ogni speranza. Rimasi immobile e aspettai che Victor facesse la mossa successiva. Forse percependo la mia impazienza di scoprire che cosa aveva in mente, lui se la prese comoda prima di tirar fuori un altro dei suoi trucchetti, una campanella, simile a quella che Dominik mi aveva mandato per la serata da Charlotte, ma più grande. Il suo suono cristallino si propagò nella stanza come un rintocco funebre, un rumore con un’eco meccanica. Mi si accapponò la pelle. Una porta in fondo al corridoio si aprì e ne emerse una donna. Era vestita, se così si può dire, con un abito bianco completamente trasparente che assomigliava vagamente a una toga. Aveva i capelli raccolti in uno chignon morbido, da cui sfuggivano alcune ciocche che le ricadevano ai lati del volto facendola sembrare una moderna Medusa. Quando fu vicina, chinò la testa all’indirizzo di Victor, ignorandomi completamente. Era altissima, probabilmente più di un metro e ottanta, e scalza. Lui sembrava preferire le donne senza scarpe. Forse per compensare la sua bassa statura. «Cynthia guiderà la tua preparazione di questa sera, schiava. Inginocchiati davanti a lei.» Obbedii. Mentre lo facevo, notai che Cynthia indossava una sottile cavigliera d’argento, simile a un braccialetto portafortuna ma con un unico ciondolo, un minuscolo lucchetto. Era davvero bellissima. Non sarebbe stato male poterla scegliere, al posto di un piercing o di un tatuaggio. Ma pensai che Victor non mi avrebbe permesso di scegliere e, visto il suo attuale umore, ero pronta a scommettere che avrebbe optato per il marchio più permanente e umiliante: un tatuaggio. «Victor» lo chiamò l’affascinante brunetta allungata sui cuscini. «Sì, Clarissa?» rispose lui. Chiamava i suoi compari “signora”, “padrona” o “padrone” solo quando parlava di loro a una schiava. «Dove sono tutte le tue schiave in servizio, oggi? Ho il bicchiere vuoto da un’eternità. A quanto pare, non si può avere un altro po’ di champagne neanche a pagarlo.» L’avevo vista scolare l’ultimo goccio circa tre secondi prima. «Oh, cara» disse Victor, «troverò la colpevole e più tardi le darò una lezione.» «Bene» sentenziò Clarissa. «Spero che mi permetterai di assistere. Nel frattempo, potrei avere qualcosa da bere per placare l’arsura? E chiederesti alla tua nuova ragazza di portarmelo? Mi piace il suo aspetto.» Clarissa occhieggiò il mio corpo nudo, inginocchiato, e fece un sorrisetto compiaciuto. Il tizio coi baffetti che le stava sdraiato accanto tirò su la testa e mi lanciò un’occhiata. «A dire la verità» disse strascicando le parole «quasi quasi un altro drink me lo faccio anch’io. Per caso hai qualcosa di più deciso? Le signore sembrano amare lo champagne, ma io preferisco qualcosa di… un po’ più forte.» Mentre diceva quelle ultime parole mi fissò, e io mi accucciai ancora di più. Fino a quel momento i gusti di Victor, perlomeno dal punto di vista fisico, si erano rivelati piuttosto ordinari – nulla che non potessi affrontare o persino farmi piacere se fingevo che a comandare non fosse lui – ma sapevo perfettamente che a quell’incontro potevano esserci dominatori più violenti, o addirittura sadici, i quali avrebbero potuto pretendere cose che non mi piacevano, che potevano farmi male davvero o procurarmi lesioni. Finora ero stata fortunata: tutti i segni lasciati da Victor e dai suoi amici erano stati relativamente leggeri, graffi e lividi che potevo nascondere sotto i vestiti o giustificare facilmente. Ma la fortuna poteva non durare per sempre. «Certo» disse Victor, senza perdere la sua apparente compostezza, anche se io percepii che la richiesta fatta dai suoi ospiti per i miei servigi interferiva con i suoi piani e lo aveva contrariato. Mi fece alzare in piedi. «Versa un bicchiere di champagne alla padrona Clarissa, e trova del whisky per il padrone Edward.» Sceglievano sempre pseudonimi ridicoli. Secondo me, Victor avrebbe potuto optare per qualcosa di più classico; dopotutto, era di ascendenze ucraine. Si frugò in tasca cercando la chiave del mobile bar e me la porse. «Se tocchi qualcos’altro oltre al whisky» mi sussurrò piano all’orecchio «non potrai scegliere il posto in cui ti metterò il marchio.» Per prima cosa versai lo champagne e lo servii subito a Clarissa. «Perdonatemi, padrona e padrone, per non aver portato le vostre bevande insieme» mi scusai «ma la padrona mi è sembrata assetata e non ho voluto rischiare che lo champagne diventasse caldo.» «Oh, eccellente» disse Clarissa a Victor. «Quando sarà disponibile per essere usata?» «Questa sera» rispose Victor bruscamente. «Ah» commentò lei, «credevo che l’avresti marchiata domani, insieme alle altre.» «Così avevo programmato» replicò lui «ma questa è speciale.» Si interruppe e guardò l’orologio. «Fra un paio d’ore. Alle diciotto. Abbiamo abbastanza tempo. Tienila d’occhio un attimo, ti dispiace, Clarissa? Devo organizzare la cosa.» Victor prese il cellulare dalla tasca e scomparve in corridoio. «Con permesso» dissi. «Sarò subito di ritorno con il whisky.» Come avevo previsto, Clarissa non mi degnò di un’occhiata mentre io mi avvicinavo al mobile bar e accendevo il telefono senza farmi vedere. Controllai l’elenco delle chiamate perse. Dominik aveva telefonato due volte e lasciato un messaggio. Non avevo assolutamente modo di ascoltarlo né di scrivere una risposta troppo lunga: Victor sarebbe potuto tornare da un momento all’altro. Digitai un breve SMS: “Ricevuto tuo messaggio. Sono a NYC. Richiamami. S.”. L’unica speranza era che Dominik continuasse a provare. Rimisi il telefono nell’armadietto e accostai l’anta con cura, ma non la chiusi. Victor tornò nella stanza e io gli restituii la chiave. «Brava ragazza» disse. «Sarai una serva eccellente, schiava Elena.» «Non vedo l’ora, padrone.» «Il tuo momento verrà presto. Adesso farai un bagno.» Schioccò le dita e Cynthia si materializzò al suo fianco. Mi tese una mano. La seguii fino a una stanza da letto dove c’era un bagno con una grande vasca decorata piena di acqua fumante. Dall’aspetto sembrava profumata, ma in realtà non lo era. Sul bordo non c’erano né sapone né prodotti per il bagno. Immaginai che Victor mi volesse com’ero, solo più pulita. Mi immersi, e Cynthia si sedette in un angolo della stanza, in silenzio. La mia guardiana? Ne avevo davvero bisogno? Ero una prigioniera? No, non credevo. Ero venuta lì di mia spontanea volontà. Victor aveva i miei vestiti e il mio telefono, ma nulla poteva impedirmi di uscire dalla porta e chiamare la polizia. Avrei potuto urlare con tutto il fiato che avevo in gola e probabilmente i vicini si sarebbero insospettiti. Nessuna delle altre “schiave” presenti era trattenuta a forza; erano tutte lì per scelta, per interpretare un ruolo nella pièce sessuale, indulgendo alle proprie fantasie nient’affatto private così come le padrone e i padroni indulgevano alle loro. Ricordai che Victor mi aveva detto che questo era il mio posto, il luogo in cui ero al massimo della bellezza. Le sue parole mi avevano ferita, ma non potevo negare che contenessero una parte di verità. Il suo comportamento – il suo modo di spingere la mia mente in un luogo dove nulla importava, dov’ero fisicamente costretta ma spiritualmente libera – mi dava la nausea, ma al tempo stesso mi eccitava. La porta si aprì. Victor. Si era cambiato e indossava uno smoking. Per un attimo mi fece venire in mente Danny De Vito nel ruolo del Pinguino in Batman - Il ritorno. Soffocai una risata. «Schiava Elena» disse, «è arrivato il tuo momento.» Il volo di Dominik atterrò al JFK in una giornata serena. A New York era da poco passato mezzogiorno. La coda al controllo passaporti e immigrazione era lunghissima. I voli dall’Europa erano arrivati tutti a pochissima distanza gli uni dagli altri e avevano riversato il loro carico umano nel terminal, cosicché si era creato un vero e proprio ingorgo. Il novanta per cento dei passeggeri in arrivo erano stranieri e dovevano passare tutti da tre funzionari dell’immigrazione in uniforme, i quali parevano assolutamente indifferenti all’impazienza dei viaggiatori. Dominik aveva solo il bagaglio a mano, ma la cosa non faceva alcuna differenza, dal momento che prima di tutto bisognava passare i controlli. Quando gli chiesero se fosse lì per piacere o per lavoro, esitò un attimo e poi scelse la seconda opzione. Al che il funzionario gli chiese: «Che genere di lavoro fa?». “Ma perché non ho detto che sono in viaggio di piacere?” pensò. «Sono un professore universitario» rispose alla fine. «Sono qui per tenere alcune conferenze alla Columbia» mentì. Lo fecero passare. Finalmente seduto su un taxi, osservò l’autista immettersi nel fiume di veicoli sulla Van Wyck Expressway in direzione del quartiere Jamaica nel Queens. Il tassista indossava il turbante. Il tesserino identificativo e la foto erano così sbiaditi da essere quasi illeggibili. A quanto pareva, si chiamava Mohammad Iqbal. O forse quello era il nome del cugino o di chiunque fosse la persona con cui condivideva la licenza. L’aria condizionata non funzionava e così viaggiavano con i finestrini aperti. La differenza di temperatura rispetto a Londra, da cui era partito la mattina presto, era notevole e Dominik stava già sudando. Si tolse la giacca di lino grigia. Oltre il Jamaica Hospital il traffico cominciò a diradarsi e il taxi procedette più spedito. L’autista svoltò per imboccare la strada che portava al Midtown Tunnel. D’un tratto Dominik si ricordò che aveva spento il cellulare mentre era in coda al controllo passaporti, come gli era stato chiesto. Lo riaccese e guardò speranzoso lo schermo che riprendeva vita. C’era un SMS. Summer. “Ricevuto tuo messaggio. Sono a NYC. Richiamami. S.” Maledizione! Lui sapeva già che lei era a New York. Quell’ SMS non gli era di nessun aiuto. Provò a richiamarla, ma trovò ancora una volta il messaggio della compagnia telefonica. Accidenti! Senza altri indizi, sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio. Stava per mandarle un SMS quando il taxi si inabissò nel Midtown Tunnel. Aveva prenotato un albergo in Washington Square e aveva detto al tassista di portarlo lì. Quando furono usciti dal tunnel decise di aspettare di essere nella sua stanza prima di tentare di nuovo di mettersi in contatto con Summer. Anche se il check-in era previsto solo dalle tre del pomeriggio, gli fu permesso di anticiparlo perché la camera era libera. Aveva bisogno di rinfrescarsi e di cambiarsi. Dalla finestra la riposante visione dell’arco di Washington Square ammiccava sotto il sole. Musica jazz proveniva dalla fontana al centro della piazza, dove si erano riuniti alcuni artisti di strada. Dopo la doccia e ancora avvolto nell’accappatoio, tentò di nuovo di chiamare Summer, senza risultato. Ma che accidenti stava succedendo? si chiese. Perché mai lei gli aveva mandato un SMS e poi era diventata irreperibile? Stava prendendo una camicia dalla valigia quando il telefono finalmente squillò. Si affrettò a rispondere. «Summer?» «No, non sono Summer. Sono Lauralynn.» «Lauralynn?» Sulle prime Dominik non ricordò chi fosse e stava per riagganciare, per paura di perdere un’eventuale chiamata di Summer. «Sì, Lauralynn. Ricorda? Ho suonato in quel… quartetto d’archi un po’ particolare. Bionda. Violoncello. Le dice qualcosa?» Ecco chi era. Che cosa voleva? Stava diventando impaziente. «Sì, mi ricordo.» «Bene» approvò Lauralynn. «Detesto che gli uomini non si ricordino di me» aggiunse con una risata. «Sono a New York» la informò. «Davvero?» «Sono appena arrivato.» Poi si riscosse: «Che cosa vuoi?». «Un po’ difficile così da lontano» commentò Lauralynn. «Avevo intenzione di dirle quanto mi era piaciuto il nostro piccolo evento. Mi chiedevo se fosse interessato a organizzare qualcos’altro, ma dato che non è in Inghilterra, la cosa potrebbe rivelarsi un tantino complicata.» La sua voce era piena di malizia. «Hai ragione. Magari possiamo riparlarne quando torno a Londra.» Dominik lo disse solo per essere gentile. In realtà non aveva alcuna intenzione di rifare una cosa del genere. «Capisco» disse Lauralynn. «Peccato. Proprio adesso che anche Victor è a New York… Sono un po’ a corto di occasioni per divertirmi.» «Tu conosci Victor?» indagò Dominik. «Naturalmente. Lui è… come posso dire?… un vecchio amico» rispose Lauralynn. «Pensavo di aver trovato te e gli altri musicisti del quartetto tramite un annuncio nella bacheca del conservatorio.» «No» rivelò Lauralynn. «In realtà Victor mi aveva informata in anticipo della natura insolita del concerto. È stato lui a scegliere il posto che poi le ho suggerito. Non lo sapeva?» Dominik imprecò in silenzio. Nella sua mente iniziò a formarsi una nube minacciosa e sentì una stretta al petto. Victor, quel subdolo libertino, e Summer, tutti e due a New York? Prese una decisione. «Lauralynn, sai come potrei mettermi in contatto con lui mentre sono qui?» «Ma certo.» «Magnifico.» Si annotò l’indirizzo che lei gli diede. «Ha citato Summer. Il suo viaggio a New York ha a che fare con lei? Solo per curiosità» aggiunse Lauralynn. «Sì» disse Dominik e riagganciò. Si infilò la giacca e decise di fare una passeggiata nel parco vicino all’albergo per schiarirsi le idee e riorganizzare i suoi pensieri prima di cercare di mettersi in contatto con Victor. Oltrepassò i giochi dei bambini e il recinto per i cani, osservando l’esercito di scoiattoli che schizzavano qua e là nell’erba e tra gli alberi. Adocchiò una panchina e si sedette. Cynthia si alzò e mi aiutò a uscire dalla vasca, poi mi avvolse in un grande asciugamano. L’acqua era diventata fredda. Io non me n’ero neanche accorta. Victor mi prese per mano e mi condusse in un’altra stanza. Ma quanto era grande quell’appartamento? Un centro tatuaggi casalingo. Una volta avevo preso in considerazione l’idea di farmi fare un tatuaggio, prima di lasciare la Nuova Zelanda. Qualcosa che mi ricordasse casa mia. Alla fine avevo rinunciato, semplicemente perché non ero riuscita a decidere quale immagine avrei voluto farmi incidere sulla pelle per sempre. Forse adesso avevo risolto il problema: avrei avuto un tatuaggio, ma avrei lasciato a qualcun altro la scelta del disegno. Mi sdraiai sulla panca che Victor mi indicò con un cenno. Ero completamente nuda. Lui mi strinse la mano, l’unico segno di tenerezza che mi avesse mai dimostrato. Chiusi gli occhi. A quanto pareva, come avevo immaginato, non avrei avuto la possibilità di optare per un piercing. Caddi in una specie di trance quasi senza volerlo, preparandomi al dolore dell’ago che mi aspettavo di provare da un momento all’altro. Il rumore attutito del traffico sbiadì diventando un lieve ronzio. Le persone nella stanza, che si erano evidentemente radunate per assistere alla scena, divennero ombre indistinte sullo sfondo. Pensai al mio violino, ai viaggi meravigliosi in cui mi trasportava quando lo suonavo. Il sesso e la sottomissione ad altri mi davano una sensazione di pace, di calma, ma niente di paragonabile alle visioni che scaturivano durante l’esecuzione di un brano. Ripensai a quando avevo suonato Vivaldi per Dominik: la prima volta nella metropolitana, anche se non sapevo della sua presenza, e la seconda, nel parco. In entrambe le occasioni lui era stato testimone della mia rêverie, e mi era parso che traesse piacere dall’osservare l’effetto che la musica aveva su di me. Dominik. Avevo quasi dimenticato l’SMS. Forse il mio telefono stava vibrando nel mobile bar? Forse lui aveva cercato di nuovo di mettersi in contatto con me? Una mano mi sfiorò prima l’ombelico e poi il monte di Venere depilato, e indugiò un attimo su di me, forse esaminandomi, scegliendo il posto migliore per marchiarmi. Mi chiesi se a farmi il tatuaggio sarebbe stato Victor stesso. «Schiava Elena» disse lui, con voce profonda e in tono formale, «è giunto il momento della tua marchiatura.» Fece un respiro e tacque un attimo come se stesse per fare un discorso. Aveva preparato una specie di promessa nuziale da pronunciare solennemente? Che strano. «Adesso devi rinunciare alla tua vita precedente e promettere di servire me, Victor, in tutto quello che ti chiederò, finché non deciderò di liberarti dalla schiavitù. Accetti di sottometterti a me, schiava, di fare mia la tua volontà per sempre?» Ero sull’orlo di un precipizio, nell’imminenza di uno di quei momenti in cui la vita corre sul filo del rasoio: una scelta fugace fatta nello spazio di un respiro che può cambiarti l’esistenza per sempre. «No» risposi. «No?» mormorò Victor incredulo. «No» ripetei. «Non accetto di sottomettermi a te.» Aprii gli occhi e mi alzai a sedere sulla panca, improvvisamente consapevole della mia nudità. Feci appello a tutta l’autorevolezza su cui potevo contare in quella condizione. Se non altro, Dominik mi aveva fatto fare parecchia pratica. Victor era esterrefatto, ma impotente. Come avevo potuto sentirmi alla mercé di quest’uomo? Stava solo recitando una parte, come tutti gli altri. Mi feci largo tra i presenti, sulle cui facce era dipinto un misto di shock, imbarazzo e preoccupazione; alcuni mormorarono che tutto ciò doveva far parte della messinscena di Victor. Presi il mio vestito dal mobile bar, me lo infilai, poi afferrai la borsetta con il cellulare e mi diressi verso la porta. Non era chiusa a chiave. Victor mi si parò davanti proprio mentre stavo uscendo. «Te ne pentirai, schiava Elena.» «Non credo proprio. Il mio nome è Summer. E non sono la tua schiava.» «Non sarai mai nient’altro che una schiava, ragazza. È nella tua natura. Alla fine dovrai arrenderti. Non puoi farne a meno. E poi guardati… Ti sei bagnata nel momento stesso in cui ti sei tolta i vestiti. Sei fradicia. Puoi anche ribellarti, ma il tuo corpo ti tradisce, schiava.» «Non cercarmi più. Altrimenti chiamo la polizia.» «E che cosa dirai?» sogghignò lui. «Pensi che crederanno a una troia come te?» Girai sui tacchi e me ne andai, a testa alta, anche se le sue parole continuavano a risuonarmi nelle orecchie. L’unica cosa che volevo era tornare a casa. Tornare a casa e suonare il violino. Mi incamminai lungo Gansevoort Street e fermai un taxi, mettendomi ad armeggiare con il telefono non appena fui salita in modo che l’autista non cercasse di fare conversazione o mi chiedesse perché avevo quell’aria sconvolta. I tassisti di New York sono una categoria bizzarra, alcuni muti come pesci e altri talmente loquaci che è quasi impossibile farli tacere. Ascoltai la segreteria telefonica e sprofondai nel sedile abbandonandomi alla voce di Dominik. Gli ero mancata. Non aveva mai detto una cosa del genere. Anche lui mi era mancato. Moltissimo. Fissai il traffico caotico fuori dal finestrino, la visione di una città che mi era sembrata così eccitante la prima volta in cui l’avevo vista e che adesso mi era solo estranea, ricordandomi che non ero a casa, che non avevo più una casa. Quando passammo per il parco di Washington Square, era quasi il crepuscolo; gli alberi gettavano sull’erba pallide ombre simili a lunghe braccia e mani, un coro di vegetazione. Il buio non sarebbe sceso ancora per un po’. C’era il tempo per suonare. Avevo promesso a Dominik che non mi sarei esibita in strada con il Bailly: era troppo pericoloso con uno strumento così prezioso. Ma pensai che lui avrebbe capito, solo per questa volta. Il taxi mi lasciò davanti al mio appartamento e io diedi all’autista una mancia generosa, una sorta di ringraziamento per aver taciuto lungo tutto il tragitto. Salii i gradini, due alla volta, lasciando cadere a terra il vestito nero non appena misi piede in camera. Non credevo che l’avrei più messo. Forse avrei comprato qualcos’altro per i concerti, un abito che non evocasse tanti ricordi. Mi vestii in modo da attirare l’attenzione il meno possibile, presi il violino e mi diressi al parco. L’arco di Washington Square era il mio posto preferito. Mi ricordava l’Arco di trionfo di Parigi e i posti dove volevo andare, le immagini che Dominik mi aveva fatto vedere del suo viaggio a Roma. Mi misi vicino alla fontana e sistemai il violino sotto il mento, lo strinsi saldamente e posai l’archetto sulle corde. Quanto alla musica da suonare, il mio corpo prese la decisione prima che avessi il tempo di pensarci. Chiusi gli occhi e mi concentrai sul primo movimento, l’allegro, della Primavera. Il primo concerto delle Quattro stagioni. I minuti trascorsero senza che me ne rendessi conto. Quando arrivai alla fine dell’ultimo movimento, aprii gli occhi e mi accorsi che era quasi buio. Poi udii un applauso. Non la cupa e fragorosa ovazione di un intero pubblico, ma il battimano chiaro e deciso di una persona sola. Mi girai, stringendomi il Bailly al fianco con fare protettivo, nel caso in cui uno psicopatico avesse avuto intenzione di aggredirmi e portarmi via il violino. Era Dominik. Era venuto per me. Dominik aprì gli occhi. Era mezzanotte, l’ora delle streghe, e dalla finestra della sua stanza d’albergo entrava solo il chiarore delle luci dell’arco di Washington Square. L’aria condizionata soffiava leggera nella stanza come una brezza fresca. Accanto a lui Summer dormiva. Il ritmo quieto del suo respiro saliva e scendeva a tempo con il battito del cuore; aveva le spalle scoperte e lasciava intravedere solo uno spicchio di seno nell’incavo del braccio piegato tra il mento e il cuscino. Dominik trattenne il fiato. Ricordò la sensazione delle sue labbra chiuse intorno a lui quando gliel’aveva preso in bocca per la prima volta, la carezza vellutata e delicata con cui aveva avvolto la lingua intorno al suo pene, come se ci stesse allegramente giocando, toccandolo, esplorandolo centimetro per centimetro, sfiorando con i denti la pelle e i rilievi di vene e minuscoli promontori. Lei non glielo aveva chiesto e lui non le aveva ordinato di farlo. Era successo e basta, come la cosa giusta da fare al momento giusto, quando entrambi avevano abbassato le difese e si erano aperti l’uno all’altra, mettendo al bando il passato, gli errori, le strade imboccate per errore e adesso rimpiante. Sentiva ancora riverberarsi in lui l’eco del desiderio che Summer gli suscitava, e si rammaricò di tutti i giorni che aveva sprecato. Prima di lei, dopo di lei. Giorni che non avrebbe più riavuto indietro. La guardò dormire. Sospirò. Di felicità e di tristezza. Da fuori lo raggiunsero le voci allegre dei nottambuli che uscivano dai locali in Bleecker e MacDougal Street e si dirigevano verso i quartieri residenziali, e per un attimo fugace Dominik fu profondamente felice di aver ritrovato Summer. I momenti che avevano condiviso quella sera erano stati normali, non parte di un gioco. Si addormentò, cullato dalla presenza di lei, dal calore che il suo corpo nudo emanava mentre gli si stringeva contro, avvolgendolo come un balsamo. Si svegliò alle prime luci dell’alba, una sottile striscia chiara all’orizzonte di Manhattan. Anche Summer era sveglia e lo guardava, con un misto di curiosità e affetto. «Buongiorno» disse lei. «Buongiorno, Summer.» Poi tacquero, come se avessero esaurito troppo in fretta le cose da dirsi. «Scoprirai che sono anche un uomo di silenzi» disse Dominik, a mo’ di scusa. «Non morirò» replicò Summer. «Le parole non sono poi così importanti. Molto sopravvalutate, credo.» Dominik sorrise. Forse avrebbe funzionato, dopotutto. Forse sarebbero potuti andare oltre il letto e le tenebre che, ne era consapevole, entrambi nascondevano nel profondo dell’anima. Forse. Lei allungò la mano verso di lui, si alzò a metà scoprendo un seno e gli toccò il mento con le dita. «Hai la barba lunga. Devi raderti» disse, accarezzandolo. «Sì» confermò Dominik. «Sono almeno due giorni che non me la faccio» aggiunse. «Non tutti i segni mi piacciono» disse Summer con un sorriso. «I segni non sono sempre necessari» osservò Dominik. «No, certo» confermò lei. «Sono sicura che troveremo un equilibrio.» Dominik sorrise, e le toccò il seno scoperto con tutta la delicatezza di cui era capace. «Questo significa che possiamo ancora essere…» «Amici» lo interruppe Summer. «O forse no.» «Più che amici» aggiunse lui. «Credo di sì» fece lei. «Non sarà facile.» «Lo so.» Dominik scostò delicatamente il lenzuolo scoprendole il corpo fino alle cosce. «Vedo che sei ancora depilata» commentò. «Sì» disse Summer. «La ricrescita era troppo disordinata e mi metteva a disagio. E poi comincio a piacermi in questa versione.» Non gli raccontò che era stato Victor a ordinarle di tenersi depilata, anche se era vero che era arrivata ad apprezzare la vulnerabilità che la pelle liscia le evocava nel cuore e nella mente, e la pura e semplice sensualità di potersi sentire così nuda quando si toccava. «E se te lo chiedessi, saresti disposta a rimanere così o a farti ricrescere i peli?» indagò Domink. «A mio capriccio, o magari per mio ordine?» «Dovrei pensarci» rispose Summer. «Se ti ordinassi di suonare il violino per me, lo faresti ancora?» Gli occhi di Summer brillarono nella luce fioca dell’alba. «Lo farei» rispose poi. «In qualunque momento, in qualunque posto, con i vestiti o senza, suonando qualunque motivo, qualunque melodia…» Sorrise. «Un dono per me?» «Un atto di sottomissione. A modo mio.» La mano di Dominik si avvicinò alla fica di Summer, indugiò sulle labbra, le schiuse e fece scivolare dentro un dito con deliberata lentezza. Summer gemette, piano. Le era sempre piaciuto fare l’amore al mattino, ancora insonnolita. Lui ritrasse il dito, scese dal letto e le mise la bocca in mezzo alle cosce. Summer gli infilò le mani tra i capelli arruffati per guidarlo e controllare il piacere. Aprii la porta della mia stanza, appoggiai con delicatezza il violino sul pavimento e mi diressi verso l’armadio. Avevo fatto un salto a casa per prendere un cambio di vestiti. Dominik stava a New York solo un’altra notte e mi aveva chiesto di andare a cena con lui e poi a un concerto, per festeggiare. Sarebbe stato uno strano festeggiamento. Dolceamaro. La nostra ultima notte insieme fino a chissà quando, un periodo che avremmo trascorso in due continenti diversi. “Può funzionare?” mi chiesi, prendendo dall’armadio il vestito nero corto, quello che avevo indossato per lui, almeno brevemente, in occasione di un paio dei nostri incontri. Pensavo di sì. Dominik e io eravamo le due metà della stessa entità. Nemmeno un oceano avrebbe potuto dividerci per sempre. Preparai una piccola borsa con le cose che mi servivano, lanciai un’ultima occhiata al Bailly e mi diressi verso la porta. Dominik non era ancora stato a casa mia. Magari la prossima volta l’avrei invitato. Ringraziamenti Vorremmo ringraziare tutte le persone che hanno reso la stesura della serie di Eighty Days non solo possibile ma anche piacevole: Sarah Such dell’omonima agenzia letteraria, Jemima Forrester e Jon Wood della Orion per averci creduto e Matt Christie per le fotografie (www.mattchristie.com). Un grazie speciale a tutte le persone senza nome che ci hanno assistiti durante la scrittura con ricerche, sostegno e lezioni di violino; al Groucho Club e ai ristoranti di Chinatown per aver ospitato le nostre riflessioni perverse; e ai nostri rispettivi compagni per essere stati presenti a tutte le ore del giorno e della notte mentre noi scrivevamo freneticamente senza degnarli di uno sguardo. Una metà di Vina Jackson desidera ringraziare il proprio datore di lavoro per il supporto straordinario, per la sua comprensione e apertura di mente. E infine grazie ai treni della First Great Eastern per aver dato una mano alla fortuna con la lotteria delle prenotazioni online che ci ha permesso di conoscerci. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. 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In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.librimondadori.it Eighty Days: Il colore della passione di Vina Jackson Copyright © 2012 by Vina Jackson © 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell’opera originale Eighty Days Yellow Ebook ISBN 9788852035517 COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER: GAIA STELLA DESANGUINE | FOTO: © SHUTTERSTOCK (VIOLINO); © ISTOCKPHOTO (DONNA) | COVER DESIGN: GRAEME LANGHORNE/ORIONBOOKS