Il libro
Summer è da poco arrivata a Londra
dalla Nuova Zelanda. Ha i capelli rossi,
una gran voglia di vivere e un’intensa
passione per la musica di Vivaldi. Si
guadagna da vivere suonando il violino
in serate occasionali o nelle stazioni
della metropolitana. Ed è qui che la nota
Dominik, un giovane professore
universitario catturato dal fascino di
quella musica. L’ascolta da lontano, di
nascosto, estasiato. Quando Summer
viene aggredita e il suo prezioso violino
finisce distrutto, sarà Dominik a offrirsi
di sostituirglielo. Summer, in cambio,
dovrà solo suonare per lui in un
concerto privato. Comincia così una
relazione impetuosa e sempre al limite,
tanto imprevedibile quanto profonda e
inarrestabile. Summer non ha niente da
perdere. Anzi, forse è il momento di
fare i conti con se stessa, con il suo lato
oscuro e sempre negato. Anche a costo
di scoprire che al piacere si
accompagna, inevitabilmente, il dolore.
Ma quanto può durare una relazione nata
da una passione così totale e divorante?
L’autore
Vina Jackson è uno pseudonimo.
Vina Jackson
80 DAYS:
IL COLORE
DELLA
PASSIONE
Traduzione di Eloisa Banfi
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e
luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo
scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi
analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse,
è assolutamente casuale.
80 Days:
Il colore della passione
1
Una ragazza e il suo violino
Do la colpa a Vivaldi.
Più in particolare, al mio CD delle
Quattro stagioni, che adesso giace a
faccia in giù sul comodino, accanto a
Darren, il mio ragazzo, che dorme
russando piano.
Abbiamo litigato quando lui è
rientrato alle tre del mattino da un
viaggio di lavoro e mi ha trovata distesa
sul parquet del suo salotto, nuda e
intenta ad ascoltare musica al volume
più alto consentito dall’impianto stereo.
Ovvero altissimo.
Il presto dell’Estate, il Concerto n. 2
in Sol minore, stava per entrare nel vivo
quando Darren spalancò la porta.
Non mi accorsi del suo ingresso
finché non sentii sulla spalla destra la
suola della sua scarpa scuotermi. Aprii
gli occhi e lo vidi chino su di me. Aveva
acceso le luci e il CD si era
improvvisamente zittito.
«Che cazzo stai facendo?» chiese.
«Ascolto la musica» risposi con un
filo di voce.
«Questo lo sento! L’ho sentito fin
dalla strada!» urlò.
Era stato a New York e aveva un
aspetto straordinariamente fresco e
riposato per uno appena sbarcato da un
lungo volo. Indossava metà del suo abito
da ufficio – camicia bianca immacolata,
cintura di pelle e pantaloni blu scuro a
righine sottili – e teneva la giacca
ripiegata sul braccio. Stringeva con
forza
l’impugnatura
del
trolley.
Evidentemente stava piovendo, anche se
io non me n’ero accorta, dato l’altissimo
volume della musica. La valigia era
lucida di pioggia, che scorreva via in
rivoletti e si raccoglieva in una pozza
sul pavimento di legno proprio accanto
alle mie cosce. La parte inferiore dei
suoi pantaloni era bagnata e gli aderiva
alle gambe.
Girando la testa verso la scarpa di
Darren, scorsi due centimetri di
polpaccio umido. Lui emanava un odore
muschiato, un misto di sudore, pioggia,
lucido da scarpe e cuoio. Alcune gocce
d’acqua scivolarono dalla scarpa sul
mio braccio. Vivaldi produceva
immancabilmente un effetto molto
particolare su di me e né l’ora
antelucana né l’espressione irritata sul
volto di Darren bastarono a distrarmi
dalla sensazione di calore che si
diffondeva rapida lungo il mio corpo,
accendendomi come sempre il fuoco
nelle vene. Mi voltai, mentre la sua
scarpa premeva ancora leggermente sul
mio braccio destro, e risalii con la mano
sinistra lungo la gamba dei pantaloni.
Lui fece un passo indietro, come se si
fosse scottato, e scrollò la testa.
«Cristo santo, Summer…»
Trascinò il trolley contro la parete
accanto alla rastrelliera dei CD, tolse le
Quattro stagioni dal lettore e poi si
diresse verso la sua stanza. Pensai per
un istante di alzarmi e di seguirlo, ma
lasciai perdere. Non avrei potuto averla
vinta in una discussione con Darren
senza i vestiti addosso. Speravo che, se
avessi continuato a rimanere distesa
immobile, sarei riuscita a disinnescare
la sua rabbia rendendomi meno visibile:
in fondo, se non mi fossi alzata, il mio
corpo nudo in posizione orizzontale si
sarebbe mimetizzato meglio con il
pavimento.
Udii il rumore dell’anta dell’armadio
che si apriva e il familiare ticchettio
delle grucce di legno che cozzavano
l’una contro l’altra mentre lui appendeva
la giacca. Stavamo insieme da sei mesi e
non l’avevo mai visto gettare il cappotto
su una sedia o sullo schienale del
divano, come avrebbe fatto una persona
normale.
Appendeva
la
giacca
nell’armadio, poi si sedeva per sfilarsi
le scarpe, si toglieva i gemelli, si
sbottonava la camicia e la buttava
direttamente nel cesto della biancheria
sporca, quindi si levava la cintura e la
metteva sull’apposita rastrelliera di
metallo nell’armadio, accanto a una
mezza dozzina di altre cinture in tonalità
sobrie di blu, nero e marrone. Indossava
slip firmati, il genere che preferivo in un
uomo, minuscoli short di cotone
elasticizzato con una spessa fascia in
vita. Adoravo il modo provocante in cui
aderivano al suo corpo, anche se con
mio perenne disappunto lui si metteva
sempre una vestaglia e non girava mai
per casa con addosso solo la biancheria
intima. Diversamente da me, che stavo
bene nella mia pelle, Darren si sentiva
offeso dalla nudità.
Ci eravamo conosciuti a un concerto
l’estate precedente. Per me si era trattato
di una grande occasione: uno dei
violinisti si era ammalato e io ero stata
ingaggiata all’ultimo minuto per suonare
nell’orchestra un pezzo di Arvo Pärt…
che peraltro detestavo. Lo trovavo
sconnesso e monotono, ma per un posto
regolare su un palcoscenico vero,
ancorché piccolo, avrei suonato anche
Justin Bieber, fingendo persino di
divertirmi. Darren era tra il pubblico e
lo spettacolo gli era piaciuto. Aveva una
fissazione per le rosse e in seguito mi
confessò che non era riuscito a vedermi
in faccia a causa dell’angolazione del
palco, ma in compenso aveva goduto di
una magnifica visione della sommità dei
miei capelli. Disse che risplendevano
sotto i riflettori quasi fossi avvolta dalle
fiamme.
Aveva
ordinato
dello
champagne e aveva usato i suoi contatti
con gli organizzatori del concerto per
incontrarmi dietro le quinte.
Non mi piace lo champagne, ma lo
bevvi comunque, perché lui era alto,
affascinante e quanto di più vicino a un
vero fan avessi mai avuto.
Gli chiesi che cosa avrebbe fatto se
mi fossero mancati i denti davanti o se
non gli fossi piaciuta per qualche altra
ragione, e lui rispose che ci avrebbe
provato con la percussionista, che non
aveva i capelli rossi ma era comunque
piuttosto attraente.
Poche ore dopo ero ubriaca e distesa
nella camera della sua casa di Ealing, a
chiedermi come fossi finita a letto con
un uomo che aveva appeso la giacca e
sistemato le scarpe in perfetto
allineamento. Comunque, aveva un
uccello bello grosso e un appartamento
carino, e anche se scoprii che detestava
tutta la musica che io invece amavo, nei
mesi successivi passammo insieme la
maggior
parte
dei
weekend.
Sfortunatamente per me, trascorremmo
troppo poco di quel tempo a letto e
decisamente troppo in giro per mostre
d’arte intellettualoidi che a me non
piacevano e che, ne ero convinta, Darren
non capiva.
Gli uomini che mi vedevano suonare
nei luoghi tradizionalmente destinati alla
musica classica invece che nei pub o
nelle stazioni della metropolitana
sembravano commettere lo stesso errore
di Darren, convinti che io possedessi
tutte le caratteristiche che associavano a
una violinista classica. Secondo loro,
avrei dovuto essere beneducata,
perbene, colta, istruita, signorile e
aggraziata, con un guardaroba pieno di
abiti semplici ed eleganti da indossare
sul palcoscenico, nessuno dei quali
volgare o succinto. Avrei dovuto portare
tacchi bassi ed essere inconsapevole
dell’effetto suscitato dalle mie caviglie
sottili.
In realtà, avevo un unico abito lungo
per i concerti, che avevo comprato per
dieci sterline in un negozio vintage di
Brick Lane e avevo fatto modificare da
una sarta. Era di velluto nero, a collo
alto e con una profonda scollatura sulla
schiena, ma la sera in cui avevo
conosciuto Darren era in lavanderia,
così avevo acquistato un tubino da
Selfridges con la carta di credito e
avevo nascosto le etichette nella
biancheria intima. Grazie al cielo,
Darren era un amante composto e non
aveva lasciato macchie né su di me né
sull’abito, per cui il giorno dopo avevo
potuto restituirlo senza problemi.
L’appartamento in cui trascorrevo le
notti dei giorni feriali si trovava in un
condominio a Whitechapel. In realtà, più
che un appartamento, era una stanza
dotata di un letto singolo abbastanza
largo, uno stand appendiabiti che
fungeva da armadio, un piccolo lavello,
un frigorifero e un fornello elettrico. Il
bagno era in fondo al corridoio, in
comune con altre quattro persone che
incontravo occasionalmente, ma che in
genere si facevano gli affari loro.
Nonostante si trovasse in un quartiere
modesto e il palazzo fosse fatiscente,
non mi sarei mai potuta permettere di
abitarvi, se non avessi fatto un patto con
l’affittuario, conosciuto in un bar dopo
una visita al British Museum. Non mi
aveva mai spiegato perché volesse
affittare la stanza per una cifra inferiore
a quella che pagava lui, ma
m’immaginavo che sotto le assi del
pavimento ci fosse un cadavere oppure
un nascondiglio di polverina bianca, e
spesso la notte non riuscivo a prendere
sonno aspettando di sentire i passi di
una squadra speciale anticrimine che
faceva irruzione nel corridoio.
Darren non era mai stato a casa mia,
un po’ perché avevo la sensazione che
non si sarebbe azzardato a metter piede
nell’atrio prima di aver fatto sterilizzare
l’intero edificio e un po’ perché mi
piaceva che una parte della mia vita
fosse solo mia. Inconsciamente, forse,
sapevo che la nostra relazione non
sarebbe durata e non avevo voglia di
ritrovarmi con un amante scaricato che
lanciava sassi contro la mia finestra nel
cuore della notte.
Lui mi aveva proposto più di una
volta di trasferirmi a casa sua, così
avrei risparmiato i soldi dell’affitto e
avrei potuto comprare un violino più
bello o pagare le lezioni di musica, ma
io avevo rifiutato. Detesto vivere con
altra gente, soprattutto con gli amanti, e
avrei preferito arrotondare le mie
entrate di notte all’angolo della strada
piuttosto che farmi mantenere da un
fidanzato.
Udii lo scatto attutito della custodia dei
gemelli che si chiudeva, serrai le
palpebre e strinsi le gambe nel tentativo
di rendermi invisibile.
Lui tornò in salotto e mi passò
accanto per andare in cucina. Sentii lo
scroscio dell’acqua nel lavello, il lieve
sibilo del gas e, dopo qualche minuto, il
suono del bollitore. Aveva uno di quei
bollitori moderni ma dal funzionamento
antiquato che doveva essere riscaldato
sul fornello finché non emetteva un
fischio. Non riuscivo a capire perché
non potesse comprarsene uno elettrico,
ma lui sosteneva che l’acqua, scaldata
così, aveva un sapore diverso e che una
tazza di tè come si deve doveva essere
preparata con dell’acqua come si deve.
Io non bevo tè. Il solo odore mi dà il
voltastomaco. Bevo caffè, ma Darren si
rifiutava di prepararmelo dopo le sette
di sera: era convinto che mi tenesse
sveglia e diceva che la mia inquietudine
notturna teneva sveglio anche lui.
Mi rilassai sul pavimento e finsi di
essere altrove, rallentando il ritmo del
respiro nel tentativo di rimanere
immobile, come un cadavere.
«Non riesco nemmeno a parlarti
quando sei in questo stato, Summer.» La
sua voce arrivò fluttuando dalla cucina,
incorporea. Era una delle cose che più
mi piacevano di lui, la ricca tonalità del
suo accento da scuola d’élite, a volte
tranquilla e calda, altre fredda e dura.
Sentii un’ondata di calore tra le cosce,
allora strinsi le gambe più che potevo,
pensando a quando Darren aveva steso
un asciugamano sotto di noi l’unica volta
che avevamo scopato sul pavimento del
salotto. Odiava il disordine.
«Quale stato?» chiesi, senza aprire
gli occhi.
«Questo! Nuda e distesa per terra
come una pazza! Alzati e mettiti addosso
qualcosa, cazzo.»
Bevve l’ultimo sorso di tè e io, nel
sentire il lieve schiocco che faceva
deglutendo, lo immaginai in ginocchio
con la bocca tra le mie cosce. Il
pensiero mi fece arrossire. A Darren
non piaceva leccarmi, a meno che non
fossi appena uscita dalla doccia, e anche
in quel caso la sua lingua era riluttante e
cedeva il posto alle dita alla prima
occasione. Preferiva usare un dito solo e
non l’aveva presa bene quando avevo
allungato la mano per invitarlo a
mettermene dentro due.
«Cristo, Summer» aveva detto, «se
continui così a trent’anni sarai
sfondata.» Poi era andato in cucina e si
era lavato le mani con il detersivo per i
piatti prima di tornare a letto e sdraiarsi
su un fianco, addormentandosi con la
schiena rivolta verso di me, mentre io,
sveglia, fissavo il soffitto. A giudicare
dallo sciacquio vigoroso doveva essersi
lavato le braccia fino ai gomiti, come un
veterinario pronto a far nascere un
vitello, o un sacerdote in procinto di
compiere un sacrificio.
Da
allora
mi
ero
astenuta
dall’incoraggiarlo a riprovare con più
dita.
Darren mise la tazza nel lavello e mi
passò di nuovo accanto, questa volta
diretto in camera. Dopo che fu
scomparso alla vista, aspettai un attimo
prima di alzarmi in piedi, imbarazzata al
pensiero di quanto gli sarei sembrata
oscena nella mia nudità, anche se a quel
punto mi ero ormai del tutto ridestata
dalla trance indotta da Vivaldi e il corpo
iniziava a dolermi e a essere percorso
dai brividi.
«Vieni a letto, quando sei pronta» mi
disse lui.
Sentii che finiva di svestirsi e si
coricava. Allora mi infilai la biancheria
intima e aspettai che il suo respiro si
facesse profondo e regolare prima di
scivolare tra le lenzuola accanto a lui.
Avevo quattro anni quando sentii per la
prima volta le Quattro stagioni. Mia
madre e i miei fratelli erano andati a
trovare mia nonna per il weekend. Io mi
ero rifiutata di partire senza mio padre,
che non poteva venire per impegni di
lavoro. Mi ero aggrappata a lui e avevo
cominciato a urlare, mentre insieme a
mia madre cercava di convincermi a
salire in auto. Alla fine avevano ceduto
e mi avevano consentito di rimanere a
casa.
Mio padre aveva permesso che
saltassi la scuola materna e mi aveva
portata con sé al lavoro. Avevo passato
tre splendidi giorni di libertà quasi
totale scorrazzando per la sua officina,
arrampicandomi
su
mucchi
di
pneumatici e inalando l’aria che sapeva
di gomma mentre lo osservavo sollevare
con il cric le macchine e infilarcisi
sotto, lasciando sporgere solo le gambe.
Stavo sempre vicino a lui, perché avevo
una tremenda paura che un giorno il cric
potesse cedere facendogli cadere l’auto
addosso e tagliandolo in due. Non so se
fosse per arroganza o per stupidità, fatto
sta che anche così piccola pensavo che
io sarei stata capace di salvarlo, che con
la giusta dose di adrenalina sarei
riuscita a sollevare la vettura per i pochi
secondi necessari a liberarlo.
Dopo che aveva finito di lavorare,
salivamo sul suo furgone e iniziavamo il
lungo tragitto di ritorno verso casa,
facendo una sosta per un cono gelato,
anche se in genere non mi era concesso
mangiare dolci prima di cena. Mio
padre ordinava sempre malaga, mentre
io sceglievo un gusto diverso ogni volta,
oppure due mezze palline di gusti
diversi.
Una notte in cui non riuscivo a
dormire ero andata in salotto e lo avevo
trovato sdraiato al buio, apparentemente
addormentato, anche se non respirava
come uno che dorme. Aveva preso il
giradischi dal garage e io sentivo il
lieve fruscio della puntina a ogni giro
del disco.
«Ciao, piccola» disse.
«Che cosa stai facendo?» chiesi.
«Ascolto la musica» rispose, come se
fosse la cosa più normale del mondo.
Mi sdraiai accanto a lui avvertendo il
calore del suo corpo vicino al mio e il
lieve sentore della gomma nuova
mescolato a quello della pasta lavamani.
Chiusi gli occhi e rimasi immobile,
finché il pavimento scomparve e
rimanemmo solo io, sospesa nel buio, e
il suono delle Quattro stagioni sul
giradischi.
In seguito avevo chiesto a mio padre
di mettere quel disco più volte, forse
perché ero convinta che il mio nome –
Summer, “estate” – derivasse proprio da
uno dei quattro concerti, una teoria che i
miei genitori non confermarono mai.
L’entusiasmo era stato tale che per il
mio successivo compleanno mio padre
mi regalò un violino e fece in modo che
prendessi lezioni. Ero sempre stata una
bambina
impaziente
e
piuttosto
indipendente, il genere di persona che
potrebbe non essere adatta a frequentare
lezioni dopo la scuola o a studiare
musica, ma io desideravo moltissimo,
più di ogni altra cosa al mondo, suonare
qualcosa che mi consentisse di volare
via come la notte in cui avevo ascoltato
Vivaldi. Così, dalla prima volta in cui
misi le mie piccole mani sull’archetto e
sullo strumento, non smisi di esercitarmi
tutte le volte che potevo.
Mia madre cominciò a preoccuparsi
che diventasse un’ossessione e avrebbe
voluto togliermi il violino per un po’, in
modo che mi dedicassi di più ai compiti
e magari mi facessi qualche amica, ma
io rifiutai con decisione di separarmi
dal mio strumento. Con l’archetto in
mano avevo la sensazione di poter
prendere il volo in qualunque momento.
Senza di esso non ero niente, solo un
corpo come tutti gli altri, ancorata al
suolo come un masso.
Superai rapidamente tutti i livelli dei
libri di musica per principianti e a nove
anni suonavo con una maestria che
andava ben oltre le aspettative della mia
stupefatta insegnante di musica della
scuola.
Mio padre fece in modo che
prendessi lezioni aggiuntive da un
vecchio gentiluomo olandese, Hendrik
Van der Vliet, che abitava a due vie di
distanza da noi e usciva raramente di
casa. Era un uomo alto, incredibilmente
magro, che si muoveva con difficoltà,
come se fosse attaccato a dei fili e fosse
circondato da una sostanza più densa
dell’aria; sembrava una cavalletta che
nuota nel miele. Quando prendeva in
mano il violino, il suo corpo diventava
liquido. Guardare i movimenti delle sue
braccia era come vedere un’onda che si
gonfia e si rompe nel mare. La musica
fluiva dentro e fuori di lui come la
marea.
A differenza di Mrs Drummond, la
mia insegnante di musica della scuola,
che si era dimostrata stupita e scettica
riguardo ai miei progressi, Mr Van der
Vliet sembrava indifferente. Parlava di
rado e non sorrideva mai. Benché
vivessimo in un piccolo centro della
Nuova Zelanda, Te Aroha, poche
persone lo conoscevano e, per quanto ne
sapevo, non aveva altri allievi. Mio
padre mi disse che un tempo aveva
suonato nella Royal Concertgebouw
Orchestra di Amsterdam diretta da
Bernard Haitink e che aveva
abbandonato la carriera per trasferirsi in
Nuova Zelanda dopo aver conosciuto
una donna del luogo a uno dei suoi
concerti. Lei era morta in un incidente
d’auto il giorno in cui ero nata io.
Come Mr Van der Vliet, anche mio
padre era un uomo tranquillo, ma si
interessava alla gente e conosceva tutti a
Te Aroha. Prima o poi anche alla
persona più schiva capitava di trovarsi
con una gomma a terra, che fosse di
un’auto, di una moto o di un tosaerba e,
vista la fama che si era fatto di accettare
anche le riparazioni più insignificanti,
mio padre era spesso impegnato in
questo o quel lavoretto per gli abitanti
della nostra cittadina. Tra questi, Mr
Van der Vliet, che un giorno era entrato
nell’officina per far riparare la ruota di
una bicicletta e ne era uscito con
un’allieva di violino.
Provavo una sorta di curiosa lealtà
nei suoi confronti, come se in qualche
modo fossi responsabile della sua
felicità, dato che ero venuta al mondo il
giorno in cui sua moglie era morta. Mi
sentivo in dovere di compiacerlo e sotto
la sua guida mi esercitavo finché non mi
facevano male le braccia e mi si
consumavano i polpastrelli.
A scuola non ero né particolarmente
amata né emarginata. I voti erano nella
media e io non mi distinguevo in alcun
modo tranne che in musica, materia nella
quale le lezioni private unite al talento
mi permettevano di collocarmi ben al di
sopra dei miei coetanei. Mrs Drummond
mi ignorava, forse temendo che la mia
bravura avrebbe fatto sentire inadeguati
o invidiosi i compagni.
Tutte le sere andavo nel garage e
suonavo il violino o ascoltavo dischi, di
solito al buio, fluttuando con la mente
nel repertorio classico. Talvolta mio
padre si univa a me. Quasi mai
parlavamo, ma io mi sentivo sempre
vicina a lui grazie all’esperienza
condivisa dell’ascolto, o forse a causa
della nostra reciproca eccentricità.
Evitavo le feste e non socializzavo
granché. Di conseguenza, le esperienze
sessuali con i ragazzi della mia età
erano
limitate.
Ancor
prima
dell’adolescenza, però, avvertii dentro
di me una tensione, il primo segnale di
quello che in seguito sarebbe diventato
un robusto appetito sessuale. Suonare il
violino sembrava acuire i miei sensi.
Era come se le distrazioni annegassero
nei suoni e tutto sparisse ai margini
della percezione, tranne la sensazione
del mio corpo. Con l’adolescenza
cominciai
ad
associare
questa
sensazione all’eccitazione sessuale. Mi
chiedevo perché il desiderio si
risvegliasse in me con tanta facilità e
per quale motivo la musica avesse un
effetto così potente. Ho sempre temuto
che i miei impulsi fossero eccessivi,
anormali. La mia relazione con Darren
mi spinse a domandarmelo anche più
spesso di prima.
Mr Van der Vliet mi trattava come se
fossi uno strumento. Mi spostava le
braccia nella posizione corretta o mi
metteva una mano sulla schiena per
farmi stare diritta, come se fossi fatta di
legno invece che di carne. Sembrava del
tutto inconsapevole del proprio tocco,
quasi che io fossi un’estensione del suo
corpo. Non si comportò mai in modo
meno che corretto e casto, eppure, a
dispetto di ciò e nonostante la sua età, il
suo odore lievemente acre e il suo viso
ossuto, iniziai a provare qualcosa per
lui. Era insolitamente alto, più alto di
mio padre, forse intorno ai due metri, e
torreggiava sopra di me. Se adesso non
supero il metro e sessantacinque, da
adolescente gli arrivavo a malapena al
petto.
Iniziai ad aspettare con ansia le
lezioni per ragioni che andavano oltre il
piacere di perfezionare il mio modo di
suonare. Di tanto in tanto fingevo di
prendere una stecca o facevo un
movimento goffo del polso nella
speranza che lui mi toccasse la mano per
correggermi.
«Summer» mi disse un giorno con
voce sommessa, «se continui a fare così
non ti darò più lezioni.»
Non suonai mai più una nota
sbagliata.
Fino a quella sera, poche ore prima
che Darren e io litigassimo per via delle
Quattro stagioni.
Stavo suonando una serie di brani con un
aspirante gruppo di blues rock in un bar
di
Camden
Town,
quando
all’improvviso mi si erano irrigidite le
dita e avevo mancato una nota. Nessuno
degli altri membri della band se n’era
accorto e, fatta eccezione per un pugno
di fan sfegatati di Chris, il cantante e
chitarrista, la maggior parte del
pubblico ci ignorava. Era una serata dal
vivo che cadeva di mercoledì e la gente
che frequentava il locale durante la
settimana era persino più distratta degli
ubriachi del sabato sera, perciò a parte i
sostenitori irriducibili, il resto degli
avventori era lì solo per farsi una birra e
due chiacchiere, non certo per ascoltare
musica. Chris mi aveva detto di non
preoccuparmi.
Lui suonava sia la viola sia la
chitarra, anche se aveva quasi
abbandonato il primo strumento per
cercare di conquistarsi un maggior
appeal commerciale con il secondo.
Avevamo entrambi una passione per gli
strumenti a corda e per questa ragione
tra noi si era creata una sorta di legame.
«Capita a tutti, dolcezza» aveva
detto.
Ma non a me. Ero mortificata.
Me n’ero andata senza bere un
bicchiere insieme agli altri del gruppo e
con la metropolitana avevo raggiunto
l’appartamento di Darren a Ealing, dove
ero entrata usando il mazzo di chiavi di
riserva. Avendo fatto confusione con gli
orari dei voli, pensavo che lui sarebbe
arrivato la mattina dopo aver preso
l’ultimo aereo e sarebbe andato in
ufficio senza passare da casa, dandomi
così l’opportunità di dormire in un letto
comodo tutta la notte e di ascoltare un
po’ di musica. Un’altra delle ragioni per
cui continuavo a frequentarlo era la
qualità dell’impianto stereo del suo
appartamento, nonché la superficie di
pavimento libera su cui potersi sdraiare.
Darren era una delle poche persone di
mia conoscenza ad avere ancora un vero
stereo, completo di lettore CD, e a casa
mia non c’era abbastanza spazio per
stare sdraiata per terra, a meno di non
infilare la testa nella credenza.
Dopo qualche ora di Vivaldi in loop,
avevo concluso che la nostra relazione,
benché piacevole, stava soffocando la
mia vena creativa. Sei mesi di arte
moderata, musica moderata, barbecue
moderati con altre coppie moderate e
sesso moderato mi avevano portata a
dare uno strattone alla catena che avevo
acconsentito a farmi mettere al collo, un
cappio che mi ero fabbricata con le mie
stesse mani.
Dovevo trovare un modo per uscirne.
In genere Darren aveva il sonno leggero,
ma dopo i voli di rientro da New York
prendeva regolarmente un sonnifero per
evitare il jetlag. Vedevo baluginare il
blister vuoto nel cestino della
cartastraccia. Persino alle quattro del
mattino aveva scrupolosamente gettato
la confezione nella spazzatura invece di
lasciarla sul comodino fino al giorno
dopo.
I l CD di Vivaldi era a faccia in giù
accanto all’abat-jour. Per Darren
lasciare un CD fuori dalla custodia era la
più grande espressione di disappunto.
Nonostante il sonnifero, ero sorpresa
che riuscisse a dormire con il disco che
rischiava di graffiarsi accanto a lui.
Sgattaiolai fuori dal letto all’alba,
dopo aver dormito al massimo un paio
d’ore, e gli lasciai un biglietto sul
bancone della cucina. “Scusa per il
rumore. Dormi bene. Ti chiamo ecc.”
Presi la Central Line della
metropolitana in direzione del West End
senza sapere esattamente dove stessi
andando. Il mio monolocale era
perennemente in disordine e non mi
piaceva esercitarmi lì troppo spesso,
perché le pareti erano sottili e avevo
paura che gli inquilini della stanza
accanto prima o poi si stancassero del
rumore, per quanto piacevole (o,
almeno, così speravo che fosse).
Smaniavo dalla voglia di suonare, se
non altro per sfogare le emozioni che si
erano accumulate durante la notte.
All’altezza di Shepherd’s Bush la
metropolitana era piena zeppa. Avevo
scelto di rimanere in piedi all’estremità
del vagone, appoggiata a uno dei sedili
pieghevoli vicini alla porta, perché era
più comodo che stare seduta con la
custodia del violino tra le gambe.
Adesso ero schiacciata in mezzo a una
calca di impiegati sudati, sempre più
numerosi a ogni fermata, ogni volto più
infelice del precedente.
Indossavo l’abito lungo di velluto
nero che mi ero messa la sera prima per
il concerto con la band e un paio di Dr
Martens di pelle rosso ciliegia. In
occasione dei concerti di musica
classica mettevo le scarpe con i tacchi,
ma preferivo sostituirle con gli anfibi
per il ritorno a casa perché avevo
l’impressione che conferissero una nota
di minacciosa baldanza ai miei passi
mentre camminavo per l’East End la
sera tardi. In piedi, a testa alta,
immaginavo che, vestita in quel modo, la
maggior parte della gente sul vagone, o
almeno quelli che riuscivano a vedermi
nella calca, sospettassero che stessi
tornando a casa dopo una notte di
passione.
Vaffanculo. Avrei tanto voluto essere
reduce da una notte di passione. Con
Darren sempre in giro per lavoro e io a
suonare in tutte le serate che riuscivo a
procurarmi, era quasi un mese che non
scopavamo. E quando lo facevamo,
raggiungevo raramente l’orgasmo e solo
dopo essermi toccata in fretta e con
imbarazzo, cercando disperatamente di
godere e preoccupata del fatto che
masturbarmi dopo il sesso facesse
sentire il mio partner inadeguato. E
tuttavia lo facevo lo stesso, anche se
sospettavo che lui si sentisse davvero
inadeguato, perché altrimenti avrei finito
per passare le successive ventiquattr’ore
insoddisfatta e tesa.
A Marble Arch salì un muratore.
L’estremità del vagone era già stipata di
gente e gli altri passeggeri lo guardarono
storto mentre cercava di guadagnarsi un
posto in un angolo vicino alla porta
davanti a me. Era alto, muscoloso, e
aveva dovuto rattrappirsi per permettere
alla porta di richiudersi alle sue spalle.
«Andate avanti, per favore» disse un
passeggero in tono forzatamente cortese.
Nessuno si mosse.
Sempre beneducata, spostai il violino
per fare un po’ di spazio, togliendo ogni
schermo tra me e l’uomo.
Il treno ripartì con uno scossone,
facendo
perdere
l’equilibrio
ai
passeggeri. Lui fu sbalzato in avanti e io
irrigidii la schiena per rimanere in
equilibrio. Per un momento sentii il suo
busto premere contro di me. Indossava
una camicia di cotone a maniche lunghe,
un gilet catarifrangente e un paio di
jeans scoloriti. Non era grasso, ma era
massiccio, come un giocatore di rugby
fuori allenamento, e, pigiato in quel
vagone con le braccia alzate per
reggersi al sostegno sopra la sua testa,
dava l’impressione di indossare vestiti
leggermente troppo piccoli per la sua
taglia.
Chiusi gli occhi e immaginai come
potesse essere sotto i jeans. Non avevo
avuto modo di guardarlo sotto la cintura
quando era salito, ma la mano con cui si
teneva al corrimano era grande e tozza,
per cui pensai che la stessa cosa
dovesse valere per il rigonfiamento nei
pantaloni.
Entrammo nella stazione di Bond
Street e una biondina con il viso
atteggiato a una cupa determinazione si
preparò a infilarsi nel vagone affollato.
Pensiero fugace: il treno avrebbe
sussultato di nuovo ripartendo?
Sì.
L’uomo incespicò verso di me e io,
in un impeto di audacia, strinsi le cosce
e percepii il suo corpo che si irrigidiva.
La biondina iniziò a farsi largo, dando
una gomitata nella schiena al muratore
mentre estraeva un libro dalla borsa
voluminosa. Lui mi si avvicinò per
lasciarle un po’ di spazio, o forse
voleva semplicemente godersi la
vicinanza dei nostri corpi.
Strinsi le cosce con più forza.
Il treno sobbalzò di nuovo.
Lui si rilassò.
Adesso il suo corpo premeva con
decisione contro il mio e io,
incoraggiata da quella vicinanza
apparentemente
casuale,
protesi
leggermente il bacino, cosicché adesso i
suoi jeans mi toccavano l’interno della
gamba.
Lui spostò la mano dal sostegno
sopra la testa alla parete del vagone
appena sopra la mia spalla; adesso
sembrava quasi che ci stessimo
abbracciando. Immaginai di sentire il
fiato che gli si mozzava in gola e il
battito che accelerava, anche se
qualunque
possibile
rumore
fu
inghiottito dal fracasso del treno che
correva dentro il tunnel.
Il cuore mi batteva forte, e provai una
fitta di paura, temendo di essermi spinta
troppo in là. Che cosa avrei fatto se
quell’uomo mi avesse rivolto la parola?
E se mi avesse baciata? Mi chiesi come
sarebbe stato avere la sua lingua in
bocca, se fosse uno che sapeva baciare,
il tipo che faceva guizzare la lingua
dentro e fuori come una lucertola, o se
invece mi avrebbe afferrata per i capelli
facendomi reclinare la testa all’indietro
per baciarmi e prendersi quello che
voleva.
Sentii un’ondata di calore umido tra
le cosce e mi resi conto, con un misto di
imbarazzo e piacere, di avere le
mutandine bagnate. Per fortuna avevo
resistito all’impulso di uscire senza
biancheria intima quella mattina,
infilandomi un paio di slip che avevo
lasciato a casa di Darren.
L’uomo muscoloso adesso si era
voltato verso di me, cercando di
incrociare il mio sguardo, ma io tenni gli
occhi bassi e assunsi un’espressione
impassibile, come se la pressione del
suo corpo contro il mio non fosse nulla
di sconveniente, nulla di diverso da
quello che mi capitava ogni giorno in
metropolitana.
Temendo ciò che sarebbe potuto
succedere se fossi rimasta intrappolata
un solo minuto di più fra la parete del
vagone e quell’uomo, sgusciai sotto il
suo braccio e scesi dal treno a Chancery
Lane senza voltarmi. Mi chiesi se mi
avrebbe seguita. Chancery Lane era una
stazione tranquilla; dopo il nostro
contatto sul vagone, gli sarebbe potuto
venire in mente ogni genere di
servizietto clandestino, facilitato dal
mio abito che non avrebbe frapposto
ostacoli. Ma il treno ripartì portandosi
via il mio uomo muscoloso.
Una volta uscita dalla metropolitana,
avevo intenzione di andare al ristorante
francese all’angolo dove servivano le
migliori uova alla Benedict che avessi
mai mangiato da quando avevo lasciato
la Nuova Zelanda. La prima volta,
avevo detto allo chef che la sua era la
colazione più buona di tutta Londra. «Lo
so» aveva ribattuto. Capivo perché gli
inglesi detestavano i francesi: sono un
popolo di spocchiosi, ma a me la cosa
piace, e tornavo in quel ristorante più
spesso che potevo.
Adesso, però, troppo agitata per far
caso alla direzione da prendere, svoltai
a destra invece che a sinistra. In ogni
caso il locale francese non apriva fino
alle nove. Forse avrei trovato un
posticino tranquillo ai Gray Inn’s
Gardens; avrei potuto suonare un po’
prima di far colazione.
Mentre camminavo in cerca del
vicolo privo di cartello stradale che
portava ai giardini, mi resi conto di
trovarmi proprio a Holborn, davanti al
locale di striptease in cui ero stata
qualche settimana dopo il mio arrivo in
Gran Bretagna. C’ero andata con
Charlotte, una ragazza con cui avevo
lavorato per un breve periodo mentre
giravo per l’Outback australiano e che
avevo incontrato di nuovo in un ostello
durante la mia prima sera a Londra. Lei
aveva sentito dire che lì ballare era il
modo più facile per fare soldi. Passavi
un paio di mesi in qualche bettola e poi
trovavi lavoro in uno dei locali chic di
Mayfair, dove le celebrità e i calciatori
ti avrebbero infilato manciate di
banconote nel perizoma come fossero
coriandoli.
Charlotte mi aveva portata con sé in
quel locale per dargli un’occhiata e
vedere se riusciva a trovare un lavoro.
Con mio disappunto, l’uomo che ci
aveva accolte nell’ingresso con la
moquette rossa non ci aveva fatte
entrare, come mi sarei aspettata, in una
stanza piena di signore poco vestite che
si divertivano ballando, ma ci aveva
portate nel suo ufficio attraverso una
porta laterale.
Aveva chiesto a Charlotte di
parlargli
delle
sue
esperienze
precedenti, che non esistevano, a meno
che non si volessero contare come tali le
esibizioni di ballo sui tavoli nei
nightclub. Poi l’aveva squadrata da capo
a piedi come un fantino avrebbe fatto
con un cavallo a una fiera del bestiame.
Dopodiché aveva fatto la stessa cosa
con me.
«Sei in cerca di un lavoro anche tu,
tesoro?»
«No, grazie» risposi. «Ne ho già uno.
Sono qui solo per accompagnare la mia
amica.»
«Niente palpeggiamenti. Li sbattiamo
fuori, se ci provano» aggiunse
speranzoso.
Scossi la testa.
Avevo preso in considerazione la
possibilità di vendere il mio corpo, ma,
a parte i rischi, avrei preferito
prostituirmi. In qualche modo, mi
sembrava più onesto. Trovavo che lo
spogliarello fosse un po’ artefatto.
Perché spingersi fino a un certo punto e
non fare il servizio completo? In ogni
caso, avevo bisogno di avere le serate
libere per i concerti e mi serviva un
lavoro che mi lasciasse energia per
suonare.
Charlotte era rimasta circa un mese in
quel locale, prima di essere licenziata
dopo che una delle altre ragazze aveva
spifferato che era uscita con due clienti.
Una coppia giovane. «Con l’aria
innocente come piace a te» mi aveva
detto Charlotte. Erano arrivati un
venerdì sera tardi, lui su di giri e la sua
ragazza elettrizzata e civettuola, come se
non avesse mai visto il corpo di un’altra
donna. Il ragazzo si era offerto di pagare
un ballo e lei si era guardata intorno nel
locale e poi aveva scelto Charlotte.
Forse perché non aveva ancora nessun
orpello adatto a una spogliarellista o
perché non aveva le unghie finte come le
altre ballerine. Era ciò che la
distingueva. Charlotte era l’unica
spogliarellista che non sembrava tale.
Era bastato qualche istante a far
eccitare la ragazza, e lui era diventato
paonazzo. Charlotte si divertiva a
traviare gli innocenti ed era stata
lusingata dalla loro reazione al modo in
cui lei muoveva il corpo.
Si era protesa in avanti, colmando la
distanza che la separava da loro.
«Vi va di venire da me?» aveva
sussurrato all’orecchio di entrambi.
Dopo un primo imbarazzo i due
avevano finito per accettare e tutti e tre
si erano stipati sul sedile posteriore di
un taxi, diretti all’appartamento di
Charlotte a Vauxhall. La sua proposta di
andare invece a casa della coppia era
stata liquidata in modo sbrigativo.
La faccia della sua coinquilina, mi
aveva raccontato poi, sarebbe stata da
fotografare, quando la mattina dopo
aveva aperto la porta della sua camera
senza bussare per portarle una tazza di tè
e l’aveva trovata a letto non con uno
sconosciuto, ma con due. Adesso sentivo
raramente Charlotte. Londra aveva un
modo tutto suo di inghiottire la gente, e
mantenere i contatti non era mai stato il
mio forte. Però quel locale me lo
ricordavo.
Si trovava non in fondo a un vicolo
buio, come ci si sarebbe potuti
aspettare, ma sulla via principale, tra un
fast food e un negozio di articoli
sportivi. Poco più avanti c’era un
ristorante italiano dov’ero andata una
volta per un appuntamento, reso
memorabile dal fatto che avevo
accidentalmente bruciato il menu
tenendolo aperto sopra la candela al
centro del tavolo.
La porta d’ingresso era un po’
arretrata rispetto alla strada e l’insegna
non era illuminata al neon, ma comunque
se si guardava bene il posto, con la sua
vetrina oscurata e il nome piuttosto
squallido – Sweethearts –, non c’era
possibilità di sbagliarsi sul fatto che si
trattasse di un locale di striptease.
Presa da un’improvvisa curiosità,
strinsi forte la custodia del violino, feci
un passo avanti e spinsi la porta.
Era chiusa. Sbarrata. Il che non era
poi così strano, visto che erano le otto e
mezzo di un giovedì mattina. Spinsi
ancora, sperando che si aprisse.
Niente.
Due uomini su un furgone bianco
rallentarono e abbassarono il finestrino.
«Torna all’ora di pranzo, dolcezza»
mi urlò uno dei due, con un’espressione
più di compassione che di attrazione.
Con il vestito nero e i residui del
pesante trucco da rockettara della sera
prima, probabilmente avevo l’aria di
una ragazza disperata in cerca di un
lavoro. E se lo fossi stata davvero?
Adesso ero affamata e avevo la gola
secca. Le braccia cominciavano a
dolermi, visto che continuavo a stringere
la custodia del violino con forza,
com’ero solita fare quand’ero turbata o
stressata. Non ebbi il coraggio di andare
al ristorante francese senza essermi fatta
una doccia e con addosso gli abiti del
giorno prima. Non volevo che lo chef
pensasse male di me.
Presi la metropolitana per tornare a
Whitechapel, camminai fino al mio
appartamento, mi sfilai il vestito e mi
rannicchiai nel letto. La sveglia era
puntata sulle tre del pomeriggio, così
sarei potuta tornare sottoterra e suonare
per i pendolari dell’ora di punta.
Persino nei giorni peggiori, quelli in
cui le dita erano così goffe da sembrare
salsicce e il cervello come immerso
nella colla, trovavo sempre il modo di
esibirmi da qualche parte, fosse pure in
un parco davanti a un pubblico di
piccioni. Non era tanto perché fossi
ambiziosa o mirassi a fare carriera nel
mondo della musica, anche se
naturalmente sognavo di essere notata e
ingaggiata e di poter suonare al Lincoln
Center o al Royal Festival Hall. No, era
solo perché non potevo farne a meno.
Mi svegliai alle tre, riposata e con una
visione delle cose molto più positiva.
Sono un’ottimista per natura. Ci
vogliono un certo grado di follia o un
atteggiamento molto positivo o un
pizzico di entrambi per indurre una
persona a trasferirsi dall’altra parte del
mondo con nient’altro che una valigia,
un conto in banca in rosso e il sogno di
farcela. I miei malumori non duravano
mai a lungo.
Avevo un guardaroba pieno di vestiti
per suonare in strada, la maggior parte
recuperati nei mercatini e comprati su
eBay, dato che non avevo troppi soldi.
Mettevo raramente i jeans perché,
avendo la vita molto più stretta dei
fianchi, detestavo provarmi i pantaloni,
così indossavo quasi sempre gonne e
abiti. Avevo un paio di jeans tagliati al
ginocchio per i giorni da cowboy,
quando suonavo musica country, ma
quella era una giornata da Vivaldi, il che
imponeva un look più classico. Il vestito
di velluto nero sarebbe stato l’ideale,
ma era appallottolato sul pavimento
dove l’avevo lasciato quella mattina e
aveva bisogno di un altro giro in
lavanderia. Presi invece una gonna nera
a coda di pesce e una camicetta di seta
color crema con un delicato colletto di
pizzo che avevo trovato in un negozio
vintage, lo stesso dove avevo comprato
il vestito nero. Misi dei collant opachi e
un paio di stivaletti alla caviglia con le
stringhe e il tacco basso. L’effetto,
speravo, era pudico, gotico-vittoriano, il
genere di look che io amavo e Darren
detestava; era convinto che il vintage
fosse uno stile per aspiranti alternativi
che si lavavano poco.
Quando arrivai a Tottenham Court
Road, la stazione dove si trovava il mio
posto prestabilito per suonare, la folla
dei pendolari aveva appena iniziato a
infittirsi. Mi sistemai vicino al muro ai
piedi della prima rampa di scale mobili.
Su una rivista avevo letto uno studio
secondo il quale la gente era più
disposta a dare qualcosa a un musicista
di strada se aveva avuto prima qualche
secondo per decidere di mettere mano al
portafoglio. Quindi la mia postazione
era perfetta, perché i pendolari mi
guardavano mentre scendevano con la
scala mobile e avevano l’opportunità di
tirar fuori il denaro prima di passare
oltre. Non ero proprio sul loro percorso,
comunque, e la cosa sembrava
funzionare con i londinesi, ai quali
piaceva avere la sensazione di aver fatto
la scelta di spostarsi di lato per lasciar
cadere gli spiccioli nella custodia del
violino.
Sapevo che avrei dovuto cercare il
contatto visivo e sorridere per
ringraziare le persone che mi davano le
monete, ma ero così persa nella musica
che spesso me ne dimenticavo. Mentre
suonavo Vivaldi, non avrei potuto
connettermi con nessuno. Se nella
stazione fosse scattato l’allarme
antincendio, probabilmente non me ne
sarei neanche accorta. Appoggiavo il
violino sotto il mento e nel giro di
qualche
minuto
i
pendolari
scomparivano. Tottenham Court Road
scompariva. Rimanevamo solo io e
Vivaldi in loop.
Suonai
finché
le
braccia
cominciarono a farmi male e lo stomaco
si mise a brontolare, indizi certi del fatto
che mi ero fermata più a lungo del
previsto. Arrivai a casa alle dieci di
sera.
Contai i soldi solo il mattino dopo e
mi accorsi che c’era una banconota
rossa nuova di zecca ripiegata con cura
all’interno di un piccolo strappo nella
fodera di velluto della custodia.
Qualcuno mi aveva dato cinquanta
sterline.
2
Un uomo e i suoi desideri
Le maree del caso si muovono in modo
curioso. Talvolta aveva la sensazione
che la sua vita fosse scivolata via come
un fiume, il suo corso tortuoso troppo
spesso influenzato da eventi o persone
casuali, e che lui non ne avesse mai
avuto il controllo, limitandosi a lasciarsi
trasportare dall’infanzia all’adolescenza
e poi verso le acque tranquille della
mezza età, come un marinaio ubriaco su
mari ignoti. Ma non erano tutti sulla
stessa barca? Forse lui si era
semplicemente dimostrato un navigatore
migliore e le tempeste lungo la rotta non
erano state troppo violente.
La lezione di quel giorno era durata
più del solito: troppe domande da parte
degli studenti ne avevano interrotto il
flusso. Non che questo fosse un
problema per lui. Più domande facevano
e più obiezioni sollevavano, meglio era.
Significava che erano attenti, interessati
all’argomento. Il che non succedeva
sempre. Quell’anno accademico c’era un
buon gruppo di studenti, uno stimolante
mix di stranieri e inglesi nella giusta
proporzione, che lo teneva vigile e
allerta. A differenza di altri professori,
lui variava molto i suoi corsi, se non
altro per evitare le trappole della noia e
della ripetitività. Quel trimestre i suoi
seminari di letteratura comparata
esploravano il ricorrere del tema del
suicidio e della morte negli scrittori
degli anni Trenta e Quaranta del
Novecento, esaminando i romanzi
dell’americano F. Scott Fitzgerald, del
francese Drieu La Rochelle, spesso
erroneamente etichettato come fascista, e
dell’italiano
Cesare
Pavese.
L’argomento non era particolarmente
allegro, ma sembrava toccare un nervo
scoperto in buona parte del suo
pubblico, soprattutto femminile. Colpa
di Sylvia Plath, concluse. Almeno finché
non avesse spinto troppi di loro a
mettere la testa nel forno per
emulazione, pensò sorridendo.
Lui non aveva bisogno di lavorare.
Una decina d’anni prima, dopo la morte
di suo padre, aveva ereditato una somma
considerevole. Non si sarebbe mai
aspettato una cosa del genere. Il loro non
era stato un rapporto facile e per molto
tempo lui aveva immaginato che a
ereditare sarebbero stati i suoi fratelli,
con cui non aveva contatti regolari né
molto in comune. Era stata una
piacevole sorpresa. Un’altra di quelle
svolte impreviste sulla strada della vita.
Dopo la lezione aveva incontrato un
paio di studenti nel suo ufficio,
prendendo accordi per futuri seminari e
rispondendo alle loro domande, e aveva
scoperto di avere poco tempo. Secondo
i suoi piani, sarebbe dovuto andare a
vedere un nuovo film al cinema Curzon
West End, allo spettacolo del tardo
pomeriggio, ma a questo punto era
impossibile. Poco male. L’avrebbe visto
nel weekend.
Il suo cellulare vibrò ed emise un
bip, scivolando di lato sulla scrivania
come un granchio. Lui lo prese in mano.
C’era un messaggio.
“Ci vediamo? C.”
Dominik sospirò. Sì? No?
La sua storia con Claudia durava da
un anno e lui non sapeva bene cosa
pensare di quella relazione, o di lei.
Tecnicamente era in una botte di ferro,
dato che tutto era cominciato dopo che
Claudia aveva finito di frequentare le
sue lezioni. Solo pochi giorni dopo, si
badi bene. Quindi dal punto di vista
etico non c’erano problemi, ma lui non
era più sicuro di volere che la cosa
continuasse.
Decise di non rispondere subito. Un
po’ di tempo per riflettere. Prese la
logora giacca di pelle nera dal gancio
sul muro, mise i libri e i fogli della
lezione nella borsa di iuta e scese in
strada. Ben coperto contro il vento
gelido che soffiava dal fiume, si
incamminò
in
direzione
della
metropolitana. Era già quasi buio,
l’oscurità grigio piombo dell’autunno
londinese. La folla si faceva minacciosa
a mano a mano che l’ora di punta si
avvicinava, fiotti di pendolari si
affrettavano in entrambe le direzioni,
lambendolo anonimamente. In genere a
quell’ora Dominik era già lontano dal
centro. Era un po’ come vedere un altro
aspetto della città, una dimensione
insolita in cui il mondo robotico del
lavoro prendeva il sopravvento,
opprimente e plumbeo, fuori posto.
Accettò distrattamente il quotidiano
gratuito che qualcuno gli porgeva ed
entrò nella stazione.
Claudia era tedesca, una finta rossa, e
una scopata favolosa. Il suo corpo
spesso sapeva di olio di cocco per via
della crema profumata che si spalmava
sulla pelle. Dopo una notte a letto con
lei di solito Dominik si ritrovava con un
lieve mal di testa a causa di quell’odore.
Non che passassero spesso le notti
insieme. Scopavano, chiacchieravano
svogliatamente e poi si separavano fino
alla volta successiva. Era una relazione
così. Niente legami, niente domande,
nulla
di
esclusivo.
Un
puro
soddisfacimento delle loro reciproche
necessità,
con
proprietà
quasi
terapeutiche. Dominik ci era finito
dentro un po’ per caso; senza dubbio lei
aveva dato dei segnali, un via libera di
qualche tipo nei primissimi giorni, e lui
era consapevole di non aver fatto
deliberatamente il primo passo. Talvolta
le cose vanno proprio così.
Il treno si fermò mentre lui
continuava a sognare a occhi aperti. Era
arrivato alla fermata in cui doveva
cambiare per prendere la Northern Line
attraverso un altro labirinto di corridoi.
Detestava la metropolitana, ma la lealtà
verso gli anni in cui era stato meno ricco
gli impediva quasi sempre di prendere
un taxi per andare e tornare
dall’università. Avrebbe potuto usare la
macchina, e al diavolo la congestion
charge, ma la zona dell’università era
afflitta da una cronica mancanza di
parcheggi, per non parlare dell’ingorgo
in Finchley Road che lo mandava
regolarmente in bestia.
Il familiare odore dell’ora di punta –
sudore, rassegnazione e depressione – di
tanto in tanto gli assaliva i sensi, mentre
lui si dirigeva verso la scala mobile e
udiva il suono di una musica lontana.
Il barista aveva servito loro le
ordinazioni all’esterno. Il solito
espresso doppio per lui e una variante
piuttosto sofisticata di un cappuccino
con aggiunte pseudoitaliane per Claudia.
Lei si era accesa una sigaretta dopo che
lui, pur non fumando, non aveva fatto
obiezioni in proposito.
«Allora, sei soddisfatta del corso?»
le aveva chiesto.
«Sì» aveva risposto lei.
«Adesso cos’hai in programma?
Rimani a Londra a studiare?»
«Forse.» Aveva gli occhi verdi e i
capelli rosso scuro legati in uno
chignon, ammesso che si chiamasse
ancora così. Una sottile frangetta le
ricadeva sulla fronte. «Mi piacerebbe
fare un dottorato, ma non penso di essere
ancora pronta. Forse insegnerò da
qualche parte. Tedesco. Mi è stato
chiesto da più di una persona.»
«Non letteratura?» indagò Dominik.
«Non credo» rispose Claudia.
«Peccato.»
«Perché?» domandò lei con un
sorriso interrogativo.
«Penso che tu sia piuttosto brava.»
«Davvero?»
«Sì.»
«Sei gentile a dirlo.»
Dominik bevve un sorso di caffè. Era
bollente, forte e dolce. Ci aveva messo
quattro zollette di zucchero e l’aveva
mescolato fino a eliminare qualsiasi
traccia dell’originario gusto amaro.
«Figurati.»
«Penso che le tue lezioni fossero
bellissime» osservò lei, abbassando lo
sguardo e quasi sbattendo le ciglia,
anche se lui non era sicuro che l’avesse
fatto davvero per via della penombra in
cui era immerso il loro tavolino. Forse
se l’era solo immaginato.
«Facevi
sempre
domande
interessanti, dimostrando di avere una
buona padronanza dell’argomento.»
«Tu hai una passione profonda… per
i libri» precisò lei in fretta.
«Lo spero» commentò Dominik.
Lei alzò gli occhi e lui notò che era
arrossita dal collo fino allo spettacolare
solco tra i seni, compressi da un
reggiseno push up bianco che faceva
risaltare lo splendore del décolleté.
Indossava sempre camicette bianche
aderenti,
strette
in
vita,
che
enfatizzavano la sua opulenza.
Il segnale era inequivocabile. Ecco
perché lei gli aveva proposto di vedersi
per bere qualcosa! Non aveva niente a
che fare con questioni accademiche.
Adesso era evidente.
Dominik trattenne il respiro per un
momento, mentre valutava la situazione.
Accidenti se era attraente e – pensiero
fugace – erano passati un paio di
decenni dall’ultima volta in cui era stato
a letto con una tedesca, quando lui era
un adolescente e Christel più vecchia di
dieci anni: un divario generazionale,
come l’aveva percepito allora nella sua
ignoranza.
Dopodiché
aveva
sperimentato
diverse
nazionalità
femminili
nella
sua
immatura
esplorazione della geografia del
piacere. Perché no?
Mosse lentamente la mano sul
tavolino e le sfiorò le dita. Unghie
lunghe e appuntite, dipinte di scarlatto, e
due grossi anelli, di cui uno con un
piccolo diamante.
Lei abbassò lo sguardo sulla propria
mano,
rispondendo
all’implicita
domanda di Dominik.
«Sono fidanzata da un anno. Lui è
tornato a casa. Ci vediamo di tanto in
tanto, neppure tutti i mesi. Non sono più
tanto sicura che sia una cosa seria. Nel
caso in cui tu te lo stessi chiedendo.»
Dominik si stava godendo il modo in
cui il suo accento tedesco modulava le
parole.
«Capisco.» Il palmo delle mani di
Claudia era stranamente caldo.
«Tu non porti nessun anello?» chiese
lei.
«No» rispose Dominik.
Un’ora dopo erano nella stanza di
Claudia a Shoreditch, con il chiasso
della folla dei clienti di un nightclub nel
seminterrato che entrava dalla finestra
aperta. «Vieni» le disse.
Si baciarono. L’alito di lei era un
cocktail di sigaretta, cappuccino,
desiderio e intima passione. Claudia
trattenne il respiro quando lui le
accarezzò la vita e premette il petto
contro il suo, percependo il turgore dei
capezzoli che tradiva la sua eccitazione.
Poi espirò sulla pelle tesa del suo collo
quando le infilò delicatamente la lingua
nell’incavo dell’orecchio sinistro, le
mordicchiò il lobo e la leccò mentre lei
si tendeva per il piacere e l’aspettativa.
Chiuse gli occhi.
Dominik cominciò a sbottonarle la
camicetta bianca mentre lei tratteneva di
nuovo il respiro. La stoffa sottile era
così attillata che lui si chiese come
facesse a respirare. Un bottone dopo
l’altro, le liberò la pelle morbida; i
lembi della camicetta si aprirono con
abbandono. I suoi seni erano uno
spettacolo gioioso. Ripide colline in cui
avrebbe potuto nascondersi, anche se in
circostanze normali le sue preferenze
andavano a un’opulenza meno sfacciata.
Claudia era una ragazza imponente sotto
ogni aspetto: dalla personalità alla
naturale esuberanza, alle curve piene del
corpo. La mano di lei indugiò sul
rigonfiamento dei suoi pantaloni. Lui
fece un passo indietro: non aveva alcuna
fretta di essere spogliato.
Allungò una mano e infilò un paio di
dita nei suoi capelli color fuoco,
incontrando la delicata resistenza di
decine di forcine che tenevano in ordine
l’acconciatura. Sospirando, iniziò a
toglierle con movimenti deliberatamente
lenti, liberando le ciocche a una a una e
guardandole ricadere sulle spalle di
Claudia e nascondere le spalline sottili
del reggiseno.
Erano quelli i momenti per cui
viveva. La quiete prima della tempesta.
Il rituale dello svelamento. La
consapevolezza che il punto di non
ritorno era stato ormai raggiunto e che
adesso la scopata sarebbe stata
inevitabile. Dominik voleva assaporare
ogni istante, rallentare il più possibile,
imprimersi nei neuroni ogni ricordo,
visioni nuove di zecca che dalla punta
delle dita si propagavano per il suo
corpo, lungo il membro che diventava
duro, fino al cervello, aggirando il nervo
ottico e fissandosi nella sua mente in un
modo tutto speciale, che le rendeva
indimenticabili e immortali. Un archivio
della memoria a cui avrebbe potuto
attingere, traendone piacere, per una vita
intera.
Fece un respiro profondo, cogliendo
un lieve sentore di olio di cocco.
«Che profumo usi?» le chiese,
incuriosito da quella fragranza insolita.
«Oh, quello» disse Claudia con un
sorriso seducente. «Non è un profumo. È
la crema che mi metto tutte le mattine.
Mi lascia la pelle morbida. Non ti
piace?»
«È particolare, devo ammetterlo»
rispose lui. Poi aggiunse: «Sei tu».
Ci si sarebbe abituato in fretta.
Curioso come ogni donna avesse un
odore caratteristico, una sorta di firma,
un delicato equilibrio sensoriale tra
aroma naturale e profumi e oli
artificiali, dolce e aspro al tempo stesso.
Claudia si sganciò il reggiseno
liberando il seno, sorprendentemente
alto e sodo. Le mani di Dominik
scivolarono verso i suoi capezzoli bruni
ed eretti. Un giorno avrebbe goduto
nello stringerli tra le forcine e si
sarebbe eccitato nell’osservare il dolore
e il piacere che passavano nei suoi
occhi velati di lacrime.
«Durante le lezioni ti ho sorpreso
spesso a fissarmi, sai?» gli disse
Claudia.
«Davvero?»
«Oh, sì» rispose lei con un sorriso.
«Se lo dici tu» commentò lui in tono
malizioso.
E come avrebbe potuto non fissarla?
Indossava sempre gonne cortissime e si
sedeva immancabilmente in prima fila
nell’aula semicircolare, accavallando e
disaccavallando le gambe inguainate nei
collant con un abbandono gioioso e
noncurante e osservando tranquilla il
suo sguardo errante con un sorriso
enigmatico sulle labbra carnose.
«Allora lasciati guardare» disse
Dominik.
La studiò mentre si slacciava la
gonna a motivi Burberry, lasciandola
cadere sul pavimento e facendo un passo
avanti per liberarsene, con ancora
addosso gli stivali di pelle marrone al
ginocchio. Aveva le cosce forti, ma
proporzionate alla sua alta statura e
mentre stava lì in piedi immobile, con il
seno nudo in tutto il suo imperioso
splendore, le culottes nere aderenti, le
autoreggenti in tinta e gli stivali di pelle
lucida, aveva l’aria di un’amazzone
guerriera. Fiera ma arrendevole.
Aggressiva ma pronta a sottomettersi. Si
guardarono negli occhi.
«Tocca a te» gli ordinò.
Dominik si slacciò la camicia e la
lasciò cadere sulla moquette mentre lei
osservava attentamente.
Sulle labbra di Claudia aleggiò un
sorriso complice, ma lui rimase
impassibile e le intimò con lo sguardo di
continuare a spogliarsi.
Lei si piegò in avanti, abbassò la
cerniera degli stivali e li scalciò via in
rapida successione. Quindi arrotolò le
sottili autoreggenti di nylon alle caviglie
e se le tolse. Stava per levarsi anche le
culottes quando Dominik alzò una mano.
«Aspetta» disse. Lei si fermò.
Lui le girò intorno e si inginocchiò
infilando un dito nell’elastico delle
mutandine e ammirando la solidità e la
rotonda perfezione delle sue natiche da
quel nuovo punto di vista, i nei che
punteggiavano qua e là la sua schiena
nuda. Le tirò giù le culottes, rivelando il
biancore del suo sedere sodo. Poi le
diede un colpetto sul polpaccio e lei
sollevò i piedi per farsi togliere le
mutandine, che lui appallottolò e gettò
dall’altra parte della stanza.
Dominik si alzò, rimanendo alle sue
spalle. Adesso lei era completamente
nuda.
«Girati» le disse.
Era depilata in modo integrale, il
monte
di
Venere
insolitamente
prominente con la fessura ben delineata,
una linea retta geometrica tra due sottili
crinali di carne.
Lui allungò una mano verso la fica,
percependone il calore. Poi le fece
scivolare dentro un dito con insolenza.
Era tutta bagnata.
La guardò negli occhi, cercando il
desiderio.
«Scopami» gli disse Claudia.
«Pensavo che non me l’avresti mai
chiesto.»
Mentre percorreva il corridoio in
direzione del marciapiede della
Northern Line scortato dalla folla
dell’ora di punta come un prigioniero
sorvegliato a vista, Dominik udì una
melodia familiare.
Il suono di un violino si fece strada
verso di lui attraverso il sordo rumore
dei
viaggiatori
serali,
finché
all’improvviso si rese conto che
qualcuno in lontananza stava suonando
la seconda parte delle Quattro stagioni,
anche se solo la partitura per violino,
senza
l’animato
contrappunto
dell’orchestra. Ma il timbro era così
penetrante che non aveva bisogno del
supporto di un’orchestra. Dominik
affrettò il passo, mentre la musica
inondava le sue orecchie.
All’incrocio di quattro gallerie, in
uno spazio più ampio in cui due rampe
di scale mobili parallele inghiottivano
torrenti di pendolari e li vomitavano
nelle profondità del sistema di trasporto
sotterraneo, una giovane donna suonava
il violino a occhi chiusi. I capelli rossi
le ricadevano sulle spalle come un
alone, elettrici.
Dominik si fermò, a disagio,
bloccando la strada alla folla dell’ora di
punta. Alla fine si spostò in un angolo
dove non intralciava il flusso e osservò
la musicista più da vicino. No, non
aveva l’amplificatore. La ricchezza del
suono era dovuta solo all’acustica di
quel punto e al vigoroso glissando del
suo archetto sulle corde.
“Accidenti se è brava” pensò.
Era molto tempo che non ascoltava
musica classica suonata dal vivo.
Quando era bambino, sua madre gli
aveva regalato un abbonamento a una
serie di concerti che si tenevano il
sabato mattina al Théâtre du Châtelet di
Parigi, la città in cui suo padre aveva
avviato un’attività e dove tutta la
famiglia era vissuta per dieci anni. Per
sei mesi, generalmente usando i concerti
del mattino come una specie di prova
generale di quelli che si tenevano la sera
destinati a un pubblico adulto,
l’orchestra e i solisti ospiti avevano
offerto una straordinaria introduzione al
mondo e al repertorio della musica
classica. Dominik ne era rimasto
affascinato e in seguito, con grande
stupore di suo padre, aveva speso gran
parte dei pochi soldi che aveva per
comprare dischi (erano ancora gli anni
del glorioso vinile): Čajkovskij, Grieg,
Mendelssohn, Rachmaninov, Berlioz e
Prokof’ev erano tra le figure principali
del suo pantheon personale. Sarebbero
trascorsi altri dieci anni prima del suo
passaggio al rock, quando Bob Dylan
aveva sperimentato l’accompagnamento
di strumenti elettrici e lui aveva
cominciato a farsi crescere i capelli,
come al solito in ritardo nell’aderire a
mode e tendenze. Ancora adesso,
quando viaggiava in macchina, ascoltava
sempre musica classica. Lo rasserenava,
gli schiariva le idee, metteva a tacere gli
insulti degli altri automobilisti causati
dalla sua guida spesso impaziente.
La giovane violinista teneva gli occhi
chiusi e si dondolava leggermente da
una parte all’altra, fondendosi con la
melodia. Indossava una gonna nera al
ginocchio e una camicetta color crema
con il colletto vittoriano che riluceva
debolmente
sotto
l’illuminazione
artificiale del tunnel e scivolava sul suo
corpo senza rivelarne le forme. Dominik
fu immediatamente conquistato dal
delicato pallore del suo collo e dalla
fragilità del suo polso che si piegava per
accompagnare con enfasi il movimento
dell’archetto.
Il violino aveva l’aria di essere
vecchio, rattoppato con il nastro adesivo
e ormai prossimo alla rottamazione, ma
il colore del legno si intonava
perfettamente con quello della fiera
capigliatura della musicista.
Dominik rimase fermo ad ascoltare
per cinque minuti buoni, il tempo come
congelato. Ignorando il flusso dei
pendolari che si affrettavano verso
esistenze e impegni anonimi, guardava la
violinista con rapita attenzione mentre
lei eseguiva le complesse melodie di
Vivaldi con passione e con un completo
disinteresse per ciò che la circondava,
per il pubblico involontario o per la
logora fodera della custodia dello
strumento ai suoi piedi, dove si stavano
lentamente accumulando le monete
(anche se, finché Dominik si trattenne ad
ascoltare affascinato, nessuno fece
un’offerta).
La giovane non aprì mai gli occhi,
persa nella trance, la mente inghiottita
dal mondo dei suoni, volando con le ali
della musica.
Dominik chiuse gli occhi a propria
volta, cercando inconsciamente di unirsi
a lei in quel suo universo privato dove
la melodia cancellava ogni altra cosa.
Ma continuava a riaprirli, desideroso di
cogliere il modo in cui il corpo della
giovane si muoveva impercettibilmente,
ogni tendine dei suoi invisibili muscoli
teso nell’estasi dell’alterità. Accidenti,
moriva dalla voglia di sapere che cosa
stesse provando in quel momento,
mentalmente e fisicamente.
La violinista stava arrivando
velocemente alla fine dell’allegro
dell’Inverno. Dominik tirò fuori il
portafoglio dalla tasca interna della
giacca di pelle e frugò in cerca di una
banconota. Aveva prelevato a un
bancomat prima di andare all’università.
Esitò un attimo tra venti e cinquanta
sterline, guardò la giovane donna dai
capelli rossi e seguì l’onda nascente del
movimento che attraversava il suo corpo
mentre il polso si piegava a una strana
angolatura per appoggiare l’archetto
sulle corde. Per un istante la seta della
sua camicetta si tese fin quasi a
strapparsi, aderendo alla schiena e
rivelando il sottostante reggiseno nero.
Dominik avvertì una tensione nel
basso ventre, che non poté attribuire alla
musica. Prese la banconota da cinquanta
sterline e la mise in fretta nella custodia
del violino, seppellendola sotto le
monete perché non attirasse l’attenzione
di qualche avido passante. Il tutto senza
che la giovane desse segno di averlo
visto.
Se ne andò proprio nel momento in
cui la musica cessava e gli abituali
rumori della metropolitana riprendevano
il sopravvento, mentre i pendolari
continuavano a fluire in tutte le
direzioni.
Più tardi, rientrato a casa, si sdraiò
sul divano ad ascoltare una registrazione
dei concerti di Vivaldi recuperata da
uno dei suoi scaffali, un CD che non
toglieva dalla custodia da anni. Non
ricordava nemmeno di averlo comprato.
Forse gliel’avevano dato in omaggio con
qualche rivista.
Ripensò alla giovane violinista con
gli occhi chiusi (chissà di che colore
erano) mentre suonava con trasporto, e
si chiese che odore potesse avere. La
mente divagò, immaginando la fessura di
Claudia, la sua profondità, le sue dita
che la esploravano, il cazzo che le
premeva contro, la volta in cui lei gli
aveva chiesto di scoparla con il pugno e
il modo in cui la sua mano era scivolata
senza sforzo nel recesso bagnato, poi i
gemiti di lei, l’urlo sulla punta della
lingua e le unghie conficcate
selvaggiamente nella pelle sensibile
della sua schiena. Trattenendo il respiro,
decise che la prossima volta che avesse
scopato Claudia avrebbe messo quella
musica. Sul serio. Anche se nella sua
mente non era Claudia che stava
scopando.
Il giorno successivo non aveva
lezione; nel suo orario tutti i corsi erano
concentrati in due giorni della settimana.
Eppure, d’impulso, Dominik uscì di casa
all’ora di punta e andò alla stazione di
Tottenham Court Road. Voleva rivedere
la giovane musicista. Forse scoprire di
che colore aveva gli occhi. Capire quali
altri pezzi aveva nel suo repertorio.
Vedere se si vestiva in modo diverso a
seconda della giornata o del tipo di
musica.
Ma lei non c’era. Al suo posto un
tizio con i capelli lunghi e unti e
l’atteggiamento arrogante infliggeva agli
indifferenti passanti una versione
malamente suonata di Wonderwall degli
Oasis, seguita da una versione ancora
più penosa di Roxanne dei Police.
Dominik imprecò sottovoce.
Speranzoso, tornò alla stazione per
cinque sere consecutive.
Ma si imbatté solo in una serie di
artisti che suonavano – più o meno bene
– Dylan e gli Eagles o cantavano pezzi
d’opera con un accompagnamento
orchestrale
preregistrato.
Nessuna
violinista. Sapeva che i suonatori di
strada avevano ore e luoghi prestabiliti
per esibirsi, ma non aveva modo di
scoprire quali fossero quelli della
giovane violinista. Per quello che ne
sapeva, avrebbe anche potuto essere
un’abusiva e non ricomparire mai più.
Alla fine, telefonò a Claudia.
Sembrò una scopata vendicativa,
come se lui dovesse punirla perché non
era un’altra; le ordinò di mettersi a
quattro zampe e la prese con più
violenza del solito. Lei non disse nulla,
ma lui sapeva che non le piaceva.
Allungò le mani sopra la sua schiena, le
afferrò brutalmente i polsi e glielo infilò
dentro più a fondo che poteva,
fregandosene del fatto che lei non era
eccitata, godendosi il calore bruciante
dei suoi più remoti recessi mentre si
muoveva con regolarità meccanica,
guardando con gusto perverso il suo
culo che cedeva sotto i suoi affondi, una
visione pornografica nella quale sguazzò
senza vergogna. Se avesse avuto una
terza mano, l’avrebbe presa per i capelli
tirandole indietro la testa con violenza.
Perché a volte era così furioso? Claudia
non aveva fatto niente di male.
Forse si stava stancando di lei ed era
arrivato il momento di lasciarla. Ma per
chi?
«Ti piace farmi male?» gli chiese
Claudia più tardi mentre bevevano un
drink a letto, esausti, sudati, stravolti.
«A volte sì» rispose Dominik.
«Sai che non m’importa, vero?» disse
lei.
Lui sospirò. «Lo so. Forse è per
questo che lo faccio. Ma ciò significa
che ti piace?» domandò lui.
«Non ne sono sicura.»
Poi il silenzio che spesso li divideva
dopo il sesso scese tra loro, e
scivolarono nel sonno. Lei se ne andò la
mattina presto, lasciando un messaggio
di scuse, che alludeva a un colloquio di
qualche genere, e una macchia di tinta
per capelli sul cuscino come uniche
tracce della sua presenza lì durante la
notte.
Passò un mese, durante il quale Dominik
non ascoltò più musica classica quando
era a casa da solo. Non sembrava la
cosa giusta da fare. Si stava avvicinando
la fine del trimestre e lui avvertiva
l’urgenza
di
fare
un viaggio.
Amsterdam?
Venezia?
Un
altro
continente? Seattle? New Orleans? Per
qualche ragione tutte quelle mete che un
tempo aveva apertamente vagheggiato
non esercitavano più la stessa attrazione.
Era uno stato d’animo che lo turbava
profondamente e che aveva provato di
rado in passato.
Claudia era tornata ad Hannover per
trascorrere qualche settimana con la sua
famiglia e lui non aveva l’energia di
cercare un’altra con cui divertirsi e
scopare, né riusciva a pensare a una
donna del suo passato con cui
desiderasse rimettersi in contatto. Non
era nemmeno dell’umore giusto per
frequentare amici o parenti. C’erano
giorni in cui arrivava addirittura a
pensare che il suo potere di seduzione
l’avesse abbandonato.
Mentre andava a vedere un film al
National Film Theatre nel South Bank,
prese un quotidiano gratuito da un uomo
davanti all’ingresso della stazione di
Waterloo e senza pensarci lo infilò nella
borsa di iuta, dimenticandosene
completamente fino a metà pomeriggio
del giorno dopo. Sfogliando il giornale,
Dominik si imbatté in una notizia di
cronaca locale che non aveva trovato
posto sul “Guardian” del mattino. Si
trovava nella sezione Notizie dalla
metropolitana, che in genere riportava
storie di oggetti smarriti strampalati o
aneddoti insulsi su animali domestici e
pendolari arrabbiati.
A quanto pareva, il giorno prima una
violinista di strada era rimasta
involontariamente coinvolta in una rissa,
mentre suonava nella stazione di
Tottenham Court Road. Un gruppo di
tifosi ubriachi di una squadra di calcio
locale che erano diretti a una partita allo
stadio di Wembley avevano scatenato un
violento tafferuglio, costringendo i
funzionari del trasporto pubblico a
intervenire con la forza; sebbene non
coinvolta direttamente, la giovane era
stata presa a spintoni e aveva perso il
suo strumento, che era stato calpestato e
distrutto durante lo scontro.
Dominik lesse il trafiletto due volte,
correndo con gli occhi alla chiusa. Il
nome della donna era Summer. Summer
Zahova.
Nonostante
il
cognome
dell’Europa orientale, a quanto pareva
era neozelandese.
Doveva essere lei.
Tottenham Court Road, il violino…
Chi altri poteva essere?
Era improbabile che la giovane
tornasse a suonare dato che non aveva
più il suo strumento, perciò le occasioni
di incontrarla di nuovo, per non dire di
ascoltare la sua musica, erano svanite
come la neve al sole. Dominik si
appoggiò allo schienale della sedia e
senza volerlo appallottolò il giornale,
gettandolo a terra in un impeto di rabbia.
Aveva un nome: Summer.
Si ricordò che qualche anno prima
aveva “pedinato” in modo nient’affatto
invasivo un’ex amante su Internet, solo
per sapere che cosa ne era stato di lei
dopo la fine della loro storia. Si era
trattato di stalking a senso unico, dal
momento che lei era rimasta del tutto
all’oscuro
della
sua
discreta
sorveglianza.
Andò nel suo studio, avviò il
computer e cercò su Google il nome
della musicista. C’erano pochissimi
risultati, che però rivelavano che lei
aveva un profilo su Facebook.
La foto allegata era semplice e
vecchia di qualche anno, ma lui
riconobbe subito la giovane violinista.
Forse era stata scattata in Nuova
Zelanda, il che lo indusse a chiedersi da
quanto tempo lei fosse a Londra, o in
Inghilterra. Aveva un’aria rilassata e le
sue labbra, non contratte nello sforzo di
suonare il violino, erano dipinte di un
rosso brillante. Dominik non poté fare a
meno di chiedersi come sarebbe stato
avere l’uccello dentro quella bocca
deliziosa.
La pagina di Summer Zahova era in
parte protetta e lui non riuscì a dare
un’occhiata alla bacheca né alla lista dei
suoi amici. A parte il nome, la città
d’origine e la residenza a Londra, i
dettagli personali erano scarsi: un
interesse dichiarato sia per gli uomini
sia per le donne, un elenco di
compositori classici e qualche artista
pop. Nessun accenno a libri o film;
chiaramente, non era il genere di
persona che passava molto tempo su
Facebook.
Se non altro, adesso lui aveva un
punto di partenza.
Quella sera, dopo aver valutato una
serie di pro e contro, Dominik tornò al
suo portatile, si registrò su Facebook e
creò un nuovo account con un nome
falso, inserendoci il minimo possibile di
dati personali, cosa che in confronto
faceva sembrare la pagina di Summer
ricca di dettagli. Esitò sulla scelta della
foto, prendendo in considerazione la
possibilità di scaricare l’immagine di
qualcuno con un’elaborata maschera di
carnevale, ma alla fine lasciò lo spazio
vuoto. Sarebbe risultato un po’
melodrammatico. A suo parere, il testo
di per sé era abbastanza intrigante ed
enigmatico.
Adesso, con la sua nuova identità,
digitò un messaggio per Summer:
Cara Summer Zahova,
mi è dispiaciuto moltissimo apprendere
della tua disavventura. Sono un grande
ammiratore del tuo talento musicale, e
per essere sicuro che tu possa continuare
a esercitarti vorrei regalarti un violino
nuovo.
Ti va di accettare la mia offerta e le mie
condizioni?
Evitò deliberatamente di firmarsi e
cliccò sul tasto INVIA.
3
Una ragazza e il suo culo
Fissai i pezzi del mio violino con una
strana sensazione di distacco.
Senza lo strumento tra le mani era
come se non fossi davvero presente,
come se osservassi la scena dall’alto.
“Dissociazione” l’aveva chiamata il mio
consulente per l’orientamento al liceo,
quando avevo cercato di spiegargli
come mi sentivo nei momenti in cui non
tenevo in mano un violino. Io preferivo
pensare ai miei strani voli mentali
dentro e fuori dalla musica come a una
specie di magia, anche se immaginavo
che la mia capacità di scomparire nella
melodia, in realtà, fosse solo
l’accresciuta consapevolezza in una
parte del cervello, risultante da una
sorta di desiderio molto concentrato.
Avrei potuto piangere, se fossi stata
il tipo che piangeva. Non che non
rimanessi turbata dagli eventi, ma avevo
un modo diverso di affrontare le
emozioni: i sentimenti penetravano in me
a poco a poco e in genere si sfogavano
attraverso l’archetto del violino o altre
manifestazioni fisiche, come il sesso
arrabbiato ed emotivo o le furiose
nuotate in piscina.
«Spiacente,
dolcezza»
aveva
farfugliato
uno
degli
ubriachi,
avvicinandosi barcollante e alitandomi
in faccia il suo fiato puzzolente di alcol.
Quel giorno c’era una partita da
qualche parte in città e due gruppi di
supporter vestiti con i colori della loro
squadra e appartenenti a tifoserie
avversarie si erano scontrati nella
stazione della metropolitana mentre
andavano allo stadio. Il tafferuglio era
scoppiato a pochi metri dal punto in cui
stavo suonando. Come al solito, ero così
immersa nella musica che non avevo
sentito le parole che si erano scambiati e
che avevano scatenato la rissa. Non mi
ero nemmeno accorta dello scontro
finché un uomo grande e grosso non mi
era venuto addosso, facendo volare il
violino contro il muro, rovesciando la
custodia e mandando le monete a
rotolare dappertutto come biglie nel
cortile di una scuola.
La stazione di Tottenham Court Road
è sempre affollata e ben sorvegliata. Un
paio di corpulenti funzionari del
trasporto pubblico avevano diviso i
contendenti e minacciato di chiamare la
polizia. I bollenti spiriti si erano
rapidamente calmati e i tifosi erano
scomparsi come ratti nei meandri della
stazione, precipitandosi giù dalle scale
mobili e lungo le gallerie, rendendosi
forse conto che, se avessero indugiato
ancora, avrebbero fatto tardi alla partita,
o addirittura sarebbero stati arrestati.
Mi afflosciai contro la parete dove
poco prima stavo suonando Bittersweet
Symphony e mi strinsi al petto il violino
rotto come se fosse un bambino. Non era
uno strumento costoso, ma aveva un
suono bellissimo e mi sarebbe mancato.
Mio padre l’aveva comprato usato in un
negozio di Te Aroha e me l’aveva
regalato per Natale cinque anni prima.
Preferisco i violini di seconda mano e
mio padre ha sempre avuto fiuto, una
particolare abilità nello scegliere, in
mezzo a un mucchio di robaccia, lo
strumento che poteva ancora essere
utile. Per lui era diventata un’abitudine
comprarmi i violini – un po’ come mia
madre e mia sorella mi compravano
abiti e libri che pensavano potessero
piacermi – e ognuno di essi era perfetto.
Mi piaceva immaginare le persone che
l’avevano suonato prima di me, il modo
in cui l’avevano tenuto, le mani per cui
era passato; tutti i precedenti proprietari
avevano lasciato un frammento della
loro storia, un pizzico di amore, di
perdita e di follia nella cassa dello
strumento, emozioni che io potevo tirar
fuori dalle corde.
Quel violino aveva viaggiato
attraverso la Nuova Zelanda e poi
attraverso il mondo insieme a me. Era
sicuramente agli sgoccioli; avevo
dovuto ripararlo con il nastro adesivo in
un paio di punti in cui aveva preso un
colpo nel corso del lungo viaggio verso
Londra l’anno precedente, ma il suono
era ancora puro e tra le mie braccia era
perfetto. Trovare un sostituto sarebbe
stato un incubo. Darren aveva spesso
insistito perché lo assicurassi, ma io non
avevo mai avuto il denaro per farlo. Non
potevo permettermi un altro violino, né
nuovo né usato, né buono né scadente.
Perlustrare i mercatini in cerca di un
affare avrebbe potuto richiedere
settimane e non riuscivo a indurmi a
comprarlo su eBay senza prima averlo
tenuto in mano e averne ascoltato il
suono.
Mentre mi aggiravo per la stazione
della metropolitana raccogliendo le
monete sparpagliate ovunque, con il
violino distrutto in mano, mi sentii una
miserabile. Uno dei funzionari del
trasporto pubblico mi chiese i dettagli
per scrivere il rapporto sull’incidente e
fu chiaramente contrariato dalle poche
informazioni che potei fornirgli.
«Non è una buona osservatrice, eh?»
commentò beffardo.
«No» risposi, fissando le sue mani
grassocce mentre tamburellava sul
taccuino. Aveva le dita pallide e tozze,
simili a qualcosa che si guarderebbe con
disgusto se lo si trovasse infilzato su uno
stuzzicadenti sopra un vassoio a un
ricevimento. Quelle erano le mani di una
persona che non suonava uno strumento
musicale né sedava risse molto spesso.
A dir la verità, io detesto il calcio,
anche se non lo ammetterei mai
chiacchierando con un inglese. Come
regola generale, i calciatori sono troppo
fini per i miei gusti. Durante le partite di
rugby, perlomeno, posso dimenticarmi
lo sport e concentrarmi sulle cosce forti
e muscolose degli attaccanti e sui
calzoncini che si sollevano minacciando
di rivelare natiche straordinariamente
sode. Non pratico nessun gioco di
squadra,
preferendo
sport
più
individuali come il nuoto, la corsa e il
sollevamento pesi in palestra, che mi
consente di tenere allenate le braccia
per affrontare lunghe sessioni di musica.
Alla fine, riuscii a recuperare tutte le
mie cose, a infilare i pezzi del violino
nella custodia e sfuggire allo sguardo
corrucciato e vigile dei funzionari del
trasporto pubblico.
Avevo raccolto meno di dieci
sterline dai pendolari di passaggio
prima che i teppisti mi distruggessero il
violino. Era passato un mese da quando
il misterioso passante mi aveva lasciato
cinquanta sterline. Avevo ancora la
banconota, nascosta al sicuro nel
cassetto della biancheria intima, anche
se Dio solo sapeva quanto avessi
disperatamente bisogno di spenderla.
Avevo aumentato le ore di servizio alla
caffetteria dove lavoravo part-time, ma
da qualche settimana non avevo un
ingaggio pagato, e nonostante vivessi di
cibo da fast food e spaghetti in scatola
avevo dovuto intaccare i miei risparmi
per pagare l’affitto dell’ultimo mese.
Avevo visto Darren solo una volta dopo
la nostra lite su Vivaldi e gli avevo
spiegato, probabilmente male, che
attraversavo un momento di difficoltà e
avevo bisogno di una pausa nella nostra
relazione per concentrarmi sulla musica.
«Mi stai lasciando per stare con un
violino?»
Darren sembrava incredulo. Era
benestante, di bell’aspetto e in età da
matrimonio; nessuno aveva mai rotto con
lui.
«Solo una pausa.»
Fissai la gamba di uno dei suoi alti
sgabelli d’acciaio di design. Non
riuscivo a guardarlo negli occhi.
«Nessuno si prende solo una pausa,
Summer. Frequenti qualcun altro? Chris
della band?»
Mi prese una mano tra le sue.
«Accidenti, hai i palmi freddi» disse.
Mi guardai le dita. Le mani sono
sempre state la parte di me che
preferisco. Ho le dita lunghe e molto
sottili: dita da pianista, come dice mia
madre.
Sentii un’improvvisa ondata di affetto
per Darren e mi girai verso di lui. Gli
passai una mano tra i capelli folti,
tirandoglieli appena.
«Ahi» disse. «Non fare così.»
Si protese verso di me e mi baciò. Le
sue labbra erano asciutte, il suo tocco
esitante. Non fece alcun gesto per
attirarmi a sé. La sua bocca sapeva di tè
e io provai un immediato moto di
repulsione.
Lo respinsi e mi alzai, preparandomi
a prendere il violino e la borsa in cui
c’erano un po’ di biancheria intima, uno
spazzolino da denti, le poche cose che
tenevo in un cassetto nel suo
appartamento.
«Ehi, dici di no al sesso?» chiese in
tono beffardo.
«Non mi sento bene» risposi.
«E così, per la prima volta nella sua
vita, Miss Summer Zahova ha mal di
testa.»
Adesso era in piedi anche lui, con le
mani sui fianchi come una madre che
rimprovera un bambino capriccioso.
Presi la custodia del violino e la borsa,
mi girai e me ne andai. Indossavo i
vestiti che gli piacevano di meno –
Converse alte rosse, pantaloncini di
jeans, collant opachi e una maglietta con
un teschio – e mentre aprivo la porta mi
sentii più me stessa di quanto mi fossi
sentita da mesi, come se mi fossi
liberata di un peso.
«Summer…» Darren mi corse dietro
e mi trattenne per un braccio, facendomi
girare verso di lui. «Ti chiamo, okay?»
disse.
«Va bene.» Me ne andai senza
voltarmi, immaginando che lui mi stesse
guardando dileguarmi giù per le scale.
Udii il clic della serratura della porta
proprio mentre giravo l’angolo della
rampa successiva, ormai fuori dalla
vista.
Da allora mi aveva chiamata
regolarmente, all’inizio tutte le sere e
poi due o tre volte alla settimana, dato
che io ignoravo i suoi messaggi. Un paio
di volte mi aveva telefonato alle tre del
mattino, ubriaco, farfugliando messaggi
incomprensibili
sulla
segreteria
telefonica.
“Mi manchi, piccola.”
Non mi aveva mai chiamata
“piccola” – in effetti, diceva di detestare
quella parola – e io iniziai a chiedermi
se l’avessi mai conosciuto davvero.
Di sicuro non avrei telefonato a
Darren adesso, anche se sapevo che
avrebbe colto al volo l’occasione di
comprarmi un violino nuovo. Detestava
quello vecchio, convinto che fosse uno
strumento scadente, non adatto a una
violinista classica. Detestava anche che
suonassi per la strada, ritenendola una
cosa indegna di me, anche se io sapevo
che era soprattutto preoccupato per la
mia sicurezza personale. E a ragione,
avrebbe detto adesso.
Rimasi ferma all’incrocio fuori dalla
stazione della metropolitana, con il
traffico che sfrecciava e i passanti che
sgomitavano in tutte le direzioni, e
riflettei sul da farsi. Non avevo nessun
amico a Londra, a parte le coppie che
Darren e io avevamo frequentato in
occasione di cene e di inaugurazioni di
gallerie d’arte, ma, per quanto fossero
piacevoli, si trattava di amici più suoi
che miei. Anche se avessi voluto
contattarne qualcuno, non avevo i loro
numeri di telefono. Era stato Darren a
organizzare tutte le uscite. Io mi ero
semplicemente aggregata. Tirai fuori il
cellulare e feci scorrere i numeri della
rubrica. Pensai di chiamare Chris. Era
un musicista, avrebbe capito – anzi, si
sarebbe arrabbiato se avesse scoperto
che avevo esitato a telefonargli – ma non
potevo tollerare la comprensione o,
peggio, la pietà. Sarei crollata e a quel
punto non sarei riuscita a combinare
niente.
Charlotte. L’amica del locale di
striptease.
Non la vedevo da un anno e non
avevo più sue notizie, a parte qualche
post su Facebook, ma confidavo nel fatto
che, se non altro, mi avrebbe tirata su di
morale, distraendomi dalla catastrofe
del violino.
Premetti
il
tasto CHIAMA del
cellulare.
Il telefono squillò. Rispose una voce
maschile, sensuale e assonnata, come di
uno che si fosse appena svegliato in
modo alquanto piacevole.
«Pronto?» dissi.
Faticavo a sentire sopra il frastuono
del traffico. «Mi scusi» mi affrettai ad
aggiungere, «devo aver fatto il numero
sbagliato. Cerco Charlotte.»
«Oh, è qui» disse l’uomo. «Solo che
in questo momento è impegnata.»
«Posso parlarle? Può dirle che sono
Summer?»
«Ah… Summer, Charlotte sarebbe
felicissima di parlarti, ne sono certo, ma
in questo momento ha la bocca piena.»
Sentii una risatina e rumori soffocati,
poi la voce di Charlotte.
«Summer, tesoro!» esclamò. «Sono
passati secoli!»
Altri rumori, e poi un gemito
soffocato.
«Charlotte? Ci sei?»
Un altro gemito. Altri rumori
indistinti.
«Rimani in linea» mi disse Charlotte.
«Dammi un minuto.» Il rumore attutito di
una mano che copriva il microfono e, in
sottofondo, una risatina maschile di
gola. «Smettila» sentii che sussurrava.
«Summer è un’amica.» Poi tornò a
rivolgersi a me. «Scusami, tesoro,
Jasper stava cercando di distrarmi.
Come stai? È passato un sacco di
tempo.»
Li immaginai a letto insieme e provai
una fitta di invidia. Charlotte era l’unica
ragazza di mia conoscenza che fosse
dotata di una carica sessuale che
sembrava rivaleggiare con la mia, ed era
disinibita come io non ero mai stata.
Aveva una vitalità sfacciata e l’energia
di cui è carica l’atmosfera dopo una
tempesta tropicale, con il suo calore
umido e il suo rigoglio esuberante.
Mi venne in mente la volta in cui
eravamo andate in un sexy shop di Soho
poche ore prima del colloquio al locale
di striptease vicino a Chancery Lane. Un
po’ imbarazzata, io l’avevo osservata
mentre esaminava dildi di tutte le forme
e dimensioni, sfregandoseli contro la
pelle sottile all’interno del polso per
capire che sensazione davano.
Si era persino avvicinata all’uomo
dall’aria annoiata che stava alla cassa e
gli aveva chiesto delle batterie, che poi
aveva inserito con un movimento esperto
alla base di due vibratori, simili ma
leggermente diversi. La punta di uno dei
due era piatta, mentre quella dell’altro
terminava con una specie di sporgenza
fatta apposta per massaggiare il clitoride
durante la vibrazione. Si era passata uno
di quei giocattoli vibranti sul braccio,
poi aveva fatto la stessa cosa con
l’altro, quindi si era rivolta di nuovo
all’uomo alla cassa.
«Secondo lei, qual è meglio?»
Lui l’aveva fissata come se fosse
un’aliena. Io sarei voluta sprofondare.
«Non. Lo. So» aveva risposto lui,
facendo una pausa tra una parola e
l’altra per consentirle di afferrare
meglio il concetto.
«Come fa a non saperlo?» aveva
detto lei, nient’affatto scoraggiata dal
tono scorbutico del tizio. «Lavora qui.»
«Io non ho la vagina.»
Charlotte aveva subito tirato fuori la
carta di credito e aveva comprato
entrambi i vibratori.
Eravamo uscite dal negozio e lei si
era fermata di colpo davanti a una di
quelle toilette pubbliche che sembrano
navicelle spaziali e si aprono con un
pulsante laterale. Sospettavo che
venissero usate raramente per il vero
scopo per cui erano state progettate.
«Non ti dispiace, vero?» aveva detto
Charlotte, entrando e premendo il
pulsante di chiusura prima che io potessi
replicare.
Ero rimasta fuori, arrossendo
violentemente
nell’immaginarmela
dentro quel cubicolo con le mutandine
abbassate e intenta prima a infilarsi
dentro uno dei due vibratori e poi a
passarselo intorno al clitoride. Era
uscita cinque minuti dopo, sorridendo.
«Il migliore è quello con la punta
piatta» aveva commentato. «Vuoi fare un
giro? Ho portato detergente e salviette.
E il lubrificante.»
«No, grazie» avevo risposto,
chiedendomi che cosa avrebbe pensato
la gente che passava se avesse sentito la
nostra conversazione. Con mia sorpresa,
l’immagine di Charlotte che si
masturbava nella toilette mi aveva
eccitata. Non gliel’avrei detto, ma di
sicuro il lubrificante non sarebbe stato
necessario.
«Come vuoi» aveva ribattuto lei
noncurante, lasciando cadere i vibratori
nella borsetta.
Nonostante il violino fracassato e la
stretta al cuore che provavo pensandoci,
immaginare Charlotte nuda all’altro
capo del telefono, le lunghe gambe
abbronzate allargate distrattamente sul
letto sotto lo sguardo attento di Jasper,
mi eccitò.
«Sto bene» dissi mentendo, e poi le
raccontai quello che era successo nella
metropolitana.
«Oddio, poverina. Vieni qui. Per te
butterò fuori dal letto Jasper.»
Mi mandò un SMS con l’indirizzo e
nel giro di un’ora ero accoccolata su una
sedia a dondolo nel salotto del suo
appartamento di Notting Hill, intenta a
sorseggiare un espresso doppio da una
delicata tazzina di porcellana con
piattino abbinato. La situazione di
Charlotte era decisamente cambiata
dall’ultima volta che l’avevo vista.
«Allora ballare rende?» le chiesi
guardando la stanza spaziosa, il
pavimento di legno lucido e il grande
televisore a schermo piatto appeso alla
parete.
«Santo cielo, no» rispose lei,
spegnendo la macchina per il caffè. «Era
orribile. Non guadagnavo niente e mi
hanno licenziata di nuovo.»
Prese la sua tazzina e si diresse verso
il divano. Sospettavo che i suoi capelli
castani
adesso
lunghissimi
e
perfettamente lisci fossero dovuti alle
extension, ma constatai con piacere che
non aveva ancora le unghie finte.
Charlotte non era una persona timida, ma
aveva classe.
«Gioco a poker online» aggiunse poi,
accennando con la testa al grande Mac
che stava sulla scrivania in un angolo
della stanza. «Ho fatto un sacco di
soldi.»
In fondo al corridoio si aprì una porta
da cui uscì del vapore: presumibilmente
si trattava del bagno. Mentre mi
osservava girare la testa in quella
direzione, Charlotte fece un sorriso
languido.
«Jasper» spiegò. «Si sta facendo la
doccia.»
«Vi frequentate da molto?»
«Da abbastanza» rispose con un
ampio sorriso, mentre lui entrava nel
salotto con passo indolente.
Era uno degli uomini più belli che
avessi mai visto. Capelli neri e folti,
ancora umidi per la doccia, cosce snelle
inguainate in un paio di jeans tagliati al
ginocchio, una camicia sportiva con tutti
i bottoni slacciati a rivelare addominali
scolpiti e una sottile striscia di peli che
scendeva fino all’inguine. Rimase in
piedi in silenzio vicino alla cucina,
sfregandosi
i
capelli
con
un
asciugamano, come se stesse aspettando
qualcosa.
«Fammi congedare questo delizioso
ragazzo»
mi
disse
Charlotte
strizzandomi l’occhio e alzandosi dal
divano.
La vidi estrarre un fascio di
banconote da una busta su uno dei
ripiani della libreria e metterglielo in
mano. Lui prese il denaro e se lo infilò
con discrezione nella tasca posteriore
dei jeans, senza preoccuparsi di
contarlo.
«Grazie» le disse Jasper. «È stato un
vero piacere.»
«Il piacere è stato mio» replicò lei,
aprendo la porta e baciandolo
dolcemente su entrambe le guance per
salutarlo.
«È una frase che ho sempre voluto
dire» commentò poi, lasciandosi cadere
di nuovo sul divano.
«È un…?»
«Gigolò?» disse, finendo la frase al
mio posto. «Sì.»
«Ma sono sicura che avresti
potuto…»
«Rimorchiare qualcuno?» concluse,
anticipandomi di nuovo. «È probabile.
Ma mi piace pagare. Mettermi nei panni
di chi sta dall’altra parte, se capisci ciò
che voglio dire. E poi non devo
preoccuparmi di tutte le altre stronzate.»
Mi rendevo perfettamente conto del
fascino di una simile situazione. In quel
momento – anzi, in realtà, in quasi
qualunque altro momento – avrei ucciso
per una scopata senza sensi di colpa,
senza complicazioni e senza dolore.
«Hai impegni per stasera?» mi chiese
all’improvviso.
«No» risposi, scuotendo la testa.
«Perfetto. Voglio portarti fuori.»
Protestai che non ero dell’umore
giusto e che non avevo né vestiti adatti
né denaro. Inoltre, detestavo i nightclub,
pieni di ragazze che sbattevano le ciglia
finte per rimediare un drink e di vecchi
che cercavano di palparti senza darlo a
vedere.
«Servirà a distrarti. Offro io. Ho la
mise che fa per te. E poi questo posto è
diverso. Ti piacerà.»
Qualche ora dopo ero a bordo di una
grande barca ancorata sul Tamigi che
una volta al mese si trasformava in un
fetish club.
«Che cosa vuol dire esattamente
fetish?» avevo chiesto nervosa a
Charlotte.
«Oh, niente di che» aveva risposto
lei. «Le persone indossano meno vestiti
del solito, ma alla loro maniera. E sono
più simpatiche.»
Mi aveva fatto un sorriso radioso e
mi aveva detto di rilassarmi con un tono
che lasciava intendere che stavo facendo
esattamente l’opposto.
Indossavo un corsetto azzurro con le
stecche, culottes con i merletti e calze
con una cucitura blu che andava dalla
coscia alla caviglia e finiva dentro
scarpe color argento con il tacco a
stiletto. Charlotte mi aveva cotonato i
capelli in una massa di riccioli,
raddoppiando il volume già consistente
della mia zazzera rossa, poi mi aveva
messo sulla testa un cappello a cilindro
inclinato in modo sbarazzino. Mi aveva
accuratamente profilato gli occhi con
una generosa dose di eyeliner nero, mi
aveva messo un rossetto vivace e lucido
sulle labbra, e mi aveva passato un po’
di vaselina sulle guance per dar loro una
lieve luminosità argentea. Il corsetto era
un po’ troppo grande per me e lei aveva
dovuto stringermelo in vita, mentre le
scarpe erano piccole e mi rendevano
difficile camminare, ma l’effetto
complessivo, speravo, era piacevole.
«Wow!» aveva esclamato Charlotte,
squadrandomi dalla testa ai piedi dopo
aver finito di agghindarmi. «Sei
eccitante.»
Mi ero avvicinata goffamente allo
specchio. Accidenti, alla fine di quella
serata avrei avuto un terribile mal di
piedi: le scarpe stringevano già.
Avevo constatato con piacere che la
definizione che Charlotte aveva dato di
me era appropriata, anche se non l’avrei
ammesso a voce alta, in ossequio a
presunte regole di comportamento.
Avevo assunto, anzi, un’aria modesta.
La ragazza nello specchio non mi
assomigliava molto. Era più simile a una
sorella maggiore ribelle con addosso un
costume da burlesque. Il corsetto,
benché un po’ largo, mi costringeva a
stare più dritta e anche se avvertivo una
punta di nervosismo all’idea di uscire
vestita in quel modo, in quella specie di
nuova pelle, immaginavo che la postura
eretta da ballerina mi avrebbe fatta
sentire più sicura di me.
Charlotte
si
era
spogliata
completamente di fronte a me e si era
unta il corpo con il lubrificante, poi mi
aveva chiesto di aiutarla a infilarsi un
abitino di latex giallo brillante con due
fulmini rossi che correvano ai lati del
busto fino alla vita. Il vestito aveva una
profonda scollatura che metteva in
mostra quasi tutto il seno generoso e un
provocante accenno di capezzoli,
fasciati strettamente dalla stoffa. Il
lubrificante era aromatizzato alla
cannella e per un attimo avevo avuto la
tentazione di dare una leccata a
Charlotte. Avevo notato che non
indossava le mutandine, anche se l’abito
le copriva a malapena il culo.
La mia amica era sfacciata, non
c’erano dubbi, ma io ammiravo la sua
sicurezza e, dopo una giornata passata
con lei, stavo cominciando ad
abituarmici. Era una delle poche
persone di mia conoscenza che faceva
esattamente quello che le andava di fare,
infischiandosene di ciò che pensavano
gli altri.
Io con le mie scarpe troppo piccole
tacco tredici e lei con le sue altissime
zeppe rosse eravamo state costrette ad
aggrapparci
l’una
all’altra,
ridacchiando, per scendere la ripida
scaletta di metallo che portava alla
barca.
«Non preoccuparti» mi aveva
assicurato Charlotte, «ti sentirai a tuo
agio prima di quanto pensi.»
Ah sì?
Era circa mezzanotte quando arrivammo
e il club era animatissimo. Un po’
imbarazzata, mi tolsi la giacca e mi unii
alla festa esibendo più corpo nudo di
quanto fossi abituata a fare, ma Charlotte
continuava a ripetere che mi sarei
trovata benissimo. Mostrammo i biglietti
all’ingresso e in cambio ci misero un
timbro sul polso, poi lasciammo i
cappotti al guardaroba e salimmo
barcollando una rampa di scale,
attraversammo una porta a due battenti e
ci ritrovammo nel bar principale.
Fu una specie di assalto per i sensi.
Ovunque c’erano uomini e donne con
mise stravaganti. Il latex abbondava, ma
non mancavano la lingerie vecchio stile,
i cilindri e le marsine, le uniformi
militari; c’era persino un uomo che
portava solo un anello fallico, con il
pene
flaccido
che
sobbalzava
allegramente a ogni passo. Una donna
bassa con indosso soltanto una gonna
voluminosa e il seno che ballonzolava
liberamente fendeva la folla tenendo in
mano un guinzaglio alla cui estremità
c’era un uomo molto alto e magro, con le
spalle e la schiena così curve che lei se
lo tirava dietro senza sforzo. Mi fece
venire in mente Mr Van der Vliet.
Seduto da solo su uno dei divanetti c’era
un uomo piccolo, o forse una donna
androgina, che indossava un body di
lattice e una maschera. Charlotte non era
stata del tutto precisa quando aveva
descritto gli amanti del fetish come gente
con meno vestiti. Certo, molti di loro
non indossavano quasi niente, e lo
facevano con disinvoltura, ma parecchi
portavano elaborati costumi che
coprivano ogni centimetro di pelle, e
ciononostante riuscivano a essere
sensuali. Gli abiti da carnevale
dozzinali e i vestiti di tutti i giorni erano
banditi, un dettaglio raffinato che
elevava quasi tutti i presenti da
pacchiani a teatrali.
«Che cosa bevi, tesoro?» mi chiese
Charlotte, distogliendo la mia attenzione
dalla folla. Mi sforzavo di non fissare le
persone, ma avevo la sensazione di
essere finita sul set di un film per soli
adulti o di aver imboccato un corridoio
verso un universo parallelo dove tutti
erano come Charlotte e non si
preoccupavano affatto di quello che il
resto del mondo avrebbe pensato di
loro.
Sulla mia mise, comunque, la mia
amica ci aveva azzeccato. Non solo mi
sentivo a mio agio, ma ero anche una di
quelle vestite in modo più sobrio. Con
ogni probabilità erano convinti che fossi
assolutamente pudica. Quel pensiero mi
tranquillizzava. In genere, nelle riunioni
tra amici o nelle occasioni sociali, mi
preoccupavo di risultare strana, con il
mio atteggiamento disinvolto riguardo al
sesso e ai rapporti con gli altri. Nessuno
mi aveva mai considerata pudica.
«Solo acqua per me, grazie» risposi.
Non volevo approfittare della
generosità di Charlotte e desideravo
godermi quello spettacolo con la mente
lucida, così il mattino dopo non mi sarei
svegliata pensando che era stato solo un
sogno.
Charlotte si strinse nelle spalle e
tornò qualche minuto dopo con due
bicchieri.
«Vieni» mi disse. «Ti faccio fare un
giro.»
Mi prese per mano e mi condusse
attraverso un’altra porta a due battenti
che immetteva sulla prua scoperta della
barca, dove c’era un gruppetto di uomini
con indosso pesanti giacche militari
dall’aria sexy che fumavano o
prendevano una boccata d’aria, o
entrambe le cose. Le donne, che in
genere erano più svestite, erano
raggruppate intorno alle stufe a gas in
mezzo al ponte. Due di loro indossavano
gonne di latex con la parte posteriore
tagliata e le loro natiche pallide
splendevano sotto le luci artificiali
come lune gemelle basse nel cielo.
Mi spostai di lato e rimasi immobile
per un momento, stringendo la mano di
Charlotte e fissando il Tamigi che si
snodava nella notte come un lungo nastro
nero, insinuandosi discreto tra le due
parti della città. L’acqua sembrava
densa e vischiosa, e lambiva il fianco
della barca con un leggero sciabordio. Il
Waterloo Bridge era alle nostre spalle,
il Blackfriars Bridge davanti a noi,
mentre le luci del Tower Bridge erano
appena visibili sullo sfondo, come
un’oscura promessa di cose a venire.
Sentii Charlotte che rabbrividiva.
«Andiamo» disse. «Fa freddo qui
fuori.»
Ritornammo
sui
nostri
passi
oltrepassando di nuovo la porta a due
battenti e il bar principale e, attraverso
un’altra serie di porte, raggiungemmo
una pista da ballo. Guardai a bocca
aperta una donna bellissima con i
capelli neri e un’aria vampiresca
versarsi addosso della benzina e poi
soffiare una vampata di fuoco sopra la
testa, ballando una pole dance al ritmo
di una canzone hard rock. Trasudava
sesso. Accanto a Charlotte e in presenza
di così tante persone che sembravano
non vergognarsi del proprio corpo e,
anzi, essere orgogliose della propria
sessualità, sentii, per la prima volta in
vita mia, che forse non ero un’anomalia.
O quantomeno che, se lo ero, c’erano
altri come me.
Un uomo alto ai bordi della pista da
ballo attirò il mio sguardo. Indossava un
paio di leggings azzurri coperti di
paillette, alti stivali da cavallerizzo, una
giacca militare rossa e oro e un berretto
in tinta. Teneva un frustino in una mano e
un bicchiere nell’altra e chiacchierava
animatamente
con
una
ragazza
dall’aspetto gotico che indossava hot
pants di latex e aveva lunghi capelli neri
con una ciocca bianca sulla fronte. I
leggings dell’uomo nascondevano a
malapena il grosso rigonfiamento in
mezzo alle gambe, e io mi immobilizzai
per un attimo, affascinata. Avevo visto
un paio di leggings simili nella vetrina
di un negozio di abbigliamento
femminile, ma su quell’uomo l’effetto
era decisamente virile.
Charlotte mi tirò la mano. «Dopo» mi
sussurrò
all’orecchio,
lanciando
un’occhiata al tizio con i leggings. «Lo
spettacolo è in corso. Il che significa che
al piano di sotto la situazione sarà
tranquilla.»
Mi condusse lungo un piccolo
corridoio con tende di velluto rosso, poi
in un bar più piccolo, pieno di gente che
si godeva la festa, e infine giù per una
rampa di scale.
«Questo è il dungeon, la “segreta”,
l’alcova sadomaso» disse.
La stanza non aveva l’aspetto che
pensavo dovesse avere una segreta,
anche se in realtà non avevo idea di
come dovesse essere una segreta
moderna né che esistesse una cosa del
genere. Mi fermai e mi guardai intorno,
assorbendo tutti i particolari, nel caso in
cui non avessi mai più rivisto un posto
simile.
L’arredamento era come quello del
bar al piano di sopra, ma con qualche
elemento in più dall’aspetto strano.
C’era una grande croce rossa imbottita,
che in realtà aveva piuttosto la forma di
una X, alla quale era appoggiata una
donna nuda con le gambe e le braccia
spalancate, mentre un’altra donna la
picchiava con uno strumento che
Charlotte chiamò “flagellatore”. Non
riuscivo a vederne l’impugnatura, stretta
nella mano della donna, ma invece di
una sola striscia di cuoio, come una
frusta, aveva parecchie strisce di pelle
morbida. La donna che teneva il
flagellatore alternava le frustate sul culo
della compagna a carezze con il palmo
della mano, e talvolta le sfiorava il
corpo con le strisce di pelle. La donna
sulla croce gemeva di piacere e si
inarcava involontariamente, mentre
quella con il flagellatore le si
avvicinava spesso per sussurrarle
qualcosa all’orecchio: parole dolci,
immaginavo. Sorrideva, rideva e si
chinava verso la compagna sulla croce.
Erano circondate da un gruppetto di
osservatori attenti, ma parevano in un
mondo tutto loro, come se uno schermo
invisibile le avesse separate dalla gente
che guardava.
Quella scena mi avrebbe sconvolta se
l’avessi vista in una fotografia o se ne
avessi letto una piccante descrizione su
un giornale. Avevo sentito parlare di
cose simili, naturalmente, ma le avevo
archiviate in un angolo della mente, lo
stesso in cui mettevo le storie di gente
che correva all’ospedale dopo uno
sfortunato incidente con un criceto e il
tubo di un aspirapolvere; immaginavo
che qualcuno finisse in situazioni del
genere, ma pensavo che perlopiù si
trattasse di leggende metropolitane o di
eccessi di eccentricità. Le persone lì,
invece, sembravano tutte normali e
carine, anche se avevano le stesse mise
stravaganti che si vedevano ovunque su
quella barca. Mi avvicinai un po’ per
vedere meglio. Sì, la donna che
prendeva le frustate se la stava
decisamente spassando. Non so cosa
avrei dato per sapere che cosa provava.
E l’atto del frustare in sé – l’alzarsi e
l’abbattersi del flagellatore – era
preciso, ritmico, orchestrato ad arte.
Una scena piuttosto bella.
Charlotte, notando il mio interesse, si
avvicinò a un uomo in piedi vicino alla
croce e gli batté un colpetto sulla spalla,
poi mi chiamò con un cenno.
«Mark» gli disse, «lei è Summer. È
la sua prima volta.»
Lui mi squadrò con uno sguardo più
compiaciuto che rapace.
«Carino
il
corsetto!»
disse,
baciandomi su entrambe le guance. Era
piuttosto basso e grasso e si stava
stempiando, ma aveva un viso
amichevole e un bagliore affascinante
negli occhi. Indossava pesanti stivali, un
grembiule di gomma e una vestaglia. Il
grembiule aveva parecchie tasche, piene
di attrezzi che, a una prima occhiata,
sembravano simili al flagellatore.
«Grazie» risposi. «Vieni qui
spesso?»
«Non tanto quanto vorrei» rispose lui
ridendo, mentre io arrossivo.
«Mark è il padrone del dungeon»
spiegò Charlotte.
«In sostanza» disse lui «mi assicuro
che tutto quaggiù fili liscio e che
nessuno faccia il cazzone.»
Annuii, spostando il peso da una
gamba all’altra. I piedi cominciavano a
farmi male sul serio.
Mi guardai intorno in cerca di una
sedia libera, ma non vidi nulla a parte
una struttura metallica con una parte
piatta imbottita che mi arrivava circa
all’altezza della vita e che sospettavo
non fosse un sedile.
«Posso
sedermi
lì?»
chiesi,
indicando la struttura con un cenno della
testa.
«No» rispose Charlotte. «Non ci si
può sedere sull’attrezzatura. Qualcuno
potrebbe volerla usare.» Poi si illuminò.
«Oooh!» esclamò, lanciandomi un
sorriso malizioso e dando un colpetto
nelle costole a Mark. «Potresti darle una
sculacciata, Mark. Così potrebbe far
riposare i piedi.»
Mark mi guardò. «Per me sarebbe un
piacere» commentò «se la signora
gradisse.»
«Oh, no… Grazie, ma non sono
sicura.»
Mark replicò educatamente: «Nessun
problema», mentre Charlotte insisteva:
«Dài… Di che cosa hai paura? Lui è un
esperto. Prova».
Guardai di nuovo la donna sulla
croce, che adesso sembrava in estasi,
indifferente allo spettacolo che offriva
agli astanti.
Avrei voluto essere anch’io come lei,
così coraggiosa e incurante. Se me ne
fossi infischiata dell’opinione degli
altri, probabilmente non avrei passato
più di una notte con Darren.
«Io rimango vicina a te» aggiunse
Charlotte, che senza dubbio si era
accorta che stavo per cedere. «Che cosa
potrebbe mai succederti?»
E che cazzo! Lì nessuno avrebbe
pensato male di me e io ne avrei
approfittato per sdraiarmi un po’. E poi
ero curiosa. Se fosse stato così brutto,
tutta quella gente non l’avrebbe fatto.
«Okay» dissi, accennando un sorriso.
«Proverò.»
Charlotte si dimenò, in preda
all’eccitazione.
«Quale strumento preferisci?» chiese
Mark, indicando con un gesto della
mano gli attrezzi nelle tasche del suo
grembiule.
Seguii i suoi movimenti. Pur non
essendo alto, aveva mani grandi
dall’aria solida, tipiche di una persona
che svolge un lavoro manuale invece di
rammollirsi digitando sulla tastiera di un
computer.
Charlotte seguì il mio sguardo con
interesse.
«Credo
che
Summer
preferisca le mani nude, Mark» disse.
Io annuii.
Poi lei mi condusse verso la struttura
metallica imbottita, che sembrava una
panca.
Con gentilezza Mark mi fece voltare
in modo da guardarmi in faccia. «Va
bene» disse. «Comincerò con molta
delicatezza. Se, in qualunque momento,
ti senti a disagio, basta che alzi una
mano e io smetterò subito. Charlotte
rimarrà qui, accanto a te. Capito?»
«Sì» risposi.
«Okay, bene» disse lui. «Però le
culottes con i merletti non sono adatte.
Ti dispiace se te le tolgo?»
Trattenni il fiato. Accidenti! In che
situazione mi ero andata a cacciare? Del
resto sapevo che, ovviamente, non
sarebbe stata la stessa cosa con addosso
biancheria intima elaborata. E poi la
stanza era piena di gente nuda, per cui
nessuno avrebbe fatto caso a me.
«Fai pure.»
Mi girai e mi piegai in avanti sulla
struttura imbottita, alleggerendo il peso
sui piedi e provando un immediato
sollievo. La vita e il busto erano
appoggiati all’imbottitura centrale,
mentre ai lati c’erano due ulteriori
imbottiture su cui distendere le braccia e
impugnature da stringere con le mani.
Sentii un dito che si infilava sotto
l’elastico delle culottes e me le sfilava
con gentilezza facendole scivolare lungo
le cosce e i polpacci inguainati nelle
calze. Mark mi sollevò prima un piede e
poi l’altro, aiutandomi a toglierle.
Avevo le gambe spalancate e immaginai
che lui, accucciato ai miei piedi, avesse
una visuale completa del mio corpo.
Sentii le guance imporporarsi, ma
cominciavo già ad arrendermi e ad
avvertire un piacevole calore irradiarsi
dalle parti basse. Lui si rialzò in piedi e
Charlotte mi strinse la mano.
Per un attimo non sentii niente, a
parte la lieve carezza dell’aria sul
sedere nudo e – immaginai – gli occhi di
sconosciuti sulla mia carne esposta.
Poi un palmo forte si chiuse a coppa
sulla mia natica destra, con un delicato
movimento circolare, seguito da
un’impercettibile brezza quando la mano
si alzò, per poi abbassarsi di nuovo e
colpirmi prima su una natica e poi
sull’altra.
Un bruciore acuto.
Quindi il tocco leggero della mano
fresca di Mark sulla mia carne ardente,
per accarezzarla, lenirla.
Un altro soffio d’aria mentre la mano
si alzava nuovamente.
E un sussulto quando mi colpì, questa
volta con più forza.
Strinsi le sbarre di metallo, inarcai la
schiena, premetti le cosce contro
l’imbottitura e sentii un’altra vampata di
rossore mentre mi rendevo conto di
essere bagnata fradicia e immaginavo
che Mark vedesse la mia eccitazione, ne
sentisse l’odore. Si rendeva conto che il
mio corpo iniziava a cedere sotto il suo
tocco, mentre io inarcavo ancora di più
la schiena per offrirmi alle sue mani.
Un altro colpo, molto più forte,
davvero doloroso. Il bruciore acuto mi
fece sobbalzare e per una frazione di
secondo pensai di chiedergli di
smettere, ma poi la sua mano fu
nuovamente su di me, proprio nel punto
in cui mi aveva colpita, e il dolore si
trasformò in una sensazione calda che mi
attraversò la spina dorsale fino alla
nuca.
Continuando a tenermi una mano sul
culo, Mark risalì con l’altra lungo la
schiena e, allargando le dita, me la infilò
tra i capelli e diede uno strattone, prima
delicatamente, poi con più forza.
Mi ritrovai in un’altra dimensione. La
stanza si allontanò. Gli sguardi degli
estranei
svanirono.
Charlotte
scomparve. C’eravamo solo io e la
sensazione della sua mano che mi tirava
i capelli mentre inarcavo il corpo e
gemevo sotto i suoi colpi.
Poi tornai al presente. Due mani
appoggiate con delicatezza sulle mie
natiche doloranti e Charlotte che mi
stringeva la mano. Il rumore della stanza
cominciò di nuovo a filtrare nella mia
coscienza. Voci, musica, cubetti di
ghiaccio che tintinnavano nei bicchieri e
il suono di qualcun altro che veniva
sculacciato.
«Tutto okay, tesoro? Sei ancora tra
noi? Wow» disse Charlotte, presumo a
Mark, «è partita come un razzo.»
«Sì» le fece eco lui, «ha un talento
naturale.»
Girai la testa per sorridergli e quindi
cercai di rimettermi in piedi, ma scoprii
di non riuscire a camminare. Barcollavo
come un puledro appena nato ed ero
palesemente eccitata, bagnata tra le
cosce. Ero imbarazzata dall’intensità
della mia reazione, ma né Mark né
Charlotte né gli altri spettatori
sembravano minimamente stupiti o
sorpresi. Per loro era un normale evento
da
weekend
(forse
addirittura
quotidiano). «Vieni qui, tigre» disse
Mark, mettendomi un braccio intorno
alla vita e guidandomi verso una sedia
che si era liberata solo perché
un’occhiataccia sua e di Charlotte
avevano indotto l’occupante a balzare in
piedi e allontanarsi.
Mi sedetti e Mark mi accarezzò i
capelli, facendomi appoggiare la testa e
un fianco alla sua coscia. Il grembiule di
gomma era freddo e strano sulla mia
faccia e uno degli attrezzi mi premeva
fastidiosamente contro il braccio.
Sentii che mi stavo allontanando di
nuovo mentre lui mi passava le dita tra i
capelli, e le loro voci mi arrivavano
come dal fondo di un tunnel.
«Credo che dovresti riportarla a
casa» disse Mark a Charlotte. «Ha
bevuto parecchio?»
«Nemmeno un goccio. Solo acqua
minerale. Hai iniziato una vergine.»
«Che meraviglia!» ridacchiò lui.
«Ha l’aria di essersela spassata
parecchio» commentò Charlotte «e non
le ho neppure fatto vedere la stanza
delle coppie.»
Mi addormentai appoggiata alla spalla
di Charlotte sul taxi che ci riportava al
suo appartamento. La mattina dopo,
quando mi svegliai, indossavo ancora il
corsetto, di cui erano stati allentati i
lacci. Il cuscino era coperto di
brillantini e macchiato di eyeliner nero.
Mi sembrava di essere in preda ai
postumi di una sbornia, anche se non
avevo bevuto alcolici.
«’giorno, splendore» disse Charlotte
dalla cucina. «Ti ho fatto il caffè.»
Entrai nella stanza strascicando i
piedi, ma la sola prospettiva di una dose
di caffeina bastò a farmi sentire subito
più sveglia.
«Wow» disse Charlotte, «quella mise
ti stava meglio ieri.»
«Grazie» ribattei. «Non si può dire lo
stesso della tua.»
Charlotte era in piedi in mezzo alla
stanza, con un piattino di porcellana in
una mano e una tazzina di espresso
nell’altra. Era completamente nuda.
«Non indosso vestiti se posso farne a
meno» disse.
«E quand’è che non puoi farne a
meno?» le chiesi.
«Quando friggo» rispose lei «o
quando ho gentiluomini in visita. Mi
metto i vestiti così loro possono
togliermeli. Sembra che ai maschietti
piaccia.»
In quel momento mi venne in mente
che Charlotte era di Alice Springs e,
ancora una volta, non potei fare a meno
di stupirmi che una persona tanto
cosmopolita potesse essere cresciuta
nell’Outback australiano.
«Sei di buonumore.»
«Ho già fatto un po’ di soldi, oggi»
disse, lanciando un’occhiata al computer
«e ho dormito bene sapendo che ieri
sera ti ho aperto la mente.»
Sorrideva raggiante, mentre io mi
sentivo un po’ strana. Niente, a parte la
musica, mi aveva mai fatto provare
un’emozione simile: un’epifania di
distacco e piacere che si era fatta strada
attraverso il dolore. Scacciai quel
pensiero.
«La suoneria del tuo cellulare
sveglierebbe i morti. Potresti anche
sceglierne una migliore.»
«È Vivaldi, ignorante» dissi.
Lei si strinse nelle spalle.
Tirai fuori il telefono dalla borsa e
controllai le chiamate perse. Darren.
Dieci volte la sera prima e un’altra
dozzina quella mattina. Doveva aver
saputo del violino. Lanciai un’occhiata
all’orologio sopra il forno della cucina.
Erano le tre del pomeriggio. Avevo
dormito quasi tutto il giorno.
«Rimani un’altra notte» disse
Charlotte. «Cucinerò per te. Non ho mai
nemmeno acceso il forno in questa
casa.»
Mi lasciò nel suo appartamento in
modo che potessi lavarmi e riposare e
uscì a fare la spesa per la cena. Mi feci
un bagno e poi passai mezz’ora a
districare i nodi nei capelli. Alla fine,
stanca di aspettare, mandai un SMS a
Charlotte per chiederle se potevo usare
il suo computer.
“Certo” rispose. “Non c’è la
password.”
Mossi il mouse per riportare in vita
lo schermo. Controllai la posta su
Gmail. Ignorai i messaggi di Darren e
l’inevitabile spam. Poi mi collegai a
Facebook. Un messaggio nella posta in
arrivo. Esitai ad aprirlo, pensando che
si trattasse di nuovo di Darren, ma in
realtà veniva da un profilo che non
riconobbi, senza foto.
Cliccai sul messaggio, vagamente
incuriosita.
Un’introduzione educata.
Quindi:
… vorrei regalarti un violino nuovo.
Ti va di accettare la mia offerta e le mie
condizioni?
Cliccai sul profilo, ma era quasi
completamente vuoto, a parte la
residenza – Londra – nei dati personali.
Il nome era solo un’iniziale: D.
Naturalmente pensai a Darren, ma
quello non era il suo stile.
Chi altri poteva essere? Derek?
Donald? Diablo?
Passai mentalmente in rassegna le
persone che avrebbero potuto sapere del
violino e farmi un’offerta del genere, ma
non mi venne in mente nessuno. L’unica
persona che conosceva tutti i particolari
dell’incidente era il funzionario del
trasporto pubblico con le mani
grassocce, che aveva l’aria di essere
romantico come la sua professione,
ossia per niente. Se il violino mi fosse
stato rubato o, peggio, lasciato
“impiccato” sulla soglia di casa, avrei
potuto temere che dietro tutto ciò ci
fosse uno stalker online, ma il messaggio
non mi sembrava malevolo.
Si era accesa una scintilla che, per
quanto ci provassi, non riuscivo a
spegnere.
Rimasi a fissare lo schermo per dieci
minuti, senza venirne a capo, finché
Charlotte non entrò rumorosamente in
casa carica di sacchetti della spesa.
«Mi auguro che tu non sia
vegetariana»
gridò,
«perché
ho
comprato solo carne.»
Le assicurai che le mie preferenze
erano per le bistecche e poi la chiamai
per farle leggere la mail.
Lei guardò lo schermo, inarcò un
sopracciglio e fece un sorrisetto.
«Quale offerta?» chiese. «E quali
condizioni?»
«Non lo so. Devo rispondere?»
«Be’, sarebbe un inizio. Dài…
rispondigli.»
«Come fai a sapere che è un uomo?»
«Ma certo che è un uomo. C’è scritto
“maschio dominante” a caratteri cubitali
in quel messaggio. Probabilmente è
qualcuno che ti ha vista suonare e si è
arrapato.»
Ci pensai un attimo, poi cliccai su
RISPONDI e scrissi:
Buonasera,
grazie per le gentili parole.
Qual è la tua offerta? E le condizioni?
Saluti,
Summer Zahova
La risposta arrivò nel giro di qualche
minuto.
Sarei onorato di rispondere in modo
esauriente alle tue domande.
Incontriamoci.
Una richiesta platealmente priva di
sfumature interrogative.
Sfidando il buonsenso, e incalzata da
Charlotte, fissai un appuntamento con lo
sconosciuto: a mezzogiorno del giorno
successivo.
Ero in ritardo di dieci minuti.
Lui aveva suggerito di vederci in un
caffè italiano che stava in St Katharine
Docks. Avevo fatto finta di conoscere il
posto, anche se non era vero,
risparmiandomi così di dover proporre
un’alternativa.
Quando arrivai, scoprii che si
trovava in mezzo all’acqua. Percorrendo
la passeggiata lungo i dock, mi accorsi
che la strada era chiusa per lavori, per
cui fui costretta a tornare indietro e a
fare un altro giro. Sul molo c’ero solo io
e mentre camminavo avanti e indietro,
disorientata come una formica che si
trova la strada sbarrata da una briciola,
immaginai che lo sconosciuto mi stesse
osservando seduto comodamente nel
caffè. Indossavo gli abiti meno sexy che
ero riuscita a trovare nel guardaroba di
Charlotte, per non dargli un’impressione
sbagliata. Avevo dormito troppo e non
avevo avuto il tempo di tornare a casa
mia a cambiarmi.
Charlotte mi aveva trovato un abito
blu a righine sottili di lana e tessuto
elasticizzato, che aveva comprato in
occasione di un brevissimo intermezzo
lavorativo come addetta alla reception
di uno studio legale prima di cominciare
la sua carriera di giocatrice di poker
online. Mi arrivava appena sotto il
ginocchio ed era accollato, con quattro
bottoncini sul petto in stile militare. Era
un po’ stretto sulle cosce, ma morbido in
vita, e io lo indossavo con una sottile
cintura color crema, gli stivaletti alla
caviglia
con le
stringhe,
che
fortunatamente portavo il giorno della
rissa in metropolitana, e un paio di
autoreggenti color carne, sulla cui
confezione c’era scritto: “Leggermente
lucide. Effetto nudo”.
«Penserà che voglio scoparmelo, se
vede queste calze» avevo detto a
Charlotte.
«Be’, forse vorrai scopartelo» aveva
ribattuto lei.
Poi mi aveva detto di non fare la
sciocca: mi sarei dovuta chinare fino a
terra per mostrare che cosa avevo sotto
il vestito, attraverso lo spacco, il quale
per fortuna era piuttosto basso. Ciò
rendeva un po’ più difficile camminare,
ma significava che nessuno si sarebbe
accorto che non indossavo biancheria
intima. Sì, perché Charlotte si era
rifiutata di farmi uscire con gli slip
addosso, dal momento che la stoffa del
vestito lasciava vedere il segno delle
mutandine. Mi ero arresa sulla porta,
come un soldato che consegna la
bandiera al nemico.
Mi aveva prestato anche il suo
cappotto di lana color crema,
ammonendomi di non dimenticarlo in
giro perché era molto costoso. La stoffa
era impregnata di un profumo muschiato
che non era proprio il mio genere e, dato
che Charlotte aveva indossato quel
cappotto sopra l’abito di latex alla
serata fetish, anche dell’aroma di
cannella del lubrificante.
Comunque, fui molto contenta di
averlo addosso, perché nel frattempo
aveva cominciato a piovere a dirotto.
Avevo con me l’ombrello rosso di
Charlotte e, quando lo aprii, mi sentii
come una prostituta che cercava di
attirare l’attenzione: l’unica nota di
colore in un mare di nero e grigio.
Perlustrai l’interno del locale
dell’appuntamento. Niente di speciale,
ma dall’aspetto dell’italiano che stava
dietro il bancone immaginai che il caffè
dovesse essere buono. Quello che
servono negli aeroporti del resto
d’Europa è meglio di qualunque
surrogato che si possa trovare in
Inghilterra. Un’altra delle cose che non
avrei mai detto a un inglese, un popolo
di bevitori di tè.
Un bancone, pochi tavolini e sedie.
Una scala a giorno saliva verso un’altra
sala. Guardai fuori dalla vetrina. Una
visione perfetta dei dock. Lui doveva
sicuramente avermi vista arrivare, se era
qui. Non scorgendo nessuno al
pianoterra, presi la scala che portava al
piano superiore. Non c’era nessuno
nemmeno lì, a parte una donna di mezza
età che leggeva un giornale davanti ai
resti di un cappuccino. Il cellulare
vibrò. Ci eravamo scambiati i numeri in
caso di ritardi o contrattempi.
“Sono giù” diceva il messaggio.
Maledizione. Scesi, cercando di
dissimulare il nervosismo, e notai un
tavolo dietro la scala a giorno da cui si
vedeva perfettamente il sotto dei gradini
di legno ben spaziati tra loro. L’uomo
seduto al tavolo, con l’angolazione e il
grado di attenzione giusti, molto
probabilmente aveva visto benissimo
sotto il mio vestito. Avvertii una fitta di
eccitazione al pensiero di aver appena
offerto a quello sconosciuto la visione
del mio corpo completamente nudo. Poi
mi vergognai. Avrei fatto meglio a
ricompormi, e in fretta.
Lui sorrise, senza un’ombra di
disappunto per il mio ritardo e senza
lasciar trapelare il minimo segno di aver
appena sbirciato sotto la mia gonna
mentre salivo goffamente le scale.
«Tu sei Summer.» Non era una
domanda. Aveva gli occhi scuri,
penetranti, ma indecifrabili.
«Sì» risposi, allungando la mano per
stringere la sua, come in un incontro
d’affari. Ricordai l’aria sicura che mi
aveva dato il corsetto e raddrizzai le
spalle di proposito.
Lui mi diede una stretta rapida e
formale, ma salda.
«Mi chiamo Dominik. Grazie per
essere venuta.»
Le sue mani erano calde e forti,
persino più grandi di quelle di Mark.
Arrossii a quel pensiero e mi affrettai a
sedermi.
«Posso ordinarti qualcosa?» mi
chiese.
«Un marocchino, se lo fanno. Oppure
un espresso doppio» risposi, sperando
che il tono di voce non tradisse il mio
nervosismo.
Lui si alzò dirigendosi al bancone e
mentre mi passava accanto percepii il
suo odore. Non sapeva di acqua di
colonia, ma aveva solo un lievissimo
sentore di muschio, l’odore della pelle
calda. Trovo che ci sia qualcosa di
molto virile in un uomo che non si mette
il profumo, nella sua pelle non
adulterata da prodotti artificiali.
Dominik era il tipo d’uomo che
immaginavo fumasse sigari e si radesse
con un rasoio a lama libera.
Lo guardai mentre ordinava i caffè.
Era abbastanza alto – un po’ più di un
metro e ottanta, calcolai – e snello, ma
non eccessivamente muscoloso. Aveva
le braccia e la schiena scolpite di un
nuotatore. Un uomo molto sexy,
nonostante l’atteggiamento freddo. O
forse proprio per quello. Ho sempre
preferito gli uomini che non sorridono
né cercano a tutti i costi di far colpo su
di me.
Quando chiese al barista una
zuccheriera, lo fece con estrema
educazione.
Aveva una voce profonda e ricca, da
scuola di lusso – il genere che
preferisco – ma aveva un’inflessione
particolare e mi chiesi se fosse inglese.
Ho un’autentica fissazione per gli
accenti, forse perché vengo da un altro
paese. In ogni caso cercai di darmi un
contegno e di non lasciar trapelare che
lo trovavo attraente, mettendolo così in
una posizione di vantaggio.
Indossava un maglione a coste
marrone scuro con il collo alto che
sembrava comodo e morbido, forse di
cachemire, un paio di jeans scuri e
scarpe di pelle lucidate di recente. Il suo
abbigliamento e i suoi modi non
rivelavano niente di particolare, a parte
il fatto che pareva un uomo gradevole e
non
pericoloso.
Perlomeno,
“pericoloso” nel senso di “psicopatico”.
Forse pericoloso in altri sensi.
Presi il cellulare dalla borsa e
mandai un SMS a Charlotte per dirle che
non mi aveva ancora fatta a pezzi. Lui
tornò con un vassoio e io feci per
alzarmi e aiutarlo a posare le tazze sul
tavolo, ma lui mi segnalò di stare ferma
e, tenendo il vassoio in equilibrio con
una mano, mi mise davanti la mia tazza
di caffè con l’altra. Mentre lo faceva, mi
si avvicinò un po’ più del necessario
per offrirmi lo zucchero e mi sfiorò il
braccio con la mano, prolungando il
contatto abbastanza da sollecitare una
mia reazione, di approvazione o
disapprovazione, ma poi tolse la mano e
io finsi di non essermene accorta.
Scossi la testa per rifiutare lo
zucchero,
aspettandomi
che
commentasse con il solito “Sei già
abbastanza dolce”, ma non lo fece.
Rimanemmo seduti in un silenzio
stranamente confortevole, mentre lui
metteva una zolletta di zucchero nel
caffè, poi una seconda, una terza e infine
una quarta. Aveva le unghie molto
curate, ma tagliate squadrate, per cui
l’effetto era virile, anziché effeminato.
La pelle era lievemente olivastra, non
avrei saputo dire se per natura o per
effetto di una recente abbronzatura.
Tolse il cucchiaino dalla tazza con
grande cura e lo appoggiò sul piattino,
guardandosi la mano mentre lo faceva,
come se il suo sguardo avesse potuto
impedire che una goccia cadesse sulla
tovaglia. Al polso destro portava un
orologio d’argento: il modello antiquato
con le lancette, non quello digitale. Ho
sempre trovato difficile stabilire l’età
delle persone, soprattutto degli uomini,
ma immaginai che Dominik avesse
passato i quaranta: probabilmente non ne
aveva più di quarantacinque, a meno che
non ne dimostrasse di meno.
Se aveva un violino, non l’aveva
portato con sé.
Si appoggiò allo schienale della
sedia. Un altro attimo di silenzio.
«Allora, Summer Zahova» disse poi,
pronunciando le sillabe come se le
stesse assaporando, una alla volta. Gli
osservai le labbra, che sembravano
straordinariamente morbide, anche se la
linea della bocca era decisa.
«Probabilmente ti stai chiedendo chi
sono e che significato ha tutto questo.»
Annuii e bevvi un sorso di caffè. Era
persino meglio di quanto mi aspettassi.
«Un ottimo caffè» osservai.
«Sì» replicò. Sul viso gli comparve
un’espressione perplessa.
Aspettai che continuasse.
«Vorrei sostituire il tuo violino.»
«In cambio di cosa?» gli chiesi,
protendendomi verso di lui con
interesse.
Anche lui si protese verso di me, i
suoi palmi adesso appoggiati sul
tavolino, le dita allargate, quasi a
sfiorare le mie, un gesto che mi invitava
a toccarlo. Avvertii una lievissima
zaffata di caffè nel suo alito e, come mi
era successo quando Charlotte si era
cosparsa di lubrificante alla cannella,
provai l’impulso di avvicinarmi e
leccarlo.
«Vorrei che tu suonassi per me.
Vivaldi, magari?»
Si appoggiò di nuovo allo schienale
della sedia, pigramente, con un lieve
sorriso sulle labbra, come se avesse
notato che ero attratta da lui e mi stesse
stuzzicando.
Quello era un gioco a cui si poteva
giocare in due. Raddrizzai le spalle e lo
guardai negli occhi, fingendo di non
notare
l’eccitazione
che
stava
aumentando tra noi e assumendo
l’espressione di chi è perso nei propri
pensieri, mentre valutavo la sua bizzarra
offerta come uno avrebbe fatto con una
proposta d’affari. Ricordai l’ultima
volta in cui avevo suonato le Quattro
stagioni, il pomeriggio dopo la lite con
Darren. Era stato in quell’occasione che
qualcuno aveva messo cinquanta sterline
nella custodia del mio violino.
Probabilmente Dominik, immaginai
adesso. Lo sentii muovere le gambe
sotto il tavolino e vidi un lampo
attraversargli
lo
sguardo.
Soddisfazione? Desiderio? Forse non
sembravo così controllata come avevo
sperato.
Arrossii quando le nostre gambe si
toccarono e mi resi conto di essere
seduta a ginocchia divaricate come un
uomo. La mia astinenza durava ormai da
un mese e mi sarei scopata una delle
gambe del tavolo, ma non era necessario
che lui lo sapesse.
Dominik continuò: «Solo una volta,
per cominciare, e potrai avere il violino.
Deciderò io il posto, ma tu sarai
comprensibilmente preoccupata per la
tua sicurezza. Sentiti libera di portare
un’amica, se preferisci».
Annuii. Avevo deciso di accettare la
sua proposta, ma avevo bisogno di
guadagnare un po’ di tempo per
rifletterci sopra. I sottintesi della sua
offerta erano ovvi, e la sua arroganza
era irritante, ma mio malgrado trovavo
Dominik
attraente
e
avevo
disperatamente bisogno di un violino.
«Bene, Summer Zahova, vuol dire
che accetti?»
«Sì.»
Ci avrei riflettuto sopra più tardi e,
se necessario, avrei rinunciato via mail.
Ordinò altri due caffè senza
consultarmi. La sua presunzione mi irritò
e feci per protestare, ma volevo un altro
caffè e sarebbe sembrato sciocco
rifiutare adesso, per poi prenderne uno
prima
di
uscire
dal
locale.
Sorseggiammo la bevanda, parlammo
del tempo e ci soffermammo brevemente
su dettagli insignificanti delle nostre vite
normali. In realtà la mia vita non era più
tanto normale, senza il violino.
«Ti manca il violino?»
All’improvviso provai una strana
emozione, come se senza un archetto e
uno strumento con cui sfogare le
sensazioni che si accumulavano dentro
di me avessi potuto spezzarmi in due,
esplodere, essere consumata da un fuoco
interno. Rimasi in silenzio.
«Bene, allora dovremmo farlo presto.
Forse la settimana prossima. Mi terrò in
contatto con te per confermare il posto e
procurerò il violino per l’occasione, e
poi, se tutto sarà di mia soddisfazione,
potremo andare a comprare uno
strumento più definitivo.»
Mi dissi d’accordo, ignorando di
nuovo il suo tono arrogante, quasi
sprezzante e, tenendo per me le mie
riserve, almeno per il momento, presi il
cappotto dalla sedia. Uscimmo dal caffè
e ci avviammo a piedi insieme finché le
nostre strade non si separarono. Ci
salutammo con un educato arrivederci.
«Summer» mi chiamò mentre mi
allontanavo.
«Sì?» risposi.
«Mettiti un vestito nero.»
4
Un uomo e il suo quartetto d’archi
Dominik era sempre stato un attento
lettore di thriller di spionaggio e aveva
memorizzato alcune delle fondamentali
tattiche da spia apprese dai molti libri
che aveva divorato avidamente. Di
conseguenza, si era seduto nel caffè al
pianoterra in una posizione arretrata, un
angolo vicino alle scale dove aveva una
buona visuale della porta ma non era
immediatamente visibile a causa del
riverbero della luce esterna. In quel
caso, comunque, non c’era stato bisogno
di una via di fuga.
L’aveva vista entrare, con qualche
minuto di ritardo e lievemente
ansimante, e guardarsi intorno con fare
distratto nel locale pressoché deserto
pervaso dal penetrante aroma del caffè e
dal rumore della macchina per
l’espresso. Si era reso conto che lei non
l’aveva notato nel suo angolo ed era
quindi salita a cercarlo al primo piano
con il tubino blu che, a ogni passo, si
allargava e si stringeva intorno alle sue
cosce, offrendogli una chiara visuale
sotto la gonna prima che l’oscurità tra le
sue gambe gli impedisse ulteriori
esplorazioni. Dominik aveva sempre
avuto una tendenza al voyeurismo e
quell’involontario, anche se troppo
breve, svelamento dei recessi di lei era
stato una gioia e una mirabile promessa
di delizie future.
Senza la distrazione del violino e
senza l’effetto ipnotico della musica,
adesso poteva concentrarsi sull’aspetto
fisico della giovane: la massa
fiammeggiante dei capelli, il vitino di
vespa e un che di mascolino nel modo di
muoversi. Si accorse che non era alta
quanto gli era sembrata sotto il soffitto
basso dell’affollato corridoio della
metropolitana. Pur non essendo una
bellezza
da
passerella,
attirava
l’attenzione, sia in mezzo alla folla sia
da sola, mentre camminava sul molo o
entrava trafelata nel caffè. Sì, era
diversa, e la cosa lo intrigava parecchio.
Rintracciò il suo numero sulla
rubrica e le mandò un messaggio,
avvisandola dov’era. Lei scese le scale,
sul viso un lievissimo rossore per
l’imbarazzo di non averlo visto subito.
Adesso era di fronte a lui.
«Tu sei Summer» le disse e si
presentò, invitandola a sedersi.
Lei lo fece.
Dominik percepì un lieve sentore di
cannella. Non era la fragranza che si
sarebbe aspettato da lei. Pensava che al
pallore della sua carnagione si sarebbe
intonato meglio un profumo con una nota
verde forte, secca, discreta, furtiva. Oh,
be’…
Guardò Summer negli occhi. Lei
sostenne il suo sguardo, spavalda ma
curiosa, sicura di sé e leggermente
divertita. Era una persona molto
determinata, questo era chiaro. Il che
avrebbe potuto rivelarsi alquanto
interessante.
Si esaminarono a vicenda in silenzio,
osservando, giudicando, soppesando,
facendo ipotesi. Come giocatori di
scacchi prima di una partita, cercavano
il punto debole dell’avversario, la
breccia attraverso cui penetrare per
invadere il campo avversario.
Poi Dominik si alzò per andare a fare
le ordinazioni al bancone e aspettò che
il barista preparasse il vassoio. Nel
frattempo Summer mandò in fretta un
SMS a qualcuno, probabilmente per
rassicurare un’amica che stava bene e
che lui, almeno a prima vista, non era né
un serial killer da manuale né un viscido
da primato. Dominik si concesse un
sorrisetto. A quanto pareva, aveva
superato l’esame iniziale. Adesso la
palla era nella sua metà del campo.
Tornato al tavolo con i caffè, spiegò
a Summer che cosa intendeva proporle,
delineando i contorni di un’iniziativa
apparentemente lineare, mentre nella sua
mente prendeva lentamente forma un
piano più complesso. Le fantasie erano
scatenate, le visioni si precisavano
come una foto Polaroid che emerge da
uno sfondo nero. Quanto lontano poteva
spingersi? Quanto lontano l’avrebbe
portata?
Mezz’ora
dopo,
mentre
si
congedavano, un po’ a disagio per tutto
il non detto che ancora aleggiava tra
loro, Dominik si rese conto che ce
l’aveva duro; la sua erezione premeva
contro la stoffa dei jeans mentre la
guardava allontanarsi ancheggiando
lungo la passeggiata di St Katharine
Docks in direzione del Tower Bridge.
Lei non si girò nemmeno una volta, ma
Dominik sapeva che era consapevole
del suo sguardo che la seguiva.
Oh, quella sì che era una sfida
interessante… Rischiosa ed eccitante,
eppure…
Pur avendo passato la maggior parte
della vita nel regno dei libri, Dominik
non era solo una fonte di sapere, per
quanto teorico a volte potesse sembrare,
ma era anche un uomo d’azione. Durante
l’università aveva trascorso ore in
biblioteca per poi passare senza sforzo
alla pista delle gare di atletica. Era stato
un ottimo saltatore, sia in alto sia in
lungo, e anche un eccezionale corridore
sulla media distanza e nelle corse
campestri, anche se riusciva meno bene
negli sport di squadra, perché faceva
fatica a entrare in sintonia con gli altri.
Non vedeva alcuna contraddizione in
quelle due sfere distinte della propria
esistenza.
Per anni la sua vita sessuale era stata
tradizionale, addirittura conservatrice.
Non era mai stato una gran perdita per le
sue compagne di letto, nemmeno da
giovane, quando aveva la tendenza a
idealizzare alcune donne e a innamorarsi
di quelle che non poteva avere con
sconcertante regolarità. Come amante,
riteneva di essere nella media: non
esageratamente fantasioso, ma tenero.
Essendo un introverso, non si era mai
preoccupato davvero di come lo
considerassero le donne con cui andava
a letto. Il sesso era un’occupazione tra le
tante, necessaria, certo, ma era solo una
parte
della
complessa
trama
dell’esistenza, accanto ai libri, all’arte e
al cibo.
Fino al giorno in cui aveva
conosciuto Kathryn.
Naturalmente aveva letto il marchese
de Sade e molti dei moderni classici
dell’erotismo. Consumava materiale
pornografico (e ne ricavava periodici
orgasmi) e sapeva dei rapporti
sadomaso, della dominazione, della
sottomissione e della gamma di
perversioni esistenti, come pure
dell’armamentario degli appassionati di
fetish, ma tutto ciò non era mai entrato
davvero nella sua realtà quotidiana. Era
qualcosa di astratto, remoto, qualcosa in
cui altri indulgevano. Lui osservava con
interesse intellettuale quel mondo
parallelo, che però non lo attirava, non
esercitava alcun richiamo concreto su di
lui.
Anche
Kathryn
era
docente
universitaria, benché di un’altra materia,
e si erano conosciuti a un congresso
nelle Midlands: un divertito scambio di
sguardi nel corso di una delle sue
lezioni principali, seguito da una
conversazione impacciata nel bar
affollato. Tornati a Londra, erano
diventati amanti, anche se lei era sposata
e Dominik aveva una relazione stabile
con un’altra donna.
La maggior parte dei loro incontri si
era svolta in alberghi a ore o sulla
moquette del piccolo ufficio di Dominik
tra l’ora dell’aperitivo e quella
dell’ultimo treno in partenza da Charing
Cross verso i sobborghi meridionali.
Ogni minuto era risultato prezioso e
il sesso era stato una rivelazione per
entrambi, come se tutte le loro
esperienze precedenti avessero portato a
quel momento. Frenetico, violento,
disperato, compulsivo come una droga.
In ginocchio sulla spessa moquette
marrone chiaro, lei sotto di lui, entrambi
ansimanti, quasi senza fiato, con la sua
erezione che, a ogni colpo, la penetrava
sempre più in profondità, gli occhi di lei
chiusi per il godimento, Dominik aveva
fatto una pausa e si era impresso quel
momento nella mente. Immagazzinando
ricordi. Chiedendosi se un giorno nel
futuro (fra quanto tempo?) avrebbe
dovuto risolversi a evocare quella
particolare immagine per gratificarsi nel
deserto della propria solitudine.
Aveva osservato il rossore che si
irradiava dal collo fino alla sommità dei
piccoli seni di Kathryn, ascoltando i
gemiti dei loro amplessi, oscenamente
amplificati dalle pareti dell’ufficio
vuoto. Gli ansiti che sfuggivano dalle
labbra contratte di lei mentre respirava
con un ritmo simile a quello di uno
staccato musicale. Il velo di sudore sulla
sua fronte, un’immagine speculare delle
gocce che iniziavano a imperlargli il
petto, le braccia, le gambe, tutto il corpo
mentre si alzava e si abbassava
gioiosamente sopra e dentro di lei.
«Oddio» gemette lei.
«Sì»
concordò
Dominik,
stabilizzando il ritmo dei suoi affondi,
ogni singolo sussurro di Kathryn una
resa volontaria alle estreme conseguenze
del loro desiderio. Lei chiuse gli occhi e
fece un profondo sospiro.
«Va tutto bene?» le chiese,
rallentando il ritmo, preoccupato.
«Sì. Sì…»
«Vuoi che faccia più piano? Che sia
più delicato?»
«No» rispose Kathryn, la voce roca e
tesa. «Continua. Ancora. Ti prego.»
Dominik cambiò posizione per
alleviare la pressione sulle ginocchia,
perse l’equilibrio per un attimo e per
poco non le cadde addosso; spostando
d’istinto le mani avanti in cerca di
appoggio, le sfiorò i polsi con le dita. Li
strinse.
A quel contatto il corpo di lei fu
percorso da un sussulto nervoso, quasi
elettrico.
«Mm…»
«Che cosa c’è?»
«Oh… niente…»
Ma il
suo sguardo diceva
qualcos’altro. Lei lo fissava negli occhi,
esplorando i recessi della sua anima con
domande? No, con una richiesta,
un’implorazione?
Una
supplicante
inchiodata alla croce della loro scopata.
Per tutta risposta, lui le strinse i polsi
più forte che poté e le spostò le braccia
in alto, sopra la testa, continuando a
muoversi dentro di lei, inchiodandola al
pavimento come una farfalla nella teca
di un entomologo. Adesso lei aveva le
guance di un rosso acceso. “Deve farle
male” pensò lui, ma i suoi deboli gemiti
di piacere sembravano invitarlo ad
aumentare la pressione, ad abusare del
suo corpo.
Lei lo fissò di nuovo, a lungo, senza
parlare ma con una richiesta impossibile
da equivocare. “Ancora.” Lui le tolse le
mani dai polsi sottili, temendo di averle
lasciato dei lividi, e gliele fece scorrere
lungo le braccia alzate fino a
raggiungere la gola e a circondarla come
un gioiello, un girocollo stretto. Il battito
del cuore di Kathryn – il suo segno
vitale – si irradiava dalla superficie
della sua pelle alla punta delle dita
contratte di lui.
Lei fece un respiro profondissimo e
gridò: «Più forte».
Lui era spaventato e al tempo stesso
eccitato; il suo membro duro come il
marmo affondato dentro di lei crebbe
ancora, enorme, e riempì la cavità
morbida e bagnata di Kathryn, mentre le
sue dita si stringevano intorno alla gola
iniziando a soffocarla. Il viso di lei
assunse tutti i colori dell’arcobaleno.
Kathryn venne con un grido rauco, un
suono quasi mascolino di abominevole
trionfo. Quando Dominik allentò la
stretta, lei espirò selvaggiamente.
Per tutto quel tempo lui aveva
continuato a scoparla, sbattendole dentro
il cazzo senza tregua come una
macchina, impietoso, crudele, sfrenato.
Adesso chiuse gli occhi e finalmente si
concesse di godere: fu come se tutto il
suo corpo esplodesse in una fiammata.
Una sensazione elementare. Primitiva.
Probabilmente l’orgasmo più intenso
che avesse mai avuto.
Dopo, fradici di sudore, con gli occhi
che già correvano all’orologio pensando
all’ultimo treno, lei gli disse: «Sai, mi
ero sempre chiesta come fosse… il
sesso violento. Sei stato davvero
bravo».
«Non l’avevo mai provato prima.
Certo, ne avevo letto, ma era solo teoria,
solo parole, concetti su una pagina.»
«Sapevo che avrei potuto fidarmi di
te, che non ti saresti spinto troppo
oltre.»
«Non volevo farti male. Non ti farei
mai del male.»
Lei
gli
si
era
avvicinata,
appoggiandogli la testa sulla spalla, e
aveva sussurrato: «Lo so».
Erano cominciate così settimane di
sperimentazione sessuale in cui Kathryn
a poco a poco aveva svelato i suoi
desideri più segreti, le sue fantasie più
profonde, il fuoco interiore che tradiva
la sua attitudine alla sottomissione. Non
era masochista, nient’affatto, ma la
ricerca del dolore, del superamento dei
limiti, era inequivocabilmente presente,
lo era stata per molti anni, dormiente
sotto la patina esterna di educazione e
buone maniere, e non aveva mai avuto
l’opportunità di liberarsi. Dominik era
stato il primo a riconoscere in lei quel
tratto e lo aveva istintivamente
incanalato nella giusta direzione,
dominandola
e,
così
facendo,
liberandola.
Aveva letto romanzi, conosceva
storie, ma questo non era il classico
cliché padrone-schiava, dominatoresottomessa. In quella situazione erano
coinvolti entrambi e insieme avevano
scavato sotto la superficie, strato dopo
strato, arrivando alle fondamenta del
desiderio e dell’attrazione sessuale. Non
c’era alcuna necessità di tutto
l’armamentario che un tempo veniva
associato a quel nuovo territorio di
godimento spinto all’eccesso: il latex, la
pelle, gli strumenti barocchi e crudeli.
Ormai avevano entrambi aperto gli
occhi e Dominik, almeno, sapeva che
non sarebbe mai più riuscito a chiuderli.
Era stato anche, inevitabilmente,
l’inizio della fine della loro relazione
clandestina. A ogni passo che li
avvicinava all’abisso del non ritorno, a
ogni nuova improvvisazione e a ogni
movimento che li allontanava dal fiume
tranquillo del sesso convenzionale, lui
vedeva i semi del dubbio attecchire
nella mente di Kathryn. La paura di dove
tutto ciò avrebbe potuto portarli.
Alla fine Kathryn aveva ceduto al
peso della realtà, dell’appartenenza
borghese, di una laurea in Letteratura a
Cambridge e di un matrimonio noioso
con un uomo gentile ma privo di
fantasia, e aveva deciso di chiudere.
Non si erano mai più parlati ed entrambi
avevano fatto in modo di non incontrarsi
casualmente a cerimonie o eventi, finché
con il marito non si erano trasferiti fuori
città
e
lei
si
era
ritirata
dall’insegnamento.
Dominik, però, aveva scoperchiato il
vaso di Pandora e l’intero vasto mondo
si era trasformato in una giungla piena di
deliziose
tentazioni.
E
la
consapevolezza che con Kathryn aveva
raggiunto un’altra dimensione, che nella
vita c’erano più cose di quante avesse
creduto, non l’avrebbe mai più
abbandonato.
Per prima cosa Dominik sapeva di
dover mettere Summer alla prova,
accertandosi della sua disponibilità,
della sua propensione a giocare. Aveva
già capito che era una che pensava con
la propria testa e che non sarebbe stata
sensibile
a
una
manipolazione
grossolana o al ricatto. Voleva che lei si
lanciasse
nell’avventura,
nell’esperimento,
con
la
piena
consapevolezza dei rischi e delle
conseguenze. Non stava cercando una
marionetta di cui avrebbe potuto
manovrare i fili a piacimento, una mera
comparsa. Voleva una complice che
provasse lo stesso brivido che provava
lui.
Dalla brevità del loro incontro e
dalle molte cose non dette lei doveva
aver già capito che il violino era solo
un’esca, che quello a cui mirava andava
oltre la musica. Forse non un patto con il
diavolo – Dominik non si vedeva in quel
ruolo machiavellico – ma un gioco in cui
entrambi i partecipanti avrebbero potuto
giocare l’uno contro l’altro fino alla
fine. In realtà lui non aveva la minima
idea del fine che voleva raggiungere. Sì,
c’era un’oscurità che desiderava
sondare, ma non sapeva ancora quanto
profonda potesse essere.
Telefonò a un conoscente che
bazzicava
gli
ambienti
di
un
conservatorio nella City e poteva
rispondere alle sue domande. Sì, c’era
un negozio dove avrebbe potuto
noleggiare un violino di discreta qualità
per un giorno, una settimana o anche un
mese e, sì, lui sapeva qual era il posto
migliore dove mettere un annuncio
rivolto a musicisti classici in cerca di un
ingaggio.
«Tieni presente che è per una festa
molto privata» puntualizzò Dominik.
«Potrebbero trovare da ridire sul fatto di
essere bendati?»
All’altro capo del telefono il suo
interlocutore sghignazzò. «Accidenti!
Credo che mi piacerebbe essere invitato
a questa festa!» commentò. Poi,
ritornando
serio,
aggiunse:
«Se
conoscono il pezzo che devono suonare
e la paga è buona, sono sicuro che
potrete
raggiungere
un
accordo
soddisfacente. Magari è meglio non
citare il particolare della benda
nell’annuncio».
«Capisco» disse Dominik.
«Fammi sapere com’è andata»
aggiunse l’altro. «A questo punto sono
molto curioso.»
«Ti
terrò
informato,
Victor.
Promesso.»
Il giorno successivo andò al negozio
che gli era stato consigliato. Era a metà
di Denmark Street, nel West End,
vicinissimo a Charing Cross Road. Da
fuori, come la maggior parte degli altri
negozi della via che un tempo era
chiamata Tin Pan Alley, sembrava
vendere solo chitarre elettriche, bassi e
amplificatori; nella vetrina non erano
esposti altri strumenti. Credendo di aver
ricevuto un’informazione sbagliata,
Dominik entrò nel negozio con una certa
esitazione, ma la vista di una grande teca
di vetro in cui erano esposti una mezza
dozzina di violini lo rassicurò subito.
Una ragazza dietro il bancone lo
salutò.
Aveva
capelli
corvini,
chiaramente tinti, che le arrivavano alla
vita, jeans aderenti come una seconda
pelle e il viso pesantemente truccato su
cui risaltava la bocca scarlatta. Esibiva
un vistoso piercing al naso e le sue
orecchie erano cariche di orecchini di
varie fogge. Per un attimo Dominik si
divertì a immaginare gli altri piercing
che molto probabilmente aveva. Tra i
suoi desideri di sempre c’era quello di
scoparsi una donna con un piercing ai
genitali, o magari ai capezzoli, ma finora
gli era capitato solo un piercing
all’ombelico, che purtroppo non si era
rivelato abbastanza erotico per i suoi
gusti. C’era sicuramente un che di
scadente o, meglio, proletario nei
piercing all’ombelico.
«Mi hanno detto che noleggiate
strumenti musicali» disse Dominik.
«Esatto, signore.»
«Mi serve un violino» spiegò.
La ragazza dark indicò la teca di
vetro. «Scelga pure.»
«Sono tutti a noleggio?»
«Sì, ma chiediamo un deposito
cauzionale in contanti o con la carta di
credito, e un documento di identità.»
«Naturalmente» convenne Dominik.
Portava sempre con sé il passaporto
nella tasca interna della giacca, una
vecchia abitudine che non aveva mai
perso. «Posso dare un’occhiata più da
vicino?»
«Certo.»
La commessa scelse una chiave tra le
tante che pendevano da una catena
attaccata al registratore di cassa e aprì
la teca.
«Non me ne intendo molto di violini,
temo. Sto facendo un favore a un’amica.
Suona soprattutto musica classica,
comunque. Lei ne sa più di me, per
caso?»
«Non molto. Sono più il tipo da
musica rock, elettrica» rispose la
ragazza con un sorriso. Le sue labbra
risaltavano come fari nella notte.
«Capisco. Be’, quale di questi è
considerato il migliore?»
«Suppongo quello più caro.»
«Mi pare sensato» commentò
Dominik.
«Non è scientifico, comunque»
replicò la commessa con un sorriso
civettuolo.
«Già.»
Gli porse uno dei violini. Sembrava
vecchio, con il legno arancione brunito
dall’uso di generazioni di proprietari
precedenti e scintillante sotto le luci al
neon del negozio. Dominik prese in
mano lo strumento con aria pensierosa.
Era molto più leggero di quanto si
sarebbe aspettato. Suppose che la sua
sonorità dipendesse da chi lo suonava.
Per un momento si irritò con se stesso.
Avrebbe dovuto farsi dare qualche
informazione in più sui violini prima di
andare in quel negozio. Doveva essere
sembrato un dilettante totale.
Passò le dita sul bordo dello
strumento.
«Lei suona qualcosa?» chiese alla
commessa. La T-shirt le era scivolata
giù dalla spalla destra e lui occhieggiò
un grande tatuaggio.
«La chitarra» rispose lei. «Ma da
bambina sono stata costretta a prendere
lezioni di violoncello. Forse un giorno
ricomincerò a suonarlo.»
Dalle fantasie sui presunti piercing
della
ragazza
Dominik
passò
velocemente a un immaginario filmino
privato di lei su un palco con il
violoncello tra le gambe. Sorrise al
pensiero e disse bruscamente: «Prendo
questo. Diciamo per una settimana?».
«Perfetto» confermò la commessa,
tirando fuori un blocchetto e mettendosi
a calcolare l’importo del noleggio,
mentre Dominik continuava a fissarle la
spalla nuda, seguendo con gli occhi i
fiori neri, verdi e rossi del tatuaggio e
accorgendosi nel frattempo che aveva
anche una minuscola lacrima tatuata
sotto l’occhio sinistro.
Nel negozio c’era un viavai di altri
clienti, serviti da un commesso che
indossava un abbigliamento dark, in
sintonia con quello della collega, ed
esibiva un taglio di capelli geometrico e
minimalista.
Alla fine la ragazza alzò lo sguardo,
lanciando un’ultima occhiata alla
colonna di numeri.
Il violino veniva noleggiato insieme
alla sua custodia.
Tornato a casa, Dominik appoggiò
con cura il costoso strumento su uno dei
divani e andò a controllare sul computer
le previsioni del tempo per la settimana.
Per il primo episodio dell’avventura che
aveva in mente avrebbe preferito non
essere in un luogo chiuso. Quello
sarebbe venuto dopo, quando la
prudenza non sarebbe stata mai troppa e
gli eventi sarebbero potuti degenerare in
esibizioni illecite, se effettuate in
pubblico.
Le previsioni erano buone. Niente
pioggia, perlomeno nei quattro giorni
successivi.
Mandò a Summer un SMS con il
giorno, l’ora e il posto del loro
prossimo incontro.
La risposta arrivò nel giro di
mezz’ora. Lei era libera e ancora
disponibile.
“Devo portare uno spartito?” si
informò.
“Non credo. Suonerai Vivaldi.”
Su Hampstead Heath – un grande parco
pubblico nella zona nord di Londra –
splendeva il sole e gli uccelli
cinguettavano, mentre sfrecciavano
avanti e indietro contro l’orizzonte. Era
mattina presto e l’aria era pungente.
Summer era uscita dalla metropolitana a
Belsize Park e si era incamminata giù
per la collina, oltrepassando il Royal
Free Hospital, il negozio della catena
Marks & Spencer che era stato costruito
sul sito di un vecchio cinema, la fila di
negozi in South End Road, la bancarella
di frutta e verdura vicino all’ingresso
della stazione ferroviaria, arrivando
infine al parcheggio dove lei e Dominik
avevano convenuto di incontrarsi. Era
già stata in quel parco alcuni mesi prima
con alcuni amici per un picnic durante il
weekend.
Nel parcheggio c’era solo un’auto,
u n a BMW grigio metallizzato, e da
lontano lei riconobbe il profilo di
Dominik seduto al posto di guida. Stava
leggendo un libro.
Come
da
istruzioni,
Summer
indossava un abito nero – quello di
velluto, che le lasciava la schiena
scoperta – e per proteggersi dal freddo
si era messa il cappotto che non aveva
ancora restituito a Charlotte.
Lui la vide arrivare, aprì la portiera e
rimase ad aspettarla in piedi accanto
all’auto, mentre lei camminava con
difficoltà sul ghiaino di quel parcheggio
municipale improvvisato, che nei giorni
festivi ospitava un luna park.
Le guardò i piedi, notando i tacchi
alti. Le sue scarpe d’ordinanza per le
esibizioni. Lui era vestito tutto di nero:
maglione a girocollo di cachemire e
pantaloni con la piega.
«Forse avresti dovuto metterti un
paio di stivali» commentò. «Dobbiamo
fare un pezzo di strada in mezzo all’erba
per raggiungere la nostra destinazione.»
«Mi dispiace» disse Summer.
«C’è ancora parecchia rugiada a
quest’ora del mattino. Ti si bagneranno
le scarpe. Può anche darsi che si
rovinino. Dovresti togliertele. Vedo che
indossi collant o calze. Ti dispiace?»
«Nient’affatto. Calze, in realtà.»
«Bene.»
Dominik
sorrise.
«Autoreggenti o giarrettiere?»
Summer si sentì arrossire. Un pizzico
di sfacciataggine la spinse a ribattere:
«Tu cosa avresti preferito?».
«Una risposta perfetta» commentò
Dominik, senza aggiungere altro. Poi
aprì la portiera posteriore dell’auto e
prese dal sedile una custodia da violino
nera e lucida. Summer rabbrividì.
Lui premette il telecomando per
chiudere la BMW e indicò la vasta
distesa erbosa che si estendeva al di là
della bassa recinzione del parcheggio.
«Seguimi.»
Quando
arrivarono
sull’erba,
Summer si tolse le scarpe. Dominik
aveva ragione: il terreno era umido e
cedevole. Dopo pochi minuti la
sensazione
divenne
abbastanza
piacevole. Lui la precedeva, facendo
strada. Oltrepassarono gli stagni,
attraversarono un ponticello che dava
sulla zona dei laghetti balneabili e
risalirono un sentiero. A quel punto lei
dovette rimettersi le scarpe perché i
ciottoli
le
si
conficcavano
dolorosamente nelle piante dei piedi. La
sensazione del nylon bagnato delle calze
contro il cuoio duro delle scarpe era
sgradevole, ma presto arrivarono a
un’altra distesa erbosa e lei si sfilò di
nuovo le scarpe tenendole per il
cinturino in una mano e seguendo
Dominik, che camminava a passo
sostenuto e deciso. Si chiese dove
fossero diretti. Non conosceva quella
zona del parco, ma per qualche ragione
si fidava di quell’uomo. Una sensazione
istintiva. Non credeva che lui la stesse
attirando in qualche oscuro recesso dei
boschi per approfittarsi di lei. Il
pensiero di una simile eventualità non la
preoccupava affatto.
Per qualche centinaio di metri la
chioma degli alberi nascose l’azzurro
del cielo e il calore del sole, poi furono
di nuovo alla luce. Uno spiazzo
circolare completamente aperto. Una
distesa infinita di verde, come un’isola
che emerge da un mare agitato, un lieve
pendio e, in cima, un padiglione per
l’orchestra. Il ferro battuto foggiato in un
antiquato stile vittoriano e le colonnine
punteggiate qua e là di ruggine si
affacciavano
su
una
distesa
meravigliosamente deserta. Summer
trattenne il fiato. Era bellissimo,
davvero, un posto perfetto, stranamente
deserto e misterioso. Adesso capiva
perché lui aveva scelto quell’ora del
mattino. Non ci sarebbero stati
spettatori, o comunque pochissimi, a
meno che il suono del violino non
avesse cominciato ad attirare qualcuno
da altre zone del parco.
Dominik fece un inchino e indicò la
struttura.
«Eccoci arrivati.» Le porse la
custodia del violino e lei salì i gradini
di pietra che conducevano al palco.
Dominik si sistemò in un angolo,
appoggiandosi con noncuranza a una
delle colonnine di metallo.
Summer provò un fugace moto di
ribellione. Perché stava obbedendo ai
dannati
ordini
di
quell’uomo,
mostrandosi così docile e sottomessa?
Una parte di lei avrebbe voluto puntare i
piedi e dire: “No” o “Scordatelo”, ma
un’altra parte, di cui non conosceva
l’esistenza fino a poco tempo prima, le
sussurrò seducente all’orecchio di stare
al gioco. “Di’ di sì.”
Si paralizzò.
Poi si riscosse, si portò al centro del
palco e aprì la custodia del violino. Lo
strumento sembrava magnifico, molto
meglio del suo vecchio violino ormai
distrutto. Mentre percorreva avidamente
con le dita il legno brunito, il manico, le
corde, colse lo sguardo di lui.
«È solo uno strumento provvisorio»
disse Dominik. «Quando avremo
definito le cose con reciproca
soddisfazione, ti procurerò un violino
definitivo, di qualità migliore.»
In quel momento Summer non
riusciva a immaginare di poter tenere tra
le mani uno strumento migliore di
quello. Il peso, l’equilibrio, le curve…
tutto sembrava assolutamente perfetto.
«Suona per me» le ordinò.
Lei si sfilò il cappotto, lasciandolo
cadere a terra. A quel punto il freddo
mattutino sulla sua schiena nuda era solo
una brezza gentile mentre lei prendeva
posizione, dimentica del posto in cui si
trovava, di quell’innaturale isolamento,
dei sottintesi della relazione – sì, sapeva
che sarebbe diventata una relazione –
con quell’uomo intrigante e pericoloso.
Si chinò in avanti per prendere
l’archetto dalla custodia che aveva
appoggiato sul pavimento, permettendo a
Dominik – lo sapeva benissimo – di
cogliere il movimento del suo seno sotto
la stoffa. Non metteva mai il reggiseno
con il vestito nero. Summer gli lanciò
un’occhiata – lui se ne stava lì, in
paziente attesa, il volto imperturbabile –
e poi iniziò ad accordare il violino.
Aveva un suono così pieno e ricco che
si propagò per tutto il padiglione, mentre
ogni nota fluttuava verso il soffitto della
struttura e si riverberava come un’eco
silenziosa.
Poi cominciò a suonare Vivaldi.
Ormai conosceva a memoria quei
quattro concerti. Erano il suo pezzo forte
sia quando si esibiva in strada o davanti
agli amici sia quando si esercitava. La
musica vecchia di secoli faceva cantare
il suo cuore e, mentre la suonava, gli
occhi sempre chiusi, poteva evocare i
paesaggi del Rinascimento italiano che
aveva visto in così tanti quadri, il
dispiegarsi della vita della natura e
degli elementi. Stranamente quei sogni a
occhi aperti ispirati da Vivaldi erano
popolati da poche persone, anche se lei
non si era mai preoccupata di trovare
una spiegazione per quel fatto bizzarro,
quell’omissione dal sapore freudiano.
Il tempo si fermò.
I suoni che uscivano in quel momento
dal violino erano davvero stupendi e
Summer sentì che stava scoprendo una
nuova e finora inesplorata dimensione
della musica. Non aveva mai suonato
così bene, rilassata, trovando la verità al
centro della melodia, cavalcandone
l’onda, lasciandosi risucchiare dal suo
vortice. Era bello quasi quanto il sesso.
Quando iniziò il terzo concerto, aprì
brevemente gli occhi per guardare
Dominik. Era sempre lì, nello stesso
posto, immobile, pensieroso, gli occhi
ipnoticamente fissi su di lei. Si ricordò
che una volta qualcuno le aveva detto
che la forma del suo corpo ricordava
quella del violino: vita stretta, fianchi
generosi. Era questo che lui stava
vedendo sotto la stoffa del vestito di
velluto nero?
Notò un gruppetto di passanti ai
margini della radura, senza dubbio
attirati da quella musica. Spettatori
anonimi.
Fece un respiro profondo, gratificata
e al tempo stesso contrariata dal fatto
che non fosse più un’esibizione per una
sola persona. Terminò l’esecuzione del
terzo concerto e smise di suonare.
L’incantesimo si era rotto.
Un paio di donne in tenuta da jogging
applaudirono da lontano.
Un uomo risalì in sella alla bici e
riprese il suo giro nel parco.
Dominik tossì con discrezione.
«Il quarto concerto è tecnicamente un
po’ più difficile» si giustificò Summer.
«Non sono sicura di riuscire a suonarlo
bene senza lo spartito» spiegò.
«Nessun problema» disse Dominik.
Summer aspettava il suo giudizio. Lui
continuava a fissarla.
Su di lei iniziò a scendere un pesante
silenzio. Sentì il freddo del mattino
morderle la pelle nuda. Rabbrividì. Lui
non reagì.
Dominik non le staccò gli occhi di
dosso, mentre lei diventava sempre più
nervosa. La musica e la sua esecuzione
erano state sublimi: esattamente come
aveva sperato. Portarla lì a suonare era
stata un’idea brillante e l’assolo gli
aveva suscitato una serie di potenti
emozioni, un senso di connessione
estremamente intimo. Adesso avrebbe
voluto sapere come sarebbe stata la
sensazione della pelle di lei, la curva
morbida delle sue spalle sotto le sue
dita, a contatto con la sua lingua, i
milioni di segreti celati da quel vestito.
Riusciva già a immaginare la forma del
suo corpo. Aveva sempre rimpianto di
non aver imparato a leggere la musica o
a suonare uno strumento quando era più
giovane, e sapeva che adesso sarebbe
stato troppo tardi per cominciare,
eppure sentiva che Summer era uno
strumento che lui avrebbe potuto suonare
per ore. E l’avrebbe fatto.
«È stato bellissimo.»
«Grazie, gentile signore.» Lei non
poté trattenersi dal prenderlo in giro.
Forse perché in quel momento era
sommamente felice.
Dominik si accigliò.
Aveva notato il sollievo sul volto di
Summer quando le aveva comunicato il
proprio verdetto, ma lei era ancora tesa:
lo intuiva dalla posizione delle spalle e
dalla mascella contratta. Forse sapeva
che quello era solo l’inizio. Che ci
sarebbe stato altro.
«Avrai il violino» le disse.
«Sei sicuro che non posso tenere
questo?» protestò lei, accarezzando il
lungo manico liscio con fare possessivo.
«È meraviglioso.»
«Non ne dubito, ma, come ho detto, te
ne troverò uno migliore. Te lo meriti.»
«Davvero?»
«Sì.» Il tono era deciso. Dominik non
avrebbe accettato ulteriori discussioni.
Si avvicinò a Summer, raccolse da
terra il cappotto e l’aiutò a indossarlo.
Poi tornarono all’auto, dove lei gli
restituì il violino.
Avrebbe avuto moltissime domande
da fargli, ma non sapeva da dove
cominciare.
Lui le indicò il sedile del passeggero.
«Siediti accanto a me» le ordinò.
Lei obbedì.
Aveva temuto che l’interno dell’auto
puzzasse di tabacco – Dominik aveva
l’aria del fumatore – ma non era così.
C’era un odore lievemente muschiato,
ma non sgradevole.
Dominik avvertì la sua vicinanza
mentre si sedeva al volante. Lei non
sapeva più di cannella e l’unico odore
che lui riuscì a distinguere fu un vago
sentore del sapone con cui doveva
essersi lavata quella mattina. Dolce,
pulito, rassicurante. Percepiva il calore
del suo corpo irradiarsi da sotto il
cappotto.
«La prossima volta che suonerai per
me, avrai il tuo violino, quello che
adesso andrò a cercarti, uno strumento
che ti si adatterà come un guanto,
Summer. Il prezzo non è un problema»
disse.
«Okay» replicò lei.
«Adesso parlami della tua prima
volta con un uomo, del sesso.»
Per un attimo Summer sembrò colta
alla sprovvista dalla brutalità della
domanda e Dominik pensò di essersi
sbagliato: forse lei non avrebbe retto il
suo gioco.
Summer tacque, raccogliendo i
pensieri e i ricordi. In fondo, per quanto
in un modo inconsueto, era già intima
con quell’uomo e non avrebbe avuto
senso tirarsi indietro adesso.
Il parabrezza dell’auto si stava
appannando e Dominik accese l’aria
condizionata.
Lei gli raccontò la sua prima volta.
Lo strumento era stato costruito da un
certo Pierre Bailly a Parigi nel 1900 e
gli costò una cifra esorbitante. Aveva
attirato la sua attenzione sul catalogo di
un rivenditore specializzato. Il colore
del legno virava verso il giallo più che
verso l’arancione o il marrone, una
sfumatura riposante che evocava
serenità e pazienza, ma che in realtà
custodiva più di un secolo di melodie ed
esperienza. Il proprietario del piccolo
negozio nella Burlington Arcade rimase
sorpreso che Dominik non volesse
suonarlo prima di acquistarlo e, sulle
prime, sembrò non credergli quando lui
gli spiegò che lo comprava per una
conoscente. Sapeva di avere le dita
lunghe, dita da musicista – glielo
avevano fatto notare molti amici e molte
donne che aveva conosciuto – ma aveva
forse l’aria di uno che suonava? Il
violino, poi!
Il costoso strumento aveva un
certificato di provenienza che elencava
tutti coloro che l’avevano posseduto
negli ultimi centododici anni. Erano stati
solo cinque, perlopiù con nomi stranieri
che evocavano un passato di guerre e
migrazioni
continentali.
L’ultima
proprietaria si chiamava Edwina
Christiansen. Dopo la sua morte, gli
spiegò il proprietario del negozio, gli
eredi avevano venduto il violino
all’asta, dove lui lo aveva acquistato
insieme ad altri oggetti di minor valore.
Quando Dominik gli chiese se fosse in
grado di fornirgli ulteriori informazioni
sulla defunta Miss Christiansen, l’uomo
rispose di no.
Il violino Bailly non era provvisto di
custodia e Dominik ne ordinò una
online, nuova di zecca, perché aveva la
sensazione che per Summer sarebbe
stato meglio non far sapere a tutti che
possedeva uno strumento prezioso
portandolo in giro in una custodia
visibilmente antica. Dominik era sempre
stato un tipo molto pratico, oltre che
prudente.
Quando la custodia arrivò, lui trasferì
il violino nella sua nuova dimora e lo
imballò con cura prima di affidarlo a un
corriere che l’avrebbe recapitato a
Summer Zahova nell’appartamento che
condivideva con altre persone nell’East
End. Le istruzioni erano chiare: lei
avrebbe dovuto firmare personalmente
la ricevuta. La avvertì dell’imminente
consegna e le chiese di avvertirlo, una
volta avvenuta.
Ricevette da Summer un SMS di una
sola parola: “Bellissimo”.
Nella lettera che accompagnava il
prezioso pacco Dominik la esortava a
esercitarsi il più possibile, fino al
momento in cui le avrebbe chiesto di
suonare di nuovo per lui, e le vietava di
esibirsi in pubblico, per il momento, e
meno che mai nella metropolitana.
Adesso lui doveva procedere con
l’organizzazione della parte successiva
del piano.
Il suo annuncio nella bacheca del
conservatorio dedicata agli ingaggi
richiedeva tre musicisti, preferibilmente
sotto i trent’anni, abituati a suonare in un
quartetto d’archi e disponibili per
un’unica esibizione in una cornice
insolita e con pochissimo tempo per le
prove. La discrezione sarebbe stata
adeguatamente
ricompensata.
Si
chiedeva di allegare alla propria
candidatura anche una foto.
Solo una delle risposte che ricevette
presentava tutti i requisiti: un gruppo di
studenti del secondo anno che si era
esibito per tutto il primo anno come
quartetto, ma al quale adesso mancava
un membro, la seconda violinista,
tornata poche settimane prima nella natia
Lituania. I due maschi, che suonavano
uno il violino e l’altro la viola, erano
presentabili, mentre la violoncellista,
una giovane con una massa di riccioli
biondi, era decisamente carina.
Tutte le altre candidature erano di
solisti che avevano suonato raramente
insieme ad altri, per cui la scelta si
rivelò piuttosto facile. Prima di
organizzare un colloquio formale con i
tre studenti selezionati, Dominik mandò
loro il questionario preparato per
l’occasione e, dopo aver ricevuto tutte
risposte positive, come si era aspettato
(visto il sostanzioso compenso che
poteva offrire), fece in modo di parlare
con loro su Skype, ponendo le ultime
domande e valutando le reazioni ad
alcune delle richieste più insolite.
Avrebbero
dovuto
vestirsi
completamente di nero e fare una rapida
prova con il quarto musicista; per
l’esibizione vera e propria, inoltre,
sarebbero stati bendati. Avrebbero
firmato un documento che li avrebbe
costretti al pagamento di una penale nel
caso in cui avessero lasciato trapelare
informazioni sul concerto privato che
avrebbero tenuto. Non avrebbero più
dovuto cercare di mettersi in contatto né
con lui né con il quarto membro del
quartetto dopo l’esibizione.
Tutti e tre i musicisti rimasero
sconcertati da quella proposta, ma il
compenso economico bastò a fugare i
loro dubbi.
La violoncellista suggerì a Domink
un posto che avrebbe potuto essere
affittato per l’occasione, la cripta di una
chiesa sconsacrata dove l’acustica era
perfetta per gli strumenti ad arco e che
“garantisce totale privacy per qualunque
cosa lei abbia in mente”. Sembrava
quasi sapere che casa sua non era adatta
allo scopo.
Come aveva fatto a intuire che cosa
aveva in mente? si chiese, notando una
scintilla di divertimento negli occhi
della giovane bionda.
Fu scelto il repertorio e lui prese
nota dei dati dei tre musicisti prima di
concludere la chiamata. Adesso che era
tutto a posto, poteva decidere la data.
Prese il telefono.
«Summer?»
«Sì.»
«Sono Dominik. Suonerai di nuovo
per me la settimana prossima» la
informò, precisando il luogo e l’ora. Le
fece, inoltre, sapere che cosa avrebbe
suonato e aggiunse che avrebbe fatto
parte di un quartetto e che avrebbe
potuto provare per due ore insieme agli
altri prima del concerto privato.
«Due ore non sono molte» gli fece
notare lei.
«Lo so, ma è un pezzo che gli altri tre
conoscono bene, il che renderà le cose
un po’ più facili.»
«Okay» accettò Summer. Poi
aggiunse: «Il Bailly sarà divino in una
cripta».
«Non ne dubito» disse Dominik.
«E…»
«E?»
«Suonerai nuda.»
5
Una ragazza e i suoi ricordi
Dominik mi aveva chiesto di
raccontargli della mia prima volta.
In seguito, ripensandoci, mi parve
strano che avessi accettato di
parlargliene, ma suonare le Quattro
stagioni mi aveva fatta precipitare in
uno stato onirico, come sempre.
Diedi la colpa a questo.
Ecco ciò che gli raccontai.
«Ho fatto le mie prime esperienze
sessuali da sola. Masturbandomi. Ho
cominciato da piccola. Prima delle mie
amiche, credo, anche se non ne ho mai
parlato con nessuno. Mi vergognavo
sempre un po’. In realtà, non sapevo
quello che stavo facendo. Non venivo
neanche, perlomeno i primi anni.
«Quando suono, come forse hai
notato, la musica mi induce una sorta di
trance, per cui a un certo punto mi isolo
in un mondo che è solo mio. Non appena
smetto, però, tutto torna a sommergermi
come un’onda di piena. Vedi, suonare il
violino ha sempre avuto un effetto fisico
su di me, una specie di sfogo, ma al
contempo sembra acuirmi i sensi.»
Lanciai un’occhiata a Dominik, per
sondare le sue reazioni.
Aveva abbassato lo schienale del
sedile e stava sdraiato, rilassato. Mi
sdraiai anch’io, inalando il profumo
della sua auto, un odore di pulito e di
fresco che tendevo ad associare ai
proprietari delle BMW. L’interno della
macchina era immacolato, privo di
personalità: nessuna traccia di uno
spuntino consumato di recente, della
fondina di una pistola o di involucri
sospetti, solo il libro che stava leggendo
posato sul cruscotto.
Dominik non mi guardò, si limitò a
fissare davanti a sé. Aveva l’aria di chi
è completamente a proprio agio, come
se fosse immerso nella meditazione.
Nonostante la stranezza della situazione,
la sua reazione, o piuttosto la mancanza
di reazioni, mi tranquillizzò. Stavo
rivelando segreti che non avevo mai
confidato a nessuno, ma il modo in cui
lui si confondeva con l’auto mi dava
quasi l’impressione di parlare a me
stessa.
Proseguii. «Talvolta suonavo nuda,
con la finestra aperta, godendomi l’aria
fredda sulla pelle. Lasciavo le luci
accese e le tende aperte, immaginando
che i vicini potessero vedermi suonare il
violino senza niente addosso. Se mi
hanno vista, non ne hanno mai fatto
cenno.
«La cosa andò avanti per un po’ e io
finii per passare così tanto tempo da
sola che, quando iniziai il liceo, mia
madre si preoccupò che potessi
diventare paranoica e ossessiva, e cercò
di indurmi a praticare uno sport
scolastico o a frequentare un corso di
teatro. Voleva che facessi qualcosa di
“normale”. Litigammo e alla fine fu lei a
spuntarla, anche se mi concesse di
scegliere lo sport a cui dedicarmi.
«Optai per il nuoto, soprattutto per
farle un dispetto, perché sapevo che
avrebbe voluto qualcosa di più
“sociale”, come l’hockey o il netball,
ma io vinsi quel round sostenendo che
braccia più forti mi sarebbero state utili
per suonare il violino.»
Dominik fece un sorrisetto mentre gli
raccontavo quel particolare, ma rimase
in silenzio, aspettando pazientemente
che proseguissi.
«Scoprii che nuotare mi faceva
praticamente lo stesso effetto che
suonare il violino. Mi piacevano la
sensazione dell’acqua e il modo in cui il
tempo scompariva, una bracciata dopo
l’altra. Non sono mai stata molto veloce,
ma avrei potuto nuotare all’infinito.
Nuotavo così a lungo e con tale facilità
che il mio istruttore doveva darmi un
colpetto sulla spalla per dirmi che
l’allenamento era finito e potevo andare
a casa.
«Era un bel ragazzo ed era stato
campione regionale quando andava alle
superiori. Aveva smesso di gareggiare
nel momento in cui aveva cessato di
vincere. Era diventato istruttore, ma
aveva ancora il fisico del campione.
Indossava la tenuta regolamentare da
bagnino: pantaloncini corti, T-shirt e
fischietto per darsi un tono. Io perlopiù
lo ignoravo. Pensavo che si desse un po’
troppe arie e che la cosa, in qualche
modo, non gli si addicesse. Era come se
stesse recitando una parte. Tutte le altre
ragazze gli sbavavano dietro. Non so
quanti anni avesse. Era più grande di
me, comunque.
«Alla fine, è stato lui. Il mio
istruttore di nuoto. La mia prima volta.»
Lanciai un’altra occhiata a Dominik.
La sua espressione era impassibile,
divertita.
«Continua» disse.
«Un pomeriggio lui non mi fermò. Mi
lasciò continuare a nuotare. Dopo non so
quante
vasche
mi
resi
conto
all’improvviso che stava facendo buio e
che ero rimasta sola nella piscina. Tutti
gli altri se n’erano andati. Quando uscii
dalla vasca, lui mi disse che voleva
vedere se avrei continuato a nuotare
finché non mi avesse fermata.
«Presi l’asciugamano e mi diressi
negli spogliatoi, e quando iniziai ad
asciugarmi mi resi conto che ero…
be’… eccitata. In realtà non riuscivo a
capire bene che cosa fosse, ma era una
sensazione così forte che non potei
aspettare di arrivare a casa. Mi stavo
toccando quando mi accorsi che lui mi
osservava dalla porta dello spogliatoio.
Forse mi ero dimenticata di chiuderla.
«Non mi fermai. Avrei dovuto farlo,
immagino, ma il modo in cui lui mi
guardava… Continuai a toccarmi. E fu la
prima volta che ebbi un orgasmo.
Mentre lui mi guardava.
«Poi, dopo avermi vista godere, entrò
nello spogliatoio. E quando tirò fuori
l’uccello non riuscii a smettere di
guardarlo.
«“Non ne avevi mai visto uno, vero?”
mi disse.
«Risposi di no.
«Poi mi chiese se mi sarebbe
piaciuto sentirlo dentro, e io dissi di sì.»
Mi girai verso Dominik, per vedere
se voleva che continuassi. Lui si
riscosse dalle sue fantasticherie quasi
subito.
«Bene» disse, riportando il sedile in
posizione verticale. «Questo è tutto ciò
che volevo sapere. Un’altra volta,
magari,
potrai
raccontarmi
i
particolari.»
«Certo» ribattei e armeggiai con la
leva per riportare anche il mio sedile in
posizione verticale. Forse il fatto di
raccontare la mia storia a quell’uomo
avrebbe dovuto mettermi a disagio, ma
non fu così. Anzi, mi sentivo più leggera
dopo aver affidato a Dominik il peso di
segreti passati.
«Dove vuoi che ti accompagni?»
«Alla stazione della metropolitana va
benissimo, grazie.»
«Perfetto.»
Ero disposta a raccontare a Dominik
i dettagli della mia vita sessuale, ma non
a fargli vedere dove abitavo, e
comunque non ero ancora sicura che lui
volesse saperlo.
Non avrei più dovuto preoccuparmi di
difendere la mia privacy con lui. Nel
giro di una settimana mi aveva chiesto
l’indirizzo di casa e mi aveva indicato
una data e un’ora in cui avrei dovuto
farmi trovare nell’appartamento per
firmare la ricevuta di un pacco. Prima di
dirgli dove abitavo, esitai. A parte il
tizio che consegnava le pizze nella via,
sarebbe stato l’unico uomo di Londra ad
avere i miei dati personali. Lui, però,
doveva spedirmi qualcosa e se mi fossi
rifiutata di dargli il mio recapito sarei
sembrata sgarbata o paranoica. Il pacco,
come mi aspettavo, era il violino che mi
aveva promesso. Data la qualità dello
strumento provvisorio che mi aveva
fornito per il concerto di Vivaldi al
parco, pensavo che avrebbe scelto
qualcosa di bello, ma non mi sarei mai
immaginata uno strumento di tale
splendore. Era un Bailly di prim’ordine,
il legno di un giallo caldo, quasi
caramello, il colore di un vasetto di
miele di manuka osservato controluce.
Mi fece venire in mente la Nuova
Zelanda, le sfumature dorate del fiume
Waihou quando il sole si riflette sulla
sua superficie.
Secondo il certificato accluso,
l’ultima proprietaria era stata una certa
Miss Edwina Christiansen. Curiosa
come sempre delle storie riguardanti i
miei violini, cercai informazioni su
Google, ma non trovai niente. Oh, be’, la
mia immaginazione avrebbe avuto di che
sbizzarrirsi.
La custodia era nuovissima, nera con
la fodera di velluto rosso scuro. Un po’
morbosa per i miei gusti, e per niente
intonata al colore caldo del Bailly, ma
Dominik sembrava un tipo sveglio e non
romantico nel senso deteriore del
termine, così supposi che quella
custodia fosse solo un modo per
mascherare il valore di ciò che
conteneva.
C’era una lettera di istruzioni
allegata: avrei dovuto fargli sapere di
aver ricevuto il violino e poi esercitarmi
il più possibile, ma senza esibirmi in
pubblico. E avrei dovuto aspettare
ulteriori istruzioni. Esercitarmi e
aspettare.
Esercitarmi con il Bailly era una
gioia. Lo strumento mi si adattava alla
perfezione, come se il mio corpo si
fosse trasformato per accoglierlo.
Avevo chiesto un periodo di aspettativa
agli organizzatori delle esibizioni in
strada e loro, viste le circostanze – la
rissa in cui ero rimasta coinvolta in
metropolitana – si erano mostrati molto
comprensivi. Suonavo il Bailly tutto il
giorno, meglio di quanto avessi mai
suonato prima; la musica usciva dalle
mie dita come se fosse intrappolata
dentro di me e il violino di Dominik
fosse la chiave per liberarla.
Aspettare era tutt’altra cosa. Sono
paziente per natura e ho sempre preferito
gli sport di resistenza. Tuttavia, avrei
voluto sapere in che cosa esattamente mi
stavo impegnando. Ero convinta che
nessuno desse niente per niente, perciò
presumevo che Dominik volesse un
ritorno dal suo investimento; decisi,
così, di considerare il violino un
prestito anziché un regalo, almeno finché
non avessi capito i termini di
pagamento. Lui aveva proposto un
accordo di reciproca soddisfazione, non
di fare di me la sua mantenuta. L’avrei
respinto senza esitazione se l’avesse
fatto. Eppure, finché non sapevo che
cosa voleva, non potevo decidere se
gliel’avrei concesso oppure no.
Non ero in cerca di una nuova
relazione, non così presto dopo Darren.
Speravo di rimanere single per un po’. E
Dominik non sembrava un uomo in cerca
di una ragazza. Era riservato, solitario;
non aveva l’aria disperata di chi va a
caccia di una partner. Ripensai al suo
contatto iniziale via mail. Un po’ da
imbranato, forse, uno con una ricca
collezione di porno artistici sul PC, ma
non il tipo con un profilo su un sito per
cuori solitari.
Se non voleva uscire con me, che
cosa voleva?
Guardai di nuovo il violino, feci
scorrere le dita sulla curva aggraziata
del manico e immaginai che dovesse
costare una cifra nell’ordine delle
decine di migliaia di sterline.
A fronte di un simile investimento
che genere di ritorno, e di quale entità,
si aspettava Dominik? Che cosa avrebbe
soddisfatto un uomo simile?
Il sesso? Era la risposta più ovvia.
Ma, pensai, non quella giusta.
Un uomo alla ricerca del sesso si
sarebbe limitato a invitarmi a cena. Un
mecenate desideroso di sostenere una
giovane musicista senza mezzi mi
avrebbe mandato il violino senza tutto
quello sfoggio di teatralità.
L’approccio di Dominik nascondeva
qualcos’altro. Lui non aveva l’aria dello
psicopatico, ma sembrava godere del
gioco che stava facendo, qualunque esso
fosse. Mi chiesi se avesse in mente uno
scopo, un fine partita, oppure se fosse
solo ricco e annoiato.
Avrei potuto restituire il violino,
ovviamente, e forse sarebbe stata la
cosa giusta da fare. Ma non era solo lo
strumento a interessarmi; in realtà, ero
curiosa.
Quale sarebbe stata la prossima
mossa di Dominik?
Pochi giorni dopo squillò il telefono.
Lui parlò prima che avessi la
possibilità di dire “pronto”. In altre
circostanze la cosa mi avrebbe dato
fastidio, ma questa volta decisi di starlo
a sentire.
«Summer?»
«Sì.»
Mi informò freddamente che avrei
suonato per lui la settimana successiva,
nel pomeriggio. Il Quartetto per archi
n. 1 di Bedřich Smetana, fortunatamente
un pezzo che mi piaceva e mi era
abbastanza familiare, dato che era uno
dei preferiti di Mr Van der Vliet. Mi
sarei esibita insieme ad altri tre
musicisti che conoscevano benissimo
quel brano, poiché a quanto pareva il
violinista e il violista l’avevano
eseguito varie volte. Non avrei dovuto
preoccuparmi per la mia privacy o per
la discrezione degli altri membri del
quartetto, dal momento che si erano
impegnati a non rivelare alcun
particolare di quell’evento. Il che era
una fortuna, visto che avrei suonato
nuda.
Ai miei colleghi musicisti sarebbe
stato chiesto di bendarsi gli occhi prima
che io mi spogliassi, per cui Dominik
sarebbe stato il solo a vedermi nuda.
Non appena ebbe finito di parlare, mi
sentii invadere da un’ondata di calore.
Avrei dovuto rifiutare, immaginai
ancora una volta. Mi aveva appena
chiesto di punto in bianco di spogliarmi
di fronte a lui. Ma se gli avessi detto di
no, non avrei mai saputo che cos’aveva
in mente. E poi, pensai oziosamente, in
fondo quello sarebbe stato il nostro
terzo appuntamento. Visto che talvolta
finivo a letto con un uomo al primo
appuntamento, non faceva poi tanta
differenza, a parte il fatto che avevo
accettato in anticipo.
Avevo accettato?
Dominik non aveva detto che voleva
scoparmi.
Forse voleva solo guardarmi.
Il pensiero mi stuzzicò parecchio, e
nonostante tutti i miei sforzi per ignorare
la sensazione scoprii di essere eccitata e
bagnata.
D’altronde, non c’era da stupirsi: ero
così stravolta dalla perdita del violino e
da tutti gli eventi che ne erano conseguiti
che non avevo avuto il tempo di vedere
nessuno. Non scopavo dall’ultima volta
con Darren. Però mi dava fastidio il
pensiero che Dominik avesse questo
effetto. Gli dava un vantaggio su di me
in qualunque trattativa avesse in mente
di condurre.
Nuda, con lui che mi guardava,
temevo che avrebbe capito l’effetto che
mi faceva. Dopo le rivelazioni in auto,
quel giorno ad Hampstead Heath,
dubitavo che ne sarebbe rimasto
sorpreso. Probabilmente stavo per
offrirgli proprio la reazione che si
aspettava.
Se quello doveva essere uno scontro
di volontà, allora gli avevo fornito tutte
le munizioni di cui aveva bisogno.
Una settimana dopo mi recai nel
posto indicatomi da Dominik, una cripta
privata in Central London. Non la
conoscevo, ma non mi stupii che
esistesse un luogo simile. Londra è una
città piena di sorprese. Lui mi aveva
dato l’indirizzo quando mi aveva
telefonato, consigliandomi di non andare
a vederla prima per non rovinare la
spontaneità dell’esibizione. Avevo
preso in considerazione di andarci lo
stesso, ma mi sentivo stranamente
obbligata a seguire le sue istruzioni alla
lettera. Aveva comprato il violino e in
fin dei conti quello era il suo concerto.
La cripta era nascosta in una via
laterale: l’unico indizio della sua
esistenza era una piccola targa di ottone
sullo stipite sinistro di una porta di
legno.
Spinsi
il
battente
con
circospezione ed entrai, scoprendo una
ripida scala che si immergeva in una
pozza di oscurità.
Poco prima mi ero tolta le scarpe
basse e avevo indossato quelle con il
tacco, e adesso inciampai sui gradini di
pietra sconnessi, persi l’equilibrio e per
poco non ruzzolai in fondo alle scale,
mentre cercavo invano un corrimano
sulla parete alla mia destra.
Mi si fermò il respiro in gola. Non si
trattava di paura, anche se il buonsenso
diceva che avrei dovuto essere nervosa,
che avrei dovuto dire a qualcuno dove
andavo, fare in modo che un’amica mi
telefonasse a un’ora stabilita. Ma non
avevo parlato con nessuno del Bailly né
della cripta, nemmeno con Charlotte.
Questa svolta nella mia vita sembrava
troppo
strana
perché
potessi
condividerla con qualcuno. Inoltre,
pensai stringendomi nelle spalle, se
Dominik avesse voluto uccidermi aveva
già avuto più di un’occasione per farlo.
La stretta allo stomaco e il battito
accelerato non erano imputabili solo al
nervosismo. Ero eccitata. Suonare con
tre musicisti nuovi sarebbe stata una
sfida, questo era certo, ma avevo
provato il pezzo fino a poterlo eseguire
al meglio in qualunque circostanza. E
sapevo che Dominik non avrebbe tratto
alcun piacere da un pomeriggio che non
si fosse svolto come lui voleva.
Qualunque cosa avesse in serbo, ero
certa che avesse pianificato ogni
dettaglio – inclusa la mia esibizione – in
modo da ottenere la perfezione.
C’era, poi, la faccenda della mia
nudità, ovviamente, ma il pensiero di
suonare nuda per Dominik in realtà mi
eccitava più di quanto mi infastidisse.
Ero sempre stata un po’ esibizionista,
un’informazione
che
lui
aveva
evidentemente ricavato dal racconto
della mia prima esperienza sessuale e di
cui aveva fatto tesoro.
Eppure ero ancora un po’ reticente, in
parte, immaginavo, per il pensiero di
mostrarmi svestita in pubblico. Mi
piaceva camminare nuda per casa, ma
spogliarmi deliberatamente per un
estraneo era tutt’altra cosa. Non ero
sicura di riuscire ad affrontarla. Ero
combattuta. Se mi fossi rifiutata, gli
avrei fatto capire che mi aveva turbata,
che mi aveva irritata; ma se avessi
accettato, lui avrebbe avuto il coltello
dalla parte del manico. E poi, in un
angolo della mente, c’era un pensiero di
cui non riuscivo a liberarmi: tutta quella
situazione mi eccitava sessualmente. Ma
perché? Che cosa c’era che non andava
in me?
Decisi di prepararmi perlomeno
all’eventualità di dovermi togliere i
vestiti. Poi, quando sarebbe arrivato il
momento di farlo davvero, avrei
valutato la situazione.
Mi ero preparata con impegno per
l’evento, non solo dal punto di vista
musicale. Quella mattina mi ero fatta la
doccia con calma, mi ero accuratamente
depilata le gambe e poi avevo fatto una
riflessione sulla zona inguinale. Radermi
o non radermi? Questo era il dilemma.
Darren mi preferiva completamente
rasata, motivo per cui, in un piccolo
gesto di ribellione, mi ero fatta
ricrescere i peli. Tanto, difficilmente lui
avrebbe avuto ancora occasione di
indugiare tra le mie gambe.
Dominik che cosa avrebbe preferito?
mi ero chiesta.
Era un uomo insolito, che fino a quel
momento
aveva
mostrato
una
predilezione per l’opulenza, per i
dettagli, e sospettavo che i suoi gusti
sessuali propendessero per l’esotico.
Forse i peli gli sarebbero piaciuti. Il
lieve odore muschiato, la copertura. La
mia mente si perse in meandri oscuri,
pensieri che il buonsenso richiamò
subito indietro. Mi affrettai ad
allontanare quelle fantasie. Dominik
aveva già avuto più di un’occasione di
guardarmi nell’anima. Per fortuna, gli
altri membri del quartetto sarebbero
stati bendati e non avrebbero potuto
assistere a quello spettacolo. Alla fine
avevo stabilito di dare solo una
spuntatina ai peli, decidendo di
mantenere un ultimo schermo a difesa
della mia privacy, appena un centimetro
o due. Non sarei rimasta completamente
nuda sotto lo sguardo di quell’uomo, non
ancora.
Lentamente arrivai in fondo alla
scala, trovai un’altra porta di legno e
l’aprii. Fui subito investita dall’aria
pesante e dolciastra che aleggiava
all’interno della cripta ed ebbi
l’impressione di trovarmi in un sepolcro
sotterraneo. La stanza era alta, ma stretta
e il soffitto ad archi dava una
claustrofobica sensazione di chiuso.
Ripensai al dungeon del club fetish
dov’ero stata con Charlotte. Questa
cripta rispondeva meglio all’idea che mi
ero fatta di una segreta.
Le pareti erano illuminate da una
fioca luce elettrica che contrastava
singolarmente con l’atmosfera antica del
luogo, e c’era un odore di candele
accese da poco. Faceva piuttosto freddo,
anche se ero sicura che là dove c’era un
interruttore della luce doveva esserci
anche un sistema di riscaldamento.
Forse Dominik aveva ordinato di
spegnerlo perché l’ambiente sembrasse
più autentico. O forse voleva vedere la
reazione della mia pelle a contatto con
l’aria fredda. Strinsi forte la custodia
del Bailly e respinsi quel pensiero.
Vidi i tre musicisti sulla pedana
centrale leggermente rialzata e mi
diressi verso di loro, con i tacchi che
battevano sul pavimento di pietra e
rimandavano
echi
musicali.
All’improvviso il mio nervosismo si
trasformò in gioia: l’acustica era
davvero incredibile e il Bailly sarebbe
risuonato in modo straordinario lì sotto.
Ben presto Dominik avrebbe assistito al
concerto della sua vita. Almeno quello
potevo garantirlo. Come previsto, di lui
non c’era traccia. Mi presentai agli altri
musicisti e sulle prime la conversazione
stentò a decollare: la situazione era
assolutamente fuori dell’ordinario per
tutti.
Indossavano abiti neri, camicie
bianche immacolate e papillon neri. Due
di loro, il violinista e il violista, erano
soggetti
piuttosto
silenziosi.
La
violoncellista, che disse di chiamarsi
Lauralynn, sembrava la leader del
gruppo e parlò per tutti e tre. Era sicura
di sé, ma non arrogante. Americana, di
New York, era a Londra per studiare
musica. Era alta, con le gambe lunghe e
un’aria da amazzone, vestita come gli
uomini, con camicia e papillon, ma
indossava una marsina corta, tagliata in
modo da mettere in risalto la vita e i
fianchi. Con la criniera di capelli biondi
e i lineamenti delicati, era un curioso
mix di virilità e femminilità, ed era
molto attraente.
«Così conosci Dominik?» mi
informai.
«E tu?» ribatté evasiva.
La fugace espressione di divertita
malizia che le passò sul volto mi fece
pensare che Dominik le avesse rivelato
più cose di quelle che aveva detto a me
riguardo al suo piano, anche se lei
continuava a eludere tutte le mie
domande. Alla fine, smisi di chiedere e
mi decisi a cominciare le prove del
concerto. Non avevamo molto tempo.
Il brano che avremmo suonato era
piuttosto intenso, un po’ cupo, una scelta
eccellente per quell’ambiente, e
Dominik aveva ragione: Lauralynn e i
suoi
due
timidi
compagni
lo
conoscevano bene.
Udii i passi di Dominik prima di
accorgermi che stava arrivando, le
scarpe che percuotevano con un rumore
secco il pavimento di pietra, uno
staccato di tamburo che si sovrapponeva
al prolungato e lacerante Mi armonico
dell’ultimo movimento che stavo
suonando mentre lui si avvicinava al
palco.
Mi fece un cenno d’intesa con la testa
e poi segnalò ai musicisti di mettersi la
benda sugli occhi.
Loro obbedirono.
Evidentemente non gli aveva detto
che sarei stata nuda durante il concerto.
Poi salì sul palco e mi sussurrò
all’orecchio quello che avrei dovuto
fare. Le sue labbra mi sfiorarono appena
il lobo e io arrossii.
«Puoi spogliarti.»
Questa volta indossavo un vestito
nero corto invece di quello lungo di
velluto,
perché
attirava
meno
l’attenzione durante un tragitto diurno in
metropolitana. Era un modello con una
spallina sola e una cerniera laterale
nascosta, e aderiva perfettamente al mio
corpo. Avevo evitato di mettermi il
reggiseno, così quando mi fossi
spogliata – se mai l’avessi fatto – non
sarebbero rimasti i segni delle spalline
sulla pelle. Ero stata sul punto di non
mettermi nemmeno le mutandine per la
stessa ragione, ma avevo cambiato idea
all’ultimo momento, cosa di cui ero stata
ben contenta quando l’orlo del vestito
mi era risalito lungo le cosce mentre
allungavo la gamba per colmare l’ampio
divario tra la banchina e il treno alla
stazione di Bank.
Dominik si allontanò e si accomodò
su una sedia sistemata davanti al palco.
Mi fissava con aria impassibile dietro
l’abituale espressione educata, protetto
da un sottile muro di riservatezza che
supponevo nascondesse una natura molto
più animalesca di quanto si intravedeva
al primo sguardo.
Mi sarebbe piaciuto provare a far
breccia in quel muro, costasse quel che
costasse.
Respirai a fondo e mi decisi.
Sostenendo lo sguardo di Dominik,
feci scivolare una mano lungo il fianco e
abbassai la cerniera.
Che a un certo punto si bloccò.
Un bagliore infiammò i suoi occhi,
mentre lottavo contro il vestito. E quello
sulla faccia di Lauralynn era un sorriso
malizioso?
Riusciva
a
vedermi
nonostante la spessa benda?
Avvampai immaginando anche il suo
sguardo sul mio corpo.
Dovevo essere rossa come un
peperone. Avevo sperato di riuscire
almeno a lasciar cadere il vestito con un
unico movimento fluido, come fanno
sempre le protagoniste dei film. Forse
avrei dovuto fare qualche prova. In ogni
caso, adesso avrei preferito morire,
piuttosto che chiedere aiuto a Dominik.
Alla fine, mi liberai maldestramente
dell’abito e arrossii ulteriormente,
quando mi resi conto che mi sarei
dovuta chinare per togliermi le
mutandine. Mi voltai leggermente, per
nascondere il seno penzolante, prima di
accorgermi di quanto dovesse sembrare
sciocca quella mia reticenza, visto che
sapevo di dover suonare nuda davanti a
lui.
Alla fine presi il violino, vincendo
l’improvviso impulso di usarlo per
coprirmi il corpo, mi raddrizzai e iniziai
a suonare. Vaffanculo la nudità e
vaffanculo Dominik. Un lampo di
irritazione mi passò sul volto prima che
la musica avesse la meglio.
La prossima volta, se ce ne fosse
stata una, non mi sarei mostrata così
vulnerabile nello spogliarmi.
Quando la musica finì, allentai la presa
sul manico del violino, quindi abbassai
lo strumento, deponendolo al mio fianco.
Di fronte a me Dominik applaudiva con
deliberata lentezza e un sorriso
enigmatico. Mi resi conto che la mano
con cui tenevo l’archetto stava
tremando, mentre io ansimavo e avevo
la fronte madida di sudore, come se
avessi appena finito di correre una
maratona. Probabilmente era stato
proprio così, anche se non mi ero
accorta di niente mentre suonavo, la
testa piena di pensieri sull’Europa
orientale, Edwina Christiansen e tutte le
storie che il Bailly doveva custodire
dentro di sé.
Mi chiesi quando mi sarei potuta
permettere una breve vacanza. Vista la
mia situazione economica, avevo potuto
viaggiare per l’Europa molto meno di
quanto mi sarebbe piaciuto.
Dominik
interruppe
le
mie
divagazioni con un colpetto di tosse.
«Grazie» disse.
Gli feci un cenno d’intesa con la
testa.
«Puoi
andare,
adesso.
Ti
accompagnerei volentieri alla porta, ma
devo congedare gli altri musicisti e
sistemare le questioni relative al loro
compenso. Immagino che tu sia in grado
di uscire di qui senza problemi.»
«Certo.»
Mi rimisi il vestito, affettando una
nonchalance che ero ben lungi dal
provare, e ignorai la battuta sull’uscire
senza problemi.
Forse Dominik sapeva che all’arrivo
ero quasi ruzzolata giù dalle scale.
«Grazie» dissi agli altri musicisti,
tutti ancora seduti e bendati, in attesa
delle istruzioni di Dominik. Avevano
evidentemente ricevuto precisi ragguagli
su come si sarebbe svolta la sequenza
degli eventi e su come avrebbero dovuto
comportarsi.
Ancora una volta, avrei voluto sapere
che cosa aveva fatto esattamente
Dominik per assicurarsi la loro
obbedienza. Era questo l’effetto che
produceva sulle persone? Soprattutto
sulle ragazze?
Lauralynn non mi era affatto sembrata
un tipo obbediente. Tutto il contrario.
Avevo notato il modo in cui stringeva
il violoncello tra le cosce e,
ripensandoci, mi venne in mente che, a
dispetto di una presa in apparenza
delicata intorno al manico, aveva
suonato lo strumento quasi con crudeltà,
come se volesse estrarne la melodia a
forza.
La ragazza fece un altro sorriso
malizioso, rivolto direttamente a me;
questa volta fui sicura che fosse
complice del gioco o riuscisse in
qualche modo a vedermi attraverso la
benda.
Presi il violino, mi voltai e mi diressi
verso l’uscita, con l’aria più
professionale che riuscii ad assumere.
Avevamo reciprocamente rispettato i
termini del nostro accordo; io avevo il
mio violino, lui aveva avuto il suo
concerto nudo. Aprii la porta che
conduceva alla base delle scale e mi
fermai, appoggiandomi al muro di pietra
per riordinare i pensieri.
Era davvero così? Il nostro accordo
era chiuso? Avrei dovuto esserne
contenta, ma non riuscivo a liberarmi da
una persistente sensazione di rimpianto.
Era come se non gli avessi dato
abbastanza in cambio dello strumento.
Charlotte avrebbe detto che ci avevo
guadagnato, ma io mi sentivo in qualche
modo incompleta.
Feci un respiro e iniziai a salire le
scale senza voltarmi.
Arrivai nel mio appartamento di
Whitechapel, lieta di non incontrare
nessuno nel corridoio e nel bagno
comune. I miei vicini erano fuori. Bene.
Non sarei stata costretta alle consuete
chiacchiere di circostanza né mi sarei
dovuta
preoccupare,
vedendomi
scomparire in fretta nella mia stanza, del
sospetto di tutti su quanto mi apprestavo
a fare per dar sfogo all’ormai quasi
dolorosa eccitazione che mi aveva
turbata lungo tutto il tragitto verso casa.
Non appena ebbi chiuso la porta con
un calcio, mi misi una mano tra le gambe
e mi infilai dentro l’indice per
lubrificarlo prima di iniziare a toccarmi
con veloci massaggi circolari. Lanciai
un’occhiata al portatile, riflettendo se
guardare un video su un sito
pornografico per accelerare un po’ le
cose.
Darren odiava vedermi guardare
pornografia. Una volta mi aveva
sorpresa con una rivista che avevo
trovato sotto il suo materasso e mi aveva
tenuto il broncio per tutta la sera.
Quando gli avevo chiesto che cosa lo
avesse turbato tanto, lui aveva risposto
che sapeva che le donne si
masturbavano, ma non pensava che lo
facessero in quel modo. Non avevo mai
capito se fosse geloso o se ritenesse che
ero poco femminile. Da quando
avevamo rotto, comunque, la ritrovata
libertà di fare quello che volevo mi
dava un brivido particolare. E tuttavia,
nello stato in cui ero in quel momento,
non mi ci sarebbe voluto molto a
raggiungere l’orgasmo: non valeva la
pena perdere tempo a trovare un video
di mio gusto. Invece, mi misi a ripensare
a quello che era successo nel
pomeriggio.
Mi venne in mente all’improvviso
come mi si erano induriti i capezzoli per
l’aria fredda della cripta… o era stato
per lo sguardo di Dominik? E per quello
di Lauralynn? Aprii la finestra con la
mano sinistra, senza smettere di
toccarmi con la destra, poi abbassai la
cerniera del vestito – ovviamente,
questa volta, con facilità – e me lo tolsi
in fretta. Dopo il concerto non mi ero
rimessa le mutandine: piuttosto che
contorcermi davanti a Dominik per
infilarmele, le avevo gettate nella borsa.
Così adesso ero completamente nuda, a
parte le scarpe con il tacco, e mi godevo
l’aria fredda che entrava dai vetri aperti
e mi accarezzava il corpo.
Chiusi gli occhi, e invece di buttarmi
sul letto come facevo di solito, allargai
le gambe e mi toccai davanti a un
pubblico immaginario davanti alla
finestra.
Ciò che mi fece godere fu il ricordo
dell’ultimo ordine di Dominik, il tono
della sua voce mentre mi abbassavo per
sganciare il cinturino delle scarpe.
“No. Tienile addosso.”
Non si era trattato di una sfida; non
c’erano sfumature interrogative nel suo
tono, nessun dubbio che io potessi non
fare quello che lui mi diceva, anche se
non mi ritenevo in alcun modo una
persona docile. Quel senso di autorità,
per una ragione che non ero in grado di
spiegare, mi mandò in estasi.
Venni in fretta, con fitte di acuto
piacere che dal centro del corpo si
irradiavano
in
ogni
direzione,
riscaldandomi piacevolmente.
A pensarci bene, ero sempre stata
così. Ricordai come mi eccitava Mr Van
der Vliet, il piacere che provavo nel
seguire alla lettera le sue indicazioni
durante le lezioni, per quanto lui non
fosse affatto bello in senso tradizionale.
O come mi ero eccitata quando il mio
istruttore di nuoto mi aveva detto che
voleva vedere quanto avrei nuotato se
lui non mi avesse detto di fermarmi. O
come mi ero sentita quando il padrone
d e l dungeon mi aveva sculacciata nel
club fetish.
Che cosa significava tutto ciò?
Mi sdraiai sul letto e cercai di
allontanare quei pensieri, poi caddi in
un sonno agitato.
Mi svegliai che era sera, ancora turbata.
E ancora eccitata. Cercai di reprimere
quella sensazione, ma a quanto pareva
non riuscivo a pensare ad altro. Neppure
toccarmi di nuovo servì a placare la mia
insoddisfazione.
Il tono imperioso di Dominik, la sua
abitudine di dare istruzioni tanto precise
continuavano a tornarmi in mente.
Persino il modo con cui mi aveva
comunicato l’indirizzo della cripta mi
aveva fatto eccitare. Pensai di
chiamarlo, ma scartai subito l’idea. Che
cosa avrei detto?
“Ti prego, Dominik, dimmi cosa
devo fare?”
No. A parte l’assurdità della cosa,
avrei avuto più potere se non gli avessi
lasciato intendere quanta influenza
aveva su di me. Quel fugace lampo di
bramosia nel suo sguardo… Sapevo che
alla fine avrebbe chiamato; non sarebbe
riuscito a resistere e avrebbe architettato
qualcos’altro. E, per quanto mi desse
fastidio giocare in difesa, mi sarebbe
piaciuto quando l’avrebbe fatto.
Per adesso, comunque, avrei dovuto
trovare un altro modo per soddisfare il
mio desiderio sessuale.
Riflettei se chiamare Charlotte, ma
non ero ancora pronta a condividere
questa parte della mia vita.
Il club fetish. Era un’idea folle, però
forse potevo andarci da sola, giusto per
dare un’occhiata. Non capivo bene cosa
mi stesse succedendo, questa nuova
sensazione di audacia che da una parte
mi spaventava, ma dall’altra mi
elettrizzava. Se non mi fossi trovata
bene, me ne sarei sempre potuta andare.
Mi ero sentita al sicuro in quel luogo,
a differenza che nei club del West End,
che risultavano sgradevoli anche per
chi, come me, era in grado di badare a
se stessa, pieni com’erano di ragazzi
ubriachi sempre pronti a palpare e
molestare tutte le ragazze che cercavano
di avvicinarsi al bar o ai bagni da sole.
Nonostante il club fetish fosse
frequentato da persone che non si
facevano problemi, o forse proprio per
questo, i clienti mi erano sembrati
rispettosi, non squallidi.
Sì, era il genere di posto dove sarei
potuta andare da sola.
Da una veloce ricerca su Google
appresi che il club dov’ero stata con
Charlotte era attivo solo il primo sabato
del mese, e quel giorno era giovedì.
Nessuno dei club più importanti era
aperto, ma trovai un link a un locale più
piccolo, non lontano da Whitechapel in
taxi, che vantava un dungeon e “aree
giochi” non meglio specificate, oltre a
un’atmosfera intima e accogliente. C’era
un codice di abbigliamento con alcune
rigide regole alle quali attenersi. Avrei
dovuto
trovare
una
mise
che
soddisfacesse quei requisiti. Non volevo
sembrare fuori posto.
Erano le undici di sera. La festa
doveva essere sul punto di cominciare.
Prenotai un taxi, poi rovistai nel mio
guardaroba e tirai fuori alcuni capi che
mi parevano adatti e me li provai
davanti allo specchio. Scelsi una gonna
a tubino blu marina, con la vita alta e
grandi bottoni bianchi davanti e dietro ai
quali erano attaccate larghe bretelle che
si incrociavano sulla schiena e davanti
scendevano dritte sui seni. L’avevo
comprata in saldo in un negozio che
vendeva abiti anni Cinquanta in
Holloway Road, nella zona nord di
Londra, e l’avevo indossata alla festa di
compleanno in costume della mia vicina
qualche tempo prima, insieme a una
camicetta bianca con il collo alto, un
berretto da marinaio da quattro soldi ma
non pacchiano e scarpe di velluto rosso
con il tacco.
Quella sera evitai la camicetta e misi
invece un reggiseno rosso in tinta con le
scarpe. Sarebbe andato bene come
abbigliamento fetish? “Probabilmente
no” pensai, ricordando le mise
stravaganti della notte passata con
Charlotte. Se volevo essere in tono con
l’ambiente e attirare meno l’attenzione,
avrei dovuto essere più svestita. Mi
guardai un’ultima volta allo specchio e
mi tolsi il reggiseno. Le bretelle erano
tese sul seno, lo sorreggevano e
coprivano i capezzoli e, comunque, non
avevo già trascorso la maggior parte di
quella giornata senza vestiti?
Indossai una giacca per il tragitto in
taxi e provai un inebriante brivido di
libertà al pensiero che sotto ero mezza
nuda.
All’ingresso del club una ragazza
dall’aria cordiale con i capelli neri e il
piercing al naso prese la mia giacca.
Quando mi chiese di porgerle il polso
per mettere il timbro notai che aveva una
minuscola lacrima tatuata sotto l’occhio
sinistro. Mi chiesi quali altri segreti
nascondesse sotto la giacca dello
smoking di latex con le maniche lunghe.
Il latex. Se avessi preso l’abitudine
di frequentare posti simili, forse avrei
dovuto investire un po’ di soldi
nell’acquisto di qualche capo di questo
materiale, anche se non ero del tutto
certa che la gomma lucida facesse per
me. Charlotte aveva avuto enormi
difficoltà a infilarsi e sfilarsi il vestito,
e avevo la sensazione che il fatto di non
riuscire a spogliarsi sarebbe stato un
problema per me e per i miei desideri
sessuali.
Anche se preferisco affrontare le
situazioni nuove e sconosciute da sobria,
mi fermai al bar per bere un drink e
ambientarmi.
Con in mano un Bloody Mary
speziato al punto giusto, attraversai la
piccola pista da ballo, dove c’erano
solo alcuni clienti che chiacchieravano,
e mi diressi verso il dungeon, in una
stanza separata. L’ingresso era aperto,
ma nascosto alla vista da un paio di
paraventi verdi, simili a quelli che si
vedono intorno ai letti in ospedale.
Interessante. La maggior parte dei clienti
del locale si trovava lì dentro. Alcuni
erano seduti su sedie lungo le pareti e
parlavano a bassa voce; altri erano in
piedi più vicini all’azione, ma qualche
passo indietro rispetto agli attori sulla
scena. C’erano alcuni cartelli – semplici
fogli A4 stampati – appesi qua e là. NON
diceva uno, e
un altro, lapidario: CHIEDERE. PRIMA.
Quegli avvisi mi fecero sentire
stranamente rassicurata.
Diverse coppie di “giocatori” e un
trio erano impegnati in atti di,
immaginai, violenza consensuale di
varia intensità che prevedeva l’uso di
differenti strumenti e attrezzature. La mia
attenzione fu subito attratta dai rumori
che si udivano in quella stanza – il colpo
secco di una verga, il rumore più attutito
di un flagellatore, come quello che
avevo visto in mano alla donna la sera
con Charlotte – e dal modo in cui il
suono e il ritmo mutavano a seconda dei
movimenti di chi maneggiava gli
INTERROMPETE UNA SCENA
strumenti e della ferocia che ci metteva.
Senza rendermene conto mi ero
avvicinata parecchio al trio: due uomini
che picchiavano una terza persona che
sulle prime pensai fosse un uomo, per
via del corpo squadrato e della testa
completamente rasata, anche se poi mi
sembrò di vedere la curva dei seni che
premevano contro l’imbottitura della
croce alla quale era legata e udii il
suono acuto di un gemito femminile.
Uomo, donna, forse nessuno dei due,
forse un po’ di entrambi. Una creatura
bellissima e, comunque, che cosa
importava il genere? Non molto, in un
posto simile. Dimenticandomi degli
avvisi appesi alle pareti, mi avvicinai
ulteriormente per vedere meglio.
Trovavo la scena scioccante, ma al
tempo stesso affascinante.
Sentii una mano toccarmi dolcemente
la spalla da dietro, poi una voce
all’orecchio.
«Meravigliosi, vero?» sussurrò.
«Sì.»
«Non avvicinarti troppo. Potresti
rompere l’incantesimo.»
Guardai di nuovo i tre. Sembravano
persi in un’altra dimensione, un luogo
che, in qualche modo, era ancora nella
stanza ma al tempo stesso non ne faceva
parte. Era come se ciascuno di loro
fosse impegnato in un viaggio
personalissimo e intimo.
Ovunque fossero, avrei voluto unirmi
a loro.
Il proprietario della voce forse intuì
il mio desiderio.
«Ti piacerebbe giocare?» disse.
Esitai un attimo. Non ci eravamo
neppure presentati e lui, o lei, si
mostrava così diretto. Forse, però, era
proprio quello di cui avevo bisogno, e
nessuno l’avrebbe mai saputo.
«Sì, mi piacerebbe.»
Una mano prese la mia e mi condusse
verso una delle strutture libere del
dungeon, un’altra croce.
«Spogliati.»
La risposta del mio corpo fu
immediata; era praticamente lo stesso
ordine che mi aveva dato Dominik poco
prima, quel giorno, e io fui invasa dal
desiderio, lussuria allo stato puro, forse
la brama di qualcosa di più, anche se
non sapevo ancora di cosa.
Abbassai le bretelle, liberando i seni,
e mi sfilai la gonna, eccitata dalla
consapevolezza che un pubblico di
estranei mi stava guardando, godendosi
lo spettacolo. Allargai braccia e gambe
sulla croce, completamente nuda per la
terza volta quel giorno. Stava
diventando un’abitudine.
I polsi furono imprigionati in lacci di
cuoio stretti con decisione, anche se non
in modo doloroso. Non mi furono
comunicati né una safeword – una
“parola di sicurezza” – né un gesto da
fare per bloccare l’azione. Il mio
misterioso partner, comunque, sembrava
abbastanza esperto, a giudicare dalla
disinvoltura con cui si muoveva, e se le
cose fossero andate troppo oltre avrei
urlato: “Basta!”. Avevo bevuto solo un
drink, ero nel pieno possesso delle mie
facoltà mentali e mi trovavo in una
stanza piena di gente che sarebbe potuta
intervenire in caso di necessità.
Mi rilassai contro la croce e aspettai
i colpi.
Che arrivarono.
Più forti, questa volta, molto più forti
della mia ultima “sculacciata” e senza la
rassicurante carezza sul culo che Mark
aveva fatto seguire a ogni colpo,
alleviando in parte il dolore. Sussultai,
sobbalzando a ogni sferzata che colpiva
non solo le natiche, ma anche i fianchi.
Lui, o lei – non ne ero sicura e non
avevo tentato di scoprirlo, preferendo
mantenere anonima quell’esperienza –
usava certamente uno strumento di
qualche genere, ma non avrei saputo dire
quale. Il rumore sembrava quello di un
flagellatore, ma la sensazione era di una
cosa più solida e rigida, molto più dura
delle morbide strisce di pelle attaccate
alla corta impugnatura di quell’attrezzo.
Mi si riempirono gli occhi di lacrime
che presero a scorrermi sulle guance, e
io mi resi conto che più contraevo il
corpo per contrastare il dolore, più
sentivo male.
Così mi rilassai. Cercai di trovare il
luogo, ovunque esso fosse, in cui gli
altri sembravano rifugiarsi. Immaginai il
mio corpo fondersi con la mano, con il
flagellatore o con qualunque cosa fosse
quella che mi stava colpendo. Ascoltai
lo schiocco secco dei colpi, il battito
ritmico della musica del mio partner e
alla fine, mentre il dolore si attenuava,
diventai parte della sua danza, non una
sua vittima, e provai una sensazione di
pace.
Poi i lacci che mi legavano i polsi
vennero sciolti. Delicate carezze
sfiorarono le mie parti colpite, che
bruciavano lievemente a ogni tocco.
Una risata sommessa, un altro
sussurro all’orecchio, e la voce
scomparve tra la folla.
Rimasi lì, distesa sulla croce,
immobile, per non so quanto tempo,
finché non mi riscossi, mi rivestii e
chiamai un taxi.
Avevo ottenuto quello per cui ero
venuta.
L’avevo ottenuto, vero?
Quella sensazione di pace, di fuga in
un’altra dimensione, quella diversa
consapevolezza che era stata il mio
rifugio, la mia casa in un certo senso, fin
da quando ne avevo memoria.
Tornata nel mio appartamento, crollai
sul letto e, nonostante il dolore pulsante,
dormii meglio che nelle settimane
precedenti. Fu solo il mattino dopo che,
davanti allo specchio del bagno, notai i
lividi.
Un arabesco quasi elegante di segni
più o meno evidenti mi attraversava il
sedere e i fianchi e, a un esame più
attento nello specchio a figura intera
della camera, scoprii l’impronta di una
mano su una delle natiche.
Cazzo.
Speravo che Dominik lasciasse
passare parecchi giorni prima di
richiamarmi.
6
Un uomo e la sua lussuria
Dominik guidava in preda a una sorta di
stordimento, ripercorrendo mentalmente
ogni singolo istante di quel pomeriggio.
Senza far troppo caso alla strada,
diresse meccanicamente la BMW nel
labirinto di lavori in corso intorno a
Paddington, avanzando con lentezza
esasperante verso la Westway.
Il colore della pelle di lei.
Il pallore soprannaturale. Le migliaia
di sfumature che passavano senza
soluzione di continuità da una tonalità di
bianco all’altra, con impercettibili
velature di rosa, grigio e beige
chiarissimo che reclamavano a gran
voce il bacio del sole. L’intricata
geografia di nei e imperfezioni minori
che punteggiava la sua pelle. Il modo in
cui la luce artificiale della cripta
sottolineava le sue curve, danzando
sopra la loro superficie, accentuando le
zone d’ombra, il bagliore dei muscoli
sotto la sottile protezione della carne, i
tendini dei polpacci mentre si muoveva
impercettibilmente per raggiungere
un’altra nota, il modo in cui il bordo
arrotondato del violino premeva contro
il suo collo, la velocità delle dita che
percorrevano le corde mentre l’altra
mano manovrava con energia l’archetto
planando sullo strumento come un
guerriero in volo.
Per poco Dominik non perse l’uscita
e per un attimo fu costretto a mettere da
parte i ricordi mentre svoltava
bruscamente, scatenando il clacson del
guidatore di una Fiat vicina, infuriato
per quella manovra azzardata.
Gli avevano sempre detto che
assomigliava a un giocatore di poker,
perché raramente lasciava trapelare i
propri sentimenti in pubblico, meno che
mai quelli più intimi. Aveva osservato
lo spettacolo in religioso silenzio, il
viso una maschera, vigile, concentrato
sulla musica e su tutte le sue sottili
sfumature, intento a cogliere i movimenti
dei musicisti a mano a mano che
procedevano nella loro magnifica
esecuzione, vestiti di nero e di bianco.
Summer, naturalmente, svestita.
Era stato una sorta di rituale. Una
sinfonia di contrasti tra gli abiti da sera
scuri con le camicie bianche formali e
l’audace nudità di Summer impegnata in
un corpo a corpo con il suo strumento
per estrarne ogni singola nota, ogni
frammento di melodia, cavalcando e
domando la musica. A un certo punto,
una minuscola perla di sudore le era
scivolata dalla punta del naso, aveva
sfiorato uno dei suoi capezzoli turgidi ed
era caduta sul pavimento di pietra della
cripta a pochi centimetri dalle scarpe,
quelle con i tacchi alti che lui le aveva
ingiunto di tenere addosso.
Forse il rituale sarebbe stato ancora
più eccitante, pensò Dominik, se le
avesse chiesto di mettersi un paio di
autoreggenti. Nere, ovviamente. O forse
no.
Lui aveva osservato tutto con un
misto
di
desiderio
ardente
e
autocontrollo che gli scorreva sotto la
pelle. Al pari di un grande inquisitore a
un festino particolare – sommamente
distaccato in apparenza, come qualunque
ipotetico spettatore avrebbe potuto
confermare, ma febbrilmente coinvolto –
con la mente correva senza freni, i
pensieri un folle turbinio, mentre
osservava,
esaminava,
sondava,
interrogava. Tutto con l’aggraziato
accompagnamento
delle
immortali
melodie che quel quartetto improvvisato
aveva suonato con tanta maestria,
evocando visioni e parole come la
musica migliore non manca mai di fare.
La forma dei seni di lei, la
delicatezza delle loro dimensioni, il
solco lievissimo che li separava, la
mezzaluna di oscurità sottostante come
una promessa di altri segreti, la
minuscola fessura dell’ombelico, la
fenditura verticale che puntava come una
freccia verso il territorio del suo sesso.
Dominik aveva apprezzato il fatto
che, a differenza di tante giovani donne,
lei non fosse completamente depilata, la
sottile copertura di peli pubici ben
curati in scure tonalità di castano
rossiccio a mo’ di necessaria barriera ai
suoi possedimenti più intimi. Un giorno,
aveva deciso, lui l’avrebbe depilata.
Con le sue mani. Ma avrebbe riservato
quel compito a un’occasione molto
speciale.
Una
cerimonia.
Una
celebrazione. Lo Stige, al di là del quale
lei sarebbe stata per sempre ancora più
nuda per lui. Aperta. Esposta. Sua.
La solidità delle sue cosce, la
lunghezza dei polpacci, le cicatrici quasi
invisibili su un ginocchio – indubbio
retaggio di qualche zuffa infantile – la
vita sorprendentemente stretta, quasi che
la sua morbidissima carne fosse stata
plasmata da un corsetto vittoriano come
il bronzo fuso nello stampo di uno
scultore.
Adesso la strada saliva attraverso
Hampstead e l’auto si infilò sotto una
tettoia di alberi con i rami bassi che
emergevano dalle distese del parco.
Dominik fece un profondo respiro,
archiviando nella sua mente ogni suono
e visione seducente per crearsi un album
di emozioni da sfogliare nelle giornate
uggiose.
A quel punto era su strade familiari e
gli venne in mente distrattamente il lieve
sorriso sulle labbra della giovane
violoncellista, di cui non riusciva a
ricordare il nome, mentre si sistemava la
benda di velluto nero e gli lanciava
un’ultima occhiata prima di piombare
nella sua personale oscurità. La scintilla
nei suoi occhi, come se sapesse che cosa
stava per succedere, come se avesse
intuito la natura dei suoi piani. Si era
persino ritrovato a pensare fugacemente
che gli avesse strizzato l’occhio con
complice malizia.
E poi il rossore sul volto di Summer
quando era venuto il momento di
spogliarsi, dopo che gli altri musicisti si
erano bendati, il modo in cui si era
girata per togliersi le mutandine,
mostrandogli la rotondità del culo
pallido in tutto il suo splendore, il solco
tra le natiche mentre si piegava in avanti
rivelando una minuscola valle di ombre.
Quindi si era voltata di nuovo verso di
lui e per un attimo aveva portato il
violino davanti ai genitali come se
volesse nascondersi al suo sguardo,
anche se sapeva fin troppo bene che
avrebbe dovuto suonare in piedi e non
avrebbe potuto custodire la propria
privacy se non per un breve momento.
Dominik era già sicuro che avrebbe
goduto di quei ricordi per molto tempo.
Mentre parcheggiava l’auto, abbassò lo
sguardo. Ce l’aveva duro.
Si versò un bicchiere di acqua minerale
e sprofondò nella sua sedia da scrivania
di pelle nera, la mente piena di pensieri
su Summer.
Sospirò, bevve un sorso d’acqua
assaporando il delizioso freddo sulla
lingua.
Le immagini di Summer che suonava
nuda si fondevano con visioni di
Kathryn sotto di lui in un letto, sul
pavimento, contro un muro. Mentre
facevano l’amore, scopavano, il velo di
sudore sulla pelle, i ricordi, il dolore e
il piacere. Una volta a lei era sfuggito un
gemito di disgusto e insieme di
aspettativa quando lui l’aveva penetrata
da dietro, lo sguardo fisso sul buco del
suo culo con intensità pornografica e
pensieri di sodomia che gli si
affollavano nella mente già turbata. Quel
suono aveva avuto l’effetto di un
catalizzatore e lui l’aveva colpita con
forza su una natica per due volte di
seguito con tale violenza che qualche
secondo dopo sulla sua pelle candida e
delicata era comparsa l’impronta rossa
della mano, come un’istantanea che
emergeva dalla carta fotografica. Lei
aveva urlato per la sorpresa. Così lui
l’aveva colpita di nuovo, questa volta
sull’altra natica mentre sentiva Kathryn
contrarsi come una morsa intorno al suo
membro che la esplorava, indizio fin
troppo chiaro dell’effetto che i colpi
avevano su di lei.
Il fatto era che non aveva mai
sculacciato una donna, né per scherzo né
per rabbia. Non ne aveva mai sentito il
bisogno e non ci aveva mai pensato. Non
si era mai nemmeno sculacciato da solo
per esplorare i risvolti sessuali di quel
gesto o per un capriccio passeggero.
Sapeva che era una pratica diffusa. I
romanzi vittoriani che parlavano di
rapporti tra servette e signori erano
pieni di cose del genere, e non gli era
sfuggito che gli attori porno tenevano
spesso una mano sul culo della partner
mentre la scopavano, ma aveva pensato
che fosse una specie di convenzione,
qualcosa che si faceva a effetto davanti
alla telecamera, magari per variare la
monotonia del su e giù meccanico
dell’assalto genitale.
Più tardi aveva chiesto a Kathryn:
«Ti ho fatto male?».
«Per niente.»
«Davvero? Ti è piaciuto, allora?»
«Io… non lo so. Faceva parte del
momento, credo.»
«Non so perché l’ho fatto» aveva
ammesso Dominik. «L’ho fatto e basta.
Un impulso spontaneo.»
«Va tutto bene» aveva detto Kathryn.
«Non è un problema.»
Erano sul pavimento del suo studio,
sdraiati
sulla
moquette,
ancora
ansimanti.
«Girati» le aveva detto. «Lasciati
guardare.»
Kathryn si era girata su un fianco
offrendogli la vista del suo culo perfetto.
Dominik lo esaminò. Il segno della mano
sulla natica era già quasi scomparso. Il
fatto che l’impronta del sesso svanisse
così rapidamente dai tratti di una
persona e che fosse impossibile sapere
che cos’aveva fatto in privato dopo che
si era rimessa gli abiti e aveva rivestito
i panni delle convenzioni civili era una
cosa che non smetteva mai di stupirlo.
Era come se, nel suo intimo, lui avesse
desiderato che gli uomini e le donne
fossero marchiati dal sesso che avevano
condiviso, che fosse sempre scritto a
chiare lettere sulla loro faccia.
Comunque, adesso il contorno delle sue
cinque dita sul sedere di Kathryn era
solo un ricordo.
«Il segno se n’è quasi andato.»
«Bene» aveva detto lei. «Avrei avuto
parecchie difficoltà a spiegarlo a mio
marito!»
In seguito, nel corso della loro breve
relazione, quando era riuscito a sottrarre
Kathryn al suo matrimonio per un intero
fine settimana, e avevano trovato un
pretesto per occupare una stanza in un
albergo di Brighton di fronte al mare
senza mai vedere la luce del giorno o la
spiaggia, lui l’aveva marchiata sul culo
con furia selvaggia e lei si era poi
lamentata di un dolore sordo e
persistente quando si era seduta a tavola
in un vicino ristorante affacciato sulla
passeggiata a mare. Dominik si era
stupito del modo compulsivo con cui
l’aveva colpita e lì per lì se n’era
vergognato: la violenza contro le donne
gli dava la nausea. Prima di allora non
gli era mai passato per la testa di
picchiare un’amante. Stavano forse
scivolando
verso
un
rapporto
sculacciatore-sculacciata? Da dove gli
veniva quell’impulso a dominare, a
esprimere i suoi desideri più profondi in
modo violento?
Kathryn, però, non aveva mai
sollevato obiezioni.
La cosa lo aveva disorientato dopo
che si erano lasciati. Che cosa provasse
lei nel momento in cui lui la picchiava
era rimasta una domanda senza risposta.
Si abbassò la lampo dei pantaloni,
liberando l’erezione e osservando il
motivo appena accennato di vene che
percorrevano l’asta del suo uccello
durissimo, la fessura sulla punta, il
tessuto cicatriziale della circoncisione e
le ombre più scure della carne sotto il
glande. Pensò al pallido balenare delle
natiche ben fatte e fragili di Summer
mentre si spogliava prima di immergersi
nella musica.
Mise la mano intorno al cazzo e
iniziò a muoverla su e giù. Immaginò il
rumore che avrebbero fatto i testicoli
schiaffeggiando il culo sodo di Summer
e il suono delle sue mani che si
abbattevano secche su di lei, il modo in
cui la pelle sarebbe stata percorsa da
fremiti sotto i colpi ripetuti, le melodie
che sarebbe stato capace di estrarle
dalle labbra contratte. Chiuse gli occhi.
La sua fantasia correva ormai a briglie
sciolte e le immagini riempivano uno
schermo gigantesco.
Venne.
Sì, Dominik lo sapeva, quando
sarebbe arrivato il momento, avrebbe di
sicuro sculacciato la violinista Summer
Zahova. “Ma allora sculacci solo le
donne che desideri ancora dopo la prima
scopata. Quelle che vuoi ardentemente.
Quelle speciali.”
Dominik
lasciò
passare
solo
quarantott’ore prima di rimettersi in
contatto con Summer. Continuava a
ripensare agli incontri precedenti.
L’istinto gli diceva che lei non si era
imbarcata in quell’avventura ambigua
solo per avere il violino, il costoso
Bailly che lui le aveva regalato e la cui
sonorità cristallina aveva dominato quel
pomeriggio nella cripta con intensa e
melodiosa chiarezza. Questa storia, o
perlomeno ciò che essa stava
velocemente diventando, non era una
transazione tra benefattore e beneficata,
tra un uomo in preda alla lussuria e una
giovane donna con un atteggiamento
flessibile nei confronti della moralità.
Lui aveva scorto qualcosa negli occhi di
lei fin dalla prima volta in cui si erano
incontrati. Una curiosità, una sfida
inespressa, una disponibilità a correre
rischi irragionevoli per mantenere vivo
il fuoco interiore. O almeno era così che
Dominik si spiegava le parole e i gesti
di Summer, nonché la facilità con cui
aveva aderito alle sue insolite richieste.
Lei non era una puttana dilettante che lo
faceva per denaro, o per il violino.
Ovviamente lui la voleva. E
parecchio. Il modo in cui aveva suonato
per lui, nuda, con un velo di rossore
sulle guance quando si era spogliata,
finché il divino fluire della musica
aveva fatto sparire le sue ultime riserve
e lei era rimasta in piedi a suonare con
orgoglioso
esibizionismo…
Era
innegabile. Lo aveva rivelato la lieve
curva delle labbra durante tutta quella
particolare esecuzione. Lei si era sentita
in pace con se stessa, fluttuante in
qualche strano e privato luogo della
mente, dimentica di ciò che la
circondava o delle circostanze. Si era
eccitata.
Dominik adesso sapeva che non
voleva solo portarsela a letto: voleva di
più.
Quello sarebbe stato soltanto l’inizio
della storia.
Alla fine la chiamò nella tarda
mattinata di sabato, quando sapeva che
lei era impegnata nel suo lavoro parttime in una caffetteria di Hoxton. Voleva
che la conversazione fosse breve per
non darle la possibilità di fare ulteriori
domande. Senza dubbio nel locale ci
sarebbe stato parecchio da fare.
Il cellulare suonò a lungo. Poi, alla
fine, Summer rispose.
Sembrava andare di fretta.
«Sì?»
«Sono io.» Dominik sapeva che non
aveva più bisogno di dire il proprio
nome.
«Lo so» replicò lei con calma. «Sono
al lavoro. Non posso stare molto al
telefono.»
«Capisco.»
«Aspettavo la tua chiamata.»
«Davvero?»
«Sì.»
«Voglio che suoni di nuovo per me.»
«Ah.»
«Lunedì.
Diciamo
nel
primo
pomeriggio.» Prevedendo che, con tutta
probabilità, lei sarebbe stata libera e
disponibile, lui aveva già prenotato la
cripta. «Stesso posto.» Concordarono
l’ora. «Questa volta suonerai da sola.»
«Okay.»
«Non vedo l’ora.»
«Anch’io. Devo preparare un pezzo
particolare?»
«No, scegli pure quello che vuoi.
Vorrei che mi stupissi.»
«Bene. Che cosa devo mettermi?»
«Scegli tu, ma indossa un paio di
calze nere. Autoreggenti.»
«Lo farò.»
«E le scarpe nere con il tacco.»
Nella sua mente si stavano già
materializzando le immagini.
«Naturalmente.»
Dominik era passato a prendere le
chiavi della cripta la sera prima e aveva
dato una generosa mancia al custode per
assicurarsi che, come la prima volta,
non ci sarebbe stato nessuno a origliare
dietro la porta chiusa per tutto il tempo
in cui sarebbero rimasti lì. Adesso scese
in fretta la scala stretta e ripida, spinse
il battente e fu investito dall’odore di
chiuso e stantio del locale sotterraneo,
seguito da un tenue sentore di cera,
ricordo sbiadito di candele consumate e
di preghiere da tempo dimenticate.
Scrutando nell’oscurità, tastò con la
mano il freddo muro di pietra prima a
sinistra e poi a destra, e finalmente trovò
l’interruttore della luce. Si era
dimenticato che si trovava sul lato
sbagliato della porta. Spinse verso l’alto
la levetta di plastica finché la cripta fu
avvolta da un tenue chiarore, non
accecante ma discreto, vellutato,
l’illuminazione perfetta per l’occasione.
Dominik era sempre stato ordinato,
preciso, attento ai dettagli, e quello era
un rituale che aveva ripercorso
mentalmente infinite volte dopo la
telefonata con Summer di sabato, quando
avevano organizzato l’incontro di quel
giorno.
Diede un’occhiata all’orologio, un
costoso TAG Heuer d’argento, e radunò
in fretta alcune sedie sparse in giro,
mettendole contro la parete di fondo.
Alzò lo sguardo verso il soffitto e notò
una fila di faretti. Tornò sui suoi passi,
prese una delle sedie, la portò al centro
della cripta, ci salì sopra con cautela
perché era instabile sul pavimento di
pietra irregolare, e regolò la posizione
del faretto centrale in modo che
illuminasse una zona precisa. Per
aumentare l’effetto, svitò leggermente i
due faretti laterali. Sì, adesso era molto
meglio.
Guardò di nuovo l’orologio. Summer
era in ritardo di un paio di minuti.
Si trastullò per qualche istante con
l’idea di rimproverarla e di punirla in
qualche modo per quella trasgressione,
ma decise di non farne niente nel
momento in cui sentì un leggero bussare
alla porta.
«Avanti» disse a voce alta.
Lei indossava di nuovo l’abito nero
corto, con un coprispalle di lana grigia
lavorato a maglia, e stringeva
saldamente la custodia del violino. I
tacchi la facevano sembrare più alta.
«Mi dispiace» sbottò. «C’erano
ritardi sulla Jubilee Line.»
«Non importa» ribatté Dominik.
«Abbiamo tutto il tempo che vogliamo.»
La guardò negli occhi. Lei sostenne il
suo sguardo, si tolse il coprispalle e si
guardò intorno in cerca di un posto dove
appoggiarlo, non volendo lasciarlo
cadere sul pavimento.
«Dallo pure a me» disse Dominik,
allungando una mano.
Summer glielo porse. La lana era
ancora tiepida per il prolungato contatto
con il suo corpo. Lui si portò
l’indumento al naso, senza vergogna, e
lo annusò in cerca del suo odore, una
nota verde e pungente appena
percettibile sotto il profumo. Mentre lei
lo osservava, Dominik si girò e andò a
posare il coprispalle su una delle sedie
che aveva spostato in fondo.
Poi ritornò da lei. «Che cosa
suonerai?» le chiese.
Summer rispose con fare esitante.
«Be’… in realtà si tratta di una specie di
improvvisazione basata sull’ouverture
Le Ebridi, nota anche come La grotta di
Fingal. Sono una grande appassionata di
quel concerto di Mendelssohn, ma è
molto tecnico e io non ne padroneggio
ancora tutte le sottigliezze. Questo ha
melodie ugualmente straordinarie, così
nel corso degli anni mi sono divertita a
suonarlo, anche se è scritto per
un’orchestra e non per violino solo.
Spero che non ti dispiaccia se non mi
attengo a un repertorio strettamente
classico.»
«Andrà
benissimo»
commentò
Dominik.
Summer
sorrise.
Nei
giorni
precedenti si era tormentata parecchio
sulla scelta della musica.
Poi alzò lo sguardo al soffitto e notò
che Dominik aveva sistemato le luci in
modo che uno dei faretti proiettasse un
incandescente
alone
bianco
sul
pavimento di pietra, e si rese conto che
quello
sarebbe
stato
il
suo
“palcoscenico”, il punto in cui lui
voleva che lei suonasse quel giorno.
Fece un paio di passi in quella
direzione. Dominik la seguì con lo
sguardo, attento ai suoi movimenti, al
modo con cui le gambe danzavano
eleganti sul pavimento nonostante
l’evidente scomodità dei tacchi alti sulla
scabra superficie di pietra.
Proprio quando lui stava per
comunicarle le istruzioni successive,
Summer appoggiò con delicatezza la
custodia del violino per terra e abbassò
la cerniera del vestito nero. Dominik
sorrise. Aveva anticipato il suo ordine,
aveva intuito che desiderava che
suonasse di nuovo nuda, anche se questa
volta non ci sarebbero stati altri
musicisti al suo fianco. Oggi lui sarebbe
stato l’unica persona vestita.
L’abito scivolò giù, scoprendole il
busto, poi con un rapido movimento dei
fianchi Summer se ne liberò lasciandolo
atterrare ai suoi piedi, ripiegato come
una fisarmonica.
Non indossava biancheria intima.
Solo le calze nere che si fermavano a
metà delle cosce lattee.
E le scarpe nere firmate, tacco
tredici. Dominik immaginò che Summer
possedesse poche scarpe eleganti. Lei
alzò gli occhi, guardandolo fisso.
«Questo è ciò che volevi.»
Non era una domanda. Era una
constatazione.
Lui annuì.
Lei rimase in piedi nel cerchio di
luce, la schiena dritta, orgogliosa,
consapevole della sfrontatezza con cui si
offriva. Alle proprie condizioni
piuttosto che a quelle di lui.
Il freddo emanato dalle vecchie
pietre della cripta le avvolse il corpo, i
capezzoli le diventarono turgidi e si
bagnò in mezzo alle cosce.
Dominik trattenne il fiato.
«Vieni qui» le ordinò.
Summer esitò per una frazione di
secondo, poi uscì dal cerchio di luce
dove era stata inequivocabilmente in
mostra e gli si avvicinò. Mentre si
muoveva lentamente, nella scarsa luce
Dominik notò una sottile linea che le
correva lungo un fianco, un rossore che
andava dal sedere alla vita sottile.
Strinse gli occhi per vedere meglio,
pensando sulle prime che fosse solo
un’ombra creata dal passaggio del corpo
dalla luce del faretto alla più
accogliente penombra. No, era senza
dubbio una specie di macchia sulla pelle
di cui lui non si era accorto la volta
precedente, quando lei si era girata per
togliersi le mutandine.
Dominik si accigliò. «Voltati. Voglio
vederti la schiena.»
Summer trattenne il fiato. Sapeva che
i segni lasciati sulle sue natiche
dall’ultima serata al club erano ancora
visibili. Li aveva notati quella mattina
allo specchio mentre si preparava per
venire all’appuntamento con Domink.
Aveva creduto che sarebbero scomparsi
prima, ma non era stato così. Ecco
perché poco fa era stata tanto attenta a
non mostrare la schiena. Fu percorsa da
un brivido di apprensione, non sapendo
come lui avrebbe reagito, anche se una
parte di lei avrebbe voluto esibirgli
spudoratamente il marchio della propria
perversione.
Sospirando, obbedì.
«Che cosa sono quelli?» volle sapere
Dominik.
«Segni» rispose lei.
«Chi te li ha fatti?»
«Qualcuno.»
«Ha un nome, questo qualcuno?»
«Non lo so. Un nome significherebbe
qualcosa per te? Non mi sono
presentata. Non ho voluto farlo.»
«Ti ha fatto male?»
«Un po’, ma non per molto.»
«Sei una masochista?»
«Non di solito. Io…» Summer si
interruppe, ci pensò sopra un attimo,
quindi continuò: «Non l’ho fatto per il
dolore».
«Perché,
allora?»
la
incalzò
Dominik.
«Avevo bisogno dell’eccitazione…»
«Quando?» indagò, anche se pensava
di conoscere la risposta.
«Subito dopo aver suonato per te
l’altro giorno, con il quartetto»
confermò lei.
«Allora sei una puttana masochista?»
le chiese.
Summer sorrise a quelle parole.
Aveva sentito Charlotte usare la stessa
espressione per descrivere una delle sue
conoscenze al club sulla barca.
Si fermò a riflettere. Era una puttana
masochista? L’aveva tollerato, in alcuni
momenti se l’era persino goduto, ma il
dolore era stato soltanto un veicolo, il
mezzo capace di trasportarla nell’altra
dimensione, non il motivo per cui aveva
cercato quell’esperienza.
«No.»
«Allora solo una puttana?»
«Può darsi.»
Mentre lo diceva, anche se in parte
era una battuta, Summer si rese conto di
aver
oltrepassato un metaforico
Rubicone e seppe che per Dominik
valeva la stessa cosa. Raddrizzò
istintivamente la schiena, mettendo in
mostra il seno sodo. Percepiva lo
sguardo di lui che esaminava il reticolo
di linee e lividi sbiaditi sul suo culo, il
marchio temporaneo della sgualdrina
che viveva in lei.
Dominik stava riflettendo, il ritmo
regolare del suo respiro un delicato
sibilo nell’atmosfera pesante della
cripta.
«È stato qualcosa più di una
sculacciata» osservò.
«Lo so» disse Summer.
«Avvicinati.»
Lei obbedì. Adesso gli era tanto
vicina da percepire il calore del suo
corpo.
«Chinati.»
Lei lo fece, consapevole dello
spettacolo che offriva.
«Allarga le gambe.»
Adesso lui poteva vedere non solo i
segni, ma anche le sue parti intime.
Sentì la mano di Dominik toccarle la
natica sinistra, delicata come una
carezza mentre esplorava la superficie
della pelle, un guanto che scorreva sulle
curve del suo corpo. Il palmo era
bollente.
Ma anche la sua pelle lo era.
Lui indugiò, seguendo le linee rosee
che le attraversavano le natiche ed
esplorando le isole sparse di lividi
bruni e gialli.
Poi un dito scese piano nel solco tra
le natiche, sfiorando lo sfintere esposto
e pulsante mentre lei tratteneva il
respiro, scivolando sul perineo, al che
lei sussultò, e arrivando con deliberata
lentezza alla sua fessura. Sapeva di
essere già bagnata e non provò alcuna
vergogna nell’essere così esposta sia
fisicamente sia psicologicamente. Il
tocco di Dominik, le sue parole, il suo
modo di fare la eccitavano da morire.
Dunque, che problema c’era?
La mano si ritrasse.
Per un attimo la mancanza del
contatto fu intollerabile. Non stava
smettendo, vero? Poteva essere tanto
crudele? E lei aveva desiderato una
simile crudeltà?
«Ti piace, vero?»
Summer non rispose, lottando contro
il desiderio di dirgli quanto le piacesse.
«Dimmelo» la incalzò, la voce un
sussurro a malapena udibile che le
accarezzava le orecchie.
«Sì» rispose lei alla fine. «Sì, mi
piace.»
Dominik indietreggiò, le girò intorno.
Si sarebbe preso il suo tempo. Guardò il
corpo di lei da vicino, notò il calore
animalesco che emanava: Summer stava
quasi sudando, nonostante il freddo. Si
accorse dell’effetto che le sue parole
avevano su di lei.
“Interessante” pensò Dominik.
«Perché?»
«Non lo so.»
Lui la incalzò ancora.
«Dimmi quello che desideri.»
A Summer facevano male le gambe,
ma non si mosse. Rimase dov’era,
godendosi le impercettibili correnti
d’aria che le accarezzavano il corpo
mentre Dominik continuava a girarle
intorno, avvicinandosi ancora, ma senza
toccarla.
«Dimmi quello che vuoi, Summer.»
«Voglio che mi tocchi.»
Aveva parlato in tono sommesso, ma
sapeva che Dominik riusciva a sentirla.
Aveva davvero intenzione di
costringerla a implorarlo?
«A voce più alta. Dillo a voce più
alta.»
Sì, a quanto pare sì.
Il corpo di lei si mosse
impercettibilmente a quelle parole. Un
segnale
microscopico,
ma
inequivocabile, della sua eccitazione.
Gli avrebbe chiesto di scoparla.
Ne era quasi sicuro. E non aveva
nessuna fretta.
Aspettò.
«Toccami, ti prego» disse lei.
Finalmente.
Lui indietreggiò, soddisfatto della
disperazione e del bisogno che
trasparivano dalla sua voce.
«Prima suonerai.»
Il corpo di Summer tremò per il
desiderio represso. Si raddrizzò
lentamente, consapevole che lui stava
giocando con lei e incapace di
difendersi.
Tornò nel cerchio di luce e
finalmente si girò a guardarlo.
«Un’improvvisazione sui temi della
Grotta di Fingal di Mendelssohn»
disse, con un lieve inchino. Poi si piegò
sulle ginocchia e con tutta la grazia di
cui era capace in quella condizione di
nudità allungò la mano per prendere la
custodia che aveva appoggiato sul
pavimento. La aprì e ne estrasse lo
strumento.
Era consapevole dello sguardo di
Dominik sui suoi genitali, come se il
voyeur che era in lui sperasse che,
mentre si accucciava, le labbra della sua
fessura si schiudessero, rivelando
l’eccitazione crescente. Al solo pensiero
la temperatura del suo corpo salì,
allontanando il freddo della cripta che
aveva ricominciato a farsi sentire.
La patina giallo-arancio dello
strumento quasi brillava sotto il raggio
di luce dal quale Summer era avvolta.
Lei aggiustò la presa sull’archetto e
attaccò il brano, a occhi chiusi.
Ogni volta che suonava quella
particolare musica immaginava onde che
si frangevano contro la costa rocciosa di
un aspro fiordo, con la schiuma che si
levava simile a bruma sullo sfondo di un
cielo grigio spazzato dal vento. Per
Summer ogni pezzo musicale aveva il
proprio paesaggio, ed era lì che spesso
veniva trasportata mentre suonava,
sospinta da venti esotici in un viaggio
della mente. Sapeva che la grotta di
Fingal del mondo reale era associata al
Selciato del gigante, ma non c’era mai
stata. La fantasia, però, spesso bastava a
colmare la lacuna.
Sentì il proprio respiro affannoso
rallentare, il corpo rilassarsi. Il tempo si
fermò.
Dietro l’ipnotico schermo della
musica e della propria deliberata cecità
– per la quale non servivano bende –
Summer percepiva la presenza di
Dominik. L’intensità del suo silenzio, il
suono ovattato e lontano del suo respiro.
Sapeva che lui non stava semplicemente
ascoltando ogni nota prodotta dal suo
violino, ma la stava osservando, ed era
consapevole di quegli occhi penetranti
che percorrevano le geometrie del suo
corpo come un esploratore che si
addentra in territori sconosciuti,
inchiodandola
alla
sua
mappa
immaginaria come un entomologo che
classifica una farfalla, e godendosi la
sua vulnerabilità, il dono del suo corpo.
Summer concluse la sua esecuzione
con un ostentato movimento del polso. Il
suono indugiò un istante, quasi che i
muri di pietra riverberassero ancora
l’eco della melodia. Poi scese un
silenzio così assoluto da farle credere,
per un attimo, di essere rimasta sola
nella cripta. Ma quando riaprì gli occhi
vide Dominik, immobile nello stesso
punto dove l’aveva lasciato, l’ombra di
un sorriso soddisfatto sulle labbra.
Lui alzò le mani e le batté con
deliberata lentezza, in segno di
apprezzamento.
«Brava» disse.
Summer
annuì,
accettando
il
complimento come se fosse su un palco.
Si chinò per rimettere nella custodia
il violino, consapevole della lieve
oscillazione dei suoi seni durante quel
movimento.
Poi guardò Dominik, in attesa che
dicesse qualcos’altro, ma lui taceva.
Si passò la lingua sulle labbra secche
e pensò che il calore emanato dal
proprio corpo doveva formare una sorta
di alone intorno a lei, facendola
assomigliare all’extraterrestre di un film
di fantascienza o a uno scienziato
atomico investito da una fuga radioattiva
causata da una catastrofe nucleare.
«Splendido»
commentò
infine
Dominik.
«Ti riferisci a me o alla musica?»
ribatté Summer caustica.
«A entrambi.»
«È gentile da parte tua» disse lei.
«Posso vestirmi, adesso?»
Lui rimase impassibile. «No.»
Poi si mosse verso di lei, con la
grazia e la pericolosità di una pantera
che dà la caccia alla sua preda.
Summer incontrò il suo sguardo. Non
volle arretrare e il suo corpo fu
percorso da una nuova, intensa ondata di
calore a mano a mano che Dominik si
avvicinava.
Lui la prese per una spalla, la fece
voltare e la spinse davanti a sé, contro
la parete della cripta. Le mise una mano
alla base della schiena per farla
inarcare.
Il suo tocco le diede una scossa di
piacere.
Avrebbe voluto girarsi per vederlo in
faccia, ma sapeva che lui avrebbe
disapprovato. Tenne lo sguardo
inchiodato sul pavimento, cogliendo con
la coda dell’occhio la sporgenza delle
grandi labbra.
Udì un fruscio e cercò di
interpretarlo, ma prima di capire che
cosa stava succedendo percepì il calore
del suo cazzo in mezzo alle gambe,
vicinissimo.
Se Summer si fosse mossa anche solo
impercettibilmente, lo avrebbe sentito
dentro di sé. Ma lui non le aveva ancora
chiesto di farlo.
«È questo che vuoi?» chiese
Dominik. «Dimmelo.»
«Sì» sussurrò lei. Non era sicura che
sarebbe riuscita a trattenere un gemito se
avesse parlato a voce più alta.
«Sì, cosa?»
Summer non avrebbe aspettato
ulteriormente. Si inarcò all’indietro,
premendo il proprio corpo contro di lui,
ma non appena lo fece, percependo per
un istante il pulsare dell’erezione di
Dominik tra le proprie cosce, lui le
afferrò i capelli con un gesto fulmineo e
la spinse via, allontanandola da sé.
«No» disse con voce roca. «Voglio
che tu me lo chieda. Dimmi che cosa
vuoi.»
«Scopami. Ti prego, scopami. Voglio
che mi scopi.»
Lui la prese per i capelli e la attirò
verso di sé, penetrandola in fretta con un
unico movimento. Era così bagnata che
lui affondò senza fatica, arrivando al
centro del suo corpo.
Lei si abbandonò alla sensazione,
godendosi il modo con cui la riempiva,
chiedendosi se fosse già completamente
eretto o se sarebbe cresciuto ancora
dentro di lei, diventando più grosso e
più duro come spesso accadeva agli
uomini. In ogni caso, era già
meravigliosamente grosso.
Dominik iniziò a muoversi.
Il membro di lui si adattava
perfettamente alla sua vagina, pensò
Summer,
abbandonandosi
alle
sensazioni
che
cominciavano
a
inondarla, mentre la mano di lui sulla
vita continuava a tenerla in posizione.
«Dillo di nuovo» le ordinò Dominik,
percependo il suo contrarsi e affondando
ancora di più con una spinta violenta,
quasi brutale, simile all’impeto di un
ariete.
«Ah» fu l’unica cosa che Summer
riuscì a dire.
«Stiamo scopando» disse lui.
«Sì» sospirò lei. «Lo so.»
«Ed è quello che volevi?»
Lei annuì, mentre un altro colpo
violento per poco non le faceva sbattere
la fronte contro la parete.
«Rispondimi» disse lui.
«Sì.»
«Sì, cosa?»
«Sì, è quello che volevo.»
«E che cosa volevi?»
Sì, stava diventando più grosso
dentro di lei, la apriva, la riempiva.
Forzava il centro del suo corpo perché
si arrendesse.
«Volevo che tu mi scopassi.»
«Perché?»
«Perché sono una puttana.»
«Bene.»
Lui accelerò il ritmo. Non c’era
niente di tenero in questo, lo sapevano
entrambi; era pura lussuria animalesca,
ma in quel momento andava bene così.
La loro prima volta.
Il potente desiderio sessuale che
nelle passate settimane era rimasto
insoddisfatto era finalmente esploso,
trovando appagamento.
Dominik l’afferrò di nuovo per i
capelli, tirandole indietro la testa con
violenza, cavalcandola, montandola
come un cavallo. Summer sussultò. La
sua mente fu attraversata da sensazioni
insolite, era confusa e quasi in preda al
panico. Quel rapporto sessuale era
inquietante e, al tempo stesso, gradito.
All’improvviso lei si rese conto che lui
non si era messo il preservativo, anche
se avrebbe dovuto saperlo fin
dall’inizio, perché aveva sentito il suo
membro che le si offriva senza alcuna
copertura. La stava scopando senza
protezione. Persino con Darren aveva
sempre insistito perché usasse il
preservativo. Adesso però era troppo
tardi, ma ci sarebbe stato modo di
rimediare in seguito; sapeva che
esisteva la cosiddetta “pillola del giorno
dopo”.
Il respiro di Dominik diventò
affannoso, irregolare.
Mentre veniva come un torrente
dentro di lei, la colpì violentemente su
una natica con la mano sinistra. Il
bruciore fu immediato e doloroso, ma
svanì in fretta, anche se il marchio delle
sue dita le avrebbe segnato la pelle per
ore.
Rimase dentro di lei ancora per un
po’, poi si ritrasse. Summer si sentì
improvvisamente svuotata, non più
invasa, piena fino all’orlo. Addirittura
incompleta. Fece per raddrizzarsi, ma il
tocco deciso della mano di Dominik alla
base della schiena le lasciò intendere
che doveva rimanere in quella
posizione. Aperta ed esposta.
Sorrise tra sé: Dominik era un uomo
che veniva in silenzio. Lei faceva una
netta distinzione tra gli uomini che
godevano senza dire una parola e quelli
che lo facevano a gran voce e aveva
sempre preferito i primi. Nell’apice del
piacere c’è un tempo per parlare e un
tempo per tacere.
A quel punto Dominik disse: «Vedo
il mio sperma gocciolare fuori di te,
colarti lungo le cosce, brillare sui tuoi
peli, far risplendere la tua pelle… È una
visione meravigliosa».
«Non è oscena?» azzardò lei.
«Al contrario, è bellissima. Non la
dimenticherò mai. Se avessi una
macchina fotografica, la immortalerei.»
«E poi mi ricatteresti? Lividi e
tutto?»
«Forse i segni accentuano l’effetto
comprensivo» commentò Dominik.
«Avresti… voluto che non ti
mostrassi i lividi?» chiese Summer.
«Nient’affatto» rispose lui. «Alzati,
adesso. Prendi le tue cose e il violino.
Ti porto a casa mia.»
«E se avessi altri progetti?» chiese
Summer.
«Non ce li hai» ribatté Dominik.
Con la coda dell’occhio lei lo
osservò allacciarsi la cintura nera di
pelle dei calzoni. Era stata scopata, ma
non gli aveva ancora visto l’uccello.
La casa di lui sapeva di libri. Mentre
seguiva Dominik lungo il corridoio
pieno di scaffali, Summer riusciva a
vedere solo file e file di volumi, i cui
dorsi si fondevano in un arcobaleno di
colori. Passando davanti a una serie di
porte che si aprivano su entrambi i lati
del corridoio, notò che tutte le stanze
erano piene di scansie. Non aveva mai
visto una casa così ricca di libri. Si
chiese se lui li avesse letti tutti.
«No» disse lui.
«No, cosa?»
«No, non li ho letti tutti. È ciò che
stavi pensando, vero?»
Dominik le leggeva nel pensiero,
oppure quella era la prima cosa che tutti
si chiedevano entrando in casa sua?
Prima che potesse darsi una risposta,
con una mossa repentina lui la prese in
braccio, la portò verso il suo studio e,
dopo averne aperto la porta con un
piede, si diresse verso la scrivania e la
depose al centro del piano di legno, sul
quale c’erano solo un contenitore con
alcuni oggetti di cancelleria, una pila di
fogli in un angolo e una lampada da
tavolo con il diffusore conico e il
braccio orientabile.
Seduta di fronte a lui, ancora
impregnata dell’odore della cripta e del
sesso
impetuoso
sotto
l’abito
stropicciato, lei si sentiva nervosa.
«Tirati su il vestito» le ordinò
Dominik «e allarga le gambe.»
Summer
obbedì,
acutamente
consapevole del proprio culo nudo sulla
scrivania e del fatto che non si era
lavata, che era ancora piena del suo
sperma.
Lui l’afferrò per le cosce all’altezza
delle natiche e la tirò verso di sé:
adesso lei era sdraiata, con il sedere sul
bordo della scrivania. Poi si girò verso
un letto basso addossato alla parete
(“Un letto nello studio” pensò Summer.
“Che uomo bizzarro”), prese un cuscino,
le sollevò delicatamente la testa e glielo
mise sotto. Quindi avvicinò la lampada,
l’accese e orientò la luce proprio sulla
sua fica.
Summer fece un profondo respiro.
Non era mai stata così aperta, in mostra,
esposta. Non era pudica, non insisteva
per farlo con le luci spente, ma questo
era un livello di esibizionismo
completamente diverso.
Lui tirò a sé la sedia da scrivania, si
sedette e le fissò la fica umida, ancora
aperta dopo la recente scopata.
«Masturbati» le disse. «Voglio
guardare.»
Summer esitò. Questo era molto più
intenso, molto più intimo che scopare.
Conosceva appena quell’uomo, ma la
eccitava moltissimo stare davanti a lui
con le gambe oscenamente spalancate e
una luce puntata sulla sua parte più
intima.
Dominik si appoggiò allo schienale
della sedia, l’espressione al tempo
stesso concentrata e interessata, mentre
le dita di Summer si muovevano con
perizia tra le sue pieghe interne ed
esterne, avvolgendo il clitoride in rapidi
cerchi, con mosse abili e precisamente
orchestrate come quelle con cui suonava
il violino.
Lui osservava con interesse il modo
in cui lei reagiva ai suoi commenti e alle
sue istruzioni, alle richieste di andare
più veloce o di rallentare, alle promesse
di ciò che le avrebbe fatto in seguito. Fu
una di quelle promesse a farla venire
con impeto, mentre un gemito soffocato
le sfuggiva dalle labbra e il suo corpo
era scosso dai brividi. Dalla sua
posizione privilegiata Dominik poté
vedere i muscoli della vagina di
Summer contrarsi e stabilì che non stava
fingendo… anche se un’eventualità del
genere non gli sarebbe parsa possibile.
La sollevò in un abbraccio,
avvolgendosi le sue gambe intorno alla
vita e premendosi la sua fica bagnata
contro i vestiti.
«Baciami» le disse.
“Ha labbra insolitamente morbide
per un uomo” pensò lei.
Mentre lui le infilava la lingua in
bocca, insinuandosi con delicatezza tra
le sue labbra, e raggiungeva la sua
lingua intrecciandosi a essa, la sua mano
le abbassava la cerniera del vestito.
Adesso sentiva il sapore di Dominik, un
cocktail di impressioni senza una nota
dominante, il lieve sentore di menta
dell’alito, il vigore mascolino del corpo
stretto al suo. Non percepì traccia di
profumo o di dopobarba. Era come
addentrarsi in un territorio nuovo, un
paese straniero che lei non aveva mai
esplorato prima.
«Alza le braccia» le ordinò lui.
Le sfilò il vestito dalla testa
scompigliandole i capelli e la fece
piegare all’indietro, per cui lei fu
costretta ad abbassare le gambe e si
ritrovò in piedi sul pavimento, mentre le
sue mani iniziavano a percorrerle la
pelle
nuda,
accarezzandola,
esplorandola dappertutto, sulla schiena,
sulle spalle, sul culo segnato dai lividi.
Poi la prese per il mento e la attirò a
sé per un secondo bacio… Ma il primo
si era mai interrotto? Lei non se n’era
accorta. La spinse sul letto.
Summer si lasciò cadere all’indietro
e lo guardò mentre si spogliava. Prima
la camicia, quindi i pantaloni, che
scalciò via, e infine i boxer neri.
Summer vide il suo pene, grosso, eretto,
percorso da vene in rilievo.
Dominik la tirò sul bordo del letto,
poi si inginocchiò, le allargò le gambe e
fece scorrere lentamente la punta di un
dito dalla caviglia all’interno della
coscia, fino a lambirle la fica. Il corpo
di lei rabbrividì in risposta a quel tocco.
Lui le sfiorò con le labbra la parte
interna della coscia e la stuzzicò
baciandola ovunque tranne che nel punto
in cui lei desiderava essere baciata.
Summer gemette eccitata, inarcandosi
verso di lui. Lui si scostò, fece una
pausa lasciandola agonizzare e poi
affondò il viso tra le sue gambe. Lei
sospirò con malcelato piacere, percorsa
dai brividi mentre la lingua di lui
iniziava a esplorarla.
Per un attimo si ritrasse davanti
all’ardore di lui – era sporca, non
avendo avuto modo di lavarsi dopo la
scopata – ma poi si ricordò che era stato
lui a montarla, e se lui non se ne
preoccupava, perché avrebbe dovuto
preoccuparsene lei?
Le sensazioni che le dava la sua
lingua diventarono così intense da
cancellare tutto il resto, qualunque altro
pensiero, mentre lei fluttuava, si librava,
fuori controllo, in bilico tra il giorno e
la notte, tra la vita e la morte, in quella
zona dove contano solo i sensi, in cui il
piacere e il dolore si fondono in un
divino oblio.
Alla fine lui riemerse dall’oscuro
triangolo del suo piacere e le si mise
sopra.
«Sì» disse Summer. In silenzio
Dominik la penetrò, riempiendola di
nuovo, fendendola con il suo cazzo
grosso e duro, affondando dentro di lei
in un assalto che non le lasciò respiro e
che parve durare un’eternità, mentre le
sue mani la esploravano ovunque, senza
tralasciare nemmeno un angolo del suo
corpo, orchestrando il crescendo del
loro desiderio. La lingua di lui un istante
prima era nella conchiglia dell’orecchio
e l’istante dopo nell’incavo del collo, i
suoi
denti
le
mordicchiavano
delicatamente un lobo, una mano le
afferrava una ciocca e l’altra le
stringeva le natiche, poi entrambe le
mani gliele allargavano per un breve
momento. Dominik si muoveva dentro e
fuori di lei e ogni affondo era un
ulteriore passo verso una destinazione
ignota ma allettante.
Summer non aveva dubbi sul fatto che
lui fosse esperto, visto com’era capace
di prenderla con furia o di giocare con
lei lentamente come in quel momento.
Quanti altri volti avrebbe rivelato?
Infine lui venne. Con un ruggito, un
verso inarticolato, animalesco.
Summer sospirò mentre lui si
fermava gradualmente e riprendeva
fiato.
Mr Silenzio aveva infine gettato la
maschera…
7
Una ragazza e una cameriera
Stava calando la sera e gli ultimi raggi
di sole gettavano un caldo bagliore sul
viso di Dominik, avvolgendolo in una
luce che non gli si addiceva. Circondato
da un alone innaturale nella luce morente
del crepuscolo dava l’impressione di
non appartenere al mondo normale,
anche se in esso pareva agire con totale
disinvoltura. Forse era solo perché i
suoi lineamenti scuri e decisi si
adattavano meglio a un’atmosfera più
fredda. Dominik era attraente, certo, ma
pensai che il pallido chiarore della
cripta gli si addicesse di più.
Era appoggiato con noncuranza allo
stipite della porta e il suo corpo gettava
una lunga ombra sulla veranda davanti a
casa dove adesso mi trovavo, in piedi,
un gradino più in basso rispetto a lui,
pronta ad andar via. Gli avevo detto che
quella sera dovevo lavorare, anche se
non era vero, per evitare di trovarmi in
imbarazzo se mi avesse chiesto di
rimanere. O se non me lo avesse chiesto.
La lieve brezza che soffiava sul prato
portava con sé il vago sentore dei libri
allineati nel corridoio e su ogni parete
della sua casa. Quei volumi sembravano
far parte di lui in modo così
indissolubile che per un attimo avevo
immaginato
che
la
sua
pelle
assomigliasse alla pergamena, anche se
in realtà era come quella di qualunque
altro uomo. Le sue labbra, invece, erano
inconsuetamente
e
piacevolmente
morbide.
La raccolta di libri di Dominik era
stata una sorpresa per me, che avevo
sempre associato la bibliomania a
persone disordinate, docenti pazzi e tipi
dall’aspetto
più
marcatamente
accademico. Avrei detto che Dominik
fosse un professionista rampante della
City, che lavorasse nel campo della
finanza, non certo il professore
universitario che lui mi aveva
confessato di essere, quando gli avevo
chiesto perché la sua casa somigliava a
una biblioteca.
A giudicare dalle scarpe lucide e dal
denaro che presumevo avesse, visto che
si era potuto permettere di comprarmi un
violino di prim’ordine e di organizzare
il concerto con il quartetto, mi sarei
aspettata un appartamento monocromo a
Bloomsbury o nel Canary Wharf con
accessori d’acciaio inox e un
arredamento in varie sfumature di grigio
metallizzato e nero, i colori della sua
auto. E invece la sua era una casa vera,
con uno studio, una cucina a sé stante e
libri dappertutto, di tutti i colori e le
dimensioni, un caleidoscopio letterario
lungo le pareti. Sulle prime avevo
addirittura pensato che avesse anche un
gatto, acciambellato da qualche parte a
osservarmi da un rifugio sicuro sugli
scaffali, ma poi mi ero resa conto che
non era il tipo: non sarebbe stato capace
di convivere con un animale domestico
che gli circolava tra i piedi,
incontrollato, meno che mai con una
creatura così indipendente come un
felino.
Dominik non era eccessivamente
riservato né sembrava voler nascondere
qualcosa, eppure aveva rivelato
pochissimi dettagli della sua vita, della
routine quotidiana che scandiva le sue
giornate al di fuori dei nostri incontri.
Amava la sua privacy, supponevo, e del
resto lo capivo benissimo, visto
quant’ero riluttante a invitare gente a
casa mia. Ero stupita che mi avesse
portata lì. Anche se, in qualche modo, i
libri contribuivano a renderlo più
umano: se non aveva una storia
personale, perlomeno sembrava trarre
piacere dal collezionare le storie degli
altri. Forse non era poi tanto diverso da
me, che amavo immaginare le storie che
si celavano nei violini e nella musica
che suonavo, associando a ciascuna di
esse un diverso corollario di immagini e
di avventure. A quel pensiero Dominik
mi piacque ancora di più. Non eravamo
poi così diversi, lui e io, anche se a un
osservatore
casuale
saremmo
necessariamente sembrati tali.
Ripensai all’abilità con cui mi aveva
toccata, dopo aver insistito per
guardarmi mentre mi masturbavo. Fui
percorsa da un brivido. Non potevo
certo negare di averlo fatto con parecchi
uomini – avevo avuto una dose più che
generosa di incontri casuali e di
appuntamenti combinati online in
momenti di particolare solitudine – ma
nessuno di loro mi aveva mai esaminata
in
quel
modo,
osservandomi
attentamente mentre mi accarezzavo il
clitoride sotto la luce calda di una
lampada da tavolo, come un medico, ma
senza traccia di distacco clinico.
Dominik non aveva pudore e sembrava
godere nel privarne anche me, uno strato
dopo l’altro. Era come se stesse
memorizzando una scena che intendeva
rappresentare di nuovo nei minimi
dettagli in seguito. Mi aveva chiesto di
rallentare e di andare più veloce, di
aumentare o diminuire la pressione. Non
tanto per eccitarmi, riflettei, ma per
valutare la mia reazione, per vedere a
quali stimoli il mio corpo rispondeva e
che cosa, invece, non funzionava. Mi
aveva tenuta in esposizione davanti a sé
come uno scienziato con un nuovo
esemplare da studiare. Mi ero quasi
aspettata che si mettesse a prendere
appunti.
«Un giorno» aveva detto «ti guarderò
di nuovo mentre ti tocchi e ti chiederò di
metterti un dito nel culo.»
Erano state quelle parole a farmi
godere. Per me non è facile raggiungere
l’orgasmo, soprattutto con un nuovo
amante, ma l’idea che lui mi guardasse,
la direzione che i suoi pensieri
sembravano prendere, l’oscenità delle
sue richieste… Dominik toccava corde
che non sapevo nemmeno di avere.
Aveva detto che non suonava uno
strumento, ma io ritenevo che
probabilmente sarebbe stato un buon
musicista.
Sì,
pensai,
l’avrei
sicuramente rivisto.
Spostai il peso da un piede all’altro e
allentai la stretta sulla custodia del
violino. Non sembrava ancora pronto a
lasciarmi
andare.
Aspettai
pazientemente che parlasse.
«Credo che la prossima volta lascerò
a te l’iniziativa» disse infine.
Rimasi in silenzio per un attimo,
riflettendo. Un altro cambiamento di
tattica. Proprio quando pensavo di
averlo capito.
«E se organizzo qualcosa che non ti
piace?» ribattei.
Dominik si strinse nelle spalle.
«Organizzare qualcosa che non mi piace
ti farebbe godere?»
Ci pensai su. No, sicuramente no. Se
ci fossimo visti di nuovo, avrei senza
dubbio voluto che entrambi ci
divertissimo. Era normale, no? Eppure,
non ero ancora sicura di che cosa lui
volesse esattamente da me, o di che cosa
io volessi da lui, il che avrebbe reso
difficile fare un programma per
l’appuntamento successivo.
Feci segno di no con la testa,
improvvisamente a corto di parole.
«Proprio come pensavo. Aspetterò la
tua chiamata.»
Annuii, lo salutai e mi girai per
andarmene.
«Summer» mi chiamò quando avevo
quasi raggiunto il cancello.
«Sì?»
«Decidi pure tu la data e il posto –
qui, se ti fa piacere – ma io sceglierò
l’ora e sistemerò alcuni dettagli minori.»
«D’accordo.»
Mi concessi un sorrisetto mentre mi
voltavo per andarmene.
Dominik non aveva potuto fare a
meno di assumere il controllo.
Mi stupii nel constatare che preferivo
così.
Tornai a casa con la mente in subbuglio.
Presto sarebbe stato buio, per cui
accantonai l’idea di fare una passeggiata
ad Hampstead Heath per schiarirmi le
idee, anche se un po’ di movimento
all’aria aperta era esattamente ciò di cui
avrei avuto bisogno.
Il sesso era stato grandioso. Eccitante
come non mai. Avevo i muscoli un po’
indolenziti, soprattutto quelli dei
polpacci, probabilmente per via della
posizione in cui Dominik mi aveva
messa nella cripta. Ero rimasta in piedi
con le gambe doloranti per un’eternità
mentre lui mi girava intorno prima di
scoparmi. Be’, mi stava bene, visto che
non avevo voluto ammettere che stavo
scomoda.
E poi il modo in cui mi aveva presa,
subito dopo che mi ero masturbata,
ancora piena del suo sperma, senza che
avessi potuto farmi una doccia. Non ero
nemmeno andata in bagno per darmi una
rinfrescata. Ricordai il modo in cui,
appena entrata in casa, mi aveva presa
in braccio e condotta nel suo studio,
mettendomi sulla scrivania e facendomi
allargare le gambe. Avevo dovuto
soffocare una risatina quando mi ero
resa conto che in realtà mi stava
portando in braccio oltre la soglia.
Per ironia della sorte, era stato il
sesso più romantico che avessi mai
fatto, anche se non avevamo usato il
preservativo, una regola sulla quale di
solito non transigo. Sarei dovuta andare
a fare un test. Era stupido, lo so, ma il
calore del suo uccello, il modo rude con
cui mi aveva scopata, come un uomo
posseduto, tirandomi per i capelli quasi
stesse montando una giumenta, aveva
spazzato via tutto il buonsenso che mi
era rimasto.
Non c’era da stupirsi che fossi
indolenzita.
Forse Dominik era un po’ arrogante,
ma a letto era magnifico, e nient’affatto
egoista. In ambito sessuale, non aveva
l’arroganza caratteristica degli uomini
molto sicuri di sé. Mi infilai sotto la
doccia non appena entrai in casa,
continuando a ripensare a quel
pomeriggio mentre lavavo via ogni
traccia dell’avventura.
Poi, scorgendo nello specchio del
bagno i lividi ancora debolmente
visibili, mi chiesi se Dominik ne avesse
aggiunto qualcuno di suo.
Per fortuna, non avevo segni sui polsi
o sugli avambracci, ma solo in zone
coperte dai vestiti, e comunque nessuno
di quei segni era così brutto da non poter
essere giustificato dalla goffaggine: “Ho
sbattuto contro una porta”, “Sono
caduta”.
Mi chiesi come facessero le persone
che frequentavano i club fetish. Come
riuscivano a conciliare i loro
passatempi notturni (e forse anche
diurni) con la vita quotidiana? Ero
sicura che per alcuni di loro si trattasse
di episodi occasionali, ma secondo
Charlotte non era così per tutti: Londra
era piena di uomini e donne che si
trovavano a proprio agio con i rispettivi
partner seduti davanti alla tv con un
piatto di curry in una mano e una frusta
nell’altra. Stavo per aggiungermi alla
schiera?
Non con Dominik, o almeno così
pensavo. Fino a quel momento non
aveva tirato fuori né fruste né manette,
anche se mi ero chiesta se avrebbe
potuto farlo, visto l’interesse che aveva
mostrato per i miei lividi. Ero rimasta
un po’ delusa quando non mi aveva
legata, appesa al soffitto o imprigionata
in qualche aggeggio che pensavo potesse
tenere nascosto in casa. Avevo visto
solo lo studio e la cucina, non la camera
da letto. Strano che ci fosse un letto
nello studio. Lui aveva detto che gli
serviva per pensare. Pensare a cosa? A
come confondermi ulteriormente e
sedurmi, immaginai. Più ci pensavo, più
scoprivo di essermi infilata in un
labirinto senza una via d’uscita
praticabile. A parte la difficoltà di
venire a capo della mia personale
rivoluzione sessuale e di capire quanto
quel nuovo mondo di devianza in cui ero
incappata per caso mi si adattasse, non
sapevo che cosa fare con Dominik.
Il pensiero di chiamarlo per
organizzare il nostro prossimo incontro
mi lasciava perplessa. Era un compito
semplicissimo, ma più ci riflettevo, più
arrivavo
alla
conclusione
che,
nonostante la stravaganza del suo
comportamento fino a quel momento, mi
era piaciuto il modo con cui mi dava
ordini. Avevo apprezzato la chiarezza
delle sue istruzioni e mi ero goduta la
sorpresa. Attendevo, con eccitazione, di
scoprire quale sarebbe stata la sua
prossima mossa. Considerazioni del
genere, immaginai, avrebbero fatto
rivoltare le suffragette nella tomba. Per
non dire delle sculacciate e delle
frustate…
Riflettei se telefonare al mio amico
Chris. Stava lavorando a tempo pieno
alla registrazione del primo CD della
band e non lo vedevo da mesi, anche se
ci eravamo scambiati qualche mail.
Darren era sempre stato geloso della
nostra amicizia e per il quieto vivere io
avevo gradualmente diradato i contatti.
Adesso me ne pentivo. Chris era sempre
stato la mia spalla, il mio appoggio, il
mio rifugio quando avevo bisogno di
qualcuno che capisse le mie stranezze e
le difficoltà dell’aver intrapreso un
percorso professionale creativo. Ma era
impossibile spiegargli tutto questo. Era
un tipo protettivo; sapevo che si sarebbe
insospettito di un uomo che mi faceva
regali costosi e mi chiedeva di
spogliarmi davanti a lui in cripte
sotterranee. Mi sarei insospettita
anch’io, se qualcuno mi avesse riferito
una storia del genere. Decisi, allora, di
chiamare Charlotte. Quello era pane per
i suoi denti.
«Ehi, dolcezza» disse. «Come va?»
Questa volta era sola. Meno male. Mi
avrebbe dato fastidio se ci fosse stato
qualcun altro a origliare il mio racconto.
«Ti ricordi il tizio che mi ha mandato
la mail? Quella con l’“offerta” a
determinate “condizioni”?»
«Sì sì» rispose lei, improvvisamente
attentissima.
Le raccontai tutto: il Bailly, la cripta,
la nudità, ogni cosa. Descrissi Dominik
e le sue strane istruzioni.
«Non mi sorprende affatto» concluse
Charlotte.
«Che cosa vuoi dire? Questa storia è
folle.»
«No, non lo è. Lui è solo un
dominatore.»
«Un dominatore?»
«Sì. Sono tutti così: arroganti,
vogliono avere il controllo. A quanto
pare ti piace, però.»
«Mm.»
«Come hai detto che si chiama?»
«Dominik.»
Charlotte scoppiò a ridere. «Be’, è
quanto mai appropriato» disse.
«Allora, che cosa dovrei dirgli per
l’appuntamento?»
«Questo dipende solo da quello che
vuoi tu.»
Ci riflettei. Davvero non sapevo che
cosa volevo da lui. Qualcosa, certo. Non
riuscivo a togliermelo dalla testa, ma
perché?
«Non ne sono sicura» risposi. «È per
questo che ti ho telefonato.»
«Oh,
be’»
disse
Charlotte,
pragmatica come sempre «se non scopri
quello che vuoi non lo otterrai mai.» Un
consiglio piuttosto sensato. Dopodiché
aggiunse: «Non gli farà male aspettare
un po’. Magari una settimana o due.
Proponigli di suonare di nuovo per lui,
nuda ovviamente, visto che lo eccita
tanto, e a casa sua… a meno che tu non
voglia invitarlo da te. Così penserà che
tu abbia ributtato la palla nel suo campo.
Cosa che non hai fatto, ovviamente.»
Potevo quasi vedere il sorrisetto che
le si allargava sul volto.
«Okay» risposi.
«E, nel frattempo, puoi venire a
servire a una festicciola che ho in
programma per la settimana prossima, se
ne hai voglia.»
«Servire?»
«Come cameriera. Gli ospiti sono
tutti appassionati di fetish. Posso
presentarti a qualcuno e così capirai se
ti piace davvero essere dominata. Dirò a
tutti che stai solo provando per una sera,
e se non ti piace puoi toglierti il
grembiule e unirti alla festa. Ho
ingaggiato dei veri e propri sottomessi.
Faranno loro tutto il lavoro pesante. Tu
puoi limitarti a portare in giro qualche
vassoio e a essere sexy.»
«Essere sexy? Che cosa dovrei
mettermi?»
«Oh, non lo so, usa la fantasia.
Perché non chiami il tuo fidanzato ricco
e gli chiedi di comprarti qualcosa?»
«Non è il mio fidanzato! E non ho
nessuna intenzione di chiedergli niente.»
«Ehi, non scaldarti. Ti sto solo
prendendo in giro. Come sei
suscettibile!»
«E va bene» cedetti controvoglia.
«Verrò.»
«Perfetto» disse Charlotte. «Però
magari potresti dirglielo, per vedere
come reagisce. Ci vediamo sabato. Ah,
mi riporti il cappotto, per favore?»
Aspettai tre giorni prima di chiamare
Dominik.
«Summer» rispose lui, prima che
potessi aprir bocca.
«Il nostro appuntamento» gli dissi.
«Che ne dici di mercoledì prossimo?»
Dominik rimase in silenzio e io udii
un frusciare di pagine. Probabilmente
stava controllando l’agenda.
«Va bene. Sono libero. Che cosa
avevi in mente? Così posso organizzare
le cose.»
«Suonerò di nuovo per te, a casa
tua.»
«Scelta eccellente.»
Sembrava apprezzare la proposta, e
io mi rilassai. Discutemmo la scelta
della musica. Avevo pensato di suonare
qualcosa di diverso, visto che
l’improvvisazione nella cripta gli era
piaciuta: per esempio, un pezzo che non
conosceva
del
compositore
neozelandese Ross Harris, oppure
qualcosa di estraneo al repertorio
classico, magari Daniel D. Alla fine,
però, in preda al nervosismo, accettai la
sua scelta: una parte dell’ultimo
movimento del concerto per violino di
Max Bruch.
«Allora ci vediamo» dissi con
allegria forzata. Odio parlare al
telefono.
«Summer» disse mentre stavo per
riagganciare. Voleva sempre avere
l’ultima parola.
«Sì?»
«Sei libera sabato sera?»
«Mi dispiace, ho un impegno.»
«Capisco. Non importa.»
Sembrava deluso e io mi chiesi se
avesse sperato di vedermi prima. Poi mi
venne in mente il consiglio di Charlotte
di parlargli della festa.
«A dire la verità» dissi «sono
invitata a una festa un po’ insolita.»
«Mm. In che senso?»
Sembrava divertito, non infastidito,
così continuai.
«È a casa della mia amica Charlotte,
quella che mi ha portata al club fetish.»
«Amica interessante, a quanto pare.»
«Infatti. Lei… be’… mi ha chiesto di
partecipare come cameriera.»
«Come
cameriera?
Senza
retribuzione, immagino.»
«Credo di sì. Non abbiamo parlato di
soldi.»
«Per dirla con le tue parole, è solo
per l’eccitazione, allora?»
«Immagino di sì. Sì.»
«Curioso.»
Non ero sicura che significava
l’approvazione.
Quel venerdì ricevetti un altro pacco.
Sempre da Dominik. Dovetti di nuovo
firmare la ricevuta, ma questa volta lui
non si era assicurato che io fossi in casa.
Doveva aver pensato che ci sarei
stata, oppure semplicemente aveva
rischiato, ma era comunque un dettaglio
che mi infastidiva un po’. Mi metteva a
disagio il fatto che lui riuscisse a
prevedere così bene le mie mosse.
Dentro un’anonima scatola di cartone
c’era un pacchetto più piccolo avvolto
nella carta velina bianca e chiuso da un
nastro nero. Lo aprii con cura,
ripiegando la carta e mettendola
ordinatamente da parte. All’interno
c’era un sacchetto di raso nero, che
conteneva un corsetto dello stesso
colore. Era qualcosa di completamente
diverso dai modelli pacchiani che avevo
visto nei negozi di biancheria intima
economica. Provvisto di stecche
d’acciaio, aveva i fianchi larghi e
sagomati e la vita stretta in modo da
mettere in risalto le forme di chi lo
indossava. Le parti di raso erano
intervallate da sottili inserti di velluto,
secondo un motivo geometrico art déco
che sarebbe stato perfetto per una stella
del cinema degli anni Trenta. Un capo
decisamente bello e raffinato, che però
sembrava un po’ corto. Quando me lo
provai e mi guardai nello specchio, mi
resi conto che si fermava sotto il seno,
anziché coprirlo. Se l’avessi indossato
senza il reggipetto o senza le coppette
copricapezzolo, avrei avuto il seno
completamente esposto.
L’idea mi eccitò. A pensarci bene,
però, sembrava improbabile che
Dominik volesse che io suonassi per lui
parzialmente vestita, quando mi aveva
già vista nuda. Tra l’altro, non pareva
molto interessato a quello che
indossavo, anche se, secondo me, gli
piaceva osservare i piccoli cambiamenti
delle mise che sceglievo a seconda delle
occasioni. Quel corsetto era più nel mio
stile che nel suo. In cerca di qualche
ulteriore indizio, frugai in mezzo alla
carta che imbottiva la scatola e trovai
altri due pacchetti più piccoli e un
biglietto.
Sul biglietto c’era scritto: “Indossali
per me. D”.
In uno dei pacchetti c’erano un paio
di culottes bianche con i merletti, un
paio di calze e delle giarrettiere. Le
calze erano di quelle di un tempo, di
nylon con la cucitura: ne avevo sempre
sentito parlare, ma non le avevo mai
viste. Erano scivolose, leggermente
ruvide, e non avevano nulla a che vedere
con i collant morbidi ed elastici a cui
ero abituata.
L’altro pacchetto conteneva un
grembiulino di cotone bianco con il
bordo di pizzo. C’era anche un
copricapo abbinato, grande quanto un
piattino.
Un costume da cameriera. Per sabato.
Per la festa di Charlotte.
Non c’era traccia di scarpe. O
Dominik se n’era dimenticato, il che
sembrava improbabile, oppure aveva
giustamente pensato che le avessi già. In
effetti possedevo un paio di scarpe nere
a stiletto con un alto plateau e un intarsio
di pizzo bianco che avevo comprato di
seconda mano da un’ex ballerina di cage
dance di Hackney che aveva smesso di
ballare per fare la modista e che perciò
vendeva tutte le sue scarpe. Sarebbero
state perfette, anche se scomode, con
quel tacco così alto. Ma ero disposta a
fare dei sacrifici, non tanto in ossequio
alla moda quanto per avere il look
giusto.
In fondo alla scatola trovai
qualcos’altro: una campanella. La forma
era quella della campana di una chiesa,
ma il batacchio era poco più lungo del
mio dito. Quando la scossi emise un
suono straordinariamente cristallino, più
simile al profondo rintocco di uno
strumento a percussione che allo
scampanellio acuto del collarino di un
gatto o del campanello di una bicicletta.
La buona educazione avrebbe
imposto di far sapere a Dominik che
avevo ricevuto il pacco, ma non volevo
incoraggiare i suoi regali. Ero già
abbastanza in debito con lui per via del
violino. Detto questo, avevo la netta
sensazione che lui avesse comprato tutte
quelle cose non per me, ma per se
stesso, per potermi immaginare vestita
così e inebriarsi del potere di avermi
costretta a servire il cibo a seno nudo
come una coniglietta, anche se molto più
raffinata. Immaginai che la campanella
fosse destinata agli ospiti, per reclamare
i miei servigi.
Alla fine non gli feci sapere niente.
Non avevo intenzione di tenerlo sulle
spine, ma non sapevo che cosa dirgli. E
comunque non gli avrebbe fatto male
rimanere con il dubbio di aver sbagliato
a dare per scontata la mia presenza in
casa e che il pacco fosse stato restituito
al negozio.
Mandai, invece, un SMS a Charlotte
per avere la conferma che la mise
sarebbe stata appropriata e non avrebbe
offeso nessuno degli ospiti.
“Ok se vengo in topless?”
“Certo. Non vedo l’ora.”
Rimisi tutto nella scatola, la chiusi e
la sistemai in un angolo della stanza,
dove rimase a fissarmi con aria di
rimprovero, come se al suo interno fosse
intrappolata una creatura solitaria in
attesa di essere liberata.
Il mattino dopo, per non pensare ai
vestiti e alla festa di Charlotte, andai a
nuotare alla piscina del quartiere con gli
auricolari impermeabili che suonavano
Emilie Autumn in loop. Poi feci un giro
in Brick Lane e mi fermai a fare
colazione nel mio caffè preferito in
Bacon Street (nome quanto mai
appropriato alla circostanza). Il locale
era anche un negozio di abiti vintage,
pieno di capi risalenti addirittura
all’inizio del Novecento, ed era quindi
pervaso da un odore dolciastro e
lievemente polveroso di cose vecchie
che ricordava un po’ quello dei libri di
Dominik.
Per quanto fosse ancora presto (in
genere mi svegliavo molto più tardi), la
via era già affollata: su entrambi i lati
c’erano stand appendiabiti pieni di
vestiti e oggetti di antiquariato e
cianfrusaglie disposti su coperte sopra il
marciapiede, chaise-longue leopardate
accanto a sedie da ufficio, bancarelle di
cibo che vendevano di tutto, dalle
costolette alla brace a frullati di frutta
serviti in gusci di cocco. L’atmosfera
vibrava dell’energia dei commercianti e
dell’entusiasmo
dei
turisti
che
visitavano quella zona per la prima
volta. Mentre mi facevo largo tra zelanti
venditori e cacciatori di curiosità, notai
che le mie recenti avventure sessuali mi
avevano aperto la mente anche in un
altro senso. In precedenza avevo
guardato le giacche, i berretti militari e
le maschere antigas in vendita su molte
bancarelle pensando che gli acquirenti
fossero collezionisti di cimeli che
dovevano frequentare mercatini come
quello con insolita regolarità. Adesso,
invece, quelle stesse cose mi apparivano
non più come oggetti da collezione, ma
come capi d’abbigliamento fetish: le
giacche e i berretti militari erano tanto
amati da quelli che Charlotte avrebbe
definito “dominatori” nei club in cui ero
stata, mentre le maschere erano destinate
sia ai cosiddetti sottomessi sia a tizi
punk dall’aspetto asessuato ma con un
evidente interesse per la moda fetish.
Certa com’ero che gli altri passanti non
notassero questi particolari, avevo la
piacevole sensazione di essere entrata a
far parte di un club segreto, una società
di persone che vivevano ai margini del
mondo, ignote a chiunque altro. Mi resi
conto anche, con una punta di
nervosismo, che non avrei più potuto
togliermi dalla testa simili pensieri.
Senza volerlo, avevo imboccato una
strada da cui non sarei più stata capace
di tornare indietro, neppure se lo avessi
voluto.
Rimasi seduta nel caffè per buona
parte della giornata, osservando
l’andirivieni degli altri clienti e
chiedendomi chi di loro – se mai ce
n’era qualcuno – facesse parte di quel
mondo segreto e se riconoscesse in me
uno spirito affine (quasi che gli outsider
fossero attratti gli uni dagli altri al pari
delle oche prima dell’inesorabile
migrazione stagionale verso sud),
oppure se i vestiti di tutti i giorni mi
facessero sembrare del tutto normale.
Fu con questo spirito di rassegnazione al
cammino che ormai avevo intrapreso
che non solo mi infilai la mise che
Dominik mi aveva regalato per la sera
della festa, ma la indossai proprio come
lui avrebbe voluto, lasciando il seno
scoperto.
Mi ci volle quasi un’ora per
allacciare il corsetto, secondo le
istruzioni allegate alla confezione, anche
se non riuscii in nessun modo a
stringerlo a dovere. Una volta pronta,
uscii, presi la Hammersmith and City
Line da Whitechapel a Ladbroke Grover
e mi diressi a casa di Charlotte. Mi ero
infilata un lungo soprabito rosso,
godendo al pensiero che, sotto quella
copertura,
ero
una
persona
completamente diversa, la vera me
stessa, libera dalle convenzioni sociali
che imponevano, per esempio, di
indossare un reggiseno per uscire.
Tutta la mia audacia svanì quando, a
casa di Charlotte, dovetti togliermi il
soprabito. Ero arrivata presto apposta,
per potermi ambientare e recuperare
l’autocontrollo
prima
che
sopraggiungessero gli ospiti. Alla fine
feci un profondo respiro e, affettando
una calma olimpica, per non offrire a
Charlotte il destro di prendermi in giro,
mi liberai del soprabito.
«Che bel corsetto!» esclamò lei.
«Grazie.» Non le dissi che era un
regalo di Dominik.
«Devi stringerlo un po’, però. Vieni
qui.»
Mi fece girare verso la parete.
«Appoggiati con le mani al muro.»
Mi venne in mente la scena di sesso
nella cripta, quando Dominik mi aveva
fatta mettere più o meno nella stessa
posizione. Avrei voluto che lui fosse lì,
per scoparmi di nuovo in quel modo. Al
solo pensiero mi si indurirono i
capezzoli e divennero ancora più turgidi
quando mi resi conto che probabilmente
il “servizio” di quella sera mi avrebbe
stuzzicata; in tal caso, con la mise che
indossavo, mi sarebbe stato piuttosto
difficile nascondere l’effetto che la festa
aveva su di me. Dominik ci aveva
pensato? Era un buon osservatore e io
sapevo che aveva preso nota di quello
che mi eccitava, ma non ero sicura che
avesse previsto che fare la cameriera,
soprattutto vestita in quel modo, mi
avrebbe stimolata sessualmente. Voleva
che mi eccitassi in sua assenza, con le
conseguenze che avrebbero potuto
derivarne?
Oppure
voleva
solo
esercitare il controllo, vedere se avrei
obbedito alle sue istruzioni sempre più
pressanti? L’argomento dell’esclusività
non era stato sollevato. Era decisamente
troppo presto. Non ero nemmeno certa
che la nostra fosse una relazione.
«Te la stai spassando, eh?»
Ero così persa nei pensieri che non
m’ero accorta che Charlotte stava
stringendo i lacci del corsetto.
«Trattieni il fiato.»
Sussultai quando lei mi mise un piede
sulla schiena e poi tirò con tutta la forza
che aveva.
Adesso che era allacciato nel modo
giusto, il corsetto mi dava una
sensazione completamente diversa:
costretta com’ero a tenere la schiena
perfettamente
dritta,
avevo
la
piacevolissima impressione di essere
stretta in un abbraccio mozzafiato.
Dominik aveva evidentemente azzeccato
la taglia, anche se sapevo che i lacci
consentivano un minimo di gioco. Per
fortuna, poi, indossavo già le scarpe
abbinate alla mise, perché a quel punto
mi sarebbe stato impossibile chinarmi.
Se quella sera avessi dovuto raccogliere
qualcosa da terra sarei stata costretta ad
accucciarmi, tenendo la schiena dritta.
La sola idea mi arrapò e a quel punto
ero sicura che Charlotte aveva percepito
l’odore della mia eccitazione, piegata
com’era davanti a me per sistemarmi le
calze.
Trascorsi la maggior parte della
serata in cucina, disponendo il cibo sui
vassoi e godendomi una volta tanto la
possibilità di essere più creativa che nel
mio lavoro part-time alla caffetteria,
dove il cuoco esigeva che i suoi ordini
fossero eseguiti alla lettera. Ogni volta
che la campanella suonava, mi affrettavo
a rispondere e negli andirivieni tra il
salotto e la cucina ne approfittavo per
seguire lo svolgimento della festa, dove,
a ogni rabbocco del bicchiere che
tenevano in mano, i pittoreschi ospiti di
Charlotte erano sempre più stretti gli uni
agli altri e sempre meno vestiti. C’era
grossomodo lo stesso numero di uomini
e di donne, quasi tutti abbigliati come i
partecipanti alla festa del club fetish
sulla barca: perlopiù latex e biancheria
intima. Uno degli uomini era vestito da
cameriera – una divisa striminzita rosa
shocking e un grembiulino con i merletti
– ma da come si comportava era chiaro
che non aveva un ruolo di servizio.
Anche se Charlotte mi aveva assicurato
che non sarei stata sola in cucina e non
avrei dovuto svolgere mansioni pesanti,
in realtà ero l’unica ospite a lavorare.
Ogni volta che, a causa del corsetto,
faticavo a respirare o ero costretta a
chinarmi o ad accucciarmi goffamente,
avevo la sensazione che Dominik
controllasse i miei movimenti, come se
avesse il potere di modificare persino il
modo in cui il mio petto si alzava e si
abbassava,
imprigionato
in
quell’armatura di raso e acciaio. Ogni
volta che la campanella suonava, e io
correvo a portar via un piatto o a
riempire un bicchiere di vino,
immaginavo che a suonare fosse
Dominik e, come travolta da una
violenta ondata di desiderio, mi perdevo
in fantasie sui vari modi in cui mi
avrebbe presa e usata lui.
Charlotte mi osservava incuriosita.
«Ho una sorpresa per te, più tardi»
mi sussurrò in un orecchio mentre le
riempivo il bicchiere. Aveva suonato la
campanella per chiamarmi più volte di
chiunque altro, quella sera.
«Davvero?» ribattei, senza grande
interesse. Le fantasie che occupavano i
miei pensieri erano francamente più
eccitanti di qualunque cosa lei potesse
avere in mente.
La cena era terminata. Adesso
Charlotte era seduta sulle ginocchia di
un uomo che riconobbi. Mi ci volle
qualche minuto per ricordare dove
l’avevo visto. Era il tizio che indossava
i leggings con le paillette e il berretto
militare che avevo notato al club fetish
sulla barca, prima che entrassimo nel
dungeon. Charlotte sapeva che ero stata
attratta da lui, ne ero sicura. Mi chiesi se
l’avesse invitato di proposito, e se si
fosse seduta in grembo a lui solo per
irritarmi. Un pensiero un po’ sciocco,
forse – non avevo scambiato neanche
una parola con quel tipo – ma era già
capitato in passato che Charlotte
flirtasse con uomini che mi piacevano.
Penso che trovasse divertente osservare
la mia reazione, per cui feci del mio
meglio per sembrare impassibile.
Ero in cucina, intenta a distribuire il
dessert nelle coppette, quando udii
l’inconfondibile suono di una viola
provenire dal salotto, mentre gli invitati
di Charlotte abbassavano la voce,
disponendosi ad ascoltare la musica.
Chris. Era una delle cover che
suonavamo insieme, quella che avevamo
eseguito la sera in cui lo avevo
presentato a Charlotte. In seguito loro
due si erano visti, e la cosa aveva fatto
infuriare me e messo in imbarazzo Chris,
anche se la nostra amicizia non aveva
mai avuto il minimo sottinteso sessuale,
un fatto davvero singolare, dal momento
che immaginavo di scopare praticamente
con chiunque, persino con il lattaio. Era
bello avere un amico con cui, invece,
potevo rilassarmi senza preoccuparmi
delle conseguenze.
Che cosa avrebbe pensato di me,
adesso?
Il pezzo finì e io udii il tintinnio acuto
della campanella che sovrastava il
fragore degli applausi. Era di sicuro
Charlotte che chiedeva il dessert. Presi
più coppette che potei e le portai in
salotto, sia perché la campanella di
Dominik mi attraeva come il canto
ammaliatore di una sirena sia perché
sapevo che Charlotte mi stava sfidando
e non avevo alcuna intenzione di
dargliela vinta. Non mi sarei rifugiata in
cucina né avrei cercato di nascondermi,
e Chris sarebbe dovuto farsene una
ragione.
Quando entrai in salotto lui sgranò gli
occhi. Gli lanciai una rapida occhiata e
poi abbassai lo sguardo, sperando che
afferrasse il messaggio e non dicesse
una parola. Non lo fece.
Fu Charlotte a rompere il silenzio.
«Che ne pensi della nostra cameriera?»
chiese a Chris.
«Penso che sia adorabile» rispose lui
senza esitare.
Poi ricominciò a suonare, mettendo
fine alla conversazione. Con un sospiro
di sollievo tornai in cucina. Grazie al
cielo esistevano i buoni amici. Decisi
che non avrei mai più abbandonato
Chris, a prescindere da ciò che
qualunque futuro amante avrebbe potuto
pensare della nostra relazione platonica.
Alla fine della sua esibizione, mentre
stava per andarsene, lui si fermò da me
in cucina, chiaramente scioccato dal
comportamento degli ospiti di Charlotte,
che adesso stavano facendo baldoria in
salotto come gli sfrenati commensali di
un banchetto romano. L’atmosfera era
carica di tensione sessuale e io
sospettavo che il menu prevedesse
un’orgia… subito dopo il dessert.
«Sum» disse, fissandomi con
decisione negli occhi per non guardarmi
il seno nudo «conosci questa gente?»
«Be’, non proprio, solo Charlotte.»
Era la verità, in fondo. Lei non mi
aveva presentata per nome ai suoi ospiti,
com’era naturale vista la mia funzione
alla festa. Adesso che ci riflettevo, era
strano come il ruolo che Charlotte mi
aveva attribuito mi avesse fagocitato nel
momento stesso in cui mi ero messa il
grembiule e avevo sentito suonare la
campanella.
«Tutto un po’ strano, no? Senti»
mormorò poi, lanciando un’occhiata a
una ragazza in topless che stava
apertamente accarezzando una coscia
dell’uomo con la divisa rosa da
cameriera «se avevi tanto bisogno di
soldi, avrei potuto darti una mano.
Avresti dovuto chiamarmi.»
Sentii un tuffo al cuore. Chris era
convinto che lo facessi per soldi. Non
riuscii a confessargli che lavoravo
vestita in quel modo gratis. Come avrei
potuto spiegargli l’assoluta insensatezza
di una cosa del genere?
Annuii in silenzio, vergognandomi
troppo per guardarlo negli occhi. Lui mi
strinse una spalla con tenerezza.
«Devo andare, piccola. Ho un
concerto, più tardi. Ti abbraccerei,
ma…
be’,
vedi…
sarebbe
imbarazzante.»
Mi si riempirono gli occhi di
lacrime. Chris era sempre stato l’unica
persona che sembrava capirmi. Non so
cos’avrei fatto se avessi perso la sua
comprensione.
Si protese verso di me, evitando
accuratamente di toccarmi il seno, e mi
diede un casto bacio sulla guancia.
«Chiamami, okay? Oppure, se ti va, fatti
vedere più tardi, quando… ehm… hai
finito qui.»
«Okay» risposi. «Ci vediamo.»
Se ne andò e la campanella suonò di
nuovo.
Charlotte formulò la sua richiesta in
un attimo, visto che era impegnata: in
ginocchio sul pavimento, nuda, aveva la
testa in mezzo alle cosce di un’altra
ragazza. Aspettò che avessi dato una
bella occhiata alla scena prima di
chiedermi di portarle un cucchiaio e
un’altra coppetta di gelato. Cosa che
feci subito.
«Rimani lì» disse poi. «Voglio che
guardi.»
Non mi mossi, e non solo perché lei
mi aveva intimato di restare. Charlotte
stava elegantemente riempiendo di
gelato la vagina della sua compagna per
poi affondarci la lingua e succhiarlo.
L’altra sussultava a ogni brusco
passaggio dal caldo al freddo,
dimostrando di godersela parecchio.
Anche l’uomo del club che poco prima
aveva tenuto Charlotte sulle ginocchia
assisteva allo spettacolo, con un
evidente rigonfiamento in mezzo alle
gambe. Avrei voluto abbassargli la
cerniera e tirarglielo fuori, ma non lo
feci, non so se per lealtà nei confronti di
Dominik, visto che ero ancora costretta
nelle stecche del suo busto, o perché non
mi pareva appropriato comportarmi in
modo così sfacciato, dato il mio ruolo di
cameriera.
Charlotte girò la testa e incontrò lo
sguardo dell’uomo alle sue spalle, annuì
in segno di approvazione e poi allargò
le lunghe gambe. Lui si tolse i jeans
liberando l’erezione; non portava
biancheria intima. Aveva un pene molto
bello, perfettamente eretto, di colore
uniforme e di dimensioni promettenti:
una scultura marmorea degna di una
galleria d’arte. L’uomo si chinò a
prendere un preservativo da una delle
tasche dei jeans, quindi si inginocchiò
quel tanto che bastava per penetrare
Charlotte da dietro. Mentre lui
affondava dentro di lei, la mia amica
aveva
il
volto
pervaso
da
un’espressione di piacere puro, da una
sorta di estasi mistica. Persa com’era
nella sensazione di quel grosso membro
che la riempiva, si era dimenticata di
me.
In quel momento la perdonai.
Charlotte era schiava dei propri desideri
almeno quanto io lo ero dei miei, ed era
bellissima in quegli attimi di passione.
Raccolsi la ciotola vuota e il
cucchiaio, quindi tornai in cucina. La
campanella non suonò più, ma io rimasi
in attesa, stretta nel corsetto e nelle
scarpe a stiletto che mi facevano dolere
i piedi. Il disagio mi diede una
sensazione di pace, simile a quella che
provavo dopo essermi fatta decine di
vasche in piscina.
Alla fine gli ospiti se ne andarono e
Charlotte mi chiamò un taxi.
«Tutto okay, dolcezza?» mi chiese,
cingendomi affettuosamente le spalle
con un braccio.
«Sì» risposi. «In realtà, mi è
piaciuto.»
«Bene» disse lei.
Rimase in piedi sui gradini
dell’ingresso avvolta in un lenzuolo –
unica protezione dallo sguardo curioso
del tassista – e mi guardò scomparire
nell’oscurità.
Dominik mi telefonò il giorno dopo, per
confermare il nostro appuntamento.
«C’è qualcosa di diverso nella tua
voce» mi disse.
«Sì» confermai.
«Raccontami.»
Credetti di percepire una punta di
preoccupazione, ma non potevo esserne
sicura. Benché non sapessi se fosse
davvero in ansia per me o se si trattasse
di un’altra mossa del suo gioco, mi
sentii spinta ad assecondare la sua
richiesta esattamente come mi ero sentita
costretta ad accorrere al suono della
campanella. Gli raccontai del corsetto e
di Charlotte, e di quello che avevo
provato
guardandola
mentre
la
penetravano da dietro.
Il giorno prima del nostro incontro mi
mandò un SMS: “Vieni domani sera alle
dieci. Avrai un pubblico. Più di una
persona”.
8
Un uomo e il suo ospite
Era una stanza della casa di Dominik
che Summer non aveva ancora visto.
All’ultimo piano, nel sottotetto. Un
tempo forse era una soffitta, ma era stata
completamente ristrutturata. Solo due
delle pareti erano coperte da scaffali,
perlopiù occupati da file di libri con la
costa ingiallita e da riviste di cinema; lo
scaffale più alto sulla parete di sinistra
era ingombro di volumi più antichi
rilegati in pelle, molti dei quali con
titoli francesi. Summer non ebbe
l’opportunità di osservarli più da vicino
né di curiosare ulteriormente. Non
c’erano finestre e la luce proveniva da
due lucernari quadrati che si aprivano
nel soffitto.
Per il resto la stanza era vuota, come
se Dominik l’avesse deliberatamente
lasciata priva di arredi o oggetti che
avrebbero potuto distrarre.
Dominik le aveva chiesto di
presentarsi alle dieci di sera. A
differenza dei precedenti incontri
stabiliti dal contratto non scritto che
regolava i loro rapporti, quella sarebbe
stata un’esibizione notturna anziché
diurna.
Lui l’aveva accolta alla porta e le
aveva dato un rapido bacio sulla
guancia. La sua espressione era
imperscrutabile come al solito e
Summer aveva evitato di fargli
domande, sapendo che sarebbe stato
perfettamente inutile. Si era pertanto
limitata a seguirlo su per le scale, fino
all’ultimo piano. «Siamo arrivati» aveva
annunciato lui.
Summer appoggiò la custodia del
violino sul pavimento di legno.
«Adesso?» chiese a Dominik.
«Sì, adesso» annuì lui.
Moriva dalla voglia di chiedergli chi
ci sarebbe stato oltre a lui, ma si
trattenne. Cominciava ad avvertire fitte
di eccitazione percorrerle il corpo al
pensiero del pubblico che avrebbe
assistito alla sua esibizione, spiando
ogni suo gesto e movimento.
Si tolse i vestiti: un paio di vecchi
jeans e una maglietta bianca aderente.
Dominik le aveva detto che questa volta
non ci sarebbe stato bisogno di abiti
particolari. Né calze né tacchi alti. Si
sarebbe esibita completamente nuda. Lui
sembrava godere di quell’alternanza di
nudo e vestito nello svolgersi delle sue
esibizioni, che organizzava come un
direttore
d’orchestra
folle
ma
puntiglioso.
Summer era in piedi di fronte a lui,
nuda. Per un attimo desiderò che
Dominik la prendesse subito, carponi sul
pavimento, ma poi si rese conto che lui
non l’avrebbe fatto prima che lei avesse
suonato la musica che lo eccitava tanto.
Si erano accordati in anticipo sul
programma:
l’assolo
dell’ultimo
movimento del concerto per violino di
Max Bruch.
Lui la scrutava attentamente. La
stanza era calda e avvolta nella
penombra.
«Hai un rossetto nuovo?» indagò,
guardandole le labbra. Era un buon
osservatore. Summer era solita cambiare
rossetto nel corso della giornata,
passando a un rosso più scuro verso
sera. Era un’abitudine che aveva da anni
e che le dava modo di percepire meglio
la transizione dal giorno alla notte.
«Non proprio» rispose lei. «Alla
sera uso una tonalità più scura e calda.»
«Interessante» commentò lui, con aria
pensierosa. «Hai portato il rossetto con
te?»
«Porto sempre con me sia quello da
giorno sia quello da sera, naturalmente»
rispose lei, indicando la borsetta sul
pavimento, accanto ai jeans e alla
maglietta.
Dominik si avvicinò, aprì la borsetta
e prese i due tubetti, osservandoli con
attenzione per capirne le tonalità.
«Notte e giorno» disse poi.
«Sì» confermò Summer.
Mise giù uno dei due tubetti e aprì
l’altro, girandolo per far uscire la punta
scura e lucida del rossetto. Aveva scelto
il colore notturno.
«Vieni qui» le ordinò.
Summer obbedì, senza sapere che
cosa avesse in mente.
«Raddrizza la schiena» le disse.
Summer lo fece, spingendo in avanti
il seno.
Dominik le si avvicinò con il rossetto
in mano e iniziò a dipingerle con cura i
capezzoli che si stavano indurendo:
prima uno, poi l’altro.
Summer sussultò.
Dipinta.
Decorata.
Esagerata.
Abbassò lo sguardo. Aveva un aspetto
così sfacciato. Sorrise, ammirando la
perversione della fantasia di Dominik.
Ma lui non aveva ancora finito.
Fece un passo indietro, la guardò
negli occhi e disse: «Allarga le gambe»
e si piegò su un ginocchio, sempre con il
rossetto in mano. Le intimò di guardare
davanti a sé e non in basso.
Lei lo sentì entrare con un dito nel
suo recesso umido e schiuderle le
labbra, per poi farvi scorrere sopra il
rossetto, dipingendole la fica.
Fu percorsa da un tremito e per un
momento oscillò sulle gambe. Poteva
solo immaginare che aspetto avesse.
Dominik si rialzò.
Adesso era truccata per l’imminente
esibizione.
«La grande meretrice di Babilonia»
commentò Dominik. «Dipinta. Perfetta.»
Scioccata da quella scena, Summer
non trovò nulla da dire.
Poi lui tirò fuori una striscia di stoffa
nera da una delle tasche dei pantaloni e
le bendò gli occhi.
«Non saprò chi è presente?» protestò
senza convinzione.
«No.»
«Una sola persona o più d’una?»
«Sta a te immaginarlo» rispose
Dominik.
Un’altra variante nel rituale.
Summer trattenne il respiro mentre
rifletteva sulle implicazioni di quella
situazione.
«Adesso ti lascerò» disse Dominik.
«Puoi provare il brano che dovrai
suonare, se lo desideri. Tornerò con il
mio ospite… o ospiti…» Lei notò la
deliberata ironia nella sua voce. «Tra un
quarto d’ora sarò di nuovo qui, e non da
solo. Busserò alla porta tre volte e poi
entrerò. Quindi tu suonerai per noi. Hai
capito?»
Summer fece un cenno d’assenso.
Dominik uscì dalla stanza.
Lei prese il violino e iniziò ad
accordarlo.
Dominik aveva chiesto a Victor di
lasciare le scarpe al piano di sotto,
perciò,
quando
entrarono
nella
mansarda, Summer non riuscì a capire
dal fruscio dei loro piedi scalzi in quanti
fossero.
Alla vista di Summer in tutto il suo
splendore, con il violino in mano e le
parti intime evidenziate dal rossetto
scarlatto, Victor fece un sorriso
raggiante e si girò verso Dominik per
manifestare il proprio apprezzamento
con lo sguardo. Sapeva che non gli era
consentito parlare.
Sin da quando lo aveva aiutato a
mettere insieme il quartetto d’archi per
il concerto nella cripta, Victor aveva
assillato Dominik per capire che cosa
stesse architettando. Dominik sospettava
che l’amico e Lauralynn fossero
qualcosa di più che semplici conoscenti
e che passassero parecchio tempo
insieme. Victor era sempre stato una
presenza ambigua nel campus e nella
vita sociale universitaria di Dominik.
Aveva complicatissime origini esteuropee che sembravano cambiare
capricciosamente
a
seconda
dell’interlocutore a cui raccontava la
propria storia. Era un professore a
contratto di filosofia che si spostava da
un’università all’altra senza mai
rimanervi molto a lungo; pur essendo un
accademico di basso profilo, incantava
il suo uditorio con brillante astuzia,
simulato entusiasmo e astruse teorie che,
non si sa come, riusciva a farsi
pubblicare su riviste esclusive. Era di
corporatura media, con i capelli sale e
pepe e una corta barbetta mefistofelica
che curava con precisione maniacale.
Dominik non prestava molto ascolto
ai pettegolezzi, ma sapeva che quelli su
Victor erano numerosissimi e spesso
platealmente inventati. Era il tipo a cui
rivolgersi per intrighi e intrallazzi
libertini, perché, a quanto si diceva,
aveva un curriculum piuttosto nutrito di
storie con studentesse. Una volta il
direttore di un dipartimento aveva
accennato con riprovazione al fatto che
le laureande che volevano Victor come
relatore della tesi dovevano prestare
particolari servigi extracurricolari. In
effetti, si era notato che le sue
studentesse erano quasi tutte molto
carine.
Era da un po’ che Victor cercava di
estorcere a Dominik informazioni sul
suo “progetto”, come lo chiamava lui, e
alla fine Dominik aveva ceduto e
ammesso l’esistenza di Summer,
descrivendo il gioco che stava facendo
con lei, ma senza sbilanciarsi sui
particolari più intimi.
«Devo vederla» aveva detto Victor.
«Assolutamente.»
«È
molto
affascinante,
sono
d’accordo» aveva ribattuto Dominik.
«Forse…»
«Non “forse”, vecchio mio. Devi
farmela vedere. Anche una volta sola.
Pensi che lei acconsentirebbe?»
«Be’, finora ha sempre acconsentito,
o comunque ha tollerato tutte le
stranezze a cui l’ho sottoposta» aveva
ammesso Dominik.
«Parteciperò solo da spettatore,
beninteso. Anche se non disinteressato,
ovviamente. Non c’è forse un voyeur
nascosto in ognuno di noi?»
«Eh, sì» aveva ammesso Dominik.
«Glielo chiederai? Per favore.»
«Talvolta il suo consenso non si
esprime a parole. Lo presumo io.
Oppure glielo leggo negli occhi, nei
gesti.»
«Ah» aveva commentato Victor.
«Allora lo farai, Dominik? Sono molto
affascinato
dal
tema
del
tuo
esperimento.»
«Esperimento?»
«Perché, non lo è?»
«Sì, suppongo che lo si possa
considerare anche così.»
«Bene. Allora noi due ci capiamo,
vero?»
«Tu la guarderai suonare, e basta.
Capito?»
«Sì, vecchio mio, certo.»
Victor si tormentava distrattamente la
barbetta, mentre Summer suonava. I suoi
capezzoli rosso scuro assomigliavano a
bersagli, illuminati com’erano dalla luce
della luna che pioveva dai lucernari
avvolgendola in un misterioso alone che
sembrava fare da contrappunto al suono,
mentre la melodia si dispiegava in
tortuosi meandri e vie traverse prima di
raggiungere la perfezione della sua
destinazione finale.
La musica le scorreva sotto la pelle,
trascinandola con sé, e i due uomini la
osservavano in silenziosa condivisione.
Summer si rendeva conto di essere
osservata e percepiva gli sguardi di chi
si stava beando delle sue attrattive
fisiche e della sua vulnerabilità. Era
difficile dire chi avesse il controllo di
quella situazione.
Dal ritmo del respiro di Victor che
gli stava accanto Dominik capì che
l’amico era folgorato quanto lui.
Summer nuda produceva quell’effetto e
la sua postura eretta dava la sensazione
che lei si stesse sfacciatamente offrendo
per essere usata, esaminata, o
saccheggiata. Un pensiero folle gli
attraversò la mente. No, certamente no.
Oppure… forse? Si morse la lingua.
Summer concluse il pezzo con un
inutile virtuosismo. L’incantesimo si
ruppe e Victor fece per applaudire, ma
Dominik lo bloccò subito con un gesto e
si portò un dito alle labbra per
ricordargli la consegna del silenzio.
Summer non doveva sapere quante
persone erano presenti.
I due uomini si scambiarono uno
sguardo. Dominik ebbe l’impressione
che Victor lo stesse incoraggiando. O
era la sua immaginazione? Summer era
in attesa, orgogliosamente nuda, con il
violino lungo un fianco. Lo sguardo di
Dominik le scivolò sulla vita, poi scese
più in basso. Percepiva la sua fessura
nascosta dietro la peluria ricciuta.
Avanzò verso di lei, le tolse di mano
il violino e lo appoggiò con cura per
terra, in un punto in cui non avrebbe
corso il rischio di essere danneggiato.
«Ti voglio, Summer» le disse. «Mi
hai fatto venire voglia di te.»
Lei era ancora bendata, per cui
Dominik non poté leggere la sua
reazione nello sguardo. Le mise una
mano sul seno. Il capezzolo era turgido.
Una risposta più che sufficiente.
Le avvicinò la bocca all’orecchio e
sussurrò: «Voglio prenderti adesso,
qui».
Gli sembrò di cogliere un
impercettibile cenno di assenso, anche
se non poteva esserne sicuro.
«E ci sarà qualcuno a guardare…»
Il petto di Summer si sollevò, mentre
lei inspirava profondamente. Dominik la
sentì rabbrividire.
Le mise la mano sulla spalla sinistra,
esercitando una leggera pressione.
«Inginocchiati, carponi.»
E la scopò.
Victor assistette alla scena in perfetto
silenzio, affascinato dallo spettacolo del
grosso cazzo di Dominik che scivolava
dentro e fuori la fessura di Summer,
penetrandola con decisione. Osservò il
ritmo del respiro di lei mentre veniva
scopata, l’oscillare dei seni che si
muovevano a tempo con le spinte di
Dominik, lo schiocco dei testicoli di lui
a ogni nuovo affondo.
Si asciugò il sudore dalla fronte e si
toccò fugacemente attraverso la stoffa
dei pantaloni di velluto verde a coste.
Con la coda dell’occhio Dominik
colse l’eccitazione del collega e notò
l’ampio sorriso sul suo volto, ma ben
presto la sua attenzione fu attratta dal
modo in cui, per l’impatto del suo
uccello dentro di lei, l’apertura anale di
Summer si allargava: era come se
un’onda, formatasi al centro della sua
vagina, si muovesse esternamente in
cerchi concentrici e una volta raggiunto
il sedere si propagasse poi in tutto il
corpo, dando vita alla superficie della
sua pelle mentre la cresta del piacere si
frangeva dentro di lei.
Dominik non poté fare a meno di
pensare che un giorno avrebbe voluto
scoparla proprio in quel buco. Perso
nelle sue fantasticherie, non si era
accorto che, nel frattempo, Victor si era
mosso, portandosi davanti a Summer.
Per un attimo, credette che l’amico
stesse per tirar fuori l’uccello e
metterglielo in bocca – nella classica
“posizione dello spiedo”, com’era
volgarmente chiamata – e fece per
protestare, ma Victor si limitò a estrarre
un fazzoletto per asciugare il sudore
sulla fronte di Summer con estrema
delicatezza, rivolgendo a Dominik un
sorriso beato.
Rendendosi conto che non era
Dominik a detergerle la fronte, Summer
si irrigidì per un istante e lui sentì i
muscoli della vagina stringersi intorno
al suo membro con forza eccessiva.
Mentre la sua mente iniziava a correre,
riempiendosi di immagini impossibili e
indecenti e di ricordi, Dominik rifletté
freneticamente di aver letto da qualche
parte – nel marchese De Sade? – che
quando le donne muoiono in preda agli
spasimi del sesso, i muscoli vaginali si
paralizzano e un uomo può rimanere
intrappolato dentro di loro, come preso
in una morsa; oppure si trattava di un
racconto pornografico che parlava di
donne e cani? Quel ricordo scioccante
lo colpì come un fulmine e lui venne con
violenza, quasi disgustato dai propri
pensieri.
Quando alzò lo sguardo, Victor era
uscito dalla stanza. Sotto di lui, Summer
sembrava annaspare in cerca d’aria.
«Stai bene?» le chiese sollecito,
uscendo da lei.
«Sì» rispose Summer ansimando. Poi
si lasciò cadere a peso morto sul
pavimento, esausta.
«Ti ha eccitata sapere che ci stavano
osservando?» volle sapere lui.
Lei si tolse la benda e si girò per
guardarlo in faccia. Era arrossita.
«Da morire» confessò, e abbassò lo
sguardo.
Dominik adesso sapeva come
funzionava la sua mente, in che modo il
suo corpo rispondeva allo sguardo di un
voyeur. Summer, invece, non era ancora
sicura di dove lui l’avrebbe portata.
Era la fine del trimestre all’università e
Dominik aveva accettato da tempo di
partecipare come oratore a un congresso
all’estero; aveva persino organizzato di
prendersi qualche giorno di vacanza
nella città dove si sarebbe tenuto.
Quando Summer gli chiese quando
avrebbero potuto vedersi di nuovo, lui
la informò della sua imminente partenza.
Lei si mostrò visibilmente delusa. Erano
in cucina, al pianoterra, a mangiare pane
e burro dopo la scopata nella mansarda.
Summer,
ancora
oscenamente
gocciolante, si era infilata la maglietta
ma, su richiesta di Dominik, non aveva
indossato i jeans, per cui sedeva con le
natiche nude sulla sedia di metallo
vicino al piano di lavoro di granito,
dove lui aveva appoggiato i piatti e un
paio di bicchieri di succo di pompelmo.
Il motivo intrecciato della sedia le si
imprimeva nella carne dandole un’acuta
consapevolezza della propria nudità.
Senza dubbio Dominik si sarebbe goduto
la visione di un’altra serie di segni
provvisori sul suo culo quando alla fine
lei si sarebbe alzata e lo avrebbe
preceduto sulle scale per andare a
recuperare i jeans.
Lui aveva ripreso il suo consueto
atteggiamento distaccato e pareva
incapace di affrontare qualunque
argomento importante, meno che mai di
dirle che cosa voleva da lei nel lungo
periodo. Summer, che era un tipo
pragmatico e amava vivere alla giornata,
pensava tuttavia che quando fosse
arrivato il momento giusto Dominik
glielo avrebbe fatto sapere. Per ora si
limitava a chiacchierare del più e del
meno. Lei avrebbe voluto indurlo a
parlare di sé, del suo passato, nel
tentativo di capire meglio quel bizzarro
uomo, il cui riserbo e la cui distanza,
forse, facevano parte del gioco. Se, da
una parte, si sentiva enormemente
attratta da lui, dall’altra però avvertiva
in lui qualcosa di tenebroso, un’oscurità
che l’affascinava e al tempo stesso la
spaventava. Ogni passo di quella strana
relazione sembrava la misteriosa tappa
di un viaggio verso una destinazione che
lei non riusciva ancora a immaginare.
«Sei mai stata a Roma?» le chiese
tanto per parlare.
«No» rispose Summer. «Ci sono
parecchi posti in Europa in cui non sono
stata. Quando sono arrivata qui dalla
Nuova Zelanda, avevo giurato che avrei
approfittato
dell’occasione
per
viaggiare in lungo e in largo, ma ho
sempre pochi soldi, per cui mi sono
spostata raramente. Una volta sono
andata a Parigi per una settimana con un
piccolo gruppo rock con cui suono ogni
tanto, ma questo è tutto.»
«Ti è piaciuta?»
«Sì, moltissimo. Il cibo era divino, i
musei
straordinari,
l’atmosfera
elettrizzante, ma siccome suonavo con
gente che non conoscevo bene – ero un
rimpiazzo dell’ultimo momento – ho
passato un sacco di tempo a provare,
perciò non ho potuto vedere tutti i posti
che avrei desiderato. Mi sono
ripromessa di tornare a Parigi per
visitare la città come si deve. Un
giorno.»
«Se non sbaglio a Parigi ci sono dei
club intriganti.»
«Fetish?» indagò Summer.
«No» disse Dominik. «Li chiamano
club di scambisti. Sono posti in cui
succede praticamente di tutto.»
«Ci sei mai stato?»
«No. Non ho mai avuto la persona
giusta da portarci.»
Che cos’era, un velato invito? si
chiese lei.
«Ce n’è uno famoso che si chiama
Les chandelles, le candele. È un locale
elegantissimo, nient’affatto sordido»
precisò lui con un lieve sorriso.
Poi lasciò cadere l’argomento.
Che uomo irritante. Proprio quando
lei avrebbe voluto fargli un sacco di
domande! Stava pensando di portarla in
quel club e di ordinarle di esibirsi? Solo
musica? O anche sesso? Magari una
scopata in pubblico? A due o con altre
persone? L’immaginazione di Summer
correva sfrenata.
«Che cosa pensi di fare, mentre io
sono via? Qualche altra avventura
fetish?» le chiese Dominik.
«Per il momento niente» rispose
Summer, anche se era quasi certa che
qualcosa sarebbe successo. Era
inevitabile. Ogni singola fibra del suo
corpo era in tensione e lei sapeva che
l’eccitazione e la curiosità l’avrebbero
portata su una china pericolosa, a mano
a mano che l’impulso fosse cresciuto.
Anche Dominik ne era perfettamente
consapevole.
L’espressione del suo volto si fece
più seria. «Sai che non mi devi niente»
le disse. «Sei libera di vivere la tua vita
in mia assenza, anche se avrei da
chiederti una cosa sola.»
«E cioè?»
«Vorrei che tu mi dicessi tutto quello
che fai, oltre alle normali banalità della
vita quotidiana, tipo lavorare, dormire,
suonare con il tuo piccolo gruppo.
Scrivimi. Dettagliatamente. Fammi
rapporto. Con una mail, un SMS o persino
un’antiquata lettera, se ne hai il tempo.
Farai questo per me?»
Summer acconsentì.
«Posso darti un passaggio a casa?»
Lei rifiutò. Abitava a pochi minuti da
una stazione della Northern Line e aveva
bisogno di riflettere, prendendo per un
po’ le distanze da lui.
Dominik aveva respinto l’offerta
dell’Università La Sapienza di Roma,
che gli aveva proposto di alloggiare in
un albergo nei pressi dell’ateneo.
Preferiva scegliersi da solo la propria
sistemazione e così aveva prenotato una
stanza in un hotel a quattro stelle nei
pressi di via Manzoni, a dieci minuti di
taxi dalla stazione Termini, dove
sarebbe arrivato con la navetta
dall’aeroporto.
Avrebbe partecipato al congresso,
dove avrebbe tenuto la sua lezione di
letteratura comparata sugli “Aspetti
della disperazione nella letteratura fra
gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del
Novecento”, concentrandosi su Cesare
Pavese, un esponente della lunga serie
di scrittori che si erano suicidati per le
ragioni sbagliate. Un argomento poco
allegro sul quale però lui era diventato
una specie di autorità. Avrebbe
socializzato con i colleghi stranieri,
trascorrendo però anche un po’ di tempo
da solo per riflettere su quelle settimane
con Summer. Doveva chiarirsi le idee,
analizzare i propri sentimenti e decidere
in che direzione voleva che quella storia
andasse. Sentiva di dover risolvere
moltissimi conflitti interiori. Troppi. Le
cose potevano complicarsi.
Il secondo giorno del suo soggiorno
romano, dopo il discorso di apertura, si
era unito a un gruppo di altri oratori e
partecipanti e aveva cenato in un
ristorante dalle parti di Campo dei
Fiori, dove le fragoline di bosco
avevano il giusto grado di asprezza e
sapore, completato ed esaltato dallo
zucchero di cui erano cosparse.
«Buone, vero?»
Dall’altra parte dello stretto tavolo
rettangolare una donna con i capelli
scuri che non gli era stata presentata
stava sorridendo a Dominik. Lui alzò lo
sguardo, abbandonando per un attimo la
stupenda sinfonia di sapori e colori che
aveva nel piatto.
«Deliziose» confermò.
«Le coltivano sulle pendici dei
monti» continuò lei. «Non nei boschi,
come si sente dire.»
«Ah.»
«Mi è piaciuto moltissimo il suo
intervento. È un tema interessante.»
«Grazie.»
«Mi è piaciuto anche il libro su Scott
Fitzgerald che ha scritto tre anni fa. Un
argomento molto romantico, vero?»
«Grazie di nuovo. È sempre una
piacevole sorpresa incontrare qualcuno
che ha letto davvero quello che scrivo.»
«Conosce bene Roma, professore?»
chiese la donna mentre il cameriere
serviva il caffè.
«Non particolarmente» rispose lui.
«Ci sono stato un paio di volte, ma temo
di non essere un granché come turista.
Non sono un patito di chiese e rovine.
Però mi piacciono l’atmosfera, le
persone. Si può percepire la storia
anche senza un tour de force culturale.»
«È perfino meglio» commentò la
donna. «È un bene avere le proprie idee,
senza seguire la corrente. Comunque, io
mi chiamo Alessandra» aggiunse. «Vivo
a Pescara, ma lavoro all’Università di
Firenze. Insegno Letteratura antica.»
«Interessante.»
«Quanto si ferma a Roma?» chiese
Alessandra.
«Altri cinque giorni.» Il congresso
finiva il giorno successivo e lui non
aveva programmi per il dopo. Aveva
pensato di rilassarsi, di godersi il cibo e
il clima e di concedersi un po’ di tempo
per riflettere.
«Se vuole, posso portarla in giro.
Mostrarle la vera Roma, fuori dalle rotte
turistiche. Niente chiese, prometto. Che
ne dice?»
“Perché no?” pensò Dominik.
Alessandra aveva una zazzera di ricci
neri ribelli e la sua pelle abbronzata
conteneva una calda promessa. Non era
forse stato chiaro con Summer sul fatto
che ciò che si stava sviluppando tra loro
non aveva il carattere dell’esclusività?
Sapeva di non averle chiesto niente né
lei aveva preteso alcunché da lui. In
quella fase si poteva parlare di
un’avventura, non di una relazione.
«Dico di sì» rispose ad Alessandra.
«È una bellissima idea.»
«Conosce Trastevere?» s’informò
lei.
«Lo conoscerò presto, spero» sorrise
Dominik.
La seduzione è soprattutto un gioco
tra uomini e donne adulti, quando
nessuna delle due parti è consapevole di
chi sia il seduttore e chi il sedotto.
Questo è ciò che emerse con Alessandra
di Pescara. Il fatto che finissero nella
stanza di lei fu solo una questione di
comodità geografica, dal momento che il
bar in cui bevvero l’ultimo drink
(Martini dolce per lei e la solita CocaCola senza ghiaccio per lui, astemio più
per gusto che per principio: il sapore
dell’alcol non gli era mai piaciuto,
neppure quand’era giovane) era più
vicino al piccolo albergo di charme di
lei che all’impersonale hotel di lusso di
lui.
Il telefono di Dominik vibrò non
appena lui entrò nella suite tenendo
Alessandra per mano, dopo averla
baciata in ascensore e averle
fugacemente toccato il sedere attraverso
la sottile stoffa della gonna.
Si scusò con lei, adducendo a
pretesto importanti questioni d’affari
estranee al mondo accademico, e lesse
l’SMS che gli era appena arrivato. Era di
Summer.
“Mi
sento
svuotata”
diceva.
“Continuo a pensare ai tuoi desideri
perversi. Confusa, arrapata, un po’
persa.” Era firmato “S.”.
Mentre Alessandra andava in bagno a
darsi una rassettata, Dominik uscì sul
balcone affacciato sui colli romani e,
nell’aria calda della notte, rispose al
messaggio.
“Fa’ quello che devi, ma raccontami
tutto quando torno. Assumi la tua natura.
Consideralo un consiglio piuttosto che
un ordine. D.”
Rientrò nella stanza, scostando le
lunghe
tende
fluttuanti
della
portafinestra. Alessandra lo stava
aspettando con due bicchieri. Quello per
lei sembrava contenere vino bianco,
quello per lui acqua minerale.
Si era slacciata i primi due bottoni
della camicetta bianca, rivelando la
parte superiore del seno generoso, e
sedeva su una sedia. La porta della
camera da letto alla sua destra era
semiaperta, un’oscura caverna invitante.
Dominik le si avvicinò, si mise alle sue
spalle e le prese i capelli tra le mani,
affondando le dita tra i suoi riccioli
ribelli. Quando iniziò a tirarglieli,
Alessandra gemette piano. Lui lasciò la
presa, si piegò su di lei e la baciò sulla
nuca, circondandole il collo con le mani.
«Sì» disse Alessandra con il respiro
affannoso.
Sempre in piedi dietro di lei,
Dominik percepiva il calore del suo
corpo.
«Sì, ovvero?» chiese.
«Ovvero scopiamo, no?»
«Certo» confermò Dominik, facendo
scivolare le mani dentro la camicetta e
prendendole i seni. Il cuore le batteva
forte, un tambureggiare a fior di pelle.
Sfregò il pollice contro i capezzoli
turgidi. A giudicare dalla carnagione di
Alessandra, dovevano essere marrone
scuro. Gli venne in mente la delicata
armonia di beige e rosa dei capezzoli di
Kathryn e il fatto che di rado si
indurissero; quindi pensò al colore
marrone chiaro e alla superficie più
ruvida di quelli di Summer, e infine
ricordò i seni di altre donne che
popolavano il suo passato, quelle che
erano venute, quelle che se n’erano
andate, quelle che lui aveva amato,
desiderato, abbandonato, tradito, ferito.
Tolse la camicetta ad Alessandra con
un gesto brusco, come se fosse in preda
alla rabbia perché in quella stanza c’era
lei e non un’altra donna. Perché la sua
pelle era scura anziché consumata dal
pallore. Perché parlava con un
pittoresco accento straniero che gli
ricordava l’inflessione neozelandese di
Summer. Sapeva che non avrebbe
dovuto incolpare Alessandra perché
aveva un corpo opulento, invece che una
vita sottile sopra fianchi generosi. Era
solo il corpo sbagliato al momento
giusto, ma ciò non faceva di lei il
nemico. Alessandra allungò una mano
verso i suoi pantaloni e gli tirò fuori il
cazzo semieretto, poi lo prese nella
bocca calda e umida. Maledizione,
pensò lui, Summer non glielo aveva
ancora succhiato. Significava qualcosa,
o era solo perché lui non l’aveva mai
invitata a farlo? Alessandra cominciò a
stuzzicargli il glande con la lingua,
muovendola abilmente in una danza
eccitante e sfiorandogli con i denti la
pelle delicata. Con una mossa rapida e
una spinta violenta Dominik glielo ficcò
più in fondo che poteva. Per un attimo
ebbe la sensazione che l’avrebbe
soffocata e il lampo di paura e
disapprovazione che scorse negli occhi
di lei lo gelò, ma non gli impedì di
continuare. Sapeva che era solo la
rabbia a dettare la violenza dei suoi
gesti. Una profonda irritazione per il
fatto che Alessandra non era la donna
con cui avrebbe voluto essere in quel
momento: Summer.
Dominik si calmò e, dopo essere
uscito dalla bocca di lei, si svestì e andò
a stendersi sul letto. Alessandra si svestì
a propria volta e lo raggiunse. Sapevano
entrambi che sarebbe stata una scopata
rude, violenta, un rapporto meccanico
senza romanticismo né tenerezza.
Andava bene così a tutti e due. Sarebbe
stata l’unica volta. Un errore, forse.
Estranei che si aggrappano a un
salvagente nel buio. Forse anche lei
desiderava le braccia e l’uccello di un
altro, pensò Dominik, per cui il rapporto
di quella notte non avrebbe significato
niente. Il mattino dopo si sarebbero
separati scambiandosi poche parole e
andando ognuno per la propria strada.
Dominik non aveva in programma di
tornare a Roma nell’immediato.
Quando furono entrambi sul letto, lui
le si buttò addosso, pelle contro pelle, le
allargò le gambe e la penetrò. Senza una
parola.
In sottofondo il suo cellulare vibrò di
nuovo, ma Dominik avrebbe letto il
messaggio di Summer solo la mattina
dopo.
“E sia. S.”
Summer era preoccupata per lo stato
delle sue finanze. Adesso che aveva
smesso di suonare nella metropolitana,
lo stipendio e le mance della caffetteria
dove lavorava part-time non bastavano.
La band si era presa una pausa: Chris
improvvisava pezzi nuovi in uno studio
fuori Londra, nella casa di campagna di
un amico, e lei aveva inciso le sue brevi
parti per violino alcune settimane prima,
ma non sarebbe stata pagata finché non
avessero cominciato a guadagnare con
quelle registrazioni. Stava intaccando i
suoi risparmi, peraltro minimi. Troppi
taxi per andare in posti lontani:
Hampstead, i club fetish e così via.
Appuntamenti e destinazioni a cui non
poteva recarsi con i mezzi pubblici
senza sentirsi a disagio. E non aveva
alcuna intenzione di chiedere aiuto a
Dominik. Né a nessun altro, se è per
quello.
Aveva
sentito
dire
che
al
conservatorio di Kensington c’era una
bacheca con annunci di lavoro, per
ingaggi in serate uniche o per insegnare.
Quando arrivò, trovò l’atrio principale
quasi deserto e si rese conto che era la
fine del
trimestre. Maledizione.
Qualunque annuncio ci fosse stato nella
bacheca probabilmente sarebbe stato
vecchio e ormai superato!
Si avvicinò alla parete in fondo per
esaminare i messaggi attaccati con le
puntine e i biglietti da visita disseminati
qua e là, tirò fuori dalla borsa un
blocchetto e si appuntò alcuni numeri,
controllando le date per evitare di
perdere tempo con offerte ormai
vecchie.
In mezzo alle richieste di lezioni di
violino per i bambini dei sobborghi e a
una penuria di ingaggi ben remunerati
per complessi d’archi (“Portate il
vestito da sera e venite truccate”) che
suonassero in registrazioni televisive
con gruppi rock in cerca di credibilità
classica, notò un messaggio dall’aria
familiare e capì come aveva fatto
Dominik a trovare i tre musicisti che
l’avevano accompagnata nella cripta.
Sorrise. Tutte le strade portano a
Roma… Poi ebbe un attimo di esitazione
quando vide che il numero di telefono in
realtà non era quello di Dominik. Forse
usava un altro numero a seconda delle
occasioni o delle necessità. Registrò
l’informazione.
«Cerchi un lavoro?» le disse
all’orecchio la voce melodiosa di una
ragazza. Summer si girò per guardarla in
faccia.
«Sì, ma non c’è una gran scelta,
vero?»
La giovane era insolitamente alta,
aveva i capelli biondi tinti ed era
magnifica con il giubbotto di pelle nera
e i jeans neri aderenti infilati in stivaletti
lucidi dal tacco vertiginoso. C’era
qualcosa di familiare in lei: il sorriso
ironico all’angolo della bocca, il modo
in cui osservava Summer con freddo
divertimento e un presunto senso di
superiorità.
«Quello è interessante, vero?»
osservò la ragazza indicando l’annuncio
che aveva attirato l’attenzione di
Summer.
«Sì. Un po’ misterioso» commentò
Summer.
«Mi sa che è superato» disse l’altra
«ma si sono dimenticati di toglierlo
dalla bacheca.»
«Probabile» rispose Summer.
«Non mi riconosci?» chiese la
bionda.
A quel punto Summer si ricordò e
arrossì. Era la violoncellista della
cripta.
«Oh, Laura, vero?»
«Lauralynn. Mi dispiace di esserti
rimasta così poco impressa, ma
immagino che tu avessi la testa da
un’altra parte. Senza dubbio pensavi alla
musica, vero?»
Il tono malizioso nella sua voce era
inequivocabile e Summer si ricordò di
aver pensato che Lauralynn fosse
riuscita a vederla nuda nonostante la
benda.
«Abbiamo suonato bene insieme,
credo. Anche se non potevamo vederti»
sottolineò
Lauralynn
in
tono
provocatorio.
«È vero» concordò Summer.
Avevano instaurato in fretta una solida
intesa musicale nonostante la situazione
bizzarra.
«Che cosa stai cercando?» le chiese
Lauralynn.
«Un lavoro. Qualunque cosa, a dire
la verità. Preferibilmente nel campo
della musica. Sono un po’ a corto di
soldi» ammise Summer.
«Capisco. Be’, le cose più
interessanti non le trovi qui. Non studi al
conservatorio, vero? Gli ingaggi
migliori di solito si ottengono con il
passaparola.»
«Ah.»
«Prendiamo un caffè?» propose
Lauralynn. «Al piano superiore c’è una
caffetteria carina e, visto che è la fine
del trimestre, non ci sarà molta gente.
Possiamo fare due chiacchiere in pace.»
Summer accettò e seguì Lauralynn
lungo la scalinata che lei aveva
imboccato con decisione. I jeans le
mettevano in risalto il sedere,
fasciandolo stretto come una seconda
pelle. Summer non era mai stata attratta
dalle donne, ma questa ragazza bionda
aveva un fascino innegabile, un’aria di
autorità e sicurezza che aveva incontrato
di rado persino negli uomini.
Legarono in fretta, scoprendo di aver
vissuto alcuni anni in Australia nello
stesso periodo, anche se in città diverse,
e di conoscere gli stessi luoghi di
ritrovo musicali. Summer si sentiva
rilassata e bendisposta verso Lauralynn,
nonostante l’atteggiamento un po’
manipolatorio
che
percepiva
istintivamente in lei. Dopo due caffè
decisero di passare a un prosecco.
Lauralynn insistette per offrire la
bottiglia.
«Quanto sei flessibile?» chiese poi a
Summer di punto in bianco, dopo un
ozioso scambio di battute sull’acustica
delle sale di Sydney.
«“Flessibile” in che senso?» indagò
Summer, non riuscendo a capire a cosa
si stesse riferendo Lauralynn e se la
domanda nascondesse un doppio senso.
«Riguardo al posto in cui vivere.»
«Ragionevolmente flessibile, direi»
rispose Summer.
«So che c’è un posto di violinista
vacante in un’orchestra. Credo che tu sia
abbastanza brava. Sono sicura che
passeresti l’audizione brillantemente.
Anche bendata» disse scoppiando a
ridere.
«Sembra magnifico.»
«Però è a New York. E cercano
qualcuno disposto a firmare un contratto
di almeno un anno.»
«Ah.»
«Sono in contatto con la persona che
si occupa del reclutamento. Anche lei è
neozelandese, perciò avete qualcosa in
comune. Mi sarebbe piaciuto tornare per
un po’ a New York, ma in questo
momento non ci sono richieste per una
violoncellista.»
«Non lo so.»
«È per lui che esiti?»
«Lui?»
«Il tuo uomo, il tuo benefattore,
potremmo dire. Oppure è il tuo
padrone?»
«Nient’affatto» protestò Summer. «Le
cose non stanno così.»
«Non devi fingere, sai? Ho intuito
quello che succedeva tra voi due, nella
cripta. Voleva che tu fossi nuda, vero?
Lo ha eccitato vederti suonare in quel
modo mentre noi eravamo tutti vestiti,
no?»
Summer deglutì a fatica.
«Ha eccitato anche te, vero?» la
incalzò Lauralynn.
Summer si rifugiò nel silenzio. Bevve
un sorso di prosecco, che a quel punto
era diventato tiepido.
«Come facevi a saperlo?» le chiese.
«Non lo sapevo» rispose Lauralynn.
«L’ho intuito. È stato un mio amico con
gusti un po’ particolari a mettere
quell’annuncio per conto del tuo uomo –
sono amici – e così ho immaginato che
tutta la faccenda fosse quantomeno poco
ortodossa. Ma non pensare che
disapprovi. Ci sono dentro anch’io.»
Sorrise con aria cospiratoria.
«Dimmi di più» la esortò Summer.
9
Una ragazza e la sua nuova amica
«Posso fare di meglio» disse Lauralynn.
«Te lo mostrerò.»
Eravamo ancora nella caffetteria del
conservatorio a parlare dei gusti
particolari di Lauralynn. Lei allungò sul
tavolo un braccio sottile e mi sfiorò
l’interno del polso con la punta delle
dita.
Sussultai.
Non capivo se stesse affermando
qualcosa oppure se dovessi interpretarlo
come un invito, ma a cosa?
«Hai mai visto una dominatrice in
azione?»
«Un paio di volte» risposi «ma solo
nei club. Non, ehm… in privato.»
Eravamo alla seconda bottiglia di
prosecco ed ero abbastanza sicura di
averne bevuto io la maggior parte –
oppure Lauralynn reggeva l’alcol in
modo straordinario – dal momento che
ero piuttosto alticcia mentre lei
sembrava del tutto sobria.
«Dovresti perfezionare la tua
educazione con un assaggio dell’altra
metà del cielo. Non è una cosa riservata
agli uomini, sai.»
Inarcò un sopracciglio pronunciando
la parola “assaggio” e io arrossii. Non
ero abituata a flirtare con le donne e mi
sentivo decisamente inadeguata. La
situazione mi ricordava il primo
incontro con Dominik al caffè di St
Katharine Docks. Seduti uno di fronte
all’altra, intenti a soppesarci, mentre
infuriava una lotta silenziosa tra
dominanza e sottomissione, attrazione e
orgoglio.
«Ah, e di cosa si tratta?»
«Sta a te scoprirlo. Non vorrei
rovinarti la sorpresa.»
Aveva tolto la mano dal mio polso e
adesso faceva scorrere l’indice sul
bordo del bicchiere, con movimenti
circolari deliberatamente lenti. Notò che
osservavo il movimento del suo dito, la
pressione decisa e ostinata sul vetro, e
fece un sorriso lascivo.
«Stai pensando al tuo uomo» mi
chiese «oppure a me?»
Riflettei su Dominik. È vero, ci
eravamo detti d’accordo sul fatto che
eravamo entrambi liberi di esplorare i
nostri desideri, e io lo stavo tenendo
aggiornato sui dettagli delle mie
esperienze, come mi aveva chiesto, ma
non ero sicura di come si sarebbe sentito
se mi fossi fatta deliberatamente
dominare da un’altra persona, anziché
limitarmi a scopate occasionali o a
puntate nei club. Sembrava una cosa
diversa. Soprattutto perché la proposta
veniva da Lauralynn, che era stata
ingaggiata da Dominik solo poco tempo
prima e tecnicamente era ancora legata a
lui, pensai, dal momento che si era
impegnata a non divulgare i dettagli
della nostra esibizione segreta. In effetti,
non sarei stata capace di affrontare
quell’argomento con Dominik. Era
impossibile informarlo del mio incontro
con Lauralynn senza coinvolgere anche
lei. Lui aveva previsto che io e gli altri
membri del quartetto non ci saremmo
rivisti mai più, ne ero certa. Se avessi
voluto accettare l’offerta di Lauralynn,
avrei dovuto disobbedire alla sua
volontà.
Quel pensiero mi fece provare un
brivido di ribellione. Dominik non mi
possedeva. E poi il potere che aveva su
di me arrivava solo fin dove glielo
permettevo io. Inoltre, non mi aveva mai
ordinato specificamente di non fare
sesso, o qualunque altra cosa lei avesse
in mente, con Lauralynn.
Ripensai al modo in cui i jeans le
scolpivano il culo e al sorriso malizioso
che le aleggiava sulle labbra. Avrei
scommesso che c’era un che di lascivo
in lei.
A parte un paio di pomiciate e di
palpeggiamenti esitanti, non ero mai
stata con una donna. Avrei voluto
provare, ma non avevo osato spingere
oltre le situazioni in cui mi ero trovata,
indipendentemente
da
quanto
sembrassero promettenti. Adesso il
prosecco e l’evidente sicurezza sessuale
di Lauralynn mi rendevano più
intraprendente. Lei, in ogni caso, aveva
coraggio a sufficienza per tutte e due.
«Non è il mio uomo» protestai,
guardandola negli occhi.
«Bene.»
Dieci minuti dopo eravamo su un taxi
dirette al suo appartamento in South
Kensington.
Quando arrivammo, pensai che
sembrava passarsela bene. La casa era
vecchia, come quasi tutto a Londra, ma
molto più grande della maggior parte
degli appartamenti che avevo visto, ed
era su due piani. L’interno era come me
lo aspettavo: essenziale, raffinato,
dominato dal bianco, privo di fronzoli e
orpelli. L’effetto avrebbe potuto essere
freddo, ma in Lauralynn c’era una vena
ironica e io ero convinta che quella
della regina di ghiaccio fosse un po’ una
posa. La sua vera personalità era più
calda, ci avrei scommesso.
Mi osservò mentre mi guardavo
intorno.
«Controllo del rumore» disse. «Ecco
perché mi sono trasferita qui.»
«Controllo del rumore?»
«C’è un buon isolamento acustico.»
«Ah.»
«Non si sentono le urla.»
Di nuovo quel sorrisetto malizioso.
«I miei vicini continuavano a
lamentarsi, così sono stata costretta ad
andarmene» continuò, con un’alzata di
spalle.
Repressi un sorriso. Mi divertiva
sempre osservare come il quotidiano e
l’osceno entravano in collisione. Visto
da fuori, il mondo di cui ora facevo
parte
sembrava
oscuramente
e
naturalmente affascinante, eppure i
pervertiti dovevano conciliare le
proprie attività “collaterali” con la
routine quotidiana che li accomunava a
tutti gli altri… pagare l’affitto,
giustificare la presenza di strani aggeggi
ai coinquilini e ai padroni di casa,
imparare a praticare la loro arte talvolta
nei luoghi più ordinari.
Lauralynn scomparve in cucina e io
sentii il tintinnio del ghiaccio che
cadeva in un bicchiere e il sibilo
smorzato di una bottiglia che veniva
aperta.
«Accomodati» disse, porgendomi un
pesante bicchiere di vetro e indicando
un gigantesco divano angolare di pelle
color crema che occupava quasi due
pareti del salotto. «Vado a mettermi
qualcosa di più… adatto.»
Annuii e bevvi un sorso dal
bicchiere. Acqua minerale. Forse si era
accorta che il prosecco mi aveva un po’
stordita. L’alcol e le perversioni
sessuali fisicamente più impegnative non
sono una saggia combinazione. Ecco
perché mi ero fidata con tanta facilità di
Dominik e del suo modo di usare il mio
corpo: sapevo che non beveva.
Lauralynn si girò verso di me prima
di salire le scale.
«A proposito, Summer.»
«Sì?»
«Sta arrivando un amico.»
Dopodiché scomparve per una
ventina di minuti, lasciandomi da sola a
rimuginare. In attesa di sentire il suono
del campanello, mi chiesi che cosa avrei
fatto se l’amico fosse arrivato prima che
lei tornasse. Feci un salto nel bagno al
pianterreno per darmi una rinfrescata.
Lauralynn avrebbe fatto sesso con
me? mi chiesi, dandomi una lavata
veloce a scopo preventivo. O si
aspettava che fossi io a prendere
l’iniziativa con lei? Ero piuttosto brava
nella fellatio, una pratica che mi piaceva
in modo particolare perché mi
consentiva di sondare le profondità di un
uomo e di dargli tanto piacere da fargli
dimenticare tutto il resto, tenendolo
prigioniero della mia bocca anche se ero
io quella in ginocchio. Non avevo,
invece, mai leccato una donna e non ero
affatto sicura di come si dovesse
procedere. Feci una smorfia al pensiero
di quanto fosse difficile per i miei
amanti portarmi all’orgasmo: era
necessario un mix abilmente studiato di
sensazioni fisiche e mentali e, anche
così, non era detto che funzionasse.
Sarei stata in grado di far godere
Lauralynn? Non sapevo nemmeno se
quell’eventualità facesse parte dello
scenario imminente.
Da quel poco che avevo capito, il
rapporto tra i sottomessi, o schiavi, e le
loro dominatrici non era di natura
sessuale; era, piuttosto, uno scambio
totale di potere, una complessa
alternanza e combinazione di servizio e
adorazione da una parte e una forma di
benevolo, teatrale esercizio dell’autorità
dall’altra. In situazioni del genere
sembrava che a condurre il gioco fosse
la dominatrice, ma in realtà di solito lei
faceva un notevole sforzo per capire la
particolare psicologia di ciascun cliente
e dargli esattamente ciò che voleva.
Non era un compito facile da nessun
punto di vista, anche se probabilmente
per Lauralynn era un lavoro, il che
avrebbe
spiegato
l’appartamento
costoso e l’arredamento impersonale e
facile da pulire.
Udendo il rumore dei suoi tacchi
sulle scale, finii alla svelta di lavarmi.
Quando uscii dal bagno, lei stava
andando ad aprire la porta d’ingresso.
Indossava una tuta aderente di latex,
che le stava magnificamente, e un paio
di stivaletti con il tacco così alto che mi
stupii riuscisse a camminare senza
cadere. I capelli, stirati e lucidati, le
ricadevano addosso come una pesante
cortina bionda che oscillava a ogni
movimento. Sembrava il personaggio di
un film di supereroi.
Una dea. Capivo benissimo perché un
uomo potesse adorare Lauralynn.
Persino i fiori si sarebbero inchinati con
deferenza al suo passaggio, pensai.
«Marcus» disse all’uomo sulla porta.
Si era scostata di lato perché potessi
vederlo.
Era di statura e corporatura medie,
con i capelli castano scuro, abbastanza
carino ma niente di particolare. Era
vestito in modo impersonale – jeans dal
taglio ordinario e una camicia a maniche
corte con il colletto ben stirato – e non
aveva tratti distintivi e caratterizzanti.
Era il genere di persona impossibile da
identificare con certezza in un confronto
all’americana.
«Padrona» disse lui in tono riverente,
chinando la testa per baciarle la mano.
«Entra.»
Lauralynn gli voltò le spalle con fare
imperioso e lui la seguì dentro
l’appartamento come una marionetta agli
ordini di un burattinaio. Ci presentò e lui
baciò la mano anche a me. Il gesto mi
era completamente estraneo e mi sentii
imbarazzata da quella manifestazione di
servilismo. Avrei voluto spiegargli che
non ero
una
dominatrice,
ma
l’espressione sul viso di Lauralynn me
lo impedì. Era il suo show e io avrei
recitato qualunque ruolo mi avesse
assegnato.
Marcus e io la seguimmo in silenzio,
fermandoci alla base delle scale.
«In ginocchio» disse a Marcus, il
quale obbedì all’istante. «E non
guardarle sotto la gonna.»
Dunque era stata stabilita una specie
di gerarchia, con Lauralynn al posto di
comando, io nei panni di una specie di
complice e Marcus come sottomesso di
Lauralynn, schiavo o servo… non ne
sapevo ancora abbastanza per capire la
differenza, ammesso che ce ne fosse una.
«Siediti, Summer» mi disse, quando
fummo nella camera al piano di sopra, e
indicò il letto a due piazze tutto nero, un
cambiamento radicale rispetto al bianco
che dominava al piano di sotto. Forse lei
non permetteva agli uomini di
raggiungere l’orgasmo qui, riflettei,
altrimenti sarebbe stato arduo tenere
pulite le lenzuola.
Mi sedetti.
«Lavale i piedi» ordinò Lauralynn a
Marcus, che era ancora in ginocchio e
aspettava istruzioni con la prontezza
ansiosa di un cane in attesa dell’osso.
Mi piegai in avanti per togliermi le
scarpe.
«No» mi fermò lei. «Lo farà lui.»
Sempre in ginocchio, Marcus si
diresse verso il bagno annesso alla
stanza, dove evidentemente c’erano un
catino e un asciugamano. Sospettai che
avesse già fatto una cosa del genere.
Tornò, tenendo con cautela il catino
in una mano e l’asciugamano
elegantemente drappeggiato su un
braccio, come un cameriere.
Mi prese un piede, tolse la scarpa e
iniziò le abluzioni, con la testa girata di
lato e lo sguardo fisso sul pavimento,
per non correre il minimo rischio di
dare una sbirciata sotto la mia gonna. Il
suo tocco era gentile e, a giudicare
dall’abilità con cui riusciva ad agire
alla cieca, anche esperto; forse nella sua
altra vita lavorava in un centro estetico.
Per
quanto
fosse
abbastanza
piacevole, tutta quella procedura mi
faceva sentire terribilmente a disagio.
Cercai di sembrare soddisfatta, non
volendo dare a Marcus l’impressione di
non apprezzare i suoi sforzi. Lauralynn
mi fissava con uno sguardo rapace,
camminando avanti e indietro per la
stanza, sinuosa come una pantera nella
sua tuta di latex, così lucida che mi ci
sarei potuta specchiare. Adesso teneva
in mano uno scudiscio che di tanto in
tanto agitava verso di noi con uno
svolazzo: una minaccia o una promessa.
Marcus finì di lavarmi i piedi e io
tirai un sospiro di sollievo.
«Grazie» dissi cortese all’uomo
inginocchiato davanti a me.
«Non
ringraziarlo»
intervenne
Lauralynn. Mise lo scudiscio sotto il
mento dell’uomo e gli fece sollevare la
testa. «Alzati.»
Lui obbedì.
«Togliti i vestiti.»
Lui si sfilò la camicia e i jeans
docilmente. Era un bell’uomo, niente da
dire. Tutto al posto giusto. Aveva
fattezze regolari, era snello, ma non so
perché non lo trovavo minimamente
attraente.
Mentre Lauralynn mi toglieva il fiato
e mi faceva battere forte il cuore,
Marcus mi suscitava sentimenti che
oscillavano tra l’ambivalenza e la
repulsione.
Aveva
un’aria
così
vulnerabile, mentre se ne stava lì senza
vestiti per ordine di lei, più nudo del
nudo, come un leone tosato dal
cacciatore. Era questo che la gente
vedeva quando mi guardava mentre mi
facevo dominare? mi chiesi. Forse sì.
Forse
molto
dipendeva
dalle
inclinazioni particolari dello spettatore.
Evidentemente, il mio temperamento
sessuale non includeva l’attrazione per
gli uomini sottomessi. Il che, considerata
la storia delle mie relazioni, non
avrebbe
dovuto
sorprendermi.
Immaginavo che anche gli altri avessero
le loro manie e i loro stimoli.
«Sali sul letto» sbraitò Lauralynn a
Marcus, girandogli intorno come un
gatto con la preda.
Lui si affrettò a obbedire.
Lei si protese per mettergli una benda
sugli occhi e poi si assicurò che fosse
ben stretta con una lieve carezza, come
si farebbe con un animale domestico che
sta per essere punito.
«Adesso te ne starai qui buono e
aspetterai che torniamo.»
Mi fece cenno di seguirla in bagno.
Chiuse la porta, si accucciò, aprì
l’armadietto sotto il lavandino e tirò
fuori due grossi dildi neri da sacchetti di
plastica con la zip, ognuno attaccato a
un’imbragatura. Strap-on. Un articolo
che avevo visto nei sex shop e nei film
porno, ma mai dal vero. Naturalmente
avevo assistito a rapporti tra ragazze ai
festini dove ero stata, ma la
penetrazione, adesso che ci pensavo, era
sempre
stata
eterosessuale.
Vergognandomi un po’, mi sarebbe
piaciuto vedere due donne o due uomini
impegnati in un rapporto del genere.
Lauralynn mi porse uno dei due strapon.
«Mettitelo» disse.
«Oddio, non posso scoparlo!»
«Ti stupirai di quello che puoi fare. E
a lui piace. Stai per fargli un favore,
credimi.»
Mi lanciò un’altra occhiata e la sua
espressione si ammorbidì.
«E va bene» disse, «ti lascerò
scegliere. Che cosa preferisci: davanti o
dietro?»
«Davanti, per favore» risposi, sicura
che avrei preferito non farlo e basta, ma
prendendo comunque l’imbragatura che
mi porgeva. Era decisamente pesante e
sembrava scomoda. Sarebbe stato un
compito
impegnativo.
«Devo
spogliarmi?»
«No. Non gli è permesso vedere una
donna nuda. Tieni addosso i vestiti, nel
caso in cui la benda si sposti.»
Che senso aveva una cosa del
genere? mi chiesi. Supposi che il fatto di
non poterla mai vedere nuda,
vulnerabile, facesse sembrare Lauralynn
ancora più irraggiungibile ai suoi
sottomessi.
Dopo esserci messe l’imbragatura
tornammo in camera da letto, dove
Marcus ci aspettava carponi, offrendosi
pazientemente al nostro uso. Deglutii.
Non ero sicura che ce l’avrei fatta, ma,
arrivata a quel punto, non volevo far
fare una figuraccia a Lauralynn
tirandomi indietro proprio adesso.
Lei aveva un aspetto magnifico, con
lo strap-on. Lo portava con la
disinvoltura di chi ha davvero l’uccello.
In un certo senso, immagino che fosse
proprio così. All’improvviso avrei
voluto essere al posto di Marcus. Avrei
voluto stare carponi, prostrata davanti a
lei, sentendo il suo grosso cazzo nero
entrarmi dentro con prepotenza. Sarebbe
rimasto sempre duro, pensai con una
fitta di invidia e poi di rabbia. Marcus
aveva preso il mio posto, e la cosa non
mi piaceva.
Non riuscii a vedere la mia immagine
riflessa in uno specchio, ma mi sentivo
goffa e indecente, stupida perfino, con
l’imbragatura sopra i vestiti. Era troppo
ingombrante e mi stava larga in vita, per
cui sobbalzava in modo assurdo a ogni
passo.
Lauralynn era già dietro di lui. Lo
aveva fatto spostare in modo da avere il
suo culo davanti a sé. La osservai
infilarsi un guanto da chirurgo e
cospargere l’indice e il medio di
lubrificante. Al rumore del guanto di
lattice che aderiva con uno schiocco alla
mano di lei, Marcus gemette pregustando
quello che sarebbe accaduto e inarcò la
schiena offrendosi come una cagna in
calore e ansioso di essere montato.
Lei gli infilò nell’ano prima un dito e
poi due, con evidente piacere.
«Come si dice, schiavo ingrato?»
urlò.
«Oh, grazie, padrona, grazie!»
Marcus iniziò a muoversi avanti e
indietro intorno alle dita di Lauralynn,
sbattendo con forza i testicoli contro il
palmo aperto della sua mano.
Lei mi fece cenno di salire sul letto
davanti a Marcus.
«Apri la bocca e succhia il cazzo di
Miss Summer, schiavo.»
Io mi protesi leggermente, in modo
che lui potesse arrivarci, e lo guardai
mentre cominciava a leccare avidamente
la punta del mio dildo. Iniziai a muovere
in avanti il bacino.
«Sei pronto per il mio cazzo,
adesso?» disse Lauralynn, tirando fuori
le dita dal suo ano e togliendosi con
cura il guanto. Notai che aveva steso un
piccolo asciugamano sul letto, proprio
sotto il pene di Marcus, che adesso era
completamente eretto. Ecco come faceva
a non sporcare le lenzuola.
Lui emise un gemito – un verso
gutturale misto di dolore e piacere – nel
momento in cui lei lo penetrò,
trafiggendolo con il suo dildo e
muovendosi avanti e indietro come uno
stantuffo.
Lauralynn mi guardò, sostenendo il
mio sguardo.
«Fottilo» disse.
Io ero eccitata e furiosa al tempo
stesso. Avrei voluto che Lauralynn
scopasse me, non quest’uomo ridicolo e
lamentoso che stava sul suo letto. Avrei
dovuto esserci io a gambe larghe davanti
a lei, non lui.
Lo afferrai per la benda e lo tirai
verso di me, soffocandolo con la punta
del mio cazzo.
“Ecco cosa si prova!” avrei voluto
urlare. “Ti piace, eh, sfigato che non sei
altro?”
Sentii che era scosso dai conati e
allentai la presa, ma lui continuò a
succhiarmi, prendendo il dildo più in
fondo che poteva.
Lauralynn si allungò sopra di lui e mi
afferrò per le spalle, sbattendoglielo nel
culo con un’ultima, tremenda spinta
finale.
Lui staccò la bocca dal mio cazzo e
venne con un urlo, spruzzando sperma
sull’asciugamano e mancandomi la
gonna di un soffio. Lauralynn estrasse
delicatamente il dildo dalla stretta dello
sfintere di Marcus e guardò il suo
sottomesso crollare sul letto come un
sacco. Si chinò e gli tolse la benda, poi
gli arruffò i capelli con un gesto
affettuoso.
«Bravo ragazzo» disse. «Ti è
piaciuto?»
«Oh, sì, padrona.»
«Padrone» ribatté lei, enfatizzando il
plurale.
Io mi accigliai, poi la seguii in bagno
lasciando che Marcus si riprendesse.
«Allora, Summer Zahova» mi disse
Lauralynn con un sorrisetto compiaciuto
mentre si slacciava l’imbragatura,
«dopotutto non sei così sottomessa, eh?»
Due ore dopo ero a casa mia,
rannicchiata sul letto a fissare l’assai
poco panoramico muro di mattoni
dell’edificio adiacente, come se avessi
potuto ricavarne un’illuminazione.
La reclutatrice neozelandese di cui
Lauralynn mi aveva parlato mi aveva
lasciato un messaggio sulla segreteria
telefonica per organizzare un’audizione
in vista dell’ingaggio a New York. In
realtà io non le avevo mandato la mia
candidatura, ma Lauralynn doveva
averle fatto avere comunque i miei dati
subito dopo che me n’ero andata.
Desideravo andare a New York da
sempre e sognavo un’occasione come
questa da anni, ma proprio adesso
cominciavo ad ambientarmi a Londra, a
crearmi una vita che finalmente mi si
adattava, anche se ancora in modo
confuso: quella con Dominik, e ora con
Lauralynn.
In questo momento, comunque, non
sapevo più chi ero, o chi volevo essere.
L’unica cosa di cui ero sicura era il mio
violino, il mio meraviglioso Bailly, ma
anche quello in fondo non sembrava del
tutto mio. Non sarei mai riuscita a
prenderlo in mano senza pensare a
Dominik.
Mi sentivo tremendamente in colpa
per la mia avventura con Lauralynn.
L’unica cosa che Dominik mi aveva
chiesto era di essere onesta con lui e io
non lo ero stata, o perlomeno avevo
consapevolmente pianificato di non
esserlo. Come avrei potuto raccontargli
dell’esperienza con lo schiavo di
Lauralynn e lo strap-on? Era un tale
abisso rispetto a tutto quello che lui
sapeva di me. Avrebbe pensato di non
conoscermi affatto.
Il mio turno alla caffetteria sarebbe
cominciato di lì a due ore e non potevo
permettermi di mostrarmi distratta.
Sapevo di non essere stata del mio
solito umore allegro e brillante nelle
settimane precedenti, presa com’ero da
tutti gli avvenimenti accaduti nella mia
vita privata. L’ultima volta che avevo
lavorato era stato il giorno dopo
l’esibizione a casa di Dominik e la cosa
mi aveva lasciata così scossa che avevo
rotto due bicchieri ed evidentemente
avevo dato a qualcuno il resto sbagliato,
visto che alla chiusura mancavano venti
sterline e quel giorno la cassa era stata
perlopiù sotto la mia responsabilità.
Per tirarmi su di morale, indossai tuta
e scarpe da ginnastica e andai a fare
jogging. Corsi da casa mia al Tower
Bridge e poi lungo il Tamigi, quindi
attraversai il Millennium Bridge e
completai il circuito dall’altra parte.
Convinta mi aiutasse nella mia
decisione, ascoltavo con gli auricolari
musica americana, l’ultimo album dei
Black Keys. Era uno dei gruppi preferiti
di Chris. Lui e io ci eravamo conosciuti
proprio al loro concerto all’Hackney
Empire, una settimana dopo il mio
arrivo a Londra.
Quando tornai telefonai a Chris, solo
per sentire la sua voce, ma lui non
rispose. Non lo vedevo dalla festa di
Charlotte e più mi immergevo nel mondo
del fetish, più mi preoccupavo che non
sarei riuscita a colmare la distanza, a far
combaciare di nuovo le due parti della
mia vita e a mantener viva la nostra
amicizia senza dovergli tenere nascosta
la parte di me che credevo avrebbe
disapprovato.
Correre mi aveva aiutata a calmarmi
un po’, ma quando arrivai al lavoro ero
ancora uno straccio. Tentai di non
pensare ad altro che al monotono ronzio
della macchina per il caffè, al rumore
metallico di quando inserivo il filtro e
poi al morbido gorgoglio del latte
scaldato con il vapore.
La mia particolare capacità di
autoipnosi
prese rapidamente il
sopravvento, per cui, quando entrò un
gruppo di uomini che si sedettero a un
tavolo senza aspettare di essere fatti
accomodare, io ero completamente
assorbita da una lunga serie di
ordinazioni di cappuccini e caffellatte.
Quando finalmente mi accorsi di loro,
immaginai che fossero funzionari di
banca o responsabili vendite, a
giudicare dagli abiti e dall’aria
arrogante.
«Summer, puoi darci una mano, per
favore?»
Mi riscossi subito dalle mie
fantasticherie. Uno degli altri camerieri
era ancora in pausa e il mio capo, che
era occupato a fare il conto a un tavolo,
mi indicò i nuovi arrivati con un cenno
della testa. Io smisi di fare i caffè per un
attimo e portai loro il menu. Un paio di
loro
erano
già
alticci,
notai:
sghignazzavano ad alta voce e avevano
il volto arrossato. Forse una bottiglia di
champagne in ufficio, per festeggiare la
conclusione di un affare importante.
Quello che sembrava il leader del
gruppetto mi afferrò per il polso mentre
stavo per allontanarmi dal tavolo.
«Ehi, tesoro, è il compleanno del
nostro amico, qui» disse, indicando un
uomo con l’aria sobria e imbarazzata
seduto dall’altra parte del tavolo.
«Forse potresti portarci qualcosa di
speciale, se capisci cosa intendo.»
Mi liberai discretamente dalla stretta
e gli feci il sorriso più dolce del mondo.
«Ma certo» dissi. «Un cameriere
arriverà subito e vi dirà tutto sulle
nostre specialità.»
Feci per allontanarmi. Senza dubbio
le ordinazioni di caffè si stavano
accumulando e i clienti di solito erano
piuttosto impazienti di avere la loro
dose di caffeina, soprattutto se era da
portar via.
«Oh, no» ribatté lui. «Perché non
rimani e ci parli tu delle vostre
specialità, tesoro?»
Il festeggiato si accorse del mio
imbarazzo e intervenne.
«Non fa servizio al nostro tavolo»
sibilò all’amico ubriaco. «Lasciala in
pace.»
Il suono della sua voce evocò
l’ombra di un ricordo nella mia mente.
Tutt’a un tratto capii. Il festeggiato
era il tizio anonimo che mi aveva
frustata al club fetish di East London
dov’ero andata da sola, dopo la prima
volta che avevo suonato nuda per
Dominik. Avrei riconosciuto la sua voce
ovunque: mi si era impressa a fuoco
nella memoria insieme a tutta
quell’esperienza, che all’epoca era
ancora nuova per me.
Un lampo attraversò il volto
dell’uomo nello stesso momento in cui,
immaginai, attraversava il mio. Mi
aveva riconosciuta. Ci scambiammo
un’occhiata un po’ troppo lunga, facendo
così capire al suo amico che non
eravamo completi estranei.
«Aspetta un attimo: voi due vi
conoscete?»
Lo disse a voce molto alta e gli altri
clienti si zittirono, pur evitando
educatamente di non fissarci.
Il festeggiato arrossì violentemente e
l’altro trasalì, forse perché aveva
appena ricevuto un calcio sotto il tavolo.
«Rob, sta’ zitto.»
Ma Rob se ne guardò bene, infuriato
per il mio evidente disprezzo.
«Ah, ci sono!» urlò, sbattendo una
mano sul tavolo con tanta foga da far
volare in aria una forchetta. «Sei la tizia
del club di sciroccati dove andiamo! Bel
culo, piccola, niente da dire.»
Allungò la mano per darmi una
palpata, ma io mi ritrassi prima che
potesse toccarmi, urtandogli il braccio.
Il grosso gemello della sua camicia si
impigliò nella tovaglia del tavolo
accanto, a cui lui diede uno strattone,
facendola scivolare a terra insieme a
una bottiglia di vino che si rovesciò
sulle gambe di una donna seduta a quel
tavolo.
Era vino rosso e, a giudicare
dall’eleganza di chi l’aveva ordinato,
costoso. La donna scattò in piedi e io
colsi al volo l’occasione di dileguarmi,
con la scusa di accompagnarla in bagno
a smacchiarsi i vestiti.
Rimasi nascosta più a lungo che potei
e la donna fu gentilissima.
«Non è stata colpa sua» mi disse,
sfregando la camicetta con aria
abbacchiata. «Conosco quel tizio per
motivi di lavoro. È un coglione.»
“Che finezza” pensai, lanciandole
un’occhiata.
Il mio capo era intervenuto al tavolo
proprio mentre io mi rifugiavo in bagno
e sapevo che avrebbe assunto il
controllo della situazione, anche se
probabilmente la strategia sarebbe stata
della serie “il cliente ha sempre
ragione”. Sicuramente non avrebbe fatto
pagare il vino alla donna che si era
macchiata
i
vestiti
e
molto
probabilmente nemmeno il pasto, per un
totale di circa duecento sterline.
Non ero certa di riuscire a sfangarla,
questa volta.
Decisi che avrei affrontato la
situazione, una volta che i clienti se ne
fossero
andati.
Rob
aveva
un’espressione compiaciuta. Il mio
capo, invece, tratteneva a stento l’ira
sotto una maschera di gentilezza.
«Summer» mi chiamò quando le
acque si furono un po’ calmate, «vieni
qui.» Indicò con un cenno della testa il
suo ufficio. «Senti» disse quando fummo
dentro, «quello che fai nella tua vita
privata sono affari tuoi, e io so che quel
tizio è uno stronzo…» feci per
intervenire, ma lui alzò una mano per
fermarmi «… ma quando la tua vita
privata diventa pubblica, nel mio locale,
allora sono anche affari miei. Non posso
più tenerti a lavorare qui, Summer.»
«Ma non è stata colpa mia! Ha
cercato di toccarmi! Che cosa ti
aspettavi che facessi?»
«Be’, forse se tu fossi stata un po’
più…
discreta…
non
sarebbe
successo.»
«Che cosa intendi con “discreta”?»
«Come ho già detto, Summer, quello
che fai fuori dal lavoro sono affari tuoi,
non miei, ma stai attenta, va bene?
Finirai per cacciarti nei guai.»
«Perché, perdere il lavoro non è già
un guaio?»
«Mi dispiace, davvero.»
Presi la borsa e me ne andai.
Accidenti a quel fottuto bastardo e alle
sue mani maldestre! Adesso ero fregata.
Avevo già chiesto una proroga per
l’affitto e non volevo dare al padrone di
casa una buona ragione per sbattermi
fuori, visto anche il prezzo di favore che
mi veniva concesso. Un altro ritardo nel
pagamento avrebbe potuto essere la
goccia che faceva traboccare il vaso.
Merda.
Non potevo chiamare Chris, perché
avrei dovuto spiegargli quello che era
successo e non volevo offrirgli il destro
per disapprovare il mio stile di vita.
Avrei potuto telefonare ai miei genitori
in Nuova Zelanda, ma temevo che si
preoccupassero; per di più, avevo detto
loro che me la cavavo benissimo, in
modo che non mi assillassero per farmi
tornare a casa. Charlotte avrebbe potuto
aiutarmi, pensai, ma ero troppo
orgogliosa per chiederle del denaro e
inoltre avevo la sensazione che avrebbe
potuto usare i miei problemi economici
contro di me. C’era il lavoro a New
York, con uno stipendio garantito, ma
prima dovevo passare l’audizione e
sapevo che la competizione sarebbe
stata feroce.
Rimaneva solo Dominik.
Non intendevo chiedergli un prestito
– mai e poi mai – ma avevo un disperato
bisogno di vederlo. Il solo fatto di
sentire la sua voce avrebbe alleviato i
miei problemi, mi avrebbe aiutato a
trovare una via d’uscita. Avevo i tendini
e i muscoli tesi allo spasimo, la mente
sopraffatta dall’ansia. Solo Dominik
sarebbe stato in grado di allentare la
tensione, assumendo il controllo del mio
corpo e della mia mente e scopandomi
con quell’assurda combinazione di
rabbia e dolcezza che mi faceva sentire
così viva e in pace con me stessa.
Non ero sicura, però, di riuscire ad
affrontarlo, a così poca distanza da ciò
che era successo con Lauralynn. Avrei
dovuto parlargli, confessargli tutto. La
prospettiva mi dava la nausea, ma era
l’unica soluzione, altrimenti avrei
continuato a rimuginarci sopra, e il
senso di colpa avrebbe avuto inevitabili
ripercussioni anche sul rapporto con il
mio violino e con la musica, cosa che
non potevo permettere. Se non fossi più
riuscita a suonare, avrei semplicemente
cessato di esistere.
Quando arrivai a casa, mi feci una
doccia e scelsi un abbigliamento adatto
a un campus universitario, ma che al
tempo stesso facesse capire a Dominik
che ero sua. Indossai, quindi, i jeans e la
maglietta che portavo l’ultima volta che
ci eravamo visti e un paio di ballerine, e
mi misi il rossetto più chiaro, quello da
giorno.
Cercai su Google le università della
zona nord di Londra e riuscii a
identificare il corso di letteratura tenuto
da Dominik. Immaginai che in facoltà ci
fosse una bacheca con affisso l’orario
delle lezioni, come al conservatorio. Lo
avrei trovato.
Mi ci volle un po’ per individuare
l’aula, ma alla fine ci arrivai, proprio
mentre iniziava la lezione. Era un corso
molto frequentato, perlopiù da ragazze,
alcune delle quali davvero attraenti e
con lo sguardo acceso di desiderio
puntato su Dominik, il quale si stava
schiarendo la voce prima di cominciare
a parlare. Avvertii un’acuta fitta di
gelosia e mi sedetti proprio davanti, in
modo da entrare nel suo campo visivo.
Avrei voluto alzarmi in piedi e urlare:
“È mio!”, ma non lo feci, sapendo che
lui non mi apparteneva più di quanto non
gli appartenessi io.
Gli ci volle qualche minuto per
accorgersi di me, distratto com’era dalla
lezione. Quando mi vide, un lampo gli
attraversò lo sguardo – rabbia?
desiderio? – ma poi i suoi lineamenti si
distesero e continuò a parlare come se
non esistessi. Non avevo letto il libro di
cui stava trattando, ma mi lasciai
trascinare dal ritmo delle sue parole,
dalla musicalità del suo eloquio. Era
come un direttore d’orchestra che
cominciava in sordina, aumentava a
poco a poco il ritmo e finiva in calando.
Non c’era da stupirsi che le sue lezioni
fossero così frequentate. Di tanto in
tanto mi lanciava un’occhiata e io
rimanevo immobile, seduta in silenzio,
ma speravo che avrebbe ricordato
l’ultima volta in cui mi aveva vista
vestita così e lui aveva usato il mio
rossetto più scuro per dipingermi i
capezzoli e le labbra della fica,
marchiandomi, facendomi sua.
La lezione finì e gli studenti
iniziarono a uscire. Trattenni il fiato.
Non avrei potuto far finta di niente, se
lui avesse deciso semplicemente di
ignorarmi.
«Summer» disse a bassa voce, in
mezzo al rumore di borse e libri.
Mi alzai e scesi i gradini verso il
centro dell’aula-anfiteatro, dove lui
stava riponendo gli appunti della sua
lezione.
Sollevò lo sguardo e mi lanciò
un’occhiata ostile. «Perché sei venuta?»
«Avevo bisogno di vederti.»
La sua espressione si ammorbidì un
po’, forse perché aveva notato il mio
turbamento. «Per quale ragione?»
Mi sedetti sul primo gradino
dell’anfiteatro e gli raccontai tutto:
Lauralynn, lo schiavo, il dildo che gli
avevo ficcato selvaggiamente in bocca,
godendone, e il fatto che, a dispetto di
tutto, quello che volevo era che lui,
Dominik, mi possedesse. Volevo essere
sua.
Gli dissi ogni cosa, tranne la
prospettiva di lavoro a New York e il
dettaglio che ero rimasta disoccupata.
Persino lì, seduta al centro del suo
mondo, ai suoi piedi, ero ancora troppo
orgogliosa per farlo.
«Non saresti dovuta venire, Summer»
disse.
Prese la borsa e uscì.
Il suo messaggio arrivò più tardi,
quand’ero già rientrata a casa. Ero
sdraiata sul letto abbracciata alla
custodia del violino, sperando contro
ogni speranza che, qualunque cosa fosse
successa tra me e lui, Dominik mi
avrebbe lasciato tenere il Bailly. Mi
vergognavo moltissimo di riuscire ad
accettare qualunque cosa da quell’uomo.
Il cellulare segnalò l’arrivo di un
SMS. Delle scuse.
“Mi dispiace. Sono stato colto di
sorpresa. Perdonami.”
“Okay” risposi.
“Ti esibiresti ancora per me?”
“Sì.”
I dettagli riguardanti la data, l’ora e
l’indirizzo arrivarono in un messaggio
successivo. Il giorno dopo, in un altro
posto, non a casa sua.
Questa volta Dominik chiedeva a me
di portare il pubblico. Di selezionarlo.
Una prova della mia capacità di
recupero?
Immaginai che suonare di nuovo per
lui fosse un modo per replicare il
modello dei nostri ultimi appuntamenti
riusciti, se si potevano definire così.
Stava cercando di riportare indietro il
tempo, rimettendoci sulla strada che
avevamo intrapreso.
Pensai a chi invitare. Non Lauralynn.
Avrebbe significato aggiungere la beffa
al danno.
In realtà rimaneva solo Charlotte, per
quanto esitassi a coinvolgerla in
quest’occasione delicata. Aveva la
tendenza a impadronirsi delle situazioni
e non era abbastanza sensibile da
accorgersi se la relazione tra me e
Dominik era tesa, ma era la mia unica
possibilità. Avevo conosciuto altre
persone negli ambienti fetish, ma in quel
genere di ritrovi non si andava mai oltre
il breve spazio del piacere per stringere
un rapporto più significativo che potesse
chiamarsi amicizia.
«Oh, fantastico!» esclamò Charlotte,
quando la invitai. «Posso portare un
amico?»
«Credo di sì» risposi. Dominik aveva
parlato di pubblico e sarebbe stato
imbarazzante se mi fossi limitata a
invitare Charlotte. Se fosse venuta sola,
avrebbe sicuramente interferito.
Quello che desideravo davvero era
scopare Dominik, ma volevo anche
dimostrargli
che
potevamo
far
funzionare il nostro strano rapporto. Se
lui aveva chiesto un pubblico, l’avrebbe
avuto. Indossai l’abito lungo di velluto
nero, quello che mi ero messa per il
concerto nel parco, e presi il Bailly. Lui
non mi aveva detto esplicitamente di
portarlo, pensai aggrottando la fronte,
ma mi aveva chiesto di esibirmi per lui,
perciò ero sicura di dover suonare. E
poi mi sentivo incompleta senza il
violino.
L’indirizzo era nella zona nord di
Londra, un appartamento anonimo: una
grande zona giorno con una cucina e un
bagno, tutto piuttosto sciccoso, anche se
sobriamente arredato con una coppia di
divani di pelle, alcuni tappeti e un
tavolino di vetro al centro. Nell’angolo
più lontano c’era un enorme letto
matrimoniale.
C’era un sacco di gente, dato che
Charlotte si era presentata con quindici
persone, tra cui il bellissimo gigolò,
Jasper. Veniva pagato a ore?
E Chris.
Oddio, ma cosa le era venuto in
mente?
Dominik, però, sembrava piuttosto
contento, notai con sollievo. Mi venne
incontro e mi baciò con calore sulle
labbra, dandomi una stretta affettuosa
alle spalle.
«Summer» disse dolcemente. Il
sollievo sul suo volto era pari al mio.
Forse aveva pensato che non mi sarei
presentata. Chris e Charlotte parlavano
fitto fitto dall’altra parte della stanza,
insieme a Jasper. Erano impegnati in una
specie di riunione privata e non mi
avevano vista. Bene. Così avrei potuto
parlare con Dominik.
Ma, prima che riuscissi ad aprire
bocca per proporre di ritirarci in un
angolo tranquillo anche solo per qualche
minuto, soltanto noi due, Charlotte ci
piombò addosso e mi gettò le braccia al
collo.
«Summer!» urlò. «Adesso la festa
può cominciare.»
Anche Chris mi abbracciò e mi diede
un bacio affettuoso sulla guancia. Sul
volto di Dominik passò un lampo di
frustrazione,
subito
sostituito
dall’abituale compostezza. Scomparve
in cucina, seguito da Charlotte che aveva
un’espressione più maliziosa del solito.
Che cosa stava tramando? Mi guardai
intorno nella stanza piena di coppie, la
maggior parte poco vestite ma nessuna
ancora in attività, nonostante l’atmosfera
erotica che si respirava. Non sembrava
affatto lo stile di Dominik. Mi chiesi
quanto di suo ci fosse in quella
situazione e quanto di Charlotte.
Sospettavo che la responsabilità fosse
soprattutto della mia amica.
Non importava.
Presto
avrei
cominciato a suonare e mi sarei
dimenticata di tutti.
Chris sembrava contento di vedermi
e cercava di coinvolgermi in una
conversazione, ma l’unica cosa a cui
riuscivo a pensare erano Charlotte e
Dominik in cucina. Parevano impegnati
in uno strano dialogo, ma di cosa
potevano parlare se non di me? Dominik
aveva un’espressione indecifrabile, ma
dalla piega dura della sua bocca avrei
detto che fosse contrariato per qualcosa,
e Charlotte non la finiva più di
blaterare, qualunque fosse l’argomento.
«Pianeta
Terra
a
Summer…
Vogliamo riscaldarci un po’?» Chris mi
stava scuotendo una spalla.
«Ah, certo» risposi, prendendo il
violino e dirigendomi dove lui aveva
lasciato la viola. Pensavo che quello
sarebbe stato il nostro palcoscenico
improvvisato.
A quel punto sentii Dominik
chiamarmi.
«Summer, vieni qui.»
Appoggiai il mio strumento vicino a
quello di Chris e mi avvicinai a
Dominik.
«Stasera non ti esibirai. Non con il
violino, almeno.»
Si protese verso di me e mi baciò
sulla bocca. Colsi lo sguardo di
Charlotte con la coda dell’occhio,
proprio mentre Dominik si scostava.
Aveva l’aria compiaciuta. Di qualunque
cosa avessero discusso, aveva vinto lei.
Lui era contrariato e nervoso. Percepivo
il calore del suo corpo. Non mi sarei
sorpresa di vederlo sputar fumo dalle
narici.
Da qualche parte nella stanza
qualcuno fece scattare un accendino.
Io trasalii.
Charlotte aveva tirato fuori un
sacchetto che conteneva una corda e vari
accessori. Mi ricordai che mi aveva
raccontato che stava leggendo qualcosa
in proposito. Mi augurai che si fosse
documentata in modo serio e non
volesse impiccare chiunque glielo
lasciasse fare.
Spostò il tavolino di vetro e ci salì
sopra, offrendo a tutti la visione delle
sue gambe lunghe e del suo culo, fasciati
in un abito bianco lungo che sotto la luce
risultava completamente trasparente.
Non indossava biancheria intima – del
resto non la indossavo neppure io – e
dovevo ammettere che aveva delle
gambe strepitose.
Dominik mi strinse una mano con fare
rassicurante. Ma io non ero affatto
rassicurata. Nel frattempo Charlotte era
scesa dal tavolino e lo stava togliendo
di mezzo. Aveva attaccato un lungo
pezzo di corda a un anello metallico
fissato al soffitto.
«Farai questo per me?» disse
Dominik.
Non sapevo ancora che cosa voleva
che facessi, ma, di qualunque cosa si
trattasse, l’avrei fatta. Non mi fidavo di
Charlotte, quando si comportava come
stasera. Invece mi fidavo di Dominik,
anche se agiva in modo strano.
Charlotte mi prese per le spalle e mi
guidò sotto la corda.
«Solleva le braccia e non
preoccuparti… ti piacerà.»
Immaginai
che
stesse
per
appendermi.
«Prima toglile il vestito» disse una
voce proveniente da uno dei divani.
Charlotte obbedì e, prima che io
alzassi le braccia, mi abbassò le
spalline e la lampo sulla schiena. Il
vestito cadde sul pavimento. Ancora una
volta mi ritrovavo nuda davanti a un
pubblico, una sensazione cui ormai ero
abituata.
Per fortuna, non c’era traccia di Chris
tra gli spettatori. Forse si era stancato di
aspettare oppure era rimasto scioccato
dagli invitati, che erano sempre più
arrapati, e se n’era andato.
Alzai le braccia, come Charlotte mi
aveva detto di fare, e sentii la corda
sfregarmi la pelle, mentre me
l’avvolgeva intorno a ciascun polso a
mo’ di manette e poi vi infilava dentro
un dito per accertarsi che non fosse
troppo stretta. Forse aveva un cuore,
dopotutto.
«È okay?» mi chiese. «Non stringe
troppo?»
«Va bene» risposi. I miei piedi erano
ancora saldamente poggiati a terra e,
anche se non potevo muovermi, le
braccia erano leggermente piegate in
modo che la posizione non diventasse
scomoda troppo rapidamente.
«È tutta tua» disse Charlotte a
Dominik in tono cospiratorio.
Sentii l’acqua scorrere nella stanza
accanto, poi il rumore di una porta che
si apriva e si chiudeva.
Chris.
Era solo andato in bagno.
Merda.
«Ehi» disse a Dominik, «che cazzo
stai facendo?» Aveva un tono rabbioso.
Non aveva fatto a me quella
domanda. L’aveva fatta a Dominik. Non
riusciva a capire che non mi stavo
opponendo a quella situazione, che era
una mia scelta, che stavo agendo di mia
spontanea volontà, non solo in ossequio
al capriccio di qualunque uomo con cui
mi capitava di stare?
A un tratto mi infuriai con lui perché
non mi capiva, perché voleva che
corrispondessi alle sue aspettative.
«Vaffanculo, Chris! Sto bene! Stiamo
tutti bene. Tu non capisci e basta.»
«Summer, ma ti vedi? Sei diventata
un maledetto fenomeno da baraccone!
Siete fortunati che vi lascio tutti qui ai
vostri giochetti malati e non chiamo la
polizia.»
Prese la viola e la giacca e uscì come
una furia, sbattendo la porta.
«Wow» disse la voce dal divano che
aveva parlato prima. «Ecco perché non
bisognerebbe invitare i fan del sesso
“tradizionale” alle feste fetish.»
Qualcuno rise e la tensione si allentò.
Vaffanculo. Il corpo era mio e io ci
facevo quello che volevo, o che
Dominik voleva che ci facessi.
Lui mi accarezzò i capelli, mi baciò
di nuovo, con tenerezza, e mi toccò il
seno.
«Sicura che è tutto okay?» disse.
«Sì, è più che okay.»
Volevo solo che iniziasse, che mi
scopasse e poi mi slegasse, liberandomi
le braccia doloranti e lasciandomi
suonare il Bailly.
Poi Dominik tirò fuori un rasoio.
10
Un uomo e la sua tenebra
La temperatura stava salendo.
Nella stanza piena di fumo. Nelle
loro menti.
Chris se n’era andato, ma le sue
parole continuavano a risuonare nella
testa di Summer. Una parte di lei sentiva
il bruciore delle sue accuse, ma un’altra,
più maliziosa e irresponsabile, era
furiosa con lui per aver avuto la faccia
tosta di criticarla e di credere di capire
la natura contraddittoria dei suoi
impulsi.
Summer sospirò, spostando il peso
da un piede all’altro, e osservò Dominik
che, al capo opposto della stanza, era
intento a parlare con Charlotte, facendo
vagare le mani sul suo corpo ormai
quasi svestito. Accanto a loro c’era
Jasper, completamente nudo e con
un’erezione spettacolare, che si toccava
pigramente con una mano e con l’altra
giocava tra le cosce di Charlotte. Le
carezze dei due uomini tra i quali era
bloccata non sembravano turbare
l’amica, che pareva avere il pieno
controllo di quella bizzarra situazione.
Dominik, tutto vestito di nero, si era
tolto solo la giacca – la sua unica
concessione alle circostanze – e il suo
maglione di cachemire con lo scollo
rotondo sfregava contro il seno di
Charlotte che gli si stringeva addosso.
Nella penombra Summer riusciva a
vedere, e a sentire, le altre coppie
sparpagliate per la stanza, sul
pavimento, sul divano e persino sul
grande tavolo rettangolare. Erano tutti
impegnati in qualche genere di attività
sessuale: sussurri, gemiti, amplessi. Le
dita di qualcuno che le passava accanto
le sfiorarono i capelli, ma lei non si girò
e chiunque fosse il proprietario di quella
mano non indugiò, proseguendo verso un
altro groviglio di membra. I suoi occhi
non si staccavano dal terzetto formato da
Dominik, Charlotte e Jasper. Di che
cosa stavano parlando? Di lei?
La sua mente correva frenetica.
Quella che avrebbe dovuto essere
un’ulteriore fase della partita che stava
volontariamente giocando con Dominik
le era sfuggita di mano.
Di tanto in tanto i membri del terzetto
cospiratore si giravano per lanciarle
un’occhiata
e
Summer
aveva
l’impressione che ridessero di lei come
di una marionetta dimenticata.
Fu sopraffatta dai ricordi: lei che
suonava per Dominik da sola sul palco
ad Hampstead, poi nuda con il quartetto
d’archi bendato, quindi nuda, ma sola,
nella cripta, quando lui alla fine l’aveva
scopata; c’era poi stata la volta, ancora
bruciante nella sua memoria, in cui lui
l’aveva bendata, l’aveva fatta esibire di
fronte a uno spettatore invisibile (adesso
era convinta che fosse uno solo, e il suo
istinto le diceva che si trattava di un
uomo) e infine l’aveva fottuta
frettolosamente davanti a quell’estraneo
di cui a tutt’oggi non sapeva nulla.
E adesso c’era questa festa.
Che cosa aveva sperato? Che cosa si
era aspettata? Una sorta di crudele
progressione nel rituale del loro strano
rapporto? Senza dubbio, mentre lui era
al congresso in Italia, aveva sentito la
sua mancanza. Le erano mancati la sua
tranquilla certezza, i suoi ordini pacati
ma perentori. Il suo corpo le aveva dato
conferma di ciò e lei aveva cercato una
compensazione avventurandosi da sola
sulla scena fetish.
Avrebbe voluto che quella fosse una
serata speciale, non solo una variante
delle precedenti, un perverso evento
teatrale. Summer rabbrividì, sentendo
ancora la lama affilata del rasoio che le
passava sul pube. Abbassando lo
sguardo, vide la superficie liscia dei
suoi genitali. Fremette, scioccata dalla
visione di quella nudità estrema. Si
sarebbe mai abituata a non provare
disagio per essere stata depilata davanti
a tutti, messa a nudo nel modo più
umiliante? Aveva nutrito la vaga
speranza che dopo averla esibita in quel
modo, Dominik le avrebbe liberato le
mani e le avrebbe permesso di suonare
per gli invitati, ma Charlotte si era in
qualche modo impadronita della serata e
lei era stata lasciata lì, non proprio
appesa, ma nuda e inutile, una mera
spettatrice del fluire delle ondate di
lussuria cui aveva involontariamente
dato vita, dello sfogarsi del desiderio
tra gli invitati. Nella sua testa una
vocina urlava: “Dominik, scopami,
prendimi, davanti a tutti, adesso,
subito”, ma le parole non riuscivano a
superare il muro inviolabile delle sue
labbra sigillate. Perché, nonostante tutto
quello che aveva fatto con lui, sentiva
che sarebbe stato umiliante esprimere
quel desiderio a voce alta. Nel suo
intimo sapeva che non doveva essere lei
a chiedere, a implorare, ma che l’ordine
doveva venire da Dominik.
Vide Charlotte piegare la testa e
baciare Dominik sulle labbra. Jasper si
avvicinò e iniziò a mordicchiarle il lobo
dell’orecchio. I gemiti di una coppia
invisibile che si dimenava sul tappeto
proprio dietro di lei riecheggiarono
nella stanza.
Udendo quei rumori soffocati,
Dominik si sciolse dall’abbraccio di
Charlotte e si avvicinò a Summer,
slegandola senza dire una parola. Lei
abbassò le braccia, grata che lui
l’avesse liberata prima che le venissero
i crampi. Poi Dominik la baciò sulla
fronte con immensa tenerezza, e
Charlotte li raggiunse.
«Eri bellissima, mia cara» le disse,
accarezzandole
una
guancia.
«Meravigliosa.»
Summer sperò che Dominik adesso si
sarebbe dedicato a lei, ma Charlotte,
tallonata da Jasper che esibiva ancora la
sua splendida erezione, prese per mano
Dominik come se volesse portarselo via.
Lì in piedi, nuda, mentre il sangue
riprendeva a circolarle nelle braccia,
Summer sentì una fitta di gelosia davanti
all’evidente riluttanza dell’amica a
lasciare Dominik. Non sapeva che, in un
senso bizzarro che lei non avrebbe
saputo spiegare, quell’uomo era suo? Di
Summer? Perché non si toglieva dai
piedi?
Alla fine, Dominik disse: «Credo di
aver bisogno di un altro drink. Qualcuno
vuole qualcosa da bere? Summer, un po’
d’acqua?». Lei annuì e lui si diresse
verso la cucina, scavalcando corpi e
facendo lo slalom tra le varie attività
carnali in corso.
Mentre lui si allontanava, Charlotte
le sussurrò nell’orecchio: «Mi piace il
tuo tipo, dolcezza. Me lo presti?».
Scioccata da quella richiesta,
Summer rimase in silenzio, ribollendo di
rabbia. In altre circostanze, in un bar o a
una festa normale, in qualunque altro
posto tranne che in quella stanza piena
di gente in calore che scopava e si
palpava selvaggiamente, eccitata dalla
sua esibizione forzata e dalla cerimonia
della rasatura, avrebbe obiettato a voce
alta, ma la natura perversa di
quell’atmosfera di eccessi glielo
impedì. Era forse la strana etichetta
delle orge?
Dentro di sé, però, era furiosa. Come
poteva, Charlotte? Non era sua amica?
Nel frattempo Dominik tornò con i
bicchieri.
Porse l’acqua a Summer che la bevve
d’un fiato, con le labbra riarse.
Charlotte, seguita da Jasper come dalla
sua ombra, mise un braccio intorno alla
vita di Dominik con fare possessivo.
«Divertente, vero?» disse.
Quelle parole fecero scattare in
Summer un momento di follia.
O di rancore.
Restituì il bicchiere a Dominik, si
girò per guardare Jasper in faccia e gli
prese in mano il cazzo con aria
spudorata.
«Sì, molto» disse. «Una cosa tra
amici, no?»
«Così intima» sottolineò Charlotte
con un sorriso divertito, notando il gesto
di Summer. Da qualche parte nella
stanza qualcuno raggiunse l’orgasmo con
un sommesso sospiro di resa.
Il cazzo di Jasper era caldo e
straordinariamente duro. Non ne aveva
mai tenuto in mano uno così duro, pensò.
Mentre lo stringeva, vide l’ombra di un
sorriso passare sul volto di Jasper e
avvertì un’ondata di calore e di
desiderio. Summer si rifiutò di guardare
Dominik per sondarne la reazione.
Si inginocchiò, prese in bocca quel
grosso membro vellutato e sentì che
cresceva ancora.
«Così, ragazza» sentì che Charlotte
diceva e percepì gli occhi di Dominik
inchiodati su di lei.
Summer si chiese fugacemente che
sapore avesse l’uccello di Dominik.
Non lo aveva ancora preso in bocca e si
domandò perché. Si concentrò di nuovo
su quello che stava facendo, usando la
lingua e le labbra per giocare con
Jasper,
succhiandolo,
leccandolo,
mordicchiandolo
delicatamente,
accordando il proprio ritmo a quello
delle pulsazioni che avvertiva nell’asta,
come il lontano tambureggiare di una
giungla esotica. Con la coda dell’occhio
notò la mano di Charlotte muoversi
verso la cintura di Dominik, senza
dubbio con l’intenzione di imitarla.
Avvertì un’acuta fitta di gelosia. Era
decisa a far godere Jasper. Ma anche il
piano migliore può andare in fumo con
facilità e proprio mentre sentiva un lieve
fremito percorrere il corpo atletico del
gigolò in un’onda che probabilmente
avrebbe terminato la corsa nella sua
bocca, lui si staccò dolcemente da lei,
lasciandole le labbra aperte in una O
interrogativa di muto disappunto, la fece
alzare in piedi e la portò sul vicino
divano ora libero. Mentre Dominik e
Charlotte stavano in piedi seminudi – lei
con il corsetto e le calze, lui con i
calzoni abbassati ma le mutande ancora
addosso – Jasper e Summer erano nudi, i
loro corpi immagini speculari di pallore
e desiderio. Summer si mise carponi,
esponendosi agli sguardi di tutti. Udì il
rumore di un preservativo che veniva
scartato e infilato con una mossa
esperta, poi Jasper allargò le gambe e si
mise dietro di lei, con il membro eretto
che danzava tentatore davanti alla sua
apertura.
Summer fece un respiro profondo,
girò la testa e intercettò lo sguardo
incupito di Dominik che fissava la
scena, poi sentì il grosso membro del
gigolò entrare dentro di lei con un unico
movimento, allargandola e riempiendola
con la sua virilità.
Accidenti, se era grosso! Summer
espirò, come se tutta l’aria che aveva
nei polmoni fosse stata spinta fuori dalla
potenza e dalla decisione dell’affondo
di Jasper. Mentre lui iniziava a
muoversi, lei staccò la spina e lasciò
che il suo corpo fluttuasse in un mare di
nulla, abbandonandosi al momento,
rinunciando a ogni difesa, incurante,
pronta a qualunque cosa fosse successa,
volutamente inerme, un giocattolo
consenziente sulle onde di un desiderio
sfrenato.
Chiuse gli occhi. La carne era come
un superconduttore, i pensieri erano
nuvole evanescenti, le cellule grigie si
erano momentaneamente fermate, la
volontà aveva ceduto al potente fuoco
del desiderio.
In un remoto angolo della mente (o
dell’anima?) immaginò di trovarsi nel
corpo di Dominik, non per guardare
come, con ogni probabilità, Charlotte gli
stava facendo un pompino da manuale,
ma per vedere come i suoi occhi erano
ipnoticamente fissi su di lei che si
faceva scopare da Jasper. Oh, come
doveva guardare il membro del gigolò
che la penetrava in profondità, le
affondava dentro, le faceva comparire
un velo di sudore sul labbro superiore e
le riduceva il respiro a un ansito
spezzato. “Guarda, Dominik, guarda:
ecco come mi scopa un altro e mi scopa
bene, e tu vorresti essere al suo posto,
vero? Oh, com’è duro. Oh, come mi
possiede. Oh, come mi fa tremare,
fremere, sussultare. Mi scopa forte, e
poi ancora più forte. Senza mai fermarsi.
Come una macchina. Come un
guerriero.”
Le sfuggì un grido roco di piacere e
si rese conto che a eccitarla non erano
solo i movimenti regolari di Jasper
dentro di lei, ma era la consapevolezza
che Dominik la stava guardando.
E poi venne.
Gridando.
Dopo un attimo sentì che anche
Jasper godeva dentro di lei, percepì il
calore del suo sperma attraverso la
sottile barriera del preservativo e a un
tratto fu attraversata da un pensiero folle
– “Sono pazza? Sono malata?” – mentre
si chiedeva che sapore avrebbe avuto lo
sperma di Dominik se lei gli avesse
succhiato l’uccello fino a farlo venire. I
pensieri assurdi avevano il potere di
fare capolino nella mente nei momenti
più inopportuni.
Fece un respiro profondo quando
Jasper uscì da lei e si alzò, con il pene
adesso floscio, ma pur sempre
imponente. Chiuse gli occhi, sentendo
un’ondata di rimorso mescolarsi al
piacere. Non voleva più sapere o vedere
che cosa stavano facendo Dominik e
Charlotte. Era stanca, stanchissima. Si
rannicchiò, nascose il volto nella pelle
del divano e iniziò a singhiozzare in
silenzio.
Mentre lei giaceva così, tutt’intorno
l’orgia stava giungendo al termine.
«Sono deluso» disse Dominik.
«Non era quello che volevi?» gli
chiese Summer. Era il giorno dopo e
loro erano seduti al caffè dove si erano
incontrati la prima volta, in St Katharine
Docks.
Era
sera,
i
pendolari
combattevano contro l’ora di punta e le
auto rombavano passando sul ponte
vicino. «Non volevi guardarmi mentre
mi facevo scopare da un altro e…?»
«No.» Dominik interruppe le sue
parole
rabbiose
e
concitate.
«Assolutamente no.»
«E allora che cosa volevi?» disse
Summer,
quasi
urlando,
con
un’espressione addolorata e confusa sul
viso. Poi, prima che lui potesse
rispondere, aggiunse, spinta da un
demone interiore che la faceva parlare
in preda all’ira e al dolore: «Sono
sicura che ti ha eccitato, però. Vero?».
Lui distolse un attimo lo sguardo.
«Sì» ammise a voce bassa, come se si
dichiarasse colpevole di un’accusa
minore.
«Ecco, vedi!» esclamò Summer con
una punta di trionfo.
«Non so più quello che voglio» disse
Dominik.
«Non ci credo» ribatté Summer,
ancora in preda alla rabbia.
«Pensavo che avessimo un accordo.»
«Davvero?»
«Che io sia dannato, sì.»
«Oh, lo sarai senz’altro.»
«Perché sei così aggressiva?» chiese
Dominik, rendendosi conto che la
conversazione stava prendendo una
brutta piega.
«Così adesso la colpa è mia perché
mi sono spinta troppo oltre, vero?»
«Non è quello che ho detto.»
«E chi è quello che si è fatto palpare
da Charlotte come se io non esistessi e
non fossi là legata, nuda e rasata come
una schiava?» continuò lei.
«Non ho mai pensato a te come a una
schiava, non ci penso ora né ci penserò
in futuro» ribatté lui.
«Ma non hai problemi a trattarmi
come tale» lo rimproverò Summer con
un singulto. «Non sono una schiava e
mai lo sarò.»
Dominik intervenne, cercando di
riprendere il controllo della situazione.
«Ho solo pensato che svilendoti con
quel… gigolò, tu abbia deluso sia me sia
te stessa, ecco tutto.»
Summer rimase in silenzio, con gli
occhi pieni di lacrime di vergogna e di
stizza. Per un attimo pensò di gettargli in
faccia l’acqua del bicchiere che aveva
in mano, ma si trattenne.
«Non ti ho mai fatto promesse» disse
alla fine.
«Non te l’ho mai chiesto.»
«È stato un… impulso improvviso.
Non sono riuscita a controllarmi» cercò
di giustificarsi lei, ma poi gli si scagliò
contro di nuovo. «Tu mi hai messa in
quella situazione e poi mi hai
abbandonata. È stato come se avessi
scatenato i miei demoni e te ne fossi
andato lontano, lasciandomi sola con…
Dio sa cosa. Non so come spiegartelo,
Dominik.»
«Lo so. È stata anche colpa mia.
Posso solo scusarmi.»
«Scuse accettate.»
Summer bevve un sorso d’acqua. Il
ghiaccio si era ormai sciolto e l’acqua
era tiepida. Tra loro scese il silenzio.
«Allora…» disse alla fine Dominik.
«Sì.»
«Vorresti continuare?»
«Continuare cosa?» chiese Summer.
«A vedermi.»
«In quale veste?»
«Amante, amica, complice nel
piacere. Scegli tu.»
Summer esitò. «Non lo so» rispose
poi. «Non lo so proprio.»
«Capisco» annuì Dominik rassegnato.
«Davvero.»
«È così complicato» commentò
Summer.
«Lo è. Da una parte ti voglio.
Moltissimo, Summer. Non solo come
un’amante, o come un giocattolo, ma
come qualcosa di più. Dall’altra, ho
difficoltà a spiegare quest’attrazione e il
motivo per cui è diventata perversa così
in fretta.»
«Già» disse Summer. «Non una
proposta di matrimonio, eh?» Sorrise.
«No» confermò lui. «Magari un
accordo di qualche tipo?»
«Pensavo che l’avessimo già.»
«Forse» replicò lui.
«E chiaramente non funziona, vero?
Troppe incognite.»
Sospirarono all’unisono e la cosa li
fece sorridere. Almeno riuscivano a
cogliere il lato umoristico della
faccenda.
«Forse dovremmo smettere di
vederci per un po’.»
A prescindere da chi dei due aveva
effettivamente
pronunciato
quelle
parole, le avevano comunque entrambi
sulla punta della lingua.
«Vuoi che ti restituisca il violino?»
chiese Summer.
«Certo che no. È sempre stato tuo.
Senza condizioni.»
«Grazie. Davvero. È il regalo più
straordinario che abbia mai ricevuto.»
«Te lo meriti cento volte. La musica
che hai creato per me è stata
indimenticabile.»
«Sia vestita sia svestita?»
«Sì, sia vestita sia svestita.»
«E allora?»
«E allora aspettiamo; riflettiamo;
vediamo che cosa succederà e quando,
se mai succederà qualcosa.»
«Nessuna promessa?»
«Nessuna promessa.»
Dominik mise una banconota da
cinque sterline sul tavolo e con il cuore
pesante guardò Summer uscire dal caffè
e la sua silhouette scomparire
gradualmente nell’oscurità.
Abbassò lo sguardo sull’orologio, il
TAG Heuer d’argento che si era comprato
anni prima per festeggiare la nomina a
professore.
Si concentrò non sull’ora – era quel
momento indistinto in cui la sera scivola
nella notte – ma sulla data. Erano passati
quaranta giorni da quando aveva visto
Summer la prima volta mentre suonava
il vecchio violino alla stazione della
metropolitana di Tottenham Court Road.
Una data da ricordare.
L’appuntamento con la persona che si
occupava di reclutare i musicisti cha
ancora mancavano per l’orchestra in
America andò particolarmente bene e
meno di una settimana dopo Summer
atterrò all’aeroporto JFK di New York,
dopo aver lasciato senza rimpianti il
monolocale di Whitechapel. Non aveva
salutato Charlotte né nessun altro dei
suoi conoscenti, a parte Chris, al quale
aveva cercato di spiegare il suo
comportamento meglio che aveva potuto,
perché voleva la sua approvazione.
Non aveva chiamato Dominik, anche
se, al di là di tutte le altre ragioni, la
tentazione di avere l’ultima parola era
stata fortissima.
Chi l’aveva ingaggiata le aveva
offerto una sistemazione temporanea in
un appartamento in condivisione con
altri musicisti stranieri dell’orchestra
poco lontano dalla Bowery.
Era la prima volta che vedeva New
York e mentre il taxi si avvicinava al
Midtown Tunnel Summer scorse la
skyline di Manhattan, grandiosa come in
quasi tutti i film che aveva visto. Rimase
senza fiato.
Quello era sicuramente il modo
migliore di cominciare una nuova vita,
pensò Summer. Il lento tragitto nel
traffico appena fuori dall’aeroporto le
aveva offerto una visione di periferie
tutte uguali, ma adesso, attraverso i
finestrini sporchi del taxi, i suoi occhi si
fissarono sul profilo lontano di edifici
imponenti e di punti di riferimento
riconoscibili, e lei sentì un moto di gioia
e di speranza.
La prima settimana a New York – tra
prove urgenti con l’orchestra, disbrigo
delle formalità burocratiche per il
soggiorno e necessità di ambientarsi
nella peculiare geografia del Lower East
Side e abituarsi alla vita in quella città
singolare e straordinaria – le lasciò
pochissimo tempo libero.
I suoi coinquilini se ne stavano per
conto loro, il che non costituiva affatto
un problema per Summer, che a stento
aveva saputo il nome dei suoi vicini di
casa a Londra.
Si avvicinava rapidamente il giorno
della sua prima esibizione in pubblico
insieme alla nuova orchestra, la
Gramercy Symphonia, nell’ambito di
una stagione di concerti in un auditorium
che era stato recentemente restituito al
suo antico splendore. Avrebbero
suonato una sinfonia di Mahler che lei
sentiva in qualche modo estranea,
motivo per cui trovava difficile
infondere sentimento nell’esecuzione.
Per fortuna era solo uno degli oltre dieci
violini della sezione degli archi e aveva
abbastanza
tecnica
per
passare
inosservata in mezzo agli altri senza
attirare l’attenzione sulla propria
mancanza di empatia per il pezzo.
Nell’arco
di
quindici
giorni
avrebbero suonato pezzi tratti per la
maggior parte dal repertorio classico:
Beethoven, Brahms e una serie di opere
dei romantici russi. Summer li aspettava
con ansia, anche se lo stesso non poteva
dirsi per il concerto finale della
stagione, un brano di Penderecki, che
costituiva una specie di incubo per i
suonatori di archi e non le piaceva
nemmeno un po’: stridente, impersonale
e, almeno così pareva a lei,
terribilmente pretenzioso. Comunque
mancava ancora del tempo per questo
appuntamento. Prima di allora avrebbe
cercato di divertirsi.
Il clima a New York era
insolitamente mite, anche se Summer
sembrava aver preso l’abitudine di
incappare in acquazzoni stagionali nelle
rare occasioni in cui si spingeva oltre il
Greenwich Village o SoHo. Il modo in
cui i leggeri abiti di cotone inzuppati le
si incollavano addosso mentre si
affrettava a trovare un riparo o tornava a
casa sotto la pioggia le ricordava la
tarda primavera della Nuova Zelanda. Si
trattava di una sensazione strana, che
nulla aveva a che fare con la nostalgia:
era come se quella che stava vivendo
fosse
un’esistenza
completamente
diversa.
Non sentiva alcun bisogno di uscire
per socializzare, conoscere uomini o
farsi una scopata. Era una vacanza, ecco
cos’era. La sera, nella solitudine della
sua stanza scarsamente arredata,
rimaneva in ascolto dei rumori della
strada, le sirene che ululavano nella
notte squarciando di tanto in tanto la
coltre di silenzio: ogni suono era il
respiro di quella città per lei nuova.
Talvolta, attraverso la sottile parete
divisoria, sentiva i rumori di due
persone che facevano l’amore nella
stanza accanto: una coppia di suonatori
di strumenti a fiato originari della
Croazia, che lei pensava fossero marito
e moglie. Si trattava di un piccolo
recital di voci straniere, sussurri
soffocati, l’inevitabile cigolio delle
molle del letto e respiri affannosi. Poi
arrivava l’immancabile grido squillante
della flautista che veniva in un profluvio
di imprecazioni in croato, o almeno tali
parevano a Summer mentre ascoltava
con attenzione i loro movimenti e
cercava di immaginarsi lo spettacolo del
cazzo e della fica che combattevano tra
le lenzuola e il potente martellare
dell’uccello del trombettista che
scopava la moglie. Summer l’aveva
visto spesso girare disinvoltamente per
casa con addosso solo la biancheria
intima: era basso e peloso e il suo pene
sembrava tendere la stoffa dei boxer
fino al punto di rottura. Pensava che non
fosse circonciso e immaginava il modo
in cui la punta del suo membro emergeva
dalle pieghe della carne quando
raggiungeva la piena erezione. E ogni
volta bandiva dalla sua mente il ricordo
dei vari peni, circoncisi o meno, che
aveva conosciuto.
Poi si masturbava, aprendosi le
labbra della vagina e suonando con dita
sottili ed esperte la solita melodia. Oh,
c’erano parecchi vantaggi a essere una
musicista… La musica che traeva dal
proprio corpo fluiva nella stanza come
un torrente, portando piacere e oblio e
trascinando via il persistente dolore che
lei provava pensando a Dominik.
Il primo concerto della stagione era
imminente e Summer e i suoi colleghi
erano costretti a passare la maggior
parte dei fine settimana a provare in uno
scantinato umido nei pressi del Battery
Park, ripetendo la loro parte fino alla
nausea.
Si lavò la faccia con l’acqua fredda
nel bagno dello spazio per le prove e fu
una delle ultime ad andarsene. La luce
morente
del
giorno
sbiadiva
sull’Hudson. In quel momento i suoi
unici desideri erano qualcosa da
mangiare – magari un sashimi preso da
ToTo in Thompson Street – e una buona
notte di sonno.
Mentre emergeva dallo scantinato e
stava per incamminarsi verso nord si
sentì chiamare. «Summer? Summer
Zahova?»
Si girò e vide un uomo attraente di
mezza età, di altezza media, con i capelli
sale e pepe tagliati corti e una barba
curatissima dello stesso colore.
Indossava una giacca estiva a righine
azzurre, pantaloni neri e scarpe dello
stesso colore lucidissime.
Summer non lo conosceva.
«Sì?»
«Mi scusi se la disturbo, ma ho
assistito alle prove, grazie ad alcune
conoscenze nell’ambito dell’orchestra, e
sono rimasto molto colpito.» Aveva una
voce
ricca
e
profonda,
con
un’inflessione
insolita.
Non era
americano, ma lei non riuscì a stabilire
che accento avesse.
«Siamo ancora all’inizio» disse
Summer. «Il direttore ci sta facendo
lavorare per ottenere una maggiore
coesione.»
«Lo so» ribatté l’uomo. «Ci vuole
tempo. Ho esperienza di orchestre, ma
secondo me lei si è integrata bene, anche
in questa fase iniziale.»
«Come fa a sapere che sono nuova?»
«Me l’hanno detto.»
«Chi?»
«Diciamo solo che abbiamo amici in
comune» rispose con un ampio sorriso.
«Ah» commentò Summer, e fece per
andarsene.
«Ha un violino bellissimo» aggiunse
l’uomo, lo sguardo fisso sulla custodia
che lei teneva nella mano destra.
Summer indossava una minigonna di
pelle, una cintura stretta in vita con una
fibbia enorme, niente calze e stivali
marroni che le arrivavano a metà
polpaccio. «Un Bailly, mi verrebbe da
dire.»
«Sì» confermò Summer, aprendosi in
un sorriso per aver riconosciuto un
appassionato come lei.
«Senta» proseguì lui, «visto che lei è
nuova qui, mi stavo chiedendo se le
andrebbe di unirsi a me e ad alcuni
amici, domani sera, per una piccola
festa. Si tratta perlopiù di persone
dell’ambiente musicale, per cui si
sentirebbe a casa. New York è una
grande città e di sicuro lei non si sarà
ancora fatta molti amici, vero? Non sarà
niente di speciale: solo qualche drink in
un bar e poi magari facciamo un salto da
me per quattro chiacchiere; ho un
appartamento in affitto. Potrà andarsene
quando vuole.»
«Dove abita?» indagò Summer.
«In un attico a Tribeca» rispose
l’uomo. «Vivo a New York solo pochi
mesi all’anno, ma tengo l’appartamento.
Di solito sto a Londra.»
«Posso pensarci?» disse Summer.
«Dubito che le prove di domani
finiranno prima delle sette. Dove vi
incontrate?»
L’uomo le porse il suo biglietto da
visita: VICTOR RITTENBERG, DOTTORE DI
RICERCA.
“Dev’essere dell’Europa
orientale” pensò Summer.
«Da dove viene?» gli chiese.
«Oh, è una storia complicata. Magari
un giorno…»
«Ma le origini?»
«Ucraina» rispose lui.
Quella piccola informazione la
rassicurò.
«Anche i miei nonni venivano da lì»
spiegò Summer. «Emigrarono in
Australia e poi in Nuova Zelanda. Non li
ho mai conosciuti. Il mio cognome è
originario di quelle parti.»
«E così abbiamo qualcos’altro in
comune» commentò Victor, con un
sorriso enigmatico.
«Suppongo di sì» ribatté Summer.
«Conosce il Raccoon Lodge in
Warren Street, a Tribeca?»
«No.»
«Ci troviamo lì. Domani dalle sette e
mezzo in poi. Se lo ricorderà?»
«Certo» disse Summer.
«Magnifico.» Victor le rivolse un
cenno di saluto e si incamminò nella
direzione opposta a quella in cui andava
lei.
“Perché no?” pensò Summer. Non
poteva fare l’eremita all’infinito, e
cercò di immaginare chi potessero
essere gli amici che aveva in comune
con quell’uomo.
Victor sedusse Summer gradualmente,
usando tutta la sua astuzia. Sulla base di
quello che era venuto a sapere di lei dai
racconti sporadici di Dominik in
risposta alle sue domande casuali si era
reso conto che quella ragazza, che ne
fosse consapevole o meno, aveva i tratti
tipici della sottomessa. Era stata una
meravigliosa coincidenza che Lauralynn,
la sua vecchia complice, l’avesse
indirizzata verso quel lavoro a New
York proprio nello stesso periodo in cui
lui si era trasferito nella Grande Mela in
seguito ad accordi presi tempo prima,
quando aveva accettato un incarico
all’Hunter College per tenere un corso
sulla filosofia posthegeliana.
Libertino di lungo corso, Victor era
anche un fine conoscitore dei sottomessi
e padroneggiava i molti modi per
manipolarli e attirarli a sé nella maniera
più subdola, sfruttando le loro debolezze
e giocando con le loro esigenze.
Da
come
Summer
era
volontariamente caduta tra le braccia di
Dominik e da ciò che aveva osservato
nell’unica occasione in cui aveva potuto
vederla in azione, aveva capito quali
erano i tasti giusti da premere, i centri
nervosi da stimolare, le corde invisibili
da manovrare. Sfruttando la sua
solitudine di nuova arrivata a New
York, Victor portò alla luce la naturale
sottomissione della ragazza con
circospezione, un passo alla volta, ora
incoraggiando la sua vena esibizionista,
ora assecondando la sconsiderata forma
di orgoglio che la spingeva a mettersi in
imbarazzanti situazioni di natura
sessuale per puro capriccio. In confronto
a lui, lei era una dilettante e non si rese
mai conto di essere manipolata.
Victor sapeva che l’esperienza con
Dominik aveva infiammato i desideri di
Summer e ne aveva acuito i bisogni
sessuali. New York era una grande città
dove la solitudine poteva farsi sentire.
Dominik era dall’altra parte dell’oceano
e lei era lì, indifesa, sola.
In occasione della prima serata
passata insieme, alla festa nel suo attico
di Tribeca, Victor rivelò cautamente il
proprio
interesse
per
il
sadomasochismo,
portando
la
conversazione su certi club privati a
Manhattan e nel New Jersey. Notò la
reazione di Summer, il desiderio che le
ardeva negli occhi, l’incapacità di
negare le proprie inclinazioni sessuali.
Il fuoco era stato acceso e in breve lei si
trovò irresistibilmente e ineluttabilmente
attratta verso quella fiamma come una
falena verso la luce.
Per quanto ci provasse, non poteva
resistere alla voce del suo corpo, alla
complessa ragnatela che Victor stava
tessendo. Summer sentiva la mancanza
di Dominik, dei suoi strani giochi
sessuali e del piacere che aveva tratto
dall’assecondare il suo volere. La voce
di Victor era diversa, il suo tono era
fermo e intransigente, privo della
morbida inflessione di Dominik, eppure
se chiudeva gli occhi Summer riusciva
quasi a immaginare che a darle ordini
fosse Dominik, che fosse lui a piegare la
sua volontà.
Si rese conto in fretta che Victor
sapeva su di lei più cose di quante
avrebbe dovuto sapere e iniziò a
sospettare che la sua informatrice fosse
Lauralynn. Non era un’ingenua, ma
voleva vedere dove tutto ciò avrebbe
portato. Non poteva più ignorare il
richiamo delle fantasie perverse e il
canto di sirena del suo corpo
desideroso.
Al loro terzo incontro, in un bar buio
di Lafayette Street, Summer scoprì di
trovarsi a proprio agio con la sottile
opera di adescamento che Victor stava
conducendo e fu tutt’altro che sorpresa
quando, nel bel mezzo di una
conversazione su quanto fossero brutte
le forme più moderne di musica classica
(anche se lei mostrava un indulgente
apprezzamento per l’opera di Philip
Glass, che invece Victor non
sopportava), lui le chiese di punto in
bianco: «Hai già servito, vero?».
Lei annuì. «Tu sei un dominatore,
giusto?»
Victor sorrise.
Il tempo dei giochetti psicologici era
finito.
«Penso che tu e io ci capiamo,
Summer» disse Victor, mettendole una
mano sulle sue.
Sì, si capivano; il mondo reale, quel
mondo segreto intorno al quale lei aveva
girato freneticamente come una gallina
decapitata, la stava chiamando di nuovo,
seducendola con una melodia soave.
Pur sapendo di aver imboccato una
strada senza via d’uscita, si va avanti lo
stesso, perché non farlo significherebbe
rimanere incompleti.
L’incontro successivo con Victor
avvenne dopo una lunga sessione di
prove, due giorni prima dell’esibizione
che avrebbe inaugurato la nuova
stagione concertistica. Summer era
euforica: la musica fluiva senza sforzo e
il suono del suo meraviglioso Bailly
adesso si fondeva armoniosamente con
il resto dell’orchestra. Aveva lavorato
sodo e l’impegno stava dando i suoi
frutti. Con l’adrenalina che le scorreva
nelle vene, si sentiva pronta ad
affrontare
qualunque
dannata
perversione Victor avesse in mente.
Anzi, non vedeva l’ora.
L’appuntamento era in un dungeon
improvvisato nel seminterrato di un
imponente edificio di mattoni rossi nei
quartieri alti, ad appena un isolato dalla
Lexington. Le era stato detto di
presentarsi alle otto di sera e lei aveva
deciso di mettersi il corsetto già usato
quando aveva fatto la cameriera a
Londra; le sembrava passata un’eternità
da quella festa a casa di Charlotte.
Indossando un capo che Dominik
aveva comprato per lei, Summer poteva
immaginare che si trattasse di una festa a
cui lui le aveva chiesto di partecipare e
fingere di comportarsi come se stesse
obbedendo ai suoi desideri.
Mentre si preparava, si meravigliò di
nuovo della morbidezza della stoffa.
L’accarezzò con le dita e non poté fare a
meno di pensare a lui. Perché era così
difficile dimenticarlo?
Quel
pensiero
insistente
fu
accantonato quando il suo cellulare
vibrò. La limousine che Victor aveva
mandato a prenderla aspettava in strada.
Anche questa volta, infilò il lungo
soprabito rosso. Faceva caldo per un
capo simile, ma la copriva fino alle
caviglie, nascondendo lo scioccante
spettacolo del corsetto, dei seni in
mostra e delle calze nere che le era stato
detto di indossare e che le arrivavano a
metà delle cosce lasciando scoperta la
pelle lattea fino al tanga quasi invisibile.
Aveva notato, con un certo disappunto,
che i peli del pube stavano iniziando a
ricrescere in ciuffi disordinati, ma non
aveva avuto tempo di porvi rimedio.
Victor indossava un elegante
smoking, al pari di tutti gli ospiti
maschi, mentre le donne sfoggiavano
abiti di alta sartoria di tutte le sfumature
pastello. Qualcuno le prese il soprabito
e Summer si sentì a disagio perché era
l’unica donna a seno nudo nella grande
sala da pranzo, affollata di ospiti che
bevevano e fumavano. Nell’aria
aleggiava una spessa nube di fumo di
sigari e sigarette.
«L’ultima arrivata» annunciò Victor.
«Questa è Summer. Da oggi si unirà al
nostro piccolo gruppo privato. Ci è stata
molto raccomandata.»
“Raccomandata da chi?” si chiese
Summer.
Percepì gli occhi di una ventina di
persone che la fissavano, esaminandola
e soppesandola. Sentì i capezzoli che si
indurivano.
«Vogliamo andare?» disse Victor,
indicando la porta del seminterrato con
un gesto teatrale.
Summer seguì il movimento della
mano di lui e si avviò, in equilibrio
precario sui tacchi alti. Adesso che il
momento si avvicinava, le girava un po’
la testa. Era la prima volta che si
ritrovava in una scena fetish dopo
l’orgia di Londra che aveva portato alla
separazione da Dominik.
Una decina di scalini conducevano a
una grande cantina ben illuminata con le
pareti ricoperte di tappeti dall’aria
esotica. Sapeva come si chiamavano ma
adesso il termine le sfuggiva, distratta
com’era dalla vista di sei donne che se
ne stavano in piedi in cerchio al centro
di quel dungeon improvvisato.
Erano tutte nude dalla vita in giù.
Niente biancheria intima né calze né
scarpe. Avevano la parte superiore del
corpo coperta da indumenti di vario
genere – camicette, magliette, sottili top
di seta – tutti più o meno trasparenti e i
capelli – dal biondo platino al nero
corvino – raccolti in uno chignon.
Summer era l’unica rossa del gruppo.
Due di loro indossavano un sottile
girocollo di velluto, mentre le altre
portavano veri e propri collari di
metallo, o simili a quelli dei cani con
borchie; una esibiva una fascia di cuoio
chiusa da un pesante lucchetto.
Schiave?
Gli ospiti si riversarono nel dungeon
e si disposero lungo le pareti.
«Come vedi, mia cara» Victor le era
arrivato silenziosamente accanto e le
stava sussurrando all’orecchio, «non sei
sola.»
Summer fece per replicare, ma lui si
portò velocemente un dito alle labbra
imponendole il silenzio. Parlare non
rientrava nel suo ruolo.
Le accarezzò un fianco, tirandole
l’elastico del minuscolo tanga.
«Mostrati» le intimò.
Summer si sfilò il tanga.
«Il resto» continuò lui.
Lei lanciò un’occhiata alle altre
donne, nude dalla vita in giù, e
comprese l’ordine. Consapevole di
avere gli occhi di tutti puntati addosso e
cercando di rimanere in equilibrio,
arrotolò le calze e, dopo essersi liberata
delle scarpe, se le sfilò. Victor non si
offrì di aiutarla. Il pavimento era freddo.
Pietra.
Adesso era nuda, a parte il corsetto
stretto in vita che le sosteneva il seno,
offerto agli occhi di tutti.
Guardando le donne in cerchio,
messe in mostra come lei, Summer si
rese conto di quanto tutte loro fossero
tremendamente oscene. La nudità era
naturale, anche in pubblico, ma qui si
trattava di qualcos’altro, una parodia
dell’erotismo, un’abile forma di
umiliazione.
Un lieve tocco sulla spalla la
sospinse verso le donne in mostra, che si
scostarono per accoglierla nel cerchio.
Notò che erano tutte depilate. Con la
pelle liscissima, come se la depilazione
fosse permanente. Un atto cui, a un certo
punto, si erano sottoposte per
sottolineare il loro ruolo di schiave, la
perdita del potere. Si sentì sciatta.
Proprio mentre quel pensiero le
attraversava il cervello Victor disse:
«Dovresti curarti di più, Summer. La tua
fica è in disordine. In futuro dovrai
essere completamente depilata. Più tardi
ti punirò».
Le leggeva nella mente?
Summer arrossì.
Qualcuno strofinò un fiammifero e lei
fremette, temendo per un attimo che
fosse l’inizio di qualche rituale
doloroso, ma era solo una persona che si
accendeva una sigaretta.
«Allora, Summer, ti unisci a noi»
disse Victor, girandole intorno. Le infilò
una mano tra i capelli, mentre posava
l’altra su una delle sue natiche.
«Sì» mormorò Summer.
«Sì, signore!» ruggì lui, colpendola
con forza sulla natica destra.
Summer sobbalzò. Gli spettatori
trattennero il fiato. Una delle donne che
osservavano la scena fece un sorriso
laido da regina cattiva delle fiabe.
Summer ne scorse un’altra che si
leccava le labbra. Pregustando la scena?
«Sì, signore» disse docile, vincendo
la riluttanza a entrare nel ruolo con tanta
facilità.
«Bene» disse lui. «Conosci le regole:
ci servirai; non farai domande; ci
mostrerai rispetto. Capito?»
«Sì, signore.» Ormai aveva imparato
come rispondere.
Le afferrò un capezzolo e lo strinse
con forza. Summer trattenne il respiro
per controllare il dolore. Victor adesso
era alle sue spalle e le sue parole le
martellavano le orecchie. «Sei una
piccola troia.» Quando lei non replicò,
lui la sculacciò con forza.
«Sono una piccola troia.»
«“Sono una piccola troia” e poi?» Un
altro colpo e un’altra fitta di dolore.
«Sono una piccola troia, signore» si
corresse lei.
«Così va meglio.»
Ci fu un momento di silenzio e con la
coda dell’occhio Summer vide che una
delle schiave faceva un sorrisetto
compiaciuto. Stavano ridendo di lei?
Victor continuò: «Ti piace che tutti
vedano il tuo corpo, vero, troia? Ti
piace essere guardata, essere esibita?».
«Sì, signore, mi piace» rispose lei.
«Ti comporterai bene, allora.»
«Grazie, signore.»
«Da questo momento, ti possiedo»
dichiarò Victor.
Summer avrebbe voluto protestare.
Da un lato c’era qualcosa di
terribilmente eccitante in quell’idea, ma
dall’altro una parte della sua personalità
si ribellava.
Per il momento, però, mentre lei se
ne stava in piedi in quel dungeon, con le
tette e la fica mal rasata esposte agli
sguardi di tutti, bagnata tra le cosce a
conferma della sua eccitazione, quelle
erano solo parole. Summer si sentì
baldanzosa, pronta ad affrontare tutto ciò
che il futuro le avrebbe riservato.
11
Una ragazza e il suo padrone
La prima sculacciata fu così violenta che
io capii subito che il segno mi sarebbe
rimasto per ore, bordato di rosa come la
versione infantile di un disegno astratto.
Deglutii con forza.
Avevo tutti gli sguardi puntati
addosso: aspettavano la mia reazione,
forse sperando di vedermi trasalire. Mi
limitai a stringere i denti. Non gli avrei
dato quella soddisfazione. Non ancora,
perlomeno.
Nella voce di Victor c’era una
durezza mai colta in precedenza, come
se la sua vera natura stesse emergendo
solo adesso. Mi aveva fatto togliere tutto
ciò che indossavo, a parte il corsetto,
lasciandomi esposta come piaceva a lui.
“Signore” qui, “signore” là, autoritario,
incalzante. Obbedivo alle sue istruzioni,
anche se il modo in cui dovevo
rivolgermi a lui mi irritava. Dominik
non mi aveva mai chiesto di chiamarlo
“signore”. Avevo sempre pensato che
fosse un termine stupido, che
trasformava una situazione piccante in
una farsa. Cercai di mantenere la mia
dignità, nonostante quella messinscena
dozzinale.
Rimasi immobile in quella parata di
schiave. La bionda esile con il seno
piccolo, la brunetta olivastra con il
sedere basso, quella con i capelli color
topo, le curve generose e una vistosa
voglia sulla natica destra, quella alta,
quella bassa, quella rotondetta. E poi io,
la rossa con il corsetto che attirava
ancora di più l’attenzione sulla sua
sessualità, sui capezzoli turgidi, sulla
fica bagnata e pronta.
«In ginocchio» disse una voce.
Questa volta non era Victor, che si era
allontanato per unirsi agli altri ospiti,
confondendosi nella folla di uomini e
donne.
Ci inginocchiammo tutte.
«Giù la testa.»
Le schiave accanto a me obbedirono,
sfiorando con il mento il pavimento di
pietra. Se questa era la completa
subordinazione, non faceva per me.
Abbassai la testa, tenendola comunque a
distanza dal suolo. Sentii un piede sulla
base della schiena che mi spingeva giù
per costringermi a inarcarmi e a
sollevare il sedere, esponendolo
ulteriormente.
«Quel culo ha l’aria molto invitante»
disse una donna. «La vita così stretta lo
mette ancora più in risalto.»
Il piede si ritrasse. Lucide scarpe
scure e tacchi alti tredici centimetri
iniziarono a passeggiare intorno a me e
alle altre schiave: gli ospiti si
muovevano in mezzo a noi giudicando,
valutando la merce. Con la coda
dell’occhio vidi qualcuno inginocchiarsi
accanto a me; una mano mi soppesò il
seno. Un altro ospite invisibile mi fece
scivolare un dito nel solco tra le natiche,
me lo infilò nella fica per vedere
quant’era bagnata, poi lo ritrasse per
tastarmi l’ano. Io mi contrassi, tentando
di impedirglielo, ma lui riuscì a
introdursi lo stesso per un attimo.
Rimasi stupita che ci fosse riuscito
senza usare il lubrificante. Certo, la
posizione in cui stavo, con le parti
intime completamente esposte, rendeva
la cosa più facile.
«Non è stata usata granché, qui»
commentò, poi mi diede una pacca sul
sedere prima di passare a un altro dei
corpi in mostra.
D’un tratto sentii il respiro di Victor
nel mio orecchio. «Ti piace essere
esibita, eh, Summer?» commentò in tono
divertito. «Ti dà una scossa. Lo capisco
da quanto sei bagnata. Non puoi
nasconderlo.
Non
hai
nessuna
vergogna?»
Ero fradicia e senza dubbio dovevo
essere arrossita mentre lui continuava a
esaminarmi.
«Può essere usata?» chiese uno dei
presenti. Un uomo.
«Non del tutto» rispose Victor. «Per
oggi solo la bocca. Ho in serbo cose più
interessanti per lei.»
«Per me va benissimo» replicò
l’altro.
«Lei gode a essere messa in mostra,
usata in pubblico» continuò Victor. Udii
un fruscio: era lui che trascinava un
piede sul pavimento, a pochi centimetri
dal mio naso; una lievissima zoppia
rendeva riconoscibile il suo passo. Ero
furiosa, ma non potevo manifestarlo.
Victor mi mise una mano sotto il mento
costringendomi ad alzare la testa, poi mi
posizionò all’altezza del cavallo dei
pantaloni dell’uomo che aveva parlato
prima e che nel frattempo aveva
abbassato la cerniera e stava tirando
fuori l’uccello, avvicinandomelo alla
bocca. Percepii un lieve odore di urina e
per poco non vomitai, ma Victor mi
prese saldamente per le spalle,
costringendomi a fare quello che voleva.
Aprii la bocca.
Lo sconosciuto aveva un cazzo corto
e grosso. Iniziò a muoversi velocemente,
tenendomi per i capelli e costringendomi
a prenderlo fino in fondo, come se fossi
avida di succhiarglielo.
Venne in fretta, spruzzandomi lo
sperma in gola. Poi mi tenne ferma,
rifiutandosi di ritrarsi finché non ebbi
deglutito, riluttante, dopo essermi pulita
la bocca. Alla fine mi lasciò andare. Il
sapore amaro della sua sborra non se ne
andava e avrei voluto precipitarmi in
bagno per sfregarmi la lingua. In quel
momento avrei fatto i gargarismi con
l’acido, pur di eliminare quel gusto. Mi
guardai intorno: tutte le altre infelici
schiave venivano usate, scopate in
bocca dagli ospiti maschi o montate da
dietro come pezzi di carne, a parte
quella con i capelli color topo che mi
faceva pensare a una casalinga dei
sobborghi. Lei era occupata a leccare
una donna che teneva il vestito di seta
scarlatta sollevato fino alla vita ed
emetteva acuti strilli da uccellino ogni
volta che la lingua della schiava le
toccava il clitoride o un’altra zona
erogena.
Non ebbi il tempo di analizzare
ulteriormente quella situazione perché
Victor mi ordinò di sdraiarmi sulla
schiena, dopo aver steso una spessa
coperta sul pavimento di pietra. Mi fece
allargare le gambe e avanzò verso di me
con i pantaloni abbassati e l’uccello di
dimensioni più che rispettabili già
inguainato nel preservativo. A differenza
di Dominik, aveva scelto di proteggersi.
Non si fidava del fatto che fossi sana,
oppure era stato Dominik a comportarsi
da irresponsabile?
Mi penetrò con forza e cominciò a
scoparmi. D’un tratto mi resi conto che
sebbene avessi scelto di consegnare il
mio corpo alla sua volontà, ero ancora
padrona della mia mente e potevo fare
quello che volevo. Cercai nella mia
testa quel posto speciale che mi avrebbe
consentito di allontanarmi da tutto, se
non fisicamente, almeno mentalmente.
Presto ciò che mi circondava sbiadì, gli
uomini, le donne e le schiave
scivolarono in una sorta di assenza: i
corpi, i grugniti, tutto. Chiusi gli occhi,
abbandonai la presa sulla realtà e mi
lasciai sommergere dalle ondate di
desiderio. Victor venne in fretta e fece
due passi indietro.
Ebbi appena il tempo di riprendermi
che mi trovai la bocca invasa dal pene
di un altro uomo. Una diversa sfumatura
di rosa e marrone, una grossa punta, un
altro lieve odore, questa volta di sapone
alle erbe. Non volli guardare l’uomo a
cui apparteneva quel membro. Che
importanza aveva? Lo succhiai fingendo
che mi piacesse.
Il resto della serata trascorse in una
nebbia indistinta.
Uomini anonimi. Donne che davano
ordini con una punta di crudeltà e un
leggero malessere che emanava dai loro
corpi profumati. Ben presto mi staccai
dal mio io pensante; la mia mente e il
mio corpo inserirono il pilota
automatico.
Quando alla fine mi guardai intorno,
la folla di ospiti si era quasi dispersa,
mentre gli ultimi ritardatari se ne
andavano o si ricomponevano. Era
rimasto solo il nostro cerchio di schiave
al centro della stanza: sporche, esauste,
rassegnate.
Qualcuno mi diede un colpetto sulla
testa come si farebbe con un cagnolino.
«Brava, Summer. Ti sei rivelata
davvero promettente.»
Era Victor.
Il suo commentò mi stupì. Sapevo di
essere stata distaccata, distante,
meccanica, fredda, come un’attrice sul
set. Di un film porno, per la precisione.
«Vieni» mi disse, allungando una
mano per aiutarmi a rimettermi in piedi
dalla mia posizione indecente. Aveva
recuperato il mio soprabito e me lo mise
sulle spalle.
Fuori dall’edificio la limousine ci
stava aspettando.
Il tragitto si svolse in silenzio.
La stanchezza assoluta, mentale e fisica,
riduce una persona uno zombie. Giornate
trascorse a provare – mediamente due
esibizioni alla settimana – e, tutte le
volte che ero libera, una chiamata di
Victor.
Ovviamente avrei potuto dire di no,
avrei dovuto dire di no, fargli sapere
che si stava spingendo troppo in là e che
io non volevo più partecipare ai giochi
da lui organizzati con tanta deliberata
malizia, ma mi resi conto che una parte
di me bramava altri incontri con una
specie di curiosità morbosa. Come se
stessi mettendo alla prova i miei limiti.
Ogni appuntamento era un ulteriore
ponte gettato sul fiume, una sfida verso
la quale il mio corpo veniva
irresistibilmente attratto.
Stavo perdendo il controllo.
Senza Dominik ad ancorarmi ero
come una barca alla deriva in mari
aperti e inesplorati, alla mercé di venti e
tempeste. Non avevo nulla cui
aggrapparmi, nessuna bussola per
orientarmi, e il violino non era lo
strumento giusto per quella situazione.
Avevamo un direttore d’orchestra
ospite venezuelano che era a New York
per una rassegna di opere di compositori
russi postromantici e ci stava facendo
lavorare duramente. Il nostro modo di
suonare non lo soddisfaceva: voleva più
verve e più colore. La sezione degli
archi era la più tartassata. Mentre,
infatti, la sezione degli ottoni,
prevalentemente maschile, sembrava più
abile nel variare l’enfasi, noi suonatori
di strumenti ad arco eravamo abituati a
un’interpretazione più discreta della
musica. Inoltre molti di noi, in ragione
delle loro radici est-europee, avevano
acquisito abitudini musicali che,
soprattutto nell’esecuzione di brani
molto noti, non potevano essere
facilmente modificate con l’aggiunta di
ulteriore virtuosismo.
Le prove di quel pomeriggio erano
state estenuanti e il direttore aveva
criticato piuttosto aspramente i nostri
sforzi. Mentre camminavo lungo la
Broadway diretta a casa il mio cellulare
si mise a vibrare. Era Chris, di
passaggio a Manhattan. La sua band era
stata ingaggiata per un breve tour in
locali rock minori sull’East Coast e lui
era in procinto di partire per Boston. A
quanto pareva, aveva cercato di
chiamarmi il giorno prima per invitarmi
a suonare insieme a loro in un concerto
in Bleecker Street, ma mi ricordai che il
mio telefono era rimasto scarico o
spento per parecchi giorni, visto che ero
impegnata tra le prove con il
venezuelano e le richieste di Victor.
«Ci sei mancata» disse Chris dopo i
convenevoli iniziali.
«Sono sicura che non è vero»
ribattei. Non suonavo mai in tutti i pezzi
quando la band si esibiva. Un violino
aggiunge un sound particolare a un
gruppo rock, ma se viene usato in modo
eccessivo c’è il rischio di scivolare nel
country.
«E invece sì» ribatté Chris. «Sia
come persona sia come musicista.»
«Ah, l’adulazione ti aprirà tutte le
porte.»
Chris sarebbe rimasto in città solo
per quella sera. Ci mettemmo d’accordo
per vederci non appena mi fossi fatta
una doccia e cambiata dopo quella
giornata estenuante.
A entrambi piaceva la cucina
giapponese. Talvolta giudico le persone
dai loro gusti in fatto di cibo e di rado
approvo quelli che sostengono di non
amare il pesce crudo o la tartare o le
ostriche. Vigliacchi culinari, secondo
me.
Il sushi bar era il ToTo, un piccolo
locale normalmente frequentato da
pochissimi clienti, dal momento che
funzionava soprattutto come takeaway.
Di conseguenza, il cuoco sottoccupato
era sempre generoso con le porzioni.
«Allora, com’è l’ambiente classico?»
mi chiese Chris mentre sorseggiavamo il
primo sakè della serata.
«Mi stressa parecchio, questo è
certo. Il direttore con cui stiamo
lavorando adesso è una specie di
tiranno. Molto esigente e lunatico.»
«Non ti ho sempre detto che noi
rockettari siamo assai più civilizzati di
voi parrucconi classici?»
«Sì sì, me l’hai detto, Chris.»
Praticamente ogni volta che parlavamo.
Quella battuta era ormai diventata una
specie di cliché, ma io cercai lo stesso
di sorridere.
«Hai l’aria stanca, Summer.»
«Sono stanca, infatti.»
«Va tutto bene?» mi chiese poi, con
l’aria preoccupata.
«È
solo
stanchezza.
Sono
impegnatissima con l’orchestra e non
dormo bene.»
«Tutto qui?»
«Che altro dovrebbe esserci? Ho le
borse sotto gli occhi?»
Chris sorrise. La mia vecchia spalla,
una persona a cui non potevo mentire.
«Sai a che cosa mi riferisco.
Allora… che mi dici delle tue…
avventure? Ti conosco, Summer.»
Presi un boccone di tonno pinna
gialla con i bastoncini.
Chris sapeva quasi tutto quello che
era successo a Londra con Dominik.
Be’, forse non ogni singolo dettaglio:
una ragazza ha il suo amor proprio.
Aveva sicuramente capito che la mia
venuta a New York con così poco
preavviso era stata una specie di fuga.
«Non dirmi che ti ha seguita fin qui!
Non può essere.» Intinse un California
Roll nella ciotola di salsa di soia e
wasabi.
«No» risposi. «Non lui.» Poi,
vincendo la riluttanza a rivelare quello
che provavo, aggiunsi: «Magari fosse
lui».
«Che cosa vuoi dire, Summer?»
«Ho incontrato un altro uomo.
Simile… ma peggio, credo. Non è facile
da spiegare.»
«Che cosa c’è in te che attira questi
bastardi, Summer? Non ho mai pensato
che tu fossi una masochista.»
Rimasi in silenzio.
«Senti, Darren era un coglione, lo so,
ma i tizi da cui adesso sembri
stranamente attratta sono pericolosi.»
«È vero» confermai.
«E allora perché lo fai?» Stava
perdendo la pazienza. Perché succedeva
tutte le volte che ci vedevamo?
«Non faccio uso di droghe, come sai.
Be’, a parte qualche spinello. Forse
questa cosa è una specie di droga. Mi dà
lo sballo. È come se mettessi una mano
tra le fiamme per vedere fino a dove
posso
spingermi,
rimanendo
in
equilibrio tra dolore e piacere. Non è
poi tanto brutto, Chris… anche se so che
non ci credi. Ognuno ha i suoi gusti. Non
criticare prima di provare.»
«Sarà… Non penso che faccia per
me. Tu sei matta, ragazza mia.»
«Può darsi, Chris, però mi conosci.
Prendi l’amico tuo con il difetto suo.»
«Ma sei felice?» mi chiese alla fine,
mentre la cameriera sparecchiava e ci
portava quadratini di una torta
all’ananas offerta dal locale.
Evitai di rispondere, ma il mio
sguardo mi tradì, temo.
Ci spostammo in un bar nelle
vicinanze per una birra prima di
salutarci, su una nota di incertezza.
«Fatti viva» mi disse Chris. «Hai il
mio numero. Ogni volta che ne hai
voglia. O se c’è un problema. Torniamo
in Inghilterra alla fine della settimana
prossima, ma io ci sarò sempre per te,
Summer. Credimi.»
Era notte. L’atmosfera del Greenwich
Village era elettrica e la musica
inondava le vie strette di melodie
sconosciute e lievemente cacofoniche. I
rumori di una grande città.
Avevo un disperato bisogno di
dormire.
Il concerto di musiche di Prokof’ev in
uno dei luoghi più eleganti di Manhattan
fu un trionfo. Tutto andò alla perfezione,
giustificando la tortura delle prove e la
tensione tra il direttore e i membri
dell’orchestra. Il mio assolo di poche
battute nel secondo movimento fluì come
un sogno che diventa realtà, e il giovane
maestro mi gratificò persino di una
strizzata d’occhio in segno di
approvazione mentre eseguivamo le note
finali.
Il mio buonumore svanì in fretta
quando trovai Victor ad attendermi
all’ingresso degli artisti.
«Perché ci hai messo tanto? Il
concerto è finito più di un’ora fa» mi
fece notare.
«C’è stata una piccola festa» risposi.
«È andato straordinariamente bene.
Nessuno se l’aspettava» gli spiegai.
Lui aggrottò le sopracciglia.
Mi fece cenno di incamminarmi
insieme a lui e imboccammo la Third
Avenue verso nord. Forse perché
portavo i tacchi alti, ma all’improvviso
Victor mi sembrò più basso.
«Dove stiamo andando?» gli chiesi.
Ero ancora un po’ stordita dall’effetto
combinato del vermut bevuto per
festeggiare con l’euforia per l’esibizione
quasi perfetta.
«Non preoccuparti» replicò lui
brusco.
A cosa stava pensando? Indossavo
l’abito di velluto nero da concerto e
normale biancheria intima. Niente
autoreggenti o calze con la giarrettiera,
ma un paio di collant. E un golf leggero
che avevo comprato il giorno prima
all’Ann Taylor Loft. Il corsetto di
Dominik, che Victor spesso mi faceva
indossare per i nostri incontri, era
chiuso in un cassetto del mio comò.
Forse era solo un’occasione sociale.
Anche se, conoscendo Victor, ne
dubitavo.
«Hai con te un rossetto?» mi chiese,
mentre camminavamo lungo la Third.
«Sì.» Ce l’avevo. Le ragazze sono
sempre ragazze.
Poi il fugace ricordo di un recente
episodio con il rossetto “protagonista”
mi attraversò la mente. E a un tratto
capii. Quella sera nella mansarda di
Dominik lo spettatore segreto doveva
essere stato Victor, il quale mi aveva
vista dipinta come la grande meretrice
di Babilonia, per usare le parole di
Dominik.
Il luogo dell’incontro era un albergo
di una grande catena nella zona di
Gramercy Park.
L’ultimo
piano
dell’edificio sfiorava il cielo, con un
baldacchino di brillanti luci al neon e
una foresta di finestrelle piccole come
quelle di una casa di bambole affacciate
sulla notte. Mi diede l’impressione di
una cupa fortezza. Una fortezza o una
segreta? Oddio, sembrava che non
riuscissi a pensare ad altro.
Il portiere di notte si tolse il cappello
in segno di saluto mentre noi entravamo
nella hall e ci dirigevamo verso gli
ascensori. Ne prendemmo uno sulla
sinistra che portava direttamente
all’attico. Non era accessibile al
pubblico e per usarlo era necessaria una
chiave, che Victor estrasse da una tasca.
Salimmo in un silenzio teso.
Le porte dell’ascensore si aprirono
su un gigantesco atrio dove c’era solo un
grande sedile di pelle sul quale gli
ospiti avevano appoggiato soprabiti e
borse. Mi tolsi il golf e lasciai con
riluttanza la custodia del violino. Da lì
passammo in un’enorme stanza con
finestre panoramiche da cui si vedeva lo
splendido spettacolo di Manhattan
illuminata. C’era un sacco di gente, che
si aggirava con un drink in mano. In un
angolo c’era una piccola area
soprelevata, una specie di palco, e alla
sua sinistra una serie di porte che senza
dubbio immettevano nelle altre stanze
della suite.
Stavo per dirigermi verso il piccolo
bar ben fornito di bottiglie, bicchieri e
secchielli del ghiaccio quando Victor mi
fermò.
«Non devi bere, Summer. Voglio che
tu sia al tuo meglio» disse.
Feci per protestare – mi credeva
forse un’ubriacona? – ma proprio in
quel momento uno sconosciuto con uno
smoking che lo faceva sembrare più un
cameriere che un uomo elegante si
avvicinò e strinse calorosamente la
mano a Victor.
Mi squadrò dalla testa ai piedi e,
come se io non esistessi, commentò:
«Molto carina, mio caro Victor.
Davvero molto carina. Una schiava
bellissima».
Il mio primo impulso fu di sferrargli
un calcio, ma mi trattenni. Era così che
mi aveva presentata Victor? Non ero e
non sarei mai stata una schiava. Ero io,
Summer Zahova, una persona con una
mente propria, una sottomessa, non una
schiava. L’idea in sé non mi creava
problemi. Sapevo che c’erano uomini e
donne disposti a darsi totalmente in quel
modo, ma non era il mio caso.
Victor sorrise all’uomo, chiaramente
compiaciuto. Il bastardo. Mi diede un
colpetto sul sedere con disgustosa
condiscendenza. «Vero? Non è uno
schianto?»
Entrambi mi trattavano alla stregua di
un oggetto d’arredamento.
«Spunterà un buon prezzo» disse uno
dei due, ma io ero talmente ottenebrata
che non capii chi avesse pronunciato
quelle parole.
Sentii Victor afferrarmi per un polso.
Mi si snebbiò il cervello e lo guardai in
faccia.
«Farai quello che ti si dice, Summer.
Intesi? So che dentro di te sei
combattuta, e lo capisco perfettamente.
Ma so anche che sei in conflitto con la
tua natura e che un giorno verrai a patti
con essa. Il desiderio di essere esibita,
di essere prostituita pubblicamente, è
parte di te. Ti fa sentire viva, ti permette
di fare esperienze che non hai mai fatto
prima. La tua resistenza deriva solo da
antiquate
regole
sociali,
dall’educazione. Tu sei nata per servire.
Ed è quando lo fai che esprimi il
massimo della tua bellezza. Tutto quello
che voglio è portare allo scoperto questa
bellezza, vederti fiorire, vederti
assumere la tua condizione.»
Le parole di Victor erano
profondamente inquietanti, ma avevano
un fondo di verità che non potevo
negare. Nei momenti di eccesso il mio
corpo mi tradiva. La droga della
sottomissione esercitava un richiamo
potente ed era come se comparisse la
vera Summer, sfrenata, spudorata,
svergognata, una parte di me di cui
godevo ma che mi faceva paura,
portandomi a temere che un giorno mi
sarei spinta troppo in là, che il fascino
del pericolo sarebbe diventato più forte
dello spirito di autoconservazione. La
mia metà animalesca anelava all’oblio
sessuale, mentre la metà razionale
dubitava dei motivi che stavano dietro a
ciò. Si dice spesso che la maggior parte
degli uomini ragiona con l’uccello; nel
mio caso, ero guidata dall’insaziabilità
della mia fica, anche se paradossalmente
quella brama era in parte mentale. Ciò
di cui avevo bisogno era non tanto un
uomo, o più uomini, che mi
possedessero e mi usassero, quanto
piuttosto il nirvana che raggiungevo
quando mi abbandonavo al sesso senza
senso, degradandomi e umiliandomi, e
che mi faceva sentire più viva di
qualunque altra cosa. Forse mi sarei
dovuta dedicare al free climbing.
Ero
consapevole
delle
mie
contraddizioni, le accettavo, ma il fatto
di accettarle non rendeva affatto le cose
più facili.
Mentre mi si snebbiava la mente, si
udì un bisbigliare nella stanza, parole
non dette che annunciavano che il
momento era arrivato.
Scortata dallo sconosciuto in smoking
e da Victor fui condotta al piccolo palco
dall’altra parte della sala, dove mi
spogliarono velocemente. Ricordo di
aver pensato quanto dovessi apparire
goffa mentre mi toglievano gli assai
poco attraenti collant, ma accadde tutto
così in fretta che non ebbi modo di
protestare.
Lo sconosciuto, che era il maestro di
cerimonie di quella bizzarra serata,
agitò le braccia con un gesto ostentato e
annunciò: «Questa è la schiava Summer,
proprietà del padrone Victor. Sarete
d’accordo, ne sono certo, che si tratta di
uno splendido esemplare. Carnagione
pallida» mi indicò «e un culo
squisitamente tornito». Mi fece cenno di
girarmi e mostrare il sedere agli astanti.
Si udirono respiri profondi. Avevo già
nuovi ammiratori.
Un colpetto sulla spalla mi indicò che
dovevo girarmi di nuovo verso il
pubblico. La maggior parte erano
uomini, ma si vedevano anche alcune
donne che indossavano abiti da sera
ricercati. Sembravano tutte normali;
evidentemente quella sera non c’erano
altre schiave.
Il maestro di cerimonie mi passò una
mano sul seno sinistro e lo sollevò,
mostrandolo, esibendone la forma.
«Piccolo, ma a suo modo voluttuoso»
disse, abbassando la mano per rimarcare
come la mia vita sottile accentuasse le
curve del seno e del culo.
«Un meraviglioso corpo come quelli
di una volta… o forse dovrei definirlo
“classico”?»
Deglutii a vuoto.
L’uomo mi risparmiò di arrossire,
evitando di descrivere la mia fica
adesso impeccabilmente depilata. Il
pubblico poteva comunque vederla e in
quella situazione le parole di elogio non
avrebbero fatto alcuna differenza.
«Un esemplare straordinario, i nostri
complimenti al padrone Victor, che
ancora una volta ci fornisce un corpo
perfetto e notevole per singolarità. Mi
hanno informato che non è stato ancora
violato come si deve, il che dovrebbe
costituire un ulteriore elemento di
fascino.»
“Violato?” Oh, cazzo, ma che cosa
aveva in mente?
Dietro di me, una mano guizzò tra le
mie gambe costringendomi ad allargarle.
Era Victor. Riconoscevo il suo tocco.
Adesso ero completamente in mostra
e sentivo addosso lo sguardo di almeno
una ventina di uomini che mi
esaminavano,
soppesandomi
e
godendosi la mia assoluta vulnerabilità.
“Oh, Dominik, che cos’hai creato?”
Ma sapevo che quella creatura
esisteva già prima: lui l’aveva percepita
e l’aveva portata in vita. Aveva portato
in vita me.
La mia mente era attraversata da
pensieri frenetici.
In preda allo stordimento, seguii
l’“asta” come una semplice spettatrice.
Nella mia testa si susseguivano
immagini di brutti film visti un secolo
prima, di romanzi sul sadomasochismo
che mi avevano solleticato la fantasia,
spingendomi a raffigurarmi in qualche
mercato arabo o africano, con vortici di
sabbia che si levavano tutt’intorno,
mentre mercanti di schiavi tarchiati e
dalla pelle scura reclamizzavano la mia
merce, mani che mi tastavano, dita che
mi tenevano aperta a forza perché gli
astanti vedessero il mio interno rosa in
contrasto con il pallore della
carnagione. Forse in quei sogni a occhi
aperti indossavo un velo, e forse no, ma
all’orizzonte di quelle fantasticherie ero
sempre
più
nuda
del
nudo,
tremendamente esposta, con le parti
intime offerte agli occhi di tutti. Oppure
ero trascinata dentro una gabbia di
bambù sul ponte di una nave corsara,
vittima di un rapimento sui mari e in
procinto di essere comprata da qualche
principe orientale per il suo svago,
destinata al suo affollato harem. Era
questo che significava diventare una
schiava?
Le offerte partirono da cinquecento
dollari. Fu una donna a cominciare. Non
ero sicura di poter servire una donna.
Avevo fantasticato su Lauralynn, è vero,
ma da ciò che avevo visto fino a quel
momento preferivo la dominazione
maschile.
Ben presto intervenne un coro di voci
maschili e le offerte si susseguirono
rapidamente. Ogni volta che qualcuno
rilanciava, i miei occhi guizzavano tra la
folla nel tentativo di distinguere la
faccia di chi offriva una cifra per me, ma
l’azione era troppo veloce e il pubblico
si trasformò in una giungla di voci e
lineamenti sconosciuti.
Finalmente, la battaglia tra i due che
rilanciavano più spesso terminò e le
voci si zittirono. Il vincitore sembrava
davvero un mercante arabo, comunque
orientale. Indossava un abito antiquato,
anche se di ottimo taglio, e portava gli
occhiali. Era stempiato, tarchiato e la
piega delle sue labbra tradiva una vena
di crudeltà.
Il mio nuovo padrone?
Perché mai Victor avrebbe voluto
cedermi a lui? Di certo non per i soldi.
Aveva offerto solo duemilacinquecento
dollari. Una somma lusinghiera, niente
da dire, ma ben lungi dal rappresentare
il reale valore di una donna.
Victor tirò fuori un collare e me lo
mise. «È tutta tua per la prossima ora»
disse poi al fortunato vincitore.
Allora era una transazione solo
temporanea, un fatto eccezionale. Alla
fine sarei tornata nelle mani di Victor.
Un’altra mossa del gioco a cui stavamo
giocando, mentre esploravamo le nostre
tenebre.
L’uomo che aveva fatto l’offerta più
alta mi prese per mano, impossessandosi
del suo trofeo, e mi guidò verso una
porta. Entrammo in una grande stanza.
Lui mi spinse sul letto, si chiuse l’uscio
alle spalle e cominciò a spogliarsi.
Mi scopò.
Mi usò.
E quando ebbe finito uscì dalla stanza
senza una parola, lasciandomi aperta,
inebetita dall’implacabile martellamento
che mi aveva appena inflitto,
ignorandomi totalmente.
Trattenni il fiato.
Abbandonata come una bambola di
stracci in una casa giocattolo.
Udivo i rumori attutiti della festa
privata che si svolgeva al di là della
porta, il tintinnio dei bicchieri, il brusio
delle conversazioni. Parlavano forse di
me, discutendo la mia performance,
come mi ero classificata?
Era finita? Oppure nella stanza
sarebbe entrato un altro sconosciuto per
prendere il testimone del gioco a premi
“scopa la nuova schiava”?
Ma non successe niente.
Provai un’ondata di sollievo mista a
un’inspiegabile
delusione.
Avevo
raggiunto un’altra tappa nella mia
personale
esplorazione
della
perversione.
Ero
ancora
lì,
insoddisfatta, relativamente intatta, tutto
considerato. Quanto in là mi sarei spinta
prima di averne abbastanza?
Entrò Victor. Non si complimentò
con me né commentò quello che era
successo.
«Alzati» mi disse, e io obbedii
docilmente. Non avevo voglia di
mettermi a discutere con lui.
Teneva in mano il rossetto che aveva
preso dalla mia borsa. Mi si avvicinò
brandendolo come una specie di arma
inoffensiva.
«Stai dritta» mi ordinò e io percepii
il suo alito caldo sulla pelle nuda.
Cominciò a scrivermi sul corpo.
Tentai di dare un’occhiata in basso,
ma lui fece un verso di disapprovazione
come se non fosse affar mio.
Il rossetto danzava sulla parte
anteriore del mio corpo; poi Victor mi
fece girare e continuò a tracciare i suoi
geroglifici, qualunque cosa fossero,
sulla curva del mio sedere.
Quando ebbe terminato, fece un passo
indietro per ammirare la sua opera, tirò
fuori una piccola macchina fotografica
digitale dalla tasca della giacca e si
mise a scattare foto. Il risultato sembrò
piacergli. Mi condusse verso la porta,
facendomi capire che dovevo tornare in
mezzo agli ospiti. Mi sentivo debole,
prosciugata dall’assalto che avevo
appena subito, senza alcuna voglia di
discutere.
Mentre entravo nella grande sala con
le gigantesche vetrate sulle luci di
Manhattan vidi la gente girarsi e
fissarmi sorridendo, con lascivi sguardi
di apprezzamento. Non sapevo cosa
fare. Continuare a camminare? In quale
direzione? Rimanere immobile?
La mano di Victor sulla spalla mi
bloccò.
Quando tutti i presenti ebbero visto le
iscrizioni sul mio corpo, lui disse: «Puoi
vestirti. Per stasera abbiamo finito».
Mi infilai l’abito nero e, frastornata
com’ero, per poco non mi dimenticai del
violino.
Fuori dall’albergo Victor fermò un
taxi, mi ci spinse dentro e diede
all’autista il mio indirizzo. Non salì con
me, limitandosi a dire: «Ti chiamo.
Tieniti pronta».
La prima cosa che feci una volta
arrivata a casa fu spogliarmi e
guardarmi nello specchio a figura intera
del bagno. Per fortuna non c’era in giro
nessuno dei miei coinquilini.
Le grosse lettere rosse mi segnavano
la pelle come un marchio d’infamia.
Sull’addome c’era scritto TROIA, sui
genitali SCHIAVA e dietro, a caratteri
cubitali che riuscii a decifrare solo con
fatica a causa della posizione,
PROPRIETÀ DEL PADRONE.
Mi sentii male.
Mi ci sarebbero voluti tre giorni di
docce, bagni e vigorosi sfregamenti per
sentirmi di nuovo pulita.
Victor mi chiamò la mattina dopo.
«Ti è piaciuto, vero?»
Gli risposi di no.
«Dici così, Summer, ma posso
assicurarti che la tua espressione ti
smentiva. E anche il modo in cui
reagisce sempre il tuo corpo.»
«Io…»
tentai
di
protestare
debolmente.
«Sei fatta per questo» mi interruppe
Victor «e ce la spasseremo alla grande.
Ti addestrerò. Sarai perfetta.»
Un fiotto di bile mi salì in gola.
Provai la terribile sensazione di essere
su un treno in corsa, incapace di
cambiarne la destinazione, incatenata
alle ruote sferraglianti mentre il
convoglio sfrecciava sui binari.
«E la prossima volta» riuscivo a
percepire il gusto che Victor provava
nel pronunciare queste parole «lo
renderemo ufficiale. Ti registreremo.»
«Registrarmi?» indagai.
«Esiste un registro degli schiavi. Non
preoccuparti… solo le persone del giro
sapranno che sei tu. Ti verranno
assegnati un numero e un nome. Sarà il
nostro segreto. Pensavo a Schiava
Elena. Suona bene.»
«E questo che cosa implica?» Ero
combattuta tra l’indignazione e la
curiosità.
«Implica che accetterai pienamente di
essere di mia proprietà, di portare in
permanenza il mio collare.»
«Non sono sicura di essere pronta»
dissi.
«Oh, sì che lo sei» continuò lui.
«Potrai scegliere tra un anello o un
tatuaggio nelle parti più intime, con il
tuo numero o codice a barre, che indica
la tua condizione e appartenenza.
Naturalmente, potrà vederlo solo chi fa
parte del giro.»
Mentre lo ascoltavo, provai un misto
di vergogna ed eccitazione. Figurarsi se
nel Ventunesimo secolo potevano
succedere cose del genere!
Eppure la tentazione era forte: mi
stava già solleticando i sensi e
l’immaginazione, smorzata solo dalla
dura e realistica consapevolezza che
avrei perso la preziosa indipendenza
faticosamente conquistata negli anni.
«Quando?» chiesi.
Victor gongolò. Mi leggeva come un
libro aperto. «Te lo farò sapere.»
Chiuse la telefonata, lasciandomi in
sospeso.
Crollai sul letto. Non c’erano prove
per una settimana. Un sacco di tempo da
ingannare, un sacco di tempo per
pensare. Cercai di leggere, ma le parole
di qualsiasi libro prendessi in mano si
sfocavano ed ero incapace di
concentrarmi sulla trama.
Né arrivò il sonno a darmi tregua
dalla tempesta che infuriava dentro di
me.
Aspettai la telefonata di Victor per due
giorni. Per passare il tempo, passeggiai
per il Greenwich Village e cercai di
distrarmi facendo shopping e andando a
vedere stupidi film d’azione nella
speranza di tenere la mente occupata, ma
la chiamata non arrivava. Era evidente
che lui mi stava tenendo sulla corda di
proposito, per essere sicuro che, quando
finalmente si sarebbe fatto vivo, io sarei
stata consumata dal desiderio. Ogni
volta che mi sedevo davanti allo
schermo di un cinema, mettevo il
telefono in vibrazione nella speranza di
ricevere notizie durante il film, ma
invano.
Cominciavo ad aver paura dei miei
stessi
pensieri,
spaventata
dall’inevitabilità della strada che avevo
imboccato. Poi, alle tre di un tiepido
mattino, con le finestre spalancate su
New York e il suono regolare delle
sirene delle ambulanze e della polizia in
sottofondo, mi venne un’idea.
Un’ultima scommessa.
Mettere la decisione nelle mani di un
altro.
Londra era avanti di cinque ore, per
cui avrei potuto ragionevolmente fare
una telefonata.
Chiamai Chris, sperando che non
avesse il cellulare spento e non fosse
impegnato nelle prove per un concerto a
Camden Town o a Hoxton.
Il telefono squillò a vuoto per
un’eternità. Stavo per riagganciare,
quando lui finalmente rispose.
«Ciao, Chris!»
«Ciao, tesoro. Sei tornata?»
«No, sono ancora nella Grande
Mela.»
«Come stai?»
«Ho i nervi a pezzi» confessai.
«Le cose non vanno un po’ meglio?»
«No. Forse vanno addirittura peggio.
Mi conosci: a volte sono io stessa il mio
peggior nemico.»
«Lo so.» Ci fu un attimo di silenzio.
«Summer? Torna a Londra. Molla tutto e
parti. Ti aiuterò, se ne avrai bisogno, lo
sai.»
«Non posso.»
«E quindi?»
Esitai, ripetendomi in silenzio ogni
singola parola con la lingua riarsa, e poi
mi buttai. «Posso chiederti un grosso
favore?»
«Certo. Qualunque cosa.»
«Puoi contattare Dominik? Dirgli
dove sono?»
«Tutto qui?»
«Tutto qui.»
Un lancio di dadi. Dominik avrebbe
risposto?
12
Un uomo e la sua malinconia
Scopavano regolarmente, in modo
frettoloso.
Dominik aveva una forte carica
sessuale, anche se all’occorrenza poteva
facilmente rinunciare ai piaceri carnali
per concentrarsi su altri obiettivi: dai
progetti di ricerca ai vari impegni
letterari a cui partecipava con
regolarità.
Dopo la partenza di Summer aveva
pochissimo altro con cui occupare le
giornate. Le sue lezioni si svolgevano
secondo uno schema collaudato, anche
se lui stava attento a variare il materiale
per tener viva l’attenzione. Aveva
parecchi appunti già pronti e
un’intelligenza abbastanza vivace da
consentirgli di prepararsi rapidamente.
Preferiva di gran lunga improvvisare su
qualunque argomento.
Le studentesse che aveva in quel
momento erano assai poco interessanti,
almeno per quanto riguardava eventuali
attività collaterali; nessuna lo attraeva in
quel modo. In realtà Dominik non
cercava una relazione con una
studentessa: era una cosa troppo
rischiosa. Lasciava quel genere di
avventure a docenti con meno scrupoli,
come Victor, il quale era scomparso
dall’università per accettare un incarico
a New York. Però era pur sempre un
uomo e, anche se non avrebbe preso
alcuna iniziativa – perlomeno fino alla
fine dei corsi – non poteva fare a meno
di notare le ragazze che gli sorridevano
con fare invitante quando incrociavano
il suo sguardo.
Dominik aveva immaginato un
periodo di astensione sessuale, una
proverbiale “magra”, per compensare
l’improvvisa partenza di Summer, e in
un certo senso l’aveva pregustato, ci si
era crogiolato, aspettando con ansia le
sere di solitudine per mettersi in pari
con il materiale da leggere, una nuova
serie di libri che erano sembrati molto
promettenti quando erano arrivati per
posta poche settimane prima, ma che
erano rimasti a prendere polvere mentre
lui si dedicava completamente a
escogitare nuove scene per Summer.
Poi era arrivata Charlotte, che si era
presentata a una delle sue lezioni serali
al City Lit, il centro di formazione per
adulti. Dominik non aveva creduto
nemmeno per un attimo che fosse
capitata nella sua classe per caso, dopo
essersi scoperta un improvviso e
travolgente interesse per la letteratura
del primo Novecento. Sapeva che lei lo
aveva seguito, senza dubbio ferita
nell’orgoglio per lo scarso entusiasmo
che lui aveva dimostrato nei suoi
confronti la sera in cui aveva depilato
Summer. Il fatto che Charlotte fosse
arrivata al punto di procurarsi e leggere
uno dei suoi libri lo aveva stupito, ma
non lusingato. Capiva benissimo che lei
voleva qualcosa e stava facendo di tutto
per averlo.
Alla fine avevano avuto una storia,
limitandosi semplicemente a seguire i
loro appetiti sessuali. Non avevano mai
formalizzato verbalmente la loro
relazione. Talvolta Dominik si chiedeva
che cosa lei volesse da lui. Non denaro:
ne aveva più che a sufficienza. Non
sesso: sapeva che continuava a vedere
Jasper di tanto in tanto e, sospettava,
anche altri uomini con regolarità. La
cosa lo lasciava del tutto indifferente.
Aveva quasi l’impressione che Charlotte
volesse solo indispettirlo, provocarlo,
per essere sicura che non dimenticasse
Summer.
Notò che aveva cominciato a
depilarsi i genitali, per cui ogni volta
che la vedeva nuda ripensava
immediatamente a Summer appena
rasata, a quel rituale che, quando lo
aveva ideato, gli era sembrato perfetto,
il crescendo conclusivo della loro
orchestra di lussuria, un atto di
depravazione che chissà come gli era
sfuggito di mano, facendo sì che la sua
fantasia si ritorcesse contro di lui e si
trasformasse in un evento che li aveva
divisi invece di unirli.
Era per questo che scopava Charlotte
in modo più violento. La prendeva ogni
volta che ne aveva voglia: lei, del resto,
era sempre consenziente e sembrava
trarne piacere. Indulgeva raramente al
cunnilingus, anche se si trattava di una
pratica che di solito gli piaceva.
Avrebbe potuto leccare la fica di
Summer per giorni, finché lei non lo
avesse implorato di smettere, ma non
toccava Charlotte con la lingua e non
intendeva cambiare idea. Lei non ne
parlava mai e continuava a fargli
pompini con stupefacente regolarità.
Talvolta, solo per farle dispetto,
tratteneva l’orgasmo, mentre lei lo
succhiava fino a farsi dolere la
mascella, troppo orgogliosa per
rinunciare, per ammettere di non essere
riuscita a far godere un uomo con la
bocca.
Charlotte era abbastanza attraente,
ma, sebbene il suo uccello rispondesse
prontamente alla presenza fisica di lei,
la sua mente rimaneva indifferente.
Dominik la trovava insulsa, una specie
di bambola, senza nulla di originale, di
unico o sorprendente. Era come se non
avesse
personalità.
Forse
tutto
dipendeva dal fatto che lui era attratto
da donne più complesse. Il suo profumo
di cannella, poi, gli faceva venire il mal
di testa.
Dominik sospirò. Non avrebbe
dovuto essere così crudele. Non era
colpa di Charlotte se non era Summer,
se i loro gusti sessuali non si
armonizzavano del tutto. Se lei aveva
fatto scattare la scintilla che aveva dato
il via alla loro relazione, lui si era
lasciato coinvolgere, per cui era parte in
causa tanto quanto lei.
Charlotte si girò, sospirando piano
nel sonno e rannicchiandosi contro di
lui, il sedere contro il suo inguine.
Dominik provò un moto d’affetto.
L’unico momento in cui Charlotte
sembrava davvero autentica, priva di
malizia, era quando dormiva. La
circondò con un braccio e scivolò in un
sonno inquieto.
Era ossessionato dai sogni più perversi.
In tutti c’era Summer, in molti c’erano
Jasper o altri uomini senza volto che la
scopavano, i genitali oscenamente
esposti, l’asta dell’uccello di uno
sconosciuto che la montava, il viso di
lei un ritratto dell’estasi, il corpo scosso
dall’orgasmo, mentre lui assisteva
inerme, escluso, messo da parte,
consumato dalla gelosia. Talvolta se la
immaginava mentre veniva scopata da
una legione di uomini, uno dopo l’altro,
ciascuno che la riempiva del suo seme
mentre lui se ne stava in disparte,
impotente e dimenticato.
La mattina dopo questi sogni si
chiedeva immancabilmente dove fosse
Summer e fino a che punto stesse
perseguendo i propri desideri senza di
lui. Sapeva di essere stato lui a iniziare
tutto, a scoprire la ribollente pozza di
sottomissione, il profondo abisso di
tenebra che c’era dentro di lei.
Gli mancavano le mail e i vari SMS
con cui Summer lo informava delle sue
avventure. È vero, erano stati un modo
per domare la propria gelosia – non la
possedeva, anche se avrebbe voluto –
ma anche per tenerla d’occhio mentre lei
esplorava la sua nuova natura. Per
assicurarsi che avesse il controllo delle
situazioni in cui si lasciava andare, che
non si spingesse troppo in là.
Fin dove sarebbe arrivata? si
chiedeva. Avrebbe mai tracciato una
linea sulla sabbia? E dov’era questa
linea?
Fu dopo uno di questi sogni, un
giorno in cui era particolarmente
turbato, che Charlotte gli diede addosso.
«Non progetti mai scene per me» gli
disse. «Nessun concerto nuda, nessuna
scopata davanti a spettatori, né corde, né
esibizioni in pubblico. Non facciamo
mai niente.»
Aveva ragione. Non aveva mai fatto
nessuna di quelle cose con Charlotte, ma
solo perché lei non gliele ispirava, al
contrario di Kathryn o di Summer.
Si strinse nelle spalle. «Che cosa
vuoi che faccia?»
Lei si infuriò. «Qualunque cosa!
Qualunque cosa che non sia scoparmi e
basta. Che razza di dominatore sei?»
Mentre parlava spruzzava goccioline di
saliva. Dominik guardava la sua bocca
muoversi con uno strano distacco,
ricordando un documentario sulla natura
che aveva visto recentemente, in cui
c’era un animale con una cavità orale
gigantesca. Gli aveva fatto venire in
mente Charlotte.
Lei lo attaccava spesso, infiammata
dall’evidente disinteresse di lui. Tutte le
volte che Charlotte perdeva la sua
preziosa compostezza Dominik sentiva il
brivido di trionfo che nasce da una
battaglia vinta. Alla fine aveva accettato
di andare con lei in un club di scambisti,
anche per la curiosità di vedere come
fosse un locale del genere. Non aveva
mai trovato la persona giusta con cui
andarci (tranne una volta a New York,
anni prima, quando lo scambismo era
ancora una novità): o la ragazza era
troppo puritana e si sarebbe ritratta con
ripugnanza davanti a un’idea simile o i
suoi sentimenti romantici per lei gli
rendevano insopportabile il pensiero di
cederla a un altro uomo. Forse Charlotte
era la persona giusta con cui partecipare
a una serata di scambisti.
E poi la prospettiva di avere rapporti
sessuali in pubblico avrebbe distratto
Charlotte dall’idea fissa di essere
dominata da Dominik. Lui non provava
quel genere di inclinazione verso di lei,
né aveva alcun desiderio di sculacciarla
o di piegarla alla sua volontà. Charlotte
era
un’edonista,
una
giocatrice
d’azzardo; le piaceva provare qualunque
cosa le capitasse a tiro, solo per il gusto
di farlo. Stava soddisfacendo un
capriccio, non si stava sottomettendo a
lui, e la cosa non ispirava Dominik.
Charlotte non lo turbava come lo aveva
turbato Summer.
Il club era in un centro industriale nella
zona sud di Londra, nascosto tra una
serie di fabbriche secondarie e di vecchi
palazzi di uffici. Aveva un’insegna
sobria,
l’unica
luce
all’esterno
dell’edificio, eccetto i fari dei rari taxi
che andavano e venivano per portare o
prendere i clienti. Furono accolti sulla
porta dal direttore del locale, un tipo
dall’aria affettata che indossava un abito
completo di cravatta nonostante la
temperatura soffocante del piccolo atrio.
Sembrò
apprezzare
Charlotte,
squadrandola da capo a piedi come
fosse un cavallo da corsa, mentre lanciò
a Dominik un’occhiata distratta,
limitandosi a tollerarne la presenza.
Dominik pagò la cifra esorbitante del
biglietto d’ingresso e declinò l’offerta di
una tessera annuale, che tra l’altro gli
avrebbe dato diritto a uno sconto sui
biglietti per una crociera nel
Mediterraneo riservata alle coppie in
programma per l’anno successivo. Tanto
lui soffriva il mal di mare.
Non riusciva a pensare a una
prospettiva più terrificante di una
settimana a bordo di una nave in una
situazione del genere, senza nessuna via
di fuga se non gettarsi in mare.
Un’eventualità che avrebbe anche potuto
prendere in considerazione, pensò,
mentre un altro uomo vestito in modo
identico al primo prendeva loro i
soprabiti e i cellulari. Dominik stava per
obiettare che avrebbe avuto bisogno del
suo telefono più tardi per chiamare un
taxi, quando l’uomo indicò con la mano
un cartello che vietava l’uso di
apparecchi
dotati
di
macchina
fotografica.
Furono scortati all’interno del club e
presentati a Suzanne, una hostess che
promise di mostrar loro il posto e
aiutarli a sentirsi a loro agio.
«Benvenuti!» disse con un’allegria
che pareva spontanea.
Charlotte rispose al saluto con
entusiasmo, mentre Dominik si limitò ad
annuire.
Suzanne era giovane, poco più che
ventenne, immaginò lui. Era bassa e un
po’ in carne. Sfortunatamente l’uniforme
non le donava affatto: il corto top rosa e
la minigonna stile tutù non contribuivano
certo a migliorare il suo aspetto.
«È la prima volta, ragazzi?»
continuò, incerta se rivolgersi a Dominik
o a Charlotte. Nella maggior parte delle
situazioni come quella, suppose lui,
doveva emergere piuttosto chiaramente
quale dei due membri della coppia era
l’elemento trainante. Forse nel loro caso
non era così.
«Sì»
rispose
Charlotte
tranquillamente,
salvando
Suzanne
dall’imbarazzo. «Non vediamo l’ora.»
La hostess indicò con la mano paffuta
il bar al livello inferiore, dove
avrebbero potuto prendere qualcosa da
bere. Poi li accompagnò al piano
superiore, dove c’erano un altro bar più
piccolo e un’“area giochi”, un labirinto
di corridoi bui con una serie di stanze di
varie
dimensioni. Alcune
erano
chiaramente destinate alle orge, dal
momento che potevano ospitare venti
persone. Altre assomigliavano piuttosto
a piccoli séparé, per due o tre coppie al
massimo. La maggior parte delle stanze
erano aperte, per cui chiunque avrebbe
potuto guardare o unirsi, ma un paio di
quelle più piccole erano provviste di
una porta con la serratura, per consentire
a una coppia in cerca di tranquillità di
chiudersi dentro.
Suzanne descrisse le caratteristiche
di tutte le stanze, senza alcun imbarazzo.
Non sembrava affatto a disagio né per
l’uniforme che indossava né per il ruolo
che aveva al club.
Dominik lasciò vagare lo sguardo nel
locale, notando i pali nella zona del bar,
che invitavano i clienti a ballare come
spogliarellisti improvvisati dopo aver
bevuto la giusta quantità di alcol. Si
augurò che lo facessero solo le donne.
Una serie di divani delimitavano una
zona salotto accanto al bar e in un
angolo, appesa al soffitto, c’era
un’attrezzatura che assomigliava a
un’altalena, fatta di una larga rete che
permetteva di girare intorno al corpo di
chi vi stava dentro, che era saldamente
legato mani e piedi, incapace di
liberarsi.
Ovunque c’erano ciotole trasparenti
piene di preservativi in confezioni
colorate; ce n’erano abbastanza per un
mese di scopate in un club pieno di
gente, pensò Dominik. Davano al locale
un aspetto stranamente allegro, come
vasi di caramelle nello studio di un
medico.
Accanto alle stanze c’era una sottile
cortina nera fissata al soffitto che
ricadeva fino a terra, con un’apertura su
un lato in modo da formare una tenda di
fortuna. Era piena di buchi, alcuni delle
dimensioni di un occhio, altri di un
pugno, in modo che gli spettatori
potessero guardare all’interno oppure
allungare un braccio e afferrare
qualunque cosa fosse a portata di mano.
Dominik spiò all’interno. Non c’era
nessuno.
«È sempre così tranquillo fino a
mezzanotte» disse Suzanne in tono di
scuse «ma poi l’ambiente si scalda. Tra
un’oretta ci sarà parecchio movimento.»
Dominik represse una smorfia.
Non aveva mai capito che cosa ci
fosse di tanto eccitante nel guardare la
gente che scopava in pubblico, e il
pensiero di tutto quel sesso senza senso
gli fece venire in mente Jasper e
Summer, un’immagine che non riusciva a
togliersi dalla testa.
La sua personale inclinazione
voyeuristica richiedeva un legame con
l’oggetto dell’osservazione, un contratto
non scritto, un accordo che permetteva o
invitava a guardare. Senza alcuna
connessione con i partecipanti, lo
spettacolo non lo toccava più di un
documentario sull’accoppiamento degli
animali.
Charlotte, invece, aveva una visione
completamente diversa. A lei piaceva la
sensazione fisica del sesso in sé, godeva
nel mostrare la propria audacia e il
proprio fascino indulgendo in esibizioni
pubbliche e adorava dare spettacolo. Lo
scambismo era uno dei suoi passatempi
preferiti.
Aveva già cominciato a gironzolare
nella zona del bar, lanciando occhiate
alle poche persone intorno al bancone:
un ragazzo e una ragazza, che evitavano
qualunque contatto visivo se non quello
tra loro due, un uomo corpulento con una
polo e una cintura di finta pelle, che
sembrava solo e occhieggiava le hostess
con il tutù rosa, e una coppia indiana più
anziana, che aveva l’aria di venire al
club tutte le settimane.
Charlotte ordinò da bere per tutti e
due: un cocktail per sé e una Pepsi per
lui.
Dominik le si sedette accanto e
sorseggiò la bibita mentre lei attaccava
bottone con tutti quelli che si
avvicinavano.
Suzanne aveva ragione: il club stava
cominciando ad animarsi.
Fino a quel momento lui non aveva
notato nessuna che lo attraesse. C’erano
parecchie ragazze carine, ma erano
perlopiù vestite in modo assurdamente
volgare, con miniabiti sintetici, una
quantità eccessiva di trucco e
l’abbronzatura finta. Nessuna che lo
interessasse. Gli altri clienti erano
noiosi oppure repellenti.
«Hai intenzione di rimanertene seduto
qui?» gli sibilò Charlotte.
«Vai a divertirti» le rispose, del tutto
disinteressato. «Magari ti raggiungo più
tardi.»
Non se lo fece ripetere due volte. Si
dileguò in mezzo alla folla, facendo
balenare una visione delle sue natiche
mentre scivolava giù dallo sgabello, le
lunghe gambe abbronzate messe in
risalto dall’abitino bianco. Un paio di
uomini cominciarono subito a ronzarle
intorno, come mosche attratte dal miele.
Dominik non batté ciglio mentre lei
gli
lanciava
occhiate
malevole,
prendendo per mano prima un uomo e
poi l’altro. Nessuno dei due era un
granché. Uno era il tizio con la polo e la
cintura di finta pelle che stava al bar da
solo. L’altro era più giovane, ma
tendente alla pinguedine, con il doppio
mento e la pancia che strabordava dalla
camicia.
Charlotte li guidò verso l’altalena
nell’angolo e ci si arrampicò sopra,
sdraiandosi supina con le gambe aperte.
Non indossava le mutandine, per cui i
suoi genitali erano completamente
esposti.
Dominik si avvicinò, spinto più che
altro dalla curiosità.
I due uomini legarono Charlotte. Lei
si afferrò con le mani alle corde che
pendevano dal soffitto sopra la sua testa.
Era una partecipante più che
consenziente all’esperimento.
L’uomo con la polo si era slacciato
la cintura e aveva iniziato a toccarsi
l’uccello ancora flaccido. L’uomo
corpulento, con i pantaloni alle caviglie
e i lembi della camicia a coprirgli il
sedere, tirò fuori il membro eretto e,
aperta una delle confezioni colorate, si
infilò un preservativo, poi fece un passo
avanti, portandosi tra le lunghe gambe di
Charlotte e tirando verso di sé l’altalena
per poterla penetrare.
Dominik si avvicinò ulteriormente e
osservò il pene dell’uomo entrare nella
fica di Charlotte. Lei lo guardò,
l’espressione maliziosa sostituita dalla
lussuria, dal bisogno, un bisogno più
pressante di quello di dimostrare
qualcosa, di ferirlo.
Lo stava ferendo? Dominik immaginò
che fosse quella la sua intenzione, ma lui
si sentiva del tutto distaccato,
nient’affatto turbato da quella situazione.
Rimase a guardare mentre entrambi
gli uomini la riempivano, prima l’uno
poi l’altro, i cazzi che entravano e
uscivano, ricoperti delle secrezioni di
Charlotte. Sentì lei che gemeva forte
senza fare alcuno sforzo per nascondere
il piacere.
Si era radunata una folla; parecchi
uomini si erano slacciati i pantaloni e
stavano in piedi vicino a lei,
accarezzandosi i genitali. Alcuni si
avvicinarono per toccarla, facendo
guizzare le mani ovunque.
Dominik non fece alcun tentativo di
fermarli. Charlotte aveva le mani libere
e avrebbe potuto respingere da sola
qualunque attenzione non gradita;
inoltre, se avesse voluto, avrebbe potuto
gridare. Invece sembrava godere di
quelle attenzioni, con la bocca aperta e
un’espressione di desiderio lascivo sul
volto.
Lui cercò di immaginarsi Summer al
posto di Charlotte, mentre ignorava i
suoi desideri e si offriva alle mani di
quegli estranei, con le gambe spalancate
per farsi scopare da altri uomini.
Ricordò come si era data a Jasper, come
gliel’aveva preso in bocca e poi si era
inginocchiata sul divano con le gambe
aperte, come un animale pronto a essere
montato.
Perlomeno pensare a Summer gli fece
provare qualcosa, gli evitò quell’ottusa
assenza di consapevolezza, quel vuoto
indifferente che si impadroniva di lui
quando lei non c’era.
Dominik non rimase a guardare
Charlotte. Si fece largo tra gli spettatori
di quello spettacolo depravato e scese le
scale verso il bar sottostante, dove,
ignorando gli sforzi delle hostess di fare
conversazione e le attenzioni di donne
occasionali in cerca di una scopata
facile, aspettò che lei terminasse la sua
esibizione.
Alla fine Charlotte tornò a sedersi
accanto a lui. Mentre si issava sullo
sgabello, l’abito le risalì sulle cosce e
lei non fece niente per nascondere la
fica oscenamente nuda, gonfia, bagnata.
Anzi, allargò con noncuranza le gambe
perché lui potesse guardare meglio.
«Non c’è alcun bisogno di tutto
questo» disse Dominik, distogliendo lo
sguardo.
«Cazzo, che cosa c’è che non va?
Come pensavi che sarebbe stato?»
«Charlotte, non me ne importa niente
di chi scopi. Sei libera di fare quello
che ti pare. Pensavo che lo sapessi.»
«Però ti importava di chi scopava la
tua preziosa Summer.»
«Tu non sei Summer.»
«E nemmeno voglio esserlo! Quella
troietta smidollata. Non le importa di
niente se non del suo prezioso violino.
Ti stava usando per quello, giocava con
te. Non lo capisci? Credi che le
importasse di chi scopava? Che gliene
fregasse un cazzo di te?»
Dominik sentì un improvviso
desiderio di darle un ceffone, di
guardare il suo viso deformato dal
dolore, ma non aveva mai picchiato una
donna, e mai l’avrebbe fatto, non in quel
modo, almeno.
Si alzò e se ne andò a grandi passi.
Le scuse – o la cosa più vicina a esse
che Charlotte riuscisse a esprimere –
arrivarono il mattino dopo, per SMS.
“Vieni a trovarmi?”
Lui non le doveva molto più di
quello.
I termini del loro rapporto erano
chiari: si scopavano, si ferivano.
Summer era sempre al centro,
scomparsa dalla vita di entrambi ma
nondimeno presente; la sua assenza era
una ferita aperta che nessuno dei due
riusciva a smettere di toccare.
Dominik andò a trovarla.
La scopò ancora, più crudelmente che
mai. Chiuse gli occhi e immaginò che i
capelli di Charlotte fossero rossi
anziché castani, la sua vita più stretta e
le gambe più corte, la pelle color latte
anziché abbronzata, il sedere tornito;
immaginò che rabbrividisse al suo
tocco.
Sentì
l’uccello
crescere,
diventare ancora più duro dentro di lei
mentre pensava a Summer, e si riempì di
rabbia, perché Charlotte non era la
donna che lui avrebbe voluto che fosse.
Alzò una mano e la sculacciò con forza,
poi la colpì di nuovo, guardò la sua
pelle arrossarsi e continuò a colpirla.
Lei gli si strofinò contro in estasi,
offrendogli il culo per essere usata.
La guardò spingersi contro di lui e
ricordò quanto gli fosse sembrato
invitante l’ano di Summer, il modo in
cui lei aveva goduto la prima volta,
quando le aveva detto che avrebbe
voluto vederla masturbarsi il culo.
Rimpianse di non aver violato quel
territorio vergine di Summer prima che
lei scomparisse. L’aveva tenuto in
serbo, progettando di consacrarlo a un
rituale, esattamente come aveva
riservato a sé la depilazione della sua
fica.
Si piegò in avanti, sputò sull’ano di
Charlotte per lubrificarlo, spinse
delicatamente il pollice contro lo
sfintere e iniziò ad allargarlo,
stupendosi di quanto fosse stretto. Lei
sobbalzò in avanti, sottraendosi al suo
tocco, e poi, quando lui ebbe tolto la
mano, gli si avvicinò di nuovo, cercò il
suo uccello e se lo fece scivolare nella
fica umida.
Dominik rimase sorpreso. Nonostante
la sua sessualità disinibita, Charlotte
evidentemente non era una fan del sesso
anale.
La penetrò con un affondo violento e
si perse nei propri pensieri mentre lei si
muoveva per andargli incontro, poi la
sentì urlare mentre veniva.
Uscì da lei con cautela, si tolse il
preservativo e lo buttò via senza farsi
vedere, prima che lei si accorgesse che
era vuoto. Non aveva raggiunto
l’orgasmo.
Charlotte si rannicchiò pigramente
sul letto e Dominik rimase sdraiato
accanto a lei, accarezzandole la pelle
liscia.
«Non avevi mai fatto una cosa del
genere» gli disse, la voce vellutata,
ammorbidita dal piacere appena
raggiunto.
«No» ribatté lui, incapace di
aggiungere altro.
«Senti, non prendertela a male…»
«Non lo farò. Che cosa c’è?»
«Che genere di dominatore sei? Di
solito non sembri volermi… dominare.»
Dominik rifletté. «Non sono mai stato
un tipo da “scena”, con tutti i simboli e
gli stereotipi connessi» rispose. «Né mi
interessa in alcun modo provocare
dolore.» Notò i suoi glutei ancora
arrossati e aggiunse: «Di solito».
«Vorresti provare?» chiese lei.
«Fammi contenta.»
«Che cosa vuoi?» le chiese con una
punta di impazienza.
«La corda. Percosse. Sorprendimi.»
«Non credi che chiedere al tuo
dominatore di dominarti non sia molto
da sottomessa?»
Charlotte si strinse nelle spalle. «Ma
tanto tu non sei un vero dominatore,
no?» Adesso lo stava prendendo in giro.
«Va bene.»
«Va bene?»
«Avrai la tua scena.»
Dominik rifletté. Non aveva voglia di
fare del male a Charlotte. La stava
usando quanto lei usava lui. Né se la
sentiva di inscenare uno stupido atto di
dominazione che non gli apparteneva. La
loro relazione era diventata ridicola,
sordida, una parodia di se stessa, una
farsa di quello che aveva condiviso con
Summer.
Eppure, lei gli faceva pressione. E
lui avrebbe reagito.
Aspettò che Charlotte fosse sotto la
doccia, prima di frugare nella sua grossa
borsa firmata in cerca del cellulare.
Come aveva previsto, non aveva una
password. Charlotte era aperta in tutti i
sensi. Fece scorrere i messaggi di altri
uomini, indifferente. Una sequela di
“Ehi, piccola” o “Ciao, bellissima”.
Trovò il numero di Jasper, se lo
appuntò e, una volta a casa, gli telefonò.
«Pronto?»
«Jasper?» chiese Dominik.
«Sì?»
Il tono del ragazzo era esitante.
Dominik sorrise tra sé. Evidentemente
quello era il telefono di lavoro; forse si
stava chiedendo se stesse parlando con
un cliente maschio.
«Sono Dominik. Ci siamo incontrati a
una festa di recente. C’erano Charlotte, e
Summer.»
«Ah, sì.»
Dominik provò un attimo di
irritazione nell’udire la voce di Jasper
rianimarsi sentendo pronunciare il nome
di Summer.
«Cosa posso fare per te?»
«Ho in mente qualcosa di speciale
per Charlotte. Credo che le farebbe
piacere se partecipassi anche tu.
Naturalmente ti pagherò.»
«Ne sarei felice. Quando?»
«Domani?»
Sentì un fruscio di pagine. Jasper
stava controllando l’agenda.
«Sono libero, e non vedo l’ora.»
Dominik
discusse
i
dettagli
dell’accordo.
Poi mandò un SMS a Charlotte.
“Domani sera, da te. Tieniti pronta.”
“Oh, che bello” rispose lei. “Che
cosa devo mettermi?”
Dominik represse l’impulso di
rispondere: “Chi se ne frega”.
Poi, in un impeto di dolore e di
rabbia, decise di optare per il massimo
dell’umiliazione:
“Un’uniforme
scolastica” le scrisse.
Incontrò Jasper fuori dall’appartamento
di Charlotte e gli spiegò le regole
fondamentali. Al comando c’era
Dominik, su richiesta di Charlotte.
«Ehi, sei tu quello che paga» disse
Jasper. «Qualunque giochetto tu abbia in
mente per me va bene.»
In piedi fuori dalla porta, complici
dell’imminente
sottomissione
di
Charlotte, suonarono il campanello.
Dominik non aveva ancora invitato
Charlotte a casa sua. Non si sentiva a
proprio agio all’idea di averla lì.
Voleva tenersi a una certa distanza.
Lei venne ad aprire, con indosso una
minigonna scozzese, una camicetta
bianca, calze al ginocchio e scarpe nere
chiuse con il tacco basso. Aveva seguito
le sue istruzioni alla lettera, notò
Dominik osservando i capelli raccolti a
coda di cavallo e gli occhiali neri dalla
montatura spessa. Non se lo aspettava, e
si stupì della propria reazione. Gli stava
venendo dolorosamente duro. Forse non
sarebbe stato un compito tanto ingrato,
dopotutto.
Quando vide Jasper, Charlotte fece
un ampio sorriso, che il gigolò le restituì
con aria complice. “Come me e
Summer” pensò Dominik con una fitta.
«Salve, signori» li salutò Charlotte
pudica, con un leggero inchino.
«Siamo venuti a punirti» disse
Dominik «perché sei una ragazza
cattiva.» Fece una smorfia al suono
della propria voce, alla natura estranea
di quelle parole.
Lo sguardo di Charlotte fu
attraversato da un lampo di piacere.
Dominik entrò in casa, scivolò alle
sue spalle e le mise una mano alla base
della schiena. «Piegati in avanti» le
disse. «Mostrami il culo.»
Charlotte ridacchiò, obbedendo
prontamente.
Dominik le camminò intorno. Prima
che potesse scacciare il pensiero,
ricordò quando Summer era rimasta in
piedi davanti a lui nella cripta, piegata
in avanti, quasi riluttante, forse
spaventata, ma facendo quello che le era
stato detto, perché lui glielo aveva
chiesto. Perché si fosse sentita obbligata
a farlo, lui non lo sapeva. Forse la
motivazione che la muoveva non era poi
così diversa da quella che muoveva lui,
anche se di segno opposto: l’anelito alla
sottomissione che era in lei attraeva
come una calamita la potente vena
dominatrice che viveva in lui.
Charlotte iniziò ad agitarsi. A
differenza di Summer, che era rimasta
immobile come una statua, incapace di
muoversi dopo essersi offerta, Charlotte
recitava un ruolo ed era a disagio,
impaziente di assistere alla mossa
successiva di quel gioco assurdo. A
Dominik venne una mezza idea di
sedersi, limitandosi a guardare Jasper
che la scopava. Tra l’altro quella pareva
essere l’unica cosa che lei voleva
davvero.
Ma no. Aveva chiesto di essere
dominata, e quello avrebbe avuto.
Le infilò un dito sotto le mutandine,
abbassandogliele con un movimento
brusco. In genere Charlotte non portava
biancheria intima, ma per l’occasione
indossava un paio di semplici mutandine
bianche di cotone. Parte integrante della
recita.
«Allarga le gambe.»
Lei lo fece, tentando poi di
raddrizzarsi, cosa che Dominik non le
permise. Tutte le volte che cercava di
rimettersi dritta, per alleviare la
posizione scomoda, lui la teneva giù
premendole la mano sulla base della
schiena.
Fece un cenno a Jasper. «Scopala.
Adesso. Niente preliminari. Non
perdere tempo. Fallo e basta.»
Guardò il giovane che liberava la sua
imponente erezione e si metteva un
preservativo.
Lei sospirò di piacere, non appena
sentì il grosso pene di Jasper che le
entrava dentro.
Dominik si allontanò un attimo per
cercare del lubrificante nella camera da
letto di Charlotte. Lo trovò. Alla
cannella. Tipico.
Tornò in salotto e vide che Jasper
aveva fatto spostare Charlotte sul
divano, in modo che potesse appoggiarsi
ai cuscini. Riportò entrambi al centro
della stanza. Charlotte mugolò. Di
dolore? Dominik scoprì che gli era
venuto duro a quel pensiero. Si versò un
po’ di lubrificante sulle dita, poi
appoggiò una mano sul culo di Charlotte,
le allargò le natiche con il palmo e le
inserì l’indice nell’ano. Lei sobbalzò,
ma non protestò; lui sentì i muscoli dello
sfintere irrigidirsi, stringendogli il dito
in una morsa. La sua erezione crebbe in
risposta al contrarsi di lei, l’uccello
durissimo che tendeva al limite la stoffa
dei pantaloni.
Attraverso la sottile parete che
divideva l’ano di Charlotte dalla vagina
Dominik sentiva il grosso uccello di
Jasper martellarla come un ariete
lanciato contro un bastione. Infilò un
altro dito e iniziò a seguire il ritmo del
gigolò, scopandole il culo con crescente
ferocia.
Charlotte cominciò a dimenarsi,
incapace di trovare un appoggio stabile
sotto l’implacabile assalto congiunto dei
due uomini.
Molto lentamente Dominik sfilò le
dita, sentendo i muscoli di lei pulsare e
rilassarsi. Poi fece cenno a Jasper di
uscire da Charlotte e la raddrizzò. Lei
aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Brava ragazza» disse. «Adesso che
abbiamo allargato per bene il tuo
delizioso buco, possiamo fare sul
serio.»
Charlotte chinò la testa, annuendo.
La prese in braccio e si diresse verso
la camera da letto, ricordandosi di
quando aveva invitato Summer a casa
sua, l’aveva portata nello studio e
l’aveva guardata masturbarsi davanti a
lui sdraiata sulla scrivania.
«Mettiti carponi» ordinò in tono
autoritario. Lei obbedì, a testa bassa,
senza guardarlo. «Aspetta qui» aggiunse.
Dominik si girò verso Jasper, che si
stava togliendo il preservativo per
mettersene uno nuovo. «Non toccarla.»
Tornò in salotto, prese il lubrificante
e si fermò in bagno a lavarsi le mani. Si
guardò nello specchio, fissando il
proprio riflesso per un momento. Che
cos’era diventato?
Scacciò quel pensiero e tornò in
camera da letto, dove Charlotte e Jasper
stavano aspettando: lei con ancora
indosso l’uniforme scolastica, le
mutandine arrotolate alle caviglie, la
minigonna scozzese sollevata sul sedere,
lui in piedi, completamente nudo, i jeans
e la maglietta ordinatamente appoggiati
sul cassettone di Charlotte.
Dominik si avvicinò, la prese per i
capelli e le tirò indietro la testa. «Sto
per scoparti il culo» le disse piano
nell’orecchio.
Lei non replicò. Anche se
l’espressione di disappunto sul suo
volto rivelava che aveva la sensazione
di essere stata imbrogliata, non avrebbe
detto a Dominik che il sesso anale non
era tra i suoi giochi preferiti e che di
solito non le piaceva per niente.
Le sollevò la gonna e le fece
allargare le gambe. Erano lunghe e
slanciate, le gambe di una puledra da
monta. Le passò un dito tra le grandi
labbra, infilandoglielo dentro. Era
bagnata, ancora umida dopo la scopata
con Jasper, che adesso era immobile
accanto a lei, in silenzio, il membro
eretto.
Spruzzò una dose generosa di
lubrificante tra le natiche di Charlotte, la
vide rabbrividire per la sensazione di
freddo e sentì che gli veniva duro.
Si slacciò la cintura dei pantaloni.
Era ancora completamente vestito.
Tirò fuori l’uccello e lo avvicinò al
culo di lei, percependo il calore
emanato dal suo corpo. Quindi si infilò
un preservativo e spinse delicatamente
la punta del suo membro contro lo
sfintere, penetrandola con una certa
fatica.
«Rilassati, dolcezza» le disse.
Jasper si chinò ad accarezzarla. «È
tutto okay, piccola.»
Dominik lanciò un’occhiata a
Charlotte e Jasper. Lei gli aveva
appoggiato la testa sul petto, il viso
rilassato. Lui le lisciava piano i capelli.
“Che romantici” pensò Dominik,
rendendosi conto che l’avevano
dimenticato, che in quella situazione lui
non era altro che un cazzo qualunque.
Avrebbe potuto essere un dildo, una
persona qualsiasi con indosso uno strapon.
Non riusciva a biasimarla. Né gli
importava niente di lei.
Si tolse il preservativo e si riallacciò
i pantaloni, lanciando un’occhiata a
Jasper mentre usciva dalla stanza,
pronto a rassicurare il gigolò che poteva
andare avanti con Charlotte se lo
desiderava; il loro accordo era stato
rispettato. Ma Jasper si era già sdraiato
sul letto, abbracciando Charlotte. Nel
giro di qualche minuto Dominik li udì
ansimare.
Passando per il salotto si guardò
intorno. Sentì una fitta al pensiero che
Summer non l’aveva mai invitato a casa
sua, l’ultimo baluardo della sua privacy.
Charlotte non si faceva quegli scrupoli e
riceveva gente di ogni genere che le
faceva visita regolarmente. Il salotto era
pressoché vuoto, una stanza piuttosto
grande con un unico divano, una sedia a
dondolo e un angolo adibito a ufficio
con un Mac. Nella cucina c’era un
grande piano di lavoro sul quale faceva
bella mostra di sé uno dei modelli più
costosi di macchina per il caffè. I
neozelandesi erano fissati con gli
espressi e i cappuccini, ancor più degli
italiani che in pratica li avevano
inventati.
Dominik
notò
una
lucina
lampeggiante sopra la macchina per il
caffè. Possibile? No. Certo che no. Si
avvicinò per guardare meglio. Era il
telefonino di Charlotte, con la
videocamera accesa. Stava registrando.
Lo prese in mano, interruppe la
registrazione e guardò il filmato.
Charlotte aveva ripreso la scena, o
almeno la parte che si era svolta in
salotto. Quella troia impudente.
Vedersi ripreso diede a Dominik una
strana sensazione. Quando gli era
capitato di fare sesso in una stanza con
uno specchio e si era visto riflesso,
aveva sempre distolto lo sguardo. Non
aveva alcun desiderio di guardarsi
mentre scopava.
Charlotte era riuscita a riprendere la
maggior parte dell’azione. Aveva
puntato la videocamera sul pavimento al
centro del salotto, non sul divano né
sulla camera da letto. Aveva indovinato
dove si sarebbe svolta la scena. Forse
Dominik non era un gran mistero,
dopotutto. Cancellò il video e rimise il
telefono dove l’aveva trovato, lasciando
la videocamera spenta. Lei avrebbe
potuto accorgersi, naturalmente, che era
stata manomessa, anche se quel genere
di apparecchi spesso si spegnevano da
soli. Recuperò la giacca dal bracciolo
del divano. Aveva già pagato il gigolò,
perciò era a posto. Qualunque eventuale
costo aggiuntivo per le attività svolte
dopo che lui se n’era andato era un
problema di Charlotte.
Poi gli venne in mente una cosa. Che
cos’altro aveva filmato?
Tornò indietro, prese il telefono e
controllò i video salvati. Erano in
ordine cronologico. Uno portava la data
dell’ultima serata che aveva trascorso
con Summer, prima della discussione al
caffè. La volta in cui lui l’aveva depilata
e Jasper l’aveva scopata davanti ai suoi
occhi.
Schiacciò il tasto PLAY con il cuore
pesante. L’immagine era piccola, ma
nitida. Charlotte aveva filmato davvero
Jasper e Summer che scopavano. Sapeva
che cosa sarebbe successo? Lo aveva
pagato per farlo? Aveva organizzato
tutto? La videocamera del portatile
doveva essere stata posizionata in mezzo
ai cuscini del divano, o forse sul
davanzale della finestra. L’angolo di
ripresa aveva colto la faccia di Summer,
la sua espressione a metà tra il piacere e
il dolore. Forse l’uccello del gigolò era
troppo grosso per lei. Un paio di volte
aveva lanciato un’occhiata dietro di sé.
Stava cercando lui, Dominik?
Riguardò più volte il video, incapace
di staccare gli occhi dallo spettacolo
che Charlotte aveva ripreso senza il
consenso di Summer, ne era certo.
Premette alcuni tasti, mandò il video al
proprio indirizzo di posta elettronica e
lo cancellò dal telefono di Charlotte, che
poi rimise al suo posto. Non gli
importava che lei capisse di essere stata
scoperta. Non voleva più rivederla.
Uscì
dall’appartamento
senza
voltarsi.
Era ormai sera tardi. Si mise al
volante della BMW ed emise un profondo
respiro prima di inserire la retromarcia
e fare cautamente manovra per uscire
dallo spazio in cui aveva parcheggiato.
Quando era arrivato la via era pressoché
deserta, mentre adesso era piena di
automobili; tutti gli abitanti del
tranquillo quartiere di Charlotte erano
rientrati a casa dal lavoro. Era
intrappolato tra un’altra BMW davanti e
una dietro. Tre in fila. L’ultima cosa di
cui aveva bisogno in quel momento era
rompere un fanalino dell’auto.
Guardò dentro le case mentre guidava
lentamente verso la strada principale,
dove avrebbe incrociato la A41 per
dirigersi
verso
Finchley
Road
attraversando
l’Hampstead
Heath.
Osservò le luci accese nelle camere da
letto e nei salotti, vide una silhouette
sottile, probabilmente una donna, dare
un’occhiata in strada e poi chiudere le
tende.
Ripensò a Summer. Mentre schivava
le auto che arrivavano in direzione
opposta lungo la via ed evitava per un
pelo un gatto che gli era schizzato
davanti attraversando la strada, rivide
l’immagine di lei che lo guardava
lanciandosi un’occhiata alle spalle
finché Jasper la riempiva. Si chiese se
la casa di Charlotte fosse l’unica a
ospitare piaceri insoliti quella sera, o se
vi indulgessero in segreto anche gli altri
abitanti dei sobborghi.
Tornato a casa, si spogliò in fretta e
crollò sul letto, senza neppure farsi la
doccia.
Il mattino dopo doveva scrivere una
recensione.
13
Un uomo e una ragazza
La telefonata di Victor arrivò il giorno
dopo.
«Summer?»
«Sì?»
«Devi essere pronta tra un’ora. Una
macchina verrà a prenderti a
mezzogiorno.»
Riagganciò senza aspettare la mia
risposta.
Reagii a quella telefonata nello
stesso modo in cui avevo reagito a tutte
le altre: come un soldatino a molla
avviato lungo una strada da cui adesso
pareva impossibile allontanarsi.
Un registro degli schiavi? Era
un’idea assurda; non poteva essere vero.
Di lì a poco mi sarei svegliata e avrei
scoperto che era tutto un sogno.
Ciononostante, mi feci la doccia e mi
depilai con cura, come Victor mi aveva
ordinato. Meglio non dargli un motivo
per volerlo fare lui. Con un rasoio in
mano, dubitavo che sarebbe stato
delicato come Dominik.
Dominik. Mi avrebbe chiamata?
Pensare a lui mi diede una stretta al
cuore. Lui avrebbe capito. Dominik e
Victor avevano un nucleo comune, ma, a
differenza di Victor, Dominik non
voleva spezzarmi, o essere servito in
modo insensato. Voleva qualcosa di più.
Voleva che io lo scegliessi.
Arrivò la macchina, una vettura
lunghissima con i vetri oscurati, simile a
quelle che si vedono nei film sulla
mafia. Non mi preoccupai di guardare
fuori dal finestrino per vedere dove mi
stava portando Victor questa volta. Un
altro indirizzo anonimo, un altro
dungeon improvvisato. Che cosa
importava? Avevo scelto di andarci.
Non avrei avuto bisogno di chiamare la
polizia per denunciare il mio rapimento.
Il cellulare vibrò, a malapena udibile
sopra il rombo del motore. Poiché
temevo che Victor mi chiamasse durante
una prova, lo tenevo sempre in modalità
vibrazione o silenziosa. Il direttore
d’orchestra o gli organizzatori dei
concerti si sarebbero infuriati se lo
squillo di un telefono avesse interrotto
l’esecuzione di un pezzo, e si sarebbero
alterati ancora di più se Victor mi
avesse
chiesto
di
presentarmi
immediatamente e io mi fossi sentita
obbligata a metter giù il violino e a
obbedire.
Frugai nella borsa in cerca del
cellulare per controllare chi avesse
chiamato. Era Dominik? Mi irrigidii per
la paura. C’era una telecamera
nell’auto? Un microfono da cui Victor
avrebbe potuto sentire le mie telefonate?
Mi protesi nel tentativo di vedere in
faccia l’autista, ma la visione era
ostacolata dal pannello di vetro fumé
che separava i sedili anteriori da quelli
posteriori. Poteva persino darsi che alla
guida ci fosse Victor; era proprio il
genere di trucchetto che lo divertiva un
mondo.
L’auto iniziò a rallentare e attraverso
il finestrino vidi Victor in attesa sul
marciapiede. Dunque l’autista non era
lui. Da un momento all’altro mi avrebbe
aperto la portiera; non avevo il tempo né
di telefonare né di mandare un SMS o di
controllare se a chiamare fosse stato
Dominik. L’unica cosa che potevo fare
era spegnere il cellulare in modo che
non vibrasse di nuovo, con il rischio che
Victor si insospettisse.
Potevo solo sperare che Dominik,
sempre che fosse lui, continuasse a
provare e che a un certo punto del
bizzarro scenario predisposto da Victor,
qualunque esso fosse, io riuscissi in
qualche modo a raggiungerlo. Victor mi
aprì la portiera e mi tese la mano per
aiutarmi a scendere. Paradossalmente,
mi offese più degli atti sessuali che mi
aveva imposto, e a cui mi ero
sottomessa. Avrei voluto alzarmi,
torreggiare sopra di lui e buttarlo a terra
con una spinta, ma non lo feci. Non
potei. Mi limitai ad accettare la sua
mano e a seguirlo docilmente.
Eravamo nel suo attico di Tribeca.
Per l’occasione era stato trasformato
nella parodia di un harem. Cuscini ornati
ovunque, veli di chiffon colorato
drappeggiati sul soffitto. Uomini e donne
– le padrone e i padroni – erano vestiti
in un modo che doveva enfatizzare il
loro “rango”, ma che io trovai
assolutamente ridicolo.
«China la testa, schiava» mi sibilò
all’orecchio Victor. Obbedii, con un
fremito di soddisfazione. Dunque
sembravo troppo sicura di me con la
testa alta e le spalle dritte. Bene.
Victor mi prese la borsa.
«Spogliati!» mi intimò.
La
mia
piccola
ribellione
evidentemente l’aveva fatto arrabbiare.
Mi tolsi il vestito e glielo porsi. Sotto
non portavo niente. A che pro? Se infatti
riuscivo a sfilarmi un abito con mosse
quasi eleganti, nel dimenarmi per
togliere le mutandine mi sentivo molto
stupida. Così, in quei giorni, rinunciavo
a indossarle.
«Qui non ti servirà nessun
accessorio» disse, portando via il
vestito e la borsa.
Grazie al cielo avevo lasciato a casa
il violino. Avevo la sensazione che mi
mancasse qualcosa senza la custodia tra
le braccia, ma almeno il Bailly era al
sicuro. Ero terrorizzata che Victor si
accorgesse di quanto ci tenevo e tentasse
di distruggerlo. Non credevo che
avrebbe potuto piegarmi, ma se mi
avesse portato via lo strumento senza
dubbio ci sarebbe riuscito.
Costretta a tenere la testa bassa,
potevo vedere solo il pavimento e
catturare fugaci scorci delle persone
presenti. Tesi le orecchie per non
perdere i brandelli di conversazione che
riuscivo a cogliere.
«È l’ultima preda di Victor» disse
una brunetta pigramente allungata in
mezzo ai cuscini vicino a me. Riuscivo a
vederla solo con la coda dell’occhio.
Era truccata come una star del cinema
degli anni Quaranta, con le labbra
dipinte di rosso e un elegante caschetto.
«Sembra altezzosa, questo è certo»
replicò il suo compagno, un uomo alto e
snello con baffetti appena accennati,
come una traccia di sporco sul labbro
che non era stata lavata via.
«Victor troverà il modo di piegarla.
Lo fa sempre.»
Notai che Victor infilava il mio
vestito e la borsa, con dentro il
cellulare, nel mobile bar e chiudeva
l’anta con una minuscola chiave che poi
si infilò in tasca.
Si girò verso di me con un sorriso
trionfante.
«Oggi cominciano i preparativi. La
cerimonia domani.»
“Oh, Dominik” pensai. “Dove sei?”
Dominik sapeva che Chris era sempre
stato amico intimo di Summer. Si erano
conosciuti subito dopo che lei era
arrivata a Londra dalla Nuova Zelanda.
Entrambi erano musicisti e talvolta lei
aveva suonato con il suo piccolo gruppo
rock. Eppure non gli era mai venuto in
mente di contattare Chris dopo
l’improvvisa scomparsa di Summer.
Ovviamente
aveva
cercato
di
rintracciarla, ma il suo numero di
telefono non risultava attivo, e quando
era andato nel suo appartamento di
Whitechapel, il padrone di casa gli
aveva rabbiosamente comunicato che
Summer se n’era andata senza
preavviso.
Qualcosa dentro di lui – forse
l’orgoglio, il dolore – gli aveva
impedito di fare ulteriori indagini.
Nessuna donna l’aveva mai turbato
tanto.
Summer si era resa disponibile e
aveva acconsentito ai suoi giochi e alle
attività sessuali spesso fantasiose in cui
entrambi erano chiaramente coinvolti,
questo sì. Eppure lui aveva sempre
avuto la sensazione che lei si stesse
trattenendo, che stesse controllando il
proprio nucleo di tenebra, forzandogli la
mano in modi che lui non riusciva ad
afferrare.
Perciò quando Chris lo chiamò, fu
colto alla sprovvista. Perché non
l’aveva chiamato lei?
«A New York?» chiese.
«Sì, è quello che ho detto.»
«E cosa vuole?»
«E come cazzo faccio a saperlo?
Dirti dov’è, immagino. Come amico di
Summer, questa faccenda non mi piace
per niente» disse Chris, sempre più
irritato. «Tutti i suoi problemi sembrano
essere iniziati da quando ti ha
incontrato, perciò lasciati dire che non
sei nella mia top ten, Dominik. E se
posso esprimere francamente il mio
parere, preferirei che Summer ti stesse
ben lontana.»
Dominik
rifletté
su
quelle
informazioni esplorando con lo sguardo
lo studio, dove si trovava quando aveva
risposto alla telefonata, intento a
scrivere la prima bozza di una
recensione per una rivista accademica.
Il letto era coperto di libri e fogli.
«Sta bene?» si informò.
«No, non sta affatto bene, se vuoi
saperlo. Ha problemi. È tutto quello che
so. Non mi ha detto altro. Solo di
contattarti per farti sapere dov’è.»
New York, una città che Dominik
aveva sempre amato e che era diventata
un labirinto di ricordi di donne e
relazioni passate. Fu travolto da una
serie di immagini: l’hotel Algonquin e le
sue minuscole stanze con i mobili antichi
in cui non c’era spazio nemmeno per
girarsi, figuriamoci per sculacciare
qualcuno; l’Oyster Bar sotto la Grand
Central; l’hotel Iroquois con camere più
grandi ma di un’eleganza un po’
appannata, dove non era raro vedere
scarafaggi correre lungo i muri. Ripensò
al Taste of Sushi sulla 13 th Street, dove
il cibo giapponese era stato una
rivelazione ma il bagno puzzava come
una fogna e non avrebbe mai superato
l’ispezione dell’ufficio di igiene; al club
Le Trapeze nel Flatiron District dove
aveva portato Pamela, l’impiegata di
banca di Boston, e l’aveva guardata
abbandonarsi alle sue fantasie più
segrete; al vicino hotel Gershwin, dove
nella sua stanza c’era una riproduzione
di Picasso sopra il letto che lui non
aveva potuto fare a meno di fissare tutte
le volte che aveva scopato nella
posizione del missionario e aveva
inevitabilmente alzato la testa. Ah, New
York.
E adesso Summer era lì, di sua
spontanea volontà. Non perché ce
l’aveva portata lui per farle una
sorpresa o per farla divertire.
Dominik si riscosse, sentendo Chris
respirare pesantemente all’altro capo
della linea. «Hai un numero di telefono
dove posso chiamarla? Puoi darmelo?»
Per quanto riluttante, Chris glielo
diede e Dominik lo annotò in un angolo
dei suoi appunti.
Tra i due scese un silenzio
imbarazzato ed entrambi furono molto
sollevati quando riagganciarono.
Seduto sulla sedia di pelle nera
davanti allo schermo del computer,
Dominik osservò con distacco il cursore
che lampeggiava nel punto della frase in
cui si era interrotto per rispondere al
telefono.
Dopo aver fatto un respiro profondo,
si decise a comporre il numero che
Chris gli aveva dato.
Il telefono squillò a vuoto.
Dominik guardò l’orologio per
controllare la differenza di orario con
New York. Là era ancora giorno. Forse
Summer stava lavorando e non poteva
rispondere. Chissà, magari aveva
trovato un lavoro nell’ambito della
musica. Il Bailly avrebbe aiutato.
Riagganciò. Un’onda di sentimenti
contraddittori lo travolse.
Cercò di concentrarsi sul lavoro, ma
le sottili differenze nei rapporti tra
scrittori inglesi e americani che
vivevano a Parigi sulla Rive Gauche
durante gli anni dell’esistenzialismo non
riuscivano più ad attirare la sua
attenzione, così lasciò perdere e si mise
a camminare per lo studio.
Quando ritenne di aver lasciato
passare abbastanza tempo, rifece il
numero di Summer. Il telefono prese a
squillare e l’intervallo tra un suono e
l’altro parve dilatarsi, diventando una
specie
di
eternità.
Stava
per
riagganciare quando partì l’avviso
registrato della compagnia telefonica: il
cliente era irraggiungibile, ma era
possibile registrare un messaggio.
Dominik scandì con calma le parole,
cercando di tenere sotto controllo il
panico.
“Summer… sono io… Dominik…
Richiamami. Per favore. Niente
giochetti. Voglio solo sentirti.” Poi,
ripensandoci, aggiunse: “Se non puoi
farlo per qualunque ragione, mandami un
SMS o lasciami un messaggio sulla
segreteria. Mi manchi terribilmente”.
Riagganciò con riluttanza.
Un’ora dopo si collegò a Internet e
guardò i voli per New York. Ce n’erano
diversi in partenza da Heathrow la
mattina presto, che arrivavano intorno a
mezzogiorno, ora locale. D’impulso
prenotò un posto in business class su uno
di questi.
Sperava che Summer l’avrebbe
contattato prima della partenza, dal
momento che non aveva la più pallida
idea di dove trovarla.
Un caso di speranza contro ogni
speranza.
Rimasi immobile e aspettai che Victor
facesse la mossa successiva.
Forse percependo la mia impazienza
di scoprire che cosa aveva in mente, lui
se la prese comoda prima di tirar fuori
un altro dei suoi trucchetti, una
campanella, simile a quella che Dominik
mi aveva mandato per la serata da
Charlotte, ma più grande. Il suo suono
cristallino si propagò nella stanza come
un rintocco funebre, un rumore con
un’eco meccanica. Mi si accapponò la
pelle. Una porta in fondo al corridoio si
aprì e ne emerse una donna. Era vestita,
se così si può dire, con un abito bianco
completamente
trasparente
che
assomigliava vagamente a una toga.
Aveva i capelli raccolti in uno chignon
morbido, da cui sfuggivano alcune
ciocche che le ricadevano ai lati del
volto facendola sembrare una moderna
Medusa.
Quando fu vicina, chinò la testa
all’indirizzo di Victor, ignorandomi
completamente.
Era
altissima,
probabilmente più di un metro e ottanta,
e scalza. Lui sembrava preferire le
donne senza scarpe. Forse per
compensare la sua bassa statura.
«Cynthia guiderà la tua preparazione
di questa sera, schiava. Inginocchiati
davanti a lei.»
Obbedii. Mentre lo facevo, notai che
Cynthia indossava una sottile cavigliera
d’argento, simile a un braccialetto
portafortuna ma con un unico ciondolo,
un minuscolo lucchetto. Era davvero
bellissima. Non sarebbe stato male
poterla scegliere, al posto di un piercing
o di un tatuaggio.
Ma pensai che Victor non mi avrebbe
permesso di scegliere e, visto il suo
attuale umore, ero pronta a scommettere
che avrebbe optato per il marchio più
permanente e umiliante: un tatuaggio.
«Victor» lo chiamò l’affascinante
brunetta allungata sui cuscini.
«Sì,
Clarissa?»
rispose
lui.
Chiamava i suoi compari “signora”,
“padrona” o “padrone” solo quando
parlava di loro a una schiava.
«Dove sono tutte le tue schiave in
servizio, oggi? Ho il bicchiere vuoto da
un’eternità. A quanto pare, non si può
avere un altro po’ di champagne neanche
a pagarlo.»
L’avevo vista scolare l’ultimo goccio
circa tre secondi prima.
«Oh, cara» disse Victor, «troverò la
colpevole e più tardi le darò una
lezione.»
«Bene» sentenziò Clarissa. «Spero
che mi permetterai di assistere. Nel
frattempo, potrei avere qualcosa da bere
per placare l’arsura? E chiederesti alla
tua nuova ragazza di portarmelo? Mi
piace il suo aspetto.» Clarissa
occhieggiò il mio corpo nudo,
inginocchiato, e fece un sorrisetto
compiaciuto.
Il tizio coi baffetti che le stava
sdraiato accanto tirò su la testa e mi
lanciò un’occhiata.
«A dire la verità» disse strascicando
le parole «quasi quasi un altro drink me
lo faccio anch’io. Per caso hai qualcosa
di più deciso? Le signore sembrano
amare lo champagne, ma io preferisco
qualcosa di… un po’ più forte.» Mentre
diceva quelle ultime parole mi fissò, e
io mi accucciai ancora di più.
Fino a quel momento i gusti di Victor,
perlomeno dal punto di vista fisico, si
erano rivelati piuttosto ordinari – nulla
che non potessi affrontare o persino
farmi piacere se fingevo che a
comandare non fosse lui – ma sapevo
perfettamente che a quell’incontro
potevano esserci dominatori più
violenti, o addirittura sadici, i quali
avrebbero potuto pretendere cose che
non mi piacevano, che potevano farmi
male davvero o procurarmi lesioni.
Finora ero stata fortunata: tutti i segni
lasciati da Victor e dai suoi amici erano
stati relativamente leggeri, graffi e lividi
che potevo nascondere sotto i vestiti o
giustificare facilmente. Ma la fortuna
poteva non durare per sempre.
«Certo» disse Victor, senza perdere
la sua apparente compostezza, anche se
io percepii che la richiesta fatta dai suoi
ospiti per i miei servigi interferiva con i
suoi piani e lo aveva contrariato. Mi
fece alzare in piedi.
«Versa un bicchiere di champagne
alla padrona Clarissa, e trova del
whisky per il padrone Edward.»
Sceglievano sempre pseudonimi
ridicoli. Secondo me, Victor avrebbe
potuto optare per qualcosa di più
classico; dopotutto, era di ascendenze
ucraine.
Si frugò in tasca cercando la chiave
del mobile bar e me la porse.
«Se tocchi qualcos’altro oltre al
whisky» mi sussurrò piano all’orecchio
«non potrai scegliere il posto in cui ti
metterò il marchio.»
Per prima cosa versai lo champagne
e lo servii subito a Clarissa.
«Perdonatemi, padrona e padrone,
per non aver portato le vostre bevande
insieme» mi scusai «ma la padrona mi è
sembrata assetata e non ho voluto
rischiare che lo champagne diventasse
caldo.»
«Oh, eccellente» disse Clarissa a
Victor. «Quando sarà disponibile per
essere usata?»
«Questa sera» rispose Victor
bruscamente.
«Ah» commentò lei, «credevo che
l’avresti marchiata domani, insieme alle
altre.»
«Così avevo programmato» replicò
lui «ma questa è speciale.» Si interruppe
e guardò l’orologio. «Fra un paio d’ore.
Alle diciotto. Abbiamo abbastanza
tempo. Tienila d’occhio un attimo, ti
dispiace, Clarissa? Devo organizzare la
cosa.»
Victor prese il cellulare dalla tasca e
scomparve in corridoio.
«Con permesso» dissi. «Sarò subito
di ritorno con il whisky.»
Come avevo previsto, Clarissa non
mi degnò di un’occhiata mentre io mi
avvicinavo al mobile bar e accendevo il
telefono senza farmi vedere. Controllai
l’elenco delle chiamate perse. Dominik
aveva telefonato due volte e lasciato un
messaggio. Non avevo assolutamente
modo di ascoltarlo né di scrivere una
risposta troppo lunga: Victor sarebbe
potuto tornare da un momento all’altro.
Digitai un breve SMS: “Ricevuto tuo
messaggio. Sono a NYC. Richiamami.
S.”.
L’unica speranza era che Dominik
continuasse a provare.
Rimisi il telefono nell’armadietto e
accostai l’anta con cura, ma non la
chiusi.
Victor tornò nella stanza e io gli
restituii la chiave.
«Brava ragazza» disse. «Sarai una
serva eccellente, schiava Elena.»
«Non vedo l’ora, padrone.»
«Il tuo momento verrà presto. Adesso
farai un bagno.»
Schioccò le dita e Cynthia si
materializzò al suo fianco. Mi tese una
mano. La seguii fino a una stanza da letto
dove c’era un bagno con una grande
vasca decorata piena di acqua fumante.
Dall’aspetto sembrava profumata, ma in
realtà non lo era. Sul bordo non c’erano
né sapone né prodotti per il bagno.
Immaginai che Victor mi volesse
com’ero, solo più pulita.
Mi immersi, e Cynthia si sedette in un
angolo della stanza, in silenzio. La mia
guardiana? Ne avevo davvero bisogno?
Ero una prigioniera?
No, non credevo. Ero venuta lì di mia
spontanea volontà. Victor aveva i miei
vestiti e il mio telefono, ma nulla poteva
impedirmi di uscire dalla porta e
chiamare la polizia. Avrei potuto urlare
con tutto il fiato che avevo in gola e
probabilmente i vicini si sarebbero
insospettiti. Nessuna delle altre
“schiave” presenti era trattenuta a forza;
erano tutte lì per scelta, per interpretare
un ruolo nella pièce sessuale,
indulgendo alle proprie fantasie
nient’affatto private così come le
padrone e i padroni indulgevano alle
loro.
Ricordai che Victor mi aveva detto
che questo era il mio posto, il luogo in
cui ero al massimo della bellezza. Le
sue parole mi avevano ferita, ma non
potevo negare che contenessero una
parte di verità. Il suo comportamento –
il suo modo di spingere la mia mente in
un luogo dove nulla importava, dov’ero
fisicamente costretta ma spiritualmente
libera – mi dava la nausea, ma al tempo
stesso mi eccitava.
La porta si aprì. Victor. Si era
cambiato e indossava uno smoking. Per
un attimo mi fece venire in mente Danny
De Vito nel ruolo del Pinguino in
Batman - Il ritorno. Soffocai una risata.
«Schiava Elena» disse, «è arrivato il
tuo momento.»
Il volo di Dominik atterrò al JFK in una
giornata serena. A New York era da
poco passato mezzogiorno. La coda al
controllo passaporti e immigrazione era
lunghissima. I voli dall’Europa erano
arrivati tutti a pochissima distanza gli
uni dagli altri e avevano riversato il loro
carico umano nel terminal, cosicché si
era creato un vero e proprio ingorgo. Il
novanta per cento dei passeggeri in
arrivo erano stranieri e dovevano
passare tutti da tre funzionari
dell’immigrazione in uniforme, i quali
parevano assolutamente indifferenti
all’impazienza dei viaggiatori.
Dominik aveva solo il bagaglio a
mano, ma la cosa non faceva alcuna
differenza, dal momento che prima di
tutto bisognava passare i controlli.
Quando gli chiesero se fosse lì per
piacere o per lavoro, esitò un attimo e
poi scelse la seconda opzione.
Al che il funzionario gli chiese: «Che
genere di lavoro fa?».
“Ma perché non ho detto che sono in
viaggio di piacere?” pensò.
«Sono un professore universitario»
rispose alla fine. «Sono qui per tenere
alcune conferenze alla Columbia» mentì.
Lo fecero passare.
Finalmente seduto su un taxi, osservò
l’autista immettersi nel fiume di veicoli
sulla Van Wyck Expressway in
direzione del quartiere Jamaica nel
Queens. Il tassista indossava il turbante.
Il tesserino identificativo e la foto erano
così sbiaditi da essere quasi illeggibili.
A quanto pareva, si chiamava
Mohammad Iqbal. O forse quello era il
nome del cugino o di chiunque fosse la
persona con cui condivideva la licenza.
L’aria condizionata non funzionava e
così viaggiavano con i finestrini aperti.
La differenza di temperatura rispetto a
Londra, da cui era partito la mattina
presto, era notevole e Dominik stava già
sudando. Si tolse la giacca di lino
grigia.
Oltre il Jamaica Hospital il traffico
cominciò a diradarsi e il taxi procedette
più spedito. L’autista svoltò per
imboccare la strada che portava al
Midtown Tunnel.
D’un tratto Dominik si ricordò che
aveva spento il cellulare mentre era in
coda al controllo passaporti, come gli
era stato chiesto. Lo riaccese e guardò
speranzoso lo schermo che riprendeva
vita.
C’era un SMS.
Summer.
“Ricevuto tuo messaggio. Sono a
NYC. Richiamami. S.”
Maledizione! Lui sapeva già che lei
era a New York. Quell’ SMS non gli era
di nessun aiuto.
Provò a richiamarla, ma trovò ancora
una volta il messaggio della compagnia
telefonica.
Accidenti! Senza altri indizi, sarebbe
stato come cercare un ago in un pagliaio.
Stava per mandarle un SMS quando il
taxi si inabissò nel Midtown Tunnel.
Aveva prenotato un albergo in
Washington Square e aveva detto al
tassista di portarlo lì. Quando furono
usciti dal tunnel decise di aspettare di
essere nella sua stanza prima di tentare
di nuovo di mettersi in contatto con
Summer. Anche se il check-in era
previsto solo dalle tre del pomeriggio,
gli fu permesso di anticiparlo perché la
camera era libera. Aveva bisogno di
rinfrescarsi e di cambiarsi.
Dalla finestra la riposante visione
dell’arco di Washington Square
ammiccava sotto il sole. Musica jazz
proveniva dalla fontana al centro della
piazza, dove si erano riuniti alcuni
artisti di strada.
Dopo la doccia e ancora avvolto
nell’accappatoio, tentò di nuovo di
chiamare Summer, senza risultato. Ma
che accidenti stava succedendo? si
chiese. Perché mai lei gli aveva mandato
un SMS e poi era diventata irreperibile?
Stava prendendo una camicia dalla
valigia quando il telefono finalmente
squillò. Si affrettò a rispondere.
«Summer?»
«No, non sono Summer. Sono
Lauralynn.»
«Lauralynn?» Sulle prime Dominik
non ricordò chi fosse e stava per
riagganciare, per paura di perdere
un’eventuale chiamata di Summer.
«Sì, Lauralynn. Ricorda? Ho suonato
in quel… quartetto d’archi un po’
particolare. Bionda. Violoncello. Le
dice qualcosa?»
Ecco chi era. Che cosa voleva? Stava
diventando impaziente. «Sì, mi ricordo.»
«Bene» approvò Lauralynn. «Detesto
che gli uomini non si ricordino di me»
aggiunse con una risata.
«Sono a New York» la informò.
«Davvero?»
«Sono appena arrivato.» Poi si
riscosse: «Che cosa vuoi?».
«Un po’ difficile così da lontano»
commentò Lauralynn. «Avevo intenzione
di dirle quanto mi era piaciuto il nostro
piccolo evento. Mi chiedevo se fosse
interessato a organizzare qualcos’altro,
ma dato che non è in Inghilterra, la cosa
potrebbe
rivelarsi
un
tantino
complicata.» La sua voce era piena di
malizia.
«Hai ragione. Magari possiamo
riparlarne quando torno a Londra.»
Dominik lo disse solo per essere gentile.
In realtà non aveva alcuna intenzione di
rifare una cosa del genere.
«Capisco»
disse
Lauralynn.
«Peccato. Proprio adesso che anche
Victor è a New York… Sono un po’ a
corto di occasioni per divertirmi.»
«Tu conosci Victor?» indagò
Dominik.
«Naturalmente. Lui è… come posso
dire?… un vecchio amico» rispose
Lauralynn.
«Pensavo di aver trovato te e gli altri
musicisti del quartetto tramite un
annuncio
nella
bacheca
del
conservatorio.»
«No» rivelò Lauralynn. «In realtà
Victor mi aveva informata in anticipo
della natura insolita del concerto. È
stato lui a scegliere il posto che poi le
ho suggerito. Non lo sapeva?»
Dominik imprecò in silenzio. Nella
sua mente iniziò a formarsi una nube
minacciosa e sentì una stretta al petto.
Victor, quel subdolo libertino, e
Summer, tutti e due a New York?
Prese una decisione.
«Lauralynn, sai come potrei mettermi
in contatto con lui mentre sono qui?»
«Ma certo.»
«Magnifico.» Si annotò l’indirizzo
che lei gli diede.
«Ha citato Summer. Il suo viaggio a
New York ha a che fare con lei? Solo
per curiosità» aggiunse Lauralynn.
«Sì» disse Dominik e riagganciò.
Si infilò la giacca e decise di fare
una passeggiata nel parco vicino
all’albergo per schiarirsi le idee e
riorganizzare i suoi pensieri prima di
cercare di mettersi in contatto con
Victor. Oltrepassò i giochi dei bambini
e il recinto per i cani, osservando
l’esercito di scoiattoli che schizzavano
qua e là nell’erba e tra gli alberi.
Adocchiò una panchina e si sedette.
Cynthia si alzò e mi aiutò a uscire dalla
vasca, poi mi avvolse in un grande
asciugamano. L’acqua era diventata
fredda. Io non me n’ero neanche accorta.
Victor mi prese per mano e mi
condusse in un’altra stanza. Ma quanto
era grande quell’appartamento? Un
centro tatuaggi casalingo. Una volta
avevo preso in considerazione l’idea di
farmi fare un tatuaggio, prima di lasciare
la Nuova Zelanda. Qualcosa che mi
ricordasse casa mia. Alla fine avevo
rinunciato, semplicemente perché non
ero riuscita a decidere quale immagine
avrei voluto farmi incidere sulla pelle
per sempre. Forse adesso avevo risolto
il problema: avrei avuto un tatuaggio,
ma avrei lasciato a qualcun altro la
scelta del disegno.
Mi sdraiai sulla panca che Victor mi
indicò con un cenno. Ero completamente
nuda. Lui mi strinse la mano, l’unico
segno di tenerezza che mi avesse mai
dimostrato.
Chiusi gli occhi. A quanto pareva,
come avevo immaginato, non avrei avuto
la possibilità di optare per un piercing.
Caddi in una specie di trance quasi
senza volerlo, preparandomi al dolore
dell’ago che mi aspettavo di provare da
un momento all’altro. Il rumore attutito
del traffico sbiadì diventando un lieve
ronzio. Le persone nella stanza, che si
erano evidentemente radunate per
assistere alla scena, divennero ombre
indistinte sullo sfondo. Pensai al mio
violino, ai viaggi meravigliosi in cui mi
trasportava quando lo suonavo. Il sesso
e la sottomissione ad altri mi davano una
sensazione di pace, di calma, ma niente
di paragonabile alle visioni che
scaturivano durante l’esecuzione di un
brano.
Ripensai a quando avevo suonato
Vivaldi per Dominik: la prima volta
nella metropolitana, anche se non
sapevo della sua presenza, e la seconda,
nel parco. In entrambe le occasioni lui
era stato testimone della mia rêverie, e
mi era parso che traesse piacere
dall’osservare l’effetto che la musica
aveva su di me.
Dominik. Avevo quasi dimenticato
l’SMS. Forse il mio telefono stava
vibrando nel mobile bar? Forse lui
aveva cercato di nuovo di mettersi in
contatto con me?
Una mano mi sfiorò prima l’ombelico
e poi il monte di Venere depilato, e
indugiò un attimo su di me, forse
esaminandomi, scegliendo il posto
migliore per marchiarmi. Mi chiesi se a
farmi il tatuaggio sarebbe stato Victor
stesso.
«Schiava Elena» disse lui, con voce
profonda e in tono formale, «è giunto il
momento della tua marchiatura.»
Fece un respiro e tacque un attimo
come se stesse per fare un discorso.
Aveva preparato una specie di promessa
nuziale da pronunciare solennemente?
Che strano.
«Adesso devi rinunciare alla tua vita
precedente e promettere di servire me,
Victor, in tutto quello che ti chiederò,
finché non deciderò di liberarti dalla
schiavitù. Accetti di sottometterti a me,
schiava, di fare mia la tua volontà per
sempre?»
Ero sull’orlo di un precipizio,
nell’imminenza di uno di quei momenti
in cui la vita corre sul filo del rasoio:
una scelta fugace fatta nello spazio di un
respiro che può cambiarti l’esistenza per
sempre.
«No» risposi.
«No?» mormorò Victor incredulo.
«No» ripetei. «Non accetto di
sottomettermi a te.»
Aprii gli occhi e mi alzai a sedere
sulla
panca,
improvvisamente
consapevole della mia nudità. Feci
appello a tutta l’autorevolezza su cui
potevo contare in quella condizione. Se
non altro, Dominik mi aveva fatto fare
parecchia pratica.
Victor era esterrefatto, ma impotente.
Come avevo potuto sentirmi alla mercé
di quest’uomo? Stava solo recitando una
parte, come tutti gli altri.
Mi feci largo tra i presenti, sulle cui
facce era dipinto un misto di shock,
imbarazzo e preoccupazione; alcuni
mormorarono che tutto ciò doveva far
parte della messinscena di Victor.
Presi il mio vestito dal mobile bar,
me lo infilai, poi afferrai la borsetta con
il cellulare e mi diressi verso la porta.
Non era chiusa a chiave.
Victor mi si parò davanti proprio
mentre stavo uscendo. «Te ne pentirai,
schiava Elena.»
«Non credo proprio. Il mio nome è
Summer. E non sono la tua schiava.»
«Non sarai mai nient’altro che una
schiava, ragazza. È nella tua natura. Alla
fine dovrai arrenderti. Non puoi farne a
meno. E poi guardati… Ti sei bagnata
nel momento stesso in cui ti sei tolta i
vestiti. Sei fradicia. Puoi anche
ribellarti, ma il tuo corpo ti tradisce,
schiava.»
«Non cercarmi più. Altrimenti
chiamo la polizia.»
«E che cosa dirai?» sogghignò lui.
«Pensi che crederanno a una troia come
te?»
Girai sui tacchi e me ne andai, a testa
alta, anche se le sue parole continuavano
a risuonarmi nelle orecchie. L’unica
cosa che volevo era tornare a casa.
Tornare a casa e suonare il violino.
Mi incamminai lungo Gansevoort
Street e fermai un taxi, mettendomi ad
armeggiare con il telefono non appena
fui salita in modo che l’autista non
cercasse di fare conversazione o mi
chiedesse perché avevo quell’aria
sconvolta. I tassisti di New York sono
una categoria bizzarra, alcuni muti come
pesci e altri talmente loquaci che è quasi
impossibile farli tacere. Ascoltai la
segreteria telefonica e sprofondai nel
sedile abbandonandomi alla voce di
Dominik.
Gli ero mancata. Non aveva mai detto
una cosa del genere. Anche lui mi era
mancato. Moltissimo.
Fissai il traffico caotico fuori dal
finestrino, la visione di una città che mi
era sembrata così eccitante la prima
volta in cui l’avevo vista e che adesso
mi era solo estranea, ricordandomi che
non ero a casa, che non avevo più una
casa.
Quando passammo per il parco di
Washington Square, era quasi il
crepuscolo; gli alberi gettavano
sull’erba pallide ombre simili a lunghe
braccia e mani, un coro di vegetazione.
Il buio non sarebbe sceso ancora per un
po’. C’era il tempo per suonare.
Avevo promesso a Dominik che non
mi sarei esibita in strada con il Bailly:
era troppo pericoloso con uno strumento
così prezioso. Ma pensai che lui
avrebbe capito, solo per questa volta.
Il taxi mi lasciò davanti al mio
appartamento e io diedi all’autista una
mancia generosa, una sorta di
ringraziamento per aver taciuto lungo
tutto il tragitto.
Salii i gradini, due alla volta,
lasciando cadere a terra il vestito nero
non appena misi piede in camera. Non
credevo che l’avrei più messo. Forse
avrei comprato qualcos’altro per i
concerti, un abito che non evocasse tanti
ricordi. Mi vestii in modo da attirare
l’attenzione il meno possibile, presi il
violino e mi diressi al parco.
L’arco di Washington Square era il
mio posto preferito. Mi ricordava
l’Arco di trionfo di Parigi e i posti dove
volevo andare, le immagini che Dominik
mi aveva fatto vedere del suo viaggio a
Roma.
Mi misi vicino alla fontana e sistemai
il violino sotto il mento, lo strinsi
saldamente e posai l’archetto sulle
corde. Quanto alla musica da suonare, il
mio corpo prese la decisione prima che
avessi il tempo di pensarci.
Chiusi gli occhi e mi concentrai sul
primo movimento, l’allegro, della
Primavera. Il primo concerto delle
Quattro stagioni.
I minuti trascorsero senza che me ne
rendessi conto. Quando arrivai alla fine
dell’ultimo movimento, aprii gli occhi e
mi accorsi che era quasi buio.
Poi udii un applauso. Non la cupa e
fragorosa ovazione di un intero
pubblico, ma il battimano chiaro e
deciso di una persona sola.
Mi girai, stringendomi il Bailly al
fianco con fare protettivo, nel caso in
cui uno psicopatico avesse avuto
intenzione di aggredirmi e portarmi via
il violino.
Era Dominik. Era venuto per me.
Dominik aprì gli occhi.
Era mezzanotte, l’ora delle streghe, e
dalla finestra della sua stanza d’albergo
entrava solo il chiarore delle luci
dell’arco di Washington Square. L’aria
condizionata soffiava leggera nella
stanza come una brezza fresca.
Accanto a lui Summer dormiva. Il
ritmo quieto del suo respiro saliva e
scendeva a tempo con il battito del
cuore; aveva le spalle scoperte e
lasciava intravedere solo uno spicchio
di seno nell’incavo del braccio piegato
tra il mento e il cuscino.
Dominik trattenne il fiato.
Ricordò la sensazione delle sue
labbra chiuse intorno a lui quando
gliel’aveva preso in bocca per la prima
volta, la carezza vellutata e delicata con
cui aveva avvolto la lingua intorno al
suo pene, come se ci stesse allegramente
giocando, toccandolo, esplorandolo
centimetro per centimetro, sfiorando con
i denti la pelle e i rilievi di vene e
minuscoli promontori.
Lei non glielo aveva chiesto e lui non
le aveva ordinato di farlo. Era successo
e basta, come la cosa giusta da fare al
momento giusto, quando entrambi
avevano abbassato le difese e si erano
aperti l’uno all’altra, mettendo al bando
il passato, gli errori, le strade imboccate
per errore e adesso rimpiante.
Sentiva ancora riverberarsi in lui
l’eco del desiderio che Summer gli
suscitava, e si rammaricò di tutti i giorni
che aveva sprecato. Prima di lei, dopo
di lei. Giorni che non avrebbe più
riavuto indietro.
La guardò dormire.
Sospirò.
Di felicità e di tristezza.
Da fuori lo raggiunsero le voci
allegre dei nottambuli che uscivano dai
locali in Bleecker e MacDougal Street e
si dirigevano verso i quartieri
residenziali, e per un attimo fugace
Dominik fu profondamente felice di aver
ritrovato Summer.
I momenti che avevano condiviso
quella sera erano stati normali, non parte
di un gioco.
Si addormentò, cullato dalla presenza
di lei, dal calore che il suo corpo nudo
emanava mentre gli si stringeva contro,
avvolgendolo come un balsamo.
Si svegliò alle prime luci dell’alba,
una sottile striscia chiara all’orizzonte
di Manhattan. Anche Summer era sveglia
e lo guardava, con un misto di curiosità
e affetto.
«Buongiorno» disse lei.
«Buongiorno, Summer.»
Poi tacquero, come se avessero
esaurito troppo in fretta le cose da dirsi.
«Scoprirai che sono anche un uomo
di silenzi» disse Dominik, a mo’ di
scusa.
«Non morirò» replicò Summer. «Le
parole non sono poi così importanti.
Molto sopravvalutate, credo.»
Dominik sorrise.
Forse avrebbe funzionato, dopotutto.
Forse sarebbero potuti andare oltre il
letto e le tenebre che, ne era
consapevole, entrambi nascondevano nel
profondo dell’anima. Forse.
Lei allungò la mano verso di lui, si
alzò a metà scoprendo un seno e gli
toccò il mento con le dita.
«Hai la barba lunga. Devi raderti»
disse, accarezzandolo.
«Sì» confermò Dominik. «Sono
almeno due giorni che non me la faccio»
aggiunse.
«Non tutti i segni mi piacciono» disse
Summer con un sorriso.
«I segni non sono sempre necessari»
osservò Dominik.
«No, certo» confermò lei. «Sono
sicura che troveremo un equilibrio.»
Dominik sorrise, e le toccò il seno
scoperto con tutta la delicatezza di cui
era capace. «Questo significa che
possiamo ancora essere…»
«Amici» lo interruppe Summer. «O
forse no.»
«Più che amici» aggiunse lui.
«Credo di sì» fece lei.
«Non sarà facile.»
«Lo so.»
Dominik scostò delicatamente il
lenzuolo scoprendole il corpo fino alle
cosce.
«Vedo che sei ancora depilata»
commentò.
«Sì» disse Summer. «La ricrescita
era troppo disordinata e mi metteva a
disagio. E poi comincio a piacermi in
questa versione.» Non gli raccontò che
era stato Victor a ordinarle di tenersi
depilata, anche se era vero che era
arrivata ad apprezzare la vulnerabilità
che la pelle liscia le evocava nel cuore
e nella mente, e la pura e semplice
sensualità di potersi sentire così nuda
quando si toccava.
«E se te lo chiedessi, saresti disposta
a rimanere così o a farti ricrescere i
peli?» indagò Domink. «A mio
capriccio, o magari per mio ordine?»
«Dovrei pensarci» rispose Summer.
«Se ti ordinassi di suonare il violino
per me, lo faresti ancora?»
Gli occhi di Summer brillarono nella
luce fioca dell’alba.
«Lo farei» rispose poi. «In qualunque
momento, in qualunque posto, con i
vestiti o senza, suonando qualunque
motivo, qualunque melodia…» Sorrise.
«Un dono per me?»
«Un atto di sottomissione. A modo
mio.»
La mano di Dominik si avvicinò alla
fica di Summer, indugiò sulle labbra, le
schiuse e fece scivolare dentro un dito
con deliberata lentezza.
Summer gemette, piano.
Le era sempre piaciuto fare l’amore
al mattino, ancora insonnolita. Lui
ritrasse il dito, scese dal letto e le mise
la bocca in mezzo alle cosce. Summer
gli infilò le mani tra i capelli arruffati
per guidarlo e controllare il piacere.
Aprii la porta della mia stanza,
appoggiai con delicatezza il violino sul
pavimento e mi diressi verso l’armadio.
Avevo fatto un salto a casa per prendere
un cambio di vestiti. Dominik stava a
New York solo un’altra notte e mi aveva
chiesto di andare a cena con lui e poi a
un concerto, per festeggiare.
Sarebbe
stato
uno
strano
festeggiamento. Dolceamaro. La nostra
ultima notte insieme fino a chissà
quando, un periodo che avremmo
trascorso in due continenti diversi.
“Può funzionare?” mi chiesi,
prendendo dall’armadio il vestito nero
corto, quello che avevo indossato per
lui, almeno brevemente, in occasione di
un paio dei nostri incontri.
Pensavo di sì. Dominik e io eravamo
le due metà della stessa entità.
Nemmeno un oceano avrebbe potuto
dividerci per sempre.
Preparai una piccola borsa con le
cose che mi servivano, lanciai un’ultima
occhiata al Bailly e mi diressi verso la
porta.
Dominik non era ancora stato a casa
mia.
Magari la prossima volta l’avrei
invitato.
Ringraziamenti
Vorremmo ringraziare tutte le persone
che hanno reso la stesura della serie di
Eighty Days non solo possibile ma
anche
piacevole:
Sarah
Such
dell’omonima agenzia letteraria, Jemima
Forrester e Jon Wood della Orion per
averci creduto e Matt Christie per le
fotografie (www.mattchristie.com).
Un grazie speciale a tutte le persone
senza nome che ci hanno assistiti durante
la scrittura con ricerche, sostegno e
lezioni di violino; al Groucho Club e ai
ristoranti di Chinatown per aver ospitato
le nostre riflessioni perverse; e ai nostri
rispettivi compagni per essere stati
presenti a tutte le ore del giorno e della
notte
mentre
noi
scrivevamo
freneticamente senza degnarli di uno
sguardo.
Una metà di Vina Jackson desidera
ringraziare il proprio datore di lavoro
per il supporto straordinario, per la sua
comprensione e apertura di mente.
E infine grazie ai treni della First
Great Eastern per aver dato una mano
alla fortuna con la lotteria delle
prenotazioni online che ci ha permesso
di conoscerci.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e
non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito,
noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in
alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato
specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle
condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto
esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi
distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così
come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime
dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e
dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente
secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive
modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di
scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o
altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto
dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere
alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata
pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno
essere imposte anche al fruitore successivo.
www.librimondadori.it
Eighty Days: Il colore della passione
di Vina Jackson
Copyright © 2012 by Vina Jackson
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale Eighty Days Yellow
Ebook ISBN 9788852035517
COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO
CALLO | GRAPHIC DESIGNER: GAIA
STELLA DESANGUINE | FOTO: ©
SHUTTERSTOCK (VIOLINO); ©
ISTOCKPHOTO (DONNA) | COVER
DESIGN: GRAEME
LANGHORNE/ORIONBOOKS
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