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Il mondo bizantino
i
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Il mondo bizantino
i
L’Impero romano d’Oriente (330-641)
a cura di Cécile Morrisson
ii
L’Impero bizantino (641-1204)
a cura di Jean-Claude Cheynet
iii
L’Impero greco (1204-1453)
a cura di Angeliki Laiou
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Il mondo bizantino
i
L’Impero romano d’Oriente (330-641)
a cura di Cécile Morrisson
Edizione italiana
a cura di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini
Giulio Einaudi editore
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Redazione: Paolo Stefenelli.
Ricerca iconografica: Maria Virdis.
Traduzioni: Tommaso Braccini, pp. xxiii-lxxxiii, 5-322, 487-91;
Massimo Scorsone, pp. 325-485.
Titolo originale
Le monde byzantin, I. L’Empire romain d’Orient (330-641)
© 2004 Presses Universitaires de France
© 2007 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
www.einaudi.it
ISBN
978-88-06-18610-4
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Pagina vii
Indice
p. xvii
xxii
xxiii
xxvii
lxxxv
Presentazione dell’edizione italiana di Silvia Ronchey
Nota editoriale di Tommaso Braccini
Prefazione
Introduzione metodologica e bibliografica
Avvertenza
L’Impero romano d’Oriente (330-641)
parte prima La continuità dell’Impero romano in Oriente
cécile morrisson
i. Gli avvenimenti: prospettiva cronologica
5
7
11
19
1.
2.
3.
4.
21
24
27
28
30
31
33
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
36
37
39
12.
13.
14.
42
44
46
15.
16.
17.
49
18.
Costantino, fondatore dell’Impero cristiano
Costanzo II, Giuliano, la guerra persiana e il ritorno all’unità dell’Impero (337-63)
La dinastia valentiniana e Teodosio (363-95)
Dall’unità alla divisione dell’Impero romano (395-410). I Goti e i Vandali in
Occidente e la presa di Roma (410)
L’Impero d’Oriente sotto Teodosio II (408-50): ortodossia e salvezza dell’Impero
I successori di Teodosio II. Goti e Isaurici al potere a Costantinopoli (450-91)
La fine dell’Impero d’Occidente. Teodorico e gli Ostrogoti in Italia
La stabilizzazione all’inizio del vi secolo (491-527)
Giustiniano: i primi anni, il Codice e la rivolta di Nika (527-32)
Gli inizi della riconquista: la guerra vandalica e i primi successi in Italia (533-40)
La peste, la guerra persiana e il seguito della lunga guerra gotica. Le prime ondate sclavene e cutrigure nei Balcani (540-54)
Nuovi assalti nei Balcani. La pace con la Persia (554-67)
Giustino II e Tiberio. L’arrivo dei Longobardi e degli Slavi (565-82)
Maurizio e il ritorno all’equilibrio delle forze sulla frontiera orientale e balcanica
(582-602)
Foca e gli inizi dell’ultima guerra persiana (602-10)
Eraclio di fronte alla conquista persiana della Siria e dell’Egitto (610-23)
La controffensiva di Eraclio in Armenia e la vittoria sulla Persia (623-30). La slavizzazione dei Balcani
L’emergere dell’Islam e gli inizi della conquista araba (631-41)
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Indice
viii
bernard flusin
ii. Trionfo del cristianesimo e definizione dell’ortodossia
i. la cristianizzazione dell’impero
p. 53
58
60
1. La lotta contro il paganesimo
2. L’ebraismo
3. Manicheismo, gnosi, cristiani dissidenti
ii. la definizione dell’ortodossia
62
69
75
1. La crisi ariana
2. Le lotte cristologiche: Efeso e Calcedonia (431-51)
3. La crisi calcedoniana
parte seconda Le istituzioni dell’Impero
denis feissel
iii. L’imperatore e l’amministrazione imperiale
85
88
96
99
109
1.
2.
3.
4.
5.
Introduzione: il regime imperiale e i compiti dello Stato
L’imperatore e le sue funzioni
L’ordine senatorio al servizio dello Stato
Funzioni e organi del governo centrale
I quadri territoriali e l’amministrazione locale
bernard flusin
iv. Le strutture della Chiesa imperiale
i. il vescovo, la sua chiesa, la sua città
119
120
122
124
125
127
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Chiesa locale e città
Laici e chierici
Il vescovo
Sacerdoti, diaconi, chierici subalterni
Finanze e beni della Chiesa
Istituzioni caritatevoli
ii. la gerarchia dei vescovi: metropoliti e patriarchi
127
128
1. Province e metropoli
2. Le istituzioni sovrametropolitane
iii. roma e costantinopoli
130
136
1. Roma
2. Costantinopoli
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Pagina ix
Indice
iv. alessandria, antiochia, gerusalemme; altre circoscrizioni
p. 141
143
145
146
1.
2.
3.
4.
Alessandria
Antiochia
Gerusalemme
Cipro; Africa
v. l’imperatore, i concili, il diritto canonico
147
149
150
1. L’imperatore
2. Concili ecumenici
3. Il diritto canonico
153
constantin zuckerman
v. L’esercito
i.
154
158
165
173
177
le strutture dell’esercito: il dispositivo e gli effettivi
1.
2.
3.
4.
5.
Una frontiera fortificata
L’esercito da campagna: la fanteria e la cavalleria
I soldati-frontalieri: il fallimento di un modello socio-militare
Verso un nuovo sistema di difesa territoriale
Un nuovo esercito da campagna
ii. le condizioni del servizio
181
184
187
1. Il reclutamento
2. Equipaggiamento, addestramento e paga
3. Lo svolgimento della carriera e il congedo
190
iii. la chiesa di fronte al servizio militare
192
iv. epilogo. verso l’epoca mediobizantina
parte terza La civiltà bizantina e i suoi fondamenti
cécile morrisson
vi. La capitale
197
201
205
1. Da Bisanzio a Costantinopoli: le origini (330-60)
2. Lo sviluppo della capitale (360-542)
3. Riflusso e declino (metà del vi - metà del vii secolo)
cécile morrisson
vii. Popolamento, economia e società dell’Oriente bizantino
i.
207
208
spazio e clima, popolamento e demografia
1. Spazio e clima
2. Risorse naturali e minerarie
ix
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Indice
x
p. 209
210
213
213
3.
4.
5.
6.
Una popolazione numerosa ed eterogenea
La ripartizione della popolazione
La demografia
La peste di Giustiniano e il calo della popolazione
ii. economia e società rurale
215
218
219
1. Produzioni agricole
2. Proprietà e sfruttamento
3. Organizzazione sociale
iii. economia e società urbana
221
224
224
225
1.
2.
3.
4.
La società urbana: diversità, disuguaglianze, assistenza e violenza
Le città e il loro declino
L’economia urbana e la sua organizzazione
Le relazioni città-campagna
iv. commercio e scambi
226
227
228
229
230
1.
2.
3.
4.
5.
Percorsi e trasporti terrestri
Le rotte fluviali e marittime
Gli scambi sulla base dei testi e della ceramica
L’annona e il suo trasporto
Il commercio
231
v. la moneta, strumento delle finanze imperiali e degli scambi economici
234
vi. conclusione
bernard flusin
viii. La vita religiosa. I cristiani nel mondo, il monachesimo
i.
237
241
247
252
1. Sacramenti, liturgia
2. Nuove forme di pietà
3. Verso una città cristiana?
ii. il monachesimo
253
260
263
269
270
271
273
1.
2.
3.
4.
5.
6.
L’Egitto e i suoi modelli: anacoresi e cenobitismo
La Siria
La Palestina e Gerusalemme
L’Asia Minore
Costantinopoli
Istituzionalizzazione: il tagma monastico
bernard flusin
ix. La cultura scritta
i.
274
i cristiani nel mondo
una cultura dominante: l’ellenismo cristiano
1. Paideia ellenica e cristianesimo
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Indice
p. 275
277
2. Oralità e scrittura
3. Il greco, lingua dominante
ii. l’insegnamento e le sue istituzioni
278
280
282
284
1. I tre gradi dell’insegnamento
2. Il ruolo della città e dello Stato
3. Principali centri d’insegnamento
iii. la letteratura di lingua greca
285
286
1. Importanza della letteratura profana
2. Vitalità della letteratura cristiana
iv. le letterature copta e siriaca
289
291
293
1. Letteratura copta
2. Letteratura siriaca
v. verso i secoli oscuri
jean-michel spieser
297
x. L’arte imperiale e cristiana: unità e diversità
i.
299
300
302
304
un’arte «profana»
1. L’arte nelle città
2. Un’arte imperiale
3. Un’arte per un’élite raffinata
ii. il cristianesimo nell’arte
306
310
315
1. Lo sviluppo dell’architettura cristiana
2. La decorazione delle chiese
3. Le arti suntuarie
iii. dalla fine del vi alla metà del vii secolo
317
319
1. Icone ed eulogie
2. Una nuova sensibilità cristiana
parte quarta Le province
bernard bavant
xi. L’Illirico
i.
325
329
l’illirico nel contesto delle strutture amministrative
1. L’Illirico nel contesto dell’Impero: incertezze dell’assetto amministrativo
2. Strutture amministrative dalla fine del iv al principio del vii secolo
xi
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xii
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Pagina xii
Indice
ii. costanti della vita regionale fino alle invasioni slave
p. 335
338
342
1. L’ambiente e le vie di comunicazione
2. L’assetto antropico del territorio
3. Il radicamento del cristianesimo
iii. dalla fine del iv all’inizio del v secolo: una prosperità regionale fragile
e insicura
344
346
351
353
358
1.
2.
3.
4.
5.
Gli avvenimenti: incursioni gotiche e unniche
Le città e il contesto urbano
Le campagne
La produzione e gli scambi
La politica difensiva: ruolo del limes e difesa in profondità
iv. da giustiniano a eraclio: l’epoca dei grandi sconvolgimenti
359
367
371
1. Incursioni e successivi insediamenti graduali degli Slavi
2. L’Illirico nella politica imperiale
3. Conseguenze dell’insediamento degli Slavi
jean-pierre sodini
xii. L’Asia Minore
i.
377
379
lo zoccolo anatolico: il suolo e gli uomini
1. Definizione geografica: estensione e diversità
2. Diversità di popolamento
ii. l’amministrazione
380
381
383
389
390
392
392
394
394
1. L’amministrazione centrale e regionale
2. Le vie di comunicazione terrestri, l’amministrazione e la difesa del territorio
3. Amministrazione locale: città e villaggi
iii. il cristianesimo
1.
2.
3.
4.
5.
La lotta contro il paganesimo
La lotta contro il giudaismo
Le sette e le eresie
L’ascesa del monachesimo
Il prestigio spirituale delle mete di pellegrinaggio
iv. produzione, demografia e vita economica
395
398
1. Produzione agricola
2. La produzione artigianale
401
v. importazioni e trasporti marittimi
401
vi. conclusione
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Pagina xiii
Indice
georges tate
xiii. La Siria-Palestina
i.
p. 403
404
407
408
416
dati costanti: unità e diversità fisiche e antropologiche
1.
2.
3.
4.
Le condizioni naturali
Lingue e identità
Il quadro amministrativo
I paesaggi
ii. economia e società
417
422
424
1. Le città
2. Le campagne
3. I rapporti città-campagna
iii. espansione e mutamenti (330 - metà del vi secolo)
425
426
428
428
1.
2.
3.
4.
Crescita demografica ed economica
Espansione e divisioni nella cristianità
Cambiamenti nei rapporti sociali
La crescita del dissenso
iv. le difficoltà e la fine della siria bizantina (540-636)
429
432
435
1. I flagelli
2. I cambiamenti
v. conclusione
jean gascou
xiv. L’Egitto bizantino (284-641)
437
440
442
443
444
445
446
447
449
450
451
452
455
457
459
461
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
Periodizzazione, generalità storiche
Il contesto geografico
Stili di vita marginali
La vita rurale
Lavoro e servizi
Caratteri etnici
Greci e Copti
Greco e copto
Latinizzazione e romanizzazione
I comprensori provinciali
Il governo
Le città
Finanze pubbliche
L’esercito
La società
Educazione e vita intellettuale
xiii
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Indice
xiv
p. 462
464
467
469
471
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17.
18.
19.
20.
21.
Il cristianesimo
Monachesimo
I rivali del cristianesimo
Alessandria
L’Egitto e Bisanzio
475
Conclusioni
481
Sintesi cronologica
487
Glossario
493
Indice analitico
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Indice delle illustrazioni
nel testo:
p. 8
1. Le dinastie costantiniana, valentiniana, teodosiana e relativi legami matrimoniali.
Carte.
12-13
41
1. Le divisioni amministrative dell’Impero secondo la Notitia Dignitatum.
2. La frontiera orientale.
200
3. Costantinopoli nel vi secolo.
267
4. I monasteri nei pressi di Gerusalemme.
327
5. L’Illirico orientale.
378
6. L’Asia Minore.
405
7. La Siria-Palestina.
439
8. L’Egitto.
fuori testo, tra le pp. 130 e 131:
1. Veduta della «colonna bruciata», ossia di Costantino, a Istanbul, 330 circa.
(Foto DeAgostini / Archivi Alinari).
2. L’obelisco di Teodosio nell’Ippodromo a Istanbul, 390 circa.
(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).
3. L’imperatore Teodosio e la sua corte al Circo, particolare dell’obelisco di Teodosio nell’Ippodromo a Istanbul, 390 circa.
(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).
4. La Porta Curva, veduta delle mura di Teodosio a Istanbul, prima metà del v secolo.
(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).
5. La Porta d’Oro, veduta delle mura di Teodosio a Istanbul, prima metà del v secolo.
(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).
6. Veduta esterna di Santa Sofia a Istanbul, vi secolo (con aggiunte successive).
(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).
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Indice delle illustrazioni
xvi
7.
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Veduta interna di Sant’Irene a Istanbul, vi secolo (ristrutturata nell’viii).
(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).
8.
Veduta interna di Santa Sofia a Istanbul, vi secolo.
(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).
9.
Gruppo dei tetrarchi in piazza San Marco a Venezia, porfido, primo quarto del iv
secolo.
(Foto Scala, Firenze).
10.
Testa del cosiddetto «colosso di Costantino», bronzo, prima metà del iv secolo.
Roma, Musei Capitolini. (Foto The Art Archive).
11.
Frammenti del «colosso di Costantino», marmo, prima metà del iv secolo.
Roma, Musei Capitolini, cortile. (Foto Scala, Firenze).
12.
Il cosiddetto «colosso di Barletta», bronzo, v secolo.
(Foto Lessing/Contrasto).
13.
Testa dell’imperatore Arcadio, marmo, fine iv secolo.
Istanbul, Museo Archeologico. (Foto Lessing/Contrasto).
14.
Sarcofago imperiale, porfido, v secolo.
Istanbul, Museo archeologico, cortile. (Foto The Art Archive).
15-17. Testa in intreccio di viti; Uomo che munge le capre; Uomo con asino e cesto.
Particolari dei mosaici dal Gran Palazzo di Istanbul, 500 circa.
Istanbul, Museo dei Mosaici. (Foto Scala, Firenze).
18.
Cristo nell’abside, mosaico, vi secolo.
Salonicco, Hosios David. (Foto Ullstein / Archivi Alinari).
19.
Icona di Cristo, encausto su tavola, vi secolo.
Sinai, Museo di Santa Caterina. (Foto Bridgeman / Archivi Alinari).
20.
Icona di San Pietro, encausto su tavola, vi secolo.
Sinai, Museo di Santa Caterina. (Foto Photoservice Electa).
21.
Icona della Vergine, encausto su tavola, vi secolo.
Sinai, Museo di Santa Caterina. (Foto Bridgeman / Archivi Alinari).
22.
Anta del dittico consolare di Areobindo, avorio, vi secolo.
Parigi, Musée national du Moyen Âge - Thermes de Cluny. (Foto Gérard Blot, RMN / Archivi
Alinari).
23.
Arianna, avorio, prima metà del vi secolo.
Ibidem.
24.
Giacomo e Rebecca, pagina miniata dalla cosiddetta «Genesi di Vienna», vi secolo.
Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. (Foto AKG Images / Photoservice Electa).
25.
L’entrata di Cristo a Gerusalemme, pagina miniata dal codice purpureo di Rossano
Calabro, vi-vii secolo.
Rossano Calabro, Museo Diocesano. (Foto Archivi Alinari).
26.
Pilato mostra Cristo e Barabba alla folla, pagina miniata dal codice purpureo di Rossano Calabro, vi-vii secolo.
Ibidem.
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Presentazione dell’edizione italiana
1. Un fantasma si aggira per l’Europa.
Un fantasma si aggira per l’Europa del xxi secolo, dopo che il Secolo Breve, il xx, ne ha liquidato sanguinosamente gli ultimi discendenti.
È il fantasma di Bisanzio ad aleggiare sulle zone incandescenti del nostro mondo attuale, sulle sue aree di conflitto, sulle sue faglie d’attrito,
dai Balcani al Caucaso, dall’Anatolia alla Mesopotamia.
È stato un grande storico francese, Fernand Braudel, a insegnarci a
guardare la storia, in particolare la storia cosiddetta medievale, individuando come sua unità centrale il Mediterraneo e chiamando in causa
quello che ha denominato il Mediterraneo Maggiore: la «zona spaziodinamica, che rievoca un campo di forze magnetico o elettrico», estesa fino al Mar Rosso, al Golfo Persico, all’Oceano Indiano, in cui si è irradiata la civiltà mediterranea. Una civiltà che, secondo Braudel, si misura da questi irradiamenti, poiché «il destino della civiltà mediterranea
è più facile a leggersi nei suoi margini esterni che non al centro».
Non è un caso che il Mediterraneo Maggiore di Braudel coincida con
le zone di attrito, di contrapposizione etnica, di crisi del nascente xxi
secolo. Che proprio quelle zone rappresentino oggi il problema maggiore per la storia presente, di cui, da contemporanei, non possiamo che
fare la cronaca evenemenziale, quella «degli eventi singoli visti dai contemporanei al ritmo della loro breve vita». Una storia, quindi, non delle onde lunghe, ma delle increspature brevi, di superficie: una storiaracconto soggetta alla nostra contingente visione e filosofia della storia,
se non all’ideologia e alla propaganda politica.
Le cose cambiano, però, se smettiamo di ignorare che queste aree
geopolitiche sono abitate dal fantasma dell’Impero «romano» di Bisanzio, essendo le stesse in cui per undici secoli l’Impero bizantino, nella
sua continuità con l’Impero romano, ha composto i conflitti e amalgamato le continue migrazioni di popoli, considerate causa della cosiddetta caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476, in un’unica civiltà:
quella romana d’Oriente, appunto, ai cui primi secoli è dedicato il primo volume di questa monumentale opera.
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Presentazione dell’edizione italiana
Prodotto ultimo della scuola del grande Paul Lemerle, curato da
un’autorità della bizantinistica mondiale come Cécile Morrisson e scritto insieme a lei dagli altri massimi bizantinisti francesi facenti capo all’ormai leggendario Centre d’Histoire et Civilisation de Byzance della
rue Cardinal Lemoine a Parigi, L’Impero romano d’Oriente è dedicato
non solo alla narrazione cronologica, ma anche e soprattutto all’analisi
delle strutture e delle istituzioni, alla ricognizione delle realtà materiali e alla ricostruzione delle categorie spirituali, espresse sia nella politica, sia nella cultura letteraria e artistica, e sia nel centro sia nelle cruciali e fervide periferie di quella che per consuetudine gli studiosi delimitano come la prima fase storica dell’Impero, dall’inaugurazione della
capitale di Costantino sul sito dell’antica Bisanzio nel 330 sino agli inizi della conquista araba, alla metà del vii secolo.
2. L’Impero romano non è mai caduto.
Un’oceanica distesa di antiche colonne e statue investita da un’immensa onda di mosaici, una foresta d’oro e di reliquie fiorita di cupole,
invasa da una moltitudine di santi, ma incessantemente percorsa anche
da mercanti di ogni razza, sommersa da una circolazione monetaria variegata, solcata da un’inestinta rete viaria, costellata di fortezze e stazioni di posta e posti di dogana, cosparsa di monasteri e biblioteche traboccanti di innumerevoli icone e inestimabili libri in cui la tradizione
letteraria e filosofica classica non cessò mai di rinascere e moltiplicarsi:
Bisanzio, a chi si accosta abbastanza da vicino alla sua civiltà da coglierne le dimensioni e osservarne le sfaccettature, come consente di fare già
il primo volume di quest’opera destinata a restare normativa per l’insegnamento a ogni livello della storia e della cultura bizantine, può sembrare un mondo a sé, esotico, metafisico, quasi un’allostoria.
Ma se guardiamo la nostra civiltà mettendo al suo centro il Mediterraneo e tenendo conto degli eventi della sua sponda orientale, non possiamo non constatare anzitutto che Costantinopoli, la città che Costantino fondò, non era una Seconda Roma solo di nome, o solo perché l’imperatore suo eponimo, si dice, volle costruirla come un vero e proprio
clone della prima, e i suoi primi successori vi individuarono perfino –
pur con qualche forzatura – sette colli. Lo era e lo sarebbe stata di fatto, perché la tradizione statale e l’eredità giuridica dell’Impero romano
tardoantico vi si trasferirono per resistervi fino al 1453 – e, in realtà,
forse anche oltre.
Gli spostamenti di popoli, le Völkerwanderungen cui si ritiene dovu-
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Presentazione dell’edizione italiana
xix
ta la cosiddetta caduta dell’Impero romano nel 476, non hanno interessato solamente l’Europa occidentale, ma anche l’entità geopolitica in cui
l’Impero romano si era trasferito, la stessa che da quel momento in poi
chiamiamo «Impero bizantino». Se consideriamo anzitutto questa circostanza, come gli autori del nostro libro fanno, analizzandone singolarmente le casistiche, non possiamo non riconoscere che quel particolare accidente, la caduta in mano «barbarica» della dismessa Prima Roma e dell’Italia, non è poi così importante dal punto di vista di una storia
del Mediterraneo che non sia strettamente eurocentrica, o cattocentrica, o francocentrica, come di fatto è troppo spesso stata.
Nel v secolo l’ondata di genti straniere o «barbariche» che travolse
la pars Occidentis investì anche la pars Orientis. Ma fu inglobata all’interno delle sue strutture di potere, che erano per l’appunto le strutture
dell’Impero romano tardoantico; cosicché non solo non ne provocò la
fine, ma, mescolandosi alle sue élites e rinnovandole, inaugurò nell’Impero romano d’Oriente un meccanismo di ricambio e ibridazione sociale ed etnica – quello che un grande storico come Alexander Kazhdan ha
chiamato il «dinamismo verticale delle élites bizantine» – che avrebbe
alimentato il suo protrarsi lungo tutto quello che chiamiamo il Medioevo e fino alle soglie di quella che chiamiamo Età moderna.
Fu così che in tutte le sue strutture amministrative e burocratiche
l’Impero fu un melting pot, un calderone in cui la paideia greca e la cultura statale romana amalgamavano una varietà di razze e popoli: greci e
balcanici, serbi, dalmati, bulgari, ungari, peceneghi, russi e variaghi, cumani, alani, georgiani, càzari, turchi selgiuchidi, armeni e curdi, oltreché gli ebrei, i molti arabi, i mercenari normanni e italiani, e dopo il
Duecento gli eredi dei crociati franchi. Destinati a divenire, sempre e
comunque, rhomaioi.
Fu così che l’aristocrazia bizantina divenne fin da subito multirazziale, provenendo dal grande crocevia di un Impero euroasiatico, internazionale per vocazione geografica oltre che politica e diplomatica. Se
le alleanze matrimoniali delle dinastie porfirogenite e dei grandi gene costantinopolitani immisero nella genealogia imperiale di Bisanzio sangue
franco, germanico, slavo, turco, mongolo, circasso, nei mille e cento anni di vita dell’Impero il principio dell’assimilazione etnica aveva riguardato non solo le dinastie coronate, ma tutta la classe notabile bizantina.
Per le vie di Costantinopoli si potevano incontrare i russi, gli svedesi, i
baltici insieme agli orientali. Si mescolavano, come scrive ancora uno
storico turco quattrocentesco, «le bellezze greche, franche, russe, ungheresi, cinesi, khotanesi … le belle dai morbidi capelli, uguali alle chiome degli idoli, appartenenti alle razze più diverse». La mescolanza raz-
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ziale dà una fisionomia non mediterranea ai giovani «che suscitano turbamento, incontri paradisiaci … ragazzi dall’alta taglia e dalle gote tinte di rosa … dalle ciglia simili ad arcate … dal naso affilato … dalle tempie ricurve»; conferisce una bellezza soprannaturale alle «fanciulle simili alle stelle della Lira, fresche come il gelsomino, dalle guance violette,
dai capelli ondulati, dalla statura di cipresso, dal volto simile al sole, dalla fronte paragonabile alla luna … hanno la cintura del Sagittario, le ciglia della costellazione della Vergine e i capelli dei Pesci…»
Ma che l’Impero romano non sia in effetti mai caduto i sudditi di Costantino e dei suoi successori ne erano consapevoli da sempre. Non a caso continuavano a considerare e chiamare «romano», a buon diritto, il
loro formidabile stato. Se guardiamo la nostra storia come questo articolato manuale ci consente di fare, inforcando, per così dire, occhiali bizantini, adottando cioè l’ottica della superpotenza militare, economica,
politica e anche culturale egemone nel Medioevo mediterraneo (anche se
oggi la nostra memoria collettiva occidentale ha censurato o rimosso questo dato, se solo si pensa all’accezione negativa, dura a morire, che hanno assunto i termini «bizantino» e «bizantinismo»), non possiamo non
arrivare alla conclusione che la cultura – nel senso più lato del termine –
antica abbia semplicemente percorso un’ellissi, così come l’aveva compiuta la sua capitale, rifondata spostando il baricentro dell’Impero un po’
più a est. E non certo per un’ispirazione improvvisa e arbitraria, ma seguendo il flusso degli investimenti della classe senatoria, e la molteplicità
di cause e necessità di ciò che chiamiamo storia.
3. Perché, oggi, Bisanzio.
Se supponiamo che l’Impero romano e in generale la civiltà classica
non sia affatto finita in quello che viene considerato il momento della
«fine dell’Antichità» e dell’inizio del Medioevo, ma abbia compiuto
un’ellissi di undici secoli, ci sarà più facile realizzare quanto direttamente la grande civiltà umanistica di Bisanzio, con il suo susseguirsi di rinascenze, abbia passato il suo testimone all’Europa, dando vita a ciò che
chiamiamo «il» Rinascimento, e facendo tornare alla Prima Roma il culto dei classici e la filosofia platonica: quella che in età moderna si ricostituirà, per usare l’espressione di Eugenio Garin, in «ideologia dell’eversione europea», ma che a Bisanzio, contrariamente all’Occidente,
non si era mai estinta, così come non aveva mai cessato di perpetuarsi
la trasmissione dei saperi e dei testi classici.
Riguardo poi alla parte propriamente politica dell’eredità del primo
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imperatore che rese il cristianesimo religione di Stato e tuttavia fondò
il cosiddetto cesaropapismo – l’estromissione del clero dal potere temporale divinizzato nella figura dell’autocrate secolare – e riguardo all’eredità civile del suo Impero – la multietnicità, la già citata capacità di
amalgamare e integrare sempre diverse etnie in un’unica politeia amministrativa –, questa duplice eredità si sarebbe trasmessa, alla caduta della Polis di Costantino, in parte all’Impero ottomano, suo diretto conquistatore, in parte a quello russo, suo immediato continuatore. Imperi multietnici, dove la sopravvivenza della cultura romano-bizantina fu
apertamente assicurata.
Perché, se nel 1453 venne meno l’osmosi culturale tra Oriente e Europa occidentale, non si estinse, in quelle due propaggini nord- e sudorientali, la vocazione imperiale di mediazione tra le etnie. I sultani non
soltanto applicarono il diritto romano in quanto diritto consuetudinario dei popoli cristiani soggiogati, ma mutuarono con rispetto e precisione strutture amministrative e fiscali dell’Impero bizantino. Lo stesso vale per il mondo russo. Ivan IV Groznij, com’è noto, fece discendere il proprio potere da quello dei cesari, ossia da una successione
ininterrotta di imperatori romani e bizantini.
Guardando la storia da questo punto di vista, è forse meno arduo
comprendere il turbolento esordio del xxi secolo. Faglie di attrito antichissime, preromane e prebizantine, hanno ricominciato a entrare in moto complesso nel momento in cui gli eredi di Bisanzio si sono disgregati. Il fantasma di Bisanzio aleggia in tutte le aree di irradiazione della
civiltà multietnica romana, in cui gli imperi multinazionali subentrati
avevano saputo tenere a freno gli scontri fra etnie, dall’Illiria al Chersoneso nel caso del blocco sovietico, nelle antiche pianure della Sogdiana e della Bactriana, che oggi chiamiamo Afghanistan, Iran e Iraq, per
quello ottomano. Dopo il disgregarsi dei due Imperi, l’uno all’inizio e
l’altro alla fine del Novecento, ravvivare la memoria attraverso lo studio del loro e nostro comune denominatore bizantino può e deve essere un punto di forza, quando parliamo oggi di «scontro di civiltà» tra
Oriente islamico e Occidente cristiano.
silvia ronchey
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Nota editoriale
L’edizione italiana del primo volume di Le monde byzantin presenta
una serie di significativi aggiornamenti e ampliamenti rispetto alla pubblicazione originale.
In primo luogo, l’editore francese ha fornito un’ampia lista di correzioni e integrazioni; e anche alcuni degli autori dei saggi di cui è composta l’opera, oltre a verificare e approvare le scelte dei traduttori, hanno comunicato un’ulteriore serie di preziose emendazioni e aggiunte. La
bibliografia (ove possibile italianizzata) e l’indice analitico del volume,
questi strumenti indispensabili per la proficua fruizione dell’opera, sono stati a loro volta rielaborati, in modo da renderli di più facile consultazione (in particolare, nel secondo caso, con l’inserzione di sottolemmi
che aiutano a districarsi tra i molteplici riferimenti cui si rimanda per le
voci principali). Alcuni estesi rimandi bibliografici presenti all’interno
del testo, che rischiavano di affaticare il lettore e di interrompere il filo della trattazione, sono stati convertiti, conformemente alla consuetudine scientifica, in note di chiusura.
Soprattutto, infine, grazie alla disponibilità dell’editore italiano si è
potuto creare ex novo un ampio inserto iconografico a colori, una sorta
di «capitolo per immagini» aggiuntivo che introduce una dimensione
complementare a quella del testo, per una più diretta comprensione di
vari aspetti inerenti l’architettura, l’urbanistica, la storia dell’arte e del
costume dell’Impero romano d’Oriente.
tommaso braccini
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Prefazione
Il fondatore della «Nouvelle Clio», il nostro maestro Paul Lemerle
(1902-89), aveva evidentemente previsto di dedicare un volume della
collana alla storia di Bisanzio, che tanto ha contribuito a rinnovare. Il
destino non l’ha voluto. Il nostro dovere era quello di consegnare al pubblico universitario la necessaria messa a punto sulla questione. Ma parliamo, piuttosto, di introduzione, giacché il materiale e la massa delle
pubblicazioni sono così abbondanti, che nello spazio accordato si è dovuto necessariamente concentrare e addensare l’esposizione, senza nuocere troppo, speriamo, alla sua chiarezza.
Questo primo volume della serie di tre che copriranno la storia dell’Impero d’Oriente fino alla sua caduta nel 1453 è consacrato al periodo fondante, che va dall’inaugurazione della capitale di Costantino sul
sito dell’antica Bisanzio nel 330 agli inizi della conquista araba, alla metà
del vii secolo, dalla quale vengono determinati i limiti territoriali ridotti dell’Impero mesobizantino. La trattazione si conclude simbolicamente con la fine del regno di Eraclio nel 641, senza attribuire a quest’ultimo, come si faceva in precedenza, riforme sistematiche dell’amministrazione e dell’esercito. Ogni scansione spaziale e temporale è in effetti più
o meno arbitraria e discutibile, e l’aggettivo «bizantino» – che deriva
dall’antico nome di Costantinopoli e dal xvii secolo serve per comodità
per designare l’Impero d’Oriente – ha ricevuto accezioni cronologiche
assai differenti. Se il 1453 è una fine celebre e poco contestata, i punti
di partenza variano di parecchi secoli, dal periodo tetrarchico (Stein) e
dalle sue riforme, che innervano l’Impero di Costantino, alla spartizione dell’Impero alla morte di Teodosio nel 395, all’inizio del vii secolo
per Jones (602), se non addirittura all’incoronazione di Carlo Magno
nell’800 per Bury. La nostra scelta sottolinea due avvenimenti o fenomeni notevoli: da un lato la fondazione di Costantinopoli, che alla fine
comporta lo spostamento del centro di gravità dell’Impero verso il Mediterraneo orientale, dall’altro la conversione dell’imperatore e la cri-
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stianizzazione progressiva dello Stato e della società; e noi analizziamo
le nuove linee di forza di un Impero che non ha niente di decadente.
L’Impero diviene progressivamente un impero greco e cristiano senza cessare di essere romano, come verrà affermato nella propria titolatura dai sovrani che più tardi – e fino alla fine – si qualificheranno sulle proprie monete come ek theou basileis Rhomaion (per grazia di Dio
imperatori dei Romani). Queste linee di demarcazione politiche, religiose e sociali non sono pertinenti per tutti i settori, e nello studio dello
Stato e dell’esercito D. Feissel e C. Zuckerman non hanno mancato di
risalire da una parte al 284, e dall’altra di spingere alcune analisi oltre il
641. Ci saranno dunque inevitabilmente delle sovrapposizioni tra la fine del presente volume e l’inizio del secondo, diretto da J.-C. Cheynet,
e dedicato al periodo «mesobizantino» (641-1204).
Soprattutto, il periodo «protobizantino» trae le sue radici, senza
identificarvisi totalmente, da quello che un tempo si chiamava, per una
contrapposizione cronologica con l’alto Impero, ma talora anche con
qualche disprezzo e tenace pregiudizio, «basso Impero». Dopo i saggi
suggestivi di H.-I. Marrou [134] e P. Brown [143], la nozione e le sue
stesse realtà sono state vigorosamente riabilitate a vantaggio del concetto di «tarda Antichità» (lo spätrömisch inventato da A. Riegl nel 1901),
esplorato in innumerevoli studi e in particolare nell’eccellente rivista
«Antiquité Tardive» nata a Parigi nel 1993. Gli inizi di Bisanzio derivano evidentemente dalla storia della tarda Antichità; in questo caso,
abbiamo cercato di ridurre il più possibile le prevedibili sovrapposizioni (concernenti la storia «evenemenziale», amministrativa e militare,
economica e sociale) con studi riguardanti genericamente l’Impero romano tardoantico, incentrando la nostra trattazione sulle province orientali, che risultano conseguentemente privilegiate anche per quanto riguarda le trattazioni regionali. Infatti, sul modello dei volumi della
«Nouvelle Clio» dedicati all’alto Impero, il piano seguito in questo caso, dopo un’introduzione sugli avvenimenti politici e religiosi (capp. i e
ii), distingue le strutture e i tratti comuni (Stato, Chiesa, esercito, economia e società, vita religiosa, culturale e artistica, capp. iii-x) dallo studio delle diversità regionali (capp. xi-xiv). In questa sede non è stata dedicata una trattazione specifica all’Africa e all’Italia, riconquistate da
Giustiniano nel vi secolo, ma il volume sul periodo mesobizantino diretto da J.-C. Cheynet tornerà sulla situazione di queste province ancora bizantine per un tempo più o meno lungo dopo il 641.
Ogni sovrapposizione non è necessariamente un male, né ogni sconfinamento una manifestazione d’annessionismo. Dal tempo degli incontri del Collège de France del 1985, pubblicati in Hommes et richesses dans
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l’empire byzantin, I. ive-viie siècle [159], siamo convinti dell’utilità di un
approccio comune, di fronte a varie realtà, tra «occidentalisti» o «antichisti» e «bizantinisti», separati da etichette universitarie. In maniera
analoga ad altri studiosi (ne fanno testimonianza i volumi di Società romana e impero tardoantico (SRIT) diretti da A. Giardina [162], quelli della Storia di Roma, III [152] e i capitoli dei recenti volumi della Cambridge Ancient History diretti da A. Cameron e P. Garnsey [141]), da
trent’anni a questa parte abbiamo visto le nostre prospettive rovesciate e rinnovate dall’esplosione di nuovi dati dell’archeologia (in senso lato, compresa la numismatica) o dell’archeometria o delle scoperte epigrafiche. Questo volume dà loro lo spazio che meritano, in particolare
nei capitoli riguardanti l’economia e le province.
I capitoli individuali sono stati coordinati per quanto possibile, lasciando ai rispettivi autori la propria libertà di pensiero, in particolare
per quanto riguarda i punti dibattuti dalla ricerca, sui quali si attira l’attenzione nel corso della trattazione. Pur in maniera troppo stringata,
desideriamo infine ringraziare l’editore e i direttori della collana per la
lunga pazienza, il Centre d’histoire et civilisation de Byzance per la preparazione delle mappe, e Dumbarton Oaks per l’ausilio procurato dalle
sue ricche risorse bibliografiche.
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Introduzione metodologica e bibliografica
abbreviazioni di opere e riviste.
AASO
AB
ABSA
AFLN
AHB
AnIsl
AnnalesESC
ANRW
AnTard
APapyrol
APF
AS
BAR
BASP
BCH
BEFAR
BGU
BHG
BIFAO
BMGS
BSAF
ByzF
BZ
CahCM
CahHistM
CArch
CCAB
CE
CFHB
ChHist
CI
«The Annual of the American Schools of Oriental Research»
«Analecta Bollandiana»
«The Annual of the British School at Athens»
«Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli»
«The Ancient History Bulletin»
«Annales islamologiques»
«Annales. Économies, Sociétés, Civilisations»
Aufstieg und Niedergang der römischen Welt
«Antiquité Tardive»
«Analecta Papyrologica»
«Archiv für Papyrusforschung und verwandte Gebiete»
«Anatolian Studies»
«British Archaeological Reports»
«The Bulletin of the American Society of Papyrologists»
«Bulletin de Correspondance hellénique»
«Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome»
Ägyptische Urkunden aus den staatlichen Museen zu Berlin. Griechische
Urkunden, Berlin 1895 sgg.
Bibliotheca hagiographica graeca e Auctarium [40]
«Bulletin de l’Institut français d’Archéologie orientale»
«Byzantine and Modern Greek Studies»
«Bulletin de la Société nationale des antiquaires de France»
«Byzantinische Forschungen»
«Byzantinische Zeitschrift»
«Cahiers de civilisation médiévale»
«Cahiers d’histoire mondiale»
«Cahiers archéologiques»
«Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina»
«Chronique d’Égypte»
Corpus Fontium Historiae Byzantinae [62]
«Church History»
Codex Iustinianus [66]
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Introduzione metodologica e bibliografica
CIAC
CIC
CISAM
CRAI
CRIPEL
«Actes du Congrès International d’Archéologie Chrétienne»
Corpus Iuris Civilis
Centro italiano di Studi sull’alto medioevo, Spoleto
«Comptes rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres»
«Cahiers de Recherche de l’Institut de Papyrologie et d’Égyptologie de
Lille»
«Cristianesimo nella Storia»
Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium [63]
Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae [65]
Codex Theodosianus [67]
«Collection des Universités de France» [68]
«Dumbarton Oaks Papers»
«Epigraphica Anatolica»
Economic History of Byzantium [518]
«English Historical Review»
«Échos d’Orient»
«Harvard Library Bulletin»
Hommes et richesses dans l’empire byzantin [159]
«Harvard Studies in Classical Philology»
«Illinois Classical Studies»
Inscriptions grecques et latines de la Syrie, 7 voll., Paris 1929-70
«Istanbuler Mitteilungen»
«Journal of the American Research Center in Egypt»
«Jahrbuch für Antike und Christentum»
«Journal of Early Christian Studies»
«Journal of Hellenic Studies»
«The Journal of Juristic Papyrology»
«Journal of Jewish Studies»
«Journal of Military History»
«Jahrbuch der österreichischen Byzantinistik» (prima del 1969, JÖBG)
«Journal of Roman Archaeology»
«Journal of the Royal Asiatic Society»
«Journal of Roman Military Equipment Studies»
«Journal of Roman Studies»
«Journal des Savants»
«Journal of Theological Studies»
«Loeb Classical Library» [72]
«Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité»
«Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge»
Monumenta Germaniae Historica:
Auctores Antiquissimi
Epistolae
«Mitteilungen zur chrislichen Archäologie»
CrSt
CSCO
CSHB
CTh
CUF
DOP
EA
EHB
EHR
EO
HLB
Hommes
HSPh
ICS
IGLSyr
IstMitt
JARCE
JbAC
JEChrSt
JHS
JJP
JJS
JMH
JÖB
JRA
JRAS
JRMES
JRS
JS
JTS
Loeb
MEFRA
MEFRM
MGH
AA
Ep
MiChA
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Introduzione metodologica e bibliografica
Mirac. Dem.
NC
NMS
Nov.
OCP
ODB
PBSR
PCPhS
PG
PL
PLRE
PO
RE
REAug
REB
RechPap
REG
RH
RIC
RIS
RN
RQH
RSR
RThL
SB
SC
SCI
SCO
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SEG
SRIT
TAPhA
TIB
TM
TRW
VetChr
VTIB
WIH
YClS
ZBB
ZKG
ZPE
ZRVI
Les plus anciens miracles de saint Démétrius [211]
«The Numismatic Chronicle»
«Nottingham Medieval Studies»
Corpus Iuris Civilis, III. Novellae, a cura di Schoell-Kroll
«Orientalia Christiana Periodica»
The Oxford Dictionary of Byzantium [13]
«Papers of the British School at Rome»
«Proceedings of the Cambridge Philological Society»
Patrologiae cursus completus. Series Graeca, a cura di J.-P. Migne
Patrologiae cursus completus. Series Latina, a cura di J.-P. Migne
The Prosopography of the Later Roman Empire [158]
Patrologia Orientalis [78]
Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft [14]
«Revue des Études Augustiniennes»
«Revue des études byzantines»
«Recherches de papyrologie»
«Revue des études grecques»
«Revue Historique»
The Roman Imperial Coinage [111]
«Rivista Italiana di Storia»
«Revue Numismatique»
«Revue des questions historiques»
«Revue des Sciences Religieuses»
«Revue théologique de Louvain»
Sammelbuch griechischer Urkunden aus Aegypten
«Sources chrétiennes» [81]
«Scripta Classica Israelica»
«Studi classici e orientali»
«Symbolae Osloenses»
Supplementum Epigraphicum Graecum, Leiden 1923 sgg.
Società romana e impero tardoantico [162]
«Transactions of the American Philological Association»
Tabula Imperii Byzantini [31]
«Travaux et Mémoires», Cnrs - Collège de France
«Transformation of the Roman World»
«Vetera Christianorum»
Veröffentlichungen der Kommission für die Tabula Imperii Byzantini
«War in History»
«Yale Classical Studies»
«Zentralblatt für Bibliothekswesen»
«Zeitschrift für Kirchengeschichte»
«Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik»
«Zbornik Radova Vizantolo‰kog Instituta»
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Introduzione metodologica e bibliografica
strumenti bibliografici generali.
Si può consultare la bibliografia analitica e critica (brevi cenni nelle principali lingue europee) della «Byzantinische Zeitschrift» (due numeri all’anno). Questa bibliografia, iniziata nel 1892, è disponibile su cd-rom per il periodo 1991-2002 ed è aggiornata annualmente (K. G. Saur, München-Leipzig 2002).
[1] karayannopoulos j., weiss g., Quellenkunde zur Geschichte von Byzanz, Wiesbaden 1982, 2 voll. (invecchiato ma ricchissimo).
[2] boutet d. (a cura di), Guide interdisciplinaire des études médiévales, Paris-Genève (in corso di stampa).
Cataloghi di biblioteche e informazioni online.
www.college-de-france.fr/chaires/chaire23
sito del Centre d’Histoire et Civilisation de Byzance, collegamenti con le istituzioni e i principali cataloghi bibliotecari, liste delle pubblicazioni francesi e bibliografia dei ricercatori.
portail.univ-lyon2.fr/z3950/pmc/page.php
rete «Premier Millénaire Chrétien», catalogo delle principali biblioteche parigine che offrono risorse su questo periodo.
quinet.college-de-france.fr
catalogo delle biblioteche specializzate del Collège de France, tra cui le biblioteche bizantine.
www.doaks.org
sito di Dumbarton Oaks (Washington DC), catalogo della sua eccezionale biblioteca e versione elettronica di varie pubblicazioni importanti (vedi oltre).
www.unifr.ch/scant
sito dell’Università di Friburgo (Svizzera), bibliografie e utili indicazioni per gli
studenti.
www.fordham.edu/halsall/byzantium
sito americano che offre bibliografie, scelte di testi tradotti, programmi di corsi
e collegamenti.
dizionari, enciclopedie e atlanti.
[3] Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, 15 voll., Paris 1907-53 (invecchiato, ma assai ricco).
[4] Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, a cura di Ch. Daremberg e E. Saglio, Paris 1877-1916.
[5] Dizionario enciclopedico del Medioevo, 3 voll., a cura di A. Vauchez (ed. it. a cura di C. Leonardi), Roma-Parigi-Cambridge 1998.
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Introduzione metodologica e bibliografica
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[6] Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, a cura di A. Baudrillart, Paris 1912 sgg.
[7] Dictionnaire de spiritualité, Paris 1936-95.
[8] Dictionnaire de théologie catholique, Paris 1903-47 (confessionalmente schierato,
ma assai utile).
[9] Encyclopédie de l’Islam, Leiden 1960 sgg.
[10] Lexikon des Mittelalters, Stuttgart 1977-99 (anche in cd-rom).
[11] Der Kleine Pauly, München 1979 (sunto della RE).
[12] Der Neue Pauly, Stuttgart-Weimar 1996 sgg. (già usciti: voll. 1-8 (A-Opus), 1314 (Rezeptions- und Wissenschaftsgeschichte, A-Fo, Fr-Ky).
[13] The Oxford Dictionary of Byzantium, a cura di A. Kazhdan, 3 voll., Oxford 1991.
[14] pauly-wissowa, Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, 83 voll.,
Stuttgart 1894-1972; Gesamtregister (con cd-rom).
[15] andresen c., denzler g., Wörterbuch der Kirchengeschichte, München 1982.
[16] cross f. l., Oxford Dictionary of the Christian Church, London 1957.
[17] Reallexikon zur Byzantinischen Kunst, Stuttgart 1966 sgg.
[18] Reallexikon für Antike und Christentum, Stuttgart 1950 sgg.
Lingue classiche.
Greco.
[19] du cange, Glossarium ad scriptores mediae et infimae graecitatis, Paris 1688, rist.
Paris 1943, Graz 1958 (indispensabile).
[20] liddell h. g., scott r., A Greek-English Lexicon, Oxford 1968.
[21] lampe g. w. h., A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961-68.
[22] sophocles e. a., Greek Lexicon of the Roman and Byzantine Periods (145 BC 1100 AD), Boston 1870 (nuova ed. Cambridge Mass. 1914).
[23] estienne h., Thesaurus linguae graecae, nuova ed. a cura di Ch. B. Hase e L. Dindorf, Paris 1831-65 (rist. Graz 1954, 9 voll.).
[24] Thesaurus Linguae Graecae, Digital Library of Greek Literature, www.tlg.uci.edu
(fondamentale; più di 1800 autori dalle origini al xv secolo).
[25] trapp e., Lexikon zur byzantinischen Gräzität besonders des 9.-12. Jahrhunderts,
Wien 1994 sgg., 4 voll. (da a a kÎfeusij).
Latino.
Vedi jacques f., scheid j., Rome et l’intégration de l’empire, I. Les structures de l’Empire romain, Paris 1990, p. x.
Topografia.
[26] Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, Paris 1912.
[27] Großer historischer Weltatlas, I. Vorgeschichte und Altertum; II. Mittelalter, a cura di H. Bengtson e V. Milojãiç, München 1954.
[28] talbert r. (a cura di), Barrington Atlas of the Greek and Roman World, Princeton 2000 (il migliore per il nostro periodo, eccellente cartografia in scala
1:500.000 e 1:1.000.000).
[29] Westermanns Atlas zur Weltgeschichte, a cura di H. Stier e E. Kirsten, Brunswick
1956.
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Introduzione metodologica e bibliografica
[30] Tabula Imperii Romani (carte in scala 1:1.000.000 pubblicate secondo i Paesi moderni).
[31] Tabula Imperii Byzantini, Wien 1976 sgg. (repertorio e commenti dei siti conosciuti tramite i testi o l’archeologia, eccellenti carte in scala 1:800.000).
[32] jedin h., martin j., Atlas zur Kirchengeschichte. Die christlichen Kirchen in Geschichte und Gegenwart, Freiburg ecc. 1970.
[33] van der meer p., mohrmann c., Atlas de l’Antiquité chrétienne, Paris 1960.
fonti letterarie.
Le fonti letterarie per la storia del periodo protobizantino in greco, in latino e nelle lingue orientali sono troppo numerose per essere elencate in questa sede, e ogni selezione
sarebbe arbitraria. Ci limitiamo a indicare i principali dizionari, repertori e storie della
letteratura che ne facilitano la fruizione, nonché le principali collezioni. Il Thesaurus
Linguae Graecae informatizzato [24], per quanto non sostituisca le edizioni critiche, è
uno strumento di lavoro indispensabile, sia per la quantità di testi che include (in costante accrescimento), sia per la facilità di consultazione. Oltre agli strumenti bibliografici segnalati più sopra, si farà ricorso all’«Année philologique» e, per i testi cristiani,
alla bibliografia della «Revue d’histoire ecclésiastique» di Lovanio.
Dizionari, repertori, storie della letteratura.
[34] albert m. e altri, Christianismes orientaux. Introduction à l’étude des langues et des
littératures, Paris 1993 (introduzione alle fonti nelle varie lingue dell’Oriente cristiano).
[35] altaner b., stuiber a., Patrologie. Leben, Schriften und Lehre der Kirchenväter,
Freiburg-Basel-Wien 19788 [trad. it. della settima ed. Torino 1992].
[36] assfalg j., krüger p. (a cura di), Kleines Wörterbuch des Christlichen Orients,
Wiesbaden 1975.
[37] bardenhewer o., Geschichte der altkirchlichen Literatur, Freiburg im Breisgau
1913-32 (rist. 1962).
[38] baumstark a., Geschichte der syrischen Literatur, Bonn 1922 (rist. 1968).
[39] beck h.-g., Kirche und theologische Literatur im byzantinischen Reich, München
1959.
[40] Bibliotheca hagiographica graeca, a cura di F. Halkin, Bruxelles 19572, e Auctarium bibliothecae hagiographicae graecae, Bruxelles 1969.
[41] Bibliotheca hagiographica latina, Socii Bollandiani, I-II, Bruxelles 1898-1901
(19492); Novum Supplementum, Bruxelles 1986.
[42] Bibliotheca hagiographica Orientalis, Socii Bollandiani, Bruxelles 1910 (rist. 1954).
[43] brunhölzl f., Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, München 1975
sgg.
[44] buchwald w., hohlweg a., prinz o., Tusculum-Lexikon griechischer und lateinischer Autoren des Altertums und des Mittelalters, München-Zürich 1982.
[45] dekkers e., Clavis Patrum Latinorum, Steenbrugis 19612.
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[46] geerard m. (a cura di), Clavis Patrum Graecorum, I-V, Turnhout 1974-87 (repertorio fondamentale per i testi patristici; riporta numerose fonti narrative: vite di
santi, storici della Chiesa).
[47] goulet r. (a cura di), Dictionnaire des philosophes antiques, Paris 1989 sgg.
[48] hoyland r. g., Seeing Islam as others saw it. A survey and evalutation of Christian,
Jewish and Zoroastrian writings on early Islam, Princeton 1997.
[49] hunger h., Die hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner, I-II, München
1978 (il manuale fondamentale per la letteratura bizantina, dal periodo iniziale).
[50] krumbacher k., Geschichte der Byzantinischen Literatur, München 1897 (invecchiato, ma classico).
[51] le boulluec a., saïd s., treddé m., Histoire de la littérature grecque, Paris 1997
(comoda sintesi in francese).
[52] moravcsik g., Byzantinoturcica, I. Die byzantinischen Quellen der Geschichte der
Türkvölker, Berlin 19582.
[53] ortiz de urbina i., Patrologia Syriaca, Rome 19652.
[54] quasten j., Patrologia, ed. it. Torino-Genova 1992-2000, 5 voll.
[55] schmid w., stählin o., Geschichte der griechischen Literatur, 6. Auflage, II/2. Die
nachklassische Periode der griechischen Litteratur. Von 100 bis 530 nach Christus,
München 1924.
[56] liébaert j., spanneut m., Introduzione generale allo studio dei Padri della Chiesa,
ed. it. Brescia 1998.
Collezioni.
[57] Acta Sanctorum, collecta... a Sociis Bollandianis, Paris 18633 sgg. (testi agiografici greci e latini; alcune edizioni restano insostituite).
[58] Acta conciliorum oecumenicorum, a cura di E. Schwartz, Berlin 1914-40; J.
Straub, 1970-74; R. Riedinger, 1990-92.
[59] «Bibliotheca Teubneriana» (collezione di autori greci e latini dall’Antichità al
Medioevo, senza trad.).
[60] Corpus christianorum. Series Graeca, Turnhout-Leuven 1977 sgg. (testi patristici,
senza trad.).
[61] Corpus christianorum. Series Latina, Turnhout 1953 sgg. (testi patristici, senza
trad.).
[62] Corpus Fontium Historiae Byzantinae, 1967 sgg. (varie serie, con diversi luoghi di
edizione; edizioni di riferimento per numerosi storici bizantini; alcune serie sono accompagnate da una trad.).
[63] Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, Paris-Louvain 1903 sgg. (ricca collezione di studi e testi nelle lingue dell’Oriente cristiano, con trad.).
[64] Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, Wien 1866 sgg.
[65] Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, Bonn 1828-97 (collezione di storici greci, con trad. latina; invecchiato, ma alcune edizioni restano insostituite).
[66] Codex Iustinianus, a cura di P. Krüger, Berlin 19159 (numerose rist.).
[67] Codex Theodosianus, a cura di Mommsen-Meyer, Berlin 1904-5 (rist. Hildesheim
1990 sgg.).
[68] «Collection des Universités de France», Paris (coll. classica aperta alla Tarda Antichità; autori latini e greci con trad. e note).
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[69] Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, Leipzig 1897
sgg.
[70] jacoby f., Fragmente der griechischen Historiker, Berlin-Leiden 1923 sgg.
[71] joannou p. p., Discipline générale antique (ive-ixe s.), I/1. Les canons des conciles
oecuméniques; I/2. Les canons des synodes particuliers; II. Les canons des Pères grecs,
Grottaferrata 1962-63.
[72] «Loeb Classical Library», Cambridge Mass. (autori greci e latini con trad. ingl.;
aperta alla Tarda Antichità).
[73] mansi j. d., Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Firenze-Venezia
1759-98 (atti dei concili in greco e in latino).
[74] Patrologiae cursus completus. Series Graeca, a cura di J.-P. Migne, 161 voll., Paris
1857-66 (la più ricca collezione di edizioni di testi patristici, con trad. latina; numerose fonti narrative; riprende i testi di CSHB).
[75] Patrologiae cursus completus. Series Latina, a cura di J.-P. Migne, 221 voll., Paris
1844-55.
[76] Monumenta Germaniae Historica, Berlin 1826 sgg. (in parte digitalizzata presso
www.gallica.fr).
[77] «Le Monde Byzantin», Paris (collezione di studi; alcune edizioni di testi, con
trad. fr. e commento).
[78] Patrologia orientalis, a cura di R. Graffin e F. Nau, Paris-Turnhout 1903 sgg. (testi nelle lingue dell’Oriente cristiano, con trad.).
[79] rhalles g. a., potles m., Syntagma ton theion kai hieron kanonon, 6 voll., Athenesin 1852-59 (testi canonici in greco).
[80] «Sources chrétiennes», Lyon-Paris 1941 sgg. (testi con trad. e note; autori greci e latini, essenzialmente patristici; vite di santi; storici della Chiesa).
[81] «Studi e Testi», Città del Vaticano 1900 sgg.
[82] «Subsidia hagiographica», Bruxelles (studi di agiografia; ed. di testi agiografici).
[83] «Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur», Leipzig-Berlin 1882 sgg.
Antologie di testi.
Le principali fonti utilizzate sono citate nei capitoli corrispondenti.
[84] chastagnol a., Le Bas-Empire, Paris 19692 (con un’eccellente introduzione).
[85] coleman-norton p. r., Roman State and Christian Church. A collection of legal
documents to AD 525, I-III, London 1966.
[86] chastagnol a., La fin du Monde antique, Paris 1976 (v-vi sec.; eccellente introduzione).
[87] lee a. d., Pagans and Christians in Late Antiquity. A sourcebook, London 2000.
[88] mango c., The Art of the Byzantine Empire. Sources and documents, Englewood
Cliffs NJ 1972, rist. Toronto 1986.
[89] mathisen r. (a cura di), People, Personal Expression annd Social Relations in Late
Antiquity, I, Ann Arbor 2002.
[90] palmer a., brock s., hoyland r., The Seventh Century in the West-Syrian Chronicles, Liverpool 1993.
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fonti documentarie.
Papirologia.
[91] bataille a., Les papyrus, Paris 1955 (invecchiato; da completare e correggere con
ruprecht h. a., Kleine Einführung in die Papyruskunde, Darmstadt 1994).
Consultare scriptorium.lib.duke.edu/papyrus/texts/clist.html.
Diplomatica.
[92] dölger f., karagiannopoulos i. e., Byzantinische Urkundenlehre, I (unico apparso), München 1968.
Epigrafia.
[93] allen j. s., ‰evãenko i. (a cura di), Literature in Various Byzantine Disciplines.
1892-1977, I. Epigraphy, Washington DC 1981.
[94] bérard f. e altri, Guide de l’épigraphiste. Bibliographie choisie des épigraphies antiques et médiévales, Paris 20003 (strumento di lavoro essenziale).
[95] feissel d., Les inscriptions des premiers siècles byzantins (330-641), documents
d’histoire sociale et religieuse, XI Congresso internazionale di epigrafia greca e
latina, Roma 1997 [1999], pp. 577-89 (orientamento generale, con bibliografia
recente).
[96] feissel d., Recueil des inscriptions chrétiennes de Macédoine du iiie au vie siècle, Paris 1983.
[97] feissel d., Bulletin épigraphique. Inscriptions chrétiennes et byzantines (dal 1987,
bibliografia analitica che appare ogni anno nella REG).
[98] grégoire h., Recueil des inscriptions grecques chrétiennes d’Asie Mineure, I, Paris
1922.
[99] kiourtzian g., Recueil des inscriptions grecques chrétiennes des Cyclades de la fin
du iiie au viie siècle après J.-C., Paris 2000.
[100] lefebvre g., Recueil des inscriptions grecques-chrétiennes d’Égypte, Le Caire 1907.
[101] robert l., Hellenica, IV. Épigrammes du Bas-Empire, Paris 1948.
[102] roueché c., Aphrodisias in Late Antiquity, London 1989.
[103] sironen e., The Late Roman and Early Byzantine Inscriptions of Athens and Attica, Helsinki 1997.
Fonti giuridiche.
Vedi jacques f., scheid j., Rome et l’intégration de l’empire, I. Les structures de l’Empire romain, Paris 1990, pp. xiv-xv; vedi anche 66-67.
[104] gaudemet j., La formation du droit séculier et du droit de l’Église aux ive et ve siècles, Paris 19792.
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[105] van der wal n., lokin h. a., Historiae iuris graeco-romani delineatio. Les sources
du droit byzantin de 300 à 1453, Groningue 1985.
[106] van der wal n., Manuale novellarum Justiniani. Aperçu systématique du contenu
des novelles de Justinien, Groningue 1963.
Fonti geografiche ed amministrative.
[107] honigmann e., Le Synekdèmos d’Hiéroklès et l’opuscule géographique de Georges
de Chypre, Bruxelles 1939 (lista di città risalente al vi secolo, carte in scala
1:2.000.000).
[108] darrouzès j., Notitiae episcopatuum Ecclesiae Constantinopolitanae, Paris 1981.
[109] Notitia Dignitatum, a cura di O. Seeck, Berlin 1876, rist. Frankfurt 1962 (la Notitia Urbis Constantinopolitanae figura in appendice; sulla datazione, vedi 356).
[110] Expositio totius mundi et gentium, a cura di J. Rougé, Paris 1966 [testo latino,
trad. e commento it. in anonimo del iv secolo, Descrizione del mondo e delle sue
genti, a cura di U. Livadiotti e M. Di Branco, Roma 2005].
Numismatica e metrologia.
[111] mattingly h., sydenham h. (a cura di), The Roman Imperial Coinage: VII. Constantine and Licinius: AD 313-337, a cura di P. Bruun, London 1966; VIII. The
family of Constantine I: AD 337-364, a cura di J. P. C. Kent, London 1981; IX.
Valentinian I - Theodosius I: AD 364-395, a cura di J. W. E. Pearce, London 1997;
X. The divided Empire and the fall of the Western parts: AD 395-491, a cura di
J. P. C. Kent, London 1994 (fondamentale; viene censita la totalità delle emissioni conosciute).
[112] kent j. p. c. e altri, Late Roman Bronze Coinage, London 1960.
[113] grierson ph., mays m., Late Roman Empire Coinage in the Dumbarton Oaks Collection, Washington DC 1992.
[114] grierson ph. e altri, Catalogue of the Byzantine Coins in the Dumbarton Oaks Collection and in the Whittemore Collection, I. 491-602; II. 602-717, Washington
DC 1966-71 (collezione ricchissima; l’introduzione generale del vol. II è normativa).
[115] hahn w., Moneta Imperii Byzantini, I. 491-565, Wien 1973; II. 565-610, Wien
1975; III. 610-720, Wien 1981 (documentazione assai completa).
[116] hahn w., metlich m., Money of the Incipient Byzantine Empire, I. 491-565, Wien
2001 (ed. ingl. aggiornata di 115; il vol. II è di prossima uscita).
[117] morrisson c., Catalogue des monnaies byzantines de la Bibliothèque nationale, Paris 1970, 2 voll. (catalogo ragionato; brevi introduzioni).
[118] schilbach e., Byzantinische Metrologie, München 1970.
[119] schilbach e., Byzantinische metrologische Quellen, Thessalonique 1982.
Sigillografia.
Numerosi articoli e indice di tutti i sigilli pubblicati dal 1931 nella serie degli «Studies
in Byzantine Sigillography» (8 voll. pubblicati 1987-2003).
[120] cheynet j.-c., Byzantine Seals, in collon d. (a cura di), 7000 Years of Seals, London 1997, pp. 107-23.
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[121] cheynet j.-c., L’usage des sceaux à Byzance, in Sceaux d’Orient et leur emploi, Louvain 1997, pp. 23-40.
[122] laurent v., Le Corpus des sceaux de l’Empire byzantin, II. L’administration centrale, Paris 1981; V/1-3, L’Église, Paris 1963-72 (incompleto).
[123] nesbitt j., oikonomides n., Catalogue of the Byzantine Seals at Dumbarton Oaks
and in the Fogg Museum of Art, I-IV, Washington DC 1991-2001 (catalogo ragionato della più grande collezione del mondo, organizzato per regioni, 8 voll. previsti).
[124] schlumberger g., Sigillographie de l’Empire byzantin, Paris 1884.
[125] seibt w., Die byzantinischen Bleisiegel in Österreich, I. Kaiserhof, Wien 1978 (unico vol. pubblicato, è previsto un seguito).
[126] cheynet j.-c., morrisson c., seibt w., Les sceaux byzantins de la collection Henri Seyrig, Paris 1991.
[127] zacos g., veglery a., Byzantine Lead Seals, I, Bâle 1972, 3 voll.
storie generali, manuali, miscellanee.
Da un punto di vista storiografico, si possono leggere i classici volumi del xvii-xviii secolo, basati sugli autori bizantini pubblicati all’epoca:
[128] gibbon e., Storia della decadenza e caduta dell’impero romano (1776-88), 3 voll.,
ed. it. Torino 1967.
[129] lebeau ch., Histoire du Bas-Empire, Paris 1757-86.
Sull’evoluzione della storiografia dall’Antichità ai nostri giorni:
[130] brown p. e altri, The World of Late Antiquity Revisited, SO, LXXII (1997), pp.
5-90.
[131] cameron av., The perception of crisis, Settimane CISAM 45, Spoleto 1998, pp.
9-34.
[132] demandt a., Der Fall Roms. Die Auflösung des römischen Reiches im Urteil der Nachwelt, München 1984.
[133] liebeschuetz j. h. w. g., Late Antiquity and the Concept of Decline, NMS, XLV
(2001), pp. 1-10.
[134] marrou h.-i., Décadence romaine ou antiquité tardive? (iiie-vie siècles), Paris 1977.
[135] mazzarino s., La fine del mondo antico, Milano 1959.
[136] momigliano a., Problèmes d’historiographie ancienne et moderne, Paris 1983 (artt.
6-7, 11, 13-14).
[137] C. Lepelley sulla controversia fra Andrea Giardina e Peter Brown, in vera d. e
altri, Antico e Tardoantico oggi, RIS, II (2002), pp. 368-76.
Manuali e introduzioni.
[138] rémondon r., La crisi dell’impero romano: da Marco Aurelio ad Anastasio, ed. it.
Milano 1975.
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Introduzione metodologica e bibliografica
[139] carrié j.-m., rousselle a., L’Empire romain en mutation, Paris 1999 (nuove considerazioni sul periodo 193-337; un II vol. è in preparazione).
[140] chastagnol a., L’évolution politique, sociale et économique du monde romain
(284-363), Paris 1982, 19943.
[141] The Cambridge Ancient History: XIII. The Late Empire AD 337-425, a cura di Av.
Cameron e P. Garnsey, Cambridge 1998; XIV. Late Antiquity Empire and Successors AD 425-600, a cura di Av. Cameron, B. Ward-Perkins e M. Whitby, Cambridge 2000 (opera di riferimento).
[142] The New Cambridge Medieval History, I. c. 500 - c. 700, a cura di P. Fouracre,
Cambridge 2005.
[143] brown p., Genesi della tarda antichità, ed. it. Torino 2001.
[144] brown p., The World of Late Antiquity AD 150-750, New York 19892 (un saggio
notevole; trad. it. di un’ed. precedente: Il mondo tardo antico: da Marco Aurelio
a Maometto, Torino 1974).
[145] cameron av., Il tardo impero romano, ed. it. Bologna 1998; id., The Mediterranean World in Late Antiquity (AD 395-600), London 1993.
[146] cheynet j.-c., Byzance l’empire romain d’Orient, Paris 2001 (dal 330 al 1453;
breve e chiaro).
[147] demandt a., Die Spätantike. Römische Geschichte von Diocletian bis Justinian 284565, München 1989.
[148] demougeot e., La formation de l’Europe et les invasions barbares. De l’avènement
de Dioclétien au début du vie siècle, Paris 1979, 2 voll.
[149] jones a. h. m., Il tardo impero romano, 284-602 d.C., ed. it. Milano 1973-81, 3
voll. + cartine (indispensabile).
[150] ostrogorsky g., Storia dell’impero bizantino, ed. it. Torino 1968 e successive
rist. (un classico, invecchiato ma non sostituito).
[151] stein e., Histoire du Bas-Empire, a cura di J.-R. Palanque, 2 voll., Paris 1949-59
(indispensabile).
[152] momigliano a., schiavone a. (a cura di), Storia di Roma, III. L’età tardo antica:
1. Crisi e trasformazione; 2. I luoghi e le culture, Torino 1993 (capitoli importanti).
Cronologia e regesti, prosopografia.
[153] grumel v., La chronologie, Paris 1958.
[154] bagnall r. e altri, Consuls of the Later Roman Empire, Atlanta 1987.
[155] seeck o., Regesten der Kaiser und Päpste für die Jahre 311 bis 476 n. Chr., Stuttgart 1919.
[156] dölger f., Regesten der Kaiserurkunden des oströmischen Reiches von 565-1453, 5
voll., München 1924-65.
[157] grumel v., Les regestes des actes du patriarcat de Constantinople, I/1. Les actes des
patriarches. Les regestes de 381 à 715, 2a ed. rivista e corretta da J. Darrouzès, Paris 1972.
[158] The Prosopography of the Later Roman Empire: I. 260-395, a cura di A. H. M.
Jones e altri, Cambridge 1971; II. 395-527, a cura di J. R. Martindale, Cambridge 1980; III. 527-641, a cura di J. R. Martindale, Cambridge 1992 (anche su
cd-rom; fondamentale, include i funzionari e gli intellettuali ma non il clero, trattato in Prosopographie chrétienne du Bas-Empire: Afrique (303-633), a cura di A. Mandouze, Paris 1982; Italie (313-604), a cura di Ch. Pietri, 2 voll. Rome 1999-2000).
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Congressi, convegni, miscellanee.
In occasione dei congressi internazionali di studi bizantini, ogni sei anni, vengono pubblicati volumi di sommari e talora di atti. Le Settimane del CISAM trattano spesso di
Bisanzio nei suoi rapporti con l’Occidente o nella sua evoluzione comparata. La serie
degli incontri annuali della Society for the Promotion of Byzantine Studies annovera 8
voll. tematici. Il programma di ricerca TRW della Fondation européenne pour la science ha pubblicato ad oggi 14 volumi, la maggior parte dei quali interessa la nostra materia, benché l’Occidente vi occupi un posto privilegiato.
[159] Hommes et richesses dans l’empire byzantin, I. ive-viie siècles, Paris 1989; II. viiiexve siècles, Paris 1992.
[160] bowersock g. w., brown p., grabar o. (a cura di), Late Antiquity: A Guide to
the Post-Classical World, Princeton 1999.
[161] francovich r., noyé g. (a cura di), La storia dell’alto medioevo italiano (vi-x secolo) alla luce dell’archeologia, Siena 1994.
[162] giardina a. (a cura di), Società romana e impero tardoantico, 4 voll., Roma-Bari
1986.
i. gli avvenimenti: prospettiva cronologica
Vedi anche 128-52.
Fonti principali.
Vedi anche 211.
[163] agazia, CFHB 2, 1967 (R. Keydell), con trad. ingl.
[164] ammiano marcellino, CUF, Paris 1968-99, 6 voll. pubblicati (fino al libro
XXXI) [trad. it. ammiano marcellino, Le Storie, a cura di A. Selem, I-II, Torino 1973].
[165] cassiodoro, Variae, MGH, AA, XII, trad. ingl. di S. J. B. Barnish, Liverpool
1988.
[166] Chronicon Paschale 284-628, CSHB, trad. ingl. e commento di M. e M. Whitby,
Liverpool 1989.
[167] constantin vii porphyrogénète, Le livre des Cérémonies, a cura di A. Vogt,
CUF, Paris 1967 (solo libro I); De Cerimoniis, a cura di J. J. Reiske, CSHB (un’edizione completa con trad. e commento di G. Dagron e altri è in preparazione).
[168] corippe, Éloge de l’empereur Justin II, a cura di S. Antès, CUF, Paris 1981.
[169] evagrio di epifania (evagrius scholasticus), Storia ecclesiastica, a cura di F. Carcione, Roma 1998.
[170] eusebio, Sulla vita di Costantino, a cura di L. Tartaglia, Napoli 20012.
[171] eusèbe de césarée, Histoire ecclésiastique, a cura di G. Bardy, 4 voll. (SC), Paris 1952-60 [trad. it. Storia ecclesiastica, a cura di S. Borzì e F. Migliore, Roma
2001, 2 voll.].
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Introduzione metodologica e bibliografica
[172] flusin b., Saint Anastase le Perse et l’histoire de la Palestine au début du viie siècle, I-II, «Le Monde byzantin», Paris 1992 (ed., trad. e commento di fonti essenziali).
[173] Histoire Auguste, a cura di A. Chastagnol, Paris 1994 [trad. it. Scrittori della Storia Augusta, a cura di P. Soverini, Torino 1983].
[174] giovanni di efeso, Historia ecclesiastica, III, a cura di E. W. Brooks, CSCO, Louvain 1935-64.
[175] giordane, Storia dei Goti, trad. it. di E. Bartolini, Milano 1991.
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ii. trionfo del cristianesimo e definizione dell’ortodossia
Vedi anche la lista degli strumenti di lavoro, 34-83; per un orientamento bibliografico
più completo si farà riferimento a 252; la «Revue d’histoire ecclésiastique» di Lovanio
fornisce un ricchissimo bollettino bibliografico sulla storia del cristianesimo.
Opere generali.
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Vedi anche 877.
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iv. le strutture della chiesa imperiale
Vedi, oltre alle indicazioni al principio del cap. ii, 108, 157, 301, 321, 493.
Il vescovo, la chiesa, la città.
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Vedi anche 321.
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Diritto.
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v. l’esercito
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Cfr. flavius vegetius renatus, Epitoma Rei Militaris, a cura di L. F. Stelten,
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Strutture ed evoluzione.
Panoramiche generali nei capitoli sull’esercito di 141 XIII (A. D. Lee) e XIV (M. Whitby), 149 (essenziale), 152 (J.-M. Carrié).
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iiie au viie siècle, Paris 1993, pp. 17-20.
La frontiera.
Numerosi articoli negli Atti dei congressi di Roman Frontier Studies (vari titoli, il vol.
18 è uscito nel 2002) riguardano la nostra epoca.
[466] foss c., winfield d., Byzantine Fortifications: An Introduction, Pretoria 1986.
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it. Milano 1986.
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Marcel et Jean Calybite, Bellefontaine 1988.
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[478] wheeler e. l., Methodological Limits and the Mirage of Roman Strategy, JMH, 57
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[479] zuckerman c., Sur le dispositif frontalier en Arménie, le «limes» et son évolution,
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[480] coulston j. c., Later Roman Armour, 3rd-6th centuries AD, JRMES, 1 (1990),
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[481] dagron g., Byzance et le modèle islamique au xe siècle: à propos des Constitutions
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vi. la capitale
Vedi anche 777.
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Introduzione metodologica e bibliografica
vii. popolamento, economia e società dell’oriente bizantino
Vedi anche 159.
Aspetti generali.
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Introduzione metodologica e bibliografica
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Spazio e clima, popolamento e demografia.
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[534] telelès i. t., Meteorologika phainomena kai klima sto Byzantio, 2 voll., Athena
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Vedi anche 831, 881, 993.
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Vedi anche 273.
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Vedi anche j. lefort, The Rural Economy, Seventh-Twelfth Centuries, in EHB, I, pp.
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[555] bowden w., lavan l., machado c. (a cura di), Recent Research on the Late Antique Countryside, Leiden-Boston 2004 (miscellanea di studi generali e regionali).
Produzioni e tecniche.
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Vedi anche 958.
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Vedi anche 111-19 e 349.
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[593] hendy m. f., The Economy, Fiscal Administration and Coinage of Byzantium,
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12 [2005]).
viii. la vita religiosa. i cristiani nel mondo, il monachesimo
Vedi anche le indicazioni all’inizio del cap. ii.
I cristiani nel mondo.
Sacramenti, liturgia.
[598] bradshaw p. f., The Search for the Origins of Christian Worship. Sources and
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Nuove forme di pietà.
Vedi anche 773, 781; déroche v., L’Apologie contre les Juifs de Léonce de Néapolis, TM,
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[627] walker p. w. l., Holy City, Holy Places? Christian attitudes to Jerusalem and the
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Verso una città cristiana.
Vedi anche 493, 511, 514, 523-24.
[628] bagnall r. s., Church, State and Divorce in Late Roman Egypt, in Florilegium Columbianum. Essays in Honor of Paul Oskar Kristeller, New York 1987, pp. 41-51.
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[866] The Life of Saint Nicholas of Sion, a cura di I. ·evãenko e N. Patterson ·evãenko,
Brookline 1984.
[867] Vita, educatio et miracula Sancti Theodori, in Acta Sanctorum novembris, IV (BHG,
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[868] callinicos, Vie d’Hypatios, a cura di G. J. M. Bartelink (SC, 177), Paris 1971.
Iscrizioni.
Vedi anche 98.
[869] chastagnol a., L’inscription constantinienne d’Orcistus, MEFRA, 93 (1981), pp.
381-416.
[870] feissel d., L’«adnotatio» de Constantin sur le droit de cité d’Orcistus en Phrygie,
AnTard, 7 (1999), pp. 255-67.
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[872] kennell n. m., An Early Byzantine Constitution from Ziporea, EA, 26 (1996), pp.
129-36; vedi il commento di D. Feissel in REG, 111 (1998), pp. 710-11.
[873] feissel d., Deux grandes familles isauriennes du ve siècle d’après les inscriptions de
Cilicie Trachée, MiChA, 5 (1999), pp. 9-17.
[874] feissel d., Öffentliche Straßenbeleuchtung im spätantiken Ephesos, in scherrer
p., taeuber h., thür h. (a cura di), Steine und Wege, Wien 1999, pp. 25-29.
[875] di branco m., Lavoro e conflittualità sociale in una città tardoantica. Una rilettura
dell’epigrafe di Sardi CIG 3467 (= Le Bas-Waddington 628 = Sardis VII, 1, n. 18),
AnTard, 8 (2000), pp. 181-208.
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Storia e amministrazione.
Oltre alle opere generali 151 e 344, per l’Anatolia si farà riferimento a 348 e a due studi
specifici:
[877] mitchell s., Anatolia, Land, Men and Gods in Asia Minor, 2 voll., Oxford 1993.
[878] carrié j.-m., Bryonianus Lollianus de Sidè ou les avatars de l’ordre équestre, ZPE,
35 (1979), pp. 213-24.
Risorse naturali (marmi, metalli).
[879] asgari n., The Proconnesian Production of architectural éléments in late antiquity,
based on evidence from the marble quarries, in 494, pp. 263-88.
[880] monna d., pensabene p., Marmi dell’Asia Minore, Roma 1977.
[881] pitarakis b., Mines anatoliennes exploitées par les Byzantins: recherches récentes,
RN, 153 (1998), pp. 141-85.
[882] yener k. a., toydemir a., Byzantine Silver Mines: An Archeometallurgy Project in
Turkey, in 753, pp. 155-68.
Prospezioni e studi regionali.
[883] geyer b., lefort j. (a cura di), La Bithynie au Moyen Âge, Paris 2003.
[884] hild f., restle m., Kappadokien (Kappadokia, Charsianon, Sebasteia und Lykandos) (TIB, 2), Wien 1981.
[885] hellenkemper h., hild f., Neue Forschungen in Kilikien (VTIB, 4), Wien 1986.
[886] belke k., Galatien und Lykaonien (TIB, 4), Wien 1984.
[887] hellenkemper h., hild f., Kilikien und Isaurien (TIB, 5), Wien 1990.
[888] belke k., mersich n., Phrygien und Pisidien (TIB, 7), Wien 1990.
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[890] mitchell s., The Pisidian Survey, in matthews r. (a cura di), Ancient Anatolia.
Fifty Years’ Work by the British Institute of Archaeology at Ankara, London 1998,
pp. 251-25.
Città e territorio.
[891] marek c., Stadt, Ära und Territorium im Pontus-Bithynia und Nord-Galatia, Tübingen 1993.
[892] trombley r., Town and territorium in Late Roman Anatolia, in lavan l. (a cura
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Infrastrutture stradali.
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115-25.
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Fortificazioni.
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Paganesimo, giudaismo e cristianesimo.
Vedi anche 275, in particolare capp. vi (Afrodisia, II, pp. 52-73) e vii (Asia Minore, II,
pp. 74-133).
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nel Bollettino critico di AnIsl, 6 (1989), pp. 90-93, e di C. Foss in JRA, 16 (2003),
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villeneuve f., L’économie rurale et la vie des campagnes dans le Hauran antique,
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notes and introduction, Liverpool 2000.
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Introduzione metodologica e bibliografica
lxxix
xiv. l’egitto bizantino (284-641)
Referenze papirologiche.
Vedi 91.
Opere generali, enciclopedie.
[985] atiya a. s. (a cura di), The Coptic Encyclopedia, 8 voll., New York 1991.
[986] bowman a. k., Egypt after the Pharaohs, 332 BC - AD 642 from Alexander to the
Arab Conquest, London 19962 [trad. it. di un’ed. precedente: L’Egitto dopo i Faraoni: da Alessandro Magno alla conquista araba (332 a.C. - 642 d.C.), Firenze 1988].
Storia generale.
[987] altheim-stiehl r., Wurde Alexandreia im Juni 619 n. Chr. durch die Perser erobert? Bemerkungen zur zeitlichen Bestimmung der sasanidischen Besetzung Ägyptens
unter Chosrau II. Parwez, «Tyche», 6 (1991), pp. 3-16.
[988] bagnall r. s., Egypt in Late Antiquity, Princeton 1993 (fondamentale per il iv e
il v secolo, nonché per l’epoca ulteriore, con un’abbondante bibliografia; rec. di
Gascou in «Topoi», 6 (1996), pp. 333-49).
[989] borkowski z., Inscriptions des factions à Alexandrie, Varsovie 1981, pp. 9-70 (avvenimenti dell’inizio del vii secolo).
[990] butler a. j., The Arab Conquest of Egypt and the Last Thirty Years of the Roman
Dominion, a cura di P. M. Fraser, Oxford 19782 (include anche The Treaty of
Misr in Tabari (1913) e Babylon of Egypt (1914), una bibliografia ragionata e ulteriore documentazione).
[991] maccoull l. s. b., Coptic Egypt during the Persian Occupation. The Papyrological
Evidence, SCO, 36 (1986), pp. 307-13, 328.
Geografia.
Libia, Cirenaica.
[992] roques d., Synésios de Cyrène et la Cyrénaïque du Bas-Empire, Paris 1987 (vedi in
particolare pp. 217-34 sull’amministrazione militare delle Libie e 322-41 sulla loro storia religiosa).
Deserti.
[993] bousquet b., Tell-Douch et sa région, géographie d’une limite de milieu à une frontière de l’empire, Le Caire 1996.
[994] meyer c., heidorn l. a., kaegi w. e., wilfong t., Bir Umm Fawakhir Survey
Project 1993: a Byzantine gold-mining town in Egypt, Chicago 2000.
[995] wagner g., Les Oasis d’Égypte à l’époque grecque, romaine et byzantine d’après les
documents grecs, Le Caire 1987 (importante rec. di reddé m., Les oasis d’Égypte,
JRA, 2 (1989), pp. 281-90).
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Introduzione metodologica e bibliografica
Maremoto del 365.
[996] jacques f., bousquet b., Le raz de marée du 21 juillet 365. Du cataclysme local à
la catastrophe cosmique, MEFRA, 96 (1984), pp. 423-61 (vedi lepelley c., L’Afrique du nord et le prétendu séisme universel du 21 juillet 365, ivi, pp. 463-91).
Idraulica nilotica, irrigazione.
[997] alleaume g., Les systèmes hydrauliques de l’Égypte pré-moderne. Essai d’histoire
du paysage, in décobert ch., martin m. (a cura di), Itinéraires d’Égypte: Mélanges offerts au Père Maurice Martin S.J., Le Caire 1992, pp. 301-22.
[998] bonneau d., Le régime administratif de l’eau du Nil dans l’Égypte grecque, romaine et byzantine, Leiden - New York - Köln 1993.
Generi di vita.
[999] gascou j., La vie de Patermouthios, moine et fossoyeur, in décobert ch., martin m. (a cura di), Itinéraires d’Égypte: Mélanges offerts au Père Maurice Martin
S.J., Le Caire 1992, pp. 107-14.
[1000] husson g., OIKIA, le vocabulaire de la maison privée en Égypte d’après les papyrus grecs, Paris 1983.
[1001] keenan j. g., Village Shepherds and Social Tension in Byzantine Egypt, YClS, 28
(1985), pp. 245-59.
[1002] keenan j. g., Pastoralism in Roman Egypt, BASP, 26 (1989), pp. 175-200.
[1003] giliberti g., Le comunità agricole nell’Egitto romano, Napoli 1993.
Lavoro.
[1004] morelli f., Time e misthos: vendita e prestazione di lavoro. Osservazioni sulle relazioni economiche tra artigiani e proprietà nell’Egitto bizantino, «Comunicazioni», Istituto Papirologico G. Vitelli, Firenze 1997, pp. 7-29 (studio di grande
perspicacia).
[1005] wipszycka e., L’industrie textile dans l’Égypte romaine, Wroclaw-Varsovie-Cracovie 1965.
Dati etnici.
[1006] bagnall r. s., palme b., Franks in Sixth-century Egypt, «Tyche», 11 (1996), pp.
1-10.
[1007] demicheli a. m., Rapporti di pace e di guerra dell’Egitto romano con le popolazioni dei deserti africani, Milano 1976.
[1008] fikhman i. f., Les Juifs d’Égypte à l’époque byzantine d’après les papyrus publiés
depuis la parution du Corpus Papyrorum Judaicarum III, in Cotton h. m., price j.
j., wasserstein d. j. (a cura di), Studies in Memory of Abraham Wasserstein, I,
SCI, 15 (1996), pp. 223-29.
[1009] rea j., The Letter of Phonen to Aburni, ZPE, 34 (1979), pp. 147-62 (Blemmi,
Nubadi).
[1010] sirat c. e altri, La «Ketouba» de Cologne, Opladen 1986.
[1011] török l., Late Antique Nubia, Budapest 1988.
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Introduzione metodologica e bibliografica
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Greci e Copti.
[1012] donadoni s. f., Egitto romano ed Egitto copto, XVIII Corso di cultura sull’arte
ravennate e bizantina, Ravenna 1981, pp. 103-18 (= Cultura dell’antico Egitto.
Scritti di Sergio F. Donadoni, Roma 1986, pp. 597-612).
Greco e copto.
[1013] rochette b., Sur le bilinguisme dans l’Égypte gréco-romaine, CE, 71 (1996), pp.
153-68.
Latinizzazione.
[1014] rochette b., Le latin dans le monde grec. Recherches sur la diffusion de la langue
et des lettres latines dans les provinces hellénophones de l’Empire romain, Bruxelles 1997.
Arte copta.
[1015] Ägypten, Schätze aus dem Wüstenland, Kunst und Kultur der Christen am Nil
(catalogo della mostra con abbondante bibliografia), Wiesbaden 1996.
[1016] robert l., Sur un tissu récemment publié, CArch, 8 (1956), pp. 28-36.
[1017] spieser j.-m., À propos du linteau d’Al-Moallaqa, in Orbis Romanis Christianusque (Mélanges N. Duval), Paris 1995, pp. 311-20.
[1018] stauffer a., Spätantike und koptische Wirkereien, Bern 1995.
[1019] zaloscer h., Die koptische Kunst – der heutige Stand ihrer Erforschung (Ein Problem der Methodik), «Enchoria», 21 (1994), pp. 73-89.
Governo, città.
[1020] alston r., The City in Roman and Byzantine Egypt, London 2002.
[1021] gagos t., van minnen p., Settling a Dispute, toward a Legal Anthropology of Late
Antique Egypt, Ann Arbor 1994 (sviluppo delle giurisdizioni civili).
[1022] gascou j., Les grands domaines, la cité et l’État en Égypte byzantine, TM, 9 (1985),
pp. 1-9.
[1023] lallemand j., L’administration civile de l’Égypte de l’avènement de Dioclétien à
la création du diocèse (284-382), Buxelles 1964.
[1024] mazza r., Ricerche sul pagarca nell’Egitto tardoantico e bizantino, «Aegyptus»,
75 (1995), pp. 169-242.
[1025] palme b., Das Amt des ¶paithtøj in Ägypten, Wien 1989.
[1026] rouillard g., L’administration civile de l’Égypte byzantine, Paris 1928.
[1027] liebeschuetz j. h. w. g., Civic Finance in the Byzantine Period: the Laws and
Egypt, BZ, 89 (1996), pp. 389-408.
Economia, fiscalità.
[1028] bogaert r., La banque en Égypte byzantine, ZPE, 116 (1997), pp. 85-140.
[1029] delmaire r., Le personnel de l’administration financière en Égypte sous le BasEmpire romain (ive-vie siècles), CRIPEL, 10 (1988), pp. 113-38.
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Introduzione metodologica e bibliografica
[1030] gascou j., La table budgétaire d’Antaeopolis (P. Freer 08.45 c-d), in 159, pp. 279313 (da integrare con id., Remarques critiques sur la table budgétaire d’Antaeopolis, ZPE, 82 (1990), pp. 97-101).
[1031] johnson a. c., west l. c., Byzantine Egypt: Economic Studies, Princeton 1949.
[1032] maresch k., Nomisma und Nomismata, Beiträge zur Geldgeschichte Ägyptens im
6. Jahrhundert n. Chr., Opladen 1994.
Esercito.
[1033] bowman a. k., The Military Occupation of Upper Egypt in the Reign of Diocletian, BASP, 15 (1978), pp. 25-38.
[1034] keenan j. g., Evidence for the Byzantine Army in the Syene Papyri, BASP, 27
(1990), pp. 139-50.
[1035] maspero j., Organisation militaire de l’Égypte byzantine, Paris 1912.
[1036] rémondon r., Soldats de Byzance d’après un papyrus trouvé à Edfou, RechPap, 1
(1961), pp. 41-93.
[1037] zuckerman c., Recherches sur le statut social des soldats sous le Bas-Empire et à
l’époque protobyzantine, 2 voll., diss. Université de Paris I, 1993.
Società.
Vedi anche 511 (il vol. II è essenzialmente dedicato all’Egitto).
[1038] keenan j. g., The Names Flavius and Aurelius as Status Designations in Later Roman Egypt, ZPE, 11 (1973), pp. 33-63, e 13 (1974), pp. 283-304 (vedi id., An
Afterthought on the Names Flavius and Aurelius, ZPE, 53 (1983), pp. 245-50).
[1039] fikhman i. f., Esclaves et colons en Égypte byzantine, APapyrol, 3 (1991), pp.
7-17.
[1040] fikhman i. f., Sur quelques aspects socio-économiques de l’activité des corporations professionnelles de l’Égypte byzantine, ZPE, 103 (1994), pp. 19-40 (ricca
bibliografia).
Vita intellettuale.
Vedi 708 e 711.
Cristianesimo.
Per le questioni dottrinali che coinvolgono la Chiesa d’Egitto si farà riferimento, oltre
al presente manuale, ai capitoli specifici di 246. Vedi anche 373-78 e 626.
[1041] martin a., Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Égypte au ive siècle (328-373), Rome 1996 (fondamentale per il iv secolo).
[1042] frankfurter d. (a cura di), Pilgrimage and Holy Space in Late Antique Egypt,
Leiden-Boston-Köln 1998.
[1043] schmelz g., Kirchliche Amtsträger im spätantiken Ägypten nach den Aussagen der
griechischen und koptischen Papyri und Ostraka, München-Leipzig 2002.
[1044] kramer j., Was bedeutet «koimeterion» in den Papyri?, ZPE, 80 (1990), pp.
269-72.
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Introduzione metodologica e bibliografica
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[1045] maspero j., Histoire des patriarches d’Alexandrie, Paris 1923.
[1046] van minnen p., The Roots of Egyptian Christianity, APF, 40 (1994), pp. 71-85.
[1047] wipszycka e., Le istituzioni ecclesiastiche in Egitto dalla fine del iii all’inizio dell’viii secolo, in camplani a. (a cura di), L’Egitto cristiano, aspetti e problemi in
età tardo-antica, Roma 1997, pp. 220-71.
[1048] zuckerman c., The Hapless Recruit Psois and the Mighty Anchorite, Apa John,
BASP, 32 (1995), pp. 193-94.
I concorrenti del cristianesimo.
[1049] gardner i. m. f., lieu s. n. c., From Narmouthis (Medinet Madi) to Kellis (Ismant
El-Kharab): Manichean Documents from Roman Egypt, JRS 86 (1996), pp. 146169. Questi autori trascurano (e senza dubbio respingono) la datazione bassa
(viii secolo) recentemente proposta per il «micro-codice» di Colonia (B. L.
Fonkiç e F. B. Poljacov, BZ, 83 (1990), pp. 22-30).
[1050] brashear w., A Mithraic Catechism from Egypt, Wien 1992 (vedi tuttavia turcan r., Mithra et le mithriacisme, Paris 1993, pp. 152-56).
[1051] Begegnung von Heidentum und Christentum im spätantiken Ägypten, Riggisberg
1993.
[1052] frankfurter d., Religion in Roman Egypt. Assimilation and resistance, Princeton 1998.
Alessandria.
[1053] bowersock g. w., Late Antique Alexandria, in Alexandria and Alexandrianism,
Malibu 1996, pp. 263-70.
[1054] haas chr., Alexandria in Late Antiquity: Topography and Social Conflict, Baltimore-London 1997.
[1055] fraser p. m., Byzantine Alexandria, in swelim n. (a cura di), Alexandrian studies in memoriam Daoud Abdu Daoud, Alexandria 1993, pp. 91-106.
L’Egitto e Bisanzio.
[1056] Survey archéologique des Kellia, Basse-Egypte, II. Explorations aux Qouçoûr erRoubâ’îyât: rapport des campagnes 1982 et 1983, a cura di Ph. Bridel e N. Bosson, Louvain 1994, n. 303, pp. 448-49 (J. Partyka, iscrizione datata di Giustiniano II).
[1057] rutschowscaya m.-h., La peinture copte, Paris 1992, pp. 60-62 e fig. a colori
a p. 12 (icona di Anthousa).
[1058] wipszycka e., Le nationalisme a-t-il existé dans l’Égypte byzantine?, JJP, 22
(1992), pp. 83-128 (= 373, pp. 9-62).
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Avvertenza
In conformità a consuetudini ormai largamente condivise, si è provveduto alla trascrizione dei termini greci o grecizzati, sempre segnalati
in corsivo, osservando generali criteri di chiarezza in grado di esaltarne
l’immediata perspicuità anche agli occhi del lettore non specialista. Pur
nel complessivo rispetto delle norme di traslitterazione tradizionali – in
base alle quali q corrisponde a th, x a x, f a ph, c a ch, y a ps; i dittonghi au, eu, ou ad au, eu, ou (ma u = y); i nessi gg, gk, gc rispettivamente a ng, nk, nch, ecc. – si è perciò omessa ogni indicazione relativa alla
quantità sillabica (riducendo, di conseguenza, e ed h ad e, o e w ad o) o
all’accentazione tonica delle parole, salvo nei casi di termini entrati nell’uso italiano quali agorà, bulè e simili. Più specificamente, si è ritenuto
opportuno normalizzare l’uso trascrittorio degli antroponimi greci secondo le convenzioni enunciate da Silvia Ronchey nella Nota sulla traslitterazione dei nomi bizantini contenuta in a. p. kazhdan e s. ronchey, L’aristocrazia bizantina dal principio dell’xi alla fine del xii secolo,
Palermo 1998. Per quanto concerne l’ortografia dei toponimi – e, più
sporadicamente, degli etnonimi – antichi, è stata riprodotta di massima
la forma italianizzata (Filippi, Sirmio, Amorio) e, ove ciò fosse possibile
senza determinare forzature eccessive, moderna (Durazzo anziché Dirrachio o Dyrr[h]achium), mantenendo altrimenti la scrizione originale,
traslitterata (Aizanoi, Byllis) o non traslitterata (Singidunum).
Anche per le occorrenze dal camito-semitico (arabo, ebraico/aramaico, copto) ed eventualmente dall’iranico, frequenti in particolare nei casi degli antroponimi e dei toponimi indicizzati, sono state tenute presenti le norme di traslitterazione comunemente adottate, omologandole nei limiti del lecito attraverso l’impiego minimo di pochi segni
diacritici strettamente indispensabili, in base alle corrispondenze consuete – per cui: ’ = aleph (ebr./aram.) / alif, ovvero hamzÇ (ar.), ‘ = ‘ayn
(ebr./aram. ar.), ® = ®Ç, kh = khÇ (ar.), ecc. –, ma anteponendo al rigore astratto della regola una prassi di sostanziale flessibilità in presenza
di varianti comuni, meglio note o più significative (e intelligibili) sotto
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Avvertenza
il profilo della trascrizione fonematica, che ha determinato ad es. occasionali oscillazioni tra j e _ nella resa di _¥m ar. – così Jabal (nei toponimi composti) e Jihad, ma Hi_iaz –, ovvero addirittura tra sh (‰) e sc, utilizzati tanto per esprimere ‰¥n ebr./aram. ar. quanto ‰ai copto, come in
Mishnà, Shbeyt [ Jabal ], ma Scenute. Per analoghi motivi di semplicità,
nelle traslitterazioni dall’ar. si è evitato di rilevare le fricative interdentali < £ (<®Ç’ e £®Çl ) come pure di distinguere i contoidi semplici t d s z
dai corrispondenti enfatici. L’articolo determinativo usualmente prefisso ai toponimi copti è stato inoltre trascritto in forma vocalizzata,
evidenziando lo ‰ewà in apice (così Pebou [ma lemmatizzato s.v. Bau],
Tesmine [Zminis]).
M. S.
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L’Impero romano d’Oriente
(330-641)
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parte prima
La continuità dell’Impero romano in Oriente
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cécile morrisson
i. Gli avvenimenti: prospettiva cronologica 1
1. Costantino, fondatore dell’Impero cristiano.
La vittoria di Crisopoli su Licinio, nel 324, lascia Costantino unico
padrone dell’Impero. Tale evento mette fine all’ultima sopravvivenza
dell’organizzazione tetrarchica, all’interno della quale l’Occidente e l’Oriente erano stati spartiti, rispettivamente, tra gli augusti Costantino e
Licinio e i loro figli, i cesari, Crispo e Costantino II da una parte, Licinio il Giovane dall’altra. È in questa data che Costantino decide di fare di Bisanzio una città che avrebbe portato il suo nome e sarebbe stata, se si presta fede a Eusebio, dedicata alla fede cristiana, grazie alla
quale aveva riportato la vittoria (V. Const., 3.48).
Comprendendo il valore che l’unità della Chiesa rappresenta per lo
Stato divenuto cristiano, Costantino convoca un concilio a Nicea, una
delle sue residenze. Si trattava essenzialmente di risolvere il dibattito
teologico che opponeva le Chiese di Antiochia e Alessandria sulla data
della Pasqua. Occorreva anche lottare contro il pericolo ariano, prendendo posizione tra i partigiani e gli avversari di Ario in merito alla natura di Cristo. Il concilio di Nicea proclama il Padre consustanziale (homoousios) al Figlio e condanna Ario, il quale, esiliato, torna tuttavia ben
presto in auge e gode del sostegno dell’imperatore, e più tardi di quello
dei suoi figli [cfr. cap. ii].
Costantino è frattanto divenuto personalmente cristiano, come mostrano più indizi: sulle monete, l’abbandono dei riferimenti al culto solare e la sostituzione del titolo, a esso legato, di invictus con quello di
victor, nonché il rifiuto, da parte dell’imperatore, di salire a celebrare i
consueti sacrifici sul Campidoglio, in occasione della sua visita a Roma
nel 326.
Le cerimonie di consacrazione di Costantinopoli, l’11 maggio 330,
testimoniano tuttavia la permanenza di riti non cristiani, data la presenza di uno ierofante e di un consacratore pagani e, forse, il trasferimento della statua di Atena (Pallade), il palladium di Roma [Dagron 493,
pp. 35-41], mentre le fondazioni imperiali non sembrano avervi parti-
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La continuità dell’Impero romano in Oriente
colarmente favorito la nuova religione [cfr. cap. vi]. È soprattutto a Roma (basiliche del Laterano e di San Pietro) e in Terra Santa che il cristianesimo dell’imperatore si fa notare, con la consacrazione nel 335 della basilica, riccamente dotata, del Santo Sepolcro, la quale dà l’avvio a
una serie di costruzioni sui siti dei principali avvenimenti della vita di
Cristo (Natività a Betlemme, Ascensione ecc.) [cfr. cap. x]. Ciò contribuisce allo sviluppo dei pellegrinaggi e all’insediamento in Palestina di
cristiani benestanti, che vi praticano la devozione, se non l’ascetismo,
in numero crescente a partire dalla metà del iv secolo [cfr. cap. viii].
La confisca dei tesori e delle statue dei templi, tra 331 e 336, permette di finanziare tali munificenze; insieme all’istituzione di nuove imposte in metallo prezioso (collatio glebalis, collatio lustralis, chrysargyron),
facilita inoltre la comparsa della nuova moneta d’oro [cfr. cap. vii]. Non
è certo, comunque, che abbia avuto il significato religioso che le attribuisce Eusebio (V. Const., 3.54). Malgrado la distruzione di qualche tempio e l’interdizione della prostituzione sacra, l’esercizio della religione
pagana resta infatti autorizzato, e i rituali e gli edifici continuano a essere sostenuti e mantenuti dallo Stato. Tuttavia, il favore personale mostrato dall’imperatore verso i cristiani, e soprattutto la legislazione che
esentava gli ecclesiastici dalle funzioni curiali (CTh, 16.2.1-2), accordando ai vescovi poteri giudiziari [cfr. cap. iv], ebbero certamente un ruolo importante – anche se non mancarono altre cause – nella diffusione
del cristianesimo all’interno della società. La religione minoritaria a malapena tollerata e talora perseguitata, alla quale si aderiva non senza rischi, era divenuta un’istituzione riconosciuta e ricca, che da quel momento in poi attirò progressivamente sempre più convertiti, fino a dominare la società, nel corso del cinquantennio seguente. Perciò, gli autori
pagani del iv secolo (Giuliano, Ammiano Marcellino, Eunapio) fanno di
Costantino il responsabile del declino della religione tradizionale nonché della decadenza romana, mentre la tradizione cristiana ne fa un santo a partire dal iv secolo.
Santità postuma e alquanto imperfetta, a occhi moderni, dal momento che nel 326, in circostanze oscure – il sospetto di adulterio forse non
era che un pettegolezzo –, Costantino fece uccidere il suo figlio di primo letto Crispo e la sua seconda moglie Fausta. La successione dinastica già tracciata da Costantino e Licinio non è per questo messa in causa: nel 333, Costantino aggiunge come cesari agli altri figli, Costantino
II e Costanzo II (proclamato nel 324), il proprio figlio più piccolo Costante e il nipote Dalmazio. Alla sua morte, sopraggiunta l’11 maggio
337, dopo che ebbe ricevuto da un vescovo ariano il battesimo in extremis, secondo una pratica allora assai diffusa, il potere spetta dunque a
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questi quattro cesari [cfr. fig. 1, p. 8]. L’esercito si ribella, probabilmente istigato da Costanzo, dichiara di non volere come augusti altri che i
figli di Costantino e massacra i loro zii Dalmazio e Giulio Costanzo, e
i loro cugini, il cesare Dalmazio e Annibaliano.
Il 9 settembre 337, alla loro proclamazione come augusti, i figli di
Costantino si spartiscono l’Impero: Costanzo regnerà sull’Oriente, Costante su una gran parte dell’Occidente, ad eccezione di Gallia, Spagna
e Britannia, appannaggio del figlio primogenito, Costantino II, che sembra aver goduto d’una certa precedenza. Si nota già il relativo frazionamento dell’Occidente, spartito tra due augusti e diviso in più prefetture, di contro all’Oriente, governato da un solo imperatore e dal suo unico prefetto del pretorio. L’eredità politica di Costantino risiede in effetti
nella trasformazione progressiva (piuttosto che in una «riforma»), a partire dal 324, dell’organizzazione amministrativa dell’Alto Impero, trasformazione che prosegue, con qualche modifica, l’opera di Diocleziano [cfr. cap. iii; Delmaire 335].
La sua eredità militare è in apparenza positiva, contraddistinta dalla
creazione dell’esercito mobile del comitatus [cfr. cap. v], e gli ultimi venti anni di regno sono relativamente pacifici: gli Alamanni sono contenuti sul limes renano, i Sarmati e una parte dei Goti (i Tervingi) sono vinti
nel 332 e poi insediati nell’Impero, dietro l’impegno di fornire 40 000
uomini a ciascuna requisizione [Giordane 175, 21.52]. Sul fronte persiano, tuttavia, la situazione si degrada a partire dalla persecuzione dei cristiani sotto Sapore II (310-79). La conversione dell’Armenia, nel 312, e
la sua annessione da parte di Costantino poco tempo dopo [Zuckerman
234] avevano segnato, infatti, un certo allontanamento del paese dalla
sfera iranica, in coincidenza con l’inizio di tensioni costanti, in merito a
ciò, tra Roma e la Persia.
2. Costanzo II, Giuliano, la guerra persiana e il ritorno all’unità dell’Impero (337-63).
Costante si libera dal 339 della tutela di Costantino II, che è vinto
e ucciso ad Aquileia nel 340. La separazione dura fino al 350, accresciuta da un’opposizione religiosa tra i due fratelli: Costanzo sostiene l’arianesimo in Oriente, mentre Costante vi si oppone; infine, il reinsediamento del vescovo cattolico Atanasio ad Alessandria porta a una rappacificazione provvisoria nel 346 [cfr. cap. ii]. Nel 350, dopoché Costante
era stato rovesciato e ucciso in Gallia da Magnenzio, un ufficiale di origine germanica (leto), che viene proclamato imperatore, Costanzo si met-
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Figura 1. Le dinastie costantiniana, valentiniana, teodosiana e relativi legami matrimoniali.
Elena = costanzo cloro = Teodora
Fausta = costantino i = Minervina
Crispo
costantino ii costanzo ii costante
Elena Costantina
Dalmazio
Giulio Costanzo Costanza = licinio
Dalmazio Annibaliano
Gallo
giuliano
Licinio
il Giovane
Graziano il Vecchio
Marina = valentiniano i = Giustina = magnenzio
valente
Costanza = = = = = = = = = = = = = = = = graziano
Teodosio il Vecchio
Onorio
Elia Flaccilla = teodosio i = = = = = = = = = = = = = = = = = Galla
Serena = Stilicone
Grata Giusta valentiniano ii
BAUTONE
Maria = onorio
Graziano Pulcheria
arcadio = Eudossia
Galla Placidia = costanzo iii
? = marciano = Pulcheria Flaccilla teodosio ii = Eudocia
Eudossia = valentiniano iii
Onoria
GENSERICO
UNERICO
Placidia = olibrio
ILDERICO
antemio
leone i = Verina
Marciano = Leonzia
= Eudocia
Basilisco = Zenonide
anastasio i = Arianna = zenone
Marco
Leone II
La tavola è schematica e parziale; dati più completi in PLRE. Gli elementi barbarici sono in corsivo.
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te in viaggio verso l’ovest e ottiene l’abdicazione del magister militum
dell’Illirico, Vetranione, che è stato similmente proclamato imperatore
dalle truppe. Dopo aver vinto Magnenzio a Mursa (sulla Drava, oggi
Osijek) il 28 settembre 351, ristabilisce il proprio potere sull’Italia nel
352. Nel 353 Magnenzio, definitivamente vinto in Gallia, si suicida a
Lione; Costanzo, ormai unico padrone dell’Impero, può celebrare ad Arles un trionfo che coincide con i suoi tricennalia, e prosegue poi senza
grandi successi la lotta intrapresa da Costante contro gli Alamanni.
Costanzo è descritto da Ammiano Marcellino (21.16) come pieno del
«solenne aspetto dell’autorità imperiale», da lui esercitata con l’impiego – quando, geloso del proprio potere, lo riteneva minacciato – d’una
ferocia spietata, mentre per il resto era di costumi sobri e moderati, con
la pretesa di essere colto ma dotato in verità di uno «spirito ottuso»,
mescolando «la chiarezza e la semplicità della religione cristiana con superstizioni da vecchiette». Ammiano Marcellino, ufficiale pagano originario di Antiochia, testimone oculare di numerosi avvenimenti, è l’autore delle Res Gestae scritte in latino a Roma alla fine del iv secolo, e
«merita di essere paragonato a Tacito» [Cameron 141, XIII, p. 686]. Ci
sono pervenuti solo i libri che coprono gli anni dal 353 al 378; la loro
potenza è tale che numerosi elementi o personaggi di quei tempi saranno sempre visti per il tramite della sua narrazione. È il caso del suo ritratto di Costanzo, nel quale si vuole ancora vedere, forzandone i tratti in maniera caricaturale, «il primo degli imperatori bizantini, per il suo
gusto di un fasto freddo e ieratico, il suo distacco dai propri sudditi, la
sua debolezza davanti agli intrighi degli eunuchi e delle donne»2.
Dal 337 al 350, Costanzo II si dedica in Oriente, dalla propria residenza di Antiochia, alla lotta contro i Persiani, ristabilendo l’influenza
romana in Armenia e impedendo le incursioni persiane in Mesopotamia
grazie a una strategia prudente, che si limitava alla difesa delle città fortificate ed evitava finché possibile le battaglie campali. Alla sua partenza per l’Occidente, affida l’Oriente al proprio cugino, Gallo, nominato
cesare nel 351. La mancanza di accortezza e gli eccessi di Gallo, che
giungono fino a far assassinare ad Antiochia gli inviati dell’imperatore,
lo fanno richiamare in Italia, dov’è decapitato nel 354. L’anno seguente Costanzo, che non ha figli, è obbligato a scegliere un altro cesare,
Giuliano, il fratellastro di Gallo, scampato come quest’ultimo al massacro del 337 [cfr. fig. 1]. Esiliato nella sua infanzia, insieme a Gallo, in
Bitinia, poi in Cappadocia, Giuliano aveva ricevuto un’educazione cristiana, ma, una volta autorizzato a rientrare a Costantinopoli, aveva frequentato gli ambienti mistici neoplatonici a Nicomedia, Pergamo, Efeso e Atene, e aveva aderito al paganesimo in segreto, con una conver-
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sione che gli valse poi il soprannome di «Apostata». Nel 355, Costanzo gli affida la difesa della Gallia, minacciata da Franchi e Alamanni.
Giuliano vi fa prova di grandi qualità militari e amministrative, rimettendo le città in grado di difendersi, battendo con forze inferiori una
grande armata di Alamanni a Strasburgo (357), mostrando che si potevano raccogliere le tasse con efficacia e giustizia, lottando contro la corruzione abituale in quest’ambito (Ammiano Marcellino, 16.5.14-15 e
17.3.1-6). Così, quando Costanzo, inquieto per questa popolarità crescente, vuole richiamare una parte delle sue truppe in Oriente, i soldati si rivoltano e proclamano Giuliano augusto (febbraio 360). Dopo che
la ricerca di un compromesso è fallita, Giuliano avanza con le proprie
truppe in Illirico e apprende a Naisso (Ni‰) la notizia della morte di Costanzo, sopraggiunta in Cilicia (3 novembre 361) quando l’imperatore
aveva lasciato Antiochia e il fronte persiano, momentaneamente calmo,
per un confronto inevitabile.
Ultimo erede della dinastia costantiniana, Giuliano è ormai il solo
padrone dell’Impero. Dopo aver celebrato i funerali cristiani di Costanzo, che è sepolto ai Santi Apostoli (dicembre 361), prende subito un corso contrario a quello del proprio predecessore, affetta la semplicità del
filosofo al posto della solennità imperiale, procede a riduzioni di personale a Corte e nell’amministrazione, rafforza gli effettivi dei curiali e le
finanze delle città. Questa contrapposizione si manifesta soprattutto in
campo religioso (Ammiano Marcellino, 22.5.2): abolisce le misure persecutorie di Costante e Costanzo, come l’interdizione dei sacrifici promulgata nel 341 (CTh, 16.10.2) o la chiusura dei templi (CTh, 16.10.4),
nel 346, reiterate nel 356-57. Emette un editto di tolleranza generale,
che comprendeva pagani, ebrei e cristiani di tutte le sette, che avrebbero dovuto essere indeboliti, pensava, dalle proprie discordie. Le agevolazioni per gli ecclesiastici sono soppresse, i templi pagani riaperti o ricostruiti a spese dei cristiani, e l’imperatore progetta di ricostruire il
Tempio di Gerusalemme. Il culto pubblico degli dèi è ristabilito, mentre Giuliano cerca di organizzare una Chiesa pagana gerarchizzata, e incita a praticare la carità verso i poveri, sul modello della Chiesa cristiana. Infine, proibisce ai cristiani d’insegnare la retorica e la grammatica
(CTh, 13.3.5, da integrare con Giuliano, Ep., 61, e Gregorio di Nazianzo, Disc., 4.5, PG 35). Questo cambiamento di politica non è privo di
eccessi o azioni legali talora ingiustificate, che scatenano passioni e sommosse. Ad Antiochia, dove passa quindici mesi, dal marzo 362 al maggio 363, Giuliano si scontra con un’opinione pubblica ostile, in maggioranza schierata col cristianesimo, e tanto più malcontenta in quanto infuria una crisi frumentaria, in parte provocata – o in ogni caso accentuata
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– dalla concentrazione di truppe nella regione. È grazie alla satira (Misopogon) da lui stesso dedicata a queste critiche e fatta affiggere a un
portico vicino al palazzo, che questi incidenti sono particolarmente ben
conosciuti.
Sempre per reazione contro Costanzo, Giuliano decide di lanciare,
nella tradizione di Alessandro e Traiano, una grande offensiva contro i
Persiani che non aveva molte giustificazioni. In effetti, dopo aver preso e distrutto Amida nel 359 e Singara nel 360, Sapore si era contentato di tenere Bezabda e si era ritirato lontano dalla frontiera. Respingendo i consigli di prudenza della sua cerchia, Giuliano avanza verso l’Eufrate e scende verso Ctesifonte. Vincitore dell’esercito persiano, rinuncia
tuttavia ad assediare la capitale e, bruciando i battelli della spedizione,
decide di risalire lungo il Tigri nella speranza di raggiungere un altro
contingente romano. In un territorio ostile e devastato, sotto un calore
opprimente, l’avanzata dell’esercito, logorato dai Persiani e dai loro ausiliari arabi, è assai difficile.
Dopo che Giuliano è stato ucciso nel corso di uno scontro (il 27 giugno 363), l’esercito proclama imperatore Gioviano, un ufficiale cristiano di una trentina d’anni che non era legato ad alcuna delle fazioni esistenti. Occorre firmare una pace vergognosa, con la quale l’Impero rinuncia a cinque province della Mesopotamia a est del Tigri, a suo tempo
conquistate da Massimiano e Diocleziano, e cede Nisibi, insieme ad altre fortezze di frontiera che fino ad allora avevano resistito vittoriosamente ai tentativi di Sapore.
3. La dinastia valentiniana e Teodosio (363-95).
Dopo il decesso di Gioviano ad Ancira, a dicembre, i capi dell’esercito e gli alti funzionari scelgono per suo successore un altro ufficiale pannonico e cristiano, Valentiniano, che proclama personalmente augusto il
proprio fratello Valente (28 marzo 364). L’estinzione della dinastia costantiniana provoca il ritorno alla prassi di una «monarchia militare» del
iii secolo e, come ai tempi della Tetrarchia, la divisione tra l’Oriente, sotto Valente, e l’Occidente, compreso l’Illirico, sotto Valentiniano. L’attaccamento, tuttavia, di una parte dell’esercito alla famiglia di Costantino spiega il successo dell’usurpazione di Procopio, un parente di Giuliano, che, con l’appoggio delle truppe di Tracia e Bitinia, riesce a impadronirsi momentaneamente di Costantinopoli (365-66).
Ammiano Marcellino loda «l’imparzialità di cui Valentiniano fece
prova in mezzo alla diversità delle religioni» (30.9), un’attitudine che
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s’imponeva, dopo la reazione del regno di Giuliano, e teneva conto della resistenza degli ambienti pagani. Gli imperatori infatti accordano a
ciascuno «la libertà di praticare il culto prescelto dalla propria coscienza» (CTh, 9.16.9). Solo i manichei restano esclusi da queste misure che
assicurano al paganesimo trent’anni di pace e di lustro, illuminati in Occidente dalle figure di Simmaco, prefetto dell’Urbe nel 384, e di Ausonio, precettore e consigliere di Graziano, in Oriente invece da quelle di
Libanio, il retore e professore di Antiochia, e Temistio, filosofo e retore tanto accreditato presso Valente quanto lo era stato sotto Costanzo
II. In compenso, la calma è ben lontana dal regnare presso i cristiani,
che non avevano cessato di contrapporsi riguardo alla teologia della Trinità: Costanzo II nel 359 aveva fatto ratificare in Occidente (concilio
di Rimini) e in Oriente (Seleucia del Calicadno), poi tramite un concilio generale a Costantinopoli (360), un compromesso omeista che viene
rifiutato dai partigiani di Nicea. In Occidente, dove questi sono maggioritari, il credo del 325 è rapidamente ristabilito con il consenso di
Valentiniano. Nell’Oriente, assai diviso, Valente si scontra in particolare con l’opposizione del vescovo di Alessandria, Atanasio, che l’imperatore manda in esilio nel 365, come avevano già fatto Costanzo e Giuliano. Malgrado gli interventi imperiali, l’opera di teologi come Atanasio o Basilio di Cesarea e la personalità – benché contestabile – del primo finiscono per far avanzare le idee nicene in Oriente, e l’arianesimo
è definitivamente condannato dal concilio ecumenico convocato da Teodosio I a Costantinopoli nel 381 [cfr. cap. ii]. L’unità della Chiesa dell’Impero pareva stabilita, ma il problema dell’arianesimo – diffuso in
particolare presso i Goti dal vescovo Ulfila a partire dal 341 – è lungi
dall’essere risolto.
Il regno di Valentiniano e Valente è contraddistinto da una riorganizzazione monetaria e fiscale di grande ampiezza, e numerosi autori celebrano la moderazione e la generosità degli imperatori in tale materia.
Una serie di leggi del 367-68 cerca di reprimere le malversazioni nella
raccolta dei tributi e di stimolare la produzione mineraria, mette fine alle manipolazioni, precedentemente diffuse, della lega metallica dei pezzi coniati e fa sì che per lungo tempo la moneta d’oro, ormai purificata
e battuta in quantità crescente, sia il perno delle finanze e degli scambi
dell’Impero. Di origine modesta, i sovrani cercano di assicurare la protezione delle persone umili implicate in processi creando o restaurando
la funzione del defensor civitatis, e favoriscono non solo la promozione
dei loro compatrioti pannonici, ma più in generale quella dei militari o
dei funzionari di grado medio, ai quali aprono i ranghi del Senato, regolando nei dettagli le rispettive precedenze. Così si compie alla fine del
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iv secolo la trasformazione dell’ordine ereditario di tipo romano in una
nobiltà di funzione [cfr. cap. iii].
Assorbiti dalla difesa dell’Impero, gli imperatori vivono più spesso
nelle proprie residenze vicino alle frontiere (Treviri, Antiochia) che a
Roma o a Costantinopoli, la cui cultura e società sono loro assai estranee. In Occidente, Valentiniano fa fronte alla rivolta del capo mauro
Firmo in Africa (372), alle incursioni continue degli Alamanni in Gallia, dei Pitti e degli Scoti in Britannia (367), dei Sarmati e dei Quadi sul
Danubio. È là che muore nel 375, subito rimpiazzato dal proprio figlio
Graziano (augusto dal 367) e dal figlio cadetto Valentiniano II, nominato su istigazione del magister militum per Illyricum, il franco Merobaude, al fine di assicurarsi la lealtà dell’esercito. In Oriente, Valente aveva cercato, nel corso di parecchi anni, di effettuare interventi armati o
trattative sul fronte persiano, ma senza successo, in quanto Sapore restava padrone dell’Armenia ed estendeva la sua influenza sulla vicina
Iberia (l’attuale Georgia occidentale). Già nel 367-69, Valente si era portato oltre il Danubio a ovest del Dnestr (attuale Moldavia), e aveva concluso con il capo goto dei Tervingi, Atanarico, una pace che sopprimeva i sussidi e la libertà di commercio accordati nel 332, ma anche l’obbligo di fornire contingenti all’esercito romano.
Stabiliti a partire dal iii secolo a nord del Mar Nero, i Goti, di origine germanica, giunti dalla Vistola, dominano nel iv secolo un’ampia
zona tra Don e Danubio, che coincide con quella della «cultura di
âernjahov-Sîntana de Mureş» [Heather 204, Kazanski 208, Wolfram
229]. L’avanzata degli Unni, venuti dalle steppe dell’Asia centrale, porta alla dissoluzione dei differenti regni goti (Greutungi di Ermanarico
e Tervingi di Atanarico, che si sono voluti identificare a torto a posteriori con gli Ostrogoti e i Visigoti). Due capi dei Tervingi domandano
allora asilo a Valente. Nel 376 è concluso un accordo che pareva vantaggioso a entrambi i contraenti, giacché offriva all’Impero degli ausiliari ormai convertiti al cristianesimo, e ai Goti un rifugio e delle terre
nella fertile regione da loro scelta, la Tracia (Ammiano Marcellino,
31.4.1-12). L’operazione, condotta in fretta, si rivela difficile a causa
del gran numero di coloro che giungono, i quali non trovano gli approvvigionamenti promessi e sono vergognosamente sfruttati dal comes di
Tracia, Lupicino, che approfitta della situazione per venderne molti come schiavi. Il disordine permette ai Greutungi, che Valente aveva escluso dall’accordo, di attraversare anch’essi il Danubio. La rivolta esplode
alla fine del 377, e l’esercito di circa 15 000 uomini, radunato per mettere fine al saccheggio e alla devastazione della Tracia e dei Balcani, subisce al contrario una sconfitta schiacciante davanti ad Adrianopoli il 9
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agosto 378, sconfitta in cui la cavalleria dei Goti gioca un ruolo decisivo. I due terzi delle forze romane e l’imperatore stesso sono massacrati
in questa «memorabile battaglia che significa realmente per l’Impero
universale di Roma l’inizio della fine dell’Impero» [Stein 151, I, p. 190].
I Goti, tuttavia, non sono equipaggiati per la guerra d’assedio e non possono impadronirsi di Costantinopoli e nemmeno di Adrianopoli, potentemente fortificate.
Graziano affida l’Oriente a Teodosio (379-95), un militare cristiano
di origine spagnola, figlio del magister equitum di Valentiniano, che aveva pacificato la Britannia e l’Africa. Il nuovo imperatore riceve inoltre
la responsabilità delle diocesi di Dacia e Macedonia, che fino ad allora
avevano fatto parte del dominio di Graziano insieme al resto dell’Illirico [cfr. cap. xi]. Reclutando a viva forza in Asia, così come presso i barbari, delle nuove truppe di una fedeltà e di una qualità incerte, tenta
con scarso successo, dalla propria base di Tessalonica, di lottare contro
i Goti che devastavano la Grecia e le province danubiane fino alle Alpi
Cozie (Piemonte, Liguria), e si sforza soprattutto di difendere le città.
La vittoria dei generali franchi di Graziano, Bautone e Arbogaste, sui
Tervingi in Macedonia nel 381, sopravvenuta dopo un insuccesso dei
Greutungi in Pannonia (o almeno una trattativa tra questi ultimi e Graziano), e soprattutto la stanchezza dei due contendenti portano alla stipulazione della pace, il 3 ottobre 382. Le fonti del iv secolo la qualificano come deditio e vi vedono, come Temistio (Oratio, 16) [Dagron 719],
la resa e la sottomissione dei barbari, nemici trasformati in contadini e
in soldati. Difatti l’accordo, peraltro mal conosciuto nei dettagli, li insedia in Mesia tra la catena dei Balcani e il Danubio, in cambio di prestazioni militari a fianco dei Romani da effettuarsi in massa su richiesta, e infatti Teodosio li mobilita in seguito per combattere gli usurpatori occidentali. Sembra soprattutto che i Goti, dal probabile numero
di più di 100 000 uomini, siano stati autorizzati a conservare in territorio romano la propria organizzazione tribale. Questa semiautonomia
di un gruppo etnico dotato di una forte identità, fondata da una parte
su una lingua germanica comune (messa per iscritto dal vescovo Ulfila
nella sua traduzione della Bibbia), dall’altra sull’arianesimo adottato all’epoca di Costanzo e di Valente (ormai respinto dalla maggioranza dei
cristiani dell’Impero), e infine su un diritto consuetudinario e una tradizione orale propri, celava grandi pericoli a medio termine. L’accordo, tuttavia, si pone in una lunga tradizione e ricorda quelli conclusi
da Costantino nel 332 e da Valentiniano nel 376. Soprattutto, non c’erano molte altre scelte per difendere il Danubio senza sguarnire gli altri fronti, e gli imperatori probabilmente speravano di controllare i
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Goti, come mostra il rifiuto di riconoscere loro un capo [Heather 204].
Nel 383 viene concluso un altro trattato di pace con la Persia, per
mezzo del quale vengono delimitate le rispettive zone di influenza in
Armenia: l’Impero recupera le sei satrapie (che peraltro conservavano i
loro capi ereditari) situate tra le vallate dell’Alto Tigri e dell’Alto Eufrate, da Karin (Erzerum) a Martiropoli.
Quindi Teodosio può intervenire in Occidente a due riprese: innanzitutto, in occasione della rivolta di Magno Massimo, un ufficiale d’origine spagnola che era stato proclamato imperatore dall’esercito della
Britannia. Massimo aveva invaso la Gallia e Graziano era stato ucciso
a Lione dalle proprie truppe (383). Sembra che Teodosio abbia inizialmente consigliato alla vedova di Valentiniano I, l’imperatrice Giustina,
reggente per il proprio figlio Valentiniano II, di accettare la spartizione
del potere con Massimo, riconosciuto augusto per la Gallia, la Britannia e la Spagna, mentre Valentiniano II riceveva, oltre all’Italia, la Dacia e la Macedonia. Ma l’accordo non dura. Nel 387, Massimo invade
l’Italia, e Valentiniano II e la sua Corte si rifugiano a Tessalonica. Questa volta Teodosio decide di intervenire e Massimo, vinto a Petovio, è
giustiziato nell’agosto 388. Successivamente, Teodosio si reca a Roma
nel 389, testimoniando la propria clemenza verso i senatori, tra cui Simmaco, che avevano sostenuto Massimo. A Milano, residenza imperiale
dal 381, deve cedere di fronte alla forte personalità del vescovo, sant’Ambrogio, che aveva già esercitato una grande influenza su Graziano.
Scomunicato per otto mesi per aver ordinato il massacro di 7000 tessalonicesi come rappresaglia per il linciaggio del magister militum Buterico, Teodosio deve fare onorevole ammenda (Natale 390) e dal febbraio
391 emette una serie di leggi antipagane [cfr. infra e cap. ii].
La restaurazione di Valentiniano II dura ben poco, giacché nel 392
sorge un conflitto con il suo magister militum, il franco Arbogaste, e l’imperatore è ucciso a Vienne [Zosimo 186, 4.54.3]. Arbogaste fa proclamare augusto un retore e alto funzionario romano, Eugenio (392-94),
che cerca invano di conciliarsi Teodosio, e successivamente si appoggia
agli ambienti pagani, ristabilendo in Senato l’altare della Vittoria che
prima Costanzo e poi Graziano avevano soppresso. La vittoria riportata presso il Fiume Freddo (l’attuale Vipava, tra Emona e Aquileia) il 6
settembre 394 sulle truppe di Eugenio e Arbogaste, che sfoggiavano in
prima fila un’immagine di Ercole, da parte di quelle di Teodosio, miracolosamente favorito da un vento contrario ai ribelli (Rufino, Hist.
eccl., 11.33), è naturalmente considerata come un nuovo trionfo del cristianesimo.
Tale vittoria sembra ricompensare le misure che avevano appena mes-
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so fine ai trent’anni di tolleranza instaurata da Giuliano e mantenuta
sotto i suoi successori, ivi compresi Teodosio stesso e Graziano fino al
380 circa. Nel 381 e nel 385 i sacrifici e la divinazione erano stati proibiti, ma l’offerta d’incenso rimaneva autorizzata. Maggiormente grave
è la distruzione di numerosi templi, compiuta da bande di monaci o organizzata da vescovi, con l’appoggio o in ogni caso l’incoraggiamento
delle autorità, in particolar modo del prefetto del pretorio d’Oriente,
Cinegio, in Siria ed Egitto. Il tempio di Serapide ad Alessandria, «di
cui nulla vi è di più fastoso sulla terra all’infuori del Campidoglio» secondo Ammiano (22.16), è distrutto su ordine di Teodosio intorno al
390, dopo sommosse provocate dalla trasformazione in chiesa di un tempio di Dioniso. Questi tumulti, di cui ci furono numerosi altri esempi,
mostrano che il cristianesimo era ben lontano dall’aver conquistato la
totalità dell’opinione pubblica, come si tende a credere in base alla semplice enumerazione della legislazione in suo favore. A norma delle leggi antipagane del 391-92 [cfr. cap. ii], comunque, il paganesimo è definitivamente proscritto.
Alla sua morte, sopraggiunta a Milano il 17 gennaio 395, Teodosio
I lascia l’Impero a due figli ancora giovani: l’Oriente ad Arcadio, che allora aveva 17 o 18 anni, l’Occidente a Onorio, di soli 10 anni. Non è la
prima volta che l’Impero era diviso in tali termini. Se il 395 è nondimeno considerato a posteriori da certi storici come una data capitale, che
contraddistingue per così dire «l’inizio della fine», almeno di Roma, è
perché Teodosio è stato l’ultimo a esercitare da solo il potere sull’Impero nella sua interezza, e perché i quindici anni tra iv e v secolo sono in
effetti quelli del passaggio «dall’unità alla divisione dell’Impero romano (395-410)»3. È allora che i destini delle due parti divergono definitivamente, che si accentuano le differenze strutturali tra un Oriente ellenizzato, dall’economia più ricca e che resisterà meglio alla pressione
dei barbari, conservando così una parte della tradizione e dell’amministrazione «romane», e un Occidente latino più militarizzato e precocemente germanizzato, dove nasceranno nel v secolo una serie di regni
barbari destinati a occuparne interamente il territorio. Nel v secolo, tuttavia, per i contemporanei la coscienza dell’unità dell’Impero, accentuata dai legami familiari in seno alla dinastia teodosiana, resta forte. L’unanimitas non si mostra solo sulle monete che continuano ad associare i
due imperatori, come Teodosio II e Valentiniano III, sulla medesima
emissione, o che sono battute in Oriente in nome di Onorio così come
di Arcadio, e viceversa in Occidente. Essa talora si manifesta anche, come si vedrà, nei fatti e per mezzo delle armi, una volta passata l’ostilità
dei tempi di Stilicone.
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4. Dall’unità alla divisione dell’Impero romano (395-410). I Goti e i
Vandali in Occidente e la presa di Roma (410).
Al momento della morte, Teodosio I, che si trova in Occidente con
una grande parte dell’esercito, affida Onorio al magister militum utriusque militiae, Stilicone, un mezzo vandalo che l’imperatore stimava a tal
punto da avergli dato in matrimonio sua nipote, Serena, facendone così un «parente» della famiglia imperiale e il reggente dei suoi figli minori. Parentela e autorità furono suggellate tre anni più tardi dal matrimonio della figlia di Stilicone, Maria, con Onorio. A Costantinopoli, in
compenso, il potere è nelle mani di alti funzionari civili: in successione,
il prefetto del pretorio Rufino, poi il praepositus sacri cubiculi Eutropio
e infine Antemio, prefetto del pretorio dal 405 al 414, tutti preoccupati di limitare il potere dei militari. Il goto Gaina, magister militum rinviato con le sue truppe in Oriente da Stilicone, non riesce a lungo, come avrebbe voluto, ad avere un ruolo importante a Costantinopoli e nel
400 i suoi partigiani vi sono massacrati, cosa che contribuisce senza dubbio alla partenza di Alarico per l’Italia. Le rivalità tra le cerchie dei due
sovrani minorenni indeboliranno l’Impero in circostanze difficili.
L’avvenimento più importante di questo periodo è infatti l’aggravarsi del problema gotico e la comparsa di un nuovo leader, Alarico. Nelle
guerre civili in cui erano stati impiegati da Teodosio, i Goti avevano sofferto perdite pesanti, cosa che aveva provocato una prima rivolta nel
387. In prima linea alla battaglia del Fiume Freddo, 10 000 di loro erano morti, ci dice Orosio [179, 7.35.19], il quale sospetta che Teodosio,
indebolendo i propri alleati, avesse così riportato un’altra vittoria. Nel
395 il conflitto tra Stilicone e il governo di Arcadio a proposito dell’Illirico [cfr. cap. xi] fornisce ad Alarico l’occasione di intervenire e di
sfruttare la sfiducia di Costantinopoli nei confronti di Stilicone e delle
sue pretese di dirigere l’insieme dell’Impero. Alla testa del suo «popolo» (gens), ossia dei Goti federati stabiliti all’interno dell’Impero nel 382,
di cui era probabilmente divenuto il re, approfitta dell’assenza delle truppe, restate con Stilicone in Italia, per saccheggiare la Tracia e penetrare in Tessaglia. L’estate del 395, l’arrivo di Stilicone non risolve niente poiché, per motivi dibattuti (un ordine dato da Arcadio per evitare
un trionfo del generale a Costantinopoli, oppure il timore dei dissensi
tra le truppe romane), si deve separare dai contingenti orientali. Nel
397, Stilicone interviene nuovamente contro i Goti, che devastano allora la Grecia, lanciando contro di essi una spedizione navale. Sembra
che Costantinopoli abbia preferito contrapporsi ancora una volta a Sti-
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licone e negoziare con Alarico, nominato magister militum per Illyricum.
Ma la caduta di Eutropio nel 399 e il massacro dei partigiani di Gaina
nel 400 finiscono per convincere i Goti ad abbandonare la Macedonia
e la Dacia, dov’erano insediati da venticinque anni, per dirigersi verso
l’Italia, senza dubbio nella speranza di negoziare con Onorio migliori
condizioni d’insediamento, praticando una sorta di altalena politica tra
le due partes imperii divise e rivali.
L’Occidente non è maggiormente disposto ad accoglierli: nel 402 Stilicone riesce a respingerli a Pollenzo e a Verona, e queste mezze disfatte inducono i Goti a tornare nell’Illirico. Tuttavia l’ambizione di Stilicone, i suoi progetti di conquista dell’Illirico orientale, se non addirittura di prendere il potere a Costantinopoli, gli fanno concludere un
accordo con Alarico, nuovamente nominato magister militum nel 404 o
405, dimodoché i Goti accrescono le forze occidentali.
I piani di Stilicone sono rovesciati dagli avvenimenti che contraddistinguono l’inizio dell’insediamento dei popoli germanici in Occidente.
Se l’invasione dell’Italia da parte di Radagaiso nel 405/406 è arrestata
da Stilicone, le migliaia di Alani, Svevi e Vandali, che avevano attraversato il Reno gelato il 31 dicembre 406, raggiungono la Spagna fin dal
409, mentre l’usurpatore Costantino III, partito dalla Britannia, cerca
con qualche successo di difendere la Gallia abbandonata da Stilicone.
Dopo la morte di Arcadio in maggio e l’eliminazione di Stilicone nell’agosto del 408, l’intransigenza di Onorio e del partito antigermanico, che
rifiutavano ad Alarico il comando militare, il sussidio annuale in oro e
le terre da lui reclamate, conduce, dopo tre assedi successivi, al sacco di
Roma il 24 agosto 410 e i giorni seguenti. Avvenimento dalla risonanza immensa, questa caduta di una capitale creduta eterna: «È conquistata quella città che ha conquistato tutto l’universo» (Gerolamo, Lettere, 127.12). Gli ambienti pagani vi vedono il castigo per l’abbandono
della religione tradizionale, mentre sant’Agostino cerca nei suoi sermoni e nella propria grande opera, La città di Dio, di confutare tali argomenti e combattere lo sgomento generale. Roma può sopravvivere, scrive, a distruzioni materiali e a perdite umane se i Romani praticano la
concordia e la carità; i barbari non hanno trionfato: «Questa non è la
fine della città, ma un giorno la città avrà comunque una fine» (Sermones, 81.9, PL, 38, col. 505). Un gran numero di ricchi romani si trasferisce in Africa, ma anche in Palestina, come riferisce san Gerolamo che
si scandalizza per l’indifferenza degli Orientali riguardo all’indigenza
dei rifugiati [su tutti questi avvenimenti e le reazioni che suscitano,
Courcelle 195, pp. 31-114; Piganiol 215].
Gli anni 406-10 contrassegnano senza dubbio una svolta più impor-
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tante della spartizione del 396, in quanto l’unità politica aveva raramente regnato dalla fine del iii secolo [ Jones 149, I, p. 235]. Essi suggellano infatti la divergenza dei destini delle due parti dell’Impero: da un lato l’Occidente, nel cuore del quale s’insediano i diversi popoli germanici che abbandoneranno progressivamente lo statuto di federati per
fondare i loro propri regni e distruggeranno a poco a poco l’unità dello
Stato romano; dall’altro l’Oriente, che resiste con più successo alle pressioni esterne e preserva la propria organizzazione politica e militare e la
propria potenza economica. Non è questo il luogo di trattare dettagliatamente il ritiro romano dalla Britannia, lasciata a fronteggiare con le
proprie forze le scorrerie dei Sassoni, né le vicissitudini dei regni o dei
gruppi barbarici e il loro inserimento sociale e politico in Gallia o nella
penisola iberica nella prima metà del v secolo.
5. L’Impero d’Oriente sotto Teodosio II (408-50): ortodossia e salvezza
dell’Impero.
I decenni dal 410 al 450 vedono affermarsi questa superiorità dell’Impero d’Oriente, che prende a poco a poco i tratti della sua identità
«bizantina»: la polarizzazione intorno alla capitale ormai residenza permanente dell’imperatore [cfr. cap. vi], l’influenza del cristianesimo e
della Chiesa ortodossa sulla cultura e sulle strutture politiche, l’ascendente del greco come «lingua di cultura e lingua di Stato» – che non
esclude per questo un forte pluralismo [cfr. capp. ii-iii e ix]. Il lungo regno di Teodosio II (408-50), che aveva 7 anni alla sua assunzione al trono, educato nelle belle lettere e nella pietà e che resterà per tutta la vita «il più amabile tra tutti gli uomini» (Socrate, Hist. eccl., 7.42), è contraddistinto dalle influenze successive del prefetto del pretorio
Antemio, fino al 414, della sorella maggiore, Pulcheria, coronata Augusta nel 414, fino al 423, poi di sua moglie Eudocia, poi del prefetto
Ciro di Panopoli (429-31) e infine dell’eunuco Crisafio. La supremazia
dell’entourage civile dell’imperatore d’Oriente, della Corte e del Palazzo, contrasta con il potere esercitato in Occidente dal magister militum Ezio (423-54).
La cultura del sovrano e della sua famiglia – sua moglie Atenaide, battezzata col nome di Eudocia, era la figlia di un celebre sofista di Atene
– non è estranea alla creazione dell’Università di Costantinopoli (425),
né alla redazione del Codice teodosiano (429-37). Tuttavia, la pietà dell’Augusta Pulcheria non impone solo l’ascetismo a Corte, ma coincide anche con l’esacerbazione crescente delle passioni religiose che minacciano
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la pace civile. Lo testimoniano gli avvenimenti di Alessandria, favoriti
dall’attitudine intollerante del patriarca Cirillo (412-44): cristiani radunati davanti a una chiesa in fiamme massacrati da ebrei, poi omicidio della filosofa Ipazia da parte di cristiani fanatici (415), che la lapidano e bruciano il suo cadavere dopo averlo fatto a pezzi (Socrate, Hist. eccl., 7.15).
Violenze che si ripetono anche in altre città e soprattutto a Costantinopoli, poiché le controversie dottrinali o ecclesiastiche sollevano passioni
che oggi si possono difficilmente immaginare. Esse non esprimono solamente opposizioni tra clan, interessi o personalità, o rivalità tra città (come tra le scuole di pensiero di Antiochia e di Alessandria). Dato il crescente intrecciarsi tra Chiesa, Stato e società, ognuna di tali questioni
costituisce il centro di dibattiti che sono anche di natura politica. La querelle sulla natura del Cristo occupa l’intero periodo: dopo il concilio, assai movimentato, di Efeso I (431), che definisce la Vergine come Madre
di Dio (Theotokos), e altri concili perturbati o contestati come quello di
Efeso II (449), qualificato come «brigantaggio» dal papa, arriverà il concilio di Calcedonia (451), formulazione teologica essenziale ma gravida
di conseguenze [cfr. infra e cap. ii].
L’assenza di problemi di successione, in compenso, favorisce la continuità dello Stato. Si migliora la sicurezza tramite grandi lavori, come
la cinta muraria teodosiana di Costantinopoli, completata nel 413 (CTh,
15.1.51), e il rinnovamento del limes balcanico, oppure con misure come il riarmo della flotta danubiana. Le relazioni con la Persia, anch’essa minacciata dagli Unni, restano pacifiche se si eccettua il breve conflitto del 421 (assedio di Nisibi da parte dei Bizantini e di Teodosiopoli da parte dei Persiani) e quello del 440, seguito come in precedenza da
un rinnovo degli accordi.
La tranquillità della frontiera orientale permette a più riprese d’intervenire per difendere l’Occidente: 4000 uomini sono inviati nel 410
in soccorso di Onorio rifugiato a Ravenna; nel 424-25 l’alano Ardaburio e suo figlio Aspar mettono fine all’usurpazione di Giovanni e fanno
sì che a Onorio succeda suo nipote Valentiniano III, rifugiatosi a Costantinopoli con sua madre Galla Placidia. La solidarietà dinastica così
manifestata viene suggellata dal matrimonio del nuovo imperatore d’Occidente con la figlia di Teodosio II ed Eudocia, Eudossia la Giovane.
Le monete battute nelle zecche delle due parti dell’Impero celebrano
questa unione rappresentando al rovescio i due sovrani assisi sul medesimo trono, mentre tengono insieme il globo crucigero, simbolo dell’ideale romano di dominazione universale, con l’iscrizione salvs rei pvblicae.
Non si tratta di parole vane, come mostrano gli avvenimenti d’Afri-
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ca. La provincia è stata invasa nel 429 dai Vandali che hanno abbandonato il sud della Spagna, dov’erano insediati da vent’anni (l’Andalusia
deve loro il suo nome), favoriti dal conflitto del comes d’Africa, Bonifacio, con la Corte di Ravenna. I rinforzi orientali recati da una flotta
orientale guidata da Aspar non sono decisivi, ma contribuiscono a contenere per qualche tempo gli invasori, ai quali il trattato del 435 concede la Numidia e la Mauretania. La presa di Cartagine da parte di Genserico, nel 439, priva tuttavia l’Italia imperiale della sua provincia più
ricca e Roma dei suoi approvvigionamenti, mentre la flotta d’Africa,
controllata dai Vandali, compie incursioni devastanti in Sicilia a partire dal 440. La minaccia navale è presa sul serio (le mura marittime di
Costantinopoli sono completate in questa occasione) e si organizza una
risposta: nel 441, il magister militum Areobindo raduna truppe in Sicilia per una spedizione congiunta con le forze di Ezio. Come al solito, si
sguarnisce un fronte per difenderne un altro: in questo caso, il Danubio
a favore dell’Africa.
Ora, gli Unni, di cui si sono viste in precedenza l’avanzata nella zona nord-danubiana alla fine del iv secolo e le sue conseguenze, hanno raggiunto la frontiera all’inizio del v secolo e controllano ormai le popolazioni (Goti, Eruli, ecc.) della regione. La minaccia di questi nomadi, provvisti di una organizzazione politica e del sostegno dei loro sudditi
sedentari, si era già fatta sentire in occasione della guerra persiana del
422 e poi dell’invio di truppe in Africa. Nel 434 il capo unno Rua (al quale Ezio ha ceduto le province di Savia e Valeria) sfrutta l’indebolimento
delle truppe romane per negoziare la sua ritirata dalla Tracia in cambio
di un tributo di 350 libbre (250 000 solidi) e per ottenerne il doppio nel
439, al momento in cui la flotta si preparava a partire. Malgrado l’accordo, gli Unni devastano la Tracia nel 442, ma si ritirano perché, davanti
alla gravità della situazione, le truppe sono state richiamate dalla Sicilia.
L’Impero sospende momentaneamente il pagamento del tributo, ma Attila, nipote di Rua e suo successore, approfitta dello sconcerto provocato da una serie di catastrofi (terremoto, epidemia, carestia) per invadere
nuovamente la Tracia nel 447 (un ingens bellum et priore maius secondo
Marcellino comes 178, ad ann. 447) e ottenere il versamento degli arretrati (6000 libbre) e un tributo annuale triplicato (2100 libbre), nonché
l’evacuazione di un territorio di cinque giorni di marcia a sud del Danubio tra Singidunum (Belgrado) e Novae. L’oro rimpiazzava ciò che le armi non potevano ottenere, in un momento in cui l’Impero «teme i Persiani che preparano la guerra, i Vandali che minacciano le coste, il brigantaggio degli Isaurici, le scorrerie dei Saraceni in Oriente e, al sud, le
forze riunite delle tribù ‘etiopiche’» [Zuckerman 234].
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6. I successori di Teodosio II. Goti e Isaurici al potere a Costantinopoli
(450-91).
Teodosio II, modello dell’imperatore ereditario «nato nella porpora», ma lui stesso privo di un erede maschio, muore all’improvviso il
28 luglio 450. La logica familiare e il prestigio della dinastia portano
al matrimonio fittizio dell’Augusta Pulcheria – che aveva da lungo tempo fatto voto di verginità – con Marciano (450-57), un oscuro ufficiale che non poteva fare ombra ai potenti capi militari barbari Aspar e
Zenone.
Il concilio di Calcedonia (451), convocato su istigazione della nuova
imperatrice, permette di annullare le decisioni del secondo concilio di
Efeso, giungendo a una definizione dell’unione delle due nature, divina e umana, nella sola persona del Cristo. La sintesi produce una dottrina accettata come ortodossa a Roma e a Costantinopoli, ma che non
suscita l’unanimità in Oriente. La persistenza di un’opposizione monofisita condurrà nel vi secolo alla creazione di Chiese dissidenti anticalcedoniane e avrà gravi conseguenze nei secoli successivi: ancora oggi il
cristianesimo orientale ne risulta segnato [cfr. cap. ii].
La morte di Attila nel 453, dopo il fallimento della sua offensiva in
Gallia (Campi Catalauni, 451) e in Italia, fa scomparire il pericolo unno
e dà sollievo alle finanze imperiali, mentre la macchina da guerra si rimette in moto respingendo alcune offensive arabe in Oriente e imponendo la pace alle tribù nomadi dei Blemmi e dei Nubadi nella Tebaide.
Alla morte di Marciano, nel 457, il magister militum Aspar, al quale
il potere supremo era interdetto a causa della propria origine barbara,
sceglie un altro militare di medio rango, Leone. Il rituale dell’investitura, con la proclamazione da parte dell’esercito nell’accampamento dell’Hebdomon del candidato scelto in accordo con il Senato e il popolo,
l’entrata solenne in città e la benedizione della corona da parte del patriarca [De cerim. 167, 1.91], costituisce uno schema liturgico di circostanza che conoscerà molti adattamenti prima di essere codificato nel x
secolo [Dagron 321]. In Oriente come in Occidente, il contesto del v
secolo è contrassegnato dal potere decisionale delle truppe germaniche
o barbare e dei loro capi, in questo caso l’onnipotente Aspar figlio di
Ardaburio, un altro magister militum. Il nuovo imperatore, tuttavia, si
affranca a poco a poco da questa dipendenza appoggiandosi alle truppe
isauriche (rozzi soldati, se non addirittura briganti, provenienti da una
regione montuosa dell’Asia Minore) e al loro capo pagano, Tarasicodissa, che prende il nome del precedente capo isaurico, Flavio Zenone. Ze-
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none sposa Arianna, la figlia dell’imperatore, nel 467, ed elimina i propri rivali, Aspar e suo figlio Ardaburio, nel 471.
Questo duplice assassinio provoca la rivolta dei federati goti insediati in Tracia, alleati di Aspar. Nel 473 la calma non torna che a prezzo di
un tributo annuale di 2000 libbre d’oro e del riconoscimento del loro capo Teodorico Strabone come magister militum e «solo sovrano dei Goti».
Nel frattempo, i Goti insediati in Pannonia sotto gli Unni, e riconosciuti come federati nel 455, approfittano delle circostanze per devastare l’Illirico fino a Tessalonica ed esigere anch’essi la concessione di terre in
Macedonia. L’opposizione dei due gruppi, tuttavia, non è necessariamente un punto a vantaggio dell’Impero, come si vedrà sotto Zenone.
Gli avvenimenti dell’Occidente spingono Leone (457-74) a rinunciare alla prudente politica di Marciano. Nel 455, dopo l’assassinio di
Ezio e quello di Valentiniano III, Genserico aveva preso come pretesto il matrimonio forzato della figlia di Valentiniano III, Eudocia la
Giovane, con il nuovo imperatore d’Occidente, il senatore Petronio
Massimo – matrimonio che contravveniva all’accordo secondo il quale
la discendente di Teodosio I era stata promessa a suo figlio Unerico –
per impadronirsi di Roma. Vi aveva fatto un bottino considerevole e
danni più gravi di Alarico; come nel 410, l’avvenimento ha una grande risonanza: le principesse imperiali (Eudocia la Giovane e sua madre
Licinia Eudossia, la figlia di Teodosio II) sono portate in esilio a Cartagine con migliaia di prigionieri e i rifugiati affluiscono a Costantinopoli, mentre Genserico prende il controllo delle Baleari, della Corsica
e della Sardegna, e minaccia la Sicilia. Dopo la disfatta di una flotta inviata contro Cartagena nel 460, una grande spedizione che prevedeva
l’azione combinata di truppe occidentali, di forze orientali inviate dall’Egitto e di una flotta di 10 000 imbarcazioni è organizzata nel 467,
ma fallisce miserevolmente nel 468 (Procopio, Bella, 3.6.10-26), non
senza essere costata al Tesoro circa 64 000 libbre d’oro e 700 000 libbre d’argento, il probabile equivalente di più di un anno di entrate
[Hendy 592, pp. 221-23].
Alla morte di Leone I nel 474, Zenone prende il potere, inizialmente nel nome di suo figlio Leone II, nato nel 467 dal suo matrimonio con
Arianna, la figlia di Leone I. Leone II muore dieci mesi dopo, lasciando così suo padre, che aveva nominato co-imperatore, unico sovrano titolare. Poco amato a Costantinopoli a causa dei favori accordati agli
Isaurici, Zenone eredita una situazione difficile, aggravata dalle ripetute opposizioni che trova sia in esponenti della famiglia del suo predecessore, sia in rivali scaturiti dal proprio popolo. All’inizio c’è la rivolta del
comandante della spedizione del 468, Basilisco, cognato di Leone I, che
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prende il potere nella capitale nel 475-76, probabilmente su istigazione
della sorella, l’imperatrice madre Verina. Tornato dall’Isauria, Zenone
punisce l’usurpatore ma deve fare fronte, nel 479, al tentativo del proprio cognato Marciano. Tuttavia, il colpo di stato di questo nipote dell’imperatore del medesimo nome, figlio dell’imperatore d’Occidente Antemio e marito di un’altra figlia di Leone I, sostenuto dai Goti, è sventato dagli Isaurici di Illo. Tra il 484 e il 488, al contrario, Zenone deve
fronteggiare la rivolta dello stesso Illo e di suo fratello Trocunda che,
sempre con l’appoggio di Verina, proclamano ad Antiochia un altro usurpatore, il patrizio Leonzio.
Queste lotte di potere e scontri tra clan hanno luogo sullo sfondo della crisi finanziaria (a cui si cerca di rimediare con diverse misure: inflazione della moneta di bronzo, creazione del consolato onorario, molteplici confische) e di gravi dissidi religiosi. Basilisco aveva preso le parti
dei monofisiti, assicurandosi così sostegno in Egitto e in Palestina, ma
provocando contemporaneamente l’ostilità di Costantinopoli. Zenone
promulga nel 482 un editto d’unione (l’Henotikon), la cui formulazione, che non condanna Calcedonia, è comunque accettata dai patriarcati orientali. Il compromesso ristabilisce l’unione tra le sedi di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli, ma si scontra con l’opposizione degli estremisti delle due fazioni (monaci egiziani o palestinesi,
Akoimetoi della capitale), ed è all’origine di uno scisma con Roma (detto «acaciano», dal nome del patriarca di Costantinopoli scomunicato dal
papa) che dura fino al 519 [cfr. cap. ii].
Divisioni e lotte intestine sono contemporanee all’emergere di un
nuovo stato gotico, da esse favorito. La crescita del potere degli Ostrogoti e la loro unificazione sotto l’autorità di Teodorico l’Amalo sono
l’avvenimento più importante della fine del v secolo, sia per l’Oriente
sia per l’Occidente. Zenone aveva cercato, senza grande successo, di
manovrare i Goti della Pannonia (sotto Teodorico l’Amalo) contro i Goti di Tracia e il loro capo Teodorico Strabone, che aveva sostenuto Aspar
e poi tentato di prendere Costantinopoli nel 481. La morte di Strabone
e l’assassinio del suo giovane figlio non fanno che aumentare la potenza di Teodorico l’Amalo, già insediato sul Danubio intorno a Novae e
nominato magister militum nel 476, successivamente installatosi a Durazzo nel 479. Teodorico riceve la sottomissione dei Goti di Tracia e si
trova alla testa di un’armata che contava dai 10 ai 20 000 uomini, e di
un popolo di circa 100 000 persone. Alle prese con la rivolta di Illo, Zenone ha bisogno di Teodorico e gli fa grandi concessioni, accordandogli il titolo di console, conferito per la prima volta al capo di una popolazione barbarica e non più a capi romanizzati, integrati nella gerarchia
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imperiale. Una volta soffocata la ribellione, il sospetto reciproco cresce
e si arriva alle ostilità: Teodorico saccheggia la Tracia fino ad arrivare
sotto le mura di Costantinopoli. Si è tuttavia in una situazione di stallo, poiché nessuna delle due parti può avere la meglio sull’altra, né Teodorico può prendere il potere nella capitale. È allora che Teodorico decide – se su istigazione diretta di Zenone oppure no, le fonti sono in disaccordo – di partire per l’Italia.
7. La fine dell’Impero d’Occidente. Teodorico e gli Ostrogoti in Italia.
Dopo la perdita dell’Africa, il secondo sacco di Roma nel 455 e il fallimento della spedizione del 468, l’Italia, che si trova anche sempre più
distaccata dalla Gallia, ripiega sulle proprie forze. Il regno di Maggioriano (457-61) rappresenta l’ultimo tentativo di conciliare e difendere
gli interessi dell’Occidente romano, Gallia, Italia e Dalmazia comprese.
Il potere, intorno al quale si muovono le influenze incrociate dei diversi clan dell’aristocrazia senatoria e dei generali barbari al comando delle truppe federate che ne assicurano la difesa, tocca inizialmente al magister militum svevo, Ricimero, che aveva eliminato Maggioriano e che
crea e distrugge gli imperatori – con l’eccezione di Antemio (467-72),
che Leone I aveva inviato da Costantinopoli. Alla morte di Ricimero,
nel 472, questo ruolo è assunto momentaneamente dal burgundo Gundobaldo e poi dall’esercito di Dalmazia, che nel 474 mette sul trono un
parente di Verina, Giulio Nepote (474-[475]480), il quale, a sua volta,
è contestato dall’esercito d’Italia il cui comandante, Oreste, proclama
imperatore il proprio figlio Romolo, soprannominato spregiativamente
«Augustolo» (il piccolo augusto) (475-76). In seguito a una rivolta delle truppe provocata dalla mancanza di risorse, il generale sciro Odoacre
depone Romolo ed è proclamato «re», con l’accordo del Senato romano che rimanda le insegne imperiali a Costantinopoli. L’avvenimento
con cui si data tradizionalmente la fine dell’Impero d’Occidente non è
percepito come particolarmente importante dai contemporanei. Zenone non accetta il fatto compiuto e continua a considerare Nepote come
imperatore titolare. Nel corso di tredici anni, Odoacre assicura una certa stabilità all’Italia e recupera dalle mani dei Vandali anche la Sicilia.
Nel 486/487, tuttavia, invade l’Illirico e provoca così l’intervento in forze di Teodorico nel nome dell’imperatore d’Oriente.
Il successo è commisurato alle qualità militari e politiche già dimostrate dal capo gotico. Teodorico prende assai rapidamente il controllo
della maggior parte del territorio e costringe Odoacre a rifugiarsi all’in-
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terno di Ravenna, resa quasi imprendibile dalle paludi. Al termine di tre
anni di blocco si trova un accordo, in base al quale Odoacre e Teodorico si sarebbero divisi il regno. Ma appena la città apre le porte, Odoacre
e i suoi congiunti sono massacrati e Teodorico è proclamato re dalle sue
truppe. Il regno ostrogoto, celebrato da alcuni come una «nuova età dell’oro» (Ennodio, MGH, AA, VII, 214.20, 319.25) assicura all’Italia, fino agli anni intorno al 530, una sicurezza esterna che non aveva conosciuto da lungo tempo. Teodorico estende momentaneamente il suo dominio sulla Provenza e il sud della Gallia, a spese dei Visigoti, e sulla
Pannonia intorno a Sirmio. All’interno la popolazione locale, a maggioranza cattolica, sembra aver coabitato assai pacificamente con i Goti ariani che furono, se si presta fede ad archeologia, toponimia e onomastica,
direttamente insediati sul territorio4 piuttosto che remunerati con una
parte dei proventi5. Teodorico governa da principio con l’appoggio delle élites romane; il senatore Cassiodoro, il suo prefetto del pretorio, scrive in suo nome delle lettere amministrative, le Variae, nonché una Storia
dei Goti con la sua genealogia. Il re ostrogoto esprime tale ideale di romanizzazione nel cerimoniale [McCormick 322, pp. 337-42] e rispetta la
preminenza imperiale, come previsto dall’accordo concluso con Anastasio nel 497, facendo figurare il nome dell’imperatore sulle monete d’oro
e d’argento, mentre il suo non appariva che come un semplice monogramma, in posizione secondaria sull’oro, più evidente sull’argento o sul bronzo [Arslan 187]. Secondo la stessa testimonianza di Procopio, il re fu «di
fatto un vero e proprio imperatore, non punto inferiore ad alcuno di quanti in quella dignità nei primi tempi di essa si distinsero» e «grande affetto portarono a lui e Goti e Italiani» (Bella, 5.25-30).
Gli anni intorno al 490 (piuttosto che la data del 476) segnano la divergenza definitiva dei destini delle due parti dell’Impero: in Occidente, è la fine dell’evoluzione che ha portato alla frammentazione in entità politiche romano-barbariche, dove le élites locali collaborano e si
fondono progressivamente con le minoranze germaniche. In altre parole, è ciò che si chiama «la nascita dell’Europa», o per meglio dire dell’Occidente europeo. In Oriente, il pericolo gotico è stato allontanato e
l’ideale imperiale s’incarna, ancora per un secolo, nelle strutture ereditate dalla riorganizzazione tetrarchica e costantiniana.
8. La stabilizzazione all’inizio del vi secolo (491-527).
Quando Zenone muore senza successori, prevale ancora una volta l’influenza della Corte, con un’intesa già vista in precedenza tra principes-
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se imperiali ed eunuchi di palazzo. In questo caso si affida alla vedova di
Zenone, Arianna, l’incarico di designare il nuovo imperatore. La sua scelta si porta su un funzionario civile, Anastasio (491-518), le cui competenze finanziarie portano a risultati felici. Mette fine all’inflazione della
moneta spicciola con la riforma monetaria del 498 e riesce, nonostante
l’abolizione del chrysargyron, un’imposta indiretta impopolare, e la concessione di numerose remissioni fiscali alle regioni toccate da diverse catastrofi, a risanare sufficientemente le finanze, in modo da lasciare al suo
successore una considerevole riserva di 320 000 libbre d’oro (23,04 milioni di solidi – somma forse esagerata da Procopio, St. segr., 19.7), di varie volte superiore all’ammontare degli introiti annuali dell’Impero. Tale risultato era dovuto al controllo delle spese (donde la sua reputazione
di parsimonia), certamente facilitato da una situazione estera assai calma, e a una raccolta più efficace e meno ingiusta delle imposte, affidata
a funzionari specializzati, i vindices, e non più ai curiali [ Jones 149, pp.
235-36].
Alla morte di Anastasio, è ancora il Palazzo – ma questa volta i militari della Guardia – a decidere la successione. Il comandante degli Excubitores, Giustino I, un soldato analfabeta (secondo Procopio, St. segr.,
6.11), originario della regione di Naisso (Ni‰), è proclamato imperatore
secondo la formula abituale da parte dell’esercito, del Senato e del popolo, e viene incoronato dal patriarca. A differenza di Anastasio, che
non aveva preso alcuna misura a favore del suo parentado, Giustino I
adotta senza frapporre indugi il proprio nipote Giustiniano, poi nel 521
lo nomina console e magister militum, e infine proprio co-imperatore nel
527, qualche mese prima di morire.
Dopo la soppressione della rivolta degli ultimi partigiani di Zenone
in Isauria, la repressione delle sommosse urbane frequenti a Costantinopoli e Antiochia negli anni ’90 del v secolo, poi il fallimento, negli anni 512-15, delle sollevazioni del comes dei federati Vitaliano e dell’esercito di Tracia, una certa calma politica regna allora all’interno dell’Impero. Tuttavia, non cessano le divisioni religiose: le misure prese in
favore dei monofisiti da parte di Anastasio (in particolare la nomina di
Severo a patriarca di Antiochia) sono abolite da Giustino I, che si riconcilia con Roma nel 519. Le rispettive posizioni dei due schieramenti sono affermate sempre più nettamente: l’Henotikon di Zenone è stato un
fallimento.
A questa calma relativa corrisponde una certa sicurezza estera durante tutto il primo quarto del secolo. In Occidente, il trattato di pace
concluso nel 475 regola i rapporti con i Vandali, senza che le persecuzioni dei cattolici africani provochino alcuna reazione bizantina, men-
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tre l’espansione del regno ostrogoto (conquista della Pannonia, nel 504,
controllo della Provenza e poi del regno visigoto, nel 511, e alleanza familiare con i Vandali) non suscita che una risposta limitata: una spedizione marittima abortita nell’Adriatico nel 508, e soprattutto un’alleanza con i Franchi – il titolo di console onorario è conferito a Clodoveo
nel 508 (Gregorio di Tours, Hist. Fr., 2.38) –, mosse destinate a contenere Teodorico a ovest e a nord. Sul fronte balcanico, dove i Goti non
servono più da cuscinetto, si notano tra il 493 e il 502 alcune incursioni in Tracia di un popolo di origine turca, i Bulgari, e il restauro di opere difensive, come le Lunghe Mura (edificate contro gli Unni all’incirca
nel 442), da parte di Anastasio. Con la Persia, essa stessa alle prese con
gli Unni eftaliti sulla propria frontiera nord-orientale, la pace è raramente turbata: Kavad I (488-531) s’impadronisce delle piazzeforti armene
di Teodosiopoli (Erzerum) e Amida (Diarbakir) nel 502, ma l’Impero le
recupera nel 505 e, costruendo la fortezza di Dara, di fronte a Nisibi,
compie un’importante mossa strategica [cfr. carta 2, p. 41]. Al sud, un
gioco di alleanze (sostegno apportato al regno etiopico e cristiano di
Axum, che conquista Himyar in Arabia nel 524-25, e intesa con gli Arabi cristiani ghassanidi, il cui re Harith-Arethas è creato patrizio) mira
ugualmente a controbilanciare la potenza persiana [Robin 968-69].
9. Giustiniano: i primi anni, il Codice e la rivolta di Nika (527-32).
È in questo contesto relativamente favorevole che Giustiniano arriva al trono. Tre fatti contraddistinguono i primi anni del suo lungo regno: la pace con la Persia, l’opera giuridica, la ripresa della violenza urbana. Le ostilità con la Persia, ricominciate tra il 528 e il 531, si concludono in effetti con una pace «eterna» che esigeva da Bisanzio un tributo
di 11 000 libbre d’oro e il ritorno nell’Impero dei filosofi della Scuola
di Atene, chiusa per ordine di Giustiniano nel 529 [Stein 151, II, pp.
294-96, 372; Beaucamp 254].
In un lasso di tempo notevolmente breve, una commissione di dieci
persone, formata da alti funzionari e dal giurista Triboniano, riesce a
pubblicare il Codice giustinianeo, una scelta ragionata ed emendata delle costituzioni imperiali ancora in vigore, classificate per soggetto. La
prima edizione (529) è sostituita da una seconda nel 534, dove sono incorporate numerose novelle di aggiornamento. Sempre su impulso di
Triboniano, il lavoro è completato da una raccolta di estratti di testi giuridici classici, il Digesto (534), e da un manuale, le Istituzioni, che incorpora i lavori classici degli autori romani (Gaio, Ulpiano…) e riassu-
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me le riforme imperiali più importanti. La scienza dei giuristi bizantini
permette così di trasmettere alla posterità il diritto romano, fondamento di numerosi codici europei moderni6.
Nel medesimo tempo, la capitale è letteralmente messa «a ferro e a
fuoco» dalla rivolta di Nika (13-19 gennaio 532), scatenata dal rifiuto
del prefetto di concedere l’amnistia a due assassini. Le acclamazioni urlate dalle fazioni nel Circo mescolano alle grida di «Vittoria» (donde il
nome della rivolta) le lamentele e le rivendicazioni: si esige il licenziamento del prefetto Giovanni di Cappadocia, e si tratta ben presto l’imperatore da spergiuro e asino calzato e vestito [Chron. Paschale 166, pp.
114-21], prima di tentare di proclamare al suo posto un parente di Anastasio, il patrizio Ipazio. La folla dà inoltre alle fiamme una parte dell’Ippodromo e degli edifici adiacenti (bagni di Zeusippo, porta d’ingresso del Palazzo, prefettura del Pretorio, Senato, Santa Sofia). Giustiniano, abbandonato da una parte della sua Guardia, sarebbe stato tentato
di fuggire, ma ne sarebbe stato dissuaso dall’energia di sua moglie Teodora. «L’Impero è un bel sudario», avrebbe dichiarato – citando Isocrate – secondo Procopio (Bella, 1.24.33-37) in un passaggio celebre che,
se non è vero, è ben inventato, come altre frasi storiche [Cameron 714,
p. 69]. L’intervento delle truppe di Belisario, accampate fuori delle mura, ristabilisce l’ordine al prezzo di migliaia di vittime.
10. Gli inizi della riconquista: la guerra vandalica e i primi successi in
Italia (533-40).
È possibile che il disordine interno abbia spinto Giustiniano a procurarsi un diversivo lanciando la spedizione africana e le altre operazioni di «riconquista» in Occidente, ma niente impedisce che esse corrispondessero a un piano premeditato. Nel 533, 15 000 uomini sono inviati sotto il comando di Belisario con una flotta che fa scalo in Sicilia,
dove si apprende da alcuni mercanti che la flotta vandalica aveva lasciato Cartagine alla volta della Sardegna, nella quale l’Impero aveva
fomentato una ribellione. I Bizantini sbarcano senza difficoltà in Bizacena (a Caput Vada, nell’attuale Sahel tunisino), impadronendosi quasi senza colpo ferire di Cartagine il 14 settembre 533 e recuperando i
tesori che Genserico aveva portato via da Roma nel 455, ivi comprese,
si dice, le ricchezze che Tito aveva precedentemente trafugato dal Tempio di Gerusalemme. Il re Gelimero (530-34) si dà alla fuga, ma non
può resistere molto ed è esibito nel trionfo celebrato a Costantinopoli
nel 534, prima di essere esiliato in Asia Minore, mentre una parte del-
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le sue truppe è arruolata nell’esercito bizantino e inviata sul fronte persiano. L’editto del 534 (CI, 1.27.1) organizza la prefettura d’Africa.
Più ridotta che all’epoca romana, l’Africa bizantina rimane una vasta
provincia che ingloba i territori vandali dalla Tripolitania fino alle Baleari, la Corsica e la Sardegna, la Numidia, una parte della Mauretania
Sitifense, alcuni scali come Septem (Ceuta) e Tingi (Tangeri). Si estende inoltre, dal 552 al 615, a un’enclave intorno a Cartagena, strappata ai Visigoti. Com’era accaduto sotto gli ultimi Vandali, e accadrà frequentemente in seguito, il nuovo prefetto Salomone deve fronteggiare
gli attacchi berberi ed è ucciso a Cillium (Kasserine) in una di queste
battaglie7. Sottolineiamo qui che la documentazione, assai lacunosa, dei
testi è in parte completata, se non contraddetta, da quella delle iscrizioni e dell’archeologia, che dà un’immagine meno cupa dell’Africa bizantina [Lepelley 212; Rebuffat in 159, I]. La difesa del territorio si
appoggia a una rete pianificata di fortificazioni, che permettono il controllo delle zone circostanti per mezzo di guarnigioni ridotte [Durliat
199, Pringle 222, Trousset 226, Feissel 97 (2000)], e fino alle prime incursioni arabe del 646 la provincia conosce una relativa sicurezza. Benché il paesaggio urbano si contragga secondo un processo analogo a quello osservato in altre regioni dell’Impero, sussiste comunque una certa
prosperità fondata sulle esportazioni agricole o artigianali (grano, olio,
ceramica sigillata), testimoniate dalla diffusione ancora ampia delle
anfore e dei piatti africani nel Mediterraneo e oltre, così come dall’abbondanza e dalla qualità della monetazione emessa a Cartagine [cfr.
cap. vii].
Belisario, dopo aver celebrato il proprio trionfo e il proprio consolato il 1º gennaio 535, è inviato contro l’Italia; l’intervento bizantino trae
il proprio pretesto dall’eliminazione, perpetrata dal nuovo re ostrogoto
Teodato, della figlia di Teodorico, Amalasunta, che aveva esercitato la
reggenza per il proprio figlio Atalarico (526-34). La spedizione riporta
dei successi iniziali: la Sicilia è recuperata nel 535, Napoli nel 536, e l’esercito entra a Roma il 9 dicembre. Le diverse offensive dei Goti, sotto la conduzione del loro nuovo re Vitige, marito di una nipote di Teodorico (536-39), l’assedio di Roma durato più di un anno, la riconquista di Milano e il massacro dei cittadini romani nel 539 sono vanificati
da Belisario e dal suo collaboratore, l’eunuco Narsete. Belisario infine
entra a Ravenna nel 540 e s’impadronisce di Vitige, che trasferisce a Costantinopoli con i tesori di Teodorico. Questo nuovo successo, tuttavia,
suscita la gelosia di Teodora (Procopio, St. segr., 2.21-25, 4.13-17); Belisario, che pure aveva rifiutato la corona imperiale che gli offrivano gli
Ostrogoti a Ravenna, è sospettato di intrighi faziosi, inviato sul fronte
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persiano e poi destituito nel 542, e vede i propri beni confiscati (senza
dubbio, la questione principale). Questo destino sfortunato farà nascere la leggenda che lo rappresenta, alla fine della sua vita, come un mendicante cieco privo di ogni risorsa.
11. La peste, la guerra persiana e il seguito della lunga guerra gotica.
Le prime ondate sclavene e cutrigure nei Balcani (540-54).
Gli anni ’40 del vi secolo segnano anche la svolta della situazione
dell’Impero, colpito da una serie di catastrofi e rovesci su tutti i fronti.
Inquietato dai successi bizantini in Occidente e dai progressi del cristianesimo nel Caucaso, il re persiano approfitta dell’indebolimento della
presenza militare in Asia per lanciare un’offensiva in Mesopotamia e impadronirsi di Antiochia. La metropoli, mal difesa, è catturata e abbandonata al saccheggio, e una parte della sua popolazione è deportata (Procopio, Bella, 2.8-9) [Downey 943, pp. 533-46], come non succedeva da
circa tre secoli. Già provata dai terremoti del 526 e 528, la città è ricostruita, ma i suoi bastioni restaurati lasciano fuori l’isola dove si trovavano il Palazzo e l’Ippodromo, la cattedrale e altri monumenti importanti. S’instaura un equilibrio di forze. Il conflitto con i Sassanidi si limita, a partire dal 545, alla Lazica (una regione strategica che permette
il passaggio delle tribù nord-caucasiche verso il sud e sbarra l’accesso del
Mar Nero ai Persiani, i quali cercano di sottrarla al controllo bizantino)
oppure al confronto tra i rispettivi alleati arabi dei due imperi, Ghassanidi e Lakhmidi.
Il contesto è sconvolto dall’esplosione di una violenta pandemia di
peste bubbonica. La Grande Peste si manifesta nell’autunno del 541 in
Egitto, colpisce la capitale nella primavera del 542 e lo stesso anno anche Gaza, Antiochia e la Siria; si estende in Asia Minore, nei Balcani
e raggiunge l’Occidente nel 543, diffondendosi soprattutto nelle città
e nelle regioni litoranee: il suo percorso è quello delle rotte commerciali marittime, che la trasportano insieme alle merci [McCormick 588].
Le sue ricorrenze, cicliche fino alla fine del secolo, non si diradano che
nel vii secolo. I contemporanei (Procopio, Evagrio e Giovanni di Efeso) ne hanno lasciato resoconti più o meno contraddistinti, certo, dall’imitazione di Tucidide [cfr. cap. vii], ma per nulla immaginari [Stathakopoulos 537; Conrad 538]. Le testimonianze dei testi sono chiare
sulle sue conseguenze: problemi posti dall’evacuazione dei cadaveri, più
di 230 000 secondo Giovanni di Efeso; penuria di grano e di vino l’anno seguente, mancanza di braccia per il raccolto; innalzamento dei prez-
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zi e dei salari, che un editto e una novella (Nov., 122) si sforzano di
controllare.
Nel frattempo, la guerra in Italia va per le lunghe. Da una parte l’esercito bizantino, anch’esso colpito dalla peste, non ha effettivi sufficienti, giacché deve ormai combattere di nuovo contro i Persiani e dividere le proprie forze. Dall’altra parte, le guarnigioni ostrogote, più numerose, hanno conservato un certo numero di città, soprattutto al nord,
e sono ancora capaci, nonostante i loro dissensi interni, di muovere delle offensive che le portano per esempio a riprendere Roma, all’inizio nel
546 e una seconda volta nel 550 sotto Baduila-Totila (541-52). Belisario, e poi Narsete, finiscono per infliggere a lui e al suo successore Teia
(552) due sconfitte decisive sugli Appennini (Busta Gallorum e Monte
Lattario) nel 552, e nessun re prende il loro posto, benché Lucca, Cuma e Capua resistano fino al 554, e Verona fino al 562.
A dispetto della retorica ufficiale, che celebra la restaurazione della libertà e il ritorno della felicità passata, l’Italia ha molto sofferto per
le campagne prolungate, per gli assedi, per i saccheggi e le distruzioni
nelle città, per la peste e la carestia. La popolazione di Roma, già precipitata a circa 200 000 abitanti dopo il sacco del 410 e probabilmente
a 100 000 all’inizio del secolo, non supera i 30 000 abitanti alla fine della guerra [Bavant 540; stime più elevate da parte di Durliat 587]. Una
parte dell’aristocrazia romana è stata decimata dai Goti o si è rifugiata nei propri possedimenti meglio protetti o a Costantinopoli, come
Cassiodoro che vi si stabilisce nel 550, prima di ritirarsi nel proprio
possedimento di Vivarium, nel monastero che vi aveva fondato. La
città, che ha perduto un gran numero dei propri artigiani e commercianti, accogliendo contemporaneamente rifugiati dalle campagne, è
sulla strada della ruralizzazione. Molti siti urbani meno importanti sono stati spopolati, come in Campania o in Puglia8, o abbandonati a beneficio di locazioni arroccate su alture o meglio difese. Soltanto Ravenna, risparmiata dalla guerra, ha mantenuto il proprio rango, in ragione
della sua funzione di capitale e dell’importanza dei suoi rapporti con
l’Oriente. Parecchie regioni rurali come il Bruzio non hanno ritrovato
la prosperità degli inizi del secolo [Noyé 554], e papa Pelagio deplora
le devastazioni subite dai domini pontificali (Ep., 49, MGH, Ep., III,
73: «Italiae praedia ita desolata sunt, ut ad recuperationem earum nemo
sufficiat»). Lontano dalle devastazioni della guerra, la Sicilia, al contrario, sembra aver goduto di prosperità e aver acquisito una maggiore importanza strategica ed economica nell’Impero bizantino.
Il paesaggio socio-economico e politico è dunque assai mutato: l’Italia non è più il centro dell’Impero, e neppure il partner ancora rispetta-
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to del v secolo. Nonostante le dichiarazioni della Prammatica Sanzione
(554), finalizzate a restaurare l’amministrazione e la società romana tradizionali (Nov., App. 7) [Stein 151, II, pp. 613-22], il potere è destinato a passare dall’antica aristocrazia senatoria a una classe di ufficiali superiori possidenti [Brown 193] e alla Chiesa. L’Italia diviene una provincia marginale che Bisanzio, essa stessa attaccata su altri fronti,
difenderà malamente contro i nuovi assalti.
L’Impero di Giustiniano occupa frattanto un territorio più esteso, che
occorre proteggere con un esercito dagli effettivi ridotti [cfr. cap. v]. Sarebbe sbagliato, tuttavia, condannare la riconquista sulla base dei suoi
costi – dimenticandosi che ha restituito all’Impero l’Africa e la Sicilia,
due province produttive che costituiranno un supporto utile, l’una per
più di un secolo, l’altra per circa tre – e soprattutto giudicare il regno sotto l’influenza dei critici del tempo (Procopio, Corippo, Evagrio) o, come
parecchi storici moderni, alla luce degli avvenimenti posteriori e di una
evoluzione sociale che i contemporanei non percepivano affatto. Occorre, infatti, valutare l’ideale imperiale di Giustiniano nella tradizione ancora viva della dominazione sull’ecumene rivendicata da Roma, e ormai
dalla Nuova Roma. Tale ideale era ancora proclamato nella prefazione
del Codice: «felix Romanorum genus omnibus anteponi nationibus omnibusque dominari tam praeteritis effecit temporibus quam deo propitio in aeternum efficiet» (CI, 66, CIC, 2.2).
È in questo stesso spirito che l’imperatore si è sforzato, fin dagli inizi del proprio regno, di sostenere anche la concordia religiosa, compito reso più complesso dalla riacquisizione dell’Africa, a maggioranza
cattolica, e dalle relazioni politiche col papato. In Oriente, non si sa se
le attitudini divergenti di Giustiniano, calcedoniano per principio e teologo a tempo perso (scrive un trattato contro Origene), e di Teodora,
favorevole ai monofisiti, rispondano solamente alle loro convinzioni
personali o alla ricerca di un equilibrio tra i gruppi. Durante la vita di
Teodora (†548) e sotto la sua protezione i monofisiti sviluppano una
Chiesa concorrente che dall’Egitto, dove esistono due patriarcati rivali, si estende in Asia Minore, in Mesopotamia e in Arabia sotto l’impulso di vescovi siriaci come Giovanni di Efeso, già monaco ad Amida, Giacomo Baradeo a Edessa e Teodoro d’Arabia a Bostra. Nel 544
Giustiniano emette un editto, detto dei «Tre Capitoli», che condanna
alcuni scritti di tendenza nestoriana della scuola di Antiochia nella speranza di conciliarsi i monofisiti, persuadendoli che Calcedonia era fedele alla cristologia alessandrina. Lungi dal procurare la pace, l’editto
scontenta contemporaneamente Roma, gli ambienti calcedoniani e i monofisiti. Il quinto concilio ecumenico, il secondo convocato a Costan-
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tinopoli (553-54), conferma i quattro concili precedenti e l’interpretazione imperiale; ma occorrono forti pressioni per convincere papa Vigilio, che si rifiuta di prender parte alle sessioni benché sia presente a
Costantinopoli, a ratificarlo, e numerosi vescovi recalcitranti sono esiliati o incarcerati [cfr. cap. ii].
12. Nuovi assalti nei Balcani. La pace con la Persia (554-67).
La caduta di Attila e poi la partenza dei Goti per l’Italia avevano lasciato i territori a nord del Danubio in mano a differenti popoli barbari germanici (Gepidi e Longobardi in Pannonia, Eruli intorno a Singidunum), agli Sclaveni (tra il Danubio e il nord dei Carpazi) e agli Anti
tra Danubio e Dnestr, poi tra Dnepr e Don [cfr. cap. xi; Kazanski 209],
e infine a gruppi turchi (Bulgari sul Basso Danubio, Cutriguri e Utiguri nelle steppe a nord del Mar Nero). Nel 540, questi ultimi effettuano
incursioni devastanti fin sotto le mura di Costantinopoli e l’istmo di Corinto. Secondo l’abituale strategia, Giustiniano cerca di manovrare un
gruppo contro l’altro con un successo limitato, consacrando al tempo
stesso grandi sforzi per la fortificazione del limes e dei Balcani in generale, dove Procopio gli attribuisce la costruzione di 600 piazzeforti (De
Aedificiis, 4)9.
Nel 540-42 gruppi di Slavi, la cui presenza a nord del Danubio è attestata fin dagli inizi del vi secolo, superano di nuovo il fiume, nel 550
devastano anche la Tracia e s’impadroniscono della città di Topiros; nel
550 e nel 551 certuni si spingono fino a Tessalonica e un altro gruppo
fino alle Lunghe Mura di Costantinopoli; nel 552, infine, devastano nuovamente l’Illirico [cfr. carta 5, p. 327]. Nel 558-59, Cutriguri e Sclaveni sotto la guida di Zabergan minacciano la capitale, provocando il panico tra la popolazione e la mobilitazione della guardia imperiale e degli abitanti in età di portare armi. Grazie a Belisario, richiamato d’urgenza in servizio, la minaccia è vanificata, ma occorre riscattare i prigionieri a peso d’oro (Agazia, 5.11-23).
È ugualmente a peso d’oro (30 000 nomismata di tributo annuale) che
si arriva a concludere con la Persia una pace cinquantennale, al termine
di trattative condotte a Dara dal magister officiorum Pietro Patrizio e riferite in dettaglio da Menandro (fr. 6) [Stein 151, II, pp. 516-21;
Zuckerman 230]. La Persia rinuncia a ogni rivendicazione sulla Lazica,
che aveva ripreso dal 541 al 549, mentre i due Imperi s’impegnano a
non accogliere più i fuggitivi di competenza dell’altro stato e a non costruire nuove fortificazioni nelle vicinanze della frontiera, e decidono
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di concentrare gli scambi commerciali in alcune città prestabilite (Callinico, Nisibi, Dvin, Dara) [cfr. carta 2, p. 41].
Il 14 novembre 565 Giustiniano muore, all’età di 83 anni, lasciando
il potere, se si dà credito a Corippo [Elogio 168, 4.339-50], al proprio
nipote Giustino II. Le sue spoglie mortali sono ricoperte di un pallio che
lo rappresenta mentre calpesta il re vandalo Gelimero, circondato dalle
personificazioni di Roma e dell’Africa e da allegorie di popoli vinti [Elogio 168, 1.276-90], temi classici della vittoria imperiale presenti nei solidi del v secolo e, tra altri esempi famosi, nell’avorio Barberini del Louvre. Al di là delle esagerazioni della retorica e di quelle dei suoi critici
contemporanei o successivi, l’eredità di Giustiniano resta impressionante. La sua legislazione e la costruzione di Santa Sofia ne sono i segni più
conosciuti, ancora visibili oggigiorno, ma la sua influenza sulla cultura
e sulla civiltà dell’epoca è ben maggiore [cfr. capp. ix-x].
13. Giustino II e Tiberio. L’arrivo dei Longobardi e degli Slavi (565-82).
Che sia stato designato o no da suo zio, Giustino II il Curopalata è
proclamato imperatore la sera stessa del decesso di Giustiniano, cosa che
evita qualsiasi reazione popolare e qualsiasi movimento da parte del suo
cugino omonimo, magister militum allora di stanza sul Danubio. Giustino assicura immediatamente la sua popolarità facendo sfoggio della propria generosità nell’Ippodromo e rimborsando di tasca propria i prestiti forzati imposti da Giustiniano. Rinnova le proprie elargizioni celebrando fastosamente il suo consolato il 1º gennaio 566 e accordando nel
medesimo anno un condono generale di tasse arretrate (Nov., 148), mentre sua moglie Sofia, nipote di Teodora, si assume l’onere del rimborso
di numerosi debiti [Teofane 184, p. 242, 21-27]. Apparentemente, la
fortuna personale dei nuovi sovrani permette di rimediare alle esigenze
anteriori o agli eccessi di Giustiniano, al quale Procopio rimprovera di
aver indebitamente arricchito la Corona. Senza dubbio, si assiste alla
crescita del patrimonio distinto della res privata, ma reindirizzato in questo caso a spese pubbliche [cfr. cap. iii, pp. 107-8, sulle domus divinae].
Alla fine del regno, in ogni caso – adesso si accusa l’imperatore di avarizia per aver introdotto nuove tasse su pane e vino, e aver preteso 4 solidi da ciascun titolare di «pani politici» nella capitale –, le risorse del
Tesoro sono ancora sufficienti per permettere a Tiberio ampi donativi
(nel 578, secondo Giovanni di Efeso, 3.14, distribuisce 7200 libbre d’oro, senza contare l’argento e i drappi di seta). Tiberio, comes degli excubitores, aveva favorito l’ascesa al potere di Giustino; la coppia impe-
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riale non ha eredi e Giustino, che sprofonda nella follia, lo nomina cesare il 6 dicembre 574. Per quattro anni, Tiberio esercita dunque già il
potere effettivo come co-imperatore, pur dovendo tener conto dell’ambizione di Sofia e della sua forte personalità.
L’Impero deve allora fronteggiare, su tutte le proprie frontiere, minacce sempre più gravi. Il mondo delle steppe è infatti agitato dall’emergere di una nuova potenza nomade, quella degli Avari, il cui dominio avanza dal Caucaso fino all’Ucraina e che sono destinati a minacciare gravemente Bisanzio per più di un secolo. All’inizio, Giustiniano
aveva cercato di servirsi degli Avari contro i Bulgari e gli Anti, attirandoli pertanto a nord del Danubio, dove cominciano a estendere il proprio potere su altre popolazioni (Cutriguri, Utiguri e Anti), come avevano fatto gli Unni un secolo prima. Il loro intervento in Pannonia, dove si contrappongono Longobardi e Gepidi, conduce infatti alla partenza
dei primi e alla sottomissione dei Gepidi. L’Impero ne approfitta per recuperare Sirmio, che era in potere di questi ultimi dal 538. La Pannonia diviene allora, sotto il qaghan Baian, il cuore dello stato avaro, centrato, come quello degli Unni, sul bacino della Tisza.
Nel 568, condotti da Alboino, i Longobardi minacciati da questa
nuova potenza partono per cercar fortuna nella più ricca Italia, dov’erano già venuti nel 552 come mercenari di Narsete. Quest’ultimo è stato appena congedato da Giustino II, e le difese insufficienti sono colte
di sorpresa; i Longobardi e i loro alleati sassoni e germanici s’impadroniscono della maggior parte della Venezia nel 568, della Liguria e della
stessa Milano nel 569; solo Ticinum (Pavia) si difende fino al 572. Bisanzio conserva le proprie posizioni in qualche guarnigione tirrenica
(Sant’Antonino) e soprattutto nelle zone costiere intorno a Ravenna, o
nelle isole della laguna di Venezia (come Rialto, dove si rifugia il patriarca di Aquileia), così come intorno a Roma e Napoli. I Longobardi, tuttavia, insediandosi intorno a Spoleto, verso il 572 troncano la Via Flaminia e le comunicazioni tra Roma e Ravenna. Per mantenere i contatti, i Bizantini fortificano un nuovo percorso, la Via Amerina, che
congiunge Roma a Rimini attraverso il ducato di Perugia. Altri Longobardi prendono il controllo di un’ampia zona intorno a Benevento, e interrompono così la continuità territoriale tra Roma, la Calabria (Puglia)
e il Bruzio (Calabria attuale). Inizia così la frammentazione dell’Italia
medievale, Italia che Bisanzio lascerà presto a se stessa, rifiutando le
3000 libbre d’oro oblatizio offerte da Roma all’ascesa al trono di Tiberio (578) e consigliando al Senato d’impiegare questa somma per reclutare dei Longobardi per la guerra persiana, o per pagare dei Franchi contro i Longobardi.
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Nel 572, il momento è ben poco adatto per rompere la pace con la
Persia. Ciononostante, Giustino II rifiuta di pagare il tributo annuale
previsto dalla pace del 562 e invia delle truppe in aiuto dei cristiani di
Persarmenia, ribellatisi contro la conversione forzata allo zoroastrismo
imposta da Cosroe. La risposta persiana è massiccia: Apamea è messa a
sacco e la popolazione è deportata, la fortezza di Dara è catturata nel
573. Più realisti, prima Sofia e poi Tiberio acquistano una pace provvisoria, limitata alla Mesopotamia, in cambio di un tributo di 30 000 solidi all’anno, mentre le ostilità continuano in Armenia. Il comes degli excubitores Maurizio vi riporta dei successi che permettono di negoziare
una pace più favorevole, sulla base del ritorno dell’Armenia e dell’Iberia alla Persia in cambio di Dara. Cosroe tuttavia muore nel 579, il suo
successore Ormisda si rifiuta di cedere e la guerra si prolunga.
Nei Balcani [cfr. cap. xi], frattanto, Tiberio adotta la stessa politica
pragmatica comprando la tranquillità dagli Avari a prezzo di un tributo
di 80 000 solidi all’anno (Menandro, fr. 63) e ottenendo il loro intervento contro gli Sclaveni nel 578. Questi ultimi, a quanto pare, nel 571 e nel
578 hanno effettuato incursioni a sud del Danubio, di cui i testi non parlano ma che sono rispecchiate dall’archeologia, in particolare da una serie di seppellimenti di monete [cfr. cap. xi; Popoviç 848-51]. Qualche
anno più tardi, gli assalti riprendono. Al termine di un assedio di tre anni, gli Avari ottengono la resa di Sirmio (582), testa di ponte sulla Sava
e chiave dei Balcani, mentre una nuova ondata slava penetra fino al meridione dell’«Ellade» (probabilmente il Peloponneso) senza tuttavia insediarvisi. I tesori monetari si accordano con la testimonianza di Giovanni di Efeso secondo il quale «tre anni dopo la morte di Giustino (II), sotto il regno del vittorioso Tiberio (581), la nazione maledetta degli Slavi
… percorse tutta l’Ellade, la provincia di Tessaglia e la Tracia, devastò
numerose città e proprietà … Ciò andò avanti per quattro anni … Gli
Slavi si insediarono e si espansero secondo la volontà divina … e ancora
oggi (584) sono stabiliti e insediati nelle province romane … uccidendo,
bruciando, rubando l’oro, l’argento, le mandrie di cavalli» (Hist. Eccl.,
6.25) [citato e commentato da Avraméa 822, pp. 68-79].
14. Maurizio e il ritorno all’equilibrio delle forze sulla frontiera orientale e balcanica (582-602).
Originario della Cappadocia e abile soldato, autore di un manuale
ben informato su queste materie, lo Strategikon – redatto da lui stesso
alla fine del suo regno (452) –, Maurizio era stato nominato cesare da
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Tiberio, che gli aveva dato in sposa la propria figlia Costantina. La vigilia della morte di Tiberio, è proclamato imperatore. L’anno successivo, la nascita di un erede maschio, battezzato col nome di Teodosio, che
si spera di buon augurio per l’avvenire della nuova dinastia, mette fine
alla carenza che aveva colpito tutti i sovrani dal tempo di Arcadio. Maurizio cerca di affrontare diverse minacce esterne rimediando contemporaneamente a una situazione finanziaria difficile, e in Africa e in Italia
affida il potere a un esarca che riunisce in sé i poteri civili e militari
[Diehl 196-97, Whitby 227]. I risultati così ottenuti, soprattutto i successi in Persia e la resistenza nei Balcani, contrastano, come si vedrà,
con il disastro generale che seguirà il suo rovesciamento.
In Africa, le rivolte dei Mauri, che insieme al ritorno della peste hanno molto danneggiato la provincia sotto Giustino II, sembrano essere
state contenute dall’esarca Gennadio. Gregorio Magno si congratula con
lui per aver assicurato la sicurezza alla regione [Diehl 197, pp. 481-82].
L’emissione di monete d’oro in quantità crescente secondo il ciclo fiscale attesta la prosperità delle finanze locali. In Italia, si riporta qualche
successo sui Longobardi, sempre divisi. Grazie all’alleanza franca (Childeberto aveva attaccato i Longobardi nel 588 e nel 590), l’esarca Romano riconquista Altino, Mutina (Modena) e Mantova, e ottiene la sottomissione dei duchi di Parma, Piacenza e Regium (Reggio Emilia) (Paolo Diacono, Hist. Lang., 3.16, 3.18, 3.22, 3.28-29).
Sul fronte persiano i differenti comandanti, Filippico, cognato dell’imperatore, Prisco e Comentiolo, consolidano il controllo dell’Armenia e respingono le offensive in Alta Mesopotamia. Soprattutto, Bisanzio approfitta delle discordie interne dei Sassanidi (rivolta di Vahram
contro Ormisda, proclamazione di Cosroe II al posto di suo padre nel
590). In cambio dell’appoggio decisivo prestato a Cosroe II contro Vahram, Maurizio recupera Dara e Martiropoli (MayyÇfÇriqın) e ottiene il
controllo dell’Iberia (centro della Georgia attuale) e della Persarmenia
(valle dell’Arasse e ovest del lago Van). La frontiera è tornata più o meno alla situazione dell’inizio del vi secolo e, soprattutto, la tregua a
Oriente, favorita anche da un’alleanza conclusa con il qaghanato dei
Turchi occidentali, permette a Maurizio di riprendere il vantaggio nei
Balcani.
Fino ad allora, la Tracia e l’Illirico non hanno mai cessato di subire
incursioni devastanti. Dopo la presa di Sirmio, il limes danubiano cede
ovunque. Respinte dalla Tracia, nel 585 bande slave saccheggiano Atene, poi, nel 586, Corinto e assediano invano Tessalonica, cominciando
tuttavia a insediarsi in Grecia, Peloponneso compreso [Lemerle 211].
Frattanto gli Avari, malgrado il versamento del tributo di 100 000 soli-
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caucaso
MAR NERO
Tiflis (Tbilisi)
LAZICA
IBERIA
Petra
Kur
Trebisonda
Amasea
Dvin
Teodosiopoli
(Erzerum)
Sebastea
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Arces
ARMENIA
CAPPADOCIA
Cesarea
PERSARMENIA
Ganzak
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Mardin
Dara
Edessa
Teodosiopoli
(Resaina)
Sergiopoli
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Seleucia
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0
100
Carta 2. La frontiera orientale.
200 km
Ctesifonte
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di, si espandono dalla Pannonia al Mar Nero e s’impadroniscono di Anchialo (584?). In compenso, negli anni ’90 del vi secolo, le forze bizantine accresciute grazie alla pace con la Persia riducono sulla difensiva
Avari e Slavi impegnandoli a nord del Danubio in Pannonia e Oltenia,
e si assicurano il controllo delle Porte di Ferro. La frontiera è ristabilita sul fiume [cfr. cap. xi].
Il contesto finanziario, tuttavia, rende fragili tali successi. Già nel
593/594, quando Maurizio aveva voluto commutare in natura una parte
del salario dell’esercito dei Balcani, era scoppiata una ribellione. Alla fine del 602, quando ordina di svernare a nord del Danubio – una tattica
effettivamente raccomandata dallo Strategikon [436, 11.4.82], giacché
permette di attaccare più facilmente gli Slavi, meglio visibili in questa
stagione –, le truppe si rivoltano, proclamano imperatore il centurione
Foca e marciano sulla capitale. La rivolta vi dilaga tanto più facilmente
in quanto, all’inizio dell’anno, la mancanza di pane ha già provocato gravi incidenti. L’imperatore si rifugia a Calcedonia con la propria famiglia
il 22 novembre, il 23 Foca è proclamato imperatore all’Hebdomon, come vuole la tradizione, e il 27 Maurizio è decapitato, dopo aver visto i
figli uccisi sotto i propri occhi. I corpi sono gettati in mare e le teste portate al Campo Marzio all’Hebdomon per essere mostrate all’esercito. È
massacrato anche Teodosio, figlio di Maurizio, rifugiatosi dentro una
chiesa diversa da quella in cui si era raccolto il resto della famiglia, ma si
propaga comunque la diceria secondo cui sarebbe fuggito e si sarebbe
messo in salvo in Colchide. Cosroe II «si servì della tirannia [dell’usurpazione] come di un pretesto per fare la guerra … e ciò fu la fine della
prosperità dei Romani e dei Persiani. Cosroe, infatti, finse di difendere
la beata memoria dell’imperatore Maurizio. E così nacque la guerra persiana…» [Teofilatto Simocatta 185, 8.6-15].
15. Foca e gli inizi dell’ultima guerra persiana (602-10).
È la prima volta, dal 324, che ha luogo una tale «ascesa al trono nel
sangue» [Doctr. Jacobi 277, 3.12]. Questo fenomeno eccezionale, che
tuttavia si ripeterà (per Eraclio stesso o in seguito per Giustiniano II) si
spiega con la convergenza della violenza urbana crescente alla fine del
vi secolo da un lato e, dall’altro, dell’ammutinamento delle truppe danubiane, vicine alla capitale. Fatto segno di una serie di cospirazioni crudelmente represse, Foca elimina di volta in volta la vedova di Maurizio,
le sue figlie e la cognata, il magister militum Germano, il prefetto del pretorio Teodoro e altri, giustificando la reputazione di «tiranno» che gli
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riservano le fonti [Chron. Paschale 166, pp. 696-97]. Le lotte tra le «fazioni» e l’opposizione tra gli Azzurri (favorevoli a Maurizio) e i Verdi,
che avevano sostenuto Foca nel 602, raggiungono allora il proprio apice e si estendono a numerose città dell’Impero (Mirac. Dem., 1) [Doctr.
Jacobi 277; Liebeschuetz 562, pp. 249-83].
La sicurezza esterna può essere ben difficilmente assicurata in un tale contesto politico e sociale, e i successi di Maurizio vanno perduti. In
Italia, dove il re Agilulfo (590-616) ha riunificato i possedimenti longobardi della pianura del Po, e li ha addirittura estesi a spese di Bisanzio,
l’esarca Smaragdo deve riconoscere il fatto compiuto per mezzo di un
trattato, nel 604-5. Nell’Illirico, occorre versare un nuovo tributo agli
Avari per poter trasferire l’esercito d’Europa in Oriente. Gli Sclaveni
ne approfittano per devastare l’intera provincia; solo Tessalonica resiste, al riparo delle sue forti mura, a un attacco a sorpresa inferto da 5000
soldati agguerriti, probabilmente nel 604 (Mirac. Dem., 1.12) [Lemerle
211, pp. 69-73].
L’avvenimento più grave è con ogni probabilità la ripresa della guerra persiana. Il rovesciamento di Maurizio offre a Cosroe un gradito pretesto per rimettere in discussione le concessioni fatte in cambio dell’aiuto bizantino al suo reinsediamento, a meno che, secondo un’altra tradizione, non abbia sinceramente risposto alla richiesta di aiuto che
Maurizio gli avrebbe fatto recapitare da suo figlio Teodosio. Vero o falso che sia, questo Teodosio, riconosciuto da alcuni bizantini e in ogni
caso da Narsete, comandante delle truppe in Mesopotamia, entra con le
truppe persiane in territorio bizantino. In Armenia, vari capi militari riconoscono Teodosio e finiscono per consegnargli le principali fortezze
che controllano l’accesso all’Anatolia, tra cui Kitharizon e Teodosiopoli (Erzerum), che cade nel 607. In Mesopotamia, Cosroe stesso guida
l’offensiva. Nel 604, Dara cade dopo un lungo assedio, nel 608-10 è la
volta di Amida e di Ra’s al-Ayn nonché di Mardin, che nel Tr Abdın
è restata fino ad allora un bastione della frontiera dell’Eufrate; infine,
Edessa si arrende nel 609 [Flusin 172].
Frattanto, nell’estate del 608 è nata a Cartagine, su impulso dell’esarca d’Africa, Eraclio il Vecchio, una rivolta ben più grave delle cospirazioni di Costantinopoli. Eraclio invia suo nipote Niceta ad Alessandria, per conquistare l’Egitto alla sua causa, e sospende l’invio della flotta annonaria verso la capitale, minacciandone così l’approvvigionamento
[Giovanni di Nikiu, 107-9]. Foca invia Bonoso, comes Orientis, che tuttavia non riesce a riprendere l’Egitto, mentre i rivoltosi ottengono il
controllo di Cipro, e una flotta partita da Cartagine sotto il comando
del figlio dell’esarca, Eraclio, arriva in vista di Costantinopoli il 14 set-
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tembre 610 [Chron. Paschale 166, pp. 699-700; Teofane 184, pp. 298299]. I dati lacunosi forniti dai testi su tali avvenimenti sono completati e chiariti dalla testimonianza delle monete identificate da Grierson
[203]: i rivoltosi, Eraclio il vecchio e suo figlio vi sono rappresentati (tutti e due o solo il giovane Eraclio) senza le insegne imperiali ma con il titolo di console. Una serie completa di pezzi di ogni metallo (oro, argento, bronzo), perlopiù datati secondo l’indizione, è battuta ad Alessandria, Cartagine, Cipro e Alessandria ad Issum tra il 608 e il 610. Sono
ugualmente attestati sigilli di piombo con il titolo D(o)m(ini) (H)eraclii
c(onsules)10. Una tale affermazione dimostra che la sollevazione, che poggia su due delle più ricche province dell’Impero, di cui «ricicla» anche
i proventi delle tasse, era certa del proprio successo. I Verdi permettono alla flotta d’Africa di accedere al porto. Il 5 ottobre 610 Foca è consegnato a Eraclio e massacrato, così come la maggioranza dei suoi partigiani; la sua testa e la sua mano sono infilzate su una spada ed esibite
lungo tutta la Mese [Chron. Paschale 166, pp. 700-1].
16. Eraclio di fronte alla conquista persiana della Siria e dell’Egitto
(610-23).
La guerra civile evidentemente facilita l’avanzata dei Persiani, che
attraversano l’Eufrate il 7 agosto 610; l’8 ottobre Shahrbaraz prende
Antiochia, il 15 Apamea. Emesa (Homs) si arrende nel 611 e Damasco
nel 613. Cosroe continua a sostenere il vero o falso Teodosio e si rifiuta di riconoscere il nuovo imperatore. Dall’Armenia, i Persiani comandati da Shain penetrano in Cappadocia e s’impadroniscono di Cesarea.
Circondato dalle forze bizantine, Shain abbandona la città nell’estate
del 612, ma la controffensiva seguente, condotta da Eraclio e Niceta nel
613, non riesce a liberare Antiochia. L’imperatore si ritira attraverso le
Porte Cilicie (Gülek Bo_azı) e lascia Tarso e l’intera Cilicia in mano ai
Persiani. Shahrbaraz controlla adesso tutta la Siria e può ormai intervenire in Palestina.
La capitale Cesarea Marittima, trovandosi indifesa, gli apre le porte. Nel maggio o nel giugno del 614, dopo un assedio di tre settimane,
contraddistinto da nuove intemperanze dei demi – contrari alla volontà
di negoziare espressa dal patriarca – e da un pogrom, i Persiani entrano
a Gerusalemme. La città è abbandonata al saccheggio e al massacro; le
fonti attestano dalle 17 alle 90 000 vittime, e altrettanti deportati scelti di preferenza tra i cittadini più qualificati. Le fonti cristiane coeve e
Teofane (1.301) insistono sull’aiuto arrecato ai Persiani (in quell’episo-
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dio così come altrove in Palestina) da parte della popolazione giudaica,
ma è difficile separare tali affermazioni dal contesto polemico del vii secolo [Flusin 172, Cameron 194]. Ciò che più conta, la reliquia della Vera Croce è inviata a Cosroe, che «per onorarla, la fa collocare con i vasi sacri nel nuovo ‘tesoro’ che si era fatto costruire a Ctesifonte» (Anon.
Guidi, 22). La perdita di una reliquia così santa, associata alla vittoria
imperiale dall’ideologia costantiniana, era una catastrofe. Il potere si
sforza subito di compensarla, esaltando a Costantinopoli altre reliquie
della crocifissione salvate dal disastro [Chron. Paschale 166, pp. 704-5].
Una volta occupata e riorganizzata la Palestina (la vita di Sant’Anastasio il Persiano [172] attesta nella regione, passati alcuni anni, una continuità della vita economica e una certa tolleranza), i Persiani penetrano in Egitto e s’impadroniscono di Alessandria nel 619, dopo un lungo
assedio. Il patriarca Giovanni l’Elemosiniere (610-17), che fino ad allora aveva sostentato tramite le ricchezze della Chiesa i profughi provenienti dalla Siria, è a sua volta costretto all’esilio e muore a Cipro, sua
isola natale. I Persiani controllano ormai le più ricche province dell’Impero e dovunque, dopo le inevitabili violenze della conquista, i governatori (marzban), civili tranne che in Armenia, sembrano aver mantenuto l’amministrazione e la fiscalità precedenti con l’aiuto dei notabili locali (in particolare monofisiti, da essi favoriti). I governatori tollerano
anche l’uso della moneta d’oro e della moneta spicciola di bronzo bizantine, quest’ultima (indispensabile per degli scambi rimasti attivi) completata da imitazioni locali di folles11.
La cronologia dell’avanzata persiana in Asia Minore durante i primi
cinque anni del regno è difficile da ricostruire, ma gli studi recenti l’hanno assai chiarita. Shain nel 615 raggiunge Calcedonia, sulla riva asiatica del Mar di Marmara di fronte a Costantinopoli, e l’imperatore avrebbe allora tentato di negoziare con l’intermediazione del Senato, inviando un’ambasciata a Cosroe, ma senza successo. Sull’altopiano e sulle
coste si susseguono dunque le incursioni persiane, contraddistinte dalla presa di Ancira nel 620 o nel 622, da quella di Rodi nel 622 o 623,
dalle tracce di distruzione o dai tesori monetari abbandonati in numerosi siti, dalla chiusura delle zecche provinciali di Cizico tra il 616 e il
626 e di Nicomedia tra il 619 e il 626, e dallo iato di scoperte monetarie risalenti a tale periodo. Si tratta di devastazioni troppo generalizzate per poterle minimizzare o attribuire volta per volta a cause particolari, come un terremoto a Efeso o un incendio casuale delle botteghe di
Sardi, per esempio12.
Per concentrarsi sulla lotta contro i Persiani, l’Impero abbandona le
province europee a se stesse. Nei Balcani, la ritirata dal limes nel 602,
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poi la guerra civile e l’insufficienza della flotta lasciano campo libero alle incursioni degli Slavi e anche al loro insediamento in regioni già spopolate. Dopo aver «trovato il modo di fabbricare delle imbarcazioni scavate in un unico tronco d’albero [«monossili»], si misero in mare e devastarono tutta la Tessaglia con le sue isole e quelle dell’Ellade, le
Cicladi, tutta l’Acaia, l’Epiro, la maggior parte dell’Illirico e una parte
dell’Asia, e lasciarono deserte numerose città e province» (Mirac. Dem.,
2.1.179). Salona è presa nel 615 e Bisanzio non controlla più che qualche città costiera, tra cui Tessalonica, dove molti abitanti dell’Illirico
hanno cercato rifugio, e che resiste a un primo assedio «poiché le sue
mura erano solide» (Giovanni di Nikiu, 109). Frattanto gli Avari, che
hanno conquistato Naisso (Ni‰) e Serdica (Sofia) intorno al 614, controllano adesso tutto il nord dell’Illirico e deportano dei Greci nella regione di Sirmio. Nel 618, Avari e Slavi si associano di nuovo per assediare Tessalonica, che resiste ancora una volta [Lemerle 211, Popoviç
848-49].
17. La controffensiva di Eraclio in Armenia e la vittoria sulla Persia
(623-30). La slavizzazione dei Balcani.
All’inizio degli anni ’20 del vii secolo la situazione è disperata; il Tesoro è vuoto, le rogai sono dimezzate dal 616, l’annona è soppressa nel
618. Nel 621, la Chiesa accetta di prestare una gran parte dei propri tesori, che sono fusi e battuti in moneta per finanziare la lotta contro i
Persiani. Eraclio tenta di comprare la pace sul fronte avarico. Nel corso dei negoziati, gli Avari cercano tuttavia di approfittare dell’assenza
di Eraclio da Costantinopoli – è venuto a trattare a Eraclea, infatti –
per prendere la città. Oltrepassano le Lunghe Mura e devastano i sobborghi della capitale, saccheggiano le chiese e fanno numerosi prigionieri (623). Nonostante tale pessima «sorpresa avarica», dimostrazione che
conveniva accordare poca confidenza a tali interlocutori, viene loro versato un tributo annuale di 200 000 nomismata.
«Allora Eraclio, benché gli affari pubblici fossero giunti a tale livello di
sventura ed anomalia … commise un atto contrario alle leggi … contraendo matrimonio con la propria nipote Martina…» (Niceforo, Breviarium,
10-11). L’imperatore dal suo primo matrimonio aveva avuto solo una figlia, Epifania/Eudocia, e un figlio, Eraclio Costantino, nati nel 611 e nel
612, che furono incoronati tutti e due verso la fine del 612, poco tempo
dopo il decesso della loro madre Eudocia. Tutti e due sono rappresentati associati al padre sulle monete. Il nuovo matrimonio di Eraclio, giudi-
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cato incestuoso dal patriarca, al momento risponde senza dubbio alla
preoccupazione, dopo dieci anni di vedovanza, di rinsaldare la propria
successione, che poggiava fino ad allora su di un solo erede.
Nel 622, i successi di una prima spedizione in Anatolia contro Shahrbaraz non possono essere portati avanti a causa dell’offensiva avara. Il
25 marzo 624 Eraclio parte per l’Oriente accompagnato dalla propria
sposa, che metterà al mondo diversi bambini nel corso di questa assenza di quattro anni. Il genio militare di Eraclio si afferma in questa serie
di campagne decisive. L’imperatore decide infatti di prendere alle spalle i Persiani, che sono allora massicciamente impegnati nella parte occidentale dell’Asia Minore, e, passando dall’Armenia, lancia le proprie
truppe in Mesopotamia e fa bruciare il tempio del fuoco presso Ganzak,
atto che costringe Cosroe a richiamare Shahrbaraz. Bloccato dalle truppe nemiche, che gli impediscono la prevista ritirata in Iberia (Georgia),
Eraclio prende ancora una volta di sorpresa i Persiani, ritirandosi d’inverno verso il sud attraverso la vallata del Trtu e il lago Sevan, e vince
due eserciti persiani uno dopo l’altro. Sempre inseguito, tuttavia, dalle
truppe di Shahraplakan e di Shain, e abbandonato dai propri alleati lazi e abasgi, attraversa l’Arasse e raggiunge la Persarmenia. L’imperatore approfitta dello svernamento delle truppe, che ha disperso i soldati
armeni dell’esercito persiano, per attaccare il campo di Shahrbaraz ad
Arãï‰ (a nord del lago Van) e farvi un grande bottino (febbraio 625).
Nella primavera e nell’estate del 625 continua a disturbare le truppe di
Shahrbaraz che si ritirano. Riprende in tal modo il controllo dell’Asia
Minore e il momento di tregua così ottenuto permette di preparare l’assalto finale contro la Persia con l’aiuto dei Turchi del Caucaso settentrionale.
Nel 626, Eraclio stesso è colpito alle spalle: Cosroe scatena Shahrbaraz contro Costantinopoli, in combinazione con gli Avaroslavi che tagliano l’acquedotto «di Valente» e devastano i sobborghi. Ma i rinforzi inviati da Eraclio arrivano in agosto e la flotta bizantina brucia i monossili slavi che dovevano trasportare le truppe persiane da Calcedonia
fino alla riva europea. Il patriarca Sergio mobilita le energie portando
in processione sulle mura l’icona della Vergine delle Blacherne, rifiuta
di consegnare la città e l’assedio è tolto in agosto, liberazione miracolosa celebrata nel proemio dell’inno Acatisto (recitato in piedi) in onore
della Vergine, un contacio più antico rimaneggiato in questa occasione.
Il fallimento dell’assedio di Costantinopoli è un punto di svolta in
Oriente e in Occidente. Nei Balcani, la dominazione avarica si spacca:
gli Slavi si rivoltano contro i propri padroni e proseguono la loro penetrazione fino all’interno del Peloponneso e le incursioni nell’Egeo. L’ar-
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cheologia conferma questo insediamento e il fatto che «tutta la regione
[Ellade e Peloponneso] fu slavizzata» molto prima del ritorno della peste nel 746, cui fa riferimento Costantino VII (De thematibus, 91). La
presenza bizantina si mantiene tuttavia sulla costa orientale, nelle isole
e nelle città capaci di difendersi [Avraméa 822]. Al nord, nell’attuale
territorio ceco e slovacco, una federazione di tribù slave guidata dal mercante franco Samo minaccia per qualche tempo contemporaneamente i
Franchi di Turingia e gli Avari. A quest’epoca risale inoltre un primo
tentativo di cristianizzazione dei Croati e dei Serbi, venuti dal nord dei
Carpazi (Slesia e Galizia attuali) e che s’insediano allora a sud della Sava. Chiamati da Eraclio per intervenire contro gli Avari, sono autorizzati a stabilirsi nelle regioni (che devono conquistare) tra la Drava e l’Adriatico, nelle attuali Serbia e Croazia (De adm. imp., 30-32). Il regno
di Eraclio ha dunque conseguenze decisive sulla storia di queste regioni. Inoltre, troncando le comunicazioni terrestri tra l’Italia e Costantinopoli, la mancanza di sicurezza e la «barbarizzazione», la sparizione
delle popolazioni latinofone o grecofone contribuiscono, insieme ad altri fattori, all’allontanamento crescente (straniamento) tra le due comunità, greca e latina, d’Oriente e di Occidente.
La diplomazia bizantina si procura altri alleati contro gli Avari e i
Persiani: al nord gli Unuguri-Bulgari («Unni» nelle fonti) di Kuvrat, battezzato nel 619, nominato patrizio e insediato sul Dnepr, a nord-est i
«Turchi» d’Occidente e il loro capo T’ong Yabghu Kaghan. È con l’aiuto di quest’ultimo, con il quale arriva a fidanzare la propria figlia maggiore, che Eraclio riprende l’offensiva in Iberia (presa di Tbilisi) e s’impadronisce dell’Albania (attuale Azerbaigian), posizione strategica per
attaccare la Persia dal nord. Nel settembre 627 entra in Atropatene, passa a sud dei monti Zagros e riporta una vittoria decisiva sul Tigri a Ninive il 12 dicembre 627. La disfatta provoca un colpo di stato: Cosroe
è ucciso e suo figlio Kavadh-Siroe, proclamato re, invia un’ambasciata
a domandare la pace. Eraclio fa un ritorno trionfale a Costantinopoli
(628). Lo svolgimento di queste ultime campagne è ricostruito a partire
da fonti spesso tardive e rimaneggiate come Teofane, accostate a fonti
armene come Sebeos e Mosè Dasxuranci [Sebeos 182, Howard-Johnston 205, Zuckerman 232-33]. Ci si accorda per il ripristino della frontiera del 602 (ossia quella della fine del iv secolo) e la restituzione della
Vera Croce. Tuttavia il potente generale Shahrbaraz, sempre di stanza
in Siria, si rifiuta di obbedire allo shah Ardashir, il giovane figlio di Kavadh che è appena succeduto al padre (ottobre 628); nuovi negoziati,
suggellati anche dal fidanzamento di un figlio di Eraclio con la figlia di
Shahrbaraz, conducono alla ritirata delle truppe persiane dall’Egitto e
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dalla Siria «senza spargimento di sangue» e alla presa di potere di Shahrbaraz a Ctesifonte. Il 21 marzo 630 Eraclio, primo e unico tra gli imperatori cristiani a essersi mai recato a Gerusalemme, compie a piedi la
propria entrata solenne nella città santa «con la vivifica Croce del Salvatore … ripristinando nel luogo appropriato ciò che assicura la sicurezza dell’oikoumene» [Ritorno delle reliquie, Flusin 172, I, p. 99]: diviene
così un secondo Costantino. La guerra vittoriosa contro la Persia ha assunto una dimensione religiosa che non bisogna comunque assimilare a
una crociata.
18. L’emergere dell’Islam e gli inizi della conquista araba (631-41).
La vittoria ottenuta sull’Impero persiano grazie a forza e diplomazia
era un notevole successo, tenuto conto della situazione di Bisanzio negli
anni ’20 del vii secolo. L’Impero, tuttavia, non ritrova – e non può sperare di ritrovare – la condizione e le forze che aveva intorno al 600. I Balcani sono quasi del tutto perduti, mentre l’Asia Minore (fatta eccezione
per la costa pontica) e le grandi città conquistate hanno sofferto saccheggi e distruzioni, oltre a numerosi terremoti; le finanze, private di una parte delle risorse fiscali, sono pesantemente indebitate nei confronti della
Chiesa. L’unità culturale è danneggiata dalla difficoltà di comunicazione e dal declino della vita urbana, mentre le divisioni religiose persistono o si aggravano, dal momento che l’occupazione persiana aveva, al contrario, favorito l’indipendenza delle Chiese locali. L’unità religiosa resta,
come nel passato, l’obiettivo imperiale, e vedono la luce nuovi audaci
tentativi di compromesso tra monofisiti e calcedoniani. I patriarchi di
Costantinopoli e Alessandria formulano, intorno al 620, la dottrina di
un’unica operazione (energia) indissociabilmente divina e umana. Solo
una parte dei monofisiti d’Armenia, Siria ed Egitto vi aderisce progressivamente. Il monaco palestinese Sofronio, patriarca di Gerusalemme dal
634 al 638, ottiene dal patriarca di Costantinopoli la redazione di un nuovo decreto sulla fede che proibisce di parlare di una o due operazioni nel
Cristo. Nel 638 Eraclio promulga l’Ekthesis, ratificata da un concilio riunito nel 639, che impone il monotelismo e suscita l’opposizione sia da
parte del papa sia da parte dei monofisiti, e non farà che complicare la
vita ai regni successivi [cfr. cap. ii].
L’Impero affronta dunque con capacità sminuite l’emergere delle
tribù arabe, unificate da una nuova religione, l’Islam. Queste tribù, eccellenti nella guerra, hanno da tempo un ruolo importante nel dispositivo confinario siro-palestinese [cfr. capp. iii, v e xiii] o nelle guerre, co-
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me alleati dei due imperi rivali (Lakhmidi dalla parte dei Persiani, Ghassanidi cristiani dalla parte dei Bizantini), e molti arabi sono stanziati sedentariamente nelle città del sud. Rampollo del clan hashemita della
tribù dei Quraishiti, che controlla la Mecca, centro carovaniero e luogo
di pellegrinaggio (la Pietra Nera è un masso sacro preislamico), Maometto (Mu®ammad) avrebbe inizialmente esortato la propria tribù alla riforma; incompreso ed emarginato dal clan al potere, si rifugia a Medina nel
622 (è l’Egira [hijra, «esilio»], anno d’inizio del calendario musulmano).
Là impone poco a poco la propria dottrina monoteista che incorpora e
reinterpreta elementi biblici presi in prestito dagli ambienti giudaici e
cristiani della penisola, e consolida il suo potere militare grazie a razzie
contro le carovane meccane e a spedizioni contro le tribù o le città ostili. Per non essere stato riconosciuto dagli ebrei come profeta e successore di Abramo, li caccia da Medina nel 624. Nel 630 ottiene il controllo della Mecca, riporta una vittoria a Hunayn sui nomadi Hawazin del
Neged e giunge così a dominare tutta l’Arabia occidentale, imponendo
a partire da questa data la conversione all’Islam per entrare nella propria alleanza.
Muore nel 632 e il suo successore, il califfo Abu Bakr, prosegue le
razzie verso settentrione, approfittando dell’indebolimento dei due imperi dopo la fine della guerra persiana e della presenza di numerosi arabi nelle province confinarie. L’appello della predicazione coranica alla
guerra santa contro gli infedeli ( jihad ) e la promessa del bottino uniscono le tribù divise, radunando compagni dei primi anni e convertiti recenti. Facilitate dall’impreparazione degli avversari e dall’impopolarità
del regime bizantino restaurato, piuttosto che dai dissensi religiosi (si è
sopravvalutato il filoarabismo dei monofisiti), le incursioni si trasformano in una conquista irresistibile che è destinata a unificare sotto un medesimo potere tutta la Mezzaluna fertile dal Golfo Persico fino al Mediterraneo. A partire dal 633 cadono una serie di città della Transgiordania e della Siria, seguite da Damasco nel 635. Nel 636, la battaglia
dello Yarmuk, dove trovano la morte migliaia di soldati bizantini, consegna la totalità della Siria e della Palestina ai «Saraceni»: «Abominio
della desolazione … saccheggiano le città, devastano i campi, danno alle fiamme i villaggi, distruggono i santi monasteri … e si vantano d’impadronirsi del mondo intero», esclama il patriarca Sofronio nel proprio
sermone dell’Epifania del 637 [citato da Flusin 172, II, p. 358]. Dopo
un assedio di sei mesi, Gerusalemme si arrende nel 638. Questa volta,
la reliquia della Vera Croce e i tesori delle chiese sono stati messi per
tempo al sicuro a Costantinopoli. L’Impero non può più reclutare grandi quantitativi di truppe e resta prudentemente sulla difensiva.
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Nel 638, la battaglia di Qadisyya segna la fine della dominazione sassanide e, nel 639, Amr penetra in Egitto, conquista le città della costa
ma si scontra sul Nilo con la resistenza bizantina concentrata intorno
alla fortezza di Babilonia (presso il sito dell’attuale Cairo). Il crollo dell’Impero sassanide permette allora agli Arabi di concentrare la maggior
parte delle loro forze contro Bisanzio. Assediato nella città da truppe
arabe rinforzate che mettono in rotta l’esercito di Tracia inviato in suo
soccorso nel 640, il patriarca Ciro negozia una tregua al prezzo di un tributo annuale di 200 000 nomismata, ma è sconfessato dall’imperatore.
Frattanto, la caduta di Cesarea Marittima completa la conquista della
Siria-Palestina.
Nel gennaio del 641 muore Eraclio, facendo in tempo a vedere azzerati i risultati di una lotta durata vent’anni. Lascia una successione
ibrida e divisa, giacché ha da poco incoronato, nel 638, il proprio figlio
di secondo letto Eracleona, auspicando nel proprio testamento che quest’ultimo condivida il potere «alla pari» con il proprio fratellastro Eraclio Costantino, sotto l’autorità dell’imperatrice Martina. I conflitti familiari non cesseranno di affliggere la dinastia fino alla fine del secolo,
prima che si stabilisca la pratica di una sorta di primogenitura. Malgrado questo handicap politico, gli imperatori successivi proseguiranno la
riorganizzazione incominciata un po’ alla volta sotto il suo regno – giacché non c’è una vera e propria «riforma» di Eraclio, come certi storici
hanno un tempo creduto – e assicureranno la sopravvivenza di un Impero dal territorio e dalle risorse ridotte, sempre più lontano dall’eredità romana. È l’inizio dello Stato medio-bizantino.
1
Cfr. Cronologia sommaria, pp. 479 sgg.
p. petit, Histoire générale de l’Empire romain, III. Le Bas-Empire (284-395), Paris 1974, p. 90.
3
é. demougeot, De l’unité à la division de l’empire romain 395-410: essai sur le gouvernement
impérial, Paris 1951.
4
v. bierbrauer, Die ostgotischen Grab- und Schatzfunde in Italien, Spoleto 1975.
5
Tesi di Goffart e Durliat; cfr. la critica di queste interpretazioni dell’hospitalitas e delle modalità dell’accommodation da parte di Barnish 190, nonché la discussione tra Liebeschuetz e
Durliat, in Pohl 219.
6
Cfr. Y. Thomas, in h. inglebert (a cura di), Histoire de la civilisation romaine, Paris 2005.
7
Cfr. L’Afrique vandale et byzantine, I e II, AnTard, 10 (2002) e 11 (2003).
8
j.-m. martin, La Pouille du vi e au xii e siècle, Rome 1993.
9
Un esame di questi dati alla luce dell’epigrafia e dell’archeologia in AnTard, 8 (2000).
10
C. Morrisson in Novum millennium: studies on Byzantine history and culture dedicated to Paul
Speck, Aldershot 2001.
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c. foss, The Persian Near East (602-630 AD) and its coinage, prefazione a h. pottier, Le monnayage de la Syrie sous l’occupation perse (610-630), Paris 2004.
12
Per la ricostruzione dell’insieme di questi avvenimenti a partire dalle fonti greche, armene e
siriache, confrontate con l’archeologia e la numismatica, vedi Foss 200; Stratos 223, I; Flusin
172; Chron. Paschale 166, commento Whitby p. 174; Ps.-Sebeos, commento Howard-Johnston p. 190; e la critica eccessiva di Russell 907.
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bernard flusin
ii. Trionfo del cristianesimo e definizione dell’ortodossia
Con il regno di Costantino, la cristianizzazione dell’Impero, ben avviata nel iii secolo, si velocizza definitivamente in un contesto rinnovato: l’imperatore e lo Stato, invece di reprimere la nuova religione, la
favoriscono. Il rovescio della medaglia è che il cristianesimo, con la sua
pretesa di universalità, contemporaneamente alla propria avanzata tende a eliminare le religioni rivali con l’aiuto delle autorità. L’Impero unico dei Romani, progressivamente, non ammette più che una sola religione.
Mentre l’Impero si cristianizza, il cristianesimo si trasforma. Impregnato di cultura greca, precisa la propria dottrina con un rigore crescente e, divenuto religione ufficiale, definisce un’ortodossia sempre più rigida, intorno alla quale non giunge mai perfettamente – anche all’interno dell’Impero – a realizzare l’unità della Chiesa.
i. la cristianizzazione dell’impero.
1. La lotta contro il paganesimo.
Il cristianesimo riporta i successi più netti contro le religioni tradizionali dell’Impero, ben insediate e spesso tenaci. Verso la metà del v
secolo diviene maggioritario e, alla fine del periodo, il paganesimo, pur
senza essere eliminato, appare come residuale [Chuvin 260, Trombley
275].
1.1. G l i a v v e r s a r i .
Il termine «paganesimo» indica diverse religioni politeiste, capaci di
coesistere senza conflitto e talora di unirsi. A fianco delle religioni elle-
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nica e romana, così legate alla vita dell’Impero fino all’epoca costantiniana, occorre tener conto anche dei numerosi culti indigeni, alcuni dei
quali (Iside, Mitra) si sono ampiamente diffusi.
La vitalità delle diverse religioni tradizionali varia secondo le regioni e secondo i culti. Si scorgono qua e là alcuni segni di crisi: per esempio, in Egitto, la religione dei templi si è distaccata dalla pietà popolare. Nel paganesimo greco e romano si può vedere un’evoluzione, con lo
sviluppo della magia, della divinazione, della teurgia, mentre le pratiche
private – culto del genio, inni, preghiere personali – si intensificano, talora a detrimento delle cerimonie pubbliche. Il sacrificio cruento, così
importante nelle religioni classiche, perde la sua importanza a vantaggio del «sacrificio d’incenso».
Parallelamente, questo paganesimo si dota di una dottrina maggiormente in accordo con lo spirito del tempo: l’esegesi allegorica attenua
gli aspetti più sconcertanti dei miti, la diversità degli dèi tende a essere
subordinata a un dio supremo.
L’enoteismo solare ha potuto così svolgere, per Costantino, il ruolo
di anello di congiunzione tra paganesimo e cristianesimo. La religione
di Giuliano [Bowersock 257], tornato dal cristianesimo al paganesimo,
è un buon esempio dello spirito dell’epoca: Giuliano venera gli dèi tradizionali, ma deriva dal neoplatonismo le proprie dottrine e alcuni riti,
ispirandosi anche alla Chiesa cristiana. Sotto alcuni aspetti, la sua religione è comunque arcaica: i sacrifici cruenti da lui organizzati sconcertano i contemporanei. A fianco di questo paganesimo evoluto, sussistono pratiche più antiche e ben radicate, in particolare nelle campagne o
negli ambienti più popolari.
Contro questo avversario multiforme, i cristiani dispongono di armi
potenti: uno stretto monoteismo, il fascino della figura di Cristo, la promessa della resurrezione futura e dell’avvento del Regno, nonché una
morale esigente, dove la carità ricopre un ruolo centrale. La dottrina, di
origine ebraica, a contatto con l’ellenismo si arricchisce e forma un insieme ben adattato alle esigenze del mondo contemporaneo, capace contemporaneamente di essere la religione dell’Impero e quella della pietà
individuale. I cristiani sono efficacemente raggruppati in Chiese che pregano insieme, condividono l’eucaristia e sono dotati di un clero sotto
l’autorità del vescovo. Queste Chiese locali ispirano ai propri membri
un vivo senso d’appartenenza che va di pari passo con la rettitudine della fede, la partecipazione ai sacramenti, le regole morali e la speranza
della salvezza. Tali Chiese comunicano tra di loro, formando una Chiesa universale, e il cristianesimo, comparso agli albori dell’Impero – il
Cristo è nato sotto Augusto –, sembra coincidergli a livello territoriale.
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La sua diffusione [Latourette 270] è opera di numerosi fattori. La
predicazione, ma anche l’esempio, hanno giocato il loro ruolo. Prima di
Costantino, i martiri, al tempo delle persecuzioni antiche o recenti, hanno rinsaldato la fede dei credenti e contribuito a espandere la religione
per cui morivano. Le opere di carità hanno anch’esse la propria importanza. Nell’Impero cristiano, agli agenti abituali dell’evangelizzazione
si aggiungono presto dei nuovi venuti, i monaci, mentre il favore del potere imperiale permette di occupare spazi e tempi pubblici e di lottare,
talora violentemente, contro gli avversari della religione di Stato.
1.2. P o l i t i c a e l e g i s l a z i o n e i m p e r i a l e .
L’azione degli imperatori pare decisiva. Grazie all’«editto di Milano», ossia le decisioni prese da Costantino e Licinio al tempo del loro
incontro a Milano nel 313, la libertà di culto è ristabilita all’interno dell’Impero. La neutralità dello Stato romano non resiste, tuttavia, alle propensioni personali degli augusti. Costantino, benché battezzato solo sul
letto di morte, si era in effetti dichiarato cristiano assai presto. In occasione della battaglia di Ponte Milvio, e forse prima, dota le proprie truppe di uno stendardo, il labarum, che le colloca sotto la protezione del
Cristo. Dopo la vittoria su Licinio, questo atteggiamento è ancora più
netto e Costantinopoli, benché non sia originariamente dedicata al «Dio
dei martiri» come dice Eusebio (Vita Constantini, 3.48), si apre agli edifici cristiani. A Roma e in Palestina l’evergetismo imperiale si adopera
in favore dei cristiani.
Perdipiù, Costantino partecipa attivamente alla vita della Chiesa. Si
circonda di vescovi e può predicare lui stesso. Riunisce dei concili e, grazie a una serie di misure, influisce a favore dei cristiani: accorda privilegi al loro clero, imponendo al contempo alcune restrizioni al culto pagano; le leggi [Gaudemet 267] se la prendono con la superstitio e con certi atti di culto giudicati pericolosi (pratiche private di magia e divinazione) o immorali. Il culto pubblico non è molto toccato, ma dopo il 330
Costantino fa confiscare le proprietà dei templi, che inoltre sono spogliati delle proprie statue, esposte nelle strade e sulle piazze di Costantinopoli. Tale politica è accentuata dai figli di Costantino, allevati nel
cristianesimo.
Una legge di Costante nel 341 (CTh, 16.10.2) implica l’interdizione
dei sacrifici cruenti. Dal canto suo, Costanzo II emette una serie di leggi in favore del clero cristiano, prendendo contemporaneamente misure finalizzate alla chiusura dei templi e all’interdizione dei sacrifici, nonché degli onori resi alle statue degli dèi (CTh, 16.10.4-6). Benché Co-
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stanzo conservi il titolo di pontifex maximus e faccia prova, in Occidente, di circospezione, la sua politica segna un passo in avanti verso la cristianizzazione dell’Impero.
Quest’azione conosce un brusco colpo d’arresto con l’arrivo al potere di Giuliano, tornato dal cristianesimo al paganesimo, favorito dal nuovo sovrano, che manifesta al contempo un’ostilità crescente verso i cristiani. Giuliano abolisce le leggi antipagane, fa riaprire e restaurare i
templi, ristabilisce i sacrifici cruenti. Inoltre, cerca di organizzare un
clero pagano strutturato e di dotare il paganesimo di una dottrina, che
tenta di diffondere. All’inizio del suo regno adotta un atteggiamento di
tolleranza nei confronti dei cristiani, limitandosi a esigere che restituiscano i beni confiscati ai pagani o che riparino i danni causati agli edifici di culto. Ma, progressivamente, si moltiplicano le misure discriminatorie ai danni delle persone o delle città colpevoli di aver respinto i
culti tradizionali. Tale politica culmina con due leggi che escludono i cristiani dall’insegnamento, proibendo loro di spiegare la letteratura pagana [cfr. cap. i, p. 10].
La morte di Giuliano pone termine a tale tentativo, che dimostra come, negli anni ’60 del iv secolo, il paganesimo racchiudesse ancora forze e vitalità sufficienti per sognare di restituirgli la propria posizione. I
primi successori di Giuliano terranno conto di ciò e torneranno alla tolleranza.
Valentiniano parla della «libera facoltà di praticare il culto a cui [ciascuno] è attaccato»; ancora nel 371, sono autorizzati l’aruspicina e ogni
atto di culto tradizionale (CTh, 9.16.9); sono solamente interdette le cerimonie notturne e la magia. Tuttavia, nel 371, in seguito a un processo contro alti funzionari pagani, Valente ristabilisce l’interdizione dei
sacrifici cruenti.
Un passo decisivo è compiuto sotto Graziano (375-83) e Teodosio
(379-95), al quale, battezzato proprio al principio del regno e sottomesso all’influenza del vescovo di Milano, Ambrogio, va imputata la maggiore responsabilità. I decreti del 28 febbraio 380 e del 10 gennaio 381
fanno del cristianesimo cattolico la sola religione avente diritto di cittadinanza nell’Impero romano. Nella successiva lotta contro il paganesimo, possono essere distinti due momenti culminanti.
Da una parte, Graziano prende una serie di misure antipagane che
portano alla «separazione tra paganesimo e Stato» [Pietri 246, II]. Nel
382, fa togliere dalla curia romana la statua e l’altare della Vittoria, laicizzando così il Senato romano; sopprime le sovvenzioni per i sacerdoti pagani e le Vestali, così come le esenzioni fiscali di cui beneficiano,
dichiarandoli oltretutto incapaci di ereditare; i templi sono privati an-
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che del restante patrimonio fondiario. Il culto pagano resta legale (CTh,
10.7-8), ma, in pratica, il suo svolgimento è compromesso. Malgrado le
proteste di una parte importante dell’aristocrazia senatoria, le misure
antipagane di Graziano sono mantenute e l’imperatore compie un ulteriore passo rinunciando al pontificato (383).
Teodosio, dal canto suo, fa chiudere alcuni templi e intorno al 384
la spedizione, marcata da violenze, del prefetto Cinegio in Siria ed Egitto estende quest’azione. Successivamente le misure si fanno più pesanti sotto l’influsso di Ambrogio.
Gli apostati dal cristianesimo sono privati dei diritti civili e politici;
il 24 febbraio 391 una legge (CTh, 16.10.10) proibisce in Italia e a Roma qualsiasi sacrificio, qualsiasi visita a un tempio, qualsiasi omaggio
agli idoli; il 10 giugno 391 una seconda legge (CTh, 16.10.11) estende
queste interdizioni all’Egitto e, l’8 novembre 392, una costituzione
(CTh, 16.10.12) generalizza tali misure per tutto l’Impero. Il paganesimo è ormai proscritto. La rivolta di Eugenio, contrassegnata da un’ultima reazione pagana, si conclude nel 394. Il medesimo anno è contraddistinto dalla fine della celebrazione dei Giochi olimpici.
La politica di Teodosio è proseguita dai suoi discendenti, Arcadio e
Onorio, e poi Teodosio II, il cui codice, promulgato nel 438, riprende
l’insieme delle leggi antipagane.
Arcadio e Onorio rinnovano la proibizione dei sacrifici (CTh,
16.10.13, dell’agosto 395) e l’abolizione delle esenzioni in favore dei sacerdoti pagani (CTh, 16.10.14, del 396). La celebrazione dei misteri
eleusini è proibita nel 396. Onorio e Arcadio ordinano, nel 399, la demolizione dei templi rurali (CTh, 16.10.16), misura che sarà ulteriormente rafforzata da un editto di Teodosio II nel 435, che ordina la distruzione dei templi – «se ne restano ancora di intatti» – e la cristianizzazione dei luoghi di culto pagani (CTh, 16.10.25). Teodosio II se la
prende inoltre con le persone: i sacerdoti pagani non devono risiedere
vicino ai luoghi di culto (CTh, 16.10.20, dell’agosto 415); i pagani sono
esclusi dall’esercito e dall’amministrazione (CTh, 16.10.21, del 416); infine, nel 423, gli adepti del paganesimo – «se ne esistono ancora, benché non ce ne debbano più essere» – sono puniti con la confisca e l’esilio (CTh, 16.10.22-23).
La casistica è ormai completa e, sotto i successori di Teodosio II, i
testi sono più rari: Leone I, nel 463, proibisce ai pagani di presentarsi
in giudizio; nel 505 Anastasio li esclude dalle cariche municipali. Tocca
a Giustiniano mettere la parola fine a questa legislazione. Una legge del
529 affronta la libertà di coscienza, obbligando i pagani a farsi battezzare sotto la pena della confisca e dell’esilio.
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1.3. R i s u l t a t i .
La frequente reiterazione delle stesse leggi mostra che queste ultime
non sono state sempre applicate con rigore. Ma se anche i pagani hanno potuto contare su appoggi o negligenze, la politica antipagana trovava però diffusori efficaci nello zelo di certi funzionari, dei vescovi, dei
monaci, delle popolazioni cristiane.
Non mancano eccessi: per esempio la sommossa nel corso della quale viene linciata la filosofa neoplatonica Ipazia. Le distruzioni di templi, a partire da Teodosio, sono ben attestate, come quella del Serapeum
di Alessandria nel 391; per i templi di Gaza vale la narrazione della Vita di Porfirio (BHG, 1570). È inoltre attestato il riutilizzo di luoghi di
culto pagani da parte dei cristiani. Certi santuari, tuttavia, hanno potuto continuare a funzionare per lungo tempo. Il tempio di File, oggetto
di convenzioni internazionali, è chiuso e cristianizzato solamente sotto
Giustiniano [Nautin 272].
I pagani, il cui spazio si riduce drammaticamente, non saranno mai
eliminati nella loro totalità. In alcune regioni permangono sacche di paganesimo: per esempio, Giustiniano deve ancora appoggiare una campagna di battesimi condotta in Asia Minore da Giovanni di Efeso; sotto l’imperatore Maurizio, i pagani di Harran sono oggetto di persecuzione. Il paganesimo persiste in alcuni settori della società: anche dopo
la chiusura della Scuola di Atene da parte di Giustiniano [Beaucamp
254], i filosofi neoplatonici resteranno legati all’antica religione e alcuni processi per paganesimo mettono in causa membri delle classi dirigenti. Infine, le conversioni di massa non sempre hanno operato in
profondità. Ma, tutto sommato, a partire dalla metà del v secolo la nuova religione è maggioritaria in tutto l’Impero d’Oriente e i pagani non
ricoprono più un ruolo storicamente apprezzabile.
2. L’ebraismo.
L’ebraismo, i cui rapporti col cristianesimo sono stretti e spesso conflittuali, è un’altra religione importante nell’Impero [Simon 281]. Gli
ebrei formano un’importante diaspora sia all’esterno dell’Impero – in
Persia e nell’Arabia del Sud – sia al suo interno, dove costituiscono una
popolazione prevalentemente urbana. Nella stessa Palestina, dopo Adriano, sono tenuti a distanza da Gerusalemme e risultano poco presenti in
Giudea, ma sono attestate forti comunità nelle città della costa o nel sud
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della Palestina. Il paese ebraico per eccellenza è al nord, con la Galilea
e il Golan. In questo bastione, il cristianesimo non fa molti progressi. I
samaritani sono concentrati nel loro paese d’origine, intorno al monte
Garizim e a Neapolis, ma, nel iv secolo, la loro popolazione, in pieno
sviluppo, tende a diffondersi.
Prosegue l’evoluzione dei secoli precedenti. Le comunità ebraiche
tendono a ripiegarsi su se stesse. La sinagoga e i rabbini hanno un posto sempre più importante: è l’epoca della redazione del Talmud.
La formazione del Talmud di Gerusalemme si conclude alla fine del
iv secolo; poi, quando il centro di gravità si sposta dalle scuole palestinesi (Tiberiade, Sepphoris, Cesarea) verso la Mesopotamia, lasciando
l’Impero per la Persia, ha luogo la redazione del Talmud di Babilonia,
il cui principale iniziatore, Rabbi Ashi, muore nel 430.
Prima di Costantino, l’ebraismo è una religio licita all’interno dell’Impero. Gli ebrei godono anche di qualche privilegio: i sacerdoti e i
capi delle sinagoghe possono essere dispensati dagli oneri curiali; le autorità ebraiche sono abilitate a regolare le controversie tra i propri correligionari. Fino all’inizio del v secolo, le comunità giudaiche sono dotate di un organismo centrale: il patriarcato.
Inizialmente insediato a Sepphoris, poi a Tiberiade, il patriarca giudaico, la cui funzione è ereditaria, è riconosciuto dalla legge e gode di
importanti prerogative. Insieme al suo sinedrio, è l’autorità suprema per
gli affari religiosi e nomina i «sacerdoti» o i responsabili delle sinagoghe e delle comunità. I suoi inviati lo informano, trasmettono le sue decisioni, raccolgono il tributo speciale che gli è dovuto (aurum coronarium). Gamaliele, morto senza discendenti tra il 415 e il 429, non sarà
sostituito. L’aurum coronarium è ormai assegnato alla cassa delle sacrae
largitiones. Le comunità ebraiche non hanno più un’autorità centrale nell’Impero. Tale mancanza è compensata in una certa misura dal ruolo che
in Mesopotamia è ricoperto dall’esilarca.
La situazione, successivamente, si deteriora. I cristiani considerano
il giudaismo come un rivale, con cui intrecciano rapporti complessi: esso esercita un effettivo fascino, ma provoca anche un antisemitismo che
si può accompagnare a violenze. La legislazione, in evoluzione, cerca di
proteggere i cristiani nei loro rapporti con gli ebrei, sopprime i privilegi di questi ultimi e poi diviene discriminatoria [Linder 279].
Nel 335, una legge di Costantino (CTh, 16.8.5) protegge gli ebrei
convertiti al cristianesimo. Lo stesso Costantino proibisce agli ebrei di
circoncidere i loro schiavi (CTh, 16.9.1). Costanzo II proibisce agli ebrei
di comprare schiavi di religione differente dalla loro, una disposizione
che in seguito verrà mitigata. Teodosio proibisce, assimilandolo a un
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adulterio, il matrimonio tra ebrei e cristiani. Altre leggi indeboliscono
la posizione degli ebrei. La limitazione, da parte di Costantino, delle immunità dei sacerdoti giudaici cerca forse di proteggere le curie. Ma nel
404 Onorio proibisce agli ebrei e ai samaritani di divenire agentes in rebus e nel 418 li espelle dall’esercito. Per quanto riguarda l’Oriente, una
legge del 438 li esclude da tutte le dignitates e da tutte le militiae. Se le
sinagoghe esistenti sono protette dalla legge e possono essere riparate,
altre leggi, all’inizio del v secolo, proibiscono di costruirne di nuove.
Sotto Giustino I e Giustiniano la situazione degli ebrei e dei samaritani si aggrava: sottoposti alle medesime leggi che riguardano pagani
ed eretici, sono colpiti da gravi interdizioni civili. Le sinagoghe dei samaritani sono chiuse da Giustiniano nel 529.
Il medesimo imperatore (su domanda degli ebrei) interviene anche
nell’esercizio del culto: impone la lettura della Bibbia in greco (Settanta o Aquila) e proibisce lo studio del Talmud.
La Palestina è il teatro di numerose sollevazioni: la prima rivolta giudaica, alla metà del iv secolo, è repressa dal cesare Gallo; i samaritani si
ribellano sotto Marciano, poi nel 529; in ultimo, alla fine del regno di
Giustiniano, ebrei e samaritani si rivoltano insieme [cfr. cap. xiii]. La
loro ostilità nei confronti dell’Impero non cesserà più; all’inizio del vii
secolo accolgono favorevolmente gli invasori persiani e, più tardi, i musulmani. Eraclio, dal canto suo, dopo la vittoria sulla Persia prende una
misura estrema il cui senso escatologico è stato messo bene in luce da
Dagron [277]: decreta il battesimo forzato degli ebrei.
3. Manicheismo, gnosi, cristiani dissidenti.
Il cristianesimo è messo a confronto anche con le proprie dissidenze. A partire da Costantino, infatti, gli imperatori si sono premurati di
definire chiaramente l’ortodossia e il cristianesimo cattolico che intendevano favorire. A fianco, tuttavia, di questo cristianesimo ufficiale,
esistono numerose correnti divergenti. Tali dissidenze sono di origine e
natura differenti. Fin dai suoi inizi, il cristianesimo è multiplo.
Per esempio, il giudeo-cristianesimo, benché in definitiva fallimentare, svolge per lungo tempo un ruolo importante. I marcioniti, attestati in parecchie province orientali alla fine del iv secolo e, in ambiente
siriaco, fino alla metà del v, si rifanno a Marcione, che insegnava al principio del ii secolo. I montanisti – una corrente cristiana profetica, nata
in Frigia – hanno origini quasi altrettanto antiche. Sopravviveranno fin
sotto il regno di Giustiniano.
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Altre eresie sono, al contrario, moderne e nascono da conflitti recenti: l’arianesimo nel iv secolo, le Chiese o sette monofisite a partire dalla seconda metà del v. Le relazioni con il cristianesimo ortodosso sono
anch’esse differenti. La rottura può essere avvenuta semplicemente su
una questione di disciplina, su un rito o su un punto dottrinale, ma la
distanza dalla Grande Chiesa è talora considerevole. Così, i marcioniti
respingono l’Antico Testamento e vedono nel Creatore (il «demiurgo»)
un essere malvagio. Esistono, fino al iv secolo, sette gnostiche – è a una
di esse che dobbiamo la biblioteca di Nag Hammadi – che perpetuano
un insegnamento assai eterodosso, per quanto incorpori elementi cristiani. Infine, occorre segnalare una religione a pieno titolo: il manicheismo, che si espande a partire dalla Persia dal tempo del suo fondatore
Mani (216-76 circa) [Lieu 282, Tardieu 285]. Queste molteplici correnti (una legge di Teodosio II ne nomina ventitre, alle quali Giustiniano
ne aggiunge undici) non hanno tutte la stessa importanza.
Alcuni movimenti – come gli eunomiani – durano poco, oppure sono limitati a qualche provincia dell’Impero: così i novaziani [Vogt 286],
che, nel v secolo, sono attestati solo nel nord-ovest dell’Asia Minore;
i montanisti, ridotti, nel v e nel vi secolo, alla loro originaria Frigia [cfr.
cap. xii; Strobel 283]; o, ancora, i meleziani, che, senza uscire dall’Egitto, sopravvivono fino al ix secolo. Altri, al contrario, conoscono una
diffusione considerevole: è il caso del manicheismo. L’arianesimo, ancora attestato nell’Impero durante il vi secolo, deve la propria importanza al fatto di essere stato adottato dai Goti. I monofisiti – le cui
Chiese esistono ancora oggi – saranno maggioritari in Egitto e ben attestati in Siria.
Gli imperatori cristiani, preoccupati dell’unità della Chiesa, cercano
di sopprimere queste dissidenze. Le misure variano secondo le epoche
e la natura dei dissidenti, ma la tendenza è verso un’accentuazione della repressione, che culmina con Giustiniano.
Le leggi contro gli eretici fanno la loro comparsa a partire da Costantino. Poco dopo Nicea, Costantino promulga contro di loro un editto di
persecuzione: le loro riunioni sono proibite; chiese e altri edifici di culto sono confiscati, con disposizioni frequentemente reiterate da ulteriori leggi. Si prende di mira il clero dei movimenti settari (CTh, 16.5.21,
del 392). Nel 415, il clero montanista è minacciato di deportazione (CTh,
16.5.57). Gli adepti di eresie particolarmente aborrite possono essere
privati della capacità di ereditare o di trasmettere i loro beni: è il caso
dei manichei, a partire da una legge del 381 (CTh, 16.5.7), o degli eunomiani, che sono stati oggetto di una politica assai fluttuante.
D’altra parte, gli eretici possono essere esclusi dalla funzione pub-
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blica o da certe sedi: una legge di Teodosio andava in questo senso e Arcadio vi fa riferimento quando fa espellere gli eretici impiegati a Palazzo (CTh, 16.5.29). I settari più aborriti sono esclusi da incarichi civili o
militari: così i manichei, i montanisti, gli eunomiani e, dopo il concilio
di Calcedonia, i monofisiti (CI, 1.5.8.6, del 455). L’imperatore Leone
esclude dal foro chiunque non sia un cristiano ortodosso (CI, 1.4.15 =
2.6.8, del 468). Infine, in certi casi, si arriva fino alla pena di morte:
Diocleziano l’aveva decretata contro i manichei (Coll., 15.3.6); Teodosio ne minaccia gli adepti di tre sette (CTh, 16.5.9.1, del 382); Anastasio, seguito da Giustiniano, la utilizza contro i manichei (CI, 1.5.11, del
510; CI, 1.5.12.3, del 527).
L’insieme di questa legislazione è ripreso e inasprito da Giustiniano,
il quale, assimilando ebrei, pagani ed eretici, li esclude tutti dalla funzione pubblica e li sottopone a interdizioni civili. Sappiamo dallo storico Procopio (Storia segreta) che lo stesso imperatore ha perseguitato non
soltanto ebrei e samaritani, spinti alla rivolta, ma anche, violentemente, i manichei, gli ariani e i montanisti.
ii. la definizione dell’ortodossia.
Le esigenze del potere imperiale, che pretende di sapere chi è cristiano e qual è l’ortodossia, gli scambi tra le Chiese, la simbiosi con la cultura e la filosofia greca e i confronti tra le diverse sette contribuiscono
all’intensità dell’elaborazione dottrinale. La gran parte del iv secolo è
occupata dalla crisi ariana, che si conclude con la redazione del simbolo di Nicea-Costantinopoli (381), ancora in vigore nelle principali Chiese cristiane. Il v secolo è quello delle dispute cristologiche, e il concilio
di Calcedonia, che riconosce due nature unite nel Cristo, apre un periodo di divisioni che non è ancora concluso.
1. La crisi ariana.
Nel 324 Costantino, padrone dell’Impero, scopre che l’Oriente è diviso riguardo all’insegnamento di un prete di Alessandria: Ario. L’imperatore sottopone la questione al concilio che convoca a Nicea. Comincia una crisi [Simonetti 299] che occupa tutto il iv secolo e condurrà alla definizione dell’ortodossia sotto Teodosio.
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1.1. L e q u e s t i o n i t e o l o g i c h e : l a d i v i n i t à d e l F i g l i o .
Si tratta di assegnare un posto a Gesù, il Cristo, Figlio di Dio, nella
religione monoteista che è il cristianesimo [Grillmeier 301]. La questione, già dibattuta precedentemente a partire dalle Scritture e dalla tradizione, non era affatto decisa. I due scogli che i vescovi, nel iv secolo,
cercheranno di evitare sono il sabellianismo e l’arianesimo.
Per il sabellianismo (così chiamato da Sabellio, nel iii secolo) – ben
rappresentato in Oriente – le tre persone della Trinità (Padre, Figlio,
Spirito Santo) sono soltanto modalità di un’unica divinità. Per l’arianesimo, il Figlio non è Dio: è una creatura dallo status eccezionale. Pur
senza stabilire tra Padre e Figlio una differenza di natura così radicale,
molti sono tentati dal «subordinazionismo»: il Figlio partecipa della divinità del Padre, ma gli è subordinato.
Di fronte al pericolo ariano, il concilio di Nicea nel 325 reagisce dichiarando il Figlio «della medesima essenza (o natura)» (homoousios) rispetto al Padre. Così facendo, introduce un termine nuovo, non scritturale, che alcuni sospettano di sabellianismo. Le posizioni degli antiniceni saranno discordanti.
Alcuni «ariani» estremi (gli anomei) peroreranno una differenza radicale tra Padre e Figlio, dichiarato «dissimile» (anomoios) dal Padre.
Altri, gli omei, ammettono che il Figlio è «simile» (homoios) al Padre.
Per altri infine, vicini alla definizione di Nicea, il Figlio ha una natura
simile a quella del Padre: sono gli omeusiani (homoiousios = di natura o
essenza simile). Verso la fine, è evocata la questione dello Spirito Santo: è Dio, come il Padre e il Figlio, oppure, come sostengono gli pneumatomachi («che combattono lo Spirito»), chiamati anche eunomiani
(dal teologo Eunomio) o macedoniani (dal nome di un vescovo di Costantinopoli), è una creatura?
I grandi teologi della fine del iv secolo riprenderanno le formule di
Nicea, liberandole da ogni sabellianismo, e porranno le definizioni classiche: un solo Dio, con una sola natura o essenza (ousia), ma tre persone (prosopa) o ipostasi distinte: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
1.2. L e l i n e e d i f o r z a .
La crisi ariana mostra quali forze attraversano la Chiesa. Il peso della teologia non dev’essere trascurato. I dati tradizionali non sono modificabili a piacimento di chiunque e le posizioni estreme non arrivano a
imporsi. I vescovi sono attaccati alla tradizione di cui sono depositari e
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alcuni accettano di essere esiliati per la loro fede. La competenza teologica è una carta vincente e l’adesione alle formule nicene da parte di spiriti così straordinari come quelli dei dottori cappadoci, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, è un elemento decisivo.
Il ruolo dell’imperatore è un altro fattore considerevole. Ciascun sovrano lavora per l’unità della Chiesa e cerca di trovare un punto di accordo; ma molti di loro hanno convinzioni personali determinanti.
L’atteggiamento di Costantino, il quale accetta che vengano rimesse in causa le decisioni di Nicea, gioca un ruolo fondamentale nella nascita della crisi. La politica antinicena di Costanzo II, assai propenso a
intervenire, conduce alla definizione dell’arianesimo storico e sembra
quasi avere successo; ripresa da Valente, essa mostra la sua debolezza.
Teodosio, parimenti interventista, riesce a chiudere la crisi: i tempi sono maturi, e l’imperatore può appoggiare un partito già vincitore.
I concili, assai attivi nel iv secolo, svolgono ugualmente un ruolo importante. Alcuni semplici sinodi locali, come quello di Ancira nel 358,
intervengono nel dibattito teologico. Concili più importanti sono riuniti su iniziativa degli imperatori e possono prendere decisioni contrarie
a quelle di altri concili generali. Tuttavia, non riescono ad assumere la
funzione di autorità centrale che organizza la vita della Chiesa. Nel corso del periodo, si afferma l’autorità specifica del concilio di Nicea. Il riconoscimento finale delle sue decisioni in materia di fede contribuirà a
farne il modello di concilio «ecumenico» nel senso teologico del termine, ossia un concilio le cui definizioni sono riconosciute dalla Chiesa intera come ispirate.
A fianco degli imperatori e dei concili, occorre tener conto, nello
svolgimento della crisi, dell’influenza delle grandi sedi patriarcali: Roma, Costantinopoli, Antiochia, Alessandria.
Roma occupa già un posto importante. Inizialmente estranei a un dibattito di cui non comprendono i punti nodali, detentori di una teologia che li rende poco sensibili al pericolo sabelliano e di un vocabolario
che copre imperfettamente la terminologia greca, i vescovi di Roma sviluppano inoltre una concezione della Chiesa differente da quella dei loro colleghi orientali. Per tutto il corso della crisi, Roma difende Nicea
e, come Damaso, i «vetero-niceni», sostenitori delle definizioni di Nicea nel loro senso iniziale. I papi Liberio e Damaso faranno della comunione con Atanasio di Alessandria il criterio dell’ortodossia. Roma, di
conseguenza, tarda a riconoscere la fecondità della teologia neo-nicena.
Ciò nonostante, siccome resta fedele a Nicea, che finisce per trionfare,
il suo prestigio è accresciuto dalla crisi.
Costantinopoli, malgrado il proprio peso politico, è ben lontana dal-
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l’avere la medesima importanza. I suoi vescovi, scelti dagli imperatori,
sono avversari di Nicea, ed è in questo campo che alcuni di essi hanno
potuto distinguersi.
Antiochia, sede apostolica e capitale amministrativa dell’Oriente, gode di un’influenza considerevole nelle diocesi d’Oriente e d’Asia. I suoi
vescovi sono spesso scelti dagli imperatori, frequentemente presenti in
città. All’inizio del iv secolo, uno scisma, che oppone al principio niceni e ariani, si complica quando Melezio, insediato dall’imperatore Costanzo, si rivela essere un partigiano di Nicea. D’ora innanzi i cristiani
di Antiochia sono divisi in tre fazioni: gli ariani, intorno ai vescovi nominati dagli imperatori in sostituzione di Melezio; i meleziani, sostenitori di Nicea; i partigiani di Paolino, anch’essi niceni. Questa situazione complicata è aggravata dagli interventi di Roma e di Atanasio.
Alessandria occupa una posizione particolare. Gli imperatori antiniceni cercano di imporvi i propri candidati, ma la Chiesa d’Egitto resta
schierata a fianco di colui che riconosce come proprio legittimo capo:
Atanasio (vescovo di Alessandria, 328-73). Fino alla sua morte, malgrado i numerosi esili, resta fedele al concilio di Nicea. L’alleanza tra Roma e Alessandria contribuisce alla vittoria della fazione nicena e il decreto di Teodosio (380) dà come criterio dell’ortodossia la comunione
con i vescovi di Roma e di Alessandria [cfr. infra, p. 68].
1.3. L o s v o l g i m e n t o d e l l a c r i s i .
La condanna dell’arianesimo al concilio di Nicea non riesce a imporsi. La crisi dura sessant’anni: una prima fase, che in Oriente arriva fino
alla morte di Costanzo nel novembre 360, sembra suggellare la sconfitta dei niceni e la vittoria di una forma dell’arianesimo, l’omeismo [Brennecke 293]; la seconda fase, fino all’inizio del regno di Teodosio (379)
e al concilio di Costantinopoli (382), vede al contrario un ritorno alle
formule di Nicea, per quanto reinterpretate.
Gli inizi: Ario, Nicea. Ario, prete di Alessandria, sviluppa poco prima del 320 un insegnamento che fa scandalo: il Figlio, se è generato dal
Padre, non lo è da sempre («ci fu un tempo in cui non c’era»); è difatti
una creatura; distinto ontologicamente dal Padre, non è Dio. Condannato dal proprio vescovo, Ario trova appoggi al di fuori dell’Egitto: in particolare il vescovo di Nicomedia Eusebio, così come Eusebio di Cesarea.
Un concilio riunito ad Alessandria (nel 319?) scomunica Ario e i suoi sostenitori; al contrario, nel 322, due concili regionali confermano l’ortodossia di Ario. Costantino, nel 324, invia Osio di Cordova in Egitto per
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informarsi. Osio riunisce all’inizio del 325 ad Antiochia un concilio che
sancisce la condanna degli arianizzanti. Il concilio ecumenico di Nicea
(20 maggio - fine luglio del 325) risolve la questione ariana nel medesimo senso. Viene emanato un «simbolo» della fede: il Figlio vi è dichiarato «della medesima sostanza» (homoousios) del Padre. Ario è condannato ed esiliato poco dopo, poi tocca allo stesso Eusebio di Nicomedia,
nonché al vescovo di Nicea, Teognide. La questione sembra conclusa. A
dire il vero, se anche in Oriente non vi sono molti partigiani di Ario, le
definizioni di Nicea suscitano riserve. Qualcosa si muove, e l’atteggiamento di Costantino muta. Vengono deposti alcuni vescovi niceni. Atanasio d’Alessandria, condannato nel sinodo di Tiro (335), è esiliato.
Costanzo e l’omeismo. Alla morte di Costantino, nel 337, la situazione ha subito una netta evoluzione a sfavore dei niceni. Costanzo II,
all’inizio del suo regno, richiama tutti i vescovi esiliati e accresce la confusione. Atanasio non può tuttavia reinsediarsi ad Alessandria. Rifugiato a Roma, è raggiunto da Marcello di Ancira e sollecita l’intervento di
papa Giulio, che gli accorda la propria protezione e ammette Marcello
nella sua comunione. Un concilio romano, all’inizio del 341, rimette in
discussione la validità della deposizione di Atanasio, di Marcello e di altri vescovi. Questa decisione romana suscita la reazione degli Orientali, che vi vedono un’ingerenza. Il concilio di 90 vescovi riunito ad Antiochia nel 341, detto della «Dedicazione» – vi si procedette alla dedicazione (enkainia) della cattedrale di Antiochia –, riafferma di fronte a
Roma le posizioni delle Chiese d’Oriente e redige quattro formule di fede che, pur condannando Ario, evitano le formule di Nicea1. L’imperatore Costante non accetta le decisioni di Antiochia e convoca un concilio generale a Serdica, ma gli 80 vescovi orientali rifiutano di sedere con
i 98 occidentali, che hanno con sé i vescovi condannati, sospettati dagli
Orientali di sabellianismo. Gli Occidentali – che accusano gli Orientali di arianesimo – prima di separarsi promulgano certi canoni che giustificano in particolare l’intervento di Roma. La situazione si evolve quando Costanzo diviene l’unico imperatore [cfr. cap. i].
Le posizioni teologiche antinicene del nuovo sovrano sono chiare dal
351, quando riunisce a Sirmio un concilio che condanna sabelliani e ariani estremisti, ma, evitando le formule di Nicea, riprende la quarta formula della Dedicazione e adotta una posizione subordinazionista. Dopo il 353, Costanzo sfrutta al massimo la propria autorità: in occasione
di una serie di concili (Arles 353, Milano 355, Béziers 357), una parte
importante dell’episcopato occidentale aderisce alla politica imperiale.
Gli arianizzanti, incoraggiati, cercano di accrescere il proprio vantag-
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gio: un concilio riunito a Sirmio nel 357 afferma l’inferiorità del Figlio
in rapporto al Padre. Nella Pasqua del 358, tuttavia, dodici vescovi riuniti ad Ancira intorno al vescovo della città, Basilio, respingono la formula di Sirmio e dichiarano il Figlio dotato di un’essenza simile (homoiousios) a quella del Padre. Costanzo sembra aver tentato di avvicinare i punti di vista dei partigiani della formula di Sirmio e di quella di
Ancira. Fa deporre degli ariani estremisti (gli anomei). Nella primavera
del 359 fa redigere il «credo datato» che definisce l’omeismo2.
Questa formula è presentata a due concili riuniti nel 359, l’uno a Sirmio con 400 vescovi occidentali, l’altro a Seleucia d’Isauria con più di
150 vescovi orientali. In entrambi i casi, la maggioranza è ostile all’omeismo; ma manovre e pressioni riescono a farle cambiare opinione. Costanzo riunisce a Costantinopoli, ancora nel 360, un concilio che, accettando la formula di Rimini-Seleucia, probisce di utilizzare i termini di
ousia e di ipostasi, abroga le antiche formule di fede e proibisce di proporne di nuove. L’imperatore prende in seguito varie misure contro vescovi anomei e omeusiani; sembra aver ristabilito l’unità della Chiesa
intorno alle formule omeiste, definendo «l’arianesimo storico» che si
espande al di fuori dell’Impero: Ulfila, l’evangelizzatore dei Goti, era
un partecipante al concilio di Costantinopoli. Tuttavia, la morte di Costanzo nel novembre 360 rompe l’equilibrio così ottenuto.
Riaffermazione di Nicea. Il regno di Giuliano, che richiama dall’esilio i vescovi deposti da Costanzo, e quello di Gioviano interrompono in
effetti l’azione in favore degli omeisti. Emergono altre forze che lavorano in favore delle formule nicene.
Nella primavera del 362 un concilio riunito ad Alessandria da Atanasio, tornato dall’esilio, riafferma le posizioni nicene ma dà prova di
una nuova comprensione dei problemi. Ad Antiochia, nel 363, un concilio riunito da Melezio resta fondamentalmente omeusiano, ma aderisce a Nicea. Nel 364, un concilio riunito a Lampsaco respinge le formule omeiste e torna al simbolo della Dedicazione. L’omeismo sta dunque
perdendo colpi. Parallelamente, i dottori cappadoci sviluppano una nuova teologia, che reinterpreta le formule nicene.
Due fattori ritarderanno tuttavia la soluzione della crisi. La prima è
la posizione di Roma, che tarda a riconoscere il valore della teologia neonicena; il secondo è l’azione di Valente a favore dell’omeismo.
Nel 365, una deputazione di vescovi omeusiani si reca a Roma dove, su richiesta di Liberio, gettano l’anatema sulla formula di Rimini e
aderiscono a Nicea. Ma al loro ritorno l’accordo concluso a Roma non
è approvato da tutti i loro partigiani. Parallelamente, nel 366, è eletto
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un nuovo papa, Damaso, dalle posizioni intransigenti. In Oriente, il partito omeusiano, rafforzato dall’elezione di Basilio il Grande (370-78) alla sede di Cesarea di Cappadocia, cerca di riannodare senza successo i
contatti con Roma. Infine, nel 377, il papa indirizza agli Orientali il
«Tomo di Damaso», che mostra una migliore comprensione dei problemi teologici; rifiuta sempre, tuttavia, di riconoscere il vescovo di Antiochia, Melezio.
D’altro canto, mentre Valentiniano, in un Occidente niceno, adotta una neutralità che sarà seguita anche da Graziano a partire dal 373,
Valente, in Oriente, riprende la politica omeista di Costanzo. Nel 364
punisce i vescovi del concilio di Lampsaco e, nel 365, emette un editto
– applicato in maniera non sistematica – che rimanda in esilio i vescovi
condannati da Costanzo e richiamati da Giuliano. Valente, tornato dalla guerra gotica nel 369, si dedica agli affari religiosi ed esilia parecchi
vescovi, ma alla sua partenza nel 377, di nuovo in guerra contro i Goti,
revoca tutte le sentenze d’esilio.
La morte di Valente e l’avvento di Teodosio segnano un capovolgimento della situazione. Risolutamente pro-niceno, Teodosio non tarda
a prendere misure in favore del concilio. Il 28 febbraio 380 promulga
un editto (CTh, 16.1.2) che definisce l’ortodossia. Ognuno deve aderire alla fede dei vescovi di Roma e Alessandria. A Costantinopoli, alla fine del 380, Teodosio espelle il vescovo omeista Demofilo a vantaggio di
Gregorio di Nazianzo, che era il responsabile della piccola comunità nicena della città. Riunisce a Costantinopoli, dal maggio al luglio del 381,
un concilio – in seguito riconosciuto come il secondo «concilio ecumenico» – che segna il trionfo delle formule di Nicea.
Il concilio, inaugurato dall’imperatore, riunisce inizialmente circa
150 vescovi dell’Asia e del Ponto, cui si aggiungeranno Timoteo di Alessandria con alcuni vescovi egiziani e Acolio di Tessalonica in rappresentanza di papa Damaso. Il concilio riconosce come vescovo di Costantinopoli Gregorio di Nazianzo, che, dopo la morte di Melezio di Antiochia, presiede l’assemblea. Ma, avendo gli Egiziani contestato la sua
legittimità, Gregorio si dimette.
I padri del concilio ricordano il proprio attaccamento a Nicea e proclamano la consustanzialità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo,
che sono «una sola divinità, potenza e sostanza» in tre ipostasi. Condannano gli ariani, gli pneumatomachi e diversi eretici, tra cui i sabelliani. Il simbolo di Costantinopoli riprende quello di Nicea, completandolo tuttavia su alcuni punti. Su domanda dei vescovi, Teodosio, tramite un editto del 30 luglio 381 (CTh, 16.1.3), conferma le decisioni del
concilio; gli eretici devono cedere le proprie chiese agli ortodossi.
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La crisi ariana non si conclude senza strascichi. Roma e Alessandria,
lentamente, si separano dai successori di Paolino, ma lo scisma di Antiochia si prolunga fino al v secolo inoltrato. L’arianesimo, trasmesso da
Ulfila ai Goti, svolge un ruolo importante in Occidente fino al vii secolo. In Oriente, comunità ariane sono segnalate nell’Impero ancora nel
vi secolo, ma si tratta di entità trascurabili.
2. Le lotte cristologiche: Efeso e Calcedonia (431-51).
Malgrado alcune crisi, talora gravi – come quella che si conclude con
l’esilio di Giovanni Crisostomo –, il mezzo secolo che va dal concilio di
Costantinopoli a quello di Efeso mostra una relativa calma. Tuttavia,
alla fine degli anni ’20 del v secolo, il conflitto tra Nestorio di Costantinopoli e Cirillo di Alessandria inaugura il periodo delle lotte cristologiche, di cui i due concili «ecumenici» di Efeso nel 431 e di Calcedonia
nel 451 [Camelot 300] rappresentano punti salienti, e che proseguiranno fino a oltre l’arrivo degli Arabi.
2.1. I l C r i s t o , u o m o e D i o .
Nel v secolo la questione è di sapere come, in Gesù Cristo, ciò che
è umano coesiste con ciò che è divino [Grillmeier 301]. Le posizioni si
situeranno tra due estremi. Da una parte, l’affermazione dell’unità del
Cristo può portare a considerare l’unione del divino e dell’umano come
una sorta di mescolanza, con il rischio di una sparizione dell’umano: è
l’eutichianismo, dal nome di Eutiche, cui si attribuisce questa dottrina.
Dalla parte opposta, la volontà di distinguere nettamente, nel Cristo, il
Verbo divino e l’uomo Gesù mette in causa l’unità del Cristo, che appariva così come il prodotto di un’unione morale e non più reale: dualismo estremo denominato nestorianesimo, dal nome del vescovo di Costantinopoli, Nestorio.
Tra questi due estremi, la scuola antiochena insiste per parte sua sulla dualità delle «nature» (physeis) del Cristo, umana e divina, e cerca l’unità del Cristo nella persona o ipostasi (persona reale). Riceve l’appoggio di papa Leone Magno. Questa posizione «diofisita» («due nature»
del Cristo dopo l’Incarnazione), mantenuta a Calcedonia, diverrà quella dell’ortodossia cristiana. Sarà tacciata di nestorianesimo dai suoi avversari. Gli alessandrini, per parte loro, sottolineano l’unità reale del
Cristo. Questa tendenza sfocerà in una cristologia dell’unica natura del
Verbo incarnato, in seguito denominata «monofisismo».
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La questione teologica, ben netta al principio, tende a sfumarsi. Con
l’evoluzione della cristologia, i calcedoniani diofisiti e gli anticalcedoniani monofisiti avvicinano le proprie posizioni. Nel vi secolo, tra un
neocalcedoniano [Moeller in 301] e un monofisita come Severo di Antiochia [Lebon 311; Chesnut 304], l’opposizione pare risiedere soprattutto nei termini: Severo chiama natura ciò che i calcedoniani chiamano ipostasi. Il dibattito, in effetti, assume una dimensione confessionale, giacché le diverse comunità si cristallizzano sulle proprie posizioni.
2.2. L e f o r z e r i v a l i .
Come per la crisi ariana, non bisogna sottovalutare il peso della teologia. Ma, ancor più che nel iv secolo, l’azione imperiale e i conflitti tra
le grandi sedi patriarcali svolgono un ruolo determinante, mentre i monaci, e anche l’opinione pubblica, fanno sentire la loro voce.
Sotto Teodosio II, l’intervento imperiale è evidente: è l’imperatore
a scegliere Nestorio per Costantinopoli e a convocare il concilio di Efeso. Negli anni ’40 del v secolo, influenzato da una diversa cerchia in cui
l’eunuco Crisafio occupa un posto eminente, Teodosio cambia posizione, sfrutta tutta la propria autorità per far annullare la condanna di Eutiche e convoca un nuovo concilio a Efeso, sotto la direzione del vescovo di Alessandria, Dioscoro. La morte accidentale dell’imperatore nel
450 e il ritorno al potere di sua sorella Pulcheria segnano un brusco cambio di rotta, in cui il concilio convocato a Calcedonia prende decisioni
contrarie a quelle del secondo concilio di Efeso.
L’analisi dei rapporti tra le grandi sedi patriarcali permette di comprendere certi meccanismi della crisi.
Il concilio del 381 aveva riconosciuto alla sede di Costantinopoli il
secondo posto dopo Roma. Si trattava di uno smacco evidente per Alessandria. La nomina di un antiocheno, Giovanni «Crisostomo», alla sede di Costantinopoli aveva rappresentato per Teofilo d’Alessandria una
doppia minaccia: da una parte, Giovanni era l’attivo promotore della sede di Costantinopoli; dall’altra, un’alleanza tra Costantinopoli e Antiochia poteva marginalizzare Alessandria. Le circostanze avevano permesso a Teofilo di trionfare su Giovanni e di farlo esiliare. Quando Teodosio II nomina Nestorio vescovo di Costantinopoli, la storia sembra
ripetersi: un antiocheno stabilito a Costantinopoli gode dell’appoggio
del vescovo di Antiochia, Giovanni. Cirillo, nipote di Teofilo, otterrà
a sua volta la deposizione e l’esilio del vescovo di Costantinopoli. L’importanza ottenuta da Alessandria in Oriente non si smentisce con Dioscoro, che, dirigendo il concilio di Efeso II, ottiene la deposizione del
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vescovo Flaviano di Costantinopoli, quella di Donno d’Antiochia, e per
giunta la nomina a vescovo di Costantinopoli di uno dei suoi sodali, Anatolio.
Al cospetto di Alessandria, ricca, unita, con una tradizione teologica coerente, le sedi di Antiochia e Costantinopoli paiono più fragili. Antiochia, forte della propria tradizione teologica, manca tuttavia di unità.
Le forze centrifughe sono considerevoli: nel concilio di Efeso I, la Chiesa di Cipro afferma la propria indipendenza, mentre Giovenale di Gerusalemme si ritaglia un patriarcato a spese di Antiochia. Non c’è da stupirsi di vedere la Chiesa di Gerusalemme a fianco di Alessandria, nel
periodo precedente Calcedonia. Quanto a Costantinopoli, è una parvenue. La sua posizione, affermata dal concilio del 381, si consolida alla
fine del iv e all’inizio del v secolo. Senza una propria tradizione teologica, la sua forza le deriva dallo status politico e la condanna di alcuni
dei suoi vescovi non ne ritarda eccessivamente l’avanzata. Il concilio di
Calcedonia la farà ulteriormente progredire e i patriarchi della capitale
resteranno attaccati alle sue decisioni.
Roma, infine, occupa un posto a parte e gode di un prestigio particolare. Male informata dei dibattiti teologici, sembra, in un primo tempo, poco capace di parteciparvi. All’inizio della crisi, papa Celestino basa la propria politica su un’alleanza con Alessandria che, nel iv secolo,
aveva dato i suoi risultati: Cirillo saprà trarne profitto. Ma, con Leone
Magno, la configurazione cambia. Il papa, nel conflitto tra Eutiche e
Flaviano di Costantinopoli, prende risolutamente posizione a favore di
quest’ultimo, cui indirizza il «Tomo a Flaviano», che definisce la posizione romana e costituirà un punto di riferimento non solo per Roma e
poi per una parte dell’Occidente, ma anche per i padri di Calcedonia.
Dioscoro sembra essersi curato poco dell’alleanza romana. Poco prima
di Calcedonia, scomunica il papa. Roma otterrà presto la rivincita e, dopo la morte di Teodosio, saprà farsi intendere da Pulcheria, Marciano,
e Anatolio di Costantinopoli: a Calcedonia, i legati pontifici fanno condannare Dioscoro. Il successo finale di Roma nelle crisi del iv secolo e
in quelle del v contribuirà ad accrescere in Oriente, nelle Chiese calcedoniane, l’autorità della sede apostolica e l’importanza attribuita alla comunione con essa.
Le dispute cristologiche non costituiscono solamente dibattiti tra
membri del clero: riecheggiano anche tra le popolazioni dell’Impero, delle cui reazioni occorre tener conto, per esempio in Egitto e Palestina all’indomani di Calcedonia. Per gli imperatori, l’unità della Chiesa non è
dunque soltanto un’esigenza religiosa, ma anche una condizione della
pace civile.
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2.3. Nestorio, il concilio di Efeso (431) e l’unione del 433.
La fase acuta delle dispute cristologiche comincia quando Teodosio
II, nel 427, sceglie come vescovo di Costantinopoli un prete di Antiochia: Nestorio. Costui [Loofs 303] sconcerta una parte dei suoi ascoltatori distinguendo, nel Cristo, il Dio Verbo dall’uomo Gesù e lasciando
per giunta intendere che Maria non può essere chiamata Theotokos3 ma
piuttosto Christotokos («Madre del Cristo»). Messone al corrente, Cirillo di Alessandria invia a Nestorio due lettere in cui difende il titolo tradizionale di Theotokos. I due vescovi informano papa Celestino, che riunisce un concilio romano (430) e condanna Nestorio. A nome del papa,
Cirillo ordina a Nestorio di sottomettersi e gli propone dodici anatematismi che saranno tra i testi più controversi di questo periodo. Tuttavia,
prima che gli giungano le condanne di Celestino e Cirillo, Nestorio ottiene dall’imperatore la convocazione di un concilio [Coué in 246, II].
Il concilio di Efeso, terzo «concilio ecumenico», riunito nel giugnoluglio del 431, si svolge in un’atmosfera conflittuale.
Due fazioni si oppongono: i partigiani di Cirillo da un lato (più di
150 vescovi egiziani, palestinesi – con Giovenale di Gerusalemme –,
asiatici – con Memnone di Efeso –, illirici), appoggiati dai legati pontifici, una volta che saranno arrivati; i suoi avversari dall’altro, raggruppati intorno al vescovo di Antiochia, con una cinquantina di vescovi,
essenzialmente della diocesi d’Oriente. I cirilliani, riuniti in disparte,
depongono Nestorio nella prima seduta (22 giugno), poi, il 16 e 17 luglio, Giovanni d’Antiochia e una trentina di vescovi orientali. Il 22 luglio proibiscono che si «proponga, scriva o componga» una definizione
di fede differente dal simbolo di Nicea; le ultime sedute sono consacrate all’indipendenza della Chiesa di Cipro e alla votazione di sei canoni.
Frattanto, gli Orientali, capeggiati da Giovanni d’Antiochia, proclamano (26 giugno) la deposizione di Cirillo di Alessandria, di Memnone di
Efeso e dei vescovi che non condannano gli anatematismi cirilliani. I
commissari imperiali sono stati soverchiati. L’imperatore, di fronte a
questa confusione, interviene. Incita i vescovi a riprendere il dialogo,
sforzandosi di ristabilire la pace della Chiesa.
I risultati durevoli del concilio – nei fatti, dell’assemblea dei cirilliani – sono, a livello dottrinale, la condanna del nestorianesimo e, a minor titolo, il riconoscimento della cristologia di Cirillo. Nestorio è condannato, con l’accordo dei legati pontifici, deposto e poi esiliato. Nella
Chiesa, si crea uno scisma tra Antiochia e Alessandria. Nel 433 tuttavia, in seguito alle pressioni dell’imperatore, Giovanni d’Antiochia in-
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dirizza a Cirillo una lettera in cui propone una cristologia chiaramente
diofisita, ma non esige la condanna dei dodici anatematismi. Cirillo, rassicurato che non si tornerà sulla condanna di Nestorio, risponde a Giovanni con una lettera in cui celebra l’unione ristabilita e accetta le formule cristologiche che gli si propongono, benché lontane dalle sue.
2.4. I l « b r i g a n t a g g i o » d i E f e s o ( 4 4 9 ) .
Malgrado le opposizioni, la pace ristabilita nel 433 dura fino alla morte dei due protagonisti, Giovanni nel 442 e Cirillo nel 444.
La crisi riesplode poco dopo a Costantinopoli, a proposito dell’archimandrita Eutiche, un partigiano estremista di Cirillo, influente a Corte. Eutiche è accusato di eresia e condannato dal sinodo riunito dal vescovo di Costantinopoli (12-22 ottobre 444), poiché rifiuta la formula
di fede diofisita che gli viene sottoposta. Eutiche fa allora appello ai vescovi di Roma, Alessandria, Tessalonica e Ravenna. Papa Leone approva la condanna e indirizza al proprio collega di Costantinopoli una lettera, il «Tomo a Flaviano», nettamente diofisita. Dioscoro d’Alessandria, tuttavia, si schiera dalla parte di Eutiche; ciò che più conta,
l’imperatore Teodosio biasima Flaviano per aver condannato l’archimandrita e convoca un concilio. Il secondo concilio di Efeso, riunito nell’agosto 449 sotto la presidenza di Dioscoro, riabilita Eutiche, depone
Flaviano di Costantinopoli ed Eusebio di Dorileo, nonché una serie di
vescovi orientali, tra cui Donno d’Antiochia.
Gli editti che convocano il concilio sono favorevoli agli eutichiani:
la presidenza è affidata a Dioscoro, mentre Flaviano di Costantinopoli
è escluso dai dibattiti, al pari dell’antiocheno Teodoreto di Cirro, il miglior teologo dello schieramento. In occasione della prima seduta (8 agosto 449), Dioscoro, assistito da Giovenale di Gerusalemme, impedisce
ai legati pontifici di far leggere il «Tomo a Flaviano». La maggioranza
dei vescovi sottoscrive la riabilitazione di Eutiche. La deposizione di
Flaviano – che muore sulla via dell’esilio – è ottenuta più difficilmente.
Donno d’Antiochia è deposto in occasione della seconda seduta (22 agosto 449) insieme a molti dei suoi vescovi, in assenza dei legati.
2.5. I l c o n c i l i o d i C a l c e d o n i a ( 4 5 1 ) .
Queste decisioni, confermate da un editto di Teodosio II, sono condannate dal papa, che riunisce un sinodo romano nel settembre 449 ed
esecra quello che chiama il «brigantaggio» (latrocinium) di Efeso, reclamando senza successo la convocazione di un nuovo concilio. La morte
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imprevista di Teodosio II rovescia la situazione. Sua sorella Pulcheria,
tornando al potere, mette a morte Crisafio, protettore di Eutiche. Sposa Marciano (imperatore il 25 agosto 450), che, come lei, è ostile a Eutiche e Dioscoro. Il rapporto di forze è cambiato. Il vescovo di Costantinopoli, Anatolio, riunisce un sinodo il 21 ottobre 450, che, in presenza dei legati di papa Leone, anatematizza Nestorio ed Eutiche e accetta
il «Tomo a Flaviano». Senza frapporre indugi, Marciano e Pulcheria decidono di riunire un nuovo concilio. Il 23 maggio 451 Marciano convoca i vescovi per il 1º settembre a Nicea. In settembre, numerosi partecipanti arrivano in questa città: è allora, senza dubbio, che Dioscoro lancia l’anatema su papa Leone. Per poter assistere al concilio, Marciano
sceglie di trasferirlo a Calcedonia, di fronte a Costantinopoli.
Il concilio [Grillmeier 301] si riunisce l’8 ottobre 451 a Sant’Eufemia. Comprenderà in media 350 vescovi, quasi tutti orientali. Diciannove commissari imperiali vegliano sulla regolarità dei dibattiti. L’imperatore in persona assiste alla quinta seduta (22 ottobre). Riunito in ottobre e novembre, il concilio annulla l’opera di Efeso II (449), promulga
una definizione di fede diofisita e prende alcune decisioni importanti
per la vita della Chiesa.
Nella prima seduta sono chiamati in causa i sobillatori di Efeso II:
Dioscoro di Alessandria è condannato ed esiliato; Giovenale di Gerusalemme, inizialmente escluso, cambia partito ed è riaccolto. I vescovi sono obbligati dai commissari imperiali a proporre una nuova definizione
di fede. Molti sono i testi di riferimento, in particolare il «Tomo a Flaviano» di papa Leone, che suscita riserve nell’episcopato orientale. Una
commissione riunita il 22 ottobre propone una «definizione» (horos) della fede, che sintetizza diversi testi anteriori, tra cui il «Tomo», e professa un solo Figlio «riconosciuto in due nature, senza confusione, senza cambiamento, senza separazione, in quanto la differenza delle nature non è in alcun modo eliminata dall’unione, ma la proprietà di ciascuna
natura è piuttosto salvaguardata in tutto e concorre in una sola persona
e in una sola ipostasi». Questo horos, presentato come una chiarificazione apportata al simbolo di Nicea, e non come una nuova definizione
della fede, è letto e accettato in occasione della seduta del 25 ottobre,
in presenza dell’imperatore.
Il concilio regola inoltre molti importanti problemi che concernono
l’organizzazione della Chiesa, ratificando in particolare la creazione di
un patriarcato di Gerusalemme. Lascia inoltre un’abbondante opera legislativa, con 27 canoni, senza scordare ciò che sarà chiamato il «ventottesimo canone», che segna un nuovo progresso della sede di Costantinopoli.
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3. La crisi calcedoniana.
Il concilio di Calcedonia getta la Chiesa in una serie di divisioni che
oggi non sono ancora terminate. La condanna di Dioscoro, il voltafaccia di Giovenale, l’annullamento di Efeso II, la definizione cristologica, che viene sospettata di nestorianesimo, suscitano fortissime opposizioni. Il potere imperiale cerca inizialmente d’imporre le decisioni prese a Calcedonia, poi, sotto Zenone, tenta di ristabilire l’unità passando
sotto silenzio il concilio contestato, una politica che viene modificata da
Anastasio in senso anticalcedoniano. Giustino, al contrario, s’impegna
a favore di Calcedonia e Giustiniano tenterà invano di ristabilire l’unità
intorno a una posizione teologica accettabile sia per i calcedoniani sia
per i monofisiti, che si organizzano in Chiese dissidenti. Questo è lo stato di divisione in cui gli invasori persiani, e poi arabi, trovano le Chiese delle province da essi conquistate, dal momento che l’ultima ricerca
di una soluzione teologica – il monotelismo, sotto Eraclio – era fallita.
3.1. M a r c i a n o e L e o n e I .
Per far applicare le decisioni di Calcedonia, Marciano promulga, nel
452, tre editti che probiscono a laici ed ecclesiastici di discutere le decisioni del concilio, ne proclamano l’accordo con i concili precedenti e
prendono misure contro i partigiani di Eutiche. Se in Occidente Calcedonia non crea difficoltà, la situazione è ben diversa in Oriente. Nel patriarcato di Costantinopoli la situazione è sotto controllo. Il patriarcato di Antiochia è diviso, ma non vi si registrano violenze. In Egitto, in
seguito all’esilio di Dioscoro, Marciano fa eleggere come patriarca di
Alessandria Proterio (novembre 451). La popolazione, tuttavia, si solleva e violente sommosse sono represse dalle truppe. In Palestina [Perrone 414], un monaco, Teodosio, tornato dal concilio prima di Giovenale e dei vescovi, fa sollevare la popolazione, usurpa il trono della Città
Santa e ordina alcuni vescovi. Anche là c’è bisogno d’impiegare la forza armata per reinsediare Giovenale, non senza spargimento di sangue.
Un editto del 453 ordina l’espulsione dei vescovi ribelli e la messa a morte dei recalcitranti. L’opposizione a Calcedonia, tuttavia, resta massiccia, soprattutto tra i monaci, e i patriarchi di Gerusalemme dovranno
per molto tempo adottare un atteggiamento prudente.
Alla morte di Marciano (marzo 457), la popolazione di Alessandria
si solleva di nuovo e fa eleggere come patriarca Timoteo «Ailuro» («il
Gatto»). Durante le sommosse il patriarca Proterio è massacrato (28
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marzo 457). Il nuovo imperatore, Leone I, interroga allora l’episcopato
orientale: occorre accettare il concilio di Calcedonia? L’elezione di Timoteo Ailuro è legittima? I vescovi, quasi all’unanimità, si pronunciano in favore del concilio e contro Timoteo. L’imperatore fa allora esiliare Timoteo Ailuro (gennaio 460) e insediare a forza un patriarca calcedoniano, Timoteo Salofaciolo. Ad Antiochia, un patriarca ostile al
concilio, Pietro Fullone, succede a Martirio nel 470. Non può resistere
ed è sostituito in quel medesimo anno, ma l’avvenimento è indicativo
delle divisioni in questo patriarcato.
3.2. L ’ e p o c a d e l l ’ H e n o t i k o n : Z e n o n e e A n a s t a s i o .
L’imperatore Zenone segue la politica di Leone I. L’usurpatore Basilisco, tuttavia (gennaio 475 - fine agosto 476), cercando appoggi, si
adopera contro Calcedonia.
Su istigazione di Timoteo Ailuro, richiamato dall’esilio, presenta ai
vescovi l’Enciclica, che condanna il concilio: 700 vescovi la sottoscrivono. Timoteo Ailuro, in viaggio per Alessandria, riceve l’appoggio del
metropolita di Efeso. Contemporaneamente, Pietro Fullone torna ad
Antiochia. I monofisiti, pertanto, guadagnano terreno. Basilisco, messo in difficoltà da Zenone, annulla la propria Enciclica con una Antienciclica poco prima di essere vinto.
Tornato al potere, Zenone riprende una politica calcedoniana: fa deporre alcuni vescovi monofisiti, tra cui Pietro Fullone. Tuttavia, Stefano, nominato patriarca al suo posto, viene assassinato. Zenone fa allora eleggere Calandione, che è ordinato a Costantinopoli da Acacio e poi
insediato dall’esercito. Ad Alessandria, Timoteo Ailuro muore nel 477;
il patriarca Timoteo Salofaciolo torna nella città senza che si ristabilisca la pace. A fronte di questa situazione confusa, Zenone promulga nel
482, su consiglio di Acacio di Costantinopoli, l’Henotikon (editto di
unione), con il quale cerca di ristabilire la pace passando Calcedonia sotto silenzio.
Zenone accetta i tre concili di Nicea, Costantinopoli ed Efeso, nonché i 12 anatematismi di Cirillo. Riconosce che il Cristo ci è consustanziale secondo l’umanità. Condanna coloro che introducono in Lui divisione o confusione. Infine, getta l’anatema su chiunque abbia detto o
pensato altrimenti, «a Calcedonia o altrove».
Questo testo di compromesso riporta alcuni successi: ad Alessandria,
il nuovo patriarca monofisita, Pietro Mongo, accetta di sottoscriverlo;
suscita tuttavia anche diverse opposizioni. Da parte monofisita, certuni domandano che il concilio di Calcedonia sia sottoposto ad anatema,
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si separano dagli «enoticiani» e danno vita ai cosiddetti «acefali» (senza testa). Nell’altro schieramento, il patriarca calcedoniano di Alessandria, Giovanni Talaia, cacciato dalla città, si rifugia a Roma e papa Felice III invia legati a Costantinopoli per domandare spiegazioni. Questi
legati entrano in comunione con Acacio, ma al loro ritorno Felice III li
sconfessa e scomunica Acacio (luglio 484): è l’inizio dello «scisma acaciano», che durerà fino al principio del regno di Giustino.
La fine del regno di Zenone è contrassegnata dai progressi dei monofisiti [Frend 306]: la Chiesa d’Egitto è governata da Pietro Mongo;
ad Antiochia, Pietro Fullone è patriarca per la terza volta (485-89). È
in quella circostanza che il teologo monofisita Filosseno diviene vescovo di Ierapoli (Mabbug) [Chesnut 304]. È sempre in quest’epoca che Severo [Lebon 311], il futuro patriarca monofisita di Antiochia, si fa battezzare. La Palestina però cambia e adotta il calcedonianesimo, di cui
diverrà un caposaldo [Perrone 414]. Soprattutto, Costantinopoli resta
fedele a un concilio che assicura alla sua sede patriarcale uno status eminente.
L’avvento di Anastasio (aprile 491) modifica la situazione, giacché
il nuovo imperatore è ostile a Calcedonia. I protagonisti cambiano: Pietro Fullone muore nel 488; Pietro Mongo nel 490. Acacio, morto nel
489, è sostituito da Eufemio, un calcedoniano, che si oppone ad Anastasio fino al 496, data in cui l’imperatore riesce a esiliarlo e a sostituirlo con Macedonio. Quest’ultimo accetta l’Henotikon ma resta favorevole a Calcedonia. La pressione affinché i patriarchi enoticiani gettino
l’anatema su Calcedonia si fa tuttavia più forte.
Ad Antiochia, Flaviano, patriarca dal 498, è obbligato ad accettare
i 12 anatematismi di Cirillo. A Costantinopoli, i monofisiti sono attivi:
Filosseno vi giunge nel 507; Severo vi passa tre anni (508-10) e induce
Anastasio a promulgare il Typos, in cui l’imperatore interpreta l’Henotikon in senso monofisita. Il patriarca Macedonio, deposto nel 511, è
sostituito da Timoteo, più remissivo. Tuttavia, il 4 e 5 novembre 511,
quando l’imperatore Anastasio vuole imporre innovazioni monofisite
nella liturgia, la popolazione si rivolta e lo fa desistere. Nel patriarcato
di Antiochia, i monofisiti vogliono forzare il patriarca Flaviano e il patriarca Elia di Gerusalemme a gettare l’anatema su Calcedonia, ma i due
rifiutano. Nonostante qualche concessione dell’ultimo momento, Flaviano è rimpiazzato da Severo (512), il vero capo dei monofisiti. A partire dal 513, la rivolta di Vitaliano, che si appoggia ai calcedoniani, intralcia l’azione di Anastasio. Bisogna attendere il 516 perché Elia di Gerusalemme sia deposto e rimpiazzato da Giovanni, che promette di
gettare l’anatema sul concilio: ma ne viene impedito dai monaci, i cui
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capi Teodosio e Saba fanno acclamare, al contrario, i «quattro concili».
Anastasio non arriva dunque a ristabilire l’unità tra i patriarcati e, a
Costantinopoli come a Gerusalemme, deve fare i conti con un’opinione
pubblica favorevole al quarto concilio, mentre il patriarcato di Antiochia, sotto Severo, resta diviso. La morte dell’imperatore nel luglio del
518 segna la fine di questo tentativo. Il nuovo imperatore, Giustino, insieme al nipote Giustiniano, s’impegna risolutamente in un’altra direzione.
3.3. G i u s t i n i a n o e i l f a l l i m e n t o d e l l ’ u n i t à .
L’arrivo al potere di Giustino segna la ripresa di una politica vigorosamente pro-calcedoniana. Severo ha chiara la situazione e abbandona
Antiochia per l’Egitto senza attendere di essere deposto. Un sinodo riunito a Costantinopoli nel 518 lo condanna. Al contempo, Giustino riprende i contatti con Roma nell’intenzione di mettere fine allo scisma
acaciano.
Nel marzo del 519 due legati di papa Ormisda arrivano a Costantinopoli, dove il patriarca Giovanni accetta i loro desiderata: condanna di
Eutiche e Nestorio; accettazione del «Tomo» di Leone; radiazione dai
dittici di Acacio e dei suoi quattro successori, così come degli imperatori Zenone e Anastasio. Queste condizioni suscitano una viva opposizione in Oriente. Il 31 marzo 519, tuttavia, Giustino può proclamare
l’unione con Roma.
Giustiniano (527-65) prosegue inizialmente sulla medesima linea,
ma, a partire dal 531, cambia direzione e cerca un accordo con i monofisiti. Sotto l’influenza, si dice, dell’imperatrice Teodora, lascia eleggere due patriarchi anticalcedoniani, Teodosio ad Alessandria e Antimo
nella stessa Costantinopoli. Severo, nel 535, torna nella capitale. L’arrivo a Costantinopoli di papa Agapito nel febbraio 536 è l’occasione di
un nuovo cambiamento di rotta.
Antimo se ne va; il sinodo di Costantinopoli (2 maggio 536) lo condanna, così come Severo e i suoi partigiani. Nel patriarcato di Antiochia, il patriarca Efrem conduce una violenta campagna contro i monofisiti. Nel 537, Teodosio di Alessandria è deposto ed esiliato; trova tuttavia rifugio nell’entourage di Teodora e diviene il capo dei monofisiti
in seguito alla morte di Severo (538).
Frattanto, Giustiniano cerca un accordo con i monofisiti, sperando
di trovare una soluzione teologica al conflitto. S’impegna nella faccenda dei Tre Capitoli e, non essendo bastata questa concessione, poco prima della morte esplora la via dell’aftartodocetismo.
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I Tre Capitoli riguardano alcuni teologi del v secolo: si tratta di condannare Teodoro di Mopsuestia, certe opere di Teodoreto di Cirro e infine la lettera indirizzata a Mari dal vescovo di Edessa, Iba. I monofisiti attribuiscono grande importanza a questi tre punti e Giustiniano dà
loro soddisfazione promulgando due editti in questo senso (544-45 e
551). Soprattutto, fa venire a Costantinopoli papa Vigilio, che vi resterà
cinque anni e che si vuole costringere a sottoscrivere questa condanna.
Il papa resiste, poi cede (Iudicatum del 548), poi ritratta (550). Finisce
per accettare la convocazione di un concilio, che si tiene a Costantinopoli: è il V concilio ecumenico (553), che condanna i Tre Capitoli. Il papa aderisce a questa decisione. Muore sul cammino del ritorno e il suo
successore Pelagio, che accetta a sua volta la condanna dei Tre Capitoli, deve affrontare l’ostilità di gran parte dell’episcopato dell’Italia settentrionale (scisma di Aquileia).
Alla fine del suo regno Giustiniano prende da certi monofisiti la teoria secondo la quale il corpo di Cristo, durante la sua vita, sarebbe stato incorruttibile («aftartodocetismo»). Il patriarca di Costantinopoli,
Eutichio, è deposto dopo aver rifiutato di seguirla; anche il patriarca di
Antiochia, Anastasio, rigetta questo nuovo punto di vista che, a causa
della morte di Giustiniano, resta senza conseguenze.
Il regno di Giustiniano è contraddistinto dall’organizzazione di Chiese monofisite [Van Roey in 301; Honigmann 310]. Nel patriarcato di
Alessandria esistono, parallelamente ai patriarchi calcedoniani, dei patriarchi monofisiti che, se anche non possono insediarsi nella capitale
egiziana, controllano tuttavia gran parte del paese. Nel 542 Teodosio di
Alessandria, in esilio a Costantinopoli, ordina due vescovi: Teodoro per
l’Arabia e Giacomo Baradeo per Edessa. In una trentina d’anni, Giacomo ordina due patriarchi monofisiti per Antiochia e ventisette vescovi.
La chiesa «giacobita» è nata e, benché i patriarchi monofisiti di Antiochia non possano entrare nella città, lo scisma è comunque impiantato
nel patriarcato.
Anche Giustino II, che succede a Giustiniano, cerca un compromesso, giungendo persino a dichiarare che l’espressione «una sola natura»
di Cristo può essere interpretata in maniera ortodossa. Lo scisma, tuttavia, non si riassorbe. Le Chiese monofisite conoscono, dal canto loro,
alcune difficoltà: appaiono sette divergenti; s’instaura una divisione tra
i patriarcati monofisiti di Antiochia e Alessandria. La medesima situazione si perpetua nei regni successivi.
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3.4. L a c r i s i m o n o t e l i t a .
Bisogna attendere il regno di Eraclio per ritrovare una politica religiosa ambiziosa che si riannoda con quella di Giustiniano, nella ricerca
di una formula teologica accettabile per tutte le parti in causa. Quest’ultimo tentativo, il monotelismo (una sola volontà del Cristo), è anch’esso destinato a fallire [Schönborn 315; Winkelmann 316].
Il patriarca Sergio (610-38) promuove inizialmente il monoenergismo, che non riconosce nel Cristo che una sola operazione (energeia), indissociabilmente divina e umana. Di fronte a forti resistenze, rinuncia
e propone allora una formula monotelita: un’unica volontà del Verbo incarnato. In entrambi i casi, i calcedoniani più convinti reagiranno negativamente, persuasi che tali formule mutilino l’umanità del Cristo. Sosterranno che, al contempo, l’energia e la volontà sono legate alle nature, e che nel Cristo esse sono duplici, benché non divergenti.
A livello politico, per Eraclio si tratta di favorire l’azione di riconquista in cui è impegnato all’epoca della lunga guerra contro la Persia.
Passando dal nord, deve fare i conti con gli Armeni, che non riconoscono il concilio di Calcedonia. Soprattutto, nelle province conquistate dai
Persiani – Egitto e Siria –, le Chiese monofisite sono forti ed è importante conciliarsele al momento in cui occorre ricostituire l’unità dell’Impero.
Anche prima del 620 Sergio, nella propria corrispondenza con il vescovo Teodoro di Faran, si mostra tentato dal monoenergismo. Tuttavia, è soprattutto dopo la vittoria di Eraclio che la questione diventa
d’attualità. Nel 629, in occasione di un incontro a Ierapoli tra l’imperatore e il patriarca monofisita di Antiochia, il vescovo di Fasi, Ciro, difende non senza successo il monoenergismo. Nominato patriarca di Alessandria, riesce anche a ottenere intorno a questa formula l’adesione d’un
gran numero di monofisiti (giugno 633). Questi successi, tuttavia, rimangono senza conseguenze. Il monaco Sofronio, presente ad Alessandria, si reca a Costantinopoli, dove ottiene che Sergio rinunci al monoenergismo. Il patriarca promulga allora lo Psephos («decreto»), confermato da Eraclio, che proibisce di parlare di una o due operazioni nel Cristo.
Papa Onorio, in una lettera a Sergio, approva lo Psephos, ma parla
imprudentemente di «una sola volontà del Cristo». Sergio riprende la
formula e, nel 638, fa promulgare da Eraclio l’Ekthesis per tentare d’imporla nell’Impero. Tuttavia il monotelismo, accettato da alcuni patriarchi orientali, si scontra con l’opposizione di Roma: papa Giovanni IV
condanna l’Ekthesis nel 640. Il monotelismo è destinato a trovare un ul-
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teriore formidabile avversario nella persona di Massimo, il futuro Confessore. La morte di Sergio, poi di Eraclio, e infine l’invasione araba,
con la perdita dell’Egitto, della Siria e della Palestina, modificano anche la situazione politica. La crisi monotelita non sarà risolta che nel
681, in occasione del concilio di Costantinopoli III.
In nessun momento, all’indomani di Calcedonia, la Chiesa ha potuto ristabilire la propria unità. Se in Occidente e nel patriarcato di Costantinopoli, nonché in quello di Gerusalemme, il calcedonianesimo prevale, la Chiesa d’Egitto resta a maggioranza monofisita e ad Antiochia
la chiesa anticalcedoniana è potente. Si tratta della situazione che verrà
perpetuata dalla conquista araba, in cui, nelle province conquistate all’Impero, persisterà la divisione tra Chiese calcedoniane («melchite»,
ossia che condividono la religione dell’imperatore) e Chiese monofisite
– copta in Egitto, giacobita in Siria. Queste divisioni, in mezzo alle quali si definisce l’ortodossia, costituiscono uno scandalo ben percepito dai
contemporanei e un fallimento della Chiesa imperiale. Esse, tuttavia,
non hanno impedito al cristianesimo di dar prova, nelle province imperiali dell’Impero e fino alla conquista araba, di una stupefacente vitalità.
1
La seconda formula, chiamata simbolo della Dedicazione, svolgerà un ruolo importante: i padri del concilio affermano la divinità del Figlio, «immagine esattamente somigliante alla divinità e alla ousia … del Padre», e distinguono tre ipostasi divine: il Padre, il Figlio e lo Spirito. La quarta formula è meno netta, ma condanna esplicitamente la dottrina di Marcello di
Ancira.
2
Il Figlio è generato da tutta l’eternità; è «simile (homoios) al Padre che l’ha generato»; è proibito l’impiego del termine ousia e dei suoi derivati (homoousios, homoiousios).
3
«Madre di Dio» o, più esattamente, «colei che ha partorito Dio».
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denis feissel
iii. L’imperatore e l’amministrazione imperiale
1. Introduzione: il regime imperiale e i compiti dello Stato.
La costituzione dello Stato protobizantino, essenzialmente monarchica, si considera erede del regime imperiale (basileia) a suo tempo instaurato da Augusto (Giustiniano, Nov. , 44 pr.). Il tardo Impero romano è tuttavia concepito e organizzato in modo molto differente dal principato augusteo. Al termine di una evoluzione che risale ai Severi, il
«Nuovo Impero» [Barnes 317], ristrutturato da Diocleziano e poi da
Costantino, riconosce al sovrano un’autorità assoluta sull’insieme dei
poteri pubblici. L’imperatore, una volta proclamato, non risponde delle proprie azioni che davanti a Dio: l’esercito, il Senato, per certi aspetti la Chiesa costituiscono altrettanti organi di una monarchia priva di
contropoteri che non siano dissidenti. Le nozioni moderne di assolutismo, di «dominato», di monarchia di diritto divino (l’imperatore si dice «incoronato da Dio») non sono dunque senza fondamento, e tuttavia non dispensano dal definire i limiti del potere imperiale, in teoria
come in pratica.
A differenza del tiranno (titolo riservato agli usurpatori), l’imperatore legittimo ricusa l’arbitrio e garantisce lo Stato di diritto: padrone
delle leggi e delle istituzioni, è libero di modificarle senza esserne personalmente affrancato. A maggior ragione, ogni funzionario è responsabile della sua amministrazione, in quanto la legge organizza il controllo dello Stato tramite, contemporaneamente, lo Stato stesso e i suoi cittadini: si presume che le istanze delle singole persone o delle strutture
organizzate, ma anche la vox populi sotto forma di acclamazioni ufficialmente registrate in tutto l’Impero (CTh, 1.16.6), finiscano per giungere alle orecchie del sovrano. Si denunciano le illegalità degli agenti del
potere, che attentano ai presupposti ideali del regime imperiale, quando non è l’imperatore stesso a essere accusato di tradire la propria missione (è il caso della figura demonizzata di Giustiniano nella Storia segreta di Procopio). Se, infatti, il principio monarchico è incontestato, il
monarca in carne e ossa non lo è affatto. La permanenza del regime im-
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periale non esclude episodi d’instabilità politica: insurrezioni popolari
nella capitale e in altre grandi città, rivolte militari e usurpazioni, croniche dissidenze religiose. Quand’anche la sua autorità non sia messa in
causa, il potere centrale dispone di mezzi limitati per mettere in opera
la volontà imperiale. Malgrado lo sviluppo di una burocrazia più numerosa e meglio coordinata di prima, l’Impero non sarebbe in grado di gestire l’amministrazione delle province senza l’appoggio delle città e dei
loro notabili, che in Oriente, grazie alla creazione di un nuovo Senato,
sono sempre più integrati al servizio dello Stato. Se il regime è riuscito
a preservare, nonostante gli imprevisti del periodo, l’unità del mondo
romano e la continuità dei poteri pubblici, il merito va da una parte al
rafforzamento dell’ideologia monarchica, ma anche alla capacità di adattamento di un apparato amministrativo al contempo centralizzato ed efficacemente implementato dalle collettività locali.
L’esercizio del potere imperiale ha il più delle volte, a partire dalla
Tetrarchia, un carattere collegiale, che tuttavia non rimette in causa il
principio monarchico garante dell’unità dell’Impero. La stessa divisione di fatto tra due partes imperii, dal 395 al 476, si accompagna al mantenimento, perlomeno simbolico, di istituzioni comuni. I due sovrani,
dopo le cerimonie di riconoscimento reciproco, uniscono i loro nomi in
una titolatura comune, sotto la quale ognuno dei due legifera in totale
indipendenza: la promulgazione in Occidente di leggi orientali, e viceversa, dipende dalla conferma dell’imperatore competente, temporanea
divisione legislativa che non evita di creare alcune divergenze istituzionali. Dopo il 476, la vacanza definitiva del trono d’Occidente non mette fine all’unità romana, poiché Odoacre e, dopo di lui, i re goti d’Italia hanno, a differenza dei Vandali in Africa, rispettato le prerogative
di Costantinopoli: le promozioni nel Senato di Roma e l’amministrazione italiana sono ancora sottoposte alla conferma imperiale. Analogamente alla dualità dei sovrani, la coppia annuale dei consoli associa, dalla fine del iv secolo, un orientale e un occidentale. Benché qualche tensione possa far sì che una delle due Corti non riconosca il console dell’altra,
il principio non ne è comunque intaccato, anche dopo il 476. Allo stesso modo la prefettura del pretorio, collegiale a livello di principio, continua ancora, dopo tale data, ad associare i prefetti d’Oriente e d’Italia
in una titolatura comune. Con questi presupposti, la reintegrazione dell’Occidente sotto Giustiniano avrà luogo senza importanti innovazioni
costituzionali, salvo la sparizione definitiva della Corte d’Occidente.
I compiti fondamentali del potere imperiale nei confronti dei suoi
sudditi sono, agli occhi dei contemporanei, la sicurezza rispetto alle minacce esterne e interne, e la giustizia nelle relazioni sociali. Entrambe
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le priorità hanno per garante l’imperatore; per organi, l’esercito e l’amministrazione; per risorse, la fiscalità. Praticamente l’amministrazione
civile coincide, nelle sue strutture, con il sistema giudiziario: gli alti funzionari sono chiamati giudici; le amministrazioni, invece, tribunali.
L’amministrazione assume d’altro canto la responsabilità delle esazioni
fiscali, reimpiegate in parte per il proprio funzionamento e per quello
dell’esercito, in parte anche per i bisogni delle città. Una legge di Giustino II, nel 569 (Nov., 149.2) definisce in questi termini il sistema di
funzionamento di uno «Stato assistenziale» ante litteram.
La nostra unica premura, sotto la guida di Dio, è che le province fruiscano di
buone leggi e di una stabile amministrazione, che godano della giustizia dei governanti, e che le tasse siano percepite correttamente. Non vi è, infatti, modo di preservare lo Stato se non vengono percepite le sacre contribuzioni. È grazie a esse che
l’esercito, ricevendo ciò che gli è assegnato, resiste ai nemici e libera i sudditi dalle
offensive e dalla malvagità dei barbari, proteggendo inoltre le campagne e le città
… e che gli altri ordini gioiscono di ciò che viene loro assegnato, che i bastioni e le
città sono restaurate … e così tutto ciò che è stato inventato per il comodo dei sudditi; dimodoché le loro contribuzioni siano spese e versate sia per essi, sia da essi,
e che a noi non ne venga assolutamente niente, salvo avere per loro delle preoccupazioni, benché neppure questo sia senza ricompensa, giacché il nostro grande Dio
e Salvatore Gesù Cristo, nella grandezza del Suo amore per gli uomini, ci accorda
per questo motivo anche molti beni come ricompensa.
La duplice vocazione, militare e civile, del potere si traduce, a livello centrale come a livello provinciale, in un raddoppiamento dell’amministrazione. Certo, la militarizzazione dello Stato risalente a Diocleziano fa sì che ogni funzionario eserciti in teoria una militia, civile o armata, ma il principio complementare della separazione di funzioni civili e
militari subisce poche eccezioni prima del vi secolo. L’unico organigramma sistematico di questi due aspetti complementari della funzione pubblica, pressoché completo per le due parti dell’Impero, è fornito dalla
Notitia Dignitatum, che per l’Oriente rispecchia la situazione del 401
[Zuckerman 346], e non ha subito, nel corso di oltre due secoli, che adattamenti limitati, perlopiù noti tramite le fonti giuridiche. Forzatamente schematico, il quadro delle istituzioni proposto in questa sede cerca
tuttavia di non minimizzare né le esitazioni istituzionali del iv secolo,
periodo di gestazione dell’Impero bizantino, né le riforme del vi, per
quanto a dire il vero spesso prive di conseguenze. Il presente quadro si
limita al governo civile, senza troppe connessioni con le istituzioni militari, oggetto del capitolo v, o con quelle della Chiesa, trattate nel capitolo iv. Infatti, benché la sua geografia sia ricalcata sulle circoscrizioni civili dell’Impero (città e province) e il potere politico le deleghi un
ruolo amministrativo crescente (giurisdizione, compiti da magistrato mu-
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nicipale), la Chiesa non ha mai confuso i propri compiti con quelli dello Stato, che riconosce dal canto suo l’autonomia della gerarchia e del
diritto ecclesiastico. Privo di autorità formale sulle istituzioni della Chiesa, l’imperatore nondimeno può essere tentato d’imporre, in situazioni
di conflitto ricorrente, una politica religiosa di proprio gradimento. È
in questo senso che si può parlare di una Chiesa imperiale, dalla quale
il potere si sforza di escludere ogni dissidenza per meglio integrarla con
un sistema di governo propriamente totalitario. Istituzioni civili, militari, ecclesiastiche, in effetti convergono tutte verso un’autorità unica,
quella dell’imperatore, al contempo emanazione di questi differenti organismi e personificazione dell’unità dell’Impero.
2.
L’imperatore e le sue funzioni.
2.1. I f o n d a m e n t i d e l p o t e r e i m p e r i a l e .
L’ideologia monarchica, la cui tradizionale base giuridica si ammanta, dal tempo di Costantino, di una concezione quasi teocratica, circonda la persona del sovrano di un’aura di devozione immediatamente percepibile quando si leggono le fonti, così come quando se ne vedono le
rappresentazioni. L’esaltazione della monarchia ispira i discorsi e le immagini dell’arte ufficiale, compresa la lingua del diritto e degli atti imperiali, così come le cerimonie che regolano minuziosamente l’abbigliamento e la gestualità del monarca in ogni circostanza della sua vita pubblica. Più in generale, un’onnipresente attenzione alla gerarchia regola,
seguendo una gradazione codificata, l’insieme delle relazioni tanto all’interno dell’apparato statale, quanto tra autorità e sudditi. Tali aspetti teorici e simbolici del potere, come si riflettono per esempio nella titolatura imperiale, hanno una funzione ben più importante di fornire
un tocco di colore alla vita pubblica: contribuiscono alla coesione dell’Impero.
La titolatura imperiale, dall’ultimo quarto del iv secolo, abbandona
interamente le antiche magistrature romane (proconsolato e potestà tribunizia) che erano state alla base, dai tempi di Augusto, del potere del
principe. Il consolato, frequentemente rivestito dall’imperatore (e che,
dopo il 541, sarà esclusiva prerogativa di quest’ultimo), non è legato intrinsecamente alla funzione del sovrano e resta a margine dei suoi titoli permanenti. Questi non elencano più i poteri conferiti al principe, ma
glorificano, quasi tutti, una serie di virtù essenziali alla sua funzione nei
differenti settori in cui si esplica: in ciò, la titolatura è rivelatrice dell’i-
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deale monarchico, ossia degli orientamenti della politica imperiale (per
esempio, sotto Giustiniano, con l’improvvisa inflazione di titoli trionfali). La struttura d’insieme, tuttavia, non è soggetta a molti cambiamenti fino a Eraclio. Il titolo di «padrone nostro» (dominus noster), divenuto obbligatorio per rivolgersi all’imperatore, è all’origine del concetto moderno di dominato (altrimenti detto despotato), che si suppone
debba distinguere il regime del tardo Impero da quello del principato.
Tuttavia, i titoli imperiali per eccellenza, eredità del principato, continuano a occupare fino al vii secolo l’inizio e la fine della titolatura: in
testa Imperator Caesar, alla fine Augustus. Tra i due, il nome personale
del sovrano è accompagnato da epiteti elogiativi che fanno perlopiù riferimento all’ambito militare e a quello religioso. L’imperatore è, per
sua propria natura e spesso a dispetto della realtà, «vittorioso», «invincibile», «trionfatore». Caduti in desuetudine dopo il iv secolo, i cognomina derivati tradizionalmente dai popoli vinti (del tipo Gothicus) sono
ristabiliti in blocco da Giustiniano, a partire dal 533. Espressione di un
programma, allora appena intrapreso, di riconquista dell’Impero universale, questa serie più o meno teorica di otto titoli trionfali si allungherà
ancora nel corso del secolo seguente, per sparire soltanto sotto Eraclio.
Temperando il tono bellicoso della propaganda di Giustiniano, i suoi
immediati successori adotteranno i nuovi titoli di «benefattore supremo» e «pacifico». Intitolandosi «fedele in Cristo», Giustino II introduce il primo tratto esplicitamente cristiano a fianco degli epiteti tradizionali, neutri dal punto di vista religioso, di «pio e fortunato». Dopo
tre secoli di evoluzione graduale, la titolatura inaugurata nel 629 da Eraclio rappresenta un’innovazione radicale e carica di conseguenze, sostituendo all’antico Imperator Caesar il termine puramente greco di basileus. Antico titolo regio che, per i suoi sudditi orientali, designava l’imperatore già da secoli, basileus (al plurale basileis) fa il suo ingresso nella
titolatura ufficiale nello stesso momento in cui quest’ultima abbandona
la maggior parte degli elementi anteriori. Non è provato che il nuovo titolo sia collegato ai successi riportati da Eraclio sulla Persia e sul suo re,
ma la rottura del 629 con i vecchi nomi ereditati dal principato costituisce, nondimeno, uno dei segni simbolici della fine dell’Antichità.
Come sotto il principato, l’accessione all’Impero ha un principio elettivo: l’imperatore legittimo è l’eletto dell’esercito, del Senato e del popolo – difatti il patriarca di Costantinopoli era chiamato soltanto a benedire, non ancora a incoronare l’imperatore. La stessa successione dinastica, tanto precaria a Bisanzio quanto a Roma, non è legittimata che
dal consenso di questi organismi. Il nostro periodo, a dire il vero, ha conosciuto di secolo in secolo diversi abbozzi di dinastie (costantiniana,
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teodosiana, giustinianea, eracliana), ma il principio ereditario non trionferà che a partire dall’viii secolo, con gli Isaurici. Le cerimonie d’intronizzazione, di cui si possiede una serie di rendiconti dal 457 al 527 [De
cerimoniis 167, 1.91-95], non seguono un semplice modello ritualizzato
ma variano a seconda delle circostanze e della successione, a seconda del
fatto che l’insediamento abbia come protagonista un homo novus o un
membro della famiglia regnante [Dagron 321, pp. 33-105].
L’esercizio frequentemente collegiale della funzione imperiale non
ne mette in causa l’unità teorica. Le spartizioni territoriali del iv e del
v secolo erano solo la conseguenza di una divisione successoria, ma la
precedenza restava di diritto all’augusto più anziano. Una volta estintosi l’Impero d’Occidente, la comparsa a Bisanzio di un coimperatore,
dotato prima del rango di cesare, poi di augusto, avrà lo scopo di preparare, più o meno in anticipo, una successione incontestata.
La personalità del sovrano si ripercuote naturalmente sull’esercizio
delle sue funzioni, con considerevoli disparità di età, origine etnica e
sociale, cultura e capacità da un regno all’altro. Il ruolo del monarca
nella conduzione degli affari può eventualmente essere più nominale
che reale (minore età di Teodosio II, malattia di Giustino I o di Giustino II), senza che tale debolezza colpisca gravemente la continuità
dello Stato.
I membri della famiglia imperiale, ad eccezione degli imperatori stessi, inizialmente non hanno un ruolo politico a meno che non esercitino
una funzione civile o militare all’interno dello Stato (i casi di nepotismo
non sono mancati, in particolare nella famiglia di Anastasio o in quella
di Maurizio). In tali condizioni, a spose, sorelle o figlie dell’imperatore,
nonostante l’onore insito nel titolo di Augusta, non spetta alcun potere
istituzionale. Nonostante ciò, nei fatti la loro influenza è evidente. Nel
v secolo, per esempio, le principesse o le imperatrici della dinastia teodosiana, dotate finanziariamente di considerevoli appannaggi, conducono una politica personale soprattutto in materia religiosa, come l’imperatrice Eudocia attraverso le sue fondazioni in Terra Santa. L’intervento pubblico dell’imperatrice vedova può essere decisivo per la scelta di
un successore, come nel caso di Anastasio, candidato di Arianna e da lei
sposato. Tuttavia, anche nel vi secolo la spartizione di fatto del potere
imperiale tra Giustiniano e Teodora (più tardi tra Giustino II e Sofia),
di cui la retorica e l’arte di Corte diffondono l’immagine, resta priva di
fondamento giuridico e non sfugge alla critica di un Procopio.
Il mestiere d’imperatore continua a corrispondere alle proprie tradizionali funzioni fondamentali, negli ambiti militare, giudiziario e religioso, ma si esercita in condizioni ben differenti da quelle del principa-
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to. Il fatto che il sovrano cessi di comandare le truppe nel corso delle
campagne militari rompe, in pratica, con la funzione primaria dell’imperator, senza che ne siano inficiate né la legittimità di capo dell’esercito, eletto da esso, né l’ideologia della vittoria imperiale. È nella sfera
del diritto e dei poteri civili, nonostante l’evoluzione delle forme, che
la continuità delle tradizioni romane resta più tangibile. Sul piano religioso, infine, la funzione dell’imperatore cristiano poggia su principî interamente nuovi e deve, per espletarsi, venire a patti con la Chiesa.
2.2. L ’ i m p e r a t o r e n e l l a s u a c a p i t a l e .
In tutti questi ambiti, l’esercizio del potere è condizionato dalla quasi permanente residenza del sovrano nella capitale. I viaggi del principe, a Roma, erano inseparabili dalle sue funzioni militari o civili. L’imperatore protobizantino è molto meno itinerante, giacché la fondazione di una nuova capitale in Oriente ha avuto per effetto di fissare la
persona del sovrano e di favorire intorno a lui lo sviluppo dei servizi governativi. L’imperatore si assenta raramente al di là dei paraggi di Costantinopoli, nelle sue residenze di Tracia o di Bitinia. Viaggi più lunghi costituiscono l’eccezione, come il possibile pellegrinaggio di Teodosio II a San Giovanni di Efeso, o quello di Giustiniano, in età avanzata,
a San Michele di Germia, in Galazia. Sul piano militare, dopo la morte
di Giuliano e quella di Valente, entrambi caduti in combattimento, Teodosio I sarà l’ultimo a dirigere personalmente delle spedizioni, finché
Eraclio, due secoli più tardi, non riparte in guerra contro la Persia nel
corso di campagne che figureranno come vere e proprie epopee.
Residenza dell’imperatore, Bisanzio offre per così dire un compendio delle istituzioni dell’Impero. Rifondata nel 330 sotto il nome di Costantinopoli, riceve quasi subito il nome di Nuova Roma (più tardi Roma tout court). Nata dallo sdoppiamento della capitale di un Impero ancora unitario, sarà a partire dal 395 a capo della sola pars Orientis, prima
di divenire nel vi secolo unica capitale dell’Impero riunificato da Giustiniano. Questa «nascita di una capitale» [Dagron 493] si è realizzata
gradualmente: inaugurata nel 330, Costantinopoli non raggiunge il suo
completo sviluppo urbano e istituzionale che nell’ultimo terzo del iv secolo. (Frattanto, Antiochia accoglie a più riprese l’imperatore e il suo
prefetto del pretorio, ma tale ruolo di capitale temporanea non rimette
in causa lo status unico della fondazione costantiniana). Un insieme di
monumenti coordinati – il Palazzo, il Senato, il Circo-Ippodromo, la
Grande Chiesa – materializza e simbolizza il ruolo della «città regina»
come centro di tutti i poteri. In questo quadro monumentale, la ritua-
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lizzazione crescente del cerimoniale non si limita al Palazzo, ma regola
tutte le uscite dell’imperatore, a cominciare dalla sua presenza obbligatoria agli spettacoli dell’Ippodromo e alle celebrazioni religiose, altrettante occasioni di incontro diretto (e talora di confronto) tra il sovrano
e i suoi sudditi. Caposaldo della simbologia imperiale, il microcosmo dell’Ippodromo è strutturato, come a Roma, intorno a due fazioni o colori, Verdi e Azzurri, le cui vittorie alternate concorrono indistintamente alla gloria dell’imperatore. Quest’ultimo è comunque tenuto a essere
apertamente partigiano di uno dei due colori, e questo colore cambia a
seconda dei regni. Privo di fondamento sociale o religioso, questo bipartitismo radicato nel mondo degli spettacoli non si limita tuttavia a una
messa in scena simbolica della vittoria imperiale: in margine alle istituzioni propriamente politiche, contribuisce a strutturare la vita sociale e
le sue tensioni nella capitale e in molte altre città.
Sede del governo centrale, Costantinopoli gode di uno status amministrativo eccezionale, distaccato dalla provincia d’Europa. L’amministrazione urbana, inizialmente affidata a un proconsole, a partire dal
359 passa, sul modello di Roma, nelle mani del prefetto della Città. Quest’ultimo, presidente del Senato ex officio, è ugualmente membro di diritto del concistoro imperiale, insieme ai principali ministri che condividono con lui il rango di illustre. Intermediario tra l’imperatore e il Senato, svolge questo ruolo anche tra l’imperatore e il popolo, che talora
impone la revoca del prefetto. Tra i subordinati della prefettura urbana, il prefetto dell’annona organizza l’approvvigionamento della popolazione e la distribuzione gratuita del pane ai più di 80 000 aventi diritto. La polizia urbana è di competenza del prefetto dei vigili, che sotto
Giustiniano diviene pretore del popolo («dei demi»). Il medesimo imperatore crea nel 539 il quaesitor, incaricato di compiti di polizia nei confronti dei forestieri. La capitale allora attira, infatti, un numero crescente di provinciali (vescovi, notabili di città o semplici bisognosi), che desiderano avvicinare direttamente l’imperatore e i suoi servizi centrali,
obbligando così il legislatore a limitare il soggiorno nella capitale di questa popolazione fluttuante e, al contempo, a decentralizzare maggiormente l’amministrazione della giustizia.
2.3. L ’ i m p e r a t o r e l e g i s l a t o r e .
L’imperatore, nel corso del principato, è divenuto l’unica fonte di
creazione del diritto. Ancor più a partire da Diocleziano, il potere legislativo è una parte essenziale della funzione imperiale, anche se lo stato delle fonti (codificazione selettiva fino a Giustiniano, in seguito tra-
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dizione lacunosa) rende difficile valutare, regno per regno, l’importanza della produzione giuridica. Tutti gli atti emanati dalla cancelleria imperiale, denominati costituzioni, sono in teoria l’espressione della volontà personale del sovrano, caratterizzata dal plurale maiestatis. I principali tipi di costituzione si differenziano a seconda della portata, dalle
leggi generali alle misure particolari (le più numerose, ma anche le peggio conservate). L’antico edictum imperiale, concepito per essere direttamente affisso in pubblico, ha perduto l’importanza attribuitagli dalla
Tetrarchia; viene sporadicamente impiegato ancora nel vi secolo a beneficio del popolo della capitale o di certe province. Ad ogni modo, la
grande maggioranza delle costituzioni presenta ormai la forma di una
lettera dell’imperatore a un alto funzionario, perlopiù il prefetto del pretorio, che spesso s’identifica con l’autore del progetto di legge (suggestio). La diffusione delle leggi procede poi a tappe: la lettera iniziale dell’imperatore dà luogo, per ciascun livello dell’amministrazione, ad atti
accessori (editti di applicazione). Non è peraltro raro che la medesima
costituzione sia, con i necessari rimaneggiamenti formali, indirizzata a
differenti destinatari: la novella 8 di Giustiniano (535), una sorta di statuto dell’amministrazione provinciale il cui testo di base è una lettera al
prefetto del pretorio, viene ugualmente inviata ai vescovi, affissa come
editto ai Costantinopolitani e infine riformulata sotto forma di mandata (Nov., 17) consegnati ai governatori in occasione della loro nomina.
Si può distinguere tra le leggi generali, espressione della politica del
regno, e gli atti di routine, emanati in massa dalla cancelleria senza l’intervento obbligatorio dell’imperatore (non è neppure sempre necessaria
la sua sottoscrizione). L’attività più usuale dell’imperatore consiste infatti, come sotto il principato, nel rispondere alle richieste che gli vengono sottoposte, sia che si tratti di risolvere una controversa questione
di diritto o di ottenere un privilegio per una persona o un organismo.
L’imperatore risponde alla petizione tramite un rescritto, sotto forma
di una lettera al funzionario imperiale incaricato di mettere in pratica
la decisione – invece della breve sottoscrizione che un tempo il principe apponeva in calce alla petizione stessa [Feissel 328-29]. Ormai indipendente dalla petizione che lo motiva, il rescritto trova, a partire dal
v secolo, la sua forma compiuta nella prammatica sanzione [Kussmaul
327].
L’imperatore, salvo eccezioni, è solo l’autore di facciata di testi redatti da altri per suo conto; non è facile attribuirgli personalmente, come si è tentato di fare per Giustiniano [Honoré 325], la composizione
di determinate leggi. Il compito della scrittura effettiva spetta innanzitutto al questore del Palazzo, che dà ai testi di legge la loro forma defi-
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nitiva con l’assistenza di membri degli uffici palatini (scrinia della memoria, delle lettere e dei libelli). Naturalmente, anche altri membri del
concistoro (al primo posto il prefetto del pretorio d’Oriente, ma anche
il magister officiorum) esercitano un ruolo determinante nella genesi delle leggi così come nella loro diffusione.
Oltre alla legislazione propria di ciascun regno, l’opera giuridica degli imperatori protobizantini culmina con la promulgazione, nel v e nel
vi secolo, di due Codici monumentali finalizzati a conservare, organizzare e armonizzare l’eredità secolare del diritto imperiale. Tale armonizzazione è resa necessaria dal fatto che il diritto del basso Impero, prima della codificazione, riconosceva in tutto e per tutto le costituzioni
di ogni imperatore legittimo, pagano e cristiano. L’accumulo di testi, talora contraddittori, rende il diritto di difficile accesso e applicazione per
i tribunali e le amministrazioni. Inoltre, tra il 395 e il 476 la dualità degli imperatori compromette l’unità giuridica dell’Impero, giacché entrambi si riservano di promulgare o no le costituzioni del proprio collega. La pubblicazione, a un secolo d’intervallo, del Codice teodosiano
(438) e del Codice giustinianeo (529, rivisto nel 534) cerca in primo luogo di facilitare il compito della giustizia. Il primo, tuttavia, si rifà ancora a testi contraddittori (la regola era di attenersi alla legge più recente), mentre i commissari del Codice giustinianeo hanno l’ordine di armonizzare, all’occorrenza tramite correzioni o interpolazioni, l’insieme
della legislazione.
I due Codici sono stati compilati a Costantinopoli, seguendo le direttive dell’imperatore, da commissioni di giuristi presiedute dal questore del Palazzo, rispettivamente Antioco e Triboniano. In entrambi i
casi, i commissari hanno operato una selezione di costituzioni imperiali; poi, dai testi completi, hanno estratto gli elementi dispositivi di loro
scelta, per ridistribuirli tematicamente nelle differenti parti del Codice,
e cronologicamente all’interno di ciascun titolo. I due Codici sono nondimeno differenti, sia per il proposito sia per la ricezione. Teodosio II,
completando codici anteriori, raccoglie la legislazione degli imperatori
a partire da Costantino (dal 312 al 438). Il Codice giustinianeo, summa
del diritto imperiale a partire da Adriano, integra l’essenziale del Codice teodosiano cui aggiunge le leggi, dette Novelle, emesse a partire dal
438. La compilazione giustinianea si estende, al di là del Codice, alla
giurisprudenza romana di epoca imperiale (il Digesto) e, a partire dal
534, alle leggi dello stesso Giustiniano (le Novelle). Questa summa del
diritto romano, presto tradotta in greco dai professori di diritto (gli antecessori), resterà per i giuristi bizantini un punto di riferimento permanente. Al contrario, per quanto riguarda l’Alto Medioevo occidentale,
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è attraverso il Codice teodosiano e i suoi adattamenti che il diritto imperiale prolunga la propria influenza [Gaudemet 104; Honoré 326].
2.4. L ’ i m p e r a t o r e c r i s t i a n o .
La funzione imperiale, prima della conversione di Costantino, entrava in contatto in due modi con la religione di Stato: tramite l’esercizio
dei sacerdozi romani tradizionali, soprattutto quello di pontefice massimo, e tramite il culto di cui l’imperatore stesso era l’oggetto, come testimonianza resa al carattere sacro della sua persona (il rifiuto dei cristiani di sacrificare all’imperatore fu una delle principali cause delle persecuzioni). Divenuto religione di Stato, il cristianesimo obbliga a
riformulare radicalmente le relazioni tra l’imperatore e il divino, ma anche, politicamente, tra l’imperatore e la Chiesa.
Le tracce degli antichi culti spariscono gradualmente. L’abbandono
del pontificato è compiuto con Graziano. Il culto imperiale non sfugge
all’interdizione dei sacrifici: se certe province continuano a eleggere un
gran sacerdote (il siriarca non sarà abolito che sotto Leone), il suo ruolo si limita all’organizzazione di concorsi provinciali. Senza ripudiare il
vocabolario tradizionalmente riferito alla sua persona, qualificata «divina» come tutto ciò che è in contatto con la Corte, l’imperatore cristiano, entrando in chiesa, depone la propria corona sull’altare e si prosterna. Ciò nonostante, la sacralità del sovrano «incoronato da Dio» autorizza certe antiche forme di venerazione, debitamente reinterpretate, e
ne crea di nuove. I ritratti imperiali (statue o, più di frequente, dipinti)
non sono più adorati, bensì venerati come l’imperatore in persona; l’immagine imperiale garantisce ai fuggiaschi un diritto d’asilo comparabile
a quello delle chiese; le formule ufficiali di giuramento invocano contemporaneamente la salvezza dell’imperatore e la Santa Trinità.
Lungi dal politeismo tollerante del passato, gli imperatori del ii e del
iii secolo avevano intrapreso, contro il cristianesimo, la strada delle persecuzioni. Il trionfo della nuova fede non basterà ad assicurare la pace
religiosa, e l’imperatore cristiano dovrà scegliere, in mezzo a dissensi
che rinascono incessantemente, tra una politica settaria e una più conciliante. Presto, il campo di battaglia delle lotte religiose si sposta dall’esterno all’interno della Chiesa. Il paganesimo, capace ancora nel iv
secolo di sommovimenti anticristiani, e che sopravvive nel vi secolo in
ambienti assai diversi (dalle cerchie di letterati più o meno monoteisti
ai culti rurali dell’Anatolia), resta per la legislazione imperiale un soggetto da tener d’occhio, ma non rappresenta più una minaccia: il fallimento di Giuliano mette fine a ogni prospettiva di restaurazione del po-
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liteismo di Stato; la proibizione dei culti pagani, pubblici o privati, è definitiva dopo il 392, e dopo il 416 i pagani sono estromessi dalle funzioni pubbliche. Ricusato nell’Oriente romano sotto il nome di errore «ellenico», il paganesimo rappresenta ormai per l’Impero un’aberrazione
meno pericolosa del cristianesimo dissidente. Di fronte alle controversie cristologiche, la politica religiosa imperiale si ridefinisce da un regno
all’altro in base alle scelte del sovrano. La militanza di un Costanzo II
per l’arianesimo, quella di un Anastasio per il monofisismo, rischiano,
a causa delle resistenze che provocano in seno alla Chiesa imperiale, di
disgregare la coesione dell’Impero, ma anche l’«ortodossia» di un Teodosio I o di un Marciano non suscita maggiormente l’unanimità. Né la
politica di neutralità di uno Zenone né la suddivisione dei ruoli all’interno della coppia regnante (Giustiniano che favorisce i calcedoniani,
Teodora i monofisiti) hanno saputo risolvere questo problema. Paradosso di un Impero cristiano, l’istituzione imperiale non è al riparo del rimprovero di eresia, unica forma di contestazione del regime teoricamente accettabile.
Quali che siano le sue convinzioni, il «piissimo» imperatore non può
sostituire legittimamente la propria autorità a quella della Chiesa. Non
potendo deliberare in materia di fede (benché Giustiniano abbia lasciato alcune opere teologiche)1, gli spetta l’iniziativa di convocare i vescovi in un concilio ecumenico. Ad eccezione di Efeso, la riunione ha luogo preferibilmente nelle vicinanze di Costantinopoli (Nicea, Calcedonia) o, a partire dal 536, nella stessa capitale. Seguendo il modello instaurato da Costantino a Nicea, nel 325, i lavori conciliari si svolgono
sotto la presidenza dell’imperatore in persona (a Calcedonia, Marciano
pronuncia un’allocuzione di chiusura) o, solitamente, di commissari imperiali incaricati di condurre i dibattiti e di riferirne alla Corte. Le decisioni conciliari, unanimi per definizione, sono di per sé fonti di diritto, che si tratti di articoli di fede o di disciplina (i canoni), oppure di misure personali concernenti singoli vescovi. La legislazione imperiale, che
ne costituisce il braccio secolare, non fa che confermare le decisioni dei
vescovi mettendo la forza pubblica al servizio del diritto della Chiesa.
3. L’ordine senatorio al servizio dello Stato.
Nell’equilibrio istituzionale del tardo Impero, il ruolo fondamentale attribuito al Senato differisce, in particolare in Oriente, da quello che
era stato in passato. La base sociale e la destinazione ne sono state, infatti, profondamente trasformate a partire da Costantino. Rompendo
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con una tendenza attestata nel iii secolo, portata al suo culmine da Diocleziano, che aveva affidato all’ordine equestre la maggior parte delle
funzioni governative, Costantino ha moltiplicato le cariche di rango «clarissimo», implicando così l’appartenenza all’ordine senatorio. Mezzo secolo più tardi, è completato lo smantellamento dell’ordine equestre (è
solo nella burocrazia subalterna che si perpetuano tracce della sua titolatura); l’alta amministrazione imperiale, centrale e provinciale, militare e civile, fa ipso facto parte dell’ordine senatorio, e chi non è senatore
lo diviene ricevendo i codicilli della propria funzione.
Il Senato insediato a Costantinopoli dal suo fondatore non è rimasto a lungo una replica minore del Senato di Roma, dichiaratamente secondario e limitato a responsabilità locali. A partire da Costanzo II, alcune promozioni massicce portano a 2000 il numero dei senatori della
Nuova Roma, i quali, salvo qualche trasferimento da Roma a Costantinopoli, sono perlopiù d’origine orientale. Dal momento che non è richiesto alcun criterio di nascita, i nuovi senatori possono essere d’estrazione modesta, in particolare tra gli alti funzionari. La maggior parte, comunque, viene dalle élites municipali ed è di un livello sociale sufficiente
per assumere le spese della pretura, che, salvo dispense, condiziona ancora l’accesso al Senato.
Chiamato a costituire una nuova aristocrazia, votata all’amministrazione dell’Impero, in Oriente l’ordine senatorio non forma una casta
ereditaria e permette un sostanziale rinnovamento delle élites. Infatti,
benché i patrimoni senatorî si trasmettano con i loro privilegi, e i loro
oneri, le dignità acquisite dalle singole persone non sono ereditarie. In
Oriente è più difficile vedere, rispetto all’Occidente, dinastie di senatori che accumulano, di generazione in generazione, prefetture e consolati. L’accesso all’ordine rimane, nel v e nel vi secolo, largamente aperto a homines novi, spesso reclutati al più alto livello senza considerazione del cursus honorum – a differenza delle carriere burocratiche, tenute
a percorrere strettamente la scala dei vari gradi (matricula). Il principe
può ora, come Costanzo II, elevare alla prefettura modesti burocrati;
ora (come Giustiniano si riserva esplicitamente di fare) destinare alti
funzionari a funzioni di rango inferiore.
Il Senato, comunque, è ben lontano da limitarsi al personale dell’alta amministrazione: a fianco degli alti funzionari in servizio effettivo,
comprende ex funzionari detti vacanti (in congedo o in attesa di un nuovo incarico), nonché un numero crescente di senatori onorari, provvisti
nominalmente di un titolo di funzione pur non avendolo esercitato. Sotto il regno di Valente, il massiccio sviluppo dell’ordine senatorio in
Oriente comporta la medesima ristrutturazione che ha luogo in Occi-
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dente. Da allora, i senatori sono distinti in tre classi, che corrispondono a tre livelli di funzioni nell’apparato dello Stato: alla base i clarissimi
(di cui fanno parte quasi tutti i governatori provinciali), più in alto gli
spectabiles (vicari, duces), al culmine gli illustres (prefetti, magistri militum, altri membri del concistoro). Gli ex amministratori conservano, a
titolo vacante, la dignità connessa alla loro funzione. A livello più ampio, all’interno dell’apparato di Stato (ma anche al di fuori) le dignità
connesse alle funzioni civili o militari possono essere conferite, a titolo
onorario, tramite dono o vendita dei codicilli di nomina. Così, il cammino più breve per accedere all’illustrato è, a partire dalla metà del v
secolo, l’acquisto a titolo onorario del brevetto – per nulla riservato ai
militari – di comandante della Guardia (comes domesticorum), mentre
un titolo onorario di comes del concistoro conferisce soltanto il rango di
spectabilis. Una legislazione affinata incessantemente regola le precedenze, avvantaggiando, a parità di titolo, i funzionari effettivi su quelli onorari e tenendo conto, tra i primi, dell’anzianità delle funzioni esercitate [Delmaire 330].
La scala delle dignità, generalmente parallela a quella delle funzioni,
culmina però con due distinzioni prive di competenza amministrativa:
il consolato e il patriziato. Nel tardo Impero, il consolato ha cessato da
lungo tempo di essere una magistratura, ma comporta ancora (oltre all’onore di legare l’anno al proprio nome) l’obbligo, estremamente gravoso per un privato, di organizzare i giochi e le distribuzioni del 1º gennaio. Dopo Basilio, nel 541, il consolato ordinario sarà rivestito solo, di
tanto in tanto, dall’imperatore. Tuttavia, a partire dal regno di Zenone, si può acquistare il titolo di console onorario (exconsul). A differenza del consolato ordinario, il consolato onorario resta inferiore al patriziato. Quest’ultimo titolo, onorario per definizione, sfugge alla graduale svalutazione degli altri a causa della sua rarità, dal momento che
l’imperatore conferiva il titolo di patrizio solamente a qualche altissimo
funzionario al culmine della carriera.
Per il tramite di queste dignità, l’ordine senatorio ha finito per integrare, sotto il nome di honorati, i vertici delle élites provinciali. Esentati da certi oneri personali (legati in particolare alla condizione curiale),
dotati di prerogative in materia giudiziaria, gli honorati formano una
classe privilegiata, troppo numerosa, tuttavia, per confondersi con l’assemblea senatoria, la cui composizione ha dovuto essere ristretta. Sotto Giustiniano, occorre il rango di illustris per avere diritto di parola in
Senato. Il presidente dell’assemblea è, come a Roma, il prefetto della
Città. A differenza, tuttavia, della pars Occidentis, il cui sovrano non risiede più a Roma e dove l’assemblea si vede relegare a un ruolo piutto-
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sto locale, il Senato di Costantinopoli, la cui sede è vicina al Palazzo, resta intimamente legato al funzionamento dello Stato, sia per le funzioni affidate ad alcuni dei suoi membri, sia per le attribuzioni che gli sono proprie. Erede della tradizione romana, garante della legittimità imperiale, il Senato svolge pienamente questo ruolo in occasione dell’elezione dell’imperatore, che solo in un secondo tempo viene ratificata dalle acclamazioni del popolo e dell’esercito. Le riunioni ordinarie (conventus) del Senato sono consacrate soprattutto a questioni che toccano l’ordine senatorio e il suo reclutamento. Per gli affari di Stato, l’imperatore può convocare il Senato in sessione congiunta con il concistoro. In
materia legislativa, il Senato riceve dall’imperatore costituzioni di forma particolare (orationes ad senatum). Più in generale, è associato, dal
tempo di Teodosio II, alla promulgazione delle leggi. Assiste inoltre l’imperatore nell’esercizio della sua giurisdizione, in particolare nei processi per alto tradimento.
4. Funzioni e organi del governo centrale.
Le istituzioni governative stabilite sotto Costantino, in rottura con
quelle dell’alto Impero, fondano l’azione dello Stato su nuovi principî e
nuovi mezzi. La stretta separazione delle autorità civili e militari istituisce due gerarchie amministrative, parallele ma al contempo interdipendenti, giacché l’amministrazione fiscale civile ha la responsabilità della
riscossione e del versamento dell’annona militare. D’altra parte le amministrazioni centrali (e a un livello inferiore provinciali) dispongono
ormai di una burocrazia relativamente numerosa e specializzata, adatta
a rafforzare l’efficacia del potere imperiale.
4.1. I l p r i m a t o d e l l a f i s c a l i t à .
Strumento indispensabile all’azione dello Stato, la fiscalità condiziona alcuni tratti fondamentali della società e del funzionamento dell’Impero. Rigidità accresciuta delle condizioni sociali, responsabilità collettiva degli ordini costituiti (professionali o civici), accrescimento della
burocrazia cercano di garantire innanzitutto l’efficacità dell’esazione e
della redistribuzione delle tasse. Il principio di costrizione personale e
di eredità delle condizioni si estende dal colonato (coltivatori liberi, ma
legati alla terra) all’ordine curiale che compone i consigli municipali. Due
grandi organismi, il Senato e il clero, figurano apparentemente come ordini privilegiati, ma le esenzioni conferite ai loro membri sono solamen-
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te personali e non ereditarie, e la legislazione si preoccupa di restringere l’accesso dei curiali all’immunità. Spetta infatti ai notabili delle città,
piccoli o grandi proprietari, di assumersi (di concerto con i funzionari
provinciali) il ruolo di esattori.
A livello amministrativo, la divisione costantiniana dell’antico fiscus
tra finanze dello Stato e Tesoro imperiale comporta la separazione tra
fiscalità annonaria (competenza della prefettura del pretorio) e fiscalità
palatina («largizioni» e res privata). All’origine, l’annona è raccolta in
natura, le altre tasse in moneta. Questa distinzione tende tuttavia a svanire con la progressiva monetarizzazione (adaeratio) dell’intera fiscalità,
comprese le derrate annonarie (grano, vino ecc.) convertite alla tariffa
ufficiale.
La moltiplicazione delle istituzioni amministrative non modifica di
molto l’imponibile fiscale: qualunque ne sia la destinazione a livello di
budget, le imposte dirette restano essenzialmente basate sulla proprietà
fondiaria. L’antica distinzione tra tassa sulla testa (capitatio) e tassa sulla terra (iugatio), calcolate rispettivamente sul numero di animali e persone e sulla superficie dei terreni, finisce anch’essa per sfumarsi, con
l’apparizione, a partire dal iv secolo, di un’unità di imponibile mista che
permette la sommatoria delle due cifre (iugatio-capitatio, in greco zygokephalon). Accatastamento e censimento tengono il passo dei mutamenti; e per quanto concerne il tariffario delle imposte, varia a seconda delle regioni e della qualità dei terreni e delle colture. L’anno fiscale, o indizione, comincia a settembre (ad eccezione dell’Egitto) e a partire
da Diocleziano si integra in un ciclo di quindici anni che resterà una delle strutture fondamentali della cronologia bizantina. Al termine di tre
versamenti quadrimestrali, viene rimessa al contribuente una ricevuta
riassuntiva, che fa risultare contemporaneamente le unità d’imponibile
e gli importi percepiti, principalmente a titolo dell’annona o delle largizioni.
La fiscalità non fondiaria, basata esclusivamente su contribuzioni in
denaro, colpisce soprattutto le attività professionali urbane (è il caso del
crisargiro, abolito nel 498) e il commercio, interno o con l’estero. I diritti doganali percepiti alle frontiere, per esempio sulla seta importata
dalla Persia, dipendono in ciascuna diocesi da un comes dei commercia,
o «commerciario» (che non ha ancora le estese prerogative del funzionario omonimo del vii-viii secolo). I diritti riscossi dai commerciari, come la maggior parte delle imposte indirette, vanno normalmente alle largizioni e non alla prefettura, ma questo non pregiudica la loro destinazione finale: così il commerciario d’Oriente contribuisce, sotto Anastasio, all’appannaggio del dux di Mesopotamia.
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La coesione dei diversi dipartimenti del governo imperiale permette
in effetti allo Stato di gestire in maniera centralizzata l’insieme delle entrate e delle uscite fiscali. Nell’ambito di ciascuna prefettura, un budget globale fissa l’ammontare delle entrate (oggetto in ciascuna provincia di un ordine di ripartizione, o delegatio) e contemporaneamente la
loro destinazione: ciascuna città sa in anticipo a quali voci del budget
corrispondono i propri versamenti, in natura o in oro. In particolare, la
destinazione in massa del grano fiscale egiziano (l’embole) all’approvvigionamento di Costantinopoli ha permesso di dotare la nuova capitale
di una popolazione a misura della «città regina».
Le città ordinarie, un tempo autogestite, nel corso del iv secolo si sono viste confiscare gli introiti delle rispettive proprietà e delle tasse locali (vectigalia). Il budget delle città è ormai poco più di un capitolo di
quello dell’Impero, che stabilisce le entrate necessarie ai loro bisogni
correnti. Solo le largizioni possono, in caso di catastrofe, contribuire alle spese della ricostruzione. Le Chiese delle singole città beneficiano
ugualmente del supporto finanziario dello Stato, per il tramite di esenzioni e dell’assegnazione di rendite fiscali permanenti, senza contare gli
occasionali donativi dell’imperatore.
Se i bisogni locali assorbono probabilmente la maggior parte degli introiti, il finanziamento dell’apparato statale fa d’altra parte pesare sul
bilancio un carico commisurato al numero crescente di funzionari. Il servizio pubblico, che è una militia come quello dell’esercito, ha come remunerazione di base l’annona, originariamente in natura e poi adaerata
in moneta d’oro a partire da Teodosio II. I titolari degli alti livelli dell’amministrazione, centrale e provinciale, beneficiano di stipendi elevati, che escludono normalmente ogni rendita supplementare. I funzionari dei loro servizi, invece, si devono accontentare di annone modeste e
sono autorizzati a percepire, nell’esercizio delle proprie funzioni, gratificazioni (o sportule) il cui ammontare è fissato dalla legge, ma che gravano sugli utenti.
4.2. U n o r g a n i g r a m m a c o m p l e s s o .
L’edificio amministrativo del tardo Impero è tuttavia ben lungi dal
presentare una struttura strettamente logica, e a prima vista vi si può
scorgere (secondo i termini di Stein [151, II, p. 479], a proposito dell’Egitto sotto Giustiniano) «una sconcertante eterogeneità di funzioni
sovrapposte e giustapposte». Infatti, anche a livello del governo centrale, è raro poter attribuire a un’unica istituzione la responsabilità integrale di un settore determinato dell’amministrazione. La fiscalità, per
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esempio, dipende non solo dalla prefettura del pretorio (che gestisce la
maggior parte del budget statale), ma anche da due ministeri palatini, le
largizioni e la res privata. I governatori provinciali e i loro uffici sono, in
generale, subordinati alla prefettura, ma certi dipartimenti (ivi compreso l’officium del prefetto stesso) hanno a capo un princeps nominato dal
magister officiorum, che ne riceve dei rapporti. In maniera analoga, l’amministrazione militare dipende dai magistri militum, ma, in materia giudiziaria, i duces sono personalmente giudicabili dal tribunale del magister officiorum, ed è sempre quest’ultimo che esamina in appello le sentenze emesse dai duces. Sono singoli esempi di una complessità inerente
al sistema: il groviglio di competenze rispecchia non tanto una struttura difettosa, quanto un metodo di governo fondato sul reciproco controllo delle differenti branche dell’amministrazione.
Se si eccettua l’alto stato maggiore dei magistri militum praesentales
[cfr. cap. v], il governo dell’Impero è costituito, al livello più elevato, in
diretta prossimità dell’imperatore, da almeno due istituzioni fondamentali: la prefettura del pretorio, da cui dipende tutta l’amministrazione
provinciale, e i ministeri della Corte, ossia le istituzioni civili palatine,
al primo livello delle quali figura, a partire da Costantino, il magister officiorum. Malgrado alcuni sconfinamenti nella struttura statale, in particolare nell’ambito finanziario, la Camera imperiale (cubiculum) e i suoi
dignitari eunuchi occupano nel sistema amministrativo una posizione
marginale. L’una o l’altra di tali istituzioni è stata in grado di esercitare, a seconda delle circostanze e delle personalità, un’influenza politica
preponderante. Cionondimeno, il primato della prefettura, riconosciuto dai contemporanei, è connaturato alla struttura stessa delle istituzioni. Conviene pertanto, innanzitutto, definire le rispettive competenze
della prefettura e delle istituzioni palatine, anche se il loro intrecciarsi
non giustifica del tutto l’espressione di «parallelismo costituzionale dell’amministrazione imperiale e dell’amministrazione prefettizia» [Stein
151, II, p. 465].
4.3. L a p r e f e t t u r a d e l p r e t o r i o .
Ancora dotata, sotto la Tetrarchia, di competenze militari e civili, a
partire da Costantino la prefettura del pretorio ha una funzione puramente civile (senza peraltro perdere il simbolico diritto di portare la clamide e la spada). I prefetti non appartengono più all’ordine equestre (per
quanto, ancora nel vii secolo, si fregino del titolo di eminentissimus) ma
al Senato, dove molti raggiungono le più alte dignità, il consolato o il
patriziato. Ufficialmente qualificata come «magistratura suprema» (si
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dice che non sia seconda che alla funzione imperiale), la prefettura gode, nel cerimoniale della Corte, di distinzioni che le sono peculiari. In
effetti, costituisce ormai il coronamento della gerarchia amministrativa, al contempo fiscale e giudiziaria.
Dal punto di vista geografico, l’Impero è diviso in più prefetture, il
numero e i confini delle quali si stabilizzano solo verso la fine del iv secolo. Suddivisa in ambiti di competenza praticamente indipendenti, la
funzione prefettizia costituisce nondimeno, in teoria, un’istituzione unica, esercitata simultaneamente da un collegio di prefetti. Il prefetto d’Oriente, in genere, emette le proprie ordinanze a nome del collegio intero e menziona per nome i colleghi come coautori dei propri atti. In realtà,
l’autonomia gestionale dei prefetti è resa inevitabile dalla regionalizzazione delle loro competenze e dalla distanza che separa le loro rispettive sedi. Nessuno dei prefetti dipende da un altro, ma la preminenza della prefettura d’Oriente è manifesta: è l’unica ad aver sede a Costantinopoli, e ciò rende il suo titolare in grado di esercitare un ruolo politico
decisivo; e del resto l’estensione del suo dominio (la metà orientale del
bacino mediterraneo) sorpassa di gran lunga quella degli altri.
Il doppio ruolo, fiscale e giudiziario, della prefettura si espleta nell’organizzazione dei dipartimenti che formano l’officium prefettizio – il
cui modello viene applicato, in scala ridotta, agli officia dei governatori
provinciali. La gran quantità di incombenze, commisurata al numero di
province gestite da ciascuna prefettura, giustifica il numero relativamente elevato dei suoi funzionari: circa 400 per la modesta prefettura africana creata nel 533, forse quattro volte tanto per quella d’Oriente, senza contare i soprannumerari. Organo centrale di gestione delle finanze
pubbliche, il dipartimento finanziario della prefettura stabilisce il budget dell’Impero: fissa e ripartisce l’ammontare delle tasse, controlla l’esazione fiscale (compreso quanto destinato a casse differenti dalla propria, quelle delle largizioni o della res privata), regola la destinazione e
l’esecuzione delle spese. Come riflesso della ripartizione territoriale dell’Impero, l’amministrazione centrale delle finanze è divisa in direzioni
regionali (grandi uffici o scrinia ricalcati sulle diocesi), suddivise in sotto-direzioni provinciali (ciascuna provincia è generalmente sottoposta al
controllo di un tractator). La fiscalità locale, gestita a livello diocesano
dai vicari e a quello provinciale dai governatori, è di conseguenza sottoposta perdipiù a un controllo centralizzato. A fianco dei servizi finanziari, la cui integrazione all’officium è relativamente recente, il dipartimento giudiziario è il più prestigioso tra gli uffici prefettizi. Il tribunale del prefetto è, infatti, la suprema istanza d’appello: dal momento che
giudica in luogo dell’imperatore (vice sacra), le sue sentenze non sono su-
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scettibili di ricorso. Ai margini della propria giurisdizione, la cancelleria del prefetto si occupa di una quantità di richieste di collettività o privati, che raccomanda, secondo il caso, all’attenzione dell’imperatore.
Il prefetto del pretorio, soprattutto quello d’Oriente, partecipa più
di qualunque altro ministro all’elaborazione del diritto imperiale. Le sue
proposte di legge (suggestiones) sono all’origine di numerosissime costituzioni, particolarmente nell’ambito dell’amministrazione provinciale:
è così che Giovanni di Cappadocia fornisce il proprio impulso alle riforme amministrative di Giustiniano, in parte revocate dopo la caduta di
tale prefetto nel 542. Che ne sia o meno l’ispiratore, il prefetto del pretorio è il destinatario obbligato di quasi tutte le costituzioni, con il conseguente dovere di diffonderle per via gerarchica e di assicurarne, se necessario, la pubblicazione nelle province. Tale procedura di promulgazione delle leggi è accompagnata da editti esplicativi emessi dalla prefettura, di solito apposti in calce al testo della legge. Inoltre, nel quadro
della legislazione esistente, la prefettura promulga autonomamente ordinanze di natura regolamentare, alcune delle quali sono state compilate dai giuristi del vi secolo, se non addirittura annesse a raccolte di novelle imperiali.
4.4. I m i n i s t e r i p a l a t i n i .
Direttamente connessi al Palazzo, dove, a differenza della prefettura, si trova la sede dei loro servizi, quattro alti funzionari occupano le
principali cariche cosiddette «palatine»: il magister officiorum, le cui estesissime funzioni vanno dalla Guardia imperiale agli affari esteri; il questore del Palazzo, che assiste l’imperatore nel suo ruolo legislativo; i due
comites delle largizioni e della res privata, alti funzionari finanziari indipendenti dalla prefettura. Tutti di rango «illustre» dalla fine del iv secolo, sono fin dall’origine membri permanenti del consiglio imperiale, o
concistoro.
a. Il «magister officiorum».
Il magister officiorum esercita, dopo i prefetti, il ministero più importante. La sua influenza è tanto più grande in quanto la funzione è indivisa (mentre invece la prefettura è regionalizzata) e l’incarico è spesso
di lunga durata (fino a trentun anni per Pietro Patrizio, sotto Giustiniano). Le sue molteplici competenze toccano la maggior parte degli ambiti governativi, ad eccezione delle finanze. Alla Corte, organizza il lavoro del concistoro e le cerimonie che vi si svolgono (nomine di funzionari, ricevimenti di ambasciatori…), ma il suo ruolo non si limita alla
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capitale. Il magister officiorum controlla anche certi uffici provinciali, il
cui capo (princeps) fa parte dei suoi agenti. La sua giurisdizione vige, naturalmente, a Corte, dove soldati della Guardia, membri degli uffici palatini e servitori della Camera hanno il privilegio di averlo per giudice;
si estende inoltre ai militari delle province, giacché i duces sono giudicabili dal suo tribunale ed egli ne giudica in appello le sentenze. Il magister officiorum è d’altro canto il capo della diplomazia, incaricato di ricevere le ambasciate e di inviarne a sua volta, quando non gestisca in
prima persona i negoziati presso il re persiano o altri sovrani.
Per assisterlo in questi compiti, il magister officiorum dispone dei dipartimenti del proprio officium, tra cui quello delle fabbriche d’armi e
quello dei barbari; soprattutto, sovrintende a tre importanti categorie
di funzionari: gli uffici propriamente palatini che costituiscono la cancelleria imperiale (sacra scrinia); il corpo dei notai imperiali; quello degli
agentes in rebus. Il passaggio da un corpo all’altro è in linea di massima
proibito, salvo che per i notai. Le rispettive competenze, tuttavia, non
sono prive di sovrapposizioni.
Gli uffici della cancelleria comprendono tre reparti principali [Delmaire 335, pp. 65-73]: lo scrinium della memoria, quello delle lettere e
quello dei libelli. Ciascuno è diretto da un magister, di rango spectabilis
a partire dalla fine del iv secolo, che talora, a causa delle proprie funzioni, si rivela predisposto a divenire questore del Palazzo. I tre reparti si
dividono il disbrigo delle varie richieste indirizzate all’imperatore, secondo la forma richiesta in ciascun caso; si suddividono allo stesso modo la preparazione dei brevetti di nomina (probatoriae) della maggior parte dei funzionari. È dai loro ranghi che il questore attinge i propri collaboratori, per assisterlo nella redazione delle leggi e nella giurisdizione
d’appello che gli è propria.
I notai imperiali, organizzati militarmente (donde il titolo di «tribuno dei notai» conferito a certuni di essi, o – a titolo onorario – anche al
di fuori del loro corpo), sommano alla propria funzione primaria di segretari del concistoro le missioni alquanto diversificate che vengono loro affidate. La cura del sommo registro delle funzioni civili e militari, il
laterculum maius, costituisce un’incombenza del loro capo, il primicerio
dei notai, che, per consegnar loro i codicilli del loro incarico, riceve dagli interessati cospicue gratificazioni. (Un registro minore o laterculum
minus, limitato a qualche unità militare, è tenuto dal questore).
Gli agentes in rebus sono i subordinati per eccellenza del magister officiorum (donde il loro nome greco di magistrianoi). Dal numero limitato per statuto, a partire da Leone, a 1248 posti (CI, 20.20.3), esercitano le proprie missioni soprattutto nelle province, come messaggeri del-
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l’imperatore o, in particolare, ispettori della posta e delle dogane marittime (curiosi). Dal corpo degli agentes sono tratti i capi (principes) di certi uffici militari o civili di alto livello (numerosi duces e vicari), ivi compreso lo stesso officium del prefetto del pretorio. Il magister officiorum
ottiene per questo tramite una voce in capitolo su tutta l’amministrazione provinciale.
Dal momento che la prefettura era divenuta puramente civile in seguito alla dissoluzione dei pretoriani decisa da Costantino, è al magister
officiorum (e non allo stato maggiore dei magistri militum) che spetta il
comando dei sette reggimenti, o scholae palatine, che ormai costituiscono la Guardia imperiale. Dai loro ranghi vengono i 40 candidati, élite
della Guardia dal ruolo puramente cerimoniale. Dal magister officiorum
dipendono ugualmente le scuderie del Palazzo. Tuttavia due ulteriori
corpi, destinati alla protezione ravvicinata dell’imperatore, sfuggono all’autorità civile: i protectores domestici, comandati dal comes dei domestici, ufficiale di rango «illustre», e gli excubitores, incaricati dal tempo
di Leone della guardia effettiva del Palazzo, sotto gli ordini del comes
degli excubitores. Anche al di fuori della capitale, il magister officiorum
interferisce talora con l’autorità militare: si è già citata la sua giurisdizione sui duces, ed è d’altro canto a capo delle fabbriche d’armi, ripartite, per quanto riguarda l’Oriente, in una dozzina di città, nonché dei
loro impiegati (fabricenses), così come dei magazzini dell’Arsenale imperiale (armamentum).
b. Il questore del Palazzo.
A paragone del magister officiorum, le cui molteplici competenze sono servite da altrettanti ordini di funzionari specializzati, gli altri ministri palatini, suoi pari in dignità, esercitano funzioni più ristrette, giuridiche per il questore, finanziarie per i due comites. Inoltre, l’assenza
di un officium permanente per quanto riguarda il questore e la mancanza di autorità sui funzionari provinciali per quanto concerne i comites
finanziari fanno sì che essi dipendano in una certa misura dal personale messo a loro disposizione sia dal magister officiorum, sia dall’amministrazione prefettizia.
Considerato come il portavoce dell’imperatore, il questore è innanzitutto incaricato della redazione delle costituzioni imperiali, che controfirma obbligatoriamente a partire da Giustiniano. Questo incarico
gravoso esige una duplice formazione, giuridica e letteraria, tanto in greco quanto in latino. Benché si presuma che i testi di legge siano emanati dall’imperatore in persona, talora presentano uno stile abbastanza caratteristico da permettere, nel corso di un medesimo regno, di distin-
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guere tra i successivi questori [Honoré 326]. In ragione della loro competenza, questori ed ex questori, assistiti da commissioni da essi costituite, sono stati i principali artefici della codificazione, sotto Giustiniano come sotto Teodosio [cfr. p. 94]. Nella sua attività ordinaria, il questore è aiutato solo da un piccolo numero di impiegati provenienti dagli
scrinia imperiali (memoria, libelli e lettere). Consigliere giuridico dell’imperatore, il questore esercita anche, a partire dal v secolo, la suprema giurisdizione d’appello. Quando giudica in nome dell’imperatore, è
quasi sempre in seduta a fianco del prefetto del pretorio.
c. I «comites» finanziari.
Le finanze imperiali, che Costantino aveva separato dalla fiscalità
annonaria, gestita dalla prefettura del pretorio, sono organizzate in due
dipartimenti, Sacre largizioni e Patrimonio privato (res privata). Ciascuno è diretto da un comes (comes sacrarum largitionum e comes rei privatae, indipendente dalla prima metà del iv secolo); alcuni comites delle
largizioni subalterni svolgono, a livello di diocesi, il ruolo di direttori
del Tesoro. Sotto Anastasio viene creato un terzo comes, quello del patrimonium (dipartimento separato dalla res privata), mentre la cassa personale del sovrano (sacella), nella mani del sacellario, dipende in ultima
istanza dal preposito della Camera.
Mentre la fiscalità prefettizia è essenzialmente destinata ai bisogni
correnti dell’esercito e dell’amministrazione, i due comites finanziari hanno per vocazione di provvedere alle spese della Corte e alle iniziative del
sovrano, per esempio l’oro versato ai barbari o le fondazioni monumentali dell’imperatore. Quanto alle risorse, la cassa del Patrimonio privato
è alimentata dalle rendite dei possedimenti della Corona, mentre le largizioni beneficiano di molteplici canoni fiscali, diretti e indiretti.
I beni della Corona [Kaplan 339; Feissel 340; Delmaire 337, pp.
218-33], distribuiti per tutto l’Impero, costituiscono un certo numero
di dipartimenti amministrativi, detti «case divine» (domus divinae), definiti non dalla geografia ma dall’origine dei beni: è il caso dei possedimenti di Arcadia e di quelli di Marina, figlie di Arcadio, gestiti ancora sotto il loro nome due secoli dopo la loro morte. Inizialmente raccordate al Patrimonio privato, le case divine hanno ottenuto autonomia nel corso del vi secolo, in quanto ciascuna era amministrata a partire da Costantinopoli da un curatore di altissimo rango, indipendente
dai propri colleghi così come dal comes rei privatae. Quantomeno sperimentata in modo temporaneo alla metà del vi secolo (Giustino II,
Nov., 1), la gestione centralizzata dell’insieme delle case sotto l’autorità di un sommo curatore, come avverrà nel ix secolo, sembra piutto-
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sto un fenomeno eccezionale in epoca protobizantina. Uno status particolare è riservato ai possedimenti di Cappadocia, sempre parte integrante della res privata, ma le cui rendite sono destinate, a partire dal
regno di Valente, alle spese della Camera imperiale. Da allora, la loro
gestione è incombenza di un eunuco del cubiculum, detto comes delle
case di Cappadocia; nel 535, passa al governatore provinciale. Una tale frammentazione della gestione delle case porta, dopo Giustiniano,
alla sparizione quasi totale della res privata.
L’amministrazione delle largizioni, malgrado la concorrenza crescente di altre istituzioni (prefettura del pretorio e della Città, cubiculum),
conserva fino alla fine dell’Antichità le rendite della fiscalità fondiaria
che le sono proprie (tituli largitionales). Tuttavia, l’abolizione, da parte
di Anastasio, del crisargiro – tassa sulle professioni – contribuisce al declino delle sue risorse, nonostante il trasferimento a suo vantaggio delle rendite del patrimonium. I fondi raccolti in oro e argento, inoltrati
sotto forma di lingotti, alimentano le officine monetarie sotto l’autorità
del comes delle largizioni, appoggiato da procuratori nelle differenti diocesi – ma il conio dell’oro si limita, in Oriente, a Tessalonica e Costantinopoli.
Gli impiegati al servizio dei comites finanziari portano il titolo di palatini. L’officium delle largizioni, il meglio conosciuto, sotto Giustiniano non conta più di 443 posti, esclusi i soprannumerari. Tale effettivo
limitato (paragonabile a quello della piccola prefettura d’Africa) si spiega con l’assenza del servizio giudiziario e, per attenersi alle finanze, col
piccolo numero di palatini in servizio nelle province. Questi ultimi, dal
momento che non hanno il diritto di procedere localmente a esazioni fiscali, di cui è responsabile l’esecutivo provinciale (ossia l’amministrazione prefettizia), hanno un ruolo di controllo e non di riscossione. Altri
funzionari delle largizioni sono responsabili, oltre che delle officine monetarie, delle miniere, delle cave e delle manifatture pubbliche i cui prodotti, come l’oro, il marmo, la seta, la porpora o il papiro, sono oggetto
di un monopolio di Stato. La produzione di argenterie, anche privata,
riceve il marchio del comes delle largizioni a partire dalla fine del v secolo, prima di passare, a quanto sembra, sotto il controllo del prefetto
di Costantinopoli verso la fine del vi secolo.
4.5. L a C a m e r a i m p e r i a l e .
La Camera, o cubiculum, dai tempi di Costantino è gestita esclusivamente per mezzo di eunuchi, i cubiculari (e analogamente da cubicularie per l’imperatrice), assistiti da un personale subalterno non eunuco.
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Il prestigio dei dignitari eunuchi, inizialmente screditati, cresce parallelamente a un’influenza politica che viene innanzitutto incarnata dal
principale tra essi, il praepositus sacri cubiculi. Sempre vicino all’imperatore, al quale si rivolge liberamente, il preposito ha talora un peso decisivo nella nomina degli alti funzionari, se non nella successione imperiale. Può succedere che un preposito (come Eutropio sotto Arcadio), pur
senza assolvere formalmente a funzioni di governo, eserciti in realtà la
conduzione degli affari di Stato. A partire dalla fine del iv secolo, il preposito prende posto, col rango di illustris, tra le prime personalità dello
Stato. La creazione, per Pulcheria, di un secondo preposito connesso all’imperatrice resterà in vigore, senza comportare il raddoppiamento delle altre funzioni del cubiculum. Nel corso del iv secolo sono stati collocati sotto l’autorità del preposito diversi servizi, gli uni propriamente
domestici, altri tendenti a sconfinare negli ambiti di certi dipartimenti
dell’amministrazione. A capo dei servizi interni si trova il castrensis del
Sacro Palazzo, da cui dipendono i paggi, educati presso i paedagogia del
Palazzo, e i servitori di ogni sorta, in particolare relativi alla tavola. Certi cubiculari di alto rango dipendono, allo stesso modo, dal castrensis: il
comes del guardaroba imperiale (comes sacrae vestis) ha nello specifico la
custodia delle insegne imperiali; i tre cartulari, nel vi secolo, redigono
la maggior parte dei codicilli di nomina (in particolare quelli dei governatori) e ricevono a questo titolo delle sportule a tariffa fissa. Il corpo
dei trenta silenziari, capeggiati da tre decurioni, dipende dal preposito;
incaricati dell’organizzazione delle sedute del concistoro e delle udienze, collaborano strettamente col magister officiorum.
Il settore finanziario è quello in cui l’influsso del cubiculum oltrepassa maggiormente i confini del Palazzo: un cubiculario, il comes domorum,
a partire dal regno di Valente gestisce i possedimenti imperiali di Cappadocia, le cui rendite fiscali sono destinate al cubiculum; dalla fine del v
secolo, la cassa personale dell’imperatore, o sacella, è amministrata da un
sacellario, che entra in concorrenza con il comes rei privatae.
5. I quadri territoriali e l’amministrazione locale.
Il territorio dell’Impero presenta, nella sua geografia amministrativa, tre livelli gerarchicamente sovrapposti: città riunite in province, a
loro volta raggruppate, a partire dalla Tetrarchia, in diocesi e, nel corso del iv secolo, in prefetture regionali. Tale suddivisione vale per l’insieme delle funzioni statali, militari e civili. Anche la Chiesa ha plasmato la propria gerarchia sul modello della città e della provincia, ma ha
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cionondimeno sviluppato, a un livello superiore, alcune strutture che le
sono proprie, i patriarcati, la cui mappa non coincide né con quella delle diocesi, né con quella delle prefetture.
La città, agglomerato urbano e territorio secondo la definizione antica, rimane la cellula essenziale dell’Impero protobizantino, per quanto nel suo funzionamento interno e nella sua articolazione si evolva di
pari passo con l’amministrazione centrale. Neppure le strutture statali
sono rigide: la sistemazione delle prefetture regionali si estende per più
di mezzo secolo e il loro numero continua a variare, soprattuto a causa
delle vicissitudini dell’Occidente; al di sotto di esse, il livello diocesano
soffre fin dall’origine di una debolezza strutturale che condurrà quasi
ovunque alla sua sparizione; le circoscrizioni provinciali sono anch’esse
sottoposte a ridefinizioni, spesso accompagnate da un mutamento di status dei loro governatori.
5.1. C i t t à e i s t i t u z i o n i m u n i c i p a l i .
La rete delle città, mosaico di territori municipali confinati da quelli delle città contigue, copre pressappoco l’intera estensione dell’Impero. Tale constatazione è limitata non tanto da alcune eccezioni di portata limitata, quanto dalla densità assai ineguale, da una regione all’altra, del numero delle città. Certo permangono, in alcune province
dall’urbanizzazione tardiva (come la Palestina e l’Arabia), territori dallo statuto non municipale: a fianco di villaggi autonomi o vici (gr. komai), le regiones, i saltus e i tractus (gr. klimata) sono spesso, all’origine,
possedimenti imperiali. Altrove, come in Cappadocia, il territorio della città può includere possedimenti imperiali, senza che ciò metta in causa la separazione tra gestione demaniale e gestione municipale. Dipendono ugualmente dal territorio municipale alcuni villaggi più o meno autonomi, particolarmente in materia fiscale. Se si eccettuano questi casi
particolari, l’Impero d’Oriente annovera in totale, secondo il Synekdemos, 935 città per 64 province, ma il numero delle città e (a contrario)
le dimensioni del loro territorio variano notevolmente a seconda delle
regioni. Il vecchio mondo greco di area egea presenta la più forte concentrazione di città, soprattutto nella provincia di Ellade (Acaia), con
79 città d’importanza, talora, assai modesta. All’opposto, per lungo tempo la Mesopotamia non ha avuto altra città che Amida.
Il regime municipale, pressappoco universale (anche in Egitto, a partire dalla Tetrarchia), è inoltre divenuto sempre più omogeneo. La diversità degli statuti originari ha lasciato ben poche tracce che non siano
puramente formali, ma questa uniformità crescente non ha fatto scom-
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parire un vivo sentimento di fierezza poliade, tratto permanente delle
comunità greche, fondato sulla memoria di tradizioni locali (attraverso
una letteratura mitologica di Patria, parallelamente a un’agiografia cristiana di stampo campanilistico) e sulle tenaci rivalità fra centri di una
medesima provincia. Tali tratti si riflettono, come nel passato, nella titolatura ufficiale delle città. Lo statuto di colonia romana non è più stato conferito dopo il iii secolo, ma le città che se lo possono permettere
inalberano il titolo di colonia ancora nel v secolo (Tiro), nel vi (Petra),
addirittura nel vii dopo la conquista araba (Gadara); tale statuto coloniale non è solamente nominale, giacché due magistrature caratteristiche, il duumvirato (detto «strategia») e la questura, persistono in Oriente ancora nel v secolo. Una gradazione di titoli onorifici viene applicata alle città come alle persone: molte sono dette «brillanti», alcune
«splendide», mentre invece il titolo di megalopolis, oltre che per Roma
e Costantinopoli, è impiegato regolarmente solo per Antiochia e Alessandria. Numerose città aggiungono, almeno temporaneamente, un nome d’imperatore o d’imperatrice al loro nome tradizionale (si conoscono una trentina di Giustinianopoli). Lo status più ambito, il cui interesse risulta più tangibile, è tuttavia quello di metropoli provinciale, che
comporta la residenza del governatore e quella dell’arcivescovo metropolitano. In mancanza di tali vantaggi, le metropoli onorarie, che si erano moltiplicate nel corso del principato, cercano una nuova forma d’indipendenza nelle istituzioni della Chiesa: ottenendo il rango di arcivescovato onorario (senza vescovi suffraganei), certe città arrivano, nel
corso del v secolo, ad affrancarsi dalla tutela del metropolita provinciale – preludio, in qualche raro caso, alla creazione di una nuova provincia ecclesiastica, che non comporta la divisione della provincia civile.
Pur cosciente della propria identità, la città protobizantina è nondimeno integrata in un sistema amministrativo che la trascende. Il suo funzionamento non è più quello di un’entità politica autonoma (malgrado le
illusioni alimentate dalla retorica), ma di un organo di gestione locale posto sotto la tutela del potere centrale. La città, comunque, non è amministrata da funzionari statali: le élites municipali, non senza una serie di
sensibili cambiamenti dal iv al vii secolo, rimangono, a livello locale, un
sostegno indispensabile del governo imperiale. Il declino delle istituzioni urbane tradizionali, con il loro variegato apparato di assemblee e magistrature di origine greca o romana, sotto l’accresciuta pressione del potere centrale lascia il posto a un quadro più uniforme e più rigido: l’élite
locale assume una responsabilità collettiva nei confronti dello Stato, mentre le antiche magistrature lasciano il campo (senza necessariamente mutare di nome) a incarichi obbligatori, i munera o liturgie.
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Dal momento che l’assemblea popolare svolge un ruolo poco più che
cerimoniale, l’organo dirigente della città è il suo consiglio, la curia o
bulè, costituita a seconda dei casi da qualche dozzina o centinaio di curiali (i decurioni o buleuti), il cui organico è dominato da un piccolo gruppo di «maggiorenti». La legislazione si preoccupa di assicurare la stabilità delle curie, impedendo o limitando l’accesso dei loro membri alle
condizioni privilegiate dei senatori o degli ecclesiastici. Il corpo ereditario dei curiali ha infatti per funzione primaria quella di garantire l’esazione delle tasse, di cui è responsabile nei confronti dello Stato, e ne
affida l’incarico a esattori (exactores) provenienti dai suoi ranghi.
Le cariche municipali sono assunte a turno da cittadini eletti. La città
continua in effetti a gestire, malgrado la confisca nel iv secolo di una
gran parte dei suoi beni (a profitto della res privata), quella parte di introiti fiscali che è destinata dallo Stato ai bisogni della vita urbana: edifici, bagni, spettacoli, approvvigionamenti ecc. Più che al pritano o presidente della curia, la gestione municipale incombe soprattutto su due
magistrati, il curator e il pater civitatis. Non più rappresentante dello Stato, come un tempo il curator rei publicae, ma eletto localmente, il curatore della città è un ispettore finanziario (gr. logistes), responsabile tra
l’altro dei mercati. Il padre della città, che condivide con il curator la gestione dei fondi civici (ed è talvolta erroneamente confuso con lui), è
per parte sua un amministratore locale incaricato dei lavori pubblici, con
responsabilità aggiuntive come quella dei magazzini di armi. L’acquisto
pubblico del grano spetta al sitones, altra carica elettiva di origine assai
antica; diverse liturgie hanno per oggetto, in particolare, gli spettacoli.
A fianco di tali amministratori, la funzione giudiziaria del defensor civitatis (gr. ekdikos) è una creazione di Valente, mirante ad affidare a un
magistrato eletto localmente la risoluzione delle controversie minori.
Giustiniano, nel 535, riforma l’istituzione nell’intento di ripristinare
l’indipendenza del difensore della città nei riguardi dei governatori; in
carica per due anni, è adesso eletto, seguendo un sistema originale di rotazione prestabilita, tra tutti i cittadini, senza immunità di rango né di
funzione nello Stato (Nov., 15). Sempre di più infatti, a partire dal v secolo, le cariche municipali hanno cessato di gravare unicamente sulle curie per divenire appannaggio di un’élite sociale più elevata, quella dei
proprietari terrieri, i possessores (gr. ktetores), in cui lo Stato trova le migliori garanzie d’esecuzione degli obblighi pubblici. Spesso senatori, e
a questo titolo personalmente affrancati dalla condizione curiale e dai
suoi obblighi, i grandi proprietari sono nondimeno debitori dei munera
connessi al loro patrimonio.
A fianco di tali responsabilità laiche, che non costituiscono tanto un
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contrappeso quanto un sostegno del potere centrale, l’equilibrio delle
istituzioni municipali è profondamente modificato dal peso crescente
dell’istituzione episcopale. Dal momento che la Chiesa fonda la propria
gerarchia sulla rete delle città, ciascuna di esse ha di norma un vescovo,
la cui elezione vede associati i laici con il clero. Di rimando, il vescovo
e il clero partecipano alla scelta dei locali magistrati elettivi. Avendo a
sua disposizione, indipendentemente dalle istituzioni e dalle finanze civiche, risorse e servizi propri alla propria Chiesa, il vescovo esercita grazie al proprio programma edilizio un ruolo decisivo nella cristianizzazione dello spazio urbano; oltre alle fondazioni religiose, coopera con il «padre della città» in ogni sorta di lavoro pubblico. Intercessore naturale
della città nei confronti del potere imperiale, sa ottenere in caso di necessità esenzioni o sovvenzioni. D’altro canto, la legislazione imperiale
gli riconosce una giurisdizione (l’episcopalis audientia) che non si limita
alle questioni canoniche. Quando, nel vii secolo, il declino delle élites e
delle istituzioni municipali diviene inarrestabile, il vescovo è da molto
tempo in grado di prenderne il posto.
5.2. P r o v i n c e e g o v e r n a t o r i .
Data l’assenza di funzionari a livello municipale, l’azione dello Stato si esercita direttamente sul piano delle province. La ristrutturazione
territoriale operata da Diocleziano ha più che raddoppiato il numero delle province rispetto a prima: più di un centinaio per tutto l’Impero, di
cui una sessantina in Oriente. La suddivisione tetrarchica, fino a Eraclio, non è stata sottoposta a rimaneggiamenti d’importanza capitale.
Alcune province sono state, tuttavia, nuovamente suddivise: da sei province al tempo della Notitia, la diocesi d’Egitto passa a dieci alla fine del
vi secolo [Giorgio Ciprio 107]. Altre, più raramente, sono riunificate,
come l’Onoriade e la Paflagonia sotto Giustiniano (Nov., 29).
Diocleziano, inoltre, ha messo fine alla distinzione tra le province
imperiali e quelle cosiddette «del popolo romano»: tutti i governatori,
adesso, sono funzionari imperiali e tutti, allo stesso modo, saranno presto senatori. Le province, d’altro canto, non hanno tutte la medesima
condizione e amministrazione. Il loro rango è differente, a seconda della dignità connessa ai loro rispettivi governatori. Soprattutto, si distinguono per la presenza o assenza di un governatore militare e per la relazione che tale governatore mantiene con il potere civile. A tal riguardo, il quadro offerto dalla Notitia Dignitatum ha subito alcuni ritocchi
nel v secolo, ma l’evoluzione è percepibile soprattutto a partire da Giustiniano.
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La distinzione tra il titolo di praeses o quello, di poco superiore, di
consularis ha cessato di corrispondere, nel corso del iv secolo, a una divisione tra ordine equestre (assai ridimensionato) e senatorio. Praesides
e consolari sono senatori di rango modesto, semplici clarissimi. Tuttavia, un consolare conferisce alla propria provincia una certa distinzione
e il numero di province di tale rango si accresce progressivamente. In
compenso, si fa in modo che le province aventi a proprio capo un proconsole, cui il rango di spectabilis conferisce una giurisdizione d’appello, rimangano piuttosto rare: oltre ai tradizionali proconsolati d’Asia e
d’Africa, al proconsolato d’Acaia istituito da Costantino e all’esperienza passeggera di un proconsolato di Palestina (verso la fine del iv secolo), è solo con Giustiniano che si moltiplicherà il numero di governatori spectabiles.
Al di fuori delle province confinarie (designate col nome di limes),
dove l’esercito di guarnigione è normalmente comandato e amministrato da un dux, i governatori militari sono presenti solo in province soggette a un banditismo cronico: sul modello dell’Isauria, in Panfilia, Pisidia e Licaonia vengono creati dei comites militari nel corso del v secolo. I due governatori civile e militare, in caso di coabitazione, non sono
su un piano di parità. Innalzati dalla fine del iv secolo al rango di spectabiles, i duces hanno una condizione superiore a quella dei loro colleghi
civili e la preponderanza è resa tanto più sensibile in quanto la competenza ducale si estende a più di una provincia: le tre Palestine formano
un solo limes e anche l’Egitto annovera meno duces che province. D’altra parte, i due poteri sono stati, in certe province, riuniti per tempo
nelle mani di una sola persona: il comes d’Isauria, per esempio, cumula
funzioni civili e militari. L’intreccio tra queste due branche del governo è tanto più stretto in quanto il dux gestisce una parte importante delle finanze provinciali, destinate alle spese militari, e la sua giurisdizione non si limita agli affari militari.
Un riequilibrio di tale complesso sistema ha luogo sotto Giustiniano, che con una serie di leggi nel 535-36 (e, per l’Egitto, con l’editto
XIII nel 539) riforma l’amministrazione provinciale, elevando la condizione di varie province distribuite in diverse regioni dell’Impero. Tale promozione si esplica nell’attribuzione a una dozzina di province di
un governatore di rango spectabilis, che porta il titolo di proconsole
(Cappadocia I, Armenia I e III, Palestina, e anche Creta) o altre denominazioni più o meno innovative (comes, moderator, praetor). Lo scopo
della riforma provinciale (inseparabile dalla contemporanea riforma delle istituzioni sovraprovinciali e dall’abolizione, almeno temporanea, dei
vicariati della prefettura d’Oriente) è di migliorare al contempo il fun-
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zionamento della giustizia e la coordinazione delle funzioni civili e militari.
Nella piramide delle istituzioni giudiziarie, praesides e consolari non
giudicano che in prima istanza, e solo i governatori di rango spectabilis
(unicamente i proconsoli, prima di Giustiniano) esercitano una giurisdizione d’appello su province differenti dalla propria. Giustiniano, moltiplicando le corti d’appello e limitandone la competenza a un piccolo
numero di province (al posto delle vaste diocesi precedentemente sottoposte alla giurisdizione dei vicari), intende avvicinare il giudice alle parti in causa e alleggerire il carico dei tribunali della capitale.
D’altra parte, i nuovi governatori di rango spectabilis cumulano funzioni civili e militari (come in Tracia, in Cappadocia e nei cinque «ducati» egiziani istituiti dall’editto XIII), o sono posti su un livello di parità con il dux locale (come nella Palestina I). Tale cumulazione istituzionalizzata rimette in causa il principio di separazione tra amministrazione civile e militare, in vigore dal tempo di Diocleziano. Gli sforzi di
Giustiniano per rimediare alla perdita di prestigio dei governatori civili hanno avuto per effetto paradossale quello di comportare, in numerose province, la sparizione di questi ultimi.
5.3. Le circoscrizioni sovraprovinciali: diocesi e prefetture.
La divisione delle grandi province ereditate dal principato, di cui
Diocleziano aveva pressoché raddoppiato il numero, fu compensata, al
più tardi sotto Costantino, dalla creazione delle diocesi, nuove entità
regionali, ciascuna delle quali ricopriva un importante insieme di province: undici, per esempio, per la diocesi asiatica, altrettante per la diocesi del Ponto. La geografia diocesana ha conosciuto solo un cambiamento di grande importanza, quando sotto Valente le province d’Egitto hanno formato, sotto questo nome, una diocesi nuova, separata dalla
troppo vasta diocesi d’Oriente che conta ancora, dopo questa data, quindici province.
L’amministrazione diocesana, giustamente qualificata come mediana (administratio media), serve da anello di congiunzione tra le province
e l’amministrazione centrale, civile e, all’occorrenza, militare: il vicario
della prefettura del pretorio (chiamato comes d’Oriente ad Antiochia,
prefetto augustale ad Alessandria) controlla i governatori provinciali della propria diocesi, mentre ad Antiochia un magister militum diocesano
ha autorità sopra i duces del proprio ambito territoriale. L’unica a sfuggire al rigido quadro di diocesi e prefetture è la geografia ecclesiastica,
basata sull’organizzazione delle province, ma le cui strutture sovrapro-
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vinciali, i patriarcati, talora coincidono con una diocesi (Alessandria),
talaltra invece risultano dalla sua divisione (l’Oriente diviso tra Antiochia e Gerusalemme) o dalla riunione di alcune di esse (Tracia, Asia e
Ponto sotto Costantinopoli).
Il vicario di una diocesi, elevato dalla fine del iv secolo al rango di
spectabilis, è superiore di diritto ai governatori del suo territorio, con
l’eccezione dei proconsoli, la cui provincia è sottratta alla sua competenza. Le sentenze emesse in prima istanza dai governatori sono suscettibili di appello presso il vicario. La moltiplicazione dei governatori spectabiles, sotto Giustiniano, avrà logicamente per corollario l’abolizione
del vicariato.
Dal punto di vista storico, le diocesi, malgrado le apparenze, non derivano affatto dalla suddivisione di prefetture preesistenti. Inizialmente, hanno costituito il solo aggancio sul territorio di un’istituzione prefettizia concepita ancora come indivisibile, nonostante la molteplicità
dei prefetti. La suddivisione dell’Impero in quattro ambiti prefettizi,
due in Oriente e due in Occidente (da Zosimo anacronisticamente attribuita a Costantino), ha luogo solo, dopo alcune incertezze, nell’ultimo terzo del iv secolo. Prima di divenire territoriale, la prefettura ha
conosciuto infatti alcune vicissitudini legate alle spartizioni successive
del potere imperiale. Sotto la Tetrarchia, i due augusti hanno un prefetto ciascuno. Il loro numero cresce, variando a seconda delle circostanze, sotto Costantino e i suoi figli: si contano cinque prefetti nel 336, tre
nel 341. L’ambito di ciascuno di essi coincide ancora con quello di un
augusto o di un cesare; se si eccettua l’esperienza temporanea di una prefettura d’Africa sotto Costantino, è solamente con Valente che s’impone la costituzione delle prefetture regionali. Dopo il 395, la divisione
dell’Impero e la spartizione dell’Illirico conducono alle quattro prefetture della Notitia Dignitatum, sistema che rimarrà stabile per più di un
secolo: da una parte il prefetto d’Italia-Illirico-Africa avente come collega il prefetto delle Gallie, dall’altra il prefetto d’Oriente con un collega di minor importanza, il prefetto dell’Illirico (orientale). La prefettura d’Oriente, all’inizio itinerante come l’imperatore, si stabilisce a Costantinopoli; quella dell’Illirico orientale avrà come capitale Sirmio, poi
Tessalonica. Se si eccettua la divisione dell’Illirico, la mappa delle prefetture porta il marchio durevole della spartizione dell’Impero tra i figli di Costantino: l’immensa prefettura d’Oriente (ivi compresa la diocesi di Tracia) coincide con la parte che allora era stata assegnata a Costanzo II. Tale geografia non subirà variazioni prima di Giustiniano, che
crea due nuove prefetture. L’Africa riconquistata, un tempo connessa
alla prefettura d’Italia, diviene nel 533 una prefettura autonoma. Nel
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536, infine, cinque province separate da differenti diocesi (Tracia, Asia,
Oriente) costituiscono una prefettura separata, sotto l’autorità del quaestor exercitus (chiamato anche prefetto delle Isole perché il territorio di
sua competenza comprende Cipro e le Cicladi). Dal momento che la prefettura delle Gallie aveva cessato di esistere dal 534, l’Impero annovera allora cinque prefetture (Oriente, Illirico, Italia, Africa e Isole). Tale mappa resterà immutata fino alla sparizione del sistema prefettizio,
verso la metà del vii secolo. Il declino di tale istituzione basilare dell’amministrazione protobizantina inizia tuttavia a partire dalla fine del
vi secolo nelle prefetture periferiche d’Italia e d’Africa, dove la creazione dell’esarca, suprema autorità militare e civile, relega in secondo piano il ruolo del prefetto.
Tutte queste riforme amministrative cercano di adattare, non di
smantellare, un sistema provinciale contemporaneamente stabile e flessibile, destinato a sparire solo dopo Eraclio. Certo, le imperfezioni di
tale costruzione si esplicano in difficoltà di funzionamento (giurisdizione d’appello, articolazione delle amministrazioni civili e militari), ma
non si tratta di un sistema in crisi perenne. In tempo di pace, e fino alle catastrofi del vii secolo, l’amministrazione imperiale ha funzionato
regolarmente, con l’appoggio di una rete di città divenuta omogenea (al
termine di numerosi secoli d’integrazione romana) e di strutture unificanti rafforzate, ossia il sistema prefettizio, principale ossatura dell’amministrazione protobizantina, che compensa con il suo ruolo centralizzante l’apparente frammentazione della mappa delle province. Quando
la prefettura scompare, alla metà del vii secolo, contemporaneamente
crolla il sistema municipale e provinciale dell’Antichità, e lo Stato bizantino inizia una profonda ristrutturazione.
1
m. amelotti, Scritti teologici ed ecclesiastici di Giustiniano, Milano 1977.
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bernard flusin
iv. Le strutture della Chiesa imperiale
Nel momento in cui Costantino legalizza, e poi favorisce, la Chiesa
cristiana, quest’ultima esiste già da tre secoli ed essenzialmente ha una
fisionomia già definita; tuttavia, la nuova condizione comporta alcune
profonde mutazioni. La Chiesa entra in simbiosi con un Impero la cui
conversione al cristianesimo pare provvidenziale. I cambiamenti riguardano tanto la Chiesa locale, che si confonde con la città, quanto la Chiesa universale, i cui organi centrali si sviluppano, per arrivare sotto Giustiniano, se non a un equilibrio, almeno alla piena maturazione di istituzioni durevoli, che fungeranno da punto di riferimento per tutto il
periodo bizantino.
i. il vescovo, la sua chiesa, la sua città.
La Chiesa locale, intorno al suo vescovo, è la cellula fondamentale
della Chiesa cristiana. La sua struttura è ereditata dai secoli passati, ma
è soggetta a trasformazioni. La condizione degli ecclesiastici e dei beni
della Chiesa è adesso determinata dalla legge. Il vescovo svolge un ruolo sempre più importante in una città la cui popolazione è largamente
divenuta cristiana, e le autorità imperiali prendono l’abitudine di rivolgersi a lui per compiti amministrativi.
1. Chiesa locale e città.
Nella parte orientale dell’Impero, vescovati e città tendono a corrispondere: i padri di Calcedonia decidono che la geografia ecclesiastica
terrà conto delle città create ex novo (canone 17) e una legge di Zenone (CI, 1.3.35) prevede che ogni città, antica o recente, debba avere il
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proprio vescovo. L’evoluzione è conclusa alla fine del v secolo, e le eccezioni sono poco numerose.
Un vescovo può avere autorità su più città: è il caso della Scizia, le
cui città dipendono dal vescovo di Tomi, o di Mitilene. Più frequentemente, alcuni vescovati non corrispondono a città, ma a saltus, regiones
e, per esempio in Arabia, a villaggi. In altri casi, capita che due vescovi
si spartiscano il territorio di una città: così a Gaza, dove Maiuma, il porto cittadino, ha il proprio vescovo. I vescovi, insediati in città, possono
essere assistiti per la chora da corepiscopi, che firmano ancora a proprio
nome nel concilio di Nicea, ma che, a Calcedonia, sono ormai soltanto
i delegati dei rispettivi vescovi. I loro poteri episcopali sono limitati (non
possono ordinare i gradi maggiori del sacerdozio) e non li esercitano che
per delega. Benché in alcune regioni siano stati rimpiazzati da periodeuti (preti itineranti), sono ancora attestati alla fine del periodo [Feissel
359].
2. Laici e chierici.
Ciascuna Chiesa locale forma un’unità che comprende laici e chierici. Tale distinzione, ben stabilita nel iii secolo, si rafforza nel iv e conduce a una clericalizzazione della Chiesa.
I laici sono definiti per negazione come i cristiani che non sono ecclesiastici. Esclusi dall’amministrazione dei sacramenti (eccetto il battesimo in caso di necessità), lo sono anche, perlopiù, dall’insegnamento
e dalla predicazione. Hanno un ruolo nell’elezione dei vescovi e certuni di essi possono prender parte a concili, ma sono tenuti al di fuori della gestione della Chiesa. Alcuni gruppi di laici, un tempo ben attestati,
tendono a declinare: è il caso delle vergini e delle vedove organizzate,
di cui le prime si fondono nell’istituzione monastica, mentre le seconde
perdono spesso la propria importanza. Tuttavia, si registra l’apparizione di confraternite di laici, spesso in prossimità di un santuario, che raggruppano i philoponoi («laboriosi») o spoudaioi («zelanti»)1. Soprattutto il monachesimo, in grande sviluppo all’epoca, è un fenomeno essenzialmente laico. La sua importanza induce a studiarlo a parte [cfr. cap.
viii].
Il clero è gerarchizzato in diversi gruppi, a seconda delle funzioni di
ciascuno nel corso della liturgia eucaristica. Essenzialmente, comprende tre ordini di chierici maggiori: il vescovo (episkopos = sorvegliante),
che presiede l’eucaristia e insegna; il collegio dei presbiteri (presbyteroi
= anziani) che l’assistono e ai quali, dopoché i luoghi di culto si sono
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moltiplicati, il vescovo delega le proprie funzioni nella liturgia; i diaconi (diakonoi = servitori), che svolgono diversi servizi, si rivolgono al popolo nel corso della liturgia e fanno alcune letture. I chierici minori sono meno nettamente definiti e meno distinti dai laici. Esistono differenze regionali, ma si trovano in generale suddiaconi, lettori (incaricati
di diverse letture durante la liturgia – ma quella, prestigiosa, del Vangelo è riservata ai chierici maggiori), cantori. Si possono loro associare
le diaconesse e gli uscieri.
I chierici hanno una condizione particolare che le leggi della Chiesa
e dell’Impero definiscono con maggior rigore nel iv secolo, e che vale
soprattutto per i primi ordini. Il clero cristiano è esclusivamente maschile. Reclutato in tutte le classi della società, con restrizioni (a seconda
delle epoche) per i coloni, gli schiavi e i curiali, deve rispondere a certi
criteri d’età, di moralità e talvolta di cultura, differenti a seconda del
grado. Scelti e ordinati dal vescovo, vivono delle rendite della Chiesa,
anche se i chierici subalterni possono esercitare un mestiere [Herman
362-63]. Un chierico può essere deposto, e in tal caso ritorna un semplice laico.
A partire da Costantino, la legislazione ha conferito agli ecclesiastici alcuni privilegi, come la dispensa dagli incarichi curiali; tuttavia, per
evitare la diserzione dalle curie, si proibisce ai curiali di entrare nel clero. Un curiale può comunque farsi ordinare se trova chi prenda il suo
posto o se cede una parte del proprio patrimonio a profitto della curia.
Il clero ha anche alcuni privilegi fiscali. Nel 346, Costanzo II lo dispensa da tutti i sordida munera nonché dall’imposta fondiaria. È lo stesso
imperatore ad abolire quest’ultima misura e i suoi successori limitano le
esenzioni concernenti i sordida munera. L’esenzione dalla collatio lustralis concerne soprattutto i chierici inferiori, che esercitano un mestiere.
I membri del clero beneficiano del foro ecclesiastico, ossia del privilegio di essere giudicati, in alcuni casi, da un tribunale ecclesiastico; la
legge in merito subisce variazioni a seconda delle epoche. Da Costantino a Marciano, si tende a ridurre tale privilegio alle cause ecclesiastiche.
In seguito, la Chiesa proibisce ai chierici di rivolgersi ai tribunali civili,
mentre Giustiniano ordina a chiunque intenti un processo a un membro
del clero di rivolgersi in primo luogo al vescovo.
Costantino stabilisce inoltre una rendita annuale a beneficio degli
ecclesiastici, abolita da Giuliano e poi ristabilita da Gioviano, che tuttavia la diminuisce sensibilmente.
I chierici sono ugualmente sottoposti ad alcune obligationes che li distinguono e che li qualificano per le loro funzioni liturgiche e amministrative. Devono astenersi dal comparire in alcuni luoghi pubblici, dal
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partecipare alle celebrazioni profane come le feste di matrimonio, dal
leggere libri pagani o eretici. Progressivamente, ai chierici maggiori vengono proibiti – talora senza successo – il commercio e l’artigianato [Herman 363]. La questione della condizione matrimoniale degli ecclesiastici acquista importanza a partire dal iv secolo, soprattutto per i primi ordini [Gryson 360].
Il principio è che si può ordinare vescovo, sacerdote o diacono qualunque uomo celibe o sposato una sola volta con una donna che non si
sia per parte sua sposata più di una volta. A partire dall’inizio del iv secolo, si vede attestarsi il costume di proibire ai vescovi e ai sacerdoti, e
poi ai diaconi, di sposarsi dopo la propria ordinazione. Tale proibizione, non uniformemente seguita, è reiterata al concilio in Trullo del 692.
Riguardo alla consumazione del matrimonio, originariamente non era
contemplata alcuna restrizione per i chierici, che dovevano semplicemente astenersi dai rapporti sessuali alla vigilia di una celebrazione eucaristica. Il quinto dei canoni apostolici scomunica il diacono, sacerdote o vescovo che ripudierà la propria moglie con il pretesto della religione. Emergono tuttavia due tendenze, una più lassista e l’altra più
rigorista, che, come in Occidente, vede un’incompatibilità tra matrimonio e sacerdozio. La legislazione giustinianea pone un punto fermo proibendo al vescovo di condurre una vita coniugale.
3. Il vescovo.
Nel clero così definito, ciascun ordine ha le proprie caratteristiche.
Il vescovo [Hohlweg 364, Lizzi 366, Noethlichs 369] è il capo della Chiesa locale, di cui ha la responsabilità spirituale e materiale. I suoi compiti gestionali divengono più pesanti e il potere centrale prende l’abitudine di affidargli responsabilità sempre più importanti.
Il corpo episcopale, numeroso nell’Impero d’Oriente (le 900 città di
Ierocle, nel vi secolo, hanno ciascuna, di norma, il proprio vescovo), viene reclutato con modalità che variano a seconda delle epoche. Dal momento che i trasferimenti sono rari e soggetti a proibizioni, quando una
sede è vacante vi si provvede tramite un’elezione, cui partecipano il clero e il popolo (in realtà, i cittadini più importanti) della città in questione; il metropolita, con la partecipazione o l’accordo degli altri vescovi
della provincia, ordina il nuovo vescovo.
Sotto Anastasio, le regole dell’elezione vengono precisate: il clero e il
popolo della città propongono tre candidati, tra i quali il metropolita compie la sua scelta. La legislazione di Giustiniano conferma tale pratica, pur
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prevedendo alcune eccezioni. Numerose novelle di Giustiniano precisano che i candidati all’episcopato devono essere ortodossi e di buoni costumi, saper leggere e scrivere, avere una pratica della liturgia, avere almeno 35 anni di età (limite abbassato a 30 nel 565). Non devono avere
né moglie né figli, oppure, nel caso siano sposati, devono separarsi dalla
propria consorte. Tale regola stabilita da Giustiniano, che verrà reiterata dal concilio in Trullo (692), è una novità: nel iv e v secolo i vescovi
sposati e padri di famiglia non sono rari, benché in alcune regioni come
l’Egitto l’usanza possa essere stata più restrittiva.
Il vescovo è inamovibile, ma può essere deposto sia da un concilio,
sia dall’imperatore. Si conosce il caso di alcuni vescovi deposti che tornano nella loro città e riprendono le proprie funzioni senza una nuova
ordinazione.
Il vescovo, che riceve come salario una parte degli introiti della propria Chiesa, ha una rendita variabile a seconda della sede che occupa
[ Jones 365 e 149]. In Isauria è noto che un vescovo riceveva solo 6 nomismata l’anno. In genere, tuttavia, anche quando non si parla di sedi
molto importanti, un vescovo è ben pagato: 365 nomismata l’anno per
Teodoro di Siceone, vescovo della modesta città di Anastasiopoli [cfr.
infra, § 5].
Prestigiosa e spesso provvista di un cospicuo appannaggio, la funzione episcopale suscita ambizioni e competizioni. I vescovi fino al vi secolo possono essere reclutati tra i laici della classe media, ma è sempre
più frequente che siano scelti tra i membri del clero e i monaci (questi
ultimi celibi per definizione).
Il vescovo, capo spirituale della sua Chiesa, insegna, battezza, celebra l’eucaristia, scomunica, riconcilia i penitenti. Sceglie e ordina i chierici e li può deporre. Provvede inoltre a un numero sempre maggiore di
responsabilità amministrative. Con l’aiuto di un economo – la cui presenza è obbligatoria a partire dal concilio di Calcedonia – gestisce i beni della propria Chiesa e dirige le attività caritatevoli. Il suo potere si
estende anche, indirettamente, alle fondazioni private e ai monasteri
della propria diocesi. A partire da Costantino, dispone di poteri giudiziari, essenzialmente nelle questioni che coinvolgono membri del clero;
il suo tribunale, tuttavia, può anche svolgere arbitrati tra laici, se le due
parti sono d’accordo, e tale procedura sembra aver conosciuto un certo
successo [Cimma 354].
Il vescovo, inoltre, si vede dotare d’importanti competenze civili da
parte del potere statale, che trova in lui un punto d’appoggio comodo e
stabile. Insieme agli honorati, sorveglia le finanze della città, sceglie diversi funzionari municipali, supervisiona le loro attività, può interveni-
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re contro gli abusi dei funzionari imperiali. La sua attività di magistrato cittadino si estende agli edifici pubblici, acquedotti, bagni e bastioni [Avraméa 351]. Veglia sull’approvvigionamento della città, ha un ruolo nel controllo dei pesi e delle misure. In Africa [Durliat 357] e nell’Italia riconquistata tale evoluzione è netta, in seguito alla Prammatica
Sanzione del 554, certe disposizioni della quale saranno conseguentemente applicate al resto dell’Impero.
Il vescovo s’impone così, alla fine del periodo considerato, come il
primo dei notabili di una città che si riconosce in lui e vi ricorre volentieri in caso di crisi.
4. Sacerdoti, diaconi, chierici subalterni.
Il clero della Chiesa locale forma un insieme diversificato e gerarchizzato. Differenze considerevoli sono create dall’appartenenza ai diversi gradi del sacerdozio, ma anche dalle competenze e dalle assegnazioni amministrative. Alla semplicità iniziale – un vescovo col suo clero, una chiesa – si sostituisce una situazione più complessa. Le chiese
che dipendono direttamente dal vescovo, dette «cattoliche», si moltiplicano, mentre contemporaneamente si moltiplicano altre chiese di fondazione privata [Thomas 372], che, senza sfuggire all’autorità del vescovo ordinario, hanno proprie rendite e un proprio clero.
La situazione degli appartenenti al clero della cattedrale (la «grande
chiesa» della città) dipende dalla ricchezza della sede, ma generalmente è tanto buona da farvi bramare un posto di prete o diacono. Non è
esattamente così per le fondazioni private, che possono avere rendite
modeste. È il caso delle chiese rurali – chiese di villaggi o latifondi –,
dove i membri del clero possono essere, come permesso dalla legge a partire da Giustiniano, schiavi o coloni.
Nelle chiese importanti – soprattutto la cattedrale – i differenti collegi sono gerarchizzati, per esempio quello dei preti, con alla sua testa
un «protopapa», e quello dei diaconi con l’arcidiacono. Se i preti hanno la precedenza sui diaconi, le responsabilità amministrative di questi ultimi possono essere più importanti. Il peso crescente dell’amministrazione conduce di pari passo alla moltiplicazione degli officia [Darrouzès 387] nell’entourage del vescovo, dove si trovano, oltre l’economo, alcuni chierici incaricati di affari giudiziari o di operazioni di polizia (ekdikoi = defensores), della cancelleria (chartophylax, cartulario,
notarioi), della custodia delle suppellettili sacre e del tesoro della Chiesa (skeuophylax).
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I chierici minori talora si distinguono poco dai laici. Le diaconesse
[Martimort 367], unico elemento femminile che si possa riconnettere al
clero cristiano, sono annoverate tra di essi in alcuni documenti: ordinate tramite l’imposizione della mani, sono in particolare incaricate dell’unzione delle femmine in occasione del battesimo e sorvegliano l’accesso alla chiesa dal lato delle donne. Oltre ai chierici minori, esiste tutto un personale impiegato dalla Chiesa: è il caso dei becchini, incaricati
delle sepolture, talora gratuite come a Costantinopoli, o dei parabalanoi,
personale ospedaliero della Chiesa di Alessandria.
Il clero delle Chiese può essere stato assai numeroso. A Edessa, nel
v secolo, il vescovo Iba parla di duecento chierici: si tratta di una metropoli, e il numero vale per l’insieme degli ecclesiastici, dal momento
che il solo clero della chiesa episcopale annoverava, intorno alla medesima epoca, 14 preti, 37 diaconi, 23 suddiaconi e un lettore. La Chiesa
di Costantinopoli rappresenta, si vedrà, un caso limite.
5. Finanze e beni della Chiesa.
I beni delle Chiese [ Jones 365], attestati dal iii secolo, si sviluppano
rapidamente sotto l’Impero cristiano. Hanno essenzialmente tre origini: innanzitutto le offerte dei fedeli, contribuzioni volontarie – tutti i
tentativi d’imporre donazioni forzate sono combattuti dalla legge – sovente costituite da modesti doni in natura, ma anche da donazioni importanti: liberalità imperiali, che si distinguono a fatica da un finanziamento di Stato, o cessione, da parte di dame della classe senatoria come Olimpiade a Costantinopoli2 o Melania la Giovane3, di immense
fortune a profitto di una o più Chiese. Tali donazioni possono essere
fatte quando il donatore è ancora vivo, ma la Chiesa, che ne ha la capacità dal 321, accetta anche legati testamentari. Le liberalità di Stato sono una seconda fonte di reddito, sia che si tratti di esenzioni fiscali, o
del canone annuale versato dai governatori provinciali alle Chiese dai
tempi di Costantino, o anche di risorse fiscali attribuite ad alcune Chiese, come a quella di Costantinopoli per i seppellimenti [Dagron 356].
Infine, una terza fonte di reddito è in costante aumento: si tratta degli
introiti derivanti dalle proprietà della Chiesa, perlopiù agricole, ma costituite anche da immobili urbani, mulini, laboratori [Wipszycka 378].
I beni della Chiesa fanno capo a tipologie differenti. Possono essere
gestiti direttamente dal vescovo e dal clero che lo assiste; le fondazioni
private, tuttavia, benché siano poste sotto la responsabilità del vescovo, hanno la loro autonomia finanziaria e amministrativa: dotate dal lo-
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ro fondatore di una rendita regolare, hanno il proprio clero e il proprio
personale. Se sono in deficit, divengono un gravame per le Chiese locali: pertanto la legislazione imperiale insiste affinché i loro fondatori le
forniscano di appannaggi sufficienti e incoraggia le rifondazioni piuttosto che le nuove fondazioni. Quest’insieme di beni è tutelato: la legge
vigila affinché siano distinti dai beni dei vescovi e, soprattutto, nel vi
secolo sono divenuti inalienabili.
A partire dal 470, una legge di Leone I proibisce vendite, doni e permute per i beni della Chiesa di Costantinopoli. Anastasio estende tali
disposizioni a tutto il patriarcato di Costantinopoli, salvo per ragioni valide e debitamente constatate. Giustiniano torna alla legge di Leone, che
estende a tutto l’Impero; concederà però qualche eccezione.
Abbiamo pochi dati numerici sul patrimonio delle Chiese prima del
vi secolo. Alla fine del iv, Giovanni Crisostomo osserva che la Chiesa
di Antiochia è al livello di un grande proprietario di tale città, ma non
uno dei più ricchi. Nel vi secolo, la Chiesa di Ermopoli in Egitto è nella medesima situazione: la sua tassazione mostra che essa è uno dei grandi proprietari fondiari della città, ma è superata da alcuni privati4. Una
legge di Giustiniano (Nov., 123) che regola i contributi pagati abitualmente dai vescovi al momento della propria ordinazione ai vescovi e ai
chierici che vi partecipano (enthroniastica), suddivide l’insieme delle sedi dell’Impero in sette classi differenti a seconda delle loro rendite annuali (o si tratta di quelle dei loro vescovi?): 1) le sedi patriarcali; 2) le
sedi la cui rendita è superiore a 30 libbre d’oro; 3) tra 10 e 30 libbre; 4)
tra 5 e 10 libbre; 5) tra 3 e 5 libbre; 6) tra 2 e 3 libbre; 7) meno di 2 libbre. Si vede così che il ventaglio delle rendite è ampio e che le categorie s’infittiscono man mano che le rendite divengono più modeste: è lì
che probabilmente si colloca la maggior parte dei vescovati.
Le spese con le quali devono confrontarsi le Chiese, al di là delle tasse, sono essenzialmente di tre tipi: innanzitutto l’appannaggio del vescovo e degli altri ecclesiastici, che comprende una quota fissa, più una
percentuale delle offerte. Tale quota fissa spiega come mai una Chiesa
possa essere in difficoltà quando non riesce più a fronteggiare il pagamento dei salari, sia che le sue rendite siano diminuite, sia che il clero
sia divenuto troppo numeroso. In secondo luogo, c’è il mantenimento
degli edifici e l’illuminazione, assai costosa. In terzo luogo, ci sono le
opere di beneficenza, che si tratti di elemosine o del funzionamento degli istituti di carità.
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6. Istituzioni caritatevoli.
Le Chiese locali devono vegliare sulla sorte dei settori più sfavoriti
o fragili della popolazione: prigionieri, malati, vedove, vecchi, poveri
[Patlagean 523], e adempiono a tale obbligo tramite diverse istituzioni
[Boojamra 353; Mentzou-Meimari 368]. Oltre agli interventi ad personam, si organizzano distribuzioni regolari in favore di vedove o di poveri iscritti su determinati registri. La sepoltura degli indigenti, ma anche i funerali in generale, costituiscono un’altra attività caritatevole,
ben nota per Costantinopoli [Dagron 356]. Infine, diverse istituzioni
accolgono pellegrini e viaggiatori (xenodocheia), malati (nosokomeia),
persone anziane (gerokomeia), orfani (orphanotropheia), poveri (ptochotropheia). Dall’origine spesso privata, tali istituzioni sono sottoposte, almeno indirettamente, al vescovo e sono gestite dal clero. Spesso sono
poco differenziate e il confine tra semplici ricoveri (xenodocheia) e ospedali (nosokomeia) non è molto netto. Solo nei grandi centri si trovano
istituzioni specializzate: un ospizio per ciechi a Gerusalemme, una sorta di clinica ostetrica ad Alessandria.
Tali istituzioni caritatevoli hanno giocato un ruolo importante nella
nascita dell’ospedale [Philipsborn 370-71].
ii. la gerarchia dei vescovi: metropoliti e patriarchi.
Le Chiese locali non sono isolate, ma fanno parte della Chiesa universale – in pratica, della Chiesa dell’Impero –, alla quale si raccordano
tramite gradini intermedi: Chiese di una medesima provincia, poi insiemi che raggruppano più province (il livello dove all’epoca compaiono le
novità più importanti).
1. Province e metropoli.
Il concilio di Nicea, sistematizzando un’usanza anteriore, decreta
(canoni 4 e 5) che i vescovi di una medesima provincia (o eparchia) si
debbano riunire due volte l’anno presso il metropolita (titolare della sede episcopale della capitale della provincia). Quest’ultimo vede rafforzata la propria autorità sugli altri vescovi della provincia, i suoi «suffra-
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ganei», in particolare per l’elezione e l’ordinazione dei nuovi vescovi.
La geografia ecclesiastica, ancora a questo livello, si modella su quella
amministrativa e, nel caso vengano create nuove province, generalmente l’organizzazione della Chiesa vi si adatta. Nel vi secolo, tuttavia, appaiono discordanze.
Il sistema ammette alcune eccezioni. In Egitto, i metropoliti non hanno un ruolo molto importante, in quanto il vescovo di Alessandria ordina personalmente i vescovi delle province. Nell’Italia riconquistata, si
tiene similmente conto dell’autorità di Roma sulle province suburbicarie. D’altra parte, in alcune province esistono, a fianco delle vere metropoli, metropoli senza suffraganei, i cui titolari sono talvolta chiamati arcivescovi autocefali. Tali metropoliti onorari condividono con i titolari
di vere metropoli e con i patriarchi il titolo di arcivescovo. In qualche caso, possono aver tentato di stabilire la propria autorità su altre sedi e divenire così metropoliti effettivi. In due casi un’eparchia è in effetti bipartita: in Panfilia, dove Side, a partire dal 458, distacca da Perge la metà
delle città della provincia; in Eufratesia, invece, Sergiopoli-Resafa, divenuta metropoli, si vede riconnettere un certo numero di suffraganei. Si
tratta però, in questo caso, di vescovati creati ex novo.
Il concilio di Calcedonia reitera, per i vescovi di una medesima provincia, l’obbligo di riunirsi due volte l’anno, ma Giustiniano riduce tale frequenza e non esige più di una riunione annuale. Il sinodo provinciale regola gli affari comuni: conflitti tra vescovi, esame in appello dei
loro giudizi. Il metropolita esercita d’altra parte importanti funzioni civili: il governatore della provincia presta giuramento davanti a lui in occasione del proprio insediamento; nel 569, una novella di Giustino II,
generalizzando una disposizione della Prammatica Sanzione del 554, stabilisce che il metropolita prenda parte alla scelta dei candidati per il posto di governatore.
2. Le istituzioni sovrametropolitane.
A livello sovrametropolitano, l’organizzazione della Chiesa è meno
chiara. Il iv e il v secolo vedono reali progressi, grazie all’emergere dei
patriarcati, ma i conflitti che contrassegnano la storia della Chiesa a quell’epoca derivano almeno parzialmente dalla competizione tra le grandi
sedi.
Il concilio di Nicea, che rafforza il potere dei metropoliti, si preoccupa ugualmente delle istituzioni di grado superiore, capaci di regolare
i conflitti tra differenti province o le questioni che coinvolgono un me-
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tropolita. Nel suo sesto canone ratifica uno stato di fatto: il vescovo di
Alessandria, sull’esempio di quello di Roma, ha potere (exousia) sull’Egitto e la Libia; le prerogative (presbeia) di Antiochia sono confermate,
così come per le altre province. Il vescovo di Gerusalemme ottiene onori speciali, pur senza cessare di dipendere dal metropolita di Cesarea.
Per l’Impero d’Oriente esiste così un’unità ben costituita, la futura diocesi d’Egitto, dove l’arcivescovo di Alessandria ha autorità al di sopra
dei vescovi. Il caso di Antiochia e della diocesi d’Oriente è meno netto. Nessun’altra istituzione sovrametropolitana è confermata. Per riesaminare la sentenza di un sinodo provinciale, per esempio la deposizione di un vescovo, si prevede semplicemente che il metropolita possa fare appello a vescovi di eparchie vicine, o portare la questione davanti a
un «sinodo più grande».
Il secondo concilio ecumenico (Costantinopoli I, 381) distingue la
sede di Costantinopoli e le attribuisce il secondo rango onorifico dopo
l’Antica Roma, giacché Costantinopoli è la Nuova Roma. Si pone il principio che i vescovi non debbano intervenire negli affari di Chiese che
non siano le loro e vengono definite parecchie circoscrizioni: il vescovo
di Alessandria governa l’Egitto; i vescovi d’Oriente soltanto l’Oriente,
fatti salvi, come a Nicea, i privilegi di Antiochia; i vescovi d’Asia l’Asia, e così per il Ponto e la Tracia. Vengono così passate in rassegna le
cinque diocesi orientali, mentre le diocesi dell’Illirico, recentemente riconnesse a Costantinopoli dal punto di vista civile, restano sotto la dipendenza indiretta da Roma per gli affari ecclesiastici. A questo livello
pertanto, benché in maniera imperfetta, l’organizzazione della Chiesa
si modella su quella dell’Impero.
L’azione pratica fa successivamente evolvere la situazione. A Costantinopoli, alcuni vescovi attivi estendono le prerogative della propria sede. Il concilio di Efeso nel 431 non prende decisioni nuove, ma si percepisce il declassamento della sede di Antiochia: i vescovi ciprioti ottengono il riconoscimento, almeno provvisorio, dell’indipendenza da essa
della loro Chiesa; Giovenale di Gerusalemme, d’altra parte, tende a
emanciparsi da Antiochia, raggruppando le Chiese di Palestina sotto la
propria autorità. La condanna di Nestorio in Efeso I e lo svolgimento
di Efeso II possono apparentemente segnare il declassamento di Costantinopoli e la vittoria di Alessandria – ma il quarto concilio ecumenico
inverte la tendenza.
Calcedonia vede infatti l’umiliazione di Alessandria, il cui vescovo
Dioscoro è deposto, e sancisce l’importanza di Costantinopoli [Herman
in 301]. I canoni 9 e 17 stabiliscono un diritto d’appello a Costantinopoli per i vescovi delle tre diocesi d’Asia, del Ponto e di Tracia. Soprat-
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tutto, Costantinopoli vede il proprio rango ulteriormente elevato dal
«ventottesimo canone», che le accorda prerogative uguali a quelle dell’Antica Roma e definisce la sua giurisdizione.
Questo canone di Calcedonia [Martin in 301] ha caratteristiche peculiari. La prima parte è dedicata alle prerogative di Costantinopoli,
uguali a quelle di cui godeva l’Antica Roma come capitale dell’Impero,
giacché Costantinopoli è sede del potere imperiale e del Senato. La seconda parte precisa il contenuto giurisdizionale di tali prerogative [cfr.
pp. 136-37]. Il canone non sarà accettato da Roma, che non solo trova
inquietanti le pretese di Costantinopoli, ma per giunta, fondando le proprie prerogative sulla successione da Pietro, non può ammettere l’argomentazione politica adottata dai padri di Calcedonia per definire il rango delle sedi.
Il concilio regola infine il caso di Gerusalemme, decretando che le
tre province di Palestina verranno poste sotto la sua autorità e sottratte a quella di Antiochia. Si definisce pertanto il sistema dei cinque patriarcati – Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme –, la «pentarchia» dell’epoca giustinianea, che governa la Chiesa imperiale. Il titolo di patriarca, tuttavia, s’impone progressivamente solo
nel periodo successivo a Calcedonia. Soprattutto, occorre notare che i
cinque patriarcati non arriveranno mai a spartirsi la totalità della Chiesa imperiale: Cipro e la Chiesa dell’Africa riconquistata non dipendono
da alcun patriarca.
iii. roma e costantinopoli.
Nella propria novella 123, Giustiniano distingue «i beatissimi arcivescovi e patriarchi» e cita, nell’ordine di precedenza, Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Queste cinque sedi non hanno tutte la stessa importanza nella vita della Chiesa imperiale. Costantinopoli, il cui patriarcato è in grande sviluppo, e Roma, reintegrata
nell’Impero da Giustiniano, devono essere esaminate in prima istanza.
1. Roma.
Benché appartenga all’Impero d’Occidente nel iv e v secolo, e poi al
regno ostrogoto fino alla riconquista, la Chiesa di Roma [Caspar 386]
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dev’essere qui menzionata sia per il ruolo che ha costantemente avuto
nella storia della Chiesa imperiale, sia per il fatto che, da Giustiniano
fino alla metà dell’viii secolo, dipende in maniera più diretta dagli imperatori romani di Costantinopoli.
1.1. I l p r i m a t o .
Il primo posto occupato da Roma nella Chiesa può ricevere diverse
interpretazioni [Schatz 395; Michel in 301]. Agli occhi delle Chiese d’Oriente, si tratta di un primato d’onore nel collegio dei vescovi e la grande autorità riconosciuta al papa è di natura morale. A Roma si sviluppa, al contrario, un’ecclesiologia secondo cui l’autorità della «sede apostolica», di origine divina, ha un contenuto preciso: i papi, successori di
san Pietro, dispongono all’interno della Chiesa, per la dottrina e la disciplina, dei poteri che Cristo ha affidato al principe degli apostoli.
Tali rivendicazioni, di origine antica, si affermano alla fine del iv secolo. Il Decretum Gelasianum, il cui nucleo risale certamente a quest’epoca, invoca le parole di Cristo («Tu sei Pietro, ed è su questa pietra
che fonderò la mia Chiesa…», Mat. 16.18 sg.) per stabilire che il primato romano è stato istituito da Dio e non da un concilio. L’insistenza
sul ruolo di Pietro porta a distinguere due altre sedi: Alessandria, fondata da Marco, discepolo di Pietro, al secondo posto nella Chiesa, e Antiochia, fondata da Pietro, al terzo posto. Tale argomentazione esclude
che Costantinopoli possa rivendicare una posizione speciale. Ci si trova di fronte senza dubbio a una risposta al terzo canone di Costantinopoli I (381) che, riflettendo l’ecclesiologia costantinopolitana, sviluppa
un argomento di tipo politico.
Tali rivendicazioni hanno un’applicazione nell’ambito disciplinare:
è così che papa Giulio non tiene conto della deposizione, peraltro regolare, di Atanasio di Alessandria. Quando un canone del concilio di Serdica (343) gli dà ragione a posteriori, stabilisce per tutto il clero un diritto d’appello a Roma: i papi di conseguenza giungono a disporre, in
tutta la Chiesa, di un diritto di cassazione, o persino del diritto di giudicare in ultima istanza.
Nel v secolo, non mancano illustri esempi di prelati orientali che,
ritenendosi mal giudicati in patria, fanno appello a Roma: è il caso di
Giovanni Crisostomo, Nestorio ed Eutiche. Alla fine del vi secolo, papa Gregorio Magno rigiudica due ecclesiastici condannati a Costantinopoli e il patriarca Giovanni Nesteuta («il Digiunatore») gli trasmette gli incartamenti del processo [Grumel 157, nn. 265-67]. Il predecessore di Gregorio, Pelagio II, aveva in maniera analoga cassato le deci-
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sioni di un sinodo riunito da Giovanni Nesteuta. Casi simili, comunque, sono rari.
I vescovi di Roma rivendicano ugualmente un’autorità particolare in
materia di fede e il Decretum Gelasianum applica alla Chiesa di Roma le
parole di san Paolo: «Essa non ha una macchia, una ruga, o qualcosa di
tale» (Eph., 5.27). L’atteggiamento dei papi al tempo delle lotte teologiche del iv e v secolo rafforza le rivendicazioni romane, poiché di fatto i papi, a differenza dei patriarchi di Costantinopoli, hanno difeso l’ortodossia. Al termine dello scisma acaciano, nel 519, i legati di papa Ormisda presentano così al patriarca Giovanni di Costantinopoli una
dichiarazione in cui si dichiara che è nella comunione con Roma che «risiede la totale e vera forza della religione cristiana».
Tale posizione, che fa della comunione con Roma la pietra di paragone dell’ortodossia, pone in particolare il problema del ruolo dei concili nella definizione della fede. L’esame della prassi dei concili ecumenici non porta a certezze [De Vries 428]: se Roma non ha che un ruolo nullo o scarso a Nicea e a Costantinopoli, le sue posizioni hanno
grande influenza a Efeso e Calcedonia; cionondimeno, anche in quei
casi, i vescovi ritengono che la fede non sia definita da Roma, ma dal
consenso delle Chiese come viene espresso nel concilio. Alla concezione romana, monarchica, si oppone così un’ecclesiologia più collegiale.
In ciò è presente una fonte di conflitti, e un’altra è rappresentata dallo sviluppo della sede di Costantinopoli, che i papi osservano con inquietudine.
1.2. I l « p a t r i a r c a t o » d i R o m a d o p o l a r i c o n q u i s t a .
Dopo la riconquista, la sede di Roma può essere considerata come
uno dei cinque patriarcati dell’Impero; benché possa occasionalmente
intervenire in Spagna, in Africa, nel regno franco o addirittura in Inghilterra, che contribuisce a evangelizzare, si può tuttavia cercare di definire quello che costituisce il suo territorio in senso stretto. Le Chiese
che dipendono da Roma non formano un insieme omogeneo. Nella stessa Italia, presto devastata dall’invasione longobarda, il papa ha sotto la
propria giurisdizione diretta le province suburbicarie, ossia tutto il meridione della penisola a partire dalla Toscana (compresa), nonché la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. Su tutte queste province, il papa esercita tradizionalmente un’autorità di tipo metropolitano. Interviene nella
nomina e nella consacrazione dei vescovi, che una volta l’anno riunisce
in un sinodo presso di sé. I vescovati dell’Italia del nord, per parte loro, dipendono da tre metropoli: Milano, Aquileia e, più tardi, Raven-
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na. L’autorità molto meno intensa – salvo nel caso di Ravenna – che vi
viene esercitata dai papi è al massimo di tipo patriarcale.
Tale autorità è intralciata dall’invasione longobarda che, dopo il 569,
sconvolge la regione e dallo scisma di Aquileia [cfr. p. 79] che, dopo il
concilio di Costantinopoli II nel 553, separa durevolmente Milano,
Aquileia e i loro suffraganei dalla comunione romana. I papi devono anche fare i conti con le ambizioni dei metropoliti di Aquileia, rifugiatisi
a Grado dopo l’invasione longobarda, che nel vi secolo prendono il titolo di patriarca, e con quelle degli arcivescovi di Ravenna, forti del prestigio della propria città, capitale dell’esarcato.
Oltre all’Italia, al papa è sottoposto l’Illirico [Duchesne 401; Pietri
847]. Nell’Illirico occidentale, Roma esercita un’autorità di tipo patriarcale e ancora alla fine del vi secolo Gregorio Magno interviene (senza
successo) nell’elezione di un metropolita di Salona. L’Illirico orientale
[Greenslade 403; Honig 406] costituisce un problema particolare [cfr.
anche cap. xi]. Attribuito a Teodosio I da Graziano, nel 395 era divenuto, insieme alle sue diocesi di Macedonia e di Dacia, la prefettura dell’Illirico, dipendente da Costantinopoli. Si poteva pensare che l’organizzazione della Chiesa si sarebbe armonizzata con quella dell’Impero;
papa Damaso strinse però un accordo con il vescovo della capitale della
diocesi di Macedonia, Tessalonica, e il successore di Damaso, Siricio,
fece di questo vescovo un «vicario apostolico», senza il quale nessun vescovo doveva essere ordinato per la Macedonia.
Tale accordo, che manteneva almeno teoricamente l’autorità indiretta di Roma sull’Illirico, elevava anche la condizione dell’arcivescovo di
Tessalonica, di cui di fatto si stabiliva la giurisdizione su due diocesi civili. Nel 421, Teodosio II promulga una legge che pone le Chiese dell’Illirico sotto l’autorità di Costantinopoli, ma papa Bonifacio e l’imperatore Onorio la fanno revocare. Non soggetto a una formale abolizione, il vicariato di Tessalonica sembra aver avuto soprattutto una definizione negativa: i legami con Roma sono tenui, ma l’Illirico sfugge all’influsso diretto del patriarcato di Costantinopoli.
Nel vi secolo Giustiniano, per onorare la sua città natale, Iustiniana
Prima, concede all’arcivescovo di tale città la giurisdizione su tutta la
diocesi di Dacia, sottratta all’autorità di Tessalonica [Graniç 402]. Questa nuova circoscrizione ecclesiastica, teoricamente indipendente, fu trasformata da Giustiniano, su domanda di papa Vigilio, in vicariato apostolico. L’autorità pontificale sull’Illirico sembra essere stata spesso teorica. Un documento della fine del vi secolo mostra tuttavia che esso
faceva ben parte, agli occhi dei papi, dell’ambito patriarcale di Roma.
Si tratta della lista delle sedi metropolitane cui Gregorio Magno, nel
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591, trasmette una lettera dell’imperatore Maurizio: Tessalonica, Milano, Nicopoli, Iustiniana Prima, Creta, Scodra, Larissa, Ravenna, Cagliari e i vescovi della Sicilia. L’assenza dei vescovi delle province suburbicarie, senza metropolita, non sorprende; altre assenze si spiegano
sia a causa dello scisma (Aquileia, Salona), sia a causa dell’avanzata dei
barbari (Mesia superiore, le due Dacie).
1.3. I l p a p a e l ’ i m p e r a t o r e .
Le tradizioni della Chiesa romana e la sua collocazione storica hanno
condotto i papi a concepire, in modo migliore dei loro colleghi orientali,
la differenza tra ambito religioso e politico e i limiti del potere imperiale nella Chiesa. In pieno scisma acaciano, papa Gelasio, in una lettera all’imperatore Anastasio datata 491, esprime la teoria dei due poteri5: «Vi
sono due cose, imperatore Augusto, dalle quali, soprattutto, è retto questo mondo: l’autorità sacra dei pontefici e il potere regio … Tu lo sai infatti, figlio clementissimo: benché tu sia per dignità a capo del genere
umano, chini piamente la testa davanti ai sacerdoti che si occupano delle cose divine, ed è da essi che apprendi le vie della salvezza». E Gelasio
riafferma in particolare l’autorità dei papi: «La tua Pietà si rende conto
chiaramente che mai nessuno, dietro alcun pretesto umano, si può elevare al di sopra del prestigio e della condizione di colui che la parola di Cristo ha posto al di sopra del mondo intero, che la venerabile Chiesa ha
sempre riconosciuto e collocato devotamente al primo posto».
Persino sotto i re ostrogoti, i papi non si consideravano estranei all’Impero, ma in conseguenza dello scisma acaciano [cfr. pp. 76-78] i loro legami con Costantinopoli si erano particolarmente allentati. La situazione cambia con la morte di Anastasio. Dal momento in cui Giustino arriva al potere, nel 518, pone termine allo scisma e la formula che i
delegati di papa Ormisda fanno firmare al patriarca Giovanni segna
un’autentica capitolazione della sede di Costantinopoli: il carattere petrino della Chiesa di Roma, dove la fede si è sempre conservata intatta,
è riaffermato; il patriarca Acacio è condannato e radiato dai dittici insieme ai suoi quattro successori, così come gli imperatori Zenone e Anastasio. Nel 526 papa Giovanni II, inviato da Teodorico, arriva a Costantinopoli. Si tratta della prima visita di un papa nella capitale e riceve numerosi segni d’onore: Giovanni II celebra la liturgia a Santa Sofia e
incorona nuovamente l’imperatore. Nel 536 la venuta di papa Agapito
ha luogo nella medesima atmosfera e il monofisita Antimo, che Teodora aveva fatto eleggere patriarca di Costantinopoli, si ritira di sua spontanea volontà, lasciando il posto a Mena, che è ordinato da Agapito.
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La riconquista segna un cambiamento. Giustiniano continua ad attribuire una grande importanza alla sede apostolica, ma i papi sono ormai sottomessi alla sua autorità. Nel 537, Teodora e Belisario fanno deporre ed esiliare papa Silverio, accusato di tradimento, che è sostituito
da Vigilio. In occasione dell’affare dei Tre Capitoli, Vigilio, convocato
a Costantinopoli, è sottoposto a forti pressioni. Giustiniano lo fa scomunicare dal concilio del 553 e Vigilio sarà reintegrato solo dopo aver
accettato le decisioni di tale concilio. Muore poco dopo e Giustiniano
sceglie per succedergli il diacono Pelagio che, cambiando il proprio atteggiamento, ha condannato i Tre Capitoli.
Dopo la riconquista, i papi appaiono come patriarchi integrati nell’Impero. Di norma, per la loro elezione – che ha luogo a Roma, come
l’ordinazione – è necessaria un’autorizzazione dell’imperatore o del suo
rappresentante, l’esarca. I papi, pertanto, traggono la loro legittimità da
due fonti: un’elezione locale e una conferma imperiale.
Il ruolo svolto dai papi nella vita e nell’amministrazione di Roma e
dell’Italia si rafforza dopo la riconquista, fornendo un caso particolare
di ciò che si osserva altrove nell’evoluzione dell’episcopato bizantino.
La Prammatica Sanzione, promulgata da Giustiniano nel 555, su domanda di Vigilio, per regolare la situazione dell’Italia, è caratteristica di
tale tendenza: il papa si vede affidare un ruolo nel controllo dei pesi e
delle misure; «i vescovi e i proteuontes» d’Italia eleggono i governatori
delle province.
Dopo Giustiniano, la situazione resta perlopiù immutata e papa Gregorio Magno potrà ricordare che gli imperatori, come i patriarchi di Costantinopoli, riconoscono che la Chiesa di Costantinopoli è sottomessa
a quella di Roma. Tale riconoscimento, tuttavia, non implica che gli imperatori rinuncino a determinare autonomamente la politica religiosa.
Dal momento che la preoccupazione principale resta, in Oriente, l’unione con i monofisiti, mentre invece Roma rimane strettamente aderente
alla cristologia del Tomo di Leone e di Calcedonia, le occasioni di tensione non scarseggiano. Le crisi più gravi, passata la querelle dei Tre Capitoli, ebbero peraltro luogo dopo il regno di Eraclio, quando papa Martino, che, riunendo il concilio del Laterano nel 649, si è opposto al monotelismo favorito dall’imperatore, è deposto e muore in esilio. Anche
in quel caso, tuttavia, le crisi e le opposizioni tra papi e imperatori restano interne all’Impero. Fino alla metà dell’viii secolo, i papi conciliano le tradizioni proprie alla loro Chiesa, un forte radicamento locale e
una fedeltà all’Impero di cui sono, in Italia, i sudditi leali.
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2. Costantinopoli.
Mentre i vescovi di Roma basano l’eminenza della propria sede sulla sua apostolicità, il rango e il ruolo della sede di Costantinopoli dipendono dallo status politico della città. È perché si tratta della capitale politica, amministrativa ed economica dell’Impero che la Nuova Roma vede i propri vescovi uguagliare e poi soppiantare quelli delle altre grandi
sedi [Dagron 493].
2.1. N a s c i t a e s v i l u p p o d e l p a t r i a r c a t o .
All’epoca della sua fondazione e al tempo del concilio di Nicea, Costantinopoli non occupa un posto importante nella Chiesa: il suo vescovo, già vescovo di Bisanzio, è un semplice suffraganeo di Eraclea, metropoli della provincia d’Europa. Sotto Costanzo II, tuttavia, l’importanza della sede è già manifesta: Eusebio di Nicomedia ed Eudosso
d’Antiochia rinunciano al loro vescovato per venire a occuparla. Sotto
Macedonio, l’influenza di Costantinopoli sulle Chiese vicine si sviluppa ulteriormente. Tuttavia, è con il concilio di Costantinopoli nel 381
che comincia la storia di ciò che si può chiamare il «patriarcato» di Costantinopoli ante litteram. Il concilio, grazie al proprio terzo canone, assicura al vescovo della Nuova Roma il secondo rango nella Chiesa. L’imperatore Teodosio, definendo l’ortodossia tramite la comunione con certi vescovi, cita in primo luogo Nettario di Costantinopoli.
A cavallo dell’anno 400, l’episcopato di Giovanni Crisostomo segna
una svolta: Giovanni non esita a intervenire negli affari della metropoli d’Asia, Efeso. La prima metà del v secolo è contrassegnata dalla lotta tra la sede di Costantinopoli e quella di Alessandria, i cui vescovi s’inquietano, come a Roma, per il peso crescente della capitale. Costantinopoli subisce numerosi gravi rovesci: Giovanni Crisostomo, in conflitto
con Teofilo di Alessandria, è deposto ed esiliato (403-4); Nestorio, nel
corso di Efeso I (431), è condannato su istigazione di Cirillo di Alessandria e inviato in esilio; nel 448, Dioscoro di Alessandria ottiene la deposizione e l’esilio di Flaviano di Costantinopoli. Tali successi di Alessandria, tuttavia, non riescono a impedire una tendenza di fondo: lo sviluppo di Costantinopoli. Nel 451, al concilio di Calcedonia [Herman in
301], malgrado l’opposizione dei legati romani, i padri di Calcedonia definiscono tramite il «ventottesimo canone» il rango e la giurisdizione di
Costantinopoli: la sede della Nuova Roma ha prerogative (presbeia) uguali a quelle dell’Antica Roma; il suo vescovo ordina i metropoliti delle
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diocesi (civili) del Ponto, d’Asia e di Tracia. Altri canoni del medesimo
concilio stabiliscono un diritto d’appello a Costantinopoli per tutto il
clero.
Lungi dall’essere innovativi, i canoni di Calcedonia si limitano a ratificare uno stato di fatto. Fin dalla prima parte del v secolo i vescovi di
Costantinopoli consacrano vescovi per le tre diocesi che formeranno il
territorio del futuro patriarcato. L’Illirico, teoricamente sottomesso a
Roma con l’intermediazione del vescovo di Tessalonica, è sensibile all’influenza della capitale. Nestorio aveva giudicato in appello alcuni chierici egiziani. Anatolio di Costantinopoli, poco prima di Calcedonia, interviene nella diocesi civile d’Oriente. Roma, tuttavia, tenta di opporsi alle pretese della propria rivale orientale e il papato, a partire da Leone
Magno, rifiuta di riconoscere il «ventottesimo canone» di Calcedonia.
Giustino, e soprattutto Giustiniano, sembrano momentaneamente favorire Roma a danno di Costantinopoli. Tuttavia, passata l’umiliazione
per mezzo della quale si pone fine allo scisma acaciano, la sede della capitale non subisce molti fastidi e diviene evidente che gli imperatori hanno nel loro patriarca un punto di riferimento preferenziale.
2.2. I l t e r r i t o r i o .
A differenza degli altri tre patriarcati della pars Orientis, il cui territorio è uguale (Alessandria) o inferiore (Antiochia, Gerusalemme) a una
diocesi civile, il patriarcato di Costantinopoli si estende su tre diocesi
civili: Ponto, Asia e Tracia (per un totale, alla metà del vi secolo, di 28
province civili e 30 eparchie ecclesiastiche).
Nel Ponto, le circoscrizioni civili ed ecclesiastiche non si sovrapponevano perfettamente: alla metà del vi secolo le dodici eparchie ecclesiastiche corrispondono in maniera solo imprecisa alle undici province
civili. Non bisogna del resto scordarsi neppure dell’esistenza delle metropoli onorifiche: è il caso di Nicea e Calcedonia in Bitinia, o di Pompeiopoli in Paflagonia. Nella diocesi d’Asia, divisioni civili e religiose
sono quasi coincidenti: dieci delle undici province civili corrispondono
a eparchie ecclesiastiche; soltanto la Panfilia ha, a partire dal 432, due
metropoli effettive (Perge, capoluogo della provincia, e Side). In Asia,
in epoche diverse, sono segnalate tre metropoli onorifiche. Infine, la
diocesi di Tracia conta sei province civili corrispondenti a sei eparchie
ecclesiastiche, ciascuna col proprio metropolitano. In tale diocesi si notano anche, nel vi secolo, sei metropoli onorifiche. È chiaro che l’arcivescovo di Costantinopoli cerca così di favorire e tenere in pugno alcuni vescovi vicini.
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Il numero di città, di cui quasi ognuna ha il proprio vescovo, è considerevole: Ierocle, nel vi secolo, ne conta 466, ossia quasi la metà di
quelle che censisce per l’intero Impero d’Oriente. Una notizia risalente
agli esordi del regno di Eraclio annovera 455 sedi episcopali. Il potere
che deriva al patriarcato dall’estensione del proprio territorio è ben percepibile al concilio di Costantinopoli II nel 553 [Chrysos 427]: su 166
firmatari, 70 dipendono da Costantinopoli (15 metropoliti di pieni diritti, 9 metropoliti autocefali, 46 vescovi suffraganei).
2.3. S t r u t t u r e c e n t r a l i .
Il patriarcato di Costantinopoli è dotato di organi centrali efficaci:
il patriarca in persona, definito dalla legislazione giustinianea «l’arcivescovo di Costantinopoli e patriarca ecumenico», e poi il sinodo e il clero da cui è circondato.
Il vescovo di Costantinopoli, come ogni vescovo, è eletto di norma
dal clero e dal popolo della sua città. Un’istituzione specifica, il sinodo permanente, ha inoltre il proprio ruolo nell’elezione e, molto presto, l’intervento imperiale diviene decisivo. Il metropolita di Eraclea –
da cui in precedenza dipendeva Costantinopoli – consacra il nuovo vescovo.
Gli storici della Chiesa Socrate e Sozomeno presentano così l’elezione di Giovanni Crisostomo nel 398: Giovanni è eletto dal popolo e dal
clero; tale proposta, trasmessa dal potente eunuco Eutropio, è approvata dall’imperatore Arcadio e confermata da un sinodo. Nel 449, per rimpiazzare Flaviano che ha appena esiliato, Teodosio II domanda al clero
della capitale di eleggere alcuni candidati tra i quali l’imperatore farà la
sua scelta. Dal momento che gli ecclesiastici non riescono a mettersi d’accordo, l’imperatore designa d’autorità Anatolio, un chierico di Alessandria che, nella propria lettera a papa Leone, afferma di essere stato eletto vescovo di Costantinopoli dalla synodos endemousa. Nel vi secolo viene attuata la procedura di elezione dei vescovi codificata da Giustiniano:
il clero e il «popolo» propongono tre candidati; a questo punto è, nei
fatti, l’imperatore a decidere.
Benché il patriarca di Costantinopoli possa provenire da un’altra
Chiesa – è il caso, nel v secolo, di Nestorio e di Anatolio e, sotto Giustiniano, di Antimo, Eutichio e Giovanni III lo Scolastico –, perlopiù è
scelto tra le file dell’alto clero della capitale, sempre più spesso tra i detentori di officia. La competenza così acquisita gli è utile, infatti, nell’esercizio della propria carica.
L’amministrazione del patriarcato, ma anche gli interventi nelle que-
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stioni delle Chiese d’Oriente, sono stati facilitati dal sinodo permanente (synodos endemousa), formato da vescovi che soggiornano (endemountes) nella capitale [Hajjar 391]. Tale istituzione, che all’inizio si distingue difficilmente dai sinodi occasionali riuniti intorno all’imperatore,
giunge a definirsi nel v secolo. Già sotto Giovanni Crisostomo il sinodo che giudica il caso di Antonino di Efeso può essere considerato come una prima manifestazione del sinodo permanente. Sotto Massimino
(431-34) appare il termine di synodos symparousa, sinodo «presente accanto [al vescovo]». Nel 448, Eutiche è condannato dal sinodo permanente.
Il concilio di Calcedonia, riesaminando un intervento in Fenicia di
Anatolio di Costantinopoli e del sinodo permanente, ne cassa le decisioni, ma riconosce l’esistenza e la legittimità del sinodo. Quest’ultimo,
che permette a Costantinopoli d’intervenire anche al di fuori dei confini del patriarcato, è dotato d’importanti prerogative in materia di disciplina, e addirittura di fede. È a esso che Giustiniano comunica i propri
editti del 533 (sulla festa della Natività) o del 543 (condanna dell’origenismo); è sempre tale sinodo che, nel 518, condanna e depone Severo
di Antiochia.
L’arcivescovo di Costantinopoli può contare anche sul numeroso clero della Grande Chiesa, sottoposto alla sua autorità, e più precisamente sugli ecclesiastici cui affida incarichi amministrativi, senza che si possa sempre distinguere tra la gestione della Chiesa di Costantinopoli e
quella del patriarcato. Come nelle altre Chiese, ma a un livello superiore, il vescovo della capitale si circonda di chierici e di personale incaricato di svariati compiti: dekanoi (uscieri), ekdikoi (defensores ecclesiae),
economi cui è affidata la gestione dei beni della Chiesa, segretariato e
cancelleria [Darrouzès 387]. L’episcopato di Giovanni Crisostomo, anche in questo caso, segna un’evoluzione. L’importanza degli ecclesiastici incaricati dei diversi officia appare chiaramente nel fatto che, dalla fine del v secolo, i vescovi di Costantinopoli sono spesso reclutati tra di
essi. Nel vi secolo, la legislazione di Giustiniano fornisce ragguagli sulla gestione dei beni immobili della Grande Chiesa, distribuiti in diverse diocesi civili.
Diversi uffici (scrinia) si occupano ciascuno di una regione, o anche
di un grande possedimento, e sono dotati di numerosi cartulari: 15 per
la diocesi d’Oriente, 16 per l’Asia, 15 per il Ponto, 8 per la Tracia, 6 per
il fondo di Antioco, 6 per quello di Calopodio (CI, 1.2.24, a. 530). Una
novella di Eraclio, che regola gli effettivi del clero della Grande Chiesa,
fissa ugualmente un numero chiuso per i detentori di officia: 2 sincelli,
12 cancellarii, 10 ekdikoi, 12 referendari, 40 notai, 12 skeuophylakes, di
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cui 4 sacerdoti, 6 diaconi e 2 lettori. La lista, che non è certamente esaustiva – mancano gli economi –, dà un’immagine della complessità dell’amministrazione del patriarcato.
2.4. L a G r a n d e C h i e s a .
L’espressione «Grande Chiesa» designa due realtà: la chiesa cattedrale di Costantinopoli, Santa Sofia, la cui grandezza e splendore, a partire dalla sua ricostruzione giustinianea, contribuiscono al prestigio del
patriarca di Costantinopoli; il clero e le chiese di Costantinopoli poste
direttamente sotto l’autorità del vescovo della città. Due novelle, una
di Giustiniano nel 535 (Nov., 3), l’altra di Eraclio nel 612, ambedue finalizzate a limitare il numero di chierici direttamente connessi alla Grande Chiesa, permettono di conoscerne l’importanza.
Nel 535, Giustiniano constata da una parte che la Grande Chiesa
s’indebita e va in rovina per il fatto di mantenere un clero di gran lunga troppo numeroso, dall’altra che tale clero serve, oltre Santa Sofia, le
chiese di Sant’Irene, della Theotokos di Chalkoprateia e di San Teodoro di Sforacio. Di conseguenza, ordina di tornare agli effettivi seguenti: 60 preti, 100 diaconi, 40 diaconesse, 90 suddiaconi, 110 lettori, 25
cantori, più 100 portieri. Circa ottant’anni più tardi, Eraclio per parte
sua vuole ricondurre il numero dei chierici della Grande Chiesa a 80 preti, 150 diaconi, 40 diaconesse, 70 suddiaconi, 160 lettori, 25 cantori,
75 portieri. Tali effettivi – 525 persone sotto Giustiniano, 600 sotto
Eraclio; e si tratta di cifre che sono state superate – mostrano l’importanza della Grande Chiesa e l’attrattiva che esercita sul clero. Non bisogna tuttavia dimenticare che lì era concentrata solo una parte del clero di Costantinopoli. Altre chiese della capitale, finanziate o meno dalla Grande Chiesa, hanno il proprio clero: la Theotokos delle Blacherne,
nel 612, ha 12 preti, 18 diaconi, 6 diaconesse, 8 suddiaconi, 20 lettori,
4 cantori e 6 portieri.
2.5. I l p a t r i a r c a « e c u m e n i c o » .
Nel vi secolo, nella legislazione di Giustiniano, l’ «arcivescovo di Costantinopoli» ha il titolo di «patriarca ecumenico», che i vescovi della
capitale non tardano ad attribuirsi essi stessi [Laurent 393]. Il suo contenuto è difficile da precisare, ma vi si può vedere la rivendicazione, da
parte del patriarcato di Costantinopoli, di un ruolo valido nell’insieme
dell’Impero. Alla fine del vi secolo è chiaro, in ogni caso, che il vescovo della capitale non ha più rivali in Oriente: già il concilio di Calcedo-
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nia aveva riconosciuto un diritto d’appello a Costantinopoli per tutti i
chierici della pars Orientis; l’indebolimento di Antiochia e Alessandria
nel vi secolo porta d’altro canto a far ordinare i patriarchi di queste due
sedi, come di quella di Gerusalemme, nella capitale.
Senza dubbio, una simile situazione spiega e giustifica la vivacità delle reazioni di Roma: Pelagio II e poi Gregorio Magno levano vive proteste contro il titolo di «patriarca ecumenico», impiegato ufficialmente
nel 587 da Giovanni lo Scolastico. I patriarchi di Alessandria e Antiochia, con cui Gregorio è in corrispondenza, non sembrano molto in grado di reagire. Presso gli imperatori, con l’eccezione di Foca, le sue lamentele non trovano grande ascolto: Maurizio cerca di minimizzare la
questione; Eraclio e i suoi successori non sopprimeranno il titolo contestato. Le proteste di Roma resteranno così senza esito.
iv. alessandria, antiochia, gerusalemme; altre circoscrizioni.
Benché non possano più, a partire dal vi secolo, rivaleggiare con la
potenza di Costantinopoli, i patriarcati orientali restano attori importanti nella vita della Chiesa. Alessandria e Antiochia, nonostante le proprie differenze, hanno in comune di essere minate dalle divisioni comportate dalle lotte cristologiche. Quanto all’ultimo nato, il patriarcato
di Gerusalemme, più unito degli altri, deve il proprio particolare prestigio alla presenza dei Luoghi Santi.
1. Alessandria.
Il «patriarcato» di Alessandria [Martin 410, Maspero 412] sembra
già costituito all’epoca del concilio di Nicea, che definisce il suo territorio in rapporto alla prassi antica: le province d’Egitto e le due Libie.
Presenta la particolarità di non avere metropoliti. L’arcivescovo di Alessandria nomina e consacra i vescovi del proprio patriarcato; li riunisce
in concilio, comunica loro – tramite le lettere festali – la data della Pasqua, esercita la propria autorità direttamente su di essi. La relazione
tra l’Egitto e il suo patriarca è di conseguenza assai stretta. Il vescovo
di Alessandria è eletto e consacrato nella sua città, e gli speciali riti che
circondano la sua ordinazione simboleggiano la continuità dell’istituzione. I suoi suffraganei, a partire dal iv secolo, sono un centinaio di nu-
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mero; esercita, inoltre, un’influenza al di fuori dell’Impero sulle Chiese etiopica e himyarita.
La sua potenza e la sua ricchezza dipendono certo dall’estensione del
territorio e dalla struttura del patriarcato; occorre tuttavia tener conto
anche della città di Alessandria, una delle maggiori città dell’Impero.
L’organizzazione della Chiesa vi presenta alcune particolarità: il collegio dei sacerdoti ha un ruolo importante e ciascuno dei suoi membri, almeno nel iv secolo, è destinato appositamente al servizio di una chiesa.
La diversificazione dei compiti svolti dai chierici ricorda quel che si osserva altrove. La Chiesa di Alessandria dispone di un personale importante, di cui per esempio fa parte un corpo di 500 o 600 parabalanoi, incaricati in particolare della cura dei malati e posti dalla legge sotto l’autorità dell’arcivescovo.
Con la sua rivendicazione di un’origine apostolica e petrina – la sua
Chiesa è fondata da Marco, discepolo di Pietro – Alessandria occupa,
nel iv secolo, il secondo posto nella Chiesa universale. Di conseguenza,
gli arcivescovi di Alessandria vedono con sospetto lo sviluppo della sede di Costantinopoli e, in alleanza con Roma, cercano di contenerlo: Cirillo, nella propria lotta contro Nestorio, agisce come delegato di papa
Celestino. Il «ventottesimo canone» di Calcedonia sarà accettato con
difficoltà dagli alessandrini: anche un patriarca calcedoniano come Timoteo Salofaciolo non nasconderà le proprie riserve al riguardo.
Il concilio di Calcedonia, con la sua condanna di Dioscoro, segna una
cesura nella storia della Chiesa egiziana. Due Chiese si affrontano: una
è calcedoniana; l’altra, che si può dire copta o monofisita, respinge Calcedonia e resta fedele alla cristologia e alle tradizioni alessandrine. Occorre distinguere tre epoche.
Dal 451 al 482, con l’eccezione del regno dell’usurpatore Basilisco
(475-76), il potere imperiale cerca di imporre ad Alessandria patriarchi
calcedoniani, ma a partire dalla morte di Marciano (457) gli anticalcedoniani consacrano il proprio patriarca, Timoteo Ailuro. A seconda delle circostanze, la Chiesa di Alessandria è governata sia da un calcedoniano (Proterio dal 451 al 457; Timoteo Salofaciolo dal 460 al 475 e dal
477 al 482), sia da un monofisita (Timoteo Ailuro dal 457 al 460, poi
dal 475 al 477; Pietro Mongo nel 477, poi nuovamente a partire dal 482).
L’Henotikon inaugura un nuovo periodo e una serie di patriarchi anticalcedoniani si sussegue in tutta legalità nella sede di Alessandria fino
al 535. In tale data, l’imperatrice Teodora fa eleggere un nuovo patriarca anticalcedoniano, Teodosio, ma quest’ultimo, vittima delle divisioni
della Chiesa monofisita, non può resistere: gli alessandrini gli preferiscono il giulianista Gaiano. Nel medesimo tempo, la politica imperiale
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subisce un cambiamento radicale e Giustiniano comincia a imporre patriarchi calcedoniani ad Alessandria; i suoi successori faranno lo stesso.
L’Egitto è diviso dallo scisma.
Anche i monofisiti sono divisi al loro interno tra severiani e giulianisti, che avranno i propri patriarchi sino alla fine del vii secolo. I severiani formano la corrente principale; sono inizialmente governati da Teodosio, rifugiato presso Teodora, che tuttavia rifiuta di nominare vescovi per le sedi vacanti. Alla sua morte (566) si apre una crisi e solo nel
575 il clero di Alessandria elegge Pietro IV, che ricostituisce la gerarchia copta ordinando 70 vescovi durante il proprio breve patriarcato. I
patriarchi copti si susseguono da allora senza interruzioni nella sede di
Alessandria. Fino all’arrivo degli Arabi, tuttavia, tale Chiesa scismatica non ha esistenza legale.
La Chiesa calcedoniana, unica ufficiale, non si è radicata profondamente e la sua esistenza dipende dall’appoggio imperiale. Il fatto che
Paolo di Tabennesi (537-40), così come molti dei suoi successori, sia stato ordinato a Costantinopoli prima di giungere ad Alessandria, è percepito dagli Egiziani come un’innovazione umiliante, sintomatica di una
dipendenza dei calcedoniani nei confronti della capitale. In mezzo a una
popolazione spesso ostile, gli arcivescovi calcedoniani non possono essere insediati e resistere senza l’aiuto della forza pubblica. L’imperatore, per rafforzarli, li dota d’importanti poteri civili e militari, tendenza
che giunge al culmine sotto il regno di Eraclio nel caso del patriarca Ciro. Poco dopo la conquista araba, la lista dei patriarchi calcedoniani di
Alessandria si interrompe per riprendere solo nell’viii secolo.
2. Antiochia.
La Chiesa di Antiochia ha strutture assai differenti da quella di Alessandria [Devreesse 400]. Le sue prerogative, pur riconosciute a Nicea,
non sono definite. Senza dubbio comprendono il diritto, per il vescovo
di Antiochia, di consacrare i metropoliti delle province della diocesi d’Oriente, com’è definita a partire dalla fine del iv secolo. Antiochia, nel iv
secolo, approfitta e risente della presenza imperiale. Malgrado le gravi
crisi che attraversa in epoca ariana, gode di un grande prestigio: Melezio di Antiochia presiede il concilio di Costantinopoli (381); due antiocheni, Giovanni Crisostomo e poi Nestorio, occupano successivamente
la sede di Costantinopoli. Tuttavia, indebolito dalle lotte cristologiche
del v secolo, il patriarcato di Antiochia vede diminuire il proprio territorio: la Chiesa di Cipro fa riconoscere la propria autonomia in occasio-
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ne del concilio di Efeso (431); il patriarcato di Gerusalemme, creato a
Calcedonia (451), separa da Antiochia le tre Palestine. Benché così mutilato, il patriarcato antiocheno comprende ancora 11 province, e del resto è evidente la sua influenza sulle Chiese di Persia e d’Iberia.
La storia delle sue istituzioni è poco conosciuta. Sotto il pontificato
di Severo [Alpi 396] si può vedere come il patriarca eserciti la propria
autorità: assistito dal sinodo dei vescovi d’Oriente, che riunisce periodicamente, nomina e consacra i metropoliti, di cui sorveglia l’azione.
Nel caso di Severo, l’autorità patriarcale si scontra con la resistenza dei
metropoliti calcedoniani. Le istituzioni del patriarcato (calcedoniano) di
Antiochia si sviluppano successivamente fino a raggiungere il livello di
complessità attestato dalla Notitia Antiochena [Honigmann 408-9].
Tale notizia, databile agli anni ’70 del vi secolo, ricapitola così l’organizzazione del patriarcato: «Ecco le sedi che dipendono da Antiochia
di Siria: 1 patriarca, 7 sincelli, 2 litoi … 4 autocefali, 12 metropoliti e
128 vescovi che sono loro sottomessi, ovvero un totale di 154». Il patriarca è il vescovo o arcivescovo di Antiochia (Teupoli dopo il 528),
contemporaneamente metropolita di Siria I. I «12 metropoliti» sono, in
9 casi, i vescovi delle capitali provinciali; nella Fenicia libanese, la metropoli ecclesiastica (Damasco) è distinta dalla metropoli civile (Emesa);
infine, due metropoli effettive supplementari sono state create dall’imperatore Anastasio (Sergiopoli e Dara). Gli «autocefali» sono gli arcivescovi di Beirut, Laodicea, Emesa e, più recentemente, Cirro. I 7 sincelli sono tutti vescovi di Siria I: i vescovi di Antiochia si sono preoccupati di distinguere i propri suffraganei, che forse hanno un ruolo speciale
nel loro consiglio. I «2 litoi» o archiepiskopoi litoi (arcivescovi semplici), entrambi titolari di sedi nella Fenicia libanese, servono invece come
legati patriarcali.
Benché occorra considerare con prudenza la lista di 128 suffraganei
fornita dalla Notitia, giacché la lista dei vescovati, in alcune province, è
instabile, è innegabile che il patriarca di Antiochia, nella seconda metà
del vi secolo, sia capace di riunire numerosi vescovi: nel 553, sui 166
vescovi che firmano a Costantinopoli II, 41 sono siriani, capeggiati dal
patriarca Donno [Chrysos 427]. Il patriarcato calcedoniano di Antiochia
è dunque una realtà concreta; è tuttavia minato dallo scisma monofisita e i patriarchi calcedoniani sono sempre più dipendenti da Costantinopoli, dove talora vengono ordinati. La metà del vi secolo vede la nascita della Chiesa «giacobita»: da allora, per certe sedi, ci saranno un
vescovo calcedoniano, l’unico riconosciuto dalle autorità imperiali, e un
vescovo monofisita. È il caso di Antiochia, che, dopo Sergio di Tella
(557 - c. 561), ha, oltre a un patriarca calcedoniano, un patriarca mono-
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fisita. L’invasione e l’occupazione persiana modificano tale situazione:
i vescovi calcedoniani sono cacciati, la Chiesa giacobita riconosciuta.
Nella medesima epoca, il grande patriarca monofisita di Antiochia, Atanasio il Cammelliere (593-631), afferma la propria autorità: dopo la riconquista, sarà con lui che negozierà l’imperatore Eraclio. Il patriarca
calcedoniano Anastasio II, morto nel 609, non viene rimpiazzato prima
del 639. Il fallimento dei negoziati tra Atanasio ed Eraclio porta tuttavia l’imperatore a reinsediare dei vescovi calcedoniani: gli Arabi, al loro arrivo, trovano tale situazione di divisione e finiscono per cristallizzarla così.
3. Gerusalemme.
La trasformazione in sede patriarcale della sede di Gerusalemme avviene tardi. Il vescovo di Elia Capitolina, modesta città della Palestina
I sottoposta a Cesarea, poteva difficilmente aspirare a occupare un posto di primo piano nella Chiesa, al fianco dei vescovi delle più importanti città dell’Impero. Ma al tempo di Costantino, Elia ridiventa Gerusalemme. È la Città Santa, e il suo prestigio le permette, al tempo di
Nicea, di vedersi riconoscere onori speciali. Un vescovo ambizioso e attivo, Giovenale (422?-458), saprà trarre profitto da tale situazione particolare [Honigmann 407]. Senza dubbio riesce a ottenere assai presto
dall’imperatore Teodosio II, grazie a una legge che non è conservata, di
avere giurisdizione non solo sulle tre Palestine, ma anche sull’Arabia e
le due Fenicie. Al concilio di Efeso si allea con Cirillo di Alessandria e
si oppone nettamente al vescovo di Antiochia, da cui teoricamente dipende. Rivendica sei province che contesta ad Antiochia. Al concilio di
Efeso II, che presiede con il proprio alleato Dioscoro di Alessandria,
Giovenale sembra aver causa vinta: una lettera imperiale gli conferisce
il titolo di arcivescovo. La costituzione di un patriarcato che include Palestina, Fenicia e Arabia sembra cosa fatta nel 450; la morte di Teodosio II e il concilio di Calcedonia rimettono tutto in causa. A Calcedonia, Giovenale figura al principio come accusato ma, cambiando di campo, ristabilisce la propria posizione e riesce per giunta a ottenere, in
seguito a negoziati con Massimo di Antiochia, di vedersi riconoscere
un’autorità di tipo patriarcale, limitata tuttavia alle tre Palestine. Il concilio ratifica tale situazione, che non subirà più molte contestazioni.
Dopo il 451 Giovenale deve affrontare una grave crisi: il suo voltafaccia a Calcedonia provoca una rivolta nel monachesimo di Palestina;
un monaco, Teodosio, è eletto vescovo di Gerusalemme e insedia nelle
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città palestinesi un intero episcopato ostile al concilio. Solo grazie all’aiuto dell’esercito Giovenale e i vescovi della sua fazione potranno essere reinsediati. Nel mezzo secolo seguente, Giovenale e i suoi successori agiranno con moderazione, evitando d’impegnarsi nettamente pro
o contro il concilio [Perrone 414]. Nel vi secolo la situazione cambia:
spinti dai monaci, i patriarchi di Gerusalemme, a partire dal regno di
Anastasio, s’impegneranno sul fronte calcedoniano. Resteranno fedeli
a tale posizione e il patriarcato di Gerusalemme, fino al vii secolo, rimane un sostegno per l’ortodossia. Conosce tuttavia alcune crisi: nel vi
secolo, l’origenismo agita il mondo monastico; all’inizio del vii secolo la
Palestina, occupata dai Persiani, si separa per una quindicina d’anni dall’Impero. Alla fine del regno di Eraclio occorre qualche tempo per insediare un successore del patriarca Modesto e le Chiese di Palestina saranno spartite tra il vescovo Sergio di Joppa, che opta per il monotelismo,
e Sofronio di Gerusalemme, che si oppone fermamente alla cristologia
favorita da Sergio di Costantinopoli e da Eraclio.
4. Cipro; Africa.
Le Chiese dell’Impero non sono tutte sottoposte a uno dei cinque
patriarcati. L’Illirico orientale [cfr. sopra, § 1.2] è, almeno in certi periodi, di fatto indipendente. Cipro, la quale ha fatto riconoscere al concilio di Efeso il fatto che il proprio metropolita non era mai stato ordinato dal vescovo di Antiochia, costituisce una Chiesa autocefala e la sua
indipendenza, minacciata momentaneamente sotto Zenone, sarà permanente. Infine, tra le Chiese restituite all’Impero da Giustiniano, occorre fare una particolare menzione di quelle d’Africa.
Le Chiese d’Africa – integrate all’Impero dalla riconquista, all’inizio degli anni ’30 del vi secolo, fino alla fine del vii secolo – sono riorganizzate con la novella De Africana ecclesia del 1º agosto 535, che trasferisce, su domanda dei vescovi ortodossi, i beni delle Chiese ariane a
quelle cattoliche. Per l’organizzazione delle Chiese delle tre province
riconquistate (Bizacena, Proconsolare, Numidia) Giustiniano si rifà alla situazione antica. Si astiene dal procurare alla sede di Cartagine uno
statuto sovrametropolitano: ciascuna delle tre province ha il proprio
primate, scelto in funzione delle antiche prassi. Non sembra neppure,
nonostante certi interventi di alcuni papi, che l’Africa sia stata posta
sotto l’autorità pontificale. In realtà, le Chiese delle tre province africane conservano ciascuna la propria indipendenza e non riconoscono
altra autorità che l’imperatore, cui si rivolgono direttamente. L’impe-
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ratore prende del resto l’abitudine, in Africa in modo particolare, di
appoggiarsi per l’amministrazione del paese a un episcopato numeroso
e fedele [Durliat 357], mentre le Chiese africane, approfittando della
protezione imperiale, conoscono una prosperità attestata dall’archeologia e svolgono un’attività missionaria tra le popolazioni africane non
sottomesse all’Impero.
v. l’imperatore, i concili, il diritto canonico.
Al di là di tale pluralità, l’unità della Chiesa è assicurata da due istituzioni: l’imperatore, a livello permanente, e occasionalmente i grandi
concili imperiali chiamati concili ecumenici. La formazione del diritto
canonico offre una chiara dimostrazione di come le decisioni conciliari
e la legislazione imperiale collaborino per regolare la vita della Chiesa.
1. L’imperatore.
Il potere dell’imperatore [Gasquet 421] nella Chiesa ha due origini.
Da un lato, la tradizione romana non limita assolutamente l’autorità imperiale a una sfera civile che sarebbe distinta dalla religione. Al contrario, l’imperatore, in particolare come pontifex maximus, ha importanti
competenze religiose. Dall’altro lato la Chiesa, per la quale la conversione di Costantino è provvidenziale, accetta e favorisce gli interventi
dell’imperatore nella propria vita interna. La questione, in questa sede,
non è tanto di sapere se l’imperatore sia un semplice fedele o se invece
sia investito di una dignità quasi sacerdotale [Berkhof 418; Dagron 321],
quanto di descrivere il suo ruolo nel funzionamento delle istituzioni e
nella pratica corrente, dove appare come il capo della Chiesa. Le voci
che talora si levano per contestare i suoi interventi sono poco numerose o di scarso peso. Un’unica limitazione s’impone all’azione esercitata
dall’imperatore come detentore del potere supremo, giudice ultimo e legislatore: deve essere ortodosso e, benché possa innovare, è tuttavia sottoposto alle leggi della Chiesa e ne deve rispettare le tradizioni. A partire da Costantino [Sansterre 423] e soprattutto da Costanzo, la situazione è già definita, benché il regno di Giustiniano possa apparire come
il più caratterizzato da ciò che si è potuto chiamare il «cesaropapismo»
orientale.
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L’intervento dell’imperatore concerne gli aspetti più diversi della vita della Chiesa. È la legge imperiale che autorizza le Chiese a possedere beni, a ricevere donazioni o eredità, a fissare la condizione di tali beni e a vegliare sul loro buon impiego. L’imperatore si sente tanto più autorizzato a intervenire quanto più ha personalmente contribuito, tramite
donazioni o attribuzione di risorse fiscali, alla fortuna delle Chiese. Giustiniano lo dichiara esplicitamente: «la differenza tra sacerdozio e Impero è debole, così come tra i beni consacrati e quelli che appartengono
alla collettività o allo Stato, giacché le liberalità del potere imperiale forniscono costantemente alle santissime chiese la totalità delle loro risorse e della loro prosperità» (Nov., 7.2).
La legislazione imperiale tocca anche le persone, in particolare con
l’elaborazione di uno status speciale del clero e, sotto Giustiniano, diverse leggi sulla vita monastica. Benché gli ecclesiastici debbano essere
giudicati dai vescovi, dai sinodi e in ultimo dal patriarca di Costantinopoli o dal papa, i giudizi sono posti in atto dall’autorità imperiale. Riguardo alle carriere ecclesiastiche, comprese le nomine dei vescovi, nonostante siano così importanti nella vita delle città, gli interventi imperiali sono limitati. Le eccezioni concernono principalmente le grandi
sedi, in particolare quella di Costantinopoli. La Chiesa riconosce inoltre all’imperatore il diritto di modificare la geografia ecclesiastica in occasione di rimaneggiamenti amministrativi, oppure accordando a una
determinata sede episcopale il rango di metropoli onorifica.
Tali interventi possono sembrare limitati all’organizzazione della
Chiesa. L’imperatore, tuttavia, interviene anche nella liturgia e può modificare il calendario delle feste: in tal modo, Costantino fa fissare dal
concilio di Nicea la data della Pasqua; Giustino II generalizza la festa
del Natale al 25 dicembre; Giustiniano, quella della festa dell’Hypapante (Purificazione) al 2 febbraio e Maurizio quella della Dormizione della Vergine al 15 agosto. Infine, nel campo dei dogmi, l’imperatore ha un
ruolo decisivo. Se spesso ratifica le decisioni prese dalla Chiesa in occasione dei concili, gli è concesso di stimolare tali decisioni e di arbitrare
fra tendenze opposte per definire la fede. Grazie alle proprie leggi e alla propria attività, impone l’ortodossia e combatte l’eresia. Infine, può
legiferare autonomamente per stabilire il dogma: l’Henotikon di Zenone può essere evocato in tal senso; Giustiniano pubblicherà diversi editti dogmatici e sarà in ciò imitato da Eraclio.
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2. Concili ecumenici.
I sinodi o concili, molto prima dell’epoca costantiniana, hanno avuto un ruolo importante nella vita e nella coesione delle Chiese [Sieben
430-31]. Sono di natura assai diversa. Alcuni sono puramente locali: è
il caso dei sinodi metropolitani, che si generalizzano nel iv secolo e riuniscono i vescovi di una medesima provincia o, più tardi, dei sinodi patriarcali. Nel iv secolo appare una varietà speciale di sinodi: grandi concili che possono essere definiti imperiali in quanto riuniti su iniziativa
dell’imperatore e che sono composti da vescovi che rappresentano numerose Chiese dell’Impero. Tali concili imperiali sono frequenti nel iv
secolo, particolarmente in occasione della crisi ariana. Si confondono
conseguentemente – con l’eccezione del «brigantaggio» di Efeso – con
i concili ecumenici, il cui modello, di epoca costantiniana, è il concilio
di Nicea nel 325.
Tra i concili imperiali, la Chiesa riconosce un’autorità particolare ai
concili «ecumenici», che, per il periodo considerato, sono in numero di
cinque: Nicea (325); Costantinopoli I (381); Efeso (431); Calcedonia
(451); Costantinopoli II (553). Tali concili non si distinguono da altri
concili imperiali (per esempio Rimini, o Efeso II) né per le circostanze
della loro riunione, né per la loro grandezza, né per la loro composizione: se, in linea di principio, le grandi sedi sono rappresentate, tale regola non è sempre rispettata (nessun rappresentante di Roma siede a Costantinopoli I). L’ecumenicità di un concilio generale è determinata piuttosto dall’accoglienza che gli viene tributata, ossia dal fatto che le sue
decisioni sono accettate da tutte le Chiese – in realtà, da quelle principali. Vicendevolmente, il riconoscimento – soprattutto per quanto concerne il dogma – delle decisioni di questi concili è una condizione di cattolicità e ortodossia: le Chiese che, per esempio, si rifiutano di riconoscere il IV o il V concilio ecumenico, si trovano in condizione di scisma
rispetto alla Chiesa imperiale.
I concili ecumenici sono suscettibili di una definizione teologica: i
vescovi riuniti, dopo aver confrontato le tradizioni delle proprie Chiese, prendono all’unanimità decisioni ispirate dallo Spirito Santo. Nel loro funzionamento concreto queste assemblee, spesso movimentate, sono affini a consigli imperiali. È l’imperatore, infatti, che prende la decisione di riunire un concilio, determina la composizione ed emana le
convocazioni, assicura l’instradamento dei vescovi e fissa il luogo della
riunione (sempre in Oriente, di conseguenza con una scarsissima partecipazione occidentale; quattro volte su cinque, a Costantinopoli o nei
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suoi dintorni). Stabilisce anche l’ordine del giorno, può assistere alle sedute e dirigere i dibattiti. L’imperatore si fa rappresentare da alti funzionari laici, che vegliano sul corretto svolgimento delle discussioni; infine, gli spetta di ratificare le decisioni prese, di farle eseguire e di dar
loro forza di legge: è solamente allora che s’impongono all’insieme delle Chiese dell’Impero. Il funzionamento dei concili ecumenici illustra
così il potere esercitato dall’imperatore nella vita della Chiesa, più che
l’autorità dei patriarchi [De Vries 428]: lo svolgimento del concilio di
Costantinopoli II, dove Giustiniano impone duramente la sua volontà
a papa Vigilio, è caratteristico sotto tale aspetto.
3. Il diritto canonico.
La formazione del diritto canonico fornisce una dimostrazione supplementare del modo in cui l’imperatore interviene nella vita della Chiesa [Faivre 433]. Per risolvere i problemi che vengono alla luce, le autorità ecclesiastiche – vescovi, concili – possono promulgare dei testi disciplinari, i canoni. Questi ultimi spesso hanno solo un valore locale, ma
possono essere presi in prestito da una Chiesa all’altra e divenire di uso
generale. Si costituisce così progressivamente un diritto canonico, le cui
fonti sono molteplici e la cui codificazione è tarda e incompleta. A fianco dei «canoni degli apostoli» – di cui le Chiese d’Oriente riconoscono
l’autorità – e di quelli di alcuni padri della Chiesa, prendono posto i canoni disciplinari di antichi concili locali e quelli dei primi quattro concili ecumenici, con una prima messa in ordine operata dal concilio di
Calcedonia. Soprattutto, a tali testi di origine ecclesiastica finiscono per
aggiungersi le leggi imperiali, tra le quali occupa un ruolo particolarmente importante la legislazione di Giustiniano. Nel vi secolo, il patriarca
di Costantinopoli Giovanni lo Scolastico (565-77) riunisce una delle prime collezioni canoniche. I canoni dei concili vi sono classificati sotto 50
titoli; vi si aggiungono 68 canoni di san Basilio ed estratti dalle Novelle di Giustiniano, in 87 capitoli. Altre collezioni analoghe costellano l’elaborazione del Nomocanon, che nella sua mistura tra testi imperiali ed
ecclesiastici presenta le caratteristiche del diritto canonico bizantino.
Per fissarne precisamente il contenuto, occorre tuttavia attendere il concilio Quinisesto del 692, le cui decisioni saranno accolte negativamente da Roma.
L’ampiezza dei cambiamenti sopravvenuti in meno di tre secoli, da
Costantino all’epoca giustinianea, dà un’immagine della vitalità della
Chiesa, della sua capacità di adattarsi a una situazione nuova e della sua
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volontà d’impegnarsi nella vita di un Impero romano col quale sembra
identificarsi. Compaiono, tuttavia, alcuni segni di debolezza, soprattutto a livello delle istituzioni centrali, e l’esistenza, in parte teorica, di una
«pentarchia» esercitata in modo collegiale dalle grandi sedi non sembra
molto in grado di risolvere i gravi problemi d’unità che vengono a porsi. È solo ammettendo l’intervento di imperatori essi stessi cristiani e
ortodossi che la Chiesa trova l’autorità centrale che le manca, e la cristianizzazione dell’Impero romano ha per corollario l’apparizione di un
cristianesimo imperiale. Se Giustiniano è in grado di distinguere tra «il
sacerdozio per il servizio delle cose divine e l’Impero per l’ordine delle
cose umane» (Nov., 6), afferma peraltro che tra i due «la differenza è
scarsa» (Nov., 7).
1
j. gascou, Un codex fiscal Hermopolite (P. Sorb. II 69), Atlanta 1994.
BHG, 1374; ed. Malingrey, SC 13a.
3
BHG, 1241; ed. Gorce, SC 90.
4
gascou, Un codex fiscal Hermopolite cit.
5
Epistolae Romanorum Pontificum genuinae et quae ad eos scriptae sunt a S. Hilaro usque ad Pelagium II, a cura di A. Thiel, Brunsbergae 1868 (rist. Hildesheim 1974), pp. 350-52; trad. in
Dagron 321, p. 310.
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constantin zuckerman
v. L’esercito
Nel 364 Valentiniano e Valente, tornati dalla Mesopotamia con un
esercito sconfitto dai Persiani un anno prima, divisero le proprie truppe a Naisso. Questa breve notizia di Ammiano Marcellino (26.5.3) è stata interpretata nel senso di un giudizio di Salomone: ciascuna unità di
élite dell’esercito romano sarebbe stata spaccata in due [Hoffmann 449].
Tuttavia, non andò così. Il corpo di spedizione di 65 000 uomini radunato nel 362 dall’imperatore Giuliano per invadere la Persia, senza dubbio la più importante concentrazione di truppe di tutto il nostro periodo, fu ripartito per unità intere, o gruppi di unità, tra la parte occidentale dell’Impero, da allora in poi governata da Valentiniano, e la parte
orientale, attribuita a Valente. Tale divisione coincide con la spartizione quasi definitiva dell’Impero romano. La divisione dell’esercito imperiale tra due o più imperatori, praticata dalla Tetrarchia ma sospesa durante i regni solitari di Costantino, Costanzo II, Giuliano e Gioviano,
diviene fissa e strutturale. Le forze armate delle due partes imperii non
saranno mai più riunite. L’Impero d’Oriente, la futura Bisanzio, acquisisce a partire dagli anni ’60 del iv secolo un’identità e istituzioni distinte, tra le quali il Senato e l’esercito.
La spartizione delle truppe nel 364 offre una buona occasione per inserirsi nel flusso della storia bimillenaria dell’esercito romano e bizantino. Nessun fossato, nessuna rottura definita separano l’esercito dell’alto Impero romano da quello del «basso Impero», né quest’ultimo dall’esercito bizantino più tardo. Gli schemi di periodizzazione attualmente
in voga prendono le mosse dai mutamenti politici, religiosi, territoriali
e linguistici, ma la storia dell’esercito gode della stessa continuità dello
Stato di cui garantisce l’esistenza.
Tradizionalmente si delimita il primo periodo bizantino con due
riforme militari di grande importanza: da una parte quella di Diocleziano e/o di Costantino, dall’altra quella di Eraclio. Tale visione dev’essere fortemente sfumata. Vi furono alcuni imperatori più impegnati di altri nell’organizzazione dell’esercito; tuttavia, un esame più approfondi-
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to dissolve spesso le grandi riforme in una serie di misure limitate scaglionate nel tempo, tentativi di rimediare alle debolezze mostrate man
mano dall’esercito imperiale. Il nostro periodo incomincia, in effetti,
con una riuscita riorganizzazione delle strutture militari e termina con
una crisi statale che deriva in primo luogo dalle fratture dell’esercito.
Interamente professionale, mantenuto e pagato dallo Stato, l’esercito
domina di gran lunga gli altri dipartimenti del servizio pubblico e fa la
parte del leone nel bilancio. Tracceremo l’evoluzione di questo modello, ereditato dal principato, mostrando la sua capacità di adattamento,
ma anche la sua rigidità e i suoi limiti, il cui effetto cumulato si manifesta chiaramente all’epoca di Eraclio.
i. le strutture dell’esercito: il dispositivo e gli effettivi.
Nel corso del iv secolo si sviluppa un «esercito a due velocità» [Carrié 139]. Un esercito centrale, pronto a intervenire su ciascun fronte, si
distingue sempre di più dall’esercito delle guarnigioni, disperso lungo le
frontiere. L’esercito mobile, meglio addestrato, remunerato ed equipaggiato, diviene alla fine l’unica forza adeguata per un’azione militare di
grande portata. Le guarnigioni confinarie perdono la combattività che
possedevano sotto il principato e rimangono adatte solamente a compiti di sorveglianza locale. Una simile graduale atrofia di una grande parte delle forze armate diviene un grosso handicap nel v-vi secolo, pur derivando da un provvedimento ben intenzionato, nato dall’esperienza
delle disfatte militari del iii secolo: la creazione di una frontiera fortificata.
1. Una frontiera fortificata.
All’ideologia di espansione permanente della repubblica e dell’inizio
del principato, a partire dalla metà del iii secolo si sostituisce l’ammissione che l’imperium Romanum ha raggiunto i suoi limiti e che il suo ruolo non è più di ampliarli, ma di difenderli al meglio. È in tale circostanza che la parola limes – passaggio tra due campi, sentiero, linea di demarcazione – acquista il senso specifico di frontiera sorvegliata,
eventualmente fortificata. Dalla metà del ii secolo, lungo le frontiere si
moltiplicano fortilizi e opere difensive di vario tipo, tra cui il famoso
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Vallo di Adriano in Scozia; tuttavia è sotto i Tetrarchi e i loro primi successori che viene messo a punto il dispositivo conosciuto, dopo qualche
ritocco, tramite la Notitia Dignitatum.
Tale documento bipartito sarà citato frequentemente in queste pagine, giacché fornisce l’idea delle «dignità», funzioni civili e militari di
alto e medio livello, rispettivamente in Oriente e in Occidente – in altri termini l’organigramma dei servizi statali dell’Impero diviso. La sua
composizione risale al 401 [Zuckerman 346]. Conservata in Occidente,
nel primo terzo del v secolo ha subito rimaneggiamenti nella sua sezione occidentale, ma la sezione orientale è stata lasciata quasi intatta. La
Notitia comprende, tra l’altro, il repertorio completo dei posti d’ufficiale comandante un’unità militare, e dunque delle unità stesse, e indica il
luogo di acquartieramento delle unità confinarie.
La Notitia enumera, in Oriente, 336 guarnigioni di frontiera, ripartite in tredici comandi (alcuni dei quali corrispondono a una provincia,
altri invece ne inglobano due o più), affidati a comites o a duces. Tenuto conto della perdita del capitolo dedicato alle due Libie, il loro numero totale non doveva superare le 350. Tale lista non presenta, come credono alcuni, uno schema tetrarchico cristallizzato, ma una panoramica
aggiornata del dispositivo funzionale evolutosi per tutto il corso del iv
secolo, e che può essere diviso in quattro settori:
– circa un terzo delle guarnigioni, 104 in tutto, sono scaglionate lungo il Danubio, nelle quattro province che costeggiano il fiume (Mesia I, Dacia ripuaria, Mesia II, Scizia). Si annoverano tra di esse
alcune unità della flotta fluviale. Il nemico principale che si trovano ad affrontare all’inizio del iv secolo è costituito dai Goti. Successivamente, arriveranno gli Unni, gli Slavi, gli Avari;
– un altro gruppo importante protegge il fianco orientale dell’Impero, fronteggiato dalla Persia. Tale dispositivo essenzialmente lineare, determinato in parte dai corsi dell’Eufrate e del Tigri, comprende 62 unità ripartite tra i comandi di Armenia, Mesopotamia e
Osroene;
– i quattro comandi situati più a sud – la Siria, la Fenicia, l’Arabia e
la Palestina – sono forti di 95 unità. In assenza di ostacoli naturali, tale dispositivo si colloca piuttosto lungo una linea di demarcazione, difficile da tracciare, tra la zona di sfruttamento agricolo e
d’insediamento sedentario da una parte, e l’ambiente desertico dei
nomadi dall’altra. In questa regione, il principale pericolo per l’Impero viene dalle tribù arabe alleate con la Persia, che tuttavia talora agivano per conto proprio. Altre tribù arabe sono alleate con
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l’Impero, e ciò complica notevolmente la demarcazione [cfr. cap.
xiii];
– 75 unità, divise tra i comandi d’Egitto e della Tebaide, sono scaglionate lungo circa 1000 km, dal delta del Nilo fino alla prima cateratta. Benché le fonti lo descrivano come un limes, tale dispositivo non contrassegna una frontiera propriamente detta. La maggior parte delle guarnigioni sono insediate in grandi agglomerati o
fortezze lungo la valle del Nilo, troppo stretta perché si possa fare
distinzione tra una zona confinaria e il retroterra agricolo. La valle, soprattutto nella sua parte meridionale, e ancor più le oasi a occidente del Nilo sono minacciate dalle tribù del deserto, tra cui i
Blemmi [cfr. cap. xiv].
La natura del dispositivo confinario, conosciuto non solo grazie alla
Notitia ma anche tramite numerosi studi archeologici di siti fortificati,
costituisce attualmente l’oggetto di un vivo dibattito. Certuni arrivano
a negare al termine limes il senso di «frontiera fortificata», insistendo
sulla dispersione degli insediamenti di guarnigione e sul ruolo dei loro effettivi nella sorveglianza della popolazione locale piuttosto che nella difesa contro gli invasori stranieri [Isaac 469]. Non sorprende che questa
tesi poggi su uno studio parziale dei siti fortificati in Arabia e Palestina,
la cui ubicazione subisce in effetti il condizionamento del tracciato delle piste carovaniere, della disponibilità di sorgenti d’acqua, ecc. Uno studio fondato principalmente sui dati della frontiera africana – di cui solo
la sezione corrispondente alle due Libie appartiene all’Impero d’Oriente – sottolinea il ruolo di tale dispositivo nel controllo delle migrazioni
stagionali dei nomadi e del loro bestiame (la transumanza), considerando il limes come una zona di contatto e di scambi piuttosto che di scontro [Whittaker 477]. Questi studi attirano l’attenzione su mansioni talora misconosciute delle truppe di frontiera, ma sottovalutano il compito primario di tale dispositivo, che invece risulta assai chiaro dalle fonti
(in questo caso, De rebus bellicis [435, § 20, pp. 36-39], diretto senza dubbio all’imperatore Valente alla fine degli anni ’60 del iv secolo):
Tra gli interessi della cosa pubblica c’è anche l’utile cura dei confini, che circondano tutti i lati dell’Impero; la loro difesa potrà essere meglio assicurata da una
fitta serie di castelli, in modo che si ergano a intervalli di mille passi con un solido
muro e con fortissime torri … Vi si dovrebbero tenere posti di guardia e picchetti
di esplorazione, in modo che la quiete delle province, avvolta, per così dire, da una
cinta protettiva, riposi illesa.
Questo vagheggiamento un po’ teorico di una linea di piazzeforti così fitta si ispira allo sforzo realizzato sul Danubio. Una descrizione più
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realistica della frontiera orientale appare nella Vita di Alessandro l’Acemeta, che «percorre tutto il limes» tra Resafa e Palmira (in Siria e in Fenicia) all’incirca nel 425 e il cui biografo nota, riguardo a questa zona
desertica, che «tra Romani e Persiani esistono delle piazzeforti che tengono testa ai barbari, distanti l’una dall’altra 10 o 20 miglia». Per citare solo una legge tra tante, la novella 4 di Teodosio II, promulgata nel
438, ricorda che, «per una disposizione degli antichi, tutto il territorio
sottomesso al nome di Roma è protetto dalle incursioni barbare grazie
al bastione del limes».
I capi militari del basso Impero avevano una vera e propria strategia
basata sul limes? Secondo lo schema strategico di uno specialista della
teoria militare moderna, le guarnigioni di frontiera assumono il ruolo di
primo sbarramento che ritarda l’invasore fino all’arrivo dei rinforzi e
poi minaccia le retrovie e le linee di comunicazione del nemico, se quest’ultimo avanza senza prima essersi sbarazzato dei forti confinari
[Luttwak 471]. Nessun testo dell’epoca presenta questo schema in termini espliciti e si è rimproverato al suo autore di aver modernizzato il
pensiero militare antico [Isaac 469, pp. 372-418]. Tali critiche sono senza dubbio eccessive [Wheeler 478], giacché è legittimo e per certi versi
indispensabile tradurre in termini moderni – senza dimenticare che si
tratta di una traduzione – i fenomeni che ci vengono rivelati dallo studio dell’Antichità. Quand’anche si rifiuti ai generali del basso Impero
lo spirito di sistema inerente alla nozione moderna di strategia, si ha diritto di parlare dell’immaginario del limes. Le fonti lo assimilano metaforicamente a una cintura, un bastione, un fossato, un muro d’acciaio.
Le distinte fortificazioni confinarie vi si fondono in una barriera continua che protegge i fianchi dell’Impero. Dall’epoca dei tetrarchi, l’immagine del limes protetto e protettore fornisce la garanzia materiale della sicurezza ritrovata dopo la crisi del iii secolo [Zuckerman 479].
Quest’immagine assai forte, presente alla coscienza degli imperatori
e dei loro sudditi, conferisce la sua giustificazione all’esistenza di un sistema che ne ha davvero bisogno. Nato dal medesimo sentimento d’insicurezza della linea Maginot e della «frontiera blindata» dell’Unione Sovietica (glorificata nei discorsi degli anni Trenta, ma attraversata senza
il minimo sforzo dai carri armati tedeschi nel 1941), il limes è altrettanto inefficace. Ogni ostacolo lineare è incapace di arrestare un attacco concentrato. La maggioranza delle guarnigioni è dunque evacuata o dissolta
senza rumore nel corso del v e del vi secolo, nel momento in cui il governo si rende conto che esse non giustificano il costo del loro mantenimento. Alla fine del nostro periodo, il sistema di difese confinarie ha cessato di esistere. Non può essere preso in considerazione nessun tentativo
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di affrontare il nemico sulla frontiera, danubiana od orientale. Se all’inizio del iv secolo il limes si erige come un muro protettore sui fianchi lontani dell’Impero, l’unica cinta protetta che l’Impero possiede nel 626, al
tempo dell’invasione avaro-persiana, è quella di Costantinopoli. Lo Stato bizantino dei secoli oscuri è uno Stato senza frontiere.
A tale contrasto occorre aggiungerne un altro. Il sistema del limes
impone un’ampia dispersione di truppe in guarnigioni ridotte a qualche
centinaio di soldati. Trasformazione del dispositivo stazionario del ii-iii
secolo, è agli antipodi dell’arte militare romana classica, fondata sulle
legioni, unità tattiche maneggevoli di ampie dimensioni (c. 5500 uomini senza gli ausiliari). L’immobilizzazione e la dispersione delle truppe
sulle frontiere fa pesare, alla fine, una gravosa ipoteca sul loro livello
d’addestramento e sul loro valore guerresco [cfr. infra, § 3]. Frattanto,
si viene a creare una forza mobile che si afferma di fronte all’esercito
delle guarnigioni.
2. L’esercito da campagna: la fanteria e la cavalleria.
Gli autori antichi e ancor più i ricercatori moderni hanno posto alla
base della storia militare dell’Impero cristiano una riforma radicale che
mirava a dividere in due classi le forze armate. Zosimo [186] intorno al
500 e Malala [176] verso il 570 attribuiscono a Diocleziano la creazione di guarnigioni confinarie: «Diocleziano eresse delle fortezze sul limes, dall’Egitto fino alle frontiere persiane, e vi insediò dei soldati limitanei» [Malala 176, 12.308]. In Zosimo (2.34), a ciò si aggiunge un’accusa gravissima rivolta all’odiato Costantino I:
Queste misure di sicurezza vennero meno con Costantino, che tolse la maggior
parte dei soldati dalle frontiere e li insediò nelle città che non avevano bisogno di
protezione; privò dei soccorsi quelli che erano minacciati dai barbari e arrecò alle
città tranquille i danni provocati dai soldati: perciò ormai moltissime risultano deserte. Inoltre lasciò rammollire i soldati, che frequentavano i teatri e si abbandonavano a dissolutezze: in una parola fu lui a gettare il seme, a causare la rovina dello
Stato che continua sino ai nostri giorni.
Questo celebre passaggio è servito ad appoggiare la conclusione secondo la quale «è dunque Costantino … che, mosso dalla propria ambizione, ha istituito un esercito di manovra, concentrato permanentemente all’interno del territorio romano, a sua immediata disposizione» [Van
Berchem 464, p. 114].
Non si può rimproverare agli autori del vi secolo un certo appiattimento cronologico nella descrizione di avvenimenti distanti duecento
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anni dalla loro epoca. Tentiamo di proporne una visione più espansa nel
tempo, com’è possibile ricavarla dai documenti contemporanei, e cominciamo dalla sottolineatura di un punto essenziale. Le lista di unità dell’esercito mobile nella Notitia [109] sono organizzate secondo un ordine di precedenza, che corrisponde all’origine più o meno antica di ciascuna unità nella sua categoria di truppe. Dopo un inizio modesto sotto
la Tetrarchia, l’esercito mobile raggiunge il suo apogeo verso l’epoca della Notitia (401), che gli attribuisce, solo in Oriente, più di 150 unità, ossia parecchie decine di migliaia di uomini.
Da chi è composto allora questo esercito e com’è organizzato?
2.1. L e l e g i o n i e g l i a u x i l i a .
A partire dal ii secolo d.C. era pratica corrente prelevare dalle legioni alcuni distaccamenti destinati a campagne importanti e missioni specifiche. Le formazioni ad hoc, che di solito non comportavano più di due
coorti tratte da una sola legione per non indebolirne troppo gli effettivi, hanno ricevuto il nome di vexillationes: un vexillum, stendardo comune, trasformava una formazione composita in una unità tattica a parte. La loro missione poteva durare anni, ma presto o tardi ciascun distaccamento doveva riunirsi alla propria unità d’origine. La crisi del iii
secolo ha dovuto rendere più frequente il prelevamento di vexillationes
e più problematico il ritorno alle rispettive basi, soprattutto quando l’Impero era lacerato dalle usurpazioni. All’inizio dell’epoca tetrarchica si
constata, in ogni caso, che certi distaccamenti legionari seguono permanentemente gli imperatori durante le loro campagne, mentre il legame
con le unità d’origine diviene sempre più teorico.
Aurelio Gaio, un legionario cristiano che si è dovuto ritirare dall’esercito in occasione delle persecuzioni del 302, si fa incidere sulla lapide la propria carriera, peraltro assai modesta, e la lista di più di trenta
città e paesi in cui si è recato nel corso del suo servizio militare. Tali dati geografici ricalcano perfettamente gli itinerari militari dei tetrarchi
[Drew-Bear 442; Zuckerman 491]. Qualunque sia la legione cui appartiene Gaio (ne ha conosciute tre), la sua coorte è sempre in marcia al seguito di un augusto o di un cesare. I suoi spostamenti mostrano in azione un nuovo esercito, esercito agguerrito e altamente mobile che mette
in campo i migliori elementi delle vecchie legioni e si batte al fianco degli imperatori.
Le origini dell’armata mobile spiegano come mai i suoi effettivi siano designati, dal secondo quarto del iv secolo fino alla metà del vi, con
il nome di comitatenses, che indica l’appartenenza al comitatus, il segui-
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to, ossia la Corte imperiale. Le migliori unità di tale armata sono promosse, all’incirca nel 360, al rango di palatini, truppe del palazzo, ma
questo titolo onorifico rimane poco utilizzato. Nonostante il loro nome,
i comitatenses non sono né una guardia di palazzo né delle vere e proprie
guardie del corpo. Quest’ultimo compito spetta a delle unità speciali, le
scholae palatine e, a partire dalla metà del v secolo, gli excubitores.
Le legioni palatinae hanno il rango più prestigioso tra le unità di fanteria. In Oriente sono 13; poi, altre 57 sono classificate comitatenses e
pseudocomitatenses (unità confinarie integrate posteriormente all’esercito mobile). Tra queste legioni si trovano alcune creazioni tetrarchiche,
così come formazioni più recenti che portano i nomi di imperatori del
iv secolo. Il gruppo più rilevante consiste in distaccamenti di legioni del
principato, identificate dal nome e dal numero d’ordine (Quinta Macedonica, Septima Gemina), dal numero solamente (Undecimani = XI Claudia) o infine da soprannomi come Daci o Scythae, che non rimandano a
tali popoli ma alle legioni anticamente di stanza nelle province di Dacia
e Scizia.
Più di un distaccamento della medesima legione può essere incorporato nell’esercito mobile e la legione in questione è suscettibile di figurare ugualmente tra le guarnigioni confinarie. Tale frazionamento delle
antiche legioni ci conduce al problema così dibattuto della dimensione
delle unità in epoca protobizantina. In effetti, la legione classica comprende all’incirca 5500 uomini, mentre le ali e le coorti ausiliarie del
principato annoverano, a seconda del tipo d’unità, da 500 a 1000 soldati. Tali ordini di grandezza permettono di valutare gli effettivi dell’esercito che partecipa a una campagna o dell’esercito romano nella sua
interezza, se si conoscono le unità che lo compongono. Quale dimensione si può supporre, però, per una legione del iv-v secolo? La questione
ha ricevuto risposte divergenti. Contro la diffusa ipotesi di una nuova
«legione tetrarchica» composta stabilmente da 1000 fanti, Jones [149]
ha mantenuto la cifra di 6000 uomini, valutazione elevata degli effettivi dell’antica legione, aumentando in proporzione le dimensioni dell’esercito imperiale. Tuttavia, il frazionamento cui erano correntemente
sottoposte le legioni mostra che non si può più attribuire un’unica grandezza alle differenti formazioni che portano questo nome nella Notitia.
I distaccamenti divenuti legioni palatine o comitatenses comprendono
probabilmente una o due antiche coorti (500-1000 uomini) e la dimensione delle legioni «madri» insediate sulle frontiere dipende dal numero di distaccamenti precedentemente prelevato (2000-3000 uomini?).
Stimare la dimensione delle legioni create nel corso del iv secolo è ancora più difficile. I nomi di legione, ala, coorte o altro, costantemente
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impiegati nella Notitia, non forniscono informazioni sugli effettivi delle unità in questione. Se sotto il principato (come nell’esercito moderno) tutte le unità della medesima categoria avevano una struttura e una
dimensione comuni, ciò non avviene più nella nostra epoca. Questo è il
motivo per cui le fonti menzionano sempre meno frequentemente la categoria di una unità. Il termine generico di numerus/arithmos, che all’inizio designava le formazioni non appartenenti a un tipo riconosciuto,
s’impone come denominazione corrente di tutte le unità militari.
Gli auxilia palatini fanno parte delle unità di fanteria dell’esercito
mobile, a fianco delle legioni. La Notitia d’Oriente ne enumera 43. Le
ipotesi sulle loro origini, perlopiù oscure, hanno alimentato un lungo dibattito gravato di connotazioni ideologiche. Gli auxilia sarebbero stati
composti in maggioranza, se non interamente, da reclute germaniche
giunte da oltre il Reno, chiamate dai tetrarchi a soccorrere un esercito
romano vacillante [Hoffmann 449]. L’immagine di un Impero mediterraneo invecchiato, bisognoso del giovane sangue germanico per continuare a resistere agli attacchi barbarici, ha goduto di durevole fortuna
nella storia militare. Tuttavia, la nozione di una massiccia «barbarizzazione» dell’esercito post-tetrarchico, soprattutto dei suoi elementi più
agguerriti, è poco pertinente per l’Impero d’Oriente. Quanto agli auxilia, le scarne informazioni sui più antichi tra di essi, posizionati al principio delle liste della Notitia, li presentano come formazioni assai eterogenee.
L’auxilium dei Batavi è la trasformazione di una unità della Guardia
imperiale sotto il principato. L’auxilium dei Mattiaci trae le proprie origini da una modesta milizia renana, mentre quello degli Eruli, l’unico
di cui si può affermare con certezza che i suoi primi effettivi fossero stati forniti da barbari giunti dal di fuori dell’Impero, potrebbe essere composto dai guerrieri del re erulo Naulobato, che aveva tradito i propri alleati Goti ed era passato dalla parte dell’imperatore Gallieno al tempo
dell’invasione del 267-68 [Zuckerman 465].
L’inserimento di queste formazioni disparate nell’esercito regolare
impone loro un sistema di gradi uniforme [cfr. infra]; il rinnovamento
degli effettivi elimina le particolarità etniche dopo una o due generazioni. Poco numerosi all’epoca dei tetrarchi, gli auxilia crescono di numero nel corso del iv secolo. Questo nuovo tipo di unità d’élite di fanteria
è più leggero della legione a livello di armamento e i suoi effettivi superano a malapena la dimensione di una coorte legionaria.
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2.2. L ’ a s c e s a d e l l a c a v a l l e r i a .
Le truppe di fanteria rappresentano ancora, verso il 400, circa tre
quarti dell’armata mobile d’Oriente come numero di unità e una parte
analoga, se non superiore, quanto a effettivi; cionondimeno, risultano
superate dalla cavalleria nell’ordine di precedenza indicato dalla Notitia. Il posto della cavalleria nelle liste della Notitia, quelle dell’esercito
mobile come quelle delle guarnigioni provinciali, riflette una trasformazione profonda dell’arte della guerra, un’innovazione che separa, in quest’ambito, l’Antichità dal Medioevo.
La potenza di Roma, come quella degli stati greci di epoca classica
ed ellenistica, è fondata sulla fanteria: la falange, seguita dalla legione.
La cavalleria del principato è composta, ad eccezione di piccoli contingenti a cavallo facenti parte delle legioni, da unità ausiliarie perlopiù reclutate tra i peregrini, che non fanno molta concorrenza alle legioni né
sul piano tattico né per quanto concerne la condizione dei loro soldati
e il prestigio sociale del servizio. I primi segni di cambiamento appaiono nella seconda metà del iii secolo. Le monete battute dall’imperatore
Gallieno e dall’usurpatore gallico Postumo recano, tra i consueti elogi
di legioni e pretoriani, alcuni slogan in onore dei cavalieri: fidei equitum
e concordia equitum. Si tratta di formazioni di tipo nuovo, denominate
vexillationes (equitum) o semplicemente equites [Speidel 460]. Si tratta
del medesimo tipo di formazione che si ritrova tra le unità d’élite della
Notita.
I cavalieri d’élite di epoca tetrarchica sono reclutati tra i popoli dell’Impero che, come i Mauri e i Dalmati, sono abili nel maneggio della
lancia e del giavellotto e portano un’armatura assai leggera. Nel iv secolo, l’influenza orientale porta a introdurre un’armatura più pesante, come testimoniato dagli stessi nomi delle unità, catafractarii (bardati d’armatura) e clibanarii (chiusi in un «forno», metafora per la pesante corazza). L’arco rinforzato (detto «composito») diviene la loro arma di
elezione.
I mugugni degli scrittori militari conservatori permettono di comprendere i turbamenti provocati dall’ascesa della cavalleria. Il primo a
levarsi contro il declino delle legioni, nel 386 circa, è Flavio Vegezio.
L’autore ricorda al suo giovane sovrano Valentiniano II che, dei tre rami dell’esercito (cavalleria, fanteria e flotta), i fanti sono i più importanti per lo Stato giacché possono essere impiegati su tutti i terreni e il
loro costo per soldato è il più ridotto. Tuttavia, allora l’addestramento
della fanteria era trascurato, così come il suo armamento. Le armi dei
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cavalieri migliorano – seguendo l’esempio, ironizza Vegezio, dei Goti,
degli Alani e degli Unni –, mentre i fanti romani vanno in battaglia senza protezione [Vegezio 438, 2.1].
La stessa dottrina arcaizzante che, rifiutando il cambiamento, testimonia della sua portata viene espressa nel trattato Sulla scienza politica,
redatto sotto forma di dialogo platonico verso il 530. L’interlocutore
più giovane nota che la cavalleria è attualmente in auge, mentre prima
non era che un «accessorio» della fanteria. L’interlocutore principale,
senza dubbio l’autore del trattato, il patrizio Mena, visibilmente a disagio, non nega l’importanza delle forze a cavallo – assegna loro una gran
quantità di compiti subalterni – ma non rinuncia alle proprie convinzioni. La fanteria sarebbe l’incarnazione della virtù civica di Roma e la garanzia del suo benessere. La «pratica militare moderna» accorda il primato alla cavalleria, ma ne paga le conseguenze: tale inesplicabile negligenza verso la fonte da cui l’Impero aveva attinto la forza necessaria per
accrescersi, ne avrebbe comportato l’attuale contrazione.
Adesso si comprende il punto focale del lungo passaggio polemico
che apre la Storia delle guerre di Procopio. L’autore se la prende con i
reazionari che deplorano la perduta virtù degli antichi fanti che combattevano corpo a corpo e ridicolizzano invece gli arcieri dei loro tempi.
Tuttavia questi arcieri, ben protetti e polivalenti perché armati, oltre
che dell’arco, di una spada e di una lancia, rappresentano il culmine della «tecnologia» moderna e il loro vantaggio principale consiste nel fatto che sono unità a cavallo, e per giunta eccellenti nell’equitazione (Bella, 1.1.6-17). Un simile impegno in favore della cavalleria è dettato da
una comprensione realistica dell’arte militare dell’epoca, praticata in
particolare da Belisario. Più di un secolo prima di Procopio, comunque,
Sinesio di Cirene descrive già la tattica di base che sarà successivamente impiegata, tra gli altri, da Belisario. Una piccola unità di cavalieri
Ounnigardai, senza dubbio di origine unna, intorno al 411 è inviata a difendere la Cirenaica dalle razzie della tribù degli Ausuriani. L’unità compie prodigi nell’attaccare e massacrare il nemico. «Ma anche gli Ounnigardai – aggiunge Sinesio – avevano bisogno di una retroguardia e di un
esercito schierato. Avevano bisogno di una falange come di una spada
efficace, con la parte acuminata che viene spinta avanti e quella più massiccia che viene dietro». In questa «falange di scudi» il dux della provincia ha schierato «tutti», ossia i soldati delle guarnigioni provinciali
(Catastasis, 2.2)1. Questo schema di combattimento riserva alla fanteria
il ruolo di una «falange» ausiliaria che protegge le retrovie dei cavalieri che vanno all’assalto e ne copre la ritirata.
Gli autori che lamentano l’abbandono della tradizione marziale na-
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zionale non hanno tutti i torti. La cavalleria dell’epoca protobizantina
mostra una straordinaria capacità di adattamento, riprendendo le migliori tecniche di combattimento dei suoi avversari, che siano Goti, Unni, Persiani o Avari [Dagron 441]. Nel corso degli anni, la sua preminenza sul campo di battaglia non fa che accrescersi: il nuovo corpo d’élite formato alla fine del vi secolo [cfr. infra, p. 181] è composto esclusivamente da truppe a cavallo.
Al termine delle guerre intestine della fine della Tetrarchia, le truppe comitatenses formano un corpo unico il cui comandante in capo è l’imperatore in persona, ma alla fine del regno di Costantino (337) il suo comando è diviso tra due ufficiali superiori, il «maestro dei cavalieri» (magister equitum) e il «maestro dei fanti» (magister peditum). Tale innovazione precede di poco la divisione dell’Impero, e dunque dell’esercito,
fra i tre principi-eredi. Inizia allora il frazionamento dell’esercito mobile, che prosegue e si struttura nel corso del iv secolo. A partire dagli anni ’60 di quel secolo, in un Impero diviso in due, appaiono raggruppamenti stabili di truppe in Illirico e in Gallia da una parte, e in «Oriente» (a fronteggiare la Persia) e in Tracia (a fronteggiare i Goti) dall’altra. La Notitia (401) suddivide l’esercito mobile dell’Impero d’Oriente
in cinque comandi, ciascuno affidato a un magister militum che da allora raduna sotto i suoi ordini le unità di cavalleria e di fanteria. Due di
tali magistri militum risiedono «al cospetto» dell’imperatore, in quanto
le loro truppe sono di stanza non lontano dalla capitale, rispettivamente sulla riva europea e su quella asiatica del Bosforo. Gli altri tre sono
responsabili delle truppe mobili schierate in Oriente (essenzialmente
nella diocesi d’Oriente), in Tracia e nell’Illirico orientale. Questa struttura di comando rimane stabile fino all’inizio del regno di Giustiniano,
che vede apparire un magister militum in Armenia (528). La riconquista
dell’Africa, e successivamente dell’Italia, provoca alla fine la creazione
di comandi militari analoghi in queste due regioni.
Dopo la presente ricapitolazione, ci si può ritenere in una posizione
migliore per valutare il contributo di Costantino alla creazione dell’esercito mobile. Si tratta davvero dell’«innovatore che ha creato l’esercito del iv secolo», che «ha grandemente accresciuto la forza dell’esercito mobile da campagna, ritirando definitivamente alcuni distaccamenti di truppe di frontiera e reclutando in cambio vexillationes di cavalleria
e unità di fanteria di tipo nuovo, gli auxilia» [ Jones 149, p. 608]? La risposta è assai meno netta. In effetti, è difficile individuare, nelle liste
della Notitia, unità mobili la cui creazione possa essere attribuita a Costantino. La sua principale creazione accertata sono le scholae palatine,
almeno cinque squadroni di 500 cavalieri ciascuno, che diventano la
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Guardia imperiale dopo la soppressione, nel 312, della Guardia pretoriana, che si era compromessa sostenendo il rivale di Costantino, Massenzio. Le scholae mantengono il loro profilo di unità d’élite durante il
iv secolo, quando gli imperatori prendono ancora personalmente parte
alle campagne militari, ma nel corso del v si trasformano in truppe da
parata. Subordinate al magister officiorum, appartengono in ogni caso all’apparato di palazzo piuttosto che all’esercito regolare [cfr. sopra, pp.
104-5].
Costantino ha ritirato truppe dalla frontiera in una sola occasione
degna di nota, nel 311-12, quando marciò su Roma alla testa dell’armata gallica che l’aveva proclamato imperatore alla morte di suo padre, Costanzo Cloro, nel 306. Le migliori unità di tale esercito sono divenute
il nerbo del suo comitatus. Dopo la vittoria su Massenzio, Costantino ha
recuperato l’esercito del suo rivale e successivamente, nel 324, si è impadronito del territorio e dell’esercito di Licinio, che in precedenza aveva integrato tra le sue truppe gli eserciti di Galerio e Massimino Daia.
In seguito, Costantino ha goduto di una relativa pace sui confini, e niente lo incitava a creare nuove unità. Nel 324, si è ritrovato unico padrone di un esercito la cui élite, mai riunita prima di allora in un solo corpo, aveva fatto tutte le guerre dei tetrarchi. Non era affatto concepibile, vista l’esperienza accumulata, disperderla sulle frontiere. Costantino
ha accordato a tale forza, dagli effettivi ancora assai ridotti, una perennità e una condizione ben definita, divenendo così il fondatore dell’esercito mobile quasi involontariamente. Quanto al folgorante sviluppo
dell’esercito mobile nel secolo successivo a Costantino, si spiega in gran
parte con il graduale declino dell’esercito confinario.
3. I soldati-frontalieri: il fallimento di un modello socio-militare.
L’Historia Augusta, questo falso storiografico, fittiziamente risalente all’epoca tetrarchica ma redatto, in realtà, verso il 400, attribuisce ad
Alessandro Severo (222-35), il suo imperatore-modello, numerose misure utili allo Stato. Avrebbe, tra l’altro, assegnato
i territori conquistati al nemico ai comandanti e ai soldati delle truppe di confine,
con la condizione che sarebbero diventati di loro proprietà, se gli eredi avessero seguito la carriera militare, in modo che non venissero mai in possesso di privati, affermando che essi avrebbero compiuto il loro servizio con maggior dedizione, se
avessero avuto da difendere anche i propri possedimenti. Fornì inoltre a essi animali e schiavi, affinché potessero coltivare ciò che avevano ricevuto, onde non avvenisse che per mancanza di braccia o per la vecchiezza dei possidenti fossero abbandonate delle terre confinanti con quelle dei barbari2.
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Questo passaggio è stato ricondotto alle costituzioni imperiali del vvi secolo, che dipingono i soldati-frontalieri (limitanei milites) come coltivatori e attestano la condizione particolare delle loro terre, esenti da
tasse e riservate esclusivamente ai militari. Quando ancora i dati dell’Historia Augusta erano presi per oro colato, nessuno dubitava che all’origine di tale condizione vi fosse Alessandro Severo. In seguito, la critica
dell’Historia Augusta ha condotto inizialmente a spostare questa riforma
alla metà del iii secolo, se non addirittura all’epoca tetrarchica, e poi a
contestare la stessa realtà di una riforma che trasformava le guarnigioni
di frontiera in comunità di soldati-contadini. Così Jones [149, pp. 649654] fa osservare che il possesso di terre da parte dei soldati è segnalato
solo a partire dal v secolo e che allora le guarnigioni confinarie sono sempre unità regolari, benché di minima qualità. Isaac [469, pp. 140-47] afferma per giunta che questi soldati possedevano terre a titolo privato, come ogni proprietario civile, senza che questo influisse sulla loro capacità
di fare la guerra. La realtà sociale, rispecchiata in particolare dai papiri,
è più complessa e fluida. Benché nessuna riforma abbia trasformato i soldati in contadini da un giorno all’altro, la descrizione dell’Historia Augusta è ben ancorata nella realtà dell’epoca della sua redazione. L’immobilismo e il reclutamento locale, spesso ereditario, delle guarnigioni confinarie fanno sì che i soldati acquistino e coltivino terre e che si dedichino
ad altre occupazioni civili a detrimento del loro potenziale militare, e poi
della loro valutazione e remunerazione da parte dello Stato.
3.1. L a c o n d i z i o n e d e i « s o l d a t i - f r o n t a l i e r i » .
Una legge di Costantino stabilisce i termini del congedo delle differenti categorie di truppe, in particolare la durata del servizio richiesto
e i privilegi fiscali dei veterani (CTh, 7.20.4, del 325). I comitatenses vi
compaiono per la prima volta come truppe distinte; i loro vantaggi rispetto a quelli dei ripenses, le migliori truppe confinarie composte soprattutto da legioni, sono ancora minimi. D’altro canto le legioni confinarie, vecchia élite dell’esercito romano, sono assai favorite rispetto
alle unità ausiliarie, ali e coorti, ugualmente stazionate lungo le frontiere. In un periodo in cui l’esercito mobile rappresenta una parte trascurabile delle forze armate dell’Impero, l’esercito delle frontiere, dov’è
concentrata la stragrande maggioranza delle formazioni ereditate dall’epoca del principato, non presenta una condizione uniforme.
Il divario tra il nuovo esercito d’élite e le migliori truppe confinarie
si allarga nel corso del iv secolo. Una legge del 363 parla per la prima
volta di limitanea militia per designare una categoria distinta di truppe
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(CTh, 13.1.56). Le differenze di struttura e condizione di servizio tra i
differenti tipi di unità stazionate lungo le frontiere divengono in seguito sempre più marginali, in confronto ai tratti che ormai le uniscono e
che derivano dal fatto che tali unità, mai dislocate al di fuori della loro
regione, si integrano nella comunità civile.
Sugli inizi di tale processo gettano luce i papiri di Flavio Abinneo,
comandante, negli anni ’40 del iv secolo, di un’ala di cavalleria insediata a sud-ovest del Fayyum (Basso Egitto). La sua fortezza di Dionisiade, di 83 per 70 metri di lato e dalle mura spesse 3,80 metri, tipica del
programma varato da Diocleziano, è stata ritrovata in buono stato dagli scavatori [Schwartz 475]. Fu evacuata dalla guarnigione poco dopo
la sua ultima attestazione nella Notitia (401), in seguito all’insabbiamento dei canali d’irrigazione e all’abbandono dei villaggi vicini. I documenti che Abinneo portò con sé quando dopo il congedo si ritirò in un villaggio dei dintorni, poco dopo il 350, in particolare le lettere e le petizioni riguardanti il comportamento dei suoi soldati, danno l’immagine
di un’unità militare completamente immersa nel suo ambiente paesano.
Il soldato Paolo, originario di un villaggio vicino, e tre complici, tra cui
un altro soldato, sono accusati da un abitante del villaggio di aver tosato durante la notte undici delle sue pecore (P. Abinn., 48). Il medesimo
Paolo, colpevole di diserzione, ottiene che il prete del villaggio interceda in suo favore (P. Abinn., 32). L’assenteismo è endemico nella guarnigione. Un graduato deve scagionarsi dal sospetto di aver preferito passare qualche giorno nel suo villaggio piuttosto che eseguire una missione nella borgata vicina; un altro, incaricato di riportare all’accampamento gli assenti, cita i pretesti addotti da questi ultimi (P. Abinn., 35 e 37).
Tra le domande di permesso, notevole la supplica della madre di Mosè,
un graduato dell’ala (P. Abinn., 34). Il fratello minore di Mosè è destinato a divenire soldato a sua volta; ora, ci si avvicina al culmine della
stagione agricola, ai «cinque giorni che valgono tutto l’anno»: la madre
supplica Abinneo di concedere un permesso a Mosè e gli chiede di decidere prima che il latore della missiva riparta. Un’altra lettera intercede per il figlio unico di una vedova (P. Abinn., 19): se il giovane, figlio
di un soldato, non può essere salvato dalla coscrizione, Abinneo gli deve almeno risparmiare l’invio nel lontano comitatus. La lettera circolare
redatta dal capo del distretto di Ossirinco nel Fayyum riassume perfettamente la situazione: vi si invitano tutti i soldati che si trovano nel distretto «a causa della semina» a riprendere servizio entro cinque giorni, sotto la pena di sanzioni disciplinari (P. Flor., 1.83). Risulta chiaro
che gli effettivi delle guarnigioni egiziane si dileguavano in occasione
della semina e della mietitura. I soldati di parecchie decine di unità di
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stanza nelle campagne dell’Egitto e della Tebaide venivano naturalmente da paesi e orizzonti differenti, ma, dopo un paio di generazioni, i matrimoni con le donne del luogo e il reclutamento sul posto trasformavano queste unità in un’emanazione della società paesana.
La situazione delle unità insediate nelle città non era molto differente. I papiri permettono di seguire nell’arco di duecento anni (340 c. 530) le sorti di uno squadrone (vexillatio) di Mauri di guarnigione a
Ermopoli, la grande città della Tebaide. I nomi latini dei primi cedono il posto a nomi greco-egiziani e questi soldati, inizialmente affittuari di stanze e mezzadri di campi, divengono proprietari di case e terre.
Un caso rimarchevole di imborghesimento di una famiglia militare è
quello del «mauro» Fl. Taurino e dei suoi discendenti. Soldato semplice nel 426, ottiene il congedo poco dopo il 452-53 con il grado di primicerius, il più alto che si potesse raggiungere per promozione interna
(appena al di sotto del tribuno, che viene dall’esterno dell’unità). Anche suo figlio Fl. Giovanni svolge una lunga carriera nella stessa unità
e, per distaccamento, nell’amministrazione militare della Tebaide; conclude, come suo padre, con il grado di primicerius dei Mauri. La carriera di Fl. Taurino II, figlio di Giovanni, si svolge negli uffici militari;
alla fine della propria vita, si fa ordinare sacerdote. Suo figlio Fl. Giovanni II diviene avvocato presso il tribunale provinciale. L’ascesa sociale si rispecchia nell’acquisto di terre in differenti villaggi. I Taurini
non diventano mai «grandi proprietari terrieri», come credeva l’editore di questi archivi (BGU, XII, p. xxiii), ma si inseriscono, al pari di
altri soldati Mauri, nella media borghesia di Ermopoli.
Nei villaggi come nelle città, il servizio militare assicura ai soldati
delle guarnigioni una rendita stabile che, unita alla manifesta sottoccupazione sul piano professionale, lascia loro parecchie opportunità di ritagliarsi una situazione confortevole.
I soldati-contadini di Dionisiade, così come i possidenti «mauri» di
Ermopoli, pagano le tasse per le terre che possiedono: sono contribuenti come gli altri. Non è un caso se l’unica legge dei Codici che concerne
il recupero, manu militari se necessario, delle tasse fondiarie dovute dai
proprietari militari è indirizzata al prefetto augustale d’Egitto (CTh,
1.14, del 386). L’Egitto, grazie alla fertilità eccezionale del suo suolo, è
l’unica regione dell’Impero a non disporre di un serbatoio di terre vacanti o abbandonate (ad eccezione delle zone insabbiate, il cui recupero necessita di un investimento oneroso). In altre regioni confinarie, le
terre possedute dai soldati beneficiano di un’esenzione fiscale, senza
dubbio perché tali lotti derivano dalla distribuzione o dall’occupazione
di terre vacanti.
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Lo Stato non procede mai alla distribuzione di terre ai soldati in servizio attivo, ma Costantino si rifà alla tradizione romana di distribuire
terre ai veterani. Una legge del 325 prescrive che i veterani che scelgono l’agricoltura «ricevano terre vacanti e le tengano in perpetuo con piena immunità» con un sussidio per l’acquisto degli utensili agricoli, di
una coppia di buoi e di 100 staia di sementi varie (CTh, 7.20.3). Un’altra legge fornisce, nel 364, una definizione allargata delle terre che i veterani hanno il diritto di occupare: si tratterebbe di «campi vacanti o
diversi, laddove scelgano». Poco dopo, tuttavia, Valentiniano I ordina
di dirigere i veterani verso «terre incolte, lasciate dai loro proprietari e
piene di rovi a causa del prolungato abbandono» (CTh, 7.20.8 e 7.20.11).
Un autore contemporaneo vuole incoraggiare i veterani a insediarsi lungo le frontiere (limites) per «arare quei luoghi che prima avranno difeso» e cerca delle astuzie per tarpare la loro immunità fiscale [De rebus
bellicis 435, cap. v, pp. 16-18]. Tuttavia, la legge del 400 si limita a respingere le domande di esonero, da parte dei veterani, per terre sottoposte al censo: se ne sono in possesso, devono pagare le tasse come tutti (CTh, 11.1.28). Si torna all’intenzione originale di Costantino di insediare i veterani, esentati dal fisco, sui terreni incolti. La politica di
distribuzione delle terre ai veterani è mantenuta per tutto il corso del
iv secolo. Dopo tre o quattro generazioni, il reclutamento di guarnigioni confinarie su una base largamente ereditaria, in prossimità degli accampamenti, trasforma una gran parte dei loro effettivi in possessori di
campi, già appartenuti ai propri padri-veterani, in un regime di esonero fiscale.
La legislazione imperiale della prima metà del v secolo si appropria
di questo dato nuovo. La novella 24 di Teodosio II (443) vara un programma ambizioso di rinforzo delle frontiere, in seguito alla ritirata degli Unni, e ribadisce l’esenzione fiscale degli agri limitanei, campi che i
soldati confinari erano soliti coltivare. La legge ordina la restituzione ai
soldati delle terre esenti da tasse che erano cadute nelle mani di civili.
La medesima preoccupazione animava, vent’anni prima, una legge che
ordinava la restituzione della totalità delle terre situate sui «territori»
delle piazzeforti ai soldati delle loro guarnigioni, gli unici autorizzati a
possederle dall’«Antichità» (CTh, 7.15.2).
Numerose fonti mostrano la realtà della vita agricola intorno alle
piazzeforti. Un’iscrizione del iv secolo celebra la fondazione di un castrum, fortezza imponente di 50 metri di lato sulla pista che collega
Palmira a Damasco, da parte del dux (di Fenicia) Silvano. Questo
«guardiano del limes» non ha trascurato le strutture agricole: in un
luogo arido e inabitabile, ha installato un sistema d’irrigazione che
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trattiene l’acqua piovana e permette la coltivazione del grano e delle
viti (IGLSyr, V, 2704). La Vita di Alessandro l’Acemeta aggiunge ulteriori dettagli sulle piazzeforti situate verso nord-est. Alessandro e i
suoi discepoli, inoltratisi nel deserto senza provviste, intorno al 410,
per annunciare la Parola di Dio alle genti, sono salvati da un convoglio di «tribuni e soldati romani che portavano viveri» ai loro forti. Si
coglie sul fatto il processo d’approvvigionamento del limes nelle province desertiche di Mesopotamia e di Osroene, assicurato, a termini
di legge, dal demanio imperiale. Alessandro inizia a predicare nelle
piazzeforti, esortando i ricchi a far bruciare i titoli che possiedono contro i propri debitori. «Una banda di scellerati, traboccanti di ricchezze» rifiuta questa dottrina, e Alessandro maledice la loro fortezza: la
conseguenza è la cessazione totale delle piogge per lo spazio di tre anni. Minacciati dagli altri abitanti, che soffrono insieme a essi del castigo divino, i colpevoli temono oltretutto di essere denunciati al magister militum d’Oriente e finiscono per fare penitenza. La piazzaforte gode allora di «una tale fertilità che non se n’era mai vista una
simile», ma il perdono divino assume una forma selettiva. Poco tempo dopo, i bambini dei colpevoli muoiono, le loro greggi sono razziate dai barbari e le loro case sono devastate dai briganti [Vie d’Alexandre l’Acémète 476, §§ 32-34]. Il racconto mostra che, anche in questa
regione arida, i limitanei praticano un’attività agricola.
La legge promulgata da Giustiniano nel 534, dopo la riconquista dell’Africa, dà l’immagine definitiva dei limitanei milites, soldati-agricoltori che «possono sia difendere i forti e le città confinarie, sia coltivare le
terre» (CI, 1.27.2). Il loro insediamento ha il valore simbolico di un ristabilimento delle antiche frontiere dell’Africa, ma non è previsto che
dopo la fine delle ostilità, giacché l’imperatore è cosciente della loro limitata capacità d’intervento. Questa consapevolezza è di cattivo augurio per la sorte dei limitanei sotto il regno di Giustiniano.
3.2. I l d e c l i n o d e l l i m e s .
Gli effetti perversi di un sistema che tende a sovrapporre la condizione militare a quella civile non sono sfuggiti ai contemporanei. Lo stesso Teodosio II riconosce nella propria novella 4 (438) che i soldati confinari, divisi tra le occupazioni private e i doveri militari, non sono né
civili né veri soldati («inter privatam vitam et militarem scientiam neutri
nascantur»). Parlando delle guarnigioni della frontiera orientale, riconosce l’insufficienza della paga dei limitanei milites che, «nelle solitudini
più remote e miseramente remunerati, combattono con fatica e diffi-
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coltà la fame e la miseria». Il loro salario è mediocre e perdipiù irregolare. Una riforma fiscale di Anastasio cerca, intorno al 492, di eliminare i ritardi della paga, che sotto Giustiniano divengono, al contrario,
una prassi statale. Ma è ancora Sinesio (Ep., 130) che fornisce, nel 405,
il primo accenno del problema: si lamenta del dux di Cirenaica che avrebbe privato i soldati delle guarnigioni di «ciò che loro appartiene», il loro soldo, e avrebbe loro «concesso in cambio esenzioni dal servizio e dalla disciplina, permettendo loro di andarsene dove possano trovare di che
vivere». Le conseguenze per la sicurezza della provincia sono disastrose, ma i soldati non ne sono apparentemente troppo scontenti, purché
possano disporre di fonti di reddito alternative al loro salario. Benché
in questo caso ci si trovi di fronte all’iniziativa personale di un dux corrotto, non si fatica a vedere l’origine di un circolo vizioso: una volta che
lo Stato accorda legittimità alle rendite agricole dei limitanei, è sempre
più tentato di lesinare sul loro salario.
Quando Giustiniano annuncia il ristabilimento dei limitanei in Africa, insiste sulla necessità di proteggere il loro soldo da ogni insidia ed
esorta i duces a vigilare sul loro addestramento in armi, minacciandoli
delle peggiori punizioni nel caso disperdano le unità «in congedo» per
il proprio profitto e lascino le province senza protezione (CI, 1.27.2).
Ebbene, le guarnigioni, insediate da Belisario prima ancora che il suo
esercito fosse giunto a stabilire una pace stabile in Africa, dopo la sua
partenza devono fare i conti con una ribellione dei Mauri, e Procopio
descrive la sorte miserevole di questi soldati, «poco numerosi in ciascun
settore della frontiera e ancora non preparati», che sono massacrati dai
ribelli in Bizacena e in Numidia (Bella, 4.8.21-22 e 4.10.2). Niente fa
pensare che, in seguito, le guarnigioni dei limitanei siano state reintegrate su larga scala. Il fallimento di questo tentativo ha senza dubbio
contribuito, in definitiva, alla decisione di Giustiniano di dare il colpo
di grazia a questo modello di difesa confinaria. Ma l’abbandono dei forti di confine e la dispersione delle guarnigioni cominciano ben prima di
Giustiniano.
Le fortezze più recenti della frontiera orientale, che completano il
dispositivo della Notitia, risalgono agli anni 411-123. Sono situate in Arabia, sul percorso fortificato da Bostra a Filadelfia-Amman (Qasr al-BÇ‘ij),
ovvero a est del percorso (Umm al-JimÇl). Un editto di Anastasio, i cui
frammenti incisi su pietra sono stati ritrovati in quattro siti militari del
ducato di Arabia, annuncia una riforma della paga dei limitanei dalla
Mesopotamia fino alla Palestina e prova così che questo vasto settore
del limes è ancora in funzione. Tuttavia, il survey eseguito su parecchie
decine di siti fortificati dei ducati di Arabia e Palestina nel contesto del
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«Limes Arabicus Project» fa emergere intorno al 500 una drastica riduzione del numero di fortezze occupate e l’abbandono quasi totale del limes verso il 550, con l’eccezione di qualche località strategica, in particolare all’estremo sud [Parker 472-73, pp. 819-23]. Più a nord, il nome
di Strata (Diocletiana), un tempo la grande via che collegava Damasco a
Palmira con decine di guarnigioni dei ducati di Siria e Fenicia, per Procopio designa solo una regione povera di pascoli, contesa tra gli alleati
arabi di Bisanzio e della Persia (Bella, 2.1). E quando, nel 541, Belisario viene inviato d’urgenza in Mesopotamia e si sforza di «radunare l’esercito da ogni dove», sul posto non trova che «soldati, perlopiù nudi e
senz’armi, che tremavano al solo nome dei Persiani» (Bella, 2.16.1-2).
L’atrofia avanzata dell’antico limes spiega le misure drastiche prese da
Giustiniano dopo l’armistizio del 545. Procopio (24.12-14) racconta nella Storia segreta che
quando poi si concludeva la pace tra Romani e Persiani, visto che beneficiavano della pace, avevano l’obbligo di condonare all’erario per un periodo preciso gli stipendi mai riscossi. Più tardi abolì, senza motivo, anche la denominazione specifica di
quei reparti. Da allora le frontiere dell’Impero romano restarono sguarnite di difese e i soldati da un momento all’altro dovettero volgere la loro attenzione verso chi
era avvezzo a beneficare.
Dopo la metà del vi secolo rimane ancora una manciata di guarnigioni, ma il limes orientale non esiste più, né come sistema né come concetto difensivo. Il declino del limes è più marcato in Oriente che lungo
il Danubio. Le guarnigioni danubiane, sottoposte a una pressione bellica costante ma meno intensa di quella delle grandi invasioni persiane,
mantengono un buon livello di combattività.
Teofilatto Simocatta [185, 7.3] descrive l’ammirazione provata da
Pietro, fratello dell’imperatore Maurizio, in campagna contro gli Slavi,
per l’unità insediata «dai tempi antichi» nel forte di Asemo, nella Mesia inferiore. Pietro decide di inglobarla a forza nel proprio corpo di spedizione, ma si scontra con la resistenza degli abitanti, civili e militari,
guidati dal vescovo, che gli mostrano una costituzione dell’imperatore
Giustino che garantisce alla borgata la protezione armata «a titolo ereditario». Gli abitanti di Asemo hanno mostrato il medesimo spirito guerriero un secolo e mezzo prima, quando hanno teso, nel 447, alcune imboscate mortali agli Unni in ritirata (Prisco, fr. 5). Queste due narrazioni hanno fatto considerare l’unità di Asemo come una milizia urbana e
il suo statuto «inalienabile» come una franchigia municipale, unica nel
suo genere nella storia delle città dell’Impero. Resta il fatto che Asemo
non è una città, ma una fortezza, e l’unità in questione è senza dubbio
quella segnalata in questo sito dalla Notitia: milites Praeventores. In que-
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sto caso, ci si trova davanti a un nuovo esempio d’integrazione tra un’unità regolare e la società civile.
Numerose fortezze della riva destra e alcune della riva sinistra del
Danubio sono ricostruite da Giustiniano per tener testa più agevolmente alle incursioni slave. Scosso negli anni ’80 del vi secolo dallo sfondamento avaro, questo dispositivo approfitta delle vittorie dell’imperatore Maurizio, che impone agli Avari, nel 600, il riconoscimento della frontiera danubiana. Tale successo, tuttavia, è di breve durata.
L’esercito che rovescia Maurizio nel 602 marcia su Costantinopoli, abbandonando la Tracia alla mercé degli invasori [cfr. cap. i, pp. 40-41,
e xi, p. 362]. L’antico limes danubiano si riduce da allora a qualche piazzaforte isolata.
4. Verso un nuovo sistema di difesa territoriale.
Bisogna evitare di contrapporre troppo nettamente i limitanei, divenuti immobili e inerti, e i comitatenses, sempre pronti a mettersi in marcia verso le zone calde dell’Impero. Gli effettivi dell’esercito mobile,
perlopiù acquartierati nelle città, tendono anch’essi a radicarvisi.
I papiri fanno conoscere due unità «mobili» di stanza ad Arsinoe,
metropoli del Fayyum: i Transtigritani, una legione pseudocomitatensis
del magister militum d’Oriente, secondo la Notitia, e i Leones clibanarii,
squadrone di cavalleria pesante creato dopo il 401. Il primo è attestato
nella regione dal 406, il secondo dalla metà del v secolo; entrambi scompaiono agli inizi del regno di Giustiniano. Nel corso del tempo, i loro
effettivi «s’imborghesiscono» come i Mauri di Ermopoli. Un’unità d’artiglieria, i Ballistarii, giunta a Cherson sotto Valente, diviene a tal punto parte della città che le leggende tarde la presentano come una milizia
urbana autoctona, o parlano di un decreto imperiale che insediava in
perpetuo i soldati nella città, come nel caso di Asemo. Si tratta cionondimeno di un’unità di comitatenses, senza dubbio una delle due formazioni di Ballistarii che apparteneva all’esercito del magister militum di
Tracia [Zuckerman 230]. Diverse serie di epitafi militari indicano i quartieri fissi di numerose unità mobili nelle città dell’Asia Minore. Anche
i soldati che talora devono partire per il fronte trascorrono la maggior
parte del servizio nelle loro città di acquartieramento, sviluppando di
conseguenza numerosi legami locali.
Un simile fenomeno spiega la legge di Anastasio che subordina ai duces della frontiera orientale le unità «mobili» stazionate nei loro ducati
(CI, 12.35.18). Tenendo conto del radicamento crescente di queste
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unità, la legge cerca di rafforzare il carente dispositivo confinario e anticipa la riforma che avrà luogo sotto Giustiniano.
Nel 528, Giustiniano crea un nuovo esercito per l’Armenia, capeggiato da un magister militum (CI, 1.29.5), poi, nel 536, suddivide l’insieme dell’Armenia romana in quattro province (Nov., 31). Questa duplice riforma integra nella struttura militare e amministrativa dell’Impero
la parte dell’antico regno di Armenia divenuta romana da più di un secolo. La legge del 528 ordina la formazione di un corpo d’armata basato su unità create ex novo, ma che comprende anche unità prese dai tre
eserciti mobili: i due eserciti centrali e quello d’Oriente. Secondo Malala, il magister militum d’Armenia ottiene anche il potere sulle guarnigioni confinarie, ma la loro scarsa importanza è messa in luce dalla legge del 536, che affida l’autorità sui soldati di stanza nella provincia di
Armenia III al governatore civile della provincia, riducendoli di conseguenza al semplice ruolo di forze di polizia.
Trent’anni dopo la riforma, Procopio descrive l’aspetto effettivo assunto dal nuovo dispositivo (De Aedificiis, 3.2-6). Il suo zoccolo duro è
il corpo comandato dal magister militum in persona, dagli effettivi assai
limitati, dal momento che erano concentrati nella sola fortezza di Teodosiopoli. Cinque nuovi duces sono posti sotto l’autorità del magister militum: due nel paese degli Tzani, tribù da poco sottomessa all’Impero, a
nord di Teodosiopoli, e tre più a sud, sul territorio delle antiche satrapie armene. I due duces settentrionali sono dotati in totale di sette fortezze. Con le loro sette unità, controllano un settore di frontiera equivalente a quello che un tempo il dux d’Armenia difendeva con 26 guarnigioni. I tre duces meridionali, su una frontiera più ridotta, dispongono
di quattro fortezze. Si apprende inoltre che, nel 531, l’unità proveniente dall’esercito d’Oriente e ormai comandata da uno di questi duces,
quello di Martiropoli, conta 500 cavalieri [Zuckerman 479, pp. 125-28].
Il dispositivo confinario che si vede apparire in Armenia si distacca
radicalmente dal modello tetrarchico. La linea di fortezze si fa più rada
e il dux ha ai suoi ordini non più una ventina o una trentina di guarnigioni, ma soprattutto la propria unità e talora una o due unità supplementari. Quanto alle truppe poste sotto la diretta autorità del nuovo
magister militum, non sono paragonabili ai grandi eserciti dei magistri militum che compaiono nella Notitia. Il magister militum dell’Armenia è alla testa di un dispositivo regionale costituito principalmente da unità
comandate dai duces. Un dispositivo analogo, comprendente un magister militum e cinque duces, entra contemporaneamente in funzione in
Africa, dove, dopo la rapida espulsione dei Vandali, inizia uno stato di
guerra permanente con le tribù dei Mauri, e poi in Italia.
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L’antico territorio del magister militum d’Oriente subisce gli effetti
della lunga erosione delle proprie truppe e si regionalizza notevolmente. I generali cui viene affidata tale carica sanno bene, dopo il fiasco di
Belisario in Mesopotamia nel 541 [cfr. sopra], che, per disporre sul posto di un vero esercito da campagna, se lo devono portare dietro. Il limes di Fenicia, per esempio, si riduce a due basi legionarie: quella di Palmira, dove i limitanei dell’antica legio I Illyricorum sono rinforzati da
un’unità dell’esercito mobile al principio del regno di Giustiniano [Malala 176, p. 354], e quella di Damasco, che accoglie la legio III Gallica,
in origine di stanza a Danaba. Il comando è allora diviso tra due duces
[Stein 151, p. 289] e il nuovo dispositivo su questo tratto di limes, che
un tempo ospitava 26 guarnigioni, comincia a somigliare in tutto a quello creato in Armenia. I dati dei papiri suggeriscono inoltre una drastica
riduzione del numero di guarnigioni in Egitto, compensata molto limitatamente dall’apparizione di unità di recente formazione.
La Passione dei 60 martiri di Gaza racconta l’estremo supplizio dei
difensori della città, fatti prigionieri dagli Arabi al tempo della sua caduta nel 637 e messi a morte per il loro rifiuto di convertirsi all’Islam [Pargoire 487]. Questi soldati appartengono a due unità, una di Sciti (forse
uno squadrone formato da Goti d’Italia) e una di Voluntarii. Le coorti
dei «volontari» – degli affrancati, ossia schiavi riscattati dai loro padroni – sono reclutate da Augusto dopo la rivolta pannonica nel 6 d.C. e la
sconfitta di Varo in Germania tre anni più tardi. Una sola di queste unità,
la cohors VIII Voluntaria, è conosciuta dalla Notitia d’Oriente (37.33),
che ne situa l’accampamento a Ualtha, senza dubbio Khirbet-ez-Zona a
meno di 150 km da Gaza, la cui occupazione è attestata fino agli inizi del
vii secolo. Questa coorte ausiliaria mostra così 630 anni di esistenza, un
record assoluto per un’unità del principato. Sopravvive a dieci anni di
occupazione persiana e la sua distruzione da parte degli Arabi è emblematica della sparizione di questa categoria di truppe.
4.1. L a f l o t t a d a g u e r r a .
La creazione di una flotta da guerra fa parte delle innovazioni del vvi secolo. Dopo la grande battaglia navale che ha contrapposto Costantino a Licinio nel 324, le navi da guerra sono rimpatriate nelle loro vecchie basi in Occidente: è là che la Notitia segnala le flotte conosciute dal
tempo del principato. In Oriente, indica solo le pattuglie danubiane, essenziali per la sicurezza e l’approvvigionamento del limes. Ma quando
Fravitta ha bisogno di una flotta per impedire a Gaina, nel 400, di attraversare l’Ellesponto, allora fa costruire battelli leggeri (liburne) che
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disperdono e distruggono le zattere di Gaina. L’assenza di una vera flotta da guerra nella Notitia d’Oriente non è dunque né un’omissione, né
un incidente di tradizione. La flotta viene creata solo quando l’Impero
ne percepisce il bisogno effettivo, con la crescita della potenza della flotta vandala nel Mediterraneo, alla metà del v secolo. Allora non si costruiscono più grandi bastimenti da guerra (triremi) come sotto il principato, ma battelli rapidi e manovrabili a un solo ordine di remi (dromones), cui d’ora in poi si fa costante riferimento nella narrazione di episodi
bellici. Questa flotta è senza dubbio alla fonda nel Corno d’Oro, ma s’ignora tutto della sua organizzazione, della sua struttura di comando,
delle condizioni di reclutamento e servizio dei marinai, ecc. Si può comunque segnalare che, già nel 515, i dromones comandati dal prefetto
del pretorio Marino utilizzano una sostanza incendiaria, fornita da un
«filosofo», per distruggere i battelli del ribelle Vitaliano [Malala 176,
pp. 331-32]. Questo precedente annuncia l’introduzione, verso il 675,
del famoso fuoco greco, temibile arma della flotta bizantina medievale.
4.2. I l d e c l i n o d e g l i e f f e t t i v i .
In assenza di statistiche, ogni calcolo degli effettivi è destinato a rimanere aleatorio. Solo il punto di partenza è piuttosto sicuro. Giovanni Lido, alto funzionario della prefettura del pretorio sotto Giustiniano, stima l’esercito di terra di Diocleziano a 389 704 uomini e la marina a 45 562 uomini. Il totale di 435 266 soldati è nell’ordine di grandezza
delle stime più fondate sull’esercito dell’alto Impero. La rapida espansione degli eserciti mobili presuppone un accrescimento degli effettivi
globali nel corso del iv secolo, ma non certo al punto di dare credito alla cifra di 645 000 uomini indicata per l’esercito degli «imperatori antichi» al culmine della sua estensione da Agazia [163, 5.13.7], storico della fine del regno di Giustiniano [Carrié 439]. Ciò non toglie che la Notitia censisca circa mille unità militari nelle due parti dell’Impero;
attribuendo loro una media di 500 effettivi, si arriva, verso il 401, a una
stima approssimata di 500 000 soldati, un po’ più della metà dei quali
per l’Impero d’Oriente.
Gli effettivi dell’esercito orientale hanno senza dubbio subito una
diminuzione nel v secolo, con la soppressione di numerose guarnigioni
confinarie, e più ancora sotto Giustiniano. In una legge promulgata poco dopo la sua ascesa al potere, Giustino II si lamenta dei mezzi insufficienti assegnati all’esercito dal suo predecessore (Nov., 148, del 566).
Agazia è più preciso nelle proprie critiche: accusa Giustiniano di aver
ridotto gli effettivi dell’esercito a 150 000 uomini (senza pretendere, co-
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me Giustino II, che il cambio di regno abbia rimediato alla penuria di
truppe). Tale cifra, evidentemente approssimativa, ha tutto il valore di
una valutazione contemporanea, proveniente da un testimone ben informato.
Mentre l’esercito della Notitia consiste nella stragrande maggioranza di fanti, quella che Giustino II aveva ereditato da Giustiniano comporta invece una parte crescente di cavalleria, che di mantenimento costa, per soldato, almeno il doppio. I successori di Giustiniano devono
anche fare i conti con le conseguenze sommate, demografiche e fiscali,
delle manifestazioni ricorrenti della peste. Non saranno in grado di invertire la tendenza al declino degli effettivi, ma saranno costretti, tuttavia, a rimediare in qualche modo al più grave difetto strutturale generato dalle campagne di riconquista, la sparizione della forza d’intervento centrale.
5. Un nuovo esercito da campagna.
La politica di Giustiniano consiste nel servirsi di unità di qualsiasi
provenienza per far fronte alle esigenze più urgenti. I Vandali vinti in
Africa sono inviati sul fronte persiano, un’unità persiana che si arrende
all’esercito bizantino si ritrova in Italia, un’unità di «Sciti», ossia di
Ostrogoti d’Italia, arriva in Egitto. Giustiniano non è il primo a constatare che i prigionieri di guerra sono più utili come soldati che come schiavi, a patto di allontanarli dalla loro patria. Questa pratica compensa per
qualche tempo lo sgretolamento della riserva centrale, un tempo costituita dai due eserciti «in presenza».
Il declino degli eserciti «in presenza» comincia senza dubbio con la
disfatta della spedizione marittima condotta da Basilisco contro i Vandali nel 468. Anche se la cifra di 100 000 uomini radunati per la spedizione, citata da Procopio (Bella, 3.6.1) è di gran lunga esagerata, questa
fu probabilmente la più importante concentrazione di truppe dell’Impero d’Oriente in tutto il v secolo, e una gran parte di queste truppe
perì al largo di Cartagine. I due eserciti «in presenza» contribuiscono
agli effettivi del nuovo esercito d’Armenia nel 528, poi alle spedizioni
d’Africa e d’Italia. La stessa distinzione tra i due eserciti centrali non è
più percepibile dopo l’assassinio, nel 520, del magister militum «in presenza» Vitaliano, al tempo collega in tale carica del futuro imperatore
Giustiniano. Dopo il regno di Giustiniano, la ricostruzione dell’esercito mobile diviene un problema urgente. Questo compito spetta, sotto
Tiberio II, al suo migliore generale e futuro successore, Maurizio.
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La composizione del nuovo esercito da campagna ci è nota grazie al
trattato tattico, Strategikon, composto dallo stesso Maurizio [436]. Vi si
trova il modello di un esercito interamente a cavallo. La fanteria, se c’è,
svolge un ruolo ausiliario (proteggere la ritirata dei cavalieri, prender parte alla fortificazione dell’accampamento, ecc.). Un esercito «ben proporzionato» conta da 5-6000 a 15 000 cavalieri e si schiera su due linee, più
o meno ben guarnite secondo gli effettivi disponibili. Le due ali della prima linea si compongono da una parte di «unità» (vexillationes-arithmoi),
residuo dei vecchi eserciti mobili, e dall’altra parte di Illirici. Questi ultimi, identificati da alcuni con vecchie unità confinarie, appartengono
piuttosto al nuovo corpo arruolato in Illirico e Tracia da Germano e Narsete nel 550-53, che è risultato vittorioso sui Goti di Totila. La loro importanza numerica è indicata dal fatto che gli squadroni (banda) – di 250300 uomini – che compongono il corpo sono numerati da 1 a 15 (almeno). Al centro del dispositivo, i federati hanno una storia più lunga.
5.1. I f e d e r a t i .
Foedus designa, sotto il principato, l’alleanza con un popolo esterno
all’Impero che ne riconosce la sovranità e gli fornisce contingenti ausiliari. Il nome derivato di foederati per designare una certa categoria di
truppe, tuttavia, entra in uso solo dopo l’alleanza di Teodosio I e Graziano con i Goti (381-82). I federati goti sono insediati, conservando
peraltro la loro autonomia tribale, non all’esterno ma sul suolo stesso
dell’Impero, principalmente in Tracia. Questa distorsione della terminologia ha imbarazzato alcuni studiosi [Scharf 456], ma mai i contemporanei. I contingenti federati sono remunerati o sovvenzionati dall’Impero, ma comandati dai capi tribali. In Oriente, nel v e vi secolo, tale
termine designa soprattutto due «alleati» di primaria importanza, riottosi ma resi indispensabili dal loro peso militare: i Goti nei Balcani e gli
Arabi sulla frontiera orientale. Questi due casi hanno un’evoluzione assai differente.
L’Impero, dall’epoca del principato, stringe alleanze con le tribù arabe (saracene) che percorrono i confini desertici dalla Mesopotamia fino
al Sinai e all’Egitto. Nel iv secolo, la cristianizzazione contribuisce a legare all’Impero le tribù convertite. La potente regina Mawiyya, da nemica, diviene alleata dopo aver ottenuto da Valente la consacrazione di
un vescovo del suo credo (ortodosso); i suoi guerrieri, bevendo il sangue
dei nemici abbattuti, seminano il terrore tra i Goti che minacciano Costantinopoli nel 378 [Sartre 971]. I rapporti nel v secolo si formalizzano tramite sussidi regolari (annonae) versati ai federati saraceni. Con lo
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smantellamento del limes, la dinastia cristiana dei Ghassanidi diviene,
per tutto il vi secolo, il principale garante della sicurezza della regione
[cfr. cap. xiii]. Nonostante qualche malinteso e attrito, rimane un alleato fedele ed efficace dell’Impero, arrivando per giunta a piegare, poco
dopo il 570, i Lakhmidi, alleati arabi della Persia. I Ghassanidi tuttavia
hanno un grande difetto: sono monofisiti impenitenti. Nel 582, prima
il lore re Alamundaro, poi il suo figlio e successore Naaman sono perfidamente arrestati da Maurizio e, dopo il loro rifiuto di convertirsi all’ortodossia, esiliati in Sicilia. Il loro potere centralizzato cede allora il
posto a quindici capi tribali (filarchi), alcuni dei quali si alleano con la
Persia, mentre altri sono ancora fedeli a Bisanzio sotto Eraclio. Così, la
grande potenza arabo-cristiana è smantellata, alla vigilia delle invasioni
persiana e musulmana, dalla stessa Bisanzio, in nome di una divergenza dottrinale [Shahîd 973].
Anche i federati Goti hanno un difetto: sono ariani. Quando 10 000
Goti cadono per la causa cristiana nel 394, al tempo della campagna di
Teodosio I contro Eugenio, ricevono poca gratitudine: per Orosio
(7.35.19), «l’averli perduti fu comunque un guadagno, la loro sconfitta
una vittoria». In effetti, i rapporti tra i Goti e i dirigenti dell’Impero
d’Oriente, dove sono stati inizialmente accolti, si deteriorano rapidamente dopo la morte di Teodosio I e ciò provoca l’emigrazione dei Goti di Alarico nel 405. Successivamente, nel 470-80, Teodorico Strabone e Teodorico l’Amalo, ora difensori ora saccheggiatori dell’Impero, si
contendono i sussidi e i titoli fino alla morte del primo nel 481 e alla
partenza del secondo per l’Italia nel 488 [cfr. capp. i e xi].
La popolazione gotica rimasta nei Balcani diviene più trattabile. Pur
conservando le proprie strutture militari autonome, ormai è sotto la tutela di un alto ufficiale imperiale, il comes dei federati. Uno di questi comites, Vitaliano, si solleva contro Anastasio nel 513, in seguito alla sospensione dei versamenti dovuti ai federati, ma – prova della nuova integrazione – è sostenuto allo stesso modo dall’esercito regolare di Tracia.
Facendo tesoro, forse, di questa esperienza, le leggi di Giustiniano segnalano la presenza, presso ciascuna unità di federati, di un sottufficiale-contabile (optio): i sussidi sono versati direttamente ai combattenti
da un agente imperiale e non più dal capo tribale o dal comes. Le leggi
distinguono ancora tra i milites, soldati regolari sottoposti ai magistri militum, e i foederati, ma Procopio relativizza tale distinzione, spiegando
che le unità di federati, composte un tempo unicamente da barbari, annoverano ormai numerosi cittadini romani. Questo processo conduce
sotto Maurizio all’integrazione formale del corpo dei federati con l’esercito regolare.
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5.2. I b u c c e l l a r i e g l i o t t i m a t i .
Al centro della seconda linea del dispositivo dello Strategikon si trovano il generale e i suoi buccellari (da buccellum, piccolo pane da 6 once, più o meno 163 grammi): si tratta di soldati reclutati e mantenuti a
spese del generale. Si è molto speculato sui possibili legami tra la loro
apparizione alla fine del iv secolo e il coevo accrescimento dell’influenza germanica nell’esercito. Tuttavia, sebbene i capi germanici avessero
l’abitudine di circondarsi di un seguito di fedelissimi, tale fenomeno non
manca di antecedenti nella tradizione militare romana [Schmitt 457]. A
partire dalla fine del v secolo, dei buccellari compaiono, in maniera analoga, in Egitto (e senza dubbio anche altrove) al servizio dei grandi proprietari terrieri, che sono anche alti funzionari statali. Che ciò avvenga
in ambito civile o militare, non si tratta né di usurpazione né d’indebolimento dell’autorità statale [Gascou 444]. I buccellari dei generali di
Giustiniano giurano fedeltà all’imperatore prima di prestare giuramento al proprio padrone e non costituiscono un pericolo per il potere: quando Belisario cade in disgrazia, i suoi buccellari gli sono confiscati insieme agli altri beni. D’altro canto, vi sono numerosi casi di buccellari che,
dopo essersi distinti al servizio di un generale, divengono ufficiali nelle
unità regolari. Tali contingenti sono di solito assai ridotti – qualche decina, o piuttosto centinaio di uomini. Il numero di buccellari di Belisario – l’uomo più ricco dell’Impero dopo la presa di Cartagine – al tempo della campagna d’Italia, 7000 cavalieri (Procopio, Bella, 7.1.20), è
un record assoluto, che testimonia la crisi dell’esercito mobile in quell’epoca. Nel dispositivo dello Strategikon, il loro numero è alquanto più
modesto. Nel secolo successivo, i buccellari sono una formazione d’élite a parte, che deriva con ogni verosimiglianza dai buccellari di Maurizio, integrati nell’esercito regolare dopo la sua incoronazione.
Il grosso degli effettivi della seconda linea è fornito dal corpo degli
ottimati, dal latino optimates, «i migliori», i nobili. Lo Strategikon riconosce loro, infatti, una caratteristica particolare: ciascuno degli ottimati dispone almeno di un paggio. Si tratta dei barbari occidentali, principalmente longobardi, reclutati a caro prezzo da Tiberio poco dopo il 570
e condotti da Maurizio contro i Persiani nel 578. Se si aggiunge che Maurizio, a quanto pare, nel 582 diviene l’unico comes dei federati conosciuto, il suo ruolo nella formazione del nuovo esercito risulta particolarmente evidente.
Le formazioni dell’esercito mobile evocate nello Strategikon non costituiscono un corpo unico, salvo nel dispositivo-modello progettato
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dall’autore. D’altro canto, le fonti della seconda metà del vii secolo rivelano l’esistenza di un corpo d’élite, opsikion/obsequium, un equivalente tardo del comitatus, giacché si tratta del «seguito» armato di un
imperatore in campagna. Questo nome, senza dubbio, è stato dato al
corpo a cavallo che ha combattuto i Persiani con Eraclio, il primo imperatore a condurre personalmente una campagna dopo Teodosio I. Gli
ottimati e i buccellari ne fanno parte, e forse anche i federati (benché
in un’epoca più tarda siano collegati al comando d’Oriente). La continuità tra l’esercito d’élite di Maurizio e quello di Eraclio e dei suoi successori è assai netta [Haldon 447]. Si tratta, tuttavia, di un esercito i
cui effettivi devono oscillare intorno ai 10-15 000 uomini, soltanto una
frazione degli effettivi degli eserciti mobili d’Oriente al tempo della
Notitia.
ii. le condizioni del servizio.
Dalla presa di potere di Costantino, nel 324, fino alla rivolta di Foca, nel 602, nessun imperatore d’Oriente è stato rovesciato dalle forze
armate dell’Impero. Si tratta di un periodo di stabilità senza pari, a differenza sia dell’epoca romana anteriore, sia dell’epoca bizantina posteriore, in cui le rivolte militari sono la causa principale, e frequente, dei
cambiamenti di potere. La suddivisione del comando supremo tra più
magistri militum ha senza dubbio la sua parte in ciò, ma le radici della
stabilità vanno cercate soprattutto nelle condizioni di servizio dei militari. L’esercito protobizantino è un sistema assai aperto che ricompensa il merito. Vediamo le sue forze e le sue debolezze strutturali.
1. Il reclutamento.
Il giurista Arrio Menandro testimonia che l’esercito dei Severi consiste perlopiù di volontari (Dig., 49.16.4.10). Il dilectus, chiamata dei
cittadini alle armi, procedura usuale sotto la repubblica e all’inizio del
principato, è poco praticato in quest’epoca. Tuttavia, la serie di invasioni e l’inflazione che contraddistinguono la maggior parte del iii secolo fanno perdere al servizio militare molte delle sue attrattive. Come necessario correttivo, il reclutamento diviene dunque in gran parte obbligatorio, per non dire coercitivo, dall’epoca della Tetrarchia fino all’inizio
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del regno di Teodosio I (in Oriente). In seguito, torna volontario fino
alla fine del nostro periodo.
1.1. I l r e c l u t a m e n t o e r e d i t a r i o .
La tendenza alla trasmissione ereditaria del mestiere si manifesta
presso i militari così come in altre categorie professionali. Sotto i Severi, fino alla metà dei legionari erano nati negli accampamenti. Questa
sostanziale ereditarietà diviene un obbligo legale all’epoca tetrarchica.
I figli dei soldati o dei veterani sono periodicamente chiamati alle armi,
come san Martino di Tours, presentato al servizio dal padre quando aveva solo 15 anni. La stretta applicazione della legge produce una gran parte degli effettivi dell’esercito del iv secolo e spiega senza dubbio il raddoppiamento di unità negli anni 350-90, che ha per lungo tempo incuriosito gli studiosi. L’unità «junior» (per es. Batavi iuniores) appartiene
sempre alla medesima classe di truppe dell’unità madre (Batavi seniores),
anche se è stanziata in un’altra parte dell’Impero. La creazione di queste unità doveva permettere ai figli dei migliori soldati dell’esercito imperiale di conservare la condizione acquisita dai loro padri.
Alcune leggi parlano dei figli dei veterani che fuggono la coscrizione; Gregorio di Nazianzo interviene presso un magister militum in favore del figlio di un soldato che è entrato nel clero e cerca di sfuggire al
servizio militare (Ep., 225). Questi segni di coercizione in Oriente scompaiono dopo il regno di Teodosio I. Questo di per sé non comporta la
sparizione del principio, ma la sua trasformazione in privilegio: l’origine militare prova che la recluta è libera dalle costrizioni ereditarie che
gravano su altre categorie sociali [ Jones 149, pp. 668-69]. I papiri del
v-vi secolo mostrano che le guarnigioni e le unità «mobili» che si sedentarizzano reclutano molto spesso figli di soldati.
1.2. I l r e c l u t a m e n t o m u n i c i p a l e .
Al tempo delle grandi guerre della fine del ii e dell’inizio del iii secolo, si ripartivano tra le città quote di reclute da arruolare ed equipaggiare. Se si vuol credere a Lattanzio (De mort. pers., 7.5), il fardello della fornitura di reclute si andò appesantendo, per i provinciali, sotto Diocleziano. I papiri dei primi tre quarti del iv secolo mostrano che questa
procedura veniva applicata, in maniera irregolare, a misura delle urgenze militari. Le autorità municipali, non avendo un potere coercitivo, cercavano di attirare volontari, cui fornivano le vesti regolamentari e un
sussidio per l’equipaggiamento. Tuttavia, il crescente bisogno di uomi-
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ni all’epoca del grande sviluppo dell’esercito mobile provoca alcuni tentativi di aumentare il rendimento del sistema e poi conduce alla sua riforma radicale. Una legge di Valente annuncia per la prima volta nel 370 il
principio di coscrizione annuale, che poteva essere sostituito da un prelievo in oro delle somme dovute alle reclute (CTh, 7.13.2). Nel 375, tutti i proprietari terrieri, compresi i senatori, sono raggruppati in circoscrizioni di superficie fissa, tassate con una recluta (CTh, 7.13.7). Infine, se la legge del 370 descrive il processo di reclutamento come una
manifestazione spontanea di volontari, quella del 375 autorizza i proprietari della circoscrizione a scegliere la recluta tra i contadini insediati sulle loro terre.
L’ultima misura, d’ispirazione occidentale, si rivela poco adatta alla
realtà sociale dell’Impero d’Oriente. I rapporti di potere tra il padrone
e il colono che si sviluppano in Occidente hanno pochi paralleli in Oriente, dove il contadino è spesso proprietario della sua terra o libero locatario di terre altrui. La disposizione di Valente provoca una crisi che una
documentazione eccezionalmente fitta permette di seguire passo dopo
passo. Le strade della diocesi del Ponto, sul percorso che conduceva al
fronte persiano, brulicano di disertori alla fine degli anni ’70 del iv secolo; vengono promulgate leggi severissime contro di loro e contro chi
li ospita, così come contro le reclute che si mozzano il pollice per evitare la coscrizione [Zuckerman 1048]. La crisi del reclutamento, forse,
non è estranea al disastro di Adrianopoli, nell’agosto 378, dopo il quale Teodosio I comincia ad applicare vigorosamente la coscrizione forzata, per poi rovesciare radicalmente il sistema, approfittando, paradossalmente, delle disposizioni di legge del 370 e del 375.
Annualizzando la procedura di reclutamento e fondandola su una base fondiaria, le leggi di Valente hanno infatti posto la base della trasformazione della fornitura di reclute in una tassa, equivalente alle spese di
equipaggiamento di una recluta affrontate dai membri della circoscrizione. Valente fu il primo a tentare questa strada nel 377, quando l’afflusso di rifugiati goti che avevano attraversato il Danubio gli fornì una
massa di reclute di qualità: in quel caso pretese dai provinciali, al posto
di coscritti, dell’oro che utilizzò per arruolare i Goti (Ammiano Marcellino, 31.4.4). La ribellione dei Goti, provocata dagli abusi commessi ai
loro danni dai funzionari imperiali, mise rapidamente fine a questa esperienza, che tuttavia fu seguita da Teodosio I, a partire dal momento in
cui giunse a ristabilire la sicurezza e la pace. La commutazione dei coscritti in una tassa annuale in oro fornì al governo imperiale il mezzo per
arruolare ed equipaggiare volontari di ogni origine. Questa riforma si limitò all’Impero d’Oriente, dal potenziale fiscale nettamente superiore.
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In Occidente, in compenso, la coscrizione è rimasta in vigore, sempre
sporadica e scarsamente efficace, giacché i proprietari terrieri inviavano all’esercito la manodopera di peggiore qualità [Zuckerman 492].
L’abbandono del reclutamento municipale trova un’eco divertente
in un autore degli inizi del v secolo, Isidoro di Pelusio (Ep., 5.185, PG,
78, 1436): una volta che gli imperatori hanno sospeso la responsabilità
di procurare soldati all’esercito, gli abitanti delle città, liberi da ogni
preoccupazione militare, si sarebbero dati ai piaceri più bassi, i giochi
del circo. Questa analisi traduce una realtà essenziale: la separazione,
funzionale e mentale, tra la società civile e l’esercito. I soldati, certamente, sono una parte integrante del tessuto sociale delle città e dei villaggi in cui risiedono, ma esercitano una professione come un’altra. L’antica concezione romana alla base del dilectus, secondo la quale ciascun
cittadino è un soldato potenziale, sparisce senza lasciare traccia e la difesa del paese è percepita come il compito di determinati professionisti.
Quando il futuro vescovo Sinesio si rifà al glorioso passato per chiamare alle armi gli abitanti della sua provincia, in occasione delle incursioni dei nomadi, l’argomento lascia perplessi. L’Impero d’Oriente non dispone né di criteri, né di procedure per arruolare una milizia o istituire
una coscrizione, e la sua capacità di rinnovare le proprie forze armate
dipende dall’attrattiva del servizio per le reclute volontarie. Questo sistema funziona bene fintantoché il fisco fornisce all’esercito i mezzi necessari, ma raggiunge presto i propri limiti quando le rendite fiscali si
prosciugano in seguito alla conquista persiana delle province orientali,
sotto Foca ed Eraclio.
2. Equipaggiamento, addestramento e paga.
Equipaggiamento e salario sono nettamente distinti nel i-ii secolo. Il
soldato riceve la propria paga in contanti solo dopo che ne sono state
dedotte le spese per i suoi indumenti, le armi e il cavallo (per i cavalieri), così come per le derrate alimentari che gli vengono fornite dall’intendenza in tempo di pace e di guerra. Questo regime viene meno nel
iii secolo, per l’effetto combinato delle campagne sempre più frequenti
e della svalutazione della moneta d’argento. Il soldo annuale (stipendium)
sparisce all’inizio del iv secolo, assorbito dall’inflazione. Al contempo
entra in funzione, a partire dall’epoca tetrarchica, un sistema di remunerazione basato da una parte sui donativa, doni in denaro distribuiti
dall’imperatore in occasione della sua ascesa al trono, di anniversari e di
altri avvenimenti festivi, e dall’altra sulla distribuzione di alimenti es-
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senziali – principalmente grano, olio, carne/lardo e vino – che costituiscono l’annona.
L’annona, in origine un prelievo straordinario, finisce per integrarsi nel sistema fiscale regolare: adesso i contribuenti sono tassati in derrate annonarie. Il medesimo principio si applica al foraggio per i cavalli (capitum), agli indumenti (vestis) e ad altro equipaggiamento destinato all’esercito. Il sistema annonario ha colpito gli studiosi per la sua
grande complessità, a livello di prelievo così come di distribuzione: tanto più grande è il merito di Mitthof [486], che, seguendo il percorso
inaugurato da Palme [1025], ha recentemente proposto uno studio globale della documentazione papirologica relativa all’annona, giungendo
a fare chiarezza sul funzionamento del sistema. La raccolta delle derrate fiscali mobilita le élites municipali (curiales), che hanno il compito di
prelevare le tasse dai villaggi situati nel territorio della loro città. Si tratta di un dovere gravoso e potenzialmente rovinoso, così come quello di
essere responsabili del trasporto di derrate deperibili. Entra allora in
funzione un’elaborata ripartizione di ruoli tra coloro che ricevono ciascuna derrata, coloro che la trasportano nei depositi e quelli che, da là,
l’indirizzano verso le unità militari. Peraltro, alcune minuziose procedure di controllo cercano d’impedire gli abusi da parte dell’intendenza
militare, a detrimento dei curiales-fornitori così come a livello della distribuzione delle razioni annonarie ai soldati.
Questo sistema, assai gravoso da sostenere, dopo le riforme monetarie e fiscali del 368-70 comincia a evolversi verso l’aderazione, ossia la
sostituzione della fornitura di derrate con il versamento del loro equivalente in oro. Tale transizione non si compie senza frizioni, tra i fornitori e i beneficiari dell’annona, sull’estensione e le modalità tariffarie
dell’aderazione, come viene ampiamente riecheggiato dalle leggi del Codice teodosiano. Appare oggi immotivato il lungo dibattito sulla questione di sapere a chi convenisse l’aderazione e chi, tra i contribuenti o
i militari, avesse interesse al mantenimento delle consegne in natura. Se
i produttori preferivano consegnare i prodotti, purché non dovessero
sostenere le spese di trasporto, i militari optavano piuttosto per i versamenti in contanti e la libertà di scegliere i propri fornitori. È anche evidente che il fardello della gestione delle consegne annonarie gravava pesantemente sui curiales, al punto che contribuì al declino di questa classe sociale. Benché i dettagli della transizione non siano sempre chiari,
si constata senza particolare sorpresa che, al massimo a partire dalla metà
del v secolo, le annone sono perlopiù percepite – e dunque redistribuite ai soldati – in denaro e non in natura.
I salari dei soldati continuano, tuttavia, a essere espressi in annone
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nel corso del v e del vi secolo. Ciò testimonia, ancor più del conservatorismo della fiscalità, una certa logica funzionale. La tariffa di aderazione, infatti, non è fissa né uniforme, ma al contrario varia a seconda
delle regioni e tiene conto dei prezzi di mercato. Il pacchetto annonario costituisce così un metodo di remunerazione flessibile e adatto alle
variazioni dei prezzi. Garantisce ai militari di stanza nelle differenti parti dell’Impero una parità di potere d’acquisto per i medesimi livelli gerarchici, come il «paniere» di beni e servizi di base misurato così dagli
economisti moderni. Un soldato semplice riceve una sola annona, i graduati ottengono tra 1,5 e 8 annone, mentre i duces possono raggiungerne una cinquantina. Il valore monetario di un’annona, necessariamente
variabile, ha ricevuto stime differenti dagli studiosi. Tale remunerazione assicura, a condizione di essere regolarmente versata, una rendita di
base per una famiglia militare, ma il soldato può aspirare a una situazione materiale confortevole solo avanzando di grado e moltiplicando le annone.
Il sistema annonario è più adatto a un’unità stazionaria che ai bisogni di un esercito in campagna. Per soddisfare tali bisogni, si è fatto ricorso alla requisizione (coemptio/synone) di prodotti, il cui valore viene
dedotto dalle tasse del produttore. Questi acquisti forzati e la loro messa in conto da parte del fisco danno luogo a lamentele, così come l’alloggio di soldati presso privati (mitaton) quando le truppe si acquartierano
in una città. Per quanto il legislatore si affanni a promettere un prezzo
giusto per i prodotti requisiti e a limitare le prestazioni dovute al soldato dal suo ospite, i motivi di attrito restano costanti. Salvo nei casi eccezionali di una campagna pianificata in anticipo e supportata da una
flotta, come la spedizione di Belisario in Africa, l’intendenza militare
ha raramente il tempo di preparare l’approvvigionamento e, soprattutto, i mezzi per trasportarlo. Il soldato in campagna, che sia sul suolo imperiale o in terra nemica, vive soprattutto dei prodotti della regione.
La nozione di annona scompare verso la fine del vi secolo, con la disgregazione delle guarnigioni stanziali. Si parla allora di roga, latinismo
che designa il soldo. Tuttavia non si hanno dati sufficienti per determinare la rispettiva quota, nel salario dei militari, dei pagamenti in moneta e dei versamenti in natura sotto Maurizio, Foca ed Eraclio. La decisione di Maurizio di fornire ai soldati armi e uniformi, piuttosto che oro
per il loro acquisto, nel 594 provoca una ribellione. La quota del contante resta certo notevole: non a caso Eraclio si riduce a «prendere in
prestito» e a ricavare monete dall’argenteria delle chiese per poter reclutare e pagare i soldati. Occorre peraltro notare che il termine synone
designa, in epoca mediobizantina, non più una requisizione di prodotti
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per le necessità dell’esercito, ma una tassa fondiaria. Ciò non può che
essere il risultato di un massiccio ricorso alla synone nel vii secolo, al
punto che quest’anticipo sulla tassa finisce per identificarsi con la tassa
stessa.
3. Lo svolgimento della carriera e il congedo.
Ogni soldato, quando viene arruolato, vuole credere di avere nel proprio zaino un bastone da maresciallo. Questa speranza era indubbiamente più fondata per un soldato del basso Impero che per uno del principato, comandato da ufficiali provenienti dall’ordine senatorio o equestre, o per uno dell’epoca mediobizantina, contraddistinta dal predominio di grandi famiglie di proprietari terrieri. Dopo i tetrarchi, tutti di
origine modesta, si possono citare Gioviano e Valente, giovani della classe media ingaggiati come protectores domestici, ma anche Marciano, figlio di un soldato, e Giustino I, figlio di un contadino, che debuttano
come soldati semplici. Leone I è un ufficiale di medio rango quando è
chiamato al potere, e Foca non è che un centurione quando scatena la
rivolta contro Maurizio. Questa apertura è applicata a tutti i livelli di
comando e la lista di alti ufficiali usciti dai ranghi sarebbe lunga. I figli
dei comandanti altolocati beneficiano certo di una promozione rapida,
ma non sono la maggioranza, e queste dinastie militari si perpetuano raramente oltre due o tre generazioni; il corpo degli ufficiali del basso Impero non diviene mai una nobiltà ereditaria [Gluschanin 445]. Facendo
rappresentare, sulle pareti di un bagno pubblico, le tappe della sua carriera da soldato semplice fino al culmine dell’Impero, Giustino I offre
a un giovane ambizioso la migliore garanzia di promozione al merito.
Tuttavia, il fenomeno dell’esercito «a due velocità» si ripercuote anche sulle carriere. Un giovane, entrato nella Guardia imperiale o in un’unità dell’esercito mobile a 16 o 20 anni, può aspirare a una bella carriera se mostra le proprie qualità a Palazzo o durante le spedizioni. Al tempo delle guerre di Giustiniano, le migliori opportunità di promozione si
offrono ai buccellari che si distinguono al servizio di un generale. Al
principio di promozione al merito si oppone però il criterio dell’anzianità, che è particolarmente in auge nelle unità stazionarie.
Il fatto che un graduato o un sottufficiale meritevoli siano promossi davanti ai propri camerati di pari grado più anziani crea necessariamente degli attriti. Nelle legioni, il problema era risolto con il trasferimento dei promovendi, in particolare centurioni, da una legione all’altra. Tale pratica non è più attestata dopo l’epoca tetrarchica. Ancora nel
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iv secolo, un sottufficiale dallo stato di servizio onorevole può ottenere
un altro avanzamento: inviato a Corte per «adorare la porpora imperiale», è promosso al rango di protector. In seguito, può essere distaccato
presso un alto comandante o messo alla testa di un’unità ausiliaria. Questa modalità di promozione scompare nel corso del v secolo. Al contempo, la legislazione del iv secolo batte su un semplice principio: ogni soldato deve essere promosso secondo l’ordine d’iscrizione nei ruoli della
sua unità, in quanto ogni eccezione a quest’ordine può lasciar sospettare un appoggio illecito (suffragium). Ciascuna unità, piccola o grande, diviene così un mondo chiuso, al di fuori del quale i vantaggi acquisiti sono perduti.
Gli effetti perversi di tale processo si manifestano, alla fine del v secolo, nell’editto dell’imperatore Anastasio che regola le condizioni di
servizio delle guarnigioni della Cirenaica: «Quando c’è un’ispezione,
non si passeranno in rassegna come deboli o invalidi i primi di ciascuna
unità e di ciascun accampamento, ossia i primi cinque se i soldati sono
cento, i primi dieci se sono duecento; una procedura analoga sarà applicata a un numero di uomini più grande o più piccolo» (SEG, VII, 356,
§ 7). Procopio, alla metà del vi secolo, fornisce maggiori dettagli sul funzionamento del sistema:
La legge stabiliva che gli stipendi dei militari non fossero corrisposti a tutti sempre in egual misura; i giovani, e arruolati da poco, ricevevano un soldo più basso,
chi aveva prestato un certo servizio ed era alla metà della carriera era pagato meglio. Per i veterani, ormai vicini al congedo, lo stipendio era ben più consistente,
perché potessero, rientrati nei ranghi civili, vivere decentemente e, una volta conclusa la loro esistenza, lasciare qualche aiuto ai familiari. Così gli ultimi avanzano
di grado, via via che la gente scompare o si congeda e ognuno riceve dal Tesoro uno
stipendio calcolato sull’anzianità di servizio.
Ora, per una decisione dell’imperatore Giustiniano che Procopio deplora, «sguinzagliarono delle guardie di Palazzo in tutto l’Impero, per
scovare, nei ruoli, gli elementi non idonei al servizio attivo: e chi ebbero il coraggio di radiare perché inutile e chi perché troppo vecchio», lasciando che gli ex soldati mendicassero il proprio cibo sulla piazza del
mercato, presso persone che li compativano (Procopio, Storia segreta,
24.2-8).
I «primi» della guarnigione di Elefantina, all’estremità meridionale
dell’Egitto, si presentano, in un papiro datato al 578, come una «corporazione» (koinos), sul modello delle corporazioni professionali civili
che sono alla base della vita sociale dell’Impero. Nel testo in questione,
attestano l’iscrizione, sanzionata dal dux della Tebaide, di una recluta
originaria di Elefantina nei ruoli dell’unità (P.Mon., 2). È proprio ai «pri-
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mi» delle guarnigioni egiziane, piuttosto che ai loro comandanti-tribuni, che Giustiniano rivolge, nell’editto XIII (539), minacce di rappresaglia se i soldati si renderanno colpevoli d’insubordinazione. Dal momento che avevano fatto carriera all’interno dell’unità, i «primi» sono
infatti in grado d’influenzare il comportamento dei propri camerati meglio dei tribuni, nominati dall’esterno. Le unità insediate da due secoli
nel medesimo luogo acquistano dunque una certa autonomia di gestione e alcuni privilegi per i loro «anziani». La logica sociale di quest’evoluzione non attenua peraltro i suoi effetti perversi sul funzionamento
dell’esercito. Il modello di unità condotte, di diritto, da vecchi invalidi
non può durare a lungo. La sparizione, prima della fine del vi secolo,
della quasi totalità delle unità conosciute dalla Notitia deriva così in gran
parte dalla sclerosi delle loro strutture.
Insieme a queste unità sparisce l’elaborato sistema di gradi che regolava l’avanzamento del soldato nei ruoli. Le legioni del basso Impero
conservavano alcuni tratti della gerarchia delle legioni classiche e i nuovi auxilia applicavano una nomenclatura distinta che datava alla fine del
iii secolo. Tali sistemi di gradi non lasciano la minima traccia in epoca
bizantina, e non si tratta di un caso. Presso i buccellari, conosciuti dai
papiri, e nel nuovo esercito d’élite di Maurizio la gerarchia è più semplice e flessibile, giacché le nomine ai ranghi di ufficiale erano determinate dalle capacità e dall’esperienza del soldato [Strategikon 436, 1.4-5].
Un’altra eredità dell’epoca del principato che scompare sotto il basso Impero è l’istituzione dei veterani. Costantino il Grande, quando riunisce sotto il proprio potere l’insieme degli eserciti tetrarchici, restituisce un senso alla condizione di veterano, tramite numerose misure legislative e uno sforzo fiscale considerevole. La durata del servizio – intorno
ai venticinque anni – e le condizioni di congedo sono regolate secondo
le categorie di truppe, tenendo conto dello stato di salute del soldato.
Ai veterani che scelgono l’agricoltura sono distribuite terre defiscalizzate, sementi e sussidi per l’insediamento [cfr. sopra]; coloro che si insediano in città beneficiano allo stesso modo di deduzioni fiscali. Queste disposizioni restano attive – benché si sia poco informati sul loro grado di applicazione – nel corso del iv secolo, ma svaniscono rapidamente
nel v. La crescente integrazione dei soldati nel tessuto sociale delle città
e dei villaggi dove sono acquartierati attenua lo choc del ritorno alla vita civile. D’altro canto, la condizione di veterano è evidentemente incompatibile con il sistema descritto da Procopio, in cui l’estensione della durata del servizio diviene una sorta di pensione di anzianità.
Il patrizio Mena, autore del trattato Sulla scienza politica, riflette, al
principio del regno di Giustiniano, sul dovere dello Stato nei confronti
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degli ex combattenti. Reclama cure e conforti per i vecchi, educazione
e mantenimento a spese dello Stato per i figli dei soldati morti sul campo, eventuali aiuti per i loro genitori. Una misura dalla datazione difficile autorizza l’arruolamento del figlio maggiore, qualunque ne sia l’età,
di un soldato morto sul campo, dimodoché le annone percepite dal ragazzo servano a nutrire la famiglia del defunto (CI, 12.47.3). Tale misura è confermata dall’imperatore Maurizio, che legifera allo stesso modo in favore degli invalidi di guerra [Haldon 484, pp. 23-24]. Si tratta
però di espressioni limitate di benevolenza imperiale, che derivano dalla carità e non più da una condizione definita.
iii. la chiesa di fronte al servizio militare.
Sono bastati pochi anni alla Chiesa, dopo la conversione di Costantino, per superare la sua secolare sfiducia nei riguardi del potere imperiale. Non solo l’imperatore cristiano, ma anche il suo esercito divengono gli strumenti della provvidenza divina in un modello veterotestamentario resuscitato. Gli autori cristiani, a partire da Lattanzio ed Eusebio,
celebrano i successi militari di Costantino, l’anacoreta tebano Giovanni di Licopoli profetizza le vittorie di Teodosio I e i grandi teologi del
suo tempo le glorificano come vittorie della religione cristiana [Helm
485]. La Chiesa non trova alcuna difficoltà a giustificare la guerra e a
integrarla nella propria «economia della salvezza», ma riscontra invece
notevoli problemi a trovarvi un posto per il guerriero.
La condizione del soldato nella comunità cristiana è definita nella
lettera canonica di Basilio di Cesarea ad Anfilochio di Iconio, risalente
al 374: «I nostri padri non hanno considerato gli omicidi compiuti in
guerra come dei veri e propri omicidi; secondo me, volevano accordare
il perdono a chi combatte per la purezza e la pietà. Ma forse è bene consigliare loro, siccome non hanno le mani pure, di astenersi tre anni dalla sola comunione» (Ep., 188). Il riferimento ai «padri» è problematico. La tradizione cristiana anteriore condanna senz’appello l’omicidio
commesso per una buona come per una cattiva causa. L’ambiguità manifestata da Basilio riguardo ai soldati «omicidi» deriva da questa tradizione e conduce, come viene constatato dai canonisti medievali, direttamente a una situazione di stallo: «Si rischia di arrivare al punto che
i soldati non prendano mai parte alla comunione, soprattutto i più valorosi tra essi che danno dimostrazione di coraggio», in mancanza della
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possibilità di interrompere per tre anni la pratica del loro mestiere [Zonara in Rhalles 79, IV, pp. 131-32]. I contemporanei di Basilio vedevano senza dubbio con altrettanta chiarezza che il suo «consiglio» era inapplicabile, ma sul piano teologico era difficile da contestare.
Le informazioni sulla presenza della Chiesa negli accampamenti sono rare. Vegezio (intorno al 386) riporta il giuramento prestato dai soldati, che invocavano «Dio, il Cristo, lo Spirito Santo e la Maestà imperiale» e assimilavano l’imperatore all’«immagine presente di Dio» [438,
2.5]. Si tratta dell’unica menzione della religione cristiana, adattata all’uso degli eserciti, presente in questo manuale militare. Iscrizioni e papiri del v e del vi secolo attestano la presenza di chierici, sacerdoti e diaconi, presso le unità militari. Amministrando i sacramenti, questi sacerdoti non tenevano certamente conto del consiglio di san Basilio, ma
occorre ricordare che nessun testo letterario ci descrive questo aspetto
del loro ministero. Lo Strategikon menziona i preti solo a proposito della preghiera nell’accampamento prima della battaglia, che si conclude
con la triplice esclamazione Deus nobiscum «per la fortuna» [436, 2.18].
Il medesimo testo constata, con un pragmatismo notevole, che la battaglia si vince non tramite la moltitudine degli uomini o avventati atti di
coraggio, «ma, con l’aiuto di Dio, grazie all’arte del comandante e alla
professionalità dei soldati» (2.1).
Questo spirito pragmatico non deve nascondere la tensione di fondo. Quando l’imperatore Maurizio proibisce per legge qualsiasi passaggio da una funzione statale al servizio della Chiesa, papa Gregorio Magno gli scrive per contestare questa misura. Accetta che sia applicata ai
funzionari che desiderano unirsi al clero secolare, o addirittura agli amministratori civili che cercano rifugio in un monastero, ma si mostra assolutamente intransigente riguardo ai soldati che vogliono anch’essi divenire monaci. Ci sono persone che possono salvare la propria anima in
questo mondo, ma non è il caso dei soldati: la «conversione» monastica è la loro unica via di salvezza (Registrum, 3.61).
La guerra persiana, soprattutto dopo la perdita di Gerusalemme e
della Vera Croce, riveste l’aspetto di una guerra di religione, ed Eraclio
sa ostentarlo abilmente. Tuttavia, se l’imperatore ha diritto alle suppellettili e alle preghiere della Chiesa, nonché alla gloria dovuta a un difensore della fede, non si riscontra alcuna ricaduta per i suoi soldati: la partecipazione alla guerra santa non santifica nessuno. Un trattato militare, forse contemporaneo alla guerra persiana, propone al generale alcuni
modelli di arringa per incitare le truppe al combattimento. L’autore cerca di sfruttare al meglio il Vangelo, prestando alle parole di Cristo sull’amore per il prossimo il senso di difenderlo a mano armata, per poi ag-
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Le istituzioni dell’Impero
giungere con rara lucidità: «E, supponendo che non si debba comprendere in questo senso la legge divina, poiché, quando Pietro ha estratto
la spada, il Cristo gliene ha proibito l’uso (Mat., 26.52), si farà violenza al testo in ragione dell’utilità pubblica e dell’urgenza» [Dagron 481,
pp. 227-29]. I soldati dell’Impero, dunque, affrontano gli Arabi, portatori dell’ideologia del jihad, facendo violenza alle Scritture e alla propria coscienza cristiana.
iv. epilogo. verso l’epoca mediobizantina.
L’Impero affronta l’esercito persiano sullo sfondo della guerra civile. All’inizio, l’invasione è sollecitata e sostenuta da Narsete, magister
militum d’Oriente; in un momento cruciale della campagna, le migliori
forze dell’Impero sono stornate dal fronte persiano a causa della ribellione di Eraclio. Il crollo dell’esercito bizantino di fronte alla Persia nei
primi anni del regno di Eraclio potrebbe dunque essere parzialmente
giustificato da queste circostanze attenuanti, ma le sue cause profonde
vanno cercate altrove. Sono le stesse che spiegano al contempo il rovesciamento di Maurizio da parte dell’esercito d’élite che lui stesso ha creato e la persistente debolezza di Bisanzio di fronte all’invasione araba.
Già sotto Maurizio i mezzi dell’Impero non sono più all’altezza delle sue necessità militari. Le epidemie ricorrenti di peste fanno calare le
entrate fiscali e la politica militare di Maurizio, nonostante i suoi successi sul campo di battaglia, consiste nel gestire la scarsità. I soldati professionisti, nondimeno, si aspettano di essere pagati per i loro servizi, e
le successive misure di economia imposte da Maurizio provocano la loro disaffezione. Il problema del finanziamento dell’esercito non fa che
aggravarsi quando i Persiani conquistano le province orientali e soprattutto l’Egitto, fino ad allora risparmiato dalle guerre. Il finanziamento
eccezionale ottenuto da Eraclio grazie alla Chiesa gli permette di creare un corpo a cavallo, mobile ed efficace ma di piccole dimensioni, che
conduce con grande abilità, praticando la guerriglia: opera attacchi a sorpresa evitando lo scontro frontale (se non nello stadio finale della campagna, quando beneficia del consistente appoggio degli alleati turchi)
[cfr. cap. i].
Questo corpo d’élite, l’opsikion, rimane in attività per tutto il vii secolo. Quando i conflitti interni del Califfato danno un barlume di speranza a Bisanzio, vengono lanciate campagne di riconquista, come le spe-
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dizioni in Transcaucasia condotte da Costante II nel 654 e nel 660-61,
o quella scatenata da Giustiniano II intorno al 686, che estende per qualche tempo il suo potere fino all’Azerbaigian. Ma quando le truppe arabe riprendono l’offensiva, l’esercito bizantino è incapace di tener loro
testa, a causa dell’inferiorità numerica dovuta alle magre risorse dell’Impero. Le ricche province orientali, che un tempo contribuivano largamente al mantenimento di quell’esercito, finanziano ormai le truppe del
Califfato.
Peggio ancora, l’Impero è privo di un sistema di difesa territoriale
capace di ritardare l’avanzata dell’invasore e di minacciarne le retrovie.
Questo sistema viene instaurato sotto forma di temi (themata), distretti militari e amministrativi che all’origine portano il nome dei territori
degli antichi magistri militum – Oriente, Armenia, Tracia –, le cui truppe sono arretrate davanti all’avanzata araba o, nel caso delle truppe della Tracia, sono state dislocate in Asia Minore. I temi appaiono come entità territoriali a partire dall’viii secolo; a partire dal ix presentano caratteristiche che ricordano vagamente quelle dei limitanei: sono chiamati
al servizio i proprietari di terre, per i quali il salario militare costituisce
solamente un reddito complementare. Sono state formulate numerose
teorie per ricondurre questa forma di organizzazione militare al regno
di Eraclio, ma mancano di un fondamento veritiero [riassunto della questione in Haldon 448]. Nei 5-10 anni che separano la ritirata persiana
dalla conquista araba, non si trova alcuna traccia di riforme strutturali
[Schmitt 458], che peraltro sono ancora meno probabili nel caos che segue lo sfondamento da parte dell’esercito musulmano. I piccoli residui
degli eserciti dei magistri militum, senza dubbio, vengono insediati nelle città e nelle fortezze le cui mura continuano a rimanere in piedi. Successivamente, durante i due «secoli oscuri», queste unità regolari si trasformano in una milizia territoriale, peraltro assai efficace, che, pur conservando la tradizione dell’esercito di Stato propria dell’Impero, ha molti
tratti in comune con gli eserciti dei regni «barbari» dell’Occidente. L’esercito e l’Impero escono allora dalla crisi in cui li lasciamo alla fine del
regno di Eraclio.
1
In Synesii Cyrenensis Opuscula, a cura di N. Terzaghi, Roma 1944.
p. soverini (a cura di), Scrittori della Storia Augusta, Torino 1983, II, p. 713 (Vita di Alessandro Severo, 58).
3
Syria. Publications of the Princeton University Archaeological Expeditions to Syria in 1904-1905
and 1909, Leyden 1907-49, 21 e 237 = Guide de l’épigraphiste. Bibliographie choisie des épigraphies antiques et médiévales, Paris 20013, 101, n. 364.
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vi. La capitale
1. Da Bisanzio a Costantinopoli: le origini (330-60).
La fondazione della città sul sito di Bisanzio da parte di Costantino
nel 324 rientra, come si è visto [cfr. cap. i], nella politica tetrarchica che
ha definitivamente privato Roma di un ruolo di capitale e residenza imperiale, ruolo già in parte perduto nel corso del iii secolo a vantaggio di
città più vicine alla frontiera e al teatro delle operazioni militari, che reclamavano la presenza degli imperatori. La Corte e le strutture palatine
seguono i sovrani nei loro spostamenti ed era stata allora creata o sviluppata una serie di residenze imperiali, tra cui, in Oriente, Sirmio e
Tessalonica per Galerio, Eraclea e Nicomedia per Diocleziano. Queste
residenze, tuttavia, non avevano carattere permanente e nessuna pretendeva di rimpiazzare Roma. Neppure la «città di Costantino» aveva
quest’ambizione al principio, benché la retorica la definisca l’«altra Roma» a partire dal 326 e le fonti più tarde, riassunte da Balsamone (PG,
137, col. 121), asseriscano anticipando i tempi che «Costantino il Grande trasferì [a Bisanzio] lo scettro della regalità romana, dette alla città
il nome di Costantinopoli e di nuova Roma, ne fece la regina di tutte le
città» [Dagron 493, p. 44].
La scelta del sito [Mango 501] si spiega con motivazioni strategiche:
si tratta di un avamposto dell’Europa, il punto d’arrivo della Via Egnatia che collegava Durazzo o Apollonia sull’Adriatico a Tessalonica. Controlla l’accesso al Mar Nero e soprattutto il passaggio in Asia. Sulla sponda opposta del Bosforo, infatti, Calcedonia è il punto di partenza della
strada che conduce, passando da Nicomedia e Nicea, verso Ancira (l’attuale Ankara), Cesarea di Cappadocia (Kayseri) e l’Eufrate, e di quella
che raggiunge Antiochia passando da Dorileo (Eskişehir), Iconio (Konya)
e la Cilicia. Il fronte marittimo sulla Propontide e il Corno d’Oro offre
infine evidenti vantaggi difensivi, superiori a quelli di Nicomedia.
Questi vantaggi hanno chiaramente avuto la meglio, nell’animo del
fondatore, su alcuni inconvenienti non meno evidenti: l’assenza di difese naturali dal lato di terra, la mancanza di sufficienti risorse idriche
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nei paraggi, l’esistenza di venti dominanti estivi provenienti da nord che
trattengono o intralciano le navi che risalgono i Dardanelli verso il Mar
Nero, a causa della forte corrente che ne proviene. Si vedrà come Costantino e poi i suoi successori tenteranno di ovviare a questi problemi.
La città occupa il sito dell’antica Bisanzio, il cui nome (di origine trace) era fatto risalire dalla leggenda a due eroi mitici: Biza, figlio di una
ninfa o di un re, e Anta, da cui Byz-Ant-ion. Città relativamente modesta all’interno di una provincia, la Tracia, che aveva avuto un’urbanizzazione più tarda e meno intensa di altre, Bisanzio aveva visto radere al
suolo le sue mura da Settimio Severo nel 195/196, come punizione per
aver parteggiato per il suo avversario nella guerra civile. La sua importanza strategica aveva peraltro già fatto sì che fosse ricostruita e abbellita nel corso del iii secolo. Circondata da una cinta muraria, riedificata sul medesimo tracciato di quella antica intorno al 250, la città aveva
un perimetro di circa 5 km, era alimentata dal punto di vista idrico da
un acquedotto costruito sotto Adriano (il cosiddetto acquedotto «di Valente», che esiste ancora oggi), era servita da due porti fortificati sul
Corno d’Oro e non contava più di 20 000 abitanti. A quel tempo comprendeva un’acropoli con i suoi templi, un anfiteatro (il Cinegio), le grandi terme di Zeusippo, un ippodromo simile al Circo Massimo di Roma
e, in aggiunta all’agorà greca dello Strategion, un’ulteriore agorà circondata da porticati (Tetrastoon), collegata alla porta della città da una strada fiancheggiata da colonnati.
I lavori di Costantino sono mal conosciuti, giacché nessuna fonte
contemporanea ne parla, ad eccezione di Eusebio, e quest’ultimo cerca
di glorificare soprattutto la cristianizzazione della città, da lui attribuita abusivamente all’imperatore. L’archeologia, per questo periodo come per i seguenti, ha certamente fornito molte informazioni sui monumenti [Müller-Wiener 505] e la topografia della città1. Tuttavia, come
del resto c’è da aspettarsi in una città abitata senza soluzione di continuità fino ai nostri giorni e in cui i monumenti bizantini sopravvissuti
sono poco numerosi, le scoperte sono state fatte e continuano a esserlo
in modo casuale, in seguito a lavori di vario genere, e gli scavi, perlopiù
eseguiti in fretta, sono stati condotti assai di rado in maniera scientifica, con l’eccezione di quello di Saraçhane (San Polieutto) [Harrison 777]
o di quello, attualmente in corso, su una parte del sito del Gran Palazzo [ Jobst in 498].
Comunque sia, premesso che in questa sede facciamo riferimento all’esposizione dello «sviluppo urbano di Costantinopoli» da parte di Mango [501-2, 494], si può attribuire al fondatore un allargamento e un abbellimento della città d’ispirazione ambivalente, contemporaneamente
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pagana e cristiana, in cui la prima tendenza era però favorita. Costantino iniziò la costruzione di nuove mura terrestri, situate poco meno di 3
km a ovest di quelle del iii secolo – circondavano così circa 700 ettari –,
completò l’Ippodromo e lo prolungò verso il mare – l’arena era lunga allora circa 450 metri –, fece edificare il Palazzo, il Senato e la Basilica in
prossimità del Tetrastoon e delle terme di Zeusippo. La via colonnata del
iii secolo fu prolungata verso occidente fino alla Porta d’Oro, che segnava il punto d’arrivo della Via Egnazia. Questa Mese (via «mediana»),
larga circa 25 metri, era contemporaneamente un’arteria commerciale e
un viale trionfale, funzioni che peraltro conservò nel corso dei secoli.
Nel punto d’intersezione con le antiche mura, sulla Mese fu impiantato un grande foro circolare, al centro del quale fu elevata una grande colonna di porfido di 35 metri di altezza, l’attuale «colonna bruciata» –
di cui rimangono ancora 6 tamburi –, sormontata da una statua colossale di Costantino munita della corona radiata che lo assimilava alla divinità solare.
Presso il Filadelfio, punto di partenza dell’altro ramo della Mese, che
si dirigeva a nord-ovest, Costantino edificò un tempio dedicato alla triade capitolina, mentre lasciava in funzione i templi dell’acropoli e costruiva solamente tre chiese: Sant’Irene, la cattedrale, di dimensioni modeste, il martyrium di Sant’Acacio presso il Corno d’Oro e quello di San
Mocio presso un cimitero situato fuori dalle mura. Costruì infine i Santi Apostoli, che all’origine non erano una chiesa, ma un mausoleo imperiale di forma circolare, nella tradizione tetrarchica, nel quale l’imperatore prevedeva di occupare la nicchia assiale, mentre le sei nicchie laterali erano riservate agli apostoli, secondo un progetto che suggeriva
implicitamente che egli fosse l’equivalente del Cristo, così come aveva
voluto essere il doppio del Sol [cfr. cap. x], benché la traslazione nel 336
delle reliquie degli apostoli Andrea (evangelizzatore di Bisanzio secondo la leggenda) e Luca [Mango 502] manifesti la tardiva volontà di una
consacrazione cristiana dell’edificio. L’ambiguità di queste strutture urbane riflette così quella dell’attitudine religiosa di Costantino.
Tale ambiguità si riscontra anche sul piano istituzionale, poiché non
è sicuro che l’imperatore avesse subito voluto fare della città una nuova Roma e fondarvi un secondo Senato [Dagron 493, pp. 118-22]. Tuttavia, risulta chiara l’intenzione che mirava ad attirare a Costantinopoli una parte della nobiltà senatoria e una popolazione più numerosa,
tramite la costruzione di grandi dimore (oikiai) per i primi e l’assegnazione di pani gratuiti (panes aedium) a quelli che costruivano altre abitazioni, dirottando sulla nuova città una parte del grano egiziano fino
ad allora riservato a Roma e assicurando, a partire dal 332, la distribu-
Carta 3. Costantinopoli nel vi secolo.
Porta d’Oro
Sant’Acacio
Porto di
Teodosio
Granai
Campidoglio
Mese
Forum Bovis
Foro
amastriano
Foro
d’Arcadio
San Giovanni di Studio
Exokionion
San Mocio
Cisterna
San Polieutto
PROPONTIDE
Granai
Strategion
Prosforio
0
Cinegio
Acropoli
Foro di Basilica Santa Maria di Chalkoprateia
Sant’Irene
Costantino
Santa Sofia
Tetrapilo
Augusteo
Cisterna
Senato
di Filosseno
Zeusippo
Ippodromo
Palazzo
Porto Giuliano
Santi Sergio e Bacco
(Porto Sofiano)
Foro di
Teodosio
Neorio
SYKAI
(GALATA)
BOSFORO
1 km
9:36
Foro di Marciano
CORNO
D’ORO
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Santi Apostoli
Cisterna di Aspar
Cisterna di Aezio
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Santa Maria delle Blacherne
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zione di 80 000 razioni quotidiane di pane, mentre a quel tempo Roma
ne riceveva ancora 200 000 [Dagron 493, pp. 539-49; Durliat 587, pp.
186-280].
Costanzo (337-61) prosegue quest’opera di fondazione sul piano urbanistico, istituzionale e finanziario. Vengono allora messi in opera vari elementi di un’imitazione di Roma già contrassegnata architettonicamente da un Palazzo che si ispirava in parte al Palatino ma anche alle
residenze tetrarchiche, e da piazze munite di colonne istoriate. La prefettura e la pretura urbana costringono le personalità di rango senatorio
a farsi carico dei giochi [cfr. cap. iii]. Costanzo porta da appena 300 a
2000 il numero dei senatori; precisa poi lo status del Senato con una serie di misure che trasformano quest’assemblea di origine curiale in un’istituzione imperiale. Fa così diventare la città il centro di una nuova aristocrazia imperiale allargata, con un obbligo di residenza che favorisce
la crescita della popolazione, ma non manca di porre problemi di approvvigionamento. L’acquedotto di Adriano, con i suoi 6000 metri cubi circa di erogazione giornaliera, non basta più e la città, secondo Temistio,
«muore di sete». Cominciano allora lavori di derivazione di ampio respiro, nonché la costruzione di grandi terme nella città nuova, al di fuori della cinta severiana, mentre la cristianizzazione dello spazio urbano,
fino a quel momento assai modesta, giunge ad affermarsi con la costruzione di una basilica cruciforme dei Santi Apostoli affiancata al mausoleo di Costantino e con quella della prima chiesa di Santa Sofia nelle vicinanze del Palazzo. Si può dunque considerare Costanzo come il principale costruttore della nuova capitale.
Il ruolo di Costantinopoli arriva così ad affermarsi a tutti i livelli, ma
il vero sviluppo che dà il suo volto definitivo alla capitale protobizantina si colloca negli anni che seguono il volgere del iv secolo.
2. Lo sviluppo della capitale (360-542).
A partire dal 360 la crescita urbana prende un forte slancio, certo
sempre sostenuto dalle iniziative dello Stato in materia di difesa e opere pubbliche, ma in qualche misura autoalimentato dalla popolazione
esistente e dalle sue necessità. La crescita della popolazione è testimoniata soprattutto dalla costruzione di nuovi porti sulla Propontide (Mar
di Marmara), destinati a rimediare alla capacità insufficiente dei porti
precostantiniani del Neorio e del Prosforio sul Corno d’Oro. Questi ultimi, infatti, probabilmente non offrivano più di 1500 metri di banchine, molto più di quelli, per esempio, di Leptis Magna, e quattro volte
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meno di Roma (Porto). Giuliano nel 362 e successivamente Teodosio
decidono la costruzione di porti che recano il loro nome, il primo vicino al Palazzo, denominato in seguito Porto Sofiano in onore della moglie di Giustino II, che lo rinnovò, il secondo più a occidente, nella parte a sud dell’istmo. La capacità totale avrebbe così raggiunto all’incirca
4 km di banchine, che potevano ospitare simultaneamente, grossomodo, 500 navi da 10 000 moggi di tonnellaggio e una larghezza media di
8 metri. Il grano che arrivava a luglio con i convogli annonari era allora
stoccato nei grandi granai pubblici (horrea), la maggioranza dei quali era
situata presso il Corno d’Oro, con l’aggiunta di altri due posizionati tra
i due nuovi porti.
La derivazione dell’acqua [Mango 494] non era meno vitale e necessitò di grandi lavori, non solo, probabilmente, nella foresta di Belgrado
(Halkalî, nella parte settentrionale del Bosforo, a una quindicina di chilometri dalla città), ma anche molto più lontano, a più di 100 km a nordovest nei pressi dell’antica Bizie (Vize), ossia nella zona montuosa situata vicino all’attuale frontiera con la Bulgaria, dove sono stati ritrovati
condotti a volta e acquedotti che possono essere verosimilmente attribuiti a Valente. Tale rete idrica fu completata con la costruzione delle
tre enormi cisterne a cielo aperto di Aezio (421), Aspar (459) e San Mocio (sotto Anastasio?) – quest’ultima su una superficie di circa 25 000
metri quadrati e con una portata di circa 375 000 metri cubi – e di grandi cisterne coperte sotto Giustiniano, come la cisterna basilica (Yerebatan) con le sue 336 colonne e i suoi 10 000 metri quadrati, e la cisterna
di Filosseno detta delle «Mille e una colonna» (Bin bir direk), che ne
annovera in realtà 224, copre 3610 metri quadrati e poteva conservare
più di 40 000 metri cubi. A questi impianti ne vanno sommati un centinaio di più piccoli. È una peculiarità di Costantinopoli che un insieme
così importante di riserve (più di un milione e mezzo di metri cubi) non
cercasse di rimediare alla siccità dei mesi estivi o di annate eccezionali,
ma piuttosto al possibile taglio degli acquedotti in occasione di incursioni dei barbari, la cui pressione andava accentuandosi in Tracia a partire dagli anni ’70 del iv secolo.
Per rispondere a questa minaccia, la costruzione delle mura di Teodosio, lunghe 6 km, intrapresa tra il 404 e il 4132, giunge a chiudere un
arco di cerchio di circa 2 km di profondità oltre la cinta di Costantino,
portando così la superficie intra muros a 1400 ettari. Eccezion fatta per
l’estensione, risalente al xii secolo, intorno al palazzo e al santuario delle Blacherne, questo limite non fu mai superato e difese la capitale fino
al 1453. Questo nuovo tracciato aveva maggiori vantaggi strategici rispetto al vecchio e proteggeva un territorio che non fu mai totalmente
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urbanizzato: tutto il contrario, anzi. Lo spazio situato tra le due cinte
murarie, polmone della capitale, ospitava contemporaneamente le necropoli, le cisterne a cielo aperto e grandi estensioni di orti che potevano bastare ai consumi di gran parte della popolazione [Koder 499, pp.
49-56] e procurare utili risorse in caso di assedio. Non è certo che la protezione della città sia stata completata nel 439 con la costruzione di una
cinta marittima completa [Chron. Paschale 166, p. 583]: forse proteggeva solo la sponda del Mar di Marmara fino alle mura di Costantino [Müller-Wiener 505, pp. 308-19]3. Le mura terrestri furono comunque raddoppiate qualche tempo dopo grazie alle Lunghe Mura, dette di Anastasio (verso il 500? ma forse anteriori), che estendono la loro struttura
di pietre e mattoni, punteggiata di torri semicircolari o poligonali, su 65
km di lunghezza da Selimbria (Silivri) al Mar Nero [Crow in 494, pp.
109-24].
Al riparo di questa serie di possenti cinte murarie, la città propriamente detta diviene progressivamente, soprattutto a partire da Teodosio I nel 380, la residenza permanente dell’imperatore: i sovrani non la
lasciano quasi mai nel v e vi secolo, prima che Eraclio rinnovi la tradizione militare dei suoi predecessori del iv secolo per condurre personalmente la guerra contro i Persiani. Costantinopoli prevale definitivamente su Antiochia, che aveva accolto Costanzo e il prefetto del pretorio
d’Oriente fino al 350. La «città regina» (basileuousa) ormai rivaleggia
con Roma nella retorica imperiale, espressa dai testi, come i discorsi di
Temistio, o dall’iconografia ufficiale: sui tipi monetari, la Tyche (personificazione della «fortuna») di Costantinopoli – che si distingue da
quella di Roma per la prua di nave su cui poggia il piede – occupa talora una posizione superiore o finisce, a partire da Teodosio I, per divenire essa sola il simbolo stesso dell’Impero sulla maggior parte dei solidi in oro del v secolo. Dalla retorica si passa alla formalizzazione della
condizione di «seconda» o «Nuova Roma»: nel 381, il terzo canone del
concilio di Nicea-Costantinopoli accorda al vescovo di Costantinopoli,
per questa ragione, la precedenza onorifica sugli altri vescovi dopo il vescovo di Roma [cfr. cap. iv].
L’imitazione di Roma continua a concretizzarsi nello spazio urbano:
è per questo motivo che Teodosio costruisce un vasto foro ispirato al foro di Traiano, imperatore di cui si dichiarava discendente, e fa innalzare al centro della piazza una copia fedele della colonna di Roma. L’iniziativa imperiale, tuttavia, non è più isolata: la città, almeno all’interno
dei confini costantiniani, si ricopre di costruzioni private, dalle oikiai
(palazzi) dei senatori e dei potenti, che danno il loro nome a interi quartieri, fino ad altre più modeste, più o meno invasive o rispettose dello
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spazio pubblico, che la legislazione cerca di contenere limitandone l’altezza a 100 piedi (29,5 metri) e fissando anche delle distanze e delle misure da rispettare (CI, 8.10.12) [Saliou 508]. La loro densità è tale che
un commentatore di Gregorio di Nazianzo menziona «le abitazioni collocate sul mare da molte parti, dimodoché si può … vedere il mare trasformato in terraferma»4.
La decisiva cristianizzazione della capitale risale a questo periodo:
dopo l’inaugurazione della prima «Grande Chiesa» (Santa Sofia) nel
360, ricostruita nel 415, lo sviluppo di costruzioni religiose progredisce di pari passo con la cristianizzazione della società. La Notitia urbis
Constantinopolitanae, intorno al 425, riassume con alcuni numeri la posizione ancora relativamente limitata dell’architettura religiosa rispetto ai monumenti civili, dal momento che la città conta solamente 14
chiese contro 8 terme pubbliche e 153 bagni privati, 6 granai e 4388
domus. Lo sviluppo si amplifica tuttavia nella seconda metà del v secolo. Le basiliche come San Giovanni di Studio, Santa Maria di Chalkoprateia (c. 450) sono affiancate allora da altri santuari più modesti e nei
possedimenti senatorî della periferia asiatica o europea si vengono a insediare numerosi monasteri [cfr. cap. viii]. Le fondazioni e costruzioni religiose sono spesso, in quei casi, manifestazioni di devozione personale e superano certamente i bisogni della comunità. La devozione
delle grandi personalità si concretizza in prestigiose realizzazioni
conformi al loro rango: tra il 524 e il 527 la principessa Anicia Giuliana, nipote di Valentiniano III, costruisce a fianco del suo palazzo una
basilica a cupole, dedicata a San Polieutto (attuale Saraçhane), la cui
sontuosa decorazione è in parte influenzata dall’arte sassanide e che rimase la più grande della città fino a quando Giustiniano non completò
Santa Sofia [Harrison 777].
Può darsi che la città alla metà del v secolo abbia raggiunto un massimo di 300-400 000 abitanti [ Jacoby 496; Müller 504], superando così
la popolazione di Roma. L’importanza di questa popolazione di origine
assai variegata, dalle risorse assai diseguali, la sua distribuzione irregolare, la sua forte densità nei quartieri settentrionali e la sua instabilità
sociale favoriscono una serie di cronici incendi più o meno devastanti,
un male endemico della città medievale, come in seguito della capitale
ottomana. Nel 465 un «grande rogo, come non ce n’era mai stato, distrusse tutto da mare a mare» (Malala, 372), dal Neorio fino al Mar di
Marmara, su una superficie di più di 2,5 chilometri quadrati, e fece fuggire l’imperatore, che si rifugiò per sei mesi a San Mamante sul Bosforo (attuale Dolmabahçe secondo l’ODB o Beşiktaş secondo Mango e
Müller-Wiener). Gli incendi furono spesso legati a rivolte, come in oc-
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casione della celebre sedizione Nika dal 13 al 19 gennaio 532. I danni
furono tali che Giustiniano dovette ricostruire parecchi edifici vicini al
Palazzo, una parte di quest’ultimo e, soprattutto, fu costretto a intraprendere la costruzione di Santa Sofia sulle rovine della cattedrale del
v secolo. Edificio eccezionale per la sua audacia strutturale (una cupola
di 13,8 metri di altezza e 33 di diametro che si eleva a 55,6 metri al di
sopra del suolo: il più grande edificio della cristianità per i sei secoli successivi) e la ricchezza della decorazione (circa 11,5 tonnellate d’argento
secondo le stime degli archeologi o 13 tonnellate – 40 000 libbre – secondo Procopio), Santa Sofia era ben in grado di rivaleggiare con il Tempio di Gerusalemme e Giustiniano poteva vantarsi, dopo Anicia Giuliana, di avere «vinto Salomone».
Il completamento della «Grande Chiesa» nel 537 segna l’apogeo dell’urbanizzazione cristiana della città e dell’attività di Giustiniano in quest’ambito. Costantinopoli gli doveva anche altre 32 chiese (tra cui le Blacherne, Santi Sergio e Bacco5, Sant’Irene restaurata dopo il 532), la ristrutturazione del Senato e della Chalke, quattro palazzi, il foro dell’Augusteo, vari bagni, un portico che scendeva al mare dalle terme di Arcadio, la cisterna basilica e 6 ospizi. La descrizione un po’ esagerata di
Procopio (De Aedificiis, 1) rivela la preponderanza, durante questo regno, delle costruzioni religiose. Non si deve infine dimenticare che la
città era percorsa dai suoi numerosi porticati, dove circa 5000 botteghelaboratori erano perlopiù raggruppati secondo le varie specializzazioni
[Mundell Mango in 498].
3. Riflusso e declino (metà del vi - metà del vii secolo).
La peste del 542, con le sue conseguenze demografiche (probabile
calo della popolazione del 50%) e urbane (accentuazione dello spostamento verso il lato meridionale, intorno al Porto di Giuliano, delle costruzioni, dell’approvvigionamento e delle attività commerciali a esso
legate6), segna l’inizio del riflusso rispetto all’espansione anteriore. Si
continua a costruire, ma molto meno, fino al 600, data che segna un arresto di due secoli, eccezion fatta per le riparazioni o l’ampliamento di
opere difensive. Sotto il regno di Eraclio, la pressione esterna priva contemporaneamente la capitale del pane e dell’acqua: la conquista persiana dell’Egitto comporta la soppressione dell’annona nel 618 e, in occasione dell’assedio avaro-slavo del 626, l’acquedotto «di Valente» viene
tagliato. La città prende allora, a poco a poco, le sue caratteristiche medievali: dei molteplici porti non rimangono che il Porto di Giuliano a
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sud e il porto militare del Neorio sul Corno d’Oro, e c’è un solo granaio
pubblico (Lamia) invece di sei. Le grandi terme, il cui uso era gratuito,
cedono il posto a bagni più piccoli, perlopiù accessibili a pagamento, legati a diaconie religiose.
Questi abbandoni e mutamenti, evidenti nell’viii secolo, non sono
tuttavia databili con precisione. Nel 641, la capitale non ha più la prosperità dell’epoca di Giustiniano, né tutte le istituzioni antiche che ne
erano alla base, ma è ancora una grande città paleocristiana che delle
proprie antiche origini conserva solo le rovine, fonte di leggende, o per
meglio dire terrori, nel secolo successivo. Accogliendo la Vera Croce
«rimpatriata» da Gerusalemme [Teofane 184, p. 468; Flusin 495], Costantinopoli diveniva anche l’unica capitale religiosa e politica di un Impero veramente «bizantino».
1
a. berger e altri, Varia II, «Poikila Byzantina», 6 (1987); a. berger, Untersuchungen zu den
Patria Konstantinupoleos, ivi, 8 (1988).
2
Cfr. Lebek 500, comm. da Feissel, REG, 111 (1998), pp. 705-6, n. 635.
3
Mancano tuttavia conferme epigrafiche o archeologiche a favore del Chron. Paschale, e «sulla
questione delle mura marittime non è stata ancora detta l’ultima parola» [Mango 501, p. 25,
nota 12; Mango in 507].
4
e. piccolomini, Estratti inediti dai codici greci della biblioteca medicea laurenziana, Pisa 1879,
p. 43.
5
Cfr. Bardill in 498, pp. 1-11.
6
Cfr. p. magdalino, Constantinople médiévale, Paris 1966.
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cécile morrisson
vii. Popolamento, economia e società dell’Oriente bizantino
i. spazio e clima, popolamento e demografia.
1. Spazio e clima.
Fino al termine del regno di Eraclio, l’Impero bizantino è rimasto
una potenza mediterranea attestata dall’Africa del Nord al Mar Rosso,
o al Mar Nero e all’Eufrate a est, e fino al Danubio al nord. Certo, Giustiniano non aveva ricostituito le frontiere di Costantino, ma l’Impero
conservava un’estensione considerevole: la totalità della pars Orientis accresciuta di un terzo. Questa estensione spiega la diversità di condizioni naturali e umane, ma anche l’importanza degli scambi nel quadro di
uno Stato e di una civiltà comuni a delle popolazioni romanizzate e progressivamente cristianizzate nel corso del nostro periodo.
La parte orientale di questo spazio – di cui qui ci occupiamo prioritariamente – era perlopiù occupata da zone di macchia, foreste o pascoli. Comprendeva, per un verso, pianure più o meno fertili, naturalmente ricche di acque o irrigate, dal clima mediterraneo (valli alluvionali del
Nilo e dell’Asia Minore, Basso Danubio e Tracia, Macedonia), esportatrici di prodotti agricoli; per l’altro, in preponderanza, zone montuose
frammentate (Balcani, Tauro, Antitauro, catene pontiche e l’altopiano
anatolico chiuso da queste ultime) con il loro clima contrastato di tipo
continentale (inverni molto freddi, estati torride e secche), destinate ad
attività pastorali o a una policultura poco produttiva, ma non necessariamente autarchica (come nel caso della Siria settentrionale). Le isole
offrivano uno schema analogo, che contrapponeva piccole pianure litoranee a uno spazio di maggiore estensione formato da rilievi boscosi, il
tutto sottoposto a un classico clima mediterraneo, con precipitazioni più
abbondanti nelle isole ionie che in quelle del Mar Egeo.
Le condizioni climatiche sembrano tuttavia aver subito un’evoluzione nel tempo, giacché gli studi paleoclimatici (in particolare glaciologia, dendrocronologia, palinologia) attestano, dopo un lungo periodo
di inverni più caldi (all’incirca dal 1200 a.C. al 500 d.C.), particolarmente favorevole a una maggiore estensione della coltura dell’olivo, un
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netto raffreddamento verso la metà del vi secolo, associato a un incremento delle precipitazioni invernali [Koder 531; Randsborg 532, pp.
22-30]. Inizia allora il lungo periodo di stabilità mediobizantina (viixii secolo), che vede la foresta svilupparsi dovunque l’erosione causata
dallo sfruttamento intensivo precedente non avesse irrimediabilmente
degradato il suolo [Geyer in 518, pp. 31-45]. Sono soprattutto questi
cambiamenti dell’ambiente dovuti alle attività umane (eccessivo sfruttamento del suolo seguito da erosione e dilavamento, nonché degrado
dovuto alla mancanza di manutenzione e all’abbandono di strutture come terrazzamenti, piantagioni e canali) che vengono privilegiati dalla
ricerca attuale nell’interpretazione del declino economico alla fine del
nostro periodo.
2. Risorse naturali e minerarie.
Il legname, quasi unica fonte energetica, era anche la materia prima essenziale per la costruzione navale, fondamento della potenza economica e militare dell’Impero. Le zone montuose vicine al mare, come
Creta, Cipro, il Ponto, il Tauro, la Licia, la Siria levantina, i Rodopi,
le Alpi dinariche, il Pindo, la Calabria, ne erano le maggiori – ma non
le sole – produttrici. Quando, come accadeva di frequente, queste regioni possedevano anche risorse minerarie, erano sede di un’attiva metallurgia.
Grazie alle prospezioni archeologiche, nonché alle analisi dei metalli, le conoscenze sullo sfruttamento minerario hanno compiuto notevoli progressi dal tempo del classico studio di Vryonis [536], che postulava a partire dai testi antichi o moderni, e dai rari testi bizantini riguardanti l’Anatolia, che vi fosse una continuità dall’Antichità all’epoca
medievale [Matschke 535]. È certo che nel v e nel vi secolo venivano
sfruttate miniere o giacimenti d’oro non solo in Nubia, ma anche a est
dell’Egitto centrale [sugli scavi del sito di Bîr Umm Fawâkhir cfr. Meyer
994] nonché nei Balcani, dove la loro amministrazione dipendeva da un
comes metallorum per Illyricum. I testi menzionano i cercatori d’oro traci (aurileguli) o i minatori (sequendarum auri venarum periti) attivi nell’intera regione, e anche le analisi delle monete attestano la produttività
di tale attività. A partire dalla Calcidica e dal Pangeo, le vallate del Nesto, dello Strimone e soprattutto il bacino superiore della Morava (Kratovo) racchiudevano abbondanti risorse in minerali argentiferi o ramiferi e in ferro. Il loro sfruttamento è in parte registrato dai testi e in alcuni casi confermato dall’archeometallurgia [cfr. cap. xi, pp. 355-57].
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Lo sfruttamento di quest’oro balcanico permette la crescita spettacolare delle quantità di solidi battuti tra il 360 e la metà del v secolo, come
si è potuto osservare e misurare in seguito all’innalzamento quantitativo delle tracce di platino nei solidi di questo periodo [Morrisson 594,
pp. 92-95].
Attualmente, le nostre conoscenze più approfondite sono sull’Asia
Minore, grazie ai lavori di numerose squadre, come quella tedesca e quella turco-americana, e soprattutto grazie alle prospezioni dell’Istituto di
esplorazione mineraria di Ankara [Pitarakis 881]. La ricerca degli scarti minerari, l’analisi delle scorie, la datazione al carbonio-14 degli utensili o delle impalcature e la raccolta di cocci nei dintorni delle installazioni minerarie e metallurgiche hanno permesso di localizzare più di una
cinquantina di siti di epoca «bizantina», e talora di datarne il periodo
di sfruttamento in modo relativamente preciso. Le celebri miniere di rame di Cipro sono ancora attive nel v e nel vi secolo [Papacostas in 572].
Si sa inoltre che la Calabria possedeva, nella regione delle Serre, miniere d’oro, d’argento e di rame, nonché di ferro, il cui sfruttamento è ben
attestato alla fine dell’Antichità [Noyé 554]. L’archeologia e le prospezioni sono destinate ad apportare ulteriori informazioni in quest’ambito ancora non perfettamente conosciuto. L’importanza economica di
queste ricchezze spiega l’interesse, non solamente strategico, che per
l’Impero e i suoi vicini rivestivano zone come il Tauro, il Ponto1 e l’Armenia2 o l’Illirico [Du‰aniç 831].
3. Una popolazione numerosa ed eterogenea.
A questo esteso territorio corrispondeva una popolazione non meno
considerevole, che costituiva una delle basi della potenza dell’Impero,
come per la Francia dell’età moderna. Si è stimato – sottoponendo le indicazioni numeriche frammentarie e incerte delle fonti a un’analisi comparativa e procedendo a estrapolazioni che hanno portato a ordini di
grandezza poco certi – che l’Impero d’Oriente annoverasse 24 milioni
di abitanti intorno al 350 [Russell 547] e 30 milioni sotto Giustiniano3
dopo la riconquista dell’Italia e dell’Africa. Tale popolazione era ripartita in maniera assai disomogenea, a causa della diversità delle condizioni naturali e delle loro implicazioni economiche: le zone di forte densità, concentrate nei pressi del mare o di un fiume navigabile come il Nilo, contrastavano con il retroterra balcanico o l’altopiano anatolico,
scarsamente popolati e talora deserti. La popolazione, inoltre, era suddivisa in maniera diseguale anche tra le due parti dell’Impero: nel iv se-
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colo, la pars Occidentis contava probabilmente meno di 20 milioni di abitanti. Lo squilibrio fu certamente accresciuto dallo sviluppo di Costantinopoli e dalla maggiore insicurezza che afflisse l’Occidente nel v e nel
vi secolo. Anche all’interno della pars Orientis, le province dei Balcani
settentrionali colpite dalle invasioni assistettero, nel v secolo, al declinare della loro popolazione, mentre la Grecia e la Siria-Palestina, com’è
testimoniato dalle ricognizioni archeologiche, ebbero un apogeo nel vvi secolo: la densità di popolazione raggiunse probabilmente livelli comparabili a quelli della fine del xix secolo.
La condizione di crocevia dell’Impero d’Oriente e la sua vocazione
ecumenica contribuivano al carattere cosmopolita della popolazione delle metropoli, dove si mescolavano gruppi di origine etnica diversa, che
riflettevano il «mosaico di lingue» parlate nell’Impero [cfr. cap. ix, p.
277]. Tuttavia, la testimonianza dei testi o delle iscrizioni4 non permette di valutare appieno l’importanza di questi viaggiatori, pellegrini, mercanti o artigiani, emigranti insediati temporaneamente o definitivamente, questi «stranieri» che secondo Temistio vengono per esempio accolti da Costantinopoli, «aperta a tutto e a tutti», mentre Roma, incapace
di nutrirli, li respinge [Dagron 719, p. 90]. Le comunità della diaspora
giudaica e siriaca, presenti, talora a partire dall’epoca ellenistica, nella
maggior parte delle città commerciali dell’Impero, e in particolare attestate a Cartagine nel vi e nel vii secolo, sono le più conosciute tra questi gruppi etnici o religiosi allogeni [cfr. sopra, pp. 58-60; Noetlichs 273;
Dagron 277; Sharf 550]. Numerose altre comunità, scarsamente ellenizzate o romanizzate, costituiscono «nazioni» (ethne) che hanno conservato la propria lingua e i propri costumi e si contrappongono frequentemente al «popolo» civilizzato (demos) delle città: briganti delle montagne isauriche, Traci, Illiri, Frigi [cfr. cap. xii], mercenari barbari, Goti
o Alani, nelle città di guarnigione come Cherson.
4.
La ripartizione della popolazione.
4.1. L e c i t t à .
I monumenti conservati (a Costantinopoli o Efeso, per es.) offrono
una testimonianza spettacolare sulle città protobizantine; ma i loro abitanti costituiscono peraltro meno di un quinto della popolazione totale, anche nelle province come l’Egitto dove «la forte produttività agricola ha permesso uno sviluppo della popolazione urbana … eccezionale» [Carrié 139, p. 549], e in altri casi ne costituiscono una parte cer-
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tamente minore. Dopo le due capitali e Alessandria, che nel iv o nel v
secolo hanno sui 500 000 abitanti [cfr. cap. vi; Bavant 540; Delia 543],
vengono le metropoli regionali con più di 100 000 abitanti, come Antiochia (200 000 abitanti secondo le stime di Liebeschuetz o Callu
[541]), Tessalonica (140 000 abitanti per 385 ettari) e Cartagine. Le
città «medie» hanno ordinariamente dai 10 ai 20 000 abitanti, talora
qualcuno di più come Gortina, Scitopoli/Beisan ed Ermopoli, di cui Bagnall [988] valuta la popolazione a circa 37 000 abitanti, a partire dal
numero di oikia (case) attestate.
4.2. B o r g a t e , v i l l a g g i e v i l l a e .
A livello intermedio tra città e villaggi, si sviluppano grosse borgate
di qualche migliaio di abitanti (komai) attestate dai testi [Dagron 542]
e dall’archeologia [cfr. capp. xii-xiii]. Talora si tratta di scali marittimi
o fluviali (emporia della Tracia o della Mesia, per es.), e in ogni caso di
mercati locali (nundinae, panegyreis) [De Ligt 581] che permettono ai
contadini di rifornirsi di utensili e prodotti artigianali senza doversi spostare troppo lontano [Morrisson e Sodini in 518].
A differenza dell’Occidente, per esempio dell’Italia meridionale, ci
sono poche villae (grandi tenute) fuorché in Pannonia o in Dacia, dove
scompaiono nel v secolo a causa della mancanza di sicurezza; alcune resistono in Macedonia. Villaggi, fattorie isolate o una combinazione tra
i due sono le forme comuni di abitato rurale, a seconda delle regioni. Le
fattorie isolate prevalgono in Giudea [Hirschfeld 950] e coesistono con
i villaggi in Cilicia. I villaggi protobizantini sono particolarmente ben
conosciuti e studiati nelle regioni del Vicino Oriente che non erano state rioccupate fino a epoca recente, come la Siria settentrionale, i contrafforti del Tauro, l’Hauran, il Golan, il Negev [cfr. capp. xii-xiii; sulla loro evoluzione regionale e sulla problematica generale cfr. Lefort
553]. Le villae particolarmente sviluppate nel iv secolo nelle pianure dell’Illirico o in Tracia sono quasi tutte abbandonate nel v secolo [cfr. cap.
xi], ma permangono e giungono addirittura a svilupparsi ulteriormente
nell’Italia meridionale [Noyé 554].
4.3. U n a d e n s i t à d i s e g u a l e n e l l o s p a z i o e n e l t e m p o .
La ripartizione di questa popolazione, sia urbana sia rurale, e la sua
densità sono assai disomogenee a seconda delle regioni [cfr. capp. xixiv] e dei periodi considerati. Se si prescinde da ogni considerazione
geografica (clima) o storica (insicurezza), si nota schematicamente una
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concentrazione nelle zone vicine al litorale o nelle vallate navigabili o
facilmente accessibili.
Nel iv e nel v secolo si osserva, grazie alle prospezioni, l’addensarsi
dei siti rurali in molte regioni (Beozia, Argolide, Turchia sudoccidentale, Cipro, Palestina, Transgiordania) e la valorizzazione di zone che, rimaste marginali fino ad allora, in quel momento erano favorite dall’incremento delle precipitazioni [Hirschfeld in 553]. Gli insediamenti si
dispongono sui poggi, nella parte alta delle vallate, in situazioni favorevoli alla coltura dell’olivo. Di converso, nel nord dei Balcani il numero
dei villaggi diminuisce nettamente nel v secolo, a causa delle incursioni
barbariche [cfr. cap. xi; per l’attuale Bulgaria, Rachev in 553]. In maniera analoga la lunga guerra persiana, come ha mostrato Foss, mette
brutalmente fine alla relativa prosperità delle città e dei villaggi dell’Asia Minore, nonché alla loro stessa diffusione, mentre quest’ultima, nell’viii secolo, persiste in Siria-Palestina. Delle città greco-romane dell’Anatolia e dei Balcani restano soltanto rovine e i centri che continuano a
esistere si contraggono intorno a un’acropoli o a un territorio ridotto e
fortificato.
4.4. I m o v i m e n t i m i g r a t o r i .
Dal v al vii secolo i problemi e le guerre causano vari spostamenti di
popolazione, spontanei oppure no, di cui si potrebbero fornire numerosi esempi. Talora si assiste all’esodo in massa di tutta una città, come
Lisso in Dalmazia o Euria in Epiro alla fine del vi secolo, sotto la guida
del vescovo (Gregorio Magno, Reg., 2.37, 8.32, 14.7-8). La Cronaca di
Monemvasia [Lemerle 843, ll. 38-50, pp. 13-14] descrive l’esilio che segue l’arrivo degli Avaro-Slavi nel 587:
La città di Patrasso si trasferì … a Reggio [Reggio Calabria], gli Argivi nell’isola chiamata Orobe, i Corinzi nell’isola di Egina. Allora i Laconi [Sparta] raggiunsero [gli uni] la Sicilia, [gli altri] scoprirono un luogo scosceso sulla riva del mare, vi
costruirono una cittadella e la chiamarono Monemvasia, poiché vi si può penetrare
attraverso una sola entrata, e vi si insediarono con il loro vescovo.
La popolazione autoctona, tuttavia, può anche essere condotta in cattività o deportata, come fecero gli Avari nei Balcani o i Persiani a Gerusalemme nel 614, mentre l’imperatore, com’è il caso di Maurizio, progetta trasferimenti compensatori con l’insediamento di famiglie armene in Tracia o a Cipro. Altri trasferimenti volontari od organizzati hanno
luogo dai Balcani verso l’Asia Minore [Ditten 544], dalla Palestina verso l’Africa ecc. La prima metà del vii secolo è incontestabilmente un
momento di mescolanza, i cui effetti sono più importanti della sempli-
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ce sostituzione di una popolazione con un’altra, o del suo trasferimento. Nei Balcani si assiste infatti alla coesistenza di gruppi etnici di «cultura mista», come si può intravedere a partire da alcuni testi (Mirac. Demetrii, per es.) e dall’interpretazione, delicata, delle scoperte archeologiche [cfr. cap. xi].
5. La demografia.
La popolazione presentava le caratteristiche della maggior parte delle popolazioni mediterranee premoderne5: un rapporto tra i sessi di circa 105 uomini per 100 donne, una mortalità infantile elevata – un terzo dei bambini moriva probabilmente entro il primo anno di vita e due
quinti prima dei 5 anni –, una speranza di vita, a 5 anni, limitata a 44,7
anni per gli uomini e 42,4 per le donne [Bagnall 539], infine la forte prevalenza di numerose malattie che gli attuali studi di paleoantropologia
permettono di identificare meglio di quanto concesso dai testi [Patlagean 523, pp. 101-12; Dauphin 940, pp. 445-72]. D’altro canto, la stagionalità dei decessi, studiata a partire dalle iscrizioni funerarie, mette
ugualmente in luce il ruolo delle «febbri» e dei decessi a esse associati
in estate (tubercolosi, tifo, enteriti, malaria) [Scheidel 548]. La minima
infezione poteva comportare una rapida morte. L’incapacità della medicina e della farmacopea di combattere questi mali spiega la fiducia riposta nelle pratiche magiche o profilattiche, per esempio l’uso di amuleti [Maguire 790], nelle preghiere ai santi guaritori e nell’incubazione
nei loro santuari, nonché nel ricorso agli «uomini di Dio». Nel v secolo, a Seleucia d’Isauria, i Miracoli di santa Tecla mostrano che «per molte persone che soffrivano, una prassi normale consisteva nell’andare successivamente a chiedere aiuto ai medici, ai [medici] ebrei, a quelli che
praticavano ancora i riti d’incantamento e di magia … e infine a [santa]
Tecla, passando dal meno sacro al più sacro» [865, p. 94).
6. La peste di Giustiniano e il calo della popolazione.
In assenza di catastrofi (pandemia, carestia, guerra – o tutte e tre
contemporaneamente), è noto che tali condizioni demografiche permettevano il ricambio, o piuttosto un leggero accrescimento della popolazione (all’incirca lo 0,2% annuo). Il periodo di stabilità che risaliva all’inizio del iii secolo, dopo la fine dell’epidemia detta «peste antonina»
(165 - c. 190, senza dubbio il vaiolo, che avrebbe comportato un calo di
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popolazione dell’ordine del 10%), finisce con l’apparizione della peste
bubbonica nel 542. Questa grande pestilenza, le cui cicliche recrudescenze proseguono a intervalli sempre più lunghi fino alla metà dell’viii
secolo, è stata descritta in termini drammatici dagli autori contemporanei (tra cui Procopio, Bella, 2.22-23; Giovanni di Efeso, Hist. eccl., fr.
2; Evagrio Pontico, 4.29)6. Secondo Procopio, nella capitale nel corso
di tre mesi morirono da 5000 a 10 000 persone al giorno. L’epidemia in
effetti colpì soprattutto gli ambienti urbani e le zone densamente popolate, dove la popolazione era già indebolita da una serie di carestie, provocate dalle estati fredde e piovose degli anni 536 e seguenti, e si diffuse in tutto il Mediterraneo, dall’Egitto fino all’Occidente. Il suo percorso ricalca le rotte commerciali attraverso le quali si propaga insieme alle
merci [McCormick 588], ma risparmia le zone più isolate e di conseguenza le popolazioni nomadi. La conseguente carestia (la peste impedisce la
mietitura o la vendemmia: cfr. Michele il Siro, 9.28) e le recrudescenze
della malattia ai danni di una popolazione già ridotta possono aver contribuito a ridurre gli abitanti delle zone colpite di circa un terzo. Altre
malattie, a quanto pare divenute endemiche tra il iv e il vi secolo (in particolare lebbra e malaria), hanno probabilmente sommato a ciò i loro effetti debilitanti.
Le conseguenze demografiche dell’epidemia sono discusse: alcuni cercano di minimizzarle, valendosi delle scarse prove archeologiche [Durliat in 159, I], altri insistono sui suoi effetti [Kennedy 954]. Alcune iscrizioni siro-palestinesi, ancora poco conosciute al tempo della ricerca di
Durliat, testimoniano decessi in serie in quell’epoca [Dauphin 940, p.
512], e ad Afrodisia un’altra epigrafe celebra l’evergeta che ha salvato
la città «dalla peste e dalla carestia» [Roueché 102, pp. 137-41]. Adesso si riconnettono alla peste anche altri indizi: sepolture frettolose, tombe reimpiegate come carnai, scoperta di resti di ratti assenti dagli strati anteriori. Infine, occorre tener conto del fatto che le circostanze non
si prestano all’incisione di epitafi e che inoltre si preferisce spesso bruciare i cadaveri o gettarli in mare. La peste in sé forse non basta a provocare un calo prolungato della popolazione, ma la sua concomitanza
con altre epidemie che colpiscono persone indebolite può in effetti comportare un calo dal 20 al 30%, il cui riassorbimento richiederà un mezzo secolo, se non molto di più [Biraben in 159, I ].
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ii. economia e società rurale.
Si può stimare che la maggioranza della popolazione (circa il 90%,
che rappresentava circa l’80% della manodopera) risieda nelle campagne, da dove proviene la quantità più cospicua, in valore e in volume,
delle derrate di necessità quotidiana e indispensabile e circa il 60% del
prodotto nazionale lordo.
1. Produzioni agricole.
La varietà delle zone climatiche comporta un’economia contraddistinta da produzioni diverse e complementari. Al contempo, una piovosità sufficiente (400-600 mm), salvo ai margini delle zone aride, in molte regioni permette di associare policultura e allevamento a una o più attività artigianali o industriali e a una cultura commerciale. È su questo
sfondo che bisogna proiettare il presente abbozzo, giacché anche le regioni che si considerano votate a una monocoltura, come la Siria del
nord per l’olio o l’Egitto per il grano, in realtà non lo erano affatto [cfr.
capp. xiii-xiv].
1.1. L e c o l t u r e .
Il grano era coltivato in Egitto, in Tracia, nelle pianure dell’interno
dell’Asia Minore, in Africa settentrionale, in Sicilia. Nell’oasi di Nessana, la resa per il grano poteva raggiungere 1 a 7, in Egitto 1 a 10 [Bagnall 988, p. 116] (addirittura 1 a 20 in caso di raccolti pluriannuali secondo Foraboschi), mentre in Licia il tasso di 1 a 5 è considerato frutto di un miracolo [Patlagean 523, pp. 247-48]. I tassi sono variabili a
seconda del clima della zona considerata e delle sue variazioni annuali,
nonché della qualità delle terre, ma sono probabilmente «meno miserabili di quanto si dica e nelle regioni più fertili sembrerebbero plausibili
rese di 1 a 5» [Lefort in 518, I, pp. 259-61]. La vite e l’olivo sono diffusi ovunque sia possibile la loro coltivazione per il consumo locale o
personale (il vino fornisce nell’alimentazione un quarto dell’apporto calorico giornaliero di un adulto). Vino e olio sono oggetto di particolare
interesse come prodotti di coltivazioni commerciali, considerata la loro
resa monetaria e il fatto che, a parità di superficie, un vigneto rende die-
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ci volte di più di un terreno coltivato a grano. Tra le regioni più o meno specializzate ed esportatrici figurano la Palestina (vini di «Gaza»)
[Kingsley 572] e l’Africa7.
La lista assai composita di ortaggi da seminare e piantare nella regione di Costantinopoli, fornita nel XII libro dei Geoponica (compilati nel
x secolo sulla base di una fonte protobizantina), è confermata al contempo dai papiri egiziani o da quelli di Nessana, dalle iscrizioni, nonché
dalle analisi palinologiche degli scavi (è il caso di Iatrus/Krivina o Cariãin Grad, Hesban o Karanis). Vi si trovano i legumi (lenticchie, piselli, fave, ceci, vecce, lupini) che hanno un ruolo importante nell’alimentazione, soprattutto dei poveri. In Egitto, si spremono i semi di sesamo,
di lachanon e i pinoli per ottenere un olio scadente meno caro dell’olio
d’oliva. Le verdure sono coltivate nelle periferie delle grandi città8. Sono attestate inoltre piante tessili come il lino, che fanno la fortuna, per
esempio, di parecchi villaggi egiziani intorno a Ermopoli. La frutta fa
analogamente la sua comparsa nei testi e negli scavi (datteri, fichi, albicocche, pesche, cotogne, nocciole, pistacchi).
1.2. L ’ a l l e v a m e n t o .
L’allevamento è in funzione del clima e dell’importanza dei pascoli;
i bovidi sono importanti nelle pianure e negli altipiani dell’Asia Minore, in Epiro, in Tessaglia, in Tracia nonché in Lucania, e i bufali nelle
paludi di Apamea o del delta del Nilo. Il pianoterra delle abitazioni dei
villaggi o delle fattorie della Siria settentrionale, e anche della Palestina, è costituito da batterie di mangiatoie e può aver ospitato buoi, nonché cavalli e muli, indispensabili per i trasporti. Montoni, pecore e capre sono onnipresenti: non sono sempre tenuti al pascolo, ma talora risultano radunati nei cortili degli edifici o in recinti e sono inventariati
nei catasti come a Tera e Lesbo9. Tali animali sono particolarmente numerosi nelle regioni montuose e la transumanza causa frequenti scontri
con gli abitanti delle pianure. Il maiale è spesso allevato nelle foreste,
come in Calabria. Il cavallo è essenziale per le necessità militari (alla fine del iv secolo l’esercito d’Oriente ne richiede circa 300 000) e del trasporto civile. Gli equini vengono allevati nelle pianure del Bruzio, della Tessaglia, in Tracia e in Asia Minore, in particolare in Frigia, dove
sono note varie stazioni di monta imperiali [ Jones 149, p. 671; Delmaire 337, p. 682].
L’apicoltura fornisce il miele, unica fonte di zucchero all’epoca, che
è riservato a una clientela agiata a causa del suo prezzo. Il pollame è onnipresente, come testimoniato dalle iscrizioni (tariffa di Cagliari)10 o dal-
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l’archeologia (ossa di polli e anatre a Dehes, per es.) [Sodini 974]. Il pesce non solo è talvolta pescato in installazioni fisse (tonnare e lavorieri), ma può essere allevato in vivai d’acqua dolce o salata, già conosciuti a Roma, come quelli citati da Cassiodoro (Variae, 12.4.14-15) [Dagron 494, p. 59].
1.3. L ’ a r t i g i a n a t o r u r a l e .
Questo settore meriterebbe di essere più studiato, giacché è evidentemente meno noto dell’artigianato urbano [cfr. infra, pp. 224-25]. Bisognerebbe verificare se sia davvero, come si dice, «perlopiù al servizio
dei grandi proprietari». L’esempio di Afrodito contraddice quest’affermazione: questo grosso villaggio ha un gran numero di attività che non
solo provvedono ai bisogni della popolazione circostante, ma anche di
un mercato più lontano (orafi, scultori, intrecciatori di corone). Nell’Impero, la produzione di ceramica è verosimilmente molto diffusa, ma spesso si concentra in prossimità delle zone montuose che forniscono il legno e l’argilla necessari, così come delle regioni vinicole che hanno bisogno di contenitori. La falegnameria è largamente presente, come dimostrato, per esempio, dagli utensili recuperati negli scavi balcanici. La
tessitura è ancora più diffusa, mentre alcune regioni presentano varie
specialità praticate da artigiani itineranti, attivi nei villaggi come nelle
città: muratori isaurici attestati ad Antiochia, San Simeone o Santa Sofia, scultori, mosaicisti di determinate località attivi in Siria settentrionale o in Palestina, fabbri della Cilicia [Sodini 570].
1.4. L ’ a t t r e z z a t u r a e l e t e c n i c h e .
Testi e miniature (per un’epoca più tarda), così come ritrovamenti
archeologici, sono stati messi a frutto per ricostruire le attrezzature protobizantine. Il loro carattere apparentemente rudimentale (aratro senza ruote per l’aratura, pala-vanga, bidente o zappa per lavorare la terra, falce messoria invece che falce fienaia per la mietitura) è invece adatto alla natura dei terreni [Kaplan 552; Lefort in 518, pp. 232-36; Bryer
556]. La battitura dei cereali viene perlopiù eseguita in un’aia per mezzo di una sorta di slitta di legno trainata da bestie e talora da uomini,
la vagliatura tramite una pala di legno e semplici rami forcuti, secondo
tecniche ancestrali ancora praticate nel Ponto o nella Siria del nord nel
xx secolo. Molte case usano la macina a mano, mentre mortai e pestelli fanno parte della vita quotidiana. Il mulino ad acqua è conosciuto
(come testimoniato dal mosaico del Gran Palazzo di Costantinopoli o
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da quello ritrovato presso l’Agorà di Atene), ma il meccanismo «greco» con la ruota di trasmissione orizzontale non ha l’efficacia del mulino «romano» con la ruota verticale, conosciuto da Vitruvio, utilizzando solo dal 15 al 20% della pressione fornita dalla caduta dell’acqua.
La forza idraulica è applicata anche per l’irrigazione [cfr. gli shaduf e le
norie siriane, cap. xiii].
2. Proprietà e sfruttamento.
Come in molte economie preindustriali, la proprietà fondiaria è distribuita in maniera ineguale a favore dei notabili e, a partire dal vi secolo, della Chiesa. Dopo Bowman [986], Bagnall si è dedicato a uno studio esemplare11 della ripartizione per il caso di Karanis e alla costruzione di un «modello» di ripartizione della proprietà fondiaria nel nomo
ermopolita. I proprietari residenti in città possiedono dal 25 al 30% delle terre; anche se molti piccoli possidenti hanno troppo poco per vivere
unicamente dei prodotti della loro terra, esiste «un’ampia base di proprietari con terreni sufficienti per mantenere una famiglia, e un largo
strato intermedio che poteva farsi carico delle obbligazioni pubbliche».
La documentazione papirologica è l’unica a permettere di tentare una
tale stima, ma la situazione non era probabilmente molto differente in
altre province. Nei papiri di Nessana, la piccola proprietà risulta maggioritaria.
Lo Stato, che spesso confisca i beni degli oppositori o dei suoi servitori caduti in disgrazia, come Belisario, possiede anche grandi proprietà,
specialmente in Cappadocia [cfr. cap. xii], di cui affida la gestione a curatori speciali responsabili di queste «case divine» [cfr. cap. iii]. Manca
uno studio sulla natura economica di questi possedimenti imperiali per
la totalità del periodo12. Analogamente, la Chiesa amministra beni sparpagliati in tutto l’Impero: la Chiesa di Roma, per esempio, ne possiede
persino in Oriente, come a Obaria nell’Eufratesia e ad Armanazon nell’Antiochene (Lib. Pont., 1.34, trad. Davis, p. 20). In Oriente, grande
proprietà è raramente sinonimo di sfruttamento intensivo, eccetto nell’Illirico [cfr. cap. xi], dove le villae, più numerose che nelle altre regioni, sono progressivamente abbandonate nel v secolo. I grandi proprietari perlopiù possiedono terreni dispersi o gruppi di abitazioni esterne
(epoikia) ai villaggi ma relativamente compatte [Banaji 551]. I possidenti riscuotono dal contadino che lavora la terra l’affitto e al contempo le
tasse, dal momento che l’autopragia non è un privilegio, ma l’obbligo di
procedere all’esazione delle tasse nell’ambito dei loro possedimenti che
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costituiscono delle unità fiscali. Secondo Carrié [139, p. 609]: «l’inasprirsi della fiscalità a partire dal iv secolo ha gravato essenzialmente sui
proprietari». La gestione di questi latifondi dai terreni frammentati è
stata analizzata a partire dagli «archivi di Eronino» (nome dell’amministratore delle proprietà del cavaliere alessandrino Appiano a Teadelfia nel Fayyum, 110 ettari su un totale di circa 4400)13. Una contabilità
sofisticata calcolava con precisione i costi di produzione e il profitto monetario, la gestione metteva in comune le risorse e il materiale e cercava la produttività. Non c’è motivo per cui la razionalità economica di
questo esempio del iii secolo non abbia continuato a essere praticata nella nostra epoca.
La piccola proprietà contadina è diffusa: più della metà dei contadini di Karanis possiedono da 2 a 8 ettari di terra arabile, grazie ai quali
possono ricavare da vivere, pagare l’affitto e le tasse. La terra è infatti
sottoposta a una fiscalità relativamente stabile, di quotità e non di ripartizione (Bagnall e Gascou, contra Carrié) [cfr. cap. iii]. Si è spesso
tentato di valutare i tassi di esazione: secondo Jones [149, pp. 411-69,
819-23], i cui calcoli sono spesso ripetuti, ad Anteopoli il prelievo fiscale raggiungerebbe dal 25 al 33% del prodotto lordo e dal 50 al 75% del
surplus versato al proprietario – si ricordi che quest’ultimo trasferiva le
tasse allo Stato. Per Bagnall [988] il prelievo rappresenterebbe, in Egitto, in media il 40% del rendimento lordo. Gascou [1030] resta tuttavia
molto scettico sulla possibilità d’interpretare quantitativamente questi
elementi della documentazione papirologica, nonostante la loro apparente precisione.
3. Organizzazione sociale.
La concentrazione della proprietà non deve nascondere l’importanza della classe contadina media in Oriente. Le fonti giuridiche attestano l’esistenza di contadini proprietari o enfiteuti, il cui canone fisso e
modesto garantisce, in un certo qual modo, una rendita sicura. Libanio
cita villaggi di contadini liberi, il cui territorio è suddiviso tra parecchi
proprietari, e la Vita di san Teodoro di Siceone descrive la vita di questi
piccoli proprietari dei villaggi della Galazia all’inizio del vi secolo; l’archeologia presenta, in Siria e altrove, abitati rurali di buon livello, mentre in Egitto sono stati trovati, in case modeste, gioielli, vetrerie e altri
oggetti. Occorrerebbe attenuare il luogo comune della miseria universale della classe contadina, illustrato dalle classiche citazioni di Crisostomo (PG, 58, col. 591), di Teodoreto di Cirro (Storia filotea) o di Pro-
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copio. La condizione della popolazione rurale, senza dubbio, dipende
più dalla sua attività economica che dallo statuto giuridico.
A fianco dei contadini liberi proprietari, i codici evocano i coloni (affittuari) «liberi», distinti dai coloni «ascritti», fissati alla terra, che non
possono lasciare. Per lungo tempo si è considerato questo attaccamento
alla gleba come l’esempio per eccellenza del dispotismo dello Stato tardoromano [Rostovtzeff 525]. Benché implichi una restrizione della libertà di insediamento degli interessati, tale attaccamento non modifica
la loro «condizione ingenua» (CI, 11.52.1), la loro libertà di stipulare
contratti e altri diritti. La motivazione originaria (adscriptio designa l’iscrizione sui registri del fisco) è di preservare la capacità contributiva di
questi agenti economici censiti in una determinata unità fiscale, nel caso specifico il fondo tenuto al pagamento della tassa di cui sono debitori. La legge, tuttavia, viene distorta dai proprietari terrieri per assicurarsi la permanenza della propria manodopera, con effetti variabili a seconda delle regioni e difficili da analizzare vista la complessità delle
fonti14.
La legge è forzata in maniera analoga per il tramite del «patronaggio»: lungi dall’essere una sovranità privata esercitata da individui su
altri individui o collettività, come talora s’immagina, si tratta piuttosto
di una protezione contro le esigenze dello Stato, assicurata a contadini
o interi villaggi da certi «potenti» – alti funzionari, perlopiù militari,
grandi proprietari ecc. – in cambio di un contributo che può divenire,
con il passar del tempo, un canone fisso e portare il «patrono» a diventare il proprietario legale della terra protetta. Questa dipendenza, meno umiliante di quanto sembri, offre spesso il privilegio di una condizione protetta.
La schiavitù rimane attestata dalla legislazione e dai testi (Libanio),
senza che se ne possa determinare l’importanza reale, certo sicuramente variabile a seconda delle regioni. Il mercato ha cessato di essere approvvigionato in maniera massiccia con la fine delle guerre di conquista
e la maggior parte degli schiavi sono tali per aver ereditato la propria
condizione. È probabile che la manodopera servile abbia subito un declino dai tempi dell’alto Impero a causa di un’evoluzione naturale: affrancamenti, riscatti da parte dello schiavo stesso grazie ai suoi risparmi, matrimoni con un uomo libero. Numerose disposizioni dei codici
contemplano in effetti, per esempio, che accordare una dote a una schiava o alla sua progenie equivalga a un affrancamento [Beaucamp 511, I,
pp. 281-83]. A quanto pare, gli schiavi sono relativamente meno numerosi nelle campagne delle province orientali piuttosto che in Gallia o in
Italia.
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iii. economia e società urbana.
Il termine di città (polis) designa nel nostro periodo una realtà multiforme, dalle megalopoli imperiali e metropoli provinciali fino ad agglomerati dotati dello statuto di «città» senza avere le caratteristiche che vi
sono tradizionalmente associate, in particolare e soprattutto i monumenti pubblici. Pur tenendo a mente questa distinzione tra la forma e la funzione dei siti, che non sempre coincidono (si consideri l’esempio della
città episcopale di san Gregorio di Nazianzo, che quest’ultimo qualifica
come «piccolo villaggio», PG, 37, 1059-60) [cit. da Spieser in 159, I, p.
98], nelle pagine seguenti verranno prese in esame le città che secondo
la tradizione romana associano statuto giuridico (esistenza di una curia o
boule), funzione amministrativa e monumentalità civile o religiosa.
1. La società urbana: diversità, disuguaglianze, assistenza e violenza.
In Oriente, nel corso del nostro periodo e in ogni caso fino ai primi
decenni del vi secolo, le città hanno rivestito un’importanza relativa
maggiore che in Occidente. La concentrazione di classi dirigenti ne fa
non solo dei centri di consumo meno parassitari di quanto si dica spesso, ma le rende anche luogo di produzione di numerosi beni e servizi.
Vi si affolla una popolazione variegata e vi si possono udire tutte le lingue dell’Impero: vi si praticano correntemente bilinguismo o trilinguismo, con funzioni sociali gerarchizzate, come un secolo fa nelle città del
Levante. Il latino, lingua dello Stato e dell’esercito, a partire dal vi secolo declina a vantaggio del greco, lingua di cultura e presto dell’amministrazione, comune a tutto l’Oriente, dove sovrasta le differenti lingue
regionali [cfr. cap. ix].
1.1. L e d i s u g u a g l i a n z e s o c i a l i .
La classica distinzione di Libanio tra demos e boule riflette strutture tradizionali, più che categorie socio-economiche. I testi più tardi, tanto pagani quanto cristiani, contrappongono schematicamente i possidenti a coloro che vivono in ristrettezze (aporountes), i ricchi (plousioi, euporoi, prosperi) ai poveri, i lavoratori ai miserabili (penetes, ptochoi)
[Patlagean 523, pp. 9-35].
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Il patrimonio dei senatori di Costantinopoli, pur con qualche eccezione come nei casi di Belisario e Narsete, non è paragonabile a quello
dei senatori romani, di cui Olimpiodoro mostra l’entità ancora considerevole nel v secolo15. Questo patrimonio, perlopiù, deriva dallo Stato,
che se lo può riprendere con la stessa velocità con cui l’ha elargito. Accanto a case o botteghe nelle città – talora interi quartieri – e beni mobili (denaro liquido, gioielli, argenteria ecc.), la terra resta alla base dei
patrimoni, ma l’esempio egiziano visto in precedenza [p. 219] mostra
che i grandi proprietari sono in grado di praticare la commercializzazione dei prodotti delle loro terre o dei loro laboratori.
Gli unici dati concernenti le differenze degli introiti si trovano nella legislazione di Giustiniano (l’Editto del 534 sulla prefettura d’Africa, CIC, I, 27 sg.) [Stein 151, II, pp. 466-67]. Un funzionario di altissimo rango come il prefetto d’Africa riceve 100 libbre d’oro all’anno (7200
solidi), l’augustale di Alessandria 40 libbre (2880), vari ufficiali superiori circa 50 solidi, le guardie più modeste una decina o meno. Si tratta
peraltro solamente dei salari ufficiali, spesso completati da altre gratifiche [cfr. capp. iii e v]. Vista l’abbondanza dell’offerta, il lavoro privato
non qualificato non procura più di un terzo di solidus al mese, due volte meno del meno pagato dei militari. Impieghi di questo tipo sono particolarmente lontani dall’essere standardizzati, sicuri e continui, e i guadagni sono a maggior ragione più incerti. I due terzi degli incassi, se non
l’80%, servono per nutrirsi e l’equilibrio dei bilanci domestici è assai
precario. Anche Giovanni Crisostomo ricorda, per esempio, che l’uomo
ricco ha il dovere di assicurare il lavoro alle classi lavoratrici: di conseguenza, il tenore di vita aristocratico e le sue spese voluttuarie sono indirettamente una forma di filantropia.
1.2. L ’ a s s i s t e n z a : d a l l ’ e v e r g e t i s m o a l l a c a r i t à .
Per aiutare la folla di disoccupati, spesso senza tetto né famiglia, validi oppure no, che si ammassa nelle città, come viene deplorato dalla
novella del 539 (CIC, III, pp. 390-97), che cerca di controllare l’esodo
rurale, a partire dal iv secolo fu creato un certo numero di istituzioni.
Non si può negare che la cristianizzazione abbia svolto un ruolo essenziale nello sviluppo delle differenti forme di soccorso agli indigenti e occorre ricordare che le distribuzioni gratuite di pane e altre derrate [cfr.
sopra] sono misure politiche, e non assistenziali. In effetti, la solidarietà
propriamente detta, limitata ai membri della città secondo le caratteristiche dell’evergetismo antico, ha lasciato spazio a una filantropia più
ampia, almeno nei suoi ideali ispirati dall’insegnamento evangelico. Ric-
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chi laici, vescovi o monasteri, lo stesso Stato contribuiscono a fondare
e gestire ospedali (xena) o ospizi di vario tipo (xenodocheia, gerokomeia,
matronea), oppure diaconie che assicurano distribuzioni di viveri o funerali gratuiti [Patlagean 523, pp. 181-96]16. Come sottolinea Jones [149,
p. 934], l’obbligo legale di dedicare a queste attività un quarto delle rendite della Chiesa indica che tale importo non era sempre raggiunto e rivela il peso del mantenimento di un personale ecclesiastico ridondante.
Tuttavia, vengono sistematicamente indirizzate alla carità risorse spesso considerevoli e i diversi episodi della Vita di Giovanni l’Elemosiniere, patriarca di Alessandria, nel corso della guerra persiana, illustrano
questo ruolo assistenziale del vescovo [cfr. cap. iv, p. 127].
1.3. T e n s i o n i e p r o b l e m i : l a v i o l e n z a u r b a n a .
L’assistenza, evidentemente, non basta a preservare una coesione sociale fragile, in balia di tensioni di ogni genere, attizzate da agitatori, tipo certi monaci campagnoli che si comportano come briganti. Gli incidenti sono talora di origine etnica, come quelli che intorno al 470 contrappongono la popolazione di Costantinopoli agli Isaurici e che si
concludono con un massacro nel 473. Spesso sono di ambito religioso:
è il caso degli scontri ricorrenti (soprattutto ad Antiochia e Gerusalemme) tra cristiani ed ebrei, la cui situazione peggiora tra il iv e il vii secolo [cfr. cap. ii, pp. 58-60], nonché degli episodi antipagani e di tutti
quelli provocati dalle dispute cristologiche. Le rivolte frumentarie propriamente dette, paradossalmente, non sono le più gravi, dal momento
che lo Stato cura scrupolosamente l’approvvigionamento delle città più
importanti.
L’esplodere della rivolta di Nika illustra il ruolo delle fazioni. La storiografia moderna ha cercato spesso, in modo anacronistico, di interpretare queste sommosse in termini di conflitti socio-economici o religiosi.
Ciò significa disconoscere le strutture della città antica e la natura dei
demi, che costituiscono in realtà il corpo dei «cittadini che hanno diritto all’annona» (demotes), divisi in colori, strettamente associati alle corporazioni e per i quali il Circo è l’unico mezzo di espressione [Zuckerman 510]. Le rivalità proprie dei giochi, tuttavia, possono raccogliere
l’insieme del popolo e attirare i non-cittadini o gli stranieri. Gli sviluppi violenti nascono dal minimo incidente, si focalizzano intorno a un
personaggio in vista e degenerano spesso in rivolte generali [Patlagean
523; Liebeschuetz 562]. Negli anni a cavallo tra vi e vii secolo, e particolarmente nel 609-10, gli Azzurri e i Verdi sono al centro dell’agitazione urbana, che in Egitto e in Siria-Palestina li mette alle prese con i dis-
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sidenti ebrei o anticalcedoniani [Dagron 277, pp. 18-22]. La conquista
persiana e il declino della vita urbana nel vii secolo pongono termine a
questi movimenti.
2. Le città e il loro declino.
Fino alla metà del vi secolo, particolarmente nelle province orientali, le città sono mantenute e perfino parzialmente restaurate dopo i terremoti, e conservano i propri monumenti caratteristici, modello ideale,
ancora oggi, della città in generale. La cristianizzazione dello spazio urbano si è affermata tramite un vasto movimento di costruzioni religiose nel v e nel vi secolo, le quali si inseriscono senza alterarlo nel piano
urbanistico e testimoniano la presenza di effettive risorse finanziarie.
La progressiva sparizione dei monumenti, l’impianto di costruzioni private sugli spazi pubblici, la diminuzione delle zone edificate, l’impoverimento, il ripiego su aree più sicure, o addirittura l’abbandono totale
di alcuni siti, colpiscono in maniera diseguale e in date diverse le province dell’Impero [cfr. capp. xi-xiv]. Tale declino, precoce nell’Illirico,
per così dire «disurbanizzato» e dove non rimangono che centri ridotti
situati in prossimità del mare, in Asia Minore invece si aggrava in seguito alla conquista persiana dopo essere iniziato nel vi secolo [Foss 200,
908, 911]. Questo fenomeno colpisce solo parzialmente, invece, la Siria e l’Egitto, che anzi conoscono un rinnovamento, in forme assai differenti, dopo la conquista araba e l’integrazione della mezzaluna fertile
in un unico spazio economico sotto gli Omayyadi [Liebeschuetz 562].
Resta aperto il dibattito tra coloro che attribuiscono un ruolo determinante all’insicurezza e agli effetti della conquista persiana, e coloro che
collocano invece gli inizi della sparizione della città antica nella seconda metà del vi secolo, in connessione con il calo della popolazione [Spieser 566; Russell 907].
3. L’economia urbana e la sua organizzazione.
Prima di queste trasformazioni, la città è sede di un’economia attiva che intreccia strettamente vendita e produzione, spesso localizzate
in laboratori-botteghe (ergasteria) che rispondono contemporaneamente
alla domanda di prodotti di base e a quella di prodotti di lusso o fabbricati in centri rinomati, come Costantinopoli per l’argenteria, Corinto
per le lampade, Tiro per la seta e il vetro. I mestieri legati all’alimenta-
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zione hanno un ruolo importante, come nel caso dei mercanti di vivande conservate sotto sale e legumi e dei tavernieri che compaiono nelle
Vite dei santi urbani del v-vii secolo. Le attività pericolose come la fabbricazione di ceramiche e soprattutto di vetrerie sono relegate in disparte, cosa che non impedisce incendi frequenti [cfr. cap. iii], ma a partire
dalla metà del vi secolo si trovano anche piccoli laboratori insediati nei
centri cittadini. La varietà dell’artigianato urbano è attestata dalle iscrizioni di Tiro o della piccola città di Corico, dove i nomi dei mestieri
compaiono sulle tombe insieme a quello dei defunti [Sodini 570; Trombley 924], nonché dagli scavi, per esempio quelli delle botteghe di Sardi [Crawford 927].
3.1. L e « c o r p o r a z i o n i » .
Gli artigiani e i commercianti sono organizzati in ordini (systemata o
somateia) dotati di una personalità giuridica (chiamarli corporazioni è
comodo ma anacronistico), che assicurano le relazioni dei propri membri con le autorità, incaricandosi per es. della raccolta del crisargiro, ma
difendendone anche gli interessi, come nel caso dello «sciopero» degli
operai edili a Efeso nel 459 [Foss 910, pp. 19-20 e 110-13; per un’altra
interpretazione cfr. Carrié 920] o nella questione delle inumazioni e delle botteghe della Grande Chiesa [Dagron 356]. Il ruolo essenziale di alcune professioni (naviculari, fornai, salumieri) nell’approvvigionamento della capitale porta naturalmente lo Stato a regolamentare e controllare i corpora che operavano al servizio della collettività, ma non bisogna
generalizzare le disposizioni coercitive dei Codici (CTh, 13.5.5) sull’attaccamento ereditario al mestiere. Tali misure non vengono applicate all’insieme delle attività e sono perlopiù legate al possesso di un bene su
cui gravava tale incombenza, come più tardi è il caso del servizio militare richiesto dalla terra stratiotica. L’esercizio di un mestiere è in realtà
generalmente libero, benché, per tradizione familiare, si possa trasmettere di padre in figlio.
4. Le relazioni città-campagna.
Queste relazioni sono state un tema prediletto dalla storiografia del
dopoguerra, che vedeva le città come centri «predatori» o «parassiti»,
che incameravano a proprio beneficio le tasse e le rendite fondiarie. Effettivamente, l’entità di questi prelievi spiega l’opulenza delle grandi dimore del vi secolo ad Apamea, Antiochia e in numerosi altri luoghi. Il
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prelievo fiscale tuttavia, nonostante l’inefficacia e gli abusi nella sua esazione, non va soltanto a beneficio delle città. Al contrario, tali risorse
vengono stornate dallo Stato a proprio beneficio in un processo ben noto. Le tasse locali, i proventi delle dogane, le rendite dei beni che le curie avevano consacrato al mantenimento dei bagni, delle mura o degli
spazi pubblici in generale, o all’organizzazione dei giochi, a partire dalla fine del iv secolo sono in gran parte trasferiti allo Stato, e conseguentemente ridistribuiti anche nelle province17, mentre le risorse rimanenti erano destinate a spese determinate.
La dominazione economica, sociale e culturale della città su borgate
o villaggi di campagna lascia anche spazio a scambi stimolati dalla domanda urbana. Le colture commerciali, l’attività dell’artigianato rurale
producono, in Egitto come in Siria, un surplus che viene investito in
particolare nell’edilizia (bagni dei villaggi a Sergilla, El-Bara ecc.) [cfr.
cap. xiii].
iv. commercio e scambi.
1. Percorsi e trasporti terrestri.
La rete stradale imperiale, adattata a partire dalla creazione di Costantinopoli, seguiva un orientamento principale che andava da ovest a
est: nei Balcani, a sud la Via Egnatia collegava Durazzo a Tessalonica e
Costantinopoli, a nord un altro itinerario militare univa Singidunum
(Belgrado) a Naisso (Ni‰), Serdica (Sofia), Filippopoli (Plovdiv) e Adrianopoli (Edirne) attraverso le valli della Morava e della Marizza, con una
biforcazione verso Tessalonica, a partire da Naisso, che passava per Scupi (Skopje) e la valle del Vardar. In Asia Minore, oltre alle strade che a
nord, ovest e sud seguivano il litorale, l’asse principale univa la capitale, la Bitinia, Dorileo e Ancira (Ankara) da una parte a Melitene e all’Alto Eufrate o all’Armenia attraverso Sebastea (Sivas), dall’altra ad
Antiochia tramite la gola delle «Porte cilicie» [Avraméa 573].
Fino a Giustiniano e anche oltre, lo Stato bada a imporre la manutenzione delle strade in applicazione delle leggi (CTh, 15.3; Nov., 24.3;
De Aedificiis). La prospezione attesta la persistenza e la manutenzione
delle strade romane in Bitinia, a dire il vero molto vicino alla capitale
[Lefort 901 e 883]. L’Impero conserva dunque in Oriente una rete stradale che favorisce il commercio a breve e media distanza. Il declino ar-
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riva in seguito, con la diffusione dell’insicurezza e il crollo dei meccanismi fiscali e amministrativi.
Intorno al vi secolo, le strade antiche (da 6 a 9 metri di larghezza),
adatte ai carri (un carro trainato da buoi, su tali strade, percorreva in
due giorni una distanza di 24 km, ossia 18 miglia), cominciano a essere
in parte sostituite con piste, meno larghe (circa 1,5 metri), adatte agli
animali da soma (tra cui i cammelli, più economici del 20% secondo l’editto di Diocleziano). Queste piste tendono a seguire i crinali piuttosto
che le valli e talora presentano passaggi a gradini. Cionondimeno, in alcune regioni, come la Siria settentrionale, le strade militari coesistono
con piste o larghi sentieri.
Il sistema del cursus publicus (cursus clabularis / platys dromos per l’annona e i trasporti pesanti, o cursus velox / oxys per messaggeri, ufficiali
e per il trasporto dei contanti) e delle sue stazioni (mansiones e mutationes), dove gli ufficiali in missione potevano cambiare le proprie cavalcature, è un carico pesante per lo Stato, aggravato dai privilegiati che ne
abusano a fini personali. Peraltro, le misure di abolizione che vengono
rinfacciate a Giustiniano da Procopio (Anecd., 30.1-2) non hanno la portata generale che viene loro attribuita e il servizio pubblico della posta
continua nel vii secolo e anche oltre [Hendy 592-93].
2. Le rotte fluviali e marittime.
I fiumi (Nilo, Danubio, Marizza – navigabile fino ad Adrianopoli –
Halys e qualche altro) e i mari offrivano una rete dove il trasporto era
meno costoso e più rapido. Occorrevano, per esempio, otto giorni, invece dei venticinque richiesti per terra, per fare il tragitto da Costantinopoli a Teodosiopoli [Avraméa 573], e secondo l’editto di Diocleziano, spesso citato, il trasporto del grano costa da 17 a 22 volte meno per
mare che per terra [ Jones 149, p. 842].
Le caratteristiche del Mediterraneo [sulle correnti e i venti dominanti cfr. Pryor 575] condizionano contemporaneamente i tracciati delle
rotte marittime e le stagioni dei viaggi. Da novembre a marzo l’incertezza del tempo rendeva la navigazione pericolosa e si parlava di mare
«chiuso» (mare clausum) [McCormick 521, pp. 450-68].
Le infrastrutture portuali sono rimaste soddisfacenti ed efficaci fino
al vi secolo. Come si è visto [cfr. cap. vi], nel iv e nel v secolo Costantinopoli aveva aumentato la propria capacità, aggiungendo ai due porti
sul Corno d’Oro altri due porti sulla Propontide, di accesso più facile,
e disponeva di banchine che permettevano l’attracco simultaneo di 500
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battelli di medio tonnellaggio. Il canale che collega Antiochia al suo porto di Seleucia di Pieria, a nord dell’estuario dell’Oronte, resta sgombro.
Gli scavi di Cesarea hanno rivelato le vaste dimensioni dei granai protobizantini, confermando i lavori attribuiti ad Anastasio, nonché il mantenimento delle due gettate antiche, che sopravvissero fino alle crociate. Alessandria conserva i bacini ellenistici e i moli, almeno paragonabili a quelli della capitale, necessari per la spedizione dell’annona, delle
spezie e di altre esportazioni.
Il declino del tonnellaggio medio delle imbarcazioni è attestato dai
testi e dall’archeologia sottomarina [Morrisson e Sodini in 518, I, p.
209; McCormick 588, p. 104]. Nel v secolo, i limiti per la requisizione
delle navi sono sempre più esigui: invece dei 50 000 moggi del ii secolo
[Pomey 578], nel 439 si parla di 2000 moggi (circa 12 tonnellate), in una
novella ripresa dal Codice di Giustiniano. Tale limite cerca anche, senza dubbio, di bloccare le fughe di fronte alle incombenze fiscali. Peraltro, la soglia succitata non è che un quinto della stazza del relitto di Yası
Ada, un battello di 21 metri di lunghezza e 60 tonnellate di capacità
[Bass 931], in un ordine di grandezza confermato da altri relitti bizantini18. In Oriente permangono alcuni battelli di grande tonnellaggio, come quello che nel 390 dovette trasportare a Costantinopoli l’obelisco di
Teodosio e le sue 800 tonnellate, o il relitto di Marzameni che trasportava da 200 a 300 tonnellate di marmo di Proconneso. Si citano anche
navi alessandrine con una stazza di 70 000 e 20 000 moggi (560 e 160
tonnellate), che contrastano con i battelli di piccolo o medio tonnellaggio di regola in Occidente. La vela latina triangolare, che facilita la risalita sopravvento, è un’innovazione tecnica attestata nel iv secolo da
una lettera di Sinesio [Casson 580, p. 268] e nel vii secolo dal relitto di
Yası Ada [931].
3. Gli scambi sulla base dei testi e della ceramica.
La nostra conoscenza degli scambi dell’epoca protobizantina, che era
fondata essenzialmente sulla testimonianza parziale e lacunosa dei testi,
è stata rinnovata, e per certi versi rivoluzionata, dai risultati dell’indagine archeologica degli ultimi trent’anni. La ceramica, la cui produzione è sempre meglio localizzata, classificata e datata, offre ormai dati
quantificabili e comparabili. Lo studio dei ritrovamenti avvenuti tramite scavi o prospezioni permette di seguire l’orientamento degli scambi
e le loro variazioni relative. Questa documentazione ha i suoi limiti, giacché concerne solamente i prodotti trasportati per conto proprio (stovi-
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glie da tavola o ceramica da cucina), o quelli trasportati in contenitori
di ceramica (anfore o giare), che fossero liquidi (olio, vino) o semiliquidi (salamoie, conserve di pesce come il garum), cui talvolta si aggiungevano frutta o legumi secchi. Ma alcune mercanzie, come il grano trasportato sciolto o in sacchi, lasciano poche tracce archeologiche19 e forse nel vi secolo il vino comincia a essere trasportato anche in botti.
La creazione di Costantinopoli ha comportato sin dalla fine del iv
secolo uno spostamento del commercio verso il Mediterraneo orientale,
divenuto la zona di consumo (nonché di produzione) dominante dell’Impero, in rapporto all’Occidente. La rotta più importante è quella del grano, che unisce l’Egitto a Costantinopoli: la flotta annonaria fa scalo probabilmente a Cipro, poi a Chio e a Tenedo, dove Giustiniano fa costruire granai in cui riporre il grano in caso di una prolungata attesa dei venti
favorevoli per passare i Dardanelli (Procopio, De Aedificiis, 5.1.7-16).
Alle principali derrate citate nel decreto di Abido (grano, vino, olio) si
aggiungono tessuti, profumi, spezie, papiro, metalli o legname, materie
prime per l’artigianato della capitale. Una seconda rotta commerciale,
parzialmente riattivata dalla riconquista giustinianea ma che non si era
mai interrotta del tutto neppure in epoca vandalica, collega la capitale
all’Italia e soprattutto all’Africa, con scali nella Grecia meridionale, costellati dai ritrovamenti di sigillata africana. La ceramica fine africana
raggiunge direttamente la Siria-Palestina passando per Creta, ma in tutto l’Oriente viene surclassata, a partire dal v secolo, dai differenti tipi
di sigillata focese [Abadie in 159, I, pp. 143-60; Panella, ibid., pp. 129141 e 593]. Infine, l’Impero importa dall’Oriente i prodotti più preziosi – seta, perle o spezie – sia attraverso i percorsi carovanieri che portavano dall’Arabia alla Siria, dove gli scambi sono concentrati in alcune
stazioni doganarie come Nisibi, sia attraverso le rotte marittime. Gli
empori del Mar Rosso (Clisma e Aduli) restano fiorenti nel vi secolo; i
riferimenti dei testi alle relazioni con l’India (Periplus, Cosma) sono illustrati dai ritrovamenti di monete d’oro del v-vi secolo sulle coste meridionali e a Ceylon [Morrisson in 494].
4. L’annona e il suo trasporto.
Le consegne annuali di grano o altre derrate gestite dal fisco a beneficio delle capitali, della Corte o dell’esercito non riguardano tutte
le città, come pretende Durliat, ma solamente alcune, e neppure tutti
i loro abitanti20. Il termine di annona designa inizialmente le razioni
destinate ai militari e a certi funzionari civili, in seguito le distribuzio-
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ni di pane note dai testi legislativi. Alle 80 000 annone civili («pani politici») istituite nel 332 si sommava un certo numero di razioni legate
alla costruzione di una casa (panes aedium) (4388 secondo la Notitia)
[Jones 149, pp. 696-98; Dagron 493, pp. 539-49]. Si sa che Costantinopoli era dotata di 20 o 21 forni pubblici di grande capacità, che fornivano queste diverse razioni distribuite ai beneficiari – i demoti – radunati su gradini (gradus), mentre 114 o 120 forni privati più modesti
provvedevano ai bisogni del resto della popolazione.
Non c’è comunque nessun dubbio sul fatto che, nel vi secolo, Costantinopoli fosse incapace di approvvigionare la propria popolazione
appoggiandosi al proprio immediato retroterra o anche alla Tracia e alle pianure danubiane. L’Egitto, con 8 milioni di artabe (36 milioni di
moggi), e secondariamente l’Africa sono i principali fornitori della capitale. Se l’una o l’altra di queste regioni sospende le proprie consegne,
come l’Africa nel 608 o l’Egitto nel 619 (Niceforo, ed. De Boor, 12 =
CFHB, Mango, p. 48), allora può imperversare la carestia. Un qualche
ruolo poteva essere svolto dalla Sicilia, come dimostra la domanda di
soccorso inoltrata dal prefetto dell’Illirico, prima che l’intervento miracoloso di san Demetrio dirottasse alcuni battelli provenienti da Chio
(Mirac. Dem., 74-79) [Lemerle 211, I, pp. 103-8]. Il trasporto dell’annona civile è affidato fino a Giustiniano a una gilda di liturgi specializzati, i naviculari, esentati dalla tassazione fondiaria sulle terre sottoposte
all’obbligo del trasporto e dispensati dal pagamento dei vectigalia [Sirks
589, p. 35; McCormick 588, pp. 68-93]; in seguito vengono coinvolti
trasportatori remunerati che completano anch’essi il loro carico ufficiale con altre mercanzie.
5. Il commercio.
Nonostante il ruolo di queste sovvenzioni, il grande commercio non
è né «statalizzato» né in mano agli agenti dei grandi possidenti, come è
stato sostenuto [Whittaker 582]. Le leggi – che cercano essenzialmente
di regolamentare l’annona – mostrano inoltre indirettamente la vitalità
del commercio privato [Sirks 589]21. I negotiatores che vengono incaricati dallo Stato non solo della fornitura delle coemptiones, ma anche del
loro trasporto, rappresentano anche un’attività privata.
Scambi più modesti sono assicurati in mercati e fiere, come quelle di
Amida o di Imma nell’Antiochene, «grande borgo assai popolato» che
attira «mercanti da ogni luogo e un’innumerevole folla» (Teodoreto, Storia di monaci siri, SC, 234, 7.1-2). Le Vite dei santi e i papiri testimo-
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niano tali attività e il Talmud attesta quelle dei venditori ambulanti (rochel ). Le iscrizioni che hanno conservato le tracce delle tasse prelevate
in natura o in moneta sul commercio interno enumerano una grande varietà di prodotti. Gli introiti di tali vectigalia e delle dogane sono ancora poco conosciuti, ma alcune allusioni nella legislazione mostrano che
lo Stato ricavava più di quanto si creda da questi diritti commerciali, così come da quelli sulla bollatura dei papiri22.
La tariffa di Anazarbo enumera alla fine del v secolo: zafferano, garum, cordami, chouzia (fiasche ricavate da zucche essiccate), fieno greco (vegetale in baccelli), aglio, frittura (pesce), vino, sale, piante innestate, seta grezza, stagno, piombo, schiavi, bovini, «carrube» (vegetali in baccello in generale?), su cui si prelevano tasse espresse in carati
e monete di bronzo23. L’iscrizione di Cagliari, tra 582 e 602, evoca palme, pecore, animali da macello, ortaggi, «prodotti estivi», vino, grano
e «uccelli»; ciò era perlopiù tassato in natura, ma in qualche caso in
moneta secondo una tabella ad valorem24.
v. la moneta, strumento delle finanze imperiali e degli scambi
economici.
La moneta protobizantina costituisce lo strumento flessibile e gerarchizzato degli scambi privati e della fiscalità. Le tabelle a p. 232 schematizzano un’evoluzione molto complessa e fluttuazioni difficili da cogliere, a partire da fonti disparate (testi, marchi monetari, analisi).
La svalutazione del denaro d’argento nel corso del iii secolo aveva
posto fine alla supremazia del metallo bianco, che perdurava dai tempi
della repubblica. A partire dal iv secolo, al contrario, tutto si è incentrato intorno all’oro e il solidus creato nel 309 è rimasto per dieci secoli la base del sistema monetario bizantino. Le trasformazioni della moneta d’argento nel iv secolo, e la sua progressiva sparizione nel v, sono
un esempio della difficoltà di assicurare rapporti stabili tra i metalli. La
sparizione della moneta in rame argentato (mistura) e la svalutazione costante della moneta di bronzo sono state precedentemente interpretate
in termini di «inflazione». Tuttavia, vi si possono individuare non solo
l’impossibilità di far accettare al pubblico un valore nominale arbitrario
senza rapporto con il valore intrinseco, ma anche il segno di una monetarizzazione crescente degli scambi. Di fronte al ruolo crescente della
moneta d’oro nell’economia, denunciato intorno al 350 dall’anonimo De
2
1
3
Tremissis
* Solidus = 11 520 nummi tra il 498 e il 538.
Semissis
Solidus/Nomisma
12
Esagramma
(dal 615)
288
Follis
(40 nummi)
Dal 498 al 550.
576
1/2 Follis
(20 nummi)
da 10,16 g a 1,66 g
(da 4% a 0,4% di Ag)
1152
Decanummio
(10 nummi)
Bronzo
5,4 g e
4,5 g
ae2
(Decargyrus)
1/60 e poi
1/72 di libbra
c. 1,5 g
ae4
(Centenionalis
nummus)
11 520*
Nummus
Fonte: Morrisson in 159 e 595.
2304
Pentanummio
(5 nummi)
Fonte: Kent in RIC, X.
2,45 g
ae3
Bronzo
9:36
Argento
3,31 g e
2,26 g
5,4 g e
4,5 g
4,5 g
(progressivamente svalutato in peso e purezza;
cessa nel 348 c.; il valore precipita tra il 295 e
il 352 da 12,5 a 12 500
denari)
Nummus
(1/321/196 di libbra)
Mistura (Ag/Cu)
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Oro (± 98% Au)
Siliqua
(1/96 e
1/144 di libbra)
Miliarensis
(1/60 e
1/72 di libbra)
Argento
Solidus/Nomisma
(1/72 di libbra)
Oro
Dalla fine del iv secolo al 498.
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rebus bellicis [435, 2.1.2] e coincidente con l’aumento dei solidi battuti
tra il 340 e il 360 (rivelato dalle analisi monetarie), la svalutazione della moneta di bronzo in realtà costituiva un adattamento ai rapporti di
mercato tra i metalli. Dopo la carenza di moneta spicciola nel corso del
v secolo (in Oriente ne vengono battute poche, poiché la fabbricazione
di nummi dal peso sempre più scarso è troppo costosa), Anastasio ristabilisce in due tempi una moneta pesante di bronzo, questi follares il cui
cambio è «gradito al popolo», che paga ed è pagato con questo metallo
[Marcellino comes 178, ad a. 498].
Il funzionamento di questo sistema plurimetallico poggia su un circuito fiscale elaborato [cfr. cap. iii], la cui importanza economica resta
poco indagata. L’entità del prelievo è difficile da valutare, nonostante
la precisione di alcune serie papirologiche; Bagnall suggerisce un ordine
di grandezza del 30% del prodotto lordo. Non si può neppure valutare
l’entità del prelievo in contanti nell’insieme della tassazione, che varia
secondo le epoche, le condizioni geografiche e le necessità del governo
(senza dubbio, tuttavia, in Egitto doveva essere soltanto intorno a un
quarto del totale). L’idea diffusa secondo la quale l’esazione in natura,
destinata ad assicurare la fornitura dell’annona all’esercito e a preservare dall’inflazione il potere d’acquisto dei militari, sarebbe stata ampiamente maggioritaria tra 250 e 360 circa è smentita dalle fonti. Il calo
dello stipendium pagato in bronzo argentato svalutato è compensato, a
partire dal iv secolo, dalla concessione di donativa quinquennali in oro
e argento [cfr. cap. iv]. Lo Stato, al contrario, si sforza di lottare contro la conversione dell’annona in oro (adaeratio) e i suoi abusi, che avevano luogo quando beneficiari o agenti del fisco realizzavano plusvalenze (interpretium) giocando sulla differenza tra tariffe di conversione e tariffe di requisizione (coemptio). A partire dalla metà del v secolo, le
annone sono perlopiù percepite e versate ai soldati in contanti.
Banchieri e cambiavalute assicurano il funzionamento dell’economia
monetaria attraverso operazioni di cambio tra metalli o di verifica del
peso, prelevando una commissione dal 2 al 3% per le une e del 6,25%
per le altre. Orefici-banchieri, zygostatai e altri25 non sono funzionari come si è creduto per lungo tempo, ma membri di una corporazione che
viene contemporaneamente protetta e controllata dalla legge, e possono anche prestare a interesse. Il credito è perfettamente legale e il suo
tasso d’interesse, che può raggiungere il 12,5% per il prestito marittimo, varia, a seconda del prestatore, tra 4,2 e 8,33% [EHB 518, III, pp.
1095-98]. Il prestito è spesso praticato da privati che appartengono a
differenti classi sociali (illustres o superiori, artigiani-commercianti a capo di ergasteria) [Bagnall 988, pp. 74-75]. I banchieri possono lavorare
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in associazione e praticare la compensazione, che permette il pagamento in un luogo di una somma rimborsata altrove. La legislazione giustinianea sui depositi (il constitutum: cfr. Giustiniano, Editti, 9) riflette la
sofisticazione delle tecniche bancarie26, mentre l’esempio della banca
alessandrina [Bagnall 988] o del banchiere Giuliano, che consacra 26
000 solidi alla costruzione e dotazione di San Vitale a Ravenna (Agnello, MGH, 59, 77) mostrano la potenza di tali agenti economici.
vi. conclusione.
Si saranno notate, in questa sintesi, alcune acquisizioni della ricerca
recente e i nuovi indirizzi di quest’ultima: in particolare la specificità
dell’economia orientale in rapporto all’Occidente e il mantenimento di
una certa prosperità fino alla metà del vi secolo, in parte legata al riassetto verso Costantinopoli e alla relativa sicurezza della maggior parte
delle province, con l’eccezione dei Balcani. La riflessione attualmente
in corso sul ruolo dello Stato lo fa apparire meno «interventista» e onnipotente di quanto si è lungamente creduto sulla base della sola legislazione. I documenti papirologici, l’epigrafia, l’archeologia, la numismatica e una nuova lettura delle fonti storiche forniscono numeroso prove
della vitalità del settore privato, di un tasso elevato di monetarizzazione per un’economia preindustriale e infine dell’adattamento dello Stato ai prezzi e alle leggi del mercato, e non il contrario, giacché l’intervento pubblico si limitava alle croniche crisi di sussistenza. Per il futuro, restano da definire i rapporti tra fiscalità, moneta ed economia; e
infine meriterebbe un nuovo approccio la questione dell’influenza della cristianizzazione sull’economia e sulla società.
1
a. bryer, The Question of Byzantine Mines in the Pontos: Chalybian Iron, Chaldian Silver, Koloneian Alum and the Mummy of Cheriana, AS, 32 (1982).
2
r.-j. lilie, Die byzantinische Reaktion auf die Ausbreitung der Araber, München 1976.
3
c. mango, Byzantium. The empire of New Rome, New York 1980.
4
Per es. d. feissel, Notes d’épigraphie chrétienne IX, BCH, 118 (1994), p. 283, sui Frigi della
capitale.
5
b. w. frier, Demography, in The Cambridge Ancient History, XI. The High Empire, AD 70-192,
Cambridge 20002, pp. 787-816.
6
Cfr. Stathakopoulos 537; Conrad 538; L. Conrad in BMGS, 18 (1994), pp. 12-58, e in «Der
Islam», 73 (1996), pp. 81-112.
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Pagina 235
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7
235
d. j. mattingly, Oil for export? A comparison of Libyan, Spanish and Tunisian olive oil production in the Roman empire, JRA, 1 (1988), pp. 33-57; b. hitchner, Olive production and the Roman economy: the case for intensive growth in the Roman Empire, in La production du vin et de
l’huile en Méditerranée, BCH, suppl. 26 (1993), pp. 499-508.
8
j. koder, Gemüse in Byzanz, Wien 1993; Id. in 494, pp. 456-59.
9
a. deléage, La capitation du Bas-Empire, Mâcon 1945, pp. 173-81.
10
j. durliat, Taxes sur l’entée des marchandises dans la cité de Carales-Cagliari à l’époque byzantine (582-602), DOP, 36 (1982), pp. 1-14.
11
r. s. bagnall, Landholding in Late Roman Egypt: The Distribution of Wealth, JRS, 82 (1992),
pp. 285-96.
12
Per il iv secolo cfr. F. Millar in Imperial revenue, expenditure and monetary policy in the Fourth
Century AD, BAR, 76 (1980), pp. 125-40.
13
d. rathbone, Economic Rationalism and Rural Society in Third-Century Egypt, Cambridge 1991.
14
j.-m. carrié, Colonato del Basso-Impero: la resistenza del mito, in e. lo cascio (a cura di), Terre, proprietari e contadini dell’Impero romano, Roma 1997, pp. 75-150; e Carrié 139.
15
j.-p. callu, Le «centenarium» et l’enrichissement monétaire au Bas-Empire, «Ktéma», 3 (1978),
pp. 301-16; a. ãekalova, Fortune des sénateurs de Constantinople du iv e au début du vii e siècle,
in Eupsykhia. Mélanges offerts à H. Ahrweiler, Paris 1998, pp. 119-30.
16
Costantino accorda l’immunità a 950 botteghe di Costantinopoli, in cambio della fornitura di
un becchino da parte di ciascuna. Sulle difficoltà incontrate dall’applicazione di queste misure e sull’evoluzione della legislazione nel vi secolo cfr. Dagron 356.
17
Nella proporzione teorica di due terzi per lo Stato e un terzo per la città, per quanto concerne le rendite delle dogane (CI, 1.61.13): cfr. g. dagron e d. feissel, Inscriptions de Cilicie, Paris 1987, pp. 183-84.
18
Cfr. j. koder, Maritime Trade and the food supply of Constantinople, in r. macrides (a cura di),
Travel in the Byzantine World, Aldershot 2002, pp. 109-124.
19
Si è proposto di tracciarne gli spostamenti grazie alla diffusione della ceramica fine (in particolare africana) che vi veniva trasportata insieme [Abadie in 159, I, pp. 143-60]. L’analisi dei
pollini potrebbe rivelarlo, ma è raramente praticata (si sa così che il relitto merovingio di SaintGervais B trasportava del grano). Nell’inventario di Parker [574] è attestato solo una volta su
circa 900 relitti antichi (500 a.C. - 650 d.C.).
20
Contro Durliat 587, cfr. Delmaire, AnTard, 1 (1993), pp. 253-57; McCormick 588; Carrié
586.
21
Cfr. a. j. sirks, The Size of the Grain Distribution in Imperial Rome and Constantinople, «Athenaeum», 79 (1991), p. 223.
22
Cfr. j. diethart, d. feissel e j. gascou, Les prôtokolla des papyrus byzantins du v e au vii e siècle, «Tyche», 9 (1994), pp. 22-23.
23
dagron e feissel, Inscriptions de Cilicie cit., n. 108, pp. 170-85.
24
durliat, Taxes sur l’entée des marchandises dans la cité de Carales-Cagliari cit.
25
Il vocabolario diviene assai impreciso nel vi secolo, ma si possono distinguere gli argentarii/argyropratai dai nummularii o collectarii (cambiavalute) incaricati per esempio di fornire a un cassa pubblica di Roma (l’arca vinaria) solidi in cambio della moneta spicciola che tale cassa raccoglieva (simmaco, Relatio, 29; comm. e cit. in j.-m. carrié, Les métiers de la banque entre public et privé (iv e-vii e siècle), Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, XII Convegno
internazionale in onore di M. Sargenti (Perugia-Spello, 11-14 ottobre 1995), Napoli 1998, pp.
67-93). Non bisogna identificare gli aurarii di alcune iscrizioni con degli orafi, ma con degli
organizzatori di giochi [Zuckerman 510].
26
s. j. b. barnish, The Wealth of Iulianus Argentarius. Late antique banking and the Mediterranean
economy, «Byzantion», 55 (1985), p. 21.
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bernard flusin
viii. La vita religiosa. I cristiani nel mondo, il monachesimo
Il cristianesimo non è sconvolto dalla nuova condizione che arriva a
ottenere in epoca costantiniana, ma può ormai sviluppare più liberamente le proprie istituzioni, occupare gli spazi pubblici e diffondere nella
società romana i suoi usi, i suoi ritmi e talora i suoi valori. La Chiesa,
che nel iii secolo era ancora estranea allo Stato, adesso vi entra in stretto contatto. Il popolo dei cristiani tende a confondersi con quello dell’Impero e la trasformazione del cristianesimo in una religione di massa
comporta numerosi cambiamenti. Per reazione, forse, contro questa
compromissione con il «mondo», alcuni cristiani si ritirano dalla società
e il nuovo modo di vivere da essi adottato finisce per rivestire una tale
importanza all’interno della Chiesa, che da questo momento occorre distinguere due tipi di vita cristiana: quella dei cristiani nel «mondo» e
quella dei monaci.
i. i cristiani nel mondo.
La nuova situazione della Chiesa e il movimento di conversione di
massa influenzano i sacramenti più antichi, come il battesimo o l’eucaristia, e l’insieme della vita liturgica, mentre compaiono nuove forme di
pietà, come il culto dei santi o il pellegrinaggio. Il tempo, lo spazio, la
stessa società dell’Impero sembrano cristianizzarsi.
1. Sacramenti, liturgia.
A partire dai primordi del cristianesimo, si entra nella Chiesa tramite il battesimo, un rito in cui svolge un ruolo fondamentale l’immersione nell’acqua e che rende il battezzato un cristiano e un figlio di Dio, li-
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berandolo dai suoi peccati anteriori [Saxer 608; Kretschmar 603]. Fin
dal iii secolo, la preparazione dei catecumeni e i riti che circondano il
battesimo hanno assunto una complessità crescente. Benché vi siano battesimi di bambini, la Chiesa si occupa soprattutto del battesimo degli
adulti: si tratta di una situazione che perdura nel iv e nel v secolo.
Il catecumenato [Dujarier 601] varia a seconda delle regioni e delle
epoche, ma in genere si possono distinguere due tipi di catecumeni. I
primi, rinunciando al culto degli idoli, ricevono un’istruzione elementare e, dopo un’ammissione rituale, sono autorizzati ad assistere alla prima parte della riunione eucaristica, con le letture e il loro commento,
che essi ascoltano prima di essere congedati: vengono chiamati gli «uditori» (akroomenoi). I secondi, gli «illuminati» (photizomenoi/illuminandi), s’impegnano nella preparazione al battesimo. All’inizio della Quaresima, dopo un esame minuzioso, vengono inseriti dal vescovo in una
lista; la loro domanda è appoggiata da garanti, antenati dei padrini e delle madrine. Durante la Quaresima, si preparano al battesimo tramite
una vita di ascesi, diversi riti e un insegnamento che conosciamo tramite alcune catechesi. Gli esorcismi svolgono un ruolo importante, così come la «tradizione» del simbolo: i catecumeni recitano davanti al vescovo, da cui l’hanno appreso, il simbolo della fede (il Credo latino). I riti
di rinuncia a Satana e di adesione a Cristo precedono di poco il battesimo stesso.
Quest’ultimo all’origine è impartito dal vescovo, in occasione della
notte di Pasqua o in concomitanza con qualche altra festa (Epifania,
Pentecoste). Il battezzando, nudo, è unto d’olio benedetto su tutto il
corpo, poi discende nella vasca battesimale, dove una formula trinitaria
accompagna una triplice immersione. Dopo l’immersione, il neobattezzato riceve un’ulteriore unzione e il vescovo impone le mani su di lui.
Poco dopo, ha luogo una prima partecipazione all’eucaristia.
Inizialmente, l’insieme di questi riti è compiuto dal vescovo, spesso
in un edificio speciale, il battistero. Con il movimento di conversione
di massa, tuttavia, i battesimi si moltiplicano e vengono impartiti da sacerdoti o diaconi, talora in semplici chiese rurali, in diverse date nel corso dell’anno. Nel vi secolo, con la cristianizzazione dell’Impero, i battesimi degli adulti declinano a profitto dei battesimi dei bambini. L’istituzione del catecumenato, di conseguenza, tende a tramontare in
alcune regioni.
Una volta battezzato, il cristiano può partecipare pienamente alla
liturgia eucaristica – la «divina liturgia», la «messa» dei Latini –, che
ricopre un ruolo fondamentale nella vita della Chiesa [Van de Paverd
613]. I fedeli, riuniti intorno al vescovo e al clero, sentono leggere e
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spiegare le Sacre Scritture, pregano insieme, prendono parte ai «misteri», bevendo il vino e mangiando il pane consacrato. La sinassi (riunione) eucaristica è divisa in due parti, di cui la prima, aperta a tutti, è dedicata all’insegnamento, con letture bibliche seguite da un’omelia. In
seguito hanno luogo il congedo dei catecumeni e la messa dei fedeli,
propriamente eucaristica. Il pane e il vino sono portati all’altare, dove
il celebrante recita l’anafora (oblazione), che ricorda la morte e resurrezione di Cristo e l’istituzione dell’eucaristia il Giovedì Santo, seguita dall’epiclesi (invocazione dello Spirito Santo), cui le Chiese orientali attribuiscono la massima importanza. I dittici dei morti e dei vivi,
letti successivamente, testimoniano l’unità della Chiesa. Poi vengono
la preghiera del Padre Nostro e la comunione del clero e dei fedeli, sotto le due specie.
Si possono percepire diverse evoluzioni. Le formule sono differenti,
ma i contatti tra le Chiese comportano un inizio di unificazione, almeno all’interno di ampie aree: liturgia di san Marco per l’Egitto; anafore
antiochene e siro-occidentali per Antiochia e la sua regione, ma anche
per la Palestina (liturgia di san Giacomo), per l’Asia Minore e la Cappadocia (liturgia di san Basilio) e infine per Costantinopoli, dove la liturgia di san Giovanni Crisostomo, all’origine del rito bizantino, deve molto all’influenza di Antiochia [Taft 611].
L’incremento del numero dei cristiani comporta la moltiplicazione
dei luoghi di culto e la celebrazione eucaristica può essere presieduta da
un sacerdote invece che dal vescovo. Fin dal iv secolo, i fedeli smettono di comunicarsi a ogni messa. Questo atteggiamento, che forse denota un calo di fervore, va di pari passo con la crescente sacralizzazione
dell’eucaristia, che viene testimoniata, all’interno delle chiese, dalla netta divisione tra la navata, dove stanno i fedeli, e l’altare nel coro, dove
sta il clero [cfr. cap. x, pp. 306-7].
Oltre che dall’eucaristia, la vita del cristiano è contraddistinta da diversi atti religiosi. Il matrimonio, per quanto resti essenzialmente civile e romano, si cristianizza [Ritzer 604]: la iunctio dextrarum e la velatio
sono accompagnate da una benedizione impartita dal vescovo o da un
sacerdote; soprattutto, il matrimonio è generalmente indissolubile, salvo casi speciali. L’ordinazione segna l’ingresso nei differenti gradi del
clero. I funerali sono circondati da un apparato religioso. In circostanze più eccezionali, il cristiano colpevole di un peccato grave – idolatria,
omicidio, adulterio – è sottoposto alla penitenza [Galtier 602]: il vescovo, cui viene confessato il peccato, o che ne è venuto a conoscenza in
altro modo, può separare il peccatore dalla comunità e ridurlo allo stato di penitente. Le pratiche variano a seconda delle regioni; tuttavia la
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penitenza, pubblica, è sempre lunga, benché la severità della Chiesa tenda a mitigarsi. D’altro canto, tale pratica non è reiterabile e la gravosità
dell’antico sistema penitenziale spiega come mai si sia spesso cercato di
ritardare il battesimo, o una prima penitenza, il più possibile.
La cristianizzazione del tempo segna tutti i cicli della vita del fedele. La giornata è scandita dalle preghiere private o pubbliche: nelle chiese secolari, la preghiera del mattino e della sera, così come le vigilie –
veglie che precedono feste e celebrazioni eucaristiche – sono accompagnate da canti, mentre i monasteri, dove giunge a compimento il sistema delle «ore» [Taft 610], osservano una salmodia meno ornata. Il ritmo settimanale è fondamentale, con il «giorno del Signore» (gr. kyriake,
lat. dominica: la nostra domenica) [Rordorf 606], reso festivo da Costantino (ancora in onore del Sole), ma anche con i digiuni del mercoledì e
del venerdì, giorni nei quali, in alcune regioni, si celebra anche l’eucaristia.
L’anno stesso si organizza in senso religioso e l’epoca protobizantina vede precisarsi e unificarsi il calendario liturgico [Talley 612]. Quest’ultimo comprende numerosi cicli: il più importante è incentrato intorno all’antichissima festa di Pasqua [Cantalamessa 600], in cui i cristiani commemorano la resurrezione di Cristo. Il concilio di Nicea cerca
di imporre a tutto l’Impero una medesima data per la Pasqua, quella delle Chiese di Roma e Alessandria, ma non vi riesce completamente. Pasqua è preceduta dalla Settimana Santa e da un digiuno di diverse settimane (spesso quaranta giorni), la cui cadenza si fissa, ancora una volta, nel iv secolo. Dopo Pasqua comincia un tempo festivo di cinquanta
giorni, al termine del quale la festa di Pentecoste commemora la venuta dello Spirito Santo sugli Apostoli; l’Ascensione di Cristo, presto dissociata, era invece celebrata il quarantesimo giorno dopo la Pasqua.
L’anno liturgico comprende anche feste legate alla nascita di Cristo.
La festa di Natale, attestata per la prima volta nel 336, compare in Occidente [Roll 605] e il suo successo sembra essere stato favorito dalla
concomitanza con una festa solare1. In Oriente, l’Epifania, il 6 gennaio,
celebra la «manifestazione» del Cristo al mondo; commemora principalmente il battesimo di Cristo nel Giordano, ad opera di Giovanni Battista, ma anche la sua nascita e l’adorazione dei Magi. Natale si diffonde
lentamente in Oriente: Costantinopoli l’adotta poco dopo il 380, ma le
Chiese d’Egitto e di Gerusalemme restano reticenti per molto tempo ed
è solo sotto Giustino II che una legge generalizza la celebrazione del Natale al 25 dicembre. Un’altra festa legata all’infanzia di Cristo è quella
dell’Hypapante, l’«incontro» (la Purificazione latina), che celebra la presentazione di Gesù al Tempio il quarantesimo giorno dopo la sua nasci-
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ta, ossia il 2 febbraio: una lettera di Giustiniano generalizza questa data. L’anno liturgico giunge così a commemorare nel proprio ciclo le principali tappe della missione di Cristo sulla terra; si compone poi di feste
della Vergine, legate alla vita di Cristo, e accoglie inoltre numerose feste dei santi, che testimoniano l’evoluzione della pietà cristiana.
2. Nuove forme di pietà.
Si assiste, nell’epoca in esame, all’apparizione di nuove forme di
pietà, o a un loro sviluppo considerevole: culto dei santi e della Madre
di Dio; pellegrinaggio ai Luoghi Santi; venerazione delle immagini.
2.1. I l c u l t o d e i s a n t i .
Nel cristianesimo, il culto dei santi [Delehaye 617], le cui origini risalgono agli onori resi ai defunti, si rivolge principalmente ai martiri,
commemorati nell’anniversario della loro morte, giorno della loro nascita alla vita eterna (dies natalis). Tale commemorazione, con diversi riti
intorno alla tomba, è accompagnata assai presto da domande d’intercessione: il martire sembra qualificato per ottenere da Dio i favori che gli
vengono domandati dagli uomini. Con la pace della Chiesa, le feste dei
martiri – alcuni morti di recente, in occasione della grande persecuzione – si moltiplicano e guadagnano maggior lustro. Ogni Chiesa celebra
i propri martiri e il suo calendario liturgico si arricchisce così di un santorale che si apre anche ad altri santi: profeti dell’Antico Testamento;
apostoli e personaggi del Nuovo Testamento, che spesso sono anche martiri; vescovi (molto di rado in Oriente); soprattutto asceti e monaci che,
talora onorati in vita per il proprio carisma, possono ottenere dopo la
morte, a partire dal iv secolo, un culto assimilabile a quello dei martiri.
Allora non esisteva un’istituzione centrale per dire chi era santo e chi
non lo era. Le Chiese locali sono, sotto quest’aspetto, indipendenti e
spesso, piuttosto che promuovere un culto, non fanno che registrarne
l’esistenza.
Il santorale di queste Chiese si sviluppa: Gerusalemme, che all’inizio del v secolo non festeggia ancora che una ventina di santi in tutto
l’anno liturgico, nell’viii secolo ne celebra altrettanti per il solo mese
di gennaio. Le feste, inizialmente locali, possono riunire i vescovi e i
fedeli delle città vicine. Alcuni culti tendono a diffondersi, o addirittura a divenire universali, benché possano avere anche centri privilegiati: così, san Giovanni Battista è festeggiato in tutta la cristianità,
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ma i santuari che possiedono una parte delle sue reliquie, come Sebaste in Palestina, o Emesa, sono particolarmente importanti. Alcune
Chiese potenti, come quella di Antiochia, integrano d’altro canto al loro santorale non solo santi festeggiati ovunque, ma anche nomi che vengono desunti dalle Chiese collocate sotto la loro autorità. Lo stesso movimento delle reliquie – traslazioni, divisione – contribuisce alla diffusione dei culti.
La Chiesa inquadra il fervore popolare intorno al culto dei santi, cercando di ridurre quelli che considera come abusi. Il culto si organizza
principalmente intorno alla tomba, che, dopo la pace della Chiesa, può
essere compresa in un edificio speciale, talora monumentale: il martyrion [cap. x, pp. 308-9; Grabar 773], spesso situato fuori dalla città,
com’era normale per le tombe. È là che affluiscono i fedeli, talora giunti da lontano, non solo in occasione della festa principale del santo, che
può assumere aspetti da fiera, ma anche in ciascun momento dell’anno.
Per ottenere il favore che si implora o il miracolo che si spera occorre
entrare nel più stretto contatto possibile con la reliquia. In alcuni santuari i pellegrini possono restare diversi giorni presso la tomba del santo, praticando i riti dell’incubazione.
La reliquia (leipsanon: i resti) del santo è al centro del culto. Può essere trasferita: Costantinopoli, povera di martiri indigeni, fa giungere
di conseguenza corpi santi da altri luoghi. Può essere frazionata: il corpo di santo Stefano, scoperto nel 415 a Cafarbarica in Palestina e trasferito a Gerusalemme, è oggetto di prelievi che favoriscono la nascita
di luoghi di culto secondari. Vari laici si procurano frammenti di reliquie, che depositano nelle chiese da essi fondate, o di cui fanno un uso
privato. Semplici chiese possiedono interi lotti di reliquie e la differenza tra chiesa e martyrion tende a sfumarsi. Parallelamente, si diffonde il
costume di depositare reliquie sotto l’altare di una nuova chiesa.
A causa di questa diffusione, redigere l’inventario dei centri di culto dei santi è un’impresa difficile [Maraval 624]. Si possono almeno segnalare alcuni santuari particolarmente importanti e interessati dall’affluenza di pellegrini: da sud a nord, San Mena nel Basso Egitto, San
Giorgio a Lidda in Palestina, San Sergio a Resafa in Eufratesia; Santa
Tecla a Seleucia d’Isauria; San Giovanni a Efeso; San Teodoro presso
Eucaita nel Ponto; Sant’Eufemia a Calcedonia; San Demetrio a Tessalonica; Santi Cosma e Damiano a Costantinopoli. Si tratta perlopiù di
martiri e, salvo per Cosma e Damiano, di santuari costruiti sulla tomba
del santo. Notiamo che in tre casi (Giovanni, Tecla, Demetrio) la reliquia è inaccessibile. Per i santi monaci, il cui culto è meno sviluppato,
occorre segnalare, nella regione di Antiochia, il santuario di San Simeo-
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ne Stilita il Vecchio, a Qal’at Siman, e quello di San Simeone il Giovane, presso il Monte Mirabile.
Il successo del culto dei santi si manifesta in numerosi fenomeni. Le
chiese che, nell’epoca più antica, portano nomi astratti – così, a Costantinopoli, la chiesa della Sapienza (Santa Sofia) o quella della Pace (Sant’Irene) – adesso sono poste frequentemente sotto il nome di un martire.
La notorietà di un culto può avere conseguenze importanti per il suo
centro: l’imperatore Zenone concede lo status di città a Leontopoli d’Isauria in onore del martire Conone, e Anastasio fa lo stesso per Resafa,
che diviene Sergiopoli [Fowden 619], e per Eucaita. I luoghi di pellegrinaggio sono contraddistinti da un movimento di costruzioni che attestano il vigore di un culto.
A San Mena, il corpo del santo è venerato a partire dal iv secolo; all’inizio del v, intorno alla tomba si costruisce una basilica a tre navate
che, alla fine del medesimo secolo, cede il posto a una basilica a cinque
navate. Contemporaneamente, l’imperatore Zenone fa edificare un’altra imponente basilica a fianco della chiesa della cripta e Giustiniano
erige un lungo edificio tetraconco. Nel v e nel vi secolo si moltiplicano
gli edifici destinati ai pellegrini. Diversi oggetti che i pellegrini portavano con sé mostrano la diffusione del culto: è il caso delle «ampolle di
san Mena» (vi-vii secolo), boccette di terracotta che contenevano olio
o polvere del santuario [cfr. cap. x, pp. 318-19].
2.2. L a T h e o t o k o s .
Tra i santi, la pietà cristiana concede un posto speciale a Maria, Madre di Dio [Cameron 616]. Assai presto il vangelo di Luca e il protovangelo di Giacomo hanno messo in luce la sua figura, ma occorre attendere il v secolo e le lotte cristologiche perché il culto mariano acquisti tutta la sua importanza.
Nestorio, preoccupandosi di distinguere nel Cristo la natura umana
da quella divina, nega a Maria il titolo tradizionale di Theotokos («Genitrice di Dio») [cfr. cap. ii]. La sua sconfitta al concilio di Efeso nel
431 appare come il trionfo della Madre di Dio sul proprio avversario. Il
titolo di Theotokos non cesserà mai di essere impiegato, tanto più che,
dopo Calcedonia, costituisce un punto di contatto tra calcedoniani e monofisiti: Giustiniano, in particolare, favorisce il culto mariano, che si accorda con la sua cristologia.
Sempre nel v secolo si definiscono le tradizioni sulla sorte di Maria
dopo la sua morte [Mimouni 625]: il corpo della Theotokos, così vicino
a quello del suo Figlio, non ha subito la sorte comune. La morte di Ma-
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ria è una semplice dormizione (koimesis) e il suo corpo, sfuggendo alla
corruzione, svanisce dalla tomba per essere innalzato in cielo o in paradiso. A partire da quest’epoca, i santuari mariani si moltiplicano, in particolare a Gerusalemme, centro di elaborazione e diffusione del suo culto, e a Costantinopoli, che riceve varie reliquie indirette della Theotokos:
la cintura deposta presso i Chalkoprateia; il velo venerato alle Blacherne. La capitale è sempre più posta sotto la protezione speciale della Vergine: ne fa testimonianza l’inno Acatisto, il più celebre dei kontakia bizantini, composto nel vi secolo e munito di un nuovo inizio dal patriarca Sergio, dopo l’assedio della città al tempo di Eraclio. Parallelamente,
si moltiplicano le feste in onore della Vergine.
L’Annunciazione, il 25 marzo, diviene una festa mariana tanto quanto cristologica. La sua data è generalizzata da Giustiniano e poi dal concilio del 692. Il 15 agosto, giorno in cui si celebrava a Kathisma, presso Gerusalemme, una festa legata a una tappa del viaggio verso Betlemme di Maria e Giuseppe, diviene la data della Dormizione (l’Assunzione
dei Latini). Le date dell’inaugurazione dei due santuari mariani di Gerusalemme – quello di Siloe e la Nea, fondata da Giustiniano – diventeranno quelle di due feste: la Natività di Maria l’8 settembre e la Presentazione di Maria al Tempio il 21 novembre.
2.3. I L u o g h i S a n t i e i l p e l l e g r i n a g g i o .
L’epoca costantiniana vede anche la nascita del pellegrinaggio ai
«Luoghi Santi del Cristo» [Kötting 623; Hunt 622; Maraval 624], scarsamente attestato nei secoli precedenti. L’esistenza stessa di una santità
connessa al luogo non è evidente per il cristianesimo e se quest’ultimo,
a causa delle sue origini ebraiche e dei primordi della sua storia, è portato a privilegiare il teatro degli episodi della storia della salvezza, certi cristiani continuano a nutrire riserve nei confronti del pellegrinaggio.
I Luoghi Santi – si tratta in questo caso di quelli che i Bizantini chiamano i «Luoghi Santi del Cristo», testimoni dei momenti importanti
della sua vita – sono di conseguenza non tanto un dato della tradizione,
quanto una novità cui l’imperatore apporta un contributo di primaria
importanza grazie al suo programma edilizio [Flusin 495].
Poco dopo il concilio di Nicea, mentre sta facendo costruire Costantinopoli, Costantino ordina di edificare una basilica a Gerusalemme. Dal
momento che i lavori avevano portato alla luce una tomba identificata
con quella di Cristo, il programma delle costruzioni cambia e comprende una basilica – il martyrion – separata tramite un atrio dalla tomba liberata dalla roccia e così valorizzata, l’Anastasis (la Resurrezione). Nel-
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l’angolo sudorientale dell’atrio si trova il Golgota, luogo della crocifissione di Cristo.
In occasione delle costruzioni costantiniane, o poco dopo, viene portata alla luce una reliquia identificata con la Croce di Cristo: il «Prezioso Legno» dei Bizantini. Deposta nel martyrion, diviene oggetto di una
venerazione particolare, mentre alcuni frammenti che ne vengono prelevati si diffondono in tutta la cristianità. La tradizione attribuisce lo
scoprimento della Croce alla madre di Costantino, Elena [Borgehammar
614]. Di conseguenza, il culto della Croce [Frolow 620], così come quello dei Luoghi Santi, in Oriente è strettamente legato al primo imperatore cristiano, e per suo tramite all’istituzione imperiale.
Il martyrion, il Golgota, l’Anastasis sono il cuore della rete dei Luoghi Santi. Costantino ed Elena costruiscono altri santuari vicino a Gerusalemme: la basilica della Natività a Betlemme, quella dei Discepoli,
o dell’Eleona, sul monte degli Ulivi. In seguito, si metterà in moto l’iniziativa privata: pie e ricche pellegrine fanno costruire altre chiese commemorative come quella dell’Ascensione o, sulla strada di Betlemme, di
Kathisma. Alla metà del v secolo, Eudocia, la moglie di Teodosio II caduta in disgrazia, trasforma la fisionomia di Gerusalemme. Così chiese
consacrate a vari santi si mescolano ai «Luoghi Santi del Cristo», che si
estendono anch’essi al di fuori di Gerusalemme, per esempio a Nazaret
o sul monte Tabor. Giustiniano, alla metà del vi secolo, farà costruire
un altro centro di pellegrinaggio presso il Sinai, con due basiliche, quella della Santa Vetta e quella del Roveto Ardente: viene così consacrata
l’importanza di questa montagna, dove i pellegrini, a partire dal iv secolo, giungono a venerare i luoghi dell’Esodo e soprattutto delle apparizioni di Dio a Mosè.
I pellegrini di Palestina venerano così nel medesimo viaggio i Luoghi
Santi del Cristo e martyria e altri luoghi testimoni di episodi della storia
sacra. La loro meta principale è la «Città Santa del Cristo nostro Dio»,
verso la quale affluiscono da tutta la cristianità. La Settimana Santa a
Gerusalemme, particolarmente spettacolare, è contrassegnata da una liturgia storicizzante il cui influsso arriva lontano. Le feste della Croce e
della Dedicazione degli edifici costantiniani, alla metà di settembre, sono un altro momento culminante nella vita liturgica della Città Santa.
L’occupazione persiana e la presa di Gerusalemme nel 614, con le distruzioni che ne seguono, non segnano la fine del pellegrinaggio, ma contribuiscono alla trasformazione e al declino della Città Santa. Modesto
di Gerusalemme potrà restaurare solo parzialmente gli edifici danneggiati. Eraclio, dopo la sua vittoria sulla Persia, ricollocherà trionfalmente la Croce sul Golgota; l’avanzata musulmana, tuttavia, lo costringerà
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ben presto a riprenderla e a trasferirla nella capitale. D’ora in poi, Gerusalemme resta al di fuori dell’Impero e la complementarità caratteristica del periodo protobizantino tra Costantinopoli, capitale politica dell’Impero, e la Città Santa, centro religioso, viene meno.
2.4. L e i m m a g i n i .
L’epoca in esame vede apparire ancora un’altra novità importante che
contraddistinguerà la pietà bizantina: il ruolo attribuito alle immagini
[Kitzinger 781] del Cristo, della Vergine e dei santi, e più in particolare
alle immagini portatili, dipinte su tavola, che noi chiamiamo icone, termine che all’epoca designava ogni immagine [cfr. cap. x, pp. 317-21].
Nel iv e nel v secolo le immagini pubbliche e private hanno già ottenuto diritto di cittadinanza nel cristianesimo: si trovano immagini su
tessuti e vesti, miniature di manoscritti, cicli iconografici nei mosaici e
nelle decorazioni pittoriche delle chiese. Alcuni ambienti, tuttavia, restano ostili alle immagini di culto scolpite o dipinte. Quest’ostilità, che
ha le sue radici nell’Antico Testamento, è inoltre giustificata dall’esistenza contemporanea di immagini pagane e dalla necessità, per i cristiani, di prendere le distanze dalle pratiche idolatriche.
Le due testimonianze più nette della chiusura nei confronti delle immagini risalgono al iv secolo. All’inizio del secolo, Eusebio di Cesarea
si rifiuta d’inviare alla sorella di Costantino il ritratto di Cristo da lei richiesto: non si può rappresentare materialmente la divinità e si rischia
di introdurre usanze idolatriche nel cristianesimo. Alla fine dello stesso
secolo, Epifanio di Salamina, in una chiesa palestinese, strappa un drappo che recava un’immagine di Cristo, dal momento che non si può rappresentare il Figlio di Dio e che i ritratti di Gesù e degli apostoli non
hanno valore storico.
Dopo la metà del v secolo il pericolo pagano è diminuito e, nel secolo seguente, si moltiplicano le attestazioni relative alle icone e al loro
culto. Le prime icone conservate possono infatti essere datate al vi secolo. Nella medesima epoca, un testo prezioso dovuto al metropolita di
Efeso, Ipazio, un collaboratore di Giustiniano, ci informa sull’atteggiamento contemporaneamente tollerante e condiscendente che la Chiesa
adottava nei confronti delle immagini.
A uno dei suoi suffraganei, che si lamenta per la diffusione del culto delle immagini nella propria città, Ipazio risponde che, per parte sua,
non si compiace minimamente delle immagini, ma che quest’ultime hanno nondimeno un valore pedagogico per i semplici e che non bisogna
proibire gli onori che vengono loro resi.
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Alla fine del vi secolo si trovano le prime menzioni di immagini miracolose di Cristo: le achiropite, «non fatte da mano umana». La più celebre è l’immagine di Cristo di Edessa; ma anche l’immagine di Camuliana, apparsa alla fine del regno di Giustiniano, ha conosciuto la notorietà e un brano del cosiddetto pellegrino di Piacenza segnala un’altra
achiropita di Cristo in Egitto. Senza dubbio con tali immagini si mira a
mostrare che è possibile rappresentare il Cristo e a eliminare ogni dubbio sull’autenticità di tali ritratti. Si può inoltre essere sensibili al fatto
che, in questo caso, l’immagine, che ha quasi la condizione di una reliquia, è sacra di per sé e non solo per ciò che rappresenta.
I testi del vi e del vii secolo mostrano lo sviluppo del culto delle immagini, specialmente delle icone, talora private, e permettono di conoscere alcuni riti: i fedeli si prosternano o s’inchinano davanti a esse; le
baciano e accendono lampade o bruciaprofumi. Implorano la loro protezione, ed è noto anche il caso di una malata che raschia un affresco
raffigurante dei santi per ricavarne una pozione. I modelli di questo culto vanno cercati nel paganesimo, ma anche negli onori resi alle immagini imperiali e, all’interno del cristianesimo, nel culto delle reliquie o della Croce. Il culto delle icone, che può essere definito «popolare» nel senso che nasce nella società senza che la Chiesa si sforzi di favorirlo, non
è affatto limitato ai semplici, ma è presente in tutti gli strati della società. Rimangono ambienti più conservatori – la decorazione della Santa Sofia di Giustiniano è senza dubbio interamente aniconica –, ma non
fanno sentire molto la propria voce. Alla fine del vi secolo il generale
Filippico, nella guerra contro la Persia, pone il proprio esercito sotto la
protezione dell’immagine di Camuliana. Poco dopo, Eraclio farà lo stesso e il patriarca Sergio farà ricorso alle icone per proteggere Costantinopoli assediata. Se il culto delle icone trova dei detrattori, è piuttosto
all’esterno del cristianesimo. Gli ebrei, presto seguiti in questo dai musulmani, rimprovereranno ai cristiani il loro atteggiamento verso le reliquie, la Croce, le icone, ed è in questa polemica antigiudaica che gli
autori cristiani, come Leonzio di Neapoli2, fabbricheranno una serie di
argomentazioni in favore delle immagini che poi verranno riutilizzate
nel periodo iconoclasta.
3. Verso una città cristiana?
Il cristianesimo, che estende la propria influenza sul tempo, trasforma anche lo spazio, dove impianta i suoi monumenti, centro di una vita liturgica che anima l’insieme della città. In maniera più profonda, e
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secondo modalità meno chiare, giunge anche a diffondere i suoi valori
in una società che modifica lentamente una parte dei suoi comportamenti.
3.1. C r i s t i a n i z z a z i o n e d e l l o s p a z i o 3.
La pace della Chiesa apre la strada, nelle città dell’Impero, a un’attività edilizia nuova e a un movimento di costruzioni che deve molto al
dinamismo di un evergetismo cristiano ampiamente diffuso. Gli edifici
di culto si moltiplicano e acquistano monumentalità. Molte delle chiese
che vengono costruite, spesso da donatori privati, sono modeste; in altri casi il gusto della monumentalità è tuttavia ben percepibile nelle dimensioni e nell’architettura degli edifici. L’ornamentazione subisce anch’essa un’evoluzione, con l’impiego frequente di marmi o con la scultura sempre più ricca che beneficia, nel vi secolo, dell’attività dei
laboratori di Proconneso. I mosaici aumentano ulteriormente lo sfarzo
delle chiese.
Gli edifici cristiani si distribuiscono sul territorio delle città. Benché
il nuovo rapporto con la morte non ne impedisca la costruzione all’interno della città, i martyria si situano spesso nelle zone periferiche o nella chora. A partire dalla fine del iv secolo, la densità delle chiese e dei
loro annessi (compresi talora dei battisteri) nei villaggi e nei latifondi è
ben attestata dall’archeologia per province come la Palestina e la Siria;
progressivamente, giungono anche i monasteri a modificare il paesaggio
delle campagne. Nelle città, le chiese sono talora sorprendentemente numerose, come viene mostrato dall’archeologia per il piccolo centro di
Madaba, o dai papiri, in Egitto, per Ossirinco ed Ermopoli.
L’impianto delle chiese risponde solo parzialmente a un programma
preciso. Le fondazioni private si insediano dove vogliono e possono i
fondatori. Le chiese «cattoliche» possono occupare più facilmente spazi privilegiati, soprattutto la grande chiesa della città, con il suo battistero e la residenza del vescovo. Gaza può fungere da esempio: Sozomeno, per il iv secolo, menziona la costruzione da parte di una famiglia
altolocata di chiese e «monasteri» in una borgata o nel circondario. Il
martyrion di San Vittore, che acquista lustro col passar del tempo, si trova al di fuori della città insieme ad altri martyria. La stessa antica cattedrale rimane a lungo fuori delle mura e occorre attendere l’inizio del v
secolo, in un ambiente urbano ancora fortemente pagano, perché il tempio di Marna sia distrutto e lasci il posto a una grande basilica costruita dal vescovo grazie alle liberalità dell’imperatrice Eudossia.
In base al calendario delle feste e secondo la volontà del vescovo, la
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celebrazione principale si sposta nell’ambito della città e l’esistenza di
una liturgia stazionale non è attestata soltanto per Gerusalemme e Costantinopoli, ma anche per centri più modesti come Ossirinco. La vita
liturgica [Baldovin 629] sconfina negli spazi pubblici con le feste e le
processioni, regolari o occasionali, ben conosciute per Costantinopoli e
sufficientemente importanti per essere state oggetto dell’attenzione imperiale.
3.2. C o s t a n t i n o p o l i c r i s t i a n a 4.
Costantinopoli [Dagron 493], dove si manifesta l’unione tra l’Impero e la nuova religione e il cui prestigio avrà un’influenza durevole nella cristianità, avrebbe avuto fin dall’origine, secondo Eusebio, il carattere di una città cristiana (Vita di Costantino, 3.48.1).
A dire il vero, le poche costruzioni cristiane che possono essere attribuite con certezza a Costantino non si inseriscono in un programma
di urbanistica cristiana. La principale, i Santi Apostoli, più che una chiesa è il mausoleo del fondatore, ed è a questo titolo che occupa un posto
importante nel paesaggio monumentale della città imperiale. Per il resto, Costantino sembra aver tenuto conto del passato cristiano di Bisanzio: è il caso, forse, della chiesa episcopale della città, Sant’Irene, e dei
martyria che costruisce o ingrandisce, senza dubbio quelli dei martiri locali (forse San Mocio, Sant’Acacio, Sant’Agatonico). Costantino, senza dubbio, ha fatto costruire anche il Michaelion di Anaplo, qualche chilometro a settentrione della capitale sulla sponda europea del Bosforo.
Costanzo II, il suo successore, contribuisce a dare alla capitale il suo
aspetto cristiano; trasforma i Santi Apostoli, che da allora comprendono un mausoleo imperiale affiancato a una chiesa dove sono collocati i
corpi dei santi Andrea, Luca e Timoteo; soprattutto fa costruire una
nuova cattedrale a fianco di Sant’Irene: è Santa Sofia (la Sapienza), inaugurata il 15 febbraio 360. Questa grande basilica, distrutta da un incendio nel 404, sarà sostituita nel medesimo luogo da una ancora più grande, inaugurata nel 415 sotto Teodosio II, che resta in funzione fino all’incendio del 532. Poco dopo il 400, le chiese e i martyria di qualche
importanza, a Costantinopoli, restano rari: la Notitia urbis Constantinopolitanae ne registra 14. Nel corso del v secolo, le costruzioni imperiali
– talora dovute all’iniziativa di imperatrici – rafforzano il paesaggio cristiano della capitale: Pulcheria, o più verosimilmente Verina, la moglie
di Zenone, fa così costruire i grandi santuari mariani di Chalkoprateia
e delle Blacherne.
Le fondazioni private vengono ad aggiungersi alle liberalità imperia-
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li. Spesso sono connesse con membri della classe senatoria e possono assumere forme diverse: non solo chiese e martyria, ma anche opere di carità, dalla fine del iv secolo, e a partire dal v anche monasteri. La zona
tra le mura di Costantino e quelle di Teodosio, poco urbanizzata, è propizia alle fondazioni, in particolare quelle monastiche. È lì che il patrizio Studio, alla metà del v secolo, farà costruire la basilica di San Giovanni Battista, intorno alla quale si svilupperà uno dei più importanti
monasteri bizantini. Tra i fondatori, nel v secolo si può ricordare san
Marciano, economo della Grande Chiesa (BHG, 1032): di origine senatoria, prima novaziano e poi integrato nel clero ortodosso di Santa Sofia, dedica il proprio vasto patrimonio a diverse fondazioni. Alla fine
del v secolo e all’inizio del vi, Anicia Giuliana completa le costruzioni
incominciate dai suoi antenati imperiali e vi aggiunge le proprie, con il
grande martyrion di San Polieutto.
L’epoca giustinianea segna una nuova fase. Procopio nel De Aedificiis attribuisce a Giustiniano, o a Giustiniano e Teodora, la costruzione o ricostruzione di una trentina di chiese e di martyria nella città. Si
può trattare di costruzioni interamente nuove, come i Santi Pietro e Paolo e i Santi Cosma e Damiano del palazzo di Ormisda, oppure di rifacimenti, talora di antiche fondazioni imperiali: i Santi Apostoli, o le chiese mariane delle Blacherne e di Pege. Le costruzioni religiose di Giustiniano a Costantinopoli cominciano a partire dal regno di Giustino, ma
sono le distruzioni che accompagnano la rivolta di Nika nel 532 a permettere all’imperatore di lasciare il proprio segno sulla città. È allora in
particolare che, in seguito all’incendio della Grande Chiesa di Teodosio II, fa costruire con un nuovo progetto la chiesa di Santa Sofia, che
fino alla presa di Costantinopoli da parte degli Ottomani sarà uno dei
centri della cristianità.
Con le costruzioni giustinianee, gli edifici cristiani della capitale sembrano disporsi secondo un programma che s’impone al visitatore. Al di
fuori delle mura, come nota Procopio, i santuari di Pege e delle Blacherne materializzano la protezione che la Theotokos accorda alla propria
città. Il percorso trionfale degli imperatori che rientrano nella propria
capitale è costellato di costruzioni religiose: le chiese dell’Hebdomon,
al settimo miglio a ovest della città; poi, vicino alla Porta d’Oro, il martyrion di San Diomede e, più in là sul ramo meridionale della Mese, San
Giovanni di Studio; infine, vicino al Palazzo e all’Ippodromo, c’era il
centro religioso della città, con le chiese di Sant’Irene e di Santa Sofia,
fiancheggiate dagli edifici del patriarcato e, a un livello inferiore, da Santa Maria di Chalkoprateia. Il ramo settentrionale della Mese conduce
d’altro canto ai Santi Apostoli, che rimangono la sede delle sepolture
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imperiali. Le piazze cittadine – Augusteo, Foro di Costantino –, nonché i grandi viali porticati, sono il teatro di cerimonie spettacolari dove
i cortei imperiali si uniscono con le processioni religiose; tuttavia la Grande Chiesa offre adesso il quadro architettonico che sembra imprescindibile dalla liturgia bizantina.
3.3. I l c r i s t i a n e s i m o e l a s o c i e t à .
Il cristianesimo non si riduce alle forme esteriori di un culto. Al contrario, cerca di promuovere la nascita di un uomo nuovo e di diffondere comportamenti in rottura con il passato riguardo a diversi punti fondamentali: il rapporto con la morte, presentata come una dormizione in
attesa di una resurrezione; il nuovo rapporto con il corpo [Brown 514],
che va sottomesso tramite pratiche ascetiche ma che, ben lungi dall’essere malvagio, è destinato alla resurrezione nella forma di un corpo di
gloria; un nuovo atteggiamento verso la sessualità, con un’insistenza sul
valore della verginità e della continenza, o verso i beni terrestri, con una
paradossale valorizzazione della povertà; nuovi rapporti anche con il
prossimo, sotto il segno dell’amore – la «carità». Ci si può aspettare che
la diffusione degli ideali evangelici trasformi radicalmente la società, ma
in realtà i risultati della cristianizzazione possono sembrare deludenti.
Occorre peraltro notare le difficoltà incontrate da una ricerca che valuta perlopiù la sfera privata: quando Giovanni Crisostomo propone ai genitori di allevare meglio i loro figli (Sulla vanagloria e l’educazione dei figli, SC, 188), non rimette in causa le istituzioni scolastiche, ma fornisce tutta una serie di consigli per una vita familiare di cui molti aspetti
ci sfuggono. Diverse trasformazioni dovute alla diffusione del cristianesimo restano così in ombra, mentre al contrario, laddove si ravvisa un’evoluzione, il legame con il cristianesimo non è sempre certo.
In linea di massima, le novità, da quanto è possibile vedere, sembrano presenti in tre ambiti. Il primo è quello della vita familiare, dove si
nota un maggior valore attribuito alla vita dei bambini: l’infanticidio è
proibito da una legge del 374; l’aborto è moralmente condannato, così
come la vendita in schiavitù dei propri figli. Al contempo, si presta maggiore attenzione alla castità, soprattutto delle donne: di questo sembra
essere un indizio l’evoluzione della legislazione imperiale in materia di
«ratto». Il cristianesimo fa sentire la propria influenza sul matrimonio,
di cui tende a far riconoscere l’indissolubilità, benché, in quest’ambito,
non giunga a far modificare la legge romana [Beaucamp 511; Bagnall
628]. Il secondo punto concerne il rapporto col denaro [Patlagean 523].
L’ideale evangelico di povertà non modifica la società a livello globale,
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ma si osservano numerosi comportamenti nuovi: in particolare la donazione, ai poveri o alla Chiesa, di una parte del proprio patrimonio; talora, come nei casi di Olimpiade (SC, 13 bis) o di Melania (SC, 90), la dispersione di intere fortune. Il fiorente evergetismo cristiano preferisce
la discrezione, a differenza del suo antenato pagano, e spesso i donatori conservano volontariamente l’anonimato. Il terzo punto concerne la
carità sociale. La pratica dell’elemosina e lo sviluppo delle istituzioni caritatevoli, a beneficio di chiunque e non soltanto dei cristiani, hanno
contribuito alla diffusione del cristianesimo e restano una realtà attiva.
L’elemosina può essere istituzionalizzata, nelle mani dei vescovi e del
clero, ma può anche provenire da semplici fedeli. Le istituzioni caritatevoli [cfr. sopra, p. 127] sono amministrate dal clero, ma generalmente create da fondatori privati. Oltre ai poveri e ai malati, i cristiani, e
specialmente i vescovi, si occupano inoltre della sorte dei prigionieri [Raspels 635]: il regime delle carceri tende a mitigarsi, come mostra una serie di leggi datate dal 320 al 409 e conservate nel Codice teodosiano.
L’azione del cristianesimo si fa dunque sentire in diversi ambiti; tuttavia, l’inerzia della società è considerevole. Gli spettacoli forniscono
un esempio interessante. Si sa, infatti, che la Chiesa, vedendovi al contempo dei rivali e un attentato alla moralità, cerca in ogni modo di farne proibire alcuni. Costantino vieta i combattimenti di gladiatori dal
325, ma la legge resta inefficace e occorre attendere gli anni 438-39 per
arrivare alla sparizione di tali pratiche cruente, mentre restano autorizzati i combattimenti contro le belve [Ville 637]. Analogamente i mimi,
giudicati immorali dai cristiani e probiti sotto Anastasio, rimangono effettivamente in auge fino alla fine del periodo. In questi settori, come
in altri più fondamentali – tortura, schiavitù –, l’influenza del cristianesimo tarda a farsi sentire e la legislazione imperiale non attesta la volontà di far entrare nella vita dell’Impero i valori propri della nuova religione. Per molti cristiani, conviene abbandonare un «mondo» che resta impermeabile ai valori del cristianesimo e pericoloso per le sue
tentazioni, e risulta preferibile vivere una vita conforme al Vangelo nel
deserto o nei monasteri.
ii. il monachesimo.
Lo sviluppo del monachesimo antico è un fenomeno di lunga durata, della cui complessità ci si rende conto sempre più distintamente. Le
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ricerche sulla spiritualità o sui testi monastici sono adesso completate
da ulteriori approcci: l’archeologia, la papirologia, l’antropologia permettono di comprendere in maniera migliore sia le relazioni reali tra i
monaci e il mondo che professano di abbandonare, sia il prestigio eccezionale che alcuni grandi asceti hanno potuto ottenere. La diffusione di
testi influenti come la Vita di Antonio ha imposto una genealogia nella
quale il monachesimo egiziano occupa un posto di primo piano. Altri documenti, tuttavia, che hanno recentemente sfumato quest’immagine
troppo semplicistica, mostrano come l’ascetismo cristiano si trasformi
per dare vita al monachesimo propriamente detto in più parti dell’Impero [Guillaumont 642]. Il monachesimo è vario sia per origine sia per
forme. A fianco della corrente eremitica, prestigiosa e multiforme, esiste anche un fiorente monachesimo urbano e suburbano, al contempo
maschile e femminile. I monasteri, perlopiù nati per iniziativa privata,
non giungono mai a essere standardizzati, benché certe pratiche e certi
modelli si diffondano ampiamente, assicurando al tagma (corpo) monastico una certa unità, che le autorità della Chiesa e dell’Impero, esercitando il proprio controllo, tendono a rafforzare. Uno studio a carattere
regionale permette di porre in evidenza questa diversità, ma anche di
rilevare tratti che, ben attestati in un caso particolare, hanno un valore
più generale.
1. L’Egitto e i suoi modelli: anacoresi e cenobitismo5.
L’Egitto è solitamente presentato come la terra d’origine del monachesimo e, per quanto convenga ricordarsi che quest’ultimo ha più di
una culla, l’influenza dei padri egiziani è stata tale che ci si può legittimamente volgere a essi per definire cos’è in origine il «monaco» e per
descrivere le forme essenziali della vita monastica, anacoretica o cenobitica.
1.1. A s c e t a , m o n a c o , a n a c o r e t a .
Il monachesimo, alla fine del iii secolo, non è una novità assoluta:
deriva dall’antico ascetismo, che a sua volta era nato insieme alla Chiesa, e se ne differenzia solo per una rottura più radicale con il mondo e
per istituzioni specifiche più facilmente osservabili. Un aneddoto ricavato da Palladio (Historia Lausiaca, 8), relativo al fondatore della colonia monastica di Nitria nel 320 circa, illustra cosa sono l’antico ascetismo e la nuova «anacoresi».
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Amun, giovane contadino egiziano benestante divenuto orfano, è costretto a sposarsi dal proprio zio. La prima notte di nozze, tirando fuori dalla propria veste «un libriccino che riportava le parole dell’Apostolo», insegna alla propria giovane sposa le virtù della verginità. Da allora, i coniugi vivranno insieme nel loro podere, praticando tuttavia la
continenza. Su istigazione della moglie di Amun, la quale non vuole che
la virtù di suo marito resti nascosta, i due sposi successivamente si separano e Amun si ritira nel deserto di Nitria, dove si costruisce una «cella» (casetta), intorno alla quale si svilupperà una colonia anacoretica.
I due atteggiamenti di Amun sono fondamentali. In un primo tempo decide (convincendo sua moglie a fare lo stesso) di praticare una vita ascetica, ma senza abbandonare il mondo. Il libro che legge sembra
essere il Vangelo di Tommaso (apocrifo del ii secolo), dove si trova il
detto famoso: «Solo il monachos entrerà nella camera nuziale». La parola «monachos», della quale in questo passo si trova una delle prime
attestazioni e che designa il monaco a partire dal iv secolo, si applica
al celibe che, rinunciando al mondo e al matrimonio, si unisce a Dio
(«entra nella camera nuziale»). Amun e sua moglie sono inizialmente
una coppia di asceti. La partenza di Amun per Nitria, in un secondo
tempo, è l’anacoresi (fuga dal mondo, «salita» al deserto, in senso profano e successivamente religioso) propriamente detta. Amun da allora
è un eremita che vive in una cella nel deserto: è divenuto un monaco
nel senso nuovo del termine. Lo è in maniera particolare, giacché vive
nella solitudine, ma il termine verrà applicato anche a coloro che vivono in comunità.
Le dure condizioni del deserto egiziano impongono all’anacoreta, che
cerca di riprodurre lo stile di vita di Elia, di Giovanni Battista o di Cristo, una sobrietà e una vigilanza continue. La regione in cui s’insedia –
si tratta spesso della fascia che bordeggia la vallata fertile – non è completamente tagliata fuori dal mondo: i villaggi non sono molto distanti,
essa è percorsa da nomadi e briganti e le sue necropoli ne fanno anche
il luogo dei morti. Il monaco vi si può stabilire in una grotta, in una tomba, in un fortino, come fa Antonio, oppure, come fa Amun, costruirsi
una «cella» (kellion, monasterion), dove trascorre una vita di solitudine
e silenzio (hesychia), che divide tra la preghiera e il lavoro manuale. Vita nel deserto e permanenza nella cella definiscono lo stile di vita dell’anacoreta, la cui solitudine è raramente assoluta. A fianco del maestro
viene a stabilirsi un discepolo, o un gruppo di discepoli, dimodoché l’unità fondamentale è costituita piuttosto dalla coppia formata dal «vecchio» (geron) e dal suo figlio spirituale.
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1.2. A n t o n i o , p a d r e d e i m o n a c i .
L’ideale di questa vita è incarnato, nel iv secolo, da un personaggio
di eccezionale influenza, Antonio, nato intorno al 250 in una famiglia
benestante di contadini copti (Atanasio, Vita di Antonio, SC, 400).
Intorno al 270, divenuto orfano, Antonio vende i propri beni, distribuisce il patrimonio ai poveri, affida sua sorella a un’istituzione per fanciulle e si pone sotto la guida di un asceta vicino al proprio villaggio. Intorno al 285, si chiude in un fortino abbandonato sull’altra sponda del
Nilo e trascorre venti anni in reclusione. È là, secondo il suo biografo,
che trionfa sui demoni e raggiunge la perfezione spirituale. Successivamente, parte per la montagna di Pispir, lasciando il deserto solo per un
breve soggiorno ad Alessandria, dove cerca il martirio durante la persecuzione di Massimino Daia (311). Importunato dai visitatori, si stabilisce infine in quella che sarà nota come la Montagna di Antonio, a 30
km dal Mar Rosso. Muore nel 356, a 105 anni di età, si dice. A partire
dalla sua uscita dal fortino, aveva visto arrivare numerosi candidati alla vita monastica: è da questo momento che, dice Atanasio, «il deserto
diviene una città».
All’influenza di Antonio si aggiunge quella della Vita di Antonio di
Atanasio, redatta in greco nell’anno successivo alla morte del santo e
che, presto tradotta in latino, si diffonde rapidamente nel mondo cristiano. Lo stesso fatto che la vita del «padre dei monaci» sia stata scritta dal vescovo di Alessandria ha la propria importanza: mostra che, fin
dall’inizio, la gerarchia ha cercato – non senza successo – di evitare che
si costituisse davanti ai suoi occhi, a margine della Chiesa, una società
di carismatici. Il testamento di Antonio, che, secondo Atanasio, lascia
solo una parte minore ai discepoli riservando il lascito maggiore al vescovo, è caratteristico sotto quest’aspetto.
Nella Vita di Antonio, Atanasio ripercorre l’itinerario spirituale del
monaco che, tramite l’ascesi e la lotta contro i demoni, arriva alla perfezione spirituale e gode di carismi eccezionali (profezia, chiaroveggenza, poteri di guarigione). Altre fonti completano questo ritratto idealizzato: le lettere di Antonio [Rubenson 655] mostrano che quest’ultimo,
benché del tutto sprovvisto di paideia greca, tuttavia non era completamente privo di cultura e che occorre tener conto, per esempio, dell’influsso esercitato dall’opera di Origene sulla sua spiritualità.
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1.3. C o l o n i e a n a c o r e t i c h e .
Gli anacoreti, in particolare quelli delle tre grandi colonie a occidente del Delta del Nilo, la cui influenza fu assai considerevole, seguono l’esempio di Antonio, pur sviluppando istituzioni comunitarie. I monaci,
una volta alla settimana, il sabato e la domenica, lasciano le loro celle e
si riuniscono per un pasto comune, per la preghiera, la messa e colloqui
spirituali. Vari organi centrali – chiese, consiglio degli anziani, talora l’autorità di un prete – strutturano la colonia, fanno regnare l’ordine, liberano gli anacoreti da una parte delle esigenze pratiche (approvvigionamento, commercializzazione degli oggetti da essi fabbricati).
La prima delle tre colonie citate, Nitria, è fondata da Amun tra il
320 e il 330. Il suo successo (annovera diverse centinaia di monaci alla fine del iv secolo) induce Amun, con l’aiuto di Antonio, a creare in
una zona più distante del deserto le Celle (Kellia), dove possono insediarsi i monaci desiderosi di maggior solitudine; Macario di Alessandria ne sarà il sacerdote ed Evagrio Pontico vive là alla fine del iv secolo [Daumas 647; Kasser 652]. Abbandonato nel Medioevo, il sito delle Celle risulta assai ben conservato. Intorno al 330, Macario il Grande
(«l’Egiziano») fonda, ancora più lontano nel deserto, la colonia di Scete, alla quale, passata l’età aurea della fine del iv secolo, ancora nel v
secolo danno lustro monaci celebri: Arsenio il Grande (354-449) e Poimen, che muore dopo di lui. Le incursioni dei nomadi costringono gli
anacoreti ad abbandonare Scete, il cui sito in seguito verrà nuovamente occupato e vedrà la nascita di monasteri dove si raggruppano i monaci [cfr. carta 8, p. 439; Evelyn-White 649].
1.4. S p i r i t u a l i t à a n a c o r e t i c a .
È in quest’ambiente che vengono elaborate delle pratiche e una dottrina che segneranno durevolmente il monachesimo, e che vengono diffuse da vari testi: la Vita di Antonio (SC, 400), gli Apoftegmi dei Padri
(SC, 387), le opere di Evagrio Pontico (SC, 170, 171, 356).
Gli Apoftegmi dei Padri restituiscono gli insegnamenti dei grandi solitari egiziani sotto forma di motti o di storielle e propongono un modello per la vita quotidiana del monaco e la sua ascesi. Il primo apoftegma, Antonio 1, fornisce il programma generale: il monaco, nella sua cella, divide il proprio tempo tra preghiera e lavoro manuale.
L’ascesi corporea – continenza, astinenza, digiuno, veglia… – aiuta
il monaco ad acquisire il controllo di sé, a vincere le proprie passioni, a
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sorvegliare i pensieri tramite i quali è assalito dai demoni. Può esporre
i propri pensieri a un anziano che, dotato di esperienza e discernimento, lo aiuta a trionfare. Il mondo dell’anacoresi non è solo quello dei
grandi solitari: è quello della paternità spirituale e dei discepoli sottomessi al loro maestro.
Gli Apoftegmi racchiudono e diffondono una saggezza empirica. La
spiritualità monastica, tuttavia, si è sviluppata anche in una forma sistematica illustrata dall’opera di Evagrio Pontico (345 c. - 399), che, dopo
essere stato diacono, si ritira a Kellia. Dotato di una solida cultura acquisita presso Gregorio di Nazianzo, Evagrio si reca alla scuola dei padri del deserto, di cui sistematizza gli insegnamenti. Nel Trattato pratico, espone la dottrina degli otto «pensieri» o suggestioni diaboliche su
cui il monaco deve trionfare, e che sono gli antenati dei sette peccati capitali dell’Occidente medievale. Giunto al dominio sulle passioni
(apatheia), il monaco può conoscere Dio: diviene così lo «gnostico» al
quale Evagrio dedica due trattati i cui aspetti eterodossi, che sviluppano l’insegnamento di Origene, saranno condannati dalla Chiesa.
Per quanto Evagrio, con la propria cultura, faccia spicco nella massa
dei monaci egiziani, il suo non è un caso isolato. Altri anacoreti sono nutriti come lui di origenismo e devono far fronte a varie resistenze. Una
prima crisi esplode nel deserto egiziano dopo la morte di Evagrio. L’arcivescovo di Alessandria, Teofilo, inizialmente favorevole, condanna i
monaci origenisti, che devono recarsi in esilio in Palestina e a Costantinopoli. Malgrado queste condanne, l’opera di Evagrio si diffonde e una
gran parte della spiritualità orientale è segnata dalla sua influenza.
1.5. I l c e n o b i t i s m o p a c o m i a n o .
L’altro grande modello egiziano, che segnerà durevolmente il monachesimo cristiano, è il cenobitismo, stile di vita in cui i monaci conducono una vita comune in un convento (koinobion) sotto l’autorità di un
superiore. Nella letteratura monastica, san Pacomio è considerato l’iniziatore di questo genere di vita e il cenobitismo pacomiano, che conosciamo assai bene, occupa un posto importante nel monachesimo egiziano [Ruppert 656; Rousseau 654].
Pacomio (292 c. - 346), giovane contadino pagano della Tebaide, è
arruolato nell’esercito ed entra in contatto con alcuni cristiani, la cui carità ne provoca la conversione. Liberato, si fa battezzare e si dedica alla vita ascetica sotto la guida di Palamone. Intorno al 321 si ritira nel
villaggio abbandonato di Tabennesi, dove, in seguito a una visione e nonostante l’opposizione di suo fratello che si è unito a lui, si prepara ad
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accogliere dei discepoli. Dopo qualche fallimento, trova infine il genere di vita di cui sarà promotore e fonda il suo primo monastero a Tabennesi. Qualche anno dopo, nel 337, il successo ottenuto lo porta a fondare un secondo cenobio più giù sul Nilo: Bau (Pebou). Vi s’insedia, ed
è a partire da questo monastero che verrà diretta la comunità pacomiana (koinonia), che, in seguito a nuove fondazioni e all’assorbimento di
monasteri preesistenti, conta nove insediamenti maschili e due femminili alla morte del santo, nel 346. Il complesso dossier delle Vite di Pacomio (BHG, 1396-99) ci ragguaglia sul fondatore e sui suoi primi successori.
Lo stile di vita dei pacomiani è noto non solo tramite le Vite, ma anche grazie ad alcune antiche regole, tradotte da Gerolamo alla fine del
iv secolo, che sono a loro volta il risultato di una elaborazione. Il monaco pacomiano, quando entra nel monastero, rinuncia a ogni proprietà
personale e a ogni volontà propria. Prende l’abito monastico, vive in assoluta sottomissione verso il suo superiore, prega, mangia, lavora e dorme insieme ai suoi confratelli. Il monastero, diretto da un superiore, isolato dal mondo tramite un muro di recinzione, può ospitare parecchie
centinaia di monaci, che sono suddivisi in case, ciascuna dotata di un
capo. I capi delle case e il superiore organizzano la vita dei monaci e li
riuniscono diverse volte alla settimana per fornir loro istruzioni spirituali. Due volte l’anno, a Pasqua e il 13 agosto, i superiori dei diversi
monasteri pacomiani si riuniscono a Tabennesi e rendono conto della
propria gestione all’economo generale.
Il monachesimo pacomiano, molto differente dal monachesimo anacoretico, presenta i tratti abituali di qualsiasi cenobitismo: vita in comune nei monasteri cinti da un muro di recinzione, sotto l’autorità di
un superiore, secondo un ritmo fissato da una regola. Ciononostante,
ha le sue peculiarità: importanza delle comunità, maschili e femminili,
stabilite nella vallata fertile, nei villaggi o nei dintorni [Goehring 651],
ben integrate nella vita economica dell’Egitto [Gascou 650]; si distingue inoltre per l’organizzazione «federale» dei diversi monasteri.
1.6. I l m o v i m e n t o m o n a s t i c o e l ’ E g i t t o .
L’avventura di Antonio e l’opera di Pacomio, per quanto siano importanti, non sono affatto isolate, neppure in Egitto. Numerosi asceti
vivono senza lasciare la casa di famiglia e i Canoni di Atanasio (fine del
iv secolo?) raccomandano che in ciascuna famiglia vi sia qualcuno che
si dedichi alla verginità. Altri asceti vivono in prossimità dei villaggi,
come quello presso cui Antonio, agli inizi, riceve la propria formazione.
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Alcuni documenti fanno conoscere, nel iv secolo, vari gruppi monastici
che, senza dubbio, non erano per niente debitori del «padre dei monaci»: nel Delta, asceti origenisti sotto la guida di Ieraca; altrove, gruppi
meleziani. In maniera analoga, la corrente cenobitica non si riduce al
monachesimo pacomiano. Quest’ultimo si basa su modelli non ben definiti – organizzazione del villaggio, accampamenti militari, forse comunità manichee –, è multiforme, e Pacomio integra nella propria comunità vari conventi preesistenti, che vengono da lui riformati. Anacoresi e cenobitismo, del resto, non sono separati da un compartimento
stagno. Nei cenobi, alcuni monaci si dedicano all’anacoresi; alcuni monasteri, forse cenobitici, si insediano a Scete; a Naqln, le celle della
montagna si appoggiano a un cenobio nella valle.
Per quanto alcuni testi si compiacciano di mostrare il monaco che
rompe ogni legame con il mondo e parte per il deserto, l’impianto dei
monasteri rivela una realtà differente. Il monachesimo urbano – mal conosciuto – e delle periferie è una realtà fiorente e importante [Wipszycka
373].
Alla fine del iv secolo, l’Historia monachorum in Aegypto mostra la
città di Licopoli divenuta un grande centro monastico; Alessandria e i
suoi dintorni ne costituiscono un altro. Una serie di insediamenti monastici costellano il percorso che, partendo da Alessandria, passa tra il
mare e la laguna. Il monastero del Nono Miglio (Enaton) avrà un ruolo
importante nella Chiesa d’Egitto. Più lontano, è un centro monastico
anche San Mena. Infine, le colonie di Nitria, di Scete, delle Celle devono in parte il loro durevole successo al fatto di essere ancora nella zona
d’influenza della grande metropoli egiziana.
Spesso prossimi a città o villaggi, i monaci mantengono legami assai
stretti con la società [cfr. cap. xiv]. L’economia monastica lo esige: lungi dal vivere in autarchia, i monaci appaltano i propri servigi per il lavoro dei campi. I prodotti del loro artigianato – corde, panieri, più raramente tessuti – devono essere commercializzati. I Tabennesioti hanno
un’attività di trasporto fluviale. Di converso, i monaci ricevono dalla
società molti prodotti di consumo. I monasteri divengono nel vi secolo
proprietari terrieri di una certa importanza. Quest’attività economica,
peraltro, senza dubbio non sarebbe sufficiente se i monaci, essi stessi
impegnati in opere caritatevoli, non beneficiassero della carità dei laici:
offerte occasionali o donazioni più importanti e regolari da parte di potenti protettori.
Nel suo insieme, il monachesimo egiziano appare come un movimento di grande vitalità. Le istituzioni create nel iv secolo si sviluppano; la
colonia delle Celle ne è un buon esempio, con i suoi eremi che s’ingran-
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discono, si moltiplicano e si raggruppano [Kasser 652]. Il monachesimo
pacomiano è anch’esso in crescita e sul suo esempio vari monaci, che
hanno abbandonato la comunità in occasione delle dispute cristologiche, fondano grandi monasteri. Si moltiplicano altre fondazioni più modeste e, nel vi secolo, il monastero diviene un elemento abituale del paesaggio rurale dell’Egitto. Le lotte cristologiche, certamente, dividono il
mondo monastico e nuocciono all’influenza egiziana, ma d’altro canto
portano anche, per esempio a Scete, alla moltiplicazione di monasteri
rivali, e occorre attendere il vii secolo, con l’invasione persiana e soprattutto con l’arrivo dei musulmani, per veder iniziare un declino.
2. La Siria.
Il monachesimo siriano [Canivet 664; Escolan 666; Vööbus 671] appare innanzitutto come un fenomeno autoctono nella continuità del movimento ascetico di tendenza encratita dei primi secoli cristiani. Occorre segnalare l’importanza di un ordine ascetico i cui membri rinunciano
ai beni terreni, i figli e le figlie del Patto, nel quale si recluta una parte
del clero. Nonostante in una fase ulteriore l’influenza egiziana sia evidente, il monachesimo siriano conserverà vari tratti specifici: l’importanza di un’ascesi spettacolare, la presenza di correnti devianti come il
messalianismo.
2.1. L a c o r r e n t e m e s s a l i a n a e i s u o i d i n t o r n i .
Il messalianismo, influente in numerose regioni dell’Impero tra cui
l’Asia Minore, si sviluppa inizialmente in Siria e in Mesopotamia. Nella seconda parte del iv secolo, è condannato da alcuni eresiologi e predicatori (Epifanio, Efrem) e poi dai concili locali. Si rimproverano ai
messaliani parecchie pratiche eterodosse: rifiuto del lavoro, disprezzo
della Chiesa istituzionale con la sua gerarchia e i suoi sacramenti, eccessiva importanza accordata ai sogni e alle visioni, licenza sessuale, senza
parlare degli errori dottrinali. Si tratta di una corrente dalle caratteristiche arcaiche, che pretendeva di costituire un gruppo di «perfetti», ai
margini della Chiesa o piuttosto in conflitto con essa, nel quale gli asceti dei due sessi non sono separati. Vari gruppi monastici siriani condividono con questa corrente certi tratti come il vagabondaggio, il rifiuto della Chiesa ufficiale e del lavoro. Questo è il caso, a quanto pare,
dei discepoli di Alessandro l’Acemeta (Vita di Alessandro, BHG, 47) che,
all’inizio del v secolo, dopo un periodo di vagabondaggio, si stabilisco-
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no in un monastero sulle rive dell’Eufrate e poi ripartono per insediarsi in un bagno in disuso nella stessa Antiochia, dove entrano in conflitto con le autorità locali. Questi monaci «acemeti» (lett.: coloro che non
dormono) saranno in seguito destinati a insediarsi nella regione di Costantinopoli.
2.2. L ’ a s c e t i s m o s i r i a n o : S i m e o n e S t i l i t a .
Il monachesimo siriano si distingue anche per lo spazio che attribuisce a un’ascesi fisica estrema e spettacolare. I testi menzionano mortificazioni spaventose più di frequente che in Egitto: digiuni di lunga durata, abitudine di portare catene, esposizione ai rigori del clima. I monaci praticano tali austerità non solo nei loro ritiri, ma anche sotto gli
occhi del pubblico, e questa circostanza aiuta a comprendere il ruolo di
spicco che nel cristianesimo protobizantino è stato ricoperto dal
«sant’uomo». L’esempio più notevole è quello di Simeone Stilita il Vecchio (Teodoreto, Storia dei monaci, 16, SC, 257).
Nato in una famiglia cristiana, Simeone (morto nel 459), inizialmente pastore, si ritira in un monastero da cui è cacciato dai monaci che
aborrono le sue austerità. Allora si reca nel villaggio di Telanisso presso un asceta e passa un’intera Quaresima recluso in una cella senza assumere nutrimento. Successivamente, si ritira sulla sommità di una collina, in un recinto dove vive all’aria aperta. È là che ottiene la rivelazione di quella che sarà la sua ascesi: sale su una pietra, poi si fa erigere una
colonna e si ritira sulla sua sommità. In seguito, cambierà spesso pilastro. La sommità della colonna reca una piattaforma sulla quale Simeone vive all’aria aperta, quasi senza dormire, dividendo il suo tempo tra
la preghiera e la cura dei visitatori. Una scala parzialmente mobile permette l’accesso: i suoi discepoli, così, possono rifornirlo e i pellegrini venire a confidarsi con lui. La fama di Simeone, la cui colonna è eretta non
lontano da una strada trafficata, si diffonde nella cristianità: l’asceta è
in rapporto con gli imperatori e può intervenire nella vita della Chiesa.
Istruisce le folle che si accalcano ai piedi della colonna, converte certe
tribù arabe e moltiplica anche i miracoli di guarigione. I suoi discepoli
formano una comunità ai piedi della colonna. Dopo la sua morte, il corpo è trasferito ad Antiochia e viene costruita una cappella in suo onore;
soprattutto, intorno alla colonna viene edificato un imponente complesso di pellegrinaggio [Sodini 975].
Le classiche analisi di P. Brown6 hanno svelato gli elementi che spiegano il ruolo particolare goduto, nella società del basso Impero, da personaggi come Simeone. Grazie al genere di vita che pratica, e ai cimen-
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ti che s’impone, il sant’uomo appare come un perfetto «straniero». Situato ai margini dell’umanità, acquisisce uno status intermedio tra l’uomo e la divinità, ed è su ciò che si basa il suo potere carismatico. Inoltre, essendo vicino alla società pur rimanendone fuori, sviluppa anche
un’importante attività patronale.
Per strano che possa sembrare, lo stile di vita di Simeone trova degli emulatori. Nel vi secolo, sul Monte Mirabile vicino ad Antiochia, anche Simeone il Giovane (BHG, 1689) conosce il successo e, durante la
sua vita, intorno alla sua colonna si costruisce un complesso dove affluiscono i pellegrini ortodossi, e che è imitato da Telanisso, passato nelle
mani dei monofisiti. Vicino a Costantinopoli, Daniele lo Stilita (BHG,
489) si presenta come il successore di Simeone il Vecchio e i testi mostrano che gli stiliti sono assai numerosi. Altri asceti siriani praticano
forme di vita meno spettacolari e più diffuse: ipetri (che vivono all’aria
aperta), reclusi, che si rinchiudono in una cella, anacoreti, monaci itineranti, spesso sospetti agli occhi delle autorità ecclesiastiche.
2.3. C o m u n i t à m o n a s t i c h e e c e n o b i .
I grandi asceti siriani non devono far dimenticare l’importanza di un
monachesimo comunitario attestato assai presto, che si sviluppa nel v e
nel vi secolo con origini e forme diverse [Canivet 664; Vööbus 671] e
non evita di suscitare reazioni da parte di autori legati a una concezione più antica.
Nel iv secolo, Giuliano Saba riunisce in Osroene una comunità di
anacoreti poco strutturata. All’inizio del medesimo secolo, Publio fonda a Zeugma sull’Eufrate un vero monastero dove due comunità, greca
e siriaca, conducono la vita in comune sotto l’autorità di un superiore,
obbediscono a regole indubbiamente orali e sono ben integrate alla Chiesa locale. La struttura delle comunità monastiche, la loro importanza, il
loro luogo d’insediamento e il loro rapporto con il lavoro o, più in genere, con la vita economica possono essere assai variabili. La regola di Rabbula, per la regione di Edessa, fa conoscere alcune piccole comunità che
vivevano di un po’ d’agricoltura e di cui il vescovo si sforza di controllare l’attività. Altre comunità annoverano diverse centinaia di monaci.
Lo sviluppo del monachesimo urbano può essere illustrato dal caso
di Edessa, dove alla fine del iv secolo Egeria segnala soltanto alcuni asceti vicino ai martyria, mentre nel 449 sono attestati undici monasteri. Il
vescovo Nonno (449-70/1) ne fonderà vari altri, maschili e femminili.
Ad Amida, nel vi secolo, Giovanni di Efeso attesta numerosi grandi monasteri suburbani, e tali casi non sono isolati. I monaci s’insediano an-
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che in regioni più ritirate, «deserti» o circondari dei villaggi. Il Tur
‘Abd¥n (Montagna dei Servitori) nasce alla fine del iv secolo, quando
Mar Samuel fonda presso il villaggio di Qartamin un monastero che
cent’anni dopo sarebbe stato dotato di una grande chiesa e avrebbe svolto un ruolo importante. La Storia filotea, redatta da Teodoreto nel 444,
documenta lo sviluppo del monachesimo nella Siria occidentale prima
di Calcedonia (SC, 234 e 257). Tale opera attribuisce a monaci venuti
da Oriente la fondazione o lo sviluppo dei due più antichi monasteri dell’Antiochene: Gindaro, fondato nel 330-40, e Teleda, che avrà numerose filiali. Nell’Apamene, i discepoli di Marciano, asceta nei pressi di
Beroea, intorno al 380 fondano il grande monastero di Nicerte, anch’esso destinato a replicarsi.
L’archeologia rivela l’importanza di tali fondazioni, nel contesto della Siria settentrionale nel v e vi secolo. G. Tchalenko ha rilevato 160 siti nella zona del Massiccio Calcareo, su circa 10 000 chilometri quadrati [Tchalenko 978].
L’aspetto di questi monasteri, spesso ben costruiti, varia da una regione all’altra. Nell’Antiochene, la chiesa, che nel vi secolo risulta più
piccola che in precedenza, è accompagnata da due edifici, di cui uno porticato, da un alloggio, da una torre e da una sepoltura collettiva. Nell’Apamene, i monasteri sono più compatti e la cappella conventuale è
compresa nell’edificio principale. In entrambi i casi si è potuto dimostrare che il monastero era al centro di un fondo agricolo.
Per quanto riguarda il vi secolo, le lotte cristologiche, nelle quali i
monaci sono impegnati, hanno provocato una notevole produzione di
documenti che danno un’immagine del numero di monasteri [Caquot
665]. Nel 518, relativamente alla città di Apamea, 18 archimandriti calcedoniani firmano una petizione. Dal canto loro, i documenti monofisiti citano circa 80 conventi perlopiù situati a oriente del Massiccio Calcareo. Infine, il meridione del patriarcato non è affatto da meno: intorno al 570, una lettera viene firmata dai rappresentanti di 128 monasteri
d’Arabia. Tali dati permettono di misurare il vigore del movimento monastico nel patriarcato di Antiochia nel v e vi secolo.
3. La Palestina e Gerusalemme.
La Palestina, posta sotto la duplice influenza della Siria e dell’Egitto, vede nascere per parte sua un monachesimo specifico, che deve le
sue caratteristiche particolari e la sua influenza alla prossimità dei Luoghi Santi.
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3.1. G a z a , S i n a i .
Nella regione di Gaza, il monachesimo palestinese non deve molto
alla vicinanza dei Luoghi Santi. Secondo Sozomeno, l’ascetismo cristiano inizialmente arriva a svilupparsi in questa regione, ancora largamente pagana, grazie all’appoggio di alcune famiglie locali. L’influenza egiziana si fa presto sentire su questo primo monachesimo autoctono: Ilarione, che fonda un monastero a sud di Gaza alla fine del iv secolo, è un
discepolo di Antonio. Nel v secolo, il monachesimo s’insedia intorno al
porto di Gaza, Maiuma, e genera la «laura di Maiuma», ossia una zona
monastica dove coesistono anacoreti e cenobi.
La regione costituirà un fulcro della resistenza anticalcedoniana: vi si
insediano l’anacoreta Isaia di Gaza, in precedenza monaco a Scete, Pietro l’Ibero, Severo, futuro patriarca di Antiochia. Nel 519, i monaci monofisiti si rifugiano presso l’Enaton. Il monachesimo calcedoniano, nella regione, è rappresentato dal monastero di Abba Serido, fondato alla
fine del v secolo e noto grazie alle lettere di due grandi esicasti, Barsanufio e Giovanni (SC, 426-27, 468), e alla Vita di san Dositeo (SC, 92).
Doroteo, l’autore di tale Vita, dopo aver vissuto in questo monastero in
cui coesistono esicasti e cenobiti, fonderà il proprio monastero.
Nel Sinai [Solzbacher 663] il monachesimo è legato al pellegrinaggio
e i monaci che vi s’insediano cercano al contempo un deserto e il ricordo dei luoghi dell’Esodo. Alla fine del iv secolo, Egeria attesta la presenza di numerosi anacoreti nei pressi della montagna di Mosè. I monaci del Sinai, dispersi in celle anacoretiche, nel vi secolo e forse anche
prima formano una colonia raggruppata sotto la guida di un «egumeno
della Santa Montagna». Poco dopo il 550, Giustiniano fonda per loro
un monastero-fortezza che serve da punto d’appoggio per i pellegrini,
da rifugio e noviziato per i monaci. In quest’ambiente nascerà, alla metà
del vii secolo, la Scala santa di Giovanni «Climaco», egumeno del Sinai,
un’opera che riassume la spiritualità dell’antico monachesimo orientale. Sulla riva del Mar Rosso, la laura di Raithu è un altro importante
centro monastico.
3.2. L a C i t t à S a n t a .
Ancor più che nel Sinai, il monachesimo di Gerusalemme [Flusin
172] è legato ai Luoghi Santi, che attirano e talora trattengono i cristiani venuti in pellegrinaggio da tutte le province dell’Impero e da altri paesi cristiani; presenta inoltre un carattere più «internazionale» che au-
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toctono. Peraltro, almeno nel iv e nel v secolo, vi si può chiaramente
percepire il ruolo dell’aristocrazia; si vengono a creare delle «reti», che
collegano i monasteri di Gerusalemme alla Corte imperiale.
Alla fine del iv secolo, Palladio segnala alcuni anacoreti di varia origine insediati in celle sul monte degli Ulivi. Nel 372, una gran dama romana, Melania, accompagnata dal dotto Rufino di Aquileia, fonda due
monasteri. Contemporaneamente Gerolamo, formato alla vita monastica nel deserto siriaco, s’insedia a Betlemme: anche il suo monastero gode della protezione di aristocratiche romane. Melania è imparentata con
le più importanti famiglie romane; desiderosa d’informarsi della vita monastica, si reca in Egitto. Evagrio Pontico, prima di stabilirsi presso le
Celle, passa dal monte degli Ulivi, dove Melania l’accoglie e se ne prende cura; anche in futuro i due resteranno in contatto epistolare. Il monte degli Ulivi è così in contatto con i deserti d’Egitto, ma anche con i
circoli aristocratici dell’Aventino e la Corte di Costantinopoli. Non si
tratta di un caso isolato: alla fine del iv secolo e nella prima parte del v,
numerose nobildonne contribuiscono allo sviluppo della vita religiosa a
Gerusalemme. È il caso di Melania la Giovane, che segue le tracce di
sua nonna, o, alla metà del v secolo, dell’imperatrice Eudocia che s’insedia in Palestina e contribuisce a trasformare Gerusalemme.
Il monachesimo urbano e suburbano che arriva a svilupparsi presenta tratti differenti. Una delle fondazioni di Melania la Giovane è un monastero di recluse; tuttavia, perlopiù, i monasteri di Gerusalemme si integrano con la vita locale: i monaci servono alcuni santuari e si distinguono poco da semplici «spudei»; accolgono i pellegrini, assicurano il
funzionamento degli ospizi, pregano per la propria fondatrice e la sua
famiglia. C’è una grande distanza dal monachesimo eremitico egiziano.
La grande fondazione di Giustiniano a Gerusalemme, la Nea («nuova»
chiesa della Vergine), è l’esempio di questo tipo di istituzioni: servita
da un gruppo di spudei, comprende un santuario della Vergine e due
ospizi.
3.3. L a u r e e m o n a s t e r i d e l d e s e r t o .
Contemporaneamente ai monasteri urbani, il monachesimo eremitico si sviluppa nelle zone desertiche dei dintorni di Gerusalemme [Hirschfeld 661; Patrich 662] e vi prende la forma particolare della laura.
Secondo la tradizione, Caritone, originario dell’Asia Minore, all’inizio del iv secolo fonda le tre prime laure di Palestina: Faran, Duca (non
lontano da Gerico) e Suca (San Caritone). Nel v secolo, Eutimio († 473),
un armeno, prosegue la sua opera, ma la laura che fonda sul modello di
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Faran nei pressi della strada da Gerusalemme a Gerico viene trasformata in cenobio alla sua morte. Saba (439-532), un cappadoce che è passato da un monastero di Eutimio, fonda a sua volta nelle gole del Cedron
la Grande Laura, che ospita presto 150 monaci. Saba crea anche altri
monasteri e i suoi discepoli continuano la sua opera, dimodoché il suo
biografo, Cirillo di Scitopoli, dirà di lui che ha «trasformato il deserto
in una città». Il monachesimo sabaita, come quello che era stato organizzato da Caritone, è innanzitutto quello delle «laure», che si sviluppano nel deserto di Giudea, ma anche altrove, nei dintorni di Gerusalemme e di Gerico.
La laura palestinese è un gruppo anacoretico dotato di una forte struttura centrale. I monaci vivono soli, o con uno o due discepoli, in celle
separate, scavate o costruite. Si riuniscono nella chiesa della laura il sabato e la domenica, secondo un ritmo simile a quello delle colonie semianacoretiche dell’Egitto. Altri edifici (refettorio, magazzini, talora
foresteria) completano il cuore della laura. I monaci, ampiamente autonomi all’interno della loro cella, sono tuttavia sottoposti a un egumeno
e i servizi comuni sono organizzati in «diaconie» che i monaci esercitano a turno. I confini della laura possono essere contrassegnati da torri
confinarie o da un muretto; spesso, una rete di sentieri facilita le relazioni tra le celle e il centro della laura. Le laure, riservate ai monaci di
maggior esperienza, possono utilizzare alcuni cenobi come noviziati.
Si sviluppa anche il monachesimo cenobitico: è finalizzato a se stesso e ha la meglio sulle laure per numero d’insediamenti e di monaci. Alcuni cenobi si collocano negli uadi del deserto e adattano la loro architettura al rilievo. Altri s’insediano nell’altopiano semidesertico, o in regioni più fertili: è il caso dei monasteri di Marciano, vicino a Betlemme,
di una certa importanza alla fine del v secolo; di Martirio, di cui l’archeologia ha rivelato l’ampiezza e la ricchezza; di San Teodosio, che
Teodosio, il «Cenobiarca» per eccellenza, fonda a oriente di Betlemme,
sull’altopiano al limitare del deserto, e che ospiterà diverse centinaia di
monaci di varie nazionalità.
L’attrattiva dei Luoghi Santi e i pellegrinaggi spiegano come mai i
fondatori di tali monasteri e molti dei loro monaci non siano palestinesi d’origine. Il prestigio di un monachesimo eremitico più vicino ai modelli egiziani di quello di Gerusalemme costituisce un altro fattore del
successo di questo movimento. Di conseguenza, nel v secolo giunge a
svilupparsi nei dintorni della Città Santa una regione monastica particolarmente densa. È significativo che il centro di gravità del monachesimo gerosolimitano tenda a spostarsi: mentre nella prima metà del secolo gli «archimandriti» dei monasteri – i monaci cui il vescovo affida
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Faran
Gerasimo
Eutimio
Gerusalemme
Teoctisto
Martirio
Teodosio
Cedro
Betlemme
n
San Saba
(Grande Laura)
Suca
(San Caritone)
MAR MORTO
Nuova Laura
Carta 4. I monasteri nei pressi di Gerusalemme.
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la sorveglianza dei monasteri che dipendono dalla sua autorità – erano
scelti tra gli egumeni dei monasteri urbani, in seguito divengono titolare della carica Marciano di Betlemme, e poi Teodosio e Saba. Dopo la
morte di questi ultimi, l’epoca delle grandi fondazioni sembra passata;
tuttavia nulla indica un declino della potenza di questo monachesimo
prima delle invasioni del vii secolo.
3.4. C r i s i e d i f f u s i o n e .
I monaci palestinesi hanno un ruolo importante nella vita religiosa
del patriarcato di Gerusalemme. Nel 451 si schierano contro il loro vescovo, Giovenale, che ha aderito al concilio, e insediano uno dei loro sul
trono di Gerusalemme. Dopo il ritorno di Giovenale, i monaci si oppongono all’episcopato calcedoniano. Solo alla fine del v secolo aderiranno
alle decisioni di Calcedonia, sotto la guida dell’archimandrita Marciano
di Betlemme. Questo movimento, che si appoggia in particolare ai monasteri del deserto, si accentua e a partire dal vi secolo i monaci della
regione sostengono fermamente il calcedonianesimo e lo difendono nei
patriarcati vicini [Perrone 414].
Poco dopo il 530, l’origenismo [Guillaumont 660], fino ad allora diffuso clandestinamente, esce alla luce e provoca una grave crisi. I monaci evagriani si contrappongono violentemente agli ortodossi, assumono
il controllo di monasteri importanti, fanno eleggere uno dei loro come
vescovo di Gerusalemme e sono attivi fin nella stessa Costantinopoli.
L’imperatore Giustiniano peraltro, allertato del pericolo dell’eresia, condanna una prima volta l’origenismo nel 543 e poi lo fa nuovamente condannare da un concilio nel 553. La crisi origenista giunge allora al termine: rivela l’intensità della vita intellettuale e la qualità del dibattito
teologico in alcuni monasteri della regione.
L’invasione persiana, con la presa di Gerusalemme nel 614, arreca
un grave colpo ai monasteri del deserto. Tuttavia Modesto, topotereta
patriarcale dopo il 614 e poi patriarca, fa in modo che alcuni di questi
monasteri siano rioccupati. La crisi dell’inizio del vii secolo è così in parte scongiurata e costituisce d’altro canto l’occasione, in conseguenza della dispersione dei monaci, di una certa diffusione del monachesimo palestinese, che ha punti d’appoggio in Africa e a Roma. L’attività di Massimo il Confessore illustra contemporaneamente la cultura di alcuni
monaci palestinesi e l’influenza di cui potevano godere. L’invasione araba, per parte sua, non sembra aver toccato eccessivamente i monasteri
vicini a Gerusalemme, alcuni dei quali resteranno centri del cristianesimo melchita in terra islamica.
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4. L’Asia Minore.
Il monachesimo dell’Asia Minore non è ben conosciuto come quello
in Egitto e nel mondo siriaco. Alcuni documenti attestano l’esistenza di
monasteri in Licia, a Efeso, e anche altrove. Tuttavia, con l’eccezione
della periferia asiatica della capitale, che costituisce un problema a parte, non si registra l’affermazione di alcuna regione monastica importante e l’interesse si concentra su due personaggi, entrambi del iv secolo,
Eustazio di Sebastea e Basilio di Cesarea [Gribomont 676].
Nel 355, un concilio riunito a Gangra condanna un certo Eustazio
con i suoi discepoli e i canoni promulgati in quest’occasione permettono di conoscere gli abusi rinfacciati a queste comunità.
I discepoli di Eustazio, pretendendo che tutti i cristiani vivano nel
celibato e nella poverà, mettono in pericolo l’ordine sociale; inoltre si
oppongono alla Chiesa ufficiale, vivendo lontano dalle città, organizzando le proprie riunioni al di fuori delle chiese, contestando la gerarchia, rifiutando per esempio il culto dei martiri e seguendo costumi differenti da quelli degli altri cristiani.
Questo movimento appare come un ascetismo radicale di cui si sono
visti altri esempi. Lo stesso Eustazio, che conosce il monachesimo siriano, sembra essere stato più moderato. Divenuto vescovo di Sebastea nel
356, vi crea un ospizio, ma si vede contestare da alcuni dei suoi ex discepoli. La sua influenza personale si farà sentire fino alla capitale. Basilio di Cesarea, per parte sua, era imparentato con Eustazio, ma il monachesimo di cui si fa promotore è più canonico. Le regole che scrive
avranno una grande influenza sul monachesimo bizantino.
Dopo essere stato battezzato nel 355, Basilio si converte all’ascetismo, ma, pur avendo intorno a sé esempi a cui ispirarsi – sua madre e
sua sorella vivono già in una sorta di monastero familiare –, non ne è
soddisfatto e parte per conoscere i monaci dell’Egitto e della Siria. Le
«fraternità» ascetiche da lui create deriveranno così da una riflessione
personale sui tipi di monachesimo esistente. Si tratta di comunità di tipo cenobitico che vivono nella sottomissione a un superiore, in castità,
povertà, lavoro e preghiera. Ben integrate nella Chiesa locale, tali comunità si occupano delle opere di carità e forniscono in particolare una
parte del personale degli ospizi che Basilio fonda nei pressi di Cesarea
(la «Basiliade»). Sembrano essere state numerose, e Basilio raccomanda che non ve ne sia più di una per borgata. I bambini che vi vengono
ammessi ricevono un’istruzione e vengono addestrati a un mestiere.
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5. Costantinopoli.
La capitale è il luogo di convergenza della maggior parte delle correnti ascetiche o monastiche osservate altrove. Come in altre regioni, a
una situazione iniziale assai confusa, in cui il monachesimo fatica a distinguersi dall’ascetismo antico e a strutturarsi, fa seguito un periodo
contrassegnato dallo sviluppo dei grandi monasteri.
Gli inizi del monachesimo a Costantinopoli sono in parte legati all’azione di Eustazio di Sebastea: un discepolo di quest’ultimo, il diacono
Maratonio, è incaricato dal vescovo della capitale Macedonio (342-46,
351-60) di organizzare la vita monastica. Dal momento che Macedonio
era sospettato di eresia, i monaci di Costantinopoli si sono riconosciuti
in un antesignano più ortodosso: secondo la tradizione, è il siriano Isacco che, intorno al 382, avrebbe fondato il primo monastero della città.
Almeno fino al concilio di Calcedonia, coesistono due tipi di monachesimo [Dagron 677]. Da una parte, asceti isolati o piccoli gruppi s’insediano negli spazi poco urbanizzati, vicino a tombe o martyria. Dall’altra, a
partire dalla fine del iv secolo si vanno sviluppando grandi monasteri.
Nel 448, ventitre superiori di monasteri firmano la condanna del monofisita Eutiche, anch’egli archimandrita di un grande convento della capitale. La fondazione di tali monasteri è spesso ricondotta a un monaco
giunto dalla Siria o dall’Egitto, ma occorre tener conto anche dell’interesse crescente nutrito verso il monachesimo dall’aristocrazia costantinopolitana, testimoniato da numerosi monasteri maschili e femminili.
La ricca vedova Olimpiade, amica di san Giovanni Crisostomo che
allora era vescovo di Costantinopoli (398-404), dona alla Chiesa della
capitale una parte del proprio enorme patrimonio (SC, 13 bis). Inoltre
fonda nelle immediate vicinanze di Santa Sofia un monastero femminile dove è raggiunta da altre dame e che arriverà a ospitare fino a 250 religiose. Olimpiade ottiene per se stessa e per chi le succederà di essere
diaconessa della Grande Chiesa. Altri monasteri devono il proprio successo all’appoggio di un potente protettore: Isacco di Siria è aiutato dal
ricco Dalmazio, che sarà il suo successore e lascerà il proprio nome al
monastero fondato sulla sua proprietà; il monastero di Dios, fondato da
un omonimo monaco siriano, si sviluppa per parte sua grazie all’appoggio dell’imperatore Teodosio II.
Il movimento delle fondazioni si perpetua per tutto il v secolo e nella prima parte del vi. Alcune liste risalenti al 518 e al 538 permettono di
conoscere i nomi di 75 monasteri, tutti maschili. Il monachesimo femminile, qui come altrove, è mal documentato ma senza dubbio importante.
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Occorre aggiungere alle fondazioni strettamente urbane tutti i monasteri insediati nel retroterra di Costantinopoli. Nel v secolo, Daniele
lo Stilita († 493), giunto dalla Siria, colloca la propria colonna ad Anaplo sulla riva europea del Bosforo, causando così la nascita di un monastero (BHG, 1489). Sulla sponda asiatica, gli Acemeti, venuti dalla Siria insieme ad Alessandro, s’insediano presso Irenio e si sviluppano con
l’aiuto di una famiglia senatoria. Il loro monastero sarà uno dei più influenti della regione e diffonderà le proprie usanze liturgiche. Una lettera del 536, firmata da quaranta superiori che dipendono dal vescovo
di Calcedonia, rende l’idea della vitalità del movimento monastico nelle periferie di Costantinopoli.
La potenza del monachesimo costantinopolitano non è priva di influssi sulla vita religiosa della capitale. I monaci, per esempio, si contrappongono violentemente al loro vescovo Nestorio. Alla fine del v secolo, Daniele lo Stilita, disceso dalla propria colonna, dirige una manifestazione contro l’imperatore Basilisco, che deve fare marcia indietro.
I monasteri della capitale s’impegnano lentamente in favore del calcedonianesimo e alcuni, in occasione dello scisma di Acacio, si schierano
in favore di Roma: è il caso degli Acemeti, che questa volta hanno successo. Tuttavia, quando tenteranno d’imporre le proprie teorie cristologiche sotto Giustiniano, saranno condannati sia da Roma, sia dall’imperatore. Il monachesimo costantinopolitano, in quest’epoca, non sembra più avere un ruolo autonomo nei dibattiti teologici.
6. Istituzionalizzazione: il «tagma» monastico.
A causa del loro numero, della loro disponibilità, del loro prestigio e
della loro influenza, i monaci sono una potenza con cui, all’interno della Chiesa, bisogna fare i conti. Per quanto a partire dal iv secolo i vescovi di Alessandria abbiano saputo stringerli a sé e affermare la propria
autorità, nell’insieme dell’Impero la gerarchia ecclesiastica e le autorità
imperiali si doteranno solo progressivamente di testi normativi tramite
i quali tenteranno di controllare un movimento che cela diversi pericoli. A livello locale, numerosi vescovi hanno cercato di sottomettere i monaci alla propria autorità, com’è testimoniato dai canoni di Rabbula a
Edessa, dall’istituzione di un esarca dei monaci a Costantinopoli e da
quella di uno o più archimandriti dei monaci a Gerusalemme, per mezzo dei quali i vescovi controllano i monasteri. A livello imperiale, i canoni di Calcedonia [Ueding 682] e la legislazione giustinianea [Graniç
680] segnano una svolta. Il concilio di Calcedonia stabilisce fermamen-
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te l’autorità dei vescovi: i monaci sono sottoposti all’ordinario del luogo, senza il cui beneplacito non deve essere fondato nessun monastero;
devono restare nel proprio convento senza immischiarsi degli affari né
della Chiesa né del mondo. Al contempo, il concilio si preoccupa della
stabilità dei monasteri, che, una volta fondati, non potranno essere secolarizzati, così come i loro patrimoni. Giustiniano riprende e completa l’opera di Calcedonia. Ogni monastero è dotato di un egumeno responsabile nei confronti del vescovo ordinario. Lo stesso egumeno non
può governare più di un monastero. Il vescovo veglia sulle nuove fondazioni e pianta una croce nel luogo scelto; interviene inoltre nella nomina degli egumeni. L’ammissione di postulanti, la durata del noviziato, la condizione del monaco e dei suoi beni sono parimenti regolamentate. In particolare, la novella 133 tenta di imporre un modello di monastero. Quest’ultimo non potrà essere misto, giacché i monasteri «duplici» sono proibiti. Per quanto venga menzionata l’esistenza di esicasti che vivono da soli, viene favorita la vita cenobitica: monaci e monache vivono in un monastero chiuso da un muro di recinzione; sottoposti all’autorità di un superiore, pregano, lavorano, mangiano e dormono insieme.
È difficile sapere in quale misura siano state applicate nell’Impero le
decisioni di Calcedonia o quelle di Giustiniano. In Siria, l’appoggio che
la Chiesa giacobita delle origini trova presso alcuni monasteri mostra i
limiti della sottomissione dei monaci ai vescovi locali. Le leggi di Giustiniano non sembrano aver limitato più di tanto la diversità delle comunità; testimoniano tuttavia dell’importanza accordata al tagma monastico. Così come in numerose regioni dell’Impero i monasteri, nel vi
secolo, fanno ormai parte del paesaggio, il monachesimo nella medesima epoca è divenuto un’istituzione importante della Chiesa imperiale.
1
In effetti il Natale, celebrato il 25 dicembre, al tempo del solstizio d’inverno, coincide con
una festa pagana di recente istituzione che commemorava la nascita del sole (natalis Solis invicti). La scelta della data del Natale, tuttavia, si spiega con un calcolo interno al cristianesimo: secondo alcune tradizioni, il Cristo muore il 25 di marzo e sarebbe stato concepito in questa medesima data, in base alla quale si calcola il giorno della nascita.
2
v. déroche, L’Apologie contre les Juifs de Léonce de Néapolis, TM, 12 (1993), pp. 45-104.
3
Cfr. anche cap. x.
4
Cfr. anche cap. v e carta a p. 200.
5
Cfr. anche cap. xiv, pp. 464-67.
6
Brown 638; p. brown, The rise and function of the holy man in late Antiquity, JEChrSt, 6 (1998),
pp. 353-76.
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bernard flusin
ix. La cultura scritta
L’epoca costantiniana segna l’inizio di un nuovo periodo nella storia
della cultura. I fattori di continuità sono certo considerevoli: la cultura
tradizionale – la paideia – resta un ideale che cementa le élites dell’Impero e inoltre le lega al passato, mentre il sistema educativo che la perpetua resta ampiamente inalterato. D’altra parte, i cristiani si sono già
dotati di una letteratura e, dopo un lungo confronto con la cultura ellenica, hanno saputo trarre da essa quegli elementi che sembravano assimilabili. Il regno di Costantino, tuttavia, provoca o accelera alcune mutazioni importanti. Il cristianesimo può dare libero corso alla propria fecondità; d’altro canto, il peso crescente della pars Orientis e l’allentarsi
dei legami con un Occidente che cade nelle mani dei barbari rafforzano
l’importanza culturale delle province in cui domina il greco. La fondazione di Costantinopoli e la presenza di organi centrali dello Stato in un
primo tempo sembrano favorire il latino, ma ha la meglio il movimento
inverso, e nell’Impero dei Romani, separato dalla sua parte occidentale, il greco s’impone come lingua dominante.
La cultura dell’epoca colpisce per la sua diversità e, se si eccettua
l’ambito scientifico, dove si registrano pochi progressi, per la sua vitalità. Alla letteratura pagana o semplicemente profana, vigorosa fino al
vi secolo, finiscono per aggiungersi, più numerose e più diversificate, alcune produzioni propriamente cristiane che, in parte, condividono i valori dell’ellenismo ma riescono a distinguersene. A fianco della cultura
dominante, costituita dall’alleanza tra la paideia greca e il cristianesimo
ufficiale, i testi rivelano altre componenti importanti: una letteratura
cristiana poco preoccupata dell’ellenismo tradizionale; religioni minoritarie o represse; lingue letterarie diverse dal greco.
In un Impero che resta, per lungo tempo, quello delle città, i centri
culturali sono numerosi e a fianco della nuova capitale, favorita dalla
presenza della Corte, alcune grandi entità urbane come Antiochia e Alessandria mantengono un posto importante. L’evoluzione interna dell’Impero e le crisi che attraversa a partire dalla metà del vi secolo finiscono
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per trasformare le condizioni della vita culturale e della produzione letteraria. La fioritura del basso Impero, il cui declino è percepibile dalla
fine del vi secolo, volge al termine, mentre cominciano i secoli oscuri.
i. una cultura dominante: l’ellenismo cristiano.
1. «Paideia» ellenica e cristianesimo.
La paideia – educazione e cultura – contribusce all’unità delle élites,
di cui nelle sue forme elaborate costituisce l’appannaggio. I suoi valori,
contestati in certi ambienti cristiani, s’impongono largamente alla società. In questa cultura essenzialmente letteraria, che fa riferimento a
un numero limitato di testi classici, occupano un posto centrale la conoscenza di una lingua dotta, distinta dal parlare quotidiano, e l’apprendimento della retorica. Questi due elementi costituiscono un lasciapassare per chi vuole accedere a certe cariche di uno Stato che, nei suoi testi ufficiali, rispetta i medesimi codici linguistici e retorici. Perlopiù
questa cultura, generale e scolastica, resta a un livello modesto e solo un
piccolo numero di studenti si eleva fino ai gradi superiori della virtuosità retorica e della filosofia, mentre altri, dopo il corso del retore, possono indirizzarsi verso una formazione più specializzata che dia accesso alle carriere amministrative o alle professioni liberali.
La paideia greca, importante nella vita dell’Impero, è estranea al cristianesimo per la sua origine storica, i testi cui fa riferimento e certi valori che trasmette. Può sembrare addirittura incompatibile, dal momento che è legata a un’altra religione ancora esistente. L’antagonismo è sottolineato presso alcuni cristiani che pongono la semplicità del Vangelo
al di sopra della saggezza degli Elleni e si spingono al punto di condannare la letteratura pagana (Costituzioni Apostoliche, 1.6, SC, 320). Dal
punto di vista dei pagani, l’appropriazione della cultura ellenica da parte dei cristiani può risultare scandalosa, come si vede dall’esempio dell’imperatore Giuliano, che cerca di escludere i maestri cristiani da un
insegnamento fondato su autori pagani [cfr. p. 10]. Il fatto più importante è tuttavia la simbiosi che si viene a creare tra il cristianesimo e la
paideia greca [ Jaeger 685], di cui i grandi dottori alessandrini del ii e iii
secolo, Clemente e Origene, sono i migliori esempi. In particolare, risulta notevole che i cristiani non abbiano cercato di creare un loro specifico sistema d’insegnamento, ma si siano accontentati, come maestri
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e come allievi, di quello già esistente [Marrou 700]. Ad altri livelli, la
retorica è accolta di peso dagli autori cristiani, che per giunta adattano
ai propri testi le procedure di commento che trovano presso i pagani. In
una dimensione interiore, la filosofia greca antica e contemporanea esercita la propria influenza sul cristianesimo, cui trasmette gli strumenti
della logica e della dialettica, nonché importanti elementi dottrinali che
vengono assimilati dai cristiani per raffinare o arricchire la propria etica, la propria antropologia, la propria cosmologia e la propria teologia.
2. Oralità e scrittura.
Se per noi l’accesso privilegiato alla cultura della tarda Antichità passa dalla scrittura, conviene tuttavia sottolineare l’importanza dell’oralità. Numerosi testi trasmessi per iscritto sono stati concepiti per essere detti, letti, recitati, cantati. Per la letteratura profana, basta ricordare che l’eloquenza dimostrativa – «epidittica» – implica una recitazione
di fronte a un pubblico. Il sofista, educatore di studenti, è anche un virtuoso che dà un saggio della propria arte in occasione di sedute organizzate o di feste che contrassegnano la vita delle famiglie e delle città. Anche la poesia suppone spesso un’esecuzione orale: a Costantinopoli, il
lungo poema dedicato a Santa Sofia da Paolo Silenziario1 è recitato davanti all’imperatore e alla Corte in occasione della seconda inaugurazione della chiesa.
Per quanto riguarda il cristianesimo, l’importanza dell’oralità è ancora maggiore. L’eloquenza cristiana, infatti, per certi versi riprende le
abitudini dell’eloquenza profana, ma risponde anche alle sue esigenze
peculiari. Le necessità di un insegnamento rivolto a un ampio pubblico
portano alla produzione di innumerevoli omelie e catechesi. Conviene
infine ricordare la pratica liturgica delle letture, della salmodia e degli
inni.
Scrittura e lettura, la cui diffusione è difficile da misurare2, sembrano essere state più presenti nella parte orientale dell’Impero che in Occidente. Senza dubbio sono familiari solo a un piccola minoranza della
popolazione, ma non sono rare, e gli Apoftegmi dei Padri mostrano per
esempio Amun di Nitria, allora un giovane contadino benestante, che
estrae un libretto dalla tunica per leggerlo a sua moglie [cfr. sopra, p.
254].
La scrittura è presente in numerose forme: lettere e documenti privati, spesso redatti da scrivani pubblici, iscrizioni, tavolette scolastiche
e ostraka, e infine libri. Questi ultimi hanno ormai perlopiù assunto la
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forma del codice, ossia del libro impaginato formato da un fascicolo o
da più fascicoli legati tra loro [Blanchard 690; Cavallo 689].
Il codice, nel corso dei primi secoli dell’era cristiana, entra in concorrenza con la forma classica del libro, il rotolo (volumen), e infine la
soppianta. Più pratico ed economico, è stato privilegiato dai cristiani.
Può essere fatto di papiro o di pergamena; alcuni codices di papiro hanno un aspetto scadente, con una scrittura poco stilizzata. La nuova condizione del cristianesimo fa evolvere la situazione e i grandi onciali biblici giunti fino a noi sono, al contrario, libri curati, per non dire lussuosi. I materiali, l’impaginazione, la cura rivolta alla scrittura, la
copertura ed eventualmente l’illustrazione sono stati impiegati dai cristiani per accrescere il prestigio delle loro Scritture. Parallelamente, ci
si serve del codice anche per la letteratura profana o tecnica, e anche in
quel caso si adottano presentazioni lussuose che fanno concorrenza agli
antichi rotoli, com’è testimoniato dal Dioscoride di Vienna, offerto ad
Anicia Giuliana [cfr. cap. x, p. 304]. Anche le produzioni più modeste
possono essere state assai costose e gli asceti che possiedono qualche libro in una nicchia si vedono rinfacciare la propria deroga alla povertà.
I copisti sono spesso isolati, ma possono essere esistiti anche dei laboratori (scriptoria), senza dubbio come quello che, sotto la sorveglianza di
Eusebio, prepara le cinquanta copie della Bibbia ordinate da Costantino, o anche come quello che è aggregato alla biblioteca di Costantinopoli. Il commercio dei libri è attestato per esempio a Costantinopoli, dove le rivendite dei librai sono radunate presso la Basilica. È là che si trova anche la grande biblioteca imperiale organizzata durante il regno di
Costanzo II, distrutta dall’incendio del 475-76, senza dubbio riorganizzata sotto Anastasio, e che avrebbe annoverato diverse decine di migliaia di volumi. Esistono anche biblioteche private, come quella di Giorgio di Cappadocia, di cui l’imperatore Giuliano conosceva il valore, o
quella del dotto Stefano ad Alessandria, intorno al 6003.
Il cristianesimo contribuisce a rendere il libro un oggetto relativamente familiare. Più che alle biblioteche di studio, occorre pensare alla
moltiplicazione dei libri implicata dalla semplice pratica del culto cristiano. Ogni monastero, ogni chiesa regolarmente servita deve dotarsi
di alcuni libri liturgici e numerosi inventari conservati attestano questa
realtà. I papiri egiziani testimoniano tuttavia una flessione nella produzione di libri a partire dal iv secolo e una rarefazione per la fine del vi
e il vii secolo.
L’importanza del libro non è connessa soltanto alla sua diffusione,
ma anche al prestigio di cui gode in diversi ambienti. La paideia è essenzialmente libresca e vi gioca un ruolo importante il commento ai poeti
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e poi ai prosatori classici; anche il neoplatonismo dà ampio spazio all’interpretazione di un corpus filosofico. Con Teodosio e Giustiniano, le
leggi imperiali sono raggruppate in «codici». Quanto alle religioni, che
siano minoritarie come il manicheismo e l’ebraismo, o dominanti come
il cristianesimo, sono perlopiù religioni del libro e accordano a quest’ultimo uno spazio privilegiato.
3. Il greco, lingua dominante.
Le lingue parlate nell’Impero sono numerose: il besso in Tracia; il
cappadoce, il galata, l’isaurico, per esempio, in Asia Minore. Più a sud
comincia il territorio semitico, e nella valle del Nilo l’ultima forma dell’egiziano, il «copto», è largamente maggioritaria. Due di queste lingue,
il copto e il siriaco, hanno dato origine a una letteratura. Il latino e il
greco, a causa del loro statuto, devono essere considerati a parte [Dagron 695; Rochette 1013].
Il latino è la lingua dominante di alcune province della pars Orientis.
La divisione tra Oriente e Occidente, infatti, non ha seguito una frontiera linguistica e l’Illirico Orientale e la Tracia conservano popolazioni latinofone [cfr. infra, p. 341]. La riconquista giustinianea reintegrerà
nell’Impero vaste regioni in cui predomina il latino. Infine, anche al di
fuori di questi territori, alcuni ambienti adoperano il latino: è il caso della Corte imperiale, almeno fino alla prima parte del v secolo. Il latino è
anche una lingua che si impara presso maestri specializzati. Teodosio II,
per esempio, si preoccupa di dotare la propria capitale di dieci grammatici e di tre oratores latini. Circolano manoscritti latini o bilingui e nella
biblioteca imperiale lavorano tre antiquarii latini. La letteratura latina
classica continua a essere letta e apprezzata. Ancora nel vi secolo, a Costantinopoli vengono copiati manoscritti latini. Certi poeti egiziani conoscono tale lingua e lo storico Ammiano Marcellino (iv secolo) la utilizza per la propria opera, come più tardi, nel vi secolo, il poeta e oratore Corippo, che comunque era originario dell’Africa.
Tuttavia, l’importanza del latino deriva soprattutto dal suo status tradizionale di lingua di potere. Gli imperatori l’adoperano non solo nel iv
secolo, ma ancora nel vi. Negli atti governativi, nella legislazione, negli
eserciti occupa per molto tempo un posto di predominio che passa al greco solo progressivamente. Il regno di Giustiniano segna una tappa importante. Il Codice giustinianeo, che riunisce le leggi imperiali anteriori
al 529, è quasi interamente in latino, così come il Digesto e le Istituzioni. Le Novelle, tuttavia, sono essenzialmente in greco. Al contempo, il
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latino perde terreno nell’alta amministrazione. Resta tuttavia indispensabile per gli studenti di diritto e Giustiniano bada a lasciargli uno spazio. Il senso dell’evoluzione è chiaro. La conoscenza e l’impiego del latino sono in diminuzione. Alla fine del vi secolo, il futuro papa Gregorio
si lamenta – senza dubbio con qualche esagerazione – di non trovare a
Costantinopoli un interprete che sappia il latino, e Gregorio stesso non
parla il greco4. In occasione dei concili, nel periodo anteriore, si vede che
i vescovi orientali non comprendono questa lingua. Al vertice dello Stato, la lingua tradizionale del potere scompare e si fossilizza.
Il greco, per parte sua, è parlato in numerose regioni: Grecia continentale, isole, ovest dell’Asia Minore. Altrove, è ben attestato dappertutto nelle città e si diffonde nelle campagne come lingua degli scambi,
ma anche del cristianesimo e delle élites. Lingua di prestigio e di cultura, è assai frequentemente adoperata nelle iscrizioni e domina la produzione letteraria. Non è uniforme, ma comporta diversi livelli. Per le opere dotte, i letterati, da un capo all’altro dell’Impero, impiegano una lingua artificiale, ispirata dall’usus degli autori della seconda sofistica. Altre
opere, meno ambiziose, utilizzano una koinè più popolare e certi testi
arrivano ad aprirsi alla lingua in evoluzione attestata dai papiri documentari. Il greco, lingua viva, non cessa infatti di trasformarsi5: le sue
strutture si semplificano e il suo lessico si arricchisce di prestiti da altre
lingue, soprattutto il latino. Adatto a ogni impiego, si sostituisce progressivamente al latino come lingua del potere e ottiene infine la posizione dominante che può essere considerata come caratteristica della civiltà bizantina.
ii. l’insegnamento e le sue istituzioni.
1. I tre gradi dell’insegnamento.
L’insegnamento, stabile nelle sue istituzioni e nei suoi contenuti, è
ripartito in tre gradi [Marrou 700]. Il primo, quello del grammatistes, si
rivolge a bambini in tenera età (quasi esclusivamente i maschi) e corrisponde all’apprendimento della scrittura, della lettura e dei rudimenti
del calcolo. Tali scuole di primo grado sono le più diffuse. Il contenuto
dell’insegnamento è variabile e alcuni maestri, più ambiziosi, sconfinano nel grado successivo.
Quest’ultimo spetta al grammatikos [Kaster 699]; è riservato a un’é-
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lite sociale per la quale la cultura letteraria è un importante segno distintivo. I bambini di questa élite, destinati a studi più lunghi rispetto agli
altri, possono aver profittato di un insegnamento privato impartito nella loro famiglia. Con il grammatikos, penetriamo nel cuore della paideia.
Il bambino, che frequenta questo maestro talora a partire dagli 8 anni
di età, perlopiù qualche anno più tardi, apprende a padroneggiare una
forma artificiale della lingua greca. Entra in familiarità con un corpus
di testi classici che il maestro gli fa apprendere e di cui gli rivela il senso. L’arte del grammatico può infatti essere definita, con Damascio, come «l’arte che si occupa della spiegazione dei poeti e della correzione
dell’elocuzione greca». Il grammatikos aiuta il bambino a leggere i poeti – e innanzitutto Omero, sul quale ha spesso imparato a leggere – dal
punto di vista del contenuto (personaggi, luoghi, realia), ma soprattutto sviluppandone un commento grammaticale e morale. L’insegnamento, già a questo livello, può aprirsi ai prosatori e ai primi elementi della
retorica.
Questo studio trova il suo pieno sviluppo presso il maestro del terzo
stadio, il retore o sofista. I giovani che ne hanno l’attitudine, e i cui genitori possono finanziarne gli studi, vanno (in qualche caso condotti ancora dal pedagogo) a seguire i corsi del retore della loro città o si recano
in un centro più rinomato. Sono allora agli inizi dell’adolescenza e possono restare presso il maestro un solo anno (ma ciò è considerato insufficiente) o perlopiù tre anni, talora fino a cinque o più. Uno studente
può seguire successivamente i corsi di diversi retori.
Lo stesso Libanio, dopo aver seguito fino a 15 anni i corsi di un primo retore di Antiochia, diviene, dopo la morte del suo maestro e la propria conversione alla retorica, allievo di un secondo, presso il quale rimane fino ai 20 anni, prima di andare a perfezionare la sua formazione
con un soggiorno di cinque anni ad Atene6.
Presso il retore, il giovane studia i prosatori classici dell’ellenismo
pagano; in certe scuole affronta tuttavia anche la letteratura cristiana.
I papiri scolastici attestano che alcuni autori cristiani (Melitone di Sardi, Gregorio di Nazianzo) hanno potuto essere utilizzati come modelli
scolastici. Tuttavia, i metodi e il contenuto dell’insegnamento si evolvono poco. La Lettera ai giovani sul buon uso delle lettere elleniche di Basilio di Cesarea7 mostra come alcuni cristiani si possono accontentare
dell’insegnamento tradizionale.
Lo studio dei classici non ha per fine una cultura disinteressata. Il retore insegna ai suoi allievi a comporre buoni discorsi; potranno così divenire a loro volta grammatici o retori, indirizzarsi verso il mestiere di
avvocato o, approfittando delle relazioni del loro maestro e della loro fa-
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miglia, entrare nell’amministrazione imperiale. La filosofia, che da molto tempo non è più considerata incompatibile con la retorica, può essere
studiata con quest’ultima o essere oggetto di un insegnamento specifico.
Le conoscenze speciali richieste dalle professioni liberali sono acquisite dopo la permanenza presso il retore. Per quanto riguarda la medicina, mentre la teoria appartiene al bagaglio dell’uomo colto, l’arte medica in sé viene appresa presso i medici delle città o, in pochi centri come
Alessandria, presso maestri specializzati. Anche gli architetti ricevono
la propria formazione presso uno del mestiere. L’unico insegnamento
speciale che dispone di un cursus sviluppato è quello del diritto, che,
conformemente alla tradizione romana, occupa un posto a parte. Teodosio II fa in modo che sia insegnato a Costantinopoli, ma il centro principale degli studi giuridici, fino al regno di Giustiniano, resterà Beirut
[Collinet 703]. Nell’Antiochia del iv secolo, Libanio si lamenta di vedere gli studenti lasciare la retorica per il diritto e gli studi che vi sono associati: la tachigrafia, arte del notarios, e il latino. Tuttavia retorica e diritto, piuttosto che concorrenti, sono complementari, dal momento che
la lingua del diritto imperiale ha anch’essa una condizione letteraria e
molti scholastikoi (uomini di legge), con una solida formazione retorica,
occupano un posto ragguardevole nella vita culturale del basso Impero.
2. Il ruolo della città e dello Stato.
Le scuole del basso Impero sono spesso istituzioni private i cui maestri sono retribuiti dai genitori degli allievi. La Chiesa, per parte sua, ha
un ruolo assai ridotto.
In certi monasteri si insegnano ai novizi i rudimenti per leggere le
Scritture, principalmente il salterio, e alcuni bambini che non erano destinati alla vita religiosa hanno potuto approfittare di tale insegnamento, secondo una pratica che viene biasimata dal concilio di Calcedonia.
Cirillo di Scitopoli segnala peraltro che sant’Eutimio era stato istruito
da chierici del vescovato di Melitene8. Non si tratta senza dubbio di un
caso isolato, ma se si eccettua il didaskaleion di Alessandria, che non è
un luogo d’insegnamento generale e di cui si perdono le tracce assai presto, le scuole di Edessa sono l’unico istituto esclusivamente cristiano di
studi superiori in tutto l’Impero; la formazione che vi si riceve è religiosa. La più celebre di tali scuole, quella dei Persiani, è chiusa definitivamente sotto Zenone e si trasferisce a Nisibi, in territorio persiano.
Il ruolo dello Stato e delle città è importante. È difficile sapere quante città, nell’Impero d’Oriente, si siano preoccupate di favorire l’inse-
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gnamento di un retore o anche di un grammatico. Alcune di esse, a ogni
modo, l’hanno fatto, senza dubbio molte di più di quanto lascerebbe
supporre la lista dei casi sicuramente attestati.
L’insegnamento dei retori è quello meglio conosciuto e l’Autobiografia di Libanio, in particolare, è ricca di dettagli. La bulè della città sceglie i maestri che saranno titolari di un insegnamento pubblico. Non si
può superare un numero fisso, giacché questi maestri usufruiranno di
esenzioni fiscali. Ad alcuni, la bulè attribuisce anche uno stipendio che
si aggiunge agli onorari versati dagli allievi. Ad Antiochia, Libanio, retribuito dalla città, insegna in una sala del bouleuterion. È aiutato da diversi assistenti. Ad Antiochia ci sono, oltre ai grammatikoi, altri retori
coi quali Libanio tenta di stringere un accordo per impedire che gli allievi, approfittando di una concorrenza selvaggia, passino da un maestro all’altro.
Anche nelle province l’azione dello Stato è chiara. Si rivela però difficile da valutare e ci si può chiedere per esempio se le nomine dei professori da parte delle curie fossero sottoposte all’approvazione delle autorità imperiali. La legge del 17 giugno 362, con la quale Giuliano cerca di limitare la presenza dei cristiani nell’insegnamento, prevede che i
professori pubblici o privati debbano essere scelti dal consiglio della
città, la cui decisione sarà portata a conoscenza dell’imperatore. Questa
legge è ripresa nel Codice teodosiano, ma si dubita che sia stata applicata dopo il regno di Giuliano. Tuttavia, vediamo il governo intervenire nella nomina dei professori pubblici in parecchi casi: questi interventi sembrano più saltuari che regolari. I maestri privati, invece, sfuggono al controllo. Una legge del 425 si limita a proibir loro di utilizzare, a
Costantinopoli, gli auditoria riservati all’insegnamento pubblico e li confina in locali privati.
Secondo una politica attestata fin dall’alto Impero e perseguita dagli imperatori cristiani, nelle città vengono accordate importanti immunità fiscali a un certo numero di professori e alle loro famiglie. Lo Stato, peraltro, versa direttamente degli stipendi, in particolare ai professori pubblici della capitale, ma anche a certi maestri di provincia, persino
in città modeste come Elusa in Palestina. Dopo la riconquista, Giustiniano, nell’intento di ristabilire l’insegnamento a Cartagine, prevede di
versare a ciascuno dei due grammatici e dei due retori che fa nominare
uno stipendio annuale equivalente a 70 solidi. Le autorità imperiali possono intervenire anche nella retribuzione dei professori da parte delle
città. Infine, l’imperatore può conceder loro degli onori, sia a titolo personale, sia in maniera regolare.
Risulta difficile dire se l’intervento dello Stato subisca un’evoluzio-
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ne dal iv al vi secolo. L’accusa mossa da Procopio a Giustiniano di aver
distrutto l’insegnamento è sospetta, ma può testimoniare un cambiamento. Il vi secolo sembra effettivamente segnare una crisi del sistema
educativo, dovuta alla situazione generale dell’Impero.
3. Principali centri d’insegnamento.
Per quanto numerose città mantengano dei retori e dei grammatici,
o lascino esercitare vari maestri privati, i centri culturali importanti sono molto scarsi e presentano fisionomie diverse.
Costantinopoli deve la sua importanza alla propria condizione di capitale imperiale. L’esempio di Diocleziano, che alla fine del iii secolo
aveva sviluppato l’insegnamento a Nicomedia, mostra che gli imperatori hanno avuto a cuore di patrocinare lo sviluppo culturale delle città in
cui risiedevano. Nella capitale, sotto Costanzo, Libanio insegna pubblicamente la retorica greca e sappiamo che era rappresentata anche la retorica latina. Alla metà del iv secolo, la vita culturale a Costantinopoli
è segnata dalla personalità di Temistio, anch’egli un pagano, filosofo e
retore, che ha un ruolo importante come consigliere di Costanzo [Dagron 719]. In quest’epoca, gli studenti sono già numerosi a sufficienza
perché una legge del 370 cerchi di respingerne qualcuno. Sotto Teodosio II viene organizzata, con una costituzione del 27 febbraio 425, quella che anacronisticamente si chiama l’«Università» di Costantinopoli
[Lemerle 686].
I professori privati insegneranno in dimore private, mentre l’auditorium imperiale, sul Campidoglio, è riservato ai maestri dell’insegnamento pubblico, che non potranno cumulare alla loro carica un insegnamento privato. La legge si occupa poi delle materie insegnate e del numero
di professori retribuiti: tre oratores e dieci grammatici per il latino; cinque sofisti e dieci grammatici per il greco; due professori di diritto, uno
di filosofia. Due testi completano la disposizione: una legge del 27 febbraio 425 prevede che ciascun professore disporrà di una sala a parte;
un’altra legge del 427 attribuisce ad alcuni professori che insegnavano
nella capitale la comitiva di prima classe e prevede la medesima ricompensa per ogni professore titolare nella capitale, dopo vent’anni d’insegnamento.
Se si tiene conto, inoltre, dell’esistenza di una ricca biblioteca pubblica [Wendel 707], si vede che la sollecitudine imperiale ha saputo dotare la capitale di istituzioni che le assicurano una buona posizione nell’Impero d’Oriente.
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Il caso di Atene è totalmente differente. Il suo ruolo culturale, che
non deve niente alla sua situazione amministrativa, deriva completamente dal passato. In effetti, si tratta dell’unica città «universitaria»
della tarda Antichità, ossia l’unica dove le scuole hanno un ruolo importante.
L’Autobiografia di Libanio, l’Elogio di Basilio di Gregorio di Nazianzo e le Vite dei sofisti di Eunapio di Sardi ci illuminano sull’insegnamento ad Atene, dove si trovano giustapposte varie scuole spesso rivali, ciascuna delle quali costituisce un’unità a parte. Gli studenti, giunti da tutto l’Impero e disputati dai retori, si riuniscono presso il maestro in
dimore private. I sofisti, come altrove, si dividono tra titolari di cattedre pubbliche e professori privati. In città ce ne possono essere fino a
dodici o quindici attivi contemporaneamente. L’Accademia neoplatonica, spesso chiamata la Scuola di Atene, è un’istituzione privata, con proprie risorse che le derivano in particolare dai beni che le sono stati intestati nel iv secolo da Plutarco (di Atene). È costituita da un capo della scuola (scolarca), da alcuni filosofi e da un piccolo gruppo di studenti
di alto livello. Il v secolo è contraddistinto dall’attività di Proclo a capo dell’Accademia. Nel vi secolo, l’insegnamento ad Atene declina. Le
leggi di Giustiniano, secondo Malala, colpiscono in particolare l’Accademia neoplatonica, che è chiusa nel 529 [Beaucamp 254]. I filosofi, secondo Agazia, partono allora per la Persia, ma presto tornano nell’Impero. L’invasione slava, alla fine del vi secolo, arreca alla città un colpo
mortale.
A lungo si è contrapposta la tradizione filosofica di Atene a quella
contemporanea di Alessandria [Blumenthal 701]. A dire il vero, numerosi filosofi attivi ad Atene lo sono stati anche ad Alessandria. L’insegnamento nella capitale egiziana è particolarmente attivo e dura più che
ad Atene: ancora nel vii secolo, Stefano di Alessandria – forse da identificare con Stefano di Atene – vi insegna, prima di recarsi a Costantinopoli su invito di Eraclio. Ad Alessandria ha sede anche un approfondito insegnamento medico.
In rapporto ad Alessandria, Antiochia sembra più defilata. Le sue istituzioni d’insegnamento sono quelle di una grande città, la terza dell’Oriente, e di una capitale regionale. Nel iv secolo gode della presenza di
un oratore eccezionale, Libanio, tornato a insegnare nella propria patria,
dove attira numerosi studenti [Petit 705-6]. Le sue opere costituiscono
la miglior testimonianza di ciò che poté essere il ruolo di un sofista.
Anche la città di Gaza, nella Palestina meridionale, è celebre per la
sua «scuola». Non sembra tuttavia aver sviluppato istituzioni differenti da quelle di altre città, come Cesarea di Palestina o Cesarea di Cap-
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padocia, ma alla fine del v e nel vi secolo i suoi sofisti sono stati più brillanti che altrove e le loro opere in prosa o in versi sono state conservate in maniera migliore. A fianco di Enea di Gaza, formato ad Alessandria e attivo come sofista intorno al 500, e di Giovanni di Gaza, poeta
contemporaneo di Giustiniano, nonché di due Zosimi, occorre segnalare soprattutto due detentori di una cattedra municipale di retorica, entrambi cristiani: Procopio di Gaza (465 - c. 527), formato ad Alessandria, e il suo discepolo e successore Coricio.
La scuola di Beirut, in Fenicia, è un caso particolare [Collinet 703].
A partire dal ii secolo è dedicata al diritto e sotto Giustiniano, prima
della sua chiusura provocata dai gravi terremoti seguiti al 550, Beirut è
l’unica città oltre a Roma e Costantinopoli dove sia attestato questo insegnamento. L’organizzazione degli studi, con un cursus di quattro e successivamente cinque anni, è ben conosciuta, in particolare tramite la Vita di Severo di Antiochia di Zaccaria di Gaza (Patrologia orientale, 2), che,
dopo essersi formato retoricamente ad Alessandria, viene a prepararsi
al suo futuro mestiere di avvocato presso alcuni maestri di Beirut.
iii. la letteratura di lingua greca.
La produzione scritta, nel basso Impero, non è separata dalle pratiche scolastiche, e questo spiega il posto occupato dai commentari o dai
trattati tecnici, nonché dalla retorica e dalla poesia. La vitalità della letteratura tuttavia, oltre che dalla funzione sociale della paideia, deriva
anche dalla nuova posizione occupata dal cristianesimo. Il periodo protobizantino infatti è caratterizzato dalla coesistenza di una letteratura
profana, classicizzante, e di una letteratura cristiana contraddistinta da
un duplice riferimento alla cultura greca e alla Bibbia. In parte al medesimo livello della letteratura profana, tale letteratura esplora anche altri
registri, modificando i generi tradizionali, rivestendo forme nuove e impiegando, a fianco della lingua dotta, forme di greco più semplici.
La complessità di questa produzione letteraria, in cui si contrappongono testi profani, se non pagani, e cristiani, ma anche, all’interno della stessa letteratura cristiana, correnti dotte e correnti volgari, rende difficile ogni giudizio d’insieme sul periodo. Piuttosto che parlare di un declino e opporre la fecondità del iv secolo e della prima parte del v
all’epoca successiva, meno brillante per la letteratura dotta, si può essere sensibili ad alcune evoluzioni che rendono l’età di Giustiniano un se-
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colo importante per una letteratura meno classica; il cedimento è comunque netto alla fine del vi secolo.
1. Importanza della letteratura profana.
La letteratura profana resta legata ai valori dell’ellenismo; può essere anche apertamente pagana e occorre tener conto, a partire da Giamblico all’inizio del iv secolo fino a Simplicio sotto Giustiniano, dell’importanza del movimento neoplatonico. Senza dubbio i filosofi di questa
tendenza costituiscono solo una piccola cerchia, presente soprattutto ad
Atene e Alessandria, ma godono di una certa influenza anche presso alcuni cristiani, che essi combattono apertamente, come fa Proclo nel v
secolo, o più tardi in maniera velata e che nondimeno seguono il loro insegnamento o leggono le loro opere. Quest’ambiente assai fecondo produce essenzialmente commentari di Platone e di Aristotele, ma gli siamo debitori anche di biografie: Vita di Porfirio di Proclo, Vita di Isidoro di Damascio, Vite dei sofisti di Eunapio. Questa corrente filosofica
cessa di essere esclusivamente pagana solo in epoca assai tarda e nell’Alessandria del vi secolo la conversione di un Giovanni Filopono, filosofo
e contemporaneamente teologo cristiano, segna un punto di svolta.
La filosofia, bastione del paganesimo, è un caso estremo. Negli altri
campi, la letteratura profana è un luogo di coesistenza piuttosto che di
conflitto tra autori di cui talora è inutile domandarsi a quale religione
appartenessero. La retorica occupa un posto di primaria importanza
[Kennedy 720]. Si tratta di un’arte codificata e la sua teoria esercita la
propria influenza su tutti i generi letterari. All’inizio dell’Impero cristiano, produce ancora nuovi manuali: se Ermogene e Menandro Retore appartengono all’epoca anteriore, Aftonio, i cui progymnasmata (esercizi preparatori) diventano dei classici, è un autore della fine del iv secolo. La retorica è soprattutto un’arte pratica. Sia pagani impegnati come
Libanio [Schouler 721] e l’imperatore Giuliano (iv secolo), sia cristiani,
tra i quali spicca soprattutto, nel iv secolo, l’oratore cristiano per eccellenza, Gregorio di Nazianzo, seguito più tardi da Giovanni Crisostomo
e ancora da Procopio e Coricio di Gaza (vi secolo), hanno lasciato una
produzione abbondante e pregevole. Tale eloquenza non si limita alla
funzione epidittica: può avere ancora una portata politica, come dimostra nel iv secolo l’esempio del pagano Temistio.
La poesia, importantissima nell’insegnamento e rivale della retorica
in prosa, di cui assume certe funzioni, è oggetto di una vera infatuazione collettiva che è rispecchiata al contempo dalla moltiplicazione delle
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iscrizioni metriche, nel v e vi secolo, e dal movimento di poeti itineranti (iv-v secolo) di origine egiziana e perlopiù pagani che girano di città
in città a cercare le forme di mecenatismo che assicureranno la loro fortuna e permetteranno loro di arricchirsi nell’amministrazione imperiale [Cameron 708]. Alcuni nomi meritano di essere segnalati: Nonno di
Panopoli, celebre per l’epopea delle Dionisiache, ma anche per una Parafrasi del Vangelo di Giovanni, divenuto una sorta di caposcuola [Chuvin 710]; Cristodoro di Copto, un altro egiziano, cui dobbiamo una descrizione dei bagni di Zeusippo a Costantinopoli; Giovanni di Gaza e
Paolo Silenziario, che praticano analogamente il genere dell’ekphrasis
(descrizione); Agazia Scolastico, autore di epigrammi tramandati dall’Antologia palatina [Cameron 709].
La storia profana, profondamente permeata di retorica, resta un genere dotto, praticato sia da pagani come Eunapio e Zosimo [Paschoud
717] sia da cristiani. Gli storici, secondo la tradizione della storia perpetua, prendono spesso le mosse da un predecessore: così giungono a
formare un catena che va da Eunapio di Sardi all’inizio del v secolo fino a Teofilatto Simocatta alla fine del regno di Eraclio e la cui successiva interruzione è indice dell’impoverimento della vita culturale. Tra
gli storici profani si possono segnalare specialmente Ammiano Marcellino, che nel iv secolo scrive in latino le sue Res Gestae [164], e Procopio di Cesarea, attivo sotto Giustiniano, che a fianco della sua grande
Storia delle guerre ha lasciato dei curiosi Anecdota (la «Storia segreta») e
un lungo trattato Sulle costruzioni dell’imperatore Giustiniano [De Aedificiis 181; Cameron 714].
2. Vitalità della letteratura cristiana.
La qualità della letteratura pagana fa comprendere di fronte a quale sfida si trovino gli autori cristiani. I loro testi sacri sono disprezzati
dai letterati e i cristiani hanno il dovere di dimostrare di poter stare alla pari con i propri contemporanei pagani e di essere anch’essi i legittimi eredi della cultura ellenica. Riescono a farlo con successo gli autori dell’«età dell’oro della patristica», che nel secolo successivo alla fondazione di Costantinopoli sviluppano la dottrina cristiana per darle la
sua forma classica. I tre dottori cappadoci, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo – il Teologo, e l’oratore cristiano
per eccellenza –, con una solida formazione retorica e filosofica, brillano in vari generi: eloquenza sacra, lettere, poesia, esegesi, trattati teologici, spirituali o ascetici. Un discepolo di Gregorio di Nazianzo, Eva-
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grio Pontico, stabilito in Egitto a Kellia e la cui cultura filosofica è oggi meglio apprezzata, è senza dubbio l’autore più importante della storia della spiritualità orientale (SC, 170-71, 356). Nella medesima epoca, nell’Antiochia di Libanio e poi a Costantinopoli, è attivo l’oratore
più fecondo dell’Antichità cristiana, nonché uno dei più ammirati: Giovanni Crisostomo [Baur 729].
Il periodo successivo al concilio di Calcedonia (451) sembra meno
brillante di quest’età dell’oro. Nessun oratore sacro sembra avere la statura di un Giovanni Crisostomo o di un Gregorio; occorre tuttavia tener conto anche di un’evoluzione, in altri settori, che non si può ridurre a un declino. È il caso della teologia: con le dispute cristologiche del
v secolo il dibattito si fa infatti più tecnico e diminuisce la cura della
forma letteraria. Gli specialisti elaborano nuovi strumenti: catene esegetiche che riuniscono estratti ricavati dai principali commentatori della Scrittura; florilegi patristici dove si registrano le citazioni di autorevoli padri. Se una simile attività genera spesso testi tecnici e aridi, non
si può trascurare, nel medesimo periodo, la presenza di costruzioni teologiche dall’audacia spesso sorprendente: alla fine del v secolo è attivo
l’autore misterioso che si cela dietro il nome di Dionigi l’Areopagita. Il
vi secolo vede d’altra parte lo sviluppo di un interessante movimento
origenista [Guillaumont 642]. L’epoca di Giustiniano è un secolo importante per la teologia bizantina e la fine del vii secolo può ancora essere illuminata dall’opera di Massimo il Confessore.
La letteratura storica e biografica, per parte sua, rivela forme nuove
la cui apparizione è ascrivibile al cristianesimo. Parallelamente alla letteratura profana, i cristiani sviluppano la propria tradizione storiografica.
Il personaggio chiave, in questo settore, è Eusebio di Cesarea (260 c. 339), che crea o trasforma diversi generi [Sirinelli 737]. La sua Storia ecclesiastica costituisce un’innovazione per il soggetto (la storia della Chiesa) e per il suo metodo. Sarà proseguita da tutta una serie di storici della Chiesa: in particolare, nel v secolo, Socrate, Sozomeno e Teodoreto,
Teodoro il Lettore nel vi e infine Evagrio Scolastico poco prima del 600
[Allen 728]. A Eusebio dobbiamo anche un’opera cronologica che avrà
un’importante influenza sia in Oriente sia in Occidente: la Cronaca, dove il tempo della storia profana è concordato con quello della storia sacra. Il calcolo del tempo resta una preoccupazione dei dotti bizantini,
sia di lingua siriaca come Giacomo di Edessa, sia di lingua greca con il
Chronicon Paschale composto sotto Eraclio9.
A fianco della storiografia cristiana dotta occorre lasciare spazio a
opere di livello più basso, il cui esempio è, sotto Giustiniano, la Cronografia di Giovanni Malala, cronaca universale e storia dei regni dalla crea-
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zione fino all’epoca contemporanea, che dà del passato un’immagine distorta, sintomatica di una società la cui memoria si è trasformata e cristianizzata [ Jeffreys 734]. Nello stesso periodo, la curiosa Topografia cristiana di «Cosma Indicopleusta» propone una geografia propriamente
cristiana [Wolska-Conus 738].
Eusebio di Cesarea è anche autore di una terza opera che si può accostare alla storia: la Vita di Costantino, in cui fissa durevolmente l’immagine del sovrano cristiano, in un testo che appartiene alla ricca letteratura biografica dei cristiani10. In quest’ambito, la letteratura dotta è
contraddistinta dalla diversità dei soggetti trattati: pii fedeli di cui si
pronuncia l’elogio funebre, come Gregorio di Nazianzo fa per suo fratello, il medico Cesario (SC, 405); sante monache, come Macrina, la cui
vita è stata composta dal fratello Gregorio di Nissa (SC, 178); santi martiri, santi vescovi, santi monaci; santi profeti con la Vita di Mosè di Gregorio di Nissa, in realtà un trattato sulla vita spirituale (SC, 1 bis). Arriviamo qui a toccare il campo dell’agiografia, ricco di opere appartenenti a generi letterari diversi [Van Uytfanghe 742] e che rappresentano
livelli culturali disparati.
Nell’ambito dell’agiografia narrativa, il culto dei martiri provoca la
nascita di opere – passioni e raccolte di miracoli – spesso scritte in una
lingua semplice. Le Vite dei santi monaci, benché il loro modello più influente, la Vita di Antonio di Atanasio (SC, 400), sia scritta da un vescovo colto, si sviluppano essenzialmente nell’ambito monastico, di cui
riflettono le preoccupazioni e i gusti letterari. A fianco delle vite storiche, che possono combinare, come con Cirillo di Scitopoli nel vi secolo, la fondatezza storica con la volontà di edificare e la piacevolezza della narrazione, appare anche tutta una letteratura fantastica che propaga modelli ascetici all’interno della cristianità: è il caso della Vita di Maria
Egiziaca (vi-vii secolo). Vengono ugualmente classificate nell’agiografia
monastica alcune raccolte di narrazioni edificanti: Storia dei monaci d’Egitto (fine del iv secolo), Storia lausiaca di Palladio (v secolo), Prato spirituale di Giovanni Mosco (vii secolo).
Il caso dell’agiografia, incaricata di promuovere il culto dei santi, mostra come i cristiani abbiano sviluppato forme letterarie adattate a funzioni nuove. L’abbondanza delle omelie è un ulteriore esempio del medesimo fenomeno. Lo sviluppo di una liturgia più ornata comporta d’altro canto la produzione di una ricca innografia, ed è in questo settore
che fa la sua comparsa la creazione poetica più originale dell’epoca protobizantina: il kontakion, lungo poema narrativo dedicato a un episodio
della storia sacra o alla vita di un santo. Dotato di struttura strofica,
rompe con la metrica tradizionale e dotta per tener conto del greco con-
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temporaneo. Il più celebre degli autori di kontakia, Romano il Melodo,
originario della Siria, è attivo a Costantinopoli sotto Giustiniano [Grosdidier 733].
La letteratura cristiana si allontana dai canoni della letteratura classica in numerosi aspetti. Ci si può anche domandare se non volga del
tutto le spalle alla paideia tradizionale. Non mancano testi dove i cristiani proclamano di respingere la cultura profana e di privilegiare, in nome del Vangelo, una cultura più semplice. Questa tendenza importante
è ben attestata in ambito monastico. Senza dubbio, non bisogna contrapporre troppo nettamente il monastero alla città e i monaci sono spesso sensibili ai valori di una società che dichiarano di rifiutare; tuttavia
il mondo monastico, più lontano dalla civiltà urbana, produce una letteratura esclusivamente religiosa, spesso autonoma in rapporto alla cultura profana, talora più aperta al mondo dei villaggi e del deserto; favorisce e diffonde testi scritti secondo regole semplici, con un livello linguistico assai basso. Gli Apoftegmi dei Padri (SC, 387), le cui collezioni
principali datano alla fine del v secolo, o il Prato spirituale di Giovanni
Mosco11 nel vii sono buoni esempi di questa letteratura.
iv. le letterature copta e siriaca.
Nella parte orientale di un Impero multilingue, due idiomi diversi
dal greco e dal latino hanno acquisito il rango di lingue letterarie: il copto e il siriaco. Ciascuna, a modo suo, contribuisce alla diversità e alla
ricchezza della cultura del basso Impero.
1. Letteratura copta.
Il copto [cap. xiv, pp. 447-49; Albert 34], con i suoi dialetti, è la forma assunta dall’egiziano all’inizio della nostra era, quando è scritto con
un alfabeto derivato dal greco, ma arricchito da alcune lettere supplementari. Per quanto alcuni testi copti arcaici (magia, astrologia) esistano a partire dal i secolo, occorre attendere il iii per veder nascere una
letteratura essenzialmente funzionale: testi scientifici (medicina, magia)
o religiosi, perlopiù cristiani. A partire dal iii secolo, sono stati tradotti alcuni libri della Bibbia; e una tavoletta scolastica, in cui a fianco di
versetti del salmo 43 nel dialetto di Akhmim compaiono una parafrasi
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greca dei primi versi dell’Iliade e diversi esercizi, illustra il modo in cui
in Egitto coesistono le culture profana e cristiana, greca e copta. Nel iv
secolo è completata la traduzione saidica della Bibbia, mentre vengono
elaborate versioni in altri dialetti. A fianco dei libri canonici, gli apocrifi occupano un posto importante e la letteratura copta si apre ai testi patristici, liturgici, ascetici, agiografici. Si tratta essenzialmente di traduzioni [Orlandi 748]. Fa eccezione un settore: quello della letteratura monastica. Antonio senza dubbio ha scritto in copto alcune lettere che sono
state conservate [Rubenson 655]; Pacomio e i suoi due successori, Teodoro e Orsiesio, hanno lasciato a loro volta numerose opere – lettere,
regole, catechesi, testamenti – alcune delle quali in epoca antica sono
state onorate da una traduzione latina. È proprio nell’ambiente monastico che, nel v secolo, compare l’autore copto più importante: il grande egumeno Scenute di Atripe († 466), di cui possediamo numerose catechesi. Poco dopo, Besa, un altro archimandrita, lascia un’opera importante [Kühn 746].
La letteratura copta comunque non è esclusivamente cristiana e varie scoperte hanno messo in luce testi d’importanza eccezionale per la
conoscenza delle correnti religiose rivali del cristianesimo, gnosi e manicheismo.
Tredici codici copti databili alla metà del iv secolo, scoperti presso
Nag Hammadi nell’Alto Egitto poco dopo la seconda guerra mondiale,
trasmettono 46 trattati, tutti tradotti precedentemente dal greco, perlopiù gnostici ma anche ermetici o cristiani (Vangelo di Tommaso). Altre due scoperte, una nel 1929 a Medinet Madi vicino al Fayyum, l’altra nel 1991-92 nell’oasi di Dakhla, hanno fatto conoscere questa volta
testi manichei in copto e in qualche caso bilingui (copto e siriaco), particolarità che mostra come la traduzione copta dei testi manichei possa
essere avvenuta direttamente a partire dal siriaco.
L’originalità e l’importanza della letteratura copta derivano in parte dalla storia dei testi. La letteratura greca, tramandata principalmente dai manoscritti medievali, ha attraversato numerosi filtri; la tradizione dei testi copti, invece, è più papirologica e i suoi contenuti, malgrado i limiti incontrati nell’ambito della letteratura dotta, riflettono la
diversità dei testi letti nel basso Impero. In genere i testi presenti in copto hanno avuto un equivalente greco e la letteratura copta, anche quando non è una semplice traduzione, appare in continuità con alcuni settori della letteratura religiosa greca.
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2. Letteratura siriaca.
Il siriaco, nato dal dialetto aramaico parlato nella regione di Edessa,
è una lingua letteraria e deve a questa caratteristica una grande stabilità
per tutto il corso di una storia che comincia nel i secolo della nostra era
e s’inoltra nel Medioevo [Albert 34; Baumstark 38; Duval 745]. Non
nasce con il cristianesimo ma, ben presto legato a esso, ne costituisce un
veicolo importante verso l’Oriente: non solo nelle comunità aramaiche
della Persia, ma anche verso l’Armenia, l’India, la Cina. I testi siriaci
sono essenzialmente cristiani, ma è certamente esistita una letteratura
profana. Peraltro, occorre ricordare che Mani, nel iii secolo, redige in
siriaco tutti i suoi testi, salvo uno.
La coesistenza del greco e della parlata siriaca è un fenomeno ancora mal conosciuto. Nella regione che corriponde grossomodo al patriarcato di Antiochia esiste tutta una popolazione variamente bilingue, ma
si trovano anche ellenofoni puri o Siriani che non conoscono il greco. Si
ammette che la ripartizione delle due lingue obbedisce a fattori geografici – greco più diffuso a ovest dell’Eufrate, siriaco a est – e sociali, giacché il greco era la lingua delle città e delle classi benestanti. Gli autori
siriani, anche quando sono bilingui, scrivono le proprie opere in un’unica lingua. Al tempo della crisi calcedoniana, l’opposizione delle confessioni non coincide con la ripartizione dei linguaggi, ma progressivamente il greco diviene la lingua della Chiesa calcedoniana, mentre la
Chiesa giacobita privilegia il siriaco. In questa sede ci limitiamo ai testi
prodotti nell’Impero, ma anche la Persia ha prodotto una ricca letteratura siriaca, soprattutto nestoriana.
La letteratura siriaca, posta sotto la quadruplice influenza mesopotamica, persiana, biblica e greca, presenta un’originalità assai marcata.
Nel iv secolo, i suoi aspetti specifici che la distinguono dal mondo greco sono percepibili negli scritti del «Saggio persiano» Afraate (SC, 349,
359) o, all’interno dell’Impero, di Efrem, diacono di Nisibi stabilitosi
a Edessa dopo la morte dell’imperatore Giuliano (363), le cui opere poetiche, esegetiche, teologiche hanno esercitato una grande influenza e sono state assai presto tradotte in greco. La letteratura siriaca di ogni epoca contiene altre importanti opere originali.
Tra gli apocrifi dell’Antico Testamento, occorre menzionare la Caverna dei tesori (v-vi secolo) e, per il Nuovo Testamento, la Dottrina di
Addai, relativa alla conversione di Edessa: si tratta di un testo del iii secolo successivamente rimaneggiato. Nel vi secolo, nel campo della teologia e della polemica teologica spiccano il grande dottore anticalcedo-
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niano Filosseno di Mabbug e la poesia di Giacomo di Sarug. Anche l’agiografia di lingua siriaca si rivela brillante. Infine, la storiografia si distingue per la sua diversità e la sua qualità: a fianco di scarne cronache,
vi si trovano opere vive e ricche come la Cronaca dello Pseudo-Giosuè lo
Stilita.
Il mondo siriaco non si è accontentato di ricevere, e a sua volta ha
dato: la nascita del kontakion greco deve senza dubbio qualcosa alla poesia siriaca. Tuttavia, l’influenza della cultura greca non ha mai smesso
di accrescersi nel corso del periodo qui affrontato: la si può percepire
nella produzione originale in siriaco e si riflette nel gran numero di traduzioni sempre più fedeli.
Il caso delle traduzioni della Bibbia è sintomatico. Alcuni libri della
Bibbia sono tradotti molto presto dall’ebraico in siriaco. Tuttavia, nel
iv secolo la Peshitta (versione «semplice» della Bibbia) è rimaneggiata in
base al testo dei Settanta. All’inizio del vii secolo, Paolo di Tella traduce nuovamente la Bibbia in siriaco, questa volta in base al greco degli
Hexapla di Origene. Il Nuovo Testamento, d’altro canto, verosimilmente riflette la preoccupazione degli ambienti siriaci di disporre di un’immagine fedele dei modelli greci: l’uso del Diatessaron di Taziano, che
aveva fatto concorrenza ai Vangeli canonici, è proibito a partire dal v
secolo; le versioni siriache dei quattro Vangeli sono ricontrollate sul greco nel v, vi e anche vii secolo. La celebre Scuola dei Persiani, che è attiva a Edessa dal 400 circa fino alla sua chiusura sotto Zenone, basa il
suo insegnamento sulle opere tradotte in siriaco di Diodoro di Tarso,
Teodoro di Mopsuestia e Nestorio, pur concedendo grande spazio alla
logica aristotelica.
Molti padri greci, oltre ai dottori nestoriani, passano in siriaco: per
esempio nel vi secolo Sergio di Reshaina traduce il corpus areopagitico,
mentre Paolo di Callinico fa lo stesso per alcuni scritti di Severo di Antiochia; nel vii secolo, a Cipro un altro Paolo traduce Gregorio di Nazianzo. Contemporaneamente, peraltro, la letteratura siriaca si arricchisce di opere propriamente scientifiche, filosofiche e mediche. L’Isagoge
di Porfirio e alcune parti dell’Organon sono utilizzate in traduzione siriaca presso la Scuola dei Persiani. Nel vi secolo, Sergio di Reshaina traduce alcune opere di Galeno, alcuni scritti filosofici e compone lui stesso vari trattati di logica. Intorno al 640, nel monastero di Kennesrè, divenuto un centro dello studio del greco, il dotto Severo Sebokht studia
la teologia, le matematiche, la filosofia e commenta Aristotele. La sua
opera è proseguita da Giacomo di Edessa, da Atanasio di Balad, che ritraduce l’Isagoge, e da Giorgio degli Arabi che, nel 687-88, traduce l’Organon.
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La conquista araba non segna un punto di rottura per la scienza siriaca. Lo studio dei testi greci, ormai confinato a cerchie ristrette, tuttavia prosegue e questo interesse dei dotti siriaci per la scienza ellenica
è un fenomeno importante nella storia della cultura.
v. verso i secoli oscuri.
La seconda parte del vi secolo e il vii nella sua interezza sono segnati da una crisi della paideia tradizionale che si rispecchia nel declino delle scuole e nell’esaurimento della produzione letteraria, in particolare
profana. In seguito alle difficoltà esterne e interne che affliggono l’Impero, le belle lettere tendono a sparire e Bisanzio sprofonda nei secoli
oscuri, da cui uscirà solamente alla fine dell’viii secolo, e soprattutto nel
ix. Alcuni autori vedono nella politica di Giustiniano una causa del declino della paideia e numerose misure di questo imperatore vengono citate nel dibattito storico.
Oltre al celebre episodio della «chiusura» della scuola neoplatonica
di Atene [Beaucamp 254], si tratta innanzitutto delle leggi che proibivano ai pagani di insegnare. La seconda è particolarmente chiara: «Proibiamo che qualsiasi insegnamento sia professato da coloro che sono affetti dalla follia sacrilega degli Elleni». È difficile dire in quale misura
questa proibizione abbia potuto colpire l’insegnamento nella totalità dell’Impero. D’altro canto, la disposizione con la quale Giustiniano riserva l’insegnamento del diritto a tre città è stata vista come sintomatica
di una concentrazione delle istituzioni d’insegnamento. Infine, Procopio rimprovera a Giustiniano di aver eliminato gli stipendi dei medici e
dei professori, provocandone la scomparsa. Questo passaggio, tuttavia,
è tratto da un libello polemico e sembra contraddetto dalla legge del 534,
che creava posti di professore per Cartagine.
Il regno di Giustiniano non segna la fine delle scuole e alla fine del
vi - inizio del vii secolo troviamo ancora parecchie inequivocabili menzioni che lo dimostrano. Sofronio, futuro patriarca di Gerusalemme, prima di prendere l’abito monastico intorno al 600 era sofista a Damasco;
in Egitto incontra un altro sofista, anch’egli di Damasco, proveniente
da una famiglia in cui si esercitava questa professione da diversi secoli.
Tichico, che insegna la filosofia e le matematiche a Trebisonda, si era
formato all’inizio del regno di Eraclio studiando tre anni ad Alessandria, uno a Roma e infine a Costantinopoli, dove segue le lezioni di «un
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uomo celebre, un dotto di Atene, la città dei filosofi, che insegnava ai
filosofi della Città».
Sembra dunque che, ancora intorno al 610, si possa ottenere un’istruzione ad Alessandria, che presto cadrà nelle mani degli Arabi, e a
Costantinopoli. Il maestro di Tichico aveva d’altro canto studiato ad
Atene. Tichico rifiuterà di succedere al proprio maestro e resterà a Trebisonda. D’ora in poi, alla fine del regno di Eraclio, sembra che non vi
sia più un insegnamento di filosofia a Costantinopoli e gli studenti della città andranno da Tichico per istruirsi [Lemerle 686]. Il cambiamento forse è indice di nuove condizioni: all’insegnamento impartito in locali pubblici a Costantinopoli fa seguito quello tenuto nel martyrion di
Sant’Eugenio a Trebisonda, presso un maestro dall’aria più medievale.
Alcune scuole sembrano dunque essere rimaste in funzione – forse a rilento – fino alle invasioni della fine del vi e del vii secolo o, per quanto
concerne Costantinopoli, all’incirca fino alla fine del regno di Eraclio.
Quanto alla produzione letteraria, si percepisce un declino, anche se tale declino non è uniforme.
In Egitto l’ultimo poeta conosciuto è Dioscoro di Afrodito [Fournet
711], attivo nel terzo quarto del vi secolo, e ad Alessandria l’ultimo filosofo è Stefano, forse giunto da Atene, che si stabilirà a Costantinopoli su invito di Eraclio. In Palestina, i poemi anacreontici di Sofronio,
scritti agli inizi del vii secolo, attestano l’attività di un sofista di formazione, ma appartengono al registro religioso. A Costantinopoli, è possibile che la vita culturale abbia subito una flessione sotto il regno di Foca prima di riprendere qualche slancio sotto Eraclio. A ciò sembra alludere la prefazione delle Storie di Teofilatto [185, pp. 3-5], che riveste la
forma di un dialogo in cui la Filosofia, lamentandosi di essere stata momentaneamente bandita prima di essere richiamata da Eraclio, domanda alla Storia, anch’essa scomparsa per qualche tempo, cosa l’abbia fatta rinascere, e si sente rispondere che tale resurrezione è merito del patriarca. Sergio di Costantinopoli, infatti, sembra aver protetto le lettere.
Teofilatto, sotto Eraclio, prende le mosse dall’opera di Menandro
Protettore, che copriva il periodo 568-82 [177]. Per trovargli un successore, bisogna arrivare all’incirca al 770 e al Breviarium di Niceforo. Questa interruzione della storia dotta è un segno di crisi. Si possono percepire anche altre evoluzioni. Si pensi alla Storia ecclesiastica di Evagrio
Scolastico [169; cfr. Allen 728], scritta in un greco dotto nell’Antiochia
della fine del vi secolo, che si apre a tematiche che appartengono alla
storia profana; all’inverso, l’opera di Teofilatto ammette soggetti che
appartengono piuttosto alla storia ecclesiastica. La rarefazione della letteratura profana alla fine del vi secolo è dunque da imputare a un du-
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plice movimento: non solo esaurimento della produzione, ma anche evoluzione dei generi e abolizione della separazione tra letteratura profana
e letteratura religiosa.
Quest’ultima, per parte sua, non dà segnali evidenti di declino e alla fine del vi e nel vii secolo si possono registrare numerose opere importanti. Abbiamo già notato il caso di Evagrio per la storia ecclesiastica e soprattutto, sotto Eraclio, di Giorgio di Pisidia, la cui opera abbondante ed elaborata, in cui si mescolano soggetti sacri e profani, contiene
epigrammi, poemi epici, morali e didattici. In campo teologico, a fianco di Sofronio, che si segnala al tempo della crisi monotelita, occorre ricordare il grande nome di Massimo il Confessore (c. 580 - 662). Si devono segnalare anche i capolavori costituiti dal Prato spirituale di Giovanni Mosco (intorno al 615) e dalla Scala di Giovanni del Sinai (intorno
al 650), autentica summa della spiritualità orientale. Nel suo insieme la
letteratura religiosa, meno legata alla vita delle città, resiste più a lungo
di quella profana: sarebbe dunque superficiale parlare di un declino generale. Si possono tuttavia osservare alcuni cambiamenti nelle modalità
di tale produzione. La letteratura profana, nel vii secolo, sembra sparire dalle province e concentrarsi nella capitale. Si noterà anche l’importanza presentata per la letteratura religiosa, con autori come Sofronio,
Mosco, Giovanni Climaco e Massimo, dalla Siria e dalla Palestina, ossia province destinate a essere presto perdute dall’Impero.
Nel vii secolo, l’ellenismo si trasforma ed entra in crisi, ma resta sufficientemente vigoroso perché la sua influenza si faccia sentire durevolmente. In terra islamica, dove il greco resterà scritto e parlato in alcuni
ambienti, sussistono centri di cultura greca come San Saba in Palestina.
D’altro canto, la scienza greca sarà trasmessa agli Arabi, sia direttamente, sia tramite le traduzioni siriache. Infine, la stessa paideia, con alcuni dei suoi metodi d’insegnamento e dei suoi valori, nonché alcuni dei
suoi testi, troverà nella Costantinopoli medievale un’erede che la rivendica.
1
Trad. it. in Un tempio per Giustiniano. Santa Sofia di Costantinopoli e la «Descrizione» di Paolo Silenziario, a cura di M. L. Fobelli, Roma 2005.
2
Cfr. r. p. duncan-jones, Age-Rounding, Illiteracy and Social Differentiation in the Roman Empire, «Chiron», 7 (1977), pp. 333-53.
3
Cfr. g. cavallo (a cura di), Le biblioteche nel mondo antico e medievale, Roma 1989.
4
Cfr. p. courcelle, Les lettres grecques en Occident, Paris 1948.
5
r. browning, Medieval and Modern Greek, Cambridge 19832.
6
libanios, Autobiographie, Paris 1979.
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Trad. it. basilio di cesarea, Discorso ai giovani, a cura di M. Naldini, Firenze 19902.
Per la vita di sant’Eutimio cfr. Kyrillos von Skythopolis, a cura di E. Schwartz, Leipzig 1939.
9
j. beaucamp e altri, Temps et histoire I. Le prologue de la Chronique pascale, TM, 7 (1979), pp.
223-301.
10
eusebius caesariensis, De vita Constantini, a cura di F. Winckelmann, Berlin 1975 [trad. it.
Eusebio 170].
11
PG, 87; cfr. SC, 12 [trad. it. Il prato, a cura di R. Maisano, Napoli 20022].
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x. L’arte imperiale e cristiana: unità e diversità
Sembra ormai definitivamente passato il tempo in cui bisognava scusarsi se si attirava l’attenzione del lettore sui rozzi monumenti della decadenza. A partire da A. Riegl1, è divenuto chiaro l’interesse delle produzioni artistiche della tarda Antichità anche da un punto di vista squisitamente estetico. Tuttavia, la nostra maggiore preoccupazione in
questa sede è di evidenziare come la lunga trasformazione politica, economica, sociale e religiosa del mondo mediterraneo e dell’Europa occidentale sia inseparabile dalla trasformazione della produzione artistica.
In quest’ambito, come e forse più che in altri, non c’è nulla di sorprendente nel vedere le evoluzioni lente avere la meglio su mutazioni brusche e spettacolari. Ciò nonostante, il raggruppamento dei fenomeni
nuovi in alcuni periodi, reso ancor più evidente dalla prossimità di mutamenti politici, permette di evidenziare alcune cesure.
Così, benché sia stato opportunamente dimostrato che persino il regno di Costantino e la pace della Chiesa non comportano uno stravolgimento dell’Impero, è chiaro che l’apparizione del cristianesimo sulla scena ufficiale provoca un certo numero di innovazioni. La più spettacolare è la comparsa di una grande architettura cristiana: le scelte di
Costantino e dei suoi architetti sono destinate a essere a lungo decisive
per quanto concerne i principali elementi e un buon numero di caratteristiche secondarie dell’edificio cultuale cristiano. In maniera parallela,
tuttavia, sono destinate a proseguire le manifestazioni già tradizionali
di un’arte funeraria cristiana, che ci è nota soprattutto tramite i sarcofagi e le pitture delle catacombe romane. In questo periodo, che copre
la maggior parte del iv secolo, il maggior numero di testimonianze cristiane proviene dalla parte occidentale di quello che è ancora l’Impero
romano; conviene far riferimento a esso, giacché numerosi indizi mostrano che non c’è motivo di contrapporre un Oriente a un Occidente,
in questi decenni. Non è neppure strano che si trovino immagini il cui
significato pare oscuro e altre che, a causa di somiglianze superficiali,
sono falsamente chiare: è solo gradualmente che prende campo un mo-
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do di pensare il cristianesimo che ci è più familiare e che quest’ultimo
cessa, grazie all’azione e soprattutto agli scritti dei padri della Chiesa,
di essere concepito con concetti che erano stati coniati per sistemi differenti [Cameron 684].
Tale periodo di maturazione del cristianesimo termina con il regno
di Teodosio: un analogo riferimento cronologico occidentale potrebbe
essere il pontificato di Damaso. È allora che trionfa l’ortodossia nicena
– se ne vedono le conseguenze nell’iconografia –, che si sviluppa il culto dei martiri – la natura stessa dei martyria è allora destinata a cambiare – e che compaiono o si sviluppano gli elementi più caratteristici della decorazione pittorica delle chiese. Ancora all’inizio di questo periodo, le testimonianze più numerose e più chiare provengono dall’Occidente; ma alcuni testi e alcune tracce mostrano che nel bacino orientale del Mediterraneo l’evoluzione è la stessa.
Il regno di Teodosio segna, per l’Oriente, l’inizio di un lungo periodo, che si può far arrivare fino agli ultimi anni del regno di Giustiniano: la parte orientale dell’Impero romano si allontana allora progressivamente da quella occidentale, ma i concetti espressi tramite monumenti e immagini non conoscono variazioni essenziali. Intorno alla fine del
vi secolo si profilano nuovi cambiamenti; è solo allora che il simbolismo
che circonda il potere imperiale è definitivamente e completamente cristianizzato2. La lontananza del tempo degli idoli permette anche a certe pratiche legate alle immagini di riapparire in una forma nuova e cristianizzata: si sviluppa allora un culto delle immagini che si è voluto mettere in relazione, in maniera troppo limitata, con le difficoltà incontrate
dall’Impero e le angosce che ne derivavano ai suoi abitanti.
Le principali cesure da noi evidenziate sono significative per un’arte che esprime il cristianesimo. Tuttavia, l’arte com’era concepita dalle
élites dell’Impero romano, per valorizzare il potere imperiale, per essere un segno di distinzione sociale o un elemento della vita civica, continua a svilupparsi per tutto il periodo qui trattato (e anche oltre, per tutta la durata dell’Impero bizantino). Per abitudine, continueremo a parlare di arte profana per caratterizzare questi monumenti, ma almeno una
parte di tale produzione, quella che riguardava l’imperatore, dipende
dalla categoria del sacro, che è più ampia di ciò che chiamiamo «arte religiosa». L’insieme di questa produzione «non religiosa» resta profondamente legato ai periodi precedenti, e conviene parlarne all’inizio.
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i. un’arte «profana».
1. L’arte nelle città.
Durante quasi tutto il periodo in esame, la città resta la cornice della vita e dell’attività delle élites dell’Impero. Si è visto [cfr. sopra, p.
224] come questo stato di cose sia soggetto a cambiamento e come, nonostante gli sforzi di Giustiniano, la città tradizionale tenda a poco a
poco a divenire un guscio vuoto, al punto che le difficoltà della fine del
vi e degli inizi del vii secolo sono sufficienti a far crollare questa cornice. Nel iv e nel v secolo, tuttavia, per quanto la maggior parte dei nuovi monumenti sia costituita da chiese, i monumenti tradizionali continuano a essere mantenuti – naturalmente con l’eccezione dei templi. Soprattutto, è ancora evidente la preoccupazione per l’urbanesimo.
L’esempio più celebre è la pianificazione dell’Arcadiana a Efeso, sotto
il regno dell’imperatore che le ha dato il nome. Peraltro, l’archeologia
ha rivelato che, a partire dal vi secolo, alcune botteghe debordano sullo spazio stradale: ciò mostra una certa insensibilità nei riguardi della
monumentalità delle grandi strade colonnate che sono ancora attestate
ovunque, con tetrapili e tetrastili regolarmente collocati agli incroci. Nelle città si continuano a erigere dimore monumentali – forse questa costituisce una differenza essenziale tra l’Oriente e l’Occidente, dove assai presto i grandi proprietari costruiscono ville sulle proprie terre. I casi di Apamea e Atene – ma si trovano anche altri esempi in Grecia e
altrove – sono particolarmente ben conosciuti grazie a lavori recenti [Sodini 564-65]. Costantinopoli è un caso particolare a causa dell’ampiezza delle realizzazioni urbane, ma queste ultime, dovute alla volontà degli imperatori, rappresentano egregiamente la quintessenza dell’urbanesimo della tarda Antichità, con le sue strade colonnate e i suoi fori.
Le ultime vestigia della scultura a tutto tondo sono ugualmente connesse con gli spazi pubblici [Bauer 751]. L’ostilità del clero nei confronti della scultura a tutto tondo è ben nota e la esclude dall’ambito dell’arte religiosa. Tuttavia, abbiamo già accennato al fatto che il cristianesimo dà la sua impronta alla maggior parte dell’attività culturale solo
verso la fine del vi secolo e fino ad allora esiste sempre una produzione
artistica in rapporto con il funzionamento tradizionale della città. In
particolare, sono state attribuite a un laboratorio di Afrodisia, ancora
nel v secolo, alcune statue a tutto tondo che rappresentano magistrati
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municipali e governatori. L’esempio più celebre, grazie alla qualità dell’opera, proviene da Efeso: un busto, di cui si conserva solamente la testa (al Museo di Vienna), rappresentava Eutropio, che aveva rivestito
varie funzioni municipali. Queste immagini si fanno sempre più rare
man mano che il tempo passa; sopravvivono più a lungo nelle regioni dove esiste una forte tradizione di laboratori di scultura. È il caso della
succitata Afrodisia, di cui si conosce la celebre scuola di scultura, che si
è sviluppata in epoca imperiale; è anche il caso di Atene e di altre regioni della Grecia, benché la scultura della tarda Antichità vi sia stata studiata meno sistematicamente. Solo un numero relativamente scarso di
tali statue è sopravvissuto, ma la loro importanza resta attestata dagli
epigrammi onorifici incisi sulle basi, conservati in numero maggiore e
trasmessi inoltre da raccolte di testi, in particolare l’Antologia Palatina3.
Tuttavia, a partire dalla fine del vi secolo e in ogni caso nel vii non si
trovano più attestazioni di simili sculture. Si conoscono ancora, almeno
per tradizione letteraria, alcune statue imperiali: occorre citare una statua di Foca a Roma, eretta nel 608. È possibile che vi sia ancora una statua di Costante II nell’agorà di Corinto, secondo la testimonianza di
un’iscrizione [Spieser 566, p. 327, n. 67]. I più recenti frammenti conservati sembrano essere una testa, in cui si riconosce Giustiniano, e
un’altra che si potrebbe identificare con Teodora [Weitzmann 816, p.
33, n. 27].
Ciò non stupisce: è noto quanto tenacemente si siano mantenute nel
contesto dell’arte imperiale alcune tradizioni romane. La legittimazione del potere attraverso l’arte imperiale è avvenuta con una continuità
che rende difficile percepire una cesura netta.
2. Un’arte imperiale.
L’arte imperiale, infatti, rimane una componente essenziale per questo periodo. Come ha dimostrato Zanker4 per le epoche anteriori, i cambiamenti stilistici spesso rispecchiano un nuovo modo di mettersi in scena da parte dei principi.
I ritratti imperiali del iv secolo continuano questa tradizione. I ritratti dei tetrarchi vogliono dare l’apparenza di una forza brutale, di cui
l’espressione più famosa è un busto conservato al Museo del Cairo.
Un’altra testa di Galerio, forse originaria di Tessalonica5, mostra come
possano essere impiegati mezzi stilistici differenti. I ritratti di Costantino e dei suoi primi successori sono ancora assai numerosi. In riferimento a essi si usa spesso, riprendendo il titolo di un famoso libro, la for-
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mula di «cosmic kingship», valorizzando così la continuità con la concezione del potere imperiale sviluppatasi durante il iii secolo, che fa dell’imperatore un personaggio fuori dal comune. I ritratti monumentali di
Costantino vanno in questo senso. Gli sguardi rivolti verso l’alto contribuiscono alla medesima impressione di assimilazione dell’imperatore
a una divinità. Costantino, su alcune monete, è addirittura rappresentato mentre sale al cielo su una quadriga. Peraltro, con il passar del tempo i tratti individuali tendono a sfumarsi, al punto che anche il confronto con le monete non permette sempre un’identificazione certa. È il caso anche del «colosso di Barletta», benché attualmente si ritenga che
rappresentasse Leone I6. Si tratta dell’unico esempio conservato quasi
integralmente e permette di immaginare l’impressione d’insieme fornita da una tipologia di statue la cui esistenza peraltro è ben documentata. Si possono accostare a questo bronzo monumentale i frammenti di
una statua in bronzo dorato scoperti in diverse zone del sito di Cariãin
Grad7, senza dimenticare, in un genere differente, la statua equestre di
Giustiniano I presso l’Augusteo di Costantinopoli, ancora attestata da
un disegno del xvii secolo [Grabar 774, p. 46]. In un altro genere, in cui
si prolunga la tradizione romana o si riprende una tradizione attestata
in maniera intermittente, occorre sottolineare il numero relativamente
alto di ritratti di imperatrici, o più genericamente di donne della casa
imperiale, espressione del potere concreto riconosciuto alle Augustae.
Le colonne trionfali costituiscono un altro segno di continuità con
l’arte imperiale romana. Che siano semplici colonne monumentali come
quella di Costantino, o decorate da bassorilievi disposti in modo da formare un fregio continuo che si sviluppa a spirale sul modello delle colonne di Traiano e Marco Aurelio, come quelle di Teodosio e di Arcadio, tali monumenti contraddistinguono i fori di Costantinopoli.
Pur restando nella scia di una tradizione secolare, le forme dell’arte
imperiale sono innervate da un significato differente che trascina l’immagine imperiale, in modo quasi impercettibile, verso una nuova sfera.
Non si tratta più di mostrare un imperatore divinizzato, che per così dire partecipa della divinità nella propria persona, ma un imperatore servitore di Dio che deriva la propria legittimità da tale sottomissione a
Dio. Tale concezione, verosimilmente, non si è imposta subito dopo Costantino. Come ha dimostrato C. Mango [502], il modo in cui, all’interno del mausoleo che si era fatto costruire e che è all’origine della chiesa dei Santi Apostoli, Costantino aveva fatto collocare il proprio sarcofago attorniato dai cenotafi degli apostoli indica una volontà di farsi
assimilare a Cristo piuttosto che il desiderio di farsi considerare come
un tredicesimo apostolo, secondo una lettura che s’imporrà rapidamen-
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te. Dovremo riparlare delle relazione tra il Cristo e l’imperatore, ma l’associazione tra immagine imperiale e immagine del Cristo, come si può
vedere nell’avorio Barberini del Louvre o nei mosaici di San Vitale a Ravenna, è destinata a divenire un elemento essenziale dell’iconografia imperiale.
L’arte imperiale comprende anche la commissione, l’uso e l’ostensione di oggetti di lusso, che tendiamo a qualificare troppo rapidamente
come profani, mentre invece la prossimità all’imperatore e la ricchezza
dei materiali utilizzati danno loro un valore sacro. Si pensi per esempio
al famoso missorium di Teodosio, senza dimenticare alcuni avori imperiali, talora eseguiti in occasione dei consolati ricoperti dagli imperatori. Tali prodotti fabbricati per i sovrani non erano sostanzialmente differenti da quelli destinati a un’élite sociale ed economica, non ancora
così concentrata a Costantinopoli quanto lo sarebbe stata nei periodi
successivi. Certo, i mosaici del Gran Palazzo di Costantinopoli, di cui
adesso si conosce la datazione intorno al 500, sono di una qualità eccezionale [ Jobst 778], ma un tale tipo di pavimento si ritrova in numerose dimore aristocratiche.
3. Un’arte per un’élite raffinata.
La maggior parte del periodo qui in esame è caratterizzata dalla permanenza, non solo a Costantinopoli ma anche nelle città provinciali, di
una élite sociale benestante, la quale deriva una parte della sua legittimità dalla cultura e sa come metterla in mostra tramite i monumenti che
finanzia.
In questi ambienti si trova una pratica della commissione d’arte che,
nella sua essenza, non è fondamentalmente differente da quella che è
dovuta all’iniziativa degli imperatori. Non ci si trova ancora di fronte
alla situazione della Corte bizantina in epoche più tarde, quando i «potenti» imiteranno le pratiche imperiali; al contrario, in questo caso sono gli imperatori che, al loro livello e con mezzi considerevoli, perpetuano i costumi del gruppo sociale cui appartengono. Tali costumi derivano dalla tradizione dell’evergetismo, ben nota a chi studia la città
greco-romana, in particolare della tarda Antichità. Tuttavia l’oggetto di
tali pratiche evergetiche cambia ed esse saranno sempre più monopolizzate dalla Chiesa a danno dei tradizionali monumenti pubblici.
Inseparabile da tale evergetismo è l’ostentazione della ricchezza e
della cultura, che si manifesta nel lusso delle case, cui si è già accennato. Gli scavi austriaci a Efeso hanno permesso di conoscere la decora-
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zione di case che sono in effetti costituite da veri e propri appartamenti e la cui decorazione ad affresco è eccezionalmente ben conservata. Tali pitture coprono un intervallo cronologico che va dal i al vi secolo, senza che ci sia una vera cesura nel repertorio. I temi mitologici, in particolare varie rappresentazioni delle Muse, restano importanti per tutto
il corso di questa evoluzione.
I mosaici pavimentali sono più conosciuti e meglio conservati degli
affreschi. Ritroviamo ancora una volta temi tradizionali del mondo antico, come la caccia, per esempio il celebre mosaico di Apamea conservato a Bruxelles, oppure le rappresentazioni dei mesi e di un altro tipo
di scena di caccia, ad Argo nella villa del «falconiere» (inizio del vi secolo), oppure scene propriamente mitologiche come mostrano numerosi pavimenti in Siria, per esempio una serie di mosaici della prima metà
del iv secolo provenienti da un’abitazione di Filippopoli [Balty 933 e
750]. Non bisogna del resto dimenticare che il iv secolo è anche quello
di Giuliano: un altro complesso importante, scoperto in un edificio trovato sotto la cattedrale di Apamea, è attribuito non solo al suo regno,
ma addirittura al suo intervento personale. Comunque sia, appartiene a
un ambiente colto, che aveva familiarità con le interpretazioni filosofiche delle figure mitologiche. D’altro canto, è vero che i soggetti mitologici diventano più rari nei mosaici nel corso del v secolo e sono sostituiti da scene di caccia o di combattimento tra animali. Tali temi talora arricchiscono l’iconografia dei dittici consolari in avorio, eseguiti in
occasione dell’entrata in carica dei consoli all’inizio dell’anno.
Tuttavia, il legame con la tradizione antica resterà attivo su altri supporti. Si stabilisce così una effettiva continuità grazie alla quale, nonostante l’influsso sempre più forte del cristianesimo sull’immaginario, la
tradizione dei temi e anche delle forme antiche non sarà mai completamente interrotta nel mondo bizantino. In particolare, la continuità dei
temi mitologici può essere seguita sul vasellame d’argento. Naturalmente, il confronto tra un piatto d’argento del tesoro di Mildenhall, che rappresenta un satiro e una menade, e un piatto dall’iconografia assai simile, conservato al Museo dell’Hermitage, mostra che tra la metà del iv e
l’inizio del vii secolo le forme si erano allontanate dallo stile classico
[Kitzinger 780]. Ma al contrario, se si paragona quest’ultimo piatto con
i contemporanei mosaici di San Demetrio a Tessalonica, la sua prossimità con l’Antichità diviene sorprendente. Si capisce che lo stile è dovuto a una scelta legata alla funzione e alla destinazione dell’opera e che
quello utilizzato per i mosaici non è una semplice conseguenza dell’allontanamento dall’Antichità e di una perdita di abilità tecniche.
La cultura delle élites è attestata anche dall’interesse per l’edizione
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di testi antichi. Si sa che a partire dal i secolo la pergamena e il libro cominciano a sostituire il rotolo di papiro8. Ci sono giunte alcune rarissime edizioni illustrate di testi antichi, perlopiù in forma di frammenti, a
fianco delle più antiche Bibbie, o parti di Bibbie, illustrate. Per quanto
in questa sede non sia il caso di dilungarsi sul Virgilio del Vaticano (ms.
lat. 3225), evidentemente prodotto nel mondo latino, occorre menzionare l’Iliade ambrosiana, assai frammentaria, che si può datare intorno
al 500 e che proviene, se non dalla stessa Costantinopoli, almeno dal
Mediterraneo orientale. Un altro manoscritto di lusso mostra la continuità, a fianco della cultura nel senso tradizionale del termine, della cultura scientifica: si tratta del Dioscoride di Vienna (ms. med. gr. 1), che,
com’è stato recentemente dimostrato, era stato offerto ad Anicia Giuliana, e non commissionato da quest’ultima9.
ii. il cristianesimo nell’arte.
Dilungarsi in questa sede sullo sviluppo dell’arte cristiana nel iv secolo è paradossalmente difficile, dal momento che la maggior parte dei
monumenti conservati, almeno per quanto concerne pittura e scultura,
si trova nel mondo occidentale e in particolare a Roma. Tale predominio «occidentale» nei monumenti conservati non deve indurre a false
conclusioni e dev’essere perlopiù attribuito ai casi della successiva storia delle due parti dell’Impero. In Oriente non mancano però notevoli
vestigia precostantiniane, comprese quelle di Dura-Europos, dov’è stato rinvenuto il più antico edificio cristiano con decorazione pittorica.
Innanzitutto sono necessari alcuni cenni preliminari, per evitare equivoci riguardo a questo secolo. Nel iv secolo, e in particolare nell’epoca
costantiniana, il cristianesimo non si era ancora stabilizzato né nel suo
contenuto, né nei suoi modi espressivi. Ne risulta che talora è difficile
interpretare alcune delle sue manifestazioni, che ci sembrano strane perché derivano da un modo di pensare il cristianesimo secondo alcuni schemi che la Chiesa, in seguito, cercherà di eliminare. Un mutamento essenziale giungerà a compimento verso la fine del iv secolo. Il miglior
esempio è dato dalla recente lettura, a opera di C. Mango, del mausoleo costruito da Costantino per se stesso e che è all’origine della chiesa
dei Santi Apostoli. Se ne è già discusso in precedenza [pp. 199, 301-2].
L’attitudine dell’imperatore, che ha cercato di farsi assimilare al proprio
dio, il Cristo in questo caso, è stata rapidamente reinterpretata, a par-
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tire da Eusebio, in modo da far credere che Costantino volesse solamente essere un tredicesimo apostolo.
Nonostante lo scarso numero di resti, tutto induce a credere che,
malgrado alcune differenze stilistiche, il repertorio orientale non dovesse essere fondamentalmente differente da quello attestato in Occidente. Ciò è suggerito da un gruppo di statuette in marmo di squisita fattura, originarie dell’Asia Minore e oggi al Museo di Cleveland, probabilmente del terzo quarto del iii secolo e dunque precostantiniane.
Quattro di esse mostrano episodi della vita di Giona, sei sono ritratti e
l’ultima rappresenta il Buon Pastore. Qualunque sia stata l’utilizzazione precisa di questo gruppo di immagini, viene comunque da ipotizzare, se si pensa all’utilizzazione del tema di Giona nelle catacombe e sui
sarcofagi, che anche in Oriente l’arte cristiana si sia inizialmente sviluppata come arte funeraria. I sarcofagi cristiani, è vero, vi sono poco attestati e non sembrano molto anteriori al 400. Si vedrà più avanti che,
per quanto concerne le decorazioni delle chiese, le nostre conoscenze sono ancora minori, ma è vero che, in questo caso, gli esempi romani non
permettono di risalire, per grandi decorazioni figurate, a date anteriori
all’ultimo terzo del iv secolo.
L’epoca di Costantino è stata decisiva per l’architettura cristiana:
sotto il suo impulso, a Roma come in un certo numero di città orientali – gli esempi meglio conosciuti sono quelli di Antiochia e soprattutto
Gerusalemme – le sue scelte sono state determinanti per l’ulteriore evoluzione dell’edificio di culto cristiano. È inutile passare nuovamente in
rassegna in questa sede le ragioni che gli hanno fatto scegliere la basilica per i grandi luoghi di culto [Brandenburg 754], a cominciare dalla
chiesa episcopale di Roma, che diventerà San Giovanni in Laterano.
Praticamente contemporanea è la basilica costruita a Tiro, di cui Eusebio ci ha dato la descrizione. Tale pianta permette di rispondere a un
certo numero di esigenze della liturgia cristiana, ma il fasto e la magnificenza che le sono facilmente associati, e che lo saranno ancora di più
grazie all’intervento imperiale, diverranno ormai inseparabili dalla grande architettura cristiana, benché alcuni testi patristici, in particolare lettere di san Gerolamo, avanzino riserve su questo lusso. Costantino e i
suoi architetti sono all’origine anche dell’altro tipo di pianta utilizzata
per le chiese, ossia la pianta centrale. Il più antico esempio conosciuto,
ancora una volta tramite Eusebio, è l’Ottagono di Antiochia. Se la basilica cristiana è, per certi aspetti – essenzialmente a causa della polarizzazione provocata dal santuario e dall’abside –, più differente dalla basilica civile di quanto non si voglia ammettere, le soluzioni adottate non
modificano molto le sue strutture da un punto di vista tecnico; al con-
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trario, nell’Ottagono, lo spazio centrale è circondato da spazi laterali
che potevano già formare una sorta di deambulatorio. In ogni caso, si
tratta della soluzione adottata per la rotonda del Santo Sepolcro, dove
lo spazio centrale è delimitato da colonne e circondato da una galleria.
Se l’insieme di basilica e rotonda a Gerusalemme, attribuibile per
entrambe le componenti a Costantino10, sembra corrispondere in apparenza alla coppia formata da una chiesa per la sinassi e da un martyrion
nelle forme per lungo tempo considerate abituali, l’esempio dell’Ottagono di Antiochia, che era la cattedrale cittadina, mostra chiaramente
che la pianta non era legata alla funzione (come indica anche, di converso, San Pietro a Roma, che è senz’altro un martyrion pur essendo costruito su pianta basilicale). Non è esagerato affermare che tutta l’ulteriore architettura religiosa è destinata a svilupparsi su queste due tipologie.
1.
Lo sviluppo dell’architettura cristiana.
1.1. B a s i l i c a e p i a n t a c e n t r a l e .
Senza dubbio è difficile parlare di un vero sviluppo della basilica dal
punto di vista formale, in quanto le basiliche costantiniane presentano
già le caratteristiche essenziali delle basiliche dei secoli successivi. Per
definirle sommariamente, si potrebbe dire che la loro architettura è definita da una progressione che, dall’esterno all’interno, dal più al meno
accessibile, va anche dal profano al sacro. Senza entrare adesso nel merito delle varianti regionali, si può dire che s’impone una sorta di tipologia generale.
Il contatto con la città, via o piazza, avviene tramite un cortile, spazio ancora quasi profano – l’atrio – circondato da portici, talora con l’intermediazione di propilei. Il nartece, spazio chiuso trasversale, che in
generale occupava il posto del quarto portico, era accessibile ai catecumeni, che non potevano oltrepassarlo. Comunicava ampiamente con le
navate, in genere tre o cinque. Non è inutile notare come nei testi contemporanei che ci descrivono le basiliche, che si tratti di Eusebio o, nel
vi secolo, di Coricio di Gaza, le navate laterali fossero designate come
portici. Non si tratta di una semplice questione lessicale, ma di una differente percezione dello spazio architettonico, come se le navate laterali fossero percepite alla stregua di spazi indipendenti che fiancheggiavano uno spazio di natura differente. Ciò, forse, può essere in relazione
col fatto che, in alcune regioni, la navata centrale era riservata al clero,
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mentre i fedeli rimanevano nelle navate laterali. In ogni caso, la navata
centrale era lo spazio attraverso il quale il clero si dirigeva in processione – di grande importanza nel rituale di epoca paleocristiana – verso il
santuario, segnalato dalla presenza dell’abside, inondato di luce grazie
alle grandi finestre che vi erano aperte. Il santuario conteneva l’altare,
intorno al quale erano organizzate le celebrazioni liturgiche, separato
dalla navata per mezzo di un pluteo, che diviene rapidamente un pluteo
a colonnine le cui aperture potevano essere chiuse da tende. La variante più importante consisteva nella presenza o nell’assenza di un transetto, spazio trasversale che s’interponeva tra le navate e l’abside. La sua
funzione non è sempre chiara, ma senza dubbio serviva essenzialmente
ad aumentare lo spazio disponibile per il santuario.
La progressione architettonica dall’atrio all’abside, che dunque era
anche una progressione verso il sacro, era inoltre sottolineata dalla decorazione [cfr. infra]. L’edificio basilicale, per la propria struttura, permetteva di inscenarla facilmente. Tuttavia, anche l’edificio a pianta centrale poteva essere strutturato in modo da evidenziare un’organizzazione analoga e si è potuto dire che quest’ultima tipologia era l’invenzione
più originale degli architetti di Costantino [Brandenburg 754]. In effetti, le chiese a pianta centrale perfettamente simmetriche sono rare: è il
caso di Santo Stefano Rotondo a Roma. La maggior parte di esse sono
invece munite a est di un santuario ampiamente sporgente, che termina
in un’abside e ha un aspetto assolutamente analogo a quello del santuario di una basilica. Il ruolo delle navate laterali è svolto dal deambulatorio, separato dallo spazio centrale per mezzo delle colonne e dei pilastri che sorreggono la cupola.
Il successo di questo tipo di pianta è considerevole. Il più antico esempio conservato è sicuramente San Lorenzo di Milano; la trasformazione subita dalla Rotonda di Tessalonica, senza dubbio intorno al 520,
quando il mausoleo di Galerio fu trasformato in chiesa, la rese un analogo edificio dotato di deambulatorio. Tuttavia, gli esempi più numerosi, per giunta costituiti da monumenti di grande importanza, si trovavano in Siria: la cattedrale di Apamea, quella di Seleucia di Pieria, la
chiesa dei Santi Sergio, Bacco e Leonzio a lungo considerata come la
cattedrale di Bostra, la «nuova» cattedrale di Bostra, forse quella di Resafa-Sergiopoli, per non citare che i più spettacolari testimoni della prosperità di questa provincia. Tali esempi dimostrano ancora una volta che
le chiese a pianta centrale non sono necessariamente martyria.
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1.2. C h i e s e , m a r t y r i a e p e l l e g r i n a g g i .
La nozione di martyrion necessita di un chiarimento. Il culto dei martiri traeva la propria origine dagli onori resi ai morti in un periodo, il iv
secolo, in cui le pratiche funerarie, che hanno un’eco nello sviluppo dell’arte funeraria cui si è fatta allusione in precedenza, sono ancora essenziali per radunare i cristiani. La Chiesa ha cercato di regolamentare tali manifestazioni, che spesso assumevano forme poco compatibili con
l’austerità da essa rivendicata e che potevano rivolgersi a persone la cui
ortodossia non era da essa riconosciuta. Ancora una volta, questi eventi possono essere ricostruiti in maniera più agevole per l’Occidente, dove papa Damaso ha un ruolo fondamentale. Tuttavia è a Milano verso
la fine del iv secolo, su impulso di Ambrogio, che compare la volontà di
riunire il corpo del martire e l’altare, e di associare conseguentemente il
culto del martire e la sinassi eucaristica: ciò fa venire meno la distinzione tra i due tipi di edificio. In Oriente si profila la medesima tendenza,
ma assume una forma differente: se infatti la volontà di santificare l’altare tramite la presenza di reliquie finisce per generalizzarsi analogamente all’Occidente, perlopiù sono reliquie assai frammentarie quelle
che vengono poste in una fossa di piccole dimensioni, praticamente inaccessibile, collocata sotto l’altare. San Demetrio di Tessalonica o San Giovanni di Studio a Costantinopoli ne sono due classici esempi. In Siria
sono ben attestate differenti sistemazioni, di forma variabile, ma sempre corrispondenti al medesimo bisogno. A fianco di tale pratica, il culto dei corpi santi, accessibili all’adorazione dei fedeli, si sviluppa in forme diverse, ma che non sono in relazione con l’altare. Il possesso di un
corpo santo è una questione importante per le chiese, in quanto può attirare pellegrini e dunque la prosperità. Il caso di San Demetrio di Tessalonica è ancora una volta illuminante: non potendo rivendicare il possesso del corpo del santo, il culto, ignorando completamente la reliquia
collocata sotto l’altare, si concentra su un ciborio posto nella navata centrale, dove il santo, a quanto si diceva, soggiornava di tanto in tanto.
Simili situazioni sono tanto più importanti per una Chiesa che, nel mondo romano orientale, non svilupperà un sistema ordinato di chiese parrocchiali: a fianco delle chiese episcopali, le chiese sono invece fondate
senza concertazione da fondatori privati in condizioni che rendono i loro mezzi di sussistenza spesso aleatori. Benché talora si utilizzi l’espressione di martyrion per le chiese che vantano il possesso di un rinomato
corpo santo, è più illuminante riconnetterla alla nozione di pellegrinaggio. Il luogo di culto strutturato per il pellegrinaggio che, se non il più
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perfetto, è comunque il meglio conservato, si è creato intorno alla colonna su cui san Simeone Stilita ha trascorso gran parte della propria vita, con quattro basiliche disposte in croce intorno alla colonna (Qal’at
Siman) e il villaggio di Deir Siman, luogo di ospitalità per i pellegrini
che si è sviluppato nei suoi paraggi.
1.3. S a n t a S o f i a e l o s v i l u p p o d e l l a c u p o l a .
È facile comprendere il successo della cupola. Anche senza parlare
del valore simbolico che era facile prestarle e a cui, come mostrano i testi, i contemporanei erano sensibili11, la percezione del volume generato da una cupola di grandi dimensioni è un’esperienza estetica che non
ha colpito solo i fedeli di quei secoli, ma che anche noi siamo sempre in
grado di percepire. Basiliche e edifici a pianta centrale coesistono un po’
dappertutto, benché si abbia l’impressione che le prime siano state più
numerose in Grecia, mentre gli edifici a pianta centrale sembrano particolarmente sviluppati in Siria. Certo, questi ultimi sono indubbiamente più dispendiosi da costruire, ma ci sono alcune basiliche (si vedano
per esempio San Demetrio di Tessalonica o San Leonida di Lecheo) per
le quali l’impegno della decorazione, in particolare l’utilizzo di marmi,
spesso importati dal Proconneso soprattutto per i colonnati e i capitelli, di origini varie e policromi per i rivestimenti murari, è tale da non
permettere di affermare che la scelta della basilica fosse dovuta a ragioni economiche. Queste basiliche di grande qualità, a differenza di edifici più modesti, hanno avuto bisogno dei servigi di un direttore dei lavori competente, per non usare il termine architetto, che sapesse basarsi su un progetto teorico, mentre edifici più modesti devono essere stati
costruiti ricorrendo a modelli standardizzati. A maggior ragione, gli edifici a pianta centrale necessitavano dell’intervento di artefici competenti e dotati di un solido sapere teorico.
Dopo la messa a punto, se non l’invenzione, della pianta centrale con
deambulatorio, l’innovazione più importante e più gravida di conseguenze fu quella di adattare la cupola alla basilica, o piuttosto la basilica alla
cupola. Il problema tecnico era duplice: occorreva saper assicurare la transizione tra il quadrato su cui doveva poggiare la cupola e il cerchio che
ne costituiva la base; poi occorreva capire come sarebbe stato possibile,
in un edificio longitudinale come la basilica, sorreggere la cupola in maniera uguale da tutti i lati. La soluzione dei pennacchi per passare dal
quadrato al cerchio era nota ai Romani, tuttavia non è mai stata, a quanto pare, utilizzata su grande scala, ma solo in alcuni piccoli mausolei. È
possibile, ma i pareri sono discordanti, che il primo tentativo in tal sen-
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so sia stato San Polieutto a Costantinopoli, costruito nel 524-27 su iniziativa di Anicia Giuliana. Quest’edificio, di cui si conservano solo le
fondamenta, è comunque di estrema importanza, perché la sua decorazione architettonica scultorea indica un profondo rinnovamento del vocabolario decorativo grazie all’adozione di forme sassanidi.
Tuttavia, è Santa Sofia che per i posteri costituisce il simbolo di tale rinnovamento architettonico: l’audacia dei due architetti, Antemio
di Tralle e Isidoro di Mileto, ha persino compromesso la solidità dell’edificio. Santa Sofia resta un edificio eccezionale che, in effetti, non ebbe successori diretti. La formula della basilica a cupola propriamente
detta, con una cupola centrale sorretta da quattro volte a botte, verrà
elaborata solo successivamente, prima dell’iconoclasmo, ma in una data difficile da determinare, benché si sia cercato di dimostrare che Santa Sofia di Tessalonica, che corrisponde a questa tipologia, sia stata costruita con questo impianto verso la fine del vi secolo. L’architettura bizantina posteriore dipenderà perlopiù da questo modello di base.
2. La decorazione delle chiese.
Anche i primi sviluppi della decorazione delle chiese non sono chiaramente attestati nella parte orientale dell’Impero romano, nella quale
si conservano pochi monumenti del iv secolo. Occorre dunque fare rapidamente il punto su quanto è possibile apprendere dall’Occidente romano, benché, prima dell’ultimo terzo del iv secolo, le domande siano
più numerose delle certezze. Allo stato attuale delle conoscenze, i seguenti elementi sembrano certi: le decorazioni monumentali, con scene
e personaggi, non sembrano attestate prima di questa data, la più alta a
risultare verosimile per gli affreschi della navata di San Pietro a Roma
(e senza dubbio per il mosaico dell’abside, qualunque ne sia stato il soggetto); la decorazione della navata principale e dell’abside di San Paolo
Fuori le Mura risale all’incirca al 400; il mosaico dell’abside di Santa
Pudenziana è dei primi anni del v secolo (forse tra il 410 e il 417), quelli della navata di Santa Maria Maggiore sono contemporanei alla sua fondazione (432-40).
Pochissime fonti permettono di istituire un paragone con le decorazioni della pars Orientis per il medesimo periodo. I testi parlano assai
spesso di immagini isolate, come il sacrificio di Isacco e ritratti di santi; più raramente, di cicli narrativi: Asterio di Amasea descrive nel 400
le immagini che raccontano il martirio di santa Eufemia. Tuttavia, non
c’è alcuna testimonianza per grandi cicli che prendano inizio dalla Crea-
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zione e neppure che illustrino la vita di Cristo. Questa non è una ragione per pensare che non siano esistiti. La testimonianza di Epifanio di
Salamina, che domanda all’imperatore Teodosio di far bruciare le tende su cui sono rappresentati il Cristo, i profeti e gli apostoli, di far sparire gli affreschi e, se possibile, i mosaici, non ci informa con precisione sulle immagini esistenti. Comunque, tali immagini esistevano e in
Oriente come in Occidente l’iconografia dei personaggi sacri non è ancora completamente fissata, dal momento che Epifanio argomenta la
propria ostilità verso le immagini facendo riferimento alle differenze tra
le diverse rappresentazioni di una stessa persona.
2.1. L e i m m a g i n i a b s i d a l i 12.
Solamente per il vi secolo siamo meglio informati grazie a qualche
raro testo e a monumenti sopravvissuti. Non bisogna farsi depistare dall’assenza di immagini nella Santa Sofia di Giustiniano. L’immensità dello spazio e la distanza alla quale sarebbero state collocate immagini mal
distinguibili (come è possibile comprendere dal fatto che la Vergine, raffigurata nell’abside nel ix secolo, resta poco visibile dalla navata nonostante le sue dimensioni) bastano a spiegare questa scelta. Come in Occidente, l’immagine più importante è quella che decora l’abside principale dov’è celebrata la liturgia. Fino alla metà del vi secolo, vi campeggia come figura principale l’immagine di Cristo. I più celebri esempi conservati sono quelli del monastero di Cristo Latomo, oggi chiamato più
frequentemente Hosios David, a Tessalonica, e di San Vitale a Ravenna. Queste due immagini sono pressappoco contemporanee. Dal momento che in un’abside romana anch’essa quasi contemporanea, quella
dei Santi Cosma e Damiano, il Cristo occupa ugualmente un ruolo preminente, non è fuori luogo ritenere che queste immagini perpetuino la
tradizione di cui Santa Pudenziana è il nostro primo esempio. Tra Oriente e Occidente, dunque, non c’era una fondamentale opposizione per
tali immagini absidali. Si possono facilmente analizzare nei medesimi
termini: non tentano di rappresentare il Cristo storico, incarnato, ma
sono concepite come visioni di Dio, come forme nelle quali Dio può mostrarsi, come aveva già fatto per alcuni profeti dell’Antico Testamento;
devono così suggerire che la liturgia si svolge in presenza di Dio. L’apparizione di questa immagine verso la fine del iv secolo va messa in relazione col trionfo dell’ortodossia nicena sull’arianesimo nel contesto
dell’Impero.
Tuttavia, a metà del v secolo questa formula, come se non sembrasse più soddisfacente, tende a essere sostituita da nuove immagini. Nel-
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la basilica dedicata dal vescovo Eufrasio a Poreã (Parenzo), pressappoco contemporaneamente a San Vitale, la decorazione absidale è parallela a quella di Ravenna, ma la figura centrale del Cristo è sostituita da
quella della Vergine col Bambino. Un’immagine analoga si trovava nell’abside di San Sergio di Gaza, un po’ più antica (senza dubbio del 536),
nota solamente tramite la descrizione di Coricio di Gaza. Questa iconografia preannuncia l’immagine che, nei secoli posteriori, è destinata a
divenire la più frequente nelle absidi bizantine. Qualche tempo dopo, a
Sant’Apollinare in Classe di Ravenna e contemporaneamente nella chiesa principale del monastero di Santa Caterina del Sinai, fondata da Giustiniano, questo posto è occupato da immagini della Trasfigurazione.
Tale scelta comporta una maggiore distanza tra lo spettatore e l’immagine: nella formula tradizionale, l’immagine in un certo modo aveva la
funzione di teofania e mostrava Dio presente, mentre invece nella Trasfigurazione la teofania è mostrata attraverso il riferimento a una scena
«storica». Questa distanza è ancora più grande a Sant’Apollinare, giacché la stessa scena della Trasfigurazione è evocata solo in maniera prettamente simbolica.
L’uso del Cristo come immagine di Dio, tuttavia, non sarà abbandonata nel mondo bizantino: è alla base dell’immagine del Pantocrator che,
dopo l’iconoclasmo, occuperà le cupole bizantine. Le immagini di Cristo nelle absidi di Bauit, adesso datate al vii secolo, hanno il medesimo
significato.
I rari esempi conservati non permettono affermazioni generali sulle
altre immagini presenti nel santuario. A San Vitale di Ravenna, benché
quest’interpretazione non sia unanimemente accettata, la scelta delle
scene rappresentata intorno all’altare di San Vitale ha legami profondi
con la liturgia, alla quale non è difficile dimostrare che queste immagini fanno allusione.
2.2. I m m a g i n i d e l l e c u p o l e e p r o g r a m m i n a r r a t i v i .
Si conosce ancor meno il programma delle navate o, più in generale, degli spazi situati al di fuori del santuario, giacché questa osservazione riguarda tanto le chiese a pianta centrale quanto le basiliche. Tra
le prime l’unica decorazione, a mosaico, parzialmente conservata è quella della Rotonda, adesso chiamata San Giorgio, di Tessalonica. La sua
datazione è ancora discussa: questi mosaici potrebbero essere di poco
posteriori al 520, ma alcuni autori preferiscono pronunciarsi per il terzo quarto del v secolo. Un Cristo in piedi che regge una croce, rappresentato in un medaglione sorretto da angeli, occupava il culmine della
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cupola. Era circondato da una serie di personaggi di cui si conservano
solo i piedi; infine, nella parte bassa della cupola si trova il celebre fregio dei santi davanti a un fondale di architetture. In genere si ritiene
che vi sia rappresentata la Seconda Venuta di Cristo13. Tuttavia, non
possono essere addotti paralleli che permettano di trarre conclusioni
più generali da quest’unico esempio, tanto più che, all’inverso, la decorazione contemporanea dell’abside è ignota, poiché l’Ascensione, i
cui resti sono ancora visibili nella conca, risale al ix secolo. Nella cupola di San Vitale a Ravenna non è conservata alcuna traccia di decorazione ed è poco plausibile che nel vi secolo vi fossero stati mosaici o affreschi; al massimo si può ipotizzare una decorazione non figurativa a
stucco. La descrizione di Coricio di San Sergio di Gaza non menziona
del resto alcuna figurazione nella cupola (che peraltro, a quanto si può
arguire dalla sua descrizione, non era necessariamente in muratura, ma
poteva essere stata di legno). Dunque è senz’altro l’immagine absidale
a costituire in genere l’immagine più importante, qualunque fosse stata la copertura della chiesa.
Coricio è la nostra unica fonte anche per le scene rappresentate nelle navate: ci descrive una lunga serie di episodi della vita di Cristo, compresi alcuni miracoli. Tale ciclo non va dunque considerato il precursore immediato dei cicli mediobizantini [cfr. inoltre infra]. Coricio tuttavia precisa di non descrivere tutte le scene rappresentate e non fornisce
indicazioni sulla disposizione di tali immagini nella chiesa. Non conosciamo l’organizzazione di questo ciclo in rapporto allo spazio dell’edificio: nelle chiese romane della fine del iv e del v secolo le immagini si
leggevano da ambo le parti della navata a partire dal santuario, mentre
nelle chiese bizantine posteriori all’iconoclasmo le immagini giravano
attorno alla chiesa14. Il primo sistema è ancora utilizzato a Sant’Apollinare Nuovo, nel primo quarto del vi secolo, per i miracoli e per le scene della Passione di Cristo. Tuttavia questi cicli, eseguiti ancora durante il regno dell’ariano Teodorico, sono di per sé talmente isolati e la loro origine è talmente controversa che non possono contribuire più di
tanto all’avanzamento della discussione. È certamente opportuno ritenere che, ancora nel vi secolo, se si eccettua qualche principio fondamentale che doveva essere rispettato, i committenti avessero una grande libertà nella scelta e nella disposizione della decorazione figurativa.
2.3. I m o s a i c i p a v i m e n t a l i .
In maniera tutto sommato comprensibile, i pavimenti a mosaico possono raramente essere associati alle decorazioni a mosaico delle navate
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e delle volte: sono sopravvissuti tanto meglio quanto più era breve la vita degli edifici in cui erano collocati. Ciò forse ha permesso a numerosi
pavimenti di edifici sacri di essere ritrovati in Grecia e in Siria, regioni
dove numerose chiese sono state abbandonate nel vii e nell’viii secolo.
I mosaici erano meno costosi dei pavimenti di belle lastre di marmo o
di quelli fatti con decorazioni di opus sectile, ma erano comunque assai
diffusamente utilizzati in monumenti che anche per il loro decoro architettonico testimoniano dell’agiatezza dei committenti. Spesso sono associati ad altre tecniche: la ripartizione nella chiesa corrisponde alla gerarchia degli spazi e i pavimenti più costosi si trovano nei santuari.
Questi cicli sopravvissuti permettono, più che per i mosaici parietali, meno numerosi, alcune osservazioni sul metodo di lavoro15, nonché
sull’esistenza di laboratori che sono stati in particolare individuati a Gaza. Gli stessi mosaicisti lavorano indifferentemente per chiese e sinagoghe; alcune iscrizioni ci forniscono i nomi dei mosaicisti; tali firme sono più frequenti di quanto non saranno in seguito nell’Impero bizantino. La maggior parte delle iscrizioni parla dei donatori, come accadrà
frequentemente nel prosieguo della storia dell’arte bizantina. Si tratta
perlopiù dei donatori dei pavimenti o di parti del pavimento, a dimostrazione innanzitutto del carattere relativamente secondario di tale decorazione: le iscrizioni di fondazione propriamente dette erano poste in
luoghi più in vista [cfr., per l’Italia, Caillet 757]. Questi pavimenti finanziati da più persone rappresentano donazioni meno onerose e mostrano che le pratiche evergetiche divenivano accessibili a un maggior
numero di persone [Cutler 762].
Senza cercare di ripercorrere in questa sede i dettagli di un’evoluzione cronologica che non procede necessariamente di pari passo in tutte
le regioni, occorre tuttavia richiamare l’attenzione su un progressivo arricchimento del repertorio, dalle decorazioni geometriche a un copioso
assortimento zoomorfo che va per la maggiore nel vi secolo. I soggetti
propriamente religiosi sono estremamente rari: la più notevole eccezione conosciuta è il mosaico che rappresenta Adamo a Huarte16. Questa
riluttanza è dovuta alla volontà di non veder calpestate immagini dal
contenuto esplicitamente sacro. Viene messa in relazione con un editto
di Teodosio II tramandato dal Codice giustinianeo (1.8.1), che a dire il
vero proibisce solo la rappresentazione sul suolo delle croci, ma è facile
capire come, pur senza una costrizione legale, abbia potuto diffondersi
una proibizione di fatto.
Le immagini figurate sui pavimenti, tuttavia, non avevano necessariamente solo una funzione ornamentale. H. Maguire [791] ha mostrato la prudenza con cui occorre interpretarle: talora dicono esplicitamen-
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te cosa rappresentano, talaltra hanno un evidente significato simbolico.
Resta il fatto che spesso, davanti a ciascun singolo pavimento, il commentatore moderno rimane perplesso sulla sua interpretazione. Tuttavia il contemporaneo, che camminava su questi mosaici quando si recava ad assistere a una liturgia, senza dubbio non era meglio informato e
sperimentava la medesima difficoltà, se mai si poneva la questione. Comunque fosse, questi mosaici concorrevano allo splendore dell’insieme
e perciò contribuivano a elevare l’anima verso Dio, secondo il principio
dell’anagogia espresso nelle opere attribuite a Dionigi l’Areopagita.
3. Le arti suntuarie.
Una parte delle osservazioni fatte sui mosaici pavimentali si applica
senza difficoltà anche agli oggetti e alle decorazioni in metallo prezioso
utilizzati nelle chiese. Il loro impiego era giustificato dal valore simbolico connesso a tali materiali, al punto che anche uomini di chiesa dalla
reputazione ascetica, come il patriarca Severo di Antiochia, giustificavano il loro impiego. Come per i mosaici, i doni potevano essere di valore assai variabile, al punto che il merito della donazione è accessibile
a un ampio ventaglio sociale, tanto più che varie persone potevano associarsi per uno stesso oggetto. Tuttavia, è con evidente voluta esagerazione che lo stesso Severo di Antiochia affermava in un sermone che
il più povero di coloro ai quali si rivolgeva era comunque in grado di donare una libbra d’argento alla chiesa17. Tali oggetti non erano solo quelli che servivano all’eucaristia propriamente detta, come calice, patena,
asterisco (un esemplare è conservato nel tesoro di Sion) [Boyd 753, fig.
7.1], rhipidia (ventagli) – un paio dei quali, decorato di cherubini e serafini, è conservato [Mundell Mango 798] –, ma anche croci, incensieri, lampade (queste ultime categorie esistevano anche in bronzo). Gli oggetti così offerti erano destinati sia a un uso effettivo, sia a essere conservati nelle chiese come «tesori», che potevano essere alienati solo in
circostanze eccezionali.
I numerosi ritrovamenti di oggetti liturgici in argento permettono,
se li si confronta con le informazioni fornite dai testi letterari e da qualche raro testo documentario, di farsi un’idea del valore delle donazioni
e delle gerarchie sociali ed economiche da esse implicate. M. Mundell
Mango ha riunito la documentazione essenziale18. Dal iv al vii secolo,
dal momento che il rapporto tra l’oro e l’argento era restato stabile, la
studiosa ha potuto determinare il valore degli oggetti di cui si conosceva il peso. Questi pesi, e dunque i valori corrispondenti, sono assai va-
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riabili. Numerosi oggetti liturgici pesano esattamente 1 libbra. Il loro
valore di circa quattro solidi corrisponde a quello di un pannello di mosaico pavimentale. Una patena poteva peraltro pesare fino a 20 libbre,
ossia corrispondere a un dono da 80 solidi, un costo che risulta altrove
attestato per le riparazioni di un’intera chiesa.
Alcuni donatori o gruppi di donatori forniscono numerosi oggetti, se
non addirittura la totalità delle suppellettili liturgiche di una stessa chiesa. Alcune scoperte archeologiche hanno permesso di ritrovare complessi di oggetti provenienti da una medesima chiesa. Si è cercato di ricostruire con argomenti solidi, ma che non sono stati unanimemente accettati [Mundell Mango 798], il tesoro della chiesa del villaggio di Koper
Karaon a partire da gruppi di oggetti oggi dispersi (la dispersione è forse posteriore alla scoperta del tesoro). L’altra collezione che occorre assolutamente citare, notevole per la qualità del lavoro, in particolare per
delle costose lampade traforate, è il tesoro di Sion [Boyd 753].
Le donazioni più importanti, e di conseguenza gli oggetti più spettacolari, sono state fatte dai sovrani. Sono conosciute soprattutto dai
testi, talora da immagini (è il caso della patena e del calice tenuti da Giustiniano e Teodora nei mosaici di San Vitale a Ravenna). Sono già attestate per Costantino nel Liber Pontificalis; in maniera meno ovvia, Cosroe II fa un’importante donazione di oggetti liturgici alla chiesa di Resafa nel 592. I sovrani non si accontentano di oggetti d’argento, ma ne
offrono anche d’oro. Non sembra che, per quanto riguarda questo periodo antico, tali oggetti d’oro siano stati conservati.
Solo una parte di queste suppellettili liturgiche è decorata, senza che
i personaggi rappresentati, per esempio la Comunione degli Apostoli sulle due patene dette di Riha e Stuma, siano necessariamente di qualità
elevata. Ciò deve rammentarci che la maggior parte di quello che è stato ritrovato apparteneva a chiese di villaggio, cosa che certo aveva ripercussioni sulla loro qualità.
L’argento era ancora utilizzato in grande quantità come rivestimento architettonico. Questo utilizzo è conosciuto grazie a fonti testuali.
Vi sono numerose attestazioni che parlano di cibori rivestiti d’argento
e di troni episcopali o templa ornati nel medesimo modo. Occorre limitarsi a ricordare l’esempio indubbiamente più prestigioso, il templon di
Santa Sofia com’è descritto da Paolo Silenziario. Questo tipo di decorazione è attestato senza soluzione di continuità a partire dai rivestimenti donati da Costantino alla basilica del Laterano fino al ciborio di
san Demetrio, rifatto verso la fine del vi secolo nella sua chiesa di Tessalonica grazie a una serie di donazioni. Quest’ultimo esempio mostra
che per quest’uso si ricercava esplicitamente l’argento, giacché, nella
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narrazione del miracolo di san Demetrio [211, 1.6.60] che ci riporta quest’episodio, il santo raccomanda proprio al futuro donatore di offrire al
vescovo dell’argento e non dell’oro.
iii. dalla fine del vi alla metà del vii secolo.
1. Icone ed eulogie.
Alcuni esempi appena citati ci portano alla fine del vi e all’inizio del
vii secolo. Nell’uso dell’argento nelle chiese c’è un’effettiva continuità
per tutto il corso del periodo affrontato in questa sede. Non succede altrettanto per le immagini in generale e alla fine del vi secolo è stato generalmente associato un cambiamento. Le immagini cristiane divengono allora più numerose e si sviluppa il loro uso privato. Dal momento
che vi sono poche costruzioni o nuove decorazioni che siano messe in
opera, è difficile trarre conclusioni sull’evoluzione del programma decorativo delle chiese, ma le poche tracce suggeriscono in maniera analoga che un posto importante fosse riservato a pannelli isolati, la cui funzione non doveva essere molto differente da quella delle immagini mobili di cui è chiara l’importanza [cfr. cap. viii].
Le testimonianze letterarie ci mostrano lo sviluppo di quelle che
l’Occidente moderno chiama «icone», ossia immagini mobili, perlopiù
dipinte su un pannello di legno, per quanto immagini similari vengano
eseguite anche in metalli preziosi e avorio e su tessuti. Possono essere
l’oggetto di una devozione personale da parte di chi le possiede, il supporto di una meditazione, ma soprattutto permettono il dialogo tra il
fedele e il santo personaggio rappresentato nell’immagine. Alcune icone conservate nel monastero di Santa Caterina del Sinai mostrano le
loro caratteristiche generali [Weitzmann 819]: perlopiù, uno o più personaggi vi sono rappresentati frontalmente. I mezzi stilistici variano,
ma, pur con sfumature che qui non possono essere trattate in dettaglio
e con alcune notevoli eccezioni, la tendenza è verso immagini in cui il
volume sparisce e lo spettatore è fissato da uno sguardo frontale. I mosaici di San Demetrio di Tessalonica, posteriori al restauro del 630 circa, mostrano in maniera chiarissima la conclusione di questa evoluzione stilistica; si può istituire un confronto con un drappo raffigurante la
Vergine conservato al Museo di Cleveland. Benché la questione stilistica vi si ponga in termini differenti, occorre citare i numerosi avori
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del vi secolo in cui Cristo o la Vergine occupano il pannello centrale di
una placca.
Negli stessi anni si sviluppa l’uso di oggetti chiamati «eulogie», «benedizioni». Erano legati ai pellegrinaggi, che divengono sempre più importanti. Le eulogie sono in un certo modo souvenir di pellegrinaggio,
ma non erano semplicemente conservate in quanto tali dai pellegrini. Il
loro detentore si aspettava da esse diversi benefici. Vi sono numerosi
testi che menzionano questi oggetti portati al collo o appesi al letto. Tali oggetti o il materiale di cui sono costituiti sono stati in contatto con
un luogo santo o con un corpo santo o, più semplicemente, provengono
dallo stesso luogo santo. Sono note le ampolle di san Mena o le eulogie
di Simeone Stilita. Le più celebri sono le ampolle che provengono dalla
Terra Santa, in particolare quelle che sono conservate nel tesoro della
cattedrale di Monza e a Bobbio. L’iscrizione principale che vi compare
mostra che venivano dal Santo Sepolcro e che contenevano dell’olio che
era stato messo in contatto, o più verosimilmente che era stato contenuto nelle lampade in prossimità della reliquia della Croce a Gerusalemme. Su ciascuna faccia compare di solito una scena della vita di Cristo;
quelle rappresentate più frequentemente, spesso associate sulla medesima ampolla, sono in maniera assai comprensibile la Crocifissione e le Pie
Donne al Sepolcro, immagine perlopiù utilizzata per mostrare la Resurrezione. Si ritiene frequentemente che i dettagli di tali immagini s’ispirino direttamente alla topografia dei Luoghi Santi, o talora a un’immagine, un mosaico per esempio, che decorava il santuario principale di un
luogo santo. Se ne vuole concludere che si tratti di un’iconografia creata sul posto, un’iconografia «palestinese», il cui ruolo sarebbe essenziale per lo sviluppo delle immagini bizantine.
Tuttavia, questa maniera di mescolare situazioni presenti alla rappresentazione di un avvenimento passato ha un significato che sembra
molto più interessante della semplice possibilità di determinare l’origine dell’iconografia. Le scene rappresentate non sono più legate al tempo: si stabilisce una sorta di confusione tra tempo ed eternità. In modo
più concreto, il pellegrino, quando è presente nei Luoghi Santi o quando vede queste immagini, rivive la scena e si identifica con un testimone. È stato dimostrato che due personaggi, rappresentati ai piedi della
Croce su alcune ampolle, dovevano essere interpretati come rappresentazioni degli stessi pellegrini. Queste immagini vanno accostate ai testi
in cui i pellegrini affermano di rivivere la scena che si è svolta nei luoghi dove essi si trovano. Questo legame stabilito tra differenti epoche,
questo modo di superare il tempo sarà una costante dell’arte bizantina
nei secoli posteriori.
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La protezione arrecata dalle eulogie ai loro detentori dà a questi oggetti un significato apotropaico che è anche quello attribuito a immagini o a iscrizioni che si trovano al di sopra delle porte delle chiese e delle case. Alcune di queste ampolle mostrano in modo ancora più esplicito tale legame con le immagini e gli oggetti apotropaici. Sulla loro faccia
principale sono rappresentate sette (in un caso nove) scene della vita di
Cristo, sei delle quali sono disposte in cerchio intorno a una scena centrale. La stessa serie di scene si ritrova sul corpo di qualche anello e su
alcuni braccialetti, dove sono associate a segni specificamente apotropaici. La disposizione circolare rafforza tale carattere, tanto più che le
scene formano un circolo chiuso anche per il loro contenuto, poiché rappresentano in questa forma cursoria un ciclo completo della vita del Cristo, dall’Annunciazione all’Ascensione. Non è difficile accorgersi che
questi cicli, per la scelta delle scene che li compongono, preannunciano
i cicli della vita del Cristo così come sono destinati a svilupparsi nelle
chiese bizantine dopo l’iconoclasmo. La stessa serie si trova anche all’interno del coperchio di un reliquiario conservato nei Musei Vaticani,
ma è differente dai cicli attestati nelle chiese paleocristiane, compreso
quello descritto da Coricio di Gaza: questo dimostra che la spiegazione
della differenza non va cercata nella geografia. Allo stesso modo, questa serie differisce dai cicli della vita di Cristo rappresentati sugli avori
del v e vi secolo, dove i miracoli sono ancora largamente presenti.
2. Una nuova sensibilità cristiana.
I due fenomeni appena descritti non vanno contrapposti. Icone e culto delle immagini si sviluppano a fianco di oggetti il cui significato apotropaico è evidente. Certo, si possono introdurre sottili distinzioni tra
atteggiamenti «religiosi», caratterizzati dalla preghiera davanti alle immagini, e atteggiamenti «magici», caratterizzati dalla credenza nel potere magico di altre immagini. Tale distinzione, che riprende quella, accolta con grande favore dalla storiografia recente, tra «credenze popolari» e «religione delle élites», non corrisponde a quanto ci mostrano le
fonti. Il ruolo svolto da un’icona della Vergine nella difesa di Costantinopoli, per esempio, è solo un caso tra tanti che mostrano il carattere
ufficiale del culto delle immagini. Si è anche voluta vedere nello sviluppo del culto delle immagini la conseguenza delle crisi che cominciavano
a travagliare l’Impero bizantino a partire dalla fine del vi secolo: l’angoscia delle popolazioni minacciate avrebbe permesso uno sviluppo degli atteggiamenti irrazionali.
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Sono peraltro possibili altre spiegazioni. Questo periodo è anche quello in cui il cristianesimo si è definitivamente e completamente impadronito dell’immaginario e dei simboli. Nell’ambito imperiale, tale evoluzione è simboleggiata dal mutamento della titolatura di Eraclio, che vi
introduce l’espressione «pistos en Christo» (fedele in Cristo), nonché da
immagini come quelle che compaiono su una serie di piatti d’argento, in
cui alcune rappresentazioni di scene della vita di David, eseguite con arte raffinata, alludono all’imperatore. Lo sviluppo delle immagini cristiane e i nuovi aspetti del loro uso sono la conseguenza di un duplice movimento: l’allontanamento dall’Antichità permette una cristianizzazione delle pratiche apotropaiche, che ritrovano una legittimità di cui erano prive quando apparivano troppo legate alle antiche credenze. Dal
canto loro, le autorità religiose tenterebbero con successo variabile di
controllare queste pratiche e le immagini su cui si basano. Il culto dei
santi, che appaiono come intercessori, è connesso a tale sviluppo delle
immagini, proprio come nel caso del culto della Theotokos, il cui sviluppo, a partire dalla fine del vi secolo, è ben conosciuto [Cameron 616;
Vassilaki 812]. È a questo livello che l’indebolimento del potere centrale, indipendentemente da quali ne fossero le cause, ha potuto avere un
ruolo e permettere lo sviluppo di forme religiose non controllate. Questo stesso contesto permette di spiegare la contemporanea apparizione
e soprattutto il successo delle immagini achiropite, non fatte da mano
d’uomo19. C’è sempre stato bisogno di un appoggio istituzionale perché
divenissero oggetto di venerazione, spesso di lunga durata, su un territorio che superava l’ambito locale. Occorre innanzitutto citare la cosiddetta immagine di Camuliana, dal nome del villaggio dell’Asia Minore
dove una donna l’avrebbe trovata dentro un pozzo asciutto, circostanza indicatrice del suo carattere miracoloso. Tale immagine, la prima a
essere portata in processione attraverso l’Impero, sarà utilizzata per proteggere l’esercito nel corso delle campagne.
L’immagine di Edessa compare analogamente verso la fine del vi secolo, in occasione degli scontri tra Bizantini e Persiani per il possesso
della città. Si riteneva che fosse l’immagine inviata da Cristo ad Abgar,
re di Edessa, che desiderava incontrarlo. Il Cristo l’avrebbe creata ponendosi un panno sul volto. L’immagine di Edessa, a differenza di quella di Camuliana, che finisce per cadere nell’oblio, è destinata a una fama ancora più grande a partire dal x secolo, quando, durante il regno di
Costantino Porfirogenito, il mandylion, come sarebbe stato chiamato, è
ritrovato in Edessa riconquistata e trasportato a Costantinopoli. La
preoccupazione di avere immagini autentiche, che legittimano le immagini nel loro complesso, è presente in queste storie, così com’è presente
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nelle storie che nella medesima epoca fanno risalire un’immagine della
Vergine a san Luca, che l’avrebbe ritratta20.
Il culto delle immagini, i miracoli che procurano, i santi personaggi
cui ci si rivolge attraverso di esse, piuttosto che il segno di una sorta di
regressione intellettuale sono la manifestazione di un cristianesimo che
ha assimilato comportamenti umani che inizialmente gli erano estranei.
I cambiamenti nel cristianesimo alla fine del vi secolo segnano la fine di
un periodo; lo sviluppo delle immagini cristiane è un’indicazione certa
del fatto che il cristianesimo non era più imbarazzato dalle modalità di
rappresentazione, se non di pensiero, legate a un passato che del resto
gli aveva fornito i suoi primi modelli.
1
a. riegl, Spätrömische Kunstindustrie, Wien 1901 (seconda ed. 1927).
av. cameron, Images of Authority: Elites and Icons in Late Sixth-Century Byzantium, in m.
mullet e m. scott (a cura di), Byzantium and the Classical Tradition, Birmingham 1981, pp.
205-34.
3
l. robert, Hellenica, IV. Épigrammes du Bas-Empire, Paris 1948.
4
p. zanker, Augusto e il potere delle immagini, trad. it. Torino 1989.
5
g. dontas, Collection Canellopoulos (IX): portrait de Galère, BCH, 99 (1975), pp. 521-33.
6
u. peschlow, Eine wiedergewonnene byzantinische Ehrensäule in Istanbul, in o. feld e u. peschlow (a cura di), Studien zur spätantiken und byzantinischen Kunst. F. W. Deichmann gewidmet, Bonn 1986, III, pp. 75-79.
7
a. grabar, Les monuments de Tsaritchin Grad et Justiniana Prima, CArch, 3 (1948), pp. 49-63;
frammento inedito trovato negli scavi della città bassa nel 1990; MEFRM, 103, I (1991), p.
446 e fig. 10.
8
k. weitzmann, Illustration in Roll and Codex. A Study of the Origin and Method of Text Illustration, Princeton 1947 (nuova ed. 1970).
9
a. cutler, Uses of Luxury. On the Function of Consumption and Symbolic Capital in Byzantine
Culture, in a. guillou e j. durand (a cura di), Byzance et les images, Paris 1994, p. 298.
10
v. corbo, Il Santo Sepolcro di Gerusalemme, Gerusalemme 1982.
11
k. e. macvey, Domed Church as a Microcosm. Literary Routes of an Architectural Symbol, DOP,
37 (1983), pp. 91-121.
12
Cfr. Spieser 809.
13
w. e. kleinbauer, The Iconography and the Date of the Mosaics of the Rotunda of Hagios Georgios, Thessaloniki, «Viator», 3 (1972).
14
j.-m. spieser, Décor de portes et hiérarchisation de l’espace dans les églises paléochrétiennes, «Klio»,
1995, pp. 433-45.
15
Ma adesso si veda i. andreescu-treadgold, The Mosaic Workshop at San Vitale, in a. m. iannucci e altri (a cura di), Mosaici a San Vitale e altri restauri, Ravenna 1992, pp. 1-8.
16
p. e m.-t. canivet, Huarte sanctuaire chrétien d’Apamène, ive-vie s., Paris 1987.
17
m. mundell mango, The uses of liturgical silver, 4th-7th centuries, in r. morris (a cura di), Church and People in Byzantium, Birmingham 1990, pp. 245-61.
18
m. mundell mango, The monetary value of silver revetments and objects belonging to churches,
AD 300-700, in Boyd 753, pp. 123-36.
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Tra le ultime ricerche sulle achiropite di Cristo occorre menzionare g. morello e g. wolf
(a cura di), Il Volto di Cristo, Milano 2000; h. l. kessler e g. wolf, The Holy Face and the
Paradox of Representation, Bologna 1998.
20
m. bacci, Il pennello dell’Evangelista. Storia delle immagini sacre attribuite a san Luca, Pisa 1998.
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parte quarta
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bernard bavant
xi. L’Illirico
i. l’illirico nel contesto delle strutture amministrative.
Con il nome di Illirico o Illiria (Illyricum, Illyria) intendiamo le due
diocesi di Dacia e di Macedonia, congiunte a costituire una prefettura
del pretorio dell’Impero d’Oriente. Tale vasto comprensorio, esteso dal
Danubio al Peloponneso, non è delimitato da confini naturali se non a
sud-est (sistema del Rodope) e a ovest (Alpi dinariche), mentre si apre
largamente a nord-est sulla pianura danubiana e a nord-ovest sulla Pannonia. Fra la Dalmazia – tradizionalmente gravitante sull’Italia – e la
Tracia – naturale espansione del retroterra costantinopolitano –, l’identità del territorio non è nettamente definita, sicché il suo stesso statuto
storico riuscì a chiarirsi soltanto con difficoltà.
Sotto la Tetrarchia, i Balcani nel loro complesso – l’Illirico nell’accezione geografica del termine – vengono concepiti come un ampio ponte
gettato tra l’Oriente e l’Occidente. Presto se ne separerà la diocesi di
Tracia1, lasciando all’Oriente il controllo degli Stretti e del Mar Nero,
mentre il resto della penisola continuerà a essere amministrata dall’Italia. Con lo sviluppo di Costantinopoli e l’allontanamento progressivo dell’Oriente dall’Occidente, l’Illirico verrà piuttosto sentito come il punto
di articolazione delle due partes Imperii, se non addirittura come la posta
messa in gioco dal rapporto di rivalità istituitosi tra le stesse. Il susseguirsi delle invasioni altererà successivamente la dislocazione di tale snodo
geopolitico per fissarlo durevolmente lungo il corso della Drina, cedendo la Dacia e la Macedonia all’Oriente. Ma la geografia amministrativa
continuerà in proposito a esitare ancora a lungo, come si vedrà.
1. L’Illirico nel contesto dell’Impero: incertezze dell’assetto amministrativo.
Nel iv secolo si designa con il nome di Illirico l’insieme delle tre diocesi civili di Macedonia, Dacia e Pannonia, che sin dal 337 circa face-
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vano parte integrante della prefettura congiunta d’Illirico, Italia e Africa: un’area amministrativa comprendente un terzo dell’Impero, quello
dei territori centrali inclusi tra la prefettura delle Gallie (dalla Britannia alla Spagna) e la prefettura d’Oriente (dalla Tracia all’Egitto). La
nascita dell’Illirico protobizantino appare essere il risultato di una tendenza duplice, mirante a costituire dapprima una prefettura separata
dell’Illirico e poi a suddividerla ulteriormente, unendo da un canto la
Pannonia all’Italia e annettendo dall’altro le due diocesi rimanenti alla
pars Orientis [Lemerle 841].
In due occasioni, nella seconda metà del iv secolo, le tre diocesi saranno costituite in circoscrizione prefettizia particolare: la prima volta
fra il 357 e il 361, e successivamente quando Graziano dovrà governare l’Occidente intero in qualità di tutore del giovane Valentiniano II,
dal 375 al 379. In entrambi i casi, tale «prefettura a intermittenza» ha
per capitale Sirmio.
Con l’avvento di Teodosio, nel 379, le esigenze dettate dalle condizioni di ostilità con i Goti inducono a una prima e provvisoria ripartizione del territorio allorché Graziano, soppressa la prefettura illiriciana, congiunge la Pannonia all’Italia, mentre Teodosio amministra direttamente
Dacia e Macedonia dalla sua sede di Tessalonica. A partire dal 380, tuttavia, queste ultime diocesi sono restituite all’Occidente. L’Illirico così
riunificato viene presto annesso a una prefettura italica posta sotto governo collegiale; tale rimane la situazione fino al 383, quando Graziano
viene assassinato. Già al momento in cui l’usurpatore Massimo invade
l’Italia (387) Teodosio si trasferisce a Tessalonica e fa delle diocesi di Dacia e di Macedonia una prefettura geminata con quella d’Oriente. Pure,
dopo il suo trionfo sull’usurpatore a Petovio (388), egli ristabilisce l’antica prefettura centrale, di cui dapprima si assume il governo per restituirlo successivamente (391) a Valentiniano II, il quale ne rimarrà, almeno nominalmente, l’unico sovrano fino alla morte (392). Quando a Milano Eugenio usurpa a sua volta la porpora, tutto l’Illirico ricade sotto il
suo governo, benché Teodosio, preparando la propria risposta militare,
abbia potuto forse riprendere in mano l’amministrazione delle due diocesi orientali senza avere il tempo di mutare questo stato di cose all’indomani della sua vittoria nel settembre del 394 [cfr. cap. i].
La definitiva annessione di Dacia e Macedonia alla pars Orientis, sicuramente di poco posteriore alla morte di Teodosio, si verifica perciò
in condizioni di notevole incertezza, da sempre oggetto di forti controversie fra gli storici.
Al momento della sua ascesa al trono (gennaio 395) Arcadio può vantare legittimamente diritti sulla sola prefettura d’Oriente, affidata a Ru-
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L’Illirico
Sirmio
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Carta 5. L’Illirico orientale.
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fino, mentre il governo del resto dell’Impero è stato delegato da Teodosio a Stilicone; ma il governo di Costantinopoli avrebbe forse potuto allora detenere de facto anche il possesso dell’Illirico orientale. Comunque fosse, l’inimicizia tra Rufino e Stilicone gioca a questo punto un
ruolo decisivo. Alla morte di Teodosio, Rufino rivendica per Arcadio la
sovranità sulle diocesi di Dacia e di Macedonia. Dinanzi alle proteste
sollevate da Stilicone, il prefetto d’Oriente negozia con Alarico, che con
i suoi Goti insorti minaccia Costantinopoli, incitandolo a dirigersi verso la diocesi di Macedonia. Appena appresa la notizia, Stilicone – all’epoca comandante in capo degli eserciti di entrambe le partes2 – muove a
fronteggiare Alarico in Tessaglia, ma alla vigilia della battaglia decisiva
riceve da Arcadio l’ordine di far rientrare le truppe d’Oriente a Costantinopoli e di evacuare l’Illirico orientale. Il potente magister militum obbedisce, riconoscendo così la sovranità di Arcadio sulle due diocesi, subito poste sotto l’autorità di un prefetto del pretorio per l’Illirico residente a Tessalonica3.
Senza dubbio, Stilicone non avrebbe ceduto tanto facilmente se non
avesse vagheggiato, una volta liberatosi di Rufino, di ottenere una decisiva influenza sul governo dell’Oriente. In effetti, la principale urgenza delle truppe orientali inviate a Costantinopoli al comando di Gaina
fu quella di uccidere Rufino. Ma Eutropio, succeduto a quest’ultimo, si
oppone con eguale fermezza a ogni ingerenza negli affari d’Oriente e alla sua caduta (399) sarà il partito antigermanico a prendere il potere a
Costantinopoli. Stilicone tenta perciò di riacquistare con la forza le due
diocesi, e lo fa in due occasioni: dapprima nel 397, intervenendo in Grecia contro Alarico, e nuovamente (ma questa volta, al contrario, cercando di servirsene) nel 406.
I due tentativi falliscono e si resta così allo status quo del 395 registrato dalla Notitia Dignitatum, che distingue tra una diocesi dell’Illirico (nuovo nome attribuito alla diocesi di Pannonia), annessa alla prefettura d’Italia, e una prefettura al pretorio dell’Illirico, parte integrante
dell’Impero d’Oriente.
Se la spartizione dell’Illirico effettuata in almeno due circostanze sotto Teodosio non era stata in entrambi i casi che un episodio di breve durata, ciò fu certamente dovuto a una precisa volontà dell’imperatore:
una duratura divisione sarebbe servita in effetti soltanto a dissociare la
difesa di Costantinopoli da quella d’Italia, intaccando l’unità dell’Impero che Teodosio aveva avuto a cuore di preservare. Tale divisione s’impone pertanto a partire dal momento in cui la diocesi di Pannonia viene in gran parte occupata dai barbari. I Goti, insediati sin dal 380 in
Pannonia II e in Savia da Graziano in qualità di federati, sono rapida-
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mente raggiunti dagli Unni, i quali ben presto invadono la diocesi occupandone l’intera regione di nord-est. Queste regioni vengono certamente riconquistate da Felice, che ristabilisce il limes nel 427, ma poco dopo Ezio, rifugiatosi presso gli Unni dopo essere caduto in disgrazia presso la Corte imperiale (432), cede loro vasti territori compresi entro i
confini della Pannonia II – fatta eccezione per la regione di Sirmio – e
della Valeria. La perdita progressiva della Pannonia aveva fatto delle
diocesi di Dacia e di Macedonia la linea di difesa avanzata di Costantinopoli; dal canto suo, la Corte di Ravenna, che anche dopo la morte di
Stilicone (408) non aveva cessato di rivendicare di tanto in tanto i suoi
diritti sull’Illirico orientale, finisce senza dubbio per rinunciarvi definitivamente nel 437, in occasione delle nozze tra Valentiniano III ed Eudossia, figlia di Teodosio II [cfr. anche infra, pp. 330-31, a proposito di
Sirmio].
2.
Strutture amministrative dalla fine del iv al principio del vii secolo.
2.1. I l q u a d r o p r o v i n c i a l e .
A grandi linee ben noto, esso data sostanzialmente all’età di Diocleziano, pur avendo subìto qualche lieve modifica sotto Costantino. È possibile classificare le province documentate in età costantiniana in tre
gruppi:
– a sud, tre province non sfiorate dalle riforme dioclezianee: l’isola
di Creta (con capitale Gortina); l’Acaia o Ellade (Corinto), vecchia
provincia senatoria, la sola ancora governata in epoca protobizantina da un proconsole; e l’Epiro (Nicopoli), detto ormai «antico»;
– al centro, tre province nate dallo smembramento dell’antica provincia senatoria di Macedonia, voluto da Diocleziano: la Macedonia (Tessalonica), la Tessaglia (Larissa) a sud e, affacciato sull’Adriatico, l’Epiro nuovo (Durazzo);
– a nord, cinque province derivate principalmente dal frazionamento dell’antica Mesia superiore: la Dacia, divisa sotto Costantino
nelle tre province di Dacia ripuaria (capitale Ratiaria), Dacia mediterranea (Serdica) e Dardania (Scupi); per finire con l’ovest, ripartito anch’esso in due province, Prevalitana (Doclea) e Mesia I
(Viminacium).
La regione nel suo complesso costituiva sotto Diocleziano un’unica
diocesi civile, quella delle Mesie, suddivisa in epoca costantiniana (pri-
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ma del 327) in una diocesi di Macedonia (comprensiva delle sei province più meridionali) e in una diocesi di Dacia (che aggregava le cinque
province del nord). I confini delle due diocesi corrispondevano dunque
a quelli delle antiche province di Macedonia e Mesia superiore. Tale
quadro amministrativo subisce, tra la metà del iv e la fine del vi secolo,
tre importanti mutamenti.
Il primo riguarda la Macedonia, ripartita dalla seconda metà del iv
secolo (verso il 386, secondo Mommsen) in due province: in effetti, la
Notitia conosce, oltre la Macedonia propriamente detta, una Macedonia
Salutaris posta curiosamente a cavaliere sul confine tra due diocesi4. Al
contrario, Ierocle [107] distingue tra Macedonia I e Macedonia II, estesa da est a ovest (dalla valle della Bregalnica al medio corso della Crna)
fra la Macedonia I e la Dardania. Le due suddivisioni paiono difficilmente sovrapponibili. Si è formulata in proposito l’ipotesi5 che la Macedonia fosse stata riunificata al principio del v secolo per poi essere
nuovamente divisa prima della fine del secolo; rimane tuttavia plausibile una semplice rettifica dei confini provinciali. Incerto è anche il destino della Macedonia II: Procopio non ne fa menzione e il fatto che sia
citata fra le province sottomesse all’autorità residente in Iustiniana Prima nel 535 (Nov., 11) ma non nel 545 (Nov., 131) ha potuto far pensare che fosse stata soppressa tra queste due date [ma cfr. infra, p. 334].
Il secondo cambiamento consiste nell’annessione alla diocesi dacica
della punta orientale della Pannonia II, comprendente le città di Sirmio
e di Bassiana. All’inizio del v secolo la regione fa ancora parte dell’Illirico occidentale, ma, ormai completamente separata dall’Italia in conseguenza dell’avanzata degli Unni, viene ceduta a Teodosio II nel 437
dalla reggente Galla Placidia e diviene, pur continuando a serbare il nome di Pannonia, la tredicesima provincia dell’Illirico orientale. A tale
stato di cose fa riferimento il Synekdemos di Ierocle. L’Oriente acquisisce così, assieme alla piazzaforte di Sirmio, una posizione chiave per la
difesa dei Balcani, e tuttavia la manterrà per poco tempo. Gli Unni se
ne impadroniranno infatti nel 441, conservandone il possesso fino alla
caduta del loro impero (453); la città passa allora sotto i Goti (455), per
divenire in ultimo la capitale dei Gepidi (474). Teodorico la recupera
nel 504 e Anastasio riconosce l’annessione ai domini italici con il trattato del 510, che lascia ai Bizantini attestati sulla sponda sinistra della
Sava soltanto la regione di Bassiana. Al principio della guerra gotica
(535) Giustiniano arriva a riconquistare Sirmio con l’aiuto dei Gepidi,
che però l’anno successivo se ne impadroniscono. Finalmente, nel 567,
Giustino II approfitterà della rivalità sorta tra Longobardi e Gepidi per
ottenere da questi ultimi la restituzione di Sirmio, che resterà bizanti-
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na fino a che gli Avari non la espugneranno nel 582. Nell’arco di un secolo e mezzo Sirmio è stata perciò controllata direttamente per non più
di vent’anni in tutto dall’Impero d’Oriente. Ma, anche nei periodi in
cui non ne ebbe il pieno possesso, Bisanzio si sforzò a lungo di conservare almeno un lembo della Pannonia (quella «pars secundae Pannoniae
quae in Bacensi est civitate» di cui fa menzione la novella 11) che le consentisse di tenere la città sotto stretta sorveglianza.
Il terzo cambiamento, più tardivo e non ben documentato, dovrebbe essere rappresentato dalla riunificazione della Dalmazia all’Illirico,
avvenuta presumibilmente verso la fine del vi secolo. È questa l’unica
provincia della diocesi dell’Illirico occidentale che abbia conservato durante la seconda metà del v secolo un’amministrazione romana, ma praticamente indipendente dal governo d’Italia. Dal 455 al 480 la Dalmazia è retta dapprima dal comes Marcellino, quindi da suo nipote, il magister militum Giulio Nepote, penultimo imperatore d’Occidente (474475). Alla morte di Giulio Nepote (480) essa viene riacquisita da Odoacre, pur essendo comunque lasciata al di fuori dell’amministrazione prefettizia, come era avvenuto ancora sotto Teodorico. Dopo la riconquista giustinianea (verso il 538) il territorio verrà posto sotto l’autorità di
un proconsole, dipendente direttamente dagli organi di governo palatini. A quel tempo, la provincia non ha perciò niente a che vedere né con
la prefettura d’Italia né con quella illiriciana, benché nel 592 sembri dipendere da quest’ultima [Stein 151, pp. 801-2]. Questo mutamento amministrativo, forse coevo alla creazione dell’esarcato d’Italia (prima dell’ottobre 584), pare particolarmente motivato dal calo di redditività patito dai domini imperiali, già messi a dura prova dalle invasioni. Fatto
che avrà scarse conseguenze, in ogni caso, dal momento che la maggior
parte delle città costiere rimaste sotto il controllo dell’Impero cadono
nel corso dei primi anni di regno di Eraclio.
Il tratto decisamente più degno di nota è offerto dalla stabilità di
questa organizzazione provinciale serbata fino all’epoca della creazione
dei primi temi intorno all’ultimo scorcio del vii secolo, come testimoniano i Miracula Demetrii (2.1.179 o 2.5.284), che passano in rassegna
da un lato le province della Grecia propriamente detta (eccettuata la Macedonia) e dall’altro quelle delle «regioni del Danubio», vale a dire della diocesi dacica.
Al contrario, la capitale della prefettura non appare con eguale chiarezza. Secondo la novella 11 di Giustiniano, essa sarebbe stata trasferita da Sirmio a Tessalonica al tempo di Attila; tuttavia nel 535 l’imperatore ritiene la frontiera danubiana abbastanza resistente da permettergli di dislocare la sede prefettizia più a nord, installandola a Iustiniana
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Prima, la nuova città da lui fondata nei pressi del suo luogo di nascita,
in Dacia mediterranea. Da ciò potrebbe sembrar lecito arguire che la
prefettura dell’Illirico, installata a Tessalonica nel 395, venga traslata a
Sirmio dal 437 al 441. Ma nel 437 la situazione in Pannonia continua a
essere da parecchi anni così pericolosa da togliere ogni verosimiglianza
al fatto che il governo di Teodosio II possa aver commesso una tale follia. Quanto al trasferimento del 535 – da Tessalonica a Iustiniana Prima –, pare sia rimasto lettera morta, dal momento che il prefetto continua a essere insediato a Tessalonica tanto nel 536 (Cassiodoro, Variae,
10.35) quanto indubbiamente nel 541 (Nov., 153), e che nel 545 la novella 131 contempla le conseguenze della creazione di una nuova «metropoli» soltanto sotto il profilo dell’organizzazione ecclesiastica [cfr.
infra]. La sede della prefettura dovette dunque rimanere a Tessalonica
dalla fine del iv alla fine del vii secolo. Tuttavia, poiché Tessalonica finisce per essere «il solo centro dell’Illirico in cui continuasse a essere
esercitata una regolare amministrazione bizantina» [Lemerle 211, p.
176], ben si comprende come il prefetto dell’Illirico sia diventato de facto un semplice prefetto (o eparco) della città di Tessalonica.
2.2. G e o g r a f i a e c c l e s i a s t i c a 6.
Nell’Illirico, l’istituzione metropolitana impiega più tempo ad affermarsi di quanto non fosse successo in Oriente. Nel iv secolo, unicamente Tessalonica e Serdica paiono aver goduto di uno status superiore a
quello delle altre Chiese, nella misura in cui i loro vescovi ricoprivano
(in Macedonia e in Dacia, rispettivamente) un ruolo analogo a quello di
un metropolita, ma esteso a un’intera diocesi civile. L’organizzazione
metropolitana provinciale si affermerà – quantunque in condizioni non
sufficientemente chiare – soltanto all’inizio del v secolo, forse per una
mera estensione, dopo il 395, del sistema di governo ecclesiastico già attestato in Oriente.
Pertanto, dal momento che il secondo concilio ecumenico (Costantinopoli, 381) aveva enunciato la regola – mai ammessa in Occidente –
in base alla quale veniva interdetta al vescovo ogni ingerenza negli affari di una diocesi civile diversa da quella in cui egli aveva la sua cattedra ed esercitava il suo ministero, l’autorità dei presuli di Tessalonica e
di Serdica avrebbe potuto mutarsi a tutti gli effetti in una vera e propria autorità primaziale, in conformità al principio di accomodamento.
Ma il prestigio di queste ultime due sedi episcopali non poteva controbilanciare né la crescente importanza assunta via via da Costantinopoli
né le contemporanee rivendicazioni avanzate dai romani pontefici, mi-
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ranti anch’essi a trasformare il proprio primato onorifico in primato giurisdizionale.
Ora, per un apparente paradosso, l’Illirico orientale era stato appena annesso all’Impero d’Oriente quando vi si stabilì il primato della
Chiesa romana. Se papa Siricio (384-99) non riuscì mai veramente a far
progredire i rapporti, già sommariamente impostati durante il pontificato del suo predecessore Damaso (366-84), con un episcopato illirico
che guardava allora a Milano piuttosto che a Roma, il suo successore Innocenzo conferisce nel 412 a Rufo di Tessalonica il vicariato della sua
«autorità» per l’Illirico – attribuendogli la facoltà di giudicare in sede
ecclesiastica e canonica in merito alle cause trasmessegli dai metropoliti (fra queste scegliendo secondo la sua discrezione quelle meritevoli di
essere rinviate al tribunale romano), di sovrintendere alle elezioni e consacrazioni episcopali e di convocare i sinodi locali, allo scopo di contrastare gli sforzi compiuti da Attico di Costantinopoli per estendere la sfera d’influenza del suo seggio a ovest della diocesi di Tracia.
Il vicariato romano per Illyricum diventa permanente sotto Bonifacio, fra il 419 e il 422. Certo, Teodosio II replicherà con una legge del
421 subordinando i vescovi dell’Illirico alla cattedra costantinopolitana
(CTh, 16.2.45), ma per evitare il deteriorarsi delle relazioni con la Corte di Ravenna tali disposizioni verranno revocate l’anno successivo. Nel
momento in cui il quadro giuridico della vita ecclesiastica veniva sempre più strettamente regolato da Costantinopoli, il remoto primato romano – di cui il vicariato rappresentava lo strumento – dovette apparire a buona parte dell’episcopato illirico il miglior modo di mantenere
una relativa indipendenza. D’altra parte, il vicariato servì efficacemente agli interessi di Roma, in particolare durante la crisi nestoriana e all’epoca della preparazione del concilio di Efeso (431). Pure, l’importanza progressivamente assunta dalle sedi vescovili delle capitali provinciali, sostenute da Costantinopoli, scuote ben presto l’istituzione vicariale.
Nel 446, papa Leone Magno precisa che il vicario deve consacrare lui
stesso i vescovi metropolitani e limitarsi a essere consultato per la consacrazione dei semplici suffraganei: il pontefice romano ammorbidisce
dunque il sistema, salvaguardando i diritti dei metropolitani. Tanto nel
secondo concilio di Efeso (449) quanto in quello di Calcedonia (451), i
presuli illirici non offrirono alcun particolare sostegno alle posizioni romane. In maggioranza agirono – come il resto dell’episcopato orientale
– aggregandosi in gruppi provinciali, seguendo Dioscoro nel 449 e mutando alleanze due anni più tardi. Gli stessi si astennero inoltre dal pronunciarsi in occasione del voto concernente il «ventottesimo canone»
di Calcedonia (che affermava la legittimità dei diritti patriarcali vanta-
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ti dal vescovo costantinopolitano sulle diocesi di Tracia, Asia e Ponto),
preoccupati della crescente potenza di Costantinopoli e, al tempo stesso, parzialmente rassicurati dalla momentanea focalizzazione dei suoi
interessi sull’Asia Minore. Il vicariato appare dunque ormai privo di scopo e i papi – pur senza sopprimerlo formalmente – lo lasciano cadere in
desuetudine, inaugurando così un lungo periodo di distensione (durato
più di trent’anni) nei rapporti fra l’Illirico e Roma. Il vescovo di Tessalonica si sforzerà però di mantenere a questo punto la propria autorità
locale: proposito che tuttavia non può essere realizzato senza l’appoggio dell’amministrazione imperiale ed entrerà così in conflitto con una
fazione dell’episcopato illirico allorché la politica imperiale, sotto Zenone e Anastasio, si mostrerà favorevole al monofisismo. Fornendo il loro sostegno alla reazione calcedonese, i papi Gelasio (492-96) e Ormisda (514-23) riallacciano alcuni contatti con le Chiese illiriche: a tale scopo fanno affidamento sui metropoliti e sugli ambienti monastici di
Dardania, della Dacia mediterranea e dell’Epiro antico. Ristabilita nel
519 l’unità della Chiesa, Doroteo di Tessalonica e il suo successore Aristide si mostrano molto restii a rientrare in comunione con Roma, rivendicando una preminenza della sede vescovile fondata sullo statuto
di capitale spettante alla loro città.
Un’ultima modifica all’assetto della geografia ecclesiastica illiriciana
viene apportata da Giustiniano, il quale provvede a limitare i diritti di
Tessalonica alle province meridionali dell’Illirico, facendo di Iustiniana
Prima un’arcidiocesi avente giurisdizione su tutte le diocesi daciche, alle quali aggiunge la provincia di Macedonia II (Nov., 11, del 535). All’interno di tale amplissimo distretto l’arcivescovo, eletto dal sinodo dei
metropoliti, costituisce la suprema autorità cui far ricorso in caso di conflitti tra giurisdizioni locali e ha facoltà di controllo sulle elezioni episcopali. Il fatto che non fosse tenuto gerarchicamente a riconoscere alcuna
autorità superiore può facilmente far comprendere le reticenze manifestate in proposito da papa Agapito. Ma nella novella 131 (pubblicata nel
545), pur confermando le prerogative di cui si è detto, vengono apportate due modifiche all’assetto precedentemente stabilito: da una parte, la
Macedonia II non figura più nel novero delle province poste sotto la giurisdizione dell’arcivescovo; dall’altra, si precisa che l’autorità di quest’ultimo «tiene il luogo della sede apostolica romana»; improvvisamente, il
vescovo di Tessalonica riassume perciò il titolo di vicario, di cui si fregerà ancora nel vii secolo. Viene stabilito un accordo con papa Vigilio, il
quale, in cambio di un molto formale riconoscimento del primato di Roma, accetta di rendersi garante del sistema imperiale.
Il nuovo assetto giustinianeo, che prevedeva a capo della Chiesa il-
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liriciana due vicari pontifici, quello di Tessalonica per la diocesi di Macedonia e quello di Iustiniana Prima per la diocesi di Dacia, rimarrà sostanzialmente invariato fino a quando l’avanzata degli invasori avaroslavi non lo farà decadere. L’epistolario di papa Gregorio Magno, redatto a cavaliere tra il vi e il vii secolo, ci consente di gettare un ultimo
sguardo su modalità e limiti dell’intervento di Roma negli affari locali.
Se il papa dimostra ancora un certo interesse per le province illiriciane,
in particolare per ciò che concerne le questioni giurisdizionali e disciplinari, egli si rivolge direttamente sempre e soltanto ai metropoliti, senza mai servirsi della mediazione dei vicariati. Tuttavia non indirizza i
suoi brevi che ai presuli di città situate a poca distanza dalle coste marine: soprattutto al vescovo di Salona, ma anche a quelli di Scodra, Durazzo, Nicopoli, Corinto, Larissa, Tessalonica. Al contrario, sembrano
definitivamente interrotte le relazioni con le province continentali, fatta eccezione (peraltro rilevante) per la Dacia mediterranea, con le sedi
episcopali delle città di Iustiniana Prima e di Serdica, presso le quali
l’amministrazione bizantina si mantiene attiva fino al 614-15 circa. La
documentazione testimonia dunque in modo eloquente della vitalità delle province ecclesiastiche dell’Illirico, benché inserite entro un quadro
geografico-amministrativo generale ormai ridisegnato sotto l’urto delle
invasioni. Nel concilio ecumenico del 680-81 quattro vescovi di diocesi illiriciane (i presuli di Tessalonica, Corinto, Gortina e Atene) furono
considerati alla stregua di legati del pontefice romano [Duchesne 401,
p. 549]. Ancora durante il concilio in Trullo del 692 il metropolita di
Gortina si dichiarava «rappresentante dell’intero sinodo della santa
Chiesa di Roma». La regione ecclesiastica illiriciana rientrerà decisamente nell’orbita del patriarcato di Costantinopoli soltanto sotto il regno di Leone III l’Isaurico (732/733).
ii.
costanti della vita regionale fino alle invasioni slave.
1.
L’ambiente e le vie di comunicazione.
1.1. F r a z i o n a m e n t o d e l l o s p a z i o e b a r r i e r e n a t u r a l i .
La complessa articolazione di importanti sistemi orografici – con la
catena delle Alpi dinariche prolungata a sud in quella del Pindo e fortemente inclinata verso ovest – ha sempre reso difficoltose le comunica-
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zioni terrestri tra le sponde dell’Adriatico e l’entroterra, inconveniente
cui pone solo parzialmente rimedio la navigazione marittima e fluviale.
Le province di Prevalitana, di Epiro nuovo e di Epiro antico volgono quindi le spalle alla penisola balcanica, orientandosi invece verso l’Italia. Tenuto conto dell’area del rilievo carsico, le zone adatte all’attività agricola si riducono ad alcune pianure costiere, in particolare quella a nord del golfo di Ambracia, con Nicopoli, e quella di Apollonia sul
lago di Scutari, con Durazzo, Lisso e Scodra.
Le province orientali e meridionali risultano invece più aperte a est
e a sud, ma vi prevalgono zone montagnose e aree prealpine, da cui l’assoluta rilevanza assunta dall’economia pastorale sul territorio. Le terre
più agevolmente coltivabili vi rappresentano di conseguenza una percentuale minoritaria e frazionata: si tratta di modeste depressioni localizzate prevalentemente lungo il corso dei fiumi, ovvero di pianure interne o costiere più o meno estese, generalmente organizzate intorno ad
antichi centri urbani. Esse sono, da nord a sud:
– in Mesia I: le colline a sud della Sava (affacciate su Sirmio e Singidunum); la valle della Morava occidentale; lungo il corso della
Morava meridionale, le conche di Margum (Kostolac) e di Horreum Margi (åuprija);
– in Dacia ripuaria: il tavolato di loess a margine delle sponde danubiane (esteso a est in direzione della diocesi di Tracia);
– in Dacia mediterranea: la conca di Naisso e quella di Leskovac (sulla Morava); il bacino di Serdica;
– in Dardania: la pianura del Kosovo (Ulpiana) e il bacino di Scupi
(sul Vardar);
– in Macedonia salutare: la piana di Eraclea Lyncestis e la conca di
Stobi (sul Vardar);
– in Macedonia I: la grande pianura giacente a tergo di Tessalonica
e la bassa valle dello Strimone (Serre);
– in Acaia: la piana di Tessaglia, la valle del Cefiso e l’Attica, le pianure costiere del Peloponneso (Argolide, Laconia, Messenia e, soprattutto, la piana a nord-ovest, da Patrasso a Olimpia).
1.2. C o l l e g a m e n t i t e r r e s t r i , f l u v i a l i e m a r i t t i m i .
Le principali vie di terra sono naturalmente condizionate dall’emergenza dei rilievi.
Tre di esse, lungo le direttrici est-ovest o nordovest-sudest, congiun-
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gevano in età romana l’Italia all’Oriente: a sud, la Via Egnatia (Durazzo, Eraclea, Tessalonica, Anfipoli); a nord, la strada che fiancheggiava
il corso della Sava e del Danubio (Sirmio, Singidunum, Viminacium, Ratiaria, Oescus); fra le due, la grande diagonale balcanica (Viminacium,
Naisso, Serdica).
Altre due strade, sulla direttrice nord-sud, mettono in comunicazione l’Egeo e la valle del Danubio: la prima (Viminacium, Naisso, Scupi,
Stobi, Tessalonica), che era già stata la grande via di penetrazione dell’ellenismo verso nord, lungo le valli della Morava meridionale (Margus)
e del Vardar (Axios); la seconda (Oescus, Serdica, Germania, Anfipoli)
lungo le valli dell’Ispar (Oescus) e della Struma (Strimone).
Le vie di comunicazione nordest-sudovest sono le più difficili a causa della struttura del rilievo: ricordiamo quella che porta da Naisso a Ulpiana e al porto di Lisso e quella che, collegandosi alla grande trasversale all’altezza di Serdica, raggiunge la Via Egnatia a Eraclea attraverso
Pautalia e Stobi. Nella Grecia propriamente detta, il solo grande asse
viario è quello che da Tessalonica conduce a Corinto a
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